cop di a PRETE air sità #ECI dI uf veti. Ta ai nt " uno MEA i. DELLA REALE ACCADEMIA DEL LINCEI CININO REGGCINE 1907 DINI SYILIT © MOI INDALZA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. VOLUME XVI. 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI CAV. V. SALVIUCCI 1907 NIAN INST/ 4 SONI AN TO CÒ 0) Sa SS) FATIONAL NN nati A | i i o HROVIA TIA BrtaraonA (TON DOOR ME ie e. i ca È, i î AME Mu. h STA TT BO ae l' RODTEAIER «alba tion ini 800) ch EATPFTRBROISTOEITi: anvantetiza. “EI ‘a | : ( ‘9 i ta Pe (RZ TOT (DO I rata +e io d': RAMON i LANSA Ab] MESSE SP A LG A LMR Mt: 1: ORI MA SEIT rato ti fila È | | Ù TAI Ù $. Pubblicazione bimensile DEE gl DELLA REALE ACCADEMIA DRI LINORI ANNO QCCcIV. 19077 Sx 4kv Ibi OO NT A RENDICONTI atematiche e naturali. Classe di scienze fisiche, n È Volume XV E.° = Fascicolo 1° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all’Accalemia sino al 7 luglio 1907. TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI. CAVJV. SALVIUCCI Se Col 1892 si è iniziata la Serte quinta delle | una pubblicazione distinta per ciascuna delle due. Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze siche matematiche e naturali si pubblicano re- | .- golarmente due volte al mese; essi contengmo le Note ed i titoli dello Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili &I l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografi:0. | Dodici fascicoli compongono un volune, due volumi formano un'annata. PE 2. Le Note presentate da Soci o Corrispn- | denti non possono oltrepassare le 12 pagne. di stampa. Le Note di estranei presentate la Soci, che ne assumono la responsabilità, 800. portate a 8 pagine. gi 3. L'Accademia dà per queste comunicazimi 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e5 agli estranei: qualora l’autore ne desideri n «numero maggiore, il sovrappiù della spes: 3 posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discis- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Aca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno prso parte, desiderano ne sia fatta menzione, ssi sono tenuti a consegnare al Segretario, sedita! i stante, una Nota per iscritto. ti dello Statuto. cati al ea po miei le Memorie Î priamente dette, sono senz'al ltro inseri Volumi accademici spor: dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, presi cedente, la relazione è letta. nell’ ultimo in seduta segreta. — 4. D: uu Presenti una a Memoria pi autori, fuorchè GIA caso contemplati o dall'ar tori di Memorie, se Soci o ci estranei. Di spesa di un numero di RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, Inatengiiehe e naturali. MEMORIE E N DI SOCI 0 PRESENTATE Comunicazioni pervenute all’Accademia\sino al 7 luglio 1907. ANDNS- Matematica. — Su//o sviluppo dellefunzioni implicite. Nota del Corrispondente T. LeEvI-CIVITA. I metodi classici del calcolo offrono due dstinti sviluppi per una fun- zione y di x, che sia definita, nell'intorno di un valore generico #;, da una equazione implicita del tipo (1) y-£L+ 9g(4)=0 1°. Lo sviluppo (abbreviato, o eventugmente la serie) di Taylor, procedente per potenze di x — xo. 2°. Lo sviluppo (abbreviato, o eventuamente la serie) di Lagrange. Lo stesso vale più generalmente per unafunzione f della radice y(2) definita dalla (I). Nello sviluppo di Taylor, l'ordine dei varibermini (rispetto ad 4 — o, riguardata come quantità di prim'ordine) creee di una unità da ciascun termine al successivo. Lo sviluppo presenta per|l'inconveniente che l’espres- sione dei coefficienti, in funzione di 7, e lorfderivate, è assai complicata. Nello sviluppo di Lagrange si trovano, pr così dire, scambiati pregi e difetti. I vari termini hanno una espression&emplice, ma viceversa nulla si può dire in generale circa l'ordine di granezza rispetto alla differenza LT Lo. Scopo della presente Nota è di assegnarelno sviluppo, che congiunge i due requisiti: aumento progressivo dell’ordin| e perspicuità della legge di formazione dei singoli termini. CR 1. Sia (y) una funzione della variabile (diciamo reale, per fissar le idee) y, la quale, in un certo intorno del valore y, si mantenga finita e continua, assieme alle sue derivate prima, seconda, ecc., fino ad un generico ordine 2(= 1). Supposto che (1) 1+g(y)#0, consideriamo l'equazione (1) y-L+g(y)=0, e chiamiamo o il valore di 7, che essa fa corrispondere ad yo. Nell'intorno della coppa 40,0, la (I) definisce univocamente tanto 4 in funzione di y, quanto ache, per la disuguaglianza (1), la funzione in- versa y di z. Designeremo h prima con 2 = 2(y), la seconda con y= (2). Si noti che la v(y) è espliitamente fornita dalla (I), ed ha l'espressione (2) ey) =y+ (7). Le fatte ipotesi assicuano notoriamente che entrambe de funzioni (2), v(y) risultano finite e contnue assieme alle loro derivate, fino all'ordine x, in due certi intorni H e I di #, e di yo rispettivamente. Ed è anche le- cito ritenere (limitando cavenientemente questi intorni H e K) che, per ogni 4 compreso entro H,y=w(x) cade entro K, e che reciprocamente x= v(y) resta compreso i H, al variare di y entro K. Per essere x e v funzoni inverse, varranno poi le identità 3 y=u)oyI, O_O) coll’ovvia limitazione che gliargomenti y ed 4 appartengano rispettivamente ai campi K ed H, in cui secondi membri hanno effettivo significato. 2. Ciò premesso, prenctamo a considerare una funzione / della radice u(x) della (I), nell'ipotesi :he /(v) sia, rispetto all'argomento «, finita e continua, assieme alle prim: 2 derivate, per «= Yo, e in tutto l'intorno K di questo valore. Se si tien conto che, variare di < in H, u() varia entro K, la /(«) si potrà anche risguardare come funzione di 4, finita e continua, assieme alle sue prime x derivate,nell’intorno H di o. Fissiamo un generico alore #, e poniamo (4) a=v2)=2+ g(2). Ammesso che 7 ed 4, appitengano entrambi ad H, potremo applicare alla funzione /}w(z){, nell’interallo, che va da #, ad #, lo sviluppo abbreviato di Taylor, dell'ordine n —. Sa Calcoliamone i vari termini. Î Anzitutto, attesa la definizione (4) di «,, [f()lao = fe(2)t= f1 ossia, per la prima delle identità (2), (5) Lf(U)lamo, = (0) [90 SIA go rn ZA e badiamo che x, è stato definito in terminikdi #4 mediante la (4). Come sopra, f}u(z.)t, espressa per 7, non è altro ie /(c). D'altra parte der=(14 g') dx sicchè derivare /(z), rapporto ad #,, equival ad applicarle l'operazione differenziale (6) Risulta dunque 1 d EEE. 1) Sil pe da =, (@)e Dopo ciò lo sviluppo di /(w), per potenze di da— z1 = — g(4), può essere scritto m) (= +Sn e m! Di /(2) +Rn, il termine complementare R, avendo l'esprespne (') 0 Ba Gapi, ea ovvero quella di Lagrange (o = Lo[£6 in cui 4, rappresenta un qualche valore compso fra 4 ed x,. (1) Cir. per es. Arzelà, Lezioni di calcolo infinitamale (Firenze, Le Monnier, 1901), | pag. 352. pia 3. La (II) è la formula, cui ho alluso in principio. Il termine generale di posto 72°" ha l'espressione comodissima e LE pero). Come si vede, esso dipende dalle derivate di / e di fino all'ordine m, e contiene g” a fattore. È facile mettersi in condizioni, nelle quali quest’ultima circostanza equivale al requisito tipico dello sviluppo di Taylor: termine mm d'or- dine 72 (almeno) rispetto a0 £ — 20. All’uopo basta operare preventivamente nella equazione (I) una sosti- tuzione lineare sulla variabil: y, scambiando y in y—%0 + x. La prima forma (8) mrita invece interesse sotto altro punto di vista. In essa è precisata la dipedenza funzionale, mentre nella (8') compare la funzione 4», di cui a prio si sa soltanto che ha valore numerico compreso fra x ed z;. Giova perciò ricorrere alla (8) quando per es. (ammessa, se occorre, l'esistenza di ulteriori deriate di 4 e di /) si abbia da derivare lo svi- luppo (II) rispetto ad un aalche parametro. 4. Estensione dello sUuppo. Indicherò anche una eensione della (II). Si tratta dello svilup di una funzione F(w,), che dipenda da «, nio pr non solo pel tramite di u, ma anche esplicitamente, e possegga del resto le proprietà qualitative, già ammesse per /(u). Ripetendo le considerazioni del n. 2, si accerta ovviamente che, al posto delle (5) e (7), valgono le relazioni: [EU le, = Fe, 2) =F}4 + 92), |P —DE Fo, +g(2). da 1011 Se ne ricava lo sviluppo cercato (L01069 E ) III xx" di ch) + Sa Me I perle. cy) +R, dove la forma di R,, analoga alla (8), è 1 oo) n 0 rei CE TORITÀ Anche qui basterebbe attribuirgli la forma difLagrange per accertare che esso contiene g” a fattore. Sviluppi forniti dal metodo delle apprésimazioni successive. 5. Volendo risolvere la (I), rispetto ad y,jper approssimazioni succes- sive, la via più naturale sarebbe di porre Yi id Yao g(Y1) ’ ecc.; in generale Ymrr LT P(Ym) (m —MM2E, 99) i Ma un tale procedimento non riesce sempre cowergente: converrebbe intro- durre l’ipotesi addizionale |g'(20)|<1. 6. Si evita ogni difficoltà col seguente artfizio. Operata, se occorre, quella tale sostituQne lineare, per cui riesce g(xc,) = 0, scriviamo la (I) sotto la forma gy_-Ttgy—g(2)+@)=0, e raccogliamo, nei primi quattro addendi, y a fattore. Notando che la funzione (0) ve,g=1+9 CARLO resta finita e continua anche per y= #, e che, per 2, y convergenti ad o, essa si avvicina al valore 14 (zo) [non nullo, per la disuguaglianza fon- damentale (1)], possiamo anche dividere per w, ed avremo y(2) 1) ne Ù YW(d,Y) Definendo ora delle approssimazioni successive mediante le formule (1 1) i dni(40) y(2) 12 Ymii — ET 7a = 0. met) 02) +70 ( queste risultano incondizionitamente convergenti in un conveniente intorno GI dae Per dimostrarlo, comimiamo collo scegliere, entro H, un intorno H, tale che, per #,y compres: in H,,w(x,)- (che non si annulla per 4 = —y= o) sì mantenga diversa da zero; anzi sia SE inferiore ad un numero positivo L. i Si dica poi M un limiti superiore dei valori di |g'(x)| entro H,. Avremo lp(e — g(2)|= M|2— zo), ossia, per essere g(70) =0, g(2))} = M Le 20) . Scegliamo ancora un mmero % abbastanza piccolo perchè il segmento (1-+ML)A, portato nei due versi, a patire da z,, sia tutto interno ad H,. Con questa definizionedi #, la disuguaglianza (13) | &o] = (14- ML) 7 assicura che y è contenuto ntro H,. Per brevità, introdurrero anche un terzo intorno H> di #,, di ampiezza non superiore ad È. Siamo adesso in grad di accertare che, se 4 appartiene ad H,,%» € così tutte le successive y,*adono entro H,. Si osservi all'uopo ch la prima delle (12), badando che y1.=", dà Y(2) W(x, 2)" Ye — = donde, per le ipotesi fatte, \yJa — do. =1+ ML)|e— 20 =(14 ML), che è appunto la disuguaghnza (13), relativa ad 7». SIA (0 RESSE Per un'altra y qualunque, sia ad es. la 7,41, basta supporre di aver sì può ritenere inferiore Il fatta la verifica fino ad y», con che —__- ; [CRU] ad L. La corrispondente (12), scritta sotto la firma minannena i, Y(d, Ym) dà poi luogo alla disuguaglianza caratteristica lume — Lol = (1-+ MLJh. Soffermiamoci un momento a stabilire una proprietà della w. Conside- riamo perciò la differenza g(x) — (2), nell’ipotisi che 4, sia una coppia qualunque di valori, appartenenti ad H,. Usufrtendo dello sviluppo abbre- viato di Taylor del second'ordine, potremo scrivi pe) — g(e) = (a — 2) P() + 5 con w compreso fra 2 ed z, e quindi interno ancl'esso ad H,. Si ha d'altra parte dalla (10) dy(1,4) ____ 9(8) — y(2) î pe) DE (— 2) i_— x donde, per confronto colla precedente, d hI6) 1 ny DUE "ig (0) . 14 TT (O de Ciò posto, si sottragga da una generica (12) quda, che la precede. Si ha Lo SA O rr, | Ym+i Ym = ME Yi) (x I Ynr) Ud o) W(.x , Ym=1)! " Per il teorema del valor medio, la different in parentesi può essere posta sotto la forma dY (Ym o) Led dove 2, rappresenta un qualche valore appartenee ad H, (perchè compreso fra Ym Cd Yma) A norma della (14), applicata al valore emli 2, si deduce P'(0m) 2y(£ ’ Ym) Y(£ ? Ymr) (MEDA), i d) ; (Um pi det) Ymer TYmE= con ©, contenuto in H,. RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 2 ns Di) — Ove si ponga (15) Yi —yp== do, (16) Ym+r —Ym= Om (API DO CLI Y'(Om) ni Dain MENA AO = STA i 2W(£ ,Ym) YW(E,Ym_1) E, (2 JIDE ) la formula, ora trovata, più essere scritta più semplicemente (18) Om = Tm SIOE (MA), mentre, avendo riguardo ala (11) o alla prima delle (12), la prima delle (16) porge ‘ 9(£) 19 dii=iaa SO 7 4,2) Sostituiamo, in um 18) generica, per d,_1 l'analogo valore, e così successivamente, finchè si sia ricondotti a d,, da sostituirsi a sua volta mediante l’espressione (.9). Si ottiene To 9. .0Tm il l nm —P so o Mm n (18)) TO, y"(2) (Zi o) Le (17) mostrano che, uwanto a valore assoluto, nessuna 7, può superare 2 il prodotto di > PA il nassimo valore di g" entro H,. Chiamando T questo prodotto, e tenendo presnte che anche 1 Th, le (17) e (18) somminigano in particolare la disuguaglianza (19) |Om| = I"p(@)|? MEI Siccome @(4) è zero perc = %,, così esiste un intorno di %,, entro cui. il prodotto T|g(7)} sì mntiene minore dell'unità. Entro questo intorno, la serie di termine generale),, converge colla rapidità di una progressione geo- metrica. La somma di tale ‘rie non è altro che la funzione y=u(2), deft- nita dalla (I°), 0, se si vole, dalla (I). Sia infatti (20) dn Per le (15) e (16), somma dei primi % termini della serie vale yn. Per la convergenza, (21) lg, =%(@); Nn=N "e aa dopo di che, con ovvio passaggio al limite, si ricava dalla (12) udire =0 W(x , n° caldand: 7. Per una generica funzione continua F(v |), si ha manifestamente, in causa della (21), (22) RA 9)= ua ge Ora, ponendo 1 (23) Co = 0900592 ), (24) Uan) ( =@,2,..), la somma Yoda + + ga si riduce a F(|,,<), sicchè la (22) equi- vale a | | (IV) Fu, 2) =} Om: | Ammessa la derivabilità di F, si ha dalle "); e (16) (24) Go =Up 6: zitta A PESO con 7 compreso fra Ym+: € Ym, @ quindi appartegnte al solito intorno H,. Se si indica con N il limite superiore dei valori assoluti di ui al variare degli argomenti entro H,, si ha in partidare dalla (24) (24°) Gml= Nm (Mm=1,2/..), talchè lo sviluppo (IV) ha lo stesso i) della (20), rispetto alla convergenza. 8. Il metodo delle approssimazioni successi} ci ha così fornito degli sviluppi, tanto per la radice u(x) della (I), quito più generalmente per una qualunque F(w, x). Dal punto di vista del validità e della conve- nienza numerica, questi sviluppi sono altrettant anzi più vantaggiosi di quelli differenziali, precedentemente costruiti. Infatti d,, contiene a fattore g"(#), e per nseguenza, quanto all’or- dine dei termini, ci troviamo nelle stesse condizio. Inoltre il calcolo effet- tivo riesce anche più spedito, e. per la validità di procedimento, basta lar- gamente (come tosto apparisce dalle proprietà incate nei nn. 6 e 7) che la funzione g ammetta derivate continue dei prii due ordini, la F(v,) derivata prima finita, rapporto ad «. Gli sviluppi differenziali (II) e (III) esigo|. invece la esistenza di derivate d'ordine tanto più elevato, quanto più | procede nello sviluppo. — e Con tutto ciò non viene meno il loro interesse, perchè i singoli termini (escluso, sì intende, l'eventuale resto) dipendono dai valori di g,F (o, in particolare, f) e loro derivate, rel solo punto generico x, che si vuol con- siderare. Colle approssimazioni successive si fanno invece intervenire valori delle funzioni in punti, che sonc in generale distribuiti entro lutto un intervallo, prossimo ad #, ma pur simpre finito. Si tratta dunque di sviluppi che, malgrado una maggiore semplicità, hanno carattere eminentemente funzionale. Rimangono perciò preeribili gli sviluppi differenziali, quando si desi- dera raggiungere una certa approssimazione, riportandosi ad un unico punto. Fisica — Comportmento dei vapori metallici nella scintilla elettrica. Nota di A. BatTELLI e di L. MaGRI. Le fotografie di santille oscillatorie ottenute collo specchio girante, quando sono molto niti@, mostrano con grande evidenza che le immagini date dai vapori metallic staccati dagli elettrodi ad ogni mezza oscillazione non sono continue, ma olcate da strie più luminose, percorrenti la scintilla per la sua lunghezza, iregolarmente distribuite, più abbondanti nelle prime oscillazioni che nelle seuenti. Il sig. G. A. Hemsaech, in una comunicazione all'Acadèmie des Sciences dell’8 aprile u. s., ha pesentato delle fotografie di scariche ottenute proiet- tando l’immagine d’unascintilla sopra una fenditura, e fotografando questa sopra una pellicola raidamente rotante; ed ha notato egli pure che le immagini date dai vapo metallici che si staccano in ogni mezza oscilla- zione dagli elettrodi è cscontinua. Da ciò egli ha concluso senz'altro dicendo che questo fatto è dovw alla presenza, nella scarica, di oscillazioni di ordine superiore (armoici), e che queste sono soprattutto marcate nella prima oscillazione. Ha >ggiunto che manifestamente gl armonici sono se non unicamente, in gra. parte almeno la causa della luminosità del vapore nella scintilla. L’accurata osservazne del fenomeno, quale si presenta nelle numerose fotografie che noi da tepo abbiamo ottenuto, ci conduce a dare di tali di- scontinuità una spiegazhe diversa da quella avanzata dall’Hemsalech. Richiamiamo anzitvo l'attenzione su ciò che abbiamo detto altra volta () in riguardo alla costituone della scarica stessa. Lo stabilirsi dellacarica è sempre accompagnato da una eccitazione luminosa dell’aria, che uò essere più o meno notevole a seconda delle con- dizioni di esperienza. Ìhoto che con periodi brevi l'esame spettroscopico (1) Rend. R. Ace. dei ncei, vol. XVI, p. 155, 10 febbraio 1907. RESO della scintilla mostra molto vivaci queste righe d'aria, che vanno mano mano indebolendosi nelle successive oscillazioni; con periodi molto lunghi questa luminosità dell’aria può praticamente ridursi ad una esilissima scin- tilla pilota. Ciascuna mezza oscillazione stacca dagli elettrodi vapori metallici lu- minosi, che vengono prozettati nell'intervallo di scarica, sono luminosi in gran parte per sè stessi e indipendentemente dalle oscillazioni, restano lu- minosi anche quando l'intensità della scarica passa per lo zero, e possono, se sono molto abbondanti, essere lanciati e restare luminosi anche fuori dello spazio d'aria percorso dalla scarica. Questi vapori luminosi non hanno la stessa ricchezza di radiazioni e lo stesso splendore nelle loro varie parti, in immediata vicinanza degli elet- trodi emettono abbondantemente luce di un gran numero di lunghezze d'onda, e man mano che si allontanano dagli stessi elettrodi perdono una parte di queste vibrazioni e il loro spettro si semplifica. Tutto ciò spiega facilmente i punti luminosi in immediata vicinanza degli elettrodi e le righe lunghe e brevi che si osservano nello spettro della scintilla come conseguenza del moto di queste masse luminose e del tempo più o meno lungo per il quale esse possono conservare nel moto stesso le diverse specie di vibrazioni. Tuttavia non intendiamo di escludere che quelle masse di vapore che si trovano sul passaggio della scarica non possano, per certe radiazioni almeno, esser rese e mantenute luminose dalle successive oscillazioni; ma è un fatto che alcune delle righe metalliche che si possono osservare nello spettro della scintilla perdurano anche nei minimi della corrente e fuori dell'intervallo di scarica, anche in luoghi dove la scarica non passa; le righe d'aria si hanno invece nei massimi d’intensità soltanto, e durano meno assai della durata di mezza oscillazione. La luminosità dei vapori metallici non può dunque essere attribuita agli armonici, e non si può dire, come asserisce l’Hemsalech, che la separa- zione dell'immagine dei vapori metallici in strie provi che il vapore resti luminoso soltanto durante il passaggio della corrente dovuta agli armonici. Queste strie provano solamente che la proiezione di masse di vapore dagli elettrodi non è regolare, ma quasi discontinua. Quasi tutte le fotografie da noi ottenute con lo specchio girante mostrano evidentissimi questi fatti. Nella negativa riprodotta nella fig. 1 della nota citata si vedono molto chiaramente, nelle prime oscillazioni, delle righe lu- minose corntznue che vanno dall'uno all'altro elettrodo; le quali sono do- vute all'aria, durano, come s'è detto, meno di mezza oscillazione, e vanno via via indebolendosi col progredire della scarica. Le curve che partono dagli elettrodi e arrivano verso il mezzo della scintilla, dove per un certo tempo quasi si arrestano, sono le traiettorie dei vapori luminosi. Le curve dei vapori mostrano delle strie irregolarmente distribuite, muo- = 1 ventisi talora in direzioni diverse, che fanno vedere chiaramente come esse non siano dovute nè al moto di una sola massa di vapore, nè ad un getto continuo di questo, ma piuttosto ad una proiezione irregolare e qualche volta intermittente. Questa irregolarità è assai più pronunciata nelle prime oscillazioni quando l'intensità della scarica è più grande e gli elettrodi sono più freddi, e può dipendere da numerose cause accidentali, alle quali potranno anche aggiungersi, in quei casi in cui l'intensità della scarica non è la stessa allo stesso istante in tutti i punti del circuito, le vibrazioni di ordine superiore previste dal Kirchhoff, che sono però ben diverse dagli armonici della oscil- lazione fondamentale che ha creduto di vedere l’Hemsalech. Questi particolari però, mettissimi nelle negative, si vedono male in clichés in zinco e non si vedono affatto nelle copie tirate; non abbiamo quindi potuto stamparle. Abbiamo invece cercato di far eseguire il meglio che fosse possibile una incisione in legno da una buona negativa ottenuta senza fenditura con una scarica di periodo lento (7r=0,00005). In essa (v. figura) si vedono bene le traiettorie dei vapori metallici; le righe d'aria si sono ridotte alla esilissima scintilla pilota. Abbiamo voluto eseguire qualche fotografia nel modo indicato dall'Hem- salech, ossia proiettando l’immagine della scintilla sopra una fenditura ad essa parallela e fotografandola con lo specchio rotante. In questo modo non abbiamo ottenuto nulla di più di quello che possiamo osservare sulle nostre fotografie dirette: si vedono al solito le strie irregolarmente distribuite, ma si seguono peggio le masse di vapore nelle loro traiettorie. Abbiamo posto in seguito la scintilla normalmente alla fenditura e abbiamo potuto accertare che i tratti luminosi corrispondenti ad ogni mezza oscillazione non sono discontinui, come vorrebbe l'ipotesi deli' Hemsalech, ma piuttosto di splendore irregolare, con questo poi di notevole che il più delle volte non si ha un solo tratto luminoso per ogni mezza oscillazione, ma ta- lora due o tre quasi paralleli fra loro: ciò che ci dimostra come questi pro- iettili luminosi siano press'a poco indipendenti nel loro movimento, tanto che alla fenditura, nella stessa mezza oscillazione, possono arrivare in punti di- versi e contemporaneamente più d'uno di questi getti di vapore. Cao nn Dunque dallo stesso elettrodo possono partire contemporaneamente, e in varie direzioni, più getti luminosi; se la scarica è assai intensa, queste par- ticelle possono essere lanciate allo stesso istante da punti diversi dell’elet- trodo stesso La scintilla poi si muove continuamente alla superficie di questo e rende così più irregolare il fenomeno. Tutto ciò che abbiamo brevemente riassunto, è visibile con molta chiarezza nelle nostre negative. Disgraziatamente, per la sottigliezza dei par- ticolari, non è stato possibile farne una riproduzione in zincotipia. Il comportamento dei vapori metallici ed il meccanismo della scintilla richiedono ancora lunghi e pazienti studi. Noi da un pezzo stiamo facendo delle accurate indagini su questo argomento e speriamo di poter presto render conto dei risultati che abbiamo già in parte ottenuti dalle nostre ricerche spettroscopiche. . Geologia. — Z/ Neck subetneo di Motta S. Anastasiu. Nota del Corrispondente Gruseppe De LoRENZO. L’ Etna, com'è noto, non sorge con la sua radice ed i suoi fianchi diret- tamente dal mare, ma s'appoggia e si stende sopra una base sedimentaria, disposta a guisa d’una grande piattaforma inclinata, che da più di 1100 metri, raggiunti a nord-ovest dalle arenarie mioceniche di Maletto, discende a sud-est fino a circa 300 m. sul mare, occupando un’area ellittica, di cui l’asse maggiore, diretto da nord-nord-ovest a sud-sud-est, è lungo poco più di 35 chilometri e l’asse minore circa 30 chilometri. I prodotti eruttivi frammentarî e le correnti laviche dell’ Etna si spandono e si allungano oltre i limiti di tale piattaforma sedimentaria, occupando una più vasta area. Alla natura di questa base sedimentaria dell’ Etna ho accennato nella mia Nota su Ze dasi dei vulcani Vulture ed Etna (Comptes-Rendus du X° Congrès Géologique International, México, 1906), mostrando come essa sia costituita da una grande conca di rocce mesozoiche e di Flysch eo-mio- cenico, formatasi nel corrugamento orogenico post-eocenico, modellata dal- l'erosione ed abrasione post-miocenica e riempita poi dai sedimenti marini della transgressione pliocenica superiore e pleistocenica, coperti a loro volta dal diluvium quaternario, col quale e sul quale poi è sorto l'Etna. Questi depositi postpliocenici subetnei negli ultimi anni sono stati og- getto di studî accurati da parte del mio attuale assistente, dott. S. Scalia, che recentemente ha raccolto le sue antiche e le nuove osservazioni in una Memoria conclusiva: I Postpliocene dell'Etna (Atti dell'Acc. Gioenia di Sc. Nat., ser. 48, vol. XX, Catania 1907); in cui egli descrive, come tali depositi, costituiti essenzialmente da argille ed argille sabbiose marine, ap- paiono a la Vena, sopra Piedimonte Etneo, a circa 800 m. sul mare, tras- 2016 paiono qua e là tra le lave o sono svelati dalle sorgenti d'acqua lungo le falde orientali dell’ Etna, si stendono ampiamente lungo le falde meridio- nali, tra la regione degli Aci e Paternò, dove sono coperti dai conglomerati diluviali delle Terre Forti, e risalgono poi lungo le falde occidentali verso Biancavilla ed Adernò, finchè finiscono con lo sparire sotto la mole del vul- cano. Le argille sabbiose hanno dato una ricca fauna marina di 375 specie, di cui solo 7 sono estinte e nessuna è veramente nordica, ma tutte sono ancora viventi a varie profondità del mare attuale. I conglomerati fluviali delle Terre Forti, che già contengono ceneri e ciottoli delle prime eruzioni etnee, hanno dato avanzi, ricordati da Lyell, di mammiferi scomparsi da questi luoghi od estinti, come l'ippopotamus maior e l' Elephas antiquus. L'affioramento più esteso e visibile dei depositi postpliocenici subetnei è quello che si ‘svolge lungo le falde meridionali del vulcano. Quivi esso, visto dal mare a sud di Catania, si presenta come una lunga terrazza, che comincia ad oriente nelle alture del Monte d'Oro, a 377 m. sul mare, prosegue verso occidente nelle Tempe della Catìra, a circa 350 m., passa sopra gli scaglioni tufacei della Licatia e del Fasano e si stende fino alle Terre Forti di Misterbianco ed alle Siele di Motta S. Anastasia, quivi culminando nel M. Tirità a 324 m. sul mare. Sopra questa terrazza ben definita si erge il cono dell’ Etna, il quale però ha spinto le sue correnti laviche fino a tra- boccare dall'orlo della terrazza, per scendere al mare: nascondendo così in parte la costituzione della base sedimentaria, che viene ad essere accen- nata dalla sola linea esteriore. La quale probabilmente rappresenta una vera linea di emersione, un poco anteriore all'altra linea di spiaggia segnata dai tufi e dai conglomerati del Fasano e della Licatìa. Nella parte più bassa di quel piano postpliocenico emerso vennero a riversarsi le alluvioni, che portavano dai Nebrodi e dalle Caronìe al mare i ciottoli di rocce cristalline antiche, di calcari mesozoici e, più di tutti, di arenarie, marne, brecce num- mulitiche ed altri materiali del Flysch eo-miocenico, che ora costituiscono i conglomerati delle Terre Forti. In questi conglomerati, come s'è detto, si trovano anche le ceneri ed i ciottoli basaltici. derivanti dalle prime eruzioni etnee, scoppiate in quella vasta valle post-pliocenica e rimaste poi seppel- lite sotto i prodotti delle ulteriori eruzioni, con cui a poco a poco s'è for- mato il gigantesco vulcano. Ma non soltanto le prime eruzioni dell’ Etna propriamente detto scop- piarono in quella piana quaternaria. Nella parte di essa più meridionale e più prossima al mare, che ora ci è rappresentata dalla su descritta terrazza, sorsero numerosi piccoli vulcani, simili in certo modo a quelli che ora sono sparsi sulle spalle stesse dell'Etna, ma indipendenti, almeno nelle loro esterne manifestazioni, dal focolare principale del grande finitimo vulcano: simili in ciò al vulcano preistorico o protostorico di Mojo. Ma, mentre questo vulcanetto dalla parte settentrionale dell’ Etna ci è rimasto quasi integral- ig mente conservato, dei vulcanetti meridionali invece, più antichi e più esposti agli acquiferi venti del sud, non ci restano che pochi avanzi risparmiati dall'erosione. Di tali avanzi i più noti e vistosi sono dati dagli scogli e dalle rupi basaltiche dei Ciclopi, di Aci Castello, di Motta S. Anastasia e di Paternò. Ma, oltre di essi e nello spazio tra essi compreso vi sono, benchè ignorati e non segnati sulle carte, numerosi filoni e scogli basaltici, che affiorano un po' da per tutto tra i campi, attraverso le argille ed i conglo- merati postpliocenici, e che hanno un’origine simile a quella delle su ricor- date rupi maggiori. Tutte queste scogliere basaltiche infatti non tanto ras- somigliano agli embrioni di vulcani della Svevia od ai Maare dell’ Eifel, quanto ai recks della Scozia, così splendidamente illustrati da siv Archibald Geikie. Al pari di quelli infatti, questi avanzi di vulcani subetnei non sono Fic. 1. — 5. Base sedimentaria. — 4. Materiali eruttivi; frammentari e lavici, dell'Etna. — N. Necks subetnei. — //-4/. Livello attuale del mare. che le estremità terminali dei camini eruttivi, riempiti di materiali fram- mentarii e lavici, messe a nudo dalla erosione, che ha in tutto od in parte asportato i coni e tutti gli apparati vulcanici esteriori. Alcune volte, come nella rupe di Paternò, esiste ancora buona parte del cuore del cono eruttivo esterno; altre volte invece non v'è che il camino, o nuca, o radice del vul- cano, riempita da lava basaltica. In certi casi, come negli scogli dei Ciclopi, forse la lava non giunse a sboccare alla superficie e rimase sotto le argille postplioceniche, in cui s’iniettò con numerosi filoncelli, dando origine anche ad un primo grado di metamorfismo di contatto. Ma nella maggior parte dei casi il magma eruppe alla superficie sotto le sue diverse forme fram- mentarie e laviche, come c'è per esempio provato dal bellissimo neck di Motta S. Anastasia. La rupe, su cui sorge Motta S. Anastasia, già da lontano attira l’at- tenzione per la sua massa di color ferrigno, che s' eleva bruscamente con balze di 50 metri d'altezza sulle ondulazioni argillose delle Siele, raggiun- gendo i 275 m. sul mare. E già infatti Goethe, nel passarvi il 1 maggio 1787, ne aveva riconosciuto la bellezza e l'importanza: « Motta ist ein schoner bedeutender Fels ». Egli è il primo, ch'io sappia, che abbia richia- mato l'attenzione sulla nostra rupe. Prima di lui, nel 1768, era stato in questi luoghi Hamilton, il quale però era solamente e tutto inteso alla co- struzione e genesi dell’ Etna, che comprese così bene, da poter poi, a pag. S1 dei suoi Campi Phlegraei, Napoli 1776, affrontare Buffon, scrivendo, che RexpIcontI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 3 MIS 1] il gigantesco Etna s'è così evidentemente formato per una serie di eruzioni od esplosioni vulcaniche, nel corso lunghissimo delle rivoluzioni dei tempi, come il Monte Nuovo presso Pozzuoli si formò per una sola eruzione, nel brevissimo spazio di 48 ore. Circa un secolo dopo vediamo un altro grande inglese, Carlo Lyell, sostenere lo stesso principio contro le affermazioni del maggiore illustratore dell’ Etna, Sartorius von Waltershausen, che invocò di nuovo il sollevamento per la genesi della parte centrale di questo vuleano. Ma, tornando alla rupe di Motta S. Anastasia, questa, dopo l'osservazione di Goethe, si trova esplicitamente nominata a pag. 457 del Mémoire sur les Iles Ponces et Catalogue raisonné des produits de l'Etna, Paris 1788, del cav. D. de Dolomieu, il quale ne descrisse le grandi colonne prismatiche verticali, formate di compattissima lava. In quel tempo faceva osservazioni sui dintorni di Catania il canonico Recupero: ma la sua Storia naturale e generale dell’Etna, pubblicata a Catania nel 1815 dal nipote Agatino Recupero, nulla contiene di notevole su Motta, tranne nella nota 4, in cui il nipote giustamente paragona la rupe della Motta a quelle di Paternò, Aci Castello, Ciclopi ecc., riconoscendo, che si tratta di vulcani, i quali eruttarono materiali frammentari e lavici e di cui i crateri furono distrutti dal tempo. Non diversamente si espresse Francesco Ferrara nella sua Descrizione del- l’ Etna, Palermo 1818, aggiungendo però a torto, che le argille avevano ri- coperto il vulcano e che questo era poi venuto fuori per denudazione. Il Ferrara pochi anni prima (Messina 1810) aveva pubblicato un lavoro su I campi Flegrei della Sicilia, in cui erano espresse sulla formazione della Sicilia e sugli sprofondamenti nel mar Tirreno ed Africano vedute non molto dissimili da quelle recentemente esposte da Suess. Con ciò si giunge al periodo degli studî analitici sulla geologia di queste regioni. Il primo ad aprire questa nuova serie fu Fr. Hoffmann nelle sue Geognostische Beobachtungen gesammelt auf einer Reise durch Italien und Sicilien in den Jahren 1830 bis 1832, pubblicate poi da von Dechen a Berlino nel 1839. In questo volume si trova una grande quantità di os- servazioni coscienziose, minute, esatte; manca però uno sguardo geologico profondo, che le unisca in un quadro completo e vivente. Così per la rupe di Motta egli distingue la parte scoriacea superficiale da quella interna com- patta e descrive il conglomerato basaltico a nord-est ed ovest, ma non si ferma a considerare i rapporti tettonici di essi tra di loro e con le rocce sedimentarie circostanti. Ma lo sguardo profondo, che mancava a lui ed agli altri, l'ebbe invece Lyell, che nel suo classico lavoro On the Structure of Lavas which have consolidated on steep slopes; with Remarks on the Mode of Origin of Mount Etna, and on the Theory of « Craters of Ele- vation » (Philos. Transactions of Roy. Soc. of London, 1858) diede del nostro grande vulcano una descrizione, che non è stata poi più superata, nè tam- poco eguagliata. Per l'argomento, che ora ci occupa, egli chiaramente mostrò, agio come alla Motta ed a Paternò, nell’area dell’antico estuario subetneo, si trovano interessantissimi monumenti di eruzioni vulcaniche locali, posteriori al grande alluvium, di cui hanno incorporato i ciottoli, inviluppandoli nei tufi e nella lava e spesso bruciandoli ed alterandoli. Esse furono probabil- mente coeve delle prime eruzioni subaeree del cono dell’ Etna e, dopo che esse eruppero attraverso le argille ed i conglomerati postpliocenici, non altri mutamenti avvennero in quella regione, tranne quelli dovuti alla de- nudazione fluviale, che, asportando una parte delle rocce vulcaniche e delle sedimentarie, ci ha messi in grado di comprendere le relazioni delle une colle altre, mostrandoci come le materie fuse sono semplicemente ascese at- traverso camini, ora rappresentati da dicchi, senza produrre alcuna disloca- zione nelle rocce, attraverso cui sono passate. Quando Lyell scrisse il suo lavoro, già si trovava qui a studiare il vulcano Sartorius von Waltershausen, la cui grande monografia Der Aetna fu poi pubblicata a Lipsia nel 1880 da A. von Lasaulx. Ma questi era specialmente chimico-mineralista, come il Sartorius era prevalentemente to- pografo: così che la monografia costituisce un'eccellente descrizione topogra- fica e mineralogica dell’ Etna, corredata di carte e di illustrazioni magnifiche, ma è difettosa dal lato geologico; e sotto questo aspetto, specialmente per la comprensione della tettonica e della genesi del vulcano, resta, a mio pa- rere, inferiore all'antico lavoro di Lyeil. Di questo difetto si ha prova, p. es., anche nella singola descrizione (vol. II, pag. 48 segg.) della rupe di Motta S. Anastasia, di cui non sono con chiarezza viste nè indicate le condizioni tettoniche e genetiche, fino al punto da conchiudere (id., pag. 52), che le rocce di Paternò e della Motta sembrano non appartenere alle eruzioni del- l'Etna, ma si debbono probabilmente, come quelle dei Ciclopi, assegnare al gruppo vulcanico della Valle di Noto. Ora, tutte le formazioni vulcaniche della Val di Noto, come aveva già osservato Dolomieu, costituiscono un gruppo eruttivo speciale, anteriore e diverso da quello etneo e subetneo. Là infatti le eruzioni di ceneri e di lave basaltiche ebbero luogo in preva- lenza durante il sollevamento postmiocenico e furono forse generalmente sottomarine, o per lo meno i loro prodotti tornarono a più riprese sotto il mare durante le diverse fasi della subsidenza o transgressione pliocenica superiore e pleistocenica inferiore; in modo che i depositi di quel mare si intercalarono nelle formazioni eruttive e le coprirono con lenti, scogliere e stratificazioni di calcari fossiliferi, che seguirono l'andamento delle forme eruttive preesistenti. L'abrasione del mare pliocenico superiore e la denuda- zione postpliocenica hanno in gran parte spianato, distrutto ed alterato l’edi- fizio originario; di cui si hanno però ancora quasi i capisaldi nei grandi centri eruttivi dei monti Lauro, S. Venere ed Altore, che sovrastano le infe- riori pendici di lave e tufi basaltici: coperte qua e là da chiazze di banchi calcarei, che si fanno più spessi e potenti e continui a misura che si scende So verso la periferia del gruppo e mostrano, che già al principio del Pleisto- cene s'erano completamente estinte le manifestazioni eruttive della Val di Noto. Invece proprio col Pleistocene, come innanzi s'è detto, ebbero principio le eruzioni subetnee, come quelle di Motta e di Paternò, le quali attraver- sarono non solo i sedimenti marini postpliocenici, ma anche i conglomerati del Diluvium. Ciò si vede splendidamente tanto nella rupe di Paternò, di cui mi occuperò un'altra volta, quanto in quella di Motta, di cui ora dò qualche cenno. La rupe di Motta S. Anastasia sorge dai circostanti sedimenti come un cilindro di poco più di 300 metri di diametro. A nord tale cilindro si stacca per una ventina di metri d'altezza appena dai declivii di conglome- rati diluviali ed argille sabbiose, che scendono dal monte Tiritì; ma a sud e ad est le sue pareti brune si elevano per più di 40 metri ripidamente dalla morbida collina argillosa, che ne circonda il piede e scende dolcemente verso la valle. Nei fianchi di questa collina rivolti a sud-est, sopra una linea non più lunga di 300 metri dalla rupe di Motta fino alla sponda destra del ruscello si elevano dalle argille altri spuntoni di lava, eguali a quella della rupe ed indizî, forse, di altre brevi eruzioni laterali dell'antico vulca- netto della Motta. Di questo ora non rimangono nella rupe maggiore che i residui dei suoi prodotti frammentarî e lavici. I prodotti frammentarî si trovano, in scarsa misura, specialmente nel fianco orientale ed in quello nord-est della rupe: rappresentati da strati di tufi basaltici, principalmente costituiti da ceneri e lapilli, insieme impastati ed indurati e cementati da un inizio di altera- zione palagonitica, simile a quella, che in maggiore misura si trova poi nella rupe di Aci Castello e nei basalti di Val di Noto. Tranne questa inci- piente alterazione i conglomerati della rupe di Motta non differiscono essen- zialmente, p. es., dagli strati di ceneri e lapilli, impastati in tufo, che costituiscono la cima occidentale e più alta dei Monti Rossi; solo che questi, corrispondentemente alla natura doleritica di quella eruzione del 1669 e della maggior parte delle eruzioni etnee, sono gremiti di bei cristalli appa- riscenti di plagioclasio ed augite, mentre quelli ne sono privi, in conformità della struttura anamesitica della roccia con cui sono connessi. Ma la carat- teristica principale dei tufi basaltici della Motta è data dalla grande quan- tità di frammenti di rocce estranee, che sono impastati tra le ceneri ed i lapilli di costituzione originaria. Tali frammenti estranei sono principalmente rappresentati da pezzi e brandelli di argille ed argille sabbiose, nonchè da ciottoli di arenarie, di rocce silicee e silicate, di marne, di galestri, di calcari e perfino di calcari nummulitici. Questi ciottoli corrispondono perfet- tamente a quelli dei circostanti conglomerati diluviali delle Terre Forti, come i frammenti di argille sono eguali alle contigue argille delle Siele. Loi È quindi chiaro, che le prime esplosioni iniziali della Motta insieme con le ceneri ed i lapilli del magma basaltico autigeno lanciarono in aria anche i frammenti delle argille postplioceniche e dei conglomerati quaternarî, at- traverso cui esse erano scoppiate. La mistione degli uni e degli altri venne a costituire i tufi del cono eruttivo esterno, di cui i descritti conglomerati ci rappresantano gli ultimi avanzi. Il fatto, che i blocchi rigettati allo- tigeni sono quasi intatti, dimostra che le esplosioni iniziali furono poco pro- fonde e poco violente, in modo che non potettero rigettare frammenti di materiali già metamorfosati dall'azione del magma sotterraneo. Potrebbero anche dire, che questo non ebbe, in profondo, tempo ed agenti mineralizza- tori sufficienti per produrre tale metamorfosi. Così, p. es., nei necks delle isole dei Ciclopi, il magma basaltico, salito fino a poca distanza dalla su- [Id I(D is} il TILL I by iS Fre. 2. — Fianco nord-est della rupe di Motta. L. Lave basaltiche. — 7. Brecce e tufi basaltici con elementi allotigeni, spinti e curvati dalla colonna di lava. perficie, ebbe la forza di mandare iniezioni nelle argille soprastanti, ma non ebbe tanta quantità e tensione di vapore e di gas, che gli permettessero di esplodere e di erompere all’esterno con forme frammentarie e laviche. Invece nel vulcano di Paternò le esplosioni furono più forti e profonde; il mate- riale frammentario autigeno è più grosso e vario di quello della Motta, essendo anche ricco di scorie e bombe; ed il materiale allotigeno presenta già un primo grado di metamorfismo nei grandi pezzi di argille arrossati e cotti dall'intensa azione eruttiva. La Motta quindi presenta quasi un tipo di genesi intermedio tra i Ciclopi e Paternò. Naturalmente l'energia eruttiva anche del vulcanetto della Motta era concentrata nell’estremità superiore della colonna lavica, la quale, quando s'ebbe con le prime esplosioni aperto il passaggio, ascese anch'essa fino ad occupare il fondo del cratere esterno, ma senza forse traboccare e dilungarsi lontano sotto forma di corrente lavica. In questa sua ascesa la colonna lavica centrale dovè forse scostare e spingere gli strati di materiali fram- “e mentarî, che già s'erano disposti in quel punto con pendenza periclinale interna verso il camino eruttivo. E così ora noi troviamo nei fianchi est e nord-est gli strati di tufi basaltici innalzati e curvati lungo la faccia del ci- lindro di basalto, come si può scorgere sullo schizzo della fig. 2. Ma, mentre la colonna lavica dimorava, così al fondo del cratere e con le sue proiezioni di ceneri e lapilli aumentava la massa del materiale frammentario del cono esterno, dall'interno di essa si partivano sottili lingue di lava, che s' insi- nuavano tra gli strati di tufo e ne attraversavano la compagine, senza neanche esse fuoriuscire all’esterno, ma raffreddandosi e solidificandosi sotto le forme di sottili dicchi e filoni scuri, con cui ora noi li possiamo osservare nei tufi della parte orientale e grecale della rupe. Questi filoni scuri, che dallo spessore di qualche centimetro arrivano fino a parecchi decimetri, hanno un aspetto alquanto diverso da quello della grande massa lavica della rupe e rassomigliano petrograficamente alla parte superiore scoriacea della rupe stessa, che alla superficie accenna a risol- versi in un ammasso di scorie bollose, nere o rossastre. Al pari di queste i filoni sono costituiti da una roccia scura, quasi nera, a frattura concoide, con aspetto omogeneo, in cui a gran pena riesce a distinguersi qualche grano di olivina, e che quindi ha l'apparenza tipica del basalto. Invece la roccia della grande massa della rupe e degli spuntoni sottostanti, come aveva già riconosciuto il Lasaulx, che ne diede la seguente analisi: STO, AMeNIAA7,05 ATO; . RP Ne AO. Pesl0s:. (RA IA alotO 18:82 Bell, Eee eo Lato onto: 08: Mbe07, Ae e o €900. VM 02 P. sp. 2,85 Na, 0 K,0 È 6,31 HS 01 E a] (CIO anti o i ni a (0) POL MM OUACCE 99,79 ha un colore grigio verdiccio e fa riconoscere ad occhio nudo la sua strut- tura granulare, quantunque non sia facile discernerne i componenti, tranne nelle parti più alterate, in cui l'olivina comparisce come minuta punteggia- tura giallastra: questa roccia quindi ha l’aspetto tipico dell'anamesite. Al microscopio il basalto dei filoncelli e delle scorie mostra una struttura ipocristallina porfirica, alquanto diversa da quella ipidiomorfa granulare del- l'anamesite; ma in questa ed in quello abbondano i cristalli di plagioclasio coi caratteri della labradorite, che mostrano di essersi cominciati a segregare STIRIA ed a cristallizzare prima dell’augite, anch'essa però abbondante. Anteriori ad entrambi appaiono i piccoli grani neri di magnetite, numerosissimi nel basalto dei filoni, e quelli abbondantissimi e verdi dell'olivina, con la caratteristiica alterazione in sostanze cloritiche, associate a volte con neoproduzioni di calcite ed aragonite. Mancano invece le zeoliti, che sono così abbondanti nello scoglio grande dei Ciclopi. I rapporti strutturali della roccia sono inal- terati anche quando la roccia stessa è alla superficie rivestita dalla carat- teristica scorza gialliccia d'alterazione, a cui nell'interno non corrisponde che l'alterazione dell'olivina; mentre i cristalli di feldspato, a struttura compatta, non zonata, e quelli di augite, ricchi di numerose inclusioni, sono rimasti quasi intatti. Tutte queste condizioni tendono a mostrare, che la roccia di Motta S. Anastasia dopo la sua formazione è stata relativamente poco soggetta ad alterazioni, sia per parte di esalazioni gassose o di acque termali provenienti dall’ interno, che per infiltrazione di acque esteriori. E ciò va d'accordo con la storia geologica, recente e breve, del piccolo vulcano. Alle differenze microscopiche corrispondono assai più rilevanti differenze macroscopiche delle forme di consolidamento. I basalti feldspatici neri dei filoni sottili e della parte superficiale si sono consolidati senza dare una struttura regolare, ma solamente scomponendosi in frammenti irregolari o producendo scorie bollose e vescicolari. Invece la grande massa interna ana- mesitica ha assunto la tipica struttura prismatica, suddividendosi in grandi colonne esagone ed ettagone, di più di mezzo metro di diametro e di oltre dieci metri d'altezza, che si vedono splendidamente sviluppate alla base del piano orientale della rupe. A nord-est invece si ha un inizio di scomposizione sfe- roidale, corrispondente ad un lato meno nucleare della massa lavica. Dolo- mieu nel suo studio sull'Etna era giunto alla conclusione, che tutte le lare a struttura colonnare, che si trovano lungo il perimetro del vulcano, fossero di origine subacquea. Ora si sa invece, che anche i filoni intratellurici di basalti hanno la stessa struttura. A me pare, che per l'origine della segmen- tazione prismatica sia necessario un raffreddamento ed un consolidamento lento, i quali sono naturalmente favoriti dalla pressione. Una corrente di lava, cho si versa all'aperto ed in strati sottili, si raffredda e s'evapora ra- pidamente e ha quindi una grossa superficie scoriacea, con un sottile strato compatto interno. Ma se la corrente è molto alta, allora la pressione della crosta raffreddata favorisce il lento raffreddamento e consolidamento della parte centrale, che assume una struttura poliedrica. E se la pressione del- l'acqua (nelle correnti subacquee) e della terra (nei filoni e nei necks) si aggiunge a quella della superficie di raffreddamento, allora aumentano ancora le condizioni favorevoli allo sviluppo della segmentazione poliedrica. Perciò alla periferia dell’ Etna si osserva già una struttura colonnare, sebbene imper- fetta, nelle lave subaeree, come quella del 1669, quando si sono ammassate per grande altezza nelle parti basse e piane; ma più distinta tale struttura si — og osserva quando le lave stesse sono scese fino al mare, come nella famosa costa dell'ora scomparsa Grotta delle Palombe sotto Acireale; o quando si sono con- solidate sotterra, come in tutti i necks basaltici, che dalle isole dei Ciclopi e da Aci Castello vanno fino a Motta S. Anastasia e Paternò. Di solito le colonne prismatiche sono disposte, come si sa, perpendicolarmente alla su- perficie di raffreddamento: e quindi nelle correnti laviche sono verticali, mentre nei filoni sono disposti orizzontalmente, come cataste di legna. Di tali cataste di filoni orizzontali se ne vedono presso Aci Castello, dove cor- rispondono a filoni verticali. Quando i filoni sono più grossi, allora le co- lonne assumono un aspetto raggiato, partendo da un asse centrale e raggiando verso la superficie del filone. Ma, allorchè le masse laviche sono conside- Fis. 8. — A. Argille sabbiose marine postplioceniche. — €. Conglomerati diluviali. — a. Anamesite a struttura colonnare. — f. Filoncelli di basalto feldspatico. — 7. Tufi e brecce basaltiche con elementi delle argille e dei conglomerati circostanti. — M-M. Livello attuale del mare. — La linea punteggiata indica l'eventuale profilo dell’antico cono eruttivo. revoli, come nel faraglione alto dei Ciclopi o nella rupe della Motta, allora la superficie di raffreddamento è più esteriore che laterale, e quindi la parte superiore della colonna lavica si scompone sferoidalmente ed in poliedri sfe- roidali, che poi verso il basso si sommano e si fondono, formando colonne prismatiche verticali o quasi, come quelle della Motta.. La decomposizione poliedrica, offrendo con le sue numerose superficie di distacco facile accesso alle acque, all’azione del gelo ed alla penetrazione di organismi vegetali ed animali, facilita l’opera alla denudazione, che ha già scoperto il cuore dell'antico eono vulcanico e tende a distruggerlo com- pletamente. Dalla presenza dei conglomerati basaltici, dianzi descritti, nella parte orientale e settentrionale della rupe e dall’analogia con gli altri simili vulcani, come quelli di Paternò, noi possiamo indurre, che il vulcanetto di Motta doveva in origine avere un piccolo cono craterico esterno, formato di materiali frammentarî, non molto dissimile da quelli, che ora sono sparsi a centinaia sulle spalle dell’ Etna. Il fondo del cratere di tale cono era oc- cupato dalle scorie della parte terminale della colonna lavica, le quali ora si trovano al sommo della rupe, che rappresenta il camino eruttivo, pieno — 25 — di lava consolidatasi dopo l'eruzione. Dalla colonna lavica centrale partivano piccoli filoni basaltici, che s'insinuavano come lingue e filamenti sottili nei conglomerati dei fianchi del cono, e di cui ancora alcuni sono visibili. Poi che i fuochi eruttivi furono spenti, la denudazione aerea, specialmente per opera delle acque portate dai venti di scirocco-levante, attaccò il piccolo vulcano. Il cono, formato di materiali facilmente disgregabili, fu rapida- mente demolito, fino a giungere al nucleo roccioso. Le argille circostanti e sottostanti furono anch'esse erose e lavate, e franando misero a nudo altri spuntoni di lava, erompenti a sud-est del camino eruttivo centrale di Motta. L'opera di denudazione, cominciata forse quando il grande cono dell’ Etna ‘era ai principî della sua enorme costruzione, ha proseguito durante tutta l’opera di formazione di quello ed è giunta ora, sempre erodendo e consu- mando, a mettere quasi a nudo il cuore del piccolo, già da tempo estinto vul- cano subetneo. Fisica terrestre. — L'Osservatorio Etneo in rapporto al ser- vizio meteorologico. Relazione del Corrispondente A. Riccò. Mentre ho l'onore di presentare all'Accademia il riassunto di un se- condo saggio di meteorologia della cima dell'Etna (’), la cui esecuzione ho affidata ai sigg. dottori L. Mendola e F. Eredia, già assistenti nell’Osserva- torio, credo opportuno di informare l'Accademia delle condizioni affatto spe- ciali, sotto diversi riguardi, nelle quali si compie lassù il servizio meteorico. Posizione. — L'Osservatorio Etneo (centro della grande cupola) ha le seguenti coordinate geografiche. determinate dal R. Istituto Geografico Mili- tare nel 1897. Latitudine boreale 37° 44' 17" 23 Longitudine est Greenwich —14°59’ 56” 65 Altitudine metri 2950,4. Esso sta a circa un chilometro dall'orlo meridionale del cratere cen- trale del vulcano ed a SSE dal suo asse. L'Osservatorio Etneo dista da quello di Catania 27 Km. in linea retta orizzontale nella direzione NNE ed è a 2880 m. sopra di esso. Viabilità. — Da Catania si va per via carrozzabile fino a Nicolosi (Km. 15). Prima dell’eruzione del 1886 da Nicolosi si andava all'Osservatorio Etneo quasi direttamente: per una mulattiera in direzione NNW si arrivava (!) Un primo saggio fu fatto nel 1894 da A. Riccò e G. Saija, ed è pubblicato negli annali del R. Ufficio centrale di Meteor. e Geod., serie II, vol. XVII, parte I, 1895, ed un riassunto ne fu dato in questi Rendiconti, vol. V., I sem., serie V, fasc. 8, seduta 26 aprile 1896. RexpICcONTI. 1907. Vol. XVI, 2° Sem. d BEEN fino ad Est di monte Rinazzi, poi si passava ad Ovest dei monti Concilio ed Ardicazzi, e si andava per un sentiero dritto a Nord con pochi serpeggiamenti. Avendo l'eruzione del 1886 coperto di lava la strada da monte Rinazzi fino agli Altarelli ad 1 Km. da Nicolosi, si dovette piegare ad W, girando a Sud dei monti Rossì (crateri della grande eruzione del 1669), poi volgere a Nord, e quindi, passando fra i monti S. Leo e Rinazzi, riprendere l'antica strada ad Ovest di monte Concilio. Avendo l'eruzione del 1892 poi coperto un tratto della strada fra i monti Rossi e monte S. Leo, si dovette pren- dere una via ancora più a ponente, verso monte Segreto, e più lunga; talchè ora il viaggio da Nicolosi all'Osservatorio, senza fermate, dura 6 ore, e da Catania 9 ore, quantunque la distanza fra i due Osservatorî in linea retta orizzontale sia solo di 27 Km.: però è da notare che la differenza di livello da guadagnare è di 2880 m., come si è detto. Nel 1896, con un accordo tra il comune di Nicolosi, il Club alpino e l'Osservatorio, si cercò di ristabilire su per le lave l'antica via diretta da Nicolosi per monte Rinazzi; ma poi vennero a mancare i fondi, e non ri- sultò che un sentiero pietroso e scabroso, che uomini ed animali percorrono con fatica e mal volentieri; e quindi per lo più si continua ad andare per la suddetta via che gira a Sud ed ad Ovest dei monti Rossi. Nel 1900 i sigg. Caponetto, proprietari di grandi estensioni di terre sul versante meridionale dell’ Etna, proposero di fare una via carreggiabile di circa 9 Km. da Nicolosi fino a Casa del Bosco, una delle consuete tappe del viaggio alla cima dell’ Etna e masseria principale dei sigg, Caponetto ; però essi ponevano per condizione d'avere un sussidio dal Governo per il vantaggio che ne sarebbe risultato al paese ed all'Osservatorio. Ma la do- manda fatta al Ministero della Pubblica Istruzione ebbe risposta evasiva. E finora non è maturato alcun progetto che possa facilitare l’accesso ai vi- sitatori del vulcano ed aumentarne l’affluenza, e nello stesso tempo rendere più agevole e più proficuo alla scienza il servizio dell'Osservatorio Etneo. Rifugi. — Anticamente gli unici rifugi lungo la via alla cima del- l'Etna erano l'antica Casa del Bosco (alt. m. 1615). a nord di monte Ca- priolo, di cui ora restano solo pochi ruderi, e la Grotta degli inglesi, cavità naturale nella lava, all'altitudine di circa 1650 m., di poco a ponente del sentiero che va all'Osservatorio. Costruito nel 1810 da Mario Gemmellaro di Nicolosi il rifugio o casa, detta la Gratissima e poi Casa degli Inglesi (per il contributo che nel 1811 diede l'ufficialità della flotta inglese per la migliore riedificazione), la Grotta degli Inglesi fa abbandonata. Quindi fu costruita l'attuale Casa Ferrandina o nuova Casa del Bosco (alt. m. 1438) che serviva di tappa nel viaggio e per abbeverare gli animali. Nel 1894 coi fondi della sezione catenese e della sede centrale del Club alpino italiano e con un sussidio del Ministero della P. Istruzione fu co- n i struita una cantoniera meteorico-alpina (alt. m. 1882) a sud di monte Ca- stellazzo, nella quale l'Osservatorio ha una camera per uso proprio e l’uso comune dei locali di servizio col Club alpino. Nel 1903 si è costruito un altro piccolo rifugio all’altitudine 2500 m. ad Est del Castezlo di Piano del Lago, il quale ultimo non è altro che un mucchio di pietre per segnale. In questo luogo, alto ed aperto, più spesso s'incontrano venti violenti e bufere di neve, le quali in passato non di rado obbligavano a retrocedere i viaggiatori giunti già alla distanza di poco più di 2 Km. dall’Osservatorio Etneo. Cosicchè attualmente il viaggio da Nicolosi all'Osservatorio Etneo è di- viso in tre od anche quattro tappe, il che lo rende più facile e più sicuro, spe- cialmente d'inverno; nella quale stagione i muli possono arrivare fino a Casa del Bosco, o tutt'al più alla Cantoniera, perchè raramente la neve è così fortemente gelata da sopportarne il peso; ed anche gli uomini per lo più affondano molto nella neve, tanto che la salita riesce assai faticosa e lenta. Comunicazioni. — L'isolamento completo in cui si trovava prima l’Os- servatorio Etneo era causa di preoccupazione per la sicurezza del personale ed ostacolava parecchi studî. Nel 1897 si ottenne dal Ministero di Poste e Telegrafi la concessione gratuita del materiale sospeso per una linea tele- fonica da Nicolosi all'Osservatorio Etneo. I Ministeri dell’ Istruzione, dello Interno, dell'Agricoltura, la Camera di Commercio di Catania, il Club alpino italiano e la Sezione di Catania contribuirono con delle somme, talchè nel 1898 si potè impiantare la detta linea, lunga 17 Km., che funzionava be- nissimo. Ma nell'inverno la neve forma dei grossissimi manicotti attorno al filo, i quali, e per il loro peso, e perchè investiti dai venti violenti, producono fre- quenti strappi nel filo, rottura degli isolatori, ripiegamento dei bracci, ecc. quan- tunque il materiale sia di singolare solidità e la distanza dei pali di so- stegno nel Piano del Lago sia ridotta a soli 20 m. Avendo notato che la comunicazione telefonica era possibile anche quando, essendo rotti gli isolatori il filo posava sui bracci di ferro e quando la linea era stata abbattuta sulla neve, e ricordando che l'illustre astronomo Janssen aveva potuto telegrafare dal monte Bianco col filo della linea po- sato sulla neve, feci attaccare la nostra linea nel Piano del Lago con sem- plici ramponi di ferro piantati nei pali a circa 1 m. di altezza per modo che sia poi coperta dalla neve nell'inverno. Effettivamente la comunicazione telefonica è abbastanza buona, tanto col filo sospeso ai ramponi, che quando è sepolto nella neve. Bisogna con- cludere che per le correnti telefoniche, che hanno basso potenziale, il legno di castagno dei pali e la neve sono sufficientemente coibenti. Però anche con questo espediente le interruzioni sono frequenti, tanto pg più che si hanno non rare fulminazioni nella parte men alta della linea, che è nella regione dei temporali frequenti. Sarebbe sommamente desiderabile o una linea sotterranea, o meglio, Ja comunicazione diretta dei due Osservatori col telegrafo senza fili di Mar- coni, qualora si avessero i mezzi per l'impianto. Vediamo ora come all'Osservatorio Etneo si provveda ai bisogni della vita. Acqua. — Sull'Etna non vi sono nè corsì d'acqua, nè sorgenti, perchè la lava e le sabbie vulcaniche sono permeabilissime: solo al piede del vul- cano dove le argille trattengono le acque, queste sgorgano alla superficie in alcune sorgenti. Nella direzione Catania-Nicolosi l'ultima sorgente è la fontana pub- blica della Barriera all'altitudine di m. 190; alquanto più sopra fino a Gra- vina (360 m.) vi sono alcuni pozzi scavati attraverso le roccie vulcaniche fino ad arrivare alla roccia di sedimento. Più in alto ancora si fa uso esclu- sivo di acqua di cisterna. Però in quella regione eccezionale che è la Valle del Bove vi sono sor- genti tino all'altitudine di circa 1000 m. All'Osservatorio Etneo non si può utilizzare per l'alimentazione l'acqua che cade dalle tettoie, perchè queste sono dipinte ad olio e biacca, onde siano meno intaccate dalle emanazioni del cratere centrale; non si possono avere cisterne in muratura, perchè sarebbero rotte dal gelo e dai movimenti fre- quenti del suolo; occorrerebbero dei serbatoi di metallo inalterabile (per esempio di nikel), e pertanto molto costosi. i Quindi si fa uso di acqua di neve fusa al sole o al fuoco e poi filtrata, che però ha sempre un cattivo sapore. Nell'estate la neve si procura da una specie di piccolo ghiacciaio, che per lo più persiste fino alle prime nevicate d'ottobre, e si trova a circa 2/» Km. a NNW dell'Osservatorio; oppure la neve si provvede dalla Cisterna piccola a 300 m. ESE dall’Osservatorio, od anche dalla Cisterna grande o Cisternazza, a 1°/, Km. SSE. Queste cisterne, specie di ghiacciaie naturali, ove ordinariamente sì mantiene la neve per tutto l'anno, sono dei crateri di esplosione del vulcano. La cisterna piccola ha servito pure come cava di pietra vulcanica per la costruzione dell'Osservatorio. Però in alcuni anni la neve è stata così scarsa nell'autunno, che sì è dovuto portare l'acqua da Nicolosi o dalla Casa del Bosco. Alimentazione. — Nell'aria dell’Osservatorio Etneo, fredda, asciutta, antisettica, per le emanazioni del cratere centrale, le provviste da bocca si conservano benissimo. La cottura della pasta (alimento eccellente ed indi- spensabile nell'Italia meridionale) riusciva pessimamente nelle pentole or- dinarie, perchè lassù l'acqua bolle a solo circa 90°. Ho fatto ridurre a pen- tola di Papin una comune pentola di ghisa, caricandone opportunamente la Lie; DO valvola con un peso, e dopo di allora la cottura riesce ottima, con grandis- sima soddisfazione di quella gente semplice e frugale: impiegati subalterni, operai, mulattieri, per i quali i maccheroni sono il cibo preferito, anzi indi- spensabile. Riscaidamento. — Siccome l'Osservatorio Etneo sta nella regione de- serta dell’ Etna, fino a 5 Km. di distanza non vi sono, nè boschi, nè piante arboree isolate, perciò si adopra come combustibile carbone o petrolio. L'Osservatorio Etneo è costruito con grossissimi muri, rivestiti ester- namente di lava lavorata,e nell’interno le pareti sono rivestite di legname; i pavimenti sono di legno, le invetriate doppie; cosicchè quando non spira vento fortissimo, si è ben riparati. Vi sono nelle camere dei caminetti, ma il f#raggio è insufficiente per la poca altezza della canna fumaria, e perchè spesso disturbato dal vento violento, dalla neve ecc. Una stufa di ferro portata lassù, fu ben presto corrosa e resa inservibile. In conclusione per il riscalda- mento ordinariamente si è ridotti all’ uso del malsano ed infido braciere; al quale d'altronde il personale subalterno è abituato ed affezionato. Ma questo mezzo di riscaldamento, che può bastare nella buona stagione, è affatto insufficiente d'inverno; per conseguenza nelle camere allora si ha sempre una temperatura vicina a zero. A 300 m. NNE dall'Osservatorio vi è il Vulearolo, piccolo cratere che da tempo immemorabile emette continuamente grandi masse di vapore acqueo caldissimo, che con spesa non grandissima, potrebbesi condurre all’Osserva- torio e dare per condensazione ottimo riscaldamento ed acqua tepida, utilis- sima per tanti usi e fors'anche potabile dopo raffreddamento ed aerazione. Mal di montagna. — All'altezza dell’Osservatorio Etneo non tutti ne sof- frono edin egual modo; si hanno i seguenti gradi : accelerazione del polso, svo- gliatezza ad agire, inappetenza, nausea, vomito, cefalea e qualche volta anche febbre. Generalmente le persone sane e robuste ne risentono meno, ma non è sempre così. Non pare vi sia influenza della stanchezza, perchè quelli che salgono a piedi non ne soffrono più di quelli che vanno a cavallo. Quasi sempre i disturbi diminuiscono e passano dopo i primi giorni. To sono stato all'Osservatorio Etneo fin 17 giorni di seguito, godendo ottima salute, ed il custode Galvagno vi è stato per 60 giorni continui. Anzi quando si torna di lassù in generale si ha aspetto più florido, non foss'altro per la forte colorazione che assume presto la pelle per il noto effetto della radiazione solare più viva sulle montagne in grazie della maggior trasparenza dell’aria. Emanazioni soffocanti. — Quando il vento spingo sull'Osservatorio le emanazioni del cratere centrale, fra le quali si fa sentire specialmente l’idro- geno solforato, si prova un senso penoso di nausea e di soffocazione. Non vi è altro rimedio che chiudere ermeticamente l’Osservario ed attendere che cambî pt vento. Però non è mai accaduto di dover lasciar l'Osservatorio per questo inconveniente. Eruzioni. — Dal 1804, epoca della fondazione del primo rifugio, non vi è ricordo, nè indizio che il posto occupato dall'Osservatorio sia stato toccato da eruzioni. Nel 1863 la lava traboccò dal cratere centrale e si diresse verso quel rifugio, detto allora Casa degli Inglesi, ma poi deviò verso ponente. Nel 1868 vi fu una eruzione centrale di materiale incandescente tanto colos- sale che fu vista fin da Malta, ma la detta Casa non fu colpita. Nel 1899 al 19 luglio vi fu una eruzione del cratere centrale di una grande colonna o pin0 di materiali incandescenti e densi vapori, ed altre si- mili eruzioni minori al 25 dello stesso mese ed al 5 agosto successivo. L’Os- servatorio fu proprio bombardato: la cupola di ferro dello spessore di 3 mm. fu traforata in 28 punti: due grosse pietre infuocate, dopo trapassata la cu- pola, attraversarono il pavimento di legno del piano superiore e quello del- l’inferiore, carbonizzando il legno e si piantarono nel terreno sottostante. Un altro proiettile attraversò il tetto del corpo laterale ed andò a cadere proprio sul letto del custode; il resto della tettoia fu colpito in una quarantina di punti. Un mucchio di fimo secco, che stava fuori della scuderia, fu incenerito. Sicurezza. — L'immunità precedente e l'abitudine avevano reso il per- sonale fidente nella sicurezza dell’Osservatorio Etneo, e se accadeva che qualche volta si fosse svegliati dai rumori del cratere centrale o da qualche scossa di terremoto, si ripigliava poi facilmente sonno. Ma dopo la suddetta eruzione del 1899 non sì può essere più così tranquilli. Pertanto feci subito costruire quattro cuccette di sicurezza nello spessore fortissimo dei muri, le quali si pos- sono ritenere a prova delle bombe vulcaniche. Da principio il personale vi si coricava, ma tornata la calma nel cratere centrale, ben presto fu dimenticato il pericolo ed ora si dorme di nuovo nei letti, ove la mancanza d'aria si sente meno che nelle cuccette; ad ogni modo queste son pronte in caso di minaccia del nostro vicino, ed anche per il caso più frequente di affluenza di visi- tatori. Gelo ed umidità. — Nell'inverno e nella primavera l'Osservatorio Etneo resta parzialmente sepolto sotto la neve, per 4 0 5 m., cioè sino al secondo piano, ed allora si entra salendo dal tetto del primo piano, e dalla finestra centrale del secondo, che in vista di ciò ha una speciale costruzione. Però attorno all'Osservatorio resta come un corridoio, largo circa un metro, libero di neve fin quasi al suolo. Questo fenomeno si verifica pure all'Osservatorio del M. Bianco, ed è prodotto dal giuoco dei venti che allontana la neve ca- dente d’attorno all'edificio; e forse vi contribuisce pure il calore immagaz- zinato durante l'estate nella massa notevole del fabbricato, che fa fondere la neve vicina alle pareti. Durante la cattiva stagione l'umidità penetra nei muri, fa cadere gli intonachi e deteriora le serrande. SOT e La cupola di ferro poi, raffreddata dall'aria gelida esterna, agisce da con- densatore per l'umidità dell’aria interna, e l’acqua di condensazione cade e gela nell'interno. Da ogni apertura, da ogni fessura, donde possa entrare l’aria esterna, si forma nell'interno neve e ghiaccio in quantità. Strumenti meteorici. — L'alternarsi di umidità, geli, emanazîoni corrosive, alle cime dell'Etna, fa sì che i metalli sono presto ossidati ed intaccati; gli olii ed i grassi lubrificanti inspessiscono, le vernici si sgretolano: quindi oc- corrono frequentissime riparazioni; e ciò specialmente per gli strumenti che debbono stare esposti all'aria libera. Il termobarografo (1) appositamente costruito dal rinomato Richard, con corsa di 2 mesi, nell'inverno si fermava spesso, anche se lubrificato con olio incongelabile. Il motore a pendolo si arrestava per qualunque piccolo impe- dimento, o resistenza, o movimento della macchina o del suolo; inoltre il meccanismo di compensazione, per eliminare l'influenza delle variazioni della temperatura interna, non funzionava regolarmente. Dopo molte prove, dopo averlo ripulito, riparato e riportato lassù due volte, abbiamo dovuto rinun- ziare a servircene all'Osservatorio Etneo. Nel 1897-98 feci costruire nella officina dell’Osservatorio di Catania uno strumento registratore della pressione, temperatura ed umidità, munito di un robustissimo orologio motore. L’avevamo messo da poco in prova all'Os- servatorio Etneo, quando avvenne l'eruzione centrale del 1899, nella quale l'Osservatorio fu anche invaso da vapori caldi ed acidi e quello strumento ebbe gravi guasti. Dopo questo secondo insuccesso si sono adoperati i comuni registratori Richard, favoritici dall'Ufficio centrale di Meteorologia e Geodinamica; i quali funzionano benissimo anche lassù, ma hanno una sola settimana di corsa; e per noi sarebbe troppo gravoso d'estate, impossibile nell'inverno, andare lassù ogni 8 giorni per caricarli. Ultimamente nell’estate scorsa 1906 ho acquistato dal Richard uno dei suoi termometri registratori, con corsa di un mese, di costruzione semplice (tipo n. 3). Nella buona stagione ha funzionato bene, ma poi è venuto un inverno pessimo, e per tre mesi è stato impossibile salire all'Osservatorio Etneo, cosa veramente eccezionale. Del resto anche in altri Osservatori d'alta montagna si sono incontrate gravi ed anche insormontabili difficoltà a far funzionare da soli i meteoro- grafi: citerò solamente l'esempio dell’Osservatorio del M. Bianco (*). Il termometro asciutto ed il bagnato per la determinazione della tem- peratura e dell'umidità furono collocati all'Osservatorio Etneo nell'estate 1891 e d'allora in poi se ne fece l'osservazione, ma con irregolari intermittenze; (1) Loco citato, p. 46. (?) Annuaire pour lan 1896, publié par le Bureau des Longitudes, pag, D. 8. i ge il termobarografo Richard fu collocato nell'agosto 1892; il barometro De- ceuil (sistema Fortin) dovette essere riparato e fu riportato lassù ed osser- vato solo dal febbraio 1893 in poi; l'evaporimetro fu collocato nel 1892. Quanto al pluviometro, siccome il gran vento lassù impedirebbe di rae- cogliere la pioggia e la neve con uno strumento di ordinaria costruzione, abbiamo fatto fare un pluviometro di grande capacità con imboccatura tronco- conica ristretta, affinchè possa ricevere e mantenere, malgrado il vento vio- lento, l’acqua e la neve in quantità notevole; ed è poi così disposto, che dal- l'interno dell'Osservatorio si possa con un fornello a petrolio far fondere la neve ed il ghiaccio che contenga. Malgrado ciò spesso si vedono le tettoie gocciolare per la pioggia, mentre nel pluviometro non sì trova acqua. Questo strumento, fu collocato nel 1894. Per l'osservazione del vento non abbiamo un anemografo, la cui buona collocazione e manutenzione, specialmente per la parte esposta del meccanismo, presenterebbe serie difficoltà per il vento, il gelo, le emanazioni vulcaniche corrosive, ed in causa delle lunghe assenze del personale. Si aggiunga che l'Osservatorio Etneo è riparato alquanto dal vento di NW, che è il più frequente dalla massa del gran cratere. Fortunatamente il fumo che esce quasi sempre dalla cima del vulcano dà una indicazione sicura della direzione del vento, che è quella che si nota; l'intensità o forza del vento si stima in gradi: 0= calma, 1= debole, = moderato, 3 = forte, 4= fortissimo, 5 = uragano. L'osservazione della direzione del vento è controllata e completata da quella che si fa pure all'Osservatorio di Catania della direzione del fumo dell'Etna. Osservazioni meteoriche. — Iniziate all'Osservatorio Etneo nel 1891, hanno assunto maggiore regolarità dal 1903, cioè da quando si prende parte alle osservazioni internazionali dell’alta atmosfera, le quali si fanno per re- gola, anche con ascensioni aerostatiche, al primo giovedì di ogni mese. In quel giorno si fanno all'Osservatorio Etneo osservazioni dirette ad ogni ora, le quali sono anche controllate dai registratori; negli altri giorni le osser- vazioni dirette si fanno sempre ad ore 6, 9, 12, 15, 18, 21. Il personale resta lassù almeno una settimana, anche nell'inverno, quand'è possibile. Difficoltà. — Oltre quelle esposte, derivanti dalla posizione speciale dell'Osservatorio Etneo e dalla neve nell'inverno, vi sono altre ragioni per cui il servizio meteorico lassù non può essere regolare e continuo. 1) Primieramente quell’Osservatorio fu ideato e fatto costruire dal com- pianto prof. Tacchini, non per funzionare in modo continuo, ma solamente per compiervi ricerche speciali, preparate all'Osservatorio di Catania; e perciò i locali sarebbero inadatti ed insufficienti per un soggiorno continuato: oltre i locali d'osservazione e servizio, vi sono soltanto 3 camere per tutti gli altri usi. RR 2) Il personale è stato sempre in numero troppo scarso per i due Osser- vatori; da principio: direttore, 2 assistenti, meccanico, custode, 2 inservienti; solo al 1905 si è avuto anche un astronomo aggiunto. 3) Il personale è pagato molto parcamente (come o meno che negli altri Osservatori), e non ha diritto ad alcuna indennità quando va a prestare servizio all’ Osservatorio Etneo. 4) La dotazione, eguale o minore di quella d'altri Osservatori italiani, fu da principio assegnata per il solo Osservatorio Etneo, poi ha dovuto ser- vire anche per quello di Catania, quindi è sempre stata ed è tuttora (dopo un recente aumento di L. 500), affatto insufficiente per mantenere come si dovrebbe due Osservatorî, dei quali l'uno si è molto sviluppato e l’altro si trova in condizioni del tutto eccezionali, che richiedono forti spese per trasporto di persone, di strumenti, di provviste, per frequenti riparazioni ai locali, alle suppellettili, agli strumenti, in causa delle forti intemperie cui sono esposti e per l'azione corrosiva delle emanazioni del vicino gran cratere; senza par- lare dei danni maggiori, fortunatamente rari, per terremoti ed eruzioni. Debbo però dire che dal 1897 l'Ufficio centrale di Meteorologia e Geo- dinamica ci accorda un sussidio di L. 500 annue per le osservazioni meteo- riche: e che l'Osservatorio ha altri assegni per la sezione geodinamica e la rete sismica della Sicilia, come anche per l'esecuzione della parte spettante all'Italia nell'impresa internazionale della Carta e Catalogo fotografico del Cielo stellato; ma questi fondi debbono essere esclusivamente spesi per lo scopo speciale cui sono destinati. Discussione delle osservazioni. — Quando fu compilato il primo saggio di Meteorologia dell'Etna, non si disponeva di una serie sufficiente di regi- strazioni per conoscer bene l'andamento diurno, e non si potè adottare il me- todo delle differenze (che presta tanti utili servigi in Meteorologia), perchè allora erano iniziate solo da pochi anni le osservazioni meteoriche all’Osser- vatorio di Catania e non esistevano, o non erano pubblicate, altre serie di osservazioni meteoriche, lunghe ed omogenee, fatte in luoghi vicini all'Etna. Ora ci possiamo valere di 15 anni di osservazioni regolari fatte all Osser- vatorio di Catania ed anche di 31 anni di buone osservazioni fatte a Riposto nell’ Istituto Nautico. E pertanto si è ricavato dai registratori l'andamento diurno per deter- minare le correzioni da introdurre nei valori osservati nelle ore 6, 9, 12, 15, 18 e 21 per ridurli al medio, e poi si è ridotta la serie discontinua, col me- todo delle differenze con Catania e Riposto, ad una serie continua di 15 anni (1892-1907). (dd ReNDpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. SPRAY frena Fisica terrestre. — Secondo riassunto delle osservazioni me- teorologiche esequite all’ Osservatorio su l Etna dal 1892 al 1906 ('). Nota dei dott. L. MENDOLA e F. EREDIA, presentata dal Corrispondente A. Riccò. In questa Nota diamo il riassunto di una Memoria di prossima pubbli- cazione su la « Meteorologia dell'Etna » indicando brevemente i metodi seguiti per ciaschedun elemento, e i risultati per stagioni meteoriche, per semestri freddo (dal novembre a l'aprile) e caldo (dal maggio a l'ottobre) e annuali delle osservazioni eseguite a l'Osservatorio sull'Etna (2947 m.) nel quin- dicennio 1892-'906. Quantità delle osservazioni. — In questo periodo il numero de’ giorni di osservazione è stato: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 1892 — = 5) 7 —_ 12 12 93 d 4 40 24 TIRO To 94 "i 8 47 23 13 60 82 95 6 8 97 15 8 78 86 1896 d dol 38 29 rd 65 82 97 19 16 5) 593) 45 100 145 98 13 54 54 27 S4 94 128 99 4 14 ‘26 29 12 61 73 1900 31 s1 57 44 62 101 163 Ol 9 27 26 28 36 04 90 02 16 20 44 15 37 08 95 03 15 18 dd 22 30 69 SS 1904 18 20 39 27 36 62 98 05 7 15 32 17 24 47 71 06 19 17 30 20 28 52 80 Totale 162 043 Wss . 382° 398. °° 9320000 (1) Un primo riassunto fu eseguito con le osservazioni del 1892-95 e presentato dal chiar.mo prof. A. Riccò a quest'Accademia nella Seduta de’ 26 aprile 1896 (cfr. questi Rendiconti, ser. 5%, vol. V, 1° sem., p. 306). In una Nota che lo stesso prof. Riccò pre- senta in questa Seduta, egli espone tutto ciò che riguarda gli strumenti e il modo col quale furono eseguite le osservazioni. OI Secondo le diverse ore del giorno il numero delle osservazioni di tem- peratura (poco differente per gli altri elementi) è stato: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 6h 136 202 501 325 316 888 1154 9 130 202 501 320 817 836 1153 12 136 213 505 329 332 851 1183 137 200 510 318 322 843 1165 13 134 204 915 316 322 847 1169 21 ali 198 507 310 309 832 1141 Totale (1) 794 1214 2979 1928 1918 5047 6965 D_D PD D pa a Ut Temperatura dell’aria. — Da le registrazioni ottenute col termografo ordinario Richard (884 giorni completi dal dicembre 1900 al dicembre 1906) si sono ricavati tutti i valori di 2 in 2 ore, corretti da l'andamento dell'ap- parato motore. Questi con metodo speciale sono stati sceverati dalle influenze che non hanno periodo nelle 24%; con opportuni paragoni con le osservazioni dirette sono stati ridotti a la scala centigrada, e si è ricavato così l'andamento medio diurno per ogni mese di 2 in 2 ore. Da questi valori sì sono ottenuti i coefficienti di 12 formole besseliane, le quali hanno servito a regolarizzare l'andamento e a calcolare per ogni mese e per ciascuna delle 24 ore lo scarto della temperatura dal valore medio. Si è ottenuto così: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno SI E 59 0,99 CO 600 e 1009 — 0.94 ce 03 00 oo 079 57 S1i3 — 085 SS o 0,06 Poz 088 — oli e a 007 o eo 29 0 850168) 127 et 70 RIS 080 St: I] 05 ESSNi9 09 11,07 IR 038 050,24 N02 9 45,00-1.0,33 0 n ie 0,45 Snoop, (20,39 ee are o 10 —0;65 280.48. —_.0,96.:-10,72 Nell'anno si ha l'ora del massimo alle 18 e l'ora del minimo alle 4. Applicando i valori di sopra (col segno cambiato) alle medie osservate a 6,9, 12, 15, 18, 21°, si sono ottenuti per la temperatura osservata i se- guenti valori medi: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno — 59,84 — 29,70 + 7°,04 + 1°,85 — 4962 -—+ 49,79 + 09,09 (1) Non vi sono comprese le osservazioni orarie simultanee de’ giorni 26-27-28 luglio 1897 e 28-29 marzo 1898, e le osservazioni internazionali per il lancio de’ palloni ese- guite al primo giovedì di ogni mese di 2 in 2 ore da l’aprile 1901 al dicembre 1902 e ad ogni ora dal gennaio 1903 in poi. ccogre Ma questi non appartengono a una serie continua: per ridurveli si sono ricercati i valori medi mensili della temperatura osservata in Catania negli stessi giorni e ore (9, 15 e 21) di osservazione a l'Etna e si è rica- vata la differenza fra questi valori e quelli che sono assunti provvisoriamente come normali (*/, [IX -- XXI" + Max + min] del quindicennio 1892-906) per l'Osservatorio di Catania. Applicando il metodo delle differenze si è ottenuto per la temperatura dell’aria ridotta a osservazioni continue (1892-906): Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 70,12 —189,58 59,920 100,75004E 59,77: | 30770 NEO Questi valori risultano inferiori ai precedenti: ed era da aspettarselo, giacchè nelle giornate più rigide sovente non è stato possibile accedere 2 l'Osservatorio Etneo per eseguìrvi delle osservazioni dirette, che per ciò ri- sultano in tal caso meno frequenti. Operando analogamente con la serie di Riposto si ha per il trentu- nennio 1876-906: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno — 70,231 \— 9952 4 50,780 00:26) — 50,80 L30047 SNO E come media pesata da ambo le stazioni : Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno — 79,20 — 39,42 -+ 59,82 + 09,42 — 59,75 -+-39,57 — 19,09 Da questi si ricava il valore del gradiente termico medio per ogni 100 m. di altitudine: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 09,62 09,63 09,65 09,65 09,63 09,65 09,64. E per valore del gradiente altimetrico per ogni grado di temperatura: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno m. 161 155 159 158 159 153 156 Annualmente si ha il minimo nel febbrajo e il massimo nel luglio-agosto. Gli estremi assoluti di temperatura osservata sono: Massima: + 199,1 (5 agosto 1896) Minimo: — 150,3 (16 gennajo 1902) Escursione: 34°,4. In Catania nel quindicennio s'è avuto un'escursione di 420,9. Da’ registratori si è anche ricavata l'escursione media diurna della tem- peratura: essa è Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 3°,81 4°,21 5°,42 49,50 39,92 49,95 49,44. sO Attinometria e fotometria. — Nel settembre 1904 uno di noi insieme col dott. A. Bemporad eseguì osservazioni attinometriche simultanee all'Os- servatorio Etneo ed all'Osservatorio astrofisico di Catania, nell'intento di studiare anche per le radiazioni calorifiche il fenomeno dell’assorbimento se- lettivo dell'atmosfera, già dimostrato per le radiazioni luminose da un prece- “ dente lavoro del Bemporad. Le osservazioni eseguite ne' giorni 13 e 14 su raggi molto radenti all'orizzonte (da 75° a 89° di distanza zenitale) hanno confermato pienamente anche pe’ raggi calorifici il fenomeno dell’as- sorbimento selettivo, sebbene le osservazioni fossero in parte ostacolate da un'altro fenomeno, caratteristico delle stazioni molto elevate, come l'Etna, e già studiato dal chiar.!"° prof. Riccò, dipendente da le correnti umide, che salgono lungo i fianchi del monte con l’alzarsi del sole su l'orizzonte. I risultati ottenuti (') sono raccolti nella seguente tabella, dove i valori di g s'intendono misurati in gradi dell’attinometro Arago, e il coefficiente di trasmissione p è relativo alla massa dell'intera atmosfera in direzione verti- cale, però per visuali molto inclinate su l'orizzonte. Distanza Intensità della radiazione Valori i Settembre 13 Settembre 14 del cocff. di trasm. p Catania Catania Etna Catania Etna Settem. 13. Settem., 14 VE — — 6,00 9,18 —_ 0,633 80 4,33 1,54 4.20 7,98 0,716 0,683 84 2,99 5,99 2,94 6,35 0,707 0,694 36 1,23 4,81 n IESIO 5,18 0,712 OSTALZ 87 0,73 4,08 0,91 4,41 0,719 0,738 88 0,34 3,92 0,52 3,64 0,734 0,767 88,5 0.20 2,95 0,36 3,27 0,745 0,787 Le osservazioni fotometriche poi hanno confermato che il valore del coefficiente di trasmissione dell'atmosfera per le radiazioni luminose è sensi- bilmente minore del valore comunemente ammesso di 0,8. Il valore ottenuto, p=" 0,322, accorda soddisfacentemente con quello, p= 0,364, già dedotto da le osservazioni di Miller e Kempf (1894) negli stessi Osservatorî di Ca- tania e dell'Etna. Pressione atmosferica. — Si è seguito un procedimento esattamente analogo a quello sopra descritto per la temperatura dell’aria, Si è ricavato così: (') Bemporad A. e Mendola L., Osservazioni attinometriche e fotometriche eseguite nell’Osservatorio di Catania e nell’Osservatorio Etneo nel settembre 1904. (Nota preli- minare). Boll. dell'Acc. Gioenia di sc. natur., fasc. XCIII. DESTRO pre Per l'oscillazione media diurna da 371 giorni completi di registrazione (giugno 1902-dicembre 1906): Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno’ gh leZi922 Ve 10,320 4739 MS 6 — 048! le 0,745 = a Sa 9 -+0,19; (0,1405008 (o 19 So RE 12 0/10 -0,2700680,37 deo 015 ee 15 2-40;25” — (0,1100280, 19 009 092 LI VM 18 20,08! — ‘0,1002004 pool 01 e 2] 210,831 | 0,30 WElS9,22 Ll0,36" 033) Sane 24 i i9129| 020 Mei e ae E per i valori medi ridotti per differenza con Catania al quindicennio completo 1892-906 (diminuiti di 500 mm.): Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 30,77 31,51 38,88 56,70 30,98 37,82 34,40 Come per la temperatura, si ha il minimo di pressione nel febbraio e il massimo nel luglio-agosto : tale differenza media supera di poco i 10 mm., mentre in Catania va poco al di là di 3,6 mm. ed è in senso contrario. Tensione del vapore acqueo. — Con speciale procedimento, basandoci su la nota relazione fra temperatura, umidità relativa e tensione del vapore acqueo sono stati ridotti i valori di questa ottenuti direttamente nelle 6 ore di osservazione a valori medi quali risulterebbero da 8 osservazioni quotidiane con l'intervallo di tre ore. L'andameuto diurno presenta nell’anno un massimo a 15° e un minimo a 24°. I valori ottenuti, ridotti al quindicennio completo 1892-906, sono: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 1,66 2,44 4,01 3,29 1,95 3,79 2,85 Umidità relativa. — Esaminando graficamente i valori medi ottenuti nelle 6 osservazioni quotidiane, si trova che presentano una regolarità quale non potrebbe meglio desiderarsi, con un massimo a 15° e un minimo a 3°, al contrario di quanto avviene in Catania e nelle stazioni di pianura. Comple- tando la curva cui questi valori dàonno luogo, si sono ottenuti i valori corri- spondenti a 3° e 24. Per ricavare poi per i singoli mesi i valori corrispon- denti a queste due ore che mancano nella serie di osservazioni dirette per averne 8 quotidiane equidistanti, si è creduto opportuno, invece che per dif- ferenza, determinare i coefficienti per i quali bisogna moltiplicare i valori di 6% e 21° per ottenere rispettivamente quelli di 3% e 24h: si è trovato così : IIIR — 0,997 VIb NOXGIVOL — (0197 9NXAUR: = Ricavati in tal modo i valori medi diurni per i giorni di osservazione sono stati ridotti col solito metodo per differenza con Catania al quindicennio completo 1892-906. Si è ottenuto: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 63,0 62,9 99,4 66,0 63,6 59,1 61,3 Vento. — La direzione del vento viene determinata da quella del fumo emanato dal cratere centrale, eliminando in tal modo l'influenza che questo certamente ha sul vento che spira a l'Osservatorio. Su 1000 osservazioni si è avuto come media di tutti i mesi dell’anno: calma N NE E SE S SW NW 77 54 99 42 16 I 24 65 609 3 donde si vede che il vento dominante è il NW, che è quello (più esattamente il NNW) dal quale è riparato l'Osservatorio dal cratere: ciò avviene in tutti i mesi dell’anno (da un massimo di 746 °/so nel marzo a un minimo di 496 nell'ottobre), e in tutte le ore del giorno (da un massimo di 652 °/oo a 15° a un minimo di 531 a 9°). L'intensità del vento, espressa nella scala da 0 a 4, ci dà (su 1000 os- servazioni con peso eguale per tutti i mesi) le seguenti frequenze: calma debole moderato forte fortissimo 77 343 204 299 76 Secondo le diverse ore del giorno si presentano più frequenti le calme a 21°, i venti deboli a 12°, i moderati a 15°, i forti a 21°, i fortissimi AM0n: Nebulosità. — Nel periodo da 6 a 21° si ha il massimo di nebulosità a 15°, il minimo a 21%; nell’anno si ha il massimo in gennajo, il minimo in luglio. Computando la nebulosità in centesimi di cielo coperto si hanno i se- guenti valori: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno 42,9 40,5 26,2 38,9 42,9 32,7 37,0 Dalle osservazioni simultanee della nebulosità in Catania si ha che ne’ 5 mesi maggio a settembre essa è maggiore a l'Etna che in Catania; al contrario negli altri mesi. Ma è necessario osservare subito che ne’ mesi più freddi si scelgono le giornate più serene per andare a l'Osservatorio Etneo, e perciò si può senza alcun dubbio asserire che in tutti i mesi dell’anno la nebulosità è maggiore a l'Etna anzichè in Catania. Da' giorni poi ne' quali si sono eseguite almeno 4 delle 6 osservazioni quotidiane, si è ricavato il carattere della giornata. Considerando come MO misti i giorni con nebulosità maggiore di 25 centesimi e minore di 75, come sereni e coperti gli altri, si ha (su 100 giorni di osservazione): Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno sereni SIA 41 61 SI 41 52 49 misti 38 41 36 47 38 41 40 coperti 25 18 4 13 22 7 11 Corrispondentemente in Catania si ha: Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno sereni 22 32 75 43 25 63 53 misti 45 46 24 41 46 81 35 coperti 53 22 1 16 39 6 13 Si è tenuto anche conto del numero de’ giorni in cui il cratere centrale è rimasto invisibile per nubi nel quindicennio 1892-906 aa le Stazioni di Catania e di Riposto, e nel dodicennio 1895-906 da quella di Randazzo. Sì sono avuti i seguenti risultati (ridotti a 100 giorni di osservazione): Inverno Primavera Estate Autunno Sem. freddo Sem. caldo Anno da Catania 60 56 33 59 61 43 52 da Riposto 62 60 37 61 66 47 97 da Randazzo 60 52 S1 60 59 42 51 Precipitazioni atmosferiche. — Tanto la quantità quanto la frequenza delle precipitazioni atmosferiche è a l'Osservatorio Etneo minore di quelle che si hanno in Catania. Come frequenza media si ha: Inverno Primav. Estate Autunno Sem. f. Sem. c.. Anno Giorni con pioggia 2 3 2 4 8 3 dal 7 » nevicata 12 8 2 8 20 10 30 d » grandine 1 1 3 4 2 7 9 Totale 12 5) 7 16 30 20 50 Queste ultime cifre sono all'incirca metà di quelle che si hanno in Catania; bisogna notare altresì che nelle nostre regioni le precipitazioni atmosferiche mancano ne' mesi estivi, e perciò su l'Etna le pioggie sono rare e sono surrogate da le nevicate o da cadute di nevischio. Riunendo tutte le osservazioni di nevicate, risulta che in media la prima nevicata suole verificarsi nella prima quindicina di ottobre, l’ultima nevi- cata nella prima quindicina di giugno e la neve scompare del tutto ai primi di agosto. ll Fisica matematica. — Trasettorie e onde luminose in un mezzo isotropo qualunque. Nota di AnTONIO GARBASSO, presentata dal Socio V. VOLTERRA. S 1. Il problema risolto in questa Nota è quello di determinare le forme dei raggi e delle superficie d'onda della luce, per uno spazio a un numero qualunque di dimensioni, nel quale l'indice di rifrazione sia dato come fun- zione delle coordinate. Secondo il principio di Fermat dovrà aversi 2 3 (nds=o0, (CA | quando l'integrale sia preso fra due limiti fissi; se è r ds NE > dor dps dpr, Tn i i vengono dunque le condizioni dm LI die 1 ZIA 9 ic = È i Mpa o=0, (1) pair Lola? [(@=2150 dA nelle quali , — Po 1 ds Le (1) furono da me stabilite in un lavoro recente, almeno per il caso particolare delle coordinate ortogonali (1). Ora il prof. V. Volterra ha avuto la cortesia di farmi osservare che le dette equazioni si riducono in più modi alla forma di quelle della dinamica. Se per esempio si pone r LS ia T nio Do Dr Uor Po Pr; 1 1 (‘) A. Garbasso (Mem. della R. Acc. delle Sc. di Torino (2), LVIII, 1906, pag. 1). RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 6 risulta Ancora più interessante è un altro procedimento, proprio anche del Volterra, che permette di arrivare in fondo senza che si cambi la variabile indipendente. Ponendo A = VI 1 H =(T)—x, sì ottiene dg ___?2H ds dPe 4 mentre è anche dpe 2H ds die In questa Nota io applico una terza trasformazione, distinta dalle pre- cedenti, la quale consiste nel porre (St n dal punto di vista analitico non si guadagna manifestamente nulla di essen- ziale, ma dal punto di vista fisico si ha il vantaggio di mettere il Zempo in evidenza. Facciamo intanto (1) Questa trasformazione è analoga ad altra, indicata dall’Appell (C. R., XCVI, 1883, pag. 689) e segnalatami pure dal prof. Volterra, relativa al problema del filo flessibile. (*) In questa formola è ove con 4 sì indichi il determinante delle 7? grandezze 407. PSA e le (1) assumeranno la forma dI T DST O did de Se = 1 Ao D'altra parte, se si scrive (*) goe= da n° dor Pr, 1 le (2) forniscono dge _ __23B e (3) diaz [orale ea] mentre la definizione (*) dà subito dpi _?dH (3’) Per le (2) le equazioni della propagazione della luce si riducono un'altra volta alla forma di Lagrange, mentre per le (3) e (3') assumono nuovamente la forma canonica di Hamilton. $S 2. Senza altri calcoli potremo dunque applicare alla nostra quistione il teorema di Jacobi (!), e cioè: « Se W è una soluzione completa della 07 > 0 (4) 73% 24° DI: PIO: | ») « e si indicano con (041 +. Kg DIO (0270001 « le sue costanti arbitrarie, le equazioni della propagazione potranno met- « tersì sotto la forma dW ; —_ Co è 5) se ee ni ( dog. Geiigie. dh mes" 0, « dove le @o e la £, rappresentano delle nuove costanti ». (1) La possibilità di ricondurre il problema del miraggio alla integrazione di un’e- quazione del tipo di Jacobi fu già risconosciuta dell’Appell. Egli si occupa però delle trajettorie e non dell'onda; si veda in proposito: Iraité de Mécanique rationelle, vo- lume II, pag. 43 e seguenti. Le prime 7 — 1 fra le (5) danno subito il raggio, la IW ws TA ‘o è una superficie mobile, che taglia di mano in mano la traiettoria nel punto dove arriva la luce. Eliminando fra le (5) le 7 —1 costanti @;, si otterrà la superficie dell'onda luminosa. $ 3. Come esempio del metodo, proviamoci a fare 1 rp I e, poichè il fenomeno deve essere di rivoluzione intorno all'asse 7, limitiamo il nostro calcolo al piano (4,7). Viene w=eytl| epr e ei — V/2h log a+ da ) e le (5) forniscono 1 GIA Gres zaga Ne, U/ VT La |van— V2hn= &@Ftap|=@, DAR E To IA bY2h at ba lc Poniamo adesso Di e mettiamo per condizione che x,y e # si annullino contemporaneamente, verrà . |VI=-@(a+ ba} VI—@@ yT a db TA a db 3 a_14ST= AF _ deb: MOI aa i La prima di queste equazioni individua la traiettoria: è una circonfe- renza di cerchio. Eliminando « sì ottiene y+ — L (gig 9) = (@_ 3 25 4 43 La superficie dell'onda è dunque quella di una sfera, che si va allar- gando, mentre il suo centro si sposta lungo l’asse delle x. Se diciamo X la « del centro, e R il raggio dell'onda, viene subito e cioè: la velocità di traslazione del centro si mantiene proporzionale al raggio. Se d tende a zero, l'onda si riduce a DAAZUREI come del resto si poteva prevedere. Meccanica. — Integrazione dell'equazione funzionale che regge la caduta di una sfera in un liquido viscoso. Nota del prof. GirusepPE PiccIATI, presentata dal Corrisp. T. Levi-CIvITA. Una sfera dotata di moto traslatorio rettilineo (uniforme o no) in seno ad un liquido viscoso incomprimibile è soggetta ad una resistenza, di cui sì sa assegnare l’espressione generale (*), quando il movimento del sistema abbia il carattere di moto « lento ». Questa resistenza, per un generico istante #, dipende in modo funzio- nale dai valori della velocità e della accelerazione in tutto l'intervallo di tempo che va dall’istante iniziale fino all'istante #. Si può in particolare proporsi lo studio del movimento rettilineo della sfera, quando sfera e liquido si trovino sottoposti all’azione della gravità. Si perviene ad un'equazione funzionale da cui si ricava nel modo più gene- rale l’espressione della velocità della sfera sotto forma di una serie, conver- gente per qualunque valore del tempo. Da questa espressione si deduce, con procedimento rigoroso, ciò che si era ammesso finora solo per intuizione fisica, cioè che la caduta della sfera tende a divenire uniforme, con la velocità che le compete nel moto stazio- nario, quando si fanno equilibrio il peso e la resistenza diretta. L'equazione funzionale che regge il periodo variabile della caduta è stata stabilita dal sig. Basset (*). Egli ne ha costruito un integrale appros- simato profittando della piccolezza del coefficiente di attrito. Quanto alla soluzione esatta il Basset osserva « It seems almost hopeless to attempt to determine the complete value ». (1) Vedi la formola (25) della mia Nota: Sul moto di una sfera in un liquido vi- scoso, Rend. Acc. Lincei, 2 giugno 1907. (2) A Treatise on Hydrodynamics, vol. II, pag. 291. Cad Apparirà dalla presente Nota come le attuali risorse dell'analisi per- mettano agevolmente di effettuare tale integrazione in modo esauriente. 1. Si consideri una sfera di raggio a, massa M e densità 7, immersa in un liquido incomprimible, viscoso, indefinito di densità o. La sfera ed il liquido essendo soggetti alla gravità, sia la sfera dotata di moto traslatorio, ed il suo centro descriva la verticale con la velocità V(t). Si suppone che il sistema si trovi inizialmente in quiete. Assumendo per asse < la verticale passante per il centro della sfera, indichi Z la resistenza diretta che essa incontra nel suo moto attraverso il liquido, e g l'accelerazione della gravità; avremo allora per il moto della sfera l'equazione (1) MV(=M9g—Z. Per la resistenza Z si ha ©) Z=6rakV() + V(0 + M9+ 60 rete ! V'(1) dr 0) pazzia i essendo 7 il coefficiente di attrito interno ed M' la massa del liquido spo- stato; la (1) assume così la forma (3) VO+AaV)—y=— wi [ ‘ Va) d avendo posto 90 ah 2n_2)9 (ir ’ Tgr 9 oca I) = (ate) de e Le ed indicando v=i il coefficiente cinematico di viscosità del liquido. Si tratta ora di trarre dalla (3) il valore della V(7). Seguendo il criterio delle approssimazioni successive, poniamo (5) vo= DI W,.(0), e determiniamo le W mediante le equazioni 1 Wò0+4W()=r, (7) W)+ We uv ba con la condizione di essere nulle per {= 0. Si verifica immediatamente che, nell'intervallo di tempo in cui la serie (5) è convergente, la sua somma fornisce la soluzione cercata della (3). So, A Le (6) e (7) si integrano immediatamente e danno, tenendo conto della condizione iniziale, (8) Wd=gA- e), fl: t D7 LA (9) W,(t)=— uv” 23 f ev du Wil) de Î 0 0 yu — È conveniente per il nostro scopo dare alle W,(f) un’altra forma va- lendosi della funzione et ANT (10) ®(1) 2 dr dC, Pet dt ve —T 0 Ve già introdotta dal Basset. La ®(t) è una funzione del suo argomento sempre finita per valori po- sitivi comunque grandi, e si annulla tanto per £=0 quanto per {= o. La sua derivata prima si può mettere sotto la forma (11) D)= = W00), da cui apparisco che essa è sempre finita, per # positivo, salvo che per {= 0, dove diviene infinita di ordine 4. Ciò posto, riprendiamo la (9); invertendo l’integrazioni con la regola di Diriclet essa può essere scritta SU t Ct piu Wa) = — pt e ("Wi (7) de 15 da: t Yu ug ma è anche tè pu t—T ONE +6) Di Le lf —dé=eND(i—- 1), tpau—e. o VE quindi risulta Al t (12) w.d=-—? f Wi) D(#— d) dr, 0 a cui, con una integrazione per parti, notando che W,_;(7) P(6 — 7) è nullo ai limiti, si può dare l’altra forma I t (12) W,(t) = — uv J Wn(t) D'(t = T) dr. 0 Si ricordi ora che per due qualsivogliano funzioni reali H(«), (e) (finite o no, purchè) integrabili insieme ai rispettivi prodotti e quadrati in SES]: 00 un intervallo /, L, vale la diseguaglianza fondamentale di Schwarz (13) MO ha) da = ef de Poniamo in questa per H(x) il prodotto /(2).g(4) (con /,g9 nuove funzioni integrabili insieme ai loro quadrati e quarte potenze) ed estraendo la radice quadrata, osservando che per la (13) stessa è i otteniamo o) dI "f(2) g(2) Ma) del 5 Ora nell'intervallo 0, la ®'(f — 7) è finita, fuorchè per 7=7, ove (14) diviene infinita come —=. Quindi se si indica con p un numero posi- . IE CT tivo e comunque piccolo, il prodotto (f — 7)? D'(f— 7) è funzione integra- bile nell'intervallo 0, insieme al proprio quadrato; d'altra parte, per p <}. è anche (£ — ©)? integrabile insieme alla sua quarta potenza. Ri- ? SR ; sa tenendo pertanto che sia p un qualunque numero positivo minore di a 298 siamo applicare la diseguaglianza (14) alla (12) scritta sotto la forma t ai (OO = W,i().(t-)?(— ur (1-7 D'(6— 1) dr, 0 facendo corrispondere W,._,(7) alla f, la (£— 7)? alla 9, e la SE X(1—qPD'(t— qc) alla dh. Se si osserva che, prefissato un valore T a piacere, per f sele Be — MO marino fra la Sicilia sud-occidentale e l’Africa?... Sarà opportuno di vedere come si comporta la gravità sulla costa di Tunisia, e allora si potrà forse, con maggior fondamento, porre in relazione tali fatti gravimetrici coi con- cetti geologici che si contrastano il campo nell’ardua questione riguardante la possibile antichissima continuità della Sicilia coll'Africa, e nelle conse- guenti congetture di sollevamenti od abbassamenti dell’interposto fondo marino. Matematica. — Sul problema di Cauchy. Nota del dott. Eu- cENIO ELIA LEVI, presentata dal Socio Lurci BIANCHI. 1. Data una equazione alle derivate parziali di ordine 7 in m variabili, il problema di Cauchy consiste, come è noto, nel determinarne una soluzione che su un'assegnata varietà iniziale ad #2 —1 dimensioni prenda valori as- segnati insieme colle sue derivate di ordine <= -— supposto che i valori assegnati siano compatibili coll’equazione alle derivate parziali medesima e coll'ipotesi di essere i valori delle derivate di una funzione di 7 variabili su una varietà ad 7 —1 dimensioni (') —. Ed è pure noto che, quando l'equazione sia analitica, la varietà iniziale sia analitica, ed infine siano pure analitiche le funzioni assegnate su essa, esiste una ed una sola fun- sione analitica che risolva il problema — purchè gli elementi di ordine determinati dalla varietà iniziale e dalle funzioni assegnate su essa non siano mai caratteristici per l'equazione (in particolare quindi che la varietà e le funzioni assegnate iniziali non costituiscano una molteplicità caratteristica). Ma quando ci poniamo dal punto di vista delle funzioni di variabile reale, i risultati sono ben più scarsi; sia che, tolta la condizione che l’equa- zione ed i dati iniziali siano analitici, ci chiediamo se esiste una soluzione che soddisfaccia alle condizioni del problema (teorema di esistenza); sia che, pure ammesso, ove occorra, che l'equazione ed i dati iniziali siano analitici, chiediamo se esistano altre soluzioni oltre a quella analitica di cui il teorema sopra rammentato ci assicura (feorema di unicità). Chè se la- sciamo da parte il caso in cui il problema sì può ridurre, senza introduzione di variabili immaginarie, alle equazioni alle derivate ordinarie — come ad esempio quando l'equazione è alle derivate parziali di 1° ordine — nulla è noto all'infuori delle equazioni di secondo ordine di tipo iperbolico in due variabili e di alcune loro estensioni, per cui servono i metodi di Picard e di Riemann (?). () Cosicchè se l’equazione è lineare nelle derivate di ordine n basta assegnare sulla varietà iniziale i valori delle x — 1 prime derivate normali. (*) E le loro notevoli estensioni ai casi di più variabili che si raggruppano attorno al metodo del Volterra, ed alle equazioni in più variabili e di ordine superiore dovute a Bianchi, Niccoletti, Nubini, Delassus, Le Roux ecc. — 106 — Nella presente Nota vorrei esporre alcune considerazioni che mi paiono atte a mostrare che non nella imperfezione dei nostri mezzi di studio, ma nella natura medesima della questione sta la ragione delle difficoltà incon- trate fin qui nella estensione del teorema di esistenza al caso delle funzioni di variabile reale: in quanto che, per restare ad esempio nel caso delle equazioni del secondo ordine in due variabili indipendenti, 7 problema di Cauchy non ammette in generale soluzione per le equazioni di tipo ellit- tico e parabolico. Invece il teorema di unicità pare rimanga vero, almeno per ipotesi estesissime. Nel n. 2 richiamo brevissimamente gli enunciati noti relativi al tipo iperbolico, soprattutto perchè dall’immediato confronto risultino più chiare le differenze che presentano i tre casi. I risultati dei nn. 3 e 4 relativi al tipo ellittico hanno la loro base nel carattere analitico delle soluzioni di queste equazioni: essi sono quindi noti nella loro essenza: non credo che però ne siano mai state esplicitamente tratte le conseguenze qui indicate: specialmente quelle del n. 4. Del tutto nuove, per quanto semplici, sono invece le considerazioni dei n. successivi relative alle equazioni paraboliche. Noterò subito che, trattando delle equazioni paraboliche, mi sono limitato all’equazione del calore, sia per la imperfezione delle nostre conoscenze re- lative a questa classe di equazioni, sia perchè mi parve da preferirsi in questa Nota la brevità e la semplicità alla generalità dei risultati. 2. Le equazioni iperboliche. — Teorema di esistenza. — Per le d°8 de dI equazioni che si possono ridurre alla forma MW 07 A, Sl 1 PD da dY Y5:5a dY teorema di esistenza si stabilisce — con poche ipotesi relativamente alle derivate della F e delle funzioni iniziali — col metodo delle successive approssimazioni del Picard ('). Teorema di unicità. Il metodo delle successive approssimazioni del Picard dimostra nello stesso tempo il teorema di unicità per le equazioni della forma rammentata precedentemente: per le equazioni lineari può anche servire il metodo di Riemann. Fondandoci sul teorema di unicità relativo alle equazioni lineari, si può dedurre il teorema di unicità per le equazioni Mes 04 0 ape oi da 0 dy da IL dI abbiano nell'intorno del sistema dei dati iniziali le caratteristiche reali e distinte — ammesso naturalmente che tanto la F quanto la soluzione di cui si vuol dimostrare l'unicità abbiano un conveniente numero di derivate che qui non precisiamo (?). generali della forma F (c 3 Y706 — 0, le quali (1) Cfr. la Nota di Picard in Darboux, Z'héorie des surfaces, tomo IV, pp. 353 seg. (2) Hadamard, Zegons sur la propagation des ondes. Nota I, pp. 352-854. — 107 — 3. Le equazioni ellittiche. — Ricordiamo che se una equazione mi ao 10 PI ER n OE dove la F è una funzione analitica, è ellittica in un certo campo, ogni sua soluzione finita e continua insieme colle sue derivate prime, seconde e terze è una funzione analitica di x ed y. Se la F è lineare nelle derivate seconde, per modo che l'equazione si possa ridurre nella forma DIEDE De DI è necessario solo supporre che la soluzione abbia derivate prime e seconde e continue ('). Da questo teorema segue subito il Teorema di unicità. Se su una curva AB analitica del piano 7 è assegnata una serie (S) semplicemente infinita di elementi del secondo or- dine analitica essa pure, e soddisfacente alla F=0 e tale che nell’ intorno di essa l'equazione sia ellittica, esiste una sola Soluzione finita e continua colle derivate prime seconde e terze la quale contenga (Sì). Ed invero pel teorema di Cauchy esiste intanto una soluzione 2, ana- litica in un campo contenente nel suo iu/erno AB la quale contiene (S). Ove esistesse un'altra funzione 2, anche solo da una parte di AB e contenente (S), noi la potremmo prolungare al di là di AB colla funzione z, ed otterremmo così una nuova funzione 43 finita e continua colle sue derivate prime, se- conde ed anche terze (poichè queste su AB sono univocamente determinate dai dati iniziali) in un campo contenente nel suo interno AB. Quindi pel teorema richiamato sopra, #3 sarebbe analitica regolare nei punti di AB: quindi coincide con <, in virtù dell'ordinario teorema di unicità di Cauchy. Ove l'equazione sia lineare, dal teorema precedente si possono escludere le condizioni relative alle derivate terze. 4. Sul teorema di esistenza. — Richiamando ora un complemento del teorema precedentemente citato relativo al carattere analitico delle soluzioni delle equazioni ellittiche, ci sarà del pari facile dimostrare che él problema di Cauchy non ammette soluzione quando si assegni che sulla curva ana- litica iniziale AB la soluzione debba ridursi ad una funzione analitica dell'arco AB, mentre la sua derivata normale debba ridursi .ad una fun- zione non analitica dell'arco medesimo. Per le soluzioni dell'equazione 4,z#= 0, non è questo che una imme- diata conseguenza del noto teorema dello Schwarz (*) secondo cui una fun- zione armonica, che sopra una curva analitica AB si riduca ad una funzione (1) Bernstein S., Sur la nature analytique des solutions des équations ete. Math. Ann. 59. (©) Cfr. ad es. Picard, Traité d’Analyse, II, cap. X, 1° ed. pag. 269-272. RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI 2° Sem. 15 — 108 — analitica dell'arco è funzione analitica regolare di 4 ed y nei punti dell’arco medesimo: e quindi in particolare anche la sua derivata normale è funzione analitica regolare dell'arco medesimo. Questo teorema si estende agevolmente alle soluzioni delle più generali equazioni ellittiche con ragionamenti affatto simili a quelli usati dal Picard e dal Bernstein per dimostrare il carattere analitico delle soluzioni di queste equazioni; onde segue la nostra afferma- zione. o. Ze equazioni paraboliche. — Ci limiteremo, come già dicemmo, AEE VOTE de È alle equazioni del tipo I al y , dove 4 è una costante; od anche all'equa- i 3 de al RA È zione im poichè con una semplicissima trasformazione delle coor- dinate si può sempre ridurre quello a questo ultimo caso. 3° de i 5 == — non sono in generale ARTI È noto che le soluzioni dell'equazione funzioni analitiche delle variabili 2 ed y ('). Noi dimostreremo che però: 2 se una soluzione dell'equazione "#3 ammette in un campo T del piano xy derivate prime finite e continue rapporto ad x © y, 1°, essa ammette le derivate successive di qualunque ordine; 2°, sopra ogni segmento di retta caratteristica y= cost interno a T, è funzione analitica della variabile x. Sia infatti M= (x,y) un punto interno a T: sia 7 la caratteristica per M; presi su 7 due punti A= (4,9) B=(0,y (4 <<) l'uno da una parte, l’altro dall'altra di M, si conduca un arco s che congiunga A con B, sia interno a I e stia tutto al disotto di 7. È noto che, se la 2 è 2 d°8 107 IE funzione di 4 ed y soddisfacente all’equazione ai finita e continua 3% insieme colle sue derivate prime in 7, detto .,%, un punto mobile su s, il valore di s in M=(xy) è dato da (°) 1 il de 9) gay = === e====3 (1) (29) 2a a,v=ze facendo tendere « ad y — supposto 2Va a — Ya che 7, e preso allora un numero o positivo arbitrariamente piccolo, < 7, si consideri il campo complesso C dei valori di x tali che (a — af —a=0,(e'—b*— — e°° = 0 (*); # sara contenuto in C. La formula (2) risulterà evidente, osservando che se 4 è in C ed #17, su s, la funzione sotto il segno d'in- tegrazione è finita e continua e tende a zero uniformemente col tendere di Y, ad y, e cioè che tendono a zero _1)? et)? 1 na 442) dA 7, 447) Vy — Yu (y— y)°l Si scelga un numero $ tale che quando y. >y — &, il punto (2,71) di s sia tale che 4, sia compreso in uno degli intervalli («— m=a)-<(+ 0% a) (n=) ni e si supponga y > %y1 >y— È. Si ha allora 01)? ela )*alt? o 4(Y—Y;) Gr 4(Y-—y,) 80=Y ) e =e YTY1 1, ma non le derivate (72 + 1) esime (!). E questa osservazione si può estendere: non esiste alcuna soluzione 2» dell'equazione -- = 3 la quale su MN, mentre ha la derivata rapporto ad x funzione analitica di y, si riduca ad una funzione di y che ammetta derivate prime, ma non tutte le successive derivate. Osservazione. — È chiaro che il teorema di unicità e pure queste ul- time considerazioni sul teorema di esistenza valgono per le equazioni più generali (1) Possiamo trovare anche dei tipi di funzioni iniziali non ammissibili i quali abbiano tutte le derivate. Per es. sia P=(0,2) un punto di MN; non può esistere una soluzione # che, mentre su MN deve soddisfare la = 0, su MP soddisfaccia a £=0 e su PN si riduca alla funzione f(y)= e Vasi. Infatti possiamo, come si vide, supporre che 2 esista in un campo I° contenente MN nell'interno. Nel campo comune a T ed alla striscia 4 compresa fra le caratteristiche per P ed M, per il teorema di unicità, 2 è identicamente nulla. Per avere il valore in un punto Q=(0,y,) di PN si prendano sulla caratteristica per Q due punti A = (4,9) e B=(—a,y) simmetrici rapporto a Q, si conducano per essi le parallele all’asse delle y e siano A\1="(42) , Bi=(— 40) i punti in cui queste incontrano la caratteristica per P. Si applichi la (1) del n. 6, prendendo per s l’arco formato da AA;,BB: e da una curva che unisca A, con B; restando in 4. L'integrale esteso a questo ultimo tratto è evidente- _ mente nullo onde in (1) restano solo gli integrali estesi ai tratti AA, e BB,: ricordando che da(— A) _ LO dz(0y) a,)= ” si avrà (24 wr Te de(ay) TA0E Yi n) Ag 60 = dy d } ome (alate [i MU Quando y, tende a d i ha integrali del secondo membro divengono infinitesimi di or- 2 2 a (e) v, è A (UU), Di CE A(YTY.) dine = di quello di f <<-="=7 4%, fe dy. Il primo di questi inte- u Vui— 7 hh OR DEE lo grali è per y1=d infinitesimo di ordine > del secondo. Ma quest’ ultimo poi è infinite- 2 (4) UD Vu — è comesi vede con una integrazione per parti. Quindi simo di ordine > @ lo stesso sarà di z. 1 UA /y Mage. ; : RIUCEDN x Ma e V%7° è pery1=} infinitesimo di ordine < e '— Vy.— quale che sia 48; 1 Yy=b quindi la funzione 2 non può su PN diventare uguale a e — 113 — Fisica. — Za quantità di elettricità cu dà passaggio la scin- illa d'induzione a basse pressioni (*). Nota del dott. S. MARESCA presentata dal Corrispondente D. MacaLuso. 1. Le recenti ricerche del prof. Corbino (*) sulla quantità di elettricità scaricata attraverso la scintilla che scocca nel secondario di un rocchetto all'atto della chiusura del circuito primario, hanno dato origine al presente studio nel quale vien ricercata l'influenza che la pressione del gas in cui scoccano dette scintille esercita sulle quantità di elettricità che le attraversa. E poichè, come è naturale, le quantità di elettricità così scaricate di- pendono dal valor massimo che assume la corrente secondaria e dal suo suc- cessivo andamento; così con le esperienze che saranno descritte in seguito ho cercato di determinare le quantità di elettricità scaricate e di seguire l'andamento della corrente secondaria nella fase di chiusura. Le quantità di elettricità sono state misurate con un galvanometro in- serito nel secondario del rocchetto in serie con la scintilla. L'andamento della corrente secondaria è stato osservato insieme a quello della primaria con un tubo di Braun sul quale agiva orizzontalmente tutto il rocchetto munito della bobina compensatrice, e verticalmente una bobina percorsa dalla corrente primaria; con ciò gli spostamenti verticali del cer- chietto fluorescente erano dovuti alla corrente secondaria, quelli orizzontali alla primaria (*). 2. La disposizione degli apparecchi adoperati per l’esperienze, è rappre- sentata schematicamente dalla figura 1: R è un rocchetto di Ruhmkorff da 15 cm. il cui secondario è chiuso sul galvanometro G opportunamente shun- tato con le resistenze 7 ed 7, e sulla scintilla che scocca in S fra due elet- trodi sporgenti nel recipiente di vetro T in comunicazione con una tromba a mercurio. Producendo una successione regolare di scariche anzi che una sola ed impedendo, con l'aiuto di un deviatore che verrà descritto in seguito, alle correnti di apertura di produrre la scintilla in S, il galvanometro segnava l'intensità media di corrente che attraversava le sole scintille di chiusura. Detto deviatore, rappresentato schematicamente nella figura, è costituito da un piccolo motore elettrico che mette in rotazione sincrona due dischi (1) Lavoro eseguito nella R. Università di Messina, diretto dal prof. O. M. Corbino. (2) Corbino, Rend. Lincei. (*) Corbino, Ricerche teoriche e sperimentali sul rocchetto di Ruhmkorf, $$ 7 e 12. Atti A. E. I., fascicoli 3-4, 1907. — 14 — D e D, fissi agli estremi del suo asse. A ciascuno di questi dischi è fissato eccentricamente un pernio ed a quest'ultimo è affidato a snodo l'estremo di un’asticella di cui l'altro estremo può pescare in un bicchierino con mercurio. Come si vede senz'altro dalla figura, mentre una delle asticelle, @, nel suo moto di saliscendi prodotto dalla rotazione del motore, comanda la chiu- sura e l'apertura del circuito primario del rocchetto di cui fa parte una bat- teria B di 30 accumulatori, l'altra comanda l'apertura e la chiusura di un circuito derivato sul secondario del rocchetto stesso e di cui fa parte la re- sistenza W. Fazzi allo lomba Essendo i perni cui sono affidate le asticelle spostati di 90° uno rispetto all'altro, ne segue che per il senso di rotazione indicato dalle frecce, il cir- cuito primario vien chiuso mentre resta aperto il ramo derivato sul secon- dario e quindi la scarica del secondario si effettua attraverso la scintilla $S; invece l'apertura del primario ha luogo quando è chiuso il circuito derivato così che la scarica di apertura si effettua attraverso a questo. In esso viene inserita la resistenza W, opportunamente scelta, perchè la corrente secondaria dovuta alla rottura del primario possa esaurirsi nel tempo in cui resta chiuso il circuito derivato (!), senza di che, dato il succedersi piuttosto rapido delle interruzioni (in media circa 8 per secondo nelle mie esperienze), può un re- siduo della corrente di apertura passare attraverso la scintilla e il galvano- metro segnare un'intensità media di corrente inferiore alla vera. (1) Corbino, loc. cit., $ 10. O È — 115 — Analogamente, per la presenza della scintilla in S che rende rapida la diminuzione della corrente secondaria, questa si esaurisce prima che se ne possa distrarre una parte nel circuito derivato W alla consecutiva chiusura di questo. Un contagiri permette infine di determinare il numero di scariche per minuto secondo cui è direttamente proporzionale l'intensità media di corrente segnata dal galvanometro a parità delle altre condizioni. i 8. Gli elettrodi sono di filo di alluminio di 1 mm. di diametro e sono rivestiti da due tubetti di vetro in modo che ne restano scoperte le sole se- | AA si [Re 1 ea Fori RsSh 00 2005) sal ero) o 8 “= ros DA EE dea am ER CARRI ZIeNI Wa zan 4grT TE | [n ear] VA —_ N | dr. 7 | | |É Si (et Cie E lina. | put 64 l L A re e i ) $ $ zioni estreme affacciate. Essi vengono introdotti nel recipiente T attraverso due tubi coi quali termina il recipiente stesso e vengono fissati immergendo tali tubi nel mastice fuso contenuto in due provette. Solidificando il mastice restano ben fissati gli elettrodi nel recipiente e nello stesso tempo si ottiene una chiusura che assicura la tenuta nel miglior modo desiderabile anche ri- spetto alle rarefazioni più spinte. Il recipiente nel quale si trovano gli elettrodi veniva sempre riempito con aria accuratamente disseccata con anidride fosforica. La misura delle pressioni basse veniva fatta con un provino di Mac Leod. 4. Perchè i risultati delle diverse esperienze fatte fossero meglio parago- nabili fra loro fu sempre lanciata nel primario del rocchetto una stessa cor- rente di 2, 3 Ampère. Tali risultati sono rappresentati dalle grafiche della fig. 2 ottenute ri- portando sull'asse delle ascisse i valori delle pressioni in mm. di mercurio e su quello delle ordinate le intensità medie di corrente in unità arbitrarie. Ciascuna grafica si riferisce a quella distanza fra gli elettrodi che è segnata accanto. ReNDICONTI 1907, Voi. XVI, 2° Sem. ja D — 116 — La tabella che segue e che non ha bisogno di altre spiegazioni dà in- vece sempre le intensità medie di corrente in unità arbitrarie che attraver- sano la scintilla alle pressioni molto basse non riportate nelle grafiche: Distanza fra gli elettrodi in mm. Pressione mmm, di mercurio | 0.75 | 4 os as | 37 | 64 | 108 1 2.8 2A Ceti Pg: Mas cet tl e 04 2LA| 2612 2igolit ni.orilov 19 (bada E 0.1 1.3 SR 2 |wyo:9 |. 2020 dios MN MT NM O ca pe 007] — È DI LOT si SE 0.06 | 0.4 ca ego nia 3 a ai e ar pra LL LI 008 — sai \=ae EU nic dn. A pressioni inferiori a mm. 0,01 e per quasi tutte le distanze, le sca- riche cominciano a passare difficilmente ed in breve si raggiungono le pres- sioni a cui non passano affatto. 5. Le osservazioni al tubo di Braun fatte contemporaneamente con le misure al galvanometro hanno mostrato che a pressioni piuttosto alte le cor- B wo (©) cis: renti primaria e secondaria crescono insieme rapidamente e solo quando la primaria ha raggiunto il suo valore massimo, la secondaria comincia a di- minuire mentre la prima resta costante cosicchè la curva rappresentativa ha il noto aspetto della fig. 3 (') in cui gli spostamenti dovuti alla primaria sono orizzontali mentre sono verticali quelli dovuti alla secondaria. Col diminuire della pressione, per una stessa distanza fra gli elettrodi, si nota un progressivo aumento della corrente massima secondaria ed una di- minuzione più lenta della secondaria stessa, di modo che la curva pur con- (®) Corbino, loc. cit., $ 12. — 117 — servando l'aspetto precedente, presenta il tratto BC progressivamente più lungo e più luminoso. Tale comportamento va di pari passo con l’aumento dell'intensità media di corrente del galvanometro. Diminuendo ancora la pressione si determina di nuovo un raccorcia- mento ed una minore luminosità del tratto BC accompagnati dalle diminuite indicazioni del galvanometro. Ulteriori diminuzioni della pressione trasformano i due tratti rettilinei precedenti AB, BC, dapprincipio in curve del tipo A'B'C' (fig. 4) ed in se- guito in quelle come A”B"”C"D" (fig. 5) mostrando che la corrente secon- daria dapprima non cresce più insieme con la primaria ed in seguito addi- rittura cessa del tutto prima che la primaria abbia raggiunto il suo valore massimo. Cessa poi tanto più presto per quanto più viene abbassata la pres- sione, come indica il progressivo allungarsi del tratto CD". Inoltre l’ inten- Fic. 4. Bcolo: sità massima secondaria va continuamente diminuendo e la durata della sca- rica si va facendo sempre più breve; ciò si riconosce dal diminuire dell’al- tezza delle curve e dalla minore luminosità di esse. 6. Dalle grafiche del n. 4 risulta che col diminuire della pressione le quantità di elettricità scaricate attraverso le scintille in istudio vanno cre- scendo in principio e diminuendo in seguito. Cosicchè volendo parlare di re- sistenza della scintilla (intesa come resistenza di un conduttore che a parità di altre condizioni lascia passare la stessa quantità di elettricità) si deduce che tale resistenza va prima diminuendo e poi crescendo. È bene però ricordare che la nozione di resistenza (nel senso ordinario) della scintilla, non ha significato poichè le recenti ricerche tendono a con- siderare la scintilla come una g/immstrom di breve durata. Ed è anche bene ricordare, prima di passare a rendersi ragione delle osservazioni fatte, che come per le g/immstrom (!), anche le varie parti della scintilla vengono modificate dalle diminuzioni di pressione; e precisamente: Col diminuire della pressione la colonna positiva va raccorciandosi e va diminuendo la caduta di potenziale in essa; diminuisce contemporaneamente (1) V. Stark, Die Elektrizitit in Gasen in Winkelmann Hand. d. Phys., 2 Aufl., Bd. IV, $$ 70-78. — 118 — la caduta di potenziale nello spazio oscuro mentre resta costante la caduta catodica (caduta catodica normale) la quale comincia a crescere (caduta ca- todica anormale) solo quando la luce negativa (Glimmschicht) impegna tutto il catodo. 7. Ora l'osservato aumento dell'intensità di corrente del galvanometro, era precisamente accompagnato nelle mie esperienze dall’accorciamento della colonna positiva ed il valor massimo veniva raggiunto proprio quando tutta la colonna positiva era sparita. Non era del pari facile, per la piccola esten- sione degli elettrodi da me usati, assicurarsi che il detto aumento delle in- dicazioni del galvanometro era accompagnato dall’estendersi della luce nega- tiva sul catodo per poter asserire che esso aveva luogo nel tempo in cui ri- maneva normale la caduta catodica e diminuiva la caduta di potenziale nello spazio oscuro e nella colonna positiva. Ma un'altra esperienza fatta con due lamine di alluminio come elettrodi valse a rassicurarmi. Accertai invero che col diminuire della pressione l'aumento della quantità di elettricità scaricata era accompagnato dall’estendersi della luce negativa sul catodo ed il massimo veniva proprio raggiunto quando tutto il catodo era impegnato nella scarica. Dunque quel primo aumento della quantità di elettricità può ritenersi causato dal diminuire della caduta di potenziale nella colonna positiva e nello spazio oscuro nel tempo in cui la caduta catodica resta normale. La successiva diminuzione della quantità di elettricità scaricata che ac- compagna l'ulteriore diminuzione della pressione può analogamente spiegarsi col crescere della caduta catodica diventata anormale; e alla medesima causa è da attribuirsi l’altro fatto osservato al tubo di Braun che cioè la corrente secondaria non accompagna più fino alla fine quella primaria, ma arriva anche ad annullarsi prima che quella abbia raggiunto il suo valor massimo. 8. È degno di nota che il prodotto della distanza 4 degli elettrodi per la pressione P,, a cui si scarica la massima quantità di elettricità è sensi- bilmente costante come risulta dalla tabella seguente: d Pm PmXd 0.75 120 90 4 33 132 10.5 10.5 110 18 6 108 37 3 IIa 64 2 128 108 il 108 Non deve sorprendere se i primi due valori ottenuti per questo pro- dotto si scostino piuttosto notevolmente da tutti gli altri: per distanze pic- — 119 — cole fra gli elettrodi riesce difficile determinare la pressione a cui passa la massima quantità d’elettricità e le grafiche ce ne dànno subito ragione. La costanza di quel prodotto dimostra che le condizioni di maggiore facilità rispetto alle quantità di elettricità che si scaricano attraverso la scintilla sono le stesse di quelle di maggiore facilità rispetto al potenziale esplosivo (legge di Paschen). Però le quantità di elettricità scaricate sotto la condizione P,,d = cost non sono le stesse ma sono minori per maggiori distanze fra gli elettrodi. Dalla tabella al n. 4 si rileva infine che la quantità di elettricità sca- ricata a basse pressioni è sensibilmente indipendente dalla distanza fra gli elettrodi. Fisica. — Sulla dispersione elettrica dai metalli riscaldati (!). Nota del dott. A. OccHIALINI, presentata dal Corrisp. A. BATTELLI. 1. È noto che un corpo incandescente non è capace di conservare una carica elettrica, e che la dispersione che ha origine in queste condizioni è dovuta alla presenza di centri elettrizzati nel gas circostante simili in tutto a quelli che accompagnano la dissociazione elettronica provocata dai raggi Rontgen. Questo fenomeno dipende dalle condizioni in eui è posto il corpo incandescente e varia con la natura del corpo stesso; con quella del gas e con la pressione di quest'ultimo. In molti casi si è riconosciuto che la dis- persione dei corpi caldi è intimamente collegata con le azioni chimiche che hanno luogo a quelle temperature fra il corpo e il gas circostante; ma è pur certo che il fenomeno si verifica anche quando l'azione chimica manca. Le particolarità finora note sopra queste dispersioni si riferiscono al di- verso comportamento che presentano le elettricità dei due segni. In generale alla pressione atmosferica il riscaldamento dei metalli provoca da questi la dispersione dell'elettricità positiva assai prima che non della negativa. La presente Nota ha per scopo l'indagine delle particolarità che accom- pagnano questi fatti e lo studio della loro natura. Le osservazioni che seguono ci permetteranno di render ragione di alcuni fatti noti e ci condurranno a prevederne altri che saranno pienamente confermati dall'esperienza. 2. Il più semplice caso da studiare in questo ordine di fenomeni è la dispersione da quei metalli che nel riscaldamento non subiscono nessun pro- cesso chimico. Forse l’unico modo di metterci in tali condizioni consiste nel- (') Lavoro eseguito nell’Istituto di Fisica della R. Università di Pisa, diretto dal prof. A. Battelli. — 120 — l'adoperare il platino. Con questo metallo ha sperimentato il Mac Clelland ('), per non contare i lavori del Richardson (?) e del Wilson (*) che hanno fatto studî analoghi nei gas rarefatti. Il Mac-Clelland, in sostanza, arroventava un filo di platino dentro un tubo di vetro in cui era stabilita una corrente gassosa. Questa aveva per scopo di trasportare i gas posti nelle vicinanze del filo caldo e gli joni presenti in essi, sopra un elettrodo in comunicazione con un elettrometro a quadranti e caricato a un certo potenziale positivo o negativo; su questo elettrodo î gas rivelavano le loro cariche eventuali. I suoi risultati mostrano che, almeno finchè la temperatura non eccede certi limiti, la conducibilità del gas è dovuta alla presenza di soli joni po- sitivi; soltanto quando il platino è portato alla temperatura del calor bianco si ha la presenza delle due specie di joni. Da questo comportamento l'autore crede di poter dedurre che a tem- perature non troppo elevate la conducibilità sia dovuta alla jonizzazione dello strato d'aria aderente all’elettrodo, e precisa le circostanze del feno- meno dicendo che solo gli joni positivi, più grossi, sono trasportati dalla cor- rente d'aria, mentre gli joni negativi posti vicino al filo incandescente neutro, esercitano sopra di esso un'azione induttiva e sono da questo attratti. Ciò, ripeto, succederebbe per temperature non troppo alte. Per tempe- rature superiori a un certo limite, invece, sempre secondo il Mac Clelland, si avrebbe la jonizzazione di uno strato più grosso di gas e quindi la pro- duzione di elettroni in punti tanto lontani dal filo da non essere più attratti da questo; di qui l'apparizione degii joni dei due segni. Orase ciò fosse, il numero degli joni negativi portati dalla corrente gassosa sull’elettrodo in co- municazione con l’elettrometro dovrebbe essere in ogni caso minore di quello degli joni positivi, giacchè, ammessa vera la spiegazione dell'Autore, gli joni negativi aderenti al filo dovrebbero essere attratti da questo qualunque fosse la temperatura. E siccome a temperature sufficientemente alte l'Autore finisce per trovare che l’elettrodo in comunicazione con l'elettrometro perde nell'unità di tempo la stessa quantità di elettricità, sia che abbia una carica positiva, sia che abbia una carica negativa, mi sembra che la spiegazione data dal Mac Clelland sia contraddetta dalle sue stesse esperienze. 3. Pur tuttavia ho voluto sottoporre l'interpretazione del Mac Clelland ad una riprova sperimentale. Se pure è ammissibile che gli jonì negativi ge- nerati nel gas esterno al filo sfuggano alla corrente di gas e per induzione elettrostatica siano attratti dal filo stesso quando questo è elettricamente (1) Proc. Camb. Phil. Soc., vol. 10, 1901, pag. 241. (2) Proc. Camb. Phil. Soc., vol. 11, 1902, pag. 286. (3) Phil. Trans. of Roy. Soc., London, vol. 202, Serie A, 1905, p 243. — 21. — neutro, come nel caso del Mac Clelland, ciò non è più concepibile appena il filo venga caricato negativamente. In tal caso, mentre gli joni positivi do- vrebbero essere attratti dal filo, quelli negativi dovrebbero essere da questo respinti e la loro carica dovrebbe essere rivelata da un corpo carico positi- vamente e posto in comunicazione con un elettrometro, nelle stesse condizioni in cui si rivelano gli joni positivi. Per l’esperienza ho disposto le cose nel modo indicato schematicamente nella fig. 1. P è il filo di platino che si può rendere incandescente per mezzo di una corrente elettrica; E è un elettrodo posto in comunicazione con un elettrometro a quadranti. Il filo di platino era tenuto costantemente in comunicazione con un polo di una batteria di piccoli accumulatori; l’elet- EI arr trodo E era messo in comunicazione per un istante con l’altro polo della batteria e poi isolato. In tal modo fra E e P si poteva stabilire una diffe- renza di potenziale di 1800 Volt. Mettevo dapprima il filo P in comunica- zione con il polo positivo della batteria e riscaldavo il platino. Appena questo era arrivato al calor rosso nascente una abbondante produzione di joni posi- tivi si rivelava con la rapida scarica dell'elettrodo E posto in comunicazione con l’elettrometro. Ciò succedeva anche quando la distanza fra il filo P e l'elettrodo E era superiore ai 6 centimetri. In queste condizioni invertivo il campo, elettrizzando positivamente l'elettrodo e tenendo P in comunicazione col polo negativo della batteria. L'elettrometro allora continuava a mante- nere la sua carica indefinitamente. Questo esclude che all’esterno del filo P siano presenti joni negativi e conseguentemente che il fenomeno della dispersione degli elettrodi caldi sia, come spiega il Mac Clelland, dovuto ad una jonizzazione del gas esterno. 4. Ho, d'altra parte, osservato che portando alla temperatura del calor bianco il filo di platino, si riscontra la presenza di joni negativi; ma penso — 122 — che tale produzione sia da collegarsi, non con la jonizzazione del gas, ma con l'uscita degli elettroni dal metallo per l'alta temperatura di questo. A tale riguardo giova ricordare che il Thomson (') ha accertato che la disper- sione negativa dai metalli caldi avviene anche in ambienti estremamente ra- refatti, quando, cioè, non è più possibile attribuire il fenomeno all'azione del gas; conseguentemente sarebbe arbitrario il non tener conto di tale di- spersione alla temperatura ordinaria. A conferma di questa conclusione ho osservato che per rivelare la pre- senza di jonì negativi non c'è bisogno di portare al calor bianco la tempe- ratura del platino, ma basta aumentare convenientemente l'intensità del campo, per esempio, con l’avvicinare gli elettrodi P ed E (fig. 1). Infatti dopo aver verificato che ponendo questi elettrodi ad una distanza di 5 cen- timetri con una differenza di potenziale di 1800 Volt non si aveva nessuna traccia di dispersione negativa, ho trovato che avvicinando gli elettrodi a 8 millimetri di distanza pur mantenendo fisse tutte le altre condizioni si aveva un'abbondante emissione di Joni negativi. A mio modo di vedere in tal caso il campo esterno facilita l'emissione degli elettroni che arrivano alla superficie del metallo, e che per campi mi- nori non sarebbero usciti se non per l'influenza di una temperatura più elevata. 5. I fatti precedentemente enumerati portano ad escludere che nel nostro caso la temperatura dell'elettrodo provochi la dissociazione degli atomi del gas posto fuori dagli elettrodi. Invece essi inducono a ritenere che si abbia una vera emissione di joni positivi e negativi dalla massa del metallo. Ora, per quanto riguarda gli joni negativi dobbiamo ricordare che essi, secondo le nuove teorie della conduzione elettrica dei metalli, sono perfet- tamente liberi nei metalli stessi attraverso al reticolato rigido costituito dagli joni positivi. Essi possiedono un movimento disordinato del quale la forza viva media costituisce la temperatura assoluta del metallo. Ne viene che con l'elevarsi della temperatura essi aumentano l'energia cinetica, e quest'aumento può raggiungere un tale valore da projettare gli elettroni fuori del metallo. L'emissione degli joni negativi è dunque spiegabile e prevedibile con le idee moderne sopra la natura dell'elettricità; ma essa, per l'esperienza del Thomson, è anche conseguenza naturale di fatti ben accertati. Ma per quanto riguarda gli joni positivi la conclusione è diversa, giacchè il Thomson nell'esperienza succitata ha accertato che negli ambienti rare- fatti sparisce completamente la dispersione positiva. Ciò porta a concludere che l'emissione degli joni positivi dai metalli caldi sia sempre subordinata alla presenza del gas esterno; ma non esclude che anche gli joni positivi pro- (*) Phil. Mag. vol. 48, 1899, pag. 547. — 123 — vengano dall'interno del metallo, come viene stabilito dalle mie esperienze e dalle considerazioni precedenti. Infatti non si deve dimenticare che i me- talli in generale, e il platino in particolare sono atti ad assorbire i gas. Ora mi sembra molto naturale ammettere che quando il metallo è portato all'incandescenza le molecole gassose incluse in esso subiscano una dissocia- zione che separi da esse un elettrone. L’elettrone così liberato si confonderà con gli altri che sono completamente liberi nella massa del metallo; gli jonì positivi restanti rimarranno semplicemente inclusi nel metallo dal quale pur tuttavia si libereranno per stabilire un equilibrio dinamico con le molecole gassose che via via vengono assorbite dal metallo. Allora è chiaro che gli joni usciti dal metallo saranno definitivamente separati da esso, quando una forza esterna li solleciti ad allontanarsi, e da questo punto di vista anche le dispersioni di elettricità positiva dai corpi incandescenti debbono ritenersi come dovute ad un'emissione di joni positivi dalla massa del metallo. Dunque le due specie di joni hanno una uguale provenienza; essi tut- tavia posseggono un'essenziale diversità di generazione: quelli negativi appar- tengono agli elettroni presenti nel metallo, quelli positivi alle molecole gas- sose incluse in esso. 6. La diversità nel modo con cui sono generate le dne specie di joni nei metalli incandescenti si traduce in una essenziale diversità di compor- tamento. Consideriamo da vicino l'emissione di elettroni. Questi sono sempre presenti nel metallo e la loro emissione è subordinata soltanto alla tempe- ratura e all'intensità del campo elettrico. Talchè se fra due elettrodi, di cui quello negativo sia rovente, si stabilisce una conveniente differenza di po- tenziale è da ritenere che l'emissione di joni negativi sia tanto copiosa da determinare una corrente relativamente intensa fra i due elettrodi. Se non che aumentando la differenza di potenziale al di là di certi li- miti, la dissociazione per urti delle molecole gassose acquista importanza preponderante. Da essa ha origine un numero di joni estremamente grande rispetto a quello che può essere emesso dagli elettrodi nello stesso tempo, e così si ha la scarica esplosiva. Per evitare che ciò. avvenga non v'è altro mezzo che elevare grande- mente l'intensità del campo elettrico soltanto alla superficie del catodo e mantenere valori moderati al campo nelle regioni non aderenti al catodo stesso. i Tali condizioni si possono realizzare per mezzo di un elettrodo a punta in comunicazione con il polo negativo; quindi ho creduto degno di osserva- zione ciò che succede in questo caso. Ho costruito all'uopo uno spinterometro del quale un elettrodo era for- mato da un filo di platino e l’altro da una sfera di ottone. Il filo di pla- ReENDICONTI. 1907. Vol. XVI, 2° Sem. 107 — 124 — tino era piegato ad angolo vivo e così funzionava da punta; esso poteva es- sere reso incandescente per mezzo di una corrente elettrica ed era posto in comunicazione con il polo negativo di una macchina elettrostatica, mentre la sfera era in comunicazione con il polo positivo. In condizioni ordinarie il campo elettrico assai intenso in prossimità della punta aveva per effetto di imprimere agli joni positivi una tale velocità da dissociare le molecole neutre del gas. Questo processo localizzato nelle immediate vicinanze del filo sì ri- velava con la stelletta caratteristica della scarica da una punta negativa. Ma appena si arroventava il filo di platino il fenomeno luminoso non era più limitato alla superficie del catodo, ma si cambiava in un eftluvio violaceo che attraversava da un elettrodo all’altro l'intervallo della scarica; questa però era silenziosa e non assumeva mai il carattere di scintilla. Secondo quanto è stato stabilito sopra, in queste condizioni gli elettroni che, sotto l'impulso della temperatura, arrivano alla superficie del metallo dotati di una certa forza viva sono estratti, per l'azione del campo esterno, dal metallo stesso. Essi operano un trasporto di elettricità in seguito al quale si ha un abbassamento notevole del campo elettrico. In queste circostanze le dissociazioni avranno ancora luogo e forniranno degli jonìi alla scarica; ma essi di fronte al numero di elettroni che escono continuamente dal catodo sono ben poca cosa. La scarica è operata quasi totalmente dagli joni negativi e così essa non ha modo di assumere il carattere esplosivo della scintilla. Giova notare che la scarica che si provoca in queste condizioni ha tutte le caratteristiche dell'arco voltaico. Infatti anche qui come nell'arco gli joni negativi escono dal catodo incandescente e mantengono quasi da soli la con- duzione dell'elettricità fra gli elettrodi ('). Nelle loro linee schematiche i due fenomeni sono identici; essi differiscono nelle circostanze accessorie per la di- versità delle loro proporzioni. In particolare nell'arco gli joni positivi formati per urto sulle molecole gassose sono quelli che, precipitandosi sul catodo lo mantengono incandescente e lo pongono così in grado di emettere un numero di elettroni sufficiente alla conduzione; nella scarica per effluvio studiata qui sopra, il riscaldamento è ottenuto indipendentemente dal fenomeno della sca- rica. Per questa ragione la scarica ad effluvio non ha bisogno dell’adesca- mento che è indispensabile nel caso dell'arco voltaico. 7. Ben diversamente si presenta il fenomeno nel caso che la punta sia positiva. Allora l'elettrodo contiene gli joni positivi generati dalla dissocia- zione degli atomi gassosi inclusi nel metallo. E anche in questo caso il campo elettrico esterno può estrarre quegli joni che nei loro movimenti raggiungono la superficie dell'elettrodo; ma il numero di questi è subordinato alla massa (1) A. Occhialini, / gas compressi come dielettrici e come conduttori. Pisa, Ma- riotti, 1906, pag. 117. — 125 — totale di sas assorbito dal metallo e in ogni caso è incomparabilmente mi- nore di quello degli elettroni che si trovano nelle stesse condizioni quando la punta è negativa. Ne segue che con l'aumentare della forza elettrica esterna allorchè l’elettrodo è positivo, non c'è mai da aspettarsi quel considerevole aumento di joni che si è riscontrato quando l'elettrodo era negativo. Perciò la grande intensità che ha il campo in prossimità di una punta non può servire, nel caso che questa sia positiva, a estrarre tanti joni da bastare alla scarica; così che un arco costituito di soli joni positivi con questo mezzo non è realizzabile. Tuttavia gli joni che escono da una punta metallica riscaldata non pos- sono essere senza azione sopra l’effluvio positivo uscente da essa; giacchè per effetto di questi joni la distribuzione del campo intorno all'elettrodo viene profondamente modificata. Infatti nelle condizioni ordinarie di temperatura la regione aderente alla punta è in prevalenza occupata dagli joni negativi. Questo fa che si abbiano di fronte due cariche di segni opposti vicinissime: - quella positiva della punta e quella negativa del gas. Fra l'una e l’altra si realizza in conseguenza un intenso campo elettrico nel quale i centri elet- trizzati assumono l’energia necessaria per dissociare le molecole neutre e per fornire un numero di joni atto a operare la scarica fra gli elettrodi. Ma ap- pena la punta viene riscaldata, un certo numero di joni positivi attraversa la regione occupata in precedenza dagli joni negativi, li neutralizza in parte e diminuisce l'intensità della forza elettrica nelle regioni aderenti al catodo. Allora da un lato le dissociazioni avvengono meno frequentemente e con ciò si diminuisce il numero degli joni che operano la scarica; dall'altro i nuovi Joni estratti dall'elettrodo sono troppo pochi per supplire quelli perduti. Quindi l’effetto prevedibile del riscaldamento di una punta elettrizzata po- sitivamente è di rendere più difficile la scarica. 8. L'esperienza verifica completamente queste previsioni. Usando lo spin- terometro descritto sopra e mettendo l'elettrodo appuntito in comunicazione con il polo positivo della macchina e l’altro elettrodo col polo negativo, ho verificato che il riscaldamento ha un'azione impedente sull’effluvio positivo. ,Il fiocco caratteristico di quest'ultimo viene in tal caso eliminato e sosti- tuito da una scintilla; nello stesso tempo il potenziale esplosivo viene aumen- tato notevolmente. Qui sotto ho riportato i risultati delle misure del potenziale esplosivo fatte in queste condizioni per mezzo di un elettrometro del Righi: Corrente riscaldante Potenziale esplosivo in unità arbitrarie 0 Amp. 20.1 14.25 >» 30.1 = 196 — L'apparizione della scintilla al posto dell'effluvio è una conseguenza na- turale della cessata produzione di joni per urto in vicinanza della punta. Infatti in tal caso la scarica si arresta, il potenziale fra gli elettrodi cresce finchè i joni presenti, assumendo velocità sufficientemente alte, acquistano energia sufficiente da dissociare il gas in tutto l'intervallo della scarica. Ma allora la scarica è, come ha dimostrato il Towsend ('), esplosiva. 9. Fin qui mi sono limitato a considerare la dispersione semplice dagli elettrodi caldi: la dispersione complicata da dissociazioni per urto formerà l'argomento di una prossima Nota nella quale esporrò le particolarità pre- sentate dalla scintilla fra elettrodi incandescenti. Fisica terrestre. — Saggio di una nuova formola empirica per rappresentare il modo di variare della radiazione solare col variare dello spessore atmosferico attraversato dai raggi (È). Nota di A. BeMPORAD, presentata dal Corrispondente A. Riccò. 4. Applicazione della formola IV alle osservazioni attinometriche eseguite nell Osservatorio di Catania il 18 Agosto 1904. — Nel detto giorno vennero da me eseguite nell’ Osservatorio astrofisico di Catania osser- vazioni attinometriche continuate dal levar del sole fino alla culminazione meridiana con un attinometro di Arago (coppia di termometri, l'uno a bulbo ordinario, l’altro a bulbo affumicato, racchiuso ciascuno in un inviluppo di vetro, dov’ è praticato il vuoto). Ho cercato di rappresentare colle quattro formole (I... IV) indicate nella precedente nota i valori osservati della inten- sità della radiazione, ammessa come proporzionale alla differenza delle letture ai due termometri. Per determinare il valore di 7 relativo alla formola IV, ho ricavato dalla tabella comunicata sopra i valori di e,#%®,..., €’ corri- spondenti alle distanze zenitali delle due osservazioni estreme e di una inter- media, e precisamente: Intensità Distanza Zenitale Potenze dello spessore atmosferico attraversato della radiazione apparente E | 89 | 898 807 | 808 I 895 1° osservazione | gi1= 09,36 | z,= 89940 | 31,13| 22,07| 15,65| 11,10| 7,87| 5,59 9a n qa= 4,60 | 22=80,14| 5,67| 477| 401| 3,37] 2,838) 2,38 gr ” qa= 10, 30 | 2:=24,86| 1,09] 1,09| 1,07| 1,06| 1,06 | 1,05 (1) Phil. Mag., vol. 8, 1904, pag. 788. (2) V. nota precedente a p. 66. ie. +e dn A it i ia — 127 — Ho poi formato i valori di log ga — log E 5 — & VE 8% Sdi 1 2 log g3 — log ga e — & per 2=1,0,0,8... 0,5, ottenendo rispettivamente 10g g> —10g 41 0.5000 log g3 — log g2 0,9 08 0,6722]|0,5977 0,7 0,5246 0,6 0,4544 0,5 0,3826 n AMO i) 7449 n — & Secondo il criterio stabilito nel $ 3 il valore da scegliere per n sarà compreso fra 0,7 e 0,6, e dovrà stare a questi due numeri molto prossima- mente, come 0,500 sta a 0,525 e 0,454. Abbiamo scelto pertanto il valore n=3, ossia la formola di ragguaglio logg=a— by Ecco ora le rappresentazioni ottenute colle formole sopraddette di Pouil- let (I), di Crova (II), di Bartoli (III) e con quest'ultima (IV) Valori ottenuti per le costanti a e b (secondo il met. dei m. q.). Formola I II III IV 7) 0,9868 1,4823 1,1774 1,1843 log d 8,6922 0,0661 9,9718 9,2208 Valori osservati della radiazione e valori calcolati secondo le varie formole. ò Ò . Valore 6 6 to T. m. Catania] Distanza zenitalo VELO OssetratO Valori calcolati della radiazione 1904 Ag. 18 atmosferico & della s vera | & app. radiazione Form. I | Form. II Form. III | Form. IV 25 |8984|8940| 31,127 0,36 0,28 0,53 0,60 0,85 31 |88,78|88,45| 22,559 0,70 0,75 0,77 0, 81 0,72 87,24|87,01| 15,400 1,41 1,69 1,17 1,16 1,43 86,08 |85,90| 12,202 Lola 1,50 1,44 2,10 15 |80,28|80,14| 5,673 4, 60 5,10 6 |70,00|69,94| 2,885 7, 00 6,99 10 0 |36,91|36,90| 1,249 9, 85 8, 42 12 0 |24,37|24,36| 1,097| 10,30 8, 57 3, 93 2,96 4, 52 6,25 5, 08 7,04 11, 82 12, 22 9, Sl 12, 82 13, 80 10,17 Jo Sì O U& UO db H+ 09 OVMCO) B Valor medio degli (0-C) 220 0% #0}98 ==#1625 zt 0,06 — 128 — Come si vede dai valori 0-C e meglio ancora dalla rappresentazione grafica (v. fig. 1), la formola IV si adatta in modo quasi perfetto alle nostre osservazioni, ammontando il Val. medio (0-C) appena a mezzo decimo di grado, che è l'errore di stima inevitabile inerente alle letture attinometriche, i 2 si 6° 78 AMIR SI O Fic. 1. I. Curva di ragguaglio corrispondente alla formola di Pouillet II. ” » ” ” Crova WD, 9 ” ” ” Bartoli ING ” ” alla nuova formola. essendo i due termometri divisi in mezzi gradi. Invece le prime tre formole lasciano residui dieci e venti volte più grandi (da mezzo grado a più di un grado C in media) e presentano un andamento del tutto diverso (v. fig.) da quello osservato della intensità della radiazione. Può sorprendere a prima vista, che malgrado le riduzioni coi m. q. le dette tre formole si adattino così male alle osservazioni, vale a dire che le relative curve rappresenta- — 129 — tive si discostino così inegualmente dagli otto punti di riferimento, dimo- dochè le somme dei valori 0-C risultano in tutti e tre i casi fortemente positive o fortemente negative. In realtà però la condizione x (0-C)=0 è soddisfatta in tutti e tre i casi, se si formano gli O-C pei valori di log g, anzichè per valori di 9g, e questo è naturale, perchè le equazioni di condi- zione nelle a e 2 contengono come termini noti /09 9 e non già g. 5. Applicazione della formola IV ad altre serie di osservazioni negli Osservatori di Catania e dell'Etna e all'isola di Teneriffa (Angstrom). — Potrebbe nascere il sospetto, che questo andamento della curva della radia- zione solare fosse peculiare della giornata e del luogo d'osservazione, o anche, in parte almeno, dipendente dai mezzi d'osservazione impiegati. Credo quindi opportuno comunicare qui appresso altre applicazioni della nostra formola ad osservazioni fatte in tempi e luoghi diversi e soprattutto con istrumenti di altissima precisione, come quelli adoperati da K. Angstròm nelle sue note osservazioni pireliometriche all'isola di Teneriffa. I quadri seguenti danno i risultati di queste applicazioni, dove si noterà la piccolezza degli 0-C e l'assenza di un andamento sistematico, come si ha invece colle altre formole suaccennate, per le quali comunico parimente i valori 0-C. È da notare però, che in queste applicazioni della formola IV ci limitammo sempre a prendere 7 in decimi, così da poter ricavare il massimo utile dalla tabella precedente (rilevandone a vista i valori di e). È probabile quindi, che de- terminando 7 con maggiore approssimazione (mediante il criterio superior- mente fornito) possano ottenersi in qualche caso delle rappresentazioni anche migliori di quelle qui date, che pure sono del tutto soddisfacenti. Aggiungerò per la chiarezza, che i valori della intensità g della radiazione per le serie di osservazioni ottenute negli Osservatori di Catania e dell'Etna sono espressi (come sopra) in gradi C, mentre le % relative alle serie di osservazioni di Angstròm sono espresse in piccole calorie. Come si vede, il valor medio degli (O-C) in queste ultime serie non supera mai, per le riduzioni colla formola IV, il centesimo di piccola caloria. Tutte le riduzioni, sia colla formola IV, sia colle altre, vennero eseguite secondo il metodo dei m. q. — 130 — Osservazioni eseguite (*) nell’ Osserva- torio astrofisico di Catania il 13 Settembre 1904. Formole rappresentative ottenute: IV. 1g (9 + 09,01) = 1,1583 — [9,0439] 0» Osservazioni eseguite (*) all Osserva- torio Etneo il 13 Settembre 1904. Formole rappresentative ottenute: IV.1g (7-4- 09,02) =1,0791 — [8,6359] et» [Form. IV [Form. IV TR lgq =1,0814—[8,8957]e [Powillet I leg. =1,0274 — [8,4589]e III. leg =1,8234- [0,2232]lge [Povillet [Bartoli Dist. zenit. | Spessore BE È Valori dei residui 0-C Dist. zenit. | Spessore | Intens. 9 Valori dei residui 0-C anparente [eimost e 85 E IO] Form. (fm ini | Spparente, [atmosf e |,aiazione rim ON | RESO 88°23/,2 | 22,130|0°,21| — 3| — 1|— 17. 90°1653|44,824| (09,52) —.3|.=%3 87 27,8 |17,1730, 59] + 6|+ 5|j4- 2 89 24,6 | 31,209] 1,50| 4-19] #15 86 31, 4 | 13,831|0, 95 o| — 4|+ 13° 8830,4|22,955| 2,35) +11| 4.2 85 34, 0.| 11,470|1, 55 +10| + 4|4 42 87.34,4| 17,657| ‘(3,130 — 60008 8435,1| 9,722/2, 08| +9 + 15° 59 8441,9 9,897) 5,25), — Q1| = 28 80 41,7] 5,989|3, 76| —25| — 92|U- 42. 8343,4| (8556| 5,95) — el =99 79 42,7 | 5,453/4, 34 — 11] —15|4+ 43 8244,8| 7,524| 6,4| — 1| + 1 7843,8| 5,005|4, 82| — 38| — 5|0 31 8146,1| 6,707| 6,88| — 1| +5 77 44,9 4,6255, 11) --12| —11|— 4 8047,5| 6,047| 7,30) + 6| +16 7645,9| 4,298]5, 60] + 2| + 6|— 22 79 48,6| 5,501] 7,60] 4 7| 4-20 75 46,9] 4,015/5, 96| + 6| +13|— 56 7448, 1| 3,768|6, 28] + 8| +18|— 122 72.50, 7 | 3,348|6, 85| 4-10] +27|—198 Val. med. dei residui = 0,08 = 0,11 =0,50 Val. med. dei residui 008 N02 (1) Dal prof. L. Mendola. (*) Dallo scrivente. — Bl Osservazioni eseguite (*) nell'Osserva- Osservazioni eseguite (*) all’ Osserva- torio astrofisico di Catania il 14 torio Etneo il 14 Settembre 1904. Settembre 1904. $ Formole rappresentative ottenute: Formole rappresentative ottenute: IV.lgg(g — 09,04) —=1,4339— [9,4572]8%® — I° 1gg=1,1344— ([8,7711]e [Form. IV [Form. IV I lgg =1.0127 — [8,8243] e II. lgg=1,0396 — [84157] [Pouillet [Pouillet Dist. zenit. | Spessore | Intens. g |Valori dei residui 0-C Dist. zenit. | Spessore | Intens. g |Valori dei residui 0-C apparente | atmosf. £ miele; | Form. IV | Form. 1 apparente i ARE Form. IV] Form. I 88°32/,2 | 23,170| 0°,45| 4 6| + 16 90°25/,3| 48,150] 0°,60) — 7| — 1 87 87,2 17,870) 0,58) + 2|— $ 89 33,8] 37,953| 1,35) +22) +22 86 41,0| 14,314) 0, 90| —19| — 54 88 39,8 | 34,113) 2,37) — 4| —21 85 43,6 | 11,811| 1,37) —16| — 31 87 44,0 18,408) 3, 18| —19| —45 84 45,7| 9,998) 1, 84| —16)| — 388 86 47,4 | 14,454| 4,18| —13| — 42 83 47,4 8,638| 2, 40| — 9| — 33 85 49,7 |.12,039| 5, 10| H+ 6| —22 82/490) 7,593 2, 86). — 12) — 86 84 51,7 | 10,161| 5, 72 0 — 24 81 50,1 | 6,756) 3, 54| + 9|— 11 83 53,3 | 8,760) 6,33| + 3| —15 80 51,6) 6,0891 3, 961 -|- 6 — 8 82 54,8] 7,680. 6,73| — 7] —18 79 52,6 | 5,589| 4,52) 4+18|+ 12 81.55,9| 6,829) 7,18) — 6| —10 78 58,7 | 5,075| 4,88) +11| +4 16 80.57,4 | (6152) 7,57), — 5 0 7754,7| 4683/05, 19) + 2/4 13 7958104 M5:5901| 75 900 4-6 7655,6| 4,349) 5. 63 + 6/4 85 78.59,8| 5,119| 8,23) — 2) 417 75 57,0] 4,061) 6,03) +11|4 51 78 0,8] 4,720) 8, 50| -— 1| -+25 74 58,8 | 3,809| 6,20) — 7 + 47 Ie 120A 1882 STO 0| +33 78 0,7| 3,390) 7,03| +11|4+ 91 76 3,4| 4,092) 9,08) -+-12 + 51 71 3,7| 3,058) 7,53| + 2|-+109 75 4,8) 3,835| 9,821 --17) +62 74 6,1| 3,610| 9, 48| +16) --66 Valore medio dei residui ze 0,10) =.0}36 Valore medio dei residui = 0,08 = 0,26 (1) Dal prof. L. Mendola. (2) Dallo scrivente. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 18 — 132 — Osservazioni eseguite in Canada ( Te- neriffa,2125") 1129 Giugno 1897 (1). Formole rappresentative ottenute : IV. lg g= 0,2489 — [8,8217]8®8 Osservazioni eseguite in Guimar (Te- neriffa, 360") il 3 Luglio 1897 (!). Formole rappresentative ottenute: IV. lgq=0,2271— [8,9627] e» [Form. IV II. leg=0,2835 — [9,5178] 1g (14 e) [Crova Dist. zenit. | Spessore | Intens. g | Valori dei residui 0-C apparente | atmosf. £ i Form. IV (Forti Il (0) 79°470| 4,312| 1,086| + 1| —23 7426,4| 2,895] 1,235] — 6| #7 68 8,2) 2,097| 1,343] — 3| +19 6143,7| 1,653) 1,413| + 1| -20 55 15,0| 1,375) 1,472) +16) +27 42 9,4| 1,058| 1,516) + 4| + 1 28.57,6| 0,898| 1,546| + 4| —10 516,9) 0,789] 1,545] —18| 41 Valor medio dei residui =) Osservazioni eseguite in Guimar (Te- neriffa, 360") il 2 Luglio 1897) (1). Formole rappresentative ottenute: IV. leg=0,2546 —[9,0346] e [Form. IV II. lg qg=0,2818 — [9,6488] 1g (14- 8) [Crova Dist. zenit. | Spessore | Intens. g {Valori dei residui 0-C spparente | atmosE € |rudiezione| Form. 1V | Fom, 1 (2) 82°56,3 | 7,418| 0,721) + 7) — 20 81 19,4| 6,146) 0,796) + 2| — 1 7431,8| 3,567| 0,992) —16| +19 68 24,8 | 2,599| 1,103) —14| 4-22 62 13,3] 2,056| 1,190] H4- 1| 4-27 55 81,7 | .1,696| 1,252| + 9| -22 42 27.2| 1,501| 1,293| —15| — 27 29 1,5 1,100) 1,363| +17| —12 526,9] 0,966) 1,385] +#+12| —381 Valor medio dei residui = 10) (=E220 Osservazioni eseguite in Alta Vista ( Te- neriffa, 32.52") il 3 Luglio 1897 (*). Formole rappresentative ottenute: IV. log = 0,2699 — [8,8868] 8°»? [Form. IV II leg = 0,3048 — [9,6923] lg (14 e) [Crova Dist. zenit. | Spessore | Intens. g |Valori dei residui 0-C apparente | atmosf. & EC OICIRI Form. 1V | Fori ll ©) 81°17/5| 6,149) 0,730| — 9| —396 75 7,7) 3,715) 0,987) +29] +47 68 11,8| 2,585| 1,095) —12| +19 62 12,4 2,065) 1,189| 4 1| -27 56 22,7 1,740] 1,235) —10| +7 42 25,2 1,307| 1,327) — 3| —-10 30 46, 5 1,125| 1,9364| — 7| —28 526,9) 0,970) 1419) +12) —25 Valor sccifi dei residui = 10. 2520 (Form. IV Tn legq=0,8110 — [9,5775]le (14- e) (Crova Dist. zenit. | Spessore | Intens. 4 | Valori dei residui 0-C apparente | atmosf. £ I eee Form, IV] Form. IL © 86°1975| 9,062| 0°S16| 4 4| —39 80 44,1| 4,106) 1,138| —17| 433 741,7) 2,496| 1340) +11| 4-65 64 0,4| 1,812) 1,421) — 1| +36 61 9,8) 1,411) 1487) + 1| 419 55 6,1 1,191] 1,525| + 2) 4-8 42 13,4| 0,920] 1,580| + 5| —20 2729,7| 0,769) 1,611| + 5| —388 523,9| 0.685) 167) — | — 63 Valor medio dei residui = =55) (1) Dalla memoria di K. Angstròm. L’intensité de la radiation solaire è differentes altitudes. Upsala 1900. (2) In questi valori di e è tenuto conto dell’altezza barometrica B delle singole sta- zioni, vale a dire si ammisero per gli spessori atmosferici corrispondenti a varie distanze zenitali i valori risultanti dalla tavola citata nella precedente nota (pag. 2), moltiplicati per B:760. — 133 — Chimica. — Swi nitroderivati aromatici (!). Nota di R. Crusa, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. È noto che gli alogeno nitroderivati aromatici si differenziano dai sem- plici derivati alogenici aromatici per la facilità con cui l’alogeno può rea- gire: un atomo di alogeno in posizione 0rfo (meno in para, ancor meno in meta) rispetto ad un gruppo nitrico può essere infatti facilmente sostituito coll’idrossile o col residuo amidico (?). Questa reattività dell'atomo di alo- geno in presenza dei gruppi nitrici fu messa in evidenza da alcune reazioni studiate e descritte da me in una Nota precedente (3). In quella Nota ho mostrato come il cloruro di picrile reagendo sul fenilidrazone della aldeide propionica, sulla benzal- e piperonalazina e sulla benziliden- e cinnamiliden- anilina — a differenza del modo di comportarsi coi fenilidrazoni delle al- deidi aromatiche, colle quali si addiziona (4) — mette in libertà una mo- lecola di aldeide, formando rispettivamente il trinitroidrazobenzolo, trinitro- fenilidrazone dell’aldeide benzoica e piperonilica e picrilanilina CH» (NO); CI + CH; NH. N:CH C,H; + H,0= C,H; CHO + HC1+ + C;H; NH . NH C;Hs (NOx): CH, (NO;); CL-+ CH; CH:N. N:CH 4H; + H,0 = C,H; CHO + H01-+ + CH; (N0;);. NH. N:CH CH; CH; (NO:):C1+ CH; CH:N C4H; + H,0 = C4H3(NO;); NH C,H;. Io ora ho ripreso ed esteso queste ricerche. In una prima serie di esperienze ho studiato l’azione del cloruro di picrile sull’acetonazina, sul s-trinitrofenilidrazone, 2,4 dinitrofenilidrazone e p-nitrofenilidrazone dell’acetone. Lo scopo immediato di queste esperienze era di vedere in primo luogo se la reazione sulla acetonazina portasse al- l’esanitroidrazobenzolo, mettendosi in libertà due molecole di acetone, e se- condariamente di vedere se la presenza dei gruppi nitrici nella molecola degli idrazoni ne ritardasse l’idrolisi. Il risultato delle esperienze fu il seguente: il cloruro di picrile agisce sull’acetonazina mettendo in libertà una sola molecola di acetone e formando il trinitrofenilidrazone dell’acetone, sul quale non agisce ulteriormente; reagisce invece assai facilmente sul dinitro- e mo- (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale dell’ Università di Bologna. (*) Berichte 24, 2101. (3) Questi Rendiconti XV, II, 238; Gazzetta chimica 37, 214. (4) Questi Rendiconti, XVI, 1° 409. — 134 — nonitrofenilidrazone dell’acetone mettendo in libertà acetone con formazione rispettivamente del 2,4,6,2’,4-pentanitroidrazobenzolo, e 2,4,6,4"-tetrani- troidrazobenzolo. In una seconda serie di esperienze fu studiato il comportamento del 1,2,4-clorodinitrobenzolo. Questo cloronitroderivato si comporta in modo per- fettamente analogo al cloruro di picrile: reagendo sulla benzalazina, aceton- azina e benzilidenanilina fornisce rispettivamente dinitrofenilidrazone del- l'aldeide benzoica e dell’acetone e dinitrodifenilamina. Tutte queste reazioni per metterne meglio in evidenza l'andamento si possono rappresentare colle seguenti equazioni CH, (NO;)(C1-+ (CH), C:N N C(CH)),-|- H.0 — (CH), COSROE + C,H:(NO,); NEN:C(CH;); C;Hs (NO): C1+-2,4—(N0,): CH: NH. N:C (CHs)-+-H:0=(CH3); CO+H01+ NO, NO. i VAIO. i ZII SURTO, << NE.NE—{ NO: NO, 0:H; (NO); C1-+4— NO; . CH, NH . N:C(CH;), +H;0(CH;), CO +H01 + NO, Ne ZA AI +NO.(__ >= NH.NH E DIO: C:H;(NO»), CL + C,H; CH:N N:CH C;H; +H,0 = CH; CHO + HCl + + CH; (NO,), NH. N:CHC;H; C:H; (NO), Cl + (CH;) C:N.N:C(CH;) + H,0 = (CH;); CO + H01+ + C,Hs (NO») NE .N:C(CHs): C:H; (NO), C1-+ CH; CH:NC,H; + H,0= CH; CHO + HOI Con queste reazioni io credo di aver messo in chiaro ancora meglio la reattività dell'atomo di cloro sia nel cloruro di picrile sia nel 1,2,4-cloro- dinitrobenzolo. Ma questa reattività non è propria solamente degli alogeni ma anche di altri gruppi (negativi) che eventualmente li sostituissero. In particolar modo un gruppo NO: stesso in posizione orfo rispetto ad un altro gruppo nitrico si comporta analogamente all'atomo di cloro: l’o-dinitroben- zolo (*) e l’as-trinitrobenzolo (*) reagiscono con la massima facilità con la (1) Berichte. //, 1155. (2) Annalen. 2/5, 361. — 135 — potassa, con l’ammoniaca o con un'amina sostituendo un gruppo nitrico con l’idrossile, col residuo NH, od NHR. NO; (I PO:I AGI NERO CRY — (pe, MCH —WC.H, \wo, \wo, (2) SNO, (2 wo, NO, (1 0H0 NO; (1 NHR (1 CsH:—NO, (2) To CeH35—NO, (2 9 CoH3-NO, (2 = CsH3-NO, (2 NO, (4) NO, @ Wo, 8 \NO, Anche l’atomo di idrogeno stesso in posizione oro rispetto ad un gruppo nitrico pare acquisti una reattività speciale: la facilità con cui il trinitro benzolo simmetrico, ed il m-dinitrobenzolo passano per ossidazione rispetti- vamente ad acido picrico e dinitrofenolo (') stà molto facilmente in relazione coll’influenza dei gruppi nitrici su un atomo di idrogeno in posizione 0770 rispetto ad un gruppo nitrico. Un'altra proprietà notevole dei nitro-derivati aromatici che dipende dal- l'influenza dei gruppi nitrici, e che si collega molto intimamente alla reat- tività più sopra studiata (?) è quella trovata da Bruni (*) di essere forte- mente dissociati in soluzione formica. Questa dissociazione si può spiegare ammettendo che in un nitroderivato aromatico, che indico così =CH NA CO Te e NO, l'atomo di idrogeno od un alogeno od un gruppo nitrico uniti all'atomo di carbonio segnato con asterisco si trovino in soluzione formica allo stato di ione. Il gruppo metilico invece che è unito alla molecola dei nitro derivati allo stesso modo con cui è unito p. es. nel toluolo, non si trova allo stato di ione, ciò che stà in accordo col fatto che il trinitromesitilene non è in soluzione formica affatto dissociato. Tutto ciò che ho detto sinora sta a dimostrare che l'atomo di idrogeno di alogeno ad un gruppo nitrico (in posizione orto rispetto ad un gruppo nitrico) sono uniti alla molecola di un nitroderivato aromatico in un modo del tutto speciale. In altre parole la valenza colla quale questi atomi o gruppi di atomi sono legati alla molecola non pare sia la valenza solita del carbonio. Mi riservo di tornare sopra questo argomento quando alcune ricerche che ho in corso saranno ultimate. il (1) Annalen, 2/5, 356. (3) P. Walden, Abmnorme Elektrolyte, Zeitschrift f. Phy. 43, 305. (3) Gazzetta chim. 20, II, 76, 317; 24, II 479. 3 — 136 — PARTE SPERIMENTALE. 1. Astone del cloruro di picrile sull’acetonazina. — Ad una soluzione alcoolica di acetonazina (1 mol.) si aggiunge una soluzione alcoolica di cloruro di picrile (2 mol.) sciolto nella più piccola quantità di alcool bollente, ed il miscuglio si fa bollite a ricadere per due ore. Per raffreddamento si se- parano dei cristalli aghiformi gialli, che fondono a 130°, del trinitrofenil- idrazone dell’acetone. Gr. 0,2207 di sostanza diedero 45,6 cem. di N misurati a 12° e 756 mm. (NO»); CH» NEN:C(CH3): ; Cale. N:24,73 ; Trovato 24,40. Purgotti (') e Curtius e Dedichen (*?) che preparano quasi contempora- neamente questo idrazone trovano 125° per punto di fusione. Per accertarmi dell'identità del mio corpo col trinitro fenilidrazone dell’acetone l'ho fatto bollire con acido cloridrico; si mette in libertà acetone ed in soluzione ri- mane il cloridrato della trinitrofenilidrazina. Per aggiunta di aldeide ben- zoica, infatti, alla soluzione fredda del cloridrato si ha immediatamente il benzaltrinitrofenilidrazone fondente a 272-273° (*). Ad ogni modo è noto che negli idrazoni il punto di fusione è sommamente influenzato dal modo di riscaldamento. Nelle acque madri della reazione si riscontra facilmente acetone ed acido cloridrico. Facendo reagire ulteriormente fra di loro cloruro di picrile e trinitro- fenilidrazone dell’acetone non si ha alcun risultato (4). 2. Azione del cloruro di picrile sul dinitrofenilidrazone dell’acetone. — Gr. 3,65 di dinitrofenilidrazone dell’acetone sciolti in pochissimo alcool bollente si fanno bollire a ricadere con una soluzione alcoolica concentrata di gr. 4 di cloruro di picrile. Dopo circa un quarto d'ora di ebullizione comincia a separarsi una sostanza cristallina gialla che finisce per impedire totalmente l’ebullizione. Si filtra a caldo ed il liquido filtrato si fa bollire ancora col che si separano altra quantità di sostanza. Questa sostanza è pochissimo solubile in alcool anche a caldo, si scioglie meglio in acido acetico glaciale, acetone ed etere acetico. Si purifica scio- gliendola in etere acetico ed aggiungendo a caldo un eccesso di alcool con (1) Gazzetta chim. 24, 1, 569. (3) Journal f. pract. Chemie [2], 50, 274. (3) Questi Rendiconti, XV, II, 238. (4) Per azione del cloruro di picrile sull’acetaldazina si mette in libertà aldeide acetica e si ottengono piccole quantità di una sostanza cristallina, che contiene cloro fondente a 123° e che contiene il 18,06 di N 0/0. i — 137 — alcune goccie di acido acetico. All’analisi dà dei numeri corrispondenti a quelli richiesti da un pentanitroidrazobenzolo gr. 0,1316 di sostanza diedero gr. 0,1688 di CO, e gr. 0,0288 di H,0 gr. 0,1162 di sostanza diedero 25,6 cem. di N misusati a 29° e 754 mm. C,2H7010N7 CaleN-35:2006 ide eN323,96 Rrovatog €349: SH 9 3A N23: Questo 2,4,6,2',4-pentanitroidrazobenzolo cristallizza in tavole microsco- piche giallo-dorate fondenti a 226° con decomposizione. Le sue soluzioni per aggiunta di un alcali anche in piccolissima quantità si colorano in vio- letto scuro intenso: è bene perciò aggiungere nella cristallizzazione alcune goccie di acido acetico alla soluzione. Nelle acque madri della reazione si riscontra acetone ed acido cloridrico : il rendimento è quasi quantitativo. 3. Azione del cloruro di picrile sul p-nitrofenilidrazone dell’acetone. — Quantità equimolecolari di cloruro di picrile e di p-nitrofenilidrazone del- l’acetone in soluzione alcoolica concentrata si fanno bollire a ricadere per due ore. Per raffreddamento ed in parte anche durante l’ebullizione stessa sì separa una sostanza cristallina che fu purificata sciogliendola a caldo in poco etere acetico ed aggiungendo un eccesso di alcool. All'analisi si ebbero dei numeri che concordano con quelli richiesti da un tetranitroidrazobenzolo : gr. 0,1492 di sostanza diedero gr. 0,2179 di CO, e gr. 0,0351 di H,0 gr. 0,1128 di sostanza diedero 22,2 cem. di N misurati a 17° e 758 mm. C,2.Hz 03 Ng CaleseC/899 2 ON CESSI OMETONE 23107 Trovato Cato 984800: “NET N29 Questo 2,4,6,4', tetranitroidrazobenzolo fonde a 210°, e forma dei cri- stalli gialli aghiformi poco solubili nei solventi ordinari: si scioglie bene a caldo nell’acetone, nell’acido acetico glaciale e nell’etere acetico. Le sue soluzioni cogli alcali, anche in piccolissima quantità si colorano in scuro intenso (1). Nelle acque madri della reazione fu riscontrato l’acetone e l'acido clo- ridrico. 4. Astone del 1,2,4,-clorodinitrobenzolo sull’acetonazina. — Quantità equimolecolari di acetonazina e dinitroclorobenzolo sciolti in poco alcool a caldo si fanno bollire a ricadere per due ore. Dopo raffreddamento si sepa- (1) Tra i derivati nitrici dell’idrazobenzolo questi due nitroderivati da me preparati { completano la lacuna esistente tra il trinitroidrazobenzolo (A 790, 132; 253, 2; J. p. Ch. [2], 37, 346; questi Rendiconti, vol. XV, 2°, 240) e l’esanitroidrazobenzolo recentemente preparato da E. Grandmougin e Lecman (B 329, 4884). rano dei cristalli gialli aghiformi del dinitrofenilidrazone dell'acetone fon- denti a 128° come hanno trovato Curtius e Dedichen (!). E. Fischer, che ha preparato questo nitroidrazone per nitrazione del fenilidrazone dell'ace- tone, trova 127° (°), Purgotti trova 117°. Per identificarlo l'ho fatto bol- lire con acido cloridrico concentrato, col che si rimette in libertà acetone che distilla, mentre rimane in soluzione il cloridrato della dinitrofenilidra- zina. Per aggiunta di benzaldeide si ha immediatamente la formazione del dinitrofenilidrazone dell’aldeide benzoica riconosciuto col suo punto di fu- sione 203-204° (8). Nelle acque madri della reazione si riscontra acetone ed acido cloridrico. 5. Azione del 1,2, 4-clorodinitrobenzolo sulla benzalazina. — Quantità equimolecolari delle due sostanze sciolte a caldo in poco alcool si fanno bollire a ricadere per sei ore. Per raffreddamento ed in parte anche durante l'ebollizione si separano dei cristalli aghiformi giallo arancio del dinitro- fenilidrazone dell’aldeide benzoica fondente a 203-204° (8). Per distillazione in corrente di vapore delle acque madri della reazione si ha benzaldeide, mentre nelle acque madri stesse si riconosce facilmente l'acido cloridrico. 6 Astone del 1,2,4,-clorodinitrobenzolo sulla benzilidenanilina. — Soluzioni alcooliche equimolecolari concentrate delle due sostanze si fanno bollire a ricadere per due ore. Il miscuglio si colora in rosso, e per raffred- damento si separa una polvere cristallina rossa che fu ricristallizzata dal- l'alcool. Fonde a 156° ed alla analisi dà dei numeri richiesti dalla 2,4- dinitrodifenilamina gr. 0,1476 di sostanza diedero gr. 0,2998 di CO» e gr. 0,0506 di H0 CH:NHC,H3(NO:)," Cale. C: 55,59 ; H: 3,47 Trovato C: 55,39 ; H: 8,80 Nelle acque madri della reazione si riscontrano agevolmente l'aldeide benzoica e l'acido cloridrico. Tutte le reazioni descritte nella parte sperimentale avvengono con buo- nissimo rendimento, e tutte queste sostanze polinitrate diventano quindi più facilmente preparabili. Mi riservo perciò di fare su di esse uno studio più dettagliato. (*) Journal f. practische Chemie 50, [2], 266. (?) Annalen 253, 58. (3) Gazzetta, 24, 1°, 569. — 139 — Chimica. — Decomposizione elettrolitica di acidi organici bi- carbossilici. Acido suberico. Nota del dott. B. L. VAnzETTI ('), pre- sentata dal Socio G. KOERNER. Analisi dell'olio separato nella elettrolisi del suberato bipotassico. — La parte insolubile in acqua, dopo essiccamento accurato venne sottoposta a riscaldamento graduale in bagno ad olio e solo quando fu raggiunta la temperatura di 180° incominciò a distillare qualche goccia di prodotto, mentre il termometro che si teneva immerso nel vapore saliva improvvisamente sopra 150°. Questo sarebbe stato sufficiente per escludere la presenza degli idrocar- buri cercati; in ogni modo la loro assenza fu accertata più tardi nella sepa- razione sistematica dei prodotti della reazione. Essendosi osservato nel prodotto della elettrolisi una spiccata azione riducente sul liquido alcalino di Fehling e sulla soluzione ammoniacale di argento, sì sperimentarono tuiti i mezzi per riuscire alla separazione di com- posti e funzione aldeidica, la cui presenza si poteva prevedere per una serie di azioni secondarie di riduzione, o, più verosimilmente, di ossidazione, sui prodotti della elettrolisi stessa. Il bisolfito alcalino separò infatti una so- stanza oleosa, insolubile nell'acqua e nei carbonati alcalini, che conservava in alto grado la proprietà di ridurre la soluzione ramica e facilmente si resinificava per riscaldamento con alcali caustici. Questa venne naturalmente messa in disparte e studiata a sè. Un tentativo di distillazione frazionata a pressione ridotta (10 mm.) eseguito sull'olio in questione, dopo il trattamento con bisoltito, dimostrò su- bito che la sua composizione doveva essere delle più complesse, perchè la temperatura del vapore in distillazione continuava a salire, indicando così che le varie frazioni separate a piccoli intervalli dovevano avere una com- posizione diversa. Tutte le frazioni mostravano, oltre ad un odore etereo pe- netrante, una azione riducente energica ed immediata sulla soluzione diluita di permanganato potassico, come è caratteristica di composti non saturi. Le prime frazioni, che avevano odore etereo più spiccato, furono sotto- poste a saponificazione mediante potassa. Si ottenne così qualche cm? di un olio facilmente distillabile con vapor d'acqua, che alle proprietà fisiche e chimiche lasciava subito riconoscere la sua natura di alcole non saturo. La composizione centesimale trovata in base ai risultati analitici lo fa ritenere come a/cole essilenico: Trovato Calcolato per C3 H1»0 0 71.66-71.70 72.00 H 12.27-12.22 12.00 (*) V. questi Rendiconti pag. 79. RempIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 19 È Mo Il punto di ebullizione di questo prodotto si trova entro limiti di qualche grado, al di sotto di {60°. Probabilmente esso non è un prodotto del tutto unico, ma costituito da una mescolanza di isomeri, la cui diversità è data, verosimilmente, dalla differenza nel posto della doppia legatura. Il suo peso specifico è 0,859 a 20 °/ 0°, il che fa escludere che si possa trattare di alcoli a catena aliciclica, chè il peso specifico di tali composti è più elevato e spesso superiore a 0.9. Non si poteva pensare ad una sepa- razione degli isomeri eventualmente presenti, per la quantità relativamente piccola del prodotto. La neutralizzazione del liquido proveniente dalla saponificazione, me- diante H,S0, dil., dopo allontanati gli alcoli, diede un olio acido volatile anch'esso con vapor d'acqua, ma più difficilmente, la cui composizione cor- risponde a quella di un acido non saturo a 7 atomi di carbonio rispondente alla formola CH: 03: Trovato Calcolato per C7H1s 0» C 64.94 64.92 65.62 H 9.80 9.55 9.38 I principali caratteri fisici e chimici di questa sostanza corrispondono infatti pienamente a quelli di un acido non saturo; anche qui però sì può intuire Ja presenza di isomeri per differenza di posto nella doppia legatura. Facilmente si potè accertare che questo acido entra nella composizione del sapone separato dal liquido elettrolizzato: quel sapone non è infatti altro che il suo sale di potassio. Meno facile e molto più laboriosa riuscì la separazione dall'olzo di un’altra sostanza pochissimo solubile in acqua, solubile in etere e dotata anch'essa di odore etereo. Sospesa in acqua reagiva neutra al tornasole; non si discioglieva nei carbonati alcalini, anzi l'aggiunta di questi sali alla sua so- luzione acquosa provocava nel liquido un intorbidamento e la separazione pres- sochè completa. All'analisi diede gli stessi risultati che l'acido non saturo sopra de- scritto, conducendo pure alla formola C;H,30;. Ed ecco i risultati analitici ottenuti : Trovato Calcolato per C7H120» (0, 65.21 65.06 65.62 Hi 9.48 9.58 9.38 Questa sostanza, pure essendo neutra ed insolubile nei carbonati alca- lini, si discioglie formando un sale di bario quando venga bollita con una soluzione di idrato baritico; da questo sale si separa poi, per azione degli acidi minerali, un nuovo composto, che ha tutti i caratteri di un vero acido. È solubilissimo in acqua, è solubile in alcool ed in etere; decompone con — 141 — forte effervescenza i carbonati alcalini. Dalla soluzione del sale sodico pre- cipita facilmente, con AgNO:, il sale d'argento, che non si può ottenere cristallizzato senza che subisca una parziale decomposizione. Più facilmente invece si ha allo stato di purezza, in polvere cristallina dall’alcole assoluto, il sale di Bario. All’analisi diede: Trovato °/o Calcolato per (C: H13 03): Ba Ba 31.91 32.15 Lasciato a sè, dopo qualche tempo e specialmente se posto sopra es- siccatore, l’acido si trasforma di nuovo nel prodotto neutro primitivo inso- lubile nei carbonati alcalini. Evidentemente si tratta del laltone di un os- siacido C, H,40;, la cui formazione si può del resto pienamente giustificare. Un'altra particolarità svela la natura lattonica di questo prodotto, ed è il comportamento della sua soluzione acquosa satura a 0°, la quale riscaldata a 25-30° diventa lattiginosa, per riacquistare però limpidità ad una tempe- ratura vicina a 80°. Il suo peso specifico è un poco dissimile da quello del- l'acqua, perchè a lungo andare il liquido lattiginoso perde la sua opalescenza ed il lattone si porta alla superficie. La porzione di olio separata mediante il bisolfito alcalino risultò costi- tuita da composti a funzione aldeidica, dai quali però non fu possibile se- parare un individuo nettamente caratterizzato. Il liquido alcalino acquoso proveniente dalla elettrolisi, dopo separato l'olio sopradescritto, fu trattato con acido cloridrico diluito per liberare gli acidi organici esistenti sotto forma di sale. A questa operazione sì fece pre- cedere una estrazione con etere la quale diede solo tracce di un olio in tutto simile a quello separato prima ed analizzato. L'acido cloridrico precipitò frazionatamente: 1) Una piccola quantità di sapone (prima che la neutralizzazione fosse raggiunta). 2) Un poco di acido suberico. 3) Acidi non saturi oleosi insieme ad altro acido suberico. 4) Una miscela di acz4di solubilissimi in acqua ed estraibili con etere dalla soluzione salina. Il sapone è eguale a quello prima descritto. L'acido suberico così riottenuto rappresenta il prodotto non attaccato dalla corrente; è in quantità piccola, e ciò deriva certo dal fatto che, anche dopo incominciata la formazione di acidi monobasici per la sua decomposi- zione, esso è sempre quello che si incarica, per così dire, di condurre la maggior quantità di corrente ed è perciò soggetto in alto grado alle azioni di decomposizione anodica. Infatti, se si fa passare la corrente nel liquido da elettrolizzare fino a che la conducibilità è quasi scomparsa, si osserva de uo che nel liquido non rimane quasi più traccia di acido suberico, mentre acidi monocarbossilici si sono formati. In altre parole il valore della conducibi- lità di quella soluzione dipende essenzialmente dalla presenza dell'acido suberico. Gli acidi non saturi oleosi separati sotto 3) sono della stessa natura di quelli che furono già trovati allo stato di etere nell'olio sovranuotante al liquido elettrolizzato. Si può inoltre facilmente accertare nella miscela la preponderanza dell'acido eptilenico. Uno dei prodotti più interessanti della decomposizione è certamente la miscela acida solubile separata da ultimo. Questo, che non è un prodotto unico, ma evidentemente una mescolanza di vari termini, contiene disciolto ancora un poco di acido suberico, che va lentamente cristallizzando, ma è prevalentemente formato da ossiacidi e contiene verosimilmente anche degli acidi a funzione chetonica ed aldeidica. Una gran parte di questa sostanza, lasciata all'aria, diventa insolubile in acqua, rimane però la sua solubilità nell'etere e, ciò che è più curioso, si discioglie nelle soluzioni anche concentratissime di carbonato sodico, senza dare la minima effervescenza (purchè si allontani prima il poco acido sube- rico separatosi). Gli acidi minerali la separano, a quanto pare inalterata, dalla soluzione nel carbonato alcalino; riduce la soluzione di Fehling e quella ammoniacale di argento. Di questo prodotto insolubile, che ha un peso spe- cifico maggiore di 1 e che si deve probakilmente considerare come un pro- dotto di condensazione degli acidi solubili, mi occupo presentemente e spero di poter presto concludere qualche cosa di preciso sulla sua natura. * x X Cerchiamo ora di renderci conto della formazione delle sostanze separate analiticamente, tra i prodotti della decomposizione elettrolitica del suberato potassico. La loro formazione si può spiegare con una serie di reazioni secondarie (in massima ossidazioni), che hanno spesso tra di loro un legame genetico. Per l'alcool a 6 atomi di carbonio si potrebbe ammettere che l'anione suberico perda contemporaneamente i due COO all'atto della scarica e lasci libero il residuo bivalente -CH,-CHs-CH,-CH,-CH,-CHs- il quale, analoga- mente a quanto avviene per il residuo tetracarbonico dell'acido adipico, tenderebbe a formare l’idrocarburo non saturo CH,:CH-CH,:CH,-CH,-CH,; o un suo isomero a catena normale aperta; però prima che ciò avvenga si fisserebbe dell'ossigeno al residuo instabile, dando luogo a formazione di al- deide, o di alcool non saturo: «CH,-CH,:CH,:CH,-CH,-CHy — CH;-CH,-CH,-CH,-CH,-CHO, CH,:CH-CH,-CH;-CH,-CH,-0H . — 143 — È più probabile però che si abbia invece da prima la separazione di un solo COO, e conseguente azione dell'ossigeno anodico, con formazione di acido non saturo: 2H0O0C-CH,-CH,-CH,-CH,-CH,-CH,. — 2H00C-CH;-CH,-CH,-CH,-CH,-CH;: + 0 = 2H00C-CH. CH, CH, CH, CH:CH, + H;0, dal quale può trarre origine per addizione di acqua, l’ossiacido saturo cor- rispondente: —CH:CH, + H-0H = —CH, CH, 0H. D'altra parte ossiacidi possono generarsi anche per azione diretta del- l'ossidrile sul residuo dell’anione: N H00C-CH,:CH,-CH,-CH,-CH,-CH, + OH = = H00C-CH,-CH,:CH,-CH,-CH,-CH,-O0H ° Non è poi da maravigliarsi che gli ossidrili degli ossiacidi formatisi si trovino uniti ad altri atomi di carbonio che non siano gli estremi, perchè sì sa che le doppie legature, specialmente in soluzione alcalina ed a caldo, ten- « dono a spostarsi verso il carbossile; così si chiarisce la formazione di com- posti a natura di lattone, per un semplice processo di eterificazione interna, o anidrificazione, quando si abbia la distanza voluta tra carbossile ed ossi- drile; per esempio: ; on Oar soa H0OOC-CH,-CH,-CH(0H)-CH;-CH,. CH} + 00-CH,CH,CH-CH,-CH,:CH;, ciò che si può avere del resto anche direttamente dagli acidi non saturi: | (0) | H0O0OC-CH,-CH,-CH:CH-CH,-CH} — 0C-CH,-CH,CH:CH,:CH,CH;. Accertata la presenza degli acidi non saturi e degli ossiacidi, riesce più facile spiegare l'origine dell’alcole a 6 atomi di carbonio non saturo e del suo sale etereo, per reazioni analoghe a quelle sopradeseritte, sui residui della seconda decomposizione anodica, che si compie su questi nuovi acidi, i quali pure prendono parte al trasporto della elettricità nella cellula p. es. : CH::CH-CH,-CH,-CH,-CH,.C00. — CH;:CH-CH,-CH,-CH,: CH; + -0H = = CH, : CH-CH,-CH,-CH,.CH;-C00-CH,-CH,:CH,-CH, CH È CH, . — 144 — Come poi, vicino a questi gruppi principali di sostanze si formino anche acidi contenenti il carbonile chetonico o aldeidico, si spiega benissimo, te- nendo conto degli ulteriori processi di ossidazione che si possono avverare all'anodo, dove l'ossigeno spiega, come s'è visto, una così energica azione. Certo sarebbe preferibile poter separare i due spazi della cellula; bisogna però notare che la reazione avviene lo stesso in modo a bastanza netto, ed una separazione automatica tra i varî termini si ha, perchè alcuni prodotti della reazione si trasportano rapidamente alla superficie, dove rimangono a galleggiare, sottraendosi così ad ulteriori azioni chimiche. Abbiamo inoltre accertata l'assenza di idrocarburi di qualsiasi natura. Che nel caso dell'acido suberico tali composti non si possano in alcun modo isolare, almeno in quantità apprezzabile, per variare di concentrazione, di temperatura e di densità di corrente, meraviglia meno, quando si pensi al fatto che all’anodo ci troviamo di fronte a parti di molecola che verosimil- mente si muovono con minor vivacità, avendo per la loro maggiore comples- sità un coefficiente d'attrito maggiore ed essendo quindi costrette a rimanere più lungo tempo in prossimità dell'ossigeno nascente all’anodo ed esposte alla sua azione. D'altra parte noi ammettiamo, in conformità alle vedute moderne sul comportamento degli acidi polibasici in soluzione, che la decom- posizione elettrolitica di tali composti sia solo parziale, almeno per una gran parte delle molecole, che si abbiano cioè soprattutto anioni monovalenti, i quali deposta la carica e perduto il COO, assumono un assetto definitivo prima di subire nuova ionizzazione. È certo che se questo gruppo di reazioni è fondamentale e si delinea in modo netto, altre molte, e talune anche assai complesse, devono aver luogo e per l'unione reciproca dei residui all’anodo e per più complicate 0s- sidazioni. Ciò spiega a sufficienza la difficoltà di procedere ad una separa- zione dei singoli prodotti per procedere alla loro identificazione. Riassumo brevemente: La decomposizione elettrolitica del suberato bipotassico in soluzione concentrata, eseguita in cellula semplice tra elettrodi di platino (densità di corrente 0.5 A., temperatura 45° circa, 12 V.) avviene assai facilmente e rapi- damente con forte sviluppo di C0,, vicino a poco ossigeno e circa 1°/, di CO. Non si formano idrocarburi saturi, o non saturi. Si hanno in prevalenza prodotti di ossidazione non saturi e tra gli altri sì potè constatare la presenza di: 1) Alcoli non saturi a 6 atomi di carbonio. 2) Acidi non saturi a 7 atomi di carbonio. 3) Ossiacidi saturi a 7 atomi di carbonio. 4) Lattoni pure a 7 atomi di carbonio. 5) Composti neutri a funzione aldeidica. 6) Chetoacidi ed aldoacidi. — 145 — Anatomia vegetale. — Su alcune particolarità morfologiche ed anatomiche delle radici di Hedysarumcoronarium L.() Nota di G. SEvERINI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Le radici dell’ Hedysarum coronharium L. (volgar. Sulla) presentano costantemente, oltre ai noti tubercoli, delle caratteristiche formazioni le quali furono studiate nel 1898 dal prof. G. Mottareale, il quale pubblicò in propo- sito una Nota nella quale descrisse sommariamente i caratteri morfologici delle formazioni in parola che indicò, con vocabolo abbastanza felice, col nome di « palette » (*). Il prof. Mottareale stesso ivi afferma che il De Can- dolle notò, fino dal 1825, la presenza di queste palette nelle radici di Sulla. In seguito il dott. Dino Sbrozzi, nella sua monografia sulla coltivazione della Sulla (*), riportò alcuni risultati di sue esperienze eseguite per stabi- lire la formazione delle palette su terra da orto e su sabbia con o senza concimazione azotata, previa o no sterilizzazione del mezzo, concludendo che le piante provviste di palette sono più vegete e robuste e che le palette stesse si formano indipendentemente dalla sterilizzazione del terreno cultu- rale. Nessuno però si era fino ad ora occupato in modo speciale del valore morfologico e fisiologico di questi organi; ho cercato quindi di studiare l’im- portante questione e riassumo qui brevemente i risultati delle mie indagini, riserbandomi di pubblicare al più presto lo studio con maggiori particolari, unendovi anche alcune tavole illustrative (4). Per quanto riguarda i caratteri esteriori delle palette, la loro disposi- zione, il loro numero, mi limito qui a brevi cenni. Esse si formano sulla radice principale soltanto nelle piante giovanissime; in seguito cadono da esse, e via via si formano nelle radici di ultimo o penultimo ordine. La loro forma è quella di laminette ovali, appiattite, ricordante un po’ quella di foglioline di musco: distinguiamo una base, un apice, due facce, due mar- gini. La loro inserzione sulla radice si fa o direttamente per la base o me- diante un sottile e quasi impercettibile peduncolo. Va notato però che esse si dispongono in modo che l’asse trasversale che congiunge i due margini è pa- rallelo all'asse della radice: in tal modo le due facce vengono ad essere (®) Lavoro eseguito nel R. Istituto Botanico di Roma. (2) G. Mottareale, Di alcuni organi particolari delle radici tubercolifere del- UHedysarum coronarium in relazione al Bacillus radicicola e alla Phy- tomyxca leguminosarum. Nota prev. Atti del R. Ist. d’incoraggiamento di Napoli. Serie 4, vol. II, n. 4, 1898. (*) Dino Strozzi, Za Sulla. Bibliol. Agr. Ottavi, vol. XIX, 1902. (4) Il lavoro verrà pubblicato negli Annali di Botanica del prof. Pirotta. — 146 — laterali e i due margini uno superiore ed uno inferiore. Una delle facce è costantemente ricoperta da un fitto intreccio di peli assorbenti: l'altra è liscia oppure munita di brevissime e rare papille. La simmetria è bilate- rale. Il loro numero è variabilissimo specialmente in rapporto colla natura del terreno. In piantine di 2-3 mesi, coltivate in vasi di sabbia, ne ho con- tate da 40 a 60 per ciascuna; in piante di 2 anni, coltivate in terreno or- dinario, oltrepassano spesso il centinaio. Le palette, come le radici normali secondarie, traggono origine dal periciclo della radice sulla quale s'inseriscono e precisamente di contro ad una delle lamine vascolari. Osservate in sezione trasversale e procedendo dall'esterno verso l'interno, ci presentano: 1° un' epidermide la quale in una delle facce ha numerosissime cellule che si estroflettono formando dei lunghi peli che si mantengono semplici ed unicellulari; 2° un cilindro corticale bene sviluppato, con lo strato più interno di cellule presentante i caratteri di endodermide: è questo il tessuto che essenzialmente si modifica originando la caratteristica forma della paletta; 3° un cilindro centrale con pericielo, con fasci semplici a cordoni cribrosi e lamine vascolari alternanti fra loro. La paletta è ordinariamente diarca, raramente triarca. La paletta possiede poi un apice vegetativo protetto da una caliptra formata da cellule piuttosto grandi e facilmente dissociabili. Al disotto del- l'epidermide della faccia munita di peli troviamo uno strato di piccole cel- lule strettamente addossate le une alle altre, il quale si presta molto bene a rinforzare l'epidermide e a proteggere le parti sottostanti. Il cilindro cen- trale trovasi costantemente spostato verso il fianco fornito di peli e soltanto due o tre strati di cellule lo separano dall'epidermide, mentre sull'altro fianco, come pure sopra e sotto al fascio, le cellule del parenchima corticale aumen- tano di numero e, per la maggior parte, notevolmente in volume, così da determinare con la loro massa la curiosa forma laminare della paletta. Per quanto riguarda la calcificazione delle palette ho potuto stabilire che il fenomeno è intracellulare, poichè la precipitazione del carbonato di calcio avviene esclusivamente entro le cellule del parenchima nella metà senza fascio e precisamente dentro il citoplasma ancor vivo, il quale però subisce contemporaneamente una specie di degenerazione pectica, come lo di- mostra l'avidità con cui fissa l’ematossilina, e, sebbene assai debolmente, anche il rosso di rutenio. La calcificazione comincia presto: già in palette assai giovani osserviamo qua e là nel cilindro corticale delle cellule contenenti piccoli ammassi di carbonato di calcio, dalle quali, con trattamento di acido cloridrico, solforico o acetico diluiti, si svolgono numerosissime bollicine di anidride carbonica. Quando le palette hanno raggiunto il loro massimo svi- luppo, la calcificazione si è estesa in quasi tutto il parenchima, i soli tes- suti meristemali dell'apice essendo rispettati. Il calcare si deposita in masse amorfe, le quali vanno sempre più aumentando di volume, fino ad occupare i s — 147 — a poco a poco quasi tutta la cavità cellulare. A questo punto la paletta cessa di funzionare e quando è completamente calcificata, si distacca dalla radice e va a costituire nel terreno le caratteristiche impronte bianche ben note al coltivatori di Sulla. Da esperienze di coltura di Sulla da me fatte per osservare l' influenza del mezzo sia nella produzione quantitativa delle palette, sia sulla loro calcifi- cazione è risultato: I. Le palette si formano sempre, indipendentemente dalla natura del terreno; non ho potuto stabilire la loro formazione su culture acquose, poichè, pure esperimentando diverse formule, la Sulla pare si rifiuti alla vegetazione in mezzi liquidi. II. In sabbia calcarea ho trovato sempre radici con maggior numero di palette che non in vasi con terra da giardino, argilla, ecc.; nella sabbia poi anche le dimensioni, specialmente longitudi- nali, raggiungono il loro massimo. III. Esaminando piante di Sulla colti- vate da circa tre mesi su creta, sabbia del Tevere e sabbia quarzosa ('), trovai che nel primo caso le palette erano in completa calcificazione, tanto da distaccarsi colla massima facilità dalla pianta, negli altri due casì in- vece non presentavano caratteri esteriori di degenerazione calcarea, e soltanto all'esame microscopico osservai poche cellule contenenti minuscoli ammassi di calcare. Il prof. Sestini (*), analizzando le efflorescenze biancastre che si ri- scontrano nei terreni coltivati a Sulla, e dovute appunto ai residui delle pa- lette, le trovò composte di carbonato di calcio, di magnesio e ammonio, di fosfati, tracce di cloruri e solfati, con piccole quantità di sali di ferro. Il citato Autore spiegò poi la calcificazione ammettendo che il carbonato am- monico prodotto dalla putrefazione delle sostanze organiche, appena si forma, rimanga disciolto nell'acqua che bagna il terreno e incontrando i sali solu- bili produca carbonato neutro di calce, carbonato doppio di magnesio e di ammonio, intanto che il solfato di calce si precipita insieme con piccole quantità di ossido di ferro (5). Ma questa ipotesi non può reggere perchè le ricerche suaccennate del Sestini si limitano ai soli resti di palette già di- staccate dalla pianta e disseminati nel terreno, mentre, come già ho accen- nato, il fenomeno della calcificazione si comincia a produrre ben presto e, indipendentemente da qualsiasi decomposizione organica, ha la sua sede in seno al citoplasma vivo. Infatti le palette si presentano in egual numero, (1) In base ad analisi fatte e gentilmente favoritemi dal dott. E. Pantanelli, la sabbia del Tevere (Ponte Milvio) conteneva: uniidità gr. 1,676 °/,, humus 12,519 °/0, argilla 3,719 °/,, sabbia 70,76 °/, calce 22,59 °/0. La sabbia quarzosa (Lago di Marino): umidità 0,2479 °/,, humus 0,6431-°/, argilla 0,8714 °/, sabbia 98,35 °/0, calce tracce. La creta conteneva: umidità 4,842 °/, humus 3,390 °/0, argilla 66,09 °/0, sabbia 0, calce 30 %o. (2) F. Sestini, Studi e ricerche istituite nel Lab. di Chim. agr. della R. Univer- sità di Pisa, 1897, pag. 82. (3) F. Sestini, op. cit., pag. 87. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 20 — 148 — dimensioni e grado di calcificazione nei terreni sterilizzati come nei terreni non sterilizzati, e la loro formazione è indipendente tanto dall'azione di mi- crorganismi, come dalla presenza o meno di tubercoli radicali. Le palette sono organi normali della Sulla e precisamente radici late- rali metamorfosate per compiere qualche ufficio speciale oltre quello dell’as- sorbimento, proprio di qualsiasi radice, cui esse anzi adempiono con più at- tività che le radici non trasformate in palette, come dimostra lo scarso svi- luppo di peli esili e molto corti sulle radici normali, in confronto ad altre piante ed alla quantità di peli che coprono l'un fianco della paletta. L'altro ufficio speciale alle palette è molto probabilmente quello di tessuto acqui- fero. Infatti gli elementi del parenchima corticale, che come volume costi- tuiscono la quasi totalità della paletta, sono più grandi di quelli del pa- renchima corticale delle radici di eguale ordine, hanno pareti assai sottili e fortemente tese, così che se si toglie a queste cellule la turgescenza, le pareti si afflosciano e si pieghettano, mentre il volume della cellula dimi- nuisce assai, fatti che sì osservano comunemente nei tessuti acquiferi. La rilevante tensione elastica di queste cellule è in relazione con l'elevata pres- sione di turgore del loro succo, la quale fa equilibrio alla pressione osmo- tica di una soluzione 0.8 mol. di nitrato di potassio. Ciò dimostra che il loro succo è concentrato, e infatti contiene anche molto zucchero riduttore. Tutti questi fatti provano che il parenchima della metà senza fascio e senza peli funziona precipuamente da tessuto acquifero, funzione in esso normale in qualunque sorta di terreno, mentre la calcificazione è una vera degene- razione che conduce le palette a morte prematura, come lo dimostra il mag- giore sviluppo che esse raggiungono in quei terreni in cui non accade la calcificazione. Il loro principale ufficio è quindi indubbiamente quello di piccoli ser- batoi acquiferi: e se si considera che il sistema radicale di una sola pianta è provvisto di una quantità innumerevole di palette, si comprende facilmente che esse, col loro insieme, sono in grado di mantenere una quantità non trascurabile di acqua a disposizione della pianta. Tutte queste condizioni servono molto bene a spiegare la enorme resistenza che la Sulla oppone alla siccità, tanto da farla ritenere la più utile e la più adatta foraggera pei climi caldi ed asciutti. Siccome poi nel parenchima corticale delle radici dello stesso ordine ed età delle palette, anche in prossimità di queste, non si ha mai il minimo accenno a precipitazione di calcare nel protoplasma, così le palette funzionano anche come serbatoi escretizii, specie di glandole a secrezione interna per la calce, elemento notoriamente poco gradito per la Sulla. — 149 — Zoologia. — Contrazioni ritmiche antiperistaltiche nell’inte- stino terminale di larve di Discoglossus pictus (). Nota di Lurci SANZO, presentata dal Socio B. Grassi. I Nella parte terminale dell'intestino di larve di Discoglossus pictus, che verrò a precisare morfologicamente nel lavoro per esteso, quando avrò espletato le mie indagini in proposito, esiste una regione sacciforme, esten- dentesi dalla zona «2 (fig. I) in avanti, la quale si mostra sede di ritmiche contrazioni anulari che progrediscono in avanti antiperistalticamente e si continuano, per un tratto più o meno lungo, nel tubo intestinale che le fa seguito. an 0 b RIGHolE Tali contrazioni appaiono nelle larve pochi giorni dopo la schiusa delle uova, e si compiono a periodi fra i quali intercede uno stadio di riposo di varia durata. Il numero delle contrazioni oscilla fra 5 e 12 al minuto primo; e, poichè la velocità di propagazione di ciascuna di esse è assai lieve, così capita spesso che un'onda di contrazione non ha ancora compiuto il percorso della borsa che un’altra ne è già insorta; non raramente tocca di cogliere nello stesso momento, anche tre onde di contrazioni, le quali si susseguono l’una all'altra presso a poco con la stessa velocità. La borsa è inoltre sede di altri movimenti che non si compiono però ritmicamente: sono movimenti di allungamento e di accorciamento accerta- bili quasi sempre nei momenti in cui del materiale fecale viene immesso nella borsa o dalla borsa viene espulso fuori, e connessi con movimenti ca- (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Zoologia, Anatomia e Fisiologia comparate della R. Università di Palermo). — 150 — ratteristici di tutto il pacchetto intestinale. Questi movimenti del pacchetto intestinale, il cui minuto esame non entra nell’obbietto della presente Nota, sono movimenti di avvolgimento e svolgimento a spirale, che si rendono visibili assai precocemente nello sviluppo della larva e contemporaneamente a quelli antiperistaltici della borsa, e si compiono ritmicamente (da 3 a & al minuto primo) ed a periodi. Ora l'accorciamento e l'allungamento della borsa sono determinati dallo svolgersi e dall'avvolgersi della spirale quando questi movimenti riescano a propagarsi fino alla borsa stessa, il che non accade che irregolarmente e quando cioè del materiale fecale sì vede in pros- simità di essa, o nella borsa, o nel breve tratto che da questa porta all'ano. L'espulsione del materiale fecale si compie nei momenti in cui le con- trazioni antiperistaltiche s'interrompono, e sono visibili i movimenti a spirale del pacchetto intestinale con quelli di accorciamento e di allungamento della borsa da essi prodotti; d'altra parte il materiale fecale che è stato spinto nella borsa non prosegue più oltre se si interrompono quelli a spirale e si riattivano quelli antiperistaltici. Cid parla in favore della indipendenza diretta della emissione delle feci dalle contrazioni antiperistaltiche della borsa. Per intendere, almeno in parte, il valore funzionale delle contrazioni antiperistaltiche varrà l'osservazione fatta ripetute volte che un nastro fecale fuoriuscente dall'ano, viene ritirato dentro il canale intestinale se, durante lo svolgimento della spirale, le contrazioni antiperistaltiche della borsa vengono meno; ma si arresta il regresso del nastro tosto-che ripigliano le contrazioni antiperistaltiche, le quali hanno presa sul nastro stesso sì da determinarvi, certe volte, sotto forma di solchi anulari, l'impronta della propria azione. Ze contrazioni antiperistaltiche, adunque, giovano, con ogni probabilità, ad impedire il regresso del materiale fecale che sarebbe causato dalle escur- sioni di svolgimento piuttosto ampie della spirale, e ne assicurano îl na- turale percorso. NE Le onde antiperistaltiche hanno origine da una determinata zona ab (fig. I) posta all'estremo posteriore della borsa. Ciò è dimostrato dai se- guenti fatti: in condizioni normali della larva, le onde si vedono partire dalla re- gione posteriore dell'ampolla; se si praticano dei tagli trasversali a vario livello del breve tratto intestinale che va dall'ano alla zona «4, le pulsazioni della borsa con- tinuano ; se il taglio cade in corrispondenza della zona 48, le contrazioni si estinguono; — 151 — se il taglio cade in avanti della zona «48, le contrazioni si avverano solo pel tratto posteriore al taglio; se per la via anale si introduce delicatamente una sottilissima lista- rella di carta bibula inzuppata di cloroformio, solo quando si sia raggiunta la zona 4d, cessano i movimenti antiperistaltici della borsa. — Non voglio tralasciare di riferire, sebbene non si connetta al piano del lavoro, un feno- meno assai interessante che, in questo caso, mi è occorso di constatare ripe- tute volte. Se l’azione del cloroformio non è riuscita molto forte, cessano è vero le contrazioni antiperistaltiche, ma si vedono invece apparire, dalla parte anteriore della borsa, delle contrazioni anulari le quali proseguono peristal- ticamente verso la parte posteriore; esse però, fatta cessare l’azione del clo- roformio, si vanno mano mano attenuando nel tempo stesso che sì risvegliano quelle antiperistaltiche, e si esauriscono per dar luogo a queste. In qualche caso si possono osservare le due opposte onde progredire l'una incontro all'altra, interferire ed annullarsi o proseguire ciascuna per la propria via. Intorno al meccanismo ed al valore della comparsa di cosiffatte contrazioni eristaltiche no posso arrischiare per ora qualsiasi giudizio. Toe Miogenia o nevrogenia? In una larvetta appena schiusa dall’uovo, quando cioè non si è ancora avverato alcun differenziamento istologico nel tessuto nervoso nè tanto meno è dimostrabile alcuna immigrazione di ele- menti nervosi, si taglia, in corrispondenza della regione anale, un piccolo lembo, e si innesta, per assicurarne la nutrizione e lo sviluppo, lungo il mar- gine dorsale della coda di un girino di un mese. Sette giorni dopo si notavano ben differenziati il canale che dall’ano va alla borsa, e la borsa stessa, la quale non si trovava però nella posizione normale, ma veniva a fuoriuscire dall’ano come se avesse subito uno svaginamento. Essa mostrava le sue ca- ratteristiche contrazioni anulari invertite rispetto al senso della propagazione, per l'inversione subìta collo svaginamento. Il numero delle contrazioni e l'epoca della comparsa coincisero con quelli di borse in condizioni normali. Si conservano ancora, a due mesi quasi dall'innesto, e sono visibili anche ad occhio nudo. Poichè l'innesto fu eseguito in uno stadio in cui con ogni probabilità non è ancora avvenuta immigrazione di elementi nervosi, poichè l'innesto fu fatto in sede anomala e viene esclusa perciò la possibilità di connessioni nervose normali fra il portainnesto e la borsa stessa, così le contrazioni antiperistaltiche esaminate sono, con ogni verisimiglianza, di natura miogena. E si aggiunga che lo sviluppo autonomo ed inoltrato della borsa permetterà di riconfermare coll’esame istologico se al momento del- l'innesto fosse o no nel lembo già avvenuta immigrazione di elementi nervosi. E. M. + HA eat sb siate atea al A n cupe unione Nes panne ad (ntsc dere AT tarde PERI ART ANO fl vi ipo WADI. votata Lil ptt. Cvee put rit ini { sil Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1 — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2*— Vol L (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3 MEMORIE della Classe di scienze morali, 3 storiche e filologiche. i x Volt IVAWNvE vie Ve “VII el Serie 32 — TransuntI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturoli. Wall (0). — MEX. Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. fl Vol. I-XIII. SE Serie 4% — RenpiconTI Vol. I-VII. (1884-91). . MemorIE della Classe di scienze fisiche , matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Gase di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVI. (1892-1907). 2° Sem. Fasc. 2°. RenDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 1°-3°. MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-11°. MEMORIE della Classe di scienze morali, stor ione e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 4°. ‘ CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA OLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due . volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta Italia di L. 89; per gli altri paesi le spese di posta in più. «| Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti . editori-librai: Ermanno Loescner & C.° — Roma, Torino e Firenze. Urrico HoeprLi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Luglio 1907. REDATTE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 21 luglio 1907. MEMORIE E NOTE DI BOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Venturi. Terza campagna gravimetrica in Sibilia nel 1905. . . .. . . +. + +. Pag. Levi. Sul problema di Cauchy (pres. dal Sodio Bianchi) . ./././...L Maresca. La quantità di elettricità cui dà passaggio la scintilla d’induzione a basse pres- sioni (pres dal Corrisp. Macaluso). < . . . - ; ; ; IRR Occhialini. Sulla dispersione elettrica dei métalli una lati fasi hi Ù Cos: Battelli) O, Bemporad. Saggio di una nuova formola empirica per rappresentare il modo di variare della radiazione solare col variare dello spessore atmosferico attraversato dai raggi (pres. dal Corrispi Aieco) Mi io e i E N E Ciusa. Sui nitroderivati aromatici (pres. dal Sacio Ciamician) ..-.. LL Vanzetti. Decomposizione elettrolitica di acidi organici bicarbossilici. Acido suberico (pres. dalliSocioZAoerner)". i. 00h. A O. VET MI Severini. Su alcune particolarità morfologiche od! anatomiche delle radici di Hedysarum Coronarium (pres. dal Socio Piro) TI VE Sanzo. Contrazioni ritmiche antiperistaltiche. nell'intestino terminale di larve di Disco- glossu's:‘pietus (pres. dal Sociogi@fidss) 0.00. e E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. E ------e2l,}©©)\))11N i ii ZZZ /mTÀ.»<(**SS o Pubblicazione himensile. Roma 4 agosto 1907. N. 3. ATTI DELLA BALE ACCADEMIA DEI LINCEI |.’RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. dA n; ui Volume XVI. — Fascicolo Bo Der si i x“ "DI PRO: SEMESTRE. d — Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 4 agosto 1907. ? | ; Apia xi SRO MA: | " TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI GENT = CRE a È PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI i n 93 o 1907 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serse quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze tisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 | agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - @) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o în sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro» posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date, ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L’ Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è messa a carico degli autori. cirio Pio doo dro RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTI DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 4 agosto 1907. NM Chimica — Sui miscugli del trimetilcarbinolo ed acqua. Nota del Socio E. PATERNÒ e di A. MIELI. Il comportamento delle soluzioni di trimetilcarbinolo ed acqua offre no- tevoli particolarità, e ciò specialmente riguardo alle temperature di equili- brio fra la fase liquida e le diverse fasi solide. Il trimetilcarbinolo adoperato nelle seguenti esperienze proveniva dalla fabbrica di Kahlbaum, veniva poi distillato più volte, ed infine distillato sul sodio onde liberarlo da ogni traccia di acqua. Il trimetilcarbinolo così ottenuto manteneva le sue proprietà sottoponendolo ad altre distillazioni o cristallizzandolo frazionalmente. Il suo punto di fusione era 250,4 (!). Cure speciali si debbono prendere durante le esperienze per la grande igroscopicità di esso, della quale facilmente uno è fatto accorto osservando come il punto di fusione del trimetilcarbinolo esposto all’aria atmosferica abbassi rapi- damente (°). Curva di equilibrio fra la fase liquida e quelle solide. I seguenti dati sono stati ricavati da una serie numerosa di esperienze. (1) Younge, Fortey, (Journ. Chem. Soc. 81, 1902, pag. 717) avevano trovato come punto di fusione del trimetilcarbinolo da essi adoperato 25°,25. (®) È per questo probabilmente che Timmermans (Zt. physik. Ch. 58, 1907, pag. 183) trova per il trimetilcarbinolo puro (?) sottoposto a ripetute cristallizzazioni la tempera- tura di fusione di 21°. RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 21 — 154 — __ Trimetilcarbinolo Temperatura Serie °/, in peso Mol in 1 della co RE iene soluzione equilibrio P 100,00 1,000 25,4 — 98,66 0,947 18,8 À 98,65 0,947 18,7 B 97,47 0,904 13,2 B 96,36 0,865 10,1 B 95,45 0,356 TÀ B 94,26 0I799 4,8 B 93,99 0,773 2,8 B 92,00 0,757 0,0 B 90,59 0,701 — 19 B 88,94 0,661 — 4,2 B 88,850 0,6596 — 42 M 88,85 0,6592 — 45 N 87,973 0,640 — 4,8 H 86,72 0,613 — 44 B 80,03 0.580 — 3,0 B 89,09 0,55 — 2,8 C 79,39 0,485 — ll O 18,61 0,472 — 1,0 C 74,92 0,421 — 0,3 C 71,445 0,3782 0,0 L 70,89 0,372 0,0 C 67,64 0,337 0,0 C 67,14 0.332 0.0 O 65.51 0.297 0,0 Cc 65,194 0,2945 0,0 I 59,149 0,260 — 0,1 C 57,99 0,251 — 0,1 (0) 56,01 0,236 — 0.3 C 53,87 0,221 — 0,4 F 93,21 0,217 — 0,4 C 90,064 0,199 — 0,6 C 47,77 0,181 — 10,9 (0, 45,51 0,169 — 1590 C 42,71 0,155 — 1,8 C 38,838 0,1338 —. 2 E 35,923 0,1199 — 83,7 G 32,047 0,1029 — 64 G 29,972 0,0942 — 9,6 G 24,680 0,0737 UU F 23,76 0,070 ‘— 10,9 D 22,564 0,0662 DAMA E 19,265 0,0547 — 3,7 F 17,829 0.0501 — 7,6 E IO 0,030 — 3,8 D 7,04 0,0199 — 2,4 D 5,789 0,0147 — 15 D 0,000 0,0000 0,0 —_ — 155 — Con questi dati sono state costruite due curve (fig. 1) una, a linea con- tinua, nella quale l’unità di massa è il grammo, l'altra, tratteggiata, nella quale l'unità di peso delle due sostanze è il loro peso molecolare. Dalla curva e dai dati si vede facilmente: che partendo dal trimetil- carbinolo solo (p. f. 250,4) ed aggiungendo acqua, la temperatura di equilibrio fra la fase liquida ed una fase solida va continuamente diminuendo fino a raggiungere il valore di — 49,8 per una soluzione che contiene in pesi moleco- lari 0,640 di trimetilcarbinolo e 0,460 di acqua. Indi la temperatura va rial- 100 90 80 70 60 50 40 30 zandosi fino a 0° e vi si mantiene fissa per lungo tratto (da soluzioni contenenti circa 0,40 a 0,28 di trimetilcarbinolo), si riabbassa quindi di nuovo raggiun- gendo circa il valore di — 12° per una soluzione contenente il 0,07 di trimetil- carbinolo, per rialzarsi quindi fino a 0° per l'acqua sola. Secondo le vedute ge- nerali si avrebbero quindi un idrato la cui composizione dovrebbe esprimersi con CCH,,0+ 2H;0 (0,33 di trimetilcarbinolo corrisponde alla metà circa della parte piana) e due punti eutectici. Sui valori ottenuti sono da farsi le seguenti osservazioni: Mentre nelle parti restanti della curva le prove crioscopiche avvenivano bene, per quel tratto che si trova fra ì due eutectici si richiedeva un forte abbassamento di temperatura (cinque o sei gradi sotto il punto di solidificazione) per determi- nare il congelamento ; in prossimità poi dell'eutectico che corrisponde a so- luzioni con circa 0,07 di trimetilcarbinolo, l'abbassamento richiesto era ancora maggiore e la solidificazione avveniva solamente con grande difficoltà. È per questo che la temperatura di questo eutectico non potè essere determinata ù — 156 — con la esattezza desiderabile, il valore nel punto è incerto per circa 09,5. Nel resto della curva i valori, considerate tutte le condizioni dell'esperienza, sono esatti entro (09,1 e anche meno. Il termometro adoperato per le misure era diviso in quinti di grado; il suo zero era stato verificato direttamente e la sua gradazione confrontata su un termometro campione. Jl valore esatto della temperatura nel primo punto eutectico (0,64 di trimetilcarbinolo) fu ottenuto osservando l'abbassamento del termometro du- rante la congelazione e la fusione. Una soluzione contenente 1, 87,850 % (in peso) di trimetilearbinolo fu fatta congelare: il termometro segnò — 49,2; poi abbassò fino a — 4°,8 dove sì trattenne fino a congelazione completa. Esperienze analoghe furono fatte con soluzioni contenenti il 63,194 °/o ed il 71,445 °/ di trimetilcarbinolo. Esse dettero durante tutto il tempo un punto costante di solidificazione e di fusione di 0. In tal modo non si è potuto stabilire esattamente il punto della curva che dovrebbe rappresen- tare l' idrato. Densità del trimetilcarbinolo. Dati i fatti precedenti era interessante vedere se altre proprietà ac- cennassero all'esistenza di un idrato C,H,.,0+2H:0, e prima di tutte fra queste proprietà fu scelta la densità. Siccome però sulla densità del tri- ‘metilcarbinolo esistono dati assai diversi fu stimato opportuno di determi- narla nuovamente. I dati esistenti sono quelli che seguono: Linnemann (*) dà a 37° il valore di 0,7792; Butlerow (?) a 30° quello di 0,7788 e di qui calcola 0,8075 per 0°; Brihl (*) ottiene quelli di 0,7864 per 20°, e di 0,7802 per 26°; Young e Fortey (‘) infine 0,7855838 per 20° e 0,78056 per 25° (?). La cagione di tanta diversità di valori risiede probabilmente nella grande igroscopicità del trimetilcarbinolo. Le determinazioni di densità del trimetilcarbinolo furono fatte entro picnometri speciali già usati da Paternò e Montemartini (5), fatti ad U e con un rigonfiamento da una parte. Le due bocche potevano chiudersi a perfetta tenuta con due tappi a vetro smerigliato, e ad essa potevano anche applicarsi (1) Ann. 162 (1872), pag. 26. (£) Ann. 162 (1872), pag. 229. (3) Ann. 203 (1880), pag. 17. (4) Journ. Chem. Soc., 81 (1902), pag. 717. (5) Anche Thorfe e Jones (Jourr. Chem. Soc., 63 (1893) pag. 279) dànno un valore per la densità del trimetilcarbinolo; ma questo era sempre acquoso come essi stessi dicono. (5) Gazz. Chim., t. XXIV, p. 2%; pag. 1$5-1894. — 157 — due canne a rubinetto una delle quali comunicava con la macchina pneuma- tica, l'altra pescava nel vaso, chiuso, nel quale era contenuto il trimetilcar- binolo distillato (o in seguito la soluzione della quale doveva determinarsi la densità). Il picnometro veniva empito facendovi entro il vuoto e lasciando poi sasire il trimetilcarbinolo. In questo modo questo non veniva mai in contatto all’aria atmosferica. I risultati delle varie esperienze sono dati dalle cifre seguenti: D d 24,0 0.78389 29,4 0,77698 99,5 0,76348 49 0,7535319 SX ; 0,74251 70 0,7263 d 0,8000 +Br 94 0,7800 0,7600 È 0,7400 Nella fig. 2 è riportata la curva ottenuta prendendo la temperatura come ascissa e la densità come ordinata. Si vede che la curva è sensibilmente una linea retta alla quale si può assegnare l'equazione d= 0,81388 — 0,000 1256 4 dove + rappresenta la temperatura espressa in gradi centigradi. Nella figura sono anche segnati i valori della densità ottenuta dagli autori sopra accennati. — 158 — Densità di soluzioni di trimetilcarbinolo ed acqua. Nelle seguenti tabelle sono dati i valori delle densità di soluzioni di trimetilcarbinolo ed acqua a varie temperature. La composizione della solu- zione è data indicando il °/, in peso di trimetilcarbinolo che essa contiene, e l’espressione in mol (totale 1). Trimetilcarbinolo Densità (acqua a 4°=1) Temp. 0° in mol 100 1 ci 92,09 0,7387 (),32941 79.39 0,4840 0.85425 00,00 0,0000 0,999874 Temp. 249,0 100,00 0,0000 0,78389 87,8503 0,6596 0,31175 71,4454 0,3782 0.85180 63,1938 0,2945 0,37080 0,0000 0.0000 0.997367 Temp. 29°,4 100,00 1,0000 0,77698 92,08 0.7387 057958 79,39 0,4849 0,82517 0,00 0,0000 0,996649 Temp. 49° 100,00 1,000 0,75319 79,39 0.4849 0,8035372 0,00 0,0000 0,98860 Temp. 70° 100,000 1,000 0,7263 79,39 0,4849 ONTO 0,000 0,0000 0,97790 Nella figura 3 son segnati i valori trovati prendendo come ordinata la densità e come ascissa la composizione. I valori isotermi sono collegati con una linea. Dalla figura si vede subito che le isoterme di 70°, 49°, e 29,4° sono rappresentate da linee rette; si ha quindi che per queste temperature la — 159 — densità delle soluzioni di trimetilcarbinolo ed acqua è una proprietà addit- tiva. Essa cioè si può esprimere coll’equazione : d=d'a+d"(1- 2) dove d' e d" sono rispettivamente le densità del trimetilcarbinolo e dell’acqua alla temperatura considerata, ed z dalla quantità di trimetilcarbinolo (in grammi) fatta il tutto ugual uno. 1,0000 0,9800 0,9600 ING] 0% 0,9400 0,9200 ii dro 0,9000 0,8800 5 0,8600 lea d 08400 0,8200 0,8000 0,7800 0,7600 g 0,7400 0,7200 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 L'isoterma a 24°,0 si allontana di pochissimo dalla linea retta; il punto nel quale essa se ne discosta maggiormente sembra essere circa a 67 °/, in peso (o 0,33 in mol); esso corrisponderebbe quindi alla composizione C4H100 + 2H,0. Nell’isoterma a 0° l'incurvamento è ancor più manifesto. Se dunque si ha la formazione di un idrato, nella soluzione, questo non sarebbe stabile, almeno secondo le determinazioni di densità che possono essere notevolmente influenzate da altre cause, che a temperature inferiori a 25°. Del resto si vede passando da un'isoterma ad un'altra che questa con- trazione avviene solo molto lentamente e con continuità. In complesso poi la contrazione è assai piccola. — 1600 — Viscosità relativa di soluzioni di trimetilearbinolo ed ucqua. Infine è stata determinata la viscosità relativa di alcune soluzioni di trimetilcarbinolo ed acqua. Si sono così ottenuti i seguenti valori per la : È Il Ì temperatura di 24°, valori calcolati con la formula 7= #o i dove no (vi- 0°0 scosità dell'acqua a 24°) è stata posta uguale all'unità. °/, trim. mol di trim. viscosità relativa 100,00 1.000 4.99 37,85 0,660 9,04 71,45 0,378 5,21 63,19 0,294 5,30 0,00 0,000 1,00 Anche qui la viscosità sale lentamente dal valore che essa ha per il trime- tilearbinolo puro, fino ad avere un massimo per una composizione della solu- zione che corrisponde a C,H,.,0+ 2H,0, diminuisce poi rapidamente fino ad 1. È da notare che essendo il trimetilcarbinolo puro solido alla tempera- tura di 24°, e non avendo potuto impedire la solidificazione del liquido sot- toraffreddato nel passaggio attraverso il viscosimetro, è stato misurato il tempo del passaggio fra le due marche per due temperature vicine (26° e 28°), ed è stato estrapolato il valore del tempo per la temperatura di 24°. Continueremo questo studio. Chimica. — Sopra è fluoruri di essile e di ottile. Nota del Socio E. PATERNÒ e di R. SPALLINO. È noto che i fluoruri alcoolici sino a pochi anni addietro erano stati poco e mal studiati; erano stati ottenuti soltanto da Dumas e Peligot il fiuoruro di metile, ed il fluoruro di etile da Reinech e da Fremy. In gene- rale questi composti erano preparati o per l'azione dell’acido fluoridrico sugli alcoli o distillando i solfoalcoolati con fluoridrato di fluoruro di potassio. Moissan (!) nelle sue classiche ricerche sul fluoro ne riprese lo studio, in parte coi suoi allievi e specialmente con Meslans, e, per l'azione del fluo- ruro di argento sui ioduri alcoolici, riuscì ad ottenere allo stato di purezza i fluoruri di metile, di etile, di propile, d'isopropile ed il fluoruro d’ isobu- tile; e potè stabilire che i fluoruri alcoolici sono dotati di maggiore stabi lità e si saponificano più difficilmente degli eteri. (1) Ze Fluor, pag. 265 mer — 161 — Un lavoro sugli eteri fluoridrici degno anche di essere citato è quello di S. Joung (') il quale non è riuscito ad ottenere puro ii fluoruro d'amile, sia dall'alcool amilico con acido fluoridrico sia sommando l’acido fluoridrico con l'amilene, ma in ambedue i casi ha sempre ottenuto un miscuglio del fluoruro con l’amilene e suoi polimeri. Noi abbiamo perciò creduto non privo d'interesse preparare alcuni fluo- ruri delle serie più elevate, per vedere se realmente potessero ottenersi iso- lati ed esaminarne la loro stabilità. Abbiamo scelto i fluoruri di essile e di ottile, ed abbiamo inoltre voluto vedere se fosse possibile invece del fluoruro d'argento adoperare il fluosilicato che è molto più stabile o anche altri fluo- silicati o fluoruri meno costosi. Le nostre esperienze non sono complete, ma purtuttavia ci decidiamo a pubblicarle, perchè ne abbiamo già fatto cenno nelle tornate della Società Chimica di Roma (?). I. Muoruro di essile. Siamo partiti dal ioduro d'essile secondario che si ottiene dalla man- nite. Esso reagisce energicamente col fluosilicato d'argento o di mercurio siano essi allo stato secco siano allo stato di soluzione acquosa al 10 °/,. La reazione va interpretata con Jo schema seguente: SR 2A LISI, (SO CH, FI Si mostrano evidenti infatti la formazione del ioduro d'argento giallo e lo svolgimento del fluoruro di silicio; il liquido incolore etereo che distilla è in gran parte costituito da fuoruro d’essile secondario CH;.CH,.CH,.CH,.CH F1.CH;. Il modo di operare è il seguente: in un pallone di circa mezzo litro connesso ad un refrigerante ascendente contenente del fiuosilicato d'argento finamente polverato insieme a della silice o del vetro pesto, si fa cadere goccia a goccia del ioduro di essile in quantità calcolata. Non appena il ioduro alcoolico cade sul fluosilicato si ha una viva re- azione accompagnata da sviluppo di calore; immediatamente si forma del ioduro d'argento e si svolge il fluoruro di silicio, mentre lungo le pareti del pallone si vede ricadere un liquido incolore che va raccogliendosi al fondo. In capo a mezz'ora la reazione è quasi finita, è bene sempre però riscaldare in fine e lasciar ricadere un po' il liquido affinchè essa si completi. Terminata la reazione, il contenuto del pallone viene distillato in cor- rente di vapore, si raccoglie un liquido incolore, più leggero dell'acqua, di odore lievemente allilico, che raccolto, lavato con carbonato sodico prima e (1) Journal of the Chemical Society, vol. XXXIX, pag. 489, 1881. (2) R. Soc. Chim., vol. I, pag. 81, 1903 e vol. II, pag. 85, 1904. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem, 22 — 162 — poi con acqua: disseccato su cloruro di calcio venne sottoposto a ripetute distillazioni, dalle quali si è riusciti ad avere un prodotto bollente fra 70° e 90°. Allo stesso risultato si perviene se il ioduro d'essile si lascia cadere tutto in una volta sul fluosilicato d'argento in soluzione del 10 °/, e si agita ripetutamente; si precipita subito del ioduro d’argento e si manifesta l'odore allilico della sostanza eterea, che distillata in corrente di vapore separata e seccata sì mostrò identica alla precedente e bollente nei limiti detti dianzi, fra 70° e 90°. La ricerca del fluoro in questo prodotto venne fatta col metodo generale distruggendo cioè la sostanza con acido solforico in pre- senza di silice; però si è profittato della silice del recipiente in vetro in- vece di aggiungerla, in modo da permettere di ricercare in poca quantità di sostanza anche delle tracce di fluoro. A tal uopo si prende una provetta di vetro ben terso ed asciutto con dentro 1-2 ce. di acido solforico e vi si fanno cadere sopra due, tre gocce del liquido in esame in modo però che non si mescoli ma sovrasti all’acido solforico. Indi senza mai agitare, si riscalda il tubo lievemente nella parte inferiore ed alla superficie dell'acido solforico si vedono tosto delle bollicine di gas che fumano all'aria prodotte dal fluoruro di silicio formatosi. Pulito il tubo da saggio e resolo ben terso ed asciutto come prima, sul tratto cor- rispondente alla superficie dell'acido solforico e più precisamente nella linea di separazione tra questo ed il liquido fluorurato, compare nettamente ca- ratteristica una intaccatura sul vetro evidentemente prodotta dalla silice asportata dal fiuore liberatosi per la distruzione della sostanza organica. Questo metodo, se tale può chiamarsi, si è voluto descrivere minutamente perchè serve molto bene alla ricerca qualitativa del fluore anche in picco- lissime quantità di sostanza. Il liquido bollente fra 70° e 90° non è costituito da un prodotto unico, a freddo esso reagisce con acido solforico, decolora energicamente il bromo e il permanganato potassico; indizio che insieme al composto fluorurato si è formato un'altro composto con doppio legame. Si è tentato di separare questo composto non saturo facendolo assorbire dall’acido solforico, ma la reazione assai viva una volta iniziata continua sino alla distruzione anche di tutto il prodotto fluorurato. Difatti mescolati in una provetta alcuni cen- timetri cubici del liquido con acido solforico, si ebbe una viva reazione per tutta la massa e un grande svolgimento di fluoruro di silicio, così che la provetta rimase fortemente intaccata. ll liquido brunastro buttato in acqua ed agitato lasciò sospesa una sostanza oleosa che separata e distillata passò incolore tra 130° e 136°. Essa ha odore nauseante molto simile all'alcool amilico; ossidata con acido cromico o semplicemente come trovasi, in sola- zione di potassa trattata con iodio e ioduro di potassio dà luogo a iodo- formio. Questi caratteri in accordo al punto di ebollizione rivelano che essa. è costituita da alcool essilico e che essilene deve essere il prodotto da cui — 163 — proviene formatosi accanto al liquido fluorurato. A confermare questo asserto una porzione del prodotto bollente fra 70° e 90° fu messa a ricadere con sodio metallico per asportare il fluore; dopo circa tre ore di riscaldamento a ricadere il liquido distillato passò a circa 70° mostrandosi tutto costituito da essilene. Nella reazione adunque tra fluosilicato di argento e ioduro d'essile ac- canto al fluoruro corrispondente formasi anche dell’essilene; i punti di ebol- lizione di questi composti essendo molto vicini ne riesce difficile la separa- zione per distillazione frazionata. Si pensò allora e con successo di asportare dal miscuglio l’essilene pro- fittando della sua facile reazione con bromo e conseguente formazione di bi- bromoessano, che per avere un punto di ebollizione piuttosto elevato (198°) ci avrebbe permessa la separazione del composto fluorurato a punto d’ebol- lizione più basso. Fu presa allora una certa quantità del prodotto primitivo e trattata con bromo a freddo fino a tanto che questo non venne più scolorato, indi fu di- stillato in corrente di vapore, raccolto, seccato su cloruro di calcio e infine distillato frazionatamente. Si ottenne con ciò una certa quantità bollente fra 80° e 90° ed una seconda più piccola a 198° sino a 200°. Questo se- condo prodotto che non contiene fluore è proprio bibromoessano, proveniente dalla reazione tra bromo ed essilene come si vede dalle analisi seguenti. Combustione: Gr. 0,3676 di sostanza diedero gr. 0,4033 di CO,. ” ” ” ” gr. 0,1585 di H,0. Trovato Calcolato CoA 29,9 29,5 H 4,7 4,9 Determinazione di bromo col metodo della calce: ‘Gr. 0,3510 diedero gr. 0,5420 di Ag Br, per cui si calcola: Bromo °/, trovato 65,69 Calcolato 65,57 La prima porzione ottenuta bollente fra 80° e 90° venne ulteriormente rettitficata sino ad aversi un prodotto che bolle costantemente fra 82° e 86° formato da un liquido leggero grato all'odore, che si solidifica nell'aria li- quida e fonde allora a — 104°. Le analisi di questo fluoruro tentate in canne di vetro chiuse o aperte con cromato di piombo diedero sempre risultati non attendibili: le deter- minazioni di idrogeno corrispondevano al calcolato, ma la percentuale di car- bonio saliva sino al 10 °/ in più del calcolato. Evidentemente nella com- bustione del prodotto non tutto il fluore veniva trattenuto dal cromato di — 164 — piombo e sotto forma di fluoruro di silicio andava a fissarsi nelle bolle a potassa di Liebig aumentandone il peso. Bisognò dunque eliminare il vetro e noi abbiamo fatte le combu- stioni impiegando secondo il metodo di Moissan una canna di rame lunga 95 ce. con dentro un miscuglio di 2 parti di (ossido di rame è una parte di ossido di piombo. L’'estremità di essa portano aderenti avvolti dei ser- pentini in piombo dove l'acqua circolando mantiene fredde le parti in cui sono adattati i tappi di sughero col relativo tubo in vetro per il passaggio dei gas. La canna venne prima montata, ossidata e fatta raffreddare, poscia vi si è introdotta la sostanza pesata in bolla di vetro e si è fatta la com- bustione come d'ordinario. 12 — Gr. 0,2111 di sostanza diedero Gr. 0.5272 di CO, » ” È ” » 0.2400 di H, 0 22, — Gr. 0.2365 ” ” Gr. 0.5956 di CO, ” ” » - » 0.2798 di H,0 3% — Gr. 0.3530 ” ” Gr. 0.8887 di CO, ” ” ” ” POSI cher.) IE JUG III. Media trovata CT 68.54 65.65 68.66 68.62 H°/— 12.63 13.14 1245)11 12.69 Calcolato in Cg$ Hz FI 0°/ — 69.23 H°/, — 12.50 Questi risultati si accordano bene per il fluoruro d’essile CH; . (CH). CH F1.CH3; i tentativi fatti per determinare direttamente il fluore sono riusciti infruttuosi sia col metodo della calce che con quello di Penfild. Ad ogni modo concludendo per preparare il fluoruro di essile secondario si fa reagire il ioduro corrispondente sul fluosilicato di argento o di mercurio che fa lo stesso. Il prodotto oleoso grezzo si tratta con bromo, si rettifica e si raccoglie la porzione bollente a 82°-86°. Ne fu determinata la densità di vapore col metodo di Meyer impie- gando l’acqua come liquido per riscaldare. 1°. Gr. 0.0878 di sostanza hanno dato: cc. 20.8 di aria a 24° e 757 mm. Densità calcolata = 53.4 2°. Gr. 0.0950 di sostanza hanno dato: ce. 24.5 di aria a 23° e 756 mm. Densità calcolata = 50 Media trovata = 51.7 — 165 — Questa densità conduce al peso molecolare 103.4 essendo il calcolato 104. Il suo peso specifico a 0° è = 0,819, l'indice di rifrazione per la linea del sodio è —= 1.8683 alla temperatura di 260,2. Anche nel fluoruro d’essile, come nella benzina sembra che la agio zione di un atomo d’'idrogeno col fluoro abbassi l'indice di rifrazione, mentre i corpi alogeni lo innalzano, quantunque per l’essano non si pos- seggano dati sicuri. II. — Mluoruro d'ottile. Se il fluosilicato d’argento si mette a contatto del joduro d'ottile nor- male nel modo istesso che noi abbiamo descritto per la preparazione del fluoruro d'essile si ha una viva reazione accompagnata da sviluppo di calore e da evidente formazione di ioduro d'argento e fluoruro di silicio. Il fluosi- licato dunque reagisce sul ioduro alcolico e dà luogo alla formazione del corrispondente fluoruro d’ottile. Difatti distillando a vapor d'acqua il conte- nuto del pallone si ottenne un liquido di marcato odore di funghi che alla prova con acido solforico in tubo da saggio mostrò di contenere del fluoro. La quantità di fluoruro che si ottiene però in questa reazione è abba- stanza piccola rispetto al ioduro impiegato. Risultati migliori sì ottengono impiegando il fluoruro di argento secco. In un palloncino a distillazione attaccato ad un secondo con dentro del fluoruro d'argento mescolato del vetro pesto abbiamo fatto colare il ioduro d'ottile da un imbuto a rubinetto. La reazione troppo viva dapprima ha bi- sogno di essere moderata col raffreddamento ma infine poi è bene riscaldare e non appena terminata, distillando sì ottiene il liquido incolore fluorurato anzidetto dall'odor di funghi che seccato convenientemente e rettificato bolle tra 130°-134°. Le combustioni di esso fatte in canna di rame hanno dati i seguenti risultati: 1°. — Gr. 0.2498 di sostanza diedero Gr. 0.6669 di CO, ” ” ” ” » 0.2872 di H, 0 2°. — Gr. 0.3187 ’ ’ » 0.8496 di CO, ” ’ ’ ’ » 0.5700 di H,0 DIG IDE Media trovata Cio 72.07 72.70 12.73 H8/o VERZZ, 12.89 12.83 Questi concordano per la formola C H,; Fl che ha una percentuale 72.72 di carbonio e 12.88 di idrogeno. Parimenti in una determinazione della densità di vapore col metodo di Meyer Gr. 0.1743 di sostanza ci spostarono ce. 31.30 di aria alla tempe- ratura di 10°.2 e 763 mm per cui si calcola una densità eguale a 65.12 — 166 — e un peso molecolare 130.24 concordemente al peso molecolare teorico == IE Il suo peso specifico a 0° è 0.798. In questo caso non si forma ottilene. Risulta da queste esperienze che possono ottenersi senza difficoltà anche i fluoruri degli alcoli superiori, e che fra essi sono assai più stabili quelli degli alcoli primari; nel caso degli alcoli secondari i fluoruri eliminano fa- cilmente acido fiuoridrico per dar luogo alla formazione dell’ idrocarburo etilenico, come ha osservato Joung nel caso del ioduro d’isoamile e noi in quello del ioduro d’essile secondario. È anche degno di nota il fatto che il nostro fluoruro d'essile per l’azione del sodio non fornisce diessile, ma perde acido fluoridrico per dare essilene, come è pure notevole la facilità con la quale l'acido solforico, anche a freddo, sposta per così dire l'acido fluoridrico dal fluoruro di essile. Matematica. — Sus gruppi di movimenti. Nota del dott. StRro MepiIcI, presentata dal Socio Lurcr BIANCHI. In una Memoria che è in corso di stampa, negli Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, sui gruppi di rotazioni, cioè sui sottogruppi del gruppo mb _ a (dei 1,...,% * 1-4 %), Sono riuscimnagase terminare tutti i tipi possibili di quei gruppi: voglio ora dare qui, dei risultati ottenuti alcune applicazioni alla teoria dei gruppi di movimenti. 1. Considerato un S, di elemento lineare 1... (1) e = Iain ik perchè esso ammetta la trasformazione infinitesima 1...n dI 2 De Sizes: k dI i dove le È son funzioni finite e continue delle ;,..., n, che hanno deri- vate prime e seconde, in tutto il campo in cui si considerano, occorre e basta sien verificate l’equazioni di Killing SLA 0 TI dé = Lia fo, (3) I (6; E + dir a H dr Sn 0. (4% Mese Queste sono le equazioni di definizione del gruppo di movimenti ammesso dall'Sn: — 167 — n(n +1) 2 tale gruppo può contenere al massimo trasformazioni indipendenti e queste in un punto generico possono essere tutto al più del prim'ordine. 2. Per un teorema del prof. Fubini (*) un gruppo di movimenti intran- sitivi si può ridurre con un opportuno cangiamento di variabili ad un gruppo transitivo su un minor numero di variabili. Inoltre un gruppo semplicemente transitivo, per un teorema del prof. Bianchi (*) si può considerare sempre come un gruppo di movimenti; perciò basterà occuparci dei gruppi una volta transitivi, dei gruppi cioè, che oltre x trasformazioni di ordine zero (nel- l'origine) contengono ancora delle trasformazioni di 1° ordine. Di queste trasformazioni di 1° ordine si possono determinare i termini di primo grado. Infatti se supponiamo che le linee coordinate nell'origine sieno ortogonali tra loro a due a due (come possiamo sempre fare) e quindi sai 0 (peniai == =/0)\secondochèW4 Zio: lei(B)ci dicono, che se la trasformazione X è di prim ordine nell'origine, e per conseguenza le £ nell'origine stessa son nulle, si deve avere N DIC DIA E? 5) + ik dI dI: I gruppi che dobbiamo considerare avranno dunque per generatrici n-+s(s>0) trasformazioni del tipo d LL d dI P; = AL + (C=2 pg i00a PD) SE DÈ cus (ci Ad_ Tk D+ (= 5,9) dove le parti tralasciate sono almeno di 1° grado nelle #4 per le P;, e di 2° per le X, (3). Se poniamo oo + < d d X,= DI Clik (2 L _ Tk e, ) ’ UD Ù le trasformazioni così ottenute formano un gruppo di rotazioni. Per determi- nare dunque tutti i gruppi di movimenti si dovranno considerare tutti i tipi di gruppi di rotazioni su 7 variabili, tipi, che come ho detto, si deducono immediatamente dai risultati della mia Memoria citata. Presone uno qua- lunque e sostituitene le rotazioni generatrici al posto delle X,, con che le ex divengono note, si determinino dalle identità Jacobiane tutte le composizioni dei gruppi compatibili con la forma indicata. Si noti per questo, che ciò richiede solo operazioni algebriche, e che sono, per la (1) Fubini, Sugli spazii, che ammettono, ecc. (Ann. di mat., ser. 3%, vol. III), n. 1. (*) Bianchi, Sugli spazii a 3 dimensioni, ecc. (Memorie della Società It. dei XL, ser. 3°, tomo II, 1897). (*) Cfr. Fubini, Sulla teoria degli spazii, che ammettono un gruppo conforme (Atti di Torino, vol. 38, 1903), n. 6. - — 163 — forma stessa delle trasformazioni, note le alternate tra due X, e che delle alternate tra una P ed una X si conosce la parte, che contiene le P stesse. Per ognuna di queste composizioni basterà poì determinare un particolare gruppo, chè gli altri per un teorema del Lie (*) saranno tutti simili ad esso. Fatto questo per tutti i possibili tipi dei oruppi di rotazione su 7 variabili si hanno tutti i tipi possibili dei gruppi di movimenti cercati : ma osserviamo che i gruppi così trovati son tutti effettivamente gruppi di movimenti. Per vederlo basta rammentare un altro teorema del prof. Fubini (*) secondo il quale, perchè un gruppo transitivo si possa considerare come gruppo di movimenti, occorre che quel suo sottogruppo 7°, che lascia fermo un punto A determinato, in cui il gruppo è regolare, trasformi in sè stessa ciascuna quadrica di un sistema di quadriche omotetiche infinitamente vicine ad A. Ora questo è evidente nel nostro caso, quando si prenda per il punto A l'origine. Nel modo detto si trovano dunque tutti e soli i gruppi di movi- menti una volta transitivi su 2 variabili: volendo poi gli elementi lineari degli spazii che li ammettono come gruppi di movimenti, basta integrare le (3) tenendo conto delle condizioni iniziali, che si hanno per le ax. 3. Come esempio applichiamo il metodo al caso di n= 4 (#). 1 gruppi di rotazioni possibili su 4 variabili sono i 6 seguenti: ) ZiPo — LoPpi + A(23Pa— da Ps); ) CiPa— xo) ; CsPa — DaP3; 3°) «1Po— TP , CiPa — CaPr > CoPa — Ca Pa; ) CiPa — LePi + L3 Pa < LaP3 , CoPa — Capa — Lr P3 + 3 Pi E Pa — LaPr + do Pa — a Pe 5°) Il precedente più la rotazione x, ps — 42P1 — 4304 + Z4P3 6) totale: 2: — Geol 02M AREE wu. e. Dig. i = TU = SIRIO) pe Di = Mill... ) 4. Cominciamo dal primo: posto Pir=pit--, X=%1p3 — top, + a(£391 — Lapis)» Si avrà subito (P\.X)= P:4+ aX , (P;X)=—P,+fX, (P3X)=aP, + yX 3 (PIX)= — aP3 + dX.. (1) Lie, Z'heorie der Transfgr. Bd. I, pag. 614. (2) Fubini, Sugli spazii...., n. 6. (3) La ricerca dei gruppi di movimenti ammessi da Sy è stata compiuta dal Fubini nella Memoria: Sugli spazii a 4 dimensioni, che ammettono, ecc. (Ann. di mat., tomo IX, ser. III, 1903), e comfletata dall'altra Memoria: Sulla teoria delle forme quadratiche Hermitiane ecc. (Atti dell’Accad. Gioenia, ser. IV, vol. XVII). Noi facciamo nonostante la ricerca per mostrare la rapidità del metodo proposto. — 169 — Prendendo al posto di P, e Ps rispettivamente P, — pX_, P.+-eX, si ridue a=S$S=0: se poi 4+0 nello stesso modo si riduce anche y=9=0. Dopo ciò dalle identità Jacobiane tra due P e la X si ha subito, sempre se 4+0 , (P.P.)= KX (P:P.)=K,X (P.P.)=(P,P.)=(P.P:)=(P.P.)=0. Ed ora scrivendo le identità Jacobiane tra tre delle P sì ottiene subito K=K,=0: dunque nel caso di 4+0, si può prendere per il gruppo il gruppo PirsPr,P3 Pa , Ci\Pa XaPh + A(L3Pa — Caps) . Ma allora lo spazio ammettendo le trasformazioni p, , 7:23, 24 è 1 S, eucli- deo ('), ed il gruppo di movimenti considerato non è quello completo am- messo dal gruppo: sicchè si può tralasciare intanto il caso di a+ 0. Nel caso di a= 0, si può supporre come abbiamo detto (29) REED REX) 0090 Dalle identità Jacobiane tra due P e ia X vien subito y=d=0: scrivendo poi le altre identità Jacobiane si trovano possibili quattro casi TER) 09) = iP) —@PA(PR)))= BP, (P.P.)= AP. ’ (PIPI_/0E Zi (RR) — PS CSKXA(PI) = (Pe (PRE = (Ps i) (Pi P.) = 0; SO) (EE) _'(0F((2,) ie.) —i@Bt (ERE — (PI 0) a, 49) 0 (ePsi- (RE NP5)i— te (P, P:)—ieBo0 (PP): RIONE) = =2eP,. Il primo caso però si può comprendere nel terzo; ciò è evidente se a = 0; se invece a +0, basta sostituire a P, la rotazione Po P3 per rendere (o 10 Nel secondo caso per il gruppo si può prendere il gruppo oss, K a ti + gita + g Cra ZTDss K 3 K a Il sla pian ala: TL, La Pa Tags, P3 s Pa , TCiPo — La Pr - (*) Bianchi, op. cit, n. 16. DI e) RenpICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. — 170 — Dall'equazioni di Killing si trova allora per lo spazio corrispondente l'elemento lineare a’ 2 Be) I 4 a' 2 2 1472 dei Za, da, dx + 147 da: i sii 25) À ) cade — a,d2) 1, et4 2) alt= + ads + dx 4 dai. Il gruppo poi è completo tutte le volte che @ e K non son nulli ambedue. Nel terzo caso per il gruppo si può prendere il seguente Dis Da, Pa Pa + @(L1 Pa + da Po) + 424 Pa La Pa — La Pa è e per lo spazio corrispondente si trova l'elemento lineare ds = e? (dai + da) + das + e7?0% dai. Il gruppo è completo tutte le volte, che non è 4= «: in quest'ultimo caso l'S, è a curvatura costante ed ammette quindi un G,, e non solo un G,. Infine nell'ultimo caso per il gruppo si può prendere dae g% Di s Pa +3 pi s Pa +e(41 Pa + Lo Po) + 2aet4P4 , Pa da Po LP 5 . e l'elemento lineare dello spazio corrispondente risulta allora (isti — meda (i + 7 Do: et) daî — 5% Lo es dai dee + 2 + (1 + 3 vi n) ai + ca 1° dry} a, dx — o da{ + + da + e 19 dai. Il gruppo è certo completo quando si escluda che sia c=0 o a=0, in caso cui si rientra nei precedenti. 5. Veniamo ora al secondo dei casì enumerati: posto allora PE 3 X\= Pr da Pi + : Xo=%3 Pa — Capa +"; poichè (X, X:)=0, si potrà supporre come sopra (Pi X,)==P.;(P.X,)==#=B;,.(P3X)="P,, (PX) = =2B8 Ed ora basta scrivere le solite identità Jacobiane per avere (Pi EI) (ER) (E: P.) =: (P.P.)= 0 Ni(Eaba) == K,jX , (P.P,)= K,X.. — 71 — Un gruppo di questa composizione è dato dal sruppo K, + ipt pg aletap)i=1,9), | | K li e L.., CPao Ca Pr» CaPa — La P3, L'elemento lineare dello spazio, che lo ammette come gruppo di movimenti, è dai + dai das + dei ISEE VEST INNESTA an gear) ue i ds = ed il gruppo di movimenti è quello completo ammesso dallo spazio, se non è K, = K, =" 0. 6. Passiamo al terzo caso: posto allora IR = (ei, 4) Xi= apo — Cop + e Xo. = @&1P3 — Cpt Xa = dp — dp t sì ha (X, Xa) = Kg ’ (Xa 0) Xi, (X3 Xi) = XK. Inoltre nel solito modo si potrà supporre (PIO PS ò (RP X3) = ps , (P5X) = —P, + aXg + GXGI Poichè se al posto di P,,e Ps si prendono rispettivamente P, 4- aX, + BX3, e Pi—aX: + $X, le formule precedenti non cambiano, si potrà anche sup- porre (PX) =@X + 42X3. Scrivendo ora le identità Jacobiane tra una delle P,,Ps,P} e due delle X, si trova ge=b=@ == 0 e quindi (PX) = —P, ’ (PX) = 0, ed anche (P.X.) = Pi, (P3Xo) =— ’ (P3 X3) = = ’ (P3X3) e (PX) =0. Ponendo poi (come certo si può fare col prendere convenientemente la P.): (PX) = eX,, ((E2 X,)=fX + yXa, e scrivendo le identità Jacobiane tra P, e due delle X si ha subito CI__10 Ei) e (SE) (20:99) 0 — 172 — Dalle tre equazioni ((P, Pe) Xe) — (Pi P3) , ((Ps P3) X,) === (P, P) , ((P, P3) X3) = 0, viene subito (P, P3) = GARE + KX; . Ma prendendo al posto di P,, Ps, P3 rispettivamente P, — ; Xs, Pat 3 Ai Pi si rende a= 0 senza alterare le altre formule, dopo di che sì ha subito (E, Pa), ==, 3((R-4P3) = KG APP) GE Scrivendo le identità con P, si trova anche (Pi P)) {B22)=((R4 08 Un gruppo con la composizione trovata è il gruppo Pi—{l-7@I+ +2) 2 +3 alp + op + apo) =1,2,3) P.,= Pa; X,= Pa — XePi , Xo=@P3— CP > X3= %1P3 — Caf + Lo spazio che lo ammette come gruppo di movimenti, ha per elemento lineare . dxî + drî 4 dai :1+ 7 (+ 21429) ds? = *+dai, ed oltre quelle non ammette altre trasformazioni, a meno che sia K=0. 7. Nel quarto caso si avrà Pi=pi+-(6=1,..,4),Xx= 1. — Capi + CsPe — Cuba +3 Xo = &2Pqa — Capo — Cip + Capi +, X3= Z1 Pa — LaPr + Ca Pa — apo + + con (Xi Xo) = 2X3 , (Xo Xi) =2X, ’ (X3 Xi) =2X3 + Si potrà supporre allora (P.X1)=P: ’ (P, Xr = — Pi ’ (Pi X)=1226 (P. Xi) =—P, + aX, H+ PXs + yXs, pur di prendere al posto di P,,P.,P3,P, ordinatamente Se poi è 92 2 P,— aX,+EX,+LxX,, r.—Px+ix, 2 Ps + 20X3+ FX P,+2aX,— x, — 173 — senza alterare le altre formule si rende a=S=y==0. Dopo ciò viene facilmente dalle identità Jacobiane (P-X.) = P,,(P.X3)= Ps, (P:X)=P,, (Pa X.)=P1 ’ (P3X:)=—Pt (P.X.)=—P3,(P.X.)==P.,,(P.X)=—-P1 ° Ma in tal caso si ha per es. ((P, P:) X,)=0 onde (P,P.)=caX,; ana- Jopamente i, P.)=/0X: (EP) =, (PP) dXs,, (PP) = e, (P3 P.)= /X,. Basta ora scrivere le identità tra tre P_per trovare a=d= =e=d=e=f=0); perciò potendo porre P;= p;, lo spazio, che am- mette un tal gruppo è l'Euclideo. Questo caso si può dunque tralasciare. 8. Nel quinto caso oltre le 7 trasformazioni del numero precedente ce n'è un'ottava, cioè X,= &1 Psa — LaPi — L3 Pa L cs + soa essendo (X; X,3)= 0 (f=1,2,3). Come nel caso precedente ci si può ridurre al caso, che sia (P, X,)=P.,(P.X)}=—P:,(P Xs)=P.,(P:X)=—Pi ’ dopo di che si trova facilmente (EDO SPIA) ERE PARO)P (PX) = — P., (PX)= —P3,(P,X.)=—P.,(PX)=— Pi. Dalle due equazioni ((P1X) Ka) = (PX), (PX) = (PX) viene È (((P. X,) X) X)=—(P. X,) ’ e perciò (P, X4) 3a PS . Analogamente (PX) = —Pi, (P3X)=—P,, (PX) =—Pa. Ora avendosi ((P, P.) X,)=0 se ne ricava (P, P)=@a Xx +0 X; ed analogamente si ha (Pi P.)=a,X, +0:X,, (PP) = a3X3 + d3X,., (P, Ps) = ag X3 + 4 Xe, (P.P.)= as Xx 4 d5X, , (P3P.)=asP.1 4 dePse. Dalle identità tra P,,P:, X, e P,.P,, Xi si ricava asi— agata, 0h =", — — bs e da quella tra P,, P., X: ed analoghe a\=@,= — d,= @ be=bs=0 b=—bd: sicchè si può porre (P, P.)=aX, + bX, 9 (Pi P.) = —aqXy s (Pi P.) = aXg , Ps P.)= aX; (Ps Pi) 9 (Pi P.)=aX— dX,. — 174 — Dopo di che, per es., l'identità tra P,, P., Pz dà l) =8l Un gruppo della composizione scritta è il seguente: P,=}l1—-a(zi— 2) p, — 24%,02p. — a(r1 03 + 12.24) Pa — — a(x1 Ly — L2t3) Pa; xi) pi — 24x12 p + A(01£4 d2 43) Pa — — a(21.0%3 + 2204) Pa; P,=}1—-a(ex3— 2) pa — 2ax3 ap — (103 + 22) pa + + a(2104 — £2.d3) Pa; P,=j}j1—-a(zi— 23){p.— 20x34, p3 — — (1084 — 42.43) Pi — — a(2,23 4 22.04) Pa; Xi = X1 Pr — LaPr + Ls Pa 7 LaPs > X,= 2) — CP — ipa + X3 Pr 5 X3 = 1 Pa — LuPi + Co P3 — da poi Xa= pr — Cop — Capa 4 da Pa; Lo spazio, che lo ammette ha per elemento lineare DIRE. {l—a(2%+2%)} (de%+2?)4{1-a(2°:+22)}(d2%3+d28) + i (1-@a(2%8+-284+-2%3+-28,)}? + 2a(210,+1203) (da,de4-dx3dx3)4-20(2105— 004) (dexdaz,—dxsdx,) il a(d4+-28+-2%-4-23)}3 i e non ammette altre trasformazioni, fuorchè nel caso a=0. 9. Infine nell'ultimo caso, i' S, è, come è ben noto, a curvatura co- stante, e per il gruppo e per l'elemento lineare si possono prendere i seguenti Ke 3 k K Pi= 1-TGI+4+ ++ alaptapt apt) di Pr Spi (CRM 4) TR dat + da3 +4 da} + dai \+TG@I+ ++) Meccanica. — Su! moto di un cilindro indefinito in un liquido viscoso. Nota del prof. G. PiccratI, presentata dal Corrispondente T. Levi-CIvITA. Nella Memoria (') « On the Effect of the Internal Friction of Fluids on the Motion of Pendulums » lo Stokes, insieme ad altri problemi, ha trattato anche quello del moto oscillatorio lento di un cilindro indefinito in una massa illimitata di fluido viscoso, in direzione perpendicolare al suo asse. Passando poi a considerare il moto traslatorio, egli ha inoltre dimo- strato che in questo caso del cilindro, a differenza di quanto avviene per la sfera, non esiste un regime stazionario, in cui il cilindro si muova con (1) Math. and Phys. Papers, t. IIL Cambridge, 1901. — 175 — velocità costante, perpendicolarmente al proprio asse, ed il liquido rimanga in quiete a distanza infinitamente grande dal cilindro. Lo studio del regime variabile non è affrontato dallo Stokes. Esso si può effettuare, in modo generale, con un procedimento simile a quello da me seguito nel problema analogo relativo alla sfera. Anche in questo caso l'equazione da cui dipende la funzione di corrente si può ricondurre a quella della propagazione del calore in un filo. Determinato il moto provocato nel fluido dalla traslazione del cilindro, quando si supponga la traslazione uniforme, e che sia trascorso un tempo indefinitamente grande, a partire dall'istante iniziale, si giunge a questo resultato, già previsto dallo Stokes (!) con felice intuizione fisica. Tutta la massa del liquido finisce per essere trascinata dal cilindro, assumendo un moto traslatorio con la velocità stessa del cilindro, come se facesse corpo con lui. Il fenomeno è analogo a quello che si produce nel moto traslatorio stazionario (trasversale) di un piano indefinitamente esteso al di sopra di un liquido, pure indefinitamente esteso e pronfondo al di sotto del piano (°). La resistenza diretta a cui è soggetto il cilindro nel suo moto, quando è raggiunto questo stato limite, è naturalmente nulla come nel caso del piano; se ne ha la conferma nell'espressione facilmente calcolabile della resistenza, quando in essa si supponga {= c0. 1. Si consideri un cilindro circolare indefinito di raggio «, immerso in un liquido pure indefinito, viscoso, incomprimibile, di densità @ ed at- trito interno 4. ll cilindro sia dotato di moto traslatorio, un punto generico del suo asse descrivendo una retta, a lui perpendicolare, con la velocità V(t). Supporremo che il moto del liquido avvenga, anche inizialmente, in piani normali all'asse del cilindro e sia lo stesso per tutti; ipotesi che riduce il problema a due dimensioni. Preso per piano #y un piano normale all'asse del cilindro, e per asse 4 la retta secondo cui si: muove il centro del cerchio sezione, le equazioni del moto « lento » provocato nel liquido sono (*) DADI -?) 2 DAL Di (0 unit ro L(1) dVU a d p 2 Ù e ca) Eroi (2) SI, CSA dan DIM essendo uv le componenti della velocità di una generica particella fluida (1) Mem. cit., pag. 64. (2) Vedi Brillouin, Zegon sur la viscosité des liquides et des gaz, pag. 50. (*) Vedi Stokes, Mem. cit., pag. 38. — 176 — relative agli assi fissi 2y, U il potenziale delle forze a cui il liquido è soggetto, p la pressione, e »v mò il coefficiente cinematico di viscosità. Gli sforzi specifici sono determinati dalle note formole X,—=p— 2 7 Y=p-2k% (3) dU dU Roli i +3). Le equazioni (1) sono riferite ad assi fissi; riferiamoci invece ad assi passanti per il centro del cerchio della generica sezione considerata, e sia $ la distanza di esso dall'origine fissa al tempo #. Seguitando a chiamare #y le coordinate dei punti riferite al centro del cerchio come origine, essendo u= /(2 + £,y,%) sarà DU Di di a +0 giacchè, per essere il moto lento, il secondo termine deve essere trascurato. Le (1) conservano quindi la stessa forma siano esse riferite ad assi fissi o mobili coll'origine nel centro del cerchio. Se w indica la funzione di corrente, è (4) u=., v=— 7; quindi l'eliminazione della VE fra le (1) dà per w l'equazione (5) vi(iv:-d)y—o. Riferendoci nel piano #y alle coordinate polari 7,4 siano R,© le componenti della velocità secondo 7, 9, nel senso in cui crescono gli argo- menti: avremo (6) R=<< e=-_ Supponiamo che il liquido aderisca alla superficie del cilindro; allora la velocità del fluido dovrà essere, per =, uguale a quella dei punti della superficie cilindrica, mentre all'infinito il liquido deve rimanere in quiete. Questo dà per la w }e condizioni limiti 193V du 2) — 9 ZA na, \ (- JU V(£) cos : a V(/) send, (iS) MO POS DAVE a cui deve aggiungersi quella relativa allo stato iniziale. (7) — 177 — Si rende il problema indipendente da + ponendo (8) y=send/(2,0), ed assoggettando la / a soddisfare l'equazione d Qo-—-|f= (9) a(» 2); 0 con pi CO. LIES La condizione iniziale sarà, a norma della (8), ili papiri della forma (10) (Me 0% Complessivamente, avendo riguardo alle (7), si hanno po: la / le se- guenti condizioni ai limiti DI cao V(6) ) La i) fe o (fo = x(7). Ammessa l'aderenza completa del liquido alla superficie del cilindro le (11), valendo anche per #=0, danno \@=a0 , ()_=T0, LATEST CHAN (E dv s à COR s È Si verifica facilmente (!) che si soddisfa alla (9) prendendo (12) 1 (13) r=i (opel) de +4 ro quando si riguardi /, integrale dell'equazione 2 dI dr? (AYP e sì indichino con w(#),0(?) funzioni arbitrarie di #. Le condizioni limiti (11) divengono A Las) Eno. ra Vo v0, (iSerde+S+0) =0 (pf adatto) nil: Lf eta + A 4 00)= 20. (1) Con lo stesso procedimento seguito nel caso della sfera: vedi Rend. Acc. Lincei, 16 giugno 1907. RenpICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 24 — 178 — Vi si ottempera prendendo o(1)=0, o(0)=a?V(é) ed imponendo ad /» le condizioni È l di (15) (MV è (Muo=+i, (Ad Riepilogando si ha per la funzione di corrente (16) p= sn 92 f'afile, ) da + ELI, essendo /» l'integrale della (14) caratterizzato dalle (15); il problema è quindi ricondotto alla determinazione della /». Seguendo il criterio delle approssimazioni successive poniamo (17) fe cn > Pn, 0 e determiniamo 4, mediante l'equazione dPo _ , d'Po LE) DANA hi DIE con le condizioni limiti d (19) (gobo =2V(1) , (gati » (90, ed una generica 9, mediante : dPn__- (d°Pn | 19dYna ) Co dI -»( QRL, con le condizioni (21) (Pn)ra =0, (Pn)io — 0 (Pro AVI Si verifica ovviamente che nel campo, relativo alle variabili 7,4, in cui la serie (17) è convergente, la sua somma fornisce la soluzione della (14) caratterizzata dalle (15). Le (18), (20) coincidendo con l'equazione della propagazione del calore in un filo, sì può assegnare l'espressione di g, è delle 4, in base alle rispettive condizioni limiti: si ha (') (22) alla Pol? ; È) Li (7 + 1) (U1)7-o dB — 4v o: V(7) 5 dr, 0 (23) 2V7 @(r,t)=»v dh dif salle s ORA A 1 dIPn-:(B,T) o} EI: u,do, (1) Vedi: Rend. Acc. Lincei, 5 maggio 1907. — 179 — indicando o il campo (a,00),(0,%) relativo alle variabili 8,7 ed essendo —B=n? —B-20+»)? = (120)? AV(0—-T) 4V(0-T) 4V(0=-T) (A UG e 24 1= ni “5 ln == Si x i=d) © lt=3) Si prendano ora a considerare le 1 dIPnr(? ’ t) Va è) (25) 90) = per le quali si ha dalla”(23) per n = 2 (26) (005 (7 ’ t) = a 0n-1(f , T) = D mT/0 ro mentre la (22) da per @, 00 seat (4) netta Relativamente alla funzione y, la quale dipende soltanto dalle condi- zioni iniziali, e che è già soggetta alle condizioni (12), facciamo ora una 4 DR dd : IRE RT 3 ipotesi complementare, cioè che +) si annulli d'ordine superiore al primo al crescere indefinito di 7. È facile allora dimostrare che le © sono integrabili, insieme ai loro quadrati e quarte potenze, nel campo o, per £ qualunque variabile da 0 a T, essendo T un valore prefissato a piacere. Trasformiamo intanto la w,: si osservi che 2 SE ho dr dUd DI e che per le (12) è CM (ATA) O li DR db (28) u=Ta= avendosi inoltre con otteniamo dalla (27) con integrazione per parti a == 1 $ CA dy X\,y i i '(t = Ea ri 48 (ap 13) ea 1 VOI. — 180 — La ©, per #=0 si riduce ad È sl TÈ 3 quindi sussiste certa- mente, per {= 0, la proprietà E o t>0: nell'espressione (27) di ©, è inutile considerare le parti che si annullano (esponenzialmente) al crescere indefinito di 7, perciò, ricordando le espressioni di %; ed 2, ci sì può limitare a considerare la parte Bre i 2r|/n TA) plat oe noi Per l'ipotesi complementare ammessa sarà lecito porre d (dx n(8) B(ata)=ro. designando % un numero positivo ed 7 una funzione di f che resta finita (minore in valore assoluto di una certa costante L) comunque vari # da @ ad 00; avremo quindi -B-m? È 1 CE nb), 4vt === om df . È 2r avi J pun° P Scindiamo l'intervallo di integrazione in due: da @ ad 7 e da 7 ad 00; si ha ponendosi —(P-r)? OG io Doo Si de = I n(r —— Ia a y2 "2 ID) Ce Seo da. Applicando ad I,J il primo teorema della media potremo anche scrivere AI a i ACS Set di NC] 4yI iaia — B1 — dove 7", n" designano due valori certo inferiori ad L, per la proprietà sopra detta della funzione 7. 1? di 4vÉ r_a e Nell’ integrale il ia ell’ integr Mea FRE. la funzione sotto il segno è il prodotto nta] di due fattori: uno, e‘, è costantemente decrescente nell’ intervallo di | È x 1 integrazione, l'altro, To ENTI costantemente crescente. (7 Scindendo l'intervallo (0, 7 — a) nei due (0 " d > <) 5 | S £ We= a) ed applicando la formola di Weierstrass potremo scrivere N \C. n 250 ZO SO ZIO CdA 1 ; 20 1 ANO n=} ug tn ich Ci agi i E 7ETÀ —r—a)? È ESTA O QI rovi ( di sa Avi ra dà ra (7 2 (AO Ira (7 SS, LT 3 (7 (ara 7) Ù 2 2 I, = a 9 designando e,d due numeri di cui il primo è compreso fra 0 ed : rT— a il secondo fra edrta. I due integrali che compariscono nell'espressione di I, sono certo mi- duna d0 «3 AvÉ nori di She “ dà; quelli che compariscono in I, sono entrambi inferiori 401) 1 ade—= ha” ° Possiamo quindi scrivere “a Su +4 i (IE ra? 16y0 4vL 21130 air Na € ’ designando con 7, , 72,73 74 funzioni che hanno un limite superiore finito, comunque varino 7 e Z. 1 i Per J, essendo -——_—- sempre decrescente, otteniamo analogamente (7 + CEE — 182 — ta 3 DO oe ; © Avi ; con È positivo: l'integrale è minore di f e dà e chiamandolo con #; «0 avremo pure "r 4 J Fai pl+h W5 5 Dalle formole stabilite resulta così che ©j, e quindi @,, per 7 gran- dissimo e # qualunque da 0 a T, si annulla di ordine 2-+ 7% almeno: sus- siste dunque per ©, la integrabilità sopra affermata. Una dimostrazione analoga, con poche variazioni, permette di accertare, valendosi della (26), che se ©,_,7?*? resta finito al crescere indefinito di 7 lo stesso può dirsi per @,7°*"; conseguentemente le è, in generale sono integrabili, insieme ai loro quadrati e quarte potenze, nel campo 0. Stabilita questa proprietà si osservi che essendo in generale H(7,4), (7, t) due funzioni reali qualunque (finite o no purchè) integrabili insieme ai rispettivi prodotti e quadrati in un'area o, finita o no, sussiste la dise- guaglianza di Schwarz: n it ) (n do. (1 do . fH.i.dol = Poniamo per H il prodotto /g, essendo /,g funzioni integrabili insieme ai loro quadrati e quarte potenze; allora essendo I LEINARE TA VE TREZA | ito, ts=|V/(7 do I fo do gesso > 0 e ds y/ (4 do |/ (1 do |. Ul Nell'area o le © sono integrabili insieme alle loro potenze; la dan (29) avremo anche (30) Srotdo = dove diviene infinita, cioè nel punto 7=7,$ =, lo diviene di ordine 4. Se quindi si indica con p un numero positivo qualunque, minore di '/4, (ea) È rig sarà 7a integrabile nel campo o insieme alla sua quarta potenza, e (£— 7)? na du n 00 sarà sino alla seconda potenza per 7 qualunque ma finito. Si può & applicare la diseguaglianza (30) all'espressione rn ©n(1 6) = » fon i si. B? (e — Si do ed otteniamo fi |2ry/r Sé d)= =|y/fa Gdo de (ERE, do j/ 80 —ne(2A). . do — 183 — I due integrali restano finiti per f è convergente nel campo limitato da (a,R),(0,T) essendolo quella di ter- le 1 CIMA do mine generale a 2//n Va: Ma poichè, come si è già visto, è lim @,="0, si può dire senz'altro che la serie (33) è convergente nel campo limitato da (4,00),(0,T). Prendiamo ora a considerare 1 dPn(b,7) { ife Judo: integrando per serie e ricordando la (23) si può asserire che 1€ Si _ € v f N IU pt e d L ZO) è convergente nel campo in cui lo è la (33), e questa proprietà sussiste per fa us DI Pa(f ’ i) 0 che dà l'integrale della (14) caratterizzato dalle condizioni (15). — 184 — L'espressione (16) della funzione di corrente risolve così in modo gene- rale il problema del moto lento provocato nel liquido dalla traslazione del cilindro. Consideriamo infine il caso particolare in cui V è costante, e propo- niamoci di vedere se, al crescere indefinito del tempo, la /:, e quindi la w, ammettono un valore limite, e quale esso sia. Resulta intanto dall'espressione (22) di 4, che lim go =2V: inoltre t=% si ha ora dalla (27) che DE ea Di +8) u; dB . Per le proprietà già dimostrate della @,(7, 4) per 7 grandissimo e # finito ma qualunque, e per quelle che resultano dalla sua precedente espressione, quando anche si supponga # infinitamente grande, sarà ©,(8 , 7), integrabile, qualunque sia 7, in tutto il campo (4,00), (0,2) per £ grande quanto si vuole. Possiamo dire così che 2/7 lim gi(r, =» [ dB È o1(8, 1) [tira Ù | de=0 t=% va RENI Trovato Ci v091 SEE, Quest'acido fonde a 255° è poco solubile nei solventi ordinari, si scioglie bene negli acidi e negli alcali, nei carbonati alcalini e nell'ammoniaca. La reazione di Angeli fu provata su alcuni cem. della soluzione acquosa dell'aldeide aggiungendo gr. 0,5 di acido di Piloty sciolti in poco alcool e 10 cem. di potassa alcoolica al 10°/. Il tutto si scalda a bagno-maria per mezzora. Acidificando con acido acetico ed aggiungendo cloruro ferrico si ha l’interna colorazione rosso ciliegia caratteristica per gli acidi idrossam- mici. La colorazione è intensissima anche adoperando piccolissime quantità di liquido. Non avendo a mia disposizione maggiori quantità di aldeide non ho potuto isolare l'acido glicolidrossammico, e tanto meno farne l'idrolisi come era mia intenzione. Mi riservo di ritornare sopra quest'argomento quando mi sarò procurato dell'altra aldeide glicola. (1) Berichte 25, 2984. (2) Berichte 33, 3107. — 205 — Chimica. — Sul 1-2-4 dimetil-nafto-chinolo (). Nota di G. BARGELLINI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Uno dei composti che ha gettato più luce sulla costituzione della san- tonina è il p-dimetil-naftolo che il prof. Cannizzaro e Carnelutti (*) ottennero per la prima volta nel 1882 per distillazione dell’acido sautonoso e dell'acido isosantonoso con ba- rite. Per ossidazione con permanganato, esso dà origine ad acido ftalico (3) prova che i due gruppi metilici e l’ossidrile sono nello stesso anello ben- zenico del nucleo naftalico. Poichè d’altra parte nella demolizione graduale della santonina, pas- sando per la iposantonina, si era giunti al p-xilolo (4) si aveva così la prova indiretta che a questo dimetilnaftolo spettava la costituzione soprascritta. Nel corso delle ricerche che furono fatte in quel tempo per determi- nare la costituzione di questo composto, fu fatto agire su di esso l'acido cromico. Il prof. Cannizzaro ottenne così (*) un singolare prodotto di ossi- dazione, il cosidetto ossidimetilnaftolo, che differiva dal dimetilnaftolo per contenere un atomo di ossigeno in più e per non avere più le proprietà di un naftolo, ma invece quelle di alcool e di chetone. Cannizzaro e An dreocci (°) provarono infatti che esso reagisce coll'anidride acetica, colla fe- milidrazina e coll’idrossilammina. Nello studiare l’ossima, osservarono anzi che, sciolta nell’acido acetico, perde acqua per dare un nitroso-derivato il quale per riduzione si trasforma nella medesima dimetil-naftilammina che si può avere anche direttamente dal dimetilnaftolo. Essi ammisero perciò che il nuovo ossidrile formatosi nell'ossidazione fosse in posizione orto al carbonile formatosi a spese del- (1) Lavoro ‘eseguito nell’Istituto chimico della R. Università di Roma. (2) Cannizzaro e Carnelutti, Gazz. Chim. Ital., 12, 406. (3) Cannizzaro e Andreocci, Gazz. Chim. Ital., 26 (1) 17. (4) Gucci e Grassi, Gazz. Chim. Ital., 22 (1) 50. *(5) Cannizzaro e Carnelutti, loc. cit. (6) Cannizzaro e Andreocci, loc. cit. — 206 — l'ossidrile naftolico e che l’ossi-dimetil-naftolo avesse la formula di costi- tuzione : CH; È © i x AI NOI 0, CH, Spiegarono allora il passaggio dall’ossidimetil-naftolo all'ammina collo schema seguente: om, CH, CH; Ù È ( Y il 0A b Y i ( dé Foa SS Mari om CH, CH, CH; dB: CH; ee fe VALI NE Angeli CH; OH: CH, Considerando però la formula sopra scritta dell’ossi-dimetil-naftolo era da aspettarsi che esso potesse per ossidazione trasformarsi in un chinone della formula OH; C T_T Frasi è Yé n CH; analogamente p. es. alla ossicanfora di Manasse (') che per ossidazione dà (1) Manasse, B. 30, 659-B. 35, 3811. 4 È ta — 207 — canferchinone mentre invece l’ossidimetil-naftolo per la sua stessa maniera di formazione (ossidazione del dimetilnaftolo con un eccesso di acido cromico) è stabile di fronte agli agenti ossidanti. D'altra parte c'era da aspettarsi che anche il f-naftolo ordinario po- tesse dare origine nelle identiche condizioni ad un composto analogo della formula mentre invece si sa che non è mai stato ottenuto dal f-naftolo un simile prodotto di ossidazione. Bisognava dunque pensare che i gruppi metilici del dimetil-naftolo esercitassero un certo ufficio e fossero indispensabili perchè questa trasfor- mazione in ossi-dimetil-naftolo potesse avvenire. Era necessario perciò trovare nuovi fatti (') su cui fondarsi per stabi- lire la vera formula di questo enigmatico ossi-dimetil-naftolo. In questi ultimi anni una serie di lavori di Auwers, di Zincke e di Bamberger hanno fatto conoscere una interessante classe di nuovi composti molti dei quali sono stati preparati per ossidazione dei fenoli p-alchilate con acido nitrico o con acido monopersolforico (reattivo di Caro). In tal modo sì passa dal tipo benzenico a un derivato del cicloesadiene -1-4; l'os- sigeno dell’ossidrile fenico diventa chetonico mentre si forma un nuovo os- sidrile, alcoolico, attaccato allo stesso atomo di carbonio a cui sta unito il gruppo alchilico. Si ottengono così composti del tipo Ri OH NA che Bambergar (2) nel 1900 indicò col nome generale di chizole. (?) Wedekind (B. 31; 1680) fece alcune ricerche che restarono infruttuose, per ca- ratterizzare questo composto come chinone. (*?) Bamberger, B. 33. 3600. — 208 — Se i fenoli p-alchilati si trattano però con acido nitrico con certe pre- cauzioni oppure in soluzione eterea con acido nitroso si possono isolare dei caratteristici prodotti intermedi azotati del tipo (') per i quali Zincke (*) propose nel 1903 il nome di chinztrol:. Da essi, secondo le ricerche di Auwers e di Zincke si può passare fa- cilmente ai chinoli. In un recente lavoro di Fries e Hiibner (*) è stato infine dimostrato che non solo i fenoli p-a/chélati possono dare origine a chinoli ma anche i naftoli che contengono un gruppo metilico in posizione orto all'ossidrile naftolico. Dal 1-metil- -2-naftolo p. es. essi ottennero il chinitrolo e il chi- nolo corrispondenti : CH; NO, CH; OH nu SA Do N0-0H DTA AN ao ted / NA NGI Wai CH CH Osservando allora che il 1-4- dimetil- 2-naftolo di Cannizzaro e Car- nelutti contiene un ossidrile in posizione orto ad un gruppo metilico (come il l-metil- 2-naftolo di Fries e Hiibner) e considerando inoltre che la forma- zione del cosidetto ossidimetilnaftolo per ossidazione del dimetilnaftolo con acido cromico è un processo di ossidazione che si può evidentemente com- parare a quello che avviene coll'acido di Caro o coll’acido nitrico, io pensai (1) La struttura del sruppo NO» dei chinitroli (cioè se èssi siano veri nitro-chetoni o eteri nitrosi) è ancora incerta. (*) Zincke, A. 238. 263. (3) Fries e Hiibner, B. 39. 435. — 209 — che l’ossidimetilnaftolo non fosse altro che un chinolo della formula La formula chinolica ci spiega perchè gli agenti ossidanti non lo tra- sformano in un chinone: ci mostra inoltre chiaramente perchè dal -naftolo ordinario nelle identiche condizioni non-si può avere un prodotto di ossida- zione analogo all'ossidimetilnaftolo: ci permette infine di spiegare la tra- sformazione dell’ossi-dimetil-naftolo, passando per l'ossima e il nitrosoderi- vato, in dimetil-naftilammina secondo lo schema: CH; OH CH; OH culi A vo A e EC SI 7 CI AA da dh: CH; CH;:0H ei ci CEE i È e SER zen VA NAT CH; ca CH; tenendo presente la grande tendenza. evidentissima in tutti i chinoli, del- l'anello biidrogenato a divenire aromatico ('). Per provare la giustezza della mia supposizione, cercai di preparare per altra via questo dimetil-naftochinolo per compararlo coll'ossi-dimetil- naftolo del prof. Cannizzaro. (1) La trasformazione dell’ossima in nitrosoderivato è, sotto questo punto di vista, paragonabile alla trasformazione dei fenilidrazoni instabili dei chinoli in azocomposti di- mostrata da Bamberger (B. 35. 1424). RenpIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 28 — 210 — Facendo agire infatti l'acido nitroso sul 1-4-dimetil- 2-naftolo in solu- zione eterea, ho potuto ottenere il chinitrolo della formnla CHE e da questo sono passato al corrispondente dimetil-naftochinolo che in tutte le sue proprietà e in quelle dei suoi derivati si è dimostrato 2dertico col- l’ossi-dimetil-naftolo del prof. Cannizzaro. Usai come prodotto di partenza il 1-4-dimetil- 2-naftolo fusibile a 135°136° che preparai per fusione dell'acido desmotropo-santonoso con idrato potassico secondo le indicazioni di Andreocci (!). Per preparare il dimetil-nafto-chinitrolo posi in un imbuto a rubinetto una soluzione di gr. 3 di dimetilnaftolo in e. c. 85 di etere insieme con 85 c. c. di acqua e 8 c. ce. di acido acetico. A questa mescolanza aggiunsi a poco a poco nel corso di una giornata una soluzione di gr. 9,5 di nitrito sodico in 30 ce. c. di acqua. Lasciai stare agitando spesso e dopo tre giorni separai lo strato acquoso dalla soluzione eterea che era andata colorandosi in giallo. Dopo aver fatto svaporare l'etere a temperatura ordinaria in un cristallizzatore, restò come residuo un olio giallo. Dopo alcuni giorni comin- ciarono a separarsi molti cristallini ben formati immersi nell'olio: li raccolsi su filtro lavando con etere in cui l'olio è molto più solubile dei cristalli, Ottenni così dei cristalli giallognoli che si fondevano, con sviluppo di gas, a 99°-100°. All’analisi dette i seguenti resultati : Gr. 0,177 di sostanza dettero c. e. 10,5 misurati a 14° e 748,59 Donde per cento Trovato Calcolato per Cia Hi NOz N 6,93 6,45 Devesi notare che piccole quantità di sostanza oleosa bastano per ab- bassare di molto il punto di fusione. Perciò si deve lavare bene i cristalli su filtro con etere: l'etere di lavaggio svaporato lascia di nuovo come re- siduo l’olio da cui poi col tempo sì separa una nuova quantità di cristalli. Per trasformare questo dimetil-nafto-chinitrolo nel corrispondente chinolo, (1) Andreocci, Gazz. Chim. Ital., 25 (I) 545. — 211 — fu riscaldato a 60°-70° in un palloncino munito di refrigerante a ricadere con une mescolanza di 5 p. di etere e 5 p. di acido acetico. Durante il riscal- damento si ha sviluppo di vapori nitrosi. Dopo 8-9 ore si aggiunge acqua e si estrae più volte con etere. L'etere si agita poi con una soluzione di- luita di carbonato sodico e in fine sì fa distillare. Il residuo si scioglie nella ligroina bollente (così resta indisciolta una piccola quantità di sostanza resinosa rosso-scura). Lasciando svaporare un po’ questa soluzione sì depo- sitano cristalli bianco-giallastri che dopo una cristallizzazione in una mesco- lanza di etere e ligroina raggiunsero il punto di fusione 104°-105°. Cristallizza dall'etere acetico in tavolette sulle quali ho notato estin- zione obliqua: perciò, salvo uno studio cristallografico più completo, pare che si tratti di cristalli triclini, come per l’ossi-dimetilnaftolo dimostrò am- piamente il prof. Brugnatelli ('). Questo prodotto da me ottenuto, che per la sua maniera di prepara- zione è veramente il dimetil-nafto-chinolo, lo comparai con un campione di ossi-dimetil-naftolo fusibile a 104°-105° preparato per ossidazione del dime- til-naftolo con acido cromico secondo le indicazioni di Cannizzaro e Andreocci. Il punto di fusione della mescolanza dei due prodotti si mantiene co- stante a 104°-105°. Il mio dimetil-nafto-chinolo presenta i medesimi caratteri di solubilità dell’ossi-dimetil-naftolo: si scioglie facilmente nell'etere, alcool, etere ace- tico, benzolo, cloroformio, poco nell'acqua bollente. Tanto il mio dimetil-nafto-chinolo quanto l’ossi-dimetil-naftolo si sciol- gono nell’acido solforico conc. dando soluzioni gialle che poi divengono verdi e, dopo alcuni giorni, brune. Il passaggio del colore dal giallo al verde e al bruno avviene contemporaneamente nelle due provette in cui feci le so- luzioni di confronto. Il mio dimetil-nafto-chinolo e l’ossi-dimetil-naftolo, (come fanno tutti i chinoli) danno per riduzione il naftolo corrispondente. Ho fatta la ridu- zione scaldando per pochi minuti questi prodotti sciolti nell'alcool con clo- ruro stannoso, stagno e poco acido cloridrico: per aggiunta di acqua, in am- bedue i casi, si precipita il dimetil-naftolo fusibile a 135°-136°. L'ossima del mio dimetil-nafto-chinolo preparata esattamente secondo le condizioni descritte da Cannizzaro e Andreocci si fonde a 175° come l’os- sima dell’ossi-dimetil-naftolo. Ù Per azione della fenilidrazina in soluzione acetica sul dimetil-nafto-chi- nolo ottenni la medesima sostanza fusibile a 83°-84° in aghi color rosso-arancio, come si ha dell'ossi-dimetil-naftolo. A proposito di questo cosidetto fenilidra- zone devo qui rammentare le brillanti ricerche di Bamberger il quale provò (?) (1) Gazz. chim. ital., 26, (I), 22. ?) Bamberger, B. 35, 1424. — 212 — che per azione della fenilidrazina sui chinoli sì formano azocomposti e non fenilidrazoni, a causa della tendenza dei chinoli a trasformarsi in veri de- rivati benzenici. Ora, questo composto fusibile a 83°-84° ha tutto l'aspetto degli azocomposti e inoltre i resultati dell'analisi riportata da Cannizzaro e Andreocci nella loro memoria (') si avvicinano più alla formula dell’azocom- posto che a quella del fenilidrazone. Infatti gr. 0,180 di sostanza dettero c. c. 16,5 di N misurati a 8°, 2 e 74], Donde per cento ‘Trovato Calcolato per C,g His ON: N 10,78 10,07 mentre per la formula dell'azocomposto C,3 His Na cn C ANAMOENEN 9 H; \M CO CH; il calcolato per cento in azoto è 10,76. D'accordo colle esperienze di Bamberger questo cosidetto fenilidrazone è da considerarsi dunque come un /enzl-azo-dimetil-naftile. Un'ultima esperienza infine conferma l'identità dell'ossi-dimetil-naftolo e del mio dimetil-nafto-chinolo. Per azione della semicarbazide ho ottenuto da ambedue queste sostanze lo stesso prodotto giallo-avanciato fusibile a 167°-168°. Per ottenerlo sciolsi la sostanza in poco alcool ed aggiunsi poi acqua in maniera però da avere una soluzione limpida. A questa aggiunsi la so- luzione acquosa della quantità calcolata di cloridrato di semicarbazide e ace- tato sodico. Lasciando stare il liquido a temp. ord. e agitando, comincia dopo qualche ora a depositarsi una polvere cristallina gialla aranciata che, sciolta nell’alcool diluito bollente si deposita come una polvere cristallina gialla aranciata chiara. Si fondesa 167°-168° decomponendosi. Sottoposta al- l'analisi dette i seguenti risultati: Gr. 0,112 di sostanza dettero cc. 19 di N misurati a 25° e 760", Donde per cento Trovato Calcolato per Ci3 His ON N 18,83 18,50 (1) Cannizzaro e Andreocci, Gazz. chim. ital., 26, (I), 27. Questa sostanza non è un vero semicarbazone ma, secondo le ricerche di Bamberger già rammentate è da considerarsi come una dimelil-naftil-azo- carbonamide della formula CH3 NNc-N=N-c0-NE; È pochissimo solubile nell'acqua: molto solubile nell’alcool, etere, acido acetico, cloroformio, insolubile nell’etere di petrolio. Si scioglie nell’acido cloridrico con colorazione verde. La soluzione dopo qualche minuto diventa rossa e lascia depositare una sostanza fioccosa rossa insolubile. Anche nel- l’acido solforico cone. si scioglie con colorazione verde che poi volge al rosso. Da quanto ho esposto risulta dunque chiaro che l’ossi-dimetil-naftolo del prof. Cannizzaro (preparato ossidando il dimetil-naftolo con acido cromico in soluzione acetica) è perfettamente identico al dimetil-nafto-chinolo (ottenuto per decomposizione del dimetil-nafto-chinitrolo che ebbi per azione dell'acido nitroso sul dimetìl-naftolo). A questo singolare prodotto si deve dunque at- tribuire la formula Considerando anzi che esso fu ottenuto per la prima volta nel 1882, cioè in epoca anteriore anche alle più antiche osservazioni che Auwers fece nel 1884 sugli anormali derivati dello pseudocumenolo, è giusto riconoscere che al prof. Cannizzaro si deve la preparazione del primo rappresentante della classe dei chinoli. Di questo ossi-dimetil-naftolo fu data una formula di costituzione essen- zialmente giusta poichè differiva dalla vera soltanto per il posto dell’ossi- drile alcoolico, del quale però era stata giustamente fissata la posizione re- lativa rispetto al CO chetonico. — 214 — Le ricerche di Cannizzaro e Andreocci sull'ossi-dimetil-nattolo (che fu- rono una parentesi nello studio della costituzione della santonina e non fu- rono perciò continuate) ci dimostrano, anzi, colla trasformazione dell’ossima in nitroso-derivato, un nuovo lato del comportamento singolare dei chinoli, che sarà interessante studiare in altri membri di questa classe di composti. Fisiologia. — Sw//a possibile sopravvivenza dei colombi alla legatura e recisione dei tre dotti pancreatici. Nota del dott. UGo LomBRoso, presentata dal Socio L. LUCIANI. Da molti autori è stato osservato, ed ho potuto personalmente convin- cermene ('), che la legatura e recisione dei dotti panereatici nel cane e nel coniglio, non determina gravi perturbazioni dell'assorbimento alimentare. Il coniglio poi non solo non risente grave danno da quest'operazione per l’assor- bimento alimentare, ma cresce di peso, concepisce, partorisce ecc. ecc. Il cane invece pare che in definitiva ne soffra; nelle mie osservazioni, cani così ope- rati sopravvissero al massimo cinque mesi. Alcuni degli autori (p. es. Cl. Bernard) (?) però, fra i primi che sperimentarono sul cane, i quali per impe- dire al secreto pancreatico di giungere nell’ intestino praticavano iniezioni di sostanze estranee, olio, paraffina, nei dotti, usando una pressione esagerata, avevano visto comparire gravi disturbi nell'assorbimento alimentare e soprav- venire rapida la morte dell'animale. Ed è appunto, prendendo le mosse dal diverso comportamento che risulterebbe in base alle ricerche di Cl. Bernard, fra il cane ed il coniglio all’ostacolato deflusso del secreto pancreatico nel tubo digerente che Langendorfi (*) volle estendere le ricerche ad altri ani- mali: i colombi. Secondo Langendorfî dopo la legatura dei tre dotti escretori del pancreas nel colombo, tutti gli animali muoiono in un tempo relativamente breve (16 giorni al massimo) e la morte sarebbe dovuta a che per la man- canza del secreto pancreatico, le sostanze alimentari, ed in modo speciale gli amidacei, non possono più venir digerite. La morte avverrebbe dunque per inanizione: ed infatti gli animali si presentavano all’autopsia in stato di profondo marasma con una perdita in peso del 50 °/. Ma pur ammettendo che la morte in questi animali fosse dovuta all'ina- (1) Cfr. a tale proposito U. Lombroso, Veber die Beziehungen zwischen der Nihr- stoffresorption und den enzymatischen Verhiltnissen im Verdauungskanal, 1906. Archiv fir die ges. Physiologie, Bd. 112, pagg. 531-560; e U. Lombroso, Sugli elementi che partecipano alla funzione interna del pancreas, 1906. Arch. di Fisiologia, pag. 204. (3) C1. Bernard, IMémoire sur le pancréas, Paris, pag, 480 e seg. (*) O. Langendorfîi, Versuche uber die Pankreasverdauung der Véogel, 1879. Arch. f. A. u. Ph., pagg. 1-35. nizione per mancato assorbimento; io non ritenni si potesse senz'altro accet- tare come afferma il Langendorfi, che questo fenomeno fosse dovuto esclu>i- vamente alla mancanza del secreto pancreatico nell’ intestino. Tale riserva mi veniva suggerita da alcune osservazioni fatte nelle ricerche sul cane. Mentre infatti io avevo potuto dimostrare che l'assorbimento alimentare continua quasi normale quando impedivo al secreto esterno di giungere nell'intestino e le esperienze erano state fatte con mezzi diversi (dispersione del secreto al- l'esterno dell'addome: legatura e recisione di ambedue i dotti; trasporti di parte del pancreas sotto cute con escisione delle rimanenti parti), onde esclu- dere ogni obiezione; avevo anche potuto osservare che una condizione è ne- cessaria affinchè l'assorbimento si continui e l'animale viva dopo tali opera- zioni. E la condizione è che gli elementi del parenchima ghiandolare, sia acini che 2rsulae, non cadano in preda a gravi alterazioni. In alcuni casì nei quali avevo anche io eccezionalmente, come già Cl. Bernard, rilevato profonde perturbazioni dell'assorbimento alimentare e morte precoce dell'animale, avevo osservato, eccezionalmente pure, profonde alterazioni del parenchima ghiandolare, il quale era scomparso o necrotico. Ho descritto (') per ciò che riguarda il pancreas del colombo che la legatura e recisione del dotto di un lobo (nel colombo il pancreas è diviso in tre lobi, ciascuno dei quali è provvisto di un dotto escretore proprio, senza anastomosi coi dotti degli altri lobi), determina profonde alterazioni in tutti gli elementi della ghiandola. Gli acini in seguito al progressivo dilatarsi del lume acinoso perdono quasi tutto il loro protoplasma e diventano delle ca- vità cistiche tapezzate da epitelio prettamente pavimentoso col nucleo ovale o falcato, col diametro maggiore disposto tangenzialmente al lume, ecc. Nelle insulae del Langerhans si nota infiltrazione parvicellulare ecc. Tutte queste alterazioni non sono però permanenti, esse presentano la loro massima inten- sità alla fine della seconda settimana; segue quindi un processo di r'esti/u/zo ad integrum per cui tutti gli elementi parenchimatosi della ghiandola riac- quistano i loro normali caratteri. Ora potrebbe supporsi che, come nei cani nei quali il perturbato assor- bimento e la morte doveva mettersi in rapporto coll’alterazione del parenchima acinoso più che coll'ostacolato deflusso del secreto esterno, così pure nei co- lombi questi fenomeni costantemente riscontrati, dipendessero più dal fatto dell’aversi sempre il parenchima ad un dato momento profondamente alterato, che non dall'ostacolato deflusso pancreatico esterno. Come abbiamo detto le alterazioni del parenchima sono bensì profonde, ma transitorie, ciò che permette di indagare se la supposizione fatta corri- sponde al vero. (1) U. Lombroso, Sur la structure histologique du paneréas après ligature et se- ction des eonduits paneréatiques, 1905. Journal de physiologie et de pathologie générale, pag. 3. — 216 — Si tratta cioè di verificare se è possibile mantenere in vita i colombi quando tutta la secrezione paucreatica manchi nell'intestino, ma gli ele- menti ghiandolari si trovino in condizioni di struttura pressochè normale. L'esposizione sommaria delle ricerche eseguite alla soluzione di tale quesito costituisce il contenuto della presente Nota. Ho creduto anzitutto opportuno di ripetere le esperienze di Langendorff colla legatura (ed io aggiunsi anche la recisione) di tutti e tre i dotti pan- creatici contemporaneamente. Operai in questo modo otto colombi adulti, del peso fra i 350-400 gr. cadauno. Tutti questi animali morirono in un lasso di tempo compreso fra i nove ed i sedici giorni dopo l'operazione (in media vissero 13 !/, giorni): essi erano assai diminuiti di peso dal 40°/, al 56 °/) (in un caso). Nelle feci compariva in grande quantità la sostanza alimentare (gran- turco, frumento) non digerita. Secondo osservazioni basate esclusivamente sui caratteri esteriori, l'alterazione dell'assorbimento alimentare si manifesta più grave negli ultimi giorni che non nei primi giorni dopo l'operazione; sic- come questo fenomeno è assai interessante, per darne una conferma e preci- sarne 1 particolari, ho istituite apposite ricerche non ancora ultimate, delle quali renderò conto nella comunicazione 7n esterso. Dunque per ciò che riguarda i colombi, le mie esperienze colla legatura e recisione di tutti e tre i dotti del pancreas, conducono a risultati i quali col- limano perfettamente, in linea generale, con quelli ottenuti e descritti da Langendorfî. Allo scopo di impedire al secreto pancreatico di giungere nell'intestino facendo però in modo che gli elementi parenchimatosi non fossero comple- tamente alterati, io praticai la legatura e recisione del dotto escretore del lobo posteriore ('). Ottenevo in questo modo che una metà circa del pancreas (il lobo posteriore corrisponde appunto in volume ai due lobi anteriori presi assieme) subiva il processo descritto, mentre l’altra porzione poteva funzio- nare regolarmente e mantenere in vita l'animale sino a che si fossero ripri- stinati gli elementi del lobo operato, prima di legare anche i dotti della rimanente porzione. Dei dodici colombi così operati due morirono spontaneamente 36 e 43 giorni dopo questa operazione. Non credo però che la morte sia stata deter- minata dall'atto operativo, ritengo più probabile siano morti per malattie inter- corse. Anche qualche altro colombo che si trovava assieme con questi morì, benchè non operato. Gli altri vissero tutti ed aumentarono anche di peso. (1) Ho legato nel primo tempo, sempre, il dotto posteriore perchè è il più difficile ad essere aggredito, e probabilmente dopo una prima operazione la quale determinava ade- renze, spostamenti dei rapporti anatomici, non sarebbe più stato possibile rintracciarlo. = 217 — Tre dei dodici colombi superstiti vennero quindi operati di legatura e recisione dei due dotti anteriori dopo un mese dalla prima operazione. Un mese è il tempo minimo nel quale avevo osservato che gli acini riprendono la loro struttura, pur notandosi ancora però, alcune alterazioni (infiltrazione parvicellulare, iperplasia del connettivo) di carattere generale, in tutta la ghiandola. Tre vennero rioperati dopo un mese e mezzo e finalmente gli ultimi quattro vennero rioperati dopo due mesi. È Dei tre colombi rioperati dopo un mese uno morì nella notte seguente all'operazione, per emorragia. I due colombi rimasti ed i tre rioperati dopo un mese e mezzo si comportarono presso a poco nel modo dei colombi ope- rati contemporaneamente di tutti e tre i dotti. Essi morirono fra i quindici e ventidue giorni dopo l'atto operativo, presentando una diminuzione di peso circa in media del 47 °/,. Dei quattro colombi rioperati dopo due mesi, uno morì poche ore dal- l'atto operativo. In questo colombo tutta l’ansa duodenale aveva contratto ade- renze fortissime, sia colle pareti addominali, sia col fegato, e nel distaccarle si produssero rotture di molti vasi. Un altro morì dopo sei giorni. All'esame microscopico si rilevò un'intensa flogosi diffusa a tutto l'organo. Gli altri due sono invece sopravvissuti e vennero sacrificati l'uno dopo tre mesi e l’altro dopo 102 giorni. Ambo e due questi colombi presentarono una notevole diminuzione di peso. Il primo, di 435 grammi, pesava quando venne sacrificato, 340 gr. Il secondo da 415 grammi scese a 225. L'esame esteriore delle feci, ed il peso delle feci disseccate veniva ad indicare che l'assorbimento alimentare, pur non essendo perfetto, sì compiva in misura discreta. Determinazioni esatte dei singoli valori non ho potuto ancora ese- guire, ma saranno compiute ed esposte nel lavoro in esteso. Nello stesso esporrò pure la descrizione della struttura dell'organo così operato, poichè ho potuto osservare in esso da una parte il ripristinamento a condizioni pres- sochè normali di un certo numero di acini considerati isolatamente; mentre che d'altra parte la disposizione abnorme degli acini stessi e le alterazioni degli epiteli dei dotti, e della ghiandola in foto testimoniavano la riuscita dell’ operazione. Dalle esperienze che ho riferite emerge che: Quando si legano e recidono i tre dotti nel pancreas di colombo con- temporaneamente, si determinano gravi perturbazioni dell'assorbimento ali- mentare e l’animale muore in breve tempo. La morte dell'animale non si può attribuire unicamente alla mancanza del secreto pancreatico nel tubo digerente, ma deve mettersi in relazione anche alle alterazioni che subiscono gli elementi parenchimatosi della ghiandola; alterazioni quindi che turbano altre funzioni pur necessarie, com- piute dalla ghiandola stessa. RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. DO (vo) — 218 — Infatti è possibile mantenere in vita i colombi anche con tutti tre i dotti pancreatici legati purchè si sia dato il tempo ad una parte del pan- creas di aver compiuto quel processo di 7'es//{u/io ad integrum che abbiamo descritto. Devesi quindi ammettere che gli elementi riformati compiono una funzione utile all'organismo. I risultati da noi ottenuti non solo presentano un certo interesse per ciò che riguarda l'ipotesi di Langendorff; ma maggior interesse ancora esse presentano se li mettiamo in rapporto con quanto viene in questi ultimi tempi sostenuto riguardo alla funzione interna del pancreas. Mentre quasi tutti gli autori venivano accordandosi nell’ ammettere al pancreas un'altra funzione oltre la secretiva esterna, funzione la quale pre- siederebbe al normale ricambio degli idrati di carbonio, in questi ultimi anni, Pfliiger (') ed i suoi scolari hanno voluto mettere in dubbio l’ esistenza d'una funzione interna del pancreas. Secondo Pfliger, il pancreas non pos- siede una vera e propria funzione interna; i fenomeni che compaiono dopo l'estirpazione del panereas sono dovuti non alla mancanza della funzione in- terna del pancreas, bensì alle lesioni che durante l'atto operativo sì produ- cono, interessanti il sistema nervoso periferico della regione. Il risultato da me esposto contraddice recisamente ad una simile ipotesi. Nelle mie ricerche nessuna lesione diretta veniva fatta ai nervi, sia in un caso che nell’altro; eppure la vita dell'animale era consentita solo quando gli elementi ghiandolari avevano potuto riprendere la loro normale struttura. È dunque soltanto colla funzionalità di questi elementi che si possono collegare la comparsa o l'assenza di alcuni fenomeni dopo la legatura e recisione dei dotti pancreatici nel colombo. Riepilogando in poche parole quanto sono venuto esponendo, ho dimo- strato che: È possibile mantenere in vita i colombi ai quali sono stati legati e recisi i tre dotti panereatici, a condizione però che i dotti non vengano tutti ope- rati contemporaneamente; e che la seconda parte dell’ operazione venga fatta quando gli elementi parenchimatosi della porzione prima operata, abbiano avuto tempo di ristabilirsi. Risulta quindi che gli elementi parenchimatosi del pancreas compiono oltre alla funzione secretoria esterna un altra funzione, la cui presenza è condizione necessaria e sufficiente a mantenere in vita i colombi. Perchè si esplichi idoneamente quest'ultima funzione, è necessario che gli elementi i quali vi provvedano, non siano alterati. (1) E. Pfliiger, confronta Glicogène. Dictionnaire de Physiologie. Richet. — 219 — Fisiologa vegetale. — Azcerche bacteriologiche sui tubercoli dell’ Hedysarum coronarium L. (Sulla) (‘). Nota di G. SEvERINI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Occorre innanzi tutto premettere che nel parenchima del tubercolo è difficile distinguere la forma bacterica, perchè, anche nei tubercoli giovanis- simi, si trova un'enorme prevalenza di bacteroidi in forma di X, Y, T ecc. Durante la fioritura della Sulla (maggio-giugno) i bacteroidi contengono vacuoli per lo più all'estremità delle branche o lungo il corpo del bacteroide: talvolta si dispongono in catena, tal’altra quelli situati all'apice si ingrossano in modo da far apparire rigonfiato l'apice stesso. Quando si inizia la matu- razione dei frutti, i vacuoli divengono sempre più ampi, si fondono fra di loro e talvolta in modo da occupare tutto il corpo del bacteroide del quale non resta che un sottile straterello periferico. Non mi è stato possibile di poter seguire ulteriormente la sorte dei bacteroidi: a questo punto corrisponde poi lo svuotamento e il disfacimento dei tubercoli. Prima di accingermi alle prove di isolamento e di coltura dei bacteri di Sulla, volli stabilire con precisione se la formazione dei tubercoli avvenga normalmente e costantemente su terreno ordinario, oppure no (*). A tal uopo furono istituite quattro diverse serie di esperienze, delle quali riassumo i procedimenti e riporto i risultati di maggiore importanza. A. Colture in vasi con sabbia sterilizzata, previa sterilizzazione 0 no del seme. Il seme (proveniente dalla ditta Ingegnoli) fu sterilizzato immer- gendolo e mescolandolo per cinque minuti in una soluzione di sublimato corrosivo 1 °/0o; poi lavandolo con acqua sterilizzata. Nei vasi con semente sterilizzata non si ebbe formazione di tubercoli. Ugualmente prive di tubercoli si ebbero le piante provenienti da semi non sterilizzati. Gli innaffiamenti furono fatti con acqua di fonte, bollita. B. Colture in piena terra su due distinti appezzamenti nel giardino annesso all'Istituto Botanico: nell’uno di essi fu mescolata una certa quan- tità di terriccio proveniente da vecchio sullaio, nell'altro non fu fatto alcun trattamento speciale. Il seme adoperato non fu sottoposto a sterilizzazione. La semina fu fatta il 20 marzo 1906: va notato che negli appezzamenti scelti non fu mai coltivata Sulla in precedenza. Su queste piante furono eseguite: (1) Lavoro eseguito nel R. Istituto Botanico di Roma. La memoria estesa verrà pub- blicata negli Annali di Botanica del prof. R. Pirotta. (2) È noto, che la Sulla non si sviluppa su terreno nuovo se non vi si mescola della terra di buon sullaio (D. Sbrozzi, Za Sulla, II edizione, pag. 105). — 220 — 1. Misure periodiche dell’accrescimento e del numero dei tubercoli formati. — Lasciando da parte tutte le osservazioni intermedie, dirò solo che nell'appezzamento a cui non era aggiunto terreno di sullaio non apparvero mai tubercoli sulle radici e che il primo sviluppo fu pressochè uguale in ambedue le parcelle: ma a cominciare dalla formazione della terza foglia si notava uno sviluppo maggiore nelle piante dell'appezzamento infettato, così che il 12 luglio il peso medio di 100 piante con tubercoli era di kg. 5,945, e di 100 piante senza tubercoli di kg. 1,740. Un'idea delle dimensioni rag- : giunte dalle piante in quel giorno si può avere dalla seguente tabella che porta le medie di dieci individui per ogni parcella: ' © } S 2 Di o 8 Co) DICE ° 5 IO mm No" RL = Di CAOS uit Di i o CA Di a O © .= ® os o 52 o sie DA E "pres SUIS Gli Sio ES S E a ESA ES a SOS d atei jPiZba 0 da PE a 5A = î E a 2) Zio | 2 zag Z 2 ZE pi ARR 2 È fo Ra Piante con tuberc. |cm. 36,4 cm. 93,0 |26 foglie| 5,8 13-37 32,8 15-40. |Kg. 0,594 (5-11 fo- glioline) Id. senza tubere. » 28,1|» 57,612 (5-9) 155. 8 DAT 0 0,174 L'esperienza è stata ripetuta anche quest'anno e fino ad ora nella parcella non infettata le piante mancano di tubercoli, mentre invece sì sono sviluppati copiosamente nelle piante cresciute in terreno inoculato. 2. Analisi quantitative. — Le analisi si riferiscono all’azoto totale organico, proteico, nitrico ('), amido, zucchero, sostanza secca, ceneri, e furono eseguite con i soliti procedimenti. Rilevo però che la sostanza fresca veniva essiccata prima all'aria, poi in stufa a 70°-80° finchè non diminuiva più di peso. L’incenerimento fu fatto con aggiunta di carbonato sodico 10 °/, e poi di carbonato ammonico. L’amido fu misurato per idrolisi con HOI. Risultati analitici. I dati riportati nelle seguenti tabelle si riferiscono per le colonne I-II a 100 parti di sostanza fresca, e per le colonne III-IX si riferiscono a 100 parti di sostanza secca. 1° analisi. Materiale prelevato il 6 giugno 1906: ——- = = VI Material inat Li Hi sa La ii Altre 10 VITINA MNAVICLI x E) ALONE LIO) Sostanza] Azoto | Azoto | Azoto | forme | È È salle Acqua | secca |organico |proteico | nitrico dazotoli Amido {Glucosio | Ceneri Piante con tubercoli Fusti e radici . . . .| 87,84| 12,16] 1,510| 0,624| 0,216| 0,886] 5,616 4,291 | 11,82 Piante senza tubercoli Fusti e radici . . . .| $8,10| 11,90] 1,270| 0,450| 0,463 | 0,320 000 1,977) 9,96 (1) In principio feci anche qualche determinazione di azoto aminico e di basi hexo- niche; ma le differenze erano insensibili. — 221 — 2° analisi. Materiale prelevato il 12 luglio 1906: Altre Materiale esaminato Acqua SOSIA SVAIIO Azoto | Azoto | forme | Amido |Glucosio| Ceneri secca |organico | proteico | nitrico | d’azoto Piante con tubercoli \usti . 83,10 | 16,90| 1,050| 0,342 | 0,060| 0,708| 5,125 | 3,071]| 5,690 Radici 73,77 26,23| 0,548| 0,200| 0,190] 0,348| 2,576| 1,065 | 6,720 Piante senza tubercoli Fusti . 80,43,| 19,57| 0,982| 0,866| 0,214| 0,616 | 4,673 | 3,110| 5,494 Radici 61,81) 38,19| 0,360| 0,195| 0,830] 0,165 | 2,560| 1,244 | 6,836 3° analisi. Materiale prelevato il 14 novembre 1906: : : Sostanza] Azoto Azoto Azoto | ue + ni : : Materiale esaminato Acqua |° forme | Amido {Glucosio| Ceneri secca |organico| proteico | nitrico | d'azoto Piante con tubercoli Fusti . 90,284 | 9,716) 2,146) 0,460) 0,966| 1,686| 4,550 | 0,646 | 5,390 Radici 84,25 [15,750| 0,652| 0,154| 0,581 | 0,488 | 3,594| 0,535 | 6,372 Piante senza tubercoli Fusti 85.57 | 14,43 | 1,969| 0,325 | 0,507| 0,614| 0,881| 0,299| 5,024 Radici 86,06 | 13,94 | 0,204| 0,127 | 0,555 | 0,077| 2,753| 0,236 | 6,364 Dai risultati della prima analisi si rileva una prevalenza nella percen- tuale di azoto totale organico, proteico, amido, glucosio, sostanza secca e ceneri per le piante con tubercoli, e una prevalenza di azoto nitrico nelle piante senza tubercoli. Nella seconda analisi, considerando insieme fusti e radici, si ha sempre prevalenza di azoto totale organico e di altre forme di azoto che non siano nè proteica nè nitrica, di amido, ceneri nelle piante con tubercoli e di azoto nitrico nelle piante senza tubercoli. Dalla terza analisi infine si ricava lo stesso fatto, solo che i fusti delle piante con tubercoli sono più ricchi anche di azoto nitrico. Le variazioni dell'azoto durante il periodo vegetativo sono evidentemente in relazione con lo stato di sviluppo degli organi analizzati. — 222 — C. Colture in sabbia sterilizzata, previa sterilizzazione del seme, con aggiunta di poltiglia di tubercoli o di acqua di lavaggio di terra di Sulla. 16 novembre 1906. Seminagione e trattamento suddetto. 15 dicembre 1906. Scalzando le piantine trovai nelle radici numerosis- simi tubercoli in formazione. D. Colture acquase. Furono apprestate delle culture acquose non solo per infettarle, quando le piantine si fossero sviluppate, con polpa di tubercoli, ma anche con culture di bacteri che eventualmente avessi isolate dai tubercoli stessi. Però, ad onta di ripetuti tentativi, non fu possibile far crescere la Sulla in culture acquose, per le quali usai soluzioni nutritizie con le formule più svariate, con e senza calce, eon e senza azoto ecc. Prove di isolamento del Bacterio. — Le prove di isolamento furono iniziate nella primavera del 1906 con contenuto di tubercoli di piante semi- nate nel 1905 all'Istituto Botanico con aggiunta di terreno di Sulla di pro- venienza dai dintorni di Messina. Il materiale fu seminato su gelatina con peptone e glucosio, su agar con peptone e glucosio, su gelatina con glucosio e infuso di radici di Sulla: tutti substrati debolmente acidi. Con queste cul- ture isolai quattro diversi bacteri la cui inoculazione su piantine di Sulla non dette formazione di tubercoli. Credo utile di riassumere il procedimento tecnico da me seguito per l'isolamento e per l’inoculazione dei bacteri. a) Isolamento. Scelte le piante più vigorose e lavate le radici in corrente d’acqua, sì sceglievano i tubercoli e si distaccavano insieme ad un certo tratto di radiee. Si sotto» ponevano di nuovo a corrente d’acqua lavando la superficie con un pennello per allonta- nare le particelle terrose, e dopo averli distesi su carta bibula, si distaccavano dalla radice tagliandoli alla base. Iturbercoli stessi venivano poi ripartiti in un certo numero di provette ed ivi lavati con acqua sterilizzata, agitando per circa mezz’ora, e rinnovando 20-30 volte l’acqua. Dopo di che nelle provette stesse veniva versata rapidamente una solu- zione di acido fenico al 5°/, agitando per 2-3 secondi, e poi sostituendo e rinnovando l’acqua per 8-10 volte. Infine si versavano tutti i tubercoli rapidamente in una capsula di vetro con coperchio, sterilizzata in stufa a secco, ed ivi ridotti a poltiglia con bacchetta di vetro previamente arroventata: il liquido torbido serviva per l’inoculazione, Talvolta invece di ridurre in poltiglia i tubercoli, si portavano in una capsula di vetro sterilizzata col calore, ed ivi sezionati con un bisturi precedentemente arroventato; coll’ago di platino si asportava dal centro del tubercolo una certa quantità di materiale che si portava in una provetta contenente un pu’ d'acqua sterilizzata, e ripetendo l’operazione finchè, agi- tando la provetta, non si ottenesse un visibile intorbidamento del liquido. 6) Inoculazione. I semi venivano prima immersi in una soluzione di sublimato corro- sivo all’1°/s0 per 5 minuti, e poi lavati molte volte in acqua sterilizzata (!). Dopo averli fatti (*) Hiltner und Stòrmer, Neue Unters. ber die Wurzelknòl. der Legumin. u. deren Erreger. Arb. aus der Biol. Abt. fir Land, ete. Gesund., Vol. IV, pag. 302. rigon- fiare in acqua per 10-12 ore, venivano di nuovo lavati con acqua sterilizzata e collocati su capsule di vetro nel cui fondo erano distesi alcuni fogli di carta bibula, il tutto ste- rilizzato a secco. Contemporaneamente si preparavano colture di bacteri o su piastre di — 228 — Altri tentativi d'isolamento del bacterio specifico furono fatti, con tuber- coli di piante seminate il 20 marzo 1906, con gelatina o agar al glucosio più peptone o estratto concentrato secco di radici di sulla in proporzioni ben definite (0,5 °/,); con queste culture isolai quattro bacteri diversi di cui tre corrispondevano a tre della serie precedente e uno era nuovo. Le colture pure di uno di questi bacteri, il quale era già stato isolato anche negli esperimenti precedenti, e che si distingueva per la formazione di colonie bianche, irregolari, molto prominenti, di aspetto e consistenza mucillagginosa, per la forma allungata e per la scarsità delle forme mobili e perchè non fiuidificante la gelatina, dette formazione di tubercoli su gio- vani piantine circa 35 giorni dopo l'infezione. Gli altri tre si mostrarono inefficaci. Colla speranza di trovare i bacteri più virulenti, ho fatto prove di iso- lamento con tubercoli di Sulla spontanea raccolta a Ponte Galera presso Roma. Questi mi hanno data una sola specie di bacteri distinguibili per le colonie biancastre, piccole, tondeggianti o discoidali, superficiali e profonde e di consistenza leggermente mucosa, per la forma alquanto allungata e per l'abbondanza di forme mobili. Questi bacteri hanno prodotto tubercoli in due serie di esperienze successive: la prima volta 27 giorni, la seconda un mese dopo l'inoculazione. Infine un'altra serie di tentativi fu eseguita con culture gentilmente favoritemi dal prof. Strampelli ('). Erano tre bacterî: uno rosso, uno bianco ed uno giallo e, secondo le affermazioni orali del prof. Strampelli stesso, il più virulento era il rosso. Inoculai tutti e tre i bacterî su piantine di Sulla ed ottenni formazione di tubercoli da tutti e tre; ma in una successiva prova d'inoculazione, alla quale i bacterî arrivarono dopo essere necessariamente stati passati più volte su gelatina con estratto di radici di Sulla, tutti e tre si sono mostrati inattivi. Rimaneva a decidere se e quale dei batterî da me isolati fosse il vero agente in confronto agli altri, e a questo scopo ho ripetute le esperienze con tutti i bacterî che avevo precedentemente isolati e con quelli del prof. Stram- pelli. Ma questa volta il solo bacterio di Ponte Galera ha riprodotto tubercoli : infatti in tutti i vasi infettati il 2 maggio 1907 ed esaminati il 1° luglio, gelatina nutritiva o su mezzi liquidi (soluzioni di peptone e glucosio; o di estratto di radici di sulla e glucosio). Quando le radichette erano fuoriuscite dai semi per 5-15 mm. i semi stessi venivano gettati o sulle piastre di gelatina fluidificata a 25° o sui recipienti con substrati liquidi, lasciandoveli per. alcuni minuti. Indi venivano seminati sui vasi versandovi poi sopra il materiale bacterifero. I vasi di cultura, lavati accuratamente in acqua corrente, venivano sterilizzati mantenendoli per 6-7 ore in stufa di Koch. La sabbia adoperata era stata precedentemente sottoposta all’arroventamento per circa 24 ore. (1) Strampelli N., Colture di bacteri azotofagi per la Sulla, Bull. Off. Min. Agricol- tura, I. e C., anno IV, 1905, vol. II, pagg. 740-42. = (04 — ho trovato piantine con tubercoli in discreta quantità, ma ancora molto pic- coli e disposti sia sulla radice principale, sia sulle laterali. Nei vasi di con- trollo non c'era invece traccia alcuna di formazione di tubercoli. Bisogna notare che in quest'ultima serie di inoculazioni, i bacterî provenivano da culture pure di passaggio di ordine ben superiore ai precedenti, così che impurità 0 promiscuità con altri organismi probabilmente erano ormai escluse. Dopo tanti passaggi, il solo bacterio di Ponte Galera si conserva attivo; gli altri, 0 hanno perduta la virulenza o provengono da colonie miste, costituite di un organismo virulento e di un compagno estraneo, il quale solo sì è propagato nei successivi passaggi ('). Chiuderò questa breve esposizione dei miei risultati di isolamento e di infezione, riportando alcuni saggi fatti per l'esame delle proprietà bacterio- logiche e del portamento culturale del bacterio di Ponte Galera che fino ad ora si è dimostrato il più a/t/vo produttore di tubercoli su questa legu- minosa. Occorre premettere che su tutti i tubercoli. anche giovanissimi, ac- certai la presenza di un enorme numero di bacteroidi, mentre le forme bacte- riche erano in quantità assolutamente minima. I saggi eseguiti furono i seguenti: Culture in substrati liquidi. — 11 bacterio si sviluppa scarsamente e len- tamente in tutte le soluzioni nutritive 7eu/re (peptone e glucosio o sacca- rosio, estratto concentrato di radici di sulla e glucosio o saccarosio, aspara- gina), pochissimo in presenza di fosfato acido di potassio; non sviluppa in presenza di nitrato di potassio. Queste sostanze vennero fornite in soluzioni varianti fra 0,5 e 2,5 °/ (2), senza notare regolarità degne di nota. Solo per l'estratto concentrato di radici di Sulla ho potuto stabilire che la dose optimale è di gr. 0,5 °/. Nei substrati liquidi, e non sulle gelatine, dà Imogo a forme ramificate che probabilmente non sono che catene di 3 o 4 ele- menti provenienti dalla divisione di un solo individuo. Culture in substrati solidi. — In substrati solidi il bacterio sì svi- luppa assai meglio. In piastre con gelatina al peptone si sviluppano colonie superficiali e profonde, biancastre, di consistenza mucosa; le profonde restano piccole, le superficiali si allargano mantenendosi circolari e a margine un po' sinuoso: il bacterio è poco mobile e dopo 6-7 giorni il protoplasma si (!) V. Peglion (al quale prima non era riuscito di avere produzione di tubercoli sull'’Hedysarum coronarrum adoperando i bacterî di Movre per la lupinella e per il pisello comune, v. Staz. sper. agr., vol. XXXVIII, pag. 702, 1905), ha isolato, come appare da una recente pubblicazione (Staz. sperim. agr., XL, pag. 156, 1907), da tubercoli di Sulla coltivata, un bacterio il quale potrebbe corrispondere tanto ai bacterî che io ho isolati a più riprese da Sulla coltivata, come a quello di Porte Galera. Non si comprende però se il bacterio isolato dal Peglion si conservi virulento in cultura artificiale, perchè questo autore non dice di aver fatto passaggi prima di inocularlo. (*) Hiltner und Stòrmer, Neue Untersuchungen. l. c., pp. 228, 281 e seg. 225 contrae in masse dense fortemente rifrangenti, di forma rotonda, ovoidale od allungata corrispondente alla forma della cellula: esse si colorano con la fucsina come se fossero spore, ma non sono spore, come si può agevolmente dimostrare in vari modi. In goccia pendente si vede p. es. che esse si schiari- scono e rigonfiano fino a riempire di nuovo tutto il bacterio di protoplasma poco colorabile, senza che si osservi in esse la menoma rottura od accenno a germinazione. Se si pastorizza il materiale contenente queste masse di proto- plasma in riposo a 80° C., anche per soli cinque minuti, se ne ottiene la steri- lizzazione completa. Tali formazioni sono dovute dunque ad una specie di plasmolisi spontanea o incistamento del protoplasma dei bacterî, i quali non sono affatto sporigeni. Essi però tendono a formare presto tali cellule durature con protoplasma condensato, e forse questa è la ragione per cui questi bacterî conservano la virulenza dopo numerosi passaggi. Il bacterio si sviluppa pure abbastanza bene su gelatina al latte, al saccarosio ecc. Coltivato su agar all’estratto di radici o al peptone, le colonie presentano una forma discoidale: le superficiali però si distendono circolarmente, e al loro centro resta un nu- cleo discoidale ben distinto: anche qui il bacterio è più mobile in agar all'estratto che non in agar al peptone: forma cellule durature in ambedue i substrati dopo 6-8 giorni. Anche in agar al latte si coltiva abbastanza bene. L'aspetto su culture per strisciamento varia poco: il bacterio forma talora una serie di minutissime colonie che rapidamente si fondono, tal'altra forma subito una lunga stria. Le culture per infissione dimostrano eviden- temente che il bacterio è aerobdz0. Sviluppo del bacterio in substrati a diversa reazione. — Lo sviluppo massimo si ha a reazione neutra, e ciò tanto nei substrati solidi come in quelli liquidi: a reazione debolmente acida si sviluppa scarsamente su ge- latina all’estratto di radici, non in substrato liquido, e in soluzioni debol- mente alcaline non si sviluppa affatto. Produzione di alcali o di acido. — Mi servii di una soluzione nutritiva all'estratto di radici di Sulla, perfettamente neutralizzata e leggermente co- lorata con tintura di tornasole: non si ebbe alcuna variazione nella reazione. Inoltre questo bacillo on coagula il latte, non si colora col Gram, non fiuidifica la gelatina. Quanto ai bacteroidi è da ritenersi che essi pure, seminati sui substrati anzidetti, non periscano, ma bensì diano origine a colonie di bacilli, come lo rende assai probabile lo sviluppo di colonie tipiche da polpa di tubercoli che contengano in massima prevalenza bacteroidi. Da questi caratteri morfologici e proprietà culturali si rileva che il bacterio di Sulla si allontana notevolmente da quelli delle altre leguminose, per quanto è possibile giudicare dalle descrizioni ancora controverse che di esse sono state date ('), e che i bacteri che eccitano la Sulla a fare tubercoli (1) Cr. Hiltner, Beyerinck, Pasmowsky, Mazé, De-Rossi ecc. RenpIcontI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 30 PR in terreni nuovi per questa leguminosa, perdono con grande facilità la loro virulenza di modo che bisogna considerarli come ospiti transitorî e non intimi; mentre se si vuol porre le mani sopra il vero simbionte della Sulla, bisogna ricorrere ai microrganismi che abitano nei tubercoli della leguminosa spor- tanea, cioè vegetante da tempo immemorabile in una determinata località. Questo risultato fa pensare che, siccome tanto Strampelli quanto io abbiamo isolato quei numerosi bacterî apparentemente virulenti da tubercoli di Sulla coltivata con aggiunta di terra di sullaio, i bacteri che questa terra porta non sieno capaci di conservare la virulenza /uorz del tubercolo di Sulla o in generale delle radici vive di questa leguminosa. Di qui nasce una importante questione agraria. È noto, che la Sulla si falcia lasciando in posto la base dei fusti e relative radici, da cui poi nella successiva stagione spuntano muovi fusti, e così via per più anni. È chiaro che con questo sistema di cultura «24 inoculazione di terreno di sullaio, contenente tubercoli o radici vive, basta finchè la Sulla è viva. Ma qualora si intercali alla Sulla un'altra cultura, con completa estirpazione dei cespi di Sulla, credo, in base ai miei risultati, che sia utile una nuova inoculazione di terra fresca di sullaio, tutte le volte che si voglia riseminare la Sulla su quel medesimo appezzamento per ottenerne nuovamente un pronto e rigoglioso sviluppo. Questa costosa e difficile pratica si potrebbe forse evitare ricorrendo alle culture pure della razza di bacterî isolata dai tubercoli di Sulla spontanea. ELEZIONI DI SOCI Colle norme stabilite dallo Statuto e dal Regolamento, si procedette alle elezioni di Soci e Corrispondenti dell'Accademia. Le elezioni dettero i risultati seguenti per la Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali : Fu eletto Socio nazionale : Nella Categoria I, per la Meccanica: MORERA GIACINTO. Furono eletti Corrispondenti : Nella Categoria I, per la Matematica: LAURICELLA GIUSEPPE. Nella Categoria II, per la Chimica: PERATONER ALBERTO. Nella Categoria IV, per la Fisiologia: MaRcAcci ARTURO; per la Patologia: VassALE GIULIO. Furono inoltre eletti Soci stranieri : Nella Categoria I, per la Geografia matematica e fisica: ALBRECHT TEODORO. e ia Nella Categoria II, per la /isica: LenaRD FiLippo e HASsELBERG KLas BERNARDO; per la Chimica: Ramsay GueLIELMO e Roscoe ENRICO. Nella Categoria IV, per la Zoologia e Morfologia: ReTzIUS GUSTAVO; per la Fisiologia: PAvLov Ivan; per la Patologia: EnRLICH PaoLO. L'esito delle votazioni venne proclamato dal Presidente con Circolare del 13 luglio 1907; le elezioni del Socio nazionale e dei Soci stranieri fu- rono sottoposte all'approvazione di S. M. il Re. Mini crei CARSOTT ssp stor ‘rar pr anittod hp: parati voviat ti oa i HUASE Mi n Wiz Na palati noteninabiat a | TO, , PE TAR ICT , a î Lai % È i TAN tatto o » (Tratfo 2: lol: ingoia al ora OOO 7 cage OT 0) ancorato Peyrgai i Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol.-IV. V..VI. VIL VIE Serie 3° — TransunTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — II. (1, 2). — I-XIX. MemoRrIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIconTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5 — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVI. (1892-1907). 2° Sem. Fasc. 3°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 4°-5°. MemoriIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fase. 1°-11°. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 5°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1 Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. #0; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno Loescner & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrIco Hoepri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Agosto 1907. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 4 agosto 1907. MEMORIE E NOE DI SOCI O PRESENTA'l'E DA SOCI Paternò e Mieli. Sui miscugli del ttimetilcarbinolo ed acqua . . .. . .... +. Pag. Jd. ‘e Spallino. Sopra i fluoruri di @àsile GMdaliottile.. <.<. o . 0 SOI Medici. Sui gruppi di movimenti (pres. dal Socio Bianchi) . . . . Be) Picciati. Sul moto di un cilindro inlefinito in un liquido viscoso Cna dal acri Levi- COTE nia Agr ati Niccolai. Sulla sn Sodica di Icon faolto Eton I ME. molto ae e molto basse (pres. dal Corrisp. Battelli) . . . . a EVERT SI NS E Occhialini. La scintilla fra elettrodi roventi res. Id). RAD IRE si 0 OA Angelucci. Elettrolisi del nitrato di torio (pres dal Corrisp. Hununa a (GAS RLET- GSSIR PN Ciusa. Alcune osservazioni sulle aldeidi (pres. dal Socio Ciamician) . . . . LL.» Bargellini. Sul 1-2-4 dimetil-nafto-chinolo (pres. dal Socio Cannizzaro). . . « Lombroso. Sulla possibile sopravvivenza dei colombi alla legatura e recisione tes ue dotti pancreatici (pres. dal Socio Luciani). . + Mr o; Severini. Ricerche bacteriologiche sui tubercoli dell Hadisrun coronarium ri; (Sulla) (pres. dal'‘Socio::P2r0Hto) ata ti è a I e O ELEZIONI DI SOCI Risultato delle elezioni nella Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Nomina dei signori: Jorera Giacinto a Socio nazionale; Lauricella Giuseppe, Peratoner Alberto, Marcacci Arturo, Vassale Giulio a Corrispondenti; Albrecht Teodoro, Lenard Filippo, Hasselberg Elas Bernardo, Ramsay Guglielmo, Roscoe Enrico, Reteius Gustavo, Pavlov Tvan,-Ehrlich:«Paolo.a Soci sttMtieulileie” .. ... COME: 153 160 166 174 185 191 196 199 205 214 219 226. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. ;s Pubblicazione bimensile. Roma 18 agosto 1907. N. 4. 3. ATEI DELLA REALE ACCADEMIA DEL LINORI ANNO CCCIV. 1907 STEEREE dt QUIET EA: RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XVI. — Fascicolo 4° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 18 agosto 1907. =) s ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCÎÌ 1907 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un; numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca» demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi» cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci 0 da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com. missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti | contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre | cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au» tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di unnumero di copie in più che fosse richiesto. è mersa a carico degli autori. 3 RR TIA EI LEICA RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DINO CI MONPRIvRIStt:N T'AFISERIDAA NS. OC) Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 18 agosto 1907. Geologia. — /sultati di uno studio sul Cretaceo superiore dei monti di Bagno presso Aquila. Nota del Corrispondente C. F. PARONA. Nel presentare le conclusioni dello studio sulla serie stratigrafica e sulla fauna dei terreni cretacei nei monti di Bagno, devo innanzi tutto attribuire al prof. I. Chelussi il merito di avere scoperto le traccie dei giacimenti fossi- liferi e dell'averne intravvista l'importanza, come risulta dalla comunicazione da me fatta alla Società Geologica Italiana fin dal 1897. In questa Nota, e più ampiamente nella Nota presentata nel 1899 alla R. Accademia di To- rino, l'una e l'altra a carattere di comunicazione preventiva, io aveva chia- ramente espresso il proposito di continuare lo studio e di illustrare la fauna, così detta ci Colle Pagliare con apposita monografia (*). Se non che il dottore C. Schnarrenberger mi prevenne, pubblicando nel 1901 i risultati delle ri- cerche da lui fatte nella stessa regione dell'Abruzzo aquilano e dello studio dei fossili raccoltivi (*), venendo a conclusioni notevolmente diverse dalle mie, relativamente all'età dei calcari di scogliera con fauna a rudiste. Questa pubblicazione rese necessari nuovi rilievi stratigrafici e nuove ri- cerche di fossili a controllo delle affermazioni e delle conclusioni del collega (1) C. F. Parona, Fauna del Cretaceo di Colle Pagliare presso Aquila, Boll. Soc. Geol. It., XVI, 1897; Osservazioni sulla fauna e sull’età del cale. di scogliera presso Colle Pagliare nell’Abruzzo aquilano, Atti R. Acc. d. Sc. Torino, XXXIV, 1899. (?) Carl Schnarrenberger, Veber die Areideformat. der Monte d'Ocrekette in den Aquilaner Abruzzen, Ber. d. Naturforsch. Gesellsch. zu Freiburg i. Br., XI, 1901. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 31 e rogo. tedesco, ed in ciò sta la causa principale del ritardo frapposto nel condurre a termine il lavoro. Tuttavia il ritardo giovò nel senso, che, nel frattempo, ebbi la fortuna di ottenere l'appoggio del R. Comitato Geologico e della Direzione del R. Ufficio Geologico, che accolsero la mia proposta di incari- care uno degli ingegneri dell'Ufficio stesso di rilevare la carta geologica dei monti di Bagno e che, nella adunanza tenutasi negli ultimi giorni dello scorso maggio, approvarono la monografia da me presentata e ne deliberarono la stampa nelle « Memorie per servire alla descrizione della Carta geologica d'Italia ». Il rilevamento della cartina geologica fu affidato all'ing. C. Crema, il quale mi ebbe compagno in parecchie gite nel gruppo dei monti di Bagno; e questa regione fu percorsa anche dal dott. P. L. Prever, da me incaricato dello studio della ricca e bella serie di corallarî, che forma parte cospicua della fauna cenomaniana dei calcari di scogliera. Mi propongo in questa Nota di riassumere senz'altro i risultati del nuovo lavoro, in attesa che la monografia venga pubblicata col corredo della car- tina, dei profili geologici e delle numerose tavole paleontologiche. Però mi astengo da confronti e discussioni, ed anche dal discutere qui le opinioni del dott. Schnarrenberger, in quanto sono in contraddizione colle conclusioni delle mie Note preliminari e del lavoro definitivo: nè è necessario entrare in questa discussione anche pel fatto, che, fondamentalmente, le mie idee colli- mano con quelle esposte dal collega prof. Di Stefano (!) nella sua recensione della Memoria di Schnarrenberger, in appoggio del riferimento al Cenoma- piano, già da me proposto per i calcari di scogliera a chamacee, e che ora riconfermo. Il gruppo del M. d'Ocre (monti di Bagno) nell'Appennino aquilano è delimitato a nord e nord-est dalla valle dell’Aterno, a sud-ovest dalla valle di Casamaina e dal Piano di Campo Felice e meno nettamente a sud-est dall’altipiano di Rocca di Mezzo, a nord ed ad ovest del quale mediante giogaie minori si riunisce al resto della catena montagnosa compresa fra il Salto e l'Aterno. La sua cima più elevata trovasi a circa 11 km. a sud di Aquila e raggiunge i 2206 m. L'intiero gruppo è prevalentemente costituito da calcari cretacei più o meno nettamente stratificati in grossi banchi e solo sulle sue pendici più basse acquistano importanza terreni più recenti: eocenici e specialmeute miocenici, i quali formano una fascia quasi completa e più o meno estesa secondo i luoghi. L'ossatura cretacea tettonicamente si può considerare come residuo di un'antica ellissoide coll'asse maggiore diretto all'incirca da nord-ovest a sud- (1) G. Di Stefano, Recens. della Memoria succitata di Schnarrenberger, in Riv. It. di Paleont., VII, 1901; vedi anche I. Chelussi, Alc. osserv. sulla Mem. del dott. Schnarren- berger, Atti Soc. It. di Sc. Nat., XL, 1902. — 2381 — est, ma attualmente riconoscibile soltanto per un tratto non molto esteso ad ovest del punto più elevato della cresta centrale (2206 m), e ciò special- mente per le numerose dislocazioni subite. Queste dislocazioni diedero origine ad un sistema di grandi faglie subparallele all'asse principale dell’antico ellissoide; fra le quali specialmente notevoli quelle corrispondenti alle due già accennate depressioni, che limitano l'intiero gruppo a sud-ovest e nord-est e collegate fra di loro da altre minori variamente dirette. La porzione del gruppo che più ci interessa è quella situata a nord- ovest della quota 2206, e particolarmente quella compresa fra Pianola, Bagno e Casamaina. Una traversata compiuta fra queste due ultime località permette di formarsi un'idea sufficiente della sua struttura. Gli strati calcarei hanno la direzione costante da nord-ovest a sud-est e pendono regolarmente a nord-est, salvochè in vicinanza di Bagno, ove si rialzano alquanto formando così una sinclinale dissimetrica. Sul versante di Casamaina gli strati si presentano tagliati per tutta la loro potenza visibile e mostrano ben delineate le testate formando una serie di grandi gradini con numerosi piccoli giacimenti di Bauzite a diversi livelli; nel versante opposto, a partire da Le Quartora, l'andamento degli strati, fin poco sopra Bagno, segue quasi esattamente il pendio del monte. Su questo versante si trovano i principali punti fossiliferi; notevoli specialmente quelli di Fossato Cerasetto e delle doline « Fossa Agnese e Fossa Mezza Spada ». Nella potente massa dei calcari cretacei si distinguono diversi orizzonti, costituenti, dall'alto al basso, la seguente successione: (?) 4. Calcari bianchi ad orbitoidi e calcari cereo-chiari compatti con piccoli gasteropodi e foraminiferi (Orbditoides, Idalina, Lacazina, ecc.). Senon. 3. Calcari chiari con ippuriti e biradioliti. Calcari cerei e bianchi a lumachelle, con Nerinea uchauzriana, Ner. incavata, Glauconia Renauriana, Actaconellae, Chondrodonta Jo- annae, ecc. (monte Le Quartora, M. Cerasetti). Turoniano 2. Calcari compatti cerei con Z/lipsactiniae e piccole Lequieniae. 1. Calcari biancastri o giallastri, stratificati o massicci, assai potenti, a Nerinea forojuliensis, inglobanti per passaggi laterali ed interca- zioni: 4) calcari bianchi di scogliera, con orbitolinae, corallari e molluschi, specialmente chamacee e gasteropodi (Fossa Agnese, Fossa Mezza Spada, ecc.); a) calcari stratificati, con marne inter- calate di vario colore, brecciose, con detriti di rudiste, gasteropodi mal conservati e numerosi coralli (orizzonte della fonte di Fossato Cerasetti e di Fossa Mezza Spada). d Cenomaniano Y 1. Non riteniamo possibile di riconoscere nella serie cenomaniana una suc- cessione stratigrafica dall'una all'altra forma litologica: esse costituiscono un insieme, nel quale i calcari stratificati hanno la prevalenza, con passaggio più o meno graduato ai calcari massicci senza fossili evidenti ed ai calcari di scogliera, che si possono definire come breccie e conglomerati fossiliferi. Di rado i calcari stratificati non presentano fossili; spesso sono abbondantis- simi, spesso con prevalenza esclusiva della er. forojuliensis Pir., riconosci- bile in ben conservate sezioni e non di rado in esemplari liberi numerosissimi (monte Macchia Rotonda, di Rio Coperchi nel Vallone delle Rotelle). a) Le marne fossilifere si presentano ben distinte nei due affioramenti suaccennati, segnati da scaturigini d'acqua; notevole specialmente quello del Fossato Cerasetti, dove dall'erosione del rio fu posto allo scoperto per un tratto abbastanza esteso. Sono variamente colorate, ma più spesso in verdastro e rosso mattone. Contengono gasteropodi, generalmente ridotti al modello in- terno, molti frammenti e qualche valva di chamacea determinabile (Mimerae- lites vultur Di Stef., Him. Douvillei Di Stef.), importanti perchè attestano i rapporti di età e di origine tra le marne stesse ed i calcari di scogliera; ciò che è confermato anche dalla presenza di orbitoline. Ma il carattere pa- leontologico più spiccato è dato dalla abbondanza dei coralli ben conservati, costituenti una fauna corrispondente e sincrona a quella dei calcari di sco- gliera, come diremo avanti. Non è poi senza importanza il rinvenimento fat- tovi di una forma di ParXeria Carp., genere di idrozoo finora soltanto co- nosciuto, per quanto mi consta, nell'Upper Greensand (Cenomaniano) di Cambridge. Questi depositi non formano un orizzonte stratigraficamente sottostante ai calcari di scogliera: si possono piuttosto interpretare come sedimenti brec- cioso-melmosi sincroni ai banchi con rudiste, costituitisi all'intorno dei banchi stessi ed anche nelle maggiori profondità attigue. 6) I calcari di scogliera, che afliorano fossiliferi in altri punti fuori delle due Fosse, Agnese e Mezza Spada, contengono la parte maggiore della fauna, ritenuta cenomaniana e che fu detta di Colle Pagliare. Nella Memoria del dott. Schnarrenberger questa fauna risulta formata da 32 specie, compreso buon numero di quelle ch'erano già state da me riconosciute: colle nostre nuove ricerche essa si dimostra ben più ricca e conta oltre 250 forme. Le orbitoline sono abbastanza comuni, ma irregolarmente distribuite nel calcare brecciato o nell'interno dei fossili, e qua e là formano degli agglo- meramenti, per modo che il calcare ne risulta esclusivamente costituito. Il dott. Prever distingue quattro forme; tre nuove ed una che non sembra distinguibile dalla Orbitolina discoidea Gras, che gli autori citano per ter- reni di diversa età, dal Barremiano al Cenomaniano inferiore. I corallarî sono abbondantissimi e costituiscono una fauna assai interes- sante, anche pel fatto, che finora in Italia poco o nulla si conosceva dei corallari del Cretaceo superiore. Però il giacimento aquilano, per la sua ric- chezza di generi (53), di specie (135) e d'individui, può paragonarsi a quelli 9g — di Gosau, di Uchaux, di Beausset, di Figuières, di Ootatoor. Fra la fauna delle marne e quelle calcari non si riscontrano differenze essenziali; diffe- renze non mancano, ma tali da doversi attribuire a diverse condizioni d'am- biente: così, mentre nelle marne prevalgono le forme massiccie, nei calcari sono abbastanza abbondanti quelle ramose e le forme isolate. Come per tutti i gruppi di fossili componenti la fauna, anche per i corallarî il carattere più note- vole è quello dato dalla prevalenza quasi assoluta di forme nuove, esclusive al giacimento; di guisa che i confronti con altre faune cretacee si possono fare in base soltanto ai generi. Interessante riesce il confronto, come ha ricono- sciuto il Prever, segnatamente colla fauna cenomaniana indiana illustrata da Stoliezka, per la comunanza di qualche specie e di buon numero di ge- neri, che attesta l'affinità delle faune e nel tempo stesso il probabile loro sincronismo; ad es. sono esclusivi delle due faune indiana ed italiana i due generi Placastraea Stol. e Stolicskasmilia n. gen. Soltanto otto forme sono riferibili a specie conosciute; di esse una è cenomaniana, due comuni al Cenomaniano ed al Turoniano e cinque sono esclusive del Turoniano. Non si è ritrovato nei calcari a scogliera alcun rappresentante del genere Parkeria; ma gli idrozoi sono tuttavia rappresentati da altre tre forme, riferibili l'una al gen. MiMleporidium Steinm. finora conosciuto per una sola specie del Titonico, l'altra al gen. Stolieskaria Dune. istituito per una forma del Trias dell’Imalaja, rinvenuta poi da Steinmann nello stesso terreno dei Balcani; la terza è da ritenere appartenente ad un genere nuovo. Il risultato dello studio delle chamacee ha confermato la stretta affinità della nostra fauna con quella siciliana dell'orizzonte a Mimeraelites: infatti ho riconosciuto undici delle diciannove forme descritte da Di Stefano, e cioè sel dei sette Mimeraelites siciliani (compresa lo Mim. obliquatus n. sp. Di Stef.), una Caprolina sopra due e quattro Se/laea su nove. Questa rela- tiva scarsità di Caprotina e Sellaca dipende probabilmente dalla difficoltà di distinguere le specie nel materiale frammentizio, che prova la presenza nel calcare di scogliera di altre forme, appartenenti a questi generi, non specificamente determinabili. Alle forme comuni colla fauna siciliana si aggiungono parecchie forme nuove; notevoli specialmente quelle riferibili ai generi Himeraelites, Caprotina, Poiyconites, una forma riferita con riserva al gen. Matheronia e la Toucasia Steinmanni Schnarr., elemento caratteri- stico della nostra fauna, ma difficilmente distinguibile dalla Apricardia Pironai Boehm, della fauna di Col de’ Schiosi, quando le sue valve non sono perfet- tamente conservate. Sulle altre bivalvi non occorre insistere, presentando scarso interesse, anche pel fatto del loro cattivo stato di conservazione. La ricca serie dei gasteropodi (una settantina di forme) non si presta a confronti diretti con altre faune cretacee, essendo che è costituita da nume- rose forme esclusivo e nuove. È tuttavia interessante, perchè nell’insieme di- mostra la sua origine sopra una spiaggia rocciosa, nell'ambiente di scogliera — 234 — coralligena rivelato dagli altri gruppi di fossili. Trochidae, Neritidae, Cyprei- dae, Acmeidae, Ceritidae, Nerineidae, famiglie che quasi esclusivamente compongono la fauna dei gasteropodi, prediligono appunto i fondi rocciosi. Qualche considerazione si potrebbe fare in base alla presenza di forme rap- presentanti di generi finora noti per altri terreni di età diversa, come ad es. il gen. Petersia del Titonico. Ma sotto il punto di vista della cronologia poco se ne potrebbe dedurre, pel fatto che, a lato di generi ritenuti prima più antichi del Cretaceo, se ne trovano altri finora creduti post-cretacei. Gli argomenti addotti fin dal 1899 ed i nuovi dati stratigrafici e paleon- tologici ora raccolti mi confermano nel riferimento al Cenomaniano dei cal- cari di scogliera. Tuttavia sta sempre a questo riguardo il riserbo, già mani- festato dal prof. Di Stefano per la serie di Termini-Imerese, ed imposto dalla imperfetta, per quanto progredita, conoscenza dei calcari con cha- macee e rudiste d'Italia e dalla mancanza, o non ancora avvenuta sco- perta, di strati ad ammoniti in relazione coi sedimenti a facies di scogliera. Lo studio definitivo della fauna abruzzese ha dimostrato, che le sue affinità con quella friulana di Col dei Schiosi sono meno strette di quanto aveva creduto di poter ammettere dapprima. Tuttavia non sono da trascurare: ritro- viamo le stesse orbitoline, Merita Taramellii Pir., Nerita Futtereri n. f., Nerinea forojuliensis Pir., Monopleura forojuliensis Pir., Radiolites ma- crodon Pìr., Terquemia forojuliensis Boehm, e qualche altra forma avvici- nabile per confronto a specie della fauna friulana. Se consideriamo che la fauna abruzzese è ricca e che quella friulana non è povera, il numero delle forme comuni è troppo scarso perchè lo si possa considerare come prova di contemporaneità delle due faune, tanto più se sì tien conto che, fra queste forme comuni mancano quelle caratteristiche: Mimeraelites e Sellaca della fauna abruzzese, Caprina e Sehiosia di quella friulana. Non è dunque il caso di parlare di sincronismo delle due faune, ma piuttosto della successione nel tempo della seconda alla prima. Un argomento a favore di questa idea lo troviamo nel fatto, che la Chondrod. aff. Munsoni Hill della fauna di Col de’ Schiosi, o più precisamente la C%. Joannae Choffat, è frequente nei monti di Bagno in strati, che riteniamo turoniani e che sono stratigratica- mente sovrastanti ai calcari cenomaniani di scogliera. A proposito della cosidetta fauna di Colle Pagliare, aggiungerò che qualche indizio di essa ritrovammo anche sul versante orientale della R.° Ma- lopasso sopra S. Felice d'Ocre; dove si raccolse inoltre un frammento di valva inferiore di Sphaerucaprino, colla cavità viscerale riempita di calcare con Or- bitolinae, e genericamente ben caratterizzata dalla disposizione del sistema dei canali, ma specificamente indeterminabile, per quanto possa essere avvici- nata, meglio che ad ogni altra, alla Spl. Woodwardi Gemm. 2. Alla serie dei calcari con Nerinea forojuliensis sì sovrappone una zona di calcari compatti bianco-lattei, che contiene sempre, e spesso in gran SNO numero, degli esemplari di una conchiglia a spirale svolta, con guscio di colore cereo-scuro e che per solito si presenta sulla superficie della roccia, in sezioni ellittiche o subcircolari (pietre ad are//ini di montanari). Questa roccia, che affiora largamente anche fuori dell'area da noi considerata, nei lavori del sig. Cassetti, del R. Ufficio Geologico, è denominato « calcare a Requienie » ; ed anch'io ritengo, che si tratti realmente di una piccola Cha- macea di questo genere, probabilmente una forma nuova, che non posso defi- nire con sicurezza genericamente e specificamente, perchè finora non mi riuscì di isolare nessun esemplare ben caratterizzato. In mancanza di dati paleontolo- gici resta a chiarire, se questa zona faccia parte del Cenomamiano, chiudendone la serie, oppure se debbasi considerarla quale orizzonte inferiore del Turo- niano, giacendo essa concordante fra le due serie. Contiene anche delle £/p- sacliniae e da essa pare provengano i blocchi di calcare, dai quali il Chelussi estrasse centinaia di esemplari di una R/ynchonella (Rh. Chelussii n. £.) del gruppo della Rh. difformis d'Orb. A questo stesso orizzonte stratigratico probabilmente appartiene anche la lumachella a G/auconia di S. Martino d'Ocre, già creduta titonica, ma che spetta invece al Cretaceo superiore. 8. Alla zona con piccole requienie seguono stratigraficamente dei cal- cari litologicamente molto simili, bianchi e bianco-giallicci, in banchi e strati, con frequenti zonature di color rosso o roseo. In molti punti la roccia è una vera lumachella per il gran numero di gasteropodi che contiene, quasi sempre di piccole dimensioni, tenacemente compresi nella roccia, e con pre- valenza di acteonelle. Presso la cima del monte Le Quartora, certi strati sono ricchissimi e qua e là quasi esclusivamente formati dalle valve delle Chondrodonta Joannae Choff. Sulla costiera di Serralunga, di Colle Valle- cesca, del Monte, oltre i calcari compatti, marmorei, a piccoli gasteropodi e che si fanno rossicci o rossi in vicinanza dei giacimenti di Bauzte, si in- contrano dei calcari con radioliti ed ippuriti, difficilmente, al solito. sepa- rabili dalla roccia; quei calcari a rudiste che, a quanto sembra, assumono maggior sviluppo più a nord, a Monte Luco presso Aquila, secondo le osser- vazioni di Chelussi, il quale vi raccolse frammenti di radioliti e biradioliti. In questa serie di calcari è accertata l’esistenza del Turoniano dal ricono- scimento di questi fossili: Chondrodonta Joannae (Choff.). Vola Dutrujei Coq. var. Beirensis Chofî. Vola Fleuriausiana d'Orb. Vola aequicostata Lmk. Monopleura Schnarrenbergeri n. f. (= Monopl. marcida White, sec. Scharrenberger). Radiolites f. (gv. dei Rad. Lefebvrei Bayle e Rad. Peroni Choffat). Sauvagesta f. (cfr. Sauv. Sharpei Bayle). — 236 — Hippurites (Orbignya) Requieni Math. Nerinea incavata Bronn. Nerinea uchauxiana d'Orb. Glauconia Renauxiana (d'Orb.). Trochactaeon giganteus (Sow.). Actaeonella Grossouvrei Cossm. 4, I calcari con piccoli gasteropodi, segnatamente quelli più alti nella serie, presentano una ricchezza di foraminiferi e di lithothamni, che li distingue dai calcari inferiori e specialmente da quelli della zona a Nerinea foroju- liensis, nei quali, eccettuate le orbitoline, i foraminiferi sono assai rari. Sonvi forme riferibili ai generi Zextularia, Cristellaria, Planispirina ecc., e, con qualche riserva, ai generi Dictyoconus e Lituonella; ma è da notare come particolarmente importante la presenza e l'associazione dei generi /dalina e Zacazina (Idalina antiqua (d'Orb.), Lacazina compressa (d'Orb.)) proprî, secondo Munier-Chalmas e Schlumberger, dei terreni del Cretaceo superiore dei Pirenei, della Spagna, della Provenza e della Palestina. A costituire la fauna microscopica di questi calcari concorrono anche spicule di spugne e radiolari mal conservati, appena riconoscibili. Tra questi calcari ve ne ha uno, che merita particolare menzione; quello bianchissimo, che affiora presso Pianola e che contiene delle orbitoidi. Orbi- toidi piccolissime si trovano anche nei calcari suaccennati a foraminiferi, ma non sono determinabili: invece in questo calcare bianco le orbitoidi sono riconoscibili specificamente. Si riconobbe la Zepidocyetina Tissoti Schlumb. e la Zepidoc. socialis Leym.; quella, fossile già noto di un calcare di dubbia età senoniana dell'ovest d'Arabia, questa, abbondantemente rappresentata nei terreni cretacei dei dintorni di Gensac e nel Dordoniano della costa di Ternes- Saint-Marcet. Nei suoi caratteri litologici e paleontologici, questo calcare può dirsi identico a quello che si trova alla base della serie eocenica del monte Conero. Ritroviamo dunque qui le traccie delle orbitoidi già notate altrove nel Cretaceo superiore dell'Appennino, e che abbiamo riconosciuto anche nei calcari della stessa età del monte Affilano presso Subiaco. — 237 — Chimica. — Azzone dei diazo-idrocarburi grassi sul ciano- geno e suo derivati. I. Cianogeno. (Parte teoretica). Nota del Cor- rispondente A. PERATONER e del dott. E. AZzARELLO. I primi risultati delle presenti ricerche furono resi di ragione pubblica già qualche tempo addietro ('), ma solamente ora ci è possibile di co- municare per esteso i dettagli; e ciò sia per le difficoltà che sorsero nel completamento delle nostre esperienze iniziali, sia perchè nel frattempo es- sendosi per questo lavoro delineato un piano più ampio, che usciva dai li- miti dapprima posti, era più indicato di riunire tutto il materiale speri- mentale come in oggi facciamo, sembrando inoltre anche opportuno di attendere l'esito di alcuni altri nuovi contributi (di imminente pubblica- zione) che altri sperimentatori nel nostro istituto avevano divisato di arre- care alla chimica del cianogeno, guidati però da premesse affatto indipen- denti e da concetti proprî. Mentre noi dunque nella presente Nota ci occupiamo solamente della reazione fra i diazo-composti grassi ed il c:arogeno gassoso, le diverse Note che susseguono dànno conto del comportamento del diazo-metano e del diazo-etano con alcuni derivati del cianogeno e permettono d’iniziare una di- scussione sulle regolarità da un canto e sulle divergenze dall'altro che si manifestano in queste varie reazioni. I diazo-corpi della serie grassa si addizionano ai composti contenenti sia il legame doppio che quello triplo fra atomi di carbonio fornendo ri- spettivamente derivati pirazolinici e pirazolici. Così, per dire dei casi più semplici, uno di noi (*) ottenne la pirazolina da diazo-metano ed etilene : ed H. v. Pechmann (*) aveva preparato prima il pirazolo facendo reagire lo stesso diazo-idrocarburo con l'acetilene: TN CH NI I N — N i VU A Arata dI 7 Ni Li NH (!) Rendiconti della Società chimica di Roma, seduta del 10 aprile 1904. (2) Azzarello, Questi Rendiconti, XIV. (5) 285 (1905). (3) Berichte, 3/, 2950 (1898). Renpiconti 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 3 DD — 238 — Ora l'analogia che indubbiamente esiste fra gli aggruppamenti —C=0— —C=N e della quale con successo hanno fatto tesoro Hantzsch e Wer- ner (') nella teoria della isomeria fra le ossime, ci faceva ritenere proba- bile che i composti contenenti legami multipli fra carbonio e azoto si fos- sero comportati di fronte ai diazo-idrocarburi alifatici in modo affatto ana- logo ai composti etilenici ed acetilenici. I pochi fatti noti nella letteratura invero non darebbero ragione di questo assunto, dappoichè per l'isocianato di fenile, secondo esperienze di v. Pechmann (°) è assai dubbio se si addiziona con diazo-metano; e l’espe- rienza recente di Palazzo e Carapelle (*) con l'acido cianico libero, che ri- sulta nnicamente come acido iso-cianico OC=NH, dimostra che addizione del diazo-composto non ha luogo. Per quel che riguarda poi altri derivati del cianogeno, sempre a dire del Pechmann, che vi accenna appena, l'acido cianidrico (4) fornirebbe soltanto aceto-nitrile, venendo cioè semplicemente eterificato, secondo lo schema: N=C-H + N5H,C = N=CTCH, + N} che parlerebbe per la formula nitrilica dell’acido, ed il benzo-nitrile resta inalterato in contatto col detto reattivo. Noi abbiamo innanzi tutto ripetuto le esperienze con benzo-nitrile ed aceto-nitrile, però impiegando invece il diazo-etano, che generalmente rea- gisce con maggiore energia del diazo-metano (?); abbiamo dovuto convincerci che neppure questa sostanza altera menomamente i nitrili. Se invece sì sperimenta allo stesso modo il cianogeno libero facendo reagire una soluzione eterea satura del gas con diazo-metano (o diazo-etano) in soluzione eterea della media concentrazione consigliata dal Pechmann (2-5 °/0), si hanno reazioni tanto violente da sembrare quasi esplosioni. Ca- ratteristico per esse è il fatto che neppure le basse temperature, ottenute con miscugli frigoriferi o con anidride carbonica solida, le mitigano molto. Soltanto la diluizione maggiore con etere, unita sempre a raffreddamento energico rende la reazione praticabile, la quale d'altronde è sempre istan- tanea, come rivela l'immediato scoloramento della soluzione gialla del diazo- composto. In questa reazione non solo avviene l’addizione dei corpi impiegati, mo- lecola per molecola, ma ove non si usino speciali precauzioni, i diazo-com- (!) Berichte, 23, 11 (1890); Cfr. V. Meyer, Lehrbuch d. organischen Chemie, II, Bd., pag. 502. (2) Berichte, 28, 861 (1895). (*) Gazz. chim. ital., 37, I, 184 (1907): (4) Berichte, 28, 857 (1895). (5) Peratoner e Azzarello, questi Rendiconti, XV, (5) 142 (1906). — 239 — posti eterificano di preferenza le piccole quantità di prodotto di addizione formatosi in un primo tempo, secondo le seguenti due equazioni : HU CON HO =C.0N I) DN + ul = N v Ra N Neg N NH H.C—C:CN HA 0CN Il Il È NH N. CH; Le sostanze ottenute, come mostrano questi schemi, sono da conside- rarsi come ciano-derivati dell’oso-triazolo descritto per la prima volta da v. Pechmann ('). Difatti si comportano come nitrili, dando nella saponifica; zione con potassa alcoolica, o meglio con acidi minerali diluiti, acidi oso- triazol-carboniei o gli eteri corrispondenti con l'alchile legato all’azoto. Il nitrile preparato secondo l'equazione I si trasforma così nell'acido osotriazol- carbonico dal punto di fusione 211°, identico a quello ottenuto dal Pech- mann (*), identità che anche meglio viene assodata dallo studio di alcuni sali e dalla sua decomposizione in anidride carbonica e oso-tr77az0l0. La presenza degli alchili legati all’azoto nei prodotti eterificati venne poi dimostrata per mezzo di determinazioni quantitative di azo-alchile col metodo di Herzio e Meyer (*). Questi prodotti di eterificazione furono dapprima gli unici che potemmo isolare nella cennata reazione. Essi si formano altresì e costituiscono l’unico prodotto di reazione quando sì faccia gorgogliare cianogeno gassoso in solu- zione eterea ben raffreddata di diazo-idrocarburo, od ugualmente quando, vi- ceversa, si limiti la quantità di diazo-composto facendone gocciolare lenta- mente la soluzione sopra un’altra, fredda, di cianogeno in etere, per quanto quest'ultima sia concentrata ed in eccesso. Sembra dunque che diazo-metano e diazo-etano reagiscano meno facilmente sul legame multiplo tra l'azoto e il carbonio del cianogeno di quanto non agiscano eterificando il derivato osotriazolico una volta che questo sia già formato. Per preparare quindi i nitrili non eteriticati trovammo unico mezzo ridurre a minime proporzioni la quantità di diazo-composto mentre la si faceva venire a contatto con eccesso fortissimo di cianogeno. Adoperando cioè soluzioni eteree e fredde, estremamente diluite, del primo (circa 1 in 800-1000 di etere) e versandovi di un solo colpo grande eccesso di solu- zione eterea concentrata di cianogeno, anch'essa ben raffreddata, restava molto (1) Annalen der Chemie, 262, 320 (1891). (?) Ibidem, pag. 317-9. (*) Monatshefte, f. Ch., /5, 613 (1894). — 240 — limitato lo svolgimento di azoto indicante l'eterificazione del derivato tria- zolico, mentre contemporaneamente il liquido giallo si decolorava. I prodotti della reazione infine si rapprendevano in massa solida (nitrile non eterifi- cato) impregnata da olio (nitrile eterificato) il quale veniva separato spre- mendo e cristallizzando il solido da benzolo. È superfluo aggiungere che al prodotto di eterificazione si può giungere facilmente dal nitrile solido puro. Secondo gli schemi sopra riportati bisogna ammettere, come del resto già nella sintesi citata del pirazolo ed in altri casi simili, che nell'addi- zione del diazo-metano l'idrogeno del suo atomo di carbonio metilenico, sopra segnato con*, passi all’azoto spostandosi conseguentemente il doppio legame. Nel caso poi che si adoperi diazo-etano, si ottengono composti omologhi a quelli dianzi cennati, in cui il metile è legato al carbonio segnato da asterisco. Su due punti principali vogliamo ancora soffermarci brevemente, che riguardano l'uno il modo nel quale si legano gli atomi nella nostra reazione, l’altro, il differente comportamento dei due gruppi cianici del cianogeno. A priori non si sarebbe potuto prevedere quale dei due triazoli isomeri avesse preso origine da una reazione di addizione, cioè, se derivati dell'osotriazolo del Pechmann, o del pirro-diazolo di Bladin; questi ultimi secondo lo schema seguente in cui azoto del cianogeno uniscesi col carbonio del diazo-metano: HCN H,0_ N Î ] LI + Il N C.CN IN C. CN A Però essendosi riscontrato come unico prodotto della reazione un oso- triazolo in cui i tre atomi di azoto sono vicinali, siamo evidentemente di fronte ad una sintesi per unione diretta di atomi di azoto provenienti da prodotti diversi (Stickstofi-synthese). È questo un caso di sintesi non molto frequente e, per quanto sappiamo, il primo che si osserva per il cianogeno libero; questo si addiziona è vero in varie reazioni con altri composti metilenici, ma l'unione avviene solamente fra l'atomo di carbonio metilenico e quello del cianogeno, mentre l'azoto del cianogeno non vi prende parte. Così per citare un interessante esempio de- scritto recentemente da W. Traube (') l’addizione avviene pure con com- posti metilenici del tipo dell'etere acetacetico ottenendosi due gruppi di sostanze: R C=N R. CN DOH A = dOn—o< R C=N R NH R —N È CH—C=NH DE: + = x R C=N 3 CH—C=NH (1) Annalen der Chemie 332, 104 (1904). — 241 — La nostra reazione non è in disaccordo con queste esperienze dappoichè lo schema di essa H,C C.CN ni OL + mu 2 N IN N N N 4 fa rilevare che è avvenuta del pari unione del metilene del diazo-composto con l'atomo di carbonio del cianogeno, ma vi è di più caratteristica la fa- cilità con cui i tre atomi di azoto vengono a disporsi in catena. Ciò è senza dubbio dovuto alla straordinaria energia con la quale avviene la reazione ed alla stabilità del prodotto eterociclico cui si perviene. Quanto ai due gruppi cianici del cianogeno gassoso è notevole che uno solo di essi prende parte alla reazione di addizione mentre per la formula comunemente attribuita a questo gas si sarebbe attesa la formazione di un composto a due nuclei triazolici saldati per atomi di carbonio: H.C—C——_ C---C(.H Il Il Il Il N N N N INI ea NH NH Questo fatto, invero sorprendente, potrebbe pel primo momento far pen- sare ad una costituzione diversa dei due gruppi cianici uniti insieme, tanto più che non è isolato ma che con esso hanno riscontro esperienze analoghe: così ad esempio il cianogeno addiziona una sola molecola di alcool quando è trattato con cianuro di potassio acquoso-alcoolico (*) ed anche nella rea- zione di Grignard (*) il comportamento del cianogeno è analogo. Infatti il Joduro di magnesio-etile si addiziona ad un solo dei gruppi cianici fornendo un mono-chetone simmetrico in luogo di un «-dichetone. Ma per giungere ad una diversa struttura dei due gruppi Cy bisogne- rebbe rievocare la formula indicata in via d'ipotesi dal Nef(*) come una delle possibili per uno dei tre tipi di cianogeno isomeri, cioè quella del ciano-isocianogeno contenente un atomo di carbonio tetravalente ed uno bi- valente NC La facilità con cui l'atomo di carbonio bivalente prende parte alle rea- zioni ed in ispecie è capace di addizionare altri corpi, permetterebbe in allora di fare attribuire alla presenza di un tale atomo nel cianogeno la ca- pacità di questo corpo di reagire solamente con una parte della molecola. Però simile ipotesi di fronte a tutto il comportamento chimico del cia- nogeno gassoso non è in alcun modo sostenibile; ed anzi non può non arre- (1) Annalen der Chemie 287, 280 (1895). (*) Blaise, Compt. rend., /32, 40 (1901). (3) Annalen der Chemie 287, 266 (1895). care meraviglia che ancora in quest'anno (') viene data come unica possi- bile la formula di di-iso-cianogeno C= N N=C senza appoggio veruno di esperienze, nè con deduzioni veramente plausibili, laddove lo stesso Nef già aveva ritenuto tale struttura come inammissibile non dovendosi il cia- nogeno considerare come altro che ossalo-nitrile (*). Anche uniformandosi all'opinione invalsa quasi generalmente che cioè ì cianuri metallici sono da considerarsi come veri iso-cianuri, non bisogna di- menticare in quale modo il cianogeno da essi prende origine: le temperature cui bisogna giungere per decomporre ad es. il cianuro mercurico sono tanto elevate che necessariamente nelle molecole del gas che si sviluppa gli atomi devono prendere l’assestamento più stabile possibile, in cui viene a sparire quella speciale forma di energia latente dell'atomo di carbonio bivalente sic- chè atomi di tal natura devono ad ogni modo passare a tetravalenti. Questo modo di vedere è confortato dall’esperienze note sulle carbilammine (*) le quali pel solo riscaldamento (a partire da 140°) si trasformano parzialmente in nitrili, proporzionatamente alle temperature crescenti a cui si opera e subiscono intiero questo mutamento quando l'operazione è eseguita diretta- mente a temperature elevate (240°). Non abbiamo poi bisogno d'insistere molto sui numerosi fatti già ben noti che provano l'equivalenza dei due gruppi cianici nel cianogeno ed il legame esistente fra i due atomi di carbonio, per escludere la formula del clano-isocianogeno o ciano-carbilammina: N==C —— N:C. Citeremo sola- mente esperienze che avvengono a basse temperature alle quali non si am- mettono trasposizioni, come le saponificazioni in cui non si forma traccia di acido formico, ma unicamente acido ossalico; e poi le reazioni di addizione con l'idrogeno solforato (4), con le ammine aromatiche (*), con l'idrossilam- mina (°), con l’etilato sodico alcoolico (*) nelle quali costantemente inter- vengono due molecole del reattivo conducendo a derivati della serie ossalica. A queste esperienze vengono ad aggiungersi quelle sopra da noi descritte e che come fu detto avvengono a temperature notevolmente inferiori a 0°. La formula normale del cianogeno ed il legame esistente fra i due atomi di carbonio son dimostrati dal fatto che mentre uno di questi atomi prende parte alla formazione del nucleo osotriazolico, l’altro rimane sotto forma di gruppo nitrilico legato a carbonio, come è in modo non dubbio assodato dalla susseguente saponificazione ad acido ozotriazol-3-carbonico. (1) Obermiller, Journ. f. prakt. Ch. 7ò, 48 (1907). Nude (£) Guillemard, Bulletin 37, 1. (4) 269 (1907). (4) Annalen der Chemie 28, 315. (5) Annulen der Chemie 66, 129; Journ. f. prakt. Ch. 35, 513 (1887). (5) Berichte 22, 1931 (1889). (") Annalen der Chemie 287, 280 (1895), 6 — 243 — Al contrario si andrebbe incontro a serie difficoltà ove si volesse sup- porre nel cianogeno la presenza anche di un sol gruppo isocianico. Innanzi tutto invocandosi questo dovrebbesi ammettere che l’addizione del diazo-idro- carburo avvenga in un primo tempo all'atomo di carbonio bivalente, ma non sì saprebbe certo spiegare, anche con una trasposizione ed uno spostamento dei doppî legami, in qual modo da un tale prodotto di passaggio si possa giungere ad un osotriazolo che porta poi un gruppo nitrilico attaccato al carbonio del nucleo. E simili obiezioni potrebbero sempre farsi, in qualunque altro modo si voglia interpretare la reazione, supponendosi i due gruppi cia- nici non costituiti ugualmente. Noi non ci saremmo davvero dilungato tanto su questo argomento se non ci fosse sembrato necessario di confutare col risultato di esperienze le recenti asserzioni di Obermiller sulla formula del cianogeno. Resta tuttavia a chiarire perchè delle due parti simmetriche della mo- lecola una sola addiziona il diazo-idrocarburo. Ora come all'esordio fu notato, i nitrili, acetonitrile, benzonitrile, secondo le esperienze di y. Pechmann, da noi ripetute anche con diazo-etano, sono inerti di fronte al reattivo detto. Sembra che il gruppo cianico, quando rimane unito ad un radicale orga- nico, abbia perduto la facoltà di reagire sul diazo-composto e tale compor- tamento non si limiterebbe ai soli nitrili in cui il legame fra il radicale ed il gruppo nitrilico è diretto, ma pare che si estenda anche a quei com- posti in cui questa unione del radicale avviene per un atomo di zolfo come intermediario. Esperienze che in proposito sono istituite dal dott. Palazzo, e che saranno quanto prima terminate, dimostrano chiaramente questo asserto. Ora nel caso nostro è un nitrile precisamente il primo prodotto che dal cianogeno si forma, e come tutti gli altri derivati di questa classe esso non è ulteriormente alterato neppure da eccesso di diazo-metano o diazo-etano, se si fa astrazione dalla semplice eterificazione che subisce il gruppo immi- dico del nucleo osotriazolico. I diazo-idrocarburi grassi sono del resto gli unici composti che produ- cono la reazione tanto energica sopra descritta. Alcune esperienze con l'etere diazo-acetico ci hanno dimostrato che questa sostanza è completamente inerte, e ciò non solamente di fronte al cianogeno libero, ma anche con quei de- rivati del cianogeno che dànno del resto prodotti di addizione con diazo-me- tano. Come si rileverà dalla Nota terza sono questi i derivati alogenati del cianogeno. — 244 — Fisica matematica. — Sull’equazione differenziale 4,u + +4u=0. Nota di LuciaNo ORLANDO, presentata dal Corrispon- dente T. Levi-CIvITA. Noi vogliamo trattare una questione che, nelle sue linee generali, è abbastanza conosciuta (*); ma la semplicità del metodo che qui potremo adoperare conferisce forse opportunità all'esposizione di queste poche idee. Indichiamo con 7 un campo d'estensione finita, per esempio una por- zione di piano, e con o il suo contorno. Misuri R il raggio del minimo circolo nell'interno del quale si può racchiudere tutto il campo 7: è chiaro che questo circolo è unico, perchè, se ne esistessero due, diversamente posti, il campo 7 entrerebbe nella regione comune a due circoli uguali, dunque anche in un circolo di estensione minore. Avremo bisogno di richiamare la seguente formula di Green aceto ((105 ail (a Mido Sozi(bex G\ do } (tog 2 G)Agde, dove G è la funzione di Green, cioè quella funzione monodroma, finita e continua in tutto il campo 7, la quale verifica l'equazione 43G=0 in ; ; : 3 ap è ogni punto interno al campo, e l'equazione G=log— in ogni punto del 7 contorno o (*). La funzione g è, sotto note restrizioni, una funzione arbi- traria, e gli altri simboli che figurano nella (I) sono abbastanza conosciuti perchè noi possiamo evitare di darne la spiegazione. Noi vogliamo, dopo questa premessa, considerare l'equazione differenziale (1) dsudtdu=0, dove 4 è una costante (reale o complessa). Quest’ equazione ha molta im- portanza in fisica matematica; ed è un notevole problema, d'immediata applicazione fisica, quello di trovare i casi d'eccezione relativi a Z, cioè quei valori di Z, tali che una funzione x, nulla in ogni punto di o, e vin- colata in ogni punto interno a 7 dalla (1), e da condizioni come quelle du deu -- da È dY* () Schwarz, Integration der part. Differentialgleichung - pu=0 unter vorgeschribenen Bedingungen, Abhand. Berlin, 1890. (2) Alcuni autori definiscono come qui la funzione di Green; V. per es. Cesàro: Introduz. alla teoria mat. dell'elasticità; Marcolongo: Teoria mat. dell'equilibrio dei corpi elastici. Altri autori chiamano funzione di Green ciò che qui chiameremmo G-+log r. V. per. es. Riemann-Weber, Die part. Differentialgleichungen der math. Physik. e — 245 — che valgono per 4 nella (I), possa mon essere in tutto il campo 7 identi- camente nulla ('). La ricerca di questi valori speciali di Z è un problema di lunga e difficile risoluzione. Alcune nuore teorie molto efficaci, contenute in recenti studî (*), lasciano trattare sistematicamente questo problema; ma noi vogliamo limitarci a una ricerca molto più semplice: vogliamo cioè de- terminare un campo di numeri complessi (cerchio col centro nell'origine), tale che, per ogni valore di 4 ivi contenuto, l’unica soluzione della (1), cor- rispondente a «=0 in ogni punto del contorno 0, sia u= 0 in ogni punto del campo 7. Il raggio di questo cerchio, così come noi lo determineremo, sarà = RE dove per R vale la definizione dianzi data. Supponiamo dunque che « sia nulla in ogni punto di o. La formula (1), applicata alla funzione «, e l'equazione (1), lasciano scrivere (2) 2rru= È S (1g : —_ 6) ud. Intanto ‘stabiliremo alcune relazioni che ci saranno utilissime. Descri- viamo intorno al polo (7 =0) un piccolo cerchio, tutto contenuto nel campo 7; ed osserviamo che, se il cerchio è abbastanza piccolo, la funzione log G è certamente positiva sulla circonferenza di questo cerchio; ma è anche nulla sul contorno o, dunque, per note proprietà delle soluzioni della 4,=0, sì può subito asserire che log —& è una funzione positiva nel campo in- terno a 7: essa poi tende a + co nel polo. Ora chiamiamo o il raggio vettore misurato a partire dal centro del circolo dianzi definito che ha per raggio R. La funzione 9° sarà monodroma finita e continua nell'interno di 7, e potrà figurare al posto di g nella for- mula (I). Sarà anche 4,0° — 4, come è chiaro. Supponiamo ancora che H sia una. funzione, atta a figurare come nella (I), e tale che in ogni punto di © verifichi l'equazione 4$H=0, e in ogni punto di o l'equazione H= g?. La formula (I), applicata alla fun- (1) Vedere. per es. Riemann-Weber, libro citato, vol. 2°, cap. 14°. (2) Alludiamo ai recenti lavori di D. Hilbert e della sua scuola. Da tali lavori si è avuta nuova luce in questo campo di ricerche. Nella notevole Memoria del sig. Erhard Schmidt (Ertwicklung willk. Functionen nach Systemen vorgeschriebener, Inaug. Dis- sert. Gottinger), a pag. 9, $ 5, è contenuta una formula, che, paragonata colla nostra (4), condurrebbe a una limitazione come la (5): si troverebbe Ra Qui, in questo caso ZI molto particolare, noi abbiamo potuto trovare una limitazione più vantaggiosa. RenpIcoNTI. 1907. Vol. XVI, 2% Sem. 39 — 246 — zione H — o°, lascia scrivere (3) 2e(H—e)=4 f (0g7—0) dr, perchè, come abbiamo detto, è 430° = 4. Ma, per le proprietà dianzi ri- chiamate sulle soluzioni della 4X==0, la funzione H non può avere mas- simi e minimi interni a 7, dunque in tale campo non è mai negativa e non supera il massimo R?. Ma allora dalla formula (8) si deduce subito (') (4) $ (106 ; a 0) di < ME i Giova rammentarsi che la funzione sotto l'integrale è positiva: dopo ciò vedremo che la relazione (4) ci sarà molto utile. Supponiamo ora che sia 6) Mr dove a è un numero positivo fisso <1. Vediamo come quest’ipotesi ci porta rapidamente ad affermare che la funzione v dev'essere nulla in ogni punto di 7. Facciamo, invece, l'ipotesi che esista una funzione w, diversa da zero, la quale abbia le proprietà dianzi ammesse; e sia U il limite superiore di |u| nell'interno del campo 7. Un ragionamento di successive approssimazioni ci condurrà a quello che vogliamo dimostrare. Poniamo 2r(u+4- a) =0. L'errore À 1 a=- (10g7— G) de, che in tal modo facciamo nella determinazione di , verifica, per le cose dianzi esposte, la relazione |a] <@eU. Se, come seconda approssimazione, poniamo 2r(u4 e.) = 1 f(log7— 0) (u+s)dr=0, (1) Se, invece di considerare il circolo di raggio R, avessimo, per esempio, considerato una striscia d'ampiezza X, racchiudente il campo 7; allora parlando della funzione x? invece 1 x che dalla funzione 0° =*-y?, saremmo giunti alla limitazione / (1067— c) da 2 0N Tk) = 7419 n) essa è un'equazione integrale, assai semplice, del tipo di Fredholm. ll nu- cleo è: ‘ariano ar da dé dy dn de di funzione regolare, armonica in S, e simmetrica nelle variabili (4,%,), (É,7:6). Se invece = —1, la (10) diventa: ME d*T d*T (a) la de dydy n dz dé ) CdR = re che non è altro che un'equazione integrale abeliana. Il sistema delle (9), (11) [ovvero delle (9), (12)], è equivalente al sistema delle (9), (7), come si riconosce facilmente; perciò risolvendo la (11) [ovvero la (12)], e sostituendo nelle (9) avremo le funzioni %,v,w% che risolvono la questione proposta. 3. L'equazione (11) ha una sola soluzione, purchè 4 non sia esattamente un autovalore. A questo riguardo si può osservare che siccome il nucleo — 298 — della (11) è una funzione simmetrica, risulta senz'altro, da un noto teo- rema di Hilbert, che gli autovalori dovranno essere rea/i; inoltre conviene aggiungere che se per un valore determinato X, di X le equazioni (6), (7), (8) hanno una sola soluzione (cioè se le funzioni w, ©, sono identicamente nulle in S, quando @;,:, 3 sono nulle su 0), allora il valore corrispon- dente Z, di 4 non sarà certo un autovalore per la (11), cioè l'equazione omogenea: d>T deli dI Sg — | 0ISE=0, ablagia nah dydn !* de I cl non avrà alcuna soluzione differente da zero. Infatti se quest'equazione avesse una soluzione @ non identicamente nulla, le equazioni (9) darebbero per «,v,w dei valori differenti da zero, anche nel caso in cui g;, 42, 93, e quindi F,,F,,F3 sono identicamente nulli, ciò che è contrario all'ipotesi. È poi facile stabilire che se 7 >—1 le equazioni (6), (7), (8) hanno una sola soluzione (!). Si può fare la dimostrazione adoperando le (6), ma è più semplice, e si è condotti in modo del tutto naturale al teorema, facendo una trasfor- mazione, del resto ben nota, delle (6). Denotiamo con w,, 03,03 le metà delle rotazioni elementari della par- ticella (2, 7,5), cioè poniamo: l/dw dv 0a A) (13) ang de) ’ e=3(0 20) Mala allora le (6) si scriveranno: DORIA dos 2). ld do dA 0... (5) dy Chi 3 069 che sono appunto le equazioni che ora adopereremo. Supponiamo che le funzioni w,v,w% siano nulle su o: faremo vedere che saranno identicamente nulle in S. Dalle (14) intanto risulta: E cel - + put i +0) 8-0, 2 (1) Nei lavori del Lauricella è supposto & > — 3° e in quelli del Korn K>0. RenpiconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 984 ossia, integrando per parti: band oî° du _ De) Si a: Cily gg) kt1g% do _ le PI ovvero, ricordando le (7), (14): (Pte Lattor+os4s=0 std Da quest’equazione si trae agevolmente che se X-+1D>0, le funzioni u,v,w risultano identicamente nulle in S, come si era enunciato. 4. Il metodo precedente è applicabile, com'è chiaro, al caso di un nu- mero qualunque di variabili. In particolare, per 2 variabili, le equazioni corrispondenti delle (11), (12) sono: ; der d2F 1 Milite (h) o-2f(iet aa) = FE =) RE Mar (12) li U., ni gdo = 2r®, ove o indica l’area piana che si considera. Una volta risolta l'equazione (11°) [ovvero la (12’)], e quindi deter- minata la dilatazione 0, si avranno le componenti «,v dello spostamento dalle formole seguenti, de. alle (9): d 1 k (dr | ue: y)= Fe, D+ mr NeRoero on de (9°) (2,4) = F:(4,7) gf 2 do +53 È "i do Si dimostra ancora, come dianzi, che per X > — 1 l'equazione (11’) ha una sola soluzione. Abbiamo pertanto, nelle (9'), le formole che danno /e componenti dello spostamento longitudinale della piastra elastica piana 0, quando sul con- torno son conosciuti gli spostamenti stessi. OssERVAZIONE. — Abbiamo accennato dianzi al teorema di Hilbert, secondo il quale gli autovalori di un'equazione integrale (3), il cui nucleo f(x ,y) è una funzione simmetrica, sono tutti reali. Questo teorema è stato di poi dimostrato in modo più semplice da Schmidt e da Picard ('). Orbene, osserverò che non occorrono neanche dimo- (1) E. Schmidt, Entwicklung willkurlicher Functionen, ete.; Inaugural-Dissertation (Gòttingen, a. 1905); E. Picard, Sur quelques applications des équations fonctionnelles de M. Fredholm (Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, t, XXII, a. 1906). — 259 — strazioni nuove, poichè basta prendere la dimostrazione della proprietà ana- loga, che è esposta ad es. nel trattato di A. Capelli: /stifuzioni di Analisi algebrica, 3* ediz., pag. 681 (Napoli, a. 1902), per il caso di un sistema di equazioni algebriche lineari : a AM ar ty= 0, (ein) 1 di cui l'equazione (3) può esser considerata come una immediata estensione, n lo) e cambiarvi semplicemente i segni >» in di A l a Si ha allora la dimostrazione seguente: supponiamo che per il valore À, di 4 l'equazione: g(2)— da ff, sMd=0 abbia una soluzione differente da zero; moltiplichiamo quest'equazione per la funzione g(7) coniugata di (x), e poi integriamo rispetto ad #; avremo: fsOFITA( [MIT II. Il 1° integrale è evidentemente positivo, inoltre nel coefficiente di 4, per ciascun termine /(4,%) 9(7) 9(7) de dy esiste anche il termine /(.7) 9(x) «(y) dx dy, che è coniugato del precedente essendo /(y, 4) = (4,7), perciò la loro somma è reale. Il coefficiente di Z, è dunque reale, quindi il va- lore di Z, che soddisfa all'equazione precedente sarà necessariamente reale. Si conclude poi che saranno pure reali le autofunzioni. Dalla precedente dimostrazione segue pure che se è nucleo è una funzione alternata, cioè f(y,a)=—{(%,y), gli autovalori sono numeri imaginari puri. Chimica — Sul 1-2-metil-nafto-chinolo (!). Nota di G. BARGEL- LINI 6 S. SILVESTRI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. In una Nota precedente è stato dimostrato che il cosidetto ossi-dimetil- naftolo (preparato per ossidazione del dimetil-naftolo con acido cromico in soluzione acetica) non è altro che un dimetil-nafto-chinolo. Ci sembrò allora interessante ricercare se questo nuovo metodo di preparazione dei chinoli po- tesse estendersi con buon successo ad altri composti. A questo scopo abbiamo prima di tutto rivolta la nostra attenzione al l-metil-2-naftolo del quale era già noto il chinolo corrispondente preparato da Fries e Hiibner (*) facendo agire i vapori nitrosi sul metil-naftolo in so- luzione eterea e decomponendo poi il chinitrolo formatosi. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto chimico della R. Università di Roma. (2) Fries e Hibner, B. 39, 435. — 256 — Ossidando infatti il metil-naftolo in soluzione acetica con acido cromico col metodo del prof. Cannizzaro, abbiamo potuto ottenere con una rendita del 50-60 °/,, un metil-nafto-chinolo che in tutte le sue proprietà e in quelle dei suoi derivati è identico con quello di Fries e Hiùbner e corrisponde alla formula Resta così nuovamente dimostrato che i chinoli, almeno quelli della serie della naftalina (') si possono preparare anche per azione dell'acido ero- mico in soluzione acetica sui corrispondenti fenoli. Il metil-nafto-chinolo da noi preparato reagisce coll’idrossilammina: fra i prodotti della reazione abbiamo potuto isolare l'ossima che, ridotta con zinco e acido acetico, dà origine alla metil-naftilammina medesima che Fries e Hiibner avevano ottenuta direttamente dal metil-naftolo. Però non ab- biamo potuto studiare in modo particolare il prodotto intermedio della tras- formazione (il nitroso-derivato) come fecero Cannizzaro e Andreocci (?) per il dimetil-nafto-chinolo. Per analogia però è probabile che il processo della trasformazione dell'ossima in ammina sia simile a quello che Cannizzaro e Andreocci dimostrarono per il dimetil-naftolo e che si possa rappresentare con lo schema seguente: CH; :0H Ni po Cd RI? X\caNde 7 C—NO ri C—NH; hr pr CH CH CH Il metil-nafto-chinolo da noi preparato reagisce colla fenilidrazina e colla semicarbazide dando composti rossi-aranciati che, d'accordo colle belle ricerche di Bamberger (*) sono da considerarsi l'uno come fenzl-azo-mettlmaf- (1) Alcune esperienze fatte col p-cresolo e col $-dinaftolmetano non ci hanno dato per ora buoni risultati. (2) Cannizzaro e Andreocci, Gazz. chim. ital., 26, (I), 29. (3) Bamberger, B. 35, 1424. — 257 — tile e l'altro come metilnaftil-azo-carbonamide delle formule cH, CH, È ( x "® ME HE È \ Las N--C0.NH, ASTA CH PARTE SPERIMENTALE. I. — 1-metil-2-naftolo. Il metil-naftolo, che ci servì per le nostre ricerche, fu preparato coll’ele- gante metodo di Fries e Hiibner, riducendo cioè con polvere di zinco in so- luzione alcalina il #-dinaftolmetano, ottenuto per azione della formaldeide sopra una soluzione alcoolica di f-naftolo in presenza di acetato sodico. Il medesimo 1-metil-2-naftolo abbiamo potuto prepararlo anche sottoponendo alla distillazione secca il composto CH,—S0; H che si ottiene per azione della formaldeide sul f-naftolo sospeso ìn una so- luzione di solfito neutro di sodio ('). Il prodotto cristallino ottenuto fu riscaldato in una storta infusibile; distilla un olio rosso che per raffreddamento si condensa. Facendolo distillare in corrente di vapor d’acqua, sì ottenne una sostanza bianca fioccosa leggera fusibile a 108°-109° la quale non è altro che 1-metil-2-naftolo. La rendita è piccola. Per assicurarci della sua identità ne preparammo alcuni derivati. Il suo acetil-derivato ottenuto per ebollizione con anidride acetica e acetato sodico, dopo una cristallizzazione dalla ligroina presentò il punto di fusione 66° come indicano Fries e Hiibner. Il picrato si ottiene mescolando soluzioni benzeniche calde d’acido picrico e di metil-naftolo. Per raffreddamento si depositano aghetti color rosso-sangue fusibili a 161°-162°. (1) D. R. P. 87335 (anno 1896) — 258 — Il densoil-derivato preparato col metodo di Schotten-Baumann cristal- lizza dall'alcool in aghi fusibili a 116°-117° che sottoposti all'analisi det- tero i seguenti risultati : Gr. 0,3381 di sostanza dettero gr. 1,0215 di CO; e gr. 0,1618 di H,0. Donde per cento: Trovato Calcolato per Cig Hia Oa C 82,99 82,44 H 0,32 5,94 Avevamo già preparato questo composto e il precedente quando fu pub- blicata una nota di Betti e Mundici (') i quali descrivevano queste due so- stanze che essi avevano preparate dal 1-metil-2-naftolo ottenuto per ridu- zione dell'aldeide f-ossi-naftoica con zinco e acido acetico. Trattando il metil-naftolo con bromo in soluzione acetica si ottiene il monobromo-derivato già noto, preparato da Fries e Hibner. Esso cristallizza in aghi fusibili a 128°-129°. Ne preparammo l'etere metilico facendo agire il solfato dimetilico sopra la sua soluzione alcalina, estraendo poi con etere e facendo cristallizzare il residuo della distillazione dell’etere, nell’acido acetico bollente. Per raffred- damento si deposita in bellissimi aghetti bianchi fusibili a 65°-66°. All'ana- lisi dette i seguenti risultati: Gr. 0,2550 di sostanza dettero gr. 0,5347 di CO» e gr. 0,1023 di H, 0. Gr. 0, 4596 di sostanza dettero gr. 0,334 di Ag Br. Donde per cento: Trovato Calcolato per C;» Hi: Br 0 0 57,18 57,97 H 4,46 4,38 Br 30,92 31,86 Questa sostanza la preparammo coll’ intenzione di poter passare da questa all'efere-metilico di un dimetil-naftolo Br CH; Cio H5—CH; — CoH;—CH; \0.0H; \0.0H; ma alcuni tentativi fatti per ora non ci hanno dato resultati decisivi. II. — 1-2-metil-nafto-chinolo. Gr. 2 di metil-naftolo furono sciolti in c. c. 75 di acido acetico gla- ciale: a questa soluzione, a freddo, fu aggiunta poco alla volta, agitando (') Betti e Mundici, Gazz. chim. ital., 36, (II), 658. — 259 — continuamente una soluzione di gr. 2 di anidride cromica in c. ce. 75 di acido acetico glaciale. La soluzione che va colorandosi in bruno, si lascia a sè per 36 ore e poi si distilla a pressione ridotta quasi tutto l’acido acetico. Al residuo si aggiunge acqua e si estrae più volte con etere: la soluzione eterea si lava poi con una soluzione acquosa di carbonato sodico. Svaporato l'etere rimane un residuo oleoso che lasciato stare per qualche tempo in un essic- catore con acido solforico, si raccoglie in piccole masse cristalline giallastre. Si purifica facendolo cristallizzare dalla ligroina e infine dall'acqua calda, dalla quale si deposita per raffreddamento in scagliette bianche lucenti fu- sibili a 88°-89°. All'analisi dette i seguenti risultati : Gr. 0,1366 di sostanza dettero gr. 0,3796 di CO, e gr. 0,072 di H,0. Donde per cento: Trovato Calcolato per Ci Ho 0» C 75,80 75,86 H 9,89 9,14 Si scioglie facilmente nel solfuro di carbonio, cloroformio, benzolo, etere acetico. ; Nell’acido solforico cone. si scioglie dando una soluzione colorata in verde. Nell'insieme dei suoi caratteri esso è dunque identico al composto che Fries e Hilbner avevano ottenuto per decomposizione del 1-2-metil-nafto- chinitrolo. Per assicurarci meglio della sua identità ne abbiamo preparato l’acezil- derivato riscaldandolo per 6 ore a ricadere con anidride acetica e acetato sodico. Si ottiene così un prodotto che fatto cristallizzare dalla ligroina si presenta in aghetti lanceolati bianchi fusibili a 129°-130° come l’acetilde- rivato di Fries e Hiibner. Abbiamo cercato di prepararne anche il berzo?l-derivato tanto col metodo di Einhorn quanto col metodo di Schotten-Baumann, ma in ambedue i casi abbiamo ottenuto un prodotto resinoso che per ora non abbiamo potuto pu- rificare. Azione dell'idrossilammina. — Sul metil-nafto-chinolo fu fatta agire l'idrossilammina nelle stesse condizioni in cui Cannizzaro e Andreocci la fe- cero agire sul dimetil-nafto-chinolo. Si sciolgono gr. 2 di metil-nafto-chinolo in poco alcool e si aggiunge poco a poco una soluzione acquosa di gr. 6 di cloridrato di idrossilammina e nello stesso tempo una quantità equivalente di carbonato potassico sciolto in acqua, curando che la soluzione abbia sempre reazione quasi neutra 0 legcermente acida. Si ha leggero riscaldamento (onde conviene raffreddare —- 260 — con una corrente di acqua) e cominciano a depositarsi delle goccioline oleose rossastre che divengono sempre più dense. Dopo un giorno o due si estrae con etere: fatto distillare l'etere, rimane un residuo oleoso rosso che è una mescolanza di molti prodotti: fra questi abbiamo potuto constatare il metil-naftolo che deve essersi formato per riduzione del metiìl-nafto-chinolo. Da questo prodotto della reazione abbiamo potuto separare piccole quantità di ossima del metil-nafto-chinolo in parte meccanicamente, in parte per mezzo di cristallizzazioni frazionate nell’etere acetico. Con molte difficoltà riescimmo così ad ottenere dei cristallini ben formati che si fondevano a circa 140° decomponendosi con sviluppo di gas. Gr. 0,1474 di sostanza dettero c. c. 10,5 di N misurati a 23° e 760,20, Donde per cento: Trovato Calcolato per C,1 Hi1 O. N N 7,99 7,40 È facilmente solubile nel clorotormio, benzolo, solfuro di carbonio, al- cool, poco nell’etere di petrolio. Si scioglie anche nell’acido acetico col quale però subisce probabilmente una decomposizione analoga a quella osservata da Cannizzaro e Andreocci per l’'ossima del dimetil-nafto-chinolo, cioè si scinde in acqua e nitroso-metil-naftalina secondo lo schema: CH; OH I Ni CH; C ia sn i C ANA N ZN/Z/NC-NO Gg ARG NASÎZ Mia CH CH Noi abbiamo notato soltanto che sciogliendo quest’ossima nell’acido ace- tico glaciale e lasciando stare per un po’ di tempo la soluzione si ha una visibile alterazione: per aggiunta di acqua si deposita una sostanza giallo- verdastra (nitroso-derivato!) che non siamo riesciti a purificare. Perciò abbiamo creduto più conveniente occuparci senz'altro della ridu- zione diretta dell'ossima con acido acetico e polvere di zinco. Se la riduzione si fa a caldo, abbiamo notato che insieme alla metil- naftilammina si ha formazione di una certa quantità dell’acetilderivato di essa, identico a quello già preparato da Fries e Hiùbner per azione dell'ani- dride acetica e acetato sodico sulla metil-naftilammina. Sciolto nel benzolo e precipitato dalla soluzione con ligroina, si fonde a 189° come indicano i sopradetti autori. — 261 — La soluzione da cui era stato separato questo acetilderivato fu estratta con etere. Svaporato l'etere, rimase un residuo oleoso rosso che fu sciolto nell'acido cloridrico caldo: per raffreddamento si depositò il cloridrato in scagliette lucenti fusibili con decomposizione a 245° circa. Avendone pochissimo a disposizione non abbiamo potuto analizzarlo: l'ammina formatasi nella riduzione dell’ossima però è sufficientemente carat- terizzata dal punto di fusione del suo acetilderivato già noto. Azione della fenilidrazina. — Una soluzione acquosa concentrata di gr. 1 di metil-nafto-chinolo fu mescolata a freddo con una soluzione della quantità calcolata di fenilidrazina (gr. 0,62) in poco acido cloridrico dilui- tissimo. Si lascia stare per qualche ora a temp. ordin. agitando e si filtra poi il precipitato aranciato che si è formato. Lasciando stare in riposo le acque madri, se ne deposita una nuova quantità. Il prodotto ottenuto si fa cristallizzare nell’alcool caldo da cui per raf- freddamento si deposita in squamette rosso-aranciate che si fondono a 79°- 80° decomponendosi. Sottoposto all'analisi dette i seguenti resultati: Gr. 0,142 di sostanza dettero c. c. 14,5 di N misurati a 23,5° e 7689. Donde per cento: Trovato Calcolato per C,7 His Na N 11,46 11,9 Questo composto che è dunque un /enzl-azo-metilnaftile è solubile nell'etere, etere acetico, cloroformio, poco nell’acetone a freddo, di più a caldo. Si scioglie nell'acido cloridrico conc. con colore rosso. Anche nell’acido sol- forico conc. si scioglie dando una soluzione colorata intensamente in rosso. Azione della semicarbazide. — Ad una soluzione acquosa di metil-nafto- chinolo si aggiunge una soluzione acquosa della quantità calcolata di clori- drato di semicarbazide e acetato sodico. Si lascia stare agitando spesso e dopo un giorno o due si separa per filtrazione la sostanza cristallina rossa-aran- ciata che si depone poco a poco. Dalle acque madri se ne deposita una nuova quantità. Si scioglie un poco nell'acqua bollente dalla quale per raffredda- mento si deposita in bellissimi aghetti aranciati fusibili con decomposizione a 143°-144°. Sottoposta all'analisi dette i seguenti resultati: Gr. 0,1332 di sostanza dettero c. c. 24 di N misurato a 25° e 756. Donde per cento: Trovato Calcolato per Ci: Hi, ON3 N 9539 dol Questa sostanza che deve considerarsi come una mezzlnaftil-azo-carbo- namide si scioglie facilmente nell’alcool, etere, acido acetico, cloroformio: è insolubile nell'etere di petrolio. Si scioglie nell'acido cloridrico dando una colorazione verde che dopo brevi istanti diventa rossa: dalla soluzione rossa dopo qualche tempo si deposita una sostanza fioccosa rossa insolubile. Anche nell'acido solforico conc. sì scioglie con colorazione verde che poi volge al rosso. RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 35 — 262 — Chimica. — Sopra alcuni derivati chinolici del gruppo della santonina (). Nota di G. BARGELLINI, presentata dal Socio S. CAN- NIZZARO. In due Note precedenti è stato dimostrato come dal dimetil-naftolo e dal metil-naftolo si può passare per ossidazione a composti chinolici del tipo Ora poichè nelle desmotroposantonine e negli acidi santonosi è conte- nuto indubbiamente il medesimo anello OH, C NNc-0n Aa C CH; che è nel dimetil-naftolo, era prevedibile che anche da essi potessero otte- nersi composti del tipo chinolico. Alcune esperienze fatte in questo senso e che saranno pubblicate fra breve, confermano questa supposizione. Dall'acido desmotropo-santonoso ho potuto preparare un chinolo a cui probabilmente è da attribuirsi la formula. cm OfpicE: HACZN7 \cg, Mi | | o=0 A_/ vH— C00H secondo la quale sarebbe un'isomero dell'acido santoninico. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico della R. Università di Roma. — 263 — Reagisce colla fenilidrazina dando origine ad un prodotto rosso che forse non è il fenilidrazone ma l'azo-composto corrispondente. Dalla desmotroposantonina non ho per ora preparato il composto chi- nolico corrispondente cioè una nuova ossisantonina della formula Ho/AN or: sy | CH-—CH—C0 venne, CHa AN OH CH; ma ho fissato bene le condizioni per ottenere il nitroderivato di essa. In verità questo era già stato preparato nel 1896 da Andreocci (') il quale però non descrisse esattamente come lo otteneva. À questo composto che si prepara facilmente (ma con una rendita non superiore al 10 °/,) per azione dell’ HNO; diluito sulla desmotropo-santo- nina nelle condizioni che descriverò a suo tempo, Andreocci assegnò la formula CH, Og a AN nia) | NO, .0. HO AS _0H-0H_00 CRCH, CIG CH; e fece notare che era probabile che esso si formasse per un processo ana- logo a quello con cui si passa dal dimetil-naftolo all’ossi-dimetil-naftolo. A questa sostanza, secondo le mie ricerche, si deve assegnare la for- mula | dh, | cn NATA i viCl0E: CH; (1) Andreocci, Rend. Acc. Lincei, Serie V, vol. V, pag. 309. — 264 — che spiega la sua capacità di dare origine ad un acetil-derivato che io ho potuto preparare e analizzare. Io ho potuto anzi isolare anche il chinitrolo corrispondente a questo chinolo. A questo composto molto instabile come tutti i chinitroli, dei quali mostra le reazioni caratteristiche, devesi assegnare la formula CH, 6% CH, No, CANd\ca— lo | DI | AN e AI No, CH, Sto continuando le ricerche în questo campo e le comunicherò in tutti i dettagli appena le avrò completate. Questa capacità dell'anello aromatico della desmotroposantonina e del- l'acido desmotroposantonoso a divenire aliciclico nella trasformazione in com- posti chinolici (passaggio dal tipo A al tipo B) CH; CH; TÀ e Nu sr TS CH; ASS CH, A B ’ può far nascere il pensiero che si tratti veramente di un ritorno dal tipo desmotroposantonina al tipo santonina e che quindi alla santonina debba at- tribuirsi la formola II e non la 1 ammessa finora CHs CHs DICE Ù CH: Hi ANA 1 HO N/NE | | 00 CH—0H 00 00 CH-—CH—00 NANI i NATA î ca (va, lE CH; N H VR — 265 — Secondo la formula I si ammette l’esistenza di un CH, accanto al CO soprattutto per la trasformazione compiuta da Gucci e Grassi della santoni- nossima in iposantonina. Ora questa trasformazione dimostra soltanto, a parer mio, che accanto al CO c'è un atomo di carbonio il quale tiene unito un atomo di idrogeno che può perdere quando l’anello aliciclico diventa aromatico. Questo H può dunque stare con eguale probabilità tanto da una parte che dall'altra del CO e sono quindi egualmente verisimili le due formule, finchè almeno non si hanno dati per escludere una di esse. Però il fatto che la santonina non mostra le reazioni caratteristiche del CH, accanto al CO (*) le esperienze di Angeli e Marino sull’ossidazione dell'acido santoni- nico pubblicate in una nota preliminare (?) nella quale si annunzia la di- CH3 mostrazione dell’esistenza del gruppo —CO—CH=C—C— nella santonina, e infine le ricerche che io sto facendo su questi derivati chinolici del gruppo della santonina rendono assai verisimile l'ipotesi che alla santonina debba attribuirsi la formula II. E con questa formula invero si possono spiegare con eguale chiarezza come colla formula ammessa finora tutte le trasforma- zioni della santonina (p. es. il passaggio a desmotropo-santonina, la trasfor- mazione in iposantonina, la formazione degli acidi foto- e isofoto- santo- nico etc.). In questa Nota preliminare però io voglio so//anto far notare come si possa prendere in considerazione anche la formula II per la santonina, senza pretendere di darne ora la dimostrazione che potrà forse esser data da ulte- riori più accurate ricerche. Chimica. — Sw alcuni sali complessi. del perossido di ti- tanto (È). Nota di ARRIGO MAZzzuccHELLI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Da studî, già pubblicati, sulle condizioni di precipitabilità del perossido di uranio (‘) e su un nuovo tipo di derivati del perossido di molibdeno (7) nonchè da altri, ancora inediti, eseguiti da me colla collaborazione del sig. F. Bimbi, sui composti solubili del perossido di uranio, risulta che in generale è possibile preparare derivati dei perossidi di un tipo affatto di- verso da quelli conosciuti sino adesso, facendo agire l’acqua ossigenata su un II II (*) Il composto ottenuto da Bertoni (Gazz. Chim. Ital.. 21 (II) 337) colla m-nitro- benzaldeide, mi sembra assai problematico. (2) Angeli e Marino, Rend. Acc. Lincei, vol. XVI, serie V, pag. 159 (1907). (*) Lavoro eseguito nell’Istituto Chimico della R. Università di Roma. (4) Rend. Acc. Lincei, XV, 2° sem., 1906, 429 e 494. (5) Rend. Acc. Lincei, XVI, 1° sem., 1907, 963-966. — 2606 — sale dove l'ossido, da cui il perossido deriva per sostituzione di O con 0;, faccia parte di un auione complesso; il perossido, che viene così a formarsi per azione dell H,0., continua per lo più a far parte dell’anione primitivo. Nel caso di elementi che hanno molta tendenza alla formazione di complessi, si intravede così la possibilità di ottenere tutta una serie di nuovi derivati del tipo dell’acqua ossigenata, il cui studio non deve essere privo di interesse, specialmente per quanto riguarda le relazioni fra i complessi perossidati e quelli normali da cui derivano. Avendo già verificato sperimentalmente l'esattezza di questo concetto pei perossidi di uranio, di molibdeno, e, qualitativamente, di tunsteno, ho voluto esaminare in questo senso anche il comportamento del titanio. Qui pure, per analogia cogli elementi precedenti, le maggiori probabilità di successo per una ricerca preliminare, erano presentate dagli ossalati complessi, di cui alcuni furono preparati per la prima volta dal Péchard (') e nuovamente studiati dal I Rosenheim (?), e che corrispondono alla formola generale Ti 0 (C3 04) Xe. Se ad una soluzione di titanossalato alcalino, quale può aversi sciogliendo l'idrato titanico in un ossalato acido, si aggiunge un eccesso di Hs 0,, si ottiene qui, come per tanti altri composti del titanio, un liquido fortemente colorato in giallo, che passa all'arancione più o meno intenso in presenza di acidi liberi. In queste condizioni tutto l’ossido di titanio si è trasformato in pe- rossido, il quale è rimasto unito in anione complesso al residuo ossalico, e ciò è dimostrato, oltre che dal cambiamento di colore, dal fatto che la solu- zione non mostra più molte delle reazioni primitive. Ad es., per aggiunta di ammoniaca non si ha più formazione di precipitato, come nel caso del titanossalato primitivo, ma il liquido resta perfettamente limpido, solo per- dendo alquanto del suo colore, che diviene citrino chiaro, e solamente dopo un certo tempo, e più presto riscaldando, quando l'H,0, di eccesso sì è interamente decomposta con sviluppo vivace di 0., la soluzione si intorbida bruscamente in seguito alla produzione di un precipitato fioccoso, giallo-chiaro, la cui natura non è stata ancora esaminata. Colle soluzioni dei sali di calcio, bario, piombo, la soluzione di titanossalato alcalino addizionata di H,0, dà dei precipitati fioccosi, pesanti, colorati in un giallo più o meno intenso. I perossisali alcalini contenuti nelle soluzioni in questione, sono, come la maggior parte dei composti di questo genere, estremamente solubili nel- l'acqua, e possono comodamente ottenersene allo stato solido solo per aggiunta di alcool concentrato. Trattando a questo modo una soluzione di titanossalato sodico, preparato sciogliendo nella quantità calcolata di acido ossalico il titanato sodico (dalla fusione di Na» CO; con TiO, in proporzioni equivalenti) addizionata di H,0, (1) Bull. Soc. Chim., 77 (8), 1894, 30). (2) Z. anorg. Ch., 26, 1901, 252-255. — 267 — in quantità leggermente eccedente il rapporto Ti0,: H30,, il liquido sì intor- bida solo dopo aggiunta di una quantità rilevante (6-7 volumi) di alcool a 95°, e allora depone un olio denso, color arancio cupo, che può farsi soli- dificare decantando il liquido soprastante e sostituendolo con nuovo alcool, nel mentre si agita frequentemente la massa con una bacchetta in vetro, per rinnovarne la superficie di contatto. Si ha così infine una polvere sab- biosa, abbastanza densa, di un color arancio vivo, che può raccogliersi su filtro e lavare con alcool, dove è praticamente insolubile, spostando poi questo ultimo con etere, e ponendo infine in essiccatore ad acido solforico il pro- dotto ancora umido di etere. Questo trattamento non pregiudica la purezza del preparato, perchè l'etere viene poi assorbito, come si sa, dall’acido sol- forico, ma è necessario per impedire che esso vada in deliquescenza, come del resto occorre avere la massima cura che durante la lavatura con alcool la sostanza sia sempre ricoperta da questo liquido, poichè se resta anche per pochi secondi esposta all'aria ne assorbe immediatamente l'umidità, trasfor- mandosi in un sciroppo denso. Invece dopo che è stata qualche ora nell’es- siccatore la sostanza è assai meno igroscopica, e può comodamente pesarsi, senza aumentare praticamente di peso, non solo in pesafiltri chiuso con tappo smerigliato, ma anche in un ordinario croginolo con coperchio di porcellana. Se viene però lasciata all'aria qualche ora si inumidisce tutta e si rigonfia per sviluppo di gas e decomposizione incipiente; in ambiente asciutto si mantiene invece inalterata almeno per un certo tempo; nell'acqua si scioglie in ogni caso con facilità estrema. La straordinaria igroscopicità che mostra questo composto quando è appena preparato e ancora imbevuto di alcool, può dipendere dal fatto che esso presenti un massimo di solubilità nell'alcool acquoso, ipotesi che do del resto con una certa riserva, non essendo stata sottoposta a una verifica sperimentale. Riscaldando con precauzione questo persale sodico, esso si scolora gradual- mente e si trasforma infine in un miscuglio di titanato e carbonato sodico senza dare luogo a deflagrazione o decomposizione violenta, ciò che è assai notevole, dato che questo composto contiene contemporaneamente il residuo ossalico C,0; e ossigeno attivo nella sua molecola. Ne è stata fatta una analisi completa, determinando direttamente tutti i componenti. Così, oltre il residuo fisso (che di per sè solo non dice gran che, perchè, come risulta dagli studî di Smith ('), la decomposizione del carbonato sodico per opera del TiO, è assai incompleta, e anzi in presenza di CO, dà luogo a un vero fenomeno di equilibrio bivariante) fu determinato il Ti 0, precipitando con ammoniaca il persale ridotto prima con SO., il Na nelle acque di lavaggio allo stato di solfato, l'ossigeno attivo per via jodometrica scaldando con KI e HCl a 60° per ?/, d'ora, mentre nelle acque madri fu determinato il residuo ossa- (1) Z. anorg. Ch., 27, 1903, 332-336. — 268 — lico precipitandolo con CaCl, ammoniacale e titolando al permanganato il precipitato lavato sino a scomparsa di joduri. Per controllo sì determinò pure col KMn0, la somma dell'ossigeno attivo + residuo ossalico nel sale inalte- rato, e poi il solo residuo ossalico dopo ridotto il sale con SO» ('), che fu poi eliminato in corrente di CO». In questo ultimo metodo poteva esservi 4 priori un po di dubbio se si sarebbe potuto titolare contemporaneamente H,0. e C0, al permanganato, oppure se non avrebbero almeno in parte reagito tra loro, specie trovandosi a far parte di uno stesso anione complesso. Ma le seguenti determinazioni informative provano che questo non è il caso e che, almeno entro i limiti dei comuni errori sperimentali, si può benissimo titolare contemporaneamente H30, e H:C:0, in soluzione diluita e a freddo, e ciò anche se vi è presente un sale di titanio. 10 cc. di un ac. ossalico arbitrario consumano 9,32; 9,28 di KMn0, DI in presenza di circa 0,1 gr. TiO, in forma di solfato consumano 9,29. 10 cc. di acqua ossigenata diluita consumano 11,73; 11,77 di KMn0,, e, in presenza di 0,1 TiO,, 11,70; 11,75. 10 ce. di acqua ossigenata -+ 10 di acido ossalico consumano 21,10; 21,06 di KMn0; (teor. 21,05), e in presenza di 0.1 Ti0, consumano 21,09; 21,20 di KMn0,. Ecco ora i risultati delle analisi eseguite sul sale di sodio: Gr. 0,6347 lasciano 0.3544 di residuo fisso. Gr. 0,6139 danno 0,1583 TiQ0, e 0,2964 Na,S0,. x Gr. 0,4646 consumano 13,62 iposolfito i, e l'ossalato calcico ottenutone consuma 49,74 KMn0, Dei Gr. 0,2653 consumano 43,80 KMn0,. Gr. 0,2676 dopo ridotti con SO, consumano 29.51 id. Se dai risultati analitici si tenta risalire a una formula semplice, si trova che la migliore concordanza fra le percentuali trovate e le calcolate è data dalla formula (Nas C304)a , (Ti0;)3 , C°03 + 4H:0 per la quale si può stabilire il seguente confronto tra i valori teorici e gli sperimentali (>): Calcolato Memore uva: Trovato I I II IV Na 15,25 15,66 _ —_ —_ Ti0; 26,51 25,79 “a —_ i C5 0, 45,60 = 48,1 — 48,52 O attivo 5,16 = 4,71 4,41 (1) Ciò ha luogo già facilmente a freddo, e istantaneamente a caldo. (*) Pei calcoli della presente Nota si sono adottati i valori delle « Logaritmische Rechentafeln » del Kiister, 5% ediz. — 269 — La concordanza è passabile pel sodio, pel titanio e fino ad un certo punto anche per l'ossigeno attivo, ma il residuo ossalico mostra un eccesso notevole sui valori calcolati. Può supporsi che ciò derivi dall'essere il preparato un poco impuro, poichè infatti il titanossalato di sodio presente nella soluzione iniziale ha una percentuale assai elevata in acido ossalico, e già si sa che la precipitazione con alcool non è il modo migliore per ottenere dei prodotti puri, ma solo un espediente cui è giuocoforza appigliarsi in mancanza di altro più opportuno (!). Volli quindi provare se adoperando una tecnica diversa non potevano ottenersi prodotti che dessero maggior garanzia di purezza, ed ho preparato il corrispondente sale di potassio facendo agire una soluzione aleoolica di acetato di potassio sopra una soluzione ugualmente alcoolica di ossalato acido di titanio addizionato di H,0,. L'ossalato acido di titanio fu preparato facendo digerire verso 100° l’idrato titanico Merck con acido ossalico nel rapporto Ti 0,H,: 2C»H30,, quale si ha nei comuni titanossalati. Anche dopo un riscaldamento assai prolungato, solo */3 circa dell'idrato titanico era andato in soluzione, sicchè questa doveva contenere un eccesso di acido ossalico; di esso una parte fu separata allo stato cristallizzato concentrando per evaporazione su HsS0, il liquido addizionato di H,0, ed estraendo poi il siroppo rosso bruno così ottenuto con poco alcool freddo. In questo siroppo, fortemente colorato, che svolge lentamente bolle di gas, e che lasciato in essiccatore si solidifica in nna massa amorfa, è contenuto evidentemente un acido pertitanossalico, che non è stato per ora sottoposto a indagini più approfondite. Insieme con esso si scioglie nell'aleool una parte dell'acido ossalico, che potrebbe poi dar luogo a un precipitato di ossalato potassico, ma fu osservato che, se si tratta frazionatamente il liquido alcoolico così ottenuto colla soluzione alcoolica di acetato potassico (che, come sale di acido debole, viene decomposto con tutta facilità) si precipita dapprima un sale fortemente colorato in giallo, e solo sull'ultimo, quando il liquido è quasi del tutto scolorato, comincia a formarsi un precipitato bianco di ossalato potassico. Interrompendo quindi la precipitazione quando il liquido è ancora forte- mente colorato, si può logicamente supporre di giungere così a un prodotto puro. Ottenni così una polvere gialla, assai voluminosa, che fu lavata, come il sale sodico, con alcoole poi con etere, e che mostra in grado anche mag- giore di quello una straordinaria facilità ad andare in deliquescenza al con- tatto dell’aria, quando essa è ancora umida di aleool, mentre dopo essere stata nell’essiccatore, pur mantenendosi igroscopica, diventa almeno maneggiabile. Una porzione, ad es., di 0,19 gr., lasciata in crogiolo scoperchiato per sette minuti, crebbe in peso di 2 mmgr. Abbandonato per qualche ora all'aria va (1) Per altro nella preparazione dei persali, quasi tutti straordinariamente solubili, l’uso dell’alcool è quasi indispensabile, come Io mostrano gli studi di Melikoff e Pissa- rjewski, del Fairley, etc. I S RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. — 270 — in deliquescenza anche questo sale. Nelle sue proprietà generali somiglia assai al sale di sodio, e fra altro nella capacità di decomporsi lentamente senza deflagrazione. Esso ha fornito i dati analitici seguenti: Gr. 0,1959 lasciano 0,1084 residuo fisso. Gr. 0,2651 digeriti con HCl e KI consumano jodometricamente 7,27 ce. ipo- solfito È, e l'ossalato di calcio precipitatone consuma 24,47 KMn0, Ra Gr. 0,2178, di cui non potè terminarsi l'jodometria perchè si acidulò con solo C:H»0:, la cui azione si dimostrò insufficiente, diedero poi tanto ossalato calcico da consumare 20,50 di KMn0,. Gr. 0.3818 consumano 60,12 KMn0,; e gr. 0,4811, dopo ridotti con S0,, ne consumano 46.03. Gr. 0,3950 ridotti con SO. e precipitati con NHz3 danno 0,1018 Ti 0, e 02121 ISO," Si ha così il seguente confronto fra le percentuali trovate e le calcolate: Calcolato Trovato —___mmutz __ rr rwt..—T__ _ I II III IV V K 24.90 I sa e 4A Ti0, 25,49 Pi = 3 2A €50, 741/98, 40 140, >, — Mo O attivo 5,08 50) (ABI) 23 e I valori calcolati si riferiscono alla formula K3C:0,4): . (Ti0:): . C:03 +2H,0 e la concordanza è qui, come si vede. abbastanza soddisfacente. Risulterebbe così confermata la formula già stabilita pel sale di sodio; e una nuova conferma si ha dallo studio, ancora incompleto, del sale di bario. Se la soluzione di titanossalato sodico, contenente i tre componenti nel rapporto Ti 0, : 2H,C:0, : 2Na, viene addizionata con H3 0» nel rapporto Ti0,:Hs0: e poi trattata con difetto di BaCl,, non si ha che un preci- pitato fugace solubile nell’eccesso di persale; ma esso diviene assai maggiore se si aggiunge alla soluzione acetato ammonico. La sostanza fioccosa, pesante, facilmente lavabile che si ha a questo modo fu precipitata frazionatamente in cinque porzioni, pressochè uguali, fino a cessazione completa della preci- pitazione. Si ebbero così vari preparati tutti colorati in giallo, e poco o punto differenti fra loro, tranne l'ultimo, che aveva un aspetto più polveru- lento e non fu esaminato. Effettuandosi a questo modo la precipitazione di un persale allo stato insolubile, si potrebbe supporre di ottenere a questo modo più facilmente un composto puro e definito, mentre d’altra parte, se vi fosse la possibilità della — 271 — precipitazione di più composti diversi, questi dovrebbero venire a separarsi mediante il frazionamento eseguito. Vedremo come la realtà abbia risposto a queste previsioni. Furono analizzate, al solito, completamente, le prime tre frazioni, coi risultati seguenti. I° frazione (stata în essiccatore). Gr. 0,4294 digeriti con KI 4 HCl. consumano jodometricamente 8,35 cc. iposolfito De e danno 0,2890 di BaS0,; il residuo ossalico non potè dosarsi. Gr. 0,3383 consumano in tutto 37,67 KMn0, mo, danno 0,2222 Ba S0, e, per precipitazione delle acque madri con acetato ammonico, 0,0557 Ti0,. Ciò fornisce le percentuali seguenti: Bar 39/6015: 36015/0tathivo—=2104% 0,0783701 MO, — 16544. II° frazione (asciugata all’aria). Gr. 0,3160 jodometricamente consumano 5,71 di iposolfito. Gr. 0,2201 consumano in tutto 23,36 KMn0,; e gr. 0,2736, dopo ridotti con SO. in soluzione solforica, consumano 18,66 KMn0,. Gr. 0,2763 sciolti in HCl danno 0,1624 BaSO,, e le acque madri tirate a secco danno 0,0418 Ti0,. Se ne calcolano le percentuali : Olfattivo=—=#2489E83104T400=130502); Ba=18460N09—115713% III° frazione (asciugata all'aria). Gr. 0,2913 consumano jodometricamente 5,32 iposolfito, danno 0,1748 BaSO,, e tanto ossalato di calcio da consumare 19,44 KMn0, di ; 10 Gr. 0,3774 danno 0,2240 Ba SO, e 0,0547 Ti0,. A questo corrispondono le percentuali: Ofavtivo—2192610 0299 66Ba = 3558260493 TO I450! Se da questi numeri risaliamo ai rapporti atomici tra i vari componenti, riferiti a una molecola di Ti O», arriviamo alla tabella seguente: I II III media AMUO)5 1 1 1 Il O attivo 0,925 0,983 1,01 0,969 Ba 1,38 1,93 1,41 1,97 C, 0, 1,859 1,805 1,845 1,895 — 272 — Supponendo che tutto il bario sia combinato col residuo ossalico, otte- niamo per la composizione media del sale la espressione: (Ba Cs O4)1,a7 MATO, , (Ca O3)o,46 Evidentemente, non può trattarsi di un composto unico, mentre d'altra parte la concordanza dei risultati fa escludere la possibilità di un notevole errore sperimentale. La sola interpretazione logica che si può dare è che sì tratti di una miscela di ossalato baritico con un sale complesso (Ba 030)» (Ti0;):.C.03 (analogo ai sali potassico e sodico), miscela che si formerebbe dalla reazione fra titanossalato sodico, acqua ossigenata, e sale di bario a questo modo: 2Ti0(C, 0, Na), + 2H, 05 + SBaX, = (Ba C, 0,)a (Ti 03)a (075 03 + + BaC,0, + 4NaX + 2HX + 2H;0 (1). La composizione del precipitato si avvicina infatti assai a quella voluta dalla precedente equazione, cioè (Ba C,0,),;; , Ti103,(C203)o,5 (il difetto di ossalata baritico è verosimilmente dovuto all'azione dissolvente dell'acido acetico che viene a liberarsi) e a questo modo si spiega come tutte le varie frazioni esaminate abbiano una composizione praticamente costante, e come per ottenersi precipitato sia necessaria la presenza di un anione debole come l’acetico, che dà un acido assai poco jonizzato. Naturalmente, con questo non intendo aver posto fuori di dubbio la co- stituzione del sale di bario, di cwi si ripeterà la preparazione in condizioni diverse e migliori; mi contento solo di aver dimostrato che già i primi ri- sultati ottenuti possono assai semplicemente interpretarsi attribuendo al sale in questione la stessa formula trovata pei corrispondenti derivati sodico e potassico. Come ho sopra accennato, anche con aggiunta di cloruro calcico al ti- tanossalato sodico aggiunto di Hs0 si ha, in soluzione di acetato ammonico, un precipitato giallo, che è stato pure preparato in tre frazioni, e comple- tamente analizzato. I risultati, sebbene non abbastanza buoni per essere pubblicati, concordano però coi precedenti nel senso di mostrare che ad ogni molecola di Ti0, corrisponde un atomo di ossigeno attivo e che vi è solo (1) Questa equazione esprime soprattutto la relazione quantitativa fra le sostanze che entrano in reazione. e i prodotti che se ne ottengono, senza volere rappresentare il meccanismo vero della reazione; contro quest’ ultima interpretazione potrebbe infatti obiet- tarsi che probabilmente già nella soluzione il titanossalato sodico è tutto scisso nel persale (Nas Ca.04)a (Ti Og). C203 e in acido ossalico, sebbene veramente non sempre ciò che si precipita, per alterazione del solvente, da una data soluzione, debba aver preesistito, nelle stesse proporzioni, nella soluzione iniziale, e anzi nel caso attuale da vari indizi possa ar- guirsi che debbono esistere altri ossalati complessi del TiO; oltre quelli isolati. È una questione che potrà risolversi solo coll’applicazione dei metodi chimico-fisici. — 273 — un piccolo eccesso di residuo ossalico oltre quello equivalente al calcio presente. Trattando il titanossalato sodico + H,0, con acetato di piombo si può ottenere allo stesso modo un precipitato giallo, contenente piombo, titanio, acido ossalico e ossigeno attivo, ma dato i risultati ottenuti coi sali di bario e calcio, e considerando inoltre la tendenza che ha il piombo a dare sali basici, non si è ritenuto per ora conveniente farne l’analisi. In una Nota successiva si esporranno alcune considerazioni generali sui composti sopra descritti. Chimica. — Costituzione dell’ acido fluoridrico ('). Nota di G. PeLLINI e L. PeGoRARO presentata dal Socio G. CIAMICIAN. L'acido fluoridrico nel suo comportamento chimico e fisico si differenzia in modo evidente dagli altri tre acidi alogenici. Particolarmente interessante è la capacità dell'acido fluoridrico di formare coi metalli alcalini i cosidetti fluoridrati, ragione per cui noi possiamo essere indotti a ritenere che esso possieda una costituzione differente dagli altri acidi alogenici — HCl, HBr, HI — e si comporti come un acido bibasico H, Fl, formando sali acidi del tipo M'H Fl, e sali neutri del tipo M°, Fl. Numerose sono state le ricerche per stabilire se il suo peso molecolare debba essere uguale a 20 oppure a 40 e si debba perciò scrivere H Fl op- pure H, Fl». i Le determinazioni di densità di vapore eseguite dal Gore (?) alla tem- peratura di 100° e da Thorpe e Hambly al di sopra di 88° (3) conducono ad un valore corrispondente alla formola semplice H Fl, mentre che quelle ese- guite dal Mallet (4) alla temperatura di 25°, conducono alla formola rad- doppiata Hs Fl». Nel comportamento termochimico l’acido fluoridrico si diversifica note- volmente dagli acidi cloridrico, bromidrico e iodidrico. Dalle misure di Thomsen (?) risulta che il calore di neutralizzazione dell'acido fluoridrico è più grande che quello degli altri tre acidi (circa 18-19 °/, in più) e più elevato del 4°/ di quello dell’acido solforico : inoltre per azione dell'acido fluoridrico sul fluoruro sodico si avverte uno sviluppo considerevole di calore, mentre che gli altri acidi alogenici agendo sui corrispondenti sali sodici (?) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova. (°) Philosophical Magazine, 1869 e seg. (3) Journ. Chem Soc., 55, 103. (4) Amer. Chem. Journ., 3, 189 (1881). (9) Therm. Untersuch., /, 158; Guntz, Ann. chim. phys., 3, 5 (1884). ord — dànno luogo ad uno sviluppo di calore trascurabile: infine l'avidità dell'a- cido fluoridrico è assai piccola in confronto di quella dell'acido cloridrico. In seguito Thomsen (') ha misurato le quantità di calore che si svi- luppano per aggiunta progressiva di acido fluoridrico all'acido silicico e con- clude dalle sue misure che all’acido fluoridrico in soluzione acquosa compete la formola doppia Hs Fl, e può dar luogo a sali acidi del tipo R”° . n (Fl. H) ed a sali neutri del tipo R° n FI. Sull'acido libero e sui sali esistono le misure elettriche di Ostwald (2), di Walden (8), di Kohlrausch e Steinwehr (4), di Fox (?) e quelle recentis- sime di Deussen (°). L'Ostwald ha misurato la conduttività degli acidi alogenici liberi tro- vando pure una notevole differenza fra il comportamento dell'acido fluoridrico e quello degli altri tre acidi. H Fl HCl H Br HI v {35° M25° Ma5° M25° 4 29.6 366 377 376 32 59.5 398 398 397 1024 224. _ 405 404 Esso però differisce per i valori della conducibilità molecolare anche dagli acidi bibasici. Recentemente Deussen ha studiato l'energia dell'acido fluoridrico misu- rando la velocità d’inversione dello zucchero di canna. La costante di in- versione per l'acido fluoridrico è all'incirca 17 volte più piccola che quella trovata da Ostwald per l'acido cloridrico. Quando una molecola di acido fluo- ridrico è sciolta in 1000 litri l’acido è circa per metà dissociato. La costante di dissociazione dell'acido fluoridrico messa in confronto con quella dell'acido acetico (acido debole e contenente in soluzione concentrata molecole doppie) con quella di un acido bibasico debole come l'acido succinico e di un acido bibasico forte come l'acido fumarico, non fornisce nessun dato positivo per decidere se l'acido fluoridrico sia bibasico o possegga molecola doppia. Ac. acetico ac. succinico ac. fumarico ac. fluoridrico v ESAME k.105 (RO ko 08 8 0.180 — _ ag: 16 0.179 6.62 — 98.7 32 0.182 6.62 93 88.8 1024 0.178 6.68 110 78.2 (1) Therm. Untersuch., 2, 415 ff. (2) Journal fiir. prak. Chemie, 32, 302 (1885). (3) Zeit. phys. Chemie, 2, 58 (1888). (4) Landolt, Phys. chem. Tabellen, 1905. (5) Zeit. anorg. Chemie, 33, 135. (9) Zeit. anorg. Chemie, 44, 300 (1905). — 275 — Secondo Ostwald e Deussen la conduttività dell'acido fluoridrico è più piccola di quella dell'acido monocloracetico, mentre che la costante d'inver- sione per net è un po più grande di quella dell'acido monocloracetico ed un po’ più piccola di quella dell'acido fosforico 4.76 — 0.0 — 6 avvicinandosi più a quest'ultimo acido e molto meno all'acido arsenico che alla stessa normalità possiede una costante d’inversione di 4.65. Per l'acido fluoridrico esiste perciò un parallelismo completo fra la ve- locità d'inversione e la conduttività. Inoltre Deussen studiando la velocità d' inversione delle soluzioni diluite di acido fluoridrico trova che essa non può paragonarsi a quella di un acido monobasico come il formico nè a quella di un acido bibasico come l'acido solforico, ma rappresenta un termine intermedio fra un acido monobasico ed uno bibasico. Interessante è pure il fatto studiato da Deussen della influenza dei sali neutri sopra il processo di inversione con l'acido fluoridrico. È noto che l'aggiunta di sali neutri ad acidi di diversa energia accelera o ritarda la velocità di inversione, e precisamente per gli acidi forti monobasici avviene una accelerazione, per gli acidi deboli una diminuizione. L'acido solforico acido bibasico tipico si comporta come un acido debole. Aggiungendo all’a- cido fluoridrico quantità crescenti di fluoruro potassico la velocità d’inver- sione viene ritardata per cui sicuramente esso si comporta come un acido debole ma anche come un acido bibasico. Le misure di conduttività dei fluoruri vennero eseguite da Walden e da Kohlrausch e Steinwehr. Dai valori di Walden per la conduttività equivalente delle soluzioni acquose si deduce: D) ° Ma5° Na Fl 1024 104.0 32 93.0 | dI SIRO K FI 1024 126.1 82 114.7 Sifibia Dai valori della conduttività equivalente delle soluzioni acquose a 18° di Kohlrausch e Steinwehr si deduce: VU M18° Na FI 1000 87.86 200 77.03 K FI 1001 108.89 200 97.73 — 276 — Dai valori tanto di Walden come di Kohlrausch e Steinwehr risulta per i fluoruri neutri di soda e potassa un comportamento perfettamente ana- logo a quello dei cloruri corrispondenti: e l'acido fluoridrico si comporta come un acido monobasico. Per studiare la costituzione dell'acido fluoridrico vennero eseguite anche alcune determinazioni di punto di congelamento delle soluzioni acquose, tanto dell'acido, quanto dei sali. I punti di congelamento delle soluzioni acquose dell'acido vennero eseguite già da tempo da Paternò e Peratoner (!). Con- frontando i valori dell'abbassamento molecolare dell’acido cloridrico e quelli dell'acido fluoridrico ed avendo trovato per il primo valori di circa 36 e per il secondo di circa 20 giudicarono in base alla legge di Raoult che all'a- cido fluoridrico dovesse appartenere la formola doppia Hs Fl,. Ora però dopo lo sviluppo della teoria di Arrhenius noi dobbiamo dare ai valori di Pa- ternò e Peratoner un significato diverso, e cioè, mentre l'acido cloridrico è praticamente deltutto dissociato, l'acido fluoridrico non lo è che in piccola parte e quindi appunto da dette esperienze si deduce che all’acido fiuoridrico spetta in soluzione acquosa la formola H Fl. Appare perciò strano che la conclu- sione suaccennata di Paternò e Peratoner, che si poteva perfettamente com- prendere all’epoca delle loro esperienze, sia riportata senza critica in trat- tati recenti come nel Moissan, 7razté de Chimie minérale e nel Dammer, Handbuch der anorganische Chemie Band IV. Anzi se si calcolano i valori di z dalle esperienze crioscopiche di Paternò e Peratoner e sì confrontano con quelli ricavati a concentrazioni uguali dalle determinazioni della con- duttività elettrica di Ostwald si trovanno numeri perfettamente concordanti. Recentemente W. Biltz e I. Meyer (?) esaminando il comportamento crioscopico del fluoruro potassico in soluzione acquosa trovano che esso è dissociato secondo l'equazione K Fl1= K'+- FI”, perchè il peso molecolare dedotto dall'abbassamento del punto di congelamento è quasi la metà del calcolato. Infine Eggelins e I. Meyer (*) hanno trovato che il fluoruro di rubidio Rb Fl è dissociato abbastanza in soluzione ed il peso molecolare de- dotto dal punto di congelamento è all'incirca la metà del teorico: mentre che il fluoridrato è dissociato secondo lo schema Rb: + H FI} ed il peso molecolare calcolato dal punto di congelamento oscilla fra i valori di 63 — 65,5, mentre che il teorico è 124. Da ciò questi autori deducono che il fluoridrato di rubidio si comporta come l’acido fluoridrico bimolecolare. Da uno sguardo generale alla letteratura riguardante la costituzione dell'acido fluoridrico si vede che la questione della grandezza molecolare di questo acido non è ancora risolta in modo completo. (1) Atti dellAcc. dei Lincei (4) 6, 306 (1890). (2) Zeit phys. Chemie, 40, 202 (1902). (*) Zeit. anorg. Chemie, 46, 174 (1905). — 277 — Per consiglio del prof. G. Bruni, Direttore dell'Istituto chimico del- l'Università di Padova, noi abbiamo cercato di risolvere la questione se- guendo il metodo fondato sulle variazioni della conduttività elettrica di una determinata quantità di acido fluoridrico durante la neutralizzazione con le basi: metodo usato da diversi autori e specialmente da Miolati e Mascetti (') per precisare la costituzione di parecchi acidi inorganici polibasici. Le determinazioni vennero eseguite alla temperatura di 25°. Il recipiente contenente gli elettrodi platinati e le soluzioni da esaminarsi era costi- tuito da un bicchiere fatto completamente in paraffina. 2 cem? di acido fluori- drico purissimo misurati con apposita pipetta paraffinata venivano intro- dotti in un palloncino paraffinato e dopo aggiunta di quantità variabili di alcali si portava il volume a 50 cem. La determinazione del titolo della soluzione di acido venne eseguita per via volumetrica usando come indica- tore la fenolftaleina e seguendo esattamente le indicazioni del Traedwell. 2 cem. di acido fluoridrico contengono gr. 0,00578 di H Fl e vengono neutralizzati da cem. 14,5 di KOH, Na OH, NH, 2, Da cui risulta v = IM R20528 come di aci O uo: i” di AA una ES x 10° x 103 220108 Tao 50 1) 0,695 0,695 0,695 0,00 2 0,616 0,598 0,598 0,277 4 0,569 0,539 0,565 0,554 6 0,543 0,493 0,954 0,832 ti 0,540 = = 0.970 7,25 0,538 0,482 0,553 1,00 8 0,558 0,489 0,559 1,109 10 0,575 0,511 0,577 1,386 12 0,613 0,527 0,624 1,664 14 0,660 0,565 =; 1,941 14,5 0,676 0,574 0,703 2,00 16 0,752 0,614 0,725 2,219 18 0,900 0,759 0.739 2,496 20 1,085 0,923 0,755 2,774 (1) Gazz. chim., 1901, pag. 93. RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 37 — 278 — Conduttività specifiche RT. I. Conduttività specifiche uurinnsNZsA22E2NE ip-ei/ ea |Ragkg= === gnnanE El ISS SRI RE IMNEZA — 279 — Per i sali neutri si calcolano le seguenti conduttività molecolari: KFI — 117; NaFl— 98,3; cifre cho stanno in accordo assai soddisfacente con quelle di Walden. Dall'esame dei valori dati nella tabella e dalla rappresentazione gra- fica di essi appare evidente che l'acido fluoridrico si comporta come un acido bibasico a funzione mista cioè come formato da un acido monobasico forte e da un acido monobasico debole: esso assomiglia all’acido solforoso, selenioso, cromico, arsenico, fosforoso studiati dal Miolati. Per calcolare le frazioni di molecola richieste per neutralizzare una molecola di acido noi abbiamo dovuto introdurre nel calcolo il peso mole- colare corrispondente a H; Fl... Allora si vede che quando si aggiunge per una mol. di H, FI, una mo- lecola di alcali si ha un minimo nel valore della conduttività specifica, cor- rispondente alla formazione di K:*|H Fi;: ed un’altra variazione brusca dei valori di conduttività quando è raggiunta la neutralizzazione completa. Il sale acido conduce meno del sale neutro almeno nelle soluzioni piut- tosto concentrate con le quali noi abbiamo operato. Fisiologia. — G% ordegni nervosi periferici del ritmo re- spiratorio nei pesci teleostei : Ricerche anatomiche e sperimentali (*). Nota del dott. UMBERTO DEGANELLO, già Aiuto nel R. Istituto Fi- siologico di Padova, ora Assistente volontario nella R. Clinica Me- dica di Roma, presentata dal Socio L. LUCIANI. La presente Nota è il breve riassunto di una serie sistematica di ri- cerche anatomiche e sperimentali, da me eseguite, sull’innervazione respira- toria dei pesci ossei: quanto prima sarà pubblicato il lavoro completo, cui questa Nota si riferisce. Tale lavoro ho diviso in due parti. Nella prima mi sono occupato, dal punto di vista anatomico, dei singoli muscoli che effettuano i diversi mo- vimenti respiratorî (origine, inserzione, innervazione, funzione di detti mu- scoli); indi dei zervz, centrifughi e centripeti, capaci di influenzare il ritmo respiratorio (loro decorso, rapporti topografici, tecnica per ricercarli nelle di- verse regioni). Nella seconda parte ho notato (valendomi della registrazione grafica) come avvengono, ed eventualmente come si modificano, i movimenti respiratorî (della mandibola e dell’opercolo) in seguito alla recisione dei sin- goli nervi centrifughi e centripeti. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto Fisiologico della R. Università di Roma (diretto dal prof. L. Luciani). — 280 — Il Sulla guida del fondamentale lavoro di Vetter (') ho eseguito delle preparazioni anatomiche nei pesci ossei 7'e/estes muticellus, Barbus flu- viatilis mettendo in evidenza i diversi muscoli respiratorî ed ho trac- ciato un quadro ordinato e succinto delle potenze muscolari (e delle rispet- tive innervazioni) che effettuano i singoli movimenti «) della mandibola 6) dell'’opercolo c) degli archi branchiali, dal complesso dei quali movimenti risulta il meccanismo respiratorio, A tutti questi movimenti provvede, nei pesci teleostei, quasi da sola (cioè coll’aiuto di un unico muscolo apparte- nente alla categoria dei muscoli parietali, del muscolo sterno-joideo, che è innervato dal I 4 II nervo spinale) la categoria dei muscoli viscerali, i quali formano la muscolatura delle mascelle, degli opercoli, e degli archi branchiali. I muscoli viscerali in discorso sono innervati dal V 4 VII e dal IX + X paio di nervi cerebrali. Da un punto di vista principalmente funzionale e schematico io divi- derei l'insieme dei suddetti muscoli (muscoli respiratorî) in due grandi gruppi: @ e ft. «) Muscoli destinati a muovere la mandibola e l'opercolo. I movimenti trasmessi a questi due sistemi ossei (mandibola e opercolo) costituiscono, per quanto mi sembra, la parte fondamentale della meccanica respiratoria, avendo lo scopo di aspirare acqua nella cavità oro-branchiale e di espellerla poi dalla medesima cavità. Tutti questi muscoli, ad eccezione di uno, sono in- nervati dal V e dal VII (nervi che hanno tra loro assai stretti rapporti anatomici). Il solo muscolo sterno-joideo, deputato ad abbassare la mandi- bola è innervato da un ramo (R. anteriore) dei due primi nervi spinali. 8) Muscoli destinati a muovere gli archi branchiali, collo scopo prin- cipale di offrire, nell'atto inspiratorio, la massima superficie di contatto al- l'acqua che passa attraverso le fessure branchiali. Tutti questi muscoli (ad eccezione del muscolo jo-joideo innervato da un ramo del VII) sono inner- vati esclusivamente dal IX e dal X, che hanno tra loro così stretti rapporti anatomici da essere, morfologicamente, considerati in un solo gruppo (Wie- dersheim). Com'è facile comprendere, lo studio anatomico particolareggiato (con cenni sull’innervazione e sulla funzione) dei suddetti muscoli permette di penetrare un po' nei particolari del meccanismo respiratorio, particolari che, fino ad ora, furono addirittura trascurati. Infatti il meccanismo respiratorio dei pesci venne studiato finora, sia pure con tecnica rigorosa, soltanto nelle (1) Vetter B., Untersuchungen zur vergleichenden Anatomie der Kiemen-und Kie- fermusculatur der Fische, II T'heil. Jen. Zeitschr. f. Naturwissenschaft, B. 12, 1878. S. 431-550 — 281 — sue generalità, nel suo complesso, cioè come la risultante delle azioni com- plesse di numerosi muscoli i quali vi concorrono attivamente. Ma per non uscire dai limiti di spazio imposti a questa Nota sono co- stretto di omettere, qui, la descrizione particolareggiata tanto dei muscoli respiratorî quanto dei diversi nervi (centrifughi e centripeti) dell'apparecchio respiratorio. Anche la descrizione della tecnica da me impiegata nella ricerca Fic. 1. — Nervi (centrifughi e centripeti) dell'apparecchio respiratorio di Bardus fluo. e di Z'elestes mut. (Schema eseguito in base a preparati originali). Ro, Ramo oftalmico. — R,, Ramificazioni di esso. — Rm, Ramo mascello-mandibolare. — Nms, Nervo mascellare superiore. — Nmi, Nervo mascellare inferiore. — Mi,, Ramificazione principale di questo nervo, la quale innerva i fasci posteriori del musce. adductor mandibulae. — Ro, Ramo opercolare nel suo decorso lungo la faccia interna dell’osso preopercolare (POP). — Ros, Questo ramo nel suo decorso entro il canale osseo del POP. — Ro, Questo ramo nel suo decorso lungo la faccia esterna del POP. — IX, Nervo glossofaringeo. — RbX, Rami branchiali del nervo vago. — Rlv, Ramus lateralis vagi. [IX, RbX, Rlv, sono disegnati quali si riscontrano nel Z’elestes mut. — Tutti gli altri rami nervosi sono disegnati quali si riscontrano nel Bardus fluv.]. B, Bulbo. — Cer, Cervelletto. — Lo, Lobi ottici. — C, Cervello. — POP, Osso preo- percolare. — O, Osso. opercolare. — SO, Osso subopercolare. — IO, Osso intero- percolare. — N, Fossa nasale. di tali nervi (dietro la guida di numerose preparazioni anatomiche che ho eseguito sul Barbdus e sul Zelestes) deve essere qui, per la suddetta ragione, completamente omessa. II Ho eseguito le mie esperienze su due specie di pesci ossei (Bardus /luv., Telestes muticellus) collo scopo di determinare l'influenza che i diversi nervi, principalmente cranici (centrifughi e centripeti), esercitano sul ritmo respi- — 282 — ratorio di detti animali. Per lo studio di questo argomento ho impiegato il metodo grafico e mi sono servito della recisione (o dello strappo) dei sin- goli nervi in punti diversi del loro decorso. Ho registrato graficamente i movimenti della mandibola e insieme quelli dell'opercolo, serrendomi, nello stesso tempo, a scopo di sussidio e di controllo, anche della semplice osser- vazione diretta dei suddetti movimenti. Di ogni animale registravo prima tali movimenti a nervi intatti; indi facevo la stessa registrazione dopo aver reciso (o strappato) un determinato o determinati rami nervosi. Affinchè le grafiche precedenti la recisione ner- vosa fossero il più esattamente confrontabili colle grafiche che si ottenevano dopo la recisione (o strappamento) del nervo, io preparavo sull'animale — prima di qualsiasi registrazione — il nervo che volevo recidere, bene iso- landolo in modo che per aggredirlo (a momento opportuno) non occorreva altro che divaricare i lembi della ferita già fatta e recidere semplicemente il nervo preparato: così procedendo veniva ridotto (dopo la prima registra- zione) al minimum indispensabile il trauma che era necessario per la reci- sione del ramo nervoso. Il più delle volte, poi, la recisione (o strappo) del nervo veniva ese- guita lasciando l'animale perfettamente immobile nell'apparecchio di fissa- zione, per cui tutte le condizioni dell'esperimento, sia prima che dopo la recisione del nervo, rimanevano invariate. La registrazione grafica contemporanea del duplice movimento fu ese- guita mediante un doppio miografo secondo le norme indicate da van Ryn- berk (*) e descritte per esteso da Kuiper (?). Mi limito, qui, a riassumere, brevemente, in modo sintetico, i risultati ottenuti. 1°. Za recisione uni- e bi-laterale del r. oftalmico (entro la cavità orbitale) non modifica in alcun modo il ritmo respiratorio dei pesci ossei. 2°. La recisione uni- e bi-laterale del r. lateralis vagi non pro- duce alcuna modificazione del ritmo respiratorio. 3°. La recisione uniiaterale del nervo mascellare superiore (entro l'orbita) fa diminuire la frequenza degli atti respiratorî e rende meno ampî i movimenti sia della mandibola che degli opercoli (fig. 2, 3). Tali modifi- cazioni del ritmo respiratorio sono rese ancora più intense dalla reczsione bilaterale del nervo in discorso (fig. 4, 5). 4°. La recisione uni- e bi-laterale del nervo mascellare superiore e del r. oftalmico dà risultati analoghi a quelli della recisione uni- e bi- laterale del solo nervo mascellare superiore. (1) Van Rynberk G., Ricerche sulla respirazione dei Pesci. Meccanismo e riflessi respiratorir. Rendic. della R. Accad. dei Lincei, vol. XIV, serie 5%, pp. 708-718, 1905. (?) Kuiper T., Untersuchungen ber die Atmung der Teleostier. Pfliger's Archiv, Bd. 117, 1907. — 283 — 5°. La recisione bilaterale del r. oftalmico, del nervo mascellare superiore e del r. lateralis vagi produce modificazioni del ritmo respiratorio analoghe a quelle che si manifestano dopo la recisione bilaterale del solo nervo mascellare superiore (fig. 6, 7): nel primo caso però (recisione simul- tanea dei tre rami nervosi) le modificazioni sono più intense che non nel secondo caso (recisione del solo nervo masc. sup.). AAA Ni \ Fia. 2(?). Fic. 3. Barbus. fluv. (gr. 220, cc. 215). Temp. dell'acqua 13° C. — 29. III. 1907. Fic. 2, prima della recisione (72 respir. al 1’). — Fic. 3, dopo la recisione unilat. del n. ma- scellare sup. entro l'orbita (60 respir. al 1’). V. pag. 282, 3°. 6°. Za recisione unilaterale dei rami branchiali (del IX e del X) fa diminuire la frequenza degli atti respiratorî nonchè l'ampiezza delle escur- sioni mandibolari e opercolari (fig. 8, 9). Tali modificazioni del respiro aumen- tano di intensità se si fa la recisione bilaterale dei detti rami (fig. 10), e si esagerano ancora di piu se in luogo della recisione si fa lo strappo dei medesimi tanto da determinare, in quest’ultimo caso, la cessazione del respiro dopo 20'-30' dallo strappo (per schok ?). 7°. La recisione unilaterale del nervo mascellare inferiore (0 nervo mandibolare) entro il cavo orbitale (un po’ distalmente al punto in cui esso (1) In questa figura e nelle seguenti, ove non esistano indicazioni speciali, il trac- ciato superiore rappresenta i movimenti dell’opercolo (tratti discendenti = abduzione dell’opercolo, tratti ascendenti = adduzione dell’opercolo), il tracciato inferiore rappre- senta i movimenti della mandibola (tratti ascendenti = abduzione della mandib., tratti discendenti = adduz. della mandib.) — Il tempo è segnato in secondi al disotto del- l’orizzontale. — 284 — nenti Fia. d. Telestes mut. (gr. 140, ce. 136). Temp. 12°. — 21. IV. 1907. Fic. 4, dopo la recisione unilaterale del nervo mascellare sup., entro l’orbita (75 resp. al 1°). Fic. 5, dopo la recisione bilaterale del nervo mascellare sup., entro l'orbita (63 resp. al 1’). V. pag. 282, 3°. li doi — Fic. 6. Fia. 7. Telestes mut. (gr. 250, ce. 245). Temp. 16°. — 15. IV. 1907. Fic. 6, prima della recisione (75 respir. al 1°). Fre. 7, dopo la recisione bilaterale del r. oftalmico e del nervo mascellare sup. (entro l’orbita), nonchè del r. lateralis vagi (sulla regione dorso- laterale del tronco): 60 respir. al 1". — V. pag. 283, 5°. Queste due Fig. sono ridotte a */s dell’originale. RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. ©8 — 286 — sì separa dal nervo mascellare superiore) lascia immutata la frequenza del respiro o la fa leggermente aumentare, fa diminuire l'ampiezza delle escur- sioni mandibolari e aumentare leggermente l'ampiezza delle escursioni oper- colari. La recisione bilaterale del nervo mascellare inferiore (entro la cavità orbitale) dà effetti differenti a seconda del punto in cui si recide il nervo: a) se lo sì recide al disotto del punto in cui esso si separa dal nervo ma- Fic. 8. T'elestes mut. (gr. 120, cc. 116). Temp. 10°. — 12. II. 1907. Fic. 8, prima di qualsiasi recisione (95 respir. al 1°). — V. Fig. 9, 10. scellare superiore, cioè al di sotto di quel ramo nervoso che si stacca dal nervo mandibolare a livello del margine anteriore del musculus levator arcus palatini e che anima i fasci posteriori e inferiori del musceulus adductor mandibulae, in questo caso, la frequenza del respiro rimane immutata o lie- vemente aumentata e la mandibola continua a muoversi sebbene con minore ampiezza di prima; gli opercoli invece compiono escursioni leggermente più ampie di prima. — Se la recisione si esegue è) un po' più prossimalmente, cioè nel punto in cui il nervo mandibolare si separa dal nervo mascell. sup., si ottiene l’immobilità della mandibola, mentre gli opercoli continuano a muo- versi ritmicamente colla stessa frequenza ed ampiezza di prima. — Se la recisione vien fatta c) al di fuori della cavità orbitale. cioè yentralmente ad essa, non sì ottiene alcuna modificazione negli atti respiratorî. Ciò si spiega tenendo presente che i rami muscolari più importanti (destinati al muse. — 287 — adduetor mandibulae e al muse. dilatator opereuli) si staccano al di sopra del punto in cui fu fatta questa recisione. 8°. a) La recisione unilaterale del r. mascello-mandibolare nel suo tratto prossimale (prima della sua entrata nell'orbita) fa diminuire la fre- Fic. 10. Telestes mut., quello stesso della Fig. 8 (gr. 120, cc. 116). Temp. 10°. — 12. II. 1907. Fic. 9, dopo la recisione unilaterale dei rami branchiali (del IX e del X): 65 respir. al 1’. Fic. 10, dopo la recisione bilaterale dei rami branchiali (del IX e del X): vò respir. al 1. — V. pag. 283, 6°. quenza del respiro nonchè l'ampiezza dei movimenti mandibolari e dei mo- vimenti di quell’opercolo che corrisponde al lato operato. Aumenta invece l'ampiezza dei movimenti di quell'opercolo che corrisponde al lato non ope- rato: probabilmente questo opercolo tende a compensare la diminuita fun- zione dell'altro. — 288 — La recisione bilaterale del r. mascello-mandibolare nel suo tratto prossimale (come sopra) immobilizza la mandibola e gli opercoli. Questi risultati si spiegano tenendo presente che al di sotto del taglio si staccano dal r. mascello-mandibolare, il nervo mascellare inferiore (y. ri- sultati della recisione di questo), nonchè il nervo mascellare superiore (v. ri- sultati della recisione di questo), e inoltre quel ramo nervoso che si reca al musce. dilatator operculi, muscolo che, si può dire, da solo compie l'abdu- zione dell'opercolo rispettivo. b) La recisione uni- e bi-laterale del r. mascello-mandibolare nel suo tratto distale (entro il cavo orbitale) da risultati analoghi a quelli ac- cennati in 8° 4) per quanto riguarda la frequenza del respiro e i movimenti della mandibola; per quanto riguarda i movimenti dell'opercolo, essi riman- gono più o meno alterati a seconda che il taglio cade al di sotto o al di sopra del punto, da cui si stacca il ramo nervoso che si porta al muse. dilatator operculi. 9°. I) Za recisione unilaterale del r. opercolare nel tratto in cui esso si porta dal cranio all'opercolo, non influenza punto nè la frequenza nè l'am- piezza dei movimenti respiratorî. Ciò si spiega tenendo presente che i pic- coli rami nervosi i quali si distribuiscono al muse. adduetor operculi e al muse. levator operculi si staccano dal r. opercolare al di sopra del punto in cui è possibile praticare, ivi, la recisione del nervo in discorso. II) Strappando invece il r. opercolare (di un lato) all'altezza sopra in- dicata, la frequenza del respiro talvolta diminuisce, rimangono immutati i movimenti dell’opercolo corrispondente al lato non operato, mentre dimi- nuisce notevolmente l'ampiezza delle escursioni compiute dall’opercolo del lato leso (talvolta si ottiene l’ immobilità di quest’ ultimo opercolo). Le escur- sioni della mandibola si fanno leggermente più ampie (fig. 11-13). — Ponendo in rapporto quest ultimo fatto coll’altro, già constatato, che in seguito a re- cisione del nervo mascellare inferiore la diminuita ampiezza dei movimenti mandibolari si accompagna, talvolta, a un aumento d’ampiezza dei movimenti opercolari, si rileva la tendenza in questi due apparati — mandibola, oper- colo — (o meglio nei loro ordegni motori) di compensarsi a vicenda. Nei casi in cui allo strappamento bilaterale del r. opercolare succede l'immobilità d’'ambedue gli opercoli, la mandibola continua tuttavia a muo- versi da sola per qualche ora. Devo infine aggiungere che i rapporti reciproci fra movimenti della man- dibola e movimenti dell’opercolo si conservarono sempre come di norma in tutte le esperienze praticate. Brevi considerazioni. I risultati di queste ricerche depongono a favore dell’ importanza che hanno gli impulsi centripeti (originanti specialmente dalla mucosa del logo — Pic. dl. Fic. 12. \ASADNSLANDIANNI Fic. 13. Telestes mut. (gr. 120, cc. 116). Temp. 12°. — 22. II. 1907. Fic. 11, prima dello strappamento. (Il tracciato superiore rappresenta i movimenti del- l’opercolo di sinistra). Fic. 12, dopo lo strappamento del r. opercolare di sinistra, nel tratto in cui esso si porta dal cranio all’opercolo. (Il tracciato superiore rappresenta i movimenti del- l’opercolo di destra, lato non operato). Fic. 13, come nella fig. 12. (Il tracciato superiore rappresenta i movimenti dell’opercolo di sinistra, lato operato). V. pag. 288, 9°, IL — 290 — cavo orale, tratto superiore, e dal labbro superiore) nel determinare, in via riflessa, gli atti respiratorî dei pesci teleostei. Infatti, da quanto abbiamo visto, possiamo in via d'ipotesi dedurre che il nervo mascellare superiore principalmente (nervo che provvede di fibre centripete la muccosa orale, tratto superiore, e il labbro superiore) possiede un tono sui centri respira- torî per il fatto che la recisione di esso diminuisce la frequenza e l’am- piezza di tali movimenti. A questo riguardo anzi è da notare che mentre la recisione bilaterale del solo r. oftalmico, o quella del solo r. lateralis vagi non esercita alcuna influenza sul meccanismo respiratorio, gli effetti che si ottengono qualora alla recisione bilaterale simultanea di questi due nervi si associ la recisione bilaterale del nervo mascellare superiore sono più marcati che non nei casi in cui si recide il solo nervo mascellare superiore d'ambo i lati. Questo fatto si può, forse, spiegare nel senso che fin che è il- leso il nervo mascellare superiore (come il più importante, fra ì tre rami nervosi, — per quanto risulta dalle mie ricerche — apportatore di impulsi ai centri respiratorî) esso supplisce, compensa la mancata funzione degli altri due nervi (r. oftalmico, r. lateralis vagi): quando poi viene preso di mezzo anche il nervo mascellare superiore è tolta la possibilità di un tale com- penso, e per ciò si ottengono effetti maggiori. Trattandosi però, in questo caso, della recisione simultanea di 6 rami nervosi (3 per lato) non è da escludersi che anche il trauma contribuisca a provocare le già descritte mo- dificazioni del respiro, per quanto esse siano state ottenute (impiegando le cautele accennate) dopo un trauma che era ridotto al minimum indispensa- bile per ottenere lo scopo. I pesci teleostei si comporterebbero, sotto questo riguardo, un po' diversamente dai vertebrati superiori (mammiferi). Difatti in questi ultimi tutti i nervi centripeti, all'infuori del vago, capaci di in- fluenzare in via riflessa la meccanica respiratoria, sono normalmente inattivi e non entrano in attività che quando sono eccitati ad arte o per stimoli ac- cidentali, abnormi, alla periferia [Luciani (*)]. Nei mammiferi, tutti i sud- detti nervi centripeti (ad eccezione del vago) non possiedono zormalmente un tono perchè la loro soppressione non determina alcuna apparente altera- zione del respiro [Luciani (*)]. Per ciò che riguarda il v490, un fatto comune tanto ai pesci teleostei che ai mammiferi si verifica dopo la recisione di tale nervo ottenendosi sempre, in questo caso, una diminuzione nella frequenza degli atti respiratorî. Però nei mammiferi tale diminuita frequenza è accompagnata da una maggiore am- piezza delle escursioni respiratorie [respirazioni dispnoiche, Luciani (*)]; nei teleostei, invece, queste escursioni oltre che rare si fanno anche meno ampie. Fatti analoghi si ottengono ancora per altre condizioni: la scarsezza di O e (1) Luciani L., Fisiologia dell'uomo, vol. I, cap. XIII, pp. 401-462, 1° edizione, Milano 1901. (*) Luciani L., op. cit., loc. cit. — 291 — l'eccesso di CO° nell'ambiente in cui respirano i teleostei lungi dal produrre dispnea come la produrrebbero nei vertebrati superiori, dànno luogo alle stesse alterazioni respiratorie [diminuzione di frequenza e d’ampiezza dei movimenti respiratorî, Kuiper (!)] che si verificano dopo il taglio dei vaghi; anche il dissanguamento agisce sul respiro dei teleostei in modo analogo [Van Ryn- berk (*)]. Le alterazioni respiratorie consecutive alla recisione del vago (rami bran- chiali) nei teleostei possono dipendere dalla paralisi che si verifica in pa- recchi muscoli delle arcate branchiali, animati, come abbiamo visto, da fibre dei rami branchiali del IX + X. La paralisi di questi muscoli può influire (ostacolando) sui movimenti della mandibola e dell’opercolo che sono, probabilmente, connessi coi mo- vimenti degli archi branchiali. Ma non è da escludere, per quanto mi sembra, che dette alterazioni respiratorie dipendano anche (e forse in maggior mi- sura) dalla soppressione delle fibre centripete del vago (rami branchiali), le quali eserciterebbero quindi sul meccanismo respiratorio un'azione tonica (ec- citatrice), simile a quella esercitata dal nervo mascellare superiore nei te- leostei e a quella (pure tonica e prevalentemente eccitatrice) esercitata dal vago sul meccanismo respiratorio dei vertebrati superiori. Mentre nei teleostei, adunque, l’azione tonica eccitatrice dei movimenti respiratorî viene esercitata, per via riflessa, oltre che dal vago (che trasmette al centri respiratorî le eccitazioni provenienti dalla mucosa degli archi bran- chiali) anche dal nervo mascellare superiore (che trasmette ai centri respi- ratorî le eccitazioni provenienti dalla mucosa del cavo orale, tratto superiore, e dal labbro superiore), nei vertebrati superiori tale azione tonica, e preva- lentemente eccitatrice, è disimpegnata dal vago soltanto, e solo in via ecce- zionale, quasi ricordo atavico, può ridestarsi l’azione di qualche altro nervo centripeto (V, IX paio ecc.) sui centri respiratori. Non intendo addentrarmi qui nella dottrina generale dell’innervazione del ritmo respiratorio dei pesci: di essa mi occuperò diffusamente dopo che avrò terminata un’altra serie di ricerche, già iniziata, sugli effetti della sti- molazione dei nervi centripeti che sono capaci di influenzare la meccanica respiratoria, e sui centri nervosi del respiro. Qui mi limito soltanto a rile- vare l'importanza (senza però esagerarla) che, in base alle mie ricerche, è da attribuirsi agli stimoli periferici (svolgentisi specialmente nel campo della mucosa orale, del labbro superiore, e degli archi branchiali) come eccitatori del meccanismo respiratorio nei pesci ossei. (1) Kuiper ©°., loc. cit. (£ Van Rynberk G., per comunicazione orale. — 292 — Zoologia. — Sull’origine dei mitocondri e sulla forma- zione del deutoplasma nell’oocite di alcuni Mammiferi. Nota di AcHILLE Russo, presentata dal Socio B. GrassI. In precedenti pubblicazioni (!) dimostrai che nell’oocite della Coniglia una parte del materiale deutoplasmico proveniva dall'esterno e tale afferma- zione controllai con i risultati dell'esperimento. Difatti, mediante iniezioni sottocutanee o intraperitoneali di lecitina, compariscono nel vitello di tutte le ova quei corpi a struttura mielinica o cristalloidica, che normalmente sì rinvengono soltanto in talune di esse. Per la natura speciale delle citate ricerche però, avevo lasciato da parte altri elementi cromatici del vitello, dei quali tratterò brevemente in questa Nota preliminare. Mediante metodi specifici di conservazione e di colorazione e propria- mente conservando pezzi di ovaie con il metodo di Benda e colorando con l'’ematossilina ferrica, che il Van der Stricht (*) sostituì con successo al violetto-cristallo, originariamente adoperato dallo stesso Benda per mettere in evidenza l'apparato mitocondriale, sì scoprono nell’ooplasma dei granuli anneriti dai reattivi. Tali granuli, che in generale si ammette abbiano una reda- zione basofila, furono dal Benda denominati mitocondri e, se ordinati in serie, condromiti. È utile però qui osservare che nel vitello delle ova di varî animali, adope- rando altri metodi di conservazione furono anche osservate formazioni dasofile granulari o filamentose, le quali probabilmente corrispondono ai piccoli gra- nuli o granuli elementari, che io ho osservato precedentemente nell'ovo e fuori dell'ovo di Coniglia, dove furono pure messi in evidenza con gli ordinarî mezzi di conservazione. Anche nel protoplasma di altre cellule furono, come si sa, osservate formazioni basofile, le quali ebbero il nome di ergastoplasma o plasma attivo e superiore, di pseudocromosomi, ecc. Mettendo da parte la quistione della possibile identità di tali corpi figurati del protoplasma, per ritornare al mio argomento fo notare che, circa (‘) Russo A., Modificazioni sperimentali dell'elemento cpiteliale dell’ovaia dei Mam- miferi, ecc. Atti dell’Acc. dei Lincei. Roma, 1907 (in corso di stampa); Prime ricerche dirette a determinare la permeabilità e la struttura istochimica della zona pellucida nei mammiferi. Boll. Acc. Gioenia di Se. Nat. Catania, 1906; Differenti stati dei corpi cromatici nell'ooplasma dei mammiferi, ecc. Ibid., 1906. (2) Van der Stricht O., Za structure de l'euf des mammifères, Seconde partie; Structure de l’euf ovarique de la femme, Bulletin de l’Ac. Royale de Médicine de Bel- gique, 1905. — 293 — al significato dei granuli mitocondriali per la vita dell’oocite, si hanno varie interpretazioni, sebbene i più oggi propendano a credere che essi pren- dano direttamente o indirettamente parte attiva alla formazione del deuto- plasma. Circa alla loro origine non si è fin'oggi, per quanto io sappia, raggiunto l'accordo, perchè alcuni credono che essi si originino in seno al vitello per un'attività propria di questo, altri invece credono che provengano dal nucleo e ciò specialmente in base alla loro colorazione ed ai loro rapporti di con- tiguità. A complicare maggiormente il problema dell’origine dei corpi dasofili del vitello e forse anche ad ottenebrare la mente di coloro i quali si sono occupati di tale argomento con pregiudizî di scuola, sono recentemente ve- nuti i lavori della scuola di Riccardo Hertwig, fra i quali uno di Popofî (!), che riguarda più da vicino l'argomento. Questi pare abbia dimostrato che dagli oociti primitivi di Puludina vi- vipara, fin dallo stato di nuclei leptoteni, viene fuori dal nucleo una parte di sostanza cromatica, che forma i cromidi, che sarebbero formazioni simili all'apparato cromidiale, descritto prima da R. Hertwig e poi da Goldschmidt in vari Protozoi. Il Popoff però non ha osservato che tali cromzdi prendano parte attiva o diretta nella formazione del deutoplasma, sebbene dica che ein eingreifen der Chromidien in diesen Prozessen ist miglich! Da tali ricerche in ogni modo risulta che tra i cromidi ed i mitocondri esista una grande diffe- renza, il che lascia impregiudicato il quesito, che ora ci occupa. Per risolvere la quistione tanto dibattuta dell'origine dell'apparato mi- tocondriale nell’oocite, e partendo dal fatto, già da me rilevato nelle pre- cedenti pubblicazioni, cioè che le ovaie dei Mammiferi risentono le condi- zioni generali dell'organismo, ho instituito varî esperimenti di ipernutrizione, mediante somministrazione di Lecitina, e di denutrizione dell'animale, me- diante il digiuno completo o quasi, ovvero accoppiato con la gravidanza. Se, in seguito a tale trattamento, i condromiti del vitello fossero aumen- tati dopo la ipernutrizione delle coniglie o quasi del tutto scomparsi dopo il digiuno, non era più da dubitare che detti elementi, similmente ai corpi cromatici deutoplasmici acidofili provenivano dall'esterno. La mancanza dei cordromiti nel solo digiuno poteva d'altronde non ritenersi una prova sufficiente per simile affermazione, poichè, durante l’ina- nizione, le cellule possono usufruire dei materiali in esse accumulati; però la prova contraria, cioè il loro aumento per effetto della ipernutrizione, a mio (1) Popoff, Methodi - Eibildung bei Paludina vivipara und Chromidien bei Paludina und Helix, Archiv. fir Mikr. Anat., 1907. RempICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2°. Sem. 39 pi credere, non deve lasciare alcun dubbio sulla provenienza dall'esterno. A questa prova, che io ritengo diretta, si potrebbe obbiettare che la lecitina introdotta nell'organismo promuova indirettamente nell'oocite dei processi co- struttivi od anabolici, per cui in seno al vitello si organizzerebbero i condro- miti, se altre prove non dimostrassero il contrario. Difatti, dall'esame di moltissimi preparati fatti con il metodo di Benda su ovaie di coniglie sia ipernutrite, sia anche normali, si osserva sempre che i condromiti, nei più piccoli oociti specialmente, sono situati alla periferia del vitello, quasi in contatto con le cellule follicolari. Negli oociti con follicolo a cellule piatte non ho mai osservato quella tale couche vitellogène attorno alla vescicola germinativa e nel cui mezzo trovasi il nucleo vitellino, secondo le descrizioni di Van der Stricht. Tale disposizione deve essere ritenuta una alterazione dell'oocite, cosa del resto facilissima ad avverarsi nei preparati ottenuti con il metodo di Benda. Negli oociti con follicolo polistratificato e che sono già muniti di zona pellucida, altre particolarità attestano meglio l'origine estraovulare dei gra- nuli mitocondriali. Difatti, nella zona si osservano dei tratti radiali, che sono costituiti da granuli anneriti dai reattivi, simili ai condromiti del vi- tello e simili per la loro disposizione agli stessi elementi che si scoprono, come avanti ho detto, con la conservazione ordinaria. I granelli in quistione si osservano anche al di fuori della <0n4 e cioè nel protoplasma basale delle cellule coronali, formando quello strato che Waldeyer chiamò granuloso esterno, come al di sotto della zona, a contatto dell'ooplasma, nello spazio perivitellino, quando esso si è formato. Nelle ovaie di coniglie, fissate con il metodo Benda, dopo un lungo di- giuno, fino all'esaurimento quasi completo dell'individuo, i granuli mitocon- driali mancano nelle ova, in qualunque stadio esse si trovino. In questo caso il vitello si presenta chiaro e poco o punto colorato e similmente i granuli mancano nella zona pellucida, la quale perciò è incolora, come mancano alla base delle cellule coronali (!). I granuli mitocondriali, quando l'oocite comincia ad avere un follicolo bistratificato, si trovano per lo più ordinati in serie sulle maglie della rete protoplasmatica, che limita i vacuoli contenenti il materiale deutoplasmico liquido. Tale disposizione è affatto meccanica e propriamente determinata dalle correnti o dai movimenti attivi del protoplasma. Non mi pare perciò essere questo il caso di omologare tali serie di granuli, che spesso nelle sezioni si presentano come cordoncini, a formazioni similari del nucleo ed a sostenere perciò la loro provenienza nucleare. (?) Si osservarono tali fatti in modo evidentissimo in una Coniglia giovane tenuta in digiuno, subito dopo avere avuto il 1° parto. 2 — 295 — Nello stadio considerato, ma specialmente negli oociti più svilup- pati, tali cordoncini di granuli mitocondriali o cordromiti, mantenendosi sempre ad una certa distanza dalla vescicola germinativa, in alcuni punti si ingrossano per un accumulo di granuli, formando ciò che il Van der Stricht chiamò boyaux vitolligènes. Questi sono i punti in cui si formano i globuli deutoplasmici definitivi, che io con termine generale, nelle precedenti Note, denominai corpi cromatici e che riprodussi sperimentalmente mediante le iniezioni di lecitina. I granuli mitocondriali, di cui tali addensamenti risultano costituiti, non si tingono tutti in nero con il Metodo Benda e susseguente colorazione delle sezioni in ematossilina ferrica. Alcuni di essi sono affatto incolori ed altri grigiastri, il che fa supporre che già in tali addensamenti comincia ad avve- nire una trasformazione chimica dei granuli, i quali, essendo in origine con reazione basofila, diventano acidofili. Questi granuli a reazione acidofila, fondendosi fra di loro, costituiscono i grossi globuli deutoplasmici, i quali, con il metodo specifico (Benda) ado- perato, restano quasi incolori, però sempre ben visibili per la tinta grigiastra. Tali globuli possono però essere messi bene in evidenza da un colore di fondo ed a tale scopo ho adoperato in preferenza il Zichtgrén, che li tinge in un bel verde, mentre i mitocondrî restano colorati in nero. A sviluppo inoltrato dell’oocite spesso si osserva che i grossi globuli deutoplasmici acidofili sono circondati da granelli mifocondriali e questo è, secondo me, l'ultimo stadio di formazione dei corpi figurati del deutoplasma definitivo. Nell'insieme di questo aggruppamento perciò si può riconoscere l’ultimo stadio di trasformazione dei doyaux vitellogènes. Questa opinione viene confermata anche dal fatto che talora fra lo spessore del globulo deutoplasmico acidofilo, che si è formato per la fusione dei granuli mito- condriali divenuti acidofili, persistono uno o più granuli mitocondriali a reazione basofila, che si mostrano come punti neri. A sviluppo completo dell’oocite, quando in esso si è formato tutto il materiale deutoplasmico, che accompagna l'ovo nel suo ulteriore destino, per- sistono ancora i granuli mitocondriali, i quali sono sparsì in tutta la massa ooplasmica, mentre fra loro sono intercalati i globuli deutoplasmici acidofili. Da quanto succintamente ho esposto, risulta in primo luogo che i corpi basofili del protoplasma, almeno per ciò che riguarda l'oocite, derivano dal- l'esterno e che i nomi così diversi loro dati e le tendenze così diverse, che fin'oggi si contesero il primato per assegnare ai corpi stessi un'origine ed un significato funzionale, rappresentano nella scienza un vero caso di /ogomachia. I corpi dasofili mitocondriali sono il primo stadio di formazione di quegli altri corpi a struttura per lo più mielinica ed acidofili, che compon- gono la parte più rilevante del materiale deutoplasmico di alcune uova. — 296 — L'affermazione, che precedentemente avevo espresso, cioè che tale mate- riale proveniva dall'esterno, vale adunque anche per i mitocondri, i quali, come si è detto, furono fatti aumentare nel vitello mediante la ipernutrizione, ovvero scomparire per opera del digiuno. Resta con ciò impregiudicata la questione dell’esistenza o meno di un apparato cromidiale nel senso di Riccardo Hertwig e dei suoi allievi, il quale apparato potrebbe essere qualche cosa a sè ed in relazione col nucleo, in modo da giustificare l'ipotesi della dinuclearità delle cellule. Batteriologia casearia. — Studi sulla fabbricazione razionale del formaggio di Grana('). Nota del prof. CosrANTINO GORINI, pre- sentata dal Socio G. BRIOSI. Il formaggio detto Grana è uno dei principali rappresentanti del casei- ficio nazionale e particolarmente della Valle del Po, dove se ne fabbricano due tipi: uno, specialmente in Lombardia, che va sotto il nome di Lodi- giano; l'altro, specialmente nell'Emilia, che corre sotto le denominazioni di Parmigiano e Reggiano. Partendo dal concetto che, essendo i formaggi un prodotto di fermen tazioni legate in massima parte alla vita di microrganismi, la loro prepa- razione e maturazione non possano venir convenientemente regolate senza la esatta conoscenza della natura e del lavorìo di questi, così non appena nel 1901, colla nomina a professore nella R. Scuola Superiore di Agricoltura in Milano, ebbi opportunità di allargare le mie ricerche di batteriologia lattiera (che datano dal 1890 (?)), impresi a studiare il Grana dal punto di vista biologico. Il compito che mi sono prefisso non è solamente scientifico, ma altresì pratico, mirando a trarre dalla microbiologià e dalla igiene norme razionali da sostituire alle empiriche che tuttora dominano la fabbricazione del Grana, come di altri caci. Ho diviso quindi il programma dei miei studi in tre parti: 1. Ricerche di laboratorio; 2. Esperienze pratiche; —. \ 8. Prove industriali. \ \ \ (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Batteriologia della R. Scuola superiore di agri- coltura di Milano. Inviato all'Accademia il 30 Giugno 1907. (8) V. Lavori dei laboratori scientifici della Direzione di Sanità, 1892; Rivista d’Igiene e Sanità Pubblica, 1893 e Hygien. Rundschau 1893. — 297 — 1. Ricerche di laboratorio. — Delle ricerche, che furono eseguite nel Laboratorio di batteriologia della R. Scuola Superiore di Agricoltura di Mi- lano, alcune formarono già argomento di comunicazioni alla R. Accademia dei Lincei ('), al R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere (2), alla Società Chimica di Milano (3), e furono pubblicate anche su riviste straniere della specialità (4). Altre si trovano tuttora in corso, procedendo esse parallela- mente colle prove pratiche e industriali. Qui mi limiterò a riassumere dai risultati delle ricerche quanto è neces- sario per comprendere l'indirizzo che ho dato alle prove pratiche ed indu- striali. Il Grana appartiene alla classe dei formaggi a pasta dura o cotta. È noto che, per spiegare la maturazione di questi formaggi, sono state tirate in campo parecchie specie o meglio parecchi gruppi di microbi. Ricordo fra i principali: il gruppo dei B. peptonizzanti indicati dal- l’Adametz di Vienna, il gruppo dei B. lattici sostenuti dal Freudenreich di Berna, il gruppo degli anaerobi e segnatamente dei fermenti butirrici addi- tati dal Weigman di Kiel; io stesso ho designato quel gruppo di bacteri che feci conoscere nel 1892 sotto il nome di dacteri acido-presamigeni (P). A questo proposito mi trovo costretto ad alcune dichiarazioni. Mentre esprimo la mia soddisfazione per l'interesse e l’importanza che in questi ultimi tempi, da varie ed autorevoli parti, si va riconoscendo ai bacteri acido-presamigeni nel caseificio, non posso a meno di manifestare il mio rircrescimento nel vedermi attribuire da taluno l'opinione che questi bacteri siano i piè importanti agenti di maturazione dei caci (9). Ora, potrà anche darsi che questo sia il caso per alcune qualità di formaggio; tuttavia ci tengo a dichiarare che io non ho mai sostenuto una simile tesi; fin dal 1894 ho avanzato l'ipotesi che i bacteri acido-presamigeni, in grazia della loro ca- pacità di peptonizzare la caseina in ambiente acido, fossero in grado di par- tecipare al processo di maturazione. Questa ipotesi fu poi da me stesso e in seguito da altri esperimentatori riconosciuta fondata; oggi infatti si può ben dire che in tutti i formaggi a pasta dura fu riscontrata la presenza di bacteri acido-presamigeni-pepnotizzanti (”), ma non da soli, sibbene accanto (*) Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, 1902, v. XI, pag. 159: 1905, v. XIV, pag. 396. (3) Rendiconti del R. Ist. Lomb. di sc. e lett., 1901, serie 2°, v. 34°; 1904, serie 2°, v. 37°, pag. 74; Ibidem, pag. 989; 1906, serie 2%, v. 39°, pag. 286; 1907, serie 2°, v. 40°, (3) Annuario della Società Chimica di Milano, vol. XI, fasc. 2°, 1905. (4) Revue gènérale du lait, 1902, vol. I, n. 8; 1904, vol. III, n. 22; 1904, vol. IV, n. 4; 1906, vol. V, n. 8; 1907, vol. VI, n. 8; Centralblatt fir Bakterioiogie ete., 1902, II Abt., Bd. 8, pag. 137; 1904, II Abt., Bd, 12, pag. 78; Milchwirthschaft. Centralblatt, 1905, H. 11, pag. 494 ed altri (Molkerei-Zeitung di Berlino etc.). (5) V. miei lavori sub 4). (5) Giornale della R. Società It. d’igiene, 1894. (?) Cfr. fra gli altri: @) per il formaggio Emmenthal, Landw. Jahrb. d. Schweiz, SIPIR.— ai fermenti lattici propriamente detti, come io stesso ebbi a dimostrare per il Grana (!). Cosicchè, allo stato odierno delle nostre cognizioni, i gruppi bacterici meglio quotati, meglio legittimati come agenti maturatori dei caci a pasta cotta sono certamente i fermenti lattici e gli acido-presamigeni. To però (come già accennai altra volta) non credo che l'intervento di altri gruppi bacterici sia da escludersi del tutto e in ogni caso. La mia opinione è che alla maturazione normale del Grana possano contribuire parecchie specie microbiche in simbiosi. Quest'è la conclusione a cui mi sento condotto, in base a numerose e ripe- tute analisi sia microscopiche (col metodo delle sezioni già da me proposto (?)) sia culturali, che eseguii sopra molti formaggi in differenti momenti della loro fabbricazione, in differenti stadî della loro maturazione, e fabbricati in diverse località. Dicendo possano non intendo dire debbano. Verosimilmente non tutte le specie microbiche che si trovano in un formaggio sono necessarie alla sua maturazione; forse, vi sarà da distinguere fra una flora microbica fondamen- tale (costituita, nel caso presente, da fermenti lattici e da bacteri acido- presamigeni) ed una flora accessoria, la quale interverrebbe soltanto a creare certe varietà di formaggi. Del resto non è da dimenticare che anche di fer- menti lattici e di acido-presamigeni se ne hanno parecchi tipi e razze. Ora io penso che, a seconda della natura delle specie microbiche nonchè delle proporzioni rispettive in cui esse si sviluppano, il processo di maturazione, pur restando nei limiti della normalità, prenda una piega, un'intonazione piut- tosto che un'altra. È noto infatti quanta diversità di caratteri presenti il nostro Grana, quanta poca uniformità di gusto, odore, colore, struttura ecc. Queste differenze sono senza dubbio in rapporto coi pascoli, col clima, colla mano d'opera; io penso però che lo siano anche colla natura dei fermenti; ed anzi che molte influenze foraggiere, climatiche, tecniche si risolvano in ultima ratio in in- fluenze microbiche. Comunque sia di ciò, il concetto che io mi sono formato sulla pluralità degli agenti maturatori del Grana, vale a giustificare il metodo che ho escogitato per influire sull’indirizzo del processo di maturazione dello stesso. 1904 e segg. (De Freundenreich e Orla Jensen); 4) per il formaggio Edam, Revue Gèné- rale du lait, VI, n. 11, 1907 (Boekhout e De Vries); c) per il formaggio Cheddar, Report of the Agric. Exper. Station of the Univ. Wisconsin, 1904 (Russel e Hastings); Centralbl. f. Bakter. Abt. II, Bd. XII, n. 19-21 (Boekhout e De Vries). (1) Rend. R. Ace. Lincei, 1905, vol. XIV, pag. 396. (2) Rend. R. Ist. Lomb. se. e lett, 1904, serie 22, vol. 37°, pag. 74. Se — 299 — Questo metodo si appoggia sopra due cardini: ]. regime igienico della stalla e del caseificio; 2. aggiunta di colture bacteriche pure, dette comunemente fermenti selezionati. Col regime igienico miro a diminuire la carica microbica naturale del latte, e segnatamente quella dei microorganismi pericolosi, senza sopprimerla del tutto; coll'aggiunta dei fermenti selezionati tendo ad imprimere un deter- minato orientamento al lavorìo microbico nel formaggio, senza soppiantare la flora naturale. Tanto il complesso delle norme costituenti il regime igienico (!), quanto le ‘ culture bacteriche costituenti i fermenti selezionati sono e devono essere frutto delle osservazioni pratiche e delle ricerche di Laboratorio che son venuto e che vado tuttora facendo. Da molte parti mi si è domandato perchè io non sottoponga il latte a qualche trattamento di sterilizzazione, Senza dubbio l'ideale del batteriologo caseario deve consistere nel pre- parare prima un latte sterile, cioè privo di flora naturale, e nell'addizionarlo poscia delle specie microbiche che sono necessarie e sufficienti alla produ- zione del cacio. Ma questo ideale presuppone la soluzione di due problemi che io non ritengo ancora risolti, almeno per rispetto al Grana, e cioè: 1. che vi siano mezzi pralici per ottenere latte sterile, amierobico, senza alterarne le proprietà coagulanti e caseificanti ; 2. che si conoscano appieno gli agenti e i processi fermentativi che presiedono alla maturazione del formaggio. Allo stato attuale delle nostre cognizioni credo conveniente accontentarsi per ora di aspirazioni più limitate. Il metodo da me scelto invece non apporta nessuna modificazione alle qualità del latte, e in pari tempo non sopprime gli altri agenti di matura- zione che eventualmente fossero necessari, oltre a quelli che vi vengono ar- tificialmente introdotti colle culture pure; esso tende semplicemente a pre- parare a queste ultime il terreno favorevole perchè possano spiegare la loro influenza. 2. Espertenze pratiche. — Fissati così i punti fondamentali del metodo, io non mi sono indugiato [come si fece altrove sotto l’influsso di idee, a mio credere, troppo unilaterali sui fattori del cacio] in tentativi per fabbricare dei formaggi anormali da Gabinetto, arrivando a risultati i quali, per le condizioni eccezionali in cui sono ottenuti, non si prestano a deduzioni pratiche. (1) Fra le mie ricerche relative al regime igienico mi piace ricordare specialmente quelle sui bacteri dei dotti galattofori delle vacche in rapporto all’ igiene della mungi- tura (R. Acc. Lincei 1902; R. Ist. Lomb. 1906 e 1907). ù — 300 — Ritenni bensì opportuno di passare senz'altro alla seconda fase del mio programma, di tentare cioè l'applicazione pratica del metodo; ciò feci sia nell'interesse immediato della pratica stessa, sia per acquistare lumi ed indizi circa l'importanza di certe norme igieniche e l'influenza di determinate specie microbiche sulla riuscita del Grana. L'essenziale stava nel far sì che le prove pratiche fossero condotte coi metodi e coi mezzi necessari perchè i risultati riuscissero attendibili, e con- vincenti per tutti, tecnici e pratici. Debbo all'illuminata e generosa coopera- zione di un gruppo di agricoltori lombardi (') nonchè agli aiuti del Ministero di agricoltura e della Direzione della Scuola di Milano, se ho potuto fx dal luglio 1903 ottemperare alla bisogna, istituendo le prove col seguente indirizzo che ben merita di essere chiamato scientifico-pratico: 1. Prove eseguite nelle condizioni abituali di fabbricazione del Grana, e cioè: a) in un caseificio costrutto e situato come di norma, in campagna, presso la stalla lattifera (a Trenno presso Milano); 5) sopra formaggi di dimensioni normali e fabbricati da un casaro specializzato per Grana. 2. Prove eseguite secondo il metodo comparativo più rigoroso possibile; 3. Prove eseguite in numero ragguardevole, in serie consecutive ed in diverse stagioni ; 4. Prove eseguite sotto il controllo di tecnici e di pratici. Queste prove iniziate, come dissi, nel 1903, continuarono fino al 1906, e sommarono ad oltre 300 coppie di formaggi. Sull'andamento e sui risultati parziali di queste prove ho già riferito in parecchie occasioni (2); ma di esito definitivo ‘non sì è potuto parlare che in questi ultimi tempi, in causa della lunga durata di maturazione del Grana, segnatamente del tipo lombardo. Fortuna volle però che la maturanza di una serie di formaggi di prova coincidesse coi concorsi internazionali di caseificio che si tennero nei mesi di maggio e settembre 1906 in occasione dell'Esposizione internazionale di (!) Sulla costituzione e sui componenti di questa Associazione che s'intitola « per studi sulla fabbricazione razionale del formaggio di Grana » ed è presieduta dal senatore Giulio Vigoni ho già riferito in una precedente mia Nota (Rend. R. Acc. Lincei, 1905, vol. XIV). (3) V. le Relazioni annuali al Presidente dell’ « Associazione pro Grana »; Rel. prima per il 1903, Milano, tip. Agr. 1903; Rel. seconda per il 1904, in Bollettino Uff. Ministr. Agricoltura, 1905, vol. I, p. 525; Rel. terza per il 1905, in Bollett. Uff. Min. Agricolt., 1906, vol. VI, pag. 257; Rel. quarta per il 1906 (in corso di stampa). V. anche le Co- municazioni al Congresso Agrario Nazionale, Brescia 1904; al Congresso intern. di lat- teria, Parigi, 1905; al Congresso intern: di Chimica applicata, Roma, 1906; al Congresso intern. di Agricoltura, Vienna, 1907; al Congresso nazionale di latteria, Reggio Emilia, 1907, ete. (cfr. i relativi Rendiconti). 1 È — 201 — Milano; per cui essi poterono essere sottoposti all'esame di due Giurìe inter- nazionali composte di esperti italiani, francesi, svizzeri e olandesi, i quali (astrazione fatta dalle premiazioni accordate alla benemerita Associazione pro Grana), trovarono gli studi e i risultati oltremodo interessanti. « Essi destarono, come dice la relazione della Giurìa, nell'animo dei giurati, viva compiacenza, poichè il problema dei fermenti selezionati da applicarsi ai formaggi, che è riconosciuto tanto difficile dalla batteriologia di ogni paese, ha trovato nelle prove in discorso una base sperimentale degna di ogni en- comio e di ogni incoraggiamento ». E anche recentemente un’autorevole rivista lattiera di Germania (la Milch-Zeitung di Lipsia, n. 9, 1907) riferiva, nel suo articolo di fondo, in termini molto lusinghieri circa l'esito delle prove riconoscendo che esse val- sero a dimostrare per la prima volta, in modo strettamente sperimentale, e col verdetto di una Giurìa internazionale, V'utilità pratica delle applica- zioni batteriologiche al caseificio. E conclude augurandosi che anche per altre qualità di formaggi, la scienza e la pratica si diano la mano, sull'esempio di quanto si fece in Italia per il Grana. 9. Prove industriali. — Ora che cosa ci hanno insegnato le prove pratiche ? Che coll’aggiunta di culture bacteriche pure stamo in grado di influire, e di influire vantaggiosamente, sulla riuscita del Grana. Lungi dall’entrare qui in particolari, possiamo ritenere in termini generali che coi fermenti se- lezionati si riesce a facilitare la fabbricazione e a migliorare la pasta det formaggi. Ma dalle prove stesse emergono altri fatti. Sebbene esse siano state eseguite in un solo casello, tuttavia, mediante opportune modificazioni introdotte espressamente nei trattamenti e nelle ope- razioni diverse, si è potuto constatare che l’effetto di queste colture è legato ad un complesso di condizioni di latte, di lavorazione e di ambiente, è subor- dinato a certi accorgimenti di regime igienico che è necessario studiare par- titamente e con amore per poter addivenire a delle norme per il più pro- ficuo impiego dei fermenti stessi e per trarre dal nuovo metodo tutti i van- taggi che è destinato a recare; norme e vantaggi che io non penso debbano essere uguali per tutti i luoghi e per tutti i casi. A un tal ordine di studi è destinata la terza fase del mio programma, le prove industriali; industriali nel senso che l'applicazione del metodo deve venir eseguita su larga scala e dagli stessi industriali in diverse lo- calità, variando ambiente, latte e lavorazione. Un tal genere di prove ha avuto principio fin dall'anno scorso e continua tuttora regolarmente in una quindicina di caselli, e saltuariamente in altri (!). (1) I formaggi Grana fabbricati coi fermenti selezionati raggiungono già il numero di seimila; i primi fabbricati hanno compiuto testè il primo anno di età. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem, 40 — 302 — L'esito è fin qui soddisfacente, ma naturalmente come ci vollero tre anni per avere dei responsi definitivi dalle prove pratiche, così ne occorreranno parecchi per averne dalle prove industriali. E come si è proceduto con rigore e con riserbo nelle prime, così sì pro- cede colla massima cautela nelle seconde, le quali pur essendo, come dissi, affidate agli industriali, stanno sempre sotto la mia diretta sorveglianza (sorveglianza che esercito mediante istruzioni, consigli, visite sopra luogo etc.). In tal guisa con queste prove sì raggiungono due intenti: 1. verificare se e come le colture bacteriche pure (che naturalmente vengono sempre preparate e distribuite sotto il mio controllo) riescano nel loro ufficio in mano degli industriali e nelle più svariate condizioni; 2. diffondere i moderni principii di caseificio fondati sulla microbio- logia e sull'igiene, studiando di metterli d’accordo cogli interessi dei produt- tori e dei lavoratori del latte. A ciò valgono sia le istruzioni e i consigli che sono dati personalmente ai singoli agricoltori, casari, mungitori e famigli, sia le conferenze che vengono tenute nei principali centri lattiferi (Milano, Lodi, Codogno, Abbiategrasso, Pavia, Corteolona, Suzzara, Reggio Emilia, Quistello, ecc.). È consolante riconoscere che questa opera di propaganda incontra il mas- simo favore e raggiunge pienamente il suo intento, per il fatto precipuo che nel nuovo indirizzo biologico i lavoratori del latte trovano la chiave per spiegare molti fenomeni che essi avevano empiricamente accertato ma che restavano fin qui avvolti nel mistero. Per questa via si va irradicando anche fra i profani il convincimento che coll’aiuto della microbiologia si arriverà a dominare molti fattori del caseificio, i quali si ritenevano finora in balia della sorte. Ed ancora: certe norme igieniche nel governo della stalla e del casei- ficio, che prima si ignoravano affatto oppure si calpestavano scientemente, con- side: andole superflue e persino dannose (!), oggi cominciano ad essere prese in seria considerazione dappoichè si comincia a comprenderne ed apprezzarne gli intimi rapporti colla buona riuscita dei prodotti del latte. Riepilogo. — Scopo della presente Nota era di esporre per sommi capi l’opera scientifica e pratica che da sei anni vado spiegando e che mi sono imposto di proseguire in favore dell'industria casearia nazionale, colla ferma volontà che sempre deve soccorrere quando si sente di compiere un dovere. E un dovere io reputo, per chi è preposto ad una cattedra di batterio- logia agraria, quello di avviare il caseificio locale sopra il moderno indi- rizzo fondato sulla microbiologia e sull'igiene ('). (1) Circa questo indirizzo v. auche le mie pubblicazioni: Contributo allo studio del ali — 303 — Nello svolgere il mio programma, siccome ho sopra enunciato, mi sono attenuto ai seguenti criteri direttivi: 1. Istituire le ricerche di laboratorio sulla scorta delle osservazioni empiriche procurando di trovare in quelle la chiave di queste; 2. Passare dalle indagini scientifiche alle esperienze pratiche non appena da quelle siano scaturiti dei fatti che sembrino suscettibili di appli- cazione pratica diretta; 3. Una volta riconosciuta l’utilità di queste applicazioni, curarne la diffusione e l'adattamento alle diverse circostanze mediante prove industriali ; 4. Chiamare a collaboratori e a giudici gli stessi uomini dell'arte: cosa questa che ritengo della massima importanza e necessità, così per gli studi come per la propaganda, dato l'empirismo e il segretismo da cui tro- vasi tuttora avvolta e avvinta l’arte casearia. Mi è di incitamento a procedere nella via intrapresa, oltre ai risultati ottenuti, il favore che l’opera mia incontra nel mondo caseario non solamente italiano ma benanco straniero ('). caseificio italiano dal punto di vista igienico-batteriologico, Bollettino Ufficiale del Mi- nistero di Agricoltura, 1906, vol. III, p. 621; Zî moderno indirizzo biologico del caseificio. Nuova Antologia, 1° giugno 1907. (1) Dalla benevola accoglienza clie alle mie comunicazioni venne fatta ai Congressi Internazionali di latteria (Parigi 1905, dove il nostro Paese risultò essere stato il primo ad istituire rigorose e numerose prove di pratiche applicazioni batteriologiche al casei- ficio) e di Agricoltura (Vienna 1907, dave il nostro Paese servì di esempio e di stimolo per il cimentamento delle applicazioni stesse nel vasto campo della industria), nonchè dalle lusinghiere relazioni che sulle riviste estere della specialità (Milchzeitung di Lipsia, Revue Genérale du lait di Bruxelles; Molkerei Zeitung di Berlino; L'industrie laitière di Parigi etc.) comparvero in varie riprese circa l’andamento delle succitate prove e circa il surriferito esito dei Concorsi alla Esposizione di Milano 1906, emerge chiaramente che al nostro Paese spetta ed è riconosciuto (cosa questa non molto frequente) il primo posto nell’odierno movimento per l'indirizzo biologico del caseificio. Auguriamoci che esso possa conservare questo primato nella benefica gara internazionale per la progressiva redenzione dell'industria casearia dall’empirismo! E. M. na Mercia pa ù WagT Rd, GLU, fi ivitfonib inotivat Ve tod Li, sfoagi; È Up oi otsvent. ib dasio». isignbai. dd Lush “a dali oteiaggratt toa, 01 imtoiarriosno alleh altera gia pater Hc lion sais @ pusrasna gi. vil P Ri: ibvilidiftanena anindinsa dl argo Lrmilialicte picchi hs i sottomano stosibog sob aly prrbottgie daga. sE ita dutf fi earo nt, AI catia dateidgigoa Li 0 0008 hi Seni sla, Hi! fn» irokavadal (60 N00 Mineiro pi, MIMITTIO abag DU ao odi atei 9 Uni È dee te Miti soit na oh La im TI ilatIuat doti Gable saggi vii. SE sima ttatote porno 0A sil tate atea a tgtio 1 dA up Va Va tan ACVLI (TT%, MAGIE RIURE TTAN0II iti MOR dit A Milita ti MACRO ICI Prado 10 sil Mi i -ipag fa aiaitattadi ino: A Mi]. 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Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II (1, 2). — II-XIX. MemoriE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIcontI Vol. I-VII. (1884-91). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. 5 Serie 5® — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. l Vol. I-XVI. (1892-1907). 2° Sem. Fasc. 4°. ReNDICONTI della Classe di sciense morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 4°-5°. MemoRrIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fase. 1°-11°. i MremorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 5°. - CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI ; I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due | volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- = denti ognuno ad un semestre. È Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta - l’Italia di L. 19; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti | editori-librai : gi Ermanno LoescHeR & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrico Hoepri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Agosto 1907. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 18 agosto 1907. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTA'lE DA SOCI Parona. Risultati di uno studio sul Cretaèéo superiore dei monti di Bagno presso Aquila. Pag. Peratoner e Azzarello. Azione dei diazo4ldrocarburi grassi sul PCI e suoi derivati. I. Cianogeno. (Parte teoretica). . «Mnoi Orlando. Sull'equazione differenziale 4» PC Gre Co ceisp! on Cie AE) Boggio. Nuova risoluzione di un problema fondamentale della teoria dell’elasticità (pres. 74.) » Bargellini e Silvestri. Sul 1-2-metil-naftè=*chinolo (pres. dal Socio Cannizzaro . . . . » Id. Sopra alcuni derivati chinolici del gtùppo della santonina (pres. Id.) . . . ” Mazzucchelli. Sa alcuni sali complessi del perossido di titanio (pres. dal Socio Paternò) » Pellini e Pegoraro. Costituzione dell’acido fluoridrico (pres. dal Socio Ciamician). . . n Deganello. Gli ordegni nervosi periferici lel ritmo respiratorio nei pesci teleostei: Rieerche anatomiche e sperimentali (pres. dal Bocio Zuciani) . . . «tag ME? Busso. Sull'origine dei mitocondrî e Sulla formazione del aston nell'Ue di alcuni Mammiferi (pres. dal Socio Grassi) è . . si RIS TS) Gorini. Studi sulla fabbricazione razionale del (rtinasio di Grin (niet dal Socio Briost) » E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. SY Pubblicazione bimensile. Roma 1° settembre 1907. N. 5. ASTRI . DELLA REALR ACCADEMIA DEI LINCRI ANNO CCGCIV. 19047 S HiERI Hi Rca RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XV I.° — Fascicolo 53° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all’Accademia sino al 1° settembre 1907. TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI | ROMA | PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI | 007 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serfe quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche enaturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pr - priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com. missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con nna delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5.L’Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mersa 3 carico degli autori. . RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DICSOCI On RRESENTATREISDA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al A° settembre 1907. SA Zoologia. — Ariassunto delle ricerche sulle fillossere e in particolare su quella della vite, esequite nel R. Osservatorio an- lifillosserico di Fauglia fino all'agosto 1907, per incarico del Ministero d’agricoltura, dal prof. B. Grassi (direttore) e dalla dott. ANNA Foà (assistente). Nota del Socio B. Grassi. In seguito ai voti ripetuti dei Congressi agricoli e della Commissione consultiva per la fillossera, il Ministero d'agricoltura istituiva un Osserva- torio antifillosserico a Fauglia (Pisa) e in mancanza d'altro personale, noi ci decidevamo a sacrificare per alcuni anni le nostre ferie universitarie per dedicarle ad un argomento che, per quanto studiato all’estero ed anche in Italia dal benemerito prof. Franceschini, è tutt'altro che esaurito. Ciò che a nostro avviso restava a fare dal lato zoologico, che è quello appunto di cui ci occupiamo (la parte botanica fu affidata, sotto la direzione del prof. Cuboni, al dott. Petri, i cui interessanti resultati sono in via di pubblicazione) presentava non lievi difficoltà e appunto perciò occorse una non breve preparazione, per procurarci il materiale necessario agli espe- rimenti. Il nostro lavoro non è ancora compiuto e dovrà venire continuato anche l'anno venturo; abbiamo però già raccolto una serie di fatti che crediamo di dover rendere di pubblica ragione. Qui li accenniamo sommariamente, ri- serbando ad una estesa Relazione i particolari e le illustrazioni. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 41 — 306 — A) OSSERVAZIONI SULLA FILLOSSERA DELLA VITE. 1. Come procede il ciclo evolutivo della fillossera sulle colline pisane. Com'era da aspettarsi, il ciclo evolutivo della fillossera sulle colline pisane è eguale a quello che è stato osservato in Francia e confermato in Germania, nonchè nel nord d'Italia dal Franceschini. Riscontrasi soltanto una piccola modificazione (') che consiste nella grande scarsezza delle ninfe e con- seguentemente anche delle alate, nelle vigne di viti europee. Non bisogna però dare alla parola scarsezza un valore assoluto. Mentre per es. in alcune località dell'Italia settentrionale, in un'ora di lavoro ad epoca opportuna, un individuo può raccogliere un centinaio di ninfe, qui nelle stesse condizioni potrà trovarne due e forse anche meno. Mentre nell'Italia settentrionale, esponendo convenientemente lastre di vetro spalmate di gli- cerina (metodo Franceschini), si possono ogni giorno raccogliere su ognuna, alcune e magari decine di alate, a Fauglia con più di una cinquantina di lastre si arriva solo a catturarne giornalmente pochissime, e non sempre. Ma se si tien calcolo della grande estensione della zona pisana fillosserata, non v'ha dubbio che anche qui la cifra totale delle alate che si sviluppano ogni anno deve essere molto ingente, benchè la ricerca di esse sotto la pagina inferiore delle foglie, che è la loro sede prediletta, riesca quasi sempre infruttuosa, come pure è riuscita l'anno scorso infruttuosa, in aperta cam- pagna, la ricerca dei sessuati e dell'uovo d'inverno. Queste nostre osservazioni sono state già ripetute per tre anni consecu- tivi, sempre con gli stessi risultati: ad esse l'anno scorso ha preso grande parte anche il dott. Remo Grandori (allora laureando), il quale attualmente continua le ricerche in Sicilia, come diremo più avanti. Le indagini vennero estese alle differenti sorta di terreno, ai luoghi alti, bassi, secchi, umidi, molto e poco concimati, ecc., insomma nelle più sva- riate condizioni, e il resultato fu sempre eguale, eccettuata una limitata lo- calità di Fauglia, che certamente non sarà unica in tutti i colli pisani, ma che finora per noi rimane tale. Quivi sulle radici di certe viti europee, nel 1906, non ostante che la stagione fosse già troppo avanzata, si trovavano le ninfe se non tanto numerose quanto in Lombardia, certamente molto abbon- danti rispetto alla esigua quantità, che se ne riscontra nelle altre parti della regione pisana. Questa eccezione diventa regola in molti punti e forse dovunque, sulle viti americane in determinate condizioni. Già l’anno scorso, accanto alle or dette viti europee ve n'era qualcuna a piede americano (di pochissimi anni d'età) con ninfe del pari piuttosto numerose. Quest'anno poi, durante il luglio (1) Essa si verifica certamente in molte altri parti dell’Italia media e meridionale e anche in certi punti dell’Italia settentrionale. — 307 — e la prima decade d'agosto, sulle radici di giovani paria X rupestris 3309, Riparia grand glabre e Rupestris du Lot di un piccolo appezza- mento della suddetta località (il quale era sfuggito l'anno scorso alle nostre indagini), le nodosità, che si riscontravano abbondantissime, erano ricoperte di ninfe, in quantità strabocchevole, quale non avevamo mai veduta nemmeno in Lombardia, ma solo in laboratorio, nei vasi da esperimento. Attualmente le nodosità sono in gran parte già disseccate, e le ninfe quindi diminuite, ma quelle tuttora vegete ne presentano sempre moltissime. Sotto le foglie delle stesse viti era ed è facile trovare le alate, le uova relative, i maschi e le femmine, fatto finora per noi unico in Toscana. È notevole che in questo appez- zamento tutte (e sole!) le Riparia X rupestris 3309 (quaranta piante) que- st'anno furono fin dal principio della stagione invase da galle fillosseriche. Evidentemente perciò nel 1906 dovettero esservi depositate molte uova d'inverno. Questo fatto dimostra che, com'era da aspettarsi dopo la accertata pre- senza delle ninfe e delle alate, nonchè dei maschi e delle femmine ece., nei colli Pisani non mancano neppure le galle, di cui finora non è stata fatta ricerca apposita ed estesa (1). Nel 1906, a stagione avanzata, abbiamo potuto stabilire che anche le barbatelle di Clizton e di Rupestris du Lot prodotte nel 1905, trapiantate in vasi nella primavera 1906 avevano su tutte le nodosità, che erano abbon- danti, molte ninfe, mentre le nostrali, tenute nelle stesse. condizioni, nono- stante le molte nodosità, ne avevano un numero minimo. Questa osserva- zione nelll’anno corrente è stata ripetuta e confermata, oltre che sulle Clinton e sulle Aupestris du Lot, su altre sorta di viti americane. Possiamo anzi dire, in seguito alle ricerche di quest'anno che quasi tutte le viti ameri- cane piantate da due, tre, o quattro anni e ben fillosserate — quali non si trovano che piuttosto di raro — presentarono più o meno numerose ninfe. Già i fatti osservati l'anno scorso dovevano farci escludere la nostra primitiva supposizione che vi fosse un rapporto diretto tra la scarsezza delle ninfe e la siccità che in questo paese si faogni anno sentire. Possiamo aggiun- gere che in una parte di una vigna fillosserata e ben concimata, da questa pri- mavera in poi, innaffiata periodicamente, si svilupparono moltissime nodosità veramente belle, ma il numero delle ninfe non è aumentato. Anche in molte bar- batelle di viti nostrali piantate nella stessa vigna, del pari abbondante- mente concimate e innaffiate, le nodosità sono molto abbondanti, ma le ninfe mancano, mentre queste si riscontrano abbastanza numerose sulle Rupestris (1) Omai ci siamo fatti un'idea chiara del motivo principale che regola l'abbondanza o meno delle galle. Esse difettano ove difettano le viti americane piantate da due, tre o quattro anni, fillosserate e quelle suscettibili di galle (notando a questo riguardo che certe sorta di viti in aleune località vanno molto soggette a alle, mentre in altre non ne por- tano); si capisce quindi come, in rapporto a queste circostanze, le galle possono compa- rire o presentarsi abbondanti in luoghi ove prima mancavano od erano scarse. — 308 — du Lot in eguali condizioni. Lo stesso fenomeno si ripete anche nelle nu- merose viti nostrali che teniamo in vaso; qualche ninfa esiste, ma isolata. Abbiamo ripetute colle viti nostrali le esperienze di Morgan e di Keller, riguardanti l'influenza del nutrimento insufficiente sulla produzione delle alate. Neanche con questo mezzo siamo riusciti ad aumentarne notevolmente il numero. Quelle che si svilupparono, erano piccole. Già l'anno scorso, servendoci del metodo delle campane che avevamo veduto usato con tanto successo dal prof. Franceschini, siamo arrivati a sta- bilire la chiusura annuale del ciclo della fillossera, colla formazione dell'uovo d'inverno. Quest'anno disponiamo di un materiale che certamente ci permetterà di avere nella serra e nelle stanze dell’Osservatorio tutte quelle uova d'inverno che ci saranno necessario. Non v'ha dubbio che le cosidette uova d’inverno, che più propriamente dovrebbero chiamarsi uova durature, si possono produrre già in luglio. Noi siamo d'avviso che anche queste uova non possano svilupparsi prima della primavera ventura. Purtroppo quest'anno il materiale non è stato sufficiente per una osservazione diretta del fatto; ci soccorre però un forte argomento d'analogia (fillossera del cerro, v. più avanti). Le nostre osservazioni per ora confermano che ciascuna alata deposita uova di una sola -sorta, o di maschio o di femmina. Si è ripetutamente parlato di due sorta di alate, sessupare (gamogene- tiche) e migranti. Dopo di aver confermato che veramente queste due sorta di alate esistono per la Ph. quereus (v. più avanti), anche noi eravamo ineli- nati a credere che lo stesso fatto si dovesse ripetere per la fillossera della vite. Abbiamo anche noi osservato, come tanti altri, che le dimensioni delle ninfe e delle alate variano entro limiti molto estesi, e in alcune possono perfino essere quasi doppie che in altre; senonchè esistono tutti i gradi in- termedî e manca, o almeno noi non troviamo alcun carattere che ci per- metta di distinguerne due o più sorta. La presenza di un preteso organo di senso, che altri ha creduto di riscontrare solo in certi individui, deve rite- nersi un errore di osservazione. Il fatto importante da noi verificato, che ci conduce ad escludere l'esi- stenza di forme migranti, è il seguente: a differenza di quanto si verifica per la Ph. quercus, e analogamente a quanto avviene per la Ph. corticalis (v. più avanti), le alate, in qualunque stagione producono uova di sessuati. Anche noi abbiamo accertato negli esperimenti di laboratorio che molte alate morivano senza aver deposto le uova; le avevano però sempre nell’addome. Quanto alle forme ibernanti è da notare che a Fauglia non si sono mai presentate nè tanto oscure nè tanto appiattite, come furono osservate altrove. Le uova si trovarono fin verso la metà di gennaio (1907), circostanza da tener presente nei tentativi di cura. — 309 — Man mano che l'inverno avanzava, la moltiplicazione della fillossera si rallentava. Vi fu un tempo in cui trovavamo soltanto neonati e uova, il che per un momento ci fece supporre che le fillossere ibernassero anche allo stadio di uovo, ma poi le uova si schiusero. Un po’ differentemente debbono comportarsi sulle viti americane. Due di queste viti, in vaso (Rupestris du Lot) che l’anno scorso ave- vano prodotto un'enorme quantità di ninfe, come sopra si è detto, all’ inizio della primavera, con un'esame superficiale, ci parvero spontaneamente risa- nate; in realtà più tardi sì mostrarono ancora infette, il che prova come anche su di esse, benchè in scarso numero, dovessero esistere forme ibernanti. È interessante seguire ulteriormente lo studio delle ibernanti sulle viti americane, nelle quali le radici grosse difficilmente sono attaccate dalle fil- lossere. Quest'anno il risveglio è cominciato al principio di maggio, non solo in Toscana, ma anche in Sicilia (a Noto e a Messina). 2. Diffusione delle radicicole neonate della legione ipogea sul terreno e per mezzo dell’aria (!). È stato osservato in Francia che le radicicole neonate della legione ipogea, d'estate, quando il terreno è asciutto, vengono alla superficie in grande numero e camminano sul suolo fino a raggiuugere un'altra vite, e che il vento ha così modo di portarle a distanza. Su questo mezzo di diffusione della fillossera in Italia, per quanto noi sappiamo, è stata richiamata l'attenzione soltanto dal prof. Danesi nelle Puglie. Le nostre ricerche confermano ampiamente quelle fatte in proposito dagli altri entomologi, ed escludono il dubbio che nelle loro osservazioni siansi confuse le neonate radicicole sviluppatesi sulle radici (legione ipogea) colle neonate con caratteri di radicicole formatesi nelle galle (legione epigea). Per dare facilmente un'idea del fenomeno si può procedere così: si met- tono in vaso delle barbatelle di Clirfon non portanti nè uova d'inverno nè galle e si ha cura di fillosserarle molto alle radici; d'estate se si osserva la superficie della terra un po secca di questo vaso, si vedono facilmente camminare le fillossere neonate. Esse possono arrampicarsi anche sui fili d'erba, all’altezza di 10 e più centimetri. Noi le abbiamo trovate perfino sulie foglie della Rupestris du Lot, all'altezza di circa 60 cm. Riesce difficile precisare quanto possano allontanarsi senza l’aiuto del vento; il loro viaggio procede a sbalzi, esse sì aggrappano a granellini di sabbia e così spesso li spostano e cadono insieme con questi. Non camminano in linea retta, ma deviano a seconda delle piccole accidentalità del terreno, sul vetro invece possono pro- cedere in linea più 0 meno diritta, e allora si può stabilire che su questo (1) Queste osservazioni sono dovute alla Dr. Foà. — 310 — mezzo, fanno circa 2 cm. al minuto primo. Certamente sul terreno non pos- sono mai raggiungere questa velocità, ma non si può escludere che possano allontanarsi metri e metri, anche senza il vento, il quale a sua volta può trascinarle a considerevoli distanze. A questo riguardo è bene aggiungere che anche le alate vengono facil- mente trasportate dal vento, come risulta con sicurezza dai nostri esperi- menti. 3. Sede dell'uovo d'inverno. L'uovo d'inverno, com'è ben noto, sì trova sul legno di due o più anni di età. Noi abbiamo verificato che in casi eccezionali si può trovare anche alla parte prossimale di robusti sarmenti dell'annata (legno di un anno) di viti americane, porta innesti o produttori diretti. Le foglie delle talee pos- sono perciò presentare le galle, s'intende del pari eccezionalmente. Queste galle non sono però sempre originate direttamente da uova d'inverno de- poste sopra il legno della talea, non essendo infrequente la propagazione dell'infezione per mezzo del vento, da parte di viti con galle poste in vi- cinanza. 4. Destino dell'uovo d'inverno e delle neonate con caratteri di gallicola, sulle viti europee. Quell'oscurità che, secondo il Balbiani, regnava nel 1884 su ciò che si può definire primo passo della fillossera uscita dall'uovo d'inverno, sulle viti europee, regna tuttora. Per quanto a noi consta, nessuno ha mai fatto esperimenti estesi e decisivi in proposito, e la scienza*non registra che pre- sunzioni contraddittorie. Una parte degli autori suppone che, sulle viti eu- ropee, la forma gallicola possa essere saltata, avvenendo una discesa diretta della neonata dall'uovo d'inverno sulle radici; altri invece ritiene che sì formino sempre galle iniziali, più o meno incomplete, collocate sulla prima, seconda e terza foglia della base del sarmento e difficili a vedersi. Non manca chi sostiene che qualche volta si verifichi questo, ma di solito l'altro caso. Lo stesso Balbiani ha espresso differenti opinioni in proposito. Compulsando la letteratura sull'argomento a noi sembrò per lo meno molto strano che una neonata con caratteri di gallicola, obbligata dall'istinto a vivere sulle foglie, potesse volgersi ad una meta opposta e vivere sulle radici. Ci siamo perciò procurata in Sicilia una grande quantità di ceppi di viti americane con numerose uova d'inverno (*), e abbiamo potuto così fare una serie di esperimenti condotti col massimo rigore, come apparirà dalla Re- lazione in esteso. (1) Cogliendo l'occasione ringraziamo i professori Grimaldi, Paulsen e Ruggeri, che in questa e in altre circostanze ci coadiuvarono sapientemente. — 311 — Da questi esperimenti è resultato che nella grandissima maggioranza dei casi, non ostante che molte uova d'inverno arrivassero a schiudersi, non si produssero galle; in tre viti le neonate dall'uovo d'inverno cominciarono a produrre galle, ma morirono prima di deporre le uova; in una sola vite si arrivò alla seconda generazione colla produzione di poche galle imperfette ; anche questa infezione si spense del tutto spontaneamente. Sulle foglie di parecchie delle quaranta viti in vaso usate per l'esperimento si trovarono neonate morte. Nessuna fillossera si è sviluppata sulle radici: le viti perciò restarono e restano tuttora indenni da fillossera. È bene aggiungere che le galle comparvero regolarmente su una Clinton di controllo. Un altro esperimento molto importante fu fatto seppellendo al piede di sette viti europee numerosissime galle che riteniamo della seconda genera- zione (contando come prima la galla fatta dalla fondatrice nata dall’uovo d'inverno), in cui le neonate non avevano ancora carattere di radicicole. Nes- suna di queste viti si infettò di fillossera alle radici, in una di esse però si formarono galle che non si moltiplicarono ulteriormente. Questo fatto dimostra all'evidenza l'istinto che porta necessariamente le neonate con carattere di gallicole sulle foglie. Gli esperimenti di controllo fatti seppellendo al piede di viti europee sane in vasi, galle delle generazioni successive contenenti neonate aventi ca- rattere di radicicole, produssero prontamente l'infezione, senza eccezione al- cuna, mentre le viti sane, in vasi vicini a queste, rimasero sane. Da questi nostri esperimenti risulta che il prodotto dell'uovo d'inverno sulle viti europee va perduto e che perciò, dove non esistono viti americane con galle, la fillossera si riproduce esclusivamente per partenogenesi. Le alate perciò non sono un mezzo di diffusione della fillossera per le viti europee. Arriviamo così, per motivi ben differenti, a una conclusione che poco si discosta da quelle del Targioni-Tozzetti e del Franceschini. L'esito di questi esperimenti fu del tutto limpido, non turbato da al- cuno di quegli incidenti che spesso generano dubbî sul loro significato — e di ciò va data lode anche al nostro inserviente Neri Francesco — onde noi, per quanto ci sforziamo di acuire la nostra critica, non possiamo rivolgere contro di essi alcuna obiezione. Tuttavia fedeli al motto « provando e ripro- vando » non mancheremo di ripeterli. La neonata dall’uovo d'inverno sulle viti europee può però salvarsi se ha occasione di passare ad una vite americana o, nel caso raro che ar- rivi a proliferare sulla vite europea, quando la sua prole può passare sulla vite americana. Ricordiamo a questo riguardo che avendo messo molte galle sul fusti- cino di una vite americana in vaso (Aiparia X rupestris 3309) non sì ebbe su di essa produzione di galle, le quali si formarono invece su una vite europea che stava anch'essa in vaso a pochi centimetri di distanza dalla prima. — 812 — In conclusione, l'uovo d'inverno deposto sulla vite europea non arriva ad infettarla; finora non si conosce alcuna eccezione a questa regola. Riguardo all'epoca in cui cominciano a comparire neonate della legione epigea con caratteri di radicicola, per ora possiamo dire soltanto che abbiamo notato una grande variabilità. È certo che quest'anno in certi punti esse ritardarono notevolmente. Esistono forme intermedie tra le neonate con carattere di radicicola e quelle con carattere di gallicola. 5. — Presenza delle galle sulle varie sorta di viti. Sulle viti europee, tanto in Sicilia che in Toscana, tranne che negli spe- rimenti predetti, non siamo riusciti a trovare galle attribuibili alle preesi- stenza dell'uovo d'inverno sulle viti stesse. In Sicilia, eccezionalmente, su svariate sorta di vitigni europei a piede americano, le galle si formano abbondanti come sulle viti americane. Esse però cominciano a stagione inoltrata e sono evidentemente derivate da gallicole della 2*, o 3* generazione, che dalle viti americane vengono per mezzo del vento trasportate su quelle europee circostanti. In questo caso le galle sulle viti europee possono presentare anche neonate con caratteri di radicicola, cioè capaci di vivere sulle radici. Non tutte le viti americane (porta innesti e produttori diretti) si com- portano ugualmente in ogni anno e dapertutto. Il fenomeno più notevole è quello offerto dalla Rupestris du Lot, che in certe località non produce galle. Noi abbiamo osservato che le gallicole producono sulle foglie di questa vite macchioline specifiche e muoiono. Sulle stesse piante a stagione più avanzata si formarono invece galle regolari. Delle galle incomplete che si incontrano sulle viti europee e sul Zerras N.20 ecc. ci occuperemo a suo tempo nel lavoro esteso. 6. — Se e quale valore si debba attribuire alla presenza delle galle fillosseriche. Le neonate delle galle coi caratteri di radicicola, ossia le neonate ra- dicicole della legione epigea, passano, com'è noto, attivamente alle radici delle viti e le infettano. È probabile, ma non provato sperimentalmente, che trasportate in lontananza dal vento arrivino ancora vitali al suolo. Questo modo di infezione deve essere in ogni caso molto più limitato di quello co- stituito dalle neonate radicicole della legione ipogea portantisi d'estate atti- vamente alla superficie del suolo in ogni vigna fillosserata. (Vedi 2°). Il fatto che dapertutto la fillossera continua a far strage sulle viti eu- ropee, nonostante che quasi dapertutto si riproduca solo partenogeneticamente, dimostra la nessuna necessità della generazione sessuale per conservare la prolificità di questa specie. Un simile fenomeno riscontrasi anche in altre a, ) de! — 313 — specie (per es. hermes). Cade pertanto definitivamente la tanto nota ipotesi del Balbiani, che era già stata del resto infirmata, tra gli altri, dal nostro Franceschini, con lo studio degli ovarioli. Se il Balbiani si fosse apposto al vero, a quest'ora la fillossera in Italia avrebbe dovuto interrompere quell'opera di distruzione, che dove più lenta dove più celere, fatalmente continua, e fatalmente continuerà finchè essa troverà un piede di vite europea. Data la scarsezza e fors'anche in certi casi la mancanza di ibernanti su certe viti americane, soltanto sopra queste, in certi casi, potrebbe rallentarsi e fors'anche spegnersi l'infezione fillosserica senza l'intervento della genera- zione sessuale; è questa però una semplice ipotesi, che soltanto osservazioni dirette possono avvalorare, o meno. Nè da altri prima di noi, nè da noi, si è rilevata tra le viti europee infettate colle radicicole delle legioni epigee e quelle infettate colle radici- cole delle legioni ipogee, differenza di sorta sia rispetto alla fillossera (gros- sezza delle genitrici, numero dei loro ovarioli, quantità delle uova) sia ri- spetto al deperimento della pianta, s'intende a parità delle altre condizioni. La presenza delle galle fillosseriche non si può mettere in alcun modo in rapporto col progresso della infezione; sono noti infatti molti casi in cui la fillossera si diffuse rapidamente e fece rapidissima strage in zone dove mancavano totalmente o quasi le galle, come vi sono altri casi, in cui si diffuse con relativa o con molta lentezza, ad onta della loro grande abbon- danza. Noi abbiamo a questo riguardo raccolto una serie di fatti, che esclu- dono ogni dubbio. La rapida devastazione dei vigneti lamentata in certe zone deriva non già da accresciuta fertilità o da aumentata virulenza della fillossera in sè, vale a dire da cause attive ed intrinseche del parassita, bensì dalle condi- zioni del terreno, del clima, del metodo di coltura ecc. ossia da cause estrin- seche. Inoltre bisogna notare che di regola nel giudicare sui danni della fil- lossera, non si tien calcolo che la diffusione del parassita avviene in ragione geometrica e non in ragione aritmetica, onde il facile errore di ritenere ful- minea una distruzione di vigneti, che era già preparata da anni. Nei paesi già devastati dalla fillossera, le galle, eccetto il caso in cui per la loro straordinaria quantità danneggiano la vegetazione delle viti come accade in Sicilia (!), riescono vantaggiose perchè servono a rendere più sicura e più rapida la prova della resistenza delle viti alla fillossera, così permet- tendoci di prevenire gravissime disillusioni. Colle galle contenenti neonate aventi i caratteri di radicicola si infetta una vite americana già al primo (*) Si previene il loro sviluppo col dadigeornage e si raccolgono accuratamente le foglie colle galle, che nonostante questa cura, potessero formarsi. Così procedendo, il danno diventa insignificante. RenpIicontI 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 42 \ — 314 — tentativo, mentre colle radici capillari, anche ricoperte di fillossera, l'infe- zione spesse volte riesce soltanto la terza o la quarta volta. Aggiungasi che le radici della vite con galle, per mesi intieri, ricevono giornalmente una provvista di radicicole; questa continuata infezione mette la vite a quella dura prova che è necessaria al viticultore per formarsi un giusto concetto della resistenza fillosserica d'una data sorta di vitigno in un dato ambiente. Praticamente se ne deduce che in ogni caso i saggi di resistenza alla fil- lossera sulle viti americane fatti colle galle meritano molto maggiore fiducia e richieggono meno anni di quelli occorrenti quando si sperimenta la resi- stenza colle sole radicicole della legione ipogea. A questo proposito ricordiamo che abbiamo recentemente veduto un vigneto di 7erras N. 20, piantato da parecchi anni, nel quale erano intercalate qua e là viti nostrali; queste eran morenti di fillossera, che ne gremiva le poche radici, quelle invece ne erano immuni. Eppure si sa che le radici del Zerros N. 20 vengono colpite sensibilmente dalla fillossera. Il complesso dei fatti da noi riscontrati, delle nostre osservazioni e dei nostri esperimenti conferma e chiarisce quanto viene ammesso da tutti senza discussione, che, cioè, le galle non hanno alcun nesso causale colla gravità della infezione fillosserica. m 7. — Variazioni della fillossera. Riscontrando le minuziose descrizioni del Cornu, il quale ha perfino adottata una speciale nomenclatura per i singoli peli, sulle fillossere quali noi le troviamo in Toscana, abbiamo rilevato nei peli delle zampe ‘alcune piccole differenze, che si ripetono però esattamente anche in alcuni individui gentilmente favoritici dal Prof. Mayet di Montpellier. Noi riteniamo trat- tarsi non già di mutazioni avvenute nella fillossera dopo la pubblicazione dell'opera del Cornu, ma di minime mende in cui è incorso questo autore, malgrado la sua serupolosa diligenza. Molto notevoli sono invece alcune variazioni nelle antenne delle galli- cole, trovate dal dott. Grandori in Sicilia. Dall'insieme dei fatti siamo finora portati a conchiudere che variazioni della fillossera si verifichino soltanto nella generazione sessuale, o prossime a questa, e non mai nelle generazioni partenogenetiche da esse più o meno lontane. Questa conclusione di molta importanza teorica richiede però una base più estesa e più solida di fatti. Le fillossere gallicole prima di essere in grado di deporre le uova com- piono quattro mute (in ogni stagione?) Le quattro spoglie si possono osser- vare aprendo con precauzione una galla, ove sia una sola adulta che inco- mincia a ovificare (Foà). - AL — 315 — 8. — Una malattia infettiva delle fillossere gallicole. Aprendo le galle fillosseriche, a volte siamo stati sorpresi di trovarvi morte le fillossere madri e la loro prole (uova e neonate). Dal diverso grado di alterazione si può arguire che non tutta la prole è stata distrutta con- temporaneamente. La morte di queste gallicole sembra dovuta alla presenza di un fungo. Si tratta in ogni modo di una malattia infettiva da noi riscon- trata soltanto a Fauglia. Finora essa non si è estesa alle fillossere delle radici, neppure di quelle delle stesse piante che portano tutte le gallicole morte. Occorre acquistare una conoscenza profonda del suddetto fungo per de- cidere se e quale profitto si può da esso ricavarne nella lotta contro la fil- lossera; di questo studio si occupa colla sua ben nota competenza il prof. Baccarini di Firenze. 9. — Esperimenti di disinfezione. Questi sperimenti fatti in parte alla presenza del prof. Danesi col suo metodo dell'immersione per 5 o 6 minuti nell'acqua a 56°57° C. e con un apparecchio da lui ideato, non furono numerosi, ma il materiale impie- gato era così opportuno (barbatelle cresciute in vaso, cariche di ibernanti) che il risultato ha indubbiamente molto valore. Esso ha pienamente confer- mato la bontà e la sicurezza del metodo suddetto. Gli sperimenti diretti a provare l'efficacia dello stesso metodo per la distruzione dell'uovo d'inverno, diedero del pari risultato favorevole, ma non riuscirono provativi perchè non si svilupparono galle neppure nei controlli. Evidentemente il materiale d'esperimento era avariato, le prove si dovranno perciò ripetere l'inverno venturo. B) OssERVAZIONI SULLE FILLOSSERE DELLE QUERCE ('). Mentre ci occupavamo della fillossera della vite, siamo stati condotti a portare la nostra attenzione anche su quelle delle querce, anzitutto per il fatto che sulle lastre spalmate di glicerina, mentre, come s'è detto, le alate della fillossera della vite erano scarsissime, quelle della quercia si trovavano in quantità assai grande, onde, per evitare ogni errore o confu- sione fra le varie specie, ricorrevamo all'esame microscopico. Così abbiamo cominciato a distinguere le varie sorta di alate di fillossera delle querce. Ci ha indotto poi ad approfondirne lo studio un caso eccezionale che verificammo verso la metà di settembre dell’anno passato. Esaminando la pagina inferiore delle foglie di vite nostrale per ricercarvi le alate, trovammo una fillossera della quercia attera di cui non abbiamo potuto determinare con (1) La maggior parte di queste osservazioni sono dovute alla Dr. Foà. — 5316 — esattezza la specie, ma che, come diremo appresso, abbiamo motivo di rite- nere che debba riferirsi alla PR. quercus. Essa stava depositando un uovo; da un lato della nervatura principale della foglia, trovavasi appiccicato un altr'uovo, evidentemente deposto dalla stessa fillossera. La foglia fu tenuta in laboratorio dentro una capsula di Petri e dall'uovo nacque una femmina. Sorgeva così il dubbio che fosse possibile quell'adattamento alla vite delle fillossere delle quercie, su cui senza prove aveva insistito ai suoi tempi il Lichtenstein, ed era d'uopo determinare quali specie potessero esserne capaci e in che condizioni. Dobbiamo però subito aggiungere che il caso da noi verificato è rimasto finora unico. In ogni modo ci ha portato ad una più esatta conoscenza delle fillossere della quercia di questa regione. Per quanto risulta dal complesso delle nostre osservazioni, qui si tro- vano solo due specie di fillossera della quercia (adottiamo la classificazione del Del Guercio, che ci sì è mostrata veramente buona) e, cioè, la Ph. cor- ticalis Kaltenbach (Ph. spinulosa Targioni) e la Ph. quercus Boyer. Man- cano la Ph. acantochermes (Kollar) e la Ph. coccinea (Heyden) Kaltenbach. Di queste fillossere quella che presenta maggior interesse è la Ph. quercus Boyer, inquantochè giusta le osservazioni del Targioni-Tozzetti e del Del Guercio, compie il suo ciclo su due piante, il leccio ( Quercus ilex) e varie quercie (Quercus robur, peduneulata, sessiliflora ece.); ed ha quindi due sorta di alate, le migratrici, che migrano dal leccio alle querce, e le ses- supare che ritornano al leccio. Le nostre osservazioni e le nostre esperienze finora confermano in maniera assoluta nei punti essenziali quelle degli au- tori ora citati, che erano forse state accolte con alquanto scetticismo nel mondo scientifico. Non tutte le fillossere abbandonano contemporaneamente i lecci per andare sulle quercie; l'infezione sulle foglie molto giovani dei lecci con- tinua sempre, ma va sempre più diminuendo: oggi (27 agosto) non è punto esaurita. Le attere, che continuano a proliferare sul leccio, non raggiungono le dimensioni delle loro progenitrici e hanno un numero di guaine ovariche minore di queste (sempre?). A volte le alate, che si formano in primavera sul leccio, depongono le uova su un altro leccio, invece che sulla quercia, ma queste uova muoiono. Anche sulla quercia, quando già si cominciano a svi- luppare le alate (sessupare), continuano ancora su alcune foglie le generazioni attere. Molto probabilmente saranno alcuni individui di queste generazioni che diventeranno sessupari anche senza acquistare le ali. A queste forme deve appartenere verosimilmente la fillossera della quercia da noi trovata sulla vite. I particolari sui caratteri delle varie forme troveranno posto nel lavoro esteso. Della Ph. corticalis (Ph. spinulosa) abbiamo potuto seguire tutto il ciclo di sviluppo. Questo ciclo si compie interamente sul cerro (Quercus cerris) ed è fino ad un certo punto analogo a quello della fillossera della — 317 — vite. Già nel mese di maggio sotto le foglie dei cerri e specialmente sotto quelle più prossimali, si cominciano a vedere individui alati; abbiamo potuto ac- certarci coll'osservazione diretta e coll’esperimento che anche queste prime alate depongono uova di sessuate, da cui nascono prontamente i maschi e le femmine, le quali fecondate arrivano a deporre le uova d'inverno ancora in primavera. Queste uova d'inverno mantenute parecchi giorni in laboratorio finirono per morire a causa delle condizioni sfavorevoli dell'ambiente, senza aver presentata alcuna traccia di ulteriore sviluppo. Noi escludiamo l'idea che possa aversi in estate una generazione derivata dall’uovo fecondato in primavera. La Ph. acanthochermes Kollar non fu da noi trovata nel Pisano. Abbiamo potuto osservarla in altri luoghi (Roma, Lombardia) e verificare che anche per questa specie già nel mese di luglio sì potevano trovare i maschi e le femmine. Essa in complesso si comporta come la Ph. corticalis. Abbiamo notato che da individui tenuti in cattive condizioni, su foglie mezzo disseccate, si sono sviluppate alate imperfette, cioè con ali da una parte sola. E questo fatto messo in rapporto con gli altri già citati a proposito della forma della fillossera della quercia trovata sulla vite ci fa intravedere come in condizioni speciali si possa avere una prole sessuata da forme at- tere. Queste forme sono state osservate anche dal Balbiani che crede di averle constatate anche per la fillossera della vite. La Ph. coccinea non fu da noi osservata, in nessuna località d'Italia : secondo noi è possibile che essa non rappresenti una specie buona e che rientri nel complicato ciclo della Ph. quercus (generazioni di esuli). * x x Crediamo che i fatti da noi messi in luce non abbiano soltanto un semplice valore scientifico, ma che i proprietari dei milioni di ettari, in cui si coltiva la vigna e dove fortunatamente la fillossera, o non è ancora entrata, o ha appena iniziata la sua opera di distruzione, possano trar profitto da questo nostro contributo ad una più esatta conoscenza della fillossera, come tente- remo di dimostrare nella Relazione estesa. — 318 — Chimica. — Azzone dei diazo-1drocarburi grassi sul ciano- geno e suoi derivati. II. Cianogeno. (Parte sperimentale). Nota del Corrispondente A. PERATONER e del dott. E. AzzARELLO. Ciano-osvtriazolo. HBt-C.CN NN NH Per riuscire ad isolare questo composto, che, come si disse, viene fa- cilmente trasformato nell’ N-metil-etere da un eccesso di diazo-metano, a 40 me. di soluzione eterea di cianogeno satura (') e ben raffreddata, aggiunge- vamo rapidamente 300 cme. di una soluzione eterea di diazo-metano conte- nente il reattivo svolto da soli 2 cme. di nitroso-metil-uretano (gr. 0.4 circa). In queste condizioni non si osserva uno sviluppo di gas degno di nota; anche la reazione sintetica, di condensazione, si svolge per altro in modo blando ed infatti il colorito del diazo-composto sparisce solo dopo qualche tempo. Il prodotto grezzo da noi ricavato in parecchie preparazioni consimili (per distillazione del solvente) ha l'aspetto di massa cristallina, leggermente im- pregnata di olio e si depura nel miglior modo cristallizzandosi dal benzolo in cui l'olio (il prodotto eterificato) è molto solubile anche a freddo. Ri- cristallizzato dallo stesso solvente con l'aggiunta di poco nero animale, si presenta in piccoli cristalli bianchi che fondono nettamente a 113-114°. All’analisi: Gr. 0,4221 di sostanza diedero gr. 0,5885 di CO» e gr. 0,0912 di H:0. Gr. 0,0664 di sostanza diedero cme. 34 di N misurati a 17° e a 764 mm. Su cento parti: Trovato Calcolato per C Hs Ni C 38,02 38,29 H 2,40 2,12 N 59,75 59,57 (!) Le soluzioni eteree di cianogeno adoperate per tutte le esperienze sotto descritte, venivano preparate facendosi sorgogliare per più ore in etere anidro, mantenuto a -10°, il cianogeno svolto a caldo da una quantità rilevante di cianuro mercurico. Il gas giun- geva nell’etere dopo avere attraversato un tubo con amianto e cloruro di calcio, il quale serviva a trattenere traccie di umidità e l'eventuale pulviscolo di para-cianogeno. Per lo più il titolo delle soluzioni così ottenute era del 4°/ — 319 — Il ciano-osotriazolo forma piccoli cristalli bianchi ed è facilmente so- lubile nell'acqua e nella maggior parte dei solventi organici. In soluzione nell'acqua ha reazione acida decisa ed a somiglianza dei composti osotriazo- lici con idrogeno immidico non sostituito, fornisce precipitati con la maggior parte dei sali dei metalli pesanti: con nitrato mercuroso dà un precipitato bianco, con solfato di rame un precipitato azzurro chiaro, con nitrato d’ar- gento un precipitato bianco, solubile in ammoniaca. La presenza del gruppo —CN è dimostrata dall'eliminazione quanti- tativa di ammoniaca per idrolisi con acido solforico diluito, nonchè dalla formazione del corrispondente acido osotriazol-carbonico. Gr. 0,4803 di sostanza fornirono gr. 0,084 di ammoniaca: Su cento parti: i Trovato Calcolato per Cs Ha Ns (CN) —CN 26,74 27,65 Ammide dell'acido osotriazol-carbonteo. Questo composto si può facilmente isolare nell'azione della potassa al- coolica (20 °/,) sul ciano-osotriazolo testè descritto. A caldo l'operazione è abbastanza rapida; lo svolgimento di ammoniaca cessa ben presto e già dal liquido caldo comincia a separarsi l'ammide in forma di polvere bianca. Per estrarre il resto dalla soluzione, si elimina anzitutto la maggior parte del solvente, si riprende il residuo con molta acqua ed il nuovo liquido si neu- tralizza esattamente con acido solforico. Indi si porta a secco e si estrae più volte il residuo con alcool assoluto. L'estratto alcoolico si cristallizza una o due volte dall'acido acetico. Si ottengono così piccoli cristalli bianchi dal p. f. 256-7°. All’analisi: Gr. 0.3059 di sostanza fornirono gr. 0,3656 di CO, e gr. 0,1585 di H,0. Gr. 0,1094 di sostanza fornirono cme. 46,9 di N misurati a 14° ed a 755 mm. Gr. 0,0642 di sostanza fornirono cme. 36,4 di N misurati a 15° ed a 748 mm. Su cento parti: Trovato Calcolato per Ca Hi Ng—CO . NH» C 32,59 32,14 H 9,03 3,57 N 50,09 49,64 20,00 — 320 — L'ammide dell'acido osotriazol-carbonico, a differenza del ciano-osotria- zolo, si scioglie poco nell'acqua e nella maggior parte dei solventi organici. In soluzione acquosa ha reazione acida decisa e si può neutralizzare esatta- mente con gl'idrati alcalini, mentre non decompone i carbonati. Gr. 0,1516 di sostanza furono saturati da gr. 0,07386 di KOH: Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs HN: (CO. NH.) (NH) H immidico 0,869 0,892 Trattata a caldo con potassa alcoolica al 40°/ o con acido cloridrico concentrato, fornisce l’acido osotriazol-carbonico. HE Camo COOH 7 e NH Dall'’ammide ora descritta si ottiene il rispettivo acido osotriazol-car- bonico saponificandola con potassa alcoolica al 40 °/ 0 con acido cloridrico al 30°/,. Nel primo caso l'operazione viene protratta finchè non si svolge più ammoniaca, e l'acido (contenuto nel liquido sotto forma di sale) si estrae poi operando nei modi consueti. Più semplice è la saponificazione con acido cloridrico al 380 °/,. Dopo un riscaldamento di più ore si separa una buona parte del prodotto in forma di polvere un po' colorata in bruno; la rima- nente si ricava svaporandosi il liquido, con che il rendimento in acido grezzo è molto vicino al teorico. Per l’analisi, la sostanza fu tenuta prima alcune ore a digerire (a caldo) con carbone animale, indi si cristallizzò dal- l'acqua ottenendosi in polvere cristallina lievemente colorata in giallo-bruno, dalvp. fi2d0. Gr. 0,0632 di sostanza fornirono cme. 20.0 di N misurati a 16° ed a 7604 mm. Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs Hz N3 O: N 37,08 37,16 L'acido osotriazol-carbonico è poco solubile in acqua, alcool, acido ace- tico, quasi insolubile in etere anidro, benzolo, acetone, cloroformio, etere di petrolio ed etere acetico. Cristallizza dall'acqua, dall'alcool e dall'acido ace- tico in polvere cristallina colorata in bruno chiaro. Fonde a 211° per de- comporsi nettamente a temperatura un poco più elevata. Noi abbiamo preparato ed analizzato altresì un Sale di calcio. Questo si ottiene in stato di purezza decomponendosi con carbonato di calcio puro l'acido sciolto in acqua calda, e concentrandosi — 321 — il filtrato a piccolo volume. Forma una polvere cristallina poco solubile in acqua fredda. Gr. 0,8875 di sostanza secca all'aria, per riscaldamento a 120° per- dettero gr. 0,1915 di peso. Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs Ha N; 0» ca.2 Ha 0 H,0 21,97 21,42 Gr. 0,202 di sale anidro fornirono gr. 0,104 di CaSO, Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs Hs N3 O: ca Ca 15,13 9,15 Il nostro acido osotriazol-carbonico è poi identico sotto ogni rapporto a quello già descritto da v. Pechmann ('); così è stabile al permanganato, fornisce precipitati bianchi con nitrato di argento e col nitrato mercuroso ed un precipitato azzurro chiaro col solfato di rame. Infine riscaldato a 230— 240° (bagno di lega) elimina anidride carbonica convertendosi in Osotriazolo. Il distillato da noi ottenuto in queste condizioni mostra tutti i carat- teri indicati da v. Pechmann per questa sostanza. È infatti un olio lim- pido, di odore leggermente alcaloideo, che per forte raffreddamento solidifica in massa cristallina, raggiata, dal punto di fusione 22,5°. Noi riconfermammo altresì la sua natura preparandone il sale d'argento ed un composto mer- curico, i quali riscaldati mostrano un comportamento assai caratteristico {?). Ciano-N-metil-osotriazolo. HA. CN a I I N N NA N.CH; Come sopra fu detto, tale sostanza è l'unico prodotto della reazione del diazo-metano sul cianogeno, allorchè quest’ultima si effettua in soluzioni concentrate. A 30 cme. di soluzione eterea di cianogeno, raffreddata a —10°, (1) Annalen der Chemie, 262, 314 (1891). (?) Annalen der Chemie, 262, 322 (1891). RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 43 — 322 — aggiungevamo a poco alla volta 40 cme. di una soluzione eterea di diazo- metano (anch'essa raffreddata a —10°) contenente il reattivo svolto da 5 cme. di nitroso-metil-uretano (da gr. 0,8 a 1 gr.). La reazione avviene in tal caso con sorprendente energia: in seno al liquido si manifesta un vivacis- simo sviluppo di gas, epperò la decolorazione di esso è quasi istantanea. Il prodotto grezzo ricavato, per eliminazione del solvente, da 12 preparazioni consimili venne distillato alla pressione di 30 mm. e passò a 95°. Il liquido così ottenuto, ridistillato alla stessa pressione, mostrò poi lo stesso punto di ebollizione. Gr. 0,4066 di sostanza fornirono gr. 0,6679 di CO. e gr. 0,1418 di H0. Gr. 0,0745 di sostanza fornirono cme. 34,0 di N misurati a 25° ed a 765 mm. Su cento parti: Trovato Calcolato per C, Hi N4 C 44,79 44,44 H 3,87 3,70 N 01,29 01,85 Il ciano-n-metil-osotriazolo è un liquido incoloro, con odore gradevole di frutta mature; non si mescola con l'acqua, si scioglie in alcool, in etere, in benzolo. Ha reazione neutra, non decolora a freddo il permanganato. Anche in questo prodotto venne determinato quantitativamente il gruppo —CN. La saponificazione fu eseguita in un apparecchio analogo a quello di Zeisel, (in corrente di CO:) raccogliendosi l'ammoniaca sotto torma di cloro- platinato ammonico. Gr. 0,3100 di sostanza fornirono gr. 0,6030 di (NH). PtCL ('). Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs Hi Ns (CN) —CN 22,58 24,80 Allorchè il riscaldamento con potassa alcoolica al 40°/, si protrae di- verse ore si ottiene quantitativamente il sale potassico del l’Acido N-metil-osotriazol-carbonico. H.0-—C. COOH I | NN N. CH; (1) La purezza del cloro-platinato ottenuto risultò dalla seguente determinazione di platino. Gr. 0,3199 di sostanza fornirono gr. 0,1399 di platino: platino °/o calcolato per (NH.): PtCl, 43,93; trovato 43,74 %o. — 323 — Per isolarsi quest'acido, il sale potassico separatosi dal liquido alcoo- lico, e lavato con poco alcool, viene sciolto in acqua e addizionato di acido solforico diluito fino a leggera reazione acida del metil-orange. Il liquido estratto più volte con etere abbandona allora a questo solvente la massima parte dell'acido libero. Il prodotto cristallizzato da varî solventi (acetone, benzolo) e disseccato a 100° diede all'analisi i seguenti numeri: Gr. 0,3400 di sostanza, cristallizzata dal benzolo, fornirono gr. 0,4747 di CO; e gr. 0,1249 di H,0. Gr. 0,3100 di sostanza, cristallizzata dall'acetone, fornirono gr. 0,4307 di CO» e gr. 0,1120 di H;0. Gr. 0,1030 di sostanza (dal benzolo) fornirono cme. 30,6 di N misu- rati a 26° ed a 761 mm. Gr. 0,3110 di sostanza (dal benzolo) alla determinazione di N-metile col metodo Herzig e Meyer fornirono gr. 5741 di AgJ. Su cento parti: Trovato Calcolato per Cz Hs Ns 0» (N. CH3) C 38,07 37,89 37,79 H 4,08 4,01 3,93 N 33,02 33,07 _NBCH 22,77 22,83 L'acido n-metil-osotriazol-carbonico forma piccoli cristalli bianchi fusi- bili a 141°-142°, solubili in acqua, alcool, etere, cloroformio e acetone, poco solubili in benzolo e quasi insolubili in etere di petrolio e benzina. Riscal- dato nel vuoto a 160° circa sublima inalterato. Riscaldato su lamina di platino, con precauzione, fonde dapprima e poi s'infiamma deflagrando. La soluzione acquosa ha reazione acida spiccata, decompone i carbonati, fornisce precipi- tati bianchi col nitrato d’argento e con quello di mercurio (al minimo). Sale di potassio. Per ripetute cristallizzazioni del prodotto grezzo suc- cennato dall’alcool acquoso. Forma squamette bianche, splendenti, insolubili in alcool assoluto. Gr. 0,2202 di sostanza fornirono gr. 0,1156 di K,S0,. Trovato Calcolato per C, H, Ns 0, K Re 23,96 23,68 Sale di bario. Venne ottenuto in piccoli cristalli trimetrici, bianchi, contenenti acqua di cristallizzazione, saturandosi la soluzione acquosa calda dell'acido con carbonato di bario puro e concentrandosi a piccolo volume il liquido filtrato. — 324 — Gr. 0,2568 di sostanza fornirono gr. 0,1322 di BaSO,. Gr. 0,2297 di sostanza fornirono gr. 0,1190 di BaS0,. Gr. 0,2035 di sale riscaldati a 130°-150° perderono gr. 0,029 di peso. Calcolato per Trovato (C, Hi N3 0s)a Ba. 31/2H230 Ba %o 30,25 30,43 30,30 Hs0% 14,25 13,93 Gr. 0,1900 di sale anidro fornirono gr. 0,1137 di BaS0,. Su cento parti: Trovato Calcolato per (Cs Hi N3 02)» Ba Ba 35,21 35,15 Il sale di calcio forma anch'esso una polvere cristallina molto solubile in acqna, insolubile in alcool. Etere etilico CHz3.C,HN3.C000, H;. — Per azione dell'acido clori- drico anidro sulla soluzione dell'acido in alcool assoluto. Liquido insolubile in acqua, di odore sgradevole, che a 60 mm. di pressione distilla intorno a 115°. Distillato più volte (per eliminarsene completamente l'acido cloridrico) diede all'analisi i seguenti risultati : Gr. 0,2800 di sostanza fornirono gr. 0,4780 di CO, e gr. 0,1491 di H,0. Gr. 0,2161 di sostanza, alla determinazione di ossi-etile col metodo di Zeisel, fornirono gr. 0,3347 di AgJ. Su cento parti : Trovato Calcolato per C, Hy N8 0.0C2 Hz C 46,90 46,45 H 9,91 9,80 —0.0:H; 29,64 29,03 Ciano-0-metil-osotriazolo. Hs0.C—_C.CN Il Il N N NA NH Ad onta delle cautele dirette ad evitare l’eterificazione del gruppo im- midico e che, come si disse, consistono nel fare uso di soluzioni molto diluite e fredde (— 10°) nelle quali il cianogeno sia in forte eccesso, non si riesce ad ottenere il superiore prodotto completamente scevro del rispettivo N-etere. Tuttavia la separazione dei due composti si effettua facilmente col benzolo. Il prodotto della reazione — una massa cristallina fortemente impregnata — 825 — di olio — si scioglie a caldo nella quantità strettamente necessaria di ben- zolo; per raffreddamento cristallizza il nitrile non eterificato, mentre l’olio (nitrile eterificato) rimane in soluzione (e può essere riottenuto). Per l’analisi il prodotto solido venne cristallizzato dal benzolo con ag- giunta di poco nero animale. Gr. 0,3246 di sostanza fornirono gr. 0,5323 di CO. e gr. 0,1206 di H;0. Gr. 0,1011 di sostanza fornirono cme. 45,0 di N misurati a 17° ed a 760". Gr. 0,9020 alla determinazione del ciano-gruppo col metodo della saponifi- cazione, fornirono gr. 1402 di ammoniaca. Gr. 0,1314 di sostanza abbassarono di 0°,28 il punto di congelamento di gr. 16,11 di acido acetico glaciale. Trovato Calcolato per C, H, Ny (COR 44,80 44,44 H°/ 4,12 3,70 N° 51,69 51,85 —CN / 23,08 24,07 Peso molecolare 113 108 Il ciano-c-metil-osotriazolo forma piccoli cristalli bianchi molto solubili in acqua, alcool, acetone, etere ed acido acetico, poco solubili in benzolo e quasi insolubili in etere di petrolio. Fonde a 84°, e a 30 mm. di pressione bolle a circa 160°. Non decolora a freddo il permanganato. La soluzione ac- quosa ha reazione acida; con solfato di rame dà un precipitato azzurro chiaro, con nitrato d’argento un precipitato bianco quasi caseoso, solubile in ammo- niaca, e un precipitato bianco dà pure col nitrato mercuroso. Trattato con potassa svolge ammoniaca. Sale di argento. È una polvere bianca, stabile alla luce, che riscal- data bruscamente si decompone con leggiera deflagrazione. Gr. 0,2007 di sostanza fornirono gr. 0,1010 di Ag. Gr. 0,1020 di sostanza fornirono cme. 23,9 di N misurati a 27° ed a 761°”, Su cento parti: Trovato Calcolato per C, Hi N, Ag Ag 50,32 50,23 N 25,89 26,04 Acido c-metil-osotriazol-carbonico. H;C.C—C.C00H | Il NN NZ NH Anche quest’acido, analogamente al suo omologo inferiore sopra descritto, può ottenersi dal corrispondente ciano-triazolo per saponificazione con potassa — 326 — alcoolica al 40°/,; tuttavia l'idrolisi con acido solforico diluito (25 °/,) si mostra preferibile anche avuto riguardo al rendimento. Dopo un conveniente riscaldamento (6-8 ore), il liquido solforico raffreddato abbandona la massima parte del prodotto acido in sottili aghi bianchi, lucenti. La rimanente parte può ancora ricavarsi neutralizzandosi il liquido con carbonato potassico (in presenza di metil-orange) ed estraendosi con alcool assoluto il residuo di sva- poramento. Il prodotto cristallizzato dall'acqua diede all'analisi i seguenti risultati: Gr. 0,3010 di sostanza fornirono gr. 0,4165 di CO, e gr. 0,1100 di H;0. Gr. 0,0784 di sostanza fornirono cme. 22,6 di N misurati a 17° ed a 7580, Su cento parti : Trovato Calcolato per C, Hi Ns.COOH C 37,74 37,09 H 4,06 3,93 N 33,13 33,07 L'acido c-metil-osotriazol-carbonico forma cristallini aghiformi bianchi, splendenti, solubili in acqua, alcool, acetone, poco solubili in etere, quasi insolubili in cloroformio, etere di petrolio, benzolo. Fonde a 214° decompo- nendosi con schiumeggiamento e fornendo una sostanza oleosa, anch'essa di reazione acida, che dà precipitati bianchi col nitrato di argento e col ni- trato mercuroso (probabilmente c-metil-osotriazolo). La soluzione acquosa ha reazione acida spiccata, decompone i carbonati, dà precipitati bianchi col nitrato d'argento e col nitrato mercuroso e un precipitato azzurro chiaro col solfato di rame. Sale di calcio. Venne ottenuto in forma di piccoli cristalli bianchi saturandosi la soluzione acquosa dell'acido con carbonato di calcio puro e concentrandosi a piccolo volume il liquido filtrato. Gr. 0,3115 di sostanza fornirono gr. 0,1421 di CaS0Q,. Su cento parti: Trovato Calcolato per C, Hi N; 0: ca Ca 13,41 13,69 Ciano-c-metil-n-etil-osotriazolo. H3C.C_—_C.CN I | N.C.H; Insieme col nitrile solido testè descritto si torma pure, come si disse, nella reazione del diazo-etano sul cianogeno, una quantità non indifferente di prodotto oleoso. Questa quantità è ancora più rilevante, ed anzi costituisce — 327 — quasi l’unico prodotto della reazione, se questa si fa avvenire fra soluzioni molto concentrate di cianogeno e diazo-etano, siano pure raffreddate con ani- dride carbonica solida. In queste condizioni il loro miscuglio si decolora all'istante e lo sviluppo gassoso che contemporaneamente sì produce è tanto energico da simulare un’attivissima ebollizione dell’etere. Il prodotto di rea- zione — un liquido bruno, di odore poco gradito, che per raffreddamento non si rapprende in massa solida, o mostra solo qualche grumetto cristallino — contiene una quantità ben piccola del nitrile solido non eterificato; infatti sottoposto alla distillazione frazionata, a 80 mm., passa per la maggior parte a 100°-110° e fornisce solo poche goccie di un liquido bollente a 160° e che, dal punto di fusione 204°, si riconosce per il ciano-c-metil-osotriazolo sopra descritto. Infine, se l’esperienza è disposta in modo che il cianogeno gassoso gorgogli molto lentamente (da un piccolo gassometro) in una solu- zione eterea anche fredda, ma concentrata, di diazo-etano, il prodotto che sì ricava, a reazione (decolorazione) completa, è esclusivamente il liquido oleoso cennato. Questo liquido dopo una prima distillazione a pressione ridotta mo- strava a 28 mm. il p.eb.costante 105°, epperò risulta completamente iden- tico al prodotto che si ricava dal ciano-c-metil-osotriazolo per eterificazione col diazo-etano. Gr. 0,1228 di sostanza fornirono cme. 42,7 di N misurati a 15° ed a 7640, Gr. 0,2200 di sostanza fornirono gr. 0,3010 di cloro-platinato ammonico. Su cento parti : Trovato Calcolato per C Hg Ny N 40,96 41,17 —CN 16,02 19710 Il ciano-c-metil-n-etil-osotriazolo è un liquido oleoso, incoloro, di odore aromatico gradevole. Non è mescibile con l’acqua, si mescola invece con l’al- cool, con l'etere, col benzolo. Ha reazione neutra. Riscaldato con potassa con- centrata svolge ammoniaca. Acido c-metil-n-etil-osotriazol-carbonico. H;C.C—_C.C00H I I RL A N.C,.H; Dopo un conveniente riscaldamento del nitrile eterificato con acido sol- forico al 25 °/,, il liquido solforico raffreddato abbandona buona parte del- l'acido in forma di piccoli cristalli aghiformi. La rimanente parte può an- cora ricavarsi neutralizzandosi il liquido acido con carbonato potassico (in presenza di metil-orange) ed estraendosi con etere il residuo di svaporamento. — 328 — Cristallizzato dal benzolo diede all'analisi i seguenti risultati: Gr. 0,2102 di sostanza fornirono gr. 0,3571 di CO, e gr. 0,1130 di H,0, Gr. 0,0841 di sostanza fornirono cme. 19,6 di azoto misurati a 16° ed a 759, Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs Hs N3 Oa C 46,33 46,45 H 5,97 5,80 N 27,13 27,09 L'acido c-meti-n-etil-osotriazol-carbonico forma piccoli aghi bianchi splen- denti, solubilissimi in etere, alcool, acetone e cloroformio, un po’ solubili in benzolo ed in acqua, quasi insolubili in etere di petrolio. Fonde a 131° e nel vuoto distilla inalterato. Ha reazione acida, decompone i carbonati; col nitrato mercuroso dà un precipitato bianco. Sale di calcio. Venne ottenuto sotto forma di polvere bianca, cristal. lina, solubilissima in acqua ed in alcool, saturandosi la soluzione acquosa dell'acido con carbonato di calcio puro e svaporandosi a secco, su bagno- maria, il liquido filtrato. Il prodotto disseccato a 120° fino a peso costante diede all'analisi il seguente risultato : Gr. 0,2356 di sale fornirono gr. 0,0924 di CaS0,. Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs Hs Ns 0x ca Ca 11,58 11,49 Geologia. — Azzurrite e Malachite dei dintorni di Lago- negro in Basilicata. Nota del Corrispondente Giuseppe De Lo- RENZO. L'ing. Giovanni Bruno, che ora dirige i lavori del grande acquedotto pugliese, una ventina d'anni fa, dimorando in Basilicata, fece nel circondario di Lagonegro una preziosa raccolta di osservazioni geologiche, di fossili e di rocce, tra cui sono specialmente degni di menzione e considerazione alcuni frammenti di rocce mineralifere, provenienti dal Timpone Rosso presso Lago- negro. Sono pochi pezzi, di forma lenticolare, di una roccia silicea, scistosa e scura, d'aspetto ftanitico, con variazioni rossigne brune, come di diaspro. Tutta la roccia è traversata da numerose e sottili vene di quarzo latteo o bruno, ferrifero, dello spessore di qualche millimetro e comunemente normali ai piani di scistosità della roccia, in modo da rivelare a colpo d'occhio la Toro origine, dovuta a deposizione idrica di silice nelle fratture della roccia. — 329 — Non mancano però vene e noduletti di quarzo intercalati tra i piani di sci- stosità, ma sono più rari. Sia lungo i numerosissimi piani di frattura, sem- plici o riempiti da vene di quarzo, che lungo le facce di scistosità, la roccia è tutta spalmata di un minerale verde malva, a cui in minore proporzione, ma sempre in rilevante quantità, è associato un minerale azzurro di smalto: qua e là poi si notano macchie di un rosso rameico e di un rosso di ruggine e brune polverulente. Queste ultime hanno tutta l'apparenza della limonite e forse anche della cuprite o della tenorite. Le incrostazioni e le vene verdi ed azzurre danno egualmente polveri, che fanno effervescenza con gli acidi e sì sciolgono nel- l’ammoniaca, colorandola in azzurro. Non v'è quindi dubbio, che si tratti di carbonati di rame, e propriamente di malachite e d’azzurrite. La prima non è mai cristallizzata, ma forma solo incrostazioni terrose e foliacee e vene fibrose, con splendore sericeo e colore smeraldino, più chiaro nella scalfittura. L'azzurrite invece si presenta in vene più massiccie, ed in granuletti cristal- lini di splendore vitreo, ed a volte anche si trova in qualche piccola geode, associata a cristallini di quarzo, in cristallini prismatici e tabulari, non più grossi di un millimetro, con poche facce, in cui è possibile discernere (110) associata con (101). Dal modo di presentarsi risulta chiaro, che la malachite proviene in grande parte dall'azzurrite, per assorbimento di H,0. Ma sia la malachite che l'azzurrite di queste rocce debbono provenire da altro minerale di rame: probabilmente da calcopirite, per azione di acque carboniche, come indica l'associazione con limonite e la presenza di qualche piccolo ottaedro azzurro, che sembra la pseudomorfosi del doppio tetraedro della calcopirite. L'aspetto complessivo della roccia mineralifera, a colori vivaci, può ricordare in certo modo i mertales di color, che sono appunto i minerali d'altera- zione dei filoni cupriferi del Chile. Per discuterne però la genesi è necessario esaminare prima bene la giacitura di queste rocce prese in esame. Di esse ora non altro si sa, che provengono dal Timpone Rosso, dove io stesso ricordo a suo tempo di averne visto qualche esile venuzza. Il Tim- pone Rosso è un colle ad occidente di Lagonegro, lungo, da nord a sud, poco più di un chilometro ed alto 785 m. sul livello del mare. Ad occi- dente esso è tagliato ripidamente dalla profonda gola del finme Noce, che scorre a circa 300 m. sotto la sua cima ed a più di 400 m. sotto la cima del Nizzullo, che sta di fronte. Gli strati più bassi. segati dal fiume, sono rappre- sentati da grossi banchi di calcari a noduli di selce, che gradatamente verso l’alto s'alternano con scisti marnosi, argillosi e silicei e finiscono col passare ad un complesso sovraincombente di scisti argillosi e silicei di colore pre- valentemente rosso, che costituiscono la parte superiore del monte, al quale danno il nome. Il complesso dei calcari a noduli di selce e dei sovrastanti e concordanti scisti rossi appartiene alla parte superiore del Trias medio, o RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 44 — 330 — piano /adinico di Bittner, che fa quasi da passaggio al Trias superiore. Sia i calcari che gli scisti, attraversati da fratture, che li fanno scendere a gradinata verso il fiume Noce, alzano appunto verso questo fiume le testate dei loro strati ed inclinano poi fortemente ad oriente, dove s’immergono sotto un lembo di argilla scagliosa e scisti argillosi del Flysch eocenico superiore, che riempie la breve vallecola di S. Francesco, ad occidente del paese, ed è in basso, sul piazzale della stazione ferroviaria, a sua volta sormontata dalle antiche alluvioni del fiume Serra, che ora scorre una cin- quantina di metri più in basso. MNizzullo 866 Timpone Rosso 735 Serra Scala 104500 _ + y __m_Kivello del mare peo Cn. Calcari a noduli di selce del piano ladinico. — SS. Scisti silicei. -- Cs. Calcari a scogliera intercalati negli scisti silicei. — Y. Hauptdolomit. — G. Calcari giuresi. — F. Flysch eocenico superiore con rocce ofiolitiche alterate. — A. Antiche alluvioni del fiume Serra. Siccome tra le argille e le arenarie del Flysch eocenico si trovano anche straterelli di galestri e rocce silicee, e siccome nello stesso materiale eocenico, scavando ad una profondità di oltre venti metri sotto una delle pile del via- dotto ferroviario sul S. Francesco, rovinato appunto per la franabilità delle argille, sì trovarono materiali verdi e rossastri, provenienti probabilmente da rocce ofiolitiche protondamente alterate (che si trovano poi più fresche ed zan sttu a pochi chilometri di distanza, fra Trecchina e Lauria), si potrebbe credere che le rocce cuprifere provengano appunto dall'Eocene e siano in relazione col materiale ofiolitico: come avviene appunto pei giacimenti cupri- feri dell'Appennino settentrionale. Ma il modo di presentarsi di questi giacimenti è diverso; e nel nostro Eocene ancora non sì sono trovate tracce di minerali di rame in tali condizioni. D'altra parte la roccia silicea da me esaminata mostra chiaramente la sua affinità con quelle che costituiscono il Timpone Rosso: quasi certamente quindi anch'essa proviene da quegli strati del Trias. In tale caso le tracce di minerali cupriferi di Lagonegro più che ai gia- cimenti associati con le rocce basiche eoceniche dell'Appennino settentrionale — 981 — rassomigliano a quelle del Trias delle Alpi Apuane; come si può immedia- tamente scorgere lesgendo la descrizione, che ne dà Bernardino Lotti a pag. 102 e seg. del suo volume su / depositi dei minerali metalliferi, To- rino, 1903. I minerali cupriferi delle Alpi Apuane, serive il Lotti, sono intima- mente associati alla formazione scistosa immediatamente sovrapposta ai marmi apuani e riferibile alla parte superiore del sistema triasico. Essa consta di arenarie scistose, di scisti e calcescisti verdi e violetti e di strati diasprini rossastri. La pirite e la calcopirite sono disseminate in minime particelle negli scisti argillosi verdi o concentrate in filocelli e in vene a matrice di quarzo, e più raramente di calcite, che traversano gli scisti stessi. Questi filoni non penetrano mai nei calcari marmorei, ma rimangono sempre colle- gati alla formazione scistosa, di cui seguono le pieghe e le dislocazioni. Presso San Viano queste rocce non racchiudono vene o filoni, ma sono im- pregnate di minute particelle di calcopirite e presentano per estesi tratti delle eftlorescenze di carbonato di rame. Queste concentrazioni filoniformi cuprifere sono numerose e sparse sopra una vasta superficie nei dintorni di Vagli, sempre però limitate alla formazione degli scisti triasici, e traccie cuprifere si manifestano altresì, per mezzo di efflorescenze di carbonato verde, in tanti altri punti delle Alpi Apuane, dove compariscono tali scisti, come, ad esempio, al Passo di Sella, a Corfigliano, nello Stazzanese e in Arni. E non soltanto nelle Alpi Apuane questa formazione è cuprifera; nel Monte Pisano sì trova cogli stessi caratteri di quella dei dintorni di Vagli e quivi pure presenta in vari punti efflorescenze di carbonato di rame. Lo stesso verificasi negli scisti analoghi del trias superiore nella Montagnola Senese presso Marmoraia. È degno di nota il fatto che i minerali metallici di questi giacimenti sono costituiti esclusivamente da calcopirite con poca erubescite, da pirite e da ossido di ferro. Non vi ha traccia degli altri solfuri che nei filoni metalliferi ordinari accompagnano il solfuro di rame. Dall’insieme dei quali fatti sembra doversi concludere che questi giacimenti cupriferi delle Alpi Apuane sono intimamente collegati alla roccia che li racchiude. Dalle minute particelle cuprifere in esso diffuse si passa a piccole concentrazioni venuliformi e quindi a filoncelli ben caratterizzati. I minerali di ferro e di rame disseminati nella roccia debbono quindi riguardarsi come originari e contemporanei alla sua sedimentazione; le vene ed i filoni sono indubbia- mente posteriori e rappresentano il prodotto di concentrazione di quelle par- ticelle nelle fratture della roccia per opera delle acque sotterranee circolanti. Non altra origine hanno avuto i carbonati di rame degli scisti silicei triasici di Lagonegro ed i noduli di solfuri di rame e ferro, da cui quelli sono derivati. E questo è un altro punto di contatto tra il Trias della Basi- licata e quello delle Alpi Apuane, di cui già altrove ho indicato le rasso- miglianze di rocce, di fossili e di tettonica. — 332 — Ma, se i minerali cupriferi delle Alpi Apuane non hanno alcuna impor- tanza industriale, ancora meno, se è possibile, ne avranno quelli di Lagonegro, che si riducono a tracce quasi impercettibili. Avviene di essi in più gravi proporzioni quel che avviene dei giacimenti di lignite e di petrolio o di bitume dell'Italia meridionale, di cui quasi nessuno può servire per ora ad altro fuor che ad usi locali, se pure! Sarebbe forse il caso di vedere, se gli scisti ittiolitiferi bituminosi del Trias superiore di Giffoni in provincia di Salerno, di cui il prof. Bassani ha dimostrato l'equivalenza con quelli simi- lissimi di Seefeld nel Tirolo, contengano, al pari di quelli, l'ittiolo. Ma forse anche questa è una speranza vana e l’Italia meridionale, nello stato attuale delle nostre conoscenze dei materiali utili della Terra, deve rinunziare ad ogni speranza di un qualsiasi vasto sfruttamento di ricchezze minerarie. Geologia. — Sopra è supposti giacimenti granitici dell’ Apen- nino Parmense. Nota del Corrispondente C. VioLa e di D. SANGIORGI. Allo scopo di organizzare una o più escursioni per i geologi e petrografi che converranno a Parma in occasione del congresso promosso dalla Società Italiana per il progresso delle scienze, abbiamo visitato le località dell’Apen- nino parmense che a nostro giudizio possono offrire un maggior interesse, sia per questioni importanti di geologia non ancora perfettamente chiare e solute che ad esse si connettono, sia per la presenza in quantità notevole di rocce caratteristiche o di rocce non comuni nel nostro Apennino. Le formazioni serpentinose, che assumono nel parmense uno sviluppo notevole e caratteristico, e le rocce e le formazioni che direttamente o indi- rettamente vi si collegano o si presume vi si colleghino, sono state princi- palmente oggetto delle nostre osservazioni e dei nostri studi. I graniti appunto che quivi si rinvengono generalmente al contatto o in connessione con le formazioni serpentinose, hanno particolarmente richiamato la nostra attenzione; e dopo averli osservati in tutti i loro particolari, abbiamo desiderato rife- rire sui fatti accertati e sulle osservazioni eseguite, affinchè i geologi e i petrografi che prenderanno parte alle escursioni siano attirati vieppiù e pos- sano a lor volta controllare quanto abbiamo creduto di stabilire. I cosidetti graniti dell'’Apennino devono la loro importanza al fatto che dopo le scarse, ma abbastanza esatte notizie e osservazioni del Pareto (!), altri geologi dopo di lui credettero di dover riaprire la questione che sem- (1) L. Pareto, Sur les subdivisions que l’on pourrait établir dans les terrains ter- tiaires de l’Apennin septentrional. Bull. de la Soc. Géol. de France, 24 ser., t. XII, pag. 215. — 333 — brava chiusa e definita, dando luogo a discussioni ed enunciando ipotesi di- verse tanto sulla natura quanto sull'origine di detti graniti. Vari sono i giacimenti eocenici in cui si rinviene il granito o diciamo meglio i graniti. Si citano a tale intento il Groppo del Vescovo nell'alta valle del Baganza, il Groppo Maggio nella valle della Manebiola affluente del Taro; e noi possiamo aggiungere che graniti sì rinvengono ancora sulle vette e sulle falde che coronano il pittoresco abitato di Bergotto pure nella valle della Manebiola; inoltre sul crinale che, girando intorno a Groppo Maggio, va verso Gorro. Forse facendo più minute ricerche verranno alla luce altri giacimenti in cui non mancano graniti: giacimenti di più o meno importanza secondo la loro estensione, la loro potenza, e la loro natura delle rocce. I due giacimenti più importanti sono quelli di Groppo del Vescovo e di Groppo Maggio. Su quest'ultimo è in corso una Nota di uno di noi nel Bol- lettino della Società Geologica Italiana, ed è superfluo ripetere quanto è in essa riferito. Anzi avendo i due giacimenti tra loro strette analogie, valga per l'uno, per le generalità, quanto qui si dice dell'altro. Per varie ragioni fra tutti primeggia il giacimento di Groppo del Vescovo, forse così chiamato, perchè veduto da val di Magra, sembra un vescovo in cocolla. Colla scorta delle descrizioni che esistono di questo giacimento non è facile rinvenirlo, così esse sono poco esatte e anche contradditorie. Pareto (*) cita Groppo del Vescovo e asserisce che in quella località non esiste il granito in posto; il Del Prato (?) lo ammette e scrive anzi che al Groppo del Vescovo il granito si presenta sulla cima del monte fortemente derudato in torri e guglie. Ora sulla cima del monte (cresta del Groppo del Vescovo e crinale dell’Apennino) non vi è granito. Le torri e le guglie di cui fa cenno il Del Prato, sono di calcare marnoso eocenico a strati rialzati verso la valle di Magra. Il De Stefani (*) parla bensì in più pubblicazioni importantissime e a lungo dei graniti parmensi, ma non ne precisa nè la na- tura nè la località, sicchè dalle sue descrizioni non si può trarre nulla di con- creto per il caso del Groppo del Vescovo o di Groppo Maggio. Così pure il Sacco (4) si limita a citare le località diverse dell’Apennino emiliano in cui sì rinvengono graniti. (1) Loc. cit. (*?) A. Del Prato, Za geologia dell’Apennino parmense. R. Istituto Lombardo, Ren- diconti, serie II, vol. XV, fasc. VII, pag. 8. (*) C. De Stefani, Ze rocce serpentinose della Garfagnana. Boll. R. Comm. geol. d’Italia, vol. VII, pag. 16; Sulle serpentine e sui graniti eocenici superiori dell'alta Garfagnana, Boll. R. Comm. geol. d'It., vol. IX, pag. 19; Ze rocce eruttive dell’Eocene superiore nell’Apennino. Boll. Soc. geol. d’It., vol. VIII, 1889, pag. 213 e seg. (4) F. Sacco, L’Apennino settentrionale (Parte centrale). Boll. Soc. geol. it., vol. X, 1891, pag. 283 e seg. — 334 — Il Taramelli (') ricordando più volte i graniti del nostro Apennino, non dà indicazioni topografiche precise sulla loro giacitura. E accettando egli l'opinione del Pareto, considera giustamente i graniti dell’Apennino come con- glomerato. E ancora noi possiamo effettivamente provare con numerosi fatti che il cosidetto granito del Groppo del Vescovo è un agglomeramento di frantumi. Il giacimento in parola non ha un'estensione molto grande, nè una grande potenza, benchè superi gli altrì giacimenti analoghi della regione; esso sbarra, nella sua parte a monte, la valle del Baganzola, formando un piccolo salto. Si può girarlo, visitarlo ed esaminarlo tutto, e direi anzi impossessarsene completamente in una breve gita di poche ore, senza lasciare inosservata al- cuna traccia di esso. Prendendo le mosse dalla cresta del Groppo del Ve- scovo, ove si può accedere comodamente p. es. dal passo della Cisa, e scen- dendo verso il Baganzola o meglio verso casa Baganza, sì incontrano sulle falde del monte verso il letto del piccolo torrente un ammasso caotico di blocchi di granito isolati, i quali non chiariscono bene la natura del giaci- mento in questione; ma nei fossi laterali sì può osservare in alcuni punti il granito associato alle arenarie quarzifere e feldspatiche. Là dove il giacimento sbarra il Baganzola formando il salto di cui si è detto sopra, fu tempo addietro aperta un cava forse con la speranza di ricavarvi del granito omogeneo. In questa cava, ora abbandonata, il giaci- mento a base di granito apparisce chiaramente quale esso è, vale a dire un assieme, un agglomerato di frantumi di graniti di tipo diverso. Esso non è infatti una roccia massiccia perfettamente omogenea, nè tale e poi suddivisa da infinite fessure riempite di tritume della stessa roccia, posteriormente, per effetto delle acque, ovvero interrotta da qualche frantume di roccia sporadica. I frammenti che la compongono non sono di una sol specie di roccia: vi sì scorgono all'opposto varie specie di granito, granitite a piccoli e a grandi elementi, pegmatiti, apliti, graniti porfirici, felsiti quarzifere grigie aventi nel I tempo quarzo e ortoclasio; oltre di queste roccie massiccie in alcuni massi troviamo subordinatamente, ma pur abbastanza di frequente, frammenti di are- narie quarzifere, analoghe a quelle dell'Eocene, e calcari pure di aspetto prettamente eocenico. Tutti questi frammenti eterogenei, per lo più a spi- goli vivi, ma anche sovente arrotondati, di dimensioni svariate, ora notevol- mente grandi ora relativamente piccoli, sono rinsaldati assieme dagli ele- menti stessi del granito; e rinsaldatì cosi, dànno luogo a un giacimento che a primo aspetto e a veduta non troppo accurata ha tutta l'apparenza di un massiccio granitico, nella guisa che fu tale anche ritenuto da varî geologi e buoni osservatori. (1) T. Taramelli, Sulla formazione serpentinosa dell’ Apennino pavese. Mem. d. R. Ace. dei Lincei, ser. 33, vol. II, Roma, 1878; Del granito nella formazione serpentinosa dell’Apennino pavese. Atti R. Ist. lomb. di scienze e lettere, ser. 2*, vol. IX, Milano, 1878. — 335 — E tanto è più facile cadere in tale errore di giudizio, inquantochè si tro- vano massi isolati, spesso di notevoli dimensioni, provenienti certamente dal conglomerato in questione, che o sono completamente formati da un sol tipo di granito, o gli elementi diversi sono così scarsi da non essere avvertiti che dietro esame minuto e accurate osservazioni, non sempre possibili attesa la scabrosità dei luoghi. Effettivamente dunque l’assieme del giacimento altro non è che un conglomerato, diverso dai conglomerati a roccie cristalline, i quali estesissimi appariscono nel versante tirreno dell’Apennino meridionale, ma pur tuttavia un conglomerato. Abbiamo percorso il Baganzola passo passo per accertarci di queste nostre prime osservazioni. E anche là ove grandi blocchi di questo terreno è accumulato caoticamente alla rinfusa, abbiamo dovuto constatare che i blocchi sono massi staccati da conglomerato, il quale Groppo del Vescovo 124f m, Baganzola : Casa Haganza e= Calcari marnosi in prevalenza. g= Conglomerato granitico. riposa sopra i calcari marnosi e le marne dell’Eocene. Nel Baganzola gli strati di conglomerato sono potenti di parecchi metri e di un aspetto così perfettamente clastico, che non ne può lasciare un dubbio a chicchessia. Il con- glomerato è ricoperto dalle medesime rocce eoceniche che si trovano alla base di esso, di guisa che si deve ritenere che il conglomerato sia un banco ab- bastanza potente intercalato con concordanza nell’Eocene, come è rappresen- tato nella figura annessa. Aveva perciò ragione il Pareto (!) quando scriveva, parlando del Groppo del Vescovo, che « le massif de cette roche (granite), qu'on disait se trouver sur la chaine centrale, près de la Cisa et former la montagne appelée Groppo del Vescovo, n'existe pas réellement ». E dopo aver detto che la montagna è invece di calcare, come è realmente nella sua massima parte, proseguiva affermando che di granito non esiste traccia « excépté quelques cailloux roulé (®) Loc. cit. — 336 — compris dans une espèce de conglomérat ou de brèche qui est ici réuni, comme près de Cassio, aux calcaires de l'époque ». Qui realmente nasce il dubbio se il Pareto abbia visto il conglome- rato in posto, ovvero solo qualche masso o ciottolo erratico. Il giacimento si estende e si può seguire nel Baganzola per qualche centinaio di metri, e non è quindi il caso di parlare di quelques cailloua roulé. Come nemmeno è paragonabile, nella sua generalità, il conglomerato di Groppo del Vescovo con quello di Cassio, perchè in quest'ultimo i singoli ele- menti del conglomerato sono quasi sempre assai minuti, abbastanza uniformi, e l'elemento granitico, pure costituendo una parte essenziale, non ha sugli altri una prevalenza così assoluta, come nel conglomerato di Groppo del Vescovo. Concludendo e riassumendo dunque il giacimento del Groppo del Vescovo, il quale da alcuni è stato ritenuto un granito come roccia massiccia, ci apparisce ed è all'incontro un vero conglomerato costituito in prevalenza di granito, ma non di una sola varietà di granito, bensì di diverse varietà: in via subordinata vi troviamo altre rocce, parte eruttive, come diabasi, parte sedimentarie, come calcari; il conglomerato è intercalato negli strati marnoso- calcarei dell’Eocene. Ci siamo dilungati un poco sopra il conglomerato del Groppo del Ve- scovo anche per questo fatto, che esso non è nè sopra, nè sotto, nè vicino a rocce verdi, almeno in modo visibile, quali serpentine, diabasi, gabbri ecc. 1l conglomerato analogo di Groppo Maggio, i grumi granitici attorno a Monte Penna, a Monte Nero, a Monte Ragola, quelli presso Boccolo dei Tassi, Bedonia, Vianino, per non parlare dei numerosi più lontani del bob- biese, hanno tutti una certa comunanza o relazione con le zone ofiolitiche dell'’Apennino. Per essi apparisce giustificato quindi l'ipotesi felice del Ta- ramelli (') che i graniti rappresentino la 7occia d'imballaggio di roccie eruttive. Ma quello del Groppo del Vescovo non può avere la medesima ori- gine. È ben vero che il Taramelli descrive in più luoghi (2) conglomerati granitici lontani essi pure da masse ofiolitiche: quali i conglomerati del- l'Apennino pavese presso Borgoratto, quelli presso Voghera e tanti altri: ma essi sono intercalati nelle argille scagliose, sull'origine delle quali vi è ancora incertezza. Il Taramelli per assegnare anche a questi conglomerati granitici uguale origine degli altri che sono al contatto con le ofioliti, ammette l'ipotesi che sotto alle argille scagliose comprendenti i graniti, vi possano essere masse ofiolitiche le quali appunto dalle profondità terrestri avrebbero strappati e sollevati detti conglomerati. (1) T. Taramelli, Della posizione stratigrafica delle rocce serpentinose nell'Appen- nino. R. Accad. Lincei, Transunti 1884. (*) T. Taramelli, Sulla formazione serpentinosa ecc. ecc.; Del granito nella forma- zione ecc. ecc. — Gode Comunque non avendovi per il conglomerato granitico di Groppo del Vescovo la presenza delle argille scagliose, almeno per quanto ci è dato a vedere, pare a noi che difficilmente sia applicabile ad esso la felice ipotesi invocata dal Taramelli per altri graniti. Noi crediamo che una teoria sulla sua genesi, deve rispondere bene ai seguenti fatti: 1. il conglomerato è costituito di varie specie di rocce cristalline e sedimentarie ; 2. i suoi elementi sono in prevalenza grossi e spesso non arrotondati ; 8. intorno ai frammenti del conglomerato non esiste alcuna altera- zione dovuta al calore di una roccia fusa in cui potessero essere stati in- globati ; 4. infine in vicinanza del conglomerato granitico non esiste alcuna roccia eruttiva. È evidente che i frammenti di rocce granitiche appartenenti al conglo- merato sono stati staccati da un massiccio non molto distante da esso. Se questo massiccio abbia esistito prima della deposizione dell’Eocene o di una parte di esso, e sia poi stato ricoperto dall’Eocene, è un’ipotesi lecita ma non controllabile con l'osservazione, e perciò di poco valore. A noi per ora basta di avere constatato i fatti che ci sembrano inte- ressanti, e per corroborarli meglio daremo in una prossima Nota l'analisi microscopica delle varie rocce da noi raccolte nel conglomerato del Groppo del Vescovo, con alcune riproduzioni di sezioni sottili. Matematica. — A/eune proposizioni fondamentali per la geo- metriu sulle varietà algebriche. Nota di FRANCESCO SEVERI, pre- sentata dal Socio C. SEGRE. La conoscenza abbastanza ampia che si possiede ormai delle funzioni algebriche di una e di due variabili, non permette di intuire sempre per analogia le corrispondenti proprietà per le funzioni di tre o più variabili, se si eccettuano alcuni teoremi, i quali, per la natura stessa delle dimostrazioni, sì possono ritenere noti per varietà algebriche di dimensione qualunque. Sono tra questi, il teorema relativo all'unicità del sistema lineare completo cui appartiene una data funzione razionale dell'ente, il Restsatz, il teorema fon- damentale dell’aggiunzione, ecc. Altre proposizioni di geometria sopra una varietà, appariscono invece addirittura inattese. Basti citare qualche teorema in cui mi sono imbattuto in alcune ricerche sulle varietà, che mi propongo di esporre qui sommaria- mente, riservando gli sviluppi ad un altro lavoro. Così ad esempio, mentre il genere aritmetico di una superficie non è legato ai caratteri del sistema canonico (grado e genere), il genere aritmetico RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 45 — 338 — di una varietà a tre dimensioni si può esprimere mediante il grado e il genere aritmetico del sistema canonico; mentre il genere aritmetico di una superficie non supera mai il genere geometrico, per una varietà a tre dimen- sioni il genere aritmetico può essere minore, uguale o maggiore rispetto al genere geometrico; mentre una superficie con un gruppo permutabile oo? di trasformazioni birazionali (superficie di Picard), ha il genere geometrico di- verso dall'aritmetico, una varietà di Picard a tre dimensioni (varietà con un gruppo permutabile 00°) ha i due generi tridimensionali uguali; ecc. ecc. Tuttavia le ricerche che esporrò attorno alle varietà a tre dimensioni, lo studio di qualche esempio e alcune considerazioni generali sulle varietà di dimensione qualunque, permettono d'intravedere le proprietà più notevoli delle varietà superiori, e in particolare mostrano come le analogie più spic- cate si ritrovino tra le varietà la cui dimensione ha la stessa parità. Così ad esempio, per le varietà a quattro dimensioni il genere aritmetico torna ad essere indipendente dai caratteri del sistema canonico. Ma di queste analogie mi occuperò nel lavoro più esteso. 1. Generi virtuali di una superficie — Caratteri di un sistema lineare. Sulle superficie algebriche uno dei concetti più fecondi (dovuto al Noether) è quello relativo al genere virtuale di una curva. Similmente sopra una va- rietà algebrica V a tre dimensioni, si hanno da considerare i generi virtuali, aritmetico e geometrico, di una superficie. Tralasciando di definire i generi di una superficie di cui si considerino come inesistenti alcune singolarità, ci fermeremo al caso di una superficie composta di due parti F, F,. Se p,,p sono i generi aritmetici delle due parti e 77 il genere (virtuale) della curva ad esse comune, il genere aritme- tico (virtuale) della superficie composta è (1) Ca=Pa + Pa 4 2 (1). Quanto al genere geometrico (virtuale) della stessa superficie, esso è espresso da (2) ag=P9 + Pa +, purchè però si ammetta che F appartenga ad un sistema continuo (al- (1) Di questa formula trovasi un caso particolare al n. 42) della mia Nota: S% alcune questioni di postulazione (Rendiconti di Palermo, 1903): il caso cioè in cui F, Fi costituiscano la completa intersezione di r —2 forme dello S,. Ma la dimostrazione pel caso generale non è così semplice come lo potrebbe far supporre il fatto che il sig. Pan- nelli nella sua Nota: Sopra alcuni caratteri di una varietà algebrica a tre dimensioni (questi Rendiconti, seduta del 6 maggio 1906), dichiara di averla omessa per brevità. La dimostrazione stessa si troverà (in generale per varietà qualunque) nel mio lavoro più esteso. — 339 meno co!) di grado > 0. Se della stessa proprietà gode anche F,, si ha naturalmente 29=pa+p, +7, Po, P; essendo i generi geometrici di F, F,. La formola (2) si deduce subito dalla (1), in virtù del teorema (di Castelnuovo-Enriques), che avrò occasione di richiamare più tardi, concer- nente l'irregolarità superficiale di V. Dato su V un sistema lineare |F|, oltre al genere aritmetico di F (cal- colato riguardando eventualmente come inesistenti alcune singolarità base), si hanno da considerare i caratteri virtuali seguenti del sistema |F|: il « grado », cioè il numero delle intersezioni di tre superficie del sistema fuori della base assegnata; il « genere », cioè il genere (virtuale) della curva comune a due superficie del sistema fuori della base assegnata. Si può facilmente dare di questi caratteri definizioni che abbiano senso anche quando |F| ha la dimensione 0 o 1, analogamente a ciò che si fa sulle superficie. Si ottengono immediatamente le formole che esprimono il grado e il genere del sistema lineare |F -- F.| somma di due altri |F|,|F,|. Quanto al genere aritmetico del sistema somma, esso è dato dalla (1). 2. Generi della varietà V — Le due irregolarità. Sopra una varietà V, a tre dimensioni, si hanno anzitutto i generi considerati da Noether(') e cioè: i a) Il genere geometrico tridimensionale P,: numero delle superficie canoniche linearmente indipendenti, od anche — sotto forma proiettiva, e supponendo la V, d'ordine 7, immersa nella Ss — numero delle forme ag- giunte d'ordine n —5 linearmente indipendenti. Il genere P, è invariante rispetto a tutte le trasformazioni birazionali delle varietà (Nòther, Enriques). 0) I caratteri del sistema canonico (genere superficiale, genere e grado). Si può dare di essi una definizione aritmetica, considerandoli come caratteri delle superficie (virtuale, per P,= 0) FE" — F, ove F' è una su- perficie del sistema aggiunto ad |F|. Si ottengono allora tre invarianti 2,2,, 2, corrispondenti rispettivamente al grado, genere, genere aritmetico di E' — F. Essi coincidono coi caratteri di Nòther quando V sia priva di superficie eccezionali, che entrano come parti fisse in |F' — F|, e quando la superficie canonica sia regolare. Sono invarianti relativi: l'effetto prodotto su essi dalle trasformazioni che introducono superficie eccezionali, è stato studiato dal (1) Zur Theorie des eindeutigen Entsprechens algebraischen Gebilde (Mathema- tische Annalen, Bd. VIII). — 340 — Pannelli ('). Veramente questi invarianti riduconsi a due soli distinti, perchè sussiste la relazione 20, —2=3%, che sì verifica facilmente (°). Oltre gl’invarianti predetti si ha ancora: c) Il genere aritmetico tridimensionale P,: numero virtuale delle forme aggiunte d'ordine x — 5 linearmente indipendenti. Supposto che la V sia dotata di singolarità ordinarie, cioè una superficie doppia D, con una linea tripla per V e per D, con un numero finito di punti quadrupli per V e per la linea tripla e sestupli per D, le forme aggiunte a V soddisfano sem- plicemente alla condizione di passare per D. Detta 4 (/) la postulazione della D per le forme d’ordine / assai alto, il genere aritmetico di V viene espresso dalla formola Dj | P, 0 ». Orbene, l'irregolarità di queste superficie, che è poi uguale al numero degli integrali semplici di 1° specie appartenenti a V, si chiamerà seconda irregolarità o drregolarità superficiale della varietà. 3. Il teorema di Riemann-Roch sopra una varietà a tre dimensioni. Sopra una varietà a tre dimensioni mon è possibile assegnare per tutti i casi neppure una disuguaglianza tra la dimensione 7 di un sistema, i suoi carat- teri 2,77, pa,t (grado, genere, genere aritmetico, indice di specialità) e il genere P, della varietà: già lo si arguisce dal fatto che non è possibile assegnare una disuguaglianza sempre valida, tra la dimensione effettiva P, — 1 del sistema canonico e la sua dimensione virtuale P, — 1. Si riesce però a dimostrare che: Sopra una varietà algebrica a tre dimensioni V, la dimensione r di un sistema lineare completo |F| di superficie (anche riducibili), il quale st possa considerare come l’aggiunto di una superficie G, appartenente ad un sistema continuo di grado > 0, soddisfa alla disuguaglianza (4) r=n—-a+p,—Pa+2, ove n, TT, Pa denotano rispettivamente il grado, il genere, il genere aritme- tico di |F| e P, il genere aritmetico di V. Esistono inoltre sistemi |F| per cui vale il segno =. Un sistema (completo) per cui vale l'eguaglianza, è p. es. quello con- tenente totalmente le sezioni di V, supposta priva di singolarità nello Sa, con le forme d'ordine / abbastanza alto. Si dimostra anzi che il sistema di queste sezioni è esso stesso completo; e da ciò si deduce la postulazione di V per le forme d'ordine L. Il secondo membro della disuguaglianza (4) si deve considerare come la dimensione virtuale del sistema (non speciale) |F|. Indicando con pa il genere aritmetico virtuale della superficie G, di cui |F| è l'aggiunto, si trova pure (5) r=Pp, — 1+Pa. (1) Sur les intégrales simples de première espèce d'une surface ou d'une variété algebrique à plusieurs dimensions (Annales de l’Ecole normale de Paris, 1906). — 342 — In particolare si può scegliere un tal sistema |F|=|G'| che in corrispon- denza ad esso valga il segno = in ambedue le espressioni (4),(5), sicchè insomma risulti : (6) Pa-1+P=n—r+p— Pi +2. Esprimendo i caratteri 2.77, p, di F in funzione dei caratteri analoghi di G e della superficie (virtuale) G' — G, dalla (6) si deduce la relazione fondamentale (3): oP= 8 — Qi enunciata al n. 2, c). E una volta stabilita questa relazione s7 risale da essa alla (6), la quale risulta così dimostrata per ogni sistema aggiunto. L'invarianza del genere aritmetico segue dal fatto che P, risulta il limite superiore delle espressioni invarianti 7 — pa + 1. Dovendosi considerare come dimensione virtuale di un sistema di carat- teri 2, 77,Pa,é, l'espressione n — ole — Pa 105 P,—1= 000) Lo piego la risulta la dimensione virtuale del sistema |G" — G|, cioè del sistema canonico (essendo == 1 l'indice di specialità di G'— G). Dunque: La relazione fondamentale (3) esprime che il genere aritmetico di V è il numero virtuale delle superficie canoniche linearmente indipendenti. Della relazione 0»= ©, — 1 tra i due invarianti del sistema |C" — C| sopra una superficie, può darsi notoriamente un'interpretazione analoga. 4. Relazioni tra certe deficienze e le irregolarità della varietà. Dalla (5) segue anzitutto agevolmente che: La deficienza d del sistema canonico segato sopra una superficie irri- ducibile G dal proprio sistema aggiunto |G|, non supera la somma delle due irregolarità q,,Qs della varietà, ed esistono sistemi per cui il limite supe- riore è raggiunto Ne segue che una varietà d'irregolarità superficiale nulla (gg = 0) ha sempre il genere geometrico non inferiore all'aritmetico (q=P,-Pa=0=0). L'irregolarità superficiale di una varietà V è legata all'esistenza su questa di sistemi continui completi non lineari di superficie algebriche. Si sa anzi che « ogni sistema continuo completo è costituito da oo’ sistemi lineari di- stinti, ove # = 7» » (Castelnuovo-Enriques). Applicando un procedimento già usato con successo sulle superficie (En- riques, Severi), si dimostra facilmente che 09% sistema continuo completo di superficie, tracciato su V, ha il sistema caratteristico completo, donde segue come immediato corollario che: — 343 — La deficienza d, del sistema caratteristico diun dato sistema lineare \F\|, appartenente a V, non supera l'irregolarità superficiale della varietà, ed esistono sistemi per cui il limite è raggiunto. Assai più riposta è invece la dimostrazione di un'ultima disuguaglianza, di cui manca l'analoga sulle superficie : La deficienza dò, della serie lineare segata sopra una curva caratteri- stica di un sistema |F| dal sistema |2F|, non supera la somma delle due irregolarità di V (di = 4 g2); e vi sono sistemi per cui vale l'ugua- glianza. Ne consegue che sopra una varietà completamente regolare, come lo spazio ordinario, per ogni sistema lineare di superficie siha d=0,=d,=0. o. Esempi. 1) Varietà V delle coppie di punti di una superficie Fe di una curva C. — Ivi si ha un fascio X, identico a C, di superficie F, identiche ad F, ed una congruenza lineare 77, identica ad F, di curve Co identiche a C e seganti le F, in un punto. Una superficie canonica di V si ottiene aggiungendo alle superficie formanti entro X un gruppo canonico, la superficie riempita dalle 0 curve che entro 1 dànno un ente canonico. Essendo p, Pa, © gl'invarianti di F e p il genere di C, gl'invarianti di V hanno i valori: P,=pPgyP, &=6(p—1l)(0—-1),@.=9(p—1)(0—-1)+1, L,==3(p_1)(0—1)+2(p—1)pa.t+2p_3, Pa.=(p_—1)pa+tp. E poichè gl’integrali doppi di 1% specie appartenenti a V, provengono sia dagl’'integrali doppi di F, come dalle combinazioni degl’integrali sem- plici di F e degl’integrali abeliani di C, così il numero di questi integrali vien dato da p, + p(Py — Pa). Calcolando la differenza tra il numero degli integrali doppi ed il numero degli integrali semplici di 1* specie appartenenti a V, si trova preci- samente: Po +2 (Po— Pa) —}P+(Po—Pa)i=P (PL) +pa—p=Pg— Pa, cioè l'irregolarità tridimensionale di V è uguale alla differenza tra il numero degl'integrali doppi ed il numero degl'integrali semplici di 1° specie appartenenti alla varietà. Quando la F sia regolare con p,=pa > 0 e la C razionale (p=0), si ottiene un esempio di varietà ad irregolarità superficiale nulla e ad irre- golarità tridimensionale > 0. Nel caso in cui, pg =pa=p= 1 sì ha invece un esempio di varietà ad irregolarità superficiale > 0 e ad irregolarità tridimensionale nulla. Nel caso in cui pg=p,=0,p>Q0 si ha wn esempio di ‘varietà col genere aritmetico maggiore del geometrico (P,g=0,P.="p). — 344 — 2) Varietà V delle terne di punti di una curva C. — Ebbi già occa- sione di assegnare in una mia Nota la costruzione del sistema canonico di V ed il valore del genere geometrico P, ('). Se la curva ha il genere p Pg=(8) . Pa=0_-f)+2, e anche in tal caso l'irregolarità tridimensionale di V risulta uguale alla differenza tra il numero (8) degl'integrali doppi e il numero p degl'inte- grali semplici di 1° specie appartenenti alla varietà. Questo esempio e il precedente fanno presagire che lo stesso teorema valga per una varietà qualunque a tre dimensioni; ma la dimostrazione ge- nerale sarà molto difficile. Osserverò infine che, quando p=3, cioè quando V è una varietà di Picard (con un gruppo 00*) l'irregolarità tridimensionale è nulla (P,=P,="1). Chimica. — Sopra una dimetil- difenil- esametilenimina (*). Nota di G. BARGELLINI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Nello scorso anno, Henle (3) riducendo l'etere metilico dell'acido cinna- mico con amalgama di alluminio ottenne l'etere dell'acido idrocinnamico e contemporaneamente due eteri (forse stereoisomeri) dell’ac. 8-y-difeniladipico: CH: Men CH — 000CA, E =" CH; — CH— CH;.C00CH; CE 0H: CH, CONAI Î CH; — CH CH. ste one Questo raddoppiamento della molecola dei composti a doppio legame nella riduzione specialmente con amalgama di alluminio era già stato osser- vato nel 1896 da Harries e Eschenbach (‘), i quali dimostrarono che il ben- zalacetone ridotto con amalgama di sodio e acido acetico si converte per la maggior parte in benzilacetone, mentre invece ridotto in soluzione eterea con amalgama di alluminio dà in prevalenza il 4-5-difenil- ottandione-2-7 : PE FS CH; cHe "CH; ei co SH Î CH; — CH— CH, — C0— CH; (1) Sulle superficie che rappresentano le coppie di punti di una curva algebrica (Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, t. 38, 1903) nn. 9, 10. (8) Lavoro eseguito nell'Istituto chimico della R. Università di Roma. (*) Henle A., 348, 16. (4) Harries e Eschenbach, B. 29, 380. — 345 — Mi sembrò perciò interessante ricercare se questa diversa maniera di comportarsi del benzalacetone coll’amalgama di sodio e con quello di allu- minio si mantenesse anche nella riduzione della sua ossima. Lo studio della riduzione dell’ossima del benzalacetone era già stato intrapreso nel 1903 da Harries e De Osa (*), i quali nella riduzione con sodio e alcool avevano ottenuto il 1.fenil- 3.amino-butano, mentre nella ri- duzione con ac. acetico e polvere di zinco avevano ottenuto il 1.fenil- 3.a- mino- butene 2. C:Hs - (H=CHT—C— CH; NOH ei DS CH; — CH, — CH, — CH — CH; CH; —CH=CH— CH — CH; x, XE, Restava dunque da fare lo studio della riduzione della benzalacetonos- sima con amalgama di alluminio, studio che è soggetto della Nota presente. Riducendo la benzalacetonossima in soluzione eterea con amalgama di alluminio si nota sviluppo di ammoniaca e si ottiene come prodotto della reazione un olio dal quale per distillazione frazionata ho potuto separare: 1) il1.fenil-3.amino-butano di Harries e De Osa (bollente a 221°-222°), 2) una sostanza bollente a 235°-238° 8) e un'altra sostanza che bolle a temperatura molto più alta. Quest'ultima si forma in discreta quantità, ma poichè per ora non ho potuto preparare di essa nessun derivato allo stato di purezza, mi sono occu- pato in modo speciale dello studio della sostanza bollente a 2350-2380. L'analisi dei suoi derivati e la determinazione del peso molecolare del suo benzoil-derivato dànno numeri concordanti, per essa, con la formula Cs0Hg;N. Essa contiene cioè un solo atomo di azoto per due residui del complesso molecolare del benzalacetone e si comporta come una base monoacida. È molto probabile quindi che nella riduzione della benzalacetonossima con amal- gama di alluminio, la molecola si sia raddoppiata come Harries e Eschen- bach dimostrarono pel benzalacetone e che contemporaneamente siano stati ridotti i due gruppi ossimici. Deve essersi così formato come prodotto inter- medio un diammino-difenil-ottano: CH3 CH; — CH — CH, - H—NH, CH; — CH— CH. CH — NH, | CHy (!) Harries e De Osa, B. 36, 2997. RenpIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 46 — 346 — che, perdendo NH; ('), si è trasformato nella sostanza CxHs;N alla quale dovrà probabilmente attribuirsi la formula di una /-6-dimetil-3-4-difenil- esametilenimina : CH; | C;Hs — CH — CH, — CH | > NH C;H; — CH — CH; — CH CH; Secondo questo modo di vedere, essa sarebbe dunque il derivato dimetil- difenil-sostituito della esametilenimina di Wallach (*). (7) Wallach A., 324, 293. PARTE SPERIMENTALE. Ad una soluzione di 30 gr. di benzalacetonossima in 500 ce. di etere posta in un pallone munito di refrigerante a ricadere si aggiungono 60-70 gr. di amalgama di alluminio. La reazione già comincia per l'umidità dell'etere e procede regolarmente aggiungendo 2-3 cc. di acqua ogni tre o quattro ore. In queste condizioni non si ha notevole aumento di temperatura: nel caso si notasse un riscaldamento, è bene raffreddare il pallone tenendolo immerso nell'acqua fredda. È da notarsi ehe durante la reazione sî sviluppa una considerevole quantità di ammoniaca. Dopo sei o sette giorni la reazione è finita: si getta tutta la poltiglia sopra un filtro e sì lava con etere. Siccome però il prodotto della riduzione rimane tenacemente aderente all'idrossido d'alluminio e non si riesce coll'etere a portarlo via completa- mente, è meglio far bollire la poltiglia con alcool che più facilmente le toglie il prodotto della reazione. L'olio che resta dopo aver distillato l'etere o l'alcool si secca con Call, fuso e si sottopone infine alla distillazione a pressione ridotta. Ho raccolto insieme tutto il liquido che distilla fra 100° e 200° alla pressione di 80". Poi il termometro sale rapidamente e a 270° circa (80%) distilla un liquido denso che ho raccolto separatamente. Dalla prima porzione dopo molte distillazioni frazionate alla pressione ordinaria ho potuto separare notevoli quantità del 1.fenil-3.amino-butano di Harries e De Osa (che bolle a 221°-222°) e piccole quantità di una so- stanza che bolle a 235°-238°. Quest'ultima non ho potuto ancora purificarla (1) Nella riduzione si nota infatti, come ho detto prima, un vivace sviluppo di am- moniaca. — 347 — in maniera da avere un prodotto analizzabile, ma mi sono occupato per ora specialmente dello studio di alcuni suoi derivati, l'analisi dei quali conduce per essa alla formula C.,Hg;N. È un liquido scolorato mobile, di odore che ricorda quello della pipe- ridina: si scioglie poco nell'acqua alla quale comunica forte reazione alca- lina. Si scioglie facilmente nell’alcool, etere, benzolo ece. Riscaldata con cloroformio e soda in soluzione alcoolica, non dà affatto la reazione della carbilammina. Reagisce con sviluppo di calore col cloruro d'acetile, ma non ho ancora purificato il prodotto della reazione. Mi sono invece occupato dello studio del benzoilderivato e di altri suoi derivati che descrivo qui sotto. Benzoilderivato (Cx.HuN — C0.CH;). — Fu preparato aggiungendo un eccesso di cloruro di benzoile alla base sospesa in una soluzione di NaOH al 15 °/, e agitando. Dopo un giorno sì estrae con etere, l'etere sì lava prima con una soluzione di idrato sodico, poi con acido solforico diluito e infine si svapora. Resta un olio che dopo breve tempo si condensa in aghetti. È poco solubile nell'acqua calda dalla quale si deposita per raffreddamento in aghetti fini. Siccome è molto solubile nell'alcool, è meglio fare la soluzione alcoolica e a questa aggiungere acqua fino a incipiente precipitazione; così sì deposita in aghetti bianchi fusibili a 101°-102°. Gr. 0,3360 di sostanza dettero ce. 11,5 di N misurati a 23° e 759". Donde per cento: Trovato Calcolato per Cs:Hs90N N 5,89 3,65 Di questo benzoilderivato fu determinato il peso molecolare col metodo crioscopico in soluzione benzenica e trovato corrispondente alla formula C37H50N (p. m. — 1983) Sostanza Solvente Abbassamento TIME 0,1655 20,22 0,12 347 0,3700 20,22 0,26 359 0,5604 20,22 0,38 372 Picrato (Cx.Hg;N — C5H3N30;). — Aggiungendo una soluzione benzo- lica satura a freddo di acido picrico ad una soluzione della base pure in benzolo, si precipita una polvere gialla cristallina che fu fatta cristallizzare di nuovo nel benzolo caldo. Si deposita per raffreddamento cristallizzata in bellissimi aghetti gialli fusibili a 143°-144°. Anche nell'acqua bollente sì scioglie e si deposita per raffreddamento in aghi gialli. Gr. 0,2185 di sostanza dettero cc. 22,2 di N misurati a 26° e 755,50". Gr. 0,212 di sostanza dettero cc. 20,2 di N misurati a 15° e 7651, Donde per cento: Trovato Calcolato per CssHssNi0, N RARA LIS17 11,02 — 348 — Ossalato. — Aggiungendo una soluzione alcoolica di ac. ossalico ad una soluzione alcoolica della base si ha un precipitato bianco fioccoso solubile in un eccesso della soluzione di acido ossalico. Si scioglie molto nell'acqua, poco nell’aleool caldo da cui si deposita per raffreddamento in scagliette madreperlacee bianche. Dall’alcool diluito si deposita in aghetti finissimi e leggeri fusibili a 212°-218°. Cloridrato (CxHx;N — HC1). — Si può preparare direttamente dalla base per trattamento con acido cloridrico conc. Si può avere anche pren- dendo la soluzione eterea del prodotto della riduzione e agitandola con acido cloridrico al 15°/ circa in un imbuto a rubinetto. Dopo breve tempo nel piano di separazione fra etere e acido cloridrico si deposita un'abbondante quantita di cristallini bianchi. Si filtra, poi si separa la soluzione cloridrica dall’etere.. In tal modo nell’etere rimane sciolta l’ossima che poteva esser rimasta inalterata nella riduzione: nell’acido cloridrico resta disciolta la so- stanza bollente a 270° (80mm.), mentre il prodotto cristallino è in prevalenza costituito dal cloridrato della base C.0Hs;N. Così, in maniera semplice, evi- tando la distillazione frazionata, si può ottenere questo cloridrato che si pu- rifica poi facendolo cristallizzare più volte nell'acqua calda contenente un po' d'acido cloridrico. Si depositano per raffreddamento bellissimi aghetti bianchi fusibili a 1549-1550. Sottoposto all'analisi dette i seguenti risultati: I. Gr. 0,2312 di sostanza dettero gr. 0,6434 di CO, e gr. 0,1766 di H,0. Il. Gr. 0,249 di sostanza dettero cc. 10,9 di N misurati a 24° e 757,5imm. III. Gr. 0,2148 di sostanza dettero gr. 0,097 di AgcCI. IV. Gr. 0,2930 di sostanza dettero gr. 0,1342 di AgCI. V. Gr. 0,1518 di sostanza dettero gr. 0,0713 di AgCI. Donde per cento: Trovato Calcolato per CroHssNC! I II III IV V 0 75,59 _ — —_ _ 76,07 H 8,48 —_ — — — 8,24 N _ 4,86 — = — 4,44 CI — =— IMSlzo 11,38% 16,59 11,25 Cloroplatinato [ (C..H2;N)? 2HC1, Pt C1,]. — Alla soluzione concen- trata acquosa del cloridrato precedentemente descritto si aggiunge una solu- zione acquosa concentrata di cloruro di platino. Si precipita subito una so- stanza giallo-chiara che non ha aspetto cristallino. Sciolta nell'acqua bollente sì deposita in cristallini gialli chiari che visti al microscopio hanno appa- renza di tavole rombiche. Si fonde a 185°-187°. Gr. 0,1692 di sostanza dettero gr. 0,0335 di Pt. Donde per cento: Trovato Calcolato per CsoHseNsClPt Pt 19,80 20,12 — 349 — Cloroaurato (Csx0H23N . HC1. AuCI;). — Si ottiene versando una solu- zione acquosa concentrata di cloruro d'oro nella soluzione acquosa pure con- centrata del cloridrato sopra descritto. Si deposita tosto una sostanza giallo- chiara cristallina. Disciolta in molta acqua bollente, cristallizza per raffred- ramento in bellissimi aghi gialli splendenti fusibili a 162°-163°. Si scioglie facilmente nell'alcool anche a freddo. Gr. 0,154 di sostanza dettero gr. 0,0484 di Au. Donde per cento: Trovato Calcolato per Cr0HssNChAu Au 31,43 31,84 Al dott. Adalberto Maviglia che mi ha aiutato nell'esecuzione della parte sperimentale io devo esprimere qui i miei ringraziamenti. Chimica. — Sw alcuni sali complessi del perossido di ti- tanto (*). Nota di ArRrIGO MAzzuccHELLI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In una Nota precedente è stata dimostrata la esistenza di ossalati com- plessi del peros sido di titanio dalle formula generale (*) (M, C-0,. Ti 03): C30; che possono, in via formale, considerarsi come derivati dall’addizione di due molecole di un ossalato metallico al residuo (Ti03)» C.03, analogo al com- posto (Ti0.). C:03 ottenuto dal Rosenheim (*) per azione dell'acido ossalico sull’acido clorotitanico; ravvicinamento questo con cui si intende solo di mostrare come l’'aggruppamento contenuto nei composti in questione non manca di precedenti nella chimica del titanio, perchè l'assegnazione defini- tiva della formula di costituzione che meglio corrisponda al comportamento di questi composti deve essere riservata a ulteriori studî. Tuttavia le osser- vazioni raccolte fino ad oggi sono già sufficienti per permettere alcune con- siderazioni generali sui persali del titanio di cui ho così preparato alcuni nuovi rappresentanti. I composti di cui si tratta nella precedente Nota non sono i primi del loro genere ottenuti. I primi persali del titanio sono stati preparati una ventina di anni fa dal compianto prof. Piccini, a cui tanto deve la chimica dei perossidi; essi sono i fluoperossititanati, del tipo generale Ti0,Fl,.M,Fl, (1) Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico della R. Università di Roma. (2) V. pag. 265. (*) Z. anorg. Ch., 26, 1901, 254. — 350 — che contengono un atomo di ossigeno attivo per ogni atomo di titanio, come i presenti ossalati, da cui però si distinguono pel numero di residui anionici uniti direttamente al titanio. Hanno tuttavia comune con essi il carattere di composti fortemente complessi, come sono complessi i sali normali da cui derivano. La complessità dei fluotitanati normali Ti Fl,.M,;F], è dimostrata dalla esi- stenza del fluotitanato di calcio e di bario, nonostante la insolubilità dei fluoruri semplici corrispondenti, e dalla non precipitabilità dell’idrato tita- nico, dai fluotitanati solubili, coll'ammoniaca a freddo, per non parlare della facilità con cui cristallizza inalterato il fluotitanato potassico. La comples- sità anche maggiore dei fluopertitanati è mostrata dalla possibilità di otte- nere il sale ammonico per azione dell’ H,0, sul fluotitanato normale, dalla sua stabilità di fronte all'ammoniaca a freddo, quale mi è risultata da espe- rienze apposite, e dal fatto che per azione dell'ammoniaca a caldo si ha sì, un precipitato contenente tutto il titanio e anche una parte dell'O attivo, ma esso contiene sempre una certa quantità di fluoro (!), prova anche questa dell'esistenza di un aggruppamento che resiste all'azione demolitrice dell'am- moniaca. A questi argomenti altri se ne sono recentemente aggiunti di natura chimico-fisica, relativi al potenziale elettrolitico singolarmente basso che mostra l'ossigeno attivo nei fluopertitanati (?). In quanto ai titanossalati, la loro complessità è mostrata, fra altro, dalla facilità con cui si possono ricristallizzare quasi inalterati dalle loro soluzioni, e soprattutto, dalla loro resistenza all’idrolisi per azione del calore, cui sog- giacciono con tanta facilità gli altri sali di titanio, mentre d'altra parte che il grado di complessità non sia molto spinto lo mostra il fatto che vengono decomposti con tutta facilità non solo dagli alcali, come ebbe già ad osser- vare il Pèchard, ma anche da un eccesso di sale di bario o calcio (8). In- vece i pertitanossalati alcalini, come ho accennato, non sono affatto precipi- tati dall'ammoniaca, segno questo di una complessità assai più spinta. Anche il solfato di titanio, che con ammoniaca precipita immediatamente, siano presenti o no solfati alcalini, non dà più che un precipitato insignificante dopo aggiunta di H,0,, e solo dopo distrutto questo cataliticamente per ebollizione, si forma, bruscamente, un precipitato giallo chiaro, come mi è risultato da esperienze apposite. L'introduzione dell'ossigeno attivo nella mo- lecola dell'ossido di titanio favorisce dunque in generale la formazione di anioni complessi, e perciò non mi sembra accettabile la opinione di Melikoff e PissarJjewsky (4) i quali ritengono che nella preparazione del perossido di titanio secondo Classen il liquido inizialmente limpido contenga un pertita- nato ammonico, che poi si decomporrebbe con precipitazione di Ti 0; + ag; (1) Piccini, Gazz. chim., /4, 1884, 40. (£) Mazzucchelli e Barbero, Rend. Acc. Lincei, XV, 2° sem. 1906, 111. (3) Rosenheim, Zeit. anorg. Ch., 76, 1901, 254. (4) Ber., 3/, 1898, 955. è molto più facile invece che il Ti0O; vi sia contenuto dapprima come anione complesso, che viene poi lentamente demolito dall’alcali, e il Ti0,, che si libera così, finisca col precipitare appunto perchè, in quelle condizioni di diluizione, non forma un pertitanato ammonico. A questo proposito giova ri- cordare le considerazioni esposte anni sono dal Rosenheim (') secondo cui in un composto del tipo Ba, My, Sc, ove B simboleggia un ossido di natura fortemente basica, S uno di natura fortemente acida, e M uno di carattere elettrochimico intermedio e variabile, a misura che M passa dalla funzione spiccatamente basica a quella spiccatamente acida, esso composto B, Mi, Si as- sume successivamente il carattere di un sale doppio di due basi (simbolo BM Sì) di un sale complesso (simbolo Ba , (Mb 9) di un sale doppio di due acidi (simbolo Bally S.). Aumento del carattere acido favorisce dunque, a un certo punto, la formazione di anioni complessi, e i perossidi appunto sono adattatissimi a fornircene un elegante esempio, perchè coll’ in- troduzione dell'ossigeno attivo si sposta, ma non molto, dal lato elettrone- gativo il carattere più o meno anfotero dell’ossido normale, come si verifica precisamente nei perossidi di uranio, molibdeno, tunsteno, titanio, secondo questi miei primi studî, e come mi riservo di dimostrare più largamente in pubblicazioni ulteriori. Or non è molto è stata pubblicata nella Zeitschrift f. anal. Chemie (vol. 46, pp. 277-291) una Memoria del dott. P. Faber, Sulla natura del titanio esavalente, che si riferisce allo stesso argomento trattato nella pre- sente Nota, poichè il cosiddetto titanio esavalente non rappresenta poi altro che il perossido di titanio. Mi sia permesso farne qui una breve critica. Dopo una introduzione storica sull'argomento, nella quale non sono ricor- dati i fluo pertitanati del Piccini (allo stesso modo come più tardi non sono ricordati i pertitanati di Melikoff e Pissarjewski) (2), l'A. esamina il com- portamento delle soluzioni del perossido di fronte a varî reattivi, e ci trova una grande somiglianza con quello dell’acqua ossigenata. Trattandosi di due perossidi, non è cosa che debba eccessivamente sorprendere, e che il com- portamento sia quasi identico anche dal lato quantitativo poteva prevedersi dal fatto che i due composti presentano un potenziale elettrolitico pressochè uguale (*). Poi, dopo qualche esperienza sulla stabilità del perossido di ti - tanio di fronte al calore e all’azione dell'acido solforico concentrato, l’ A. (1) Z. anorg. Ch., 20, 1899, 317-322. (2) A pag. 290 l'A. dice letteralmente: «non è finora conosciuto neppure un solo composto del titanio esavalente dove esso funzioni da acido ». Ma nei Ber. 3/, 1898, 679 e 955 sono invece descritti numerosi composti di simil genere, i quali dimostrano che ben a ragione il Piccini aveva dato il nome di acido pertitanico all’ossido del « ti- tanio esavalente ». (*) Mazzucchelli e Barbero, Rend. Acc. Lincei, XV, 2° sem., 1906, 38. — 352 — prepara due nuovi sali del perossido di titanio, un acetato cioè ed un fosfato. Per quanto si riferisce all'acetato ('), il Suo metodo di preparazione lascia un certo dubbio nell'animo di un lettore spassionato. Un precipitato giallo che si ottiene alcalizzando con ammoniaca una soluzione di solfato titanico addizionata di H,0,, poi di nuovo acidulando con ac. acetico, diluendo molto e portando infine all'ebollizione, potrebbe benissimo essere un miscuglio di perossido e acetato basico di biossido di titanio, tanto più che l'A. non ha saputo analizzarlo altro che qualitativamente. Senza contare che per un ace- tato di perossido di titanio, secondo le proprietà generali dei perossicomposti, quali risultano anche dal presente lavoro, noi ci aspetteremmo piuttosto una solubilità assai spinta; e ciò sia osservato in via accessoria, senza voler en- trare nella questione pregiudiziale, se un perossicomposto del titanio, la cui esistenza in generale riposa, come abbiamo dimostrato, sulla formazione di anioni complessi, possa avere sufficiente stabilità nel caso dell'acido acetico, che alla formazione di anioni complessi non ha tendenza molto forte, come ne è prova calzante, nel caso attuale, la facilissima idrolizzabilità dell'ace- tato di titanio tetravalente. Il secondo composto del perossido di titanio, cioè il fosfato, preparato da solfato di perossido e fosfato sodico in soluzione acetica, ha invece real. mente il carattere di un composto definito, e i dati analitici dell'A. concor- dano bene colla formula 2Ti03.P:0; , 3H:0. Solo è da deplorarsi che l’A. non abbia saputo trarre un miglior partito dall’analogia tra Ti0, e acqua ossigenata, e non ne abbia determinato l'ossigeno attivo, il componente più importante, jodometricamente o al permanganato, invece che per sem- plice differenza. Comunque, la esistenza di questo fosfato concorda bene colle considerazioni esposte in questa e nelle mie precedenti Note; essa è eviden- temente determinata dalla tendenza dell'acido fosforico a formare col Ti0, anioni complessi, come lo mostra la solubilità di detto sale nei fosfati e nelle liscivie alcaline. Non voglio poi entrare nelle considerazioni mediante le quali l'A. ri- tiene di avere stabilito l’esistenza del titanio esavalente, e gettato un chiaro raggio di luce sulla natura dei suoi composti; quel passaggio dall'ossido al perossido di titanio « mediante l'addizione dei due ossidrili dell’acqua os- sigenata » : OR (0) OH \ AA 0=P—_0—Ti-0H —. O=P_0—Ti—0H No NOA \0H e di un carattere talmente grafochimico (mi sia permessa questa riduzione umanistica della Papierchemie di un illustre chimico tedesco) da rendere superflua una confutazione più approfondita. (1) Loc. cit., pp. 286-287. — 353 — Petrografia. — Studio litologico-chimico delle rocce del Co- loru (Sardegna Sett.) ('). Nota del dott. AURELIO SERRA, presen- tata dal Socio G. STRUEVER. Chiamasi Coloru (serpe) un’ interessante colata di lava che si è distesa a breve distanza dal fondo della gran valle di Campomela. Con andamento sensibilmente sinuoso si estende per un percorso di oltre 10 km., da Ploaghe verso Ovest, sino al Rio de Montes. Sinora non si ha alcuna indicazione petrografica di queste rocce, solo un cenno della loro esistenza è dato dal La Marmora (?). Dall’aspetto esterno si possono di esse distinguere due varietà. L'una esclusivamente ne forma la parte superiore, la struttura apparentemente ne è compatta, cristallina, finamente granulare. Il colore grigio, piuttosto oscuro. Presenta delle cavità rotondeggianti, di dimensioni assai variabili; queste, ora sono vuote, ora ri- piene di piccoli aghetti di calcite ed aragonite, talvolta contengono nidi di minerale giallo verdastro in cristalli non ben definiti e che all'analisi chi- mica mi si rivelò per olivina. L'altra varietà si presenta distintamente vacuolare; mostrasi, a rare alternanze con la prima, nella parte inferiore della colata ed ha color va- riabile dal grigio al rosso bruno per il vario grado di alterazione. All'esame microscopico delle sezioni i minerali si presentano con struttura ipidiomorfa, mostrando, oltre numerosi cristalli idiomorfi, altri di carattere spiccatamente ollotriomorfo. Il feldspato sodico calcico è raro in grandi in- tercluri e predomina invece nella massa fondamentale dove generalmente presentasi sotto forma di numerosi microliti e di piccole liste. Il valore massimo dell'angolo d'estinzione nella zona perpendicolare a (010) è peri piccoli cristalli di 29° e per i grandi di 37°. Sembra quindi che i plagio- clasi interclusi sieno più basici di quelli della massa fondamentale: questi sarebbero riferibili ad una labradorite piuttosto acida (Ab, An;), mentre i primi rappresenterebbero un termine basico della labradorite (Abz Ani). La maggior parte dell'augite appartiene alla massa fondamentale; veri e propri interclusi di questa non si hanno, poichè il minerale è sempre de- cisamente ollotriomorfo. Rispetto al feldispato è piuttosto scarsa. Colore bru- niccio che ricorda l'augite di molti diabasi, senza pleocroismo distinto. Nei grandi cristalli si ha estinzione con angoli da 39 a 42° con vivissimi colori d'interferenza, frequenti le inclusioni di magnetite. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Sassari. (2) Voyage en Sardaigne par Albert La Marmora. Description Géologique. Tome I, Paris, 1857, pag. 648. RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 47 — 354 — L'olivina mostrasi in cristalli abbastanza grandi paragonabili per quan- tità a quelli dell'augite. I cristalli non alterati sono incolori o appena lie- vemente verdognoli, però la maggior parte sono alterati, presentando colore verde lungo le fenditure e talvolta questa colorazione si estende a tutta la massa. Si tratta della solita alterazione in aggregati fibrosi che fanno pas- saggio al serpentino. Si trovano assolutamente accessorie scarse lamine di bzotzte. Fra i minerali metallici vi è tanto 2/menzte che magnetite; la prima si presenta in listarelle allungate, la seconda in ottaedri e raramente in granuli. Pochissima la quantità di sostanza vetrosa che fa da mesostasi. La varietà vacuolare mostra intorbidamento e fibrosità della massa. L'augite, in molti casi, non è esattamente determinabile essendo rappresen- tata dai prodotti della sua alterazione, fra i quali principalmente, calcite, clorite ed ossidi di ferro. L'olivina, già come dissi alterata nella varietà predominante, in questa mostrasi ancor più decomposta. Si può di conseguenza concludere avere la roccia prevalenza di feldi- spato e povertà d’interclusi, l'aspetto esterno è quindi afanitico, la struttura interna intersertale. Eseguii della prima varietà l’analisi chimica completa. Un esemplare, scelto opportunamente fresco, venne per tale scopo ridotto in finissima pol- vere. Di questa ne disagregai circa 1 gr. con carbonato sodico ed indi nella massa fusa, seguii per le varie determinazioni i metodi esposti da Dittrich (!). Gli alcali, dopo aver compiuto la relativa disagregazione con acido fluori- drico secondo Berzelius (*), vennero determinati seguendo i processi del sud- detto autore (8). Espongo i risultati ottenuti : Sic: cassa Sloan contati 29 AO e a; (I er n Ai EOS > RR 70) Ret, Po n. AT Min O! +10 100 1180 AMOS TI sirio iniaed A 0189 PoOLnia, see inni SRO €10, RM O Met: SM 0. 0 n MO Riot MERA tg 3300 Leb Benin Nap: dale i. ie. 04 pieost 12586 COsr,t A Le a SIE S Me 0) 1) (031 A e 0) (0): As:O%a 100206 DO SRO 09 H,0.al colornessoti vos nloli L42405 101,08 (!) Anleitung zur Gesteinsanalyse. Leipzig 1905, pag. 6 e seg. (3) Fresenius, Volume II, pag. 388. (3) Mocaicit — 359 — Non tenendo conto dell'acqua, dello zolfo e del cloro, i quali ultimi trovansi in quantità trascurabili, detraendo CO, e PO; con le rispettive quantità di Ca O (3,97 + 0,60) e calcolando per la silice una quantità 0,67 corrispondente a quella di Ti O, rilevata dall’analisi, i valori indicati assu- mono la forma della colonna I, riferiti a 100 nella II: I II SIR 06, e 5745 ROSA pio Bra OTI9 Gieisdoni. o Ba 10:21020 BOC e eg; A 201 BOO esa 9. L09553 Minime n 058, Cale 065 MO io eo; Miciomiit arie ani TABS 8:10 .11118,86 On, ia i: 3) 1,63 Noe e ARTO di. ce i 320 88,70 100,00 Calcolansi dagli esposti valori i rapporti molecolari, colonna III, rife- riti a 100 nella IV: III IV ORE 1. AM 18] 63536 oe ee aa... Ma). 19:82 TRO O en O E Rigo, Sinne Boe e cono zig 1 cBDove tinbozi]9 MITO] A I dra VO O:9IPOL 0 Me 061 COR is 2A MORA e >, i Me 7 TEO N IE NEO E i 7 RETI I (0) Z = 150 100,00 Da questi valori deduconsi le quantità degli atomi metallici espressi nella colonna V e ridotti a 100 nella VI: V VI LI Re a ECO ILL ARIE 0 RR ie sorte nari ini a 0 10001 109 MOR AR DE te (CAIANO >) dae RA O i no o. 040 A 05 Ri O a illa coi nala Valerie Ida». Sr (94 IN AI I It 0 TO RI M.A.Z. = 180 100,00 A.Z. = 467 (1) Le notazioni Z, MAZ, AZ sono secondo la classificazione di Rosenbusch. Vedi H. Rosenbusch. Veder die chemischen Beziehungen der Eruptivgesteine. Tschermak's Min. uw. Petr. Mittheil., 1890, XI, 171. — 356 — Questa roccia sarebbe quindi da classificare secondo Loevison Lessin (!) come un magma basaltico piuttosto acido e seguendo la notazione dello stesso autore si avrebbe: ci 92i0 01! = (57 1,49 RO . R,0; . 4,32 Si 0, ROERO == La formula secondo la classificazione di Osann (*) è la seguente : s 63,4 a 4,1 c7,2 TRO SI n7,5 I risultati ottenuti dimostrano come la composizione chimica risponda a quanto si poteva desumere dall'esame microscopico, che cioè la roccia del Coloru sia un dasalto feldspatico. È grande l'analogia di esso con altri basalti di Sardegna; ad esempio con quelli di Torralba e di Bonorva che il Bertolio (3) chiama basalti an- desitici per la loro ricchezza di feldspato: l'analogia è aumentata dalla pre- senza nel basalto di Coloru degli stessi noduli di olivina riscontrati dal Bertolio in quello di Bonorva e dal D'Achiardi (4) nell’andesite augitico- olivinica di Torralba, roccia che ha anch'essa molta somiglianza con la nostra. Secondo recenti studi del Dannenberg (*) presso a poco simile sarebbe la composizione mineralogica e la struttura di tutti quelli che egli chiama Decken-basalte e che costituiscono molte delle caratteristiche piattaforme della Sardegna Centrale. Purtroppo mancano delle rocce citate, analisi chi- miche da poter porre in confronto con la mia. È mia intenzione d'intraprendere un’ordinata serie di studi litologico- chimici sui basalti sardi, che oltre al portare un contributo alle conoscenze petrografiche di siffatte rocce, potrà servire a confermare le deduzioni dei geologi intorno alle varie fasi di eruzioni basaltiche nella Sardegna. (1) Loewinson-Lessing F. Studien ber die Eruptivgesteine. Congrès géologique international, VII session. S. Peterbourg, 1899 (193-464). (2) Osann A., Versuch chemischen Classification der Eruptivgesteine. Tschermk's Miner. und Petrog. Mittheil., XIX, XX, 1900-01. (3) Bertolio S., Contribuzione allo studio dei terreni vulcanici di Sardegna. Boll. Com. Geol. Ital., 1896, n. 2. (4) D’Achiardi G., Ze andesiti augitico-oliviniche di Torralba (Sardegna). Boll Soc. Geol. Ital., XV, 1896. (5) Dannenberg A., Die Deckenbasalte Sardiniens. Centralblatt fir Min. ecc., 1902 (331-342). — 357 — Fisiologia vegetale. — Sull'accumulo di sostanze radioattive nei vegetali. Nota del Dr. CamiLLo Acqua, presentata dal Socio R. PIROTTA. In una Memoria dal titolo: Sur la radio-activité induite et naturelle des plantes et sur son role probable dans la croissance des plantes(?), i signori Tarchanoff e Moldenhauer espongono i risultati delle loro ricerche per le quali avrebbero potuto stabilire l’accumulo di sostanze radioattive nei ve- getali. Gli autori sperimentarono su cereali (grano, orzo, avena, segale) e su qualche altra pianta, servendosi del metodo elettroscopico e fotografico. Essi constatarono che, mentre i semi intieri non danno che una debolissima ra- dioattività, basta sbarazzare detti semi dall’involuero esterno e mettere a nudo le pellicole interne translucide perchè si possa prontamente provocare con queste la scarica di un elettroscopio o impressionare anche una lastra fotografica. Allorquando il seme germoglia, anche in acqua semplice, la so- stanza radioattiva passa nelle radici e gradualmente diminuisce risalendo da esse verso gli organi superiori: fusti, foglie. Inoltre nelle radici vi sarebbe questa particolarità, che l'organo intero è radioattivo, mentre nelle foglie bisogna operare una dissezione e lasciare uscire il liquido interno perchè la radioattività si manifesti. Anche nelle pellicole interne di un fusto di ce- reale vi sarebbe accumulo di sostanze radioattive. E gli autori concludono che il mondo vegetale è dunque fornito di forze radioattive dal granulo alla pianta completa. Tuttavia non bisogna credere che tale radioattività sia un fenomeno vitale, poichè gli organi anche uccisi, mantengono la suddetta proprietà. Si tratterebbe adunque di un accumulo di sostanze radioattive operato dal vegetale nel terreno in cui esso ha vissuto. Scopo di questa mia breve Nota è l'esposizione dei risultati da me otte- nuti in un lavoro di controllo sull'argomento. Mi sono servito per tale in- tento del metodo elettroscopico. L’istrumento adoperato è uguale al modello ideato dal Sella e descritto a pag. 12 del Manuale del dott. Blanc, Radio- attività. Tralasciando di ripeterne la descrizione, aggiungerò che nell’appa- recchio da me usato, a foglioline di alluminio, l'umidità dell’aria era assor- bita tanto nella scatola superiore contenente l'asta metallica con le foglioline, quanto nella campanella inferiore, nella quale attraverso il tappo di zolfo l'asta medesima termina con il disco di dispersione, mediante l’impiego del carburo di calcio che era giornalmente rinnovato. L'apparecchio era poi man- tenuto all'oscurità per rimuovere l’azione dei raggi ultra violetti. In queste condizioni, con una carica iniziale di circa 144 Volt, si aveva normalmente (') Bull. Internat. de l’Acad. des Sciences Mathem. et Nat. de Cracovie. — Classe des Sciences Math, et Nat.. n. 9, 1905. — 898 — una caduta di potenziale di circa 5 Volt l'ora, tanto con la carica + che con la —._ Per esaminare i risultati degli autori sopracitati s' incominciò dal pren- dere in esame i semi di grano ed orzo ottenuti da coltivazioni in terreni naturali. Distaccate le pellicole translucide (nelle quali si avrebbe un forte accumulo di sostanze radioattive tanto da provocare la rapida scarica del- l'elettroscopio) furono fissate in un dischetto di carta con tracce di gomma e in modo che rivolgessero verso l'alto, ossia verso il disco di dispersione, la loro faccia interna. Complessivamente dette pellicole venivano ad occu- pare uno spazio di 4-5 cmq. Furono così eseguite numerose osservazioni con le pellicole, alternandole con altrettante di controllo, e adoperando tanto la carica positiva che la negativa. Ciascuna osservazione ebbe un minimum di un'ora di durata, ma in altre serie di osservazioni queste ebbero la durata fino a quattro ore circa. In tal caso si compivano tre osservazioni il giorno con il seguente ordine. In un primo giorno due osservazioni di controllo, la mattina e la sera, e una nel periodo di mezzo con le pellicole supposte ra- dioattive; in un secondo giorno due osservazioni, la mattina e la sera, con pellicole e una di mezzo di controllo. Dopo una serie con elettricità di un dato segno seguiva altra serie con carica di segno opposto. In tutti questi casi nessuna maggiore velocità di diselettrizzazione fu potuta constatare. Per la segale e l'avena, stante la sottigliezza delle pellicole e la diffi- coltà di distaccarle, furono sottoposti all’osservazione dei semi interi, nella considerazione che l'assorbimento della radiazione da parte delle pellicole sottilissime non avrebbe potuto impedire il rivelarsi delle sostanze attive, qualora esse vi sì trovassero effettivamente accumulate. Ma anche in questi casi non si ebbero che risultati negativi. Furono anche esaminate le pelli- cole esterne del fusto del grano con risultati del pari negativi. Compiuta questa prima parte, che contradice le conclusioni del Tarchanoff e del Moldenhauer, si procedè ad alcune esperienze di colture artificiali in mezzi radioattivi. Dei semi di grano, orzo, segale e avena furono fatti germogliare entro cristallizzatori contenenti circa un quarto di litro di soluzione. I semi erano sostenuti fino ad affiorare il liquido da batuffoli di cotone. In un primo lotto si adoperava acqua distillata, in un secondo e in un terzo soluzioni di Ni- trato di Uranile e di Nitrato di Torio. I prodotti provenivano dalla Casa Merck. Il Nitrato di Uranile, stante le proprietà venefiche dei composti di Uranio, vuol essere adoperato in soluzioni molto diluite. Al 0,2 per mille il germo- gliamento ha luogo senza differenza con i lotti di controllo. Al 0,5 per mille l'azione dannosa del sale comincia a manifestarsi con un ritardo nel germo- gliamento e con minore sviluppo del sistema radicale. Il Nitrato di Torio può invece essere adoperato senza danno al 0.5 per mille. — 359 — Dopo due o tre giorni, da che i semi erano stati posti nei cristallizza- tori, si aveva il loro pieno sviluppo con le radichette abbastanza sviluppate. Tolti allora dalla soluzione, venivano prosciugati tra fogli di carta bibula, rinnovati per due volte, e nei quali erano mantenuti per alcuni secondi sotto una moderata pressione in modo da provocare l'assorbimento del liquido ri- masto aderente. Poi venivano posti nel piattello dell’elettroscopio, avendo cura che nelle singole osservazioni essi occupassero sempre presso a poco la stessa superficie. Parimenti nel piattello, ma in recipiente separato, si tro- vava, come già fu detto, del carburo di calcio, giornalmente rinnovato. Di- pendendo la supposta radioattività, secondo le asserzioni degli autori succi- tati, non da fenomeni vitali ma da accumulo di sostanze attive, non si tenne alcun conto dell’azione esercitata sulle radici da parte del gas acetilene che si sviluppava. I risultati furono i seguenti. Nessuna maggiore diselettrizzazione per i semi di grano, orzo, segala, avena fatti sviluppare in acqua distillata e in soluzione di Nitrato di Uranile al 9,2 per mille. In tutti questi casi, nelle numerose serie di osservazioni, si ebbe sempre una scarica media di 5 Volt l’ora, corrispondente alla normale. Il grano e l'orzo lasciati sviluppare nella soluzione di Nitrato di Uranile al 0,5 per mille dettero risultati analoghi. Nei semi invece germogliati in soluzioni di Nitrato di Torio al 0,5 per mille si ebbe un aumento di diselettrizzazione. In tutte le quattro specie di ve- getali summenzionate la caduta di potenziale si mantenne sempre su i 20 Volt per ora, tanto con cariche dell’uno che dell'altro segno. Per ricercare se il fatto dipendesse dal liquido rimasto aderente alle giovani piantine, non ostante il prosciugamento con carta bibula, si sottoposero all'osservazione dei ba- tuffoli di cotone immersi nella soluzione del sale di Torio, dopo averli leg- germente spremuti e prosciugati con la carta bibula. Limitando l'operazione a pochi secondi ed esercitando moderata pressione, allo stesso modo già usato per i semi, non sì toglie al cotone che una parte del liquido. Sottoposti detti batuffoli all'esame elettroscopico, essi provocarono una caduta di potenziale di circa 12 Volt l’ora. I risultati ottenuti possono riassumersi nel seguente quadro : Scarica in Volt per ora (Tanto con carica + che con —). Controllo oo LIO REL ONITI SOSTE — RIGORR pb Grano, orzo, segale, avena, germogliati in acqua Lu Stino, Grano, orzo, segala, avena, germogliati nella sol. di Nitrato di Uranilet0:2498 e 5 Grano, orzo, germogliati nella sal di Nitrato di nuo si 0, 5 00/5, 5 Grano, orzo, segala, avena, germogliati nella sol. di Nitrato di Moroga la 0: 500 Tani 30 Batuffoli di cotone leggermente IA sola soll i Nilo di Tori LO — 860 — Dai suesposti risultati si può concludere che nessun accumulo di sostanze radioattive ha luogo nelle giovani radici dei semi sottoposti all'esame e col. tivati in acqua distillata e in soluzione di Nitrato di Uranile, mentre un lieve accumulo sembra constatabile per i semi germoglianti nella soluzione di Ni- trato di Torio. Tuttavia si è ben lontani dalle affermazioni dei signori Tar- chanoff e Moldenhauer, i quali non solo descrissero la rapida scarica di un elettroscopio ottenuta in condizioni simili, ma affermarono la possibilità di eseguire delle prove fotografiche. Basterà osservare in proposito che con le giovani radici dei semi germogliati nella soluzione di Nitrato di Torio si ha una caduta di potenziale di 20 Volt per ora, mentre in condizioni normali di controllo la caduta è di 5 Volt. Si ha adunque una caduta maggiore di 15 Volt. Ricoprendo ora lo stesso piattello usato per le osservazioni dei semi con l'Os- sido di Uranio, la caduta di 15 Volt si ottiene in 45 secondi. Il che significa che la lieve attività constatabile nei semi è di circa '/go dell'attività del- l'Ossido di Uranio. E quando si consideri che per ottenere con questo delle impressioni fotografiche occorre un'esposizione di parecchie ore, non si può non accogliere con molte riserve le asserzioni del Tarchanoff e del Molden- hauer. Questi hanno anche riprodotti nella loro Memoria i disegni delle prove ottenute, ma anche da quanto emerge da tali disegni non si può trarre nessuna decisiva conclusione. Riassumendo adunque si può concludere che — fatta eccezione per i semi germogliati in soluzione di Nitrato di Torio al 0,5 °/o nei quali un lieve accumulo di materia attiva sembra potersi dimostrare — nessuna atti- vità è presentata dai semi dei cereali ottenuti in condizioni normali, fatti germogliare nell'acqua semplice, o in soluzione di Nitrato di Uranile. Le as- serzioni adunque del Tarchanoff e Moldenhauer non trovano conferma. Fisiologia vegetale. — Sopra alcuni presami o chimasi ve- getali ('). Nota di DranAa BRUSCHI, presentata dal Socio R. PrrorTA. La proprietà di coagulare il latte si sapeva appartenere a diverse piante tin dall'antichità. Così gli antichi Greci usavano i rami di fico per coagu- lare il latte, come anche oggi l'usano i nostri contadini della Calabria e della Sicilia, mentre nell’ovest dell’ Inghilterra è antichissimo adoperare per quest'uso il Galium verum, ed è riconosciuta pure da molto tempo questa proprietà nei capolini di Cynara scolymus. La conoscenza del numero delle piante che sono capaci di coagulare il latte per osservazioni e studi sempre più recenti è andata continuamente aumentando. (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Fisiologia del R. Istituto Botanico di Roma. — 361 — Così nel 1883 Sheridan Lea (!) estraeva con glicerina o con soluzione di sale marino un enzima coagulante dalla Withania coagulans (pianta sel- vaggia dell'Afghanistan); tale enzima ha proprietà simili al presame ani- male; mentre Baginski (*) trovò in quell’anno un enzima coagulante nel succo della Carica papaya e più tardi lo estrasse dai fichi secchi per mezzo dell’acqua distillata. Quest'ultimo enzima agirebbe sul latte alla temp. di 40° nello spazio di un'ora. Peters (*) nel 1894 estrae anch'esso dai fichi secchi quest'enzima coagulante che non ha alcuna azione sul latte a 15°, e che non sarebbe attivo se non a 45°; esso agirebbe in ambiente neutro. Green (4) riscontra poi degli enzimi coagulanti nella Datura Stramonium, nel Pisum sativum, nel Lupinus hirsutus e nel Ricinus communis; nelle due prime piante nei semi in riposo, e per le altre due nei semi in germi- nazione. Tre anni dopo estrae l'enzima coagulante del Galium verum, la cui azione era conosciuta dai contadini dell'ovest dell'Inghilterra, che ancor ovgi l’usano per coagulare il latte nella preparazione dei formaggi. In ultimo Buscaglioni e Fermi (*) riscontrano quest'enzima in un numero molto grande di piante appartenenti a famiglie assai lontane fra loro, associato 0 no ad enzimi proteolitici. L'enzima coagulante vegetale più conosciuto è quello del Y7cus Carica: di esso fu stabilito da Chodat e Rouge (°) in un recentissimo lavoro il modo di agire sul latte crudo e sterilizzato e la diversa azione in funzione della temperatura, sia usando le parti vive della pianta, sia adoperando il loro estratto. Essi distinsero anche nell’enzima coagulante del Fico (sicochi- masi) due sostanze: una agente meglio a temperatura bassa (20°) sul latte crudo ed esistente nelle parti vive della pianta, ed una agente meglio a temperatura elevata sul latte bollito e resistente a 75°. Per le chimasi delle altre piante invece sì conosce solo la loro esistenza. Io mi sono quindi proposta di studiare un po’ meglio il presame di Ficus Carica, Ficus Pseudo-carica, Pircunia (Phytolacca) dioica e Ri- cinus communis, al quale ultimo avevo già accennato altra volta (7). (1) Sheridan Lea, On a rennet ferment contained in the seed of Withania coagu- lans, Chem. News., XLVIII, pag. 261 (1883). (3) Ad. Baginski, Veber das Vorkommen und Verhalten einiger Fermente (Zeitschr. f. physiol. Chem., VII, pag. 209 (1883). (°) Peters, Untersuchungen ber das Lab. (Dissert. Rostock) 1894. (4) R. Green, On the germination of the Castor oil plant. Proc. Roy. Soc. XLVII, pag. 891 (1890); On vegetable ferments. Annals of Botany, VII, pag. 112 (1898). (5) Buscaglioni e Fermi, Sull’azione coagulante di alcuni succhi vegetali. Annuario dei R. Ist. Bot. di Roma, pag. 187 (1897-98). (5) Chodat e Rouge, Sychochymase ou le labferment du Ficus Carica. Centralblatt Bakt. etc., II, Abt. Bd. XVI, pag. 1 (1906). (*) D. Bruschi, Autolisi nell’endosperma di Ricino. Rendiconti della R. Acc. dei Lincei (5) vol. XVI, I sem., pag. 785 (1997). RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 48 — 362 — Per tale studio mi servii sempre dell'enzima estratto dalle varie parti di piante, mai della parte in toto. Soxhlet (') usava per l’estrazione di questi enzimi una soluzione di sal marino al 6 °/,, come pure l'usarono nel loro ultimo lavoro su citato Chodat e Rouge; ma io non credo opportuno questo metodo, ‘nè quello di estrarre le parti con eguale volume di glicerina e di acqua, perchè tali sostanze sarebbero poi molto difficili ad allontanarsi dagli estratti e la loro presenza può modificare l'azione dell'enzima. Ho estratto quindi le parti semplicemente con acqua distillata a 35°, come pure del resto consigliava il Soxhlet stesso. Le prove di coagulazione furono sempre fatte con 10 ce. di latte crudo e 10 cc. dell'estratto in tubi da saggio immersi in bagni ter- movegolati. Per conservare sterili gli estratti aggiungevo cloroformio o so- luzione satura di timolo. L'acidità riferita in cc. decinormale è quella di 10cc. dell'estratto. S' intende quindi che nel miscuglio di prova essa era la metà di quella indicata. Un estratto di semi interi in riposo di Ricino (Ricinus communis var. sanguineus) (82,25 g. di seme sbocciato 4 260 cc. di acqua) con acidità 1,0 decinormale coagulava il latte a 15° in 23° circa » 30° ’ TESE n 44° ” 26" c) ARTO ” 25' nito.02 ” 29' 2090 ” n) » 66° ” a Con questi dati è costruita la curva annessa (fig. 1). Su le ascisse sono inscritte le temperature del bagno, sulle ordinate il tempo di coagu- lazione. Le linee punteggiate quasi verticali indicano che l'azione sotto 30° e sopra 55° è infinitamente lenta. L'optimum è a 47°. Invece un estratto di gr. 72,2 di endospermi in avanzata germinazione con 170 ce. di acqua ed un'acidità 4,0 ce. decinormale aveva l’'optimo di temperatura (65°) prossimo al punto di distruzione dell'enzima mede- simo (70°) e si mostrò a basse temperature meno attivo dell’enzima estratto dai semi in riposo. L'acidità rilevante dell'estratto non bastava a coagulare il latte, perchè con l'estratto bollito per alcuni minuti il latte non coagulava. Neutraliz- zato l'estratto, non si ebbe parimenti coagulazione neppure a 65°. (?) Soxhlet, Darstellung halbstarrer Labflissigheiten. Milchzeitung, n. 37-48 (1887). — 363 — Invece l'estratto preparato con gr. 47,8 delle piantine germinate da cui erano stati staccati gli endospermi dell’estratto precedente e 120 cc. di acqua a 35° presentando un'acidità di 2,0 cc. decinormale, dava risultati quasi simili a quelli dell'estratto dei semi in riposo, accennando solo ad indebolimento dell’enzima; così che mentre l'estratto dei semi in riposo coagulava il latte a 47° (optimum) in 25’, questo lo coagulava in 1° 24°. È da osservare che tutti questi estratti hanno un'acidità piuttosto ele- vata, e tale condizione è necessaria per l’azione dell'enzima, tanto che se ad un volume di estratto di semi in riposo si aggiunge un egual volume di 18.51” Qu'12” I È 0° 30° 440479500 55° 66° di NaOH decinormale, tale alcalinità basta a distruggere l’azione dell’en- zima, e con egual volume di NaOH !/,00 normale, la coagulazione non av- viene a 47° se non dopo 4° 23°. Alla diminuita acidità oltre che all’azione dell’alcool è forse dovuta la perdita di attività dell'enzima precipitato con alcool e poi ridisciolta in acqua. Così 100 cc. dell'estratto di semi in riposo precipitato con circa 300 cc. di alcool a 95° gradi, raccolto su filtro e poi ridisciolto in 100 cc. di acqua non aveva più che un’acidità 0,4 decinormale e a 35° coagulava con eguale volume di latte solo in 8° 5’. Aggiungendovi invece un acido la sua attività tornava ad aumentare; così a 35°: 5 cc. liq. enz. 4 5 ce. HCl 0,1 normale + 10 ce. latte coagul. in 2° 40° 5 cc. nice IO + 10cc. > i) IR255 DICE. a Ubleci i eta + 10cc. > 7 20' Però nell'ultimo caso l'acidità bastava da sola a coagulare il latte a 35°. — 364 — La diluizione invece ha molto meno influenza della mancanza di aci- dità. Infatti 10 cc. Estratto + 10 ce. latte-+ 5 cc. acqua coagulano a 47° in 25° 5 ce. a <10ce. "ale Noce. a ” i); DD CON = L0/CC. MIMBETIMIEDICCA ’ n IO 1,0 ce. » +10cc. » +4 9.0cc. >» ’ n° HAS 075 ee. ta 410 ce. (a MMEioroicì 0 a i) » » 4029 0,25 cc. » 10cc. “RMERi9 Mico) > ” n° ato È da notarsi che l'aspetto dei coaguli non è sempre eguale. A bassa temperatura o quando l'enzima è molto debole, si hanno coaguli prima pol- verulenti, indi fioccosi; a temperature vicine all’optimum i coaguli diven- gono compatti, voluminosi, separandosi poco dopo facilmente dal siero, e di- minuiscono fortemente di volume, affondando nel siero, che resta perfetta- mente limpido; mentre quando l'enzima è potente, il coagulo si forma subito, è poco voluminoso, spugnoso, separantesi subito dal siero e galleg- giante su questo. Le alte temperature prossime al punto di distruzione dell'enzima fanno ritornare il coagulo fioccoso e poi farinoso, non più sepa- rantesi dal siero, fino a che la coagulazione viene impedita affatto. L'enzima estratto dagli endospermi germinati o no, o dalle piantine di Ricino, dà precipitato, bianco-giallastro nel caso degli endospermi e grigio- oscuro nel caso delle piantine germinate, con una soluzione al 10°/ di peptone e coagula in 24-48% l’albumina d'ovo, formando da prima membra- nelle nel liquido e poi coagulando in massa l’albumina. La velocità di coagulazione del latte per opera di estratti ricavati da diverse parti del Fico (cus carica) in diverse epoche di vegetazione sono ripetute nella seguente tabella: PRESAME DI FICO. Sostanza Acqua Tempo di presa estrattiva Acidità Temper. coagul. 21 marzo Gemme in riposo or. 23,6 cc. 110 1,4 44° 1° 8f Î 46° 18 Rami 1-2 ì (cortecci . 42 200 1,000 ce Di ami 1-2 anni (corteccia) gr. 42 ce. ; \ 55 97' 65 20' Rami di 1-2 anni ) _ Se ; h (cilindro cent.) gr. 50 ce. 238 1,0 44 1 ; : ; | 1620: Rami 3-5 anni (corteccia) gr. 42 ce. 200 0,8 | 44 18 — 365 — 15 aprile TO 1° 45' Gemme non schiuse gr. 24,1 ce. 100 2,0 po) p 71 13' 160” 232 67 6 Rami di 1-2 anni (corteccia) gr. 60,2 cc. 200 1,4 71 5 88 1 90 50° (1) Infiorescenza di 1 cm. : E ò 7 di lunghezza gr. 29 cc. 50 1,4 ol 17 4 maggio go 2488; s 45 IUS: Foglie completamente gr. 99,1 cc. 220 1,0 90 4 sviluppate 9g Lo 100 — J9° 6h 33' Rami di un anno gr. 47,4 cc. 210 1,0 47 15' 95 I i LORIA 554 47 5 24 9” Infiorescenze di 3 cm. gr. 22,5 ce. 100 1,0 al ; do, 85 — 100 —_ 3 giugno ) 21° ODI Foglie adulte gr. 100 ce. 237 14° 50 30" \ 195 50” Co) h I Rami di 1 anno (corteccia) gr. 39,0 ce. 98 1,6 | di 3 DO, 3 - 3 21° 8h d' Infiorescenze quasi mature gr. 211 ce. 250 3,0 90 50” 29 giugno 26° 58° 37 16” Foglie adulte gr. 145 ce. 250 1,4 pi +e 90 DON 100 — o h r Rami dell’anno (corteccia) gr. 33 cc. 144 0,6 20 ; SA | : Ì 26° 8h 10° Infiorescenze mature gr. 166 ce. 362 1,2 60 40' (parz.) (1) Effettivamente questa prova fu fatta in un bagno a 100°, ma qui è riportata la temp. interna del liquido che era stato posto a coagulare. — 366 — L'annessa curva rappresenta graficamente i risultati dell'ultima espe- rienza (29 giugno) fatta con l'estratto di foglie adulte (fig. 2). L'enzima del Yicus carica non dà precipitato con la soluzione di peptone al 10°/, nè coagula l'albumina d'ovo. Di questo enzima si può dire ch'esso si trova in tutte le parti della pianta eccetto che nel tessuto midollare, e che la sua attività aumenta col progredire della vegetazione. Infatti abbiamo visto che mentre nelle gemme foliari in riposo per coagulare 10 ce. di latte, 10 cc. di estratto a 45° im- piegano 1° 45' (21 marzo), le gemme in principio di germogliamento (15 aprile) impiegano 35’, le foglie giovani (4 maggio) 15' e le foglie adulte (29 giugno) solo 9'. 0° 26° 37° 40° 45° 90° 100° Fic. 2. L'acidità in tutti gli estratti varia da 1,0 a 1,4 decinormale per 10 ce.; questo grado di acidità non è necessaria per l’enzima, poichè esso esplica la sua azione anche in ambiente neutro; anzi pare che tale ambiente fa- vorisca la sua azione. mentre l’alcalinità nuoce ad esso. L'aggiunta agli estratti di egual volume di NaOH decinormale distrugge completamente l'enzima. Non è ad esso favorevole neppure un ambiente troppo acido, poichè l'aggiunta di un egual volume di HCl decinormale fa impiegare a 55° per la coagulazione del latte 40" invece di 30'; aumentando il titolo dell’a- cido, l'acidità agisce per suo conto sul latte ed il coagulo si ottiene imme- diatamente. La diluizione modifica fortemente questo enzima; poichè un estratto che a 45° coagula un egual volume di latte in 9’, diluito in 5 volumi di acqua non coagula più che in 2% 35’. È quindi necessario, nel comparare le esperienze tenere conto del grado di diluizione dell'estratto. L'enzima è, contrariamente a quanto dicono Chodat e Rouge, abba- stanza solubile in acqua distillata, specialmente a 35°-40°. Gli estratti possono conservarsi per alcuni giorni; però l'enzima va perdendo a poco a — 367 — poco la sua attività fino a sciuparsi del tutto. Esso si mantiene più a lungo se sì lasciano in infusione le varie parti della pianta evidentemente perchè nuova quantità d'enzima passa a poco a poco in soluzione. Il suo optimum di temperatura è come abbiamo visto, verso i 90°95° molto prossimo alla sua temperatura di distruzione: 100°. A temperature basse (15°) sebbene dopo lungo tempo (circa 18°) fa risentire la sua azione coagulante che aumenta rapidamente a 45°; Peters invece dai fichi secchi estraeva un enzima che non diveniva attivo se non a 45° ed in ambiente neutro. Nel medesimo periodo vegetativo del nostro fico comune si trova nel Ficus Pseudo-carica (pianta originaria dell’Abissinia e creduta da alcuni progenitrice del cus carica) un enzima coagulante che si comporta in modo molto simile a quello del fico nostrale. Anch'esso ha un ottimo di temperatura (90°-95°) prossimo al punto di distruzione dell'enzima (100°); riguardo all'ambiente acido, alcalino e neutro si comporta perfettamente come quello del Ycus carica agendo bene in am- biente debolmente acido o neutro; in ambiente alcalino l’enzima si sciupa od anche completamente muore; la forte acidità diminuisce la sua attività, così che una quantità di enzima diluita con eguale volume di HCl deci- normale alla temperatura di 55° non coagula più il latte, se non in 1° 5‘ invece di 30' occorrenti all'enzima nell’estratto acquoso. La sola differenza che può notarsi rispetto all’enzima del /7eus carica è che a temperature basse esso agisce molto più lentamente, tanto che, mentre l'estratto di gemme fogliari del 15 aprile del Nicus carica impie- gava per coagulare il latte alla temperatura di 16°, 1% 45’, un simile estratto di gemme fogliari dell’istesso giorno del /icus pseudo-carica dava alla medesima temperatura un coagulo dopo 17° 34. Tutti gli estratti di questa pianta hanno un grado di acidità alquanto più forte di quella del Yzeus carica, poichè essa varia da 1,4 a 2 deci- normale ed anch'essi non dànno precipitati con le soluzioni di peptone, nè coagulano l’albumina d'ovo. Un enzima che si comporta diversamente da quelli studiati sin qui, sia per la distribuzione nelle varie parti della pianta durante la vegetazione, sia per la sua estrema delicatezza è quello che trovasi nella Pircunza ( Phy- tolacca) dioica. La seguente tabella ci dà la velocità di coagulazione del latte per opera di estratti ricavati da diverse parti della pianta in diverse epoche di vegetazione. — 368 — PRESAME DI PIRCUNIA. Sostanza Acqua Tempo di presa estrattiva Acidità Temper. coagul. 29 aprile 16° - 21 _ Rami dell’anno pre- 7 AO | gu ‘Bs 50 sot dae 2330 Ù 47 Lis 55) — 14 maggio 0) h L Rami senza polloni gr. 94,9 cc. 211 0,6 po si "i I 24° 55° il * 45 38° Ste I See er, 1928 200 oe, 35" ene sviluppate \ 55 90 60 — 22 maggio. 47° 44' fioccoso Germogli giovani gr. 91,2 cc. 202,6 1,2 4° 22' compatto 60 — 11 giugno 26° 5ì 5 Rami giovani gr. 190 cc. 226 1,4 - Dazio eno \ 60 = | 24° 29% Foglie adulte gr. 81,5 cc. 194,3 » 45 5 fioccoso in- | completo 1 luglio : 26° 16° 48° i | gr. 77 ce. 100 0,8 | no l'azione è TRI 26° Lio) Rami giovani del- i 37 44h l'anno | gUsa Seli ob 45 s'arresta 95 —_ 26° 16° 12" Ì a ste 37 34' incompleto E I ea ed 17 ce.100 1,0 ) 45 1%8 ficccoso i inno 50 s'arresta 55 = 26° 1h 52" Giovani infruttese. gr. 37,5 cc. 100 1,6 45 s'arresta 60 — — 369 — La seguente curva rappresenta i risultati dell'esperienza del 14 maggio fatta con l'estratto di germogli in cui l'enzima esplica la sua maggiore at- tività (fig. 3). I coaguli ottenuti con gli estratti delle varie parti di Pircunia dicvica hanno un aspetto direi quasi tutto proprio e abbastanza dissimile da quelli ottenuti con i presami precedenti. Un vero e proprio coagulo compatto non si ottiene che con gli estratti delle parti molto giovani (germogli, rami dell'anno) specialmente a tempe- rature basse (26°); in questo caso esso è molto voluminoso al principio, poi si contrae e si separa perfettamente dal siero affondando in esso, il siero sempre limpido nel caso dei germogli si colora lievemente in rosa, nel caso dei rami rimane giallastro. HraNt9s Con gli estratti di parti adulte (rami dell'anno precedente, foglie com- pletamente sviluppate) i coaguli sono in generale fioccosi, incompleti ed alle volte addirittura polverulenti; si formano in un tempo piuttosto lungo, anzi con gli estratti dei rami dell'anno precedente, sia della pianta in riposo, sia durante la vegetazione, si formano circa dopo 17°, sono incompleti e rappresentati da piccola quantità di precipitato polverulente, depositato al fondo del tubo o aderente alla parete ed il resto del liquido prende un’a- spetto opalescente. Sembrerebbe quasi che qui sull'azione dell'enzima coa- gulante predominasse quella di un altro enzima proteolitico che sciogliesse le albumine del latte prima o meglio nel medesimo tempo che vengono precipitate dall’enzima coagulante. Gli estratti di Pircunia dànno con la soluzione di peptone al 10 °/, un precipitato biancastro e coagulano forte- mente l’albumina d'ovo dando con questa un precipitato fioccoso al fondo del tubo ed un coagulo galleggiante alla superficie del liquido. Il presame si trova in tutte le parti della Phytol/acca ma esplica la sua attività solo nelle parti giovani, ed in ispecial modo in quelle in cui l'accrescimento è in maggiore attività; quando la pianta è in riposo la sua azione è quasi nulla. Tale enzima cambia durante il periodo vegetativo RenpicontTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 49 — 370 — la sua attività alle diverse temperature; e l'optimum di temperatura va continuamente abbassandosi da 55° (estratto dei germogli del 14 maggio) a 37° (estratto di germogli del 1° luglio). Alla chimasi di Pircuzia nuoce fortemente l'ambiente troppo acido, come pure l'alcalinità; l’ambiente neutro gli è alquanto sfavorevole se reso tale con aggiunta di NaOH, mentre sembra essergli indifferente se ottenuto con aggiunta di Mg CO,. L'enzima poi sì sciupa facilmente negli estratti da un giorno all'altro. Da queste esperienze si possono trarre le seguenti conclusioni. 1. I presami delle piante studiate, eccetto quelli del Ficus carzea e pseudo-carica ece., i quali possono considerarsi come un unico enzima adat- tatosi insieme alla pianta alle diverse temperature in cui questa è stata co- stretta a vivere, si comportano molto differentemente fra loro. 2. La chimosina del Ricino è quella che più ricorda il presame ani- male avendo un optimum verso i 47° ed un maximum verso i 67°; non agisce se non in ambiente acido. 8. I presami di Ficus carica e di Nicus pseudo-carica agiscono per- fettamente bene in ambiente debolmente acido o neutro, mentre una forte acidità o una alcalinità anche debole ne diminuiscono o distruggono l'azione. Essi hanno un optimum di temperatura verso i 90° molto vicino alla tem- peratura di distruzione (95°-100°). L'enzima estratto dal Ficus pseudo-carica, è meno attivo a basse tem- perature di quello del cus carica, e ad alte temperature è un po’ più rapido di quest'ultimo. Questi enzimi aumentano di attività col procedere della vegetazione primaverile della pianta, tanto che la massima azione dell'enzima coincide col massimo accrescimento della pianta medesima. 4. La chimasi della Pireunia diovica differisce dai due precedenti, perchè non entra in attività se non nelle parti della pianta che sono in ac- crescimento, mentre nelle piante precedenti l'enzima trovasi attivo anche negli organi completamente sviluppati, e perchè il suo optimum di tempe- ratura si abbassa col procedere della vegetazione della pianta da 55° a 37°. A temperatura ordinaria (26° circa) agisce più rapidamente di tutti gli altri enzimi. 5. Tutte queste chimasi precipitate con alcool e ridisciolte in acqua perdono molto della loro attività; ed anche gli estratti con acqua lasciati a sè stessi per alcuni giorni (sebbene in ambiente asettico) perdono a poco a poco la proprietà di coagulare il latte, quello della Pireunia in sole 48°. Le chimosine del Ricino e della Pircuzia dànno piccola quantità di precipitato polverulento con soluzioni al 10 °/ di peptone e coagulano pron- tamente l’albumina d'ovo, sebbene in diverso modo. — 371 — 6. Il differente portamento di questi enzimi indica molto probabil- mente una differente costituzione chimica degli enzimi medesimi, e certo è in rapporto con l'ufficio loro e con le diverse materie su cui devono agire nelle differenti piante. Quali siano le materie su cui agiscono questi enzimi' e quale ufficio abbiano nell'economia della pianta tenterò di stabilire con ulteriori studii. E. M. ; Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1% — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1 TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vel.V.- VV: VEL: VIII Serie 3* — TRANSUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MeMoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — III-XIX. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIcONTI Vol. I-VII. (1884-91). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. HX. Serie 5 — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVI. (1892-1907). 2° Sem. Fasc. 5°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. di Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 4°-5°. MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-12°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 5°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1 Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. 19; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoescHer & C.° — Roma, Torino e Firenze. Utrrico Hoepri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Settembre 1907. INDICE E a IMAGE roca Gia ii DIRE (li scienze fisiehes matematiche e naturali. Comuni Marvin all'Accademia sino al 1° settembre 1907. . MREMORIR | Mb i PRESENTATE Da SOCI Grassi, Riassunto. delle ricerche sulle o e .in nari anta su ade il vite, ese- suite nel R. Osservatorio antifillosserico di Fauglia fino all’agosto 1907, per incarico del Ministero d’Agricoltura, dal prof. B. Grassi (direttore),e dalla dott. Anna.Foà (assi-. ». ‘905 stente) i fe. A Peratoner e Azzarello. Azione: dei diazo-idrocarburi grassi sul CISUOSARAI e suoi derivati. II. Cianogeno. (Parte sperimentale) + L . . . ... - MPT. De Lorenzo. Azzùrrite e Malachite dei dintorni di Lagonegro in basilica Le ae 0; Viola e Sangiorgi. Sopra i supposti giacimenti granitici dell’Apennino Patmense . . . » Severi. Alcune proposizioni fondamentali per la geometria sulle varietà algebriche (pres: dal Socio Segre) 0. ae. > DE È ; 1) Bargellini. Sopra una dimetil- difenil- ce dlenimina (pie. dal Sia Conca È org) Mazzucchelli. Sa alcuni sali complessi del perossido di. titanio (pres: dal Socio Paternò) » Serra. Studio. litologico-chimico delle rocce del Coloru (Sardegna sett.) (pres. dal Socio Siren) seo 2a RE neo e rg TERE Mee Acqua. Sull’accumulo di ne radioattive nei vegetali (pres. dal Socio Pirotta). . . » Bruschi. Sopra alcuni presami o chimasi vegetali (pres. Id.) -. c.c. 0 518 328 332 337 344 349 393 357 360 KE. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. PET O TO MMS ORI GE È | "i PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI re REA) Pubblicazione bimensile. Roma 15 settembre 1907. N. 6. GAI REALE ACCADEMIA DEI LINCEI | ANNO CGCGIV. 1907 STERIERESBiEo.Q), RS INDIA: RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XVI. — Fascicolo 6° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 15 settembre 1907. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1907 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quenta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei, oltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon= denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sonò portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi» cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risco in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - @) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è ressa 3 carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all’ Accademia sino al 15 settembre 1907. \NANANNNM<*---- Matematica. — Sulla integrazione dell'equazione 4+V= 0. Nota del Corrispondente GrusePPE LAURICELLA. Nella mia Nota: Sulle equazioni della deformazione delle piastre elastiche cilindriche (*) annunciavo, or sono due anni, di avere dimostrata l'esistenza dell’integrale dell'equazione 44V = 0 per dati valori al contorno della funzione incognita e della sua derivata normale. Quella dimostrazione si fondava su di un teorema di equivalenza, il quale mostra che il pro- blema enunciato equivale al problema dell’'integrazione delle equazioni del- l'equilibrio dei corpi elastici isotropi per dati spostamenti in superficie, in un caso speciale riguardo al valore del parametro di elasticità, il quale però non rientra in quelli di isotropia; e si fondava ancora su di un teorema già da diversi anni enunciato dai sigg. Cosserat (?), che io dimostravo per mezzo di ripetute approssimazioni successive. Venuto a conoscenza dei risultati di Fredholm sulle equazioni integrali e sul problema di Dirichlet, pensai di profittarne per togliere dalla mia dimostrazione alcune restrizioni sulla natura del contorno del campo e delle funzioni arbitrarie, ed ancora per semplificare alcuni ragionamenti, che quel metodo di approssimazioni successive richiedeva; ed a tal uopo ritirai la mia Memoria manoscritta dalla redazione degli Annali di Matematica. (') Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, vol. XIV, 1° sem., serie 5°. (*) Marcolongo, Teoria dell'equilibrio dei corpi elastici, pag. 239 (Manuali Hoepli). RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 50 — 374 — Mentre ero dietro ad effettuare le dette modificazioni, riuscii a trovare una nuova dimostrazione diretta, analoga a quella di Fredholm relativa al problema di Dirichlet ed a quella mia relativa al problema dell'equilibrio di elasticità; sicchè abbandonai la vecchia dimostrazione, veramente labo- riosa, e scrissi la nuova, la quale sarà quanto prima pubblicata. In una Nota dello scorso anno, il Fredholm (') dimostra che gli inte- grali delle equazioni dell'equilibrio dei corpi elastici isotropi, per dati spo- stamenti in superficie, sono funzioni meromorfe del parametro di elasticità. Questo importante risultato permette, in virtù del menzionato feorema di equi- valenza, di dimostrare ancora con semplicità il teorema di esistenza dell’ inte- grale dell'equazione 4*V = 0, applicando il metodo indiretto che avevo ideato dapprima. Nella presente Nota espongo appunto questa dimostrazione (indiretta); e mostro, mediante un esempio, come il detto feorema di equivalenza possa servire a costruire effettivamente la funzione V, tutte le volte che si cono- scono le formole di risoluzione delle equazioni dell'equilibrio dei corpi ela- stici isotropi. Potrei limitarmi ad applicare qui senz’altro l’ enunciato teorema di Fredholm sull'elasticità; tuttavia credo opportuno riprodurre per disteso gli eleganti ragionamenti di Fredholm, partendo dalle mie equazioni funzionali dell'elasticità (*), al fine di aggiungere qualche utile dettaglio. Il prof. Marcolongo in una recente Nota (*) ripete pure i ragionamenti di Fredholm, che estende ancora al caso dei campi infiniti, partendo da equazioni integrali, le quali coincidono appunto con le mie (4); ma senza quei dettagli, che a me sembrano convenienti (°). (1) Solution d'un problème fondamental de la théorie de l’élasticité, Arkiv ibr ma- tematik, astronomi och fysik, Bd. 2, n. 28. (*) Quelle del Fredholm mi sembrano meno semplici. (®) Za teoria delle equazioni integrali e ie sue applicazioni alla fisica-matematica, Rendiconti della R. Ace. dei Lincei, vol. XVI, serie 5°, 1° sem. (4) Le formole, che suggeriscono tali equazioni, erano state da me ottenute, a un di presso nel modo accennato dal prof. Marcolongo nella sua Nota, nella mia tesi di abilitazione (Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, form. (8), pag. 87), dove me ne servivo per estendere il metodo di Neumann all’elasticità. Recentemente (v. Alcune applicazioni della teoria delle equazioni funzionali alla fisica-matematica, Il Nuovo Ci- mento, serie 5°, vol. XIII) le ho dedotte, introducendo il concetto di pseudo-tersioni, per potere dimostrare che il determinante delle equazioni integrali (almeno nei casì di isotropia) è diverso da zero. (5) Nella sua Nota il prof. Marcolongo dice che è impossibile che il determinante delle equazioni integrali dell'elasticità nei casi di isotropia sia nullo. Il Fredholm nella sua Nota non dice questo esplicitamente. Ad ogni modo tale verità non risulta dai ragionamenti del Fredholm, nè da quelli del Marcolongo. Similmente non si può asserire (a meno che non si faccia uso del concetto di pseudo-tersioni o di altri criteri) che quando il determinante è uguale a zer0, ossia quando le equazioni integrali omogenee ammettono soluzioni diverse da zero, si hanno soluzioni fondamentali o eccezionali. — 375 — 1. Indichiamo con o una superficie chiusa, con S lo spazio finito da essa limitato, con x la normale nei punti di 0; e fissiamo per direzione positiva di 7 quella rivolta verso il campo S. Supponiamo poi che la su- perficie o soddisfaccia alle seguenti condizioni: 1°. Ammetta un piano tangente determinato in ogni suo punto, va- riabile con continuità al variare con continuità del punto di contatto; . . . . . N 2°. Esista un numero fisso positivo e tale che, indicando con 27 l'angolo formato dalle direzioni positive delle normali #,%' in due punti qualsiasi p,p' di o e con 7' il vettore pp’, si abbia: Dr r A LIZ Riferiamo i punti dello spazio ad una terna di assi cartesiani ortogo- nali; e indichiamo con 7 il vettore che congiunge due punti qualsiasi dello spazio, le cui coordinate siano rispettivamente x,y ,3 ; É,7,$. Finalmente sì ponga: SA IA , 4A'=>A°4), d d E) @- d 00 iii SERE A ; supponendo nella terza formola (derivata normale) che il punto (@, 7,4) sia su o e che n sia la normale in questo punto. 2. Osserviamo che, quando di una funzione V sono dati nei punti di o i suoi valori e quelli della sua derivata normale, si possono subito ottenere VOa2V d3V i valori di ei TE, De negli stessi punti di o, supposto che queste de- da LI da rivate esistano. Infatti, considerato su o un sistema ortogonale (@,f), sì può scrivere: DS I cos na + Li cos 127 + DI cos #2 — = - = y+ =c08n8, dadi dY i > V VS V M ee os ME sca, dei DI dY dE DION. A MMI music a COSISA

% a uguale ad 1. Vi DIVO iceversa og — 376 — , . (0) AVIR + code RILAI si sì possono subito determinare negli stessi punti di o i valori di en 8 7) e, a meno di una costante, quelli di V. Di qui segue che al problema di determinare una funzione V dei punti del campo S, la quale soddisfaccia alle equazioni : dV 1) (nei punti di S) 44V=0, (nei punti di o) V= fi(@, f), / dn = fx(a,f), con f,(@,£),/2(@,f) funzioni finite e continue, arbitrariamente date, delle quali la prima abbia le derivate prime finite e continue, si può sostituire l'altro problema di determinare una funzione V, dei punti del campo S, la quale soddisfaccia alle equazioni: (nei punti di S) 44V,=0, 1 { ; di de V V dI dY da dove si è posto: IV 2V IV Uo = "> o, Ve = O We =" » dI dY dE Infatti, determinato in un modo qualsiasi un integrale V, di queste equazioni, questo differirà dall’integrale V delle equazioni (1) per una co- stante additiva, la quale si potrà determinare tenendo conto del valore di fi(@,8) in un punto qualsiasi di 0. 3. Se V, è integrale delle equazioni (1),, posto: dVi dVi DIVA du dv dWw == ———* o = ==> O o o 0o—= — —— — — a13*V 5 de WM % ET > Ta risulterà: on e | AU, Sp I (nei punti di S) dÌ dm dI (1): < 426=0, (tuoi puntitdito) wu = «Mi = 0/8 nelle quali us, vs, ws; sono rispettivamente i valori nei punti di o delle derivate prime rapporto a £,7, di una medesima funzione. Viceversa supponiamo che le funzioni «,v,w formino un sistema di integrali delle equazioni (1),, nelle quali us, vo, ws siano rispettivamente i valori nei punti di o delle derivate prime rapporto a £, 7, di una me- desima funzione Va(£, 7,0). Posto: ww oi du ww è a ao “i ty = — 377 — risulterà dalle (1): it da e ton, ai ) n 0a =0; dÙ IM dE di i È Ù e quindi esisterà una funzione U($,n,€) tale che: (3) SO rt Alu DER n Pei Dalle (2) si ha ancora, integrando per parti, mali ivi dl 3 A I) (NERE Sett a+ 29) 484 fpus(es cos nà — 21 008 #7) + ZN ZN ZN ZN + vo(t3 cos na — c, COS #2) + walt €08 nY — Ts cos na)} do ‘ e dalle (3), pure integrando per parti, ZN ZN ZN ZN Spust cos 24 — T3 OS NY) + vo(t3 cos na — T, cos 28) + (ci ZN ZzN + wet, cos ny — ts cos na) do = = SARE (37 cos i — i cos i) + (Fr cos sò — Dl cos ia) + ol de \dY de y de dI Vi (9U + DE (37, cos ij — Tr cos iù goa Da \d% YI ) LEDA s(20\2ÈE dr mn\ a dd dE\ dmn dE a fa ap (2: BIO: (DI) e Ae mn\ dl E EI quindi risulta dalla (4): feta+4=0; S donde: (nei punti di S) t,. = Ul =%3 = 0 ’ ossia : (nei punti di $) di O ST dI pl Varna > Panca — 378 — Di qui segue l'esistenza di una funzione Vi(é ,7,) tale che: dVi COVA ELOS ’ asa , di EL sto TOI (} fn e così otteniamo per la Vi(£É,7,6), in virtù delle (1), (nei punti di S) 4*4V,=0, , Pet V V V (nei punti di 0) Pe °°. Î DARI ; dla da dY » = Wa. Riepilogando si ha che l'integrazione delle equazioni (1), equivale all'integrazione delle equazioni (1)». 4. È noto il teorema di unicità relativo alle equazioni (1), questo teo- rema allora varrà (a meno di una costante addittiva) per le equazioni (1),, e, in virtù del precedente teorema di equivalenza, varrà ancora per le equa- zioni (1)», ossia si avrà che 2/ sistema integrale delle equazioni (1)» è pie- namente determinato. 5. Ciò premesso, sì considerino le equazioni: (o) (o) 6 (nei punti di S) 4°u+% se 0 ; do 4h =0 ì d'w+k=0; (nertpuntiidito) Mia= 5 © ue 08 nelle quali % rappresenta un parametro indipendente da £, 7,6, € %s, Var Wa sono tre funzioni /îmzfe e continue dei punti di 0. Queste sono le equazioni dell'equilibrio dei corpi elastici isotropi, e dànno per X + — 1: (nei punti di S) 4°09=0, la quale per %X = — 1 non è una conseguenza delle precedenti. Se noi alle precedenti equazioni aggiungiamo quest’ ultima, otterremo le equazioni: 68 PI) die 0°, : de DE dI | (nei punti di $) 309 (5) \\ Fi i o A — 0 9206 | Ware de punti di 0) u=%s , V=%s , W=Ws- Queste equazioni, nel caso particolare in cui le funzioni finite e con- tinue Us, Ve, ws Sono rispettivamente i valori nei punti di 0 delle deri- vate prime rapporto a È,n,$ di una medesima funzione Va(£,7,%), coincidono per k=—1 con le (1)a. — 379 — È noto il teorema di unicità delle equazioni (5) per 4 >— 1. Al $4 abbiamo dimostrato questo teorema anche per X= —1; quindi 7/ sistema integrale delle equazioni (5) per E > —1 è pienamente determinato. Quest'ultimo teorema si può enunciare dicendo che /e equazioni (5) per k=—1 e per us=vs=ws=0 non ammettono soluzione alcuna diversa da zero (soluzione fondamentale 0 eccezionale). 6. Ora si considerino le equazioni integrali : p(a', 8 ; 4) + fox (e, P; a,b; 4). g(e,f; i) do=us(a',B'), (6) =0, 3 3°Q | 7330, Et 30570 ni) a ped e o oa DIO) 2 ES goin DARA d'Q ID Vaie: DI (nei punti di 0) 8. Ora supponiamo che il valore finito Z' di Z sia radice di ordine t+ 1 dell'equazione (7), ossia che si abbia per 4=4': 2D —_ DO (7), o=D=3G= = RenpIicontI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 51 — 382 — Allora sì potrà scrivere: D(2)=(2—2)!#!.D, (2) , Di(2)+0. , Supponiamo che il valore 4' sia tale che per il corrispondente valore l di X non esistano soluzioni eccestonali delle equazioni (5), ossia che 4/, o il corrispondente %', non sia un valore eccezionale. Allora dalle (10), (11), (12), (7), risulterà in tutto il campo S: P(£,7,6;7)= QUE, 7, 0804)= RE 39:05 2)= O(E, 7,6; 4)= e quindi, facendo nelle (13) #="1, otterremo ancora in tutto il campo S per s4/—946 Seguitando a fare uso delle (13), con riguardo alle (7),, otterremo così in tutto il campo S per A=4': De e 3 O Sai = Sai = Si gg 0 (012030) e quindì si potrà scrivere: (14) (P= A Agi, RARE. AEON l me — AMIR: i O=(A—- Mei .9,, con P,,Q,, Ri, ©, funzioni di $,7,6,4 della medesima natura di P,Q, R,0. Le funzioni P,,Q.,R1,9,, come risulta dalle (9), (10), (11), (12) dividendo per (4 — 4')#!, soddisfano alle equazioni: | \L'P+R=0. 10, += 0,4: +20 0 (nei punti di S) 3 O, — — i S0=0; \ \ (nei punti di o), P,= D(Ofzo, Qd= DIA 203 REDIVELE per qualunque valore finito di 4, ossia per qualunque valore di % diverso da —2. Questo risultato vale anche quando, essendo il valore 4’ eccezionale, le funzioni P,Q,R,© abbiano eventualmente la forma (14). 9. Da quanto precede risulta che le funzioni : di IR R ut, n,654)=5 v(E,m,€34)="p i wé.n,î34)=3 — 383 — sono funzioni meromorfe di 4, le quali, per tutti i valori di %k per cui non hanno un polo, sono finite e continue in tutto tl campo S (i punti di o inclusi), hanno le derivate rispetto a È,n,6 finite e continue în qualunque campo interno al campo S, e soddisfano alle equazioni (5). Esse possono avere poli solo per valori eccezionali di k, i quali, nel caso che siano in numero infinito, avranno per unico valore limite il valore k= — 2. In ogni caso nessun valore eccezionale può appartenere al campo — 1,00. Questo teorema, nel caso particolare in cui le 5, Vs, %Ws Sono rispet- tivamente ì valori nei punti di o delle derivate prime rapporto a È,n,6 di una medesima funzione, ci dimostra per X= — 1 l'esistenza degli inte- grali regolari delle equazioni (1):; e così risulta dimostrata l’esistenza dell’integrale regolare delle equazioni (1). 10. Le condizioni poste in principio sulla natura della superficie o si sono introdotte per dimostrare il precedente teorema relativo agli integrali delle equazioni (5). Qualunque sia la superficie o, tutte le volte che, in un modo qualsiasi, si conoscono le formote che dànno gli integrali delle equazioni (5), il procedimento generale, indicato nei SS 2, 3, ci dà il mezzo di risolvere il problema dell'integrazione dell'equazione 4*V = 0 con quadrature. Così, ad esempio, nel caso della sfera di raggio R gli integrali delle equazioni (5) per X= — 1 sono ('): EA AIM Ut ut ,n,)= E Spia cal 73 Cao {de _ (O 20° 9 le NE ento? . Zu | c È 7) de de, _EP=@ Vo) 4nR a “at am essendo l'origine degli assi nel centro della sfera e o? = &° + ny? 4 È°. Ponendo in queste formole: dV dV dv Us =>" 7 , Ve== 7 o We = dI dE ed eseguendo le opportune quadrature, si ritrova la nota formola che dà l'integrale V delle equazioni (1) per il caso della sfera (?). (1) Lauricella, Sulta deformazione di una sfera elastica, ecc. (Annali di Matema- tica, vol. VI, serie 8°). (2) Volterra, Osservazioni sulla Nota precedente del prof. Lauricella e sopra una Nota di analogo argomento dell'ing. Almansi (Atti della R. Acc. delle Sc. di Torino, vol. 31, 1895-96). — 384 — Fisica. — A proposito di una Nota dei proff. Battelli e Stefanini: « Relazione fra la pressione osmotica e la tensione superficiale ». Nota del Corrispondente A. SELLA. In una Nota pubblicata in questi Rendiconti (6 gennaio 1907) e dal titolo: Relazione fra la pressione osmotica e la tensione superficiale, i professori Battelli e Stefanini riportarono una dimostrazione ottenuta con sem- plici considerazioni teoriche della proposizione che debbono essere isosmo- tiche quelle soluzioni, che hanno eguale tensione superficiale. Soluzione Solvente Senza entrare nel merito della proposizione stessa, mi sia lecito fare alcune osservazioni sopra la dimostrazione teorica sopradetta. Innanzi tutto essa si basa sull'affermazione che la differenza p—p, fra le tensioni di vapore p del solvente e p, della soluzione è eguale al peso della colonna di vapore che ha per altezza #, — /, se X ed #, sono le altezze di ascensione in due tubi capillari di eguale diametro, che pescano rispetti- vamente nel solvente e nella soluzione e sboccano in una camera contenente soltanto il vapore del solvente. Ora l'affermazione pare inesatta. Per trovare il dislivello a cui si debbono trovare le due superficie dei menischi, perchè sieno in equilibrio, cioè non avvenga distillazione, bisogna operare nel seguente modo. In una camera ripiena del solo vapore del solvente sieno due recipienti contenenti il solvente e la soluzione; perchè vi sia equilibrio, la superficie della soluzione e del solvente dovranno trovarsi ad un dislivello K tale che vai DI la differenza delle tensioni p del solvente e y, della soluzione sia eguale al peso di una colonna di vapore di sezione uno e di altezza K. Se poi nei due liquidi si immergono due capillari di eguale diametro, si avranno due ascensioni di altezza % ed /, a seconda delle rispettive coesioni speci- fiche; e vi sarà equilibrio fra le superficie liquide agli estremi dei capillari come, a causa della curvatura dei menischi, vi sarà equilibrio fra ciascuna di esse e la superficie del proprio recipiente. E nulla verrebbe mutato se i due recipienti comunicassero con un tubo fornito di una membrana semiper- meabile. Dunque il dislivello 4 fra gli estremi delle superficie nei capillari, vale nel caso dell'equilibrio, essendo 4 la densità media del vapore 4 ua —(f1—h) ed ha un valore variabile a seconda del diametro del capillare. Si vede così che la considerazione delle altezze di ascensione capillare non può essere di alcun giovamento per dimostrare l’asserto degli autori. Questi poi nel corso della loro dimostrazione, nella espressione (04 (04 0151 gs in cui @ ed @,, seds,, 0 © Q, sono rispettivamente la tensione superficiale, il peso specifico, il raggio di curvatura della superficie libera nel capillare per il solvente e per la soluzione — dicono che nell'ipotesi di una soluzione sufficientemente diluita, si può ritenere senza errore sensibile s = s, e porre quell’espressione eguale a In x SAMO Q Ora ciò non è lecito quando « ed «, sono pure poco differenti fra di loro (i due raggi sì possono ritenere eguali). E questo è tanto vero che mentre da solvente a soluzione vale a < @, cioè la tensione superficiale cresce, e nda: AE ; Lupiligio benchè sia pure s< s1 vale sa , almeno nella maggior parte dei casi. 1 ; E ; DICANO e A so 3 Ossia la coesione specifica ba diminuisce e quindi f, < A, cosa a cui gli autori non sembrano aver posto mente. A me pare si possa concludere che la dimostrazione dell'importante pro- posizione, già tentata da altri autori in base a considerazioni termodinamiche, non abbia, quale è presentata dai proff. Battelli e Stefanini, validità. — 386 — Matematica. — Sull'equazione del moto vibratorio delle mem- brane elastiche. Nota di Tommaso Bocaro, presentata dal Corrispon- dente LevI-CIvITA. E notorio che l'equazione: d* d? (1) Agu+Au=0 , Cri fondamentale nello studio delle vibrazioni trasversali delle membrane ela- stiche piane e tese, ammette, se Z è una costante xegativa, un solo inte- grale, regolare in un'area piana o, che sul contorno di essa assume valori dati, mentre invece ciò non accade, in generale, se Z è una costante post- tiva; precisamente, esiste una successione di valori (positivi) di 4 corrispon- dentemente ai quali esistono integrali v della (1) non identicamente nulli nell’area o, ma nulli sul contorno. Questi valori di Z e questi integrali x sono, da vari autori, rispettiva- mente denominati valori eccezionali, valori singolari, ecc. e soluzioni ecce- zionali, soluzioni singolari (o fondamentali), ecc.; è però più breve chia- marli invece autovalori e autofunzioni. È interessante allora, sovratutto dal punto di vista fisico, determinare il più piccolo autovalore Z, della (1), o almeno un confine, al disotto del quale non cadano autovalori della (1): infatti è noto che all’autovalore 4, corrisponde il suono più grave per il quale la membrana o possa vibrare, per conseguenza, per un valore inferiore di Z, la membrana non darà suono alcuno. Di tale questione si è occupato incidentalmente il Poincaré ('), asse- gnando (anche nel caso di tre dimensioni, e di condizioni ai limiti più gene- rali) un confine inferiore per Z,j; però esso, che è inversamente proporzionale al quadrato del diametro (massima corda) del campo considerato, è poco approssimato, e inoltre per stabilirlo bisogna ricorrere a calcoli assai com- plicati. Un'altra espressione più approssimata, è stata ottenuta con procedimento assai semplice dal Picard (*), il quale ha trovato un confine inferiore inver- samente proporzionale al quadrato della larghezza di una striscia, compresa (1) H. Poincaré, Sur les équations aua dérivées partielles de la Physique mathé- matique (American Journal uf Mathematics, volume XII, a. 1890); Sur les équations de la Physique mathématique (Rendiconti del Circolo matematico di Palermo, t. VIII, a. 1894). (3) Cfr. ad es. Picard, 7raité d'Analyse, t. II, pag. 26 (I° édition). — 387 — fra due rette parallele, contenente per intero il campo dato. È chiaro quindi che, per quanto grande sia il diametro di tale campo, questo confine infe- riore rimane immutato, purchè però il campo sia sempre contenuto entro la striscia considerata, mentre invece, colla disuguaglianza del Poincaré, tale confine tenderebbe a zero. In questa Nota mi propongo di assegnare un confine inferiore per Z,, il quale è ancor più approssimato di quello ottenuto dal Picard; io lo sta- bilisco con due procedimenti completamente differenti: l’ uno è fondato sopra un teorema di Schwarz, l'altro è una opportuna estensione del metodo stesso adoperato dal Picard. Inoltre assegno pure un confine superiore per 4,, e per la somma dei quadrati dei reciproci degli autovalori della (1). Infine estendo al caso di tre dimensioni i risultati ottenuti. 1. Consideriamo dapprima un'area rettangolare di lati 4, d, poi poniamo l'origine delle coordinate in un vertice del rettangolo, l’asse 4 diretto se- condo il lato 4, e l'asse y secondo il lato 5. Per tale area Lamé (') ha determinato tutti gli autovalori e le auto- funzioni della (1): queste ultime si hanno osservando che la funzione: IMITA NITY u= sen (TT |)sen ; 0) d ove m,n sono interi, è evidentemente un'autofunzione della (1) purchè sus- sista l'eguaglianza: Ne segue che il minimo autovalore Zi si ha per m=n="1, ed ha per espressione : pc (ina (2) ine E Ciò premesso, consideriamo un’area o, limitata da una curva chiusa s, e determiniamo un confine inferiore per il minimo autovalore 4, della (1). Ricordiamo perciò il seguente teorema di Schwarz (*): « Se un’area è (1) Lamé, Zecons sur la théorie mathématique de l’élasticité des corps solides, pag. 116 (Paris, a. 1852). (£) Schwarz, Integration der partiellen Differentialgleichung, etc. (Gesammelte ma- thematische Abhandlungen, pag. 261; Berlin, a. 1890). Un'altra dimostrazione, assai sem- plice, di tale teorema è stata data recentemente dal Picard nella sua Memoria: Sur quelques applications de l’équation fonctionnelle de M. Fredholm (Rendiconti del Cir- colo matematico di Palermo, t. XXII, a. 1906). Tale teorema, fisicamente, esprime che, al rimpiccolire della membrana, diminuisce il periodo della vibrazione corrispondente al — 388 — contenuta all'interno di un'altra, il più piccolo autovalore della prima è maggiore del più piccolo autovalore della seconda ». Osserviamo poi che chiamando 4,2 i lati di un rettangolo contenente nel suo interno l'area 0, avremo, dal teorema di Schwarz: 4, > di, cioè, per la (2): ) | che è la diseguaglianza che volevamo stabilire. Supponendo ad es. 4 > d e facendo crescere indefinitamente 4, si deduce: @) 1>e(+% de che non differisce sostanzialmente dalla diseguaglianza del Picard. Quella del Poincaré è invece: 24 gn ove D è il diametro dell’area 0. Considerando ora un rettangolo di lati 4, , 9, contenuto all'interno di 0, si ha, dal teorema di Schwarz: ). abbiamo così un confine superiore per 4,. Applichiamo ad es. le (3), (4) al caso di un cerchio di raggio R. Pos- siamo porre: a=d5=2R ed a,=0,=R]?2, quindi avremo: Ù 9 06 n IT nio 7 ari cioè: Il valore esatto di Z, si ha osservando che gli autovalori, nel caso del cer- chio, soddisfano, com'è noto, alle equazioni: J,(VZR)= 0, ove J, indica suono più grave che essa può emettere, e quindi cresce l’altezza di tale suono; sotto questa forma il teorema è pressochè intuitivo, e notissimo nella fisica sperimentale e nella musica, sovratutto nel caso di una dimensione (corde sonore). — 389 — la funzione di Bessel d'ordine 7; la più piccola radice si ha per n= 0 e vale (!) 2,40, perciò: (21,4) 5,700 d,= E I si vede quindi che questo valore è abbastanza prossimo al confine inferiore dianzi trovato. A proposito del cerchio, ricorderemo ancora che da una tabella costruita da Lord Rayleigh (*), risulta che fra tutte le membrane aventi la stessa area, e, s'intende, costituzione fisica, il minimo valore di Z, compete alla membrana circolare; sarebbe interessante stabilire questa proprietà in modo rigoroso, però pare che la dimostrazione presenti gravi difficoltà. 2. Dedurremo ora la (3) senza ricorrere al teorema di Schwarz, ma estendendo convenientemente il metodo seguito dal Picard per ottenere la sua diseguaglianza. Intanto essendo 4%, il minimo autovalore della (1), è chiaro che per A<4, sussisterà il teorema di unicità per l'equazione (1); orbene noi tro- veremo un confine inferiore per 4, esaminando appunto, in modo diretto, in quali casi sarà valido per la (1) il teorema di unicità. Dalla (1) risulta: fut + du) do =0, (o) cioè, integrando per parti, e ricordando che sul contorno s la funzione « si annulla: 2 1) (7) + DA) — 4u |do=0, da dy quest'eguaglianza, ben nota, mostra intanto che, se Z è negativo, allora sus- siste certo il teorema di unicità. Supponiamo ora 4 positivo, e indichiamo con g, w due funzioni continue qualunque di 4 ,y; allora avremo mente ricordando l'equazione pre- cedente: Ste ++] eee I (!) Cfr. ad es. Lord J. Rayleigh, The theory of sound, vol. I pag. 380 (2 edition, London, a. 1884). (*) Op. cit., pag. 345. ReENDICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 52 — ‘390 — ovvero ancora, integrando per parti: Sil +99) + (e + ES pguwi]}a= mori Se ora è possibile determinare le funzioni g, w in guisa che siano con- tinue in tutta l’area 0, e che inoltre si abbia: dp, dw —_ LE _ pw _-A5>0 gt g°— y >0, l'eguaglianza precedente mostra che sussisterà, per l'area 0, il teorema di unicità. Poniamo: 4= «* + 8°, ove @, sono quantità positive; avremo: dep... CHO iL de. PN sì può soddisfare a questa diseguaglianza scegliendo le funzioni g,w in modo che: dp 2 2 dy 2 2 da p°>@a ’ dg DI 0h e inoltre è lecito supporre che g sia funzione della sola #, e w della sola y. Possiamo sostituire queste diseguaglianze colle seguenti: dep È dyw Ml = e E da P 1 b) dy w Bi b) &,,f, essendo costanti rispettivamente maggiori di @,f, ma prossime ad esse quanto si vuole; si deduce così: g=a,tang(a2 +0) , w=f,tang(8,y+ Ca), C,, C, essendo costanti arbitrarie. Scegliendo opportunamente queste costanti, si può far in modo che la funzione resti continua in ogni intervallo dato, compreso fra due paral- lele all'asse y, la cui distanza è minore di pes che la funzione w resti 1 continua in ogni intervallo dato, compreso fra due parallele all'asse 4, la cui distanza è minore di BI Siccome poi @,,f, sono prossime quanto sì 1 — 391 — vuole ad @,f, si può concludere che, per ogni area contenuta nel rettan- golo determinato da una striscia parallela all'asse y di larghezza minore di —, e da una striscia parallela all'asse x di larghezza minore di — (04 vale il teorema di unicità. Chiamando rispettivamente «,2 le larghezze di queste striscie, si ha dunque: ESA quindi: A) Se dunque è soddisfatta questa condizione, vale, per la (1), il teorema di unicità. Tale enunciato non differisce sostanzialmente da quello ‘espresso dalla (3). È poi chiaro che questa proprietà vale qualunque sia l’orientazione del rettangolo, e quindi delle ‘lue strisce (perpendicolari) che lo determinano. 3. Vediamo ora di determinare un confine superiore per la somma dei "quadrati dei reciproci degli autovalori della (1). Indicando con G(2,y;&,7) la funzione di Green relativa all'area 0, si deduce dalla (1), applicando la formola di Green, e ricordando che la funzione v si annulla sul contorno: 2rru(a , y) = 2 {6 ,Y;E Nu, n) dé da; (e) questa è, secondo le denominazioni moderne, una equazzone integrale omo- genea, il cui nueleo è la funzione 32 07,4 ;é, n), la quale notoriamente è simmetrica e positiva nell’area o. Applicando ora una proprietà stabilita da E. Schmidt (*), relativamente alle equazioni integrali omogenee, avremo, denotando con 4,,4»,43... i successivi autovalori della (1), disposti per ordine di grandezza crescente: (5) Sx 2 È Î free sy; E, n) di dn da dy . 1 i OG Consideriamo un cerchio 0,, contenente l’area data 0, e chiamiamo Gi(0,7; 5,7) la funzione di Green relativa a quest'area; allora è noto, del resto si riconosce subito, che si avrà: C(@ 49736807) CI RARZ) 3 Sao per tutte le posizioni dei punti (2,7),(É,7) entro o. (1) E. Schmidt, Entwicklung willkiurlicher Functionen, ete. (Imaugural-Dissertation, Gottingen, a. 1905). — 392 — Se ne deduce: [@? dé dy < (@i dé dn < I) Gi dé dy. «/G 70 Gy Ora chiamando R il raggio di 0,, è facile vedere che: 3 l 1 Gi ove 7 è la distanza dei punti (2,7), (£,7); perciò: x i 2R\? (a: dé day : (toto) Ad es. nel caso di una sfera di raggio R, si può porre: a=db=c=2R, 2 3 ° : ed a=b=a=3R)3, e si ottiene così: 970? "DITE ape 7% 7 age ‘E inoltre chiaro che le considerazioni dei nn 2 e 3 sono senz'altro estendibili anche al caso di tre dimensioni. In particolare sì trova che la diseguaglianza corrispondente alla (6) è: Galan 1g 327° Ri Dip e rr 15 ud ove R è 1l raggio di una sfera contenente il corpo S, ed R, il raggio di una sfera contenuta in S. Più semplicemente, ma con minor approssimazione, il secondo membro ig può esser sostituito da 18 dÈ 7 Fisica. — Potenziali esplosivi in presenza di diaframmi ('). Nota di Lavoro AMADUZZI, presentata dal Socio A. RIGHI. 1. La scarica elettrica è ben lontana ancora dal trovare una spiega- zione piena e soddisfacente. In particolare la scarica per scintilla presenta difficoltà non piccole a chi voglia metterne in rilievo le intime modalità, perchè è difficile raccogliere in una ipotesi sintetica i troppo numerosi e sva- riati fatti che sul conto della scintilla vennero osservati. Così, secondo la teoria di J. J. Thomson, che va per la maggiore e che tuttavia non aspira ad essere completa ed esauriente, la scarica sarebbe fun- zione della pressione, della distanza esplosiva, del libero medio percorso degli ioni, ed indipendente invece dalla temperatura e dalla natura degli elet- trodi. (') Lavoro eseguito nell'Istituto fisico della R. Università di Bologna, diretto dal sen. prof. Augusto Righi. — 394 — Ora il Righi ha mostrato da lungo tempo come la scarica dipenda dalla natura degli elettrodi, in quanto questi influiscono sul potenziale esplo- sivo. E più tardi per altra via, coll'analisi spettrale, Hemsalech è giunto ad una simile conclusione. Altri elementi forse influiranno, che per ora sfuggono ad una giusta considerazione. Ad ogni modo, se le vedute teoriche di Thomson, che in ultima analisi si riducono ad un adattamento matematico dell'antica e più generale ipo- tesì del trasporto ionico, appariscono alquanto incomplete. l'idea che la sca- rica dipenda da una convezione di ioni gode nel momento presente la fiducia generale. Tale idea richiede; come è noto, che si ammetta la preesistenza di ioni liberi nel gas attraverso il quale la scintilla scocca, e porta di più a ritenere che la scintilla medesima sia preceduta da una convezione invi- sibile di intensità crescente. Parve opportuno, per raccogliere elementi utili a risolvere siffatta que- stione ancora dibattuta, indagare se, ponendo qualche ostacolo fra gli elettrodi per modo che la scarica possa avvenire, ma con lavoro preparatorio reso più difficile, varii un qualche elemento caratteristico della scarica medesima, quale ad esempio il potenziale esplosivo. Ostacoli nel senso indicato possono esser manifestamente lastre isolanti forate. Io mi valsi di lamine di mica nelle quali praticai fori circolari di vario diametro, e cercai di vedere come la interposizione loro fra elet- trodi in comunicazione colle armature di condensatori, che caricavo con una macchina elettrica, faceva variare il potenziale di scarica. 2. Nelle prime osservazioni, per procedere ad uno studio per così dire qualitativo dei. fatti, mi valsi dell’antico metodo del bivio. Ma mi accorsi presto della opportunità di misure precise, e perciò ri- corsi all'elettrometro Righi per alti potenziali. In esso, come è ben noto, mentre le deviazioni dell'ago sono proporzio- nali al quadrato delle differenze di potenziale che si misurano, un sufficiente smorzamento del moto dell'ago stesso fa sì che possa eseguirsi la lettura nell'istante preciso nel quale scocca la scarica. Per passare a valori assoluti mi servii sia di un voltmetro elettrostatico di Lord Kelvin, sia di tabelle recanti valori attendibili per potenziali esplo- sivi fra elettrodi di forma e dimensione determinate. Collegai l'elettrometro con una batteria di 5 giare che caricavo me- diante una piccola macchina di Wimshurst ed avevo cura che il moto di questa avvenisse con così piccola velocità da rendere estremamente lenta la deviazione dell'ago dell’ istrumento. — 395 — Riferisco qui brevemente alcuni dei risultati ottenuti, scegliendo le serie di misure più nette. Potenziale di scarica (in Volta) con sfere di ottone di 10 mm. di diamétro e distanti 13 mm. Con diafr. di mica a meta distanza fra gli elettrodi Senza diaframma ed avente un foro del diam di mm. 7,3 2,608] 0,5 | 28000 37560 39590. | 42920 Portando lo schermo più vicino ad uno degli elettrodi, ad /, della di- stanza per esempio, il potenziale di scarica apparisce di poco superiore a quello corrispondente alla scarica nell'aria libera, tanto più superiore quanto più piccolo è il foro. È incerta una dissimmetria per i due elettrodi. Un ulteriore avvicinamento dello schermo ad uno degli elettrodi pro- duce invece un abbassamento del potenziale di scarica. Aumentando la distanza fra gli elettrodi si manifesta ancora molto bene l’effetto dell'ostacolo. Così per una distanza di 3 cm. fra le sfere e fa- cendo uso del foro di mm. 0,5 si ha che mentre il potenziale di scarica senza diaframma è di 40500 V, il potenziale di scarica col diaframma è invece 59300 V. Con distanze grandi per gli elettrodi mi è accaduto di frequente il se- guente fatto, assai significativo, e cioè che togliendo con cura lo schermo dal quale si era ottenuto un forte esaltamento del potenziale di scarica senza però che si fosse raggiunto quello richiesto per la scarica attraverso al foro usato, non si produceva subito la scarica nell’aria libera nonostante che fra gli elettrodi si avesse una differenza di potenziale superiore a quella richiesta per la scarica nell'aria libera medesima. 4. Numerose serie di esperienze mi permisero di notare, come vari il potenziale di scarica colla distanza esplosiva allorquando fra gli elettrodi sia collocato, 0 sempre a metà distanza fra essi o sempre ad ugual distanza da uno di essi, lo schermo forato. Raccolgo i risultati nelle seguenti due Tabelle II. Potenziale di scarica fra sfere di ottone aventi Distanza fra 1 cm. di diametro gli elettrodi in mm. senza schermo collo schermo (1) (2) (8) Ti 21760 Volta 22580 Volta 15 28950» 31870» 22,9 31980.» 95195» — 396 — III. Distanza fra Potenziale di scarica gli elettrodi collo schermo forato a in mm. 2mm. da un elettrodo 7,9 20910 Volta 15 28310.» 22,9 30780» Confrontando l'ultima colonna della tabella III colla penultima della tabella Il si vede, che la presenza del diaframma in prossimità di uno degli elettrodi muta bensì i valori dei potenziali ma non i rapporti. Confrontando invece fra loro i numeri delle ultime due colonne della tabella II si vede che il diaframma posto a metà distanza fra gli elettrodi (caso in cui resta aumentato il potenziale di scarica) fa alterare i detti rap- porti. 5. Calcolando i rapporti dei valori registrati nelle colonne (3) e (2) della tabella II si trovano, rispettivamente per le varie distanze, i seguenti numeri 1,03 1,07 1,10 i quali provano come l'incremento del potenziale di scarica colla interposi- zione dello schermo fra gli elettrodi e ad ugual distanza da questi è tanto più forte quanto più grande è la distanza esplosiva. 6. Usando come elettrodi una punta acuminata positiva ed un disco ne- gativo distanti 26 mm. ottenni i seguenti risultati che esprimo con valori relativi. Nell'aria libera si raggiunge la scarica per dispersione con potenziale esplosivo corrispondente ad una deviazione di 50 mm. Con foro di mm. 0,5 posto ad !/3 di distanza fra gli elettrodi presso il disco si ha la scintilla con potenziale esplosivo corrispondente ad una de- viazione di 85 mm. Con foro di mm. 2,6 posto nella medesima posizione si ha la scintilla in corrispondenza di una deviazione di 70 mm. Con foro di mm. 7,3 infine si ha la scintilla in corrispondenza di una deviazione di 55 mm. Avvicinando lo schermo forato al disco la scarica per dispersione si inizia con potenziale esplosivo più basso di quello che corrisponde all'aria libera. Portandolo invece di più in più vicino alla punta, il potenziale esplo- sivo sì inalza come se la punta venisse di più in più smussata. — 397 — Così, col foro di mm. 0,5 posto assai vicino al disco si ha scarica di dispersione con potenziale corrispondente ad una deviazione di 40 mm.; col medesimo foro posto a metà distanza fra gli elettrodi si ha scarica per scintilla con potenziale corrispondente ad una deviazione di 105 mm.; collo stesso foro infine posto ad ?/, di distanza dalla punta si ha scarica a scin- tilla con potenziale corrispondente ad una deviazione di 120 mm. 7. — Mi è parso conveniente sostituire all’ostacolo del quale ho sinora parlato un ostacolo d'altra natura quale poteva essere un canale che limi- tasse trasversalmente il percorso della scarica ma in misura eguale in tutti i punti dell'intervallo compreso fra gli elettrodi. In una prima serie di esperienze feci uso di canaletti forniti da tubi di vetro verniciato internamente ed esternamente con gomma lacca e fissati normalmente a lastre di ebanite che attraversavano secondo fori opportuni. Così erano possibili distanze esplosive non troppo piccole. In altra serie di esperienze i canaletti usati erano stati praticati in grosse lastre di vetro verniciate con gomma lacca tanto nelle loro faccie este- riori come sulla superficie interna dei canaletti. I risultati della prima serie vengono riassunti nella prima delle seguenti tabelle, e quelli della seconda serie nella seconda. Potenziale esplosivo | Pot. esplos. colla in- | Pot. esplos. coll’inter- | Dist. esplosiva fra le nell’aria diretta- terp. di un tubo posizione di un sfere del diametro mente, corrisp. ad avente la sezione tubo avente la se- di 1 em. una deviazione di interna di mm. 6,5 zione di mm. 1.5 mm. 49 i 45 Î 46 3 cm. Pot. esplos. nel- | Pot. espl. con ca- | Pot. espl. con ca- | Pot. espl. con ca- | Distanza esplo- l’aria diretta- nale avente la nale avente la nale avente la siva fra le sfere mente, corrisp. sez. di 1 cm. sezione di 7 sezione dimm. del diametro di alla deviazione mm. 4,5 1 cm. di mm. 22 | 15 ! 10 | 8 | 1 em. 8. — Esposti così rapidamente i principalî risultati sperimentali otte- nuti, sarà opportuno indicare quali elementi possano influire sulla esplica- zione dei vari fatti per poi scendere alla interpretazione di questi. Mi pare che siffatti elementi.possano ridursi sostanzialmente ai seguenti : a) Lo schermo forato, in quanto limita l'eventuale movimento ionico preparatorio della scarica renderà in generale più difficile la scarica mede- sima ed inalzerà per ciò il potenziale di scarica. RevmpiIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 9 — 398 — b) Le faccie della lamina isolante nella quale sono praticati i fori o destinate a sostenere i canaletti potranno influire sul potenziale di scarica diminuendolo, in quanto influiscano sulla densità elettrica degli elettrodi nel senso di accrescerla per una eventuale carica di influenza dipendente da de- bole conducibilità superficiale che esse possiedano. c) Le faccie medesime influiscono sul potenziale di scarica così da acerescerlo, in quanto possano ritenere ioni che avendo carica uguale a quella degli elettrodi opposti esercitino una variazione e precisamente una diminu- zione di densità superficiale sugli elettrodi medesimi. d) Le lastre potranno diminuire il potenziale di scarica in virtù del più alto valore che la costante dielettrica del materiale che le costituisce ha rispetto a quella dell’aria. La causa d) per il caso di una lamina sottile non avrà sensibile in- fluenza. Come non ne avranno le 4) e c) se sulle due faccie della lamina sottile si hanno cariche uguali ed opposte perchè le due azioni dovute alle due cariche sensibilmente si compenseranno. Ma se la lamina avrà spessore sensibile, anche le cariche opposte delle due faccie potranno fare sentire il loro effetto tanto più quanto più grande sia lo spessore della lamina. Nel caso poi in cui una faccia abbia carica prevalente rispetto all'altra anche se la lamina ha piccolo spessore potrà esercitare una influenza sensibile. Premessa la enumerazione delle cause che con qualche probabilità po- tranno farsi sentire sulla manifestazione dei fatti studiati in questa Nota, la spiegazione di questi potrà a gran tratti essere la seguente: Pel caso della scarica fra sfere uguali, se lo schermo forato di mica vien posto a metà della distanza degli elettrodi entrerà in giuoco quasi esclu- sivamente la causa 4) in misura tanto più forte quanto più piccolo sia il foro e quanto più grande sia la distanza esplosiva. Se però lo schermo non è ad ugual distanza dagli elettrodi potrà manifestarsi la causa 4) e questo in opposizione alla causa 4) così che la causa 4) medesima venga tanto più attenuata quanto più lo schermo sì avvicini ad uno degli elettrodi. Con un conveniente avvicinamento si potrà ottenere che la causa 2) soverchi la azione impediente dovuta alla presenza dello schermo e si abbia come effetto risul- tante una diminuzione del potenziale di scarica. Pel caso della scarica fra punta e disco la faccia dello schermo opposta alla punta acquista la stessa carica della punta quindi tende a determinare con una diminuzione della densità elettrica sulla punta un innalzamento del potenziale di scarica, tanto più quanto più vicino sarà lo schermo alla punta. La presenza dello schermo e la carica superficiale sua tendono dunque en- trambe ad un aumento del potenziale di scarica in misura tanto maggiore quanto più prossima alla punta si collocherà la mica forata. L'effetto è tanto più sentito quanto più piccolo sia il foro dello schermo — 399 — Anche il fatto apparentemente paradossale notato coll'uso dei canali fra gli elettrodi sferici mi sembra abbastanza bene interpretabile, se si pensa, che nonostante le precauzioni usate le lastre isolanti presentavano con ogni probabilità una debole conduzione superficiale atta a far prevalere l’effetto b) sull'effetto c). Per il caso dei lunghi canaletti sostenuti da una lastra isolante che ha le faccie a qualche distanza dagli elettrodi, le faccie eser- citano una influenza di aumento di densità con conseguente diminuzione di potenziale, superato dalla presenza dell'ostacolo costituito dal canaletto; tanto più superato quanto più stretto sia il canaletto medesimo. Per i canaletti costituiti da semplici fori praticati in una grossa lamina che ha le faccie molto vicine agli elettrodi sarà in giuoco l’effetto a), ma questo verrà so- verchiato dagli effetti 5) e 4) tanto più forse quanto maggiore sia l'influenza della lastra sugli elettrodi così per l’azione sua superficiale come per l’azione di massa dielettrica. 9. — Pare che dalle esperienze riferite in questa breve Nota prelimi- nare possa concludersi, che esse confermino la esistenza di un periodo pre- paratorio alla scarica, così che la scintilla non sia che la fase finale di un processo durante il quale i ioni acquistano moti di più in più rapidi da un elettrodo ad un altro per azione della forza elettrica. Salvo i risultati apparentemente paradossali ottenuti con canali scavati in grosse lastre, tutti gli altri mostrano che là dove il presunto processo preparatorio vien reso difficile, la scarica richiede un potenziale esplosivo più alto o in altre parole si rende più difficile. Anche il fatto indicato al ter- mine del $ 2 sembra convalidare l'ipotesi di un lavoro preparatorio. La pre- parazione che sta compiendosi per la scarica nelle condizioni difficili create dal disco forato, non è adatta alla scarica immediata nell'aria libera, nono- stante l'eccessiva differenza di potenziale fra gli elettrodi. L'interposizione dello schermo forato fra gli elettrodi modifica senza dubbio la distribuzione del potenziale fra gli elettrodi medesimi e quindi anche il potenziale di scarica. Attraverso al foro dello schermo si avrà una forte caduta di potenziale in conseguenza di un addensamento di ioni di segno opposto ai due limiti del foro medesimo. È mio intendimento tentare con misure dirette lo studio delle varia- zioni che nella distribuzione del potenziale fra gli elettrodi reca la presenza dello schermo forato. Alcune misure eseguii per stabilire, se interponendo nel circuito solito di scarica uno spinterometro, che chiamerò secondario, il potenziale di sca- rica nello spinterometro principale varia per la presenza nel secondario di uno schermo forato. I risultati più netti da me finora ottenuti riguardano il caso in cui lo spinterometro secondario aveva i conduttori terminati con sfere e la sca- — 400 — rica principale avveniva fra una punta acuminata positiva ed una sferetta negativa. Essi meritano conferma e chiarimenti da ulteriori determinazioni, e for- meranno oggetto di un’altra Nota. Mi è grato ringraziare l'illustre prof. Righi per suggerimenti, consigli ed aiuti. Chimico-isica. — Alcune considerazioni circa l'origine delle « Ocre rosse » depositate dalle acque termali degli Stabilimenti dei Bagni di Lucca (). Nota di G. MAGRI, presentata dal Socio R. Na- SINI. Un gran numero di acque minerali tengono sospesa una sostanza molto leggiera, voluminosa, per lo più rossiccia e prevalentemente costituita da ocre di ferro, la quale si ritrova specialmente nei crateri da cui sgorga l’acqua od in quelle insenature ove può soffermarsi colà trascinata dalla corrente. Tale è il caso delle acque termali degli Stabilimenti dei Bagni di Lucca, di cui ebbi già ad occuparmi (*). Un tempo a questa sostanza ocracea fu assegnato, più o meno giusta- mente, il nome di sostanza « pseudorganica » (5) o « zoogene » (4) od ancora « baregina », « plombierina =, ecc.. dal nome delle acque in cui venne os- servata. Per certune di queste ocre il nome di sostanza « pseudorganica » forse, da un certo punto di vista, sembrava giustificato perchè riscaldate da sole emettevano un odore come di sostanza organica che si abbruciasse; riscal- date con calce sodata sviluppavano ammoniaca, ed inoltre osservate al mi- croscopio, lasciavano facilmente distinguere parecchi frammenti di corpuscoli organizzati. Per questo riguardo, come vedremo in seguito, anche le ocre rosse dei Bagni di Lucca potrebbero essere comprese nel termine vago e complessivo di materia pseudorganica, a meno che non si preferisca di non assegnar- gliene alcuno considerando che simile prodotto apparisce costituito piutto- stochè di elementi organici, di tutto ciò che contengono le acque e spiccata- (1) Lavoro eseguito nell’ Istituto di chimica generale della R. Università di Pisa. (*) Rend. R. Acc. dei Lincei, vol. XV, ser. V, 1° sem.. fasc. 2, e 2° sem., fasc. Il (1906). (9) Acque solfuree dei Pirenei. (4) Acque di Ischia e di Baden. — Uol — mente di carbonato e solfato calcico, d'ossido di ferro e di una sottil sabbia silicea meccanicamente sollevata e come involta in quei fiocchi ferruginosi. La spiegazione di come possono formarsi queste sostanze in seno alle acque ha sempre interessato la mente di quelli che si occuparono e si occu- pano delle sorgenti naturali in genere e specialmente di quelle minerali che più frequentemente offrono il fenomeno in discorso. Per le acque dei bagni di Lucca, data l’antichità della loro scoperta e la fama che hanno sempre avuto, è facile capire come molti scrittori abbiano trattato della questione; così: il Moscheni (*), Humphry Davy (*), Giacomo Franceschi (*), Ubaldo Antony (4), per citare i più autorevoli. Per quanto interessante, uscirebbe dalle proporzioni di questa Nota il riportare per esteso le singole opinioni dei rammentati scrittori, ma per quel che riguarda la formazione delle ocre rosse costituenti i « fanghi » delle acque in discorso, e dei quali soltanto mi occupo in questo scritto, riporterò in suc- cinto quanto comunemente si è ammesso e si ammette tutt'oggi, eccettuate lievi divergenze, per le quali rimando alle comunicazioui originali degli au- tori ricordati. 7 Secondo questi le acque dei bagni di Lucca potrebbero essere ferrugi- nose sin dalla loro origine od acquistare il ferro durante il loro percorso scorrendo su banchi costituiti, oltrechè da altre sostanze, ancora da piriti di ferro: queste ultime molto probabilmente, coll’ossigeno contenuto nelle acque (°) per un fenomeno che comunemente e costantemente si osserva esponendo le piriri all'aria e all'acqua, si convertirebbero in solfato di ferro. Il solfato ferroso, reagendo poi coi carbonati alcalini e alcalino-terrosi formerebbe, per doppia decomposizione, del carbonato ferroso, il quale non si scomporrebbe subito, ma rimarrebbe in soluzione allo stato di carbonato acido per mezzo della anidride carbonica disciolta nell'acqua ed ivi tenuta ad una certa pres- sione. Avvicinandosi le acque alla superficie del suolo, per la diminuita pressione atmosferica, abbandonerebbero l'anidride carbonica e così verrebbe a scomporsi il carbonato ferroso in idrato ferroso-ferrico. Le diverse sorgenti che alimentano gli stabilimenti dei Bagni di Lucca, scaturiscono da un poggio denominato « il Colle» (di Corsena), il quale è sito nello spazio determinato dall'incontro dei due torrenti: la Lima e il Ca- maione. La catena di monti che si trova in questo intervallo è una propa- (1) Trattato dei Bagni di Lucca. Gius. Rocchi, edit., Lucca, 1792. (*) Memoirs of the life of Sir Humphry Davy ecc. London, 1886. (*) Igea dei Bagni, Lucca, tip. Bertini, 2° ediz., 1820. (*) Analisi chimica dell’acqua del « Doccione dei Bagni caldi ». Lucca, cart. e tip. Amadei, 1904. (5) Un litro di acqua del « Doccione » p. es. contiene ancora disciolti, quando viene a giorno, cm3 13,8 (a 0° e 760 mm) di ossigeno. — 402 — gine dell'Appennino Toscano ed è costituita, come principale ossatura, di are- narie — macigno. Peraltro a piè del monte Coronato, che sovrasta il colle di Corsena, e precisamente al Cassaro. si trovano parecchie piriti di ferro le quali si ritrovano ancora nello stesso monte nel luogo detto Lamporaia; il monte Coronato da questa parte sembra quasi tutto costituito da masse piritose depositate in lunghissimi filoni. Ciò serva a dimostrare come sia giustificata l'ipotesi dei rammentati scrittori, e cioè di ritenere che la prima origine del ferro nelle acque dei bagni di Lucca sia dovuta alle piriti che numerose si ritrovano sotterranee o allo scoperto nei monti che sovrastano il Colle da cui hanno origine le polle di quelli Stabilimenti. Che le successive reazioni ora rammeutate possano determinarsi in molte acque e specialmente in quelle ricche di anidride carbonica che appena abbandonate alla superficie della terra lasciano depositare un'abbondante quantità di ferro è molto probabile; ma nel caso delle acque dei bagni di Lucca, è assai dubbio che quella decomposizione avvenga così, perchè la for- mazione delle ocre non si ha all’aria aperta, ma bensì profondamente, là ove è logico supporre che l'acqua possegga un'elevata temperatura in quanto che essa viene a giorno per il « Doccione » ad es.: a 54°, 1 centig. È tanto più verosimile quindi che la scomposizione del carbonato fer- roso acido (dato il caso che possa esistere nelle acque dei bagni di Lucca) non si debba riferire esclusivamente ad un abbassamento di pressione, ma piuttosto all’azione precipua della elevata temperatura. Da ricerche che io ho eseguito risulta che un litro di acqua del Doc- cione ('), quando viene a giorno contiene i seguenti gas calcolati a 0° 760 mm: AZOTON A IMOSTERICOMEMMN e CIAO Ossigeno . Me o eloa AmidrIde carbonica < , —. cc no La quale ultima è quasi tutta dovuta alla scomposizione dei carbonati acidi alcalino-terrosi come sì può giudicare dal relativo ritardo nel suo svol- gersi e dall'abbondante precipitazione di carbonato calcico che si depone sulle pareti del recipiente in cui l'acqua fu posta a bollire. Questa quan- tità di CO° che rimane nell'acqua all’uscire dal proprio cratere invero è così piccola da far dubitare che ve ne sia stata tanta da aver potuto tener disciolta quella quantità di carbonato ferroso, che poi convertito in idrato sì ritroverebbe in disereta abbondanza nelle acque. Data questa incertezza e per i fatti di cui parlerò più avanti, ho cre- duto conveniente di riprendere in esame queste ocre rosse le quali presen- tano un'importanza affatto particolare per la presenza in esse di specie chi- (1) Ho scelto per le esperienze l’acqua della sorgente Doccione (Bagni caldi) perchè essa è la principale per la elevata temperatura, per l'abbondanza del getto e perchè dà origine a un'abbondante quantità di ocre rosse. — 403 — miche minerali diverse, prime fra tutte degne di nota, come effetto cura- tivo, l’arsenico e alcune sostanze radioattive (!); il presente studio è diretto a stabilire se l'origine che a quei fanghi è stata fino ad ora attribuita, sia più o meno attendibile. Già ricordai come coll’attacco a caldo del fango con acqua regia si abbia formazione di un odore molto disgustoso, probabilmente dovuto a sostanze organiche che si decompongono. Lo stesso odore si sviluppa scaldando direttamente il fango, col qual trattamento viene a diminuire fortemente di peso; di più questo ultimo cimentato con calce sodata in un tubo. dà luogo a forte sviluppo di ammoniaca. Ripetei questa prova con un campione di fango del « Doccione » preso nel maggio scorso ed asciugato a 100°. Un grammo di tal campione fu trattato con calce sodata in un apparecchio di Varrentrapp e Will e l’ammoniaca fu raccolta in un tubo Peligot contenente una soluzione titolata di acido solforico. Da questa esperienza risulta che 100 gr. di fango (asciutto a 100°) contengono in peso gr. 2,8 di azoto. Tutto ciò sta ad indicare che nei fanghi dei Bagni di Lucca è contenuta una sostanza organica azotata, probabilmente organizzata. Di ciò possiamo renderci facile ragione osservando al microscopio i fanghi anche semplicemente così come furono prelevati dai crateri delle diverse sor- genti; si rimane sorpresi di vederli costituiti, oltrechè da materiali minerali diversi e da stracci di idrato ferroso ferrico, ancora da una miriade di cor- puscoli organizzati ì quali furono ampiamente studiati e descritti dal Gaspe- (’) Rend. R. Accademia dei Lincei, II comunicazione (1. c.). Boo dae Da SOSTANZA “PG CHE, 22 8 Se è “= Ara Campione complessivo del fango — _ gr.5 | 338,4 gr. gr. gr Residuo inattaccato dall'acqua regia (Si 0?) . . . 750 639,08 5 23,7 Residuo dalla riduzione con SO? (contenente Ba, Sr CASORATE MET 85 72,44 5 6,5 Solfuri (II sruppo) contenenti salta dicotico e tracce solfuro di Pb, Polonio o RO PERRIote del Ra di oe RIE 19 16.19 5 943,1 Residuo dall’ Ussidazione con cloro corrente Solfato calcico+ silice, Radio . . . 8 6,82 5) 10,1 Precipitato del III gruppo oniicnio Ho) Do n (Solfati e silice gelatinosa) Torio-Attinio PRIDLi SI 280 238,6 5 340,0 Residuo dalla caleinazione per il IV gruppo conte- nente silice (Ca SO* traccie) . . . 20 17,05 5 inattivo Precipitato del III sruppo bis (Mn e AL di Fe) 3 2,56 3 ” Precipitato del IV gruppo contenente manganese . 0,5 0,43 0,5 ” Precipitato del V gruppo contenente carbonato calcico 5 4,27 5 ” Residuogdelfsalitdi Mo ENA SISMA e e 8 2,56 3 7 1173.5 |1000,00 — 404 — rini nella Memoria: Sulla così detta Crenothria Kuhniana 0 Polispora in rapporto alla sorveglianza igienica delle acque potabili ('). Questa sostanza organizzata azotata che accompagna i costituenti mine- rali dei fanghi, non può essere altro che quella protoplasmatica la quale costituisce gli esseri or rammentati. Ho ricordato come si ritenga ormai giustamente dai più che la presenza del ferro nelle acque in discorso si debba riferire alla trasformazione delle piriti in solfato ferroso; ora è noto come i sali dì ferro disciogliendosi nel- l'acqua subiscano una facile e notevole decomposizione idrolitica e come pel solfato ferrico questa porti ad un precipitato di idrato (*). Questo fatto mi è sembrato di grande importanza nello stabilire la ge- nesi delle ocre rosse dei Bagni di Lucca e si è perciò che ho intrapreso le seguenti esperienze. Ad una quantità determinata di acqua della sorgente « Doccione » posta in recipienti di vetro, aggiunsi porzioni crescenti di una soluzione titolata di solfato ferroso che preparai appositamente all'atto di servirmene. La proporzione del solfato ferroso (calcolato anidro) aggiunto per un volume totale di 100 cc. venne così stabilita : N. 1 0,00005 13 0,01440 N. 25 0,49500 » 2 0,00007 14 0,13200 » 26 0,52800 » 38 0,00014 15 0,16500 » 27 0,56100 » 4 0,00028 16 0,19800 » 28 0,59400 » 5 0,00056 17 0,23100 » 29 0,62700 » 6 0,00084 18 0,26400 » 30 0,66000 TT LOTO 19 0,29700 » 81 0,69300 n 8 0,00144 20 0,83000 » 32 0,72600 n 9 0,00288 21 0,36300 » 33 0,75900 n 10 0,00422 22 0,39600 » 34 0,79200 » ll 0,00516 23. 0,42900 » 35 0,82500 » 12 0,01200 24 0,46200 » 36 0,85800 Per confronto fu ripetuta una serie analoga adoperarzdo acqua distillata. Osservando ciò che accadeva per l’acqua del Doccione, potei notare, per i numeri da 5 a 21 dopo pochi istanti, e più marcata dopo qualche ora, una opalescenza del liquido la quale poi proseguì in un intorbidamento giallastro che era più intenso per i primi numeri ed andava diminuendo fino a scompa- rire col n. 22. (1) Atti della Societa Toscana di Scienze Naturali in Pisa. Vol. XVI delle Me- morie, 1898. (?) U. Antony e G. Gigli, Gazzetta Chimica Italiana, 1895. — 405 — Tutte le soluzioni, eccetto i numeri dall'uno al 4 dettero, dopo poche ore, reazione di sali ferrosi e di sali ferrici coi due prussiati rispettivamente rosso e giallo. Dopo un giorno l'intorbidamento proseguì fino al n. 32 e a poco a poco nei giorni successivi si estese fino al n. 36; contemporaneamente, tranne che peri nn. 1a 4 (i quali non mostrarono nessun cambiamento sen- sibile dopo l'aggiunta del solfato ferroso) si depositarono al fondo degli altri recipienti delle ocre rossastre, fioccose, costituite da idrato ferroso ferrico in varie gradazioni di colore. Le soluzioni furono saggiate in seguito di tanto in tanto con prussiato rosso che fu sempre aggiunto di volta in volta a porzioni uguali delle diverse soluzioni, ponendone tanto quanto era strettamente necessario a dare la nota colorazione nel reagire col ferro ancora legato al residuo alogenico (ione S0*). Ripetendo il saggio con prussiato rosso dopo cinque giorni, sì può os- servare che la colorazione appare sempre più intensa cominciando dal n. 5 (pel quale è appena visibile traguardando attraverso un grande spessore di liquido) fino al n. 36 e cioè per concentrazioni crescenti di sale ferroso ag- giunto all'acqua del Doccione. Non era qui il caso di estendere più minutamente le ricerche trattandosi di stabilire solo un principio di massima, pur tuttavia con questa esperienza rimane dimostrato : 1. Che il processo idrolitico si svolge in ragione diretta della diluizione. 2. Che è completo pel solfato ferroso, in quelle condizioni di temperatura, al di sopra del rapporto fra sale e acqua di 1 a 35000. 3. Che mentre per i numeri da 5 a 36 (al di sotto quindi di 1 a 35000) sì ha deposizione di idrato ferroso ferrico, questa deposizione non si verifica più per i nn. da 1 a 4. 4. A queste estreme diluizioni il solfato ferroso è quindi tutto idrolizzato perchè non dà più la reazione dei sali di ferro, ed ha acquistato ancora uno stato particolare perchè più non precipita; lo stato colloidale. Al di là di queste diluizioni (1:35000) giova notarlo, il colloide di ferro non risente l’azione degli elettroliti, nè tampoco quella di altri agenti che pur sarebbero capaci di disfarlo in soluzioni più concentrate. È certamente sotto questa forma e in queste proporzioni che si riscontra il ferro in quasi tutte le acque naturali e nelle quali non è tanto facile svelarlo senza ricor- rere ad artifici, perchè più non dà la reazione caratteristica dell'ione Fe. Gli stessi fenomeni ora ricordati si trovano eguali, in linea generale, per la serie di confronto fatta con acqua distillata. Continuando l'osservazione delle soluzioni precedenti, provai a separare mediante filtrazione il deposito di idrato da qualcuno dei numeri elevati; anche lasciando a sè i filtrati per molto tempo (sempre alla temperatura ambiente) non si ha più formaziome d'idrato; l’idrolisi che si ammette vada nel senso: 2H°0 + FeS0*= Fe (0H)® + H?SO* non progredisce RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 54 —- (406 — perchè sull'idrate, che via via si forma. si esplica l’azione solvente del- l'acido solforico liberatosi: in altri termini l'idrolisi è legata alla concentra- zione degli ioni SO* che si trovano nel liquido. Ho già fatto osservare come, a forti diluizioni, anche il sale ferroso possa dar luogo ad un idrato colloidale; di simili colloidi ottenuti per idrolisi si ha bene evidenza adoperando il nitrato o meglio il cloruro ferrico p. es. pei quali, anche in soluzione abbastanza concentrata, il processo idrolitico non conduce al disfacimento del colloide che invece ha sempre luogo per i solfati. È facile dare di ciò una spiegazione seguendo la teoria elettrica dei colloidi. I diversi idrati di ferro colloidali ottenuti in varia maniera, in ricerche di trasporto elettrico, rispecchiano un carattere positivo e quindi come tali precipitano in presenza degli anioni e specialmente con quelli plurivalenti. È questa la ragione per cui anche adoperando acqua distillata, nella quale non entrano in campo le azioni svariate delle sostanze disciolte, lo stato colloidale che si potrebbe determinare viene impedito dal bivalente anione SO4. E che questo stato colloidale si formi si può dimo- strare per l’acqua del Doccione p. es.: prendendo il liquido di uno dei nu- meri alti della serie anzidetta, liberato dal precipitato che si è deposto in seno ad esso, e ponendolo in un dializzatore; dopo molto tempo in questo finisce per rimanere un colloide di ferro. Basandomi su tali osservazioni io riterrei che la formazione di molte delle ocre depositate da acque scorrenti in terreni in cui sia facile rinvenire delle piriti e che contengono solfati (') pur non essendo soverchiamente ca- richi di anidride carbonica, nè abitate da microrganismi, sia dovuto a questo semplice fenomeno idrolitico del solfato ferroso con passaggio per un idrato colloidale il quale si disfarebbe anche semplicemente per l'azione dell’a- nione SO* per non dire di quella di altri elettroliti. Ma nel caso dei fanghi dei Bagni di Lucca sì deve aggiungere qualcosa di più perchè se, all'osservazione microscopica si possono distinguere degli stracci di idrato ferroso-ferrico, i quali dimostrano il modo di origine ora ricordato, la stessa osservazione tuttavia conduce alla scoperta di numerosi microrganismi associati al ferro e pei quali occorre una spiegazione. Si è molto discusso sulla maniera con cui questi microrganismi assor- bano il ferro e si modifichino; chi vuole che il fatto dipenda da un'attitu- dine biologica elettiva, chi vi si oppone notando come anche delle guaine morte di tali animali siano ancora suscettibili di assorbire il ferro. Certo è che secondo l'ipotesi di molti e a detta ancora del Gasperini (1. cit.) il ferro « viene fissato sotto una forma speciale che non è quella delle precipitazioni fin qui note ». () Le acque termali dei Bagni di Lucca contengono il radicale SO* su di un litro da gr. 1,75 a gr. 1,4l. — 407 — Studî più recenti, mi sembra, possono modificare le nostre opinioni su tale soggetto: per quanto tutte le sostanze proteiche, in molti casi, presentino un carattere anfotero in ricerche di trasporto elettrico, pure quelle che più comunemente si riscontrano in seno alle acque hanno sempre uno spiccato carattere negativo (!). L'osservazione che i microrganismi di numerose specie, quali si ritrovano in seno alle acque, vadano a formare un complesso colloidale carico negativa- mente, ha anzi fornito in questi ultimi tempi la maniera di depurare le acque stesse da quelle vegetazioni. Le sostanze che sembrano più adatte a deter- minare la precipitazione di tali colloidi in seno alle acque sono indubbiamente i colloidi di ferro già preparati (?) o i sali di ferro i quali si sa che in ultima analisi si riducono sotto una tal forma; quest'ultimo processo è ado- perato su vasta scala in Lipsia. Come si vede, il fatto fondamentale di tale depurazione risiede nel met- tere in presenza due colloidi di segno contrario affinchè raggiunto o quasi il punto isoelettrico essi mutuamente precipitino. Pei fanghi dei Bagni di Lucca non troverei ragione migliore di spiega- zione; il sale ferroso idrolizzandosi, come abbiamo visto, passerebbe per lo stato d'idrato colloidale carico positivamente sul quale agirebbe il colloide complesso negativo costituito dai microrganismi, sia con un fenomeno analogo a quello della tintura da parte delle fibre se vuolsi, o, accettando la teoria elettrica di colloidi, per la mutua scarica dei due colloidi. Infatti una ricerca di trasporto elettrico eseguito coi fanghi dei Bagni di Lucca ha mostrato come il complesso così precipitato possegga ancora chia- ramente una carica negativa rimasta in eccesso sul punto isoelettrico, la quale indubbiamente appartiene a quella complessa vegetazione. Sembra anche che questo colloide di ferro agisca con più energia sui col- loidi di segno opposto, proprio nell'atto della sua formazione; ciò potrebbe spiegare perchè, quando il Gasperini (loc. cit.) esperimentava sullo sviluppo di analoghe vegetazioni sia con acque naturali, sempre ricche di elettroliti, sia con acque ad arte mineralizzate, cui veniva aggiunto dell’idrato di ferro colloidale (di Graham) questo non aveva quasi nessuna azione sullo sviluppo dei microrganismi e sulla loro maniera di fissare il ferro, forse anche perchè già subito precipitato dagli elettroliti in presenza; mentre invece il Pelle- grini (*) aggiungendo a culture di microrganismi molto simili a quelli del Gasperini, del solfato ferroso (in concentrazioni tali che subiva in gran parte la dissociazione per formare il noto deposito) otteneva che il ferro si fissava abbondantemente sulle pareti dei corpuscoli organizzati. (®) Wilhelm Biltz e Otto Kròhnke, Centr. Blatt, pag. 1545, B. I. 1904. (3) H. Schweikert, Arch. Pharm. 1907, 245, 12/o;. (3) Sulla genesi dei tubercoli ferruginosi nelle condotture. Congr. naz. d'Igiene. Torino, sett.-ott. 1898. — 408 — Infine non va trascurata l'azione che su questo colloide di ferro formato per idrolisi nelle acque dei Bagni di Lucca avrebbero gli elettroliti esistenti nell'acqua stessa ed anche — ce lo dimostra l'esame chimico fisico delle ocre stesse — i colloidi negativi di arsenico a silicio; gli altri colloidi me- tallici che sono stati trovati in seno alle acque minerali (*); ma più ancora le sostanze radioattive, contenute nelle sorgenti (*), per le radiazioni che esse emettono (*), tutti quanti associati, come ultimo fatto, al ferro per fenomeni di assorbimento e adsorbimento determinati da stati colloidali. Concludendo, le « ocre rosse » dei Bagni di Lucca avrebbero origine in seguito ad un processo idrolitico dei sali di ferro disciolti nelle acque. In questo processo sì passerebbe per uno stato colloidale dell’idrato di ferro il quale verrebbe precipitato sia dai microrganismi contenuti nelle acque, sia ancora dai diversi elettroliti come pure dalle sostanze radioattive. Allo scopo di portare un maggior contributo sulle cognizioni che oggi abbiamo intorno a questi fanghi così interessanti, ho ora intrapreso degli studî suì materiali posti in vicinanza delle sorgenti e nella regione in cui quelle scaturiscono. Chimica. — Su! perossido di mercurio (4). Nota di GrovaNNI PELLINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Per spiegare la scomposizione catalitica dell'acqua ossigenata per opera di diverse sostanze, si ammette che a spese dell’acqua ossigenata avvenga la formazione di ossidi superiori instabili, i quali tosto si scindono rigenerando il corpo attivo con sviluppo di ossigeno. A questa classe di fenomeni si ricolle- gano le cosidette reazioni di riduzione operata dall'acqua ossigenata, dove pure si ammette che in principio sì abbia una vera e propria ossidazione 0 in certi casi anche addizione di acqua ossigenata, ma che i prodotti superiori che si formano, si scindano tosto in sostanze diverse a seconda delle condi- zioni in cui l’esperienza viene eseguita. È perciò interessante poter stabilire dal punto di vista chimico l'esattezza di tali supposizioni con l'isolare e studiare i perossidi che si suppongono formarsi. In diversi casi il problema è stato risolto. (') Garrigon F., Comp. rend. 1904. (*) L’acqua del Doccione da me esaminata in un apparecchio Engler e Sicreking, ado- perando un elettroscopio Exner, mostra una dispersione di 80 Volta all'ora. (5) Henry e Mayer, Comp. rend. 1904. (4) Lavoro eseguito nell'Istituto di chimica generale della R. Università di Padova. — 409 — Il mercurio agisce per catalisi sull’acqua ossigenata ed il suo ossido HgO si riduce con essa passando a seconda delle condizioni a Hgs0 oppure a mercurio metallico. Questi fenomeni catalitici hanno trovata la loro spiegazione chimica nel perossido di mercurio preparato recentemente dal sig. Antropoff (*) nell'Istituto chimico diretto dal prof. Bredig di Heidelberg. Il Bredig (*) aveva già osservato nei suoi studî sopra la catalisi dell’acqua ossigenata per mezzo del mercurio che se si versa alla temperatura ordinaria su del mercurio dell'acqua ossigenata al 10-11 °/, la superficie del mer- curio si ricopre tosto di un velo di color giallo-rosso intenso e successiva- mente principia la catalisi dell'acqua ossigenata con sviluppo di ossigeno; catalisi che violenta per qualche minuto improvvisamente si arresta per ri- cominciare dopo qualche secondo con ripetizione periodica del fenomeno e conseguente sparizione e riapparizione della sostanza superficiale giallo-rossa. I tentativi per isolare questa sostanza non essendo riusciti per la sua insta- bilità, Antropoff ha sostituito il mercurio metallico con il suo ossido Hg0, riuscendo dopo un lungo contatto a isolare il perossido di mercurio Hg 0. Poichè traccie di alcali determinano una veloce scomposizione del perossido mentre questa è impedita dalla presenza di traccie di H®— ioni, Antro- poff opera nel seguente modo: L'ossido di mercurio rosso ottenuto per via secca dal nitrato, e che contiene tracce di acido in forma di nitrato basico, viene fatto reagire a bassa temperatura con acqua ossigenata al 30 °/. Si ottiene così dall’ossido rosso una sostanza rosso-bruna che analizzata corri- sponde alla formula Hg0,, e possiede tutti i caratteri dei perossidi. Io ho ripetuto le esperienze ponendomi nelle condizioni stesse di Antro- poff e non posso che confermare pienamente le ricerche di detto autore. La temperatura migliore di reazione è compresa fra 0° e — 5°; in tali condizioni l'ossido rosso di mercurio posto in contatto con una forte quantità di acqua ossigenata al 30 °/, si trasforma lentamente dapprima in una sostanza rosso-viva che poscia diventa rosso-bruna. Il contatto può essere prolungato per diverse ore senza che si osservi la minima scomposizione. Il perossido formatosi io lo filtrai attraverso carta ed alla pompa, poscia lo lavai con poco alcool e poi con etere anidro fino ad asportare l’acqua ossigenata in eccesso. Il procedimento analitico da me seguito consiste nel prendere una por- zione non pesata del precipitato e gettarlo in una soluzione di ioduro potas- sico acido per acido solforico. Il perossido si scioglie lentamente con messa in libertà dello iodio. Dopo circa un'ora si porta la soluzione a volume noto, e su di una aliquota si titola lo iodio con l'iposolfito sodico, mentre nel rimanente del liquido si determina il mercurio sotto forma di solfuro HgS. (1) Zeitschrift fir Elektrochemie, /2, 585 (1906). (2) Bredig und Weinmayr, Eine periodisehe Kontaktkatalyse. Z. phys. Chemie, 4°, 601 (1903). Hu — 410 — EspeRIENZA 1 — Il contatto dell'ossido mercurico con l’acqua ossi- genata è stato della durata di circa 15 minuti. Hg$ pesato gr. 0,9315 corrispondente a gr. 0,8672 di Hg0. O (attivo) gr. 0,0109. Rapporto fra mercurio e ossigeno totale = 1: 1,169. EsPERIENZA 2% — Il contatto con l’acqua ossigenata è durato circa tre ore. HgS pesato gr. 0,7222 corrispondente a gr. 0,6724 di Hg0. Ossigeno attivo gr. 0,0498. Rapporto fra mercurio e ossigeno totale = 1 : 2,00. In seguito io ho cercato se fosse possibile la formazione di questo pe- rossido in modo diverso, e precisamente se si potesse ottenere per precipi- tazione dei sali mercurici messi in presenza di acqua ossigenata: le espe- rienze istituite a tale scopo ebbero risultato positivo. To aveva già da tempo osservato che se si mescola alla temperatura or- dinaria una soluzione acquosa concentrata di cloruro mercurico con una certa quantità di acqua ossigenata al 30°/, e si aggiunge di poi una soluzione di idrato potassico o sodico in eccesso, si forma un precipitato rosso-vivo che immediatamente si scompone passando al giallo e finalmente con sviluppo fortissimo di calore e ossigeno si ottiene del mercurio metallico. In queste condizioni il precipitato primitivo rosso si scompone perchè evidentemente vi concorrono l'eccesso dell’alcali e l'elevata temperatura. Se invece si impie- gano soluzioni alcooliche di idrato alcalino e cloruro mercurico, è sufficiente operare alla temperatura di 0° perchè il precipitato rosso possieda una suf- ficiente stabilità e si possa raccogliere su filtro e lavarlo fino a eliminazione completa dell'acqua ossigenata in eccesso. Vedremo che il precipitato rosso è costituito dal perossido di mercurio. Per prepararlo si opera nel seguente modo: in una bevutina a collo stretto sì pongono cem. 5 di soluzione alcoolica di cloruro mercurico (gr. 32 di HgCl, in ccm. 100 di soluzione) si aggiungono cem. 10 di acqua ossigenata al 30 °/,, poi con un po'di alcool sì ridiscioglie il precipitato di cloruro mercurico formatosi e si raffredda tutta la soluzione a 0°. Dopo poco tempo si aggiunge la quantità teorica di soluzione alcoolica di idrato potassico perchè precipiti HgO e si agita. Il precipitato al primo istante giallo diventa tosto di un bel colore rosso-vivo. Non si avverte che un lentissimo sviluppo di gas anche quando si mantenga il precipitato in contatto al liquido per di- verso tempo alla temperatura ambiente. Per raccoglierlo si filtra alla pompa attraverso carta e lo si lava fino a eliminazione dell'acqua ossigenata in eccesso. Il miglior liquido di lavaggio è l'etere anidro raffreddato a 0°. L'alcool si presta assai meno, poichè il — 4il — precipitato dapprima rosso-vivo diventa coi successivi lavaggi giallo-scuro con evidente ossidazione dell'alcool senza sviluppo di ossigeno. Le esperienze 1 e 2 si riferiscono a precipitati lavati con l'alcool, le altre a precipitati lavati con l'etere. L'analisi venne eseguita nel modo detto sopra. EspERIENZA 18. — Hg$ pesato gr. 0,5375 corrispondente a gr. 0,5004 di Hg0 Ossigeno attivo gr. 0,0062. Rapporto fra mercurio e ossigeno totale = 1:1,167. EsPERIENZA 2%. — HgS=gr. 0,4155 ; HgO=gr. 0,3868. Ossigeno attivo gr. 0,01556. Mercurio iena Ossigeno ESPERIENZA 3%. — HgS= gr. 0,4885 ; HgO=gr. 0,4548 Ossigeno attivo gr. 0,0257. Mercurio — 1:1,762. Ossigeno EspEEIENZA 4°. — HgS= gr. 0,9880 ; HgO= gr. 0,9198. Ossigeno attivo gr. 0,054. Mercurio di ,93: Ossigeno EsPERIENZA 5°. — HgS= gr. 0,4607 ; HgO=or. 0,4289. Ossigeno attivo gr. 0,0326. Mercurio Pen Ossigeno Le analisi dimostrano che qualora si riesca a impedire completamente la scomposizione, il rapporto mercurio :ossigeno è di 1:2 corrispondente alla formola Hg0». Il perossido di mercurio così ottenuto è una sostanza apparentemente amorfa di color rosso-mattone. Con l'acqua si scompone lentamente con forma- zione di acqua ossigenata, ossido di mercurio giallo e sviluppo di ossigeno. Con gli acidi si scioglie formando sali mercurici e acqua ossigenata. Con l'acido cloridrico sviluppa cloro. Libera lo iodio dal ioduro di potassio e de- colora la soluzione di permanganato potassico. Esso si comporta perciò come un vero perossido. Il perossido HgO, preparato col metodo di Antropoff è anche allo stato asciutto abbastanza stabile, ottenuto per precipitazione invece si scompone assal rapidamente passando ad ossido mercurico. Preparato col metodo di An- tropoff non dimostra possedere acqua di costituzione. Non risolvibile rimane il problema nel caso che sia ottenuto per precipitazione: è però probabile, visto il modo di formazione, che anche in questo caso non contenga acqua. — 412 — Il comportamento del perossido di mercurio rispetto a quelli di magnesio, zinco e cadmio è in relazione colla disposizione degli elementi nel sistema periodico. La stabilità assai limitata del perossido di mercurio è in relazione col carattere debolmente positivo dell'elemento. I perossidi si formano coì seguenti metodi: lenta combustione (autossi- dazione) alla temperatura ordinaria; azione dell'ossigeno a temperatura ele- vata; azione dell’ozono; e soprattutto azione dell’acqua ossigenata. Si può ritenere sufficientemente provato che il perossido di mercurio si possa ottenere anche per azione dell'ozono sul mercurio metallico, come risulta dalle recenti esperienze di Manchot e W. Kampschulte (*). Questi autori studiando il com- portamento dell'ozono sul mercurio a diverse temperature hanno osservato sulla superficie del metallo a 238° un fuggevole straterello di una sostanza giallo-bruna. Verosimilmente si tratta della formazione di perossido di mer- curio, che sebbene sia instabilissimo tuttavia può formarsi anche ad elevata temperatura, come diversi altri esempi lo dimostrano. Infine faccio osservare come il nuovo nome di « perossidati » introdotto da Bredig (?) per differenziare î perossidi ottenuti per azione dell'acqua ossigenata, dai perossidi Mn0O, , PbO,, non sia, a parer mio, necessaria. I nomi di antozonidi, di olossidi, di molossidi, di perossidati, vogliono tutti si- gnificare la stessa classe di corpi, quelli che con Mendeleyeft si chiamano perossidi ed hanno metodi di formazione e comportamento chimico ben di- stinte dagli ossidi superiori del piombo e del manganese. Chimica. — Azione dei diazo-idrocarburi grassi sul ciano- geno e suo derivati. ITI. Composti alogenati (*). Nota di A. TAm- BURELLO ed A. MrLazzo, presentata dal Corrispondente A. PERA- TONER. Al pari del cianogeno gassoso i suoi derivati alogenati reagiscono ab- bastanza vivacemente coi diazo-idrocarburi grassi, in soluzione eterea alquanto concentrata, fornendo prodotti di reazione che per la loro genesi corrispon- dono perfettamente ai due tipi di nitrili di cui fu parola nelle Note pre- cedenti. Avviene cioè in primo luogo un'addizione del derivato alogenato con il diazo-idrocarburo, molecola per molecola, secondo lo schema Hs0k° C. Alg RI | Napa scorto To ali (1) Berichte, 40, 2891 (1907). (8) Loco citato. (*) Lavoro eseguito nel R. Istituto chimico di Palermo. — 413 — Ma il prodotto ottenuto in seno alla soluzione di diazo-composto lascia eterificare assai facilmente l'idrogeno immidico, fornendo gli eteri N-al- chilici : H.C——C.Alg H.C— C.Alg Il Il Il Il NH N.CH; Sostanze di questo secondo tipo sono quelle che di preferenza si rica- vano. Tuttavia fu possibile, in un solo caso, isolare anche il prodotto inter- medio risultante dalla semplice addizione non seguita da ulteriore eterifica- zione, e fu questo nella reazione fra diazo-etano e cloruro di cianogeno, operandosi in soluzione eterea estremamente diluita, analogamente a quanto da Peratoner ed Azzarello fu fatto rilevare nelle Note precedenti. General- mente però tali prodotti di semplice addizione sono in quantità talmente esigua da rendersene impossibile la separazione, quand'anche si usino tutte le precauzioni indicate pel cianogeno gassoso. % Noi crediamo di potere spiegare tali piccole divergenze tra il compor- tamento del cianogeno e quello dei suoi derivati alogenati, tenendo presente l'osservazione che la vivacità con cui questi ultimi reagiscono coi diazo- idrocarburi è affievolita, certamente per la presenza dell’alogeno nella mo- lecola. Ciò si arguisce dal diverso sviluppo di calore, dal movimento che si produce nel solvente e dalla durata della reazione che richiede talvolta varie ore acciocchè sia completa, finchè sia sparito cioè il colore giallo del diazo- composto. Nel caso del cianogeno, invece, tutte le reazioni avvenivano quasi istantaneamente, qualunque fosse la diluizione a cui si operava. Riteniamo poi che i nostri derivati di addizione semplice, essendo di natura più acida di quelli non alogenati, più facilmente subiscono l’azione eterificante ulte- riore del diazo-composto. Quantunque non abbiamo dimostrato per altra via la costituzione dei nostri composti alogenati, pure non ci sembra in alcun modo dubbio che essi siano da considerarsi come derivati del nucleo osotriazolico, e ciò as- seriamo data la perfetta analogia fra le esperienze attuali e quelle prima ese- guite col cianogeno gassoso, il quale può ben ritenersi, agli effetti di questa reazione, come cianuro di cianogeno. Per altro i composti in parola sono, a somiglianza dei derivati osotria- zolici, sostanze molto stabili, che a pressione ridotta distillano del tutto inalterate. La difficoltà con cui cedono l'alogeno nelle determinazioni secondo Carius indica poi chiaramente che esso non è unito all'azoto bensì al carbonio. I migliori rendimenti si ebbero col cloruro, mentre scemavano nella reazione col bromuro per lieve resinificazione dei prodotti. Dallo joduro non RenpICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. dò ù — 4l4 — ci fu possibile ricavare alcun composto definito. La reazione col diazo- idrocarburo è bensì sufficientemente viva, però dopo eliminazione del solvente (etere) rimangono solamente sostanze resinose. La vivacità della reazione di- minuisce poi per i derivati alogenati col crescere del peso atomico dell’a- logeno, essendo maggiore pel cloruro che pel bromuro e joduro di cianogeno, e così via. Il diazo-etano si è mostrato anche in queste esperienze (') come reat- tivo più energico del corrispondente derivato del metano, il cui impiego ha costantemente richiesto un tempo alquanto più lungo per il completamento della reazione. Per l'identità delle presenti reazioni con quelle che si verificano col cianogeno gassoso siamo infine condotti a riconfermare che il gruppo ciano- geno dei derivati alogenici deve contenere, come il cianogeno stesso. triplo legame fra carbonio e azoto. Solamente le formule Cl—C=N e Br-C=N sono in accordo con le nostre esperienze di sintesi di osotriazoli le quali scartano le altre tutt'oggi considerate, con atomi di carbonio bivalente es- sendo atomi di tale natura indifferenti all’azione dei diazo-idrocarburi grassi (*). La caratteristica dei diazo-composti grassi come reattivi è appunto quella che avvenendo le reazioni a temperatura anche molto bassa, non possono a buona ragione verificarsi trasposizioni molecolari, e che perciò la dimostrazione di strutture e di legami è notevolmente facilitata. D'altronde noi veniamo così a confortare l’esperienza di H. Gal (*) il quale nella reazione dello zinco-etile sul cloruro di cianogeno ricavò soltanto propio- nitrile: CHz.CHs.zn (4 + C1—Cy = ZnC1+ CH;.CH,. C==N Nè può aver peso l'osservazione che questi derivati alogenati isi rica- vano da alogeno libero e cianuri metallici, questi ultimi ormai indubbia- mente riconosciuti per iso-cianuri. Nef ha già fatto vedere in qual modo si comporta in simili casi l'atomo di carbonio bivalente; ed a questa stregua nessuna difficoltà s'incontra a derivare p. es. il bromuro di cianogeno dal- l'isocianuro di potassio: pene A DI>O=N.K — Br C=N + KBr » = (1) Vedi le Note precedenti di Peratoner ed Azzarello. (*) Vedi le Note precedenti di Peratoner ed Azzarello e quelle susseguenti di Pe- ratoner e Palazzo sull’acido prussico. (3) Comp. rend., 66, 48 (1868). (4) zn= 3 Zn. — 415 — F. D. Chattaway e J. M. Wadmore (') considerando i derivati aloge- nati del cianogeno come composti alogeno-immidici C=N . Alg si basano, in questa interpretazione, semplicemente sulla facilità con la quale l’alogeno viene dai varî reattivi eliminato dalla molecola. Ora è da obiettare in primo luogo che di fronte alle nostre esperienze di sintesi, semplici reazioni a doppio scambio, con eliminazione di alogeno, nulla di rigoroso provano. E d'altro canto composti così semplici, costituiti da pochi atomi, quali appunto questi alogenidi, sono dotati di eminente potere additivo, come del resto le stesse nostre ricerche dimostrano. Non può quindi escludersi la possibilità che le reazioni scritte dai succitati autori, ad es. O_N*BiWCSAME:SMI_MNCOTN.H (SSMMHBr LS siano da interpretarsi secondo schemi come il seguente od altri simili SH HF. Sy AI + | — SRI = C=N.H + HBr +4 S Bi H Br Il problema a nostro avviso non era risolvibile se non mediante sintesi assai blanda, e noi crediamo di averne fornito la dimostrazione. 3-cloro-4-metil-osotriazolo. HA: C1 | Il Î | NN NH Versandosi una soluzione eterea (all'1°/) di cloruro di cianogeno in una soluzione ben raffreddata di diazo-etano (da 3 cme, di nitroso-etil-ure- tano e 40 cme. di etere assoluto) diluita con 300 cme. di etere assoluto, non si osserva alcun svolgimento gassoso, però dopo circa 4 ore l’intera massa è già decolorata. Per eliminazione del solvente si ottiene un liquido quasi incoloro che non tarda a condensarsi in una massa di cristalli tabulari duri, incolori; questi cristalli spremuti fra carta per eliminare le traccie d'olio che li inquinano, si cristallizzano ripetute volte dal benzolo anidro e sì ottengono in tal modo sotto forma di aghetti bianchi, splendenti, leggeri, con p. f. 77-78°. All’analisi: Gr. 0,2614 di sostanza fornirono gr. 0,2980 di anidride carbonica e gr. 0,0897 di acqua. (*) Journ. Chem. Soc., 87, 191 (1902). — 416 — Gr. 0,0989 di Sostanza diedero cme. 80,5 di azoto misurati a 20° ed a 766 mm. Gr. 0,1934 di sostanza riscaldati a 260° in tubo chiuso, secondo Carius, diedero gr. 0,2356 di cloruro di argento, corrispondenti a gr. 0,0582 di cloro. Su cento parti: Trovato Calcolato per Cz Hi N CI C 31,10 30,63 H 3,81 3,42 N 39,56 30,74 CI. 30,08 30,21 Il prodotto da noi analizzato si scioglie nell'acqua con reazione acida e dà: col nitrato d'argento un precipitato bianco, fioccoso, che non si altera alla luce ed è solubile in ammoniaca; col cloruro mercurico un precipitato bianco polveroso, col solfato di rame un precipitato azzurrognolo fioccoso. N-etil-3-cloro-4-metil-osotriazolo. HRGC—C.01 Î I N ZA N.C. H; In una soluzione eterea di diazo-etano (da 3 cme. di nitroso-etil-uretano) ben raffreddata si versa la soluzione di un grammo di cloruro di cianogeno in 10 cme. di etere. Alla fine della reazione, abbastanza vivace, si ottiene per allontanamento del solvente un liquido appena giallognolo, di odore grato, discretamente volatile, che alla pressione di 40 mm. distilla incoloro a 86-88°. È insolubile in acqua, e in soluzione acquoso-alcoolica non dà precipitato nè con nitrato d'argento, nè con solfato di rame o con cloruro mercurico. All’analisi: Gr. 1949 di sostanza fornirono gr. 0,2922 di anidride carbonica e gr. 1014 di acqua. Gr. 0,1102 di sostanza diedero cme. 27,5 di azoto a 20° e a 762 mm. Gr. 0,2511 di sostanza riscaldata a 200° in tubo chiuso, secondo Ca- rius, fornirono gr. 0,2416 di cloruro d'argento corrispondenti a gr. 0,0597 di cloro. Gr. 0,2916 di costanza riscaldati a 270° in tubo chiuso, secondo Carius, fornirono gr. 0,2843 di cloruro d'argento corrispondenti a gr. 0,0703 di cloro. 1 — 417 — Su cento parti : Trovato Calcolato per Cs Hz Ng CI. C 40,89 41,28 H 5,78 5,49 N 28,62 28,86 CI. 23,77 24,14 24,39 N-etil-3-bromo-4-metil-osotriazolo. Operandosi nel modo anzidetto, con soluzioni discretamente concentrate di diazo-etano e con bromuro di cianogeno sublimato, anidro, si ottiene un liquido di odore grato il quale alla pressione di 30 mm. distilla incoloro a 84-85°. All’analisi: Gr. 0,2636 di sostanza diedero gr. 0,3100 di anidride carbonica e gr. 0,1040 di acqua. Gr. 0,1856 di sostanza fornirono cme. 36,8 di azoto misurati a 24° ed a 759 mm. Gr. 0,2249 di sostanza riscaldati a 270° in tubo chiuso, secondo Carius, fornirono gr. 0,2225 di bromuro di argento corrispondenti « gr. 0,0947 di bromo. Su cento parti: irovato Calcolato per C; Hg N3 Br C 32,07 31,97 H 4,38 4,21 N 22,20 22,10 Br 42,10 42,10 Il liquido in parola è insolubile in acqua e in soluzione acquoso-al- coolica si comporta in modo affatto analogo al composto clorurato descritto precedentemente. Il prodotto non eterificato si ottiene in questo caso in quantità irri- soria. Soluzioni eteree diluite dei due corpi (diazo-etano e bromuro di cia- nogeno) messe a reagire non si scolorano che lentamente. — 418 — N-metil-3-cloro-osotriazolo. H.C——C.C1 I Î N AÒ N.CH3 Con soluzioni discretamente concentrate e fredde di diazo-metano e di cloruro di cianogeno si ottiene, a reazione completa, e dopo eliminazione del solvente, un liquido di odore grato che alla pressione di 39 mm. distilla incoloro fra 62-65°. All'analisi: Gr. 0,2028 di sostanza riscaldati a 260° in tubo chiuso, secondo Carius, fornirono gr. 0,2400 di cloruro d'argento corrispondenti a gr. 0,0593 di cloro. Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs H, Ng CI Cl 29,24 30,21 Nelle varie determinazioni di alogeno eseguite su questa sostanza non abbiamo potuto avere numeri migliori di questi ora riferiti, essendosi costan- temente verificate sopra 260° violente esplosioni. Il prodotto non eterificato anche qui si ottiene in quantità trascurabile. N-metil-3-bromo-osotriazolo. H.C——C.Br N.CH3 Operandosi nel modo anzidetto si ottiene un liquido volatile, di odore pungente, che provoca la lagrimazione; alla pressione di 22 mm. esso di- stilla incoloro fra 62-65°. Gr. 0,2355 di sostanza riscaldati a 260° in tubo chiuso, secondo Carius, fornirono gr. 0,2653 di bromuro d'argento corrispondenti a gr. 0,1129 di bromo. Su cento parti: Trovato Calcolato per Cs Hy Ns Br Br 47.94 49,38 Per il riscaldamento sopra 260° si verificarono anche in questo caso violente esplosioni. Il prodotto non eterificato sì ottiene anch'esso, ma in quantità non isolabile. — 419 — Fisiologia vegetale. — Su la revertasi nei funghi (*). Nota di E. PANTANELLI, presentata dal Socio R. PIROTTA. Durante i miei studii su la meccanica di secrezione degli enzimi ho trovato che l’invertasi o invertina dei funghi passa con grande facilità da l’idrolisi del saccarosio a ]a ricostituzione di saccaridi più complessi partendo da lo zucchero invertito (°). La reversione in soluzioni concentrate di glucosio, fruttosio o zucchero invertito, è nota specialmente per il lavoro di Wohl (*). Già diversi autori avevano osservato che la cottura prolungata con acidi distrugge parzialmente i monosi; Grimaux e Lefèvre (4) trovarono poi che con glucosio ed 8 volte tanto HCl al 5°/, si forma una destrina, e così dal galattosio. D'altra parte è noto, che tutte le leggi empiriche o teoriche che stabiliscono l'andamento dell’inversione del saccarosio con acidi, valgono fino ad una concentrazione del 30°/ di zucchero. Wohl ha dimostrato, che si può invertire il sacca- rosio anche in soluzioni molto più concentrate pur di adoperare meno acido che sia possibile (p. es. 5 p. di HCl per 100.000 p. di zucchero). Se si ado- pera più acido; l'inversione non è più completa, perchè entra in scena la reversione. Tale condensazione è dovuta al riscaldamento con acido, e non accade se si riscalda lo zucchero con acqua pura. Dei due esosii che costituiscono lo zucchero invertito, il. levulosio è quello che più facilmente si condensa e forma una /evulosina, carbidrato colloide simile alle destrine, che si lascia idrolizzare totalmente se il riscaldamento non è durato più di mezz'ora, ma, se il riscaldamento durò un'ora, si può idrolizzare solo per !/,. Anche il glucosio sì condensa, ma in minor grado del levulosio, in prodotti destri- noidi. Ad ogni modo vediamo, che non si può parlare di ricostituzione del saccarosio, nè di vera reversibilità della reazione; abbiamo piuttosto questo schema: Saccarosio + Acqua —_ Glucosio + Levulosio Levulosina + Destrina + ... + Acqua « (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Fisiologia del R. Istituto Botanico di Roma. (3) Proinvertasi e reversibilità dell’invertasi nei Mucor, Rendic. Accad. Lincei, (5), vol. XV, I sem., pag. 587, (1906); Ulteriori ricerche sull’influenza dei colloidi su la secre- zione ecc., Annali di Botanica, vol. V, pag. 250 (1906); Secrezione reversibile, Ivi, pagg. 532-416 (1906). (*) Zur Kenntniss der Kohlenhydrate, Ber. chem. Ges., Bd. XXIII, pag. 2084 (1890). (£) Comptes rendus, vol. CIII, pag. 146 (1887). — 420 — Wohl seguendo l’inversione di 80 g. saccarosio + 20 g. acqua 4- 5: 10000 HC1 ha trovato che essa è massima dopo 35' di riscaldamento a 100° (94,76 °/, di saccarosio sono trasformati in zucchero invertito): prolungando il riscaldamento compare la reversione; dopo 120" g. 59°/, di zucchero in- vertito sono condensati. E. Fischer (*) ha ottenuto una condensazione assai più cospicua con il glucosio (30-35 °/,) sciogliendolo in acido cloridrico concentrato a tempera- tura della stanza; ma in questo caso non si formano destrine, bensì 7s0m2/- tosto, un glucobiosio non fermentabile, il quale dà un osazone solubile nel- l'acqua bollente, insolubile nella fredda, in cui precipita a fiocchi, costituiti però da aghetti cristallini. Differisce dal maltosazone per diverse proprietà fisiche. Questo isomaltosio sintetico non è attaccato da nessun enzima, ha debole potere destrogiro e differisce dal maltosio (*). Poco dopo, A. Croft Hill (*) trovò che la maltasi di lievito fabbrica in soluzioni, che contengono il 40 °/, di glucosio, il 6 °/, di un disaccaride, che egli ritenne per maltosio. Emmerling dimostrò (4) poi che non è maltosio che si forma, ma isomaltosio identico a quello trovato da E. Fischer. Croft Hill in seguito ha modificato le sue idee e ritiene () che accanto all'iso- maltosio di Fischer si formi un altro zucchero biosio, che egli chiama 7e- vertosio. Questo disaccaride sì può ottenere in forma di croste cristalline, fortemente igroscopiche, il cui potere rotatorio misura circa @» = + 91.59, e il cui potere riduttore misura appena il 47°/ di quello del maltosio; l’osazone è inattivo e fonde a 173°-174°. Croft Hill ha ottenuto uno zucchero simile anche facendo agire la dia- stasi ala (di Aspergillus Oryzae) (°) e l'estratto di pancreas (?) su glu- cosio al 60 °/. È da notarsi però che la percentuale di zucchero sintetizzata nelle espe- rienze di questi autori è sempre assai bassa. Si direbbe quasi che i prodotti della sintesi ostacolino fortemente l'azione dell'enzima. Lo stesso vale anche per la sintesi dell'7so/attosio da glucosio e galattosio secondo Fischer ed Armstrong (*). Armstrong ha poi studiato più da vicino la sintesi del maltosio ed iso- (’) Synthese einer neuen Glucobiose, Ber. chem. Ges., XXIII, pag. 3687 (1890). (2) E. Fischer, Veber die Isomaltose, Ber. chem. Ges., Bd. XXVIII, pag. 3024 (1895). (®) Reversible aymohydrolysis, Journ. chem. Society, LXXIII, pag. 634 (1898). (4) Synthetische Wirkung den Hefenmaltose, Ber. chem. Ges., Bd. XXXIV, pag. 600 (1901); Croft Hill, ivi, pagg. 1380-1384; Emmerling, ivi, pagg. 2206-2207. (9) Chemiker-Zeitung, Bd. XXVII, pag. 391 (1903); Journ. chem. Society, LXXXIII, pag. 578 (1903). (5) Proc. Chem. Society, XVII, pag. 184 (1901). (*) Journ. of Physiology, XXVIII, pag. 4 (1902). (5) Ber. chem. Ges., XXXV, pagg. 3144-3153 (1902). — 421 — maltosio ('). La maltasi forma dal glucosio l'isomaltosio, che essa non può decomporre, ma che viene scisso facilmente da l’emulsina, mentre l'emulsina sintetizza dal glucosio il maltosio, che essa non attacca, ma ehe viene idrolisato da la maltasi. Sembra dunque che non si possa mai parlare di vera rever- sione nel senso fisico-chimico, perchè l'attività sintetica di un enzima por- terebbe sempre a prodotti diversi da quelli attaccati dall’enzima stessa in attività idrolitica. Forse la ragione di questo fatto sta nella concentrazione dell’acqua, la cui influenza è stata trascurata da tutti questi autori, anche da Visser (?), il quale per primo ha osservato il potere sintetico dell’invertasi. Infatti Pot- tevin ha dimostrato per la lipasi (*) che l’eterificazione è tanto più debole quanta più acqua è presente, e che l'enzima agisce indifferentemente nei due sensi, purchè la quantità di acqua sia la stessa. È da notarsi che Pottevin ha ottenuto sintesi perfino dell'86 °/,, le massime sintesi enzimatiche fino ad ora conosciute. L'invertasi o meglio la revertasi delle muffe da me adoperate è però assai più potente della maltasi impiegate da Croft Hill, Emmerling ete. La reversione dello zucchero invertito in presenza dell'enzima secreto o dell’en- zima intracellulare di Mucor Mucedo, M. stolonifer, Botrytis cinerea, Asper- gillus niger, Penicillium glaucum, è già cospicua nella soluzione-tipo al 20°, che io ho di solito adoperato (4), beninteso, se c'è revertasi, ossia se l’enzima possiede attività reversiva. Talvolta invece prevale l’attività inversiva in misura tale, che quella reversiva rimane totalmente mascherata. Per dimostrare la presenza della revertasi faccio agire il liquido en- zimatico su una soluzione al 40°/, di zucchero invertito, preparata scio- gliendo 40 g. di saccarosio cristallizzato in 100 ce. di acqua, poi aggiun- gendo 5 ce. di H, SO, decinormale, e tenendo il miscuglio in un bicchiere aperto sul bagnomaria bollente per un'ora, in modo che il volume diminuisca alquanto. Si raffredda poi rapidamente, si neutralizza con 5 cc. di NaOH decinormale e si riporta con acqua a 100 cc. Operando in questo modo si riesce ad utilizzare fino al 97-98 °/, del saccarosio; di più non è possibile per la forte concentrazione dello zucchero, come Wohl (1. c.) ha mostrato. Per misurare l’azione reversiva dell'enzima tengo 10 ce. di questa so- luzione-tipo di zucchero invertito, appena preparata, con 10 ce. di liquido enzimatico a 36° per un'ora, dopo di che porto subifo senza neutralizzare, (*) Proc. Royal Society. LXXVI, ser. B, pagg. 592-599 (1905). (*) Reaktionsgeschwindigkeit u. chem. Gleichgewicht in hom. Syst., Zeitschr. f. physik. Chemie, LII, pag. 257-309 (1905). (5) Actions diastatiques reversibles, Ann. Inst. Pasteur, vol. XX, pag. 901 (1906). (‘) Annali di Botanica, vol. III, pag. 121 (1905). RenpIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 56 — 422 — a 500 ce. con acqua, e in 10 o 20 ce. della soluzione diluita così ottenuta determino lo zucchero riduttore secondo Allihn. Nella soluzione al 40 °/, di invertosio lasciata a sè, a freddo o a caldo, neutra od acida, si ha sempre una lenta reversione, più rapida se contiene alcali libero. Alcuni esempii: Temperatura della stanza: I (neutro per il metilarancio) II (neutro) Glucosio in 10 ce. Reversione 15. VI. 06 3760 mg. — 4. VII. 06 3860 mg. — 19 SVI do 3720» 1.06.°/, 10. VII. » 3760.» 2.59 °/o POV 3420. n 9.04 » TEO AA RIN 3340» 10.87 » Data Glucosio in 10 cc. Reversione Data III (acidità 0,1 decinorm.) IV (alcalinità 0,1 decinorm.) Data Glucosio in 10 cc. Reversione Data Glucosio in 10 cc. Reversione 4. VI. 06 3820 —_ 8. VI. 06 3780 e TOSSViito 3740 ZON 16.VI. > 3640 (i 22. VI. » 5500 8.37 » 26. VI. » 3200 15.3» Tali soluzioni addizionate di toluolo stavano in termostato a 25°. L'enzima non fa che accelerare questo processo di reversione. La revertasi si trova in abbondanza nei micelii dei detti funghi e viene emessa nel liquido culturale, sia per secrezione, come ho potuto mostrare per il Mucor Mucedo ('), sia per diffusione da le cellule morte o guaste. Questi fatti furono posti in luce da le seguenti esperienze: In quattro scatole Koch, contenenti ognuna 200 ce. della consueta so- luzione nutritizia al saccarosio (*), furono fatti sviluppare contemporanemente, nel termostato a 25°, Mucor Mucedo, Penicillium glaucum, Aspergillus niger, Botrytis cinerea. Dopo 10 giorni (15-25. VI. 1906) i micelii furono ridotti in poltiglia secondo la nostra metodica (*) e portati tutti a 100 ce. Le misure dell'attività reversiva furono fatte come sopra è detto; la misura dell’invertasi nel modo solito (4); tutte si riferiscono dunque a 10 ce. di poltiglia + 10 ce. di soluzione zuccherina. Per controllare la presenza del- l'enzima furono posti 19 cc. della soluzione d'invertosio, contenente 3760 mg. di hexosio, con 0,3 ce. di acido acetico decinormale e 9.7 cc. di acqua a 56° dopo un'ora, si trovarono 8898 mg. di hexosio, ossia, lungi da l'avere re- versione, si aveva avuta l'ulteriore inversione di 138 mg. X 0.95 = 181.2 mg. di saccarosio. (*) Secrezione reversibile dell'invertasi, Annali di Botanica, vol. V, pag. 413 (1907). (*) Annali di Botanica, vol. III, pag. 120 (1905). (*) Jahrbiicher f. wiss. Bot. XL, pag. 807 (1904); Annali di Botanica, III, pag. 123 (1905). (4) Annali di Botanica, III, pag. 121 (1905). — 423 — Nelle seguenti tabelle i dati di zucchero sono tutti in mg. e si riferi- scono ai 20 cc. di miscuglio di prova. I dati di acidità sono in ce. di soda decinormale e riferiscono a 10 cc. del liquido enzimatico; con acidità tozale è intesa l'acidità rispetto al tornasole, forte rispetto al metilarancio, debole rispetto alla fenolftaleina. TABELLA I. S PROVA DI REVERSIONE PROVA D'INVERSIONE ininro EAPALESOO È Zucchero riduttore Saccarosio darti dro Da [ina revertito ini- | finale invertito 2 | ziale ziale Mucor Mucedo . 9,814 gr. | 0,3 | 3760|3343| 413 = 10,98°,0| 4000] 3530] 470= 11,759)o Penic glaucum. | 5,849 » | 0,4| » |3040/720=19,14»| » |3890[110= 2,75» Asperg. niger . | 1023 » |06|.» |3112|588=15,64»| » |2742/258= 645» Botrytis cin. 9,64.» 0,5. |». |2960| 800= 21,27» | » |3891|109= 2,73» Vediamo da questa tabella che fra i diversi organismi esistono notevoli differenze rispetto alla misura della attività reversiva ed inversiva dei loro succhi cellulari e ad ogni modo xon c'è rapporto costante fra le due at- tività opposte. Per comprendere però come mai in eguali condizioni di vita il micelio di Mucor Mucedo contenesse meno revertasi e più invertasi degli altri, dob- biamo considerare che nel liquido culturale del Mucor si trovava ancora una forte quantità di saccarosio e zucchero totale; in 10 cc. dei liquidi culturali il 25 maggio 1906 si aveva: TABELLA II. Acidità Zucchero | s.cca- Fungo î forte | debole | totale |riduttore| 10510 Mucor Mucedo . 1,4 5,8 |1491 | 387,5 |1047 Penice. glaucum . DIS TOT 980 485 471 Aspera. niger 2,7 7,9 | 684,2) 579,5) 975 Botr. cinerea DI 6,5 | 856,5] 768,5| 83,6 Anche con questi liquidi furono fatte subito determinazioni di attività reversiva ed inversiva, con i risultati portati dalla tabella III. Non è possibile stabilire controlli 70n-eszimatici in tali prove fatte con liquidi culturali, poichè non è possibile stabilire una eguale concentra- zione di saccarosio e zucchero e riduttore, nè un'acidità eguale a quella della prova, nè è possibile uccidere l'enzima col calore, perchè ciò determinerebbe anche idrolisi di saccarosio. — 424 — TABELLA III. PROVA DI REVERSIONE PROVA D' INVERSIONE Fiano Zucchero riduttore Saccarosio iniziale | finale | revertito iniziale | finale invertito I 2 Mucor Mucedo . 4147,5 | 4126,5.| 21 =0,506%0| 5047 5171 876 =17,36°/o Penic glaucum. .| 4245 | 4127 118 — 2,78 n| 4471 |4161 |310 —6;98 n Asperg. niger 43395 | 4208 |1315=3,02 »| 4057,5 | 38695 |227,7=5,56 » Botr. cinerea 4528,5 | 1203 (3955=7,19 n 4083.6 | 3700,5 | 383 =9,38 » Esiste dunque una certa relazione fra ricchezza di saccarosio del substrato e secrezione di revertasi, come possiamo agevolmente vedere confrontando le tabelle I-III ('). In generale però l'attività reversiva estracellulare era in queste culture assai minore che l'attività intracellulare; il viceversa si notava per l’invertasi. Ciò era dovuto all’età, come vedremo fra poco. La revertasi agisce anche in ambiente alcalino. Da le poltiglie di micelii avanzate a la prova precedente furono pre- levati 50 cc. a cui con l'aggiunta di NaOH decinormale fu conferita un'al- calinità pari a l'acidità che esse prima avevano. Come controllo tenni a 56° per un'ora 10 cc. della soluzione-tipo di invertosio con 3760 mg. di he- xosio + 0,3 cc. di NaOH decinormale e 97 ce. di acqua; alla fine della prova l'hexosio era sceso a 3702 mg.; reversione: 58 mg. cioè l'1,54 °/o. Con le poltiglie furono subito fatte le seguenti misure: TABELLA IV. PROVA DI REVERSIONE PROVA D'INVERSIONE To AJcale Zucchero riduttore Saccarosio pg RENT O | revertito iniziale | finale | invertito Mucor Mucedo . 03 3760 | 3168 | 592 = 15,75%] 4000 3970 30 Penice. glaucum . 0,4 ” 3040 | 720= 19,12 » ” 4000 0 Asperg. niger oe ' 5 Wier |\es8—=i750, | > Botr. cinerea 0,5 ” 2720 |1040=-27,66 » » 3983 17 La revertasi intracellulare è dunque in generale più attiva in liquido alcalino (tab. IV) che in liquido acido (tab. I). (1) Cfr. Annali di Botanica, V, pp. 366, 374, 383 (1906). Lo stesso fenomeno ho osservato in lieviti di vino (Saccharomyces ellipsoideus), vedi Staz. sperim. agrarie, vol. XXXIX, pag. 577 (1906). "49 Osserviamo che anche in liquido alcalino si può notare traccia di azione invertasica (1). Nei liquidi culturali dei detti funghi resi alcalini con l'aggiunta di egual volume di soda decinormale, fu misurata subito la sola attività re- versiva (cfr. tab. II e III); i dati sono raccolti nella seguente tabella V: TABELLA V. PROVA DI REVERSIONE Fango Aleali, Zucchero riduttore nità iniziale | finale revertito Mucor Mucedo . . . 4,2 3953 3526 LAZIONE Penic. qgiaucum. . . . |. 2,8 4002 3795 207= 5,17 a ATTORE 65) 4144 3894 250 = 6,03 » BotnWemerncat. .. 0 € 231 4049 38483 206= 5,07 » La attività reversiva dei liquidi esterni resi alcalini appare superiore di molto a quella sviluppata nel liquido acido, se si tien presente che il liquido enzimatico era stato diluito a metà con l'aggiunta di egual volume di soda decinormale. Influenza dell'età. Su l'intensità di reversione del succo cellulare e del liquido culturale dei microorganismi ha influenza l'età dell'organismo. Per studiare la que. stione fu adottata la metodica di cui già avevo fatto uso per studiare l’in- fluenza dell'età su la quantità d'invertasi (*). Mucor Mucedo fu seminato in 4 scatole Koch contenenti 200 cc. della consueta soluzione nutritizia. Dopo 6 giorni di vita a 25° fu lavato e tri- turato nel modo solito il micelio di una prima cultura, dopo 10 giorni l’altro e così via, come indica la tabella VI. Anche i liquidi esterni furono via via esaminati (tab. VII ed VIII). Per le poltiglie di micelio furono stabilite prove di controllo con la stessa acidità delle poltiglie, ma senza aggiunta di questa; tale reversione non enzimatica oscillò però fra 23 e 26 mg. di hexosio in un'ora a 56°, cioè una reversione affatto trascurabile di fronte a quella operata da le poltiglie. (1) Cfr. Annali di Botanica, vol. V, pp. 880, 384, 388, 593, 397 (1906); Fermi e Montesano, Centr. f. Bateteriol, (II Abt.), I, pag. 542 (1895), hanno già osservato che l’invertasi di alcuni bacterii agisce anche in soluzione debolmente alcalina. (2) Rend. Acc. Lincei (5), vol. XV, I sem., pag. 880 (1906); Annali di Botanica, vol. V, pag. 250-258 (1906). — 426 — TaBELLA VI (enzimi intracellulari) === *>*= *+# >=+=+=*=—|<«;]1!%#:#%—+—# =*=*=-* = = =y=y=>=*%x1x%x1x%Xx®ele0a02el0la0lalel0al10a=—==—————————-.r—: | s PROVA DI REVERSIONE PROVA D' INVERSIONE Età Micelioufcesso |. Zucchero riduttore Saccarosio È iniziale | finale revertito iniziale | finale invertito 6 giorni 8,507 gr. | 0,2 | 3920 | 3540 |380= 9,69°,,| 4000 | 3213 | 787 = 19,67°% 1000» 10,632 » 0,3 | 8940. | 3412 |528 —=13,40 » » 3408 |592 = 14,80 » 5 11,445 » 0,3 |-3878 | 3448 [430= 11,09 » ” 3519 | 481= 12,02 » 21» 12,770 » 0,4 | 3920 | 3469 | 451 = 11,50 » ”» 3578 | 422 = 10,54 » TaBeLLA VII (compos. d. liq. culturali). 3 Acidità Zucchero A Età total Saccarosio VELI totale riduttore 6 giorni 5,4 1642 213 1357 TON 5,6 1270 818 904,2 lo 5,7 1008 322 651,1 Din 6,2 840 402 416,1 TaBeLLA VIII (enzimi estracellulari). | PROVA DI REVERSIONE PROVA D INVERSIONE Età Zucchero riduttore Saccarosio iniziale | finale revertito ìniziale | finale invertito 6 giorni 4133 4108 dd = 1,33 °/, | 5357 5232 125. 2583% IONE 4258 8814 | 444—10,42 » | 4904,2 | 4368,2 | 536 = 10,92 » oo 4200 3620 | 580 = 13,81 » | 4651.6 | 4285,6 | 366= 7,87 » 21 ” 4322 33291 |1993 = 22,97 n | 4416,1.| 4264,1 | 152 =344 » Vediamo da questa esperienza che le due attività antagoniste non va- riano consentaneamente, anzi nel micelio l’invertasi era massima il 6° giorno e poi andò progressivamente diminuendo, l'attività reversiva o brevemente la revertasi raggiunse il massimo il 10° giorno. Nel substrato l'attività in- versiva aumenta lentamente fino al 10° giorno, mentre la revertasi, che il 6° giorno non era ancora uscita dal micelio, comparve poi e andò crescendo senza limiti. Su questo fatto ha evidentemente influenza l'aumento di con- centrazione dello zucchero riduttore rispetto al saccarosio, ciò che determina — 427 — sempre il prevalere della revertasi su l’invertasi, come vedremo meglio in una prossima Nota. Un'altra esperienza di questo genere fu fatta con Penicillium glaucum, coltivato a 25° in grandi ciotole contenenti 300 ce. della consueta soluzione nutritizia. TaBELLA IX (enzimi intracellulari). z PROVA DI REVERSIONE PROVA D INVERSIONE Re e NI, i ed0_ _oae“# _1a1a0M0R0l1R0@0_ n1—_——r—. [ei] . 3 Età Micelio fresco | <= Zucchero riduttore Saccarosio =z 2 iniziale | finale revertito iniziale | finale invertito 8 giorni 9,672 gr x) (vb) 3860 | 3348 |412==10,68°/| 4000 | 3676 | 324= 7,77°/ Toi 8,138 » 0.4 | 3940 | 2920 (1020 = 25,89 » ” 2440 |1560=37,41 » Ze 12,20 n 0,6 | 3920 | 2933 | 987 = 25,18» » | 3260 |740—=17,74 » 80.» 14,78. » 0,5 | 8962 | 2902 |1060= 26,87 » ” 3928 | 72/= 4,13)» Nelle prove di controllo con la stessa acidità, ma senza enzima, si ebbe una reversione oscillante fra 22 e 28 mg. in un'ora a 56°. TABELLA X (compos. d. lig. culturali). FA Zucchero Età “ ; ig a | SA CCArOSIO uotale totale riduttore | 8 giorni 6,8 1820 640 1121 15 9 TO 765,6 510 242,8 Ol 12 710 582 1214 30.» 7,2 868 6€0 197,6 TABELLA XI (enzimi estracellulari). PROVA DI REVERSIONE PROVA D’INVERSIONE Età Zucchero riduttore Saccarosio | iniziale finale | revertito iniziale I finale invertito 8 giorni 4500 | 5388 (+ 888) 5121 3897 |1224 —=29,90°/0 NEO 4450 | 4185 [365 = 5,95°/| 4242,8 | 3592,6 | 650,2=15,32 » Al E 4502 | 3964 |558 =11,95 » | 4121,4 | 3684 437,4=10,61 » 80.» 4622 | 3675,6 [946,6 = 20,48 » | 4197,6 | 3509 688,6=16,41 » Il portamento del Perzezllium è analogo a quello del Mucor Mucedo, tranne per l’invertasi, che nel micelio raggiunge il massimo verso il 15° giorno, — 428 — mentre nel substrato l'8° giorno è già massimo. La revertasi raggiunge il massimo nel micelio il 15° giorno e non diminuisce più, nel substrato in- vece comincia ad essere misurabile fra l'8° ed il 15° giorno e dopo va au- mentando progressivamente. I resultati appaiono più irregolari con Pemzet- lium glaucum che con Mucor perchè nel suo micelio pluriseptato già 1°8° giorno abbondano ife morte o morenti, che lasciano liberamente diffondere i loro contenuti ('). Chiariremo il significato biologico dell'aumento continuo della revertasi con l'invecchiare di queste culture di funghi in una prossima Nota, in cui vedremo in quali condizioni lo zimogeno o l’invertasi stessa si trasformano in revertasi. Appare ad ogni modo già indubbio, che l’invertasi e la revertasi di un dato succo cellulare o liquido culturale non variano in senso opposto e neppure nello stesso senso; ognuna delle due attività opposte obbedisce a leggi proprie e varia indipendentemente da l’altra. (1) Jahrb. f. Wiss. Botanik, XL, pag. 307 (1904). Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1% — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3 MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI. VII. VIII. Serie 3* — TransuNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRrIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — III-XIX. MemoriE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4° — RenpIcONTI Vol. I-VII. (1884-91). MeMoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MeMoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVI. (1892-1907). 2° Sem. Fasc. 6°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 40-50. Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-12°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 5°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCRI 1 Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. 10; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LorscHeR & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrIco HorpLi. — Milano, Pisa e Napok. RENDICONTI — Settembre 1907. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e natmrali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 15 settembre 1907. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENT'A'l'E DA SOCI Lauricella. Sulla integrazione dell'equazionetA*v = 0... 0.00. i. AMEAARz5: Sella. A proposito di una Nota dei proff. Battelli e Stefanini: «Relazione fra la pressione osmotica e la tensione superficiale»... . E) Boggio. Sull’equazione del moto vibratorio delle i oiivano olivtione Cossa “dal Come Levi- CIO) NO - a ESSI Amaduzzi. Potenziali stglgrii in presenza di Sisframmi a ‘dal St Fig ES 07 Magri. Alcune considerazioni circa l'origine delle « ocre rosse» depositate dalle acque ter- mali degli Stabilimenti dei Bagni di Lucca (pres. dal Socio Nasi) . . . . .. » Pellini. Sul perossido di mercurio (pres. dal Socio Ciamician) . . . .... Tamburello e Milazzo. Azione dei diazo-idrocarburi grassi sul cianogeno e sui derivati. III. Composti alogenati (pres. dal Corrisp. Peratoner) . . ./... 0.» Pantanelli. Su la revertasi nei funghi (pres. dal Socio Pirotta). . . /. 0...» K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. un i "er vinz: irpeteee ascot 373 384 386 398 400 408 412 419 Pubblicazione bimensile. Roma 6 ottobre 1907. Ni. + AI el DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI ANNO GCCIV. TOM Seno IMSEN TA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XVI. — Fascicolo 7° 2° SEMESTRE. | | Comunicazioni pervenute all'Accidemia sino al 6 ottobre 1907. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI 1907 (A x RIMA) s) ale. \ ty 0) y ( 143 U/ } Y, Tinno] Musett ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quinta dello pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei, oltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta perciascuna delle dus Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche'e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri ur numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4. I Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenùti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II, pete 1. Le Note che oltrepassivo i limiti indi- © cati al paragrafo precedente, e le Memorie pre- | priamente dette, sono senz’ altro inserite neì Volumi accademici se provengono da Socì o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com. missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- ira guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di | stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- | mia o in sunto o în esteso, senza pregiudizio — dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio | di far conoscere taluni fatti o ragionamenti | contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: | ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- . posta dell'invio della Memoria agli Archivi | dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre _ cedente, la relazione è letta in seduta pubblica nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5.L’Accademia dà gratis 75 estratti agli an tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se » estranei. La spesa di un numero di copie in più | che fosse richiesto. è morsa a carico degli autori. ei RENDICONTI DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all’Accademia sino al 6 ottobre 1907. aa Parassitologia. — Inaspettata scoperta di una fillossera sulle radici della quercia. (Dal R. Osservatorio antifillosserico di Fauglia). Nota del Socio B. Grassi e della Dr. AnnA Foà ('), presentata il 27 settembre 1907. Il dott. Raffaello Montefiori nel fare l'esplorazione di un vigneto in Larciano (Prov. di Firenze), avendo trovato le radici delle viti intrecciate, o vicine a radici di querce, che sorgono in un piccolo appezzamento con- finante col vigneto, con sua somma sorpresa notava che mentre le radici di viti erano immuni da fillossera e normali, quelle di quercia portavano paras- siti molto simili alla fillossera della vite e presentavano corrispondenti le- sioni caratteristiche (tuberosità). Questo fatto singolare veniva segnalato al Delegato dott. Agostinelli, che lo confermava. Campioni opportunamente con- servati venivano mostrati al prof. Danesi, il quale stabiliva trattarsi di una fillossera differente da quella delle viti e comprendendo la grande importanza della scoperta la segnalava a noi perchè ne facessimo lo studio zoologico, riservandosi per proprio conto di farne estese indagini dal punto di vista agricolo. (1) Nella Nota a pag. 305 dei Rendiconti pubblicati il 1° settembre 1907, per errore da me indipendente si lesge: Nota del Socio B. Grassi, invece di Nota preliminare del Socio B. Grassi e della Dr. Anna Foà. Tengo a fare questa rettifica perchè la Nota è stata redatta anche dalla Dr. Anna Foà, alla quale come risulta dal testo, si deve gran parte del lavoro. B. Grassi. RenpICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 97 — 430 — Uno di noi si è perciò, nel corrente mese di settembre, recato sul luogo una volta da solo e una volta insieme al prof. Danesi. Crediamo sia impor- tante dare una notizia preliminare dei fatti osservati e delle prime ricerche microscopiche da noi intraprese. S'intende che queste notizie sommarie ver- ranno completate da un lavoro esteso accompagnato da figure. Con nostra somma maraviglia siamo veramente davanti a una fillossera radicicola, come quella della vite, la quale si trova in grande quantità sulle radici di due querce di media età (Quercus sessili/lora), che presentano deperimenti simili a quelle delle viti fillosserate, specialmente nei rami più alti. La fillossera manca, per quanto abbiamo finora constatato, sulle radici di querce vicine non deperite. Già con una lente si vede che le forme più grosse presentano al dorso delle sporgenze, ossia tubercoli più sviluppati che nella fillossera della vite. I colori delle forme attere come in questa, sono vari, predomina però non di raro il verdognolo. Finora conosciamo soltanto le uova delle madri attere, le neonate da queste uova e le larve successive fino alle madri attere e alle ninfe, nonchè le alate. Le ninfe in questa stagione non sono rare. Le foglie delle querce, nell'appezzamento in discorso, non ospitano fillossere, ma presentano le mac- chie caratteristiche dimostranti con sicurezza che vi esistettero poco tempo fa. Se però queste fillossere appartenessero al ciclo della fillossera della ra- dice della quercia, o ad altra specie già nota, non siamo in grado di stabilire. Le uova sono molto simili per forma e colore a quelle della fillossera della vite; sono però di due grandezze, le une quasi il doppio delle altre; sì trovano in gruppetti di 4-5; nei singoli gruppetti talora predominano le grandi, talora le piccole. In complesso gli individui che finora conosciamo a primo aspetto ras- somigliano più di tutto alla fillossera del cerro (Ph. cortiealis). Vi sono però differenze ben spiccate, che consistono, per quanto finora abbiamo osservato : 1°. nella differente forma e grandezza dei tubercoli delle forme attere e della ninfa (anche nella fillossera della radice della quercia spinulosi, ma più brevi e meno acuminati che nella Ph. corticalis). (Nelle neonate mancano i tubercoli). 2°. nella differente lunghezza del rostro (nella fillossera della radice della quercia lunghissimo anche nelle attere adulte). 3°. nella differente lunghezza del terzo articolo delle antenne del- l'alata (molto più lungo in quella della radice della quercia che nella PW. corticalis; sì può dire che questo terzo articolo per la lunghezza s'avvicina a quello della fillossera della vite, mentre è notevolmente più lungo che nelle altre tre specie di fillossere alate delle querce a noi note). 4°. nella differente grandezza e forma delle fossette olfattorie dell'alata (nelle specie delle radici della quercia, sono entrambe tondeggianti e molto — 431 — piccole, poco meno della metà di quella della vite, mentre in tutte le altre fillossere alate delle querce la fossetta distale è orale più o meno allungata, e lunga circa da quattro a sei volte quella della radice della quercia, di cui ci occupiamo). 5°. nella mancanza, per quanto finora abbiamo rilevato, di tubercoli alla fronte della fillossera alata delle radici della quercia, mentre esistono al pronoto press’a poco come in quella del cerro. La ninfa della fillossera delle radici della quercia raggiunge una lun- ghezza maggiore della ninfa della fillossera della vite. La fossetta olfattoria più piccola è caratteristica delle neonate delle radici delle querce, che le fa distinguere subito dalle neonate delle radici della vite. In complesso negli stadî successivi il terzo articolo dell'antenna è più lungo e la fossetta olfat- toria più piccola che nella fillossera delle viti. È notevole che queste fillossere sulle radici delle querce non si trovano mai ammucchiate come quelle della vite; ciò potrebbe dipendere da una prolificità minore. Si tratta evidentemente di una specie nuova che denomineremo Ph. Da- nesti, dedicandola al prof. Danesi per ricordare anche le di lui alte bene- merenze nella lotta contro la fillossera. La fillossera, che noi abbiamo qui segnalata, merita di essere conosciuta non soltanto per evitare possibili confusioni colla fillossera della vite, errore in cui persone meno perspicaci dei dott. Montefiori e Agostinelli sarebbero forse caduti, ma anche, e più ancora, per la sua importanza dal lato agri- colo. Infatti due sono le possibilità che ci si affacciano quando ci doman- diamo l'origine di questa nuova fillossera. Potrebbe darsi che essa esistesse già nel nostro paese da molti anni e che fin qui fosse sfuggita per la sua rarità, ma sarebbe anche possibile che fosse stata introdotta di recente in Europa. Nel primo caso bisognerebbe ammettere che essa fosse tenuta in freno da speciali parassiti, i quali opportunamente propagati potrebbero forse limitare anche i danni della fillossera della vite. Nel secondo caso noi sa- remmo davanti a un nuovo flagello minacciante alle querce la stessa sorte che la fillossera della vite ha fatto subire alle viti europee. Occorrono nuove ricerche che il Ministero di Agricoltura, nella sua solerzia, non mancherà di favorire. Chimica. — Azione dei diazo-idrocarburi grassi sul ciano- geno e suo derivati. IV. Acido prussico ('). (Esperienze). Nota del Corrispondente A. PERATONER e del dott. F. CARLO PALAZZO. Come è stato rilevato precedentemente (*), l’azione del diazo-metano sull'acido prussico fu già provata da v. Pechmann e da lui riferita in questi termini « Cyanwasserstofîf liefert Acetonitril, HCN 4 CH, N° = CH; . CON + -+ N., was fir die Nitrilformel der freien Blausdure spricht » (8). Secondo tale risultato, cioè, in armonia con la formula nitrilica del- l'acido libero, ci sembrò ovvio supporre che l’aceto-nitrile non dovesse costi- tuire l'unico prodotto di questa reazione, giacchè una volta data per l'acido in parola la struttura cianica normale, dovrebbe altresì prendere origine l’o- sotriazolo di v. Pechmann secondo lo schema generale già discusso : H20 C.H 1 Î TO 9 + Nati È facile arguire che la presenza di un atomo d’ idrogeno suscettibile di eterificazione non può costituire, per sè stessa, una condizione sfavorevole per questa sintesi; infatti se tale atomo è in realtà attaccato al carbonio, ciò che è postulato essenziale della reazione di sintesi, si prevede per l'e- terificazione di esso una velocità tanto esigua da non doversi ritenere com- promessa per questo solo fatto la condensazione del diazo-corpo con del- l'acido ancora inalterato. Precedentemente uno di noi ha di proposito insistito sul significante sviluppo di energia che accompagna e caratterizza le nuove sintesi di derivati osotriazolici, epperò riteniamo che la supposizione ora fatta non possa sembrare ingiustificata. Quanto all'aver poi ritenuto che l'acido prussico dovesse eterificarsi col diazo-metano soltanto con velocità estremamente piccola, aggiungiamo che ciò non è rimasto per noi soltanto una previsione teorica: l'esperienza ci di- mostrò che così è di fatto: e così, per esempio, alla temperatura di pochi gradi sotto zero, l’eterificazione può ritenersi praticamente nulla. Presuppo- nendosi allora per l'acido libero la struttura cianica normale, e tenendosi (1) Troviamo opportuno per il momento di usare questa denominazione che non an- ticipa nulla sopra la struttura della sostanza. (2) Nota I. (*) Berichte, 28, 857 (1895). al — 433 — conto d'altronde che le reazioni sintetiche del cianogeno e dei suoi composti alogenati avvengono ancora vivacemente a temperature notevolmente infe- riori a 0°, non era da attendersi un risultato negativo per la sintesi del- l'osotriazolo. Nondimeno i più svariati tentativi da noi fatti in questo senso furono sempre infrattuosi. Comunque avessimo modificato le condizioni della rea- zione, realizzando quelle che le esperienze con gli altri composti cianici e con lo stesso acido prussico ci suggerivano via via come le più favorevoli, in nessun caso ottenemmo un prodotto di condensazione. Noi abbiamo aequi- stato perciò la convinzione che il nostro insuccesso sia dovuto unicamente al fatto che l'acido prussico possiede una struttura diversa da quella nor- male presupposta, cioè la struttura iso-cianidrica C= N.H, ma non pos- siamo entrare in tale discussione senza fare alcune PREMESSE. Ciò che colpì innanzi tutto la nostra attenzione fu senza dubbio la straordinaria lentezza con cui l'acido prussico viene eterificato dal diazo- metano. Così in una prima esperienza, in cui si fece arrivare l'acido gassoso puro in una soluzione eterea di diazo-metano mantenuta a — 5°, non ci fu dato di osservare il benchè minimo sviluppo di azoto, malgrado la soluzione del diazo-composto fosse notevolmente concentrata (circa il 2 °/,). Svapo- rando anzi, da un tubo a condensazione con rubinetti, il nostro acido liquido, piuttosto rapidamente, in modo da accumulare in breve tempo nella solu- zione un eccesso d’'acido, potemmo osservare nel liquido etereo delle strie più dense, provenienti dalla condensazione quasi totale dell’acido prussico, che si muovevano ondeggianti in seno al liquido giallo senza che questo subisse una decolorazione apprezzabile. Uno sviluppo regolare, benchè sempre assai lento, di bollicine gassose s'iniziò solo quando raggiunta, nel modo ora indicato, una notevole concen- trazione di acido prussico, si fece salire gradatamente la temperatura del liquido a pochi gradi sopra zero (0—5°). Conviene notare però a questo proposito che in tale circostanza noi ve- demmo, almeno dapprincipio, una condizione piuttosto favorevole al nostro intento. Com'è stato rilevato precedentemente, riuscì a v. Pechmann di otte- nere il pirazolo condensando il diazo-metano con l’acetilene ('); solo fu ne- cessario tenere a contatto le due sostanze per un tempo abbastanza lungo (24 ore): esperienze precedenti dello stesso autore avevano avuto esito ne- gativo (2) soltanto a causa di un contatto non sufficientemente prolungato. (*) Berichte, 37, 2950 (1898). (*) Berichte, 28, 860 (1895). — 434 — Ora se anche per condensare l'acido cianidrico si fosse richiesto un tempo altrettanto lungo, ciò che a dir vero non farebbe prevedere la sua posizione naturale fra l’'acetilene discretamente attivo ed il cianogeno estremamente vivace, eri (= SI Ill Ill Ill CH N N la possibilità di ridurre a bassa temperatura ad un minimo, durante questo tempo, la reazione di eterificazione, eliminava senz'altro il pericolo che l'a- cido potesse venir sottratto alla reazione sintetica, di addizione, trasforman- dosi anticipatamente in aceto-nitrile. Nella estrema lentezza di eterificazione sopra citata si ha una buona riprova dell’asserzione di Nef, che cioè l'acido prussico sia (in confronto con i suoi sali e con le carbilammine) « un corpo assai pigro » (!) non di meno non potemmo non restare sorpresi di trovare a tal riguardo in v. Pechmann soltanto le laconiche parole sopra riferite, mentre ia reazione in discorso, appunto per la sua estrema lentezza, si discosta notevolmente da tutte le reazioni del diazo-metano con gli acidi anche deboli, e costituirebbe d'al- tronde un caso tutt'altro che frequente di alchilazione d'idrogeno metinico. Ad ogni modo avendo lasciato lungo tempo in contatto le due sostanze, in soluzione eterea, prese solo in quantità equi-molecolari, potemmo osser- vare che il diazo-composto rimaneva affatto indifferente, mentre l'acido an- dava man mano polimerizzandosi. Infatti nel liquido da cui non si svolgono menomamente bollicine d’azoto si manifesta un colorito giallo-bruno, carat- teristico dell'acido prussico in via di polimerizzazione, mentre la presenza dell'eccesso di diazo-metano si può accertare con varî reattivi (jodio, acido acetico, acido piromeconico etc.). Ad evitar ciò fummo indotti a ritornare alle condizioni primitive, ad introdurre cioè in reazione un forte eccesso di acido prussico, banchè in tal modo si verificasse in parte l’eterificazione del- l'acido (anche operandosi a temperatura relativamente bassa, 0—5°). È chiaro però che dopo il risultato negativo avuto nell'esperienza pre- cedente con le quantità calcolate di sostanze, la nostra attenzione era ormai rivolta in modo precipuo, se non esclusivo, a ciò che prendeva origine dal- l'eterificazione. Giacchè, se dall'esperienza più volte citata di v. Pechmann risulta, è vero, la formazione di aceto-nitrile quale unico prodotto (?) di ete- rificazione, 2 comportamento dell’ acido prussico col diazo-metano mostra d'altronde una notevole divergenza dal quadro caratteristico delle rea- (1) Annalen der Chemie, 287, 327-8 (1895). (2) v. Pechmann non asserisce ciò esplicitamente, tuttavia non avrebbe potuto con- cludere per la formula cianica normale se non avesse ottenuto l’aceto-nitrile quale unico prodotto di eterificazione. — 439 — zioni sintetiche con © composti normali del cianogeno, tanto da indurre a una veduta essenzialmente diversa circa la struttura dell’acido libero. Ovvio era allora assodare se l'etere formato nelle condizioni descritte fosse vera- mente l’aceto-nitrile, dappoichè nel dubbio fra due formule di strutture di- verse H—-—C=Ne C=N.H in nessun'altra reazione si potrebbe infatti cercare un criterio più acconcio per decidere. E la ragione di ciò è stata di- scussa da uno di noi, in linea generale, a proposito di alcune esperienze sulla struttura dell'acido cianico libero (!). Aggiungiamo che avendo seguito sempre con particolare interesse le vedute manifestate fino al giorno d'oggi dai varî autori sulla struttura del- l'acido prussico libero, noi avremmo inclinato per la formula iso-cianidrica di Nef, C=N.H, se non avessimo visto nell'esperienza cennata di v. Pechmann un serio argomento, forse l’unico argomento decisivo, per la formula nitrilica. Una volta scossa però tale convinzione del fatto che in nessun modo si riesce a conseguire la sintesi dell’osotriazolo, non era privo d'interesse approfondire l’esame di questa reazione la quale sembra sia stata studiata dal citato autore solo superficialmente. Difatti, abbenchè per le considerazioni da noi svolte, la mancata sintesi faccia senz'altro prevedere l’eterificazione dell'acido non già in aceto-nitrile, come avrebbe trovato v. Pechmann, ma soltanto in metil-carbilammina, non fu senza grande sorpresa, data l'autorità dello scienziato, che constatammo l'isonitrile nel nostro prodotto d' eterifi- cazione. Tanto meno sarà possibile al lettore rendersi conto dell'esperienza di v. Pechmann, quando diremo che nel prodotto della reazione fra acido prussico e diazo-metano è contenuto pure l'aceto-nitrile, tuttavia l'isolamento di questa sostanza, anche in istato mediocre di purezza, è un tal compito che richiama esso stesso l’attenzione dello sperimentatore sulla carbilammina: si è obbligati infatti ad un frazionamento così rigoroso del prodotto grezzo che la presenza dell’isonitrile non può in alcun modo restare inosservata. Ci basterebbe solo citare, astraendo pel momento anche dal punto di ebol- lizione e dal comportamento chimico delle singole frazioni isolate dal pro- dotto grezzo, la spiacevole azione fisiologica a cui andò incontro durante le nostre esperienze quasi tutto il personale del laboratorio (?). Nè mancammo di variare in più modi le condizioni d'esperienza con l’in- tento di realizzare per tentativi quelle in cui y. Pechmann avrebbe otte- nuto soltanto l’aceto-nitrile, ma dovemmo convincerci che /a carbilammina è un prodotto costante, e, dal punto di vista quantitativo, un prodotto non secondario della reazione. (*) Palazzo e Carapelle, Gazz. chim. ital,, 37, I 184 (1907). (2) È noto infatti, già da Gautier, che bastano piccolissime quantità di carbilam- mina — quelle che vengono naturalmente inalate nel loro maneggio — a produrre sul nostro organismo fastidiosi sintomi di disgusto e di malessere. Vi sarebbe inoltre, a quanto pare, una idiosincrasia per individui diversi. — 436 — DESCRIZIONE DELLE ESPERIENZE. Le nostre esperienze di eterificazione possono classificarsi in tre diffe- renti tipi: 1° reazione fra le sostanze allo stato dî gas; 2° reazione in so- luzione eterea; 3° reazione fra il diazo-metano gassoso e l'acido cianidrico liquido, anidro. 1° Alla prima di queste diverse condizioni sperimentali fummo in- dotti dall'odore di carbilammina avvertito in quelle esperienze che, praticate a temperatura molto bassa (—5° —0°), avrebbero dovuto, secondo il nostro primitivo disegno, condurci senz'altro all'oso-triazolo. In tali esperienze in cui, come si disse, si faceva arrivare da un tubo di condensazione a 2 rubi- netti una regolare corrente di gas cianidrico secco in nna soluzione eterea concentrata di diazo-metano, non fu mai osservabile quello sviluppo di bol- licine gassose che è caratteristico delle eterificazioni col diazo-metano. Pur- tuttavia, all'estremità del tubo a cloruro di calcio, col quale si protegge la soluzione del reattivo dall'umidità atmosferica, sì percepiva in modo non dubbio l'odore ributtante della carbilammina. Evidentemente questa pren- deva origine dalla reazione fra le sostanze allo stato di gas; difatti nella boccia di Drechsel con la soluzione eterea di diazo-metano, era sparita ormai al disopra del liquido quell’atmosfera di vapori gialli che sempre si solleva dalle soluzioni eteree molto concentrate di diazo-metano, e che anche in tal caso si era osservata nettamente prima che sì lasciasse adito al gas cianidrico. Ci fu facile del resto procurarcene una riconferma riproducendo l’espe- rienza in una forma ancora più semplice. Una bevuta contenente una solu- zione eterea molto concentrata di diazo-metano, si vuotava rapidamente del liquido in modo che vi rimanesse solo un'atmosfera gialla costituita in massima parte da vapori di diazo-metano, indi s'introduceva qualche /rasione di goccia di acido prussico anidro e si tappava per qualche istante; il color giallo del gas spariva completamente, mentre era nettamente percettibile, anche ap- pressandosi al naso soltanto il turacciolo, l'odore ributtante della metil-car- bilammina. Lo stesso odore si avverte poi nel modo più evidente allorchè l'eterz- ficazione dell'acido prussico col diazo-metano si esegue nel modo consueto, cioè in soluzione eterea, ed anzi nella distillazione del solvente, e più an- cora in quella del prodotto grezzo, tale odore è così penetrante da rendere il lavoro molto penoso. Ciònondimeno fu necessario insistere in un rigoroso frazionamento, non tanto per ottenere la carbilamnina pura, quanto per as- sodare se nel prodotto di eterificazione fosse contenuto altresì l'acetonitrile. Per poter sottoporre al frazionamento una quantità non troppo piccola di prodotto grezzo noi impiegammo 300 cme. circa di soluzione eterea di — 437 — diazo-metano al 2°/. La reazione si eseguì in due riprese: dapprima si aggiunse alla soluzione del diazo-idrocarburo la quantità equivalente di acido prussico (') e si lasciò in contatto per 24 ore alla temperatura ambiente di di 15-20°; trascorso questo tempo senza cho il liquido si fosse menoma- mente decolorato, si aggiunsero ad esso parecchi grammi (circa dieci) di acido prussico, fino a indurre un regolare sviluppo di gas, e si lasciò in riposo ancora un giorno; infine il liquido, che aveva assunto dopo questo tempo un colorito giallo-bruno, si sottopose alla distillazione frazionata. In tal modo si ottennero dapprima numerose porzioni a punto di ebollizione diverso, compreso fra 45 e 79°; da queste, ripetendosi ancora varie volte il frazionamento sistematico, riuscimmo ad isolare infine una porzione 59-62° che ridistillata passò interamente fra 59 e 60°, ed una seconda che, raccolta fra 75° e 78°, passò, ridistillata, a 78-79°. Le altre frazioni si erano accu- mulate man mano in un liquido bollente fra 65 e 75°, da cui non ci fu pos- sibile isolare altre porzioni, giacchè per l'alterazione graduale del suo punto di ebollizione, il volume di liquido era ormai relativamente esiguo per pre- starsi al frazionamento. Al disopra di 79° non ci fu dato d’isolare una sola goccia di liquido giacchè tutto quanto il prodotto era già distillato; resta perciò completamente esclusa sin da ora la presenza dell’oso-triazolo, il quale, nella distillazione del prodotto a bagno maria, avrebbe dovuto rimaner liquido (p. f. 22,5°; p. eb. 203,6° a 715 mm.) nel palloncino. Questo invece, a distillazione completa, su bagno-maria, non conteneva più che un leggero deposito bruno, amorfo, infusibile, evidentemente di sostanza azulmica. Quanto al rapporto in peso fra le due porzioni 59-60° e 78-79° è degno di nota che esse all'incirca si equivalgono, talchè si sarebbe indotti sulle prime a supporre che l'acido prussico nell'eterificazione col diazo-metano fornisca quantità uguali di metil-carbilammina e di aceto-nitrile. Tuttavia, mentre per la prima porzione la natura di metil-carbilammina risulta in modo certo dal suo punto preciso di ebollizione, riguardo alla seconda non sì può @ prior: ritenere che sia costituita da aceto-nitrile. Infatti il suo punto d'ebollizione non è ancora quello dell’aceto-nitrile (80,6°) e coincide invece col punto di ebollizione di una sostanza, l'alcool etilico, la cui pre- senza è costante nelle soluzioni eteree di diazo-metano (?). Ora si compren- derà subito che in un frazionamento tanto rigoroso, quanto quello da noi applicato al liquido di reazione, l’alcool si lascia benissimo separare dal- l'etere e può costituire perciò una frazione bollente a 78°-79°. (!) L’acido prussico da noi adoperato per questa esperienza era stato ottenuto e dis- seccato secondo le indicazioni di Nef (Ann. d. Ch., 287, 326-7) e nella distillazione sopra anidride fosforica passava completamente a 25° (colonna completamente immersa nel vapore). (*) Esso proviene dalla saponificazione dell’etil-carbonato potassico formato al primo reagire della potassa sul nitroso-metil-carbammato di etile. RenDICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 58 — 438 — Per la stessa ragione anche la porzione di mezzo, bollente fra 65° e 75°, avrebbe potuto risultare unicamente di carbilammina e di alcool. Abbiamo dovuto sottoporre dunque le porzioni 65-75° e 78-79° ad un trattamento speciale diretto ad assodare la presenza dell'aceto-nitrile e dell'alcool etilico. Innanzi tutto, 5 o 6 goccie della frazione 78-79° furono distillate sopra acido solforico diluito e bicromato potassico, raccogliendosi le prime por- zioni in poca acqua fredda; il liquido del collettore trattato allora secondo Rimini ('), con nitroprussiato sodico diluito e piperidina, diede la colorazione azzurra caratteristica per la presenza di aldeide etilica. Dopo questo saggio — confortato altresì dall'abbondante precipitato di jodoformio ottenuto dallo stesso liquido nella ricerca dell'alcool secondo Lieben — abbiamo voluto ancora esaminare se il liquido non fosse per avventura costituito da puro alcool, epperò trattammo alcuni decigrammi di sostanza con acido jodidrico secondo Zeisel; da questa determinazione risultò che il nostro liquido bol- lente a 78-79° conteneva solo il 38 °/, di alcool etilico, destinammo quindi la rimanente porzione di liquido 78-79° (mezzo grammo circa) alla ricerca dell’aceto-nitrile. A tal uopo essa venne riscaldata per 2 ore a 150° in tubo chiuso con acido solforico al 50°; per accertare la presenza dell'acido ace- tico distillammo allora per una metà circa del suo volume il liquido sol- forico e dal distillato, di reazione acida spiccata, preparammo poi il sale potassico, evaporandolo su bagno-maria dopo averlo neutralizzato (da una buretta) con una soluzione alcalina concentrata (KOH Sa) Il residuo di sva- poramento diede tutte le reazioni degli acetati (reazione cromatica col clo- ruro ferrico, reazione del cacodile, reazione dell'etere acetico, sale di argento caratteristico) per cui nella porzione 78-79° era difatti contenuto pure l'a- ceto-nitrile. Alla stessa conclusione non possiamo venire invece per ciò che riguarda la porzione di mezzo dal p. eb. 65-75°; infatti questa porzione sottoposta al trattamento sotto indicato non mostrò di contenere il nitrile, mentre po- temmo rintracciarvi quantità non indifferenti di carbilammina e di alcool. Per questa ricerca, alla porzione 65-75° (circa due grammi) posta in un piccolissimo palloncino a distillazione frazionata, aggiungemmo in pa- recchie riprese un forte eccesso di acido ossalico (anidro) con l'intento di ricavarne così, affatto scevro da carbilammina, il nitrile eventualmente con- tenutovi. Infatti è noto che l'acido ossalico reagisce anche a freddo sulle carbilammine, idratandole a sue spese in formammidi sostituite (2) HIIOR 00 RE gr Sì BUN—0< HO—OU OH (1) Annali di Farmacoterapia e Chimica, 1898, 249-51. (3) H. Guillemard, Boll. Soc. chim., 37, I, 198 (1907). — 439 — mentre lascia i nitrili del tutto inalterati. Epperò, cessata l'effervescenza che in questa reazione è caratteristica per la presenza di carbilammina (') noi ri- scaldammo il contenuto del palloncino a bagno-maria bollente, ma in queste condizioni non ci fu dato di raccogliere una goccia sola di liquido. Questo risultato è subito chiarito quando si consideri il prodotto bol- lente a 65-75° come un miscuglio (probabilmente a parti uguali) di carbi- lammina e di alcool etilico; infatti l'isonitrile viene trasformato dall’acido ossalico in metil-formammide col p. eb. molto superiore a 100°, ed anche l'alcool rimane fissato dall’acido ossalico, trasformato cioè in ossalato etilico con p. eb. molto elevato. Non tralasciammo del resto di ricercare l’ossietile nel contenuto del palloncino, ed anzi, avendo eseguito la ricerca saponi- ficandone una parte con potassa ed un’altra con acido jodidrico, potemmo in entrambi i casi rintracciarlo in quantità veramente notevole. Avendo riguardo ora al fatto già menzionato che la porzione 78-79° contiene il 38 °/, di alcool e dato il suo odore non è per altro interamente scevra di carbilammina, mentre la porzione più rilevante 65-75°, esente di nitrile, contiene ancora nna percentuale notevole di carbilammina, non può non apparire sempre più enigmatica l’esperienza di v. Pechmann nella quale si sarebbe ottenuto soltanto aceto-nitrile. Infatti si potrà dal sin qui detto facilmente rilevare: 1° che l’aceto-nitrile rappresenta solo un prodotto secondario della reazione; 2° che esso è inevitabilmente accompagnato da carbilammina e da alcool; 3° che l'isolamento del miscuglio a p. eb. 78-79° e contenente tutto il nitrile formatosi, è subordinato ad un frazionamento dei più rigorosi, talchè, anche mirandosi unicamente a ricavare il nitrile dalle porzioni bol- lenti a più bassa temperatura, l'elaborazione di queste non può lasciare inosservata la simultanea presenza di metil-carbilammina. Ad onta di ciò abbiamo ancora variato le condizioni di esperienza col- l'intento di realizzarne per fentativi qualcuna eventualmente favorevole alla formazione di puro aceto-nitrile, convinti però che tali condizioni non sarebbero state ad ogni modo identiche a quelle tenute da v. Pechmann. Infatti, dalla semplicità con cui questo autore riferisce la sua esperienza non è affatto da arguire che le condizioni di essa siano state diverse dalle solite reazioni d'eterificazione col diazo-metano. Epperò se anche potranno esistere delle condizioni nelle quali dall’eterificazione dell'acido prussico con diazo- metano si ricavi unicamente aceto-nitrile, esse sono certamente da ricercarsi fuori dei modi consueti di operare. Ora precedentemente abbiamo detto che anche nella reazione fra le due sostanze allo stato di gas un prodotto im- (1) Noi potemmo altresi verificare che il gas svolto in tale reazione risultava da ossido di carbonio e da anidride carbonica, facendogli attraversare, successivamente, due soluzioni, una di acqua di barite, l’altra di cloruro ramoso, contenute in tubicini molto piccoli. i — 440 — mediato e costante è la metil-carbilamnina. Non ci restava quindi, nell'in- tento cennato, che sperimentare l’azione del diaso-metano gassoso sul puro acido prussico liquido. Avuto riguardo all'influenza che hanno talora i solventi sui fenomeni di desmotropia, la nuova condizione sperimentale da noi immaginata doveva più che altro sembrare adatta alla genesi di un solo prodotto di eterifica- zione. Infatti l'acido prussico, ‘adoperato in ragguardevole eccesso, avrebbe potuto servire, del pari che l'etere, a mitigare la reazione, fungendo quasi da solvente della parte attiva, senza offrire d'altronde il pericolo di una trasposizione di legami che è temibile in certi casi dai solventi ordinari. Oltre a ciò esso sarebbe stato anche per il prodotto di reazione un solvente assai comodo, potendosi alla fine eliminare facilmente a bassa temperatura. Finalmente anche la sintesi dell'osotriazolo avrebbe potuto essere singolar- mente agevolata dal nuovo modo di operare. La disposizione da noi adottata per la ricerca in parola fu la seguente: il diazo-metano gassoso (!) veniva svolto da 3 cme. di nitroso-metil-uretano alla volta ed attraversava anzitutto un lungo refrigerante ascendente desti- nato a condensare i vapori di alcool e di nitroso-uretano, poscia un tubo a cloruro di calcio, anch'esso destinato ad impedire il passaggio dell'alcool; infine entrava in un collettore con l'acido prussico da un tubo di efflusso che sfiorava appena la superficie del liquido. Il collettore era connesso altresì con un corto refrigerante ascendente, sormontato da un tubo a cloruro dî calcio, e durante il passaggio del gas veniva mantenuto a bassa temperatura (10° a —5°). In tal modo facemmo arrivare sull'acido prussico anidro (40 cme.) il diazo-idrocarburo svolto in 6 operazioni distinte, da 18 cme. di nitroso- metil-uretano ed osserrammo, già sul principio dell'operazione, che la super- ficie dell'acido mostrava qua e là dei piccoli grumi brunastri di sostanza azulmica; il liquido stesso si colorava man mano in giallo sempre più intenso ed alla fine in brunastro. Mentre nell’eterificazione dell'acido prussico sciolto in etere la formazione di sostanze azulmiche ha luogo in proporzioni ben pic- cole, nel caso ora descritto essa avviene invece in misura rilevantissima, ab- benchè la reazione fra le due sostanze, alla bassa temperatura sopra indicata, (1) Il diazo-metano gassoso fu preparato per la prima volta da v. Pechmann (Be- richte, 28, 857) il quale potè anche condensarlo (mediante neve e cloruro di calcio) in goccioline di color giallo-scuro, bollenti verso 0°. In luogo di etere assoluto l’autore fece uso di glicerina anidra e ne scacciò il gas con una corrente d’ idrogeno. Noi seguimmo tale indicazione, utilizzando per spostare il gas ora dell'idrogeno (secco) tolto da un ap- parecchio di Kipp, ora dall’aria (secca e priva di CO.) aspirata fdall’ambiente con una pompa. Nell’un caso e nell’altro avemmo tuttavia da deplorare sinistri incidenti: infatti, sopra dieci preparazioni in cui si partiva soltanto da 3 o 4cme. di nitroso-uretano alla volta, quattro, per motivi che ci restano ancora ignoti, diedero luogo a fomnidabili esplo- sioni da cui fu puro caso se uscimmo illesi. — 4d4l — non dimostri, per il lievissimo sviluppo di azoto, di essere energica ma anzi relativamente blanda. È probabile che la durata dell'esperienza (!) e la pre- senza inevitabile di altre sostanze abbiano avuto pure un'influenza sulla polimerizzazione dell'acido; ad ogni modo è certo che se questa non si compie esclusivamente a spese dell'acido prussico ma riguarda altresì il prodotto di reazione col diazo-metano, tale prodotto non può concorreryi che in misura piuttosto lieve, ottenendosene infatti una discreta quantità dopo completa eliminazione del solvente. Ma ciò che importa sopratutto di notare si è che anche nella condi- zione sperimentale testè descritta, che parrebbe singolarmente propizia alla formazione di un solo etere, e forse anche favorevole alla sintesi dell’oso- triazolo, non si forma traccia di composto triazolico, mentre prendono origine, come nel caso dell’eterificazione in soluzione eterea, farto la car- bilammina quanto il nitrile. Anche l'esclusione di alcool etilico nel prodotto di reazione non è, come noi credevamo, del tutto raggiunta, ed anzi ciò accrebbe, come nelle espe- rienze precedenti, la difficoltà che già offre per conto proprio il fraziona- mento di un miscuglio di metil-carbilammina e di aceto-nitrile. Avendo eli- minato infatti dal liquido di reazione (previamente filtrato) l'eccesso di acido prussico, e sottoposto alla distillazione il residuo così ottenuto (brunastro per sostanze azulmiche) non ci fu dato d’isolare — anche a causa della scarsa quantità di prodotto — che porzioni bollenti solo entro limiti piut- tosto estesi, 55-62°, 62-70°, 70-79°. Ad ogni modo potemmo identificare nelle prime due porzioni di distil- lazione l’'isonitrile mediante l'acido ossalico anidro e nella terza porzione tanto l’alcool etilico quanto il nitrile acetico operando come sopra fu detto a proposito dell'eterificazione in soluzione eterea. Fisica matematica. — Determinazione della deformazione di un corpo elastico per date tensioni superficiali. Nota di Tom- Maso Boccio, presentata dal Corrispondente LEvI-CIVITA. Seguendo l'ordine d'idee, che già mi condusse ad una risoluzione sem- plice (*) del problema della determinazione della deformazione di un corpo elastico isotropo, nel caso in cui st conoscono gli spostamenti superficiali, risolverò ora il problema analogo nel caso, assai più importante per la pra- tica, in cui sozo date le tensioni superficiali. Ridurrò questo problema alla risoluzione di quattro equazioni integrali, del tipo di Fredholm, nelle quali i nuclei sono funzioni armoniche, finite, ecc. (1) Circa 10 ore, anche a causa delle malaugurate esplosioni di cui sopra. (?) Boggio, Nuova risoluzione di un problema fondamentale della teoria dell’ela- sticità (Rendiconti di questa R. Accademia, 2° semestre 1907). — 442 — nel campo considerato, e di cui le quattro funzioni incognite sono la dila- tazione cubica e le tre rotazioni elementari; dalla conoscenza di queste fun- zioni si deducono poi subito le componenti dello spostamento. Supporrò soltanto che si sappia determinare la funzione armonica nel campo dato, e che, sul contorno, assume valori dati (problema di Dirichlet); e la funzione armonica nello stesso campo, la cui derivata normale, sul con- torno, assume valori dati (problema di Neumann). Ciascuno di questi due problemi può, del resto, come è noto, essere risolto mediante un’equazione integrale. Il metodo esposto vale anche nel caso di due variabili, e quindi for- nisce la soluzione del problema di determinare la deformazione di una piastra elastica, isotropa, piana, soggetta a tensioni date, applicate sul contorno, e agenti nel piano della piastra. Poichè inoltre è noto (da ricerche mie e del prof. Lauricella) che questo problema è perfettamente equivalente a quello dell’integrazione della doppia equazione di Laplace, per dati valori, sul contorno, dell’integrale e della sua derivata normale, si conclude che avremo così una nuova soluzione del problema della deformazione di una piastra elastica, isotropa, piana, îin- castrata soggetta a forze date, applicate nei vari punti di essa. 1. Consideriamo un solido elastico isotropo S (non soggetto a forze di massa), limitato da una superficie chiusa o, nei punti della quale sono ap- plicate delle tensioni date, producenti una determinata deformazione del corpo S. Le componenti u,v,%w dello spostamento di un punto qualsiasi di $ dovranno soddisfare, nei punti di S, alle equazioni indefinite: do do do (1) Cine) ri n me ) dswtk7=% - du (2) C) mr ao 4° D ove 7% è una costante. Ponendo poi: di LI(aer de) (de ai ii (Pio a dy gf" AMBEN de © dr) a Cei le (1) possono anche scriversi: k+1d0 , do, do _ k+1d0, do do — (4) 9 ria: TER =0 ’ 9 + da Rsa VA È poi chiaro che dalle (3) segue: (5) — 443 — Le funzioni x,v,w devono inoltre, nei punti di o, soddisfare alle equazioni ai limiti: du _ k—1l,da dy de Eg—( 2 orta) (6) dv k-1,4dy de da CRA sd‘. glz USA, Gal Leda dn 7? ( 2 dn ue TO 2) A ove n è la normale a o, volta all’interno di S, e 41, 9», 93 sono funzioni date nei punti di o, proporzionali alle componenti delle tensioni applicate, e soddisfacenti alle condizioni: (7) fo do=0,... fo — xp) do=0,... necessarie affinchè il solido S, supposto rigido, sia in equilibrio. 2. Ciò posto, il metodo che si presenta più naturale per determinare gli spostamenti u,v,%w è quello di riguardare provvisoriamente come note le funzioni 0, 0,,03,03, e quindi ricavare separatamente le funzioni %,0,w mediante le (1), (6). Sostituendo poi nelle (2), (3) avremo quattro equazioni contenenti soltanto le quattro funzioni incognite 0, ©,,©,, 03, determinate le quali, si avranno subito «,v,%w. Denotiamo intanto con I la funzione preliminare del Dini (!), cioè la funzione armonica e regolare in S, e che su o soddisfa all’equazione: 1 do dn dn 3 ove 7 è la distanza del punto (2,y,) di S dal punto variabile (£, 7,0) pure di S, e c è una costante che si determina subito, e poi poniamo: (8) G=--F, allora sussisterà l'eguaglianza nota (?): du (9) 4ru(e ,Y,2)= fa DE do — fe udS, (1) Chiamo così la funzione I” perchè essa è stata considerata, per primo, dal Dini il quale l’ha pure costruita per alcuni campi; cfr. Dini, Su una funzione analoga a quella di Green (Atti di questa R. Accademia, serie 2°, vol. III, a. 1876). Il Neumann, che introdusse tale funzione più tardi, la chiama /unzione caratteristica. (2) Dini, loc. cit.; oppure: Marcolongo, Teoria matematica dell'equilibrio dei corpi elastici, pag. 30 (Milano, a. 1904). — 444 — purchè però sia soddisfatta la condizione: (10) Sora + f Di de =0. Considerando ora la prima delle (1) e delle (6), si riconosce subito, a causa della prima delle (7), che è verificata la (10), quindi applicando la (9) si trae: s{k_-1 o È d d 4nu= — fe gp, do + f6 5 Ù oÈ n pini 0:%;) do + Li rfef DN, ovvero, trasformando in integrali di volume: a 7 Me—-1d0. dos __ do» È 4nu= — IC pp, do — fG bi o di de De) k—1d6, __ de Y ,d6 JE ‘A peace: nn° _ 0») dS+4 |GEB, cioè ricordando la prima delle (4): È kT—-1 dG' dG' dG' im =— f 91 do — f( 9 TE Dr "de, di 01) 08: 1 al r r e; È Sser = : enendo conto della (8) e osservando che de da’ sì ottiene È Da d 6dS d 0345 d %w, dS hi, inu=— fG 4 do + Ria az ; ao > alb dI | dI' Da Ti + 9 D: de 0dS +(97 030 — rta wydS, e due eguaglianze analoghe per v,% si hanno con permutazioni circolari. È chiaro che il sistema delle (1), (4), (6) è equivalente al sistema delle (4), (11). Sostituendo i valori (11) nella (2) risulta: ing = 214 0dS = d°I' IR d°T [+ 7 i dé Dr sl dz d c) CAR (714) DA d2T RI PF +J di da sE). CI SI da de da 7) scia (_d°T d°D' { 6 = SA da da - E) 284 — 445 — ove H, è funzione conosciuta; ne segue: — 1 d°T' d210 9 ac pa AL 5 le equazioni (1), (2), (3), (6) hanno una sola soluzione. Infatti, dalle (16) si ha (ritenendo @,,:, 3 nulle): Sfilate petto, E) po) po] do— ovvero, trasformando in integrali di volume: SA(dupriu + ito dio l, e, du dz du dos +agt'g "a? ut) + lds—0, cioè, ricordando le (1), (2), (3), (4): (16) SIdut do + 4046-207401 +0) 8 che può ancora scriversi: [bla n) + “HG +9) +-]+(#-3)e|as=o. Da quest'equazione si trae che se E>3 sono nulle le 6 componenti di de- formazione, d'onde segue il teorema enunciato. — 448 — SENIO Hirte:. ; È poi noto che per k=S sì ha, per la sfera, precisamente un polo semplice, quindi, per tale valore, non sussiste più il teorema di unicità. È 1 I poli perciò cadranno tra nei - Si può anche stabilire che i poli debbono essere reali, osservando che se si considerano due quaterne di autofunzioni 0’, 01, 05,03; 0",0/,07,04, corrispondenti a due autovalori 4' e %" diversi tra loro, si può dimostrare che esse soddisfano ad una relazione di ortogonalità. Infatti chiamando « , 0 ,w' ; u",v",w" gli spostamenti ad esse cor- rispondenti, si ha dalle (6): (RAT CARNI Air ME , dy 05) i; si 2 6 E. Sia DE 2 di °° dn +2 RARA trasformando in integrali di volume, come dianzi, si trova: NECA +40 ,0")+4w', + gg di riale (uso, che è analoga alla (16); scambiando w',v",w' con w",v",w%", e quindi X' con %"”, si conclude, essendo #' diverso da 4": feoras = 0. Da questa relazione sì trae subito che gl autovalori sono reali. OssERVAZIONE. — Il precedente metodo d'integrazione è applicabile anche nel caso in cui le equazioni ai limiti siano della forma seguente, più generale della (6): d d d de pagina) ove a, d sono costanti, legate dalla relazione: 24 + (XK +1) 9=2%, neces- saria per la validità delle (7), [o della (10)]. 5. Le considerazioni precedenti valgono pure nel caso di un numero qualunque di variabili. Ad es. per due variabili, l'equazione corrispondente della (12) è: k-1.(2r \ leer n(k+1)60— il dp dn) E — (12°) DI al d°D' diD' lit de da. Las) e po. Li — 449 — ove o è l’area piana che si considera, ed corrisponde ad ws(@, e ©, sono identicamente nulli). Le (13) si riducono poi all’ unica equazione: ke 2f GLI NI d°IT' Masa] (230,1 0 TO e TANN, 1) dose T( vd dI ME de È dy du (13) )ode—x. Le (12'), (13') sono due equazioni integrali del tipo di Fredholm, i cui nuclei sono funzioni armoniche, finite e continue nell'area 0, perciò da esse si possono ricavare le due funzioni incognite 9,@©, dopo di che le formole corrispondenti alle (11) forniranno le funzioni x, v che risolvono il problema della deformazione di una piastra elastica isotropa piana, soggetta a tensioni date, applicate sul contorno. Si può eziandio risolvere la stessa questione in modo più semplice; infatti da ricerche mie e del prof. Lauricella (') risulta in primo luogo, che, supposto risolto tale problema per un valore particolare di / diverso da 0, lo si potrà, mediante sole quadrature, risolvere per qualsiasi altro valore di X (diverso da 0). Ora ad es. per X==1 il sistema (12’), (13’) si riduce alla forma semplicissima: d?°D' (02) (12) z0— ff pe) =? d°T' d°r' (13,) 2710 +/ E + dy n) odo = H ò la (13,) è un'equazione integrale di Fredholm, che permette di ricavare l’unica funzione incognita w che vi figura, dopo di che la (12,) fornirà senz'altro il valore di 6. In secondo luogo, gli spostamenti v,v sono funzioni regolari del para- metro % (il valore X=0 escluso, che è singolare per le equazioni stesse d'equilibrio), perciò si conclude che l’equazione (13,) ha un'unica soluzione, quindi il procedimento precedente fornisce l’unica coppia v,v di funzioni che risolvono il problema proposto. Risulta ancora, dalle ricerche citate, che la questione ora risolta è equi- valente alla ricerca della funzione biarmonica in un'area piana, che sul con- torno assume, colla sua derivata normale, dei valori assegnati; abbiamo dunque così anche una nuova soluzione di quest'ultimo problema. (1) Boggio, Sulla deformazione delle piastre elastiche cilindriche ecc. (Rendiconti di questa R. Accademia, serie 5°, vol. XIII, 2° semestre 1904); Lauricella, Sulle equa- zioni della deformazione delle piastre, ecc. (Id. id., vol. XIV, 1° semestre 1905). — 450 — Matematica. — Sull’equazione del calore. Nota del dott. Eu- ceNIO ELIA Levi, presentata dal Socio LUIGI BIANCHI. 1. La teoria delle equazioni lineari alle derivate parziali di secondo ordine di tipo parabolico è assai più arretrata che la teoria delle equazioni di tipo ellittico ed iperbolico, specialmente dal punto di vista delle funzioni di variabili reali. Per esse invero non si conosce nessun generale teorema di esistenza per date condizioni al contorno: furono studiati soltanto il problema di Cauchy (') ed alcuni classici casi di particolari contorni che si presentano nella teoria analitica della propagazione del calore. Io mi sono proposto di studiare fino a qual punto si possa per queste equazioni costruire una teoria analoga a quella delle equazioni ellittiche ed iperboliche: ed ho cominciato coll’occuparmi della più semplice delle equa- zioni di tipo parabolico: 2 (1) = ag! (04) (=) Mi permetto qui di riassumere in breve i risultati ottenuti, riservan- domi di pubblicare più minute dimostrazioni in un prossimo lavoro. 2. Nessuna limitazione essenziale sì introduce nei nostri studî se al- l'equazione (1) si sostituisce l’altra du 9? () a: poichè quella si può sempre ridurre a questa operando un semplicissimo cambiamento di variabili. Fisseremo quindi d'ora innanzi la nostra atten- zione sopra l'equazione (2). (1) E noi sappiamo che se le funzioni iniziali nel problema di Cauchy non sono analitiche non esistono in generale le soluzioni del problema. Mi corre qui l'obbligo di notare che questo teorema, che io dimostrai nel mio lavoro, intitolato: Sul problema di Cauchy, e pubblicato nei Rendiconti di questa Accademia [vol. XVI, serie 5°, 2° se- mestre], era già stato dimostrato dall’ Holmgren nella Memoria: Om Cauchy?s problem vid de lineîira partiella differentialekvationen al 2: dra ordningen (Arkiv fr Matematik, Astronomi och Fysik, tomo II, 1905). Così pure l'impossibilità del problema di Cauchy per le equazioni ellittiche era già stata notata dall’ Hadamard in una Memoria del Bol- lettino dell’Università di Princeton, che non ho potuto consultare. Anzi questi autori sta- bilirono come la distribuzione dei valori della derivata rapporto ad debba dipendere dai valori della funzione assegnati sulla retta @ = 0 perchè il problema di Cauchy am- metta soluzione. Debbo queste indicazioni al prof. Hadamard. — 451 — Per questa il Volterra (') ha dimostrato che due soluzioni, finite e con- 3 ZUR DI ACE : ; ae tinue insieme colle derivate 3a day le quali nei punti di una curva aperta s, (la quale non sì stenda all'infinito nel senso delle y nega- tive), 2 cui estremi si trovino su una medesima caratteristica e qiaccia tutta al disotto della caratteristica medesima, prendano gli stessi valori sono identiche in tutto il campo S racchiuso da s e dalla caratteristica medesima. Si deducono facilmente di qui due notevoli conclusioni: 1°: il massimo ed il minimo valore che una soluzione dell'equazione (8) — “lo assume in un'area S come quella del teorema precedente non possono es- sere presi che su 8; 2°: una successione di funzioni soddisfacenti all’equazione (2) che converga uniformemente nei punti di un contorno s, converge uniforme- mente in S, e la funzione limite rappresenta una soluzione di (2). 8. Ma la questione più interessante che il teorema precedente ci sug- gerisce è quella di invertire la proposizione medesima: Data una catena continua di valori su una curva aperta s i cui estremi stiano sopra una caratteristica esiste una soluzione di (2) la quale prenda su s è valori assegnati ? Prima di accingerci a rispondere a questa domanda premettiamo qualche osservazione. Si noti anzitutto che, spezzando opportunamente il campo S mediante caratteristiche, noi possiamo ridurre il problema generale al caso più semplice in cui s sia incontrata due sole volte da ogni caratteristica : supporremo quindi s formata da due tratti di curva s, ed s,, situati nel semipiano delle y positive ed aventi l’origine sull'asse delle 7, ed eventual- mente da un tratto dell'asse delle x. Su s; ed s, si avrà rispettivamente a= (49) e = E2(9) (EM) < 8:(9) per y+ 0); quando il contorno non abbia che un punto sull'asse delle x (£,(0) = £:(0)) esso si dirà di prima specie, quando il contorno contenga un tratto dell'asse delle 4 (£1(0) < £(0)) si dirà di seconda specie (*). Indicheremo con s(y,) ed S(y.) le parti di s ed S situate al disotto della caratteristica y = y,: talchè pel teorema del n. 2 i valori in S(y) di una soluzione di (2) sono determinati dai va- lori su s(y1). (1) V. Volterra, Zegons sur l'intégration des équations différentielles etc. professées à Stockholm, pag. 64-65. (3) Resterebbe ancora il caso, che sotto alcuni aspetti è ancora più semplice, in cui s contiene un tratto infinito di una caratteristica ed è incontrata una volta sola da ogni caratteristica diversa da quella: per brevità qui non ne parleremo. — 452 — Ciò posto sì ricordi che, se v(27) è una soluzione dell'equazione do d_ (4) i, , e 4 una soluzione di (2) e con C si indica un campo qualunque il cui con- torno sia c, si ha 5 ; RI PE RON Aid (5) WEOLZIZII 3) dy+ svda. Si applichi questa formula prendendo come campo C il campo S(y') e quale funzione v la funzione _@'-0)? 1 (6) May; alfj=e svn e, Vy —y si deduce facilmente con metodi noti la formula di Green (7) 2V2 (24) ad ff agi) | Es sa oz |dw+sda}— (7)s 0 SY) -J hay; &Y)f(cy) de dy , SCO) la (7), valendo quando il punto (xy) è in S(y°), la (7) quando è fuori di S(y). Inoltre, se il punto (2'y’) è sul contorno, per es.: se è il punto (£,(Y°),y), e se in un intorno di esso s, soddisfa alla condizione che esista un numero finito H tale che sempre si abbia rà ZH possiamo aggiungere che si ha 0): Va EM f. Mer x dea laypode—f( Mey:s N eMdzdy. dI 2(Y Chiameremo condizione (a) la condizione imposta ora al contorno: con- viene notare che gli integrali di (7); hanno senso in forza della condizione (a) medesima. Se in particolare nelle (7) si pone s(2y)="1, otteniamo (8), 27 )= h(xy;% > E a dat, (8)» 0 ey Y){2( ed (8)» Va) (10) — 453 — la cui analogia colla formula di Gauss della teoria delle funzioni armoniche è ben evidente. 4. Siamo ora in grado di indicare un primo metodo per la dimostra- zione del teorema d'esistenza: ci limitiamo per il momento al caso che l'equazione (2) non abbia termine noto, e cioè all’'equazione (3). Dalle formole (8),, (8); segue facilmente un teorema analogo a quello dei potenziali di doppio strato: l'integrale (La O SEM L Ley) ay dove W,(9) è una funzione continua della y, è una funzione finita e con- tinua in tutti i punti del piano fuori di s,: quando il punto (ay) si avvicina ad un punto (£:(Y) 1) în cui s, soddisfaccia alla condizione (a ) si ha lim h(E1( 507! a op ipo (£1(4) 752%) ora LIE (Y) 0 al 0) 2 _ sig) ]w y) dji= €19) = trp +f HEY) Y; È1( (| FT ‘( )dy - 7) $1( y) | ut d Fondandoci su questo teorema è facile ricondurre la determinazione di una soluzione di (2) che prenda assegnati valori su s alla risoluzione di una equazione integrale seguendo il metodo di Neumann-Fredholm. Indichiamo con @;(Y), 92(y), g(#) i valori assegnati per la funzione ri- spettivamente su s,,s, e sul tratto €,(0)...&s(0) dell’asse delle #, con wi(Y), w:(y) due funzioni da determinarsi convenientemente; e vediamo di porre la funzione cercata sotto la forma sen, (F1(9) 9; DE 0 = na 59) |vl y) dy— (11) —{ emy: con — n 5 ) | )dy— sa d=— + or 527) p(a) de i i È, 00) Questa funzione prenderà sull'asse delle 4 i valori assegnati qualunque siano le w,(y) e w:(y): mentre la condizione che il limite della funzione (11) su s) ed s» sia rispettivamente a @;(y) e 42(7), si traduce per la for- RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 60 (12) us — mula (10), quando s/ supponga che s, ed ss soddisfacciano ovunque alla condizione (a), nelle equazioni integrali 3Yi wi(%1) all <= [N (Y1) ”)y; i %) n) tin P7 "a vi(9) dy Ta ra 2 1 1 (Y 2 )d si $3(Y1) MAZZIZ DE cen 2(%1 cioe 30) |P:0) do 1 6a(0) TA) ea VELIEZATO) Lan Da 2(41) — S1(9) Sa | DA 5 Y:(%1) +7 [Sa È 2(Y1) 7 DIE? — (9) | wW(y) dy -J. © cisl o | tivi a e v tali che | <»v, la î(x'y) ammette le (') E. E. Levi, Sul problema di Cauchy, n. 5 (R. Accademia dei Lincei, vol. XVI, serie 2°). Vedi anche Holmgren E., Om Cauchys problem ecc. (Arkiv for Matematik ecc., tomo II). (?) E. E. Levi, Sulle equazioni lineari alle derivate parziali totalmente ellittiche (Rendiconti Lincei, vol. XVI, serie 2°, e Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, tomo XXIV). — 457 — Chimica. — Eterificazione degli ossiazocomposti per mezzo del solfato dimetilico ('). Nota di AxmEDEO CoLomBANO, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. L'eterificazione degli ossiazocomposti sì soleva, sino ad oggi, fare per mezzo della nota reazione degl’ ioduri alcoolici sui sali alcalini dell'azocorpo, però questo processo è alquanto lungo, il rendimento quasi sempre scarso e gli eteri che si ottengono si purificano difficilmente per i prodotti secondari cho contemporaneamente si formano. Allo scopo pertanto di avere più facilmente e con maggior rendimento un certo numero di eteri di alcuni azofenoli, a me necessari per altre ri- cerche, ho voluto tentarne l’eterificazione per mezzo del solfato dimetilico, col quale oggi vantaggiosamente si sono sostituiti i metodi di eterificazione dei fenoli, degli acidi, ecc., ed i risultati ottenuti in questo tentativo sono stati invero molto soddisfacenti. Basta in generale agitare in un imbuto a rubinetto, per breve tempo, la soluzione alcalina dell’azofenolo con un piccolo eccesso sulla quantità calcolata di solfato dimetilico, per avere quasi sempre un abbondante preci- pitato che raccolto, lavato e cristallizzato una o due volte al più dall'alcool è l’etere puro. Altre volte invece è necessario variare le condizioni; così ad es. per i derivati azoici ottenuti dai fenoli in cui la posizione para all'ossidrile è occupata da altro radicale e nei quali, come è noto, il gruppo azoico va a fissarsi in posizione or/o. À causa della proprietà che in tal caso questi orto- azocorpi presentano, di essere cioè quasi del tutto insolubili a freddo negli idrati alcalini e di separarsi, durante il raffreddamento, per idrolisi, dal sale che si ottiene all'ebollizione; l’eterificazione di questi composti, a differenza degli isomeri para, è alquanto più difficile ed il rendimento talvolta scarso. In questo caso si può però eterificare l’ossiazo od operando a caldo o meglio partendo dal sale alcalino sciolto in alcool assoluto. Per quel che riguarda l’eterificazione mediante il solfato dimetilico, dirò che se da molti anni è nota la proprietà di questo etere composto di reagire già a freddo e più rapidamente dei derivati alogenati degli alchili, non solo coll’ossidrile (2) e cogli aminogruppi (3), ma anche, in determinate (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio chimico-farmaceutico dell’ Università di Ca- gliari diretto dal prof. Luigi Francesconi. (2) Annalen, 309, 186 (1899); Berichte, 22, 2476 (1900); Annalen, 327, 104 (1903); Berichte, 33, 3888 (1900); 33, 1667 (1902); 35, 3901 (1902); 37, 4144 (1904); Mon. 23, 388 (1902); Annalen, 822, 269 (1902); Mon., 25, 476 (1904); Annalen, 340, 244 (1905). (3) Berichte, /3, 1700 (1880); D. R. P., 102, 634 (1898); Mon., 22, 494 (1901). — 458 — condizioni, coi lattoni ('), tuttavia non era mai stato applicato, a che io sappia, per eterificare gli ossiazofenoli, gli aminofenoli, eec. Parimenti non s'era mai impiegato per ottenere gli eteri degli ossiacidi copulati col diazonio sale, mentre già Dumas e Peligot (*) avevano preparato in questo modo, l'etere dell'acido benzoico, Bulow (*) quelli dell’acido 3. 5. diossibenzoico, Werner e Seybold quelli di diversi ossiacidi e così molti altri ancora. Volendo colmare questa lacuna, ho nello stesso tempo trovato un me- todo rapido ed elegante per la preparazione degli eteri degli ossiazocomposti e dei derivati azoici degli acidi ossibenzoici (4) il cui studio è oggi attiva- mente seguito in molti Laboratori. bstenderò ancora lo studio della suddetta reazione ed insieme quella del solfato dietilico su questi composti. PARTE SPERIMENTALE. p. ossiazocom posti. I. Benzolazofenolo e solfato dimetilico. Il benzolazofenolo fu preparato nel modo già noto (*), diazotando cioè l'anilina (gr. 10 in ce. 22 di HCl al 36 °/) con nitrito sodico al 20° (50 cc.). Il diazonio sale ottenuto fu versato a poco a poco nella soluzione sodica del fenolo, contenente il fenolo (gr. 10 sciolto in 45 ce. di soda) al 20 °/. Si ottiene così subito l’azoderivato che cristallizzato dall'alcool fonde a 150°. L'eterificazione per mezzo del solfato dimetilico avviene prontamente ed il rendimento è teorico. Gr. 4 (1 mol.) dell’azofenolo vengono sciolti in 15 cc. d'idrato potas- sico al 10 °/ (14 mol. circa) ed alla soluzione limpida vengono aggiunti cc. 2,19 (d. 1,80) di solfato dimetilico (14 mol. circa). Si forma, dopo qualche minuto, un intorbidamento che aumenta agitando fortemente il miscuglio in un imbuto a rubinetto. Lasciato qualche tempo in riposo, questo precipitato viene quindi rac- colto su filtro, lavato con soluzione di potassa e con acqua e cristallizzato (1) Patente francese, 291, 690 (1889) E. P., 16,068 (1899) alchilazione di dialchil- rodamine; Berichte, 27, 4086 (1904). (2) C., 1885, 279. (8) Berichte, 33, 3901. (4) Vedi Nota seguente. (5) Gazz. chim. 1905, II, 603. — 459 — dall'alcool. Si ottiene così facilmente puro in scagliette madreperlacee, giallo- lucenti che fondono a 56°. Analisi: Sost. gr. 0,1965; CO; gr. 0,9287; H;0 gr. 0,1088, Trovato °/o Calcolato per C3H130N: 0. 73,93 73,98 HE 6,15 5,66 È dunque l’etero metilico del benzolazofenolo già descritto da Scichilone (!) che lo ottenne per azione dell’ioduro di metile, a ricadere, sul sale potassico dell’azofenolo. Il prodotto ottenuto è solubilissimo nei solventi organici più comuni, insolubile in acqua e negli idrati alcalini. Il rendimento, come ho detto, è teorico. II. Fenol 2-4 disazobenzol e solfato dimetilico. Il fenol 2-4 disazobenzol OH TOCENCN=.c,H? La E E; erasi ottenuto per azione del cloruro di dizzobenzene sulla soluzione sodica dell'acido p. ossibenzoico. Come è noto (2), per la spiccata tendenza che nella copulazione coi fenoli ha il gruppo azoico di occupare la posizione para rispetto all'ossidrile ; nel caso dell'acido p. ossibenzoico in cui questa posizione è occupata dal — COOH, si ha che il gruppo azoico vi si fissa eliminando anidride carbonica e perciò, invece del derivato azoico dell’acido, si ottiene il derivato azoico del fenolo. (°) Gazz. Chim., XIII, 107. (2) Berichte, 24, 1695. — 450 — La maggior parte delle volte però insieme a detto azocomposto si hanno notevoli quantità di diazofenolo: OH OH OH Z COS /NTN=N- GB; | -L8/0;H, — N = NBGI | | sp | 9| 2 A N COOH BIN <"0a8° ‘N=N- CH + 200, + 3HC1. Basta far bollire il miscuglio con soluzione di carbonato sodico, in cui il benzolazop.fenolo è facilmente solubile, filtrare, lavare con acqua il residuo e cristallizzare dall'alcool. Si ottiene così puro il fenoldisazobenzol in bei cristallini rosso-bruni lu- centi che fondono a 131° ('). La preparazione dell'etere metilico di questo diazofenolo avviene facil- mente operando nel modo già descritto. Gr. 3,02 di benzoldisazofenol vengono sciolti a caldo in 10 ce. di KOH al 10 °/, ed alla soluzione limpida contenuta in imbuto a rubinetto, vengono aggiunti ce. 1, 2 di solfato. Agitando fortemente, dopo pochi minuti il colore della soluzione cambia, imbrunendo, mentre va formandosi un precipitato abbondante che raccolto dopo qualche tempo, lavato bene con potassa e cri- stallizzato dall'alcool fonde a 110°. È una polvere giallo-chiaro, facilmente solubile nei solventi organici, insolubile in acqua e negli idrati alcalini. Il rendimento è teorico. L'etere metilico del benzoldisazofenolo era noto ed era stato preparato col solito metodo degl’ioduri alcoolici. Le sue proprietà corrispondono esatta- mente al prodotto da me ottenuto, III. Bensolasoguaiacolo e solfato dimetilico. Il benzolazoguaiacolo è stato preparato e purificato nel modo descritto nella Nota pubblicata in collaborazione con Leonardi (*). Gr. 4,56 di benzolazoguaiacolo puro, vengono sciolti in cc. 17 di KOH al 10 °/ ed alla soluzione si aggiungono ce. 2,18 di solfato. Si forma subito un precipitato oleoso che aumenta agitando per lungo tempo l'imbuto a ru- binetto. All'indomani l'olio bruno, quasi nero, viene lavato con potassa fino a che le acque filtrate passano limpide. La parte oleosa tenuta quindi in un miscuglio frigorifero dopo poco si solidifica in una massa rosso-bruna che (1) Berichte, XXIV, 1695. (?) In corso di stampa. — 461 — facilmente si polverizza. Dall’alcool si presenta in cristallini lucenti rosso- bruni: meglio cristallizza dalla ligroina in mammelloni rosso-granato, fragili : p. f. 530-540. È facilmente solubile in alcool, etere, cloroformio, ligroina, benzina a caldo, ecc., insolubile negli idrati alcalini e nell'acqua. Il rendimento è quasi teorico. L'etere metilico del benzolazoguaiacolo, corrispondente al benzolazove- ratrol, era noto ed era stato ottenuto col solito metodo degl’ioduri alcoolici da Jacobson, Jaeniche e F. Meyer ('). Il prodotto però da loro descritto fonde a 44°,5-45°. Ne studio i prodotti di riduzione. IV. o. nitrobenzolazoguaiacolo e solfato dimetilico. L'o. nitrobenzolazoguaiacolo è stato descritto nella Nota già citata (?). Gr. 3,8 di questo corpo si sciolgono in 20 ce. di KOH al 5 °/,; a so- luzione completa si aggiungono quindi cc. 1,5 di solfato dimetilico e come al solito si agita fortemente in un imbuto a rubinetto. Dopo quindici o venti minuti circa si forma un abbondante precipitato pesante, aderente alle pareti, di color bruno, mentre la soluzione primitiva era di un bel colore rosso- granato. Raccolto all'indomani, lavato con potassa e cristallizzato due volte dal- l'alcool, si ha puro. Analisi: Sost. gr. 0,2582; CO» gr. 0,5516; H:0 gr. 0,1145. da cui: Trovato °|o Calcolato per C14H13N30: C. 58,24 58,53 J8L 4,88 4,52 Bellissimi cristallini lucenti, rosso-bruni p. f. 152°; insolubile tanto a freddo che a caldo in acqua e negli idrati alcalini, facilmente solubile nei solventi organici più comuni. Insolubile in acido cloridrico diluito e concen- trato; in acido solforico concentrato si colora in rosso-granato vivo e per ag- giunta di acqua si ha un precipitato giallo-chiaro, mentre lo stesso saggio fatto coll'azofenolo di partenza dà un precipitato rosso. V. 8. naftilazoguaiacolo e solfato dimetilico. Gr. 5,50 di £.naftilazoguaiacolo preparato nel modo descritto nella Nota suddetta, vengono sciolti, in un imbuto a rubinetto, in una soluzione di (1) Berichte, 29, 2686. (*) In corso di stampa. RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 61 — 4602 — gr. 1 di KOH, ed alla soluzione limpida si aggiungono gr. 3 di solfato di- metilico. Quando le prime goccie di esso cadono nel liquido sì nota una viva colorazione azzurro-viola che subito sparisce mentre la soluzione si riscalda sensibilmente. Agitato il miscuglio sì forma presto un abbondante precipitato giallo che raccolto, lavato come al solito con soluzione di KOH e con acqua e quindi cristallizzato da alcool, si ottiene subito in bellissimi, lunghi cristalli aghiformi rosso-aranciati che fondono a 103°-105°. Analisi: 1) Sost. gr. 0,1649; CO.. gr. 0,4462. 2) Sost. gr. 0,1946; CO.. gr. 0,5250; H.0 gr. 0,1035. Trovato ®| Calcolato per C1sHisNs0» C.. 73,74, ‘113558 73,94 H. — 9,90 5,47 Il prodotto ottenuto presenta tutti i caratteri dell'etere metilico del f. naftilazoguaiacolo : 0CH; ag N P' 40 NAM NN È completamente insolubile negli idrati alcalini tanto a caldo che a freddo ed in acqua, facilmente solubile in alcool e nei solventi organici più comuni. o. ossiazocom posti. L'eterificazione degli o. ossiazocomposti, come ho già detto, presenta qualche difficoltà che non si ha per i p. ossiazo. Per evitare perciò l'idrolisi del sale, ho cercato di preparare gli eteri ossidi di alcuni o. ossiazoeugenoli, gentilmente favoritimi dal collega Puxeddu, come di molti altri o. ossiazocomposti che avrò occasione di descrivere nella prossima Nota, facendo la soluzione dell'azocorpo in alcool assoluto e ver- sando questa in una soluzione di alcoolato sodico in piccolo. eccesso. Alla soluzione limpida che già a freddo quasi sempre si ottiene, veniva quindi aggiunta, in un imbuto a rubinetto od in una boccia a tappo smerigliato e poi agitando fortemente per qualche tempo, la quantità calcolata di solfato dimetilico. — 463 — Talvolta però per accelerare e completare la reazione è necessario ri- scaldare per qualche ora il miscuglio, dopo di che distillato l'eccesso di alcool il residuo si versa in acqua, si filtra, si lava a lungo con soluzione diluita di potassa e si cristallizza dall'alcool. Il rendimento, come già ho detto, varia col variare del gruppo azoico copulato col fenolo e dei diversi radicali, positivi o negativi ad essi uniti. Aggiungerò ancora che di alcuni di questi o. ossiazocomposti, per quanto ne abbia ripetuto la prova, non sono riuscito ad avere gli eteri corrispon- denti: sia ciò dovuto alla natura stessa del prodotto (!) od a difficoltà spe- rimentali è quanto si vedrà meglio nella prossima Nota. VI. p. bromobensolazoeugenolo e solfato dimetilico. Gr. 2 di p. bromobenzolazoeugenolo puro vengono sciolti in circa 50 ce. di alcool metilico assoluto e la soluzione ottenuta sì unisce a quella, pari- menti in alcool assoluto, di 1 grammo circa di sodio. Si aggiunge quindi la quantità calcolata in piccolo eccesso, di solfato dimetilico e si riscalda per un'ora circa il miscuglio a bagnomaria. Discac- ciato l'eccesso di alcool e versato il residuo in acqua si ottiene una massa bruna che dopo lavaggio con KOH, cristallizzata dall'alcool fonde a 92°-94°. Cristallizzato una seconda volta dal benzolo, insieme con dei cristallini netti di p. bromobenzolazoengenolo inalterato, si ha una massa giallo-chiara costituita da minuti cristallini lucenti che fondono a 92°-94°. Analisi: Sost. gr. 0,3136; CO», gr. 0,6480; H.0 gr. 0,1384. Trovato °|o Calcolato per C,:H,:N0sBr. C. 56,34 06,50 HE 4,97 4,70 VII. m. silolazoeugenol e solfato dimetilico. Il prodotto era stato ottenuto nel modo descritto da Oddo e Puxeddu (?) e fondeva a 108°. Disciolto in alcool metilico assoluto si aggiunge alla solu- zione un piccolo eccesso, sulla quantità calcolata, di metilato sodico sciolto pure in alcool assoluto; quindi a poco a poco il solfato dimetilico in piccolo eccesso riscaldando leggermente. Si agita ancora per qualche tempo il mi- scuglio e dopo un'ora circa, distillato l'eccesso di alcool si versa il residuo in acqua. Si forma un precipitato oleoso, che raccolto, lavato e cristallizzato fonde a 56°. (1) Vedi Gazz. Chim., XXXVI, (1906), parte II, pag. 1. (2) Gazz. Chim., XXXVI, II, 34. — 464 — Analisi: Sost. gr. 0,4683; CO. gr. 1,2612; H,0 gr. 0,2955. Trovato do Calcolato per CisHssN20» (07 73,43 73,54 HS 708 7,09 L'etere metilico dell'’m. xilolazoengenol si presenta come una polvere rosso- mattone costituita da minuti cristallini. Agitato con una soluzione di potassa si colora lentamente in rosso a temperatura ordinaria, più rapidamente alla ebollizione. La soluzione ottenuta, filtrata ed acidificata con acido cloridrico diluito si decolora, mentre si ha un leggero precipitato oleoso che per la piccola quantità non potei riconoscere se era o no l’azoeugenolo primitivo. Chimica. — Sopra gli idrati del solfuro di sodio. Nota di N. PaRRAvANO e M. FORNAINI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Il più conosciuto degli idrati del solfuro di sodio è il noveidrato ('). Si trova fatto cenno anche di idrati con 6, 5/,, 5 e 4!/, H:0, ma le no- tizie che se ne hanno sono molto scarse e spesso contradittorie. Finger (*), mettendo a cristallizzare una soluzione di soda per la quale aveva fatto passare idrogeno solforato, ottenne per primo un composto con meno acqua del noveidrato, e ad esso attribuì la composizione dell’esaidrato. Sabatier (*) ripetè la preparazione, ricristallizzando il noveidrato da una so- luzione di soda, e chiamò invece pentaidrato il sale ottenuto. In seguito Bòottger (‘) ha indicato la preparazione del cinqueidrato da una soluzione alcoolica di soda; ma i risultati analitici che egli riporta, come pure quelli che riporta Sabatier, si avvicinano più alla composizione di un 5!/, anzichè a quella del 5 idrato. Gòttig (°), che si è occupato per ultimo dei gradi di idratazione del solfuro di sodio, ha asserito l’esistenza di idrati con 6, 5!/» e 5H:0 ottenibili da soluzioni di soda in alcool di diverse concentra- zioni. Del 4'/, idrato si sa soltanto (5) che si forma per disidratazione del noveidrato nel vuoto sopra acido solforico. Ultimo nella serie viene il solfuro anidro: il più puro ottenuto è quello di Sabatier che contiene 96,5% di Nas S. (1) Dammer II, 2, 148. (*) Pogg. Ann., 128, 635. (3) Ann. Chim. Phys. [5] 22, 15. (4) Lieb. Ann. 223, 335. (5), Prakt. [2] 34, 229. (5) Sabatier, loc. cit. — 465 — Appare giustificato perciò il desiderio di accrescere le nostre conoscenze sugli idrati del solfuro di sodio, per poterne anche definire con lo studio sistematico gli stati di equilibrio. Questo studio sistematico presenta difficoltà che aumentano col crescere della temperatura per l'attacco del vetro da parte del solfuro, il quale attacco può alterare i risultati e renderli poco attendibili; ma le ricerche che per ora esponiamo si limitano ad un intervallo di temperatura in cui questo inconveniente non è a prendersi in considerazione. Noi abbiamo com- piuto e riferiamo le ricerche che riguardano i limiti di esistenza e le condi- zioni di stabilità degli idrati con 9, 6 e 5'/ H,0, in un intervallo di tem- peratura che va da — 10° a + 94°. Come vedremo, le proprietà di questi idrati, quali si deducono dal diagramma che abbiamo stabilito, oltre a presentare interessanti caratteri- stiche teoriche, ci indicano i metodi razionali di preparazione degli idrati con 6 e 5!/» H:0, e ci dànno anche spiegazione dei risultati differenti dei diversi autori. Na, S.9H;0. Si ottiene in prismi ed ottaedri quadratici voluminosi per cristallizza- zione delle soluzioni a temperatura ordinaria. La sua soluzione satura con- gela a — 10° nel crioidrato il quale contiene il 9,34°/, di solfuro anidro. Agitato in termostato con acqua ha dato questa serie di soluzioni sature : t Nas S°/o 10° 13,36 15 14.36 18 15.30 22 16,20 28 17,73 32 19,09 37 20,98 45 24,19 Le concentrazioni delle soluzioni sono espresse in sale anidro in 100 grammi di soluzione. Per le determinazioni di solubilità ci siamo serviti di un termostato che poteva mantenersi a temperatura costante per mezzo di un termoregolatore a mercurio. Il termostato era fornito di apparecchio di rotazione per agitare il recipiente con la soluzione. Il sale veniva agitato con acqua dentro pe- safiltri tappati con paraffina, oppure in tubi chiusi alla lampada. L'agitazione veniva prolungata per 8-9 ore; dopo 5-6 ore si faceva la prima pipettazione, e successivamente dopo 7-8 ore si esaminavano le altre prove. Lo zolfo è stato dosato iodometricamente. Il sodio, quando è stato determinato, è stato dosato come solfato. Però, specie nelle determinazioni — 466 — di solubilità, il più delle volte abbiamo dosato iodometricamente lo zolfo, e da esso siamo risaliti al solfuro anidro. Scaldando il noveidrato sì ha un liquido che tiene in sospensione una quantità abbondante di cristalli di aspetto diverso da quelli del nove- idrato. Per determinare questa temperatura di trasformazione scaldammo il sale in un tubo da saggio a bagno d'acqua. Nel sale erano immersi agita- tore e termometro, e durante tutto il riscaldamento per la provetta passava una forte corrente di idrogeno. Il termometro sale continuamente finchè a 489,9 la salita si arresta. Si vede il sale fondere lentamente mentre sul fondo del liquido si depositano cristalli di aspetto differente. Continuando a scaldare, verso 80° la fusione è completa. Se si lascia raffreddare il sale fuso, il termometro non si ferma più a 48°,9, ma la temperatura può con- tinuare a discendere notevolmente al di sotto. Si ha così un notevole ritardo nella ritrasformazione dell’idrato inferiore stabile alle temperature superiori in quello con 9H;0 stabile al di sotto di 48°,9. Questo ritardo può essere più o meno rilevante; qualche volta si è spinto fin verso i 42°. L'aggiunta di un cristallino di noveidrato basta però a interrompere lo stato labile di equilibrio: il termometro risale allora rapidamente e resta buon tempo fermo attorno a 47°-48°. Per stabilire quale fosse il prodotto della trasformazione, si fuse il no- veidrato in termostato a temperatura superiore a 49°, e si raccolsero e ana- lizzarono i cristalli risultanti, i quali dimostrarono avere la composizione del 5 !/, idrato. Perciò a 489,9 il noveidrato si trasforma in 5!/, idrato. Na, $.6H 0 Noi lo abbiamo ottenuto agevolmente nelle due maniere seguenti: da una soluzione di soda in alcool al 75 °/, facendovi gorgogliare una corrente di idrogeno solforato, con che il liquido si riscalda fin verso 42°-44° e sì tra- sforma in una pappa di fini aghi cristallini splendenti come la seta; oppure ricristallizzando il noveidrato da una soluzione di soda. Nel secondo modo 30 gr. di soda si disciolgono in 100 di acqua; si riscalda Ia soluzione a 60°-65° e vi si discioglie una discreta quantità di solfuro noveidrato. Si filtra per lana di vetro e si lascia in riposo: quel che cristallizza nella quasi totalità della volte è esaidrato. È stabile come fase solida al fondo di soluzioni sature da circa 48° in su; al di sotto di 48° si trasforma in noveidrato. Ha dato questa serie di soluzioni sature: t NasS °|o 90° 26,70 60 28,10 70 30,22 80 32,95 90 36,42 — 4607 — Le determinazioni di solubilità sono state fatte portando prima l’acqua alla temperatura del termostato, ed aggiungendo quindi ad essa tanto sale che ve ne fosse sempre in quantità sufficiente sul fondo. Scaldato in tubo da saggio verso 91°,5 si rammollisce in una massa pa- stosa che non dà una buona aderenza col termometro; in corrispondenza di questa modificazione nell’aspetto del sale si nota un arresto sensibile nel- l'ascesa della colonna di mercurio del termometro. A questa temperatura perciò l’esaidrato si trasforma. La massa pastosa risultante è stata succhiata a caldo sopra un cono di platino; i cristalli avuti sono stati asciugati rapidissimamente fra carta ed hanno dimostrato all'analisi la composizione del 5 !/, idrato. A_91°,5 l’esai- drato si trasforma quindi in 5 !/, idrato. Nas S . 5 1/g H,y (0) Come l’esaidrato anche il 5 !/, idrato lo abbiamo preparato per due vie diverse: da una soluzione di soda in alcool al 95 °/, facendovi gorgogliare idrogeno solforato, e ricristallizzando il noveidrato da una soluzione di soda. Questa però viene scaldata fin verso i 100° e in essa si discioglie una quantità di noveidrato molto maggiore di quando si prepara l’esaidrato. Perciò ricristallizzando il noveidrato da una soluzione di soda possono aversi en- trambi gli idrati con 6 e con 5’/»H:0; il formarsi dell'uno o dell'altro dipende dalla concentrazione della soluzione di solfuro che sì fa cristalliz- zare: la soluzione più concentrata separa il 5!/, idrato. Vedremo che la posizione relativa di questi due idrati nel diagramma ci dà ragione perfet- tamente di questo comportamento. Il 5 !/, idrato è in aghi allungati trasparenti. Essi diventano però facil- mente opachi non appena tirati fuori dalle acque madri. Le determinazioni di solubilità sono state fatte o agitando in termostato il noveidrato, il quale, come si è visto, a 48°,9 si trasforma in 5 1/, idrato, oppure, come per l’esaidrato, portando prima l'acqua alla temperatura del termostato, e poi aggiungendovi tanto sale che ne rimanesse sempre a suffi- cienza indisciolto. t Nas S%o 509 28,48 05 29,27 60 29,92 70 31,98 80 33,95 90 37,20 Il limite superiore di esistenza del 5 !/, idrato è 94°,0. Riscaldato come i precedenti in una provetta in corrente di idrogeno a 94° il termometro che vi è immerso si arresta, mentre il sale, fino allora secco, assume l'aspetto — 468 — di una massa pastosa. Questa è stata succhiata a caldo nel solito modo, ed i cristallini risultanti hanno dimostrato la composizione del 5 idrato. Perciò verso i 94° il 5/, si trasforma in 5 idrato. Le determinazioni di solubilità sopra riportate ci permettono di stabi- lire il seguente diagramma: SR: gi .cani Il noveidrato può esistere come fase solida al fondo di soluzioni sature da — 10° a + 489,9. A questa temperatura, in C, la curva del 5 !/, taglia quella del noveidrato; e infatti il noveidrato a 48°,9 si trasforma in 51/% idrato. Però a una temperatura di poco inferiore, e cioè verso i 48°, in B, anche la curva del 6 taglia quella del 9 idrato; e quindi il noveidrato quando viene scaldato, anzichè a 48°,9 in 5 !/» idrato, dovrebbe trasformarsi verso i 48° in esaidrato. Questa trasformazione invece non si verifica, ed il solfuro di sodio noveidrato offre perciò un esempio di ritardo in una trasfor- mazione che si compie con assorbimento di calore. Sono molto rari i casi di ritardo in trasformazioni di questo genere: non se ne conoscono nella fusione di composti omogenei, e se ne ha solo qualche esempio nelle trasformazioni di alcuni idrati più ricchi in altri più poveri di acqua. Il solfato di torio noveidrato (!) e il solfato uranoso otto- idrato (2) possono esistere in equilibrio labile rispetto a idrati inferiori per un esteso intervallo di temperatura; e gli idrati Ca Cl» .6H,0 , Nas C0;. (') Roozeboom, Zeit. Phys. Ch. 5, 198. (2) Giolitti, Gazz. Chim., 25, II, 162. L 469 — 10H,0 , Na;S0,.10H:0 ('), poco prima del punto di fusione, dovrebbero scindersi in un idrato meno ricco di acqua e soluzione, ma per il ritardo che può subire questa trasformazione si riesce ad osservare il punto di fu- sione normale di essi. Parimenti il solfuro di sodio noveidrato, poco prima del punto di trasformazione in 5 */y-idrato dovrebbe scindersi in esaidrato e soluzione; ma, per il ritardo che subisce questa trasformazione, si riesce ad osservare l’altra in 5!/s-idrato. Il ritardo si estende per circa un grado da 48° a 489,9 lungo il tratto BC, e perciò i limiti dell’esistenza stabile del noveidrato sono inferiormente il punto crioidratico a — 10°, e superior- mente 48°: da 48° a 489,9 il noveidrato è labile rispetto all’esaidrato. La curva dell’esaidrato è nel diagramma inferiore a quella del 5 '!/, idrato: perciò il primo è stabile fra 48° e 91°,5, e il secondo è labile da 489,9 a 919,5, e solo da 91°,5 a 94°,0 rappresenta la forma stabile. Però anche da 48°,9 a 91°,5 non può dirsi che il 5!/y-idrato sia propriamente labile di fronte al 6-idrato, data la differenza di solubilità abbastanza pic- cola, e dato il fatto che nelle determinazioni di solubilità il 5%/, idrato non sì è mai alterato. Il decorso molto avvicinato delle due curve per un lungo intervallo di temperatura porta con sè che in questo intervallo dalle soluzioni di solfuro può separarsi o l'uno o l’altro dei due idrati, e per determinare la precipi- tazione separata di ciascuno di essi occorre aver riguardo alla soprasatura- zione che provoca la. cristallizzazione dell’idrato più solubile. Infatti noi abbiamo preparato gli idrati con 6 e 5!/» H:0 allo stesso modo, ricristal- lizzando cioè il noveidrato da una soluzione di soda. Per avere l'uno o l’altro abbiamo solo variato la concentrazione della soluzione; dalla soluzione più concentrata si separa il 5/,-idrato che è il più solubile. Si spiega perciò a questo modo perchè Finger e Sabatier, facendo cri- stallizzare il solfuro da una soluzione di soda, giunsero a risultati diversi: le soluzioni che essi misero a cristallizzare erano diversamente concentrate e fornirono quindi all'uno il 6 idrato, e all’altro un composto che egli chiama cinqueidrato, ma del quale cià in principio abbiamo fatto notare che le per- centuali analitiche si avvicinano di preferenza alla composizione del 51/,- idrato. (1) Roozeboom, Rec. Pays Bas, VIII, 1; V. anche Z. Phys. Ch. 4, 36 e 40. (or) (No) RenpicontI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. — 470 — Embriologia vegetale. — Su/ Sechium edule Sw. Nota del prof. B. Lonco, presentata dal Socio R. PIROTTA. Studiando le Cucurbitaceae la mia attenzione fu richiamata dal Sechium edule Sw., che, come è noto, presenta il fatto interessante della germina- zione del seme nel frutto. Però la scarsità del materiale che avevo a mia disposizione non mi permise, come era mio desiderio, di studiarne allora l'embriogenia. Soltanto l'anno scorso mi fu possibile di fissare il materiale occorrente in tutti gli stadî di sviluppo, giacchè la fioritura e la fruttifica- zione di questa pianta furono, nell'autunno, molto abbondanti nel R. Orto Botanico di Roma. L'ovario del Sechium edule Sw. è uniloculare e contiene un solo ovulo, che pende dall'alto della cavità ovarica e la riempie completamente. L'ovulo è costituito come quello delle altre Cucurbditaceae: è, cioè, anatropo, fornito di due tegumenti, dei quali l'esterno è molto più sviluppato e la nucella ha forma di fiasco. Inoltre il sacco embrionale è molto piccolo relativamente alla nucella e trovasi situato alla base del collo nucellare; nelle sinergidi è ben manifesto l'apparato filamentoso (Yaderapparat) dello Schacht (1). Avvenuta la fecondazione e mentre l'embrione si va sviluppando, non si osserva nessun accenno nel tegumento esterno a lignificazioni, ispessimenti ecc., a nessuna di quelle modificazioni di struttura insomma che generalmente avvengono più o meno e che conducono alla differenziazione del tegumento seminale. Nel caso del Sechium edule Sw. il tegumento esterno non modifica la sua struttura, ma soltanto si accresce notevolmente, come l'embrione va continuamente riempiendosi di amido, mentre i suoi fasci vascolari vanno sempre più sviluppandosi. A completo sviluppo dell'embrione l'endosperma è stato interamente di- gerito e non rimane, come unica traccia di esso, che un sottilissimo velo, senza struttura, tra i cotiledoni. Non si trova dunque nel Sechium edule Sw. quella serie di cellule addossate internamente ai resti della nucella e rap- presentante appunto l’'endosperma non digerito, che io avevo osservato nelle Cucurbita (*) e che il Guignard, generalizzando osservazioni sue e di altri, riteneva generale per tutte le Cucurdilaceae (8). Anche la nucella è quasi (1) Schacht H., Neue Untersuchungen ber die Befruchtung von Gladiolus se- getum. Botan. Zeit., 16 Jahrg. (1858), tav. III, fig. 15. (2) Longo B., Osservazioni e ricerche sulla nutrizione dell'embrione vegetale. Ann. di Bot., vol. II (1905), pag. 384. (3) Guignard L., Recherches sur le développement de la graine et en particulier du tégument seminal. Journ. de Bot., t. VII (1893), pagg. 306-307. Di se 47 — completamente riassorbita, di essa si osserva ancora soltanto una sottile pel- licola che si può tuttavia rendere manifesta in qualsiasi stadio mediante co- lorazione con Sudan III, che colora la sottile cuticola delle cellule epider- miche nucellari. Del tegumento interno non si osserva più traccia. Neppure in questo stadio troviamo modificata la struttura del tegumento esterno: esso è divenuto molto spesso, ma si presenta tuttora costituito da un parenchima omogeneo, ricco di amido e abbondantemente innervato. Esso è inoltre stret- tamente aderente al pericarpio e le sue cellule epidermiche, come quelle del pericarpio con le quali è in contatto, non presentano cuticola. Anche il pa- renchima del pericarpio è abbastanza fornito di amido. Mi sorprende di trovare scritto dal Cogniaux che il seme del Sechium sarebbe fornito di festa Zignosa('), ciò che è evidentemente in completo di- saccordo con quanto ho osservato e su esposto. Precipua funzione del tegumento nel seme del Sechium edule Sw. non è evidentemente quella di protezione, bensì quella di immagazzinamento di materiali nutritizi: ed infatti i materiali che si sono accumulati nelle sue cellule, come quelli accumulati nelle cellule del pericarpio, vengono utilizzati dall'embrione nella germinazione. L'embrione continua il suo sviluppo e germina nell'interno del frutto: nel suo accrescimento rompe da prima lungo il margine il tegumento semi- nale e con i suoi grossi cotiledoni penetra in parte anche nel pericarpio; poi, in seguito ad un notevole allungamento dei suoi cotiledoni, fuoresce con parte di essi dalla regione apicale del frutto. I cotiledoni, molto larghi, spessi, carnosi, sono straordinariamente ricchi di amido e inverdiscono nella porzione che fuoresce dal frutto. In corrispondenza alla superficie dorsale (morfologi- camente pagina inferiore) di essi non si osservano stomi nè nella parte fuo- ruscita nè in quella rimasta nell'interno del frutto, nella quale le cellule epidermiche sono più piccole e molto ricche di contenuto plasmatico. Stomi si osservano invece su tutta la superficie ventrale (morfologicamente pagina superiore); essi sono più numerosi nella porzione contenuta nel frutto che non in quella fuoruscita, inoltre gli stomi di queste due porzioni differiscono anche per la forma. Nella porzione dei cotiledoni racchiusa nel frutto essi sì presentano generalmente a contorno più o meno circolare e con ostiolo anch'esso più o meno circolare (fig. 1), mentre quelli della porzione esterna sono generalmente allungati e con ostiolo della stessa forma (fig. 2); inoltre in questa parte dei cotiledoni le cellule epidermiche sono più grandi che non nell'altra. È da notarsi ancora che tutte le cellule epidermiche dei cotile- doni non presentano manifesta una cuticola, ad eccezione di quelle stomatiche. Nel caso del Sechium edule Sw. non si osserva dunque sia per la distri- (1) Cogniaux A., Cucurbitaceae, (1878), in Martius (De) C. F. Ph.,, Mlora Brasi- liensis, vol. VI, pars IV, pag. 110. dro, — buzione degli stomi, sia per quanto riguarda la cuticula delle cellule epi- dermiche, quella differenziazione così netta osservata dallo Schlickum in quelle Fic. 1 (ingr. 475). Monocotiledoni nelle quali il cotiledone si differenzia in una regione basi- Fie. 2 (ingr. 475). lare, che assorbe l'endosperma, ed in una regione terminale clorofilliana, la quale soltanto è provveduta di stomi e di cuticola (1). (1) Schlickum A., Morphologischer und anatomischer Vergleich der Cotyledonen und ersten Laubblilter der Keimpflanzen der Monocotyledonen (Dissert.). Marburg, 1895. Chimica. — Avcerche sulla catalasi. Sull’antagonismo tra catalasi e perossidasi (*). Nota del dott. AMEDEO HERLIZTKA, pre- sentata dal Socio A. Mosso. È noto che lo Shaffer (*) ammette, che la catalasi agisce come mode- ratore delle ossidazioni, in quanto scinde i perossidi, mettendo in libertà l’ossigeno molecolare inattivo. Si dovrebbe quindi — se questa dottrina ha valore — poter osservare un antagonismo tra la catalasi e le perossidasi, le quali, scindendo l'acqua ossigenata e i perossidi in genere, mettono in libertà ossigeno attivo atomico. In un lavoro recente Walter Ewald (8) viene a conclusiuni affatto diverse: secondo questo autore, la catalasi avrebbe la funzione di scindere l’ossiemoglobina, facilitando così la respirazione dei tes- suti. Due ordini di esperimenti soprattutto adduce l’Ewald a sostegno della sua tesi. Aggiungendo cianuro potassico a sangue diluito, si distrugge, o almeno si diminuisce, l’azione della catalasi del sangue (emasi); in tali condizioni si osserverebbe, secondo l’Ewald, che la riduzione della ossiemoglobina per opera del solfuro di ammonio è più lenta, che senza l'aggiunta del cianuro. __Il secondo esperimento consiste nel riscaldare il sangue alla temperatura di 65° per un tempo piuttosto lungo, allo scopo di distruggere la catalasi: nel liquido rimane ancora ossiemoglobina, la quale per aggiunta di solfuro di ammonio si riduce molto lentamente; la riduzione avverrebbe — secondo l'autore — più rapidamente, aggiungendo una soluzione di catalasi, ottenuta per trattamento del sangue laccato con alcool. L'anno passato io ho pubblicato alcune ricerche (‘), dalle quali io con- cludeva, che la scissione dell’acqua ossigenata, in presenza di catalasi, è indipendente dalla pressione parziale dell'ossigeno. Questi resultati contra- dicono alle conclusioni dell’Ewald, in quanto la dissociazione dell’ossiemo- globina è un fenomeno eminentemente legato alla pressione parziale dell'os- sigeno, di cui è una funzione il rapporto esistente tra ossiemoglobina ed emoglobina ridotta. Se dunque le mie conclusioni e quelle dell'Ewald fossero esatte, si dovrebbe ammettere, che la catalasi è capace di aumentare la velocità di due reazioni chimiche di natura diversa, l'una indipendente, l’altra in funzione della pressione parziale dell'ossigeno, l’una irreversibile, (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di fisiologia di Torino. (*) American Journal of Physiology, vol. XIV, pp. 299-312, 1905. (?) Pfliiger's Archiv Bd. 116, S. 334-346, 1907. (*) Rend. R. Accad. Lincei. Classe sc. fisiche, mat. e nat.. vol. XV, 2° sem., serie 5°, Pp. 338-841. — 474 — l'altra reversibile. Ciò contrasterebbe con quanto noi sappiamo intorno ai fermenti ed alla loro specificità, e sarebbe questo il primo caso di un fermento, che agisca su due reazioni chimiche di natura diversa. Per chiarire questo punto ho voluto esaminare più minutamente il lavoro dell'Ewald. Alle sue conclusioni si possono anzitutto opporre alcune obbiezioni : 1. Il cianuro di potassio agisce non solo sulla catalasi, ma anche su altri fermenti esistenti nel sangue. 2. Questi fermenti precipitano insieme alla catalasi, aggiungendo l'alcool al sangue. Il precipitato così ottenuto contiene poi anche molte altre sostanze, che potrebbero agire da riduttori sull’ossiemoglobina. 3. Nel riscaldamento a 65° anche altri fermenti oltre alla catalasi ven- gono distrutti, tutta la composizione fisico-chimica del sangue viene alterata e neppure l'emoglobina rimane intatta. 4. La riduzione dell'ossiemoglobina per opera del solfuro d'ammonio è un processo diverso dalla dissociazione senza la presenza di riduttori. Per queste considerazioni, anche se gli esperimenti dell’Ewald fossero del tutto indiscutibili, essi non dimostrerebbero ancora per nulla l’azione della catalasi sulla dissociazione dell'ossiemoglobina. Ma io ho voluto con- trollare i suoi esperimenti, ripetendoli nella stesse condizioni o in condizioni lievemente mutate. Mi sono trovato però di fronte a una difficoltà. L'Ewald confronta il tempo impiegato dalla soluzione di sangue a ridursi nelle varie condizioni. Generalmente egli fa tre letture, agitando tra l’una e l’altra la soluzione per arterializzarla, e ottiene valori abbastanza concordanti, ma non identici. Ripe- tendo i suoi esperimenti, mi colpì il fatto, che, agitando la stessa soluzione più volte, varia di molto il tempo di riduzione; e così pure, prendendo più campioni della stessa soluzione, sia essa di sangue, sia di emoglobina cristal- lizzata, i valori variano grandemente. Valgano come esempio i dati seguenti: Soluzione di sangue di coniglio cme. 5 4+- acqua distillata cme. 0,25 + solfuro di ammonio cme. 1. L'ossiemoglobina si riduce in 10',45”; si agita il liquido e si rifà la determinazione. Ora la riduzione si fa in: 7,55 si agita di nuovo; » ”» 8,10” ”» ”» 7 ” 55310 Un secondo campione della stessa soluzione si riduce in 8/,47”. Soluzione di emoglobina di cavallo cristallizzata, agitata con aria, cme. 5 + 0,25 cme. di acqua distillata 4 0,5 cme. di solfuro d'ammonio: 12 lettura: si riduce in 3,0” si agita. 9a ” ” mn) ” 5} ” ” 4001 ” 4® n ’ ITER o — 475 — Un altro campione della stessa soluzione, trattata prima con una cor- rente di ossigeno, si riduce nelle stesse condizioni della soluzione pre- cedente: 1 lettura: in . . . . 4,25” si agita con aria 2% ’ ” 43" ’ ’ SE eo ’ . . . 2,88” sia passare ossigeno 4a ” non è ancora ridotta in 11',0” Solo facendo passare a lungo una corrente di ossigeno, ho potuto otte- nere valori, che non variassero tra loro più del 20 °/,. Non so quindi com- prendere i valori dati dall’Ewald, ed in ogni modo le differenze da lui trovate nei vari casi, non superano l'errore inerente al metodo. Ciò del resto era prevedibile, perchè evidentemente a seconda della durata dell’agitazione e della concentrazione dell'ossigeno, la quantità di ossiemoglobina e quindi il tempo di riduzione, debbono variare. Ho voluto ripetere gli esperimenti di Ewald con soluzioni trattate a lungo con ossigeno puro, ed ho in primo luogo confrontato il tempo di ridu- zione della soluzione di sangue con e senza l'aggiunta di cianuro di potassio. Ecco qualche valore: Il sangue diluito, al quale si aggiunge 1 cme. di solfuro di ammonio su 5 cme. di soluzione di sangue, si riduce: Con aggiunta di 0,25 cme. di acqua Con aggiunta di 0,25 cme di soluzione di cianuro di potassio 1 °/, To Ste8t4,: TORE SEE 2° 10,30” DORTSA La concentrazione del cianuro era nei miei esperimenti uguale a quella delle ricerche di Ewald. Gli esperimenti con aggiunta di catalasi, furono da me fatti su una soluzione di emoglobina cristallizzata da circa un anno e priva essa stessa completamente di potere catalasico. La catalasi adoperata era preparata dal fegato per ripetute precipitazioni con alcool e, quantunque adoperassi una so- luzione diluitissima, e quindi poverissima di sostanze solide, aveva un potere catalasico grandissimo: diluita con un eguale volume di acqua presentava ancora un valore di K, = 1,954 (!); in questo modo operai su emoglobina non alterata dal calore e con una soluzione di catalasi, che non conteneva altre sostanze in quantità rilevabile, e non era in ogni modo di origine ematica. Ecco alcuni valori che dimostrano, come l'aggiunta di catalasi non per- metta di osservare l’acceleramento della riduzione. vol. sol. H:0% 100 1 Cc n Dea = SC, O = K= vol. sol. fermento A — 476 — Soluzione di emoglobina cme. 5 4+- 0,5 cme. di soluzione di solfuro d'am- monio sì riduce con aggiunta di cme. 0,25 di Acqua Soluzione di catalasi Ino oSD” TN rs08 Rain i630/ I I risultati ottenuti, ripetendo ambedue le sue esperienze, male si accordano con le conclusioni dell'Ewald, le quali sono certamente da attribuirsi alla fallacia del metodo adoperato. Ad ogni modo da quanto ho esposto si può concludere, che non è affatto dimostrata un'azione della catalasi sulla dissociazione dell'ossiemoglobina. Anzi sembrerebbe dimostrata l'indipendenza del processo stesso dalla presenza della catalasi, se fosse lecito trarre una conclusione qualsiasi da un metodo così infido. Del resto l'ipotesi, che la catalasi avesse un'azione sulla dissociazione dell'ossiemoglobina, era stata per me il movente, per compiere le ricerche citate, sull'azione della pressione parziale dell'ossigeno nella scissione dell’acqua ossigenata in presenza di catalasi. Ma di fronte ai resultali ottenuti, ho dovuto lasciar cadere questa ipotesi, perchè infondata. Ritornando ora alla dottrina di Shaffer, ricorderò, che egli si basa sul fatto, che l'ossidazione della xantina e di alcune altre sostanze, per opera dell'acqua ossigenata, è ostacolata per la presenza della catalasi. Per controllare l'attendibilità di questa dottrina, ho voluto vedere se esiste qualche rapporto tra l'azione della catalasi e quella della perossidasi, cioè, se questi due fermenti elidono in qualche modo l’azione l’uno dell'altro, o più precisamente, se la catalasi impedisce l'azione della perossidasi. A questo scopo ho voluto studiare, se l'ossidazione della resina di guaiaco, per opera dell'acqua ossigenata in presenza di emoglobina, è ostacolata dalla presenza contemporanea della catalasi. Alcuni esperimenti preliminari mi dimostrarono, che l’ossidazione della resina di guaiaco avviene più lentamente e meno intensamente, quando all'acqua ossigenata si aggiunge, oltre ad emoglobina, o a un metallo col- loidale (p. es. argento) preparato col metodo di Bredig, anche una soluzione di catalasi epatica, di quanto avviene senza l'aggiunta di quest'ultima. Nel primo caso non si ottiene generalmente una colorazione nettamente azzurra, ma solo verde. Sperai poi di poter fare ricerche quantitative, servendomi della comparsa del colore azzurro, in una serie di prove, fatte con varia concentrazione di fermento, ma mi dovetti convincere, che valori esatti non si possono ottenere, perchè è difficile stabilire dove comincia la colorazione. Ciò nondimeno ho potuto avere resultati di significato ben netto. Le ricerche furono fatte prepando varie serie di 11 tubi ciascuna. In tutti i tubi vengono messe cinque goccie della soluzione alcoolica di resina di Da guaiaco. Questa soluzione è fatta, estraendo prima la resina con cloroformio, e sciogliendo poi in alcool il residuo secco di tale estratto. Inoltre si mettono in tutti i tubi della stessa serie 10 goccie di una stessa soluzione di catalasi; la concentrazione della catalasi varia da serie a serie. In una serie, invece della catalasi, si mettono 10 goccie di acqua. In ogni serie si mettono negli 11 tubi progressivamente da 0a 10 goccie di una soluzione di emoglobina, cristalliz- zata da un anno circa e affatto priva di azione catalasica. Infine si aggiungono in tutti i tubi 10 cme. della stessa soluzione di acqua ossigenata. Così sì otten- gono rapporti diversi tra emoglobina e catalasi, restando invariate le altre condizioni. Variando poi da esperimento ad esperimento la concentrazione dell’acqua ossigenata, si esamina anche l’importanza di questo fattore. Riporto qui i resultati di un primo esperimento. La concentrazione del- l'acqua ossigenata (fatta con peridrol Merck) è di 1,055 °/. Si preparano sei serie di tubi contenenti le seguenti soluzioni di catalasi: soluzione A; A 1H4- acqua 1; A 1+ acqua 2; A 1-+ acqua 3; A 14- acqua 7; acqua sola. Il valore di K, per la soluzione di catalasi più diluita è 0,5296. Ecco i risultati per le varie serie; i tubi sono designati con numeri che indicano il numero delle gocce di emoglobina contenute: Catalasi A. — Tutti i tubi sono uniformemente di color verde, poco in- tenso, compreso il tubo non contenente affatto emoglobina: lo sviluppo dell'ossigeno è stato rapidissimo e intensissimo. ” A 14 acqua 1. — Iltubo 0 non cambia colore, quelli da 1 a 5 lievemente verdi; da 6 a 10 verde più intenso, ma meno che nella serie precedente. A 1-+ acqua 2. — Itubi 0 e 1 non sono colorati; da 2 a 5 leggermente verdi; da 6 a 10 un po’ più verdi, ma meno che nelle serie precedenti. A 1+ acqua 3. — I tubi da 0 a 4 non cambiano colore; da 5 a 10 leggermente verde senza differenze notevoli da tubo a tubo. ” A 1-+ acqua 7. — Itubi da 0 a 3 non cambiano colore; da 4 a 10 progressivamente più verde, sempre leggermente, ma più intenso che nella serie precedente. Senza catalasi. — Nel tubo 2 comincia la colorazione azzurro-chiaro ; in quello 5 l'azzurro si fa più intenso e cresce fino a 10. Questo esperimento dimostra una evidente azione inibitrice dell'ossida- zione della resina di guaiaco, per le soluzioni più diluite di catalasi, e so- pratutto per la soluzione A 1-3 acqua, meno per la soluzione più diluita o per quelle più concentrate. Per le soluzioni molto concentrate tale azione non appare affatto, anzi vediamo, che, anche senza l'emoglobina, si ha colo- è Si RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 63 — 478 — razione verde con la soluzione concentratissima. Questo fatto si può spiegare, o ammettendo, che la soluzione di catalasi abbia anche azione perossidasica, o pensando che la resina di guaiaco possa diventar azzurra anche senza la presenza di ossigeno attivo, da sola per una forte concentrazione di ossigeno molecolare. La prima ipotesi non regge, perchè aggiungendo la catalasi alla resina di guaiaco in presenza di essenza vecchia di trementina, non si ha la colorazione azznrra e perchè questa non compare neppure, adoperando solu- zioni più diluite di acqua ossigenata. Inoltre la colorazione non è mai con la catalasi nettamente azzurra, ma solo verde. Noi dobbiamo quindi ammet- tere, che lo sviluppo tumultuoso di ossigeno inattivo, e quindi la sua con- centrazione molto elevata, bastano ad ossidare, se pure molto poco energica- mente, la resina di guaiaco. È chiaro dunque, che con la soluzione più concentrata di catalasi non sì può osservare una azione inibitrice sulla funzione perossidasica, quando troppo intensa è la scissione dell’acqua ossigenata. D'altra parte però sì vede, come sotto una certa concentrazione della catalasi l’azione inibitrice si vada affievolendo. Per vedere però meglio questa azione inibitrice, bisogna adoperare solu- zioni più diluite di acqua ossigenata, per avere una concentrazione minore di ossigeno. Così ecco alcune serie di osservazioni fatte con una soluzione di acqua ossigenata al 0,227 °/.: Catalasi A. — I tubi 0-2 non sono colorati; nel tubo 3 la colorazione verde è dubbia; nel 4 è certa ma debolissima; da 5 a 10 debolmente verde, meno intensa, che nel tubo 2 senza catalasi. ” A 1+ acqua 1. — I tubi 0-4 non sono colorati; 5 e 6 leggerissi- mamente verdi; 7-10 debolmente verdi, meno del tubo 2 senza catalasi. ” A 14 acqua 8. — Da 0 a 3 non colorati; da 4 a 10 debolmente verdi, meno del tubo 2 senza catalasi. ” A 14 acqua 7. — Da 0 a 2 non colorati; da 3 a 5 debolmente verdi; da 6 a 8 verde non intenso (come tubo 2 senza cata- lasi), 9 e 10 verde abbastanza intenso (circa come tubo 4 senza catalasi). Senza catalasi. — Tubo 1 non colorato, 2 verde non intenso; da 3 a 10 va aumentando la colorazione, sempre con tendenza all'azzurto, che manca invece nelle serie precedenti. Il tubo 10 è netta- mente azzurro. Per la catalasi A_1 + acqua 3 fu determinato il valore di K, = 1,954. Dai dati riferiti, ai quali corrispondono esattamente quelli delle altre prove ripetute nelle stesse circostanze, si vede, come, diminuendo la concentrazione della catalasi, l'ossidazione della resina di guaiaco avviene con una concen- — 479 — trazione minore di emoglobina e si compia con maggiore intensità, che non in presenza di soluzioni più concentrate di catalasi. Solo per soluzioni con- centratissime, si vede anche qui una maggiore facilità di ossidazione della resina, dovuta evidentemente alla maggior concentrazione di ossigeno. Anche adoperando argento colloidale, invece di emoglobina, i resultati sono gli stessi, sebbene meno evidenti, perchè l'argento ha anche azione catalasica notevole. Concludendo possiamo dire, che esiste un antagonismo tra l’azione della catalasi e quella dell'emoglobina, o in genere delle perossidasi, rispetto alla ossidazione della resina di guaiaco per opera dei perossidi, cioè rispetto alla formazione di ossigeno attivo. Quanto maggiore — entro certi limiti — è la concentrazione della catalasi, tanto maggiore deve essere anche quella della perossidasi, per ottenere l'ossidazione. Questa è la dimostrazione diretta dell’azione protettiva. che la catalasi esercita di fronte alla perossidasi, di- struggendo e rendendo innocui i perossidi nell'organismo. Fisiologia. — Su/la fisiologia del cuore dei pesci Teleostei (*). Nota di WiLHELMINA KoLFr, presentata dal Socio L. LucranI. Sono relativamente poco numerose e sparse le notizie che noi possediamo sulla fisiologia del cuore nella classe dei pesci, epperò ho creduto opera utile istituire su quest'oggetto in alcuni Teleostei d’acqua dolce (Bardus fuviatilis, Telestes muticellus, Anguilla vulgaris) una serie sistematica di ricerche speri- mentali le quali riguardano : 1° l’attività normale del cuore ed i meccanismi sus- sidiarî della propulsione del sangue; 2° la registrazione grafica dei movimenti del cuore e l’analisi dei loro principali caratteri; 3° i riflessi cardiaci; 4° l'azione del vago sul cuore; 5° gli effetti delle modificazioni della tem- peratura ambiente sull'attività cardiaca. Comunicherò nella presente Nota i risultati sintetici di queste ricerche: l'esposizione particolareggiata di esse sarà pubblicata tra breve. 1°. L'attività normale del cuore ed i meccanismi sussidiarii della propulsione del sangue. — Le condizioni circolatorie del sangue nei pesci sono specialissime. Come è noto, il cuore è composto di un ventricolo unico e di una unica orecchietta; ed anche il circolo del sangue è unico perchè la rete capillare branchiale respiratoria è intercalata direttamente tra il cuore e l'aorta discendente o dorsale che irrora tutto il corpo di sangue ar- terioso. La posizione e l'entità di questa rete capillare costituiscono una con- dizione particolarmente sfavorevole per l’esplicazione dell'attività cardiaca. Infatti la presenza di un'estesa rete capillare subito al principio del circolo (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Fisiologia della R. Università di Roma. — 480 — sanguigno deve di certo rallentare notevolmente l'impeto del sangue ed at- tenuare di molto la pressione che potesse avere appena uscito dal cuore. Ma poi è anche probabile che quest impeto e questa pressione non siano molto energici perchè la delicatezza degli endotelii capillari non reggerebbe nè al- l'uno nè all'altra. Ne viene di conseguenza che già a priori possiamo rite- nere che nei pesci la propulsione circolatoria non può essere molto energica e che, comunque, essa non debba dipendere che in piccola parte dall'attività cardiaca. Infatti molte osservazioni militano a favore di questa tesi. Il ven- tricolo del cuore è nei Teleostei relativamente piccolo e debole (Brinings 1899); al microscopio non si osserva, come pure rilevò Briinings, nelle condizioni normali un polso arterioso nei vasi periferici. La pressione sotto la quale il sangue si trova nell'alveo circolatorio è tanto esigua che quando si tiene un pesce verticale colla testa in basso, il seno venoso e l’orecchietta del cuore si gonfiano oltremodo ed il cuore non è più capace a vuotarsi (Hill 1898). Quando in questa condizione si taglia la coda al pesce non si vede uscire neppure una goccia di sangue (Brimings 1899). Ciò stabilito resta il pro- blema da quali forze sussidiarie il sangue circolante è mosso. Già alcuni autori hanno raccolto osservazioni in proposito. Schònlein (1896) rileva che nei selacei esiste una pressione negativa nella cavità pericardica, pressione negativa la quale è aumentata notevolmente durante ogni sistole ventrico- lare per la diminuzione di volume del cuore che vi corrisponde, e perchè il foglietto parietale del pericardio è formato da una membrana rigida inti- mamente attaccata agli organi circostanti al cuore, sicchè funge da parete fissa. Per queste disposizioni il sangue venoso viene aspirato continuamente e con ritmici acceleramenti nel seno venoso e nell’orecchietta del cuore. Queste disposizioni speciali che favoriscono la circolazione venosa vennero trovate da Brinings quasi identiche anche nei teleostei. Egli nega però che in questi esista una pressione negativa all'infuori della durata della sistole, ed attribuisce al cuore chiuso nella cavità pericardica, le funzioni di una pompa aspirante e premente. Al bulbo aortico, organo non contrattile ma eminentemente elastico compete la funzione di attenuare l’impeto delle on- date sistoliche e di mantenere nell'aorta ascendente o ventrale e nelle ar- terie branchiali una pressione moderata ed eguale ed una corrente continua. Grande importanza per la propulsione del sangue hanno poi anche i movi- menti respiratorì. Già Briinings rilevò che durante l'ispirazione la cavità del pericardio aumenta; la pressione negativa che vi esiste cresce quindi, e con essa l'aspirazione del sangue venoso. Schoònlein che registrò le oscillazioni della pressione sanguigna in diversi vasi di alcuni selacei (Raja, Torpedo, Scyllium) vide un innalzamento della pressione ad ogni aspirazione: non potè constatare alcun effetto dell’ inspirazione. Finalmente tutti gli autori attri- buiscono anche nei pesci grande importanza per la propulsione del sangue alle contrazioni muscolari nei movimenti del corpo. — 481 — Nelle specie sulle quali io ho esperimentato potei confermare in parte le vedute degli autori precedenti, ed aggiungere qualche ulteriore notizia. In- nanzi tutto confermai nei barbi e nei telestes l’esistenza di una pressione negativa; nelle condizioni normali il cuore riempie quasi tutta la cavità del pericardio: appena inciso questo, esso si rimpiccolisce tanto da non occupare che una parte assai minore di essa. Siccome poi in queste specie il foglietto parietale del pericardio è costituito da una membrana rigida ed attaccata intimamente agli organi circostanti, anche qui deve aver luogo ad ogni sistole un maggiore abbassamento della pressione pericardica. Nelle anguille invece i foglietti parietale e viscerale sono riuniti da fasci connettivali ed il pericardio stesso non è tanto teso, sicchè non pare che qui sì verifichino condizioni identiche. Per quel che riguarda l'influenza dei movimenti respi- ratorii sulla propulsione del sangue, potei dimostrare una triplice azione di essi. Innanzi tutto ha luogo ad ogni movimento ispiratorio un allargamento della cavità pericardica per il raddrizzamento del cingolo scapolare. Questo fatto si può dimostrare eseguendo una limitatissima incisione longitudinale nel pericardio messo allo scoperto: ad ogni ispirazione si vede allargarsi l'apertura. Un secondo fattore importante è che le oscillazioni della pressione esistente durante l'inspirazione e l'espirazione nel cavo orobranchiale si tras- mettono alla cavità del pericardio attraverso la parete mobile che separa quello da questa. L'azione in questione si dimostra facilmente incidendo lar- gamente il pericardio e riempiendo la sua cavità con una goccia d'acqua; allora si vede che la superficie del liquido ad ogni inspirazione si abbassa, ad ogni espirazione si innalza. Finalmente vi è una terza azione. Ad ogni inspirazione la pressione della cavità orobranchiale diventa negativa, ad ogni espirazione aumenta notevolmente. I vasi capillari delle branchie sono quindi esposti alternativamente ad una compressione che tende a cacciare il sangue nelle arterie epibranchiali, e ad un rilasciamento che permette un più ampio richiamo di sangue dall’aorta ventrale. Questa triplice azione si può dimo- strare mediante una lieve modificazione dell’esperimento sopra descritto di Brinings. Quando si taglia la coda ad un pesce e lo si tiene verticale colla testa in basso, non esce sangue dalla ferita; ma appena s' immerge la testa dell'animale in un recipiente di acqua, sicchè possa eseguire regolari movi- menti respiratori, un po’ di sangue comincia a stillarne. L'importanza delle contrazioni muscolari nei movimenti del corpo si può pure osservare in questo esperimento, perchè quando l’animale eseguisce uno sforzo per svincolarsi, si vede il sangue uscire dalla ferita in quantità notevolmente più abbondante. Fin qui quel che riguarda l’attività dinamica del cuore. Ora passiamo ad un altro attributo di essa: la frequenza. Quale sia la frequenza assoluta e relativa del polso cardiaco nei pesci è un problema ancora assai dibattuto. Schònlein che registrò le curve della pressione sanguigna in diverse arterie di Selacei, nota che la frequenza as- — COS soluta del polso era 50 per l' nell’estate e 16 nell'inverno, mentre il rap- porto relativo tra frequenza respiratoria e cardiaca soleva avvicinarsi assai a +. Inoltre egli trovò che le modificazioni della frequenza cardiaca e re- spiratoria vanno sempre parallele. Brinings dedicò uno studio più completo alla questione. Egli trovò che il cuore di Zeuciseus dobula è tanto sensi- bile agli stimoli abnormi che non è possibile stabilirne la frequenza nè col- l'osservazione diretta mettendolo allo scoperto, nè mediante l'agopuntura. Ricorse perciò all'esame microscopico della corrente sanguigna e trovò che nei vasi della pinna caudale trasparente, si ha in condizioni normali una corrente continua: quando si comprime leggermente la coda si rendono ma- nifeste, ritmiche accelerazioni che sono sincrone colla respirazione: in un esemplare di Zewciscus ne cqntò 68 all'1°. Comprimendo più fortemente si sostituì al primo un altro ritmo assai più lento di 18 per 1’. Ora Brinings ritiene che le accelerazioni sincrone coi movimenti respiratorii fossero la espressione dell'influenza di questi sulla circolazione sanguigna, mentre crede che quelle meno frequenti fossero veri polsi cardiaci. Secondo Briinings dun- que la frequenza dei battiti cardiaci sarebbe notevolmente minore di quelli respiratori. Io stessa istituii una lunga serie di osservazioni e ricerche sulla fre- quenza assoluta dei battiti cardiaci e su quella relativa in rapporto ai mo- vimenti respiratorii. A questo scopo cercai innanzi tutto di stabilire esatta- mente quale sia il numero dei movimenti respiratorii eseguiti normalmente dai pesci che mi servirono da oggetto, e di qual segno siano le modificazioni della loro frequenza per le diverse manipolazioni sperimentali. Trovai che la frequenza respiratoria assoluta contata nei pesci nuotanti liberi nella vasca varia assai. Ottenni coi Telestes le seguenti cifre: 65 (peso del corpo 80 g.); 56 (p. 120 g.); 60 (p. 145 g.); 36 (p. 219 g.); alla temperatura media di 12° C., trovai 60-72 (p. 62 g.); 68 (p. 90 g.); 60 (p. 103 g.); 70 (p. 150 g.); 70 (p. 153 9.); 48 (p. 219 g.); 78 (p. 227 g.); tantochè non appare molto manifesta la correlazione tra la mole dell'animale e la frequenza dei suoi movimenti respi- ratorii (Ducceschi 1904) nemmeno quando si tiene conto dell’influenza della temperatura (Kuiper 1907). Ancora minor regolarità trovai nelle modifica- zioni che la frequenza respiratoria subisce per effetto delle diverse manipo- lazioni sperimentali, quali l'avvolgere l'animale in una fascia per immobi- lizzarlo, il fissarlo nell’appareechio di contenzione, gli atti operatorii per mettere allo scoperto il cuore, ecc. Spesso la frequenza aumentò, altre volte diminuì, senza che mi fosse possibile indicare il motivo di questa irregola- rità. Per quel che riguarda la frequenza dei battiti cardiaci cercai stabilirla nell’anguilla mediante la semplice ispezione e colla registrazione grafica me- diante l'applicazione di una leva scrivente sulla parete toracica. Trovai anche qui cifre assolute non del tutto identiche; però per anguille lunghe 35 cm. di un peso approssimativamente uguale, trovai nei diversi casi una frequenza — 483 — cardiaca media che si può rappresentare colle seguenti cifre scelte a caso nei miei protocolli: Temperatura Frequenza cardiaca Frequenza respiratoria 10-12° 46 36 13-14° 58 40 21° 60 48 Da queste cifre risulterebbe che la frequenza cardiaca è nell’anguilla in condizioni normali o quasi, maggiore di quella respiratoria. Nei barbi e telestes è impossibile ispezionare o registrare con metodi ineruenti il polso cardiaco. Qui io cercai contare le pulsazioni al microscopio in un vaso della pinna caudale. Mi riuscì sicuramente una sol volta con un barbo, ove trovai: frequenza pulsazioni 60-68, frequenza resp. 72-80 per 1’. Scoperto subito dopo il cuore, trovai una frequenza di 66 per 1’. Questi dati non collimano con quelli di Brinings, però il metodo mi è sembrato troppo incerto per conti- nuare le ricerche con esso. Epperò eseguii un'altra serie di osservazioni met- tendo a nudo il solo pericardio, ovvero il cuore stesso. All'incontro di quanto trovò Briinings, mi riuscì facile constatare che determinando in questo modo la frequenza cardiaca nello stesso animale nelle identiche condizioni, per un certo tempo si ottengono dati più costanti. Variano invece assai le cifre asso- lute da animale ad animale, anche tenuto conto delle differenze di mole e di temperatura. Variano poi ancora di più da animale ad animale le modifica- zioni che la frequenza subisce per le medesime manipolazioni, quali le inci- sioni del pericardio ecc. Anche la frequenza respiratoria mostra modificazioni del tutto irregolari in queste stesse condizioni, mentre anch'essa resta costante quando le condizioni sperimentali restano identiche. Il rapporto tra la frequenza cardiaca e respiratoria si è trovato nella specie barbus e telestes all’inverso di quanto si era trovato nelle anguille essendo più frequenti i movimenti respiratori. Finalmente è da osservarsi che la frequenza respiratoria e la cardiaca non si sogliono affatto modificare pa- rallelamente; nello stesso animale per la stessa causa l'uno può crescere mentre l’altro diminuisce. Riporto qui alcune cifre desunte dai protocolli per la frequenza cardiaca di alcuni telestes alla temperatura media di 8°. Contai a cuore scoperto: 52 (p. 108 g.); 49 (p. 80 g.); 50 (p. 120 g.); 46 (p. 145 g.); 42 (p. 219 g.); alla temperatura media di 12° C. invece nelle stesse condizioni: 58 (p. 110 g.); 49 (p. 150 g.); 60 (p. 153 g.); 48 (p. 227 g.); 51 (p. 219 g.); 54 (p. 90 g.); 56 (p. 173 g.); 60 (p. 62 g.); 46 (p. 62 g.). Riassumendo ho trovato in riguardo alla frequenza normale dei battiti cardiaci delle anguille una certa regolarità ed una frequenza superiore a quella respiratoria; nei barbi e telestes una grande irregolarità nella frequenza che sembra completamente indipendente da quella respiratoria ch'è sempre maggiore di essa. — 484 — 2°. La registrazione grafica dei movimenti cardiaci. — Brinings so- stiene che il cuore dei Teleostei è tanto eccitabile che messo a nudo pulsa in modo del tutto incoordinato sicchè non si presta nè all'osservazione nè alla registrazione dei suoi movimenti. Wesley Mills (1886) sperimentando con Batrachus Tau e con raje, e Mc William (1885) invece lavorando sul- l'anguilla, registrarono curve di movimenti del cuore sia isolato sia anche in situ. Anch'io ho trasmesso e registrato in numerosissimi tracciati i movi- menti del cuore delle tre specie di Teleostei sopranominati. Mi sono servita della tecnica della sospensione di Engelmann trascrivendo con doppio miografo contemporaneamente ora i movimenti dell’orecchietta e del ventricolo, ora, e fu il più delle volte, quelli del ventricolo insieme a quelli respiratorii della mandibola. Gli animali venivano perciò fissati nell'apparecchio a ventre in alto, in una bacinella di smalto ad acqua circolante e continuamente rin- novata. È notevole che in queste condizioni dopo un primo periodo variamente lungo (circa 15'-30') nel quale i movimenti del cuore si mostravano talvolta assai irregolari, soleva quasi sempre seguire un periodo ove tanto i movi- menti cardiaci che quelli respiratorii acquistavano un carattere di regolarità quasi perfetta, tanto da restar quasi esattamente costante sia l'ampiezza che la frequenza dei due ordini di movimenti. Questo periodo costante si prolun- gava spesso per più ore, perfino per una giornata intera, purchè la tempe- ratura dell'acqua si mantenesse uguale. E difficile dire fino a qual punto è lecito paragonare i movimenti di questo periodo costante a quelli normali. Essi mostravano sempre aver subìto un certo acceleramento per effetto della legatura e sospensione, ma il carattere di completa costanza da essi mostrato spesso per tante ore di seguito sembra dimostrare che se nelle esperienze descritte il cuore non sì trova in condizioni di vita identiche alle normali, si sia però stabilito un nuovo equilibrio funzionale, sicchè i tracciati otte- nuti sembrano potersi a buon diritto considerare come l’espressione abba- stanza fedele dell'attività dell'organo, e paragonabili a quelli che si otten- gono collo stesso metodo dagli animali delle altre classi di vertebrati. Ri-_ produco qui alcuni di questi tracciati regolari o costanti ed aggiungo poche parole di commento. Vediamo prima la fig. 1 ove è registrata contemporaneamente la curva delle contrazioni del ventricolo e dell'orecchietta. Nella curva del ventricolo si rileva un brusco innalzamento sistolico (sistole), seguito da un altrettanto brusco abbassamento diastolico (diastole) e da una pausa diastolica non molto accentuata. La curva dell’orecchietta presenta anch'essa un innalzamento sistolico (presistole) ed un abbassamento diastolico seguìto da una pausa diastolica più lunga di quella del ventricolo. In questa pausa si nota pure un lieve innalzamento il cui apice è sincrono all'apice sistolico. Probabil- mente si tratta di uno spostamento meccanico dell’orecchietta per opera della pulsazione ventricolare. Per quel che riguarda il rapporto nel tempo tra le — 485 — contrazioni ventricolari e quelle dell’orecchietta, risulta dal tracciato che la sistole sussegue immediatamente alla presistole, la quale è più breve e meno intensa di quella. Dai tracciati riprodotti nella fig. 2 ove è stata registrata la curva dei movimenti respiratori della mandibola e quelli ventricolari si può rilevare anche più che dal precedente, la grande regolarità e costanza sia dell’ uno sia dell'altro di questi ordini di movimenti. Qui colpisce poi anche la quasi MANCO Fic. 1. — Tracciato delle contrazioni del ventricolo (riga 1) e dell’orecchietta (riga 2) del cuore di un barbo. Il segnale del tempo (riga 3) marca i ?/3 di 1’, Tempera- tura dell’acqua 20° C. identità del loro ritmo; mentre la frequenza respiratoria infatti è 116, quella del ventricolo è di 117 per l’ ('). 5°. I riflessi cardiaci. — Sulla natura e sui caratteri dei riflessi car- diaci nei pesci non esiste accordo tra gli autori. Alcuni come Wesley Mills e Mac William dicono che mentre il cuore dègli altri vertebrati è poco in- fluenzabile in via riflessa, nei pesci è facilissimo ottenere riflessi per svariati stimoli periferici anche lievi. J. Thesen invece sostiene che è ben facile influen- zare in via riflessa nei pesci i movimenti respiratori, ma che il cuore si (°) Nella curva del ventricolo è indicato lesgermente il fenomeno spesso assai più i pronunziato di una apparente periodicità della grafica cardiaca di cui qui non mi occu- però. Ne tratterò a lungo nel lavoro esteso. RenpIcONTI 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 64 — 486 — mostra del tutto refrattario. Schònlein finalmente scrive che il cuore reagisce per stimoli riflessi ma soltanto in quanto questi modificano il ritmo re- spiratorio, per una specie di irradiazione del riflesso dal centro respiratorio il = = =—_re_T ’-rt......_{°‘° Fre. 2. — Tracciato dei movimenti respiratorî (riga 3) della mandibola e delle contra- zioni ventricolari del cuore (riga 2) di un Telestes. Il segnale del tempo (riga 1) marca 1”. Riga 4= orizzontale. Temperatura dell’acqua 19° C. a quello cardiaco. Io stessa ho eseguito numerose esperienze per venire in chiaro di questo problema. Come primo risultato sicuro trovai che si pos- sono provocare costantemente e facilmente riflessi cardiaci per stimoli elet- trici o meccanici anche leggeri di diversissimi organi periferici. Regolarmente le — 487 — li ho ottenuti dalla cute del corpo, specie dalla pinna caudale, dalla fessura opercolare ed anche dalle appendici buccali dei barbi; senza effetto rimase la stimolazione elettrica del n. olfattorio e del ramo laterale del vago. Evi- denti effetti invece si ebbero dalla stimolazione elettrica e per insufflazione della vescica natatoria. La natura di queste reazioni riflesse del cuore non fu sempre identica. Per lo più si ebbe un rallentamento con tendenza a pro- lungarsi delle pause diastoliche del ventricolo. Aumentando la pressione in- suffandc aria nella vescica natatoria osservai per lo più un acceleramento dei battiti, diminuendo per aspirazione la pressione in essa, un rallentamento, ma questi effetti non furono costanti. Fi. 3. — Tracciato delle contrazioni ventricolari del cuore di un Telestes (riga 1). Stimolazione faradica della pinna candale (segnale nella riga 2). Il segnale del tempo marca 1” (riga 3). Riga 4,= orizzontale. Per quel che riguarda la questione sul rapporto tra i riflessi respiratorii e quelli cardiaci ho potuto costatare che la reazione riflessa dell'apparato respiratorio insorge regolarmente dietro uno stimolo più leggero di quello che occorre per provocare un riflesso cardiaco, ed inoltre che questo quando in- sorge, insorge sempre un poco più tardi del riflesso respiratorio. Se ciò av- viene perchè la soglia dello stimolo è assai più bassa per i riflessi respira- torii che per quelli cardiaci, oppure se ha luogo una vera irradiazione del riflesso dal centro respiratorio a quello cardiaco resta tuttora insoluto. Un particolare interessante che risulta dai tracciati ove registrai con- temporaneamente la curva delle contrazioni dell’orecchietta e del ventricolo è, che la reazione riflessa di quella precede sempre la reazione di questo, mentre questo poi non manca mai quando è avvenuta quella. La forma della reazione auricolare è fondamentalmente quella della reazione ventricolare: un allungamento delle pause diastoliche. Dopo il taglio bilaterale del ramo — 488 — viscerale del vago non è più possibile provocare riflessi cardiaci. Questo fu già rilevato da Schoònlein che paralizzava il vago con l'atropinizzazione ed anche da Bethe (1905) peri Selacei ed io lo potei confermare per i Teleostei. 4°. L'azione del vago sul cuore. — Già i fratelli Weber (1845) affer- marono che l'azione inibitrice del vago sul cuore da loro scoperta si può pure dimostrare nei pesci. Schònlein, Bottazzi (1901), Bethe (1903) confermarono questa osservazione per i Selacei, Mc William per l'anguilla. Anch'io ottenni Fia. 4. — Tracciato delle contrazioni ventricolari (riga 3) del cuore di un barbo. Sti- molazione faradica della pinna candale (segnale nella riga 1). Il segnale del tempo marca i */s di 1” (riga 4). Riga 5= orizzontale. Temperatura dell’acqua 20° C, risultati analoghi nei barbi e nei telestes. Riproduco nella fig. 5 un pezzo di tracciato ove si rileva il notevole arresto diastolico conseguito alla stimo- lazione faradica del nervo vago di un lato. All’opposto dopo il taglio anche di un sol vago sì manifestava acceleramento del ritmo cardiaco. 5°. — Gli effetti delle modificazioni della temperatura ambiente sull’attività del cuore in situ. — Già Cartesio (1614) avrebbe visto che il cuore dei pesci batte con maggior frequenza in temperature elevate. Vignal (1881) (') vide che col freddo si possono far arrestare i battiti del cuore, i quali ritornano quando si riscalda nuovamente. Thesen osservò nei Teleostei che la frequenza cardiaca è in rapporto colla temperatura dell'acqua. Schònlein vide nei Selacei che riscaldando l’acqua, la frequenza del cuore () Citato da Thesen, loc. cit., pag. 166. — 489 — aumenta. Ricerche e dati esatti su questo argomento fanno però del tutto difetto. Io ho eseguito un complesso di esperienze riscaldando, rifreddando l’acqua ambiente dei pesci mentre registravo contemporaneamente i movi- menti respiratorii e del cuore, durante tutto il corso degli sperimenti. Per quel che riguarda la respirazione rinvio il lettore al lavoro recente di Kuiper (’) i cui risultati non posso che confermare. Per quel che riguarda il cuore trovai in riassunto quanto segue. Riscal- dando l’acqua ambiente, la frequenza dei battiti aumenta, ma quest'aumento Fia. 5. — Tracciato di movimenti ventricolari del cuore (riga 1) e respiratorii della mandibola (riga 2) di un Telestes. Stimolazione faradica di un nervo Vago (segnale nella riga 3). Riga 4= orizontale. sì verifica soltanto quando la temperatura è già salita da un certo tempo e poi raggiunge un massimo oltre al quale non cresce più, anche se la tem- peratura sale ancora. Se la temperatura invece si mantiene costante quando ha raggiunto la massima frequenza, questa dopo un certo tempo ridiscende alquanto per restare costante. Raffreddando l’acqua discende la frequenza del polso cardiaco, anche in questo caso dopo un certo tempo dall'inizio del- l'esperimento. Non ho mai spinto molto avanti l'abbassamento della tempe- ratura dell’acqua, per cui non so dire che cosa avviene in quel caso. RIASSUNTO. 1. La propulsione circolatoria del sangue in molti pesci è determinata oltrechè dall’azione del cuore, anche da numerosi altri fattori sussidiarii, quali la pressione negativa pericardica, i movimenti respiratorii e le contra- zioni muscolari durante il nuoto. (1) Taco Kuiper, Untersuchungen ber die Atmung der Teleostier. Archiv fur die ges. Physiologie, Bd. //7, S. 1-104. — 490 — 2. La frequenza cardiaca normale è nell’anguilla maggiore, nei barbi e telestes minore di quella respiratoria. 3. Colla tecnica della sospensione di Engelmann si possono registrare per lunghissimo tempo curve costanti e regolari dei movimenti del cuore in situ. 4. È facile dimostrare reazioni riflesse del cuore dei Teleostei dietro stimoli anche leggeri di diversi organi periferici. o. Le reazioni riflesse del cuore consistono quasi sempre in un rallen- tamento dei battiti accompagnati da una tendenza delle pause diastoliche ad allungarsi. 6. Questi riflessi non si possono più provocare dopo il taglio bilaterale del nervo vago. 7. La stimolazione del n. vago produce arresto diastolico, il taglio ac- celeramento del cuore. 8. Riscaldando l’acqua ambiente la frequenza del ritmo cardiaco dopo un certo tempo aumenta fino ad un massimo, oltre il quale non sale più. Raffreddando l'acqua, la frequenza diminuisce. 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(Annales scient. de l'École norm. sup. 3me serie XX, 1906). Paris, 1906. 49. MarLLer E. — Sur les équations indéter- minées à deux et trois variables qui n’ont qu'un nombre fini de solutions en nombres entiers. (Journal de Math. pures et appliquées 5me serie). Paris, SupasrAn MarLLet E. — Sur la détermination du groupe des équations numériques. (Jour- nal de Math. pures et appliquées bme serie). Paris, s. a. 4°. MarLLet E. — Sur les fonctions entières et quasi entières. (Journal de Math. pures et appliquées, 5Me serie). Paris, sMal 43 MarLLert E. — Sur les racines des équa- tions transcendantes è coefficients ra- tionels. (Journal de Math. pures et ap- pligées, bme serie). Paris, s. a. 4°. MarLLeTt E. — Sur une catégorie de fon- ctions trascendentes et les équations différentielles rationelles. (Journal de Math. pures et appliquées, 5Me serie). Paris, s..a. 4°. MarLLert E. — Sur les fonctions monodro- mes et les nombres transcendents. (Journal de Math. pures et appliquées, 5me serie). Paris, s. a. 4°. MarLLert E. — Sur les équations de la Géométrie et la théorie des substitu- tions entre n lettres. s. 1. et a. 4°. MarLLet E. — Sur les fonctions entières et quasi. èntières à croissance régu- liére et les équations différentielles. (Annales de la Faculté des Sciences de Toulouse, 2e s. IV). Toulouse, s. a. 4°, MarLLet E. — Sur les équations indéter- minées 22 +-y*= c2*. (Annali di Mat. pura e applicata XII, III serie). Mi- lano, 1905. 4°. MarLLet E. — Sur la classification des irrationelles. Paris, 1906. 4°. MarLLert E. — Sur les fonction entières. Paris, 1906. 49 MarLLet E. — Sur les nombres transcen- dants. Paris, 1905. 4°. MarLLer E. — Sur les fonctions hyper- transcendantes. Paris, 1906. 4°. So — 4939 — MaiLLeT E. — Sur les lois des montées de Belgrand el les formules du débit d'un cours d’eau. (Journal de l’École Polytech., 2° s. n. 8). s. 1. et a. 4°. MarLret E. — Sur les lignes de décrois- sance maxima des modules et les équa- tions algébriques ou trauscendantes. (Journal de l’Ecoles Polytech., 2° s., 8). Ss. l. et a. 40. MarLLet E. — Réve mathématique. (In- termédiaire des Mathematiciens. t. IX, ‘ dec. 1902). Paris, 1902. 8°. MarLLer E. — Sur «l'homme de génie n de M. Lombroso et la Faculté inven- tive. (Comptes rendus de l’Association Frang. pour l’Avane. des Sciences-Con- gres d'Angers, 1903). Paris, 1903. 8°. Ma:LLet E. — La mortalité et la longé- vité des anciens Polytechniciens; Let- tres échangées entre MM. Maillet et Quiquet. (Bull. trimestr. de l’Inst. des Actuaires francais, 16° année, Dec. 1905, n. 63). s. l. et a. 8°. Ma1LLer E. — Sur la mortalité d’une col- lectivité d’individus dont l’àge est as- sez peu différent. (Bull. de la Soc. Philomathique de Paris, 1905). Paris, 11905. 189; MarLLet E. — De l’emploi des caractères latins pour l'impression des ouvrages russes. (Assoc. fragaise pour l’avanc. des sciences. Congrès de Grenoblé, 1904). Paris, s. a. 8°. MarLLeT E. — Sur divers points d’hydrau- lique souterraine et fluviale. (Annuaire de la Soc. Math. de France. Nov. 1903). MOUGSMSNIAEO MarrLeT E. — Sur les nappes souterraines et les sources. (Mém. de l’Acad. des sciences, Xe s. T.IV). Toulouse. s. a. 8°. MarLLeT E. — Surla prévision des débits minima des sources de la Vanne. s. 1. 902° 8° MarLLet E. — Memoire sur le vidage des systèmes de réservoirs. s. 1. 1905. 8°. MarrLet E. — Les grandes crues de la saison froide dans les bassins de la Seine et de la Loire. — Leur prévision au Ter Nov. s. I. et a. 8°. MaiLLer E. — Étude hydrologique du RenpICONTI. 1907. Vol. XVI, 2° Sem. Rhin AllemanA et du Main, les crues et leur prévision. s. 1. 1903. 8°. MarLLet E. — Sur la classification des sources servant è l’alimentation des villes en France et en Algérie. (An- nuaire de la Soc. Météor. de mai 1905). Tours, 1905. 8°. MarrLet E. — Des groupes transitifs de substitutions de dégré N et de classe N—1. (Bull. de la Soc. math. de France, XXVI, 1898). Paris, 1898. 8°. MarLLer E. — Sur la décomposition d’un nombre entier en une somme de cubes entiérs positifs. (Ass. Frans. pour l’a- vancement des Sciences. Congrès de Bordeaux, 1895). Paris. 1895. 89. Ma:LLet E. — Sur diverses propriétés des nombres trascendants de Liouville. (Bull. de la Soc. math. de France XXXV, 1907). Paris, 1907. 8°. MarLLert E. — Sur certains théorèmes de Géométrie cinématique. (Bull. de la Soc. math. de France, XXIX; 1901). Paris, 1901. 8°. MarLLer E. — Sur les équations différen- tielles et la théorie des ensembles. (Bull. de la Soc. math. de France, XXX, 1902). Paris, 1902. 8°. MarLLer E. — Sur les systèmes complets d’équations aux dérivéés partielles. (Bull. de la Soc. math. de France, XXIX, 1901). Paris, 1901. 8°. MarLeT E. — Sur les groupes échangea- bles et les groupes décomposables. (Bull. de la Soc. math. de France, XXVIII, 1900). Paris, 1900. MarLLet E. — Sur les solutions de cer- tains systèmes d’équations differentiel- les, applications è un système hydrau- lique de n réservoir. (Bull. de la Soc. math. de France, XXXIII, 1905). Paris, 1905. 8°. MarLLeTt E. — Sur les nombres transcen- dants dont le développement en fra- ction continue est quasi périodique et sur les nombres de Liouville. (Bull. de la Soc. math. de France, XXXIV, 1906). Paris. 1906. 8°. MarLuver E. — Sur les fonetions monodro- mes à point singulier essentiel isolé : 65 — 494 — troisième note. (Bull. de la Soc. math. de France, XXXI, 1903). Paris, 1903. 80. MarLLer M. — Sur l’'utilité de la publi- cation de certains renseignements bi- bibliographiques en mathématiques. (Deuxième Congrès international des mathématiciens. Paris, 1900). Paris; 1900. 8°. MarLtet E. — Notice sur les travaux scientifiques de M.E. Maillet, Notice supplémentaire. Paris, 1901, 1905, 4°. MarLLert E. — Sur les nombres e et II et les équations transcendantes. (Acta mathematica 29). s. 1. 1902. 40. MaILLET E. — Sur les équations indéter- minées de la forme 22 -+y%=c22. (Acta mathematica 24). s. 1. 1899, 8°. MarLLeT E. — Résumé des observations météorologiques et hydrométriques de 1891 a 1990. (Service hydrométrique central du bassin de la Seine. Résumé... 1901 et 1902). Tours, s. a. 8° MarLuer E. — Sur la prévision des débits des sources de la Vanne. Paris, 1903. 4°, MarrrLer E. — Sur les mouvements d’une nappe souterraine, particulièrement dans les terreins perméables spongieux et fissurés. (Bull. de la Soc. math. de France, XXXIII, 1905). Paris, 1905. 8°. MarLLer E. — Note sur des groupes de substitutions. (Bull. de la Soc. math. de France, t. XXIV, 1906). Paris, 1896. 8°. MarLLer E. — Sur le « Dernier théorème de Fermat, inscrit au pied de sa statue à Beaumont-de- Lomagne. Toulouse, 1905. 8°. MarLLert E. — Questions et réponses (pa- rues dans l’Intermediaire. Tomes XII, XIII, Janv. déc. 1906). Paris, s. va. 8°. MarteEL E. A. — La spéléologie au Con- gres des Sociétés savantes (1901-1904). Le gouffre-tunnel d’Oupliz-tsike et la caverne de Matsesta (Transcaucasie). \Mém. de la Soc. de spéleologie. Spe- lunca n. 37) Rennes, s. a. 8°. PaoL; G. — Intorno all’Organo del Greber nelle larve di ditteri tabanidi. (Dal Redia. Vol. IV, f. 2, 1906). Firenze, 1907. 8°. PascaL E. — Una formola sui coefficienti polinomiali su di un determinante ri- corrente. (Dal Periodico di Matematica, anno XXII, fasc. VI, 1907). Milano. 1907. 8°. PrLuEGER E. — Untersuchungen iber den Pankreasdiabetes. (Aus dem physiol. Laboratorium in Bonn). Bonn, 1907, 8°. PirazzoLI R. e Masini A. — Osservazioni meteorologiche dell’annata 1905 ese- guite e calcolate dagli astronomi ag- giunti... Memoria presentata alla R. Acc. delle Sc. dell’Ist. di Bologna... dal Prof. M. Raina. (Osserv. della R. Univ. di Bologna). Bologna, 1906. 4°. Rayna M. — Esame di una livella difet- tosa e metodo per correggerne le in- dicazioni. (R. Acc. delle Sc. dell’Ist. di Bologna). Bologna, 1906. 4°. Ragna M. — Sopra le dimostrazioni della formula del Cagnoli relativa alla du- rata minima del crepuscolo. (R. Acc. delle Scienze dell’Ist. di Bologna ...). Bologna, 1907. 4°. Report (Fifth Annual 1906) of. the Rho- desia Museum with Appendix « The Mineral Wealth of Rhodesia ». s. l. 907830 (La R.) Scuola Superiore di Agricoltura in Portici nel passato e nel presente, 1872-1906. Portici, 1906. — 495 — DISSERTAZIONI ACCADEMICHE DELLE UNnIvERSsITÀ DI MARBURG E STRASSBURG. I. — MARBURG. BanTHIEN H. — Beitràge zur Kenntnis der Autoxydationserscheinungen. Mar- burg, 1906. 8°. Barkow E. — Versiche iber Entstehung von Nebel und dessen optische Eigen- schaften bei Wasserkampf und einigen anderen Dimpfen. Marburg, 1906. 8°. Basse A. — Beitrise zur Kenntnis des Baues der Tardigraden. Marburg, 1905. 8° Baum S.— Der Venenpuls. Marburg, 1905. o BLau 0. — Ueber die Temperaturmaxima der Sporenkeimung und der Sporen- bildung, sowie der supramaximalen Totungszeiten der Sporen der Bakte- rien, auch derjenigen mit hohen Tem- peraturminima. Marburg, 1905. 8°. Buazner C. — Beitrige zur Kenntnis der kristallinischen Flussigkeiten. Marburg, 1905. 8°. DeppoLLa PH. — Beitrige zur Kenntnis der Spermatogenese beim Regenwurm. Marburg, 1906. 8°. DirzeL H. — Quellenstudien aus der Um- gebung von Marburg. Marburg, 1905. 8°. DreyLING L. — Die wachsbereitenden Or- gane bei den gesellig lebenden Bienen. Marburg, 1905. 8°. Epsrein B. — Untersuchungen iber Nitro- o-toluylendiamin. Marburg, 1905. 8°. FELDERMANN 0. — Agglutinationsversuche mit Meningococcen. Marburg, 1905. 8°. FLapE FR. — Ueber die Beziehungen zwi- schen der molekularen Oberflachîne- nergie und einfachen chemischen Vor- gaàngen in Flissigkeiten unter beson- derer Berucksichtisung der Tautome- rie. Marburg, 1906. 8°. FukereR R. — Die Theorie der Zahlstrah- len. Marburg, 1905. 4°. GoLrpemann J. — Ueber die Einwirkung von Brom auf Di-p-phenol-methylathy]- methan. Marburg, 1905 8°. Grirer W. — Ein Beitrag zur Aetiologie der Purpura haemorrhagica (Werlhof- sche Krankheit). Marburg, 1906. 8°. HaLLENBERGER 0. — Ueber die Sklerose der Arteria radialis. Marburg, 1906. 8°. HappeL 0. — Ueber die Folgen der Un- terbindung der Ausfihrungsginge des Pankreas beim Hunde. Marburg, 1906. 80 HeLLeR W. — Beitrige zur Theorie des Eisenhochofenprozesses und Untersu- chungen iber die gegenseitigen Bezie- hungen der verschiedenen Kohlenstoff- modifikationen. Marburg, 1905. 8°. Henke K. — Ueber die Einwirkung von Brom und von Salpetersiure auf das as-p-Diphenolaethan. Marburg, 1905. so Hess C. — Ueber die Plaut-Vincentsche Angina. Marburg, 1906. 8°. Hess 0. — Demonstration von Isothermen auf Platten. Marburg, 1906. 8°. HiBsneR E. — Untersuchungen iber 1, 2- Methylnaphtol. Marburg, 1905, 8°. Kann K. — Ueber 1-3-4-Xylenol-5-carbinol. Marburg, 1905. 8°. KauLack J. — Ein Fall von multipler Neurofibromatose des peripheren Ner- vensystems kombiniert mit Fibromen der Nervenwurzeln, Gliomen des Ri- ckenmarks und Sarkomen der Dura mater. Marburg, 1906, 89. Krese B. — Ueber Campherwirkung auf das Herz und die Gefàsse der Sauge- tiere. Marburg, 1906. 8°. KLimpeL E. — Lassen sich die Imbibi- tionserscheinungen an den brechenden Medien mazerierter Kinder zur Bestim- mung der Zeit des intrauterinen To- des verwenden? Marburg, 1906. 8°. — 496 — KLostERMANN W. — Beitrige zur Kennt- nis der Cumarine, Marburg, 1905. 8°. KonLHaas F. — Untersuchungen uber das 2-oxybenzo-5- diphenyldihydrofuranon. Marburg, 1905. 8°. Krarr K. — Ueber die Haufigkeit der Stauungs-Papille bei Tumoren und A- bszessen des Gehirns. Marburg, 1906.89. Lorenz TH. — Beitrige zur Geologie und Palaeontologie von Ostesien unter be- sonderer Bericksichtieung der Provinz Schantung in China. I. Teil. Marburg, 1905. 8°. Mappes H. — Zur Physiologie der Irisbe- wegung. Marburg, 1906. 8°. Minr F.— Untersuchungen iber Autoxy- dationen. Marburg, 1905. 8°. Moperow F. — Das Verhalten der Pu- pillen bei der Konvergenz und Akko- modation. Marburg, 1905. 8°. MorE A. — Ueber geschwefelte Anilide der Malonsiure und der Bernsteinsàure und deren Umwandlungsprodukte. Mar- burg, 1906. 8°. Moses L. — Ueber die Auskultation der Fliisterstimme. Marburg, 1905. 8°. MicrLer H. — Ueber die Metakutisierung der Wurzelspitze und iber die verkork- ten Scheiden in den Achsen der Mo- nokotyledonen. Marburg, 1906. 8°. Ouncry A. — Ueber die Lebensfihigkeit des Vaccine-Virus im Kaninchenkéòrper. Marburg, 1906. 8°. OrtEN €. — Histologische Untersuchungen an exstirpierten Gallenblasen. Marburg, 1906. 8°. Orto H. — Untersuchungen iber die Ent- wicklung von Paludina vivipara. Mar- burg, 1906. 8°. Overzor G. — Beitrige zur Kenntnis der Derivate der Cumalinsiure. Marburg, 1905. 8°. PrelrreR CH. — Zur Physiologie und Iris- bewegung. Marburg, 1906. 8°. PrLiicgeR L. —- Ueber reizlose Ausschal- tung des Lungenvagus durch Anelek- tratonus. Marburg, 1906. 8°. Prerzsca E. — Erweitert sich das Be- cken in Folge vorausgegangener Ge- burten? Marburg, 1905. 8°. RockenBacH F.-— Ueber die Entstehungs- und Verbreitungsweise der Tuberku- lose in dem badischen Orte Walldorf. Marburg, 1905. 8°. Rosenstoc4 0. — Die Vereinigung von Kohlenoxyd und Sauerstoff unter elek- trischen Einfliissen. Marburg, 1906. 8°. rorA J. — Ueber den interpleuralen Druck. Marburg, 1905. 8°. ScHaereR 0. - Zur Phisiologie der Iris- bewegungen. Berlin, 1906. 8°. ScHirmerR R. — Die Unterbindung der Arteria carotis communis und ihrer beiden Endaeste. Marburg, 1906. 8°. ScHLoeMAnN E. — Ueber p-methylierte Hydrobenzoine und verwandte Kérper. Marburg, 1906. 89. ScaNITZLER U. — Ueber die Fortpflanzung von Clepsidrina ovata. Marburg, 1905. 80. ScHun. H. — Elektrische Untersuchungen: I. Ueber oscillatoriseche Kondensato- rentladungen. II. Ueber die Leitfàhi- gkeit von explodierenden Gasgemi- schen. Marburg, 1905. 89. ScHumann G. — Ueber Komplikation von Schwangerschaft mit Ovarialtumoren nebst Mitteilungen von 12 Fàillen aus der Marburger Entbindungsanstalt. Marburg, 1905. 8°. SieckeL 0. — Die ocularen Symptome bei Erkrankungen des knschernen Schi- dels. Marburg, 1906. 8°. SrepHorr J. — Ueber einen Fall von Hi- matometra im verschlossenen Neben- horne eines uterus bicornis unicollis. Marburg, 1906. 8°. STEIMANN W. — Ein Fall von Sacraltera- tom mit besonderer Berucksichtigung seiner Beziehungen zu Primitiystrei- fenresten, zugleich ein Beitrag zur Frage der mono-und bigerminalen Mischgeschwiilste. Marburg, 1905. 8°. STRUCKMANN C. — Eibildung, Eireifung und Befruchtung von Strongylus filaria. Marburg, 1905. 8°. Srirzer A. — Vergleichende Temperatur- messungen zu Marburg a. d. L. und seine barometrische Meereshéhe. Mar- burg, 1906. 89. sei — 497 — THomas J. — Neue Beitrige zur Kennt- nis der devonischen Fauna Argenti- niens. Marburg, 1905, 8°. Tgomas R. — Bestimmung der spezifischen Wirme vom Helium und iber die A- tomwérne von Argon und Helium. Marburg, 1905. 8°. Voer H. — Der zeitliche Ablauf der Ei- weisszersetzung bei verschiedener Nah- rung. Braunschweig, 1906. Wairz v. EscHen F. — Die Basalte ostlich der Linie Wabern-Gensungen. Mar- burg, 1906. 8°. Wicanp A, — Ueber Temperaturabhén- gigkeit der spezifischen Wirme fester Elemente und iiber spezifische Warme und spezifisches Gewieht ihrer allo- tropen Modifikationen. Marburg, 1905. 80. WirzeLmi J. — Untersuchungen iiber die Excretionsorgane der Sisswassertri- claden. Marburg, 1906. 8°. Wirmsen J. — Die Augenverletzungen in der Marburger Universitàts-Augenkli- nik in den Jahren 1899-1903. Marburg, 1905. 8. Wirras M. — Beitrige zur Anatomie der Keratitis vesiculosa und bullosa. Mar- burg, 1906. 8°. WoLpe 0. — Ueber Pseudodysenterieba- cillen. Marburg, 1906. 8°. II. — STRASSBURG. ALGERMISSEN J. — Ueber statische Fun- kenpotential bei grossen Schlagweiten und das Verhiltnis von Spannung und Schlagweite fir schnelle Schwingun- gen. Leipzig, 1905. 8° AnpRIESSEN C. — Ueber Erzeugnisse kon- gruenter Grundgebilde. Strassburg, 1906. 8°. AronHEIN E. — Die Bedeutung der Leu- kocytenzihlung fiur die Diagnose des Abdominaltyphus. Strassburg, 1906. 8°. BannwaRTH J. B.— Die Typhusmortalitàt in Elsass-Lothringen bis zur Einfihrung der organisierten Typhusbekimpfung. Strassburg, 1905. 8°. Bauer A. — Ueber Malignitàt der Bla- senurole. Strassburg, 1905. 8°. BerkÈ TH. — Anthropologische Beobach- tungen an Kamerunnegern. Strassburg, 1905. 8°. BorHme W. — Ueber die durch Insertio velamentosa funiculi umbilicalis be- wirkten Totgeburten. Strassburg, 1905. 80, BrITTLEBANK C. — Ueber Thioharnstoffcu- prosalze. Strassburg, 1905. 8° BiccaeL H. — Ueber ein nicht holonomes System: Die Rollbewegung einer Kugel in einer Kugelschale. Gera, 1906. 3°. Disser R. — Ueber Nabelschnurvorfall. Altkirch, 1905. 8°. DonatH K. — Tuberkulose und Rasse. Weissenfels, 1905. 89. Ecxer 0. — Ueber das Verhalten der a, f, y, d-ungesittigten Ketone bei der Reduk- tion. Strassburg, 1906. 8°. EnceLMANN F. — Komplikation der Lun- gentuberkulose mit Schwangerschaft. Strassburg, 1906. 8°. ErHarp I. — Ueber Spasmotin und Clavin und ihre Bedeutung als wehenerre- gende Mittel in der Geburtshilfe. Strassburg, 1906. 8°. Francors C. — Nierensteine beim Weibe und ihre Komplikation mit der Schwan- gerschaft. Strassburg, 1906. 8°. FreyBURGER A. — Ueber Scalpirungen. Col- mar, 1905. 8°. FroeLIca R. — Ueber die Tuberkulose der Schadelknochen. Strassburg, 1 e 8. Gent W. — Ueber das Vorkommen von A- midosàurenin Harn fiebernder Kranker, sowie im Harn Ikterischer. Strassburg, 1905. 8°. HEIMENDINGER A. — Beitrige zur patholo- gischen Anatomie der Kieferhòhle. Strassburg, 1906. 89°. HerpER M. — Ueber neue allgemeine Al- kaloidreagentien und deren mikroche- mische Verwendung. Strassburg, 1906. 8°. HerkT K.— Ueber Knochenbriche im An- schluss an infektiése Osteomyelitis. Strassburg, 1906. 8°. HinpenBere W. — Ueber in dyspygisches — 498 — Becken beim Neugeborenen mit Spina fissa. Strassburg, 1906. 8°. KaLereLD F. — Ueber die Metreuryse in der Geburtshilfe (an der Hand von 77 Fillen der Kaiserl. Universitàts-Frauen- klinik zu Strassburg i. Els.) Strassburg, 1906. 8°. KreFeR C. L. — Ueber Strahlenkongruen- zen zweiter Klasse fiinfter und niedri- gerer Ordnung. Strassburg, 1905. 8°, KLEIN G. — Neue Fiille von Xeroderma pigmentosum. Strassburg, 1906. 8°. KrònInG B. — Ueber das Auftreten von Convulsionen im Verlaufe des Typhus abdominalis. Strassburg, 1906. 89. Kurscagrow M. — Zur Kenntnis der Me- tallnitrosoverbindungen. Strassburg, 1906. 8°. LanpERS H. — Ueber ein Aufspaltungs- produkt des Furfurnitroaethylens. Strassburg, 1905. 8°. LERMANN E. — Ueber den Bau und die Anordnung der Gelenke der Grami- neen. Strassburg, 1906. 8°. LòwesreIn E. — Ein Fall von Brown-Sé- quardscher Halbseitenlision komplizirt mit einseitiger Phrenicusverletzung und Pneumothorar. Stuttgart, 1905. (32, Lupwie A. — Beitrige zur Kenntnis der dund g-Anisallivulinsiure. Strassburg, 1905. 8°. MapeLUNG W. — Ueber Tetraphenyl-p-xy- lylen. Beitràge zur Kenntnis des Di- metlylenchinons. Strassburg, 1905. 8°. ManceLspore E. — Eine neue Abbildung des linearen Strahlencomplexes auf dem Punktraum. Strassburg, 1906. 8°. May O. -- Chemisch-pharmakognostische Untersuchung der Friichte von Sapin- dus Rarak DC. Strassburg, 1905. 8°. MersneR W. — Ueber Endocarditis im Kindesalter. Prenzlau, 1906. 8°. Meyer K. -- Ueber die Diffusion in Gal- lerten. Braunschweige, 1905. 8°. MeyER P. — Beweis eines von Euler ent- deckten Satzes, betreffend die Bestim- mung von Primzahlen. Strassburg, 1906. 8°. MiLLer F. Th. — Die Eisenerzlagerstàt- ten von Rothau und Framont im Breu- schtal (Vogesen). Strassburg, 1905. 8°. Onse E. — Ein Fall von doppelseitigem Colobom der Oberlider mit Dermoiden der Corneo-Scleralgrenze: ein Beitrag zur Aetiologie dieser Missbildungen. Wiesbaden, 1905. 8°. PauLsen J. — Die Appendicitis in ihren Beziehungen zur Oophoritis und Sal- pingitis. Strassburg, 1905. 8°. PrersporFF F. — Ein Fall von gonorrhoi- scher Erkrankung eines priputialen Ganges. Strassburg, 1905. 8°. PLENKERS À. — Zur Kenntnis der kom- plexen Quecksilberverbindungen. Stras- sburg, 1906. 8°. Pupscnies P. — Zur Kenntnis der Kup- ferammoniaksalze. Mihlhausen,s. c. 89. ReHreLp C. — Ueber Klassenbildung und Klassenzahl in algebraischen Funktio- nenkirpern. Strassburg, 1906. 8°. Rose W. — Die Ueberfiihrung von Zimm- taldehyd in Hydrozimmtsàure durch eine Verschiebung der Doppelbindung. Strassburg, 1906. 8°. Runce H. — Ueber einen Fall von Xan- thomatuberosum multiplex. Strassburg, 1905. 8°. Runce W. — Zur Aetiologie der Pityria- sis rosea Gibert. Strassburg, 1906, 8°. ScanEIDER F. J. — Ueber einige Konden- sationsprodukte der ortho-Phtalalde- hyds. Strassburg, 1905. 8°. ScuHnEIDER P. — Die Lebenschancen der Kinder von kiinstlichen Frihgeburten und Kaiserschnitten. Strassburg, 1906. 8°. ScHRoEDER A. — Beitrige zur Kenntnis einiger auslindischen Fette und Oele. Strassburg, 1905. 8°. ScauLTzE W. — Beitrige zur Kenntnis des Harzòles. Strassburg, 1905, 8°. Simmer A. — Ueber das Verhalten der Alkaloidsalze u. anderer organischer Substanzen zu den Lòsungsmitteln der der Perforationsmethode, insbesondere Cloroform, sowie iiber Reduktionswir- kungen der Alkaloide. Strassburg, 1906. d°. VockeRopT L. — Ueber die Entwickelung — 499 — von Thetaquotienten in unendliche Reihen. Braunschweig, 1905. 8°. Weil S. — Ueber Atemregulation. Strass- burg, 1906. 8°. Wriss H. — Pharmakognostische und phy- tochemische Untersuchung der Rinde und der Frichte von Aegiceras majus G., mit besonderer Berucksichtigung des Saponins. Strassburg, 1906. 8°. WennaGEL E. — Ueber die Beziehungen zwischen Krankheitsdauer und Alter der Darmlaesionen bei Abdominalty- phus. Nach dem Material der Strass- burger medizinischen Klinik. Strass- burg, 1906. 8°. WennaGEL P. — Das Kernig’sche Sym- ptom und seine Bedeutung fiir die Dia- gnose der Meningitis. Strassh., 1905. 89. Wey6anpt A. — Ueber die Umlagerun- gen der 8 y unges. « Hydroxysàuren in a 8 u. # y unges. Laktone. Ueber die Kondensation von « Ketonsiuren mit Aldehyden in saurer und alkali- scher Lòsung. Darmstadt, 1906. 8°. WouLwiLL F. — Der Kaliumgehalt des menschlichen Harns bei wechselnden Zirkulationsverhiltnissen in der Niere. Leipzig, 1906. 89. Zimmermann W. — Klinische Beitràge zur Heilung kompletter Dammrisse. Strassburg, 1905. 8°. Zscnocge 0. — Ueber postoperative, chro- nische, lokale Spasmen beijungen Hun- den. Strassburg, 1906. 8°. M. E. crei it ipo dita A OPA MEMI NON. dalia BRA TL UT Niji sit asi reato Lao H sbulsedea id eli ARiteRAr ni asini tit. i STE GATTE RE teli Seat Mr ACL Pob tp SA privee E it P hg Mesi (il asasa II vr » T4 MP; fi i) MIT, bc. a tibi selettore sie Trai TR si CORR I tata anti dira cio Co Lil cdi Besos gr i d dirt "et std sa print atene 2 VOI 'verratto tor ) rtl la “& vie gt : 17 (A ; sonpirztota li Migbeiei.- AM }i aio ha fate |.& Volbiva:V.*VIE Nele= VENE Serie 3* — TransunTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — IL. (1, 2). — IIE-XIX. Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 48 — ReNDpIcONTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e noturali. Vol. I-XVI. (1892-1907). 2° Sem. Fasc. 7°. ReNDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 4°-50. Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-12°. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fase. 5°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCFI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della . Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l'Italia di L. 89; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno Loescner & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrIco Hoerri. — Milano, Pisa e Napoli. K A ESA Hot toilet — Otto] «

(6/6 Acidi grasso... e i. an 440 Asgiungerò due determinazioni quantitative di glucogeno fatte nel fegato di una testuggine marina. — 517 — VII. — 16 novembre 1905. — Thalassochelys caretta. Si raccoglie il fegato mediocre- mente dissanguato. 1) 100 gr. di fegato sono trattati secondo il metodo rapido di Pfliiger, per la deter- minazione del gloucogeno. Si ottengono 254 cm? di liquido, dopo la saccarificazione. La determinazione polarimetrica del glucosio dà: glucosio Et ds. pr i240529/5 » belor'col ci o RO » 10,48 in toto, Quindi si calcola: glucogenoa . . + gr. 4,857 °/o 2) 100 gr. dello stesso fegato sono trattati nello stesso modo. Si ottengono cm? 280 di liquido, dopo la saccarificazione. La determinazione polarimetrica del glucosio dà: AlTeosto elio otel Ma, 50505 b) ce e > ni ASTA inSsitoto. Quindi si calcola: CIUCOSCNOMMNSNN NA N STMODOZIOO Media delle due determinazioni: S:UCO CENONE - LIMI CONCLUSIONI. Dalle mie ricerche risulta: 1) Che gli acidi grassi del fegato dei Selacii esaminati (Torpedo ocellata, Squatina augelus, Scyllium stellare) hanno un punto di fusione = 28° — 29° C, rispettivamente un punto di solidificazione = 24° — 25° O. 2) Che il residuo secco del fegato di uno Scyllium stellare abbon- dantemente alimentato era = gr. 51,16 °/, (probabilmente il residuo secco del fegato dello stesso animale tenuto digiuno per molto tempo è anche maggiore). 8) Che il fegato dei Selacii contiene sempre quantità relativamente piccole di glucogeno (gr. 0,927 — 2,380 °/), e solo quando gli animali sono stati abbondantemente alimentati. Il glucogeno sparisce rapidamente dal fegato durante il digiuno. E siccome simultaneamente aumenta il contenuto in grasso del fegato, si può supporre che il glucogeno si trasformi in grasso, e che questo sia il materiale essenziale di riserva dei Selacii, mentre il glucogeno, forse anche in conseguenza della natura dell'alimento loro abituale, si forma sempre in piccola quantità e rapidamente è consumato o tra- sformato in grasso. 4) Comunque sia, queste ricerche confermano l'antagonismo che esiste fra grassi e idrati di carbonio, nel fegato, per cui tutte le volte che au- mentano i primi diminuiscono i secondi, e viceversa. 5) Che il fegato dei Selacii contiene grande quantità di ferro, estrai- bile e dimostrabile anche nel modo detto di sopra. 6) Che il fegato di Thalassochelys contiene gr. 5,705 °/, di glu- cogeno, in media. RenpIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 68 = 618, — Fisica matematica. — Trasettorie e onde luminose in un particolare mezzo isotropo e non omogeneo. Nota di ANTONIO GARBASSO, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Ì 1. Ho pubblicato recentemente (') un metodo, che permette di calcolare la forma delle traiettorie e delle onde luminose per un mezzo isotropo qua- lunque, del quale sia noto l'indice in funzione delle coordinate. Applicavo il procedimento in discorso al caso particolare in cui è 1 (1) ia 33° con a e d costanti, e facevo vedere che l'onda di codesto mezzo è una sfera con l'equazione (2) |e —_ > (00° | e! — 2) | SL y += 2. (et ei. I punti nei quali la sfera è forata dall'asse # sono dati da Rd bi a=zle 1) e se d è positivo una di queste ascisse tende al valore limite — a/b. Fisicamente la cosa si intende assai bene, perchè nel piano «= — a/b l'indice è infinito e la velocità di propagazione è nulla. Trascorso un tempo sufficiente dall'inizio del fenomeno l'onda continua bensì ad allargarsi e ad avanzare, ma come una bolla di sapone, che si gonfia senza staccarsi dalla canna. Ad ogni modo la forma della superficie rimane la stessa per ogni va- lore di £. 2. Assai diversamente vanno invece le cose, quando l'indice sia legato alla coordinata x dalla relazione (3) n=n + ax. (') A. Garbasso, Z'raiettorie e onde luminose in un mezzo isotropo qualunque (Rend. R. Ace. dei Lincei, (5), XVI, [2], 41, 1907). — 519 — E un caso questo, che fu studiato a suo tempo da Biot, per ciò che riguarda almeno la forma e il numero e la posizione delle traiettorie. La (3) ha poi un'importanza tutta speciale dal punto di vista pratico, potendosi conside- rare come una prima approssimazione per il processo che dà origine al mi- raggio di Monge ('). Lo studio del problema dipende da quello della equazione alle” derivate parziali — 2a +e) + (o) +) = della quale è soluzione completa la dn 1 Conn "TE W= ey tp Eh + aa) — a] . Come è noto si ottengono subito di qui gli integrali dW ì — = o, da dW Trai ate DA =} e nel caso nostro Le) VT Vitara + Va—@=o0, 3 o (i par a+ TI panna + 32 A, 2)2 ED) TERE ped 2 ang, (ta?) x Yni—a?=0 (2). L'equazione dell’onda risulta dalle (4), eliminando fra esse la @. Noi poniamo anzitutto (5) W=n+ ar — e, (6) p=nmn—-e?, e le (4) assumeranno la forma più semplice y-fEa—n=o0, (4) ig w) + n) +224= (1) A. Garbasso, /l miraggio (Mem. R. Acc. d. Se. di Torino, (2), LVIII, 1, 1907). (2) L’onda parte dall'origine delle coordinate all’origine dei tempi. Si assume 24 = 1. — 520 — Dalle (5) e (6) viene (7) ’—-u=(724+u)(A—u)=ax, e dalla prima delle (4') 1) (8) a-u= DI e dividendo membro a membro (7) per (8) 2ax 9 À = ; (9) + W 7 A loro volta le (8) e (9) dànno subito ( 1 (10) : =; l_-9 con p=2ex/j , q=ay/2a; e le (10) permettono di stabilire l'identità algebrica 2u? 2 2a GE 2h = "(23° — u? n (Am) +222=5 (A — 19), per la quale la seconda delle (4) sì trasforma nella re 3 PS — 14 @-w)+ey=0. Riassumendo, le equazioni nostre (5), (6) e (4') sono sostituibili con le quattro i=j +9), (11) dI ov (DE (1) La quarta di queste equazioni ha un interesse geometrico particolare. Proviamoci infatti a derivarla rispetto ad «; otterremo facilmente d du \ 2 (di de) y=o, a de du ma dA du el — — — cc, da da e dunque 1Y “di Me” Di che è la prima delle (4°); vuol dire che la superficie d’onda è l’inviluppo delle superficie = (4 (4— uu) +au=0. — 521 — Si prenderanno adesso i valori di Z e w dalla prima e dalla seconda di queste equazioni, e si introdurranno nella terza e nella quarta. Viene at y* Ma + yet — 29 + ao) += 0, 2954 (a+ y9) ot — gia + 2 =0, o ancora a yi Ayta° — 2y°(2n6 + ax) a° + reni 05 2,4 (0° +9) at — pia +7 =0 Le ultime uguaglianze hanno la forma ano + ara + aî=0, boat + bi a? + 5,=0, risultato dell'eliminazione è dunque la CAMORRA RON 00 Oa Oa 00 (12) OE 0 0A MO 2 = 0 la quale rappresenta appunto la superficie d'onda. Svolgendo si trova (12°) a*03 + 6a° B?0? — 540° BC + 9B'C — 18#B? + 81a°f#= 0, dove si è posto per semplicità (13) B= 20 + ax, (14) C=ax°+4y?. Per a=0 la (12°) fornisce ossia eo — come sì poteva prevedere. Escluso questo caso si moltiplichi la (12') per a?, e si ponga ancora (15) A=eC, (16) bia Verrà (17) A* + 6A°B° — 6AB0° | 9AB* — 2B30°? + 64— 0, o, che fa lo stesso, (18) [B(3A + B?) — 6°} =(B? — A)? È l'onda cercata. 3. La (18) rappresenta una linea di sesto ordine, simmetrica rispetto all'asse delle x. Viene subito 9° — B(GRCE B:) + (B:_ A); scelti a caso # e y sì avranno dunque due valori reali, o se ne avrà uno solo o nessuno per la 6, secondo che è B_A=0. Questo vuol dire che un punto sarà incontrato due volte, una o nessuna dalla perturbazione luminosa, secondo che è dentro o sopra la linea (19) BE o fuori di essa. La (19) rappresenta una parabola, avente per asse l’asse delle #, con la concavità rivolta verso le 4 positive e il vertice nel punto demi, y={0 La parabola (19) si era già presentata a Biot, come inviluppo delle traiettorie iaia 4. L'onda (18) può assumere tre forme caratteristiche, le quali si di- stinguono per il numero dei punti doppî da esse posseduti. La cosa risulta dalla considerazione che i punti doppî si avranno an- nullando separatamente i due membri della (18), ponendo dunque | B(BA-+ B°)— 6°—=0, (BE2A=0, o, che fa lo stesso, 4B°— 60=0, B-A=0. | L7® 02 — Eliminando fra queste la 4 si ottiene Soy (0°) See Ue ita (A 05 vi sono dunque due punti doppî, o ve n'è uno solo, o non ve n'è nessuno, secondo che (20) 6=2nî. È poi evidente che i punti doppî stanno su la parabola (19), e quando si riducono ad uno coincidono col vertice di quest’ ultima. Con calcoli noti si riconosce infine che i punti doppî della nostra curva sono altrettante cuspidi. 5. Le forme caratteristiche dell'onda per i diversi tempi si rilevano dal diagramma. In esso ho preso n= U=39 ed ho ingrandito ascisse e ordinate nel rapporto di 3 ad 1. La condizione (20) assume ora la forma La linea ha da principio (9= 1) una figura tondeggiante e molto vicina a quella di una circonferenza di cerchio, col centro leggermente spostato verso le x negative. E naturale che sia così, poichè per piccole 4 si può scrivere nu=Va+ar =/V1+%, s — 11 ge e si ricade dunque nella legge espressa dalla formola (1). Giù ci Si ASS RES i Co (= Zara AA ed TT #10 17 ASSET |k 1 Era LIS Per 6=2 l'onda raggiunge la parabola (19), rappresentata anch'essa nel disegno, con un tratto alquanto più marcato, e la fora con una cuspide nel vertice. Immediatamente dopo la cuspide si sdoppia, e fra le cuspidi nuove compare un rigonfiamento, con la convessità voltata verso l'alto. Le due cuspidi scorrono lungo la grande parabola e sì allontanano risalendo a destra e a sinistra. Per 9=4 l'onda ripassa per l'origine, dalla quale fu emessa al tempo zero. La superficie tende nel seguito a conservare la sua forma, almeno in quanto le cuspidi rimangono indietro dalla fronte di un tratto costante. Si osserverà infatti che la fronte dell'onda ha per ascissa I) +] mentre le cuspidi hanno l’ascissa pae LO) de 2 | dn 2 |; viene dunque Ù dIX al - + 273 ) “20 MS 2 4 dé 4) E) "30 s( le quali velocità tendono a coincidere per valori un po' grandi del tempo. — 529 — 6. Il fatto che l'onda ripassa due volte per un medesimo punto ha il suo riscontro nella circostanza, segnalata da Biot, che ogni posizione interna alla parabola (19) si congiunge all'origine con due traiettorie luminose, pos- sibili. Ho descritto, per mettere la cosa in chiaro, i due raggi parabolici passanti per uno dei punti di intersezione delle onde 9=2 e 0.=4 (1). Come appare dal disegno, ognuna delle traiettorie risulta normale al- l'onda corrispondente, ma una volta la direzione della propagazione è secondo la normale esterna, e l’altra secondo la normale interna. Geologia. — Revisione della fuuna oligocenica di Laverda nel Vicentino. Nota di G. CANESTRELLI, presentata dal Socio CARLO DE STEFANI. La Val di Laverda o Lavarda è una località dei Sette Comuni nella provincia di Vicenza già nota, in quanto di essa ebbero ad occuparsi innu- merevoli autori, e dal punto di vista paleontologico in modo speciale Bayan, Fuchs, Suess ed in tempi recenti Oppenheim. Questi si diffuse sui rapporti stratigrafici e stabilì alcuni confronti faunistici, aggiungendo le sue alle de- terminazioni sparse negli autori precedenti. La fauna dei depositi della Val di Laverda è ricchissima, ed io ho po- tuto studiarne numerosi esemplari provenienti in parte dalla Collezione Secco e da una raccolta donata dall'avv. Vescovi al prof. De Stefani, che si con- serva nel Museo Geologico dell'Ist. di S. S. di Firenze e in parte da una raccolta fatta da me sul posto. Le specie determinate sono le seguenti. Segno con un asterisco le specie comuni coi giacimenti del Bormidiano, o Tongriano, o Miocene inferiore od Oligocene che dir si voglia del Piemonte e della Liguria. Le specie in cor- sivo appartengono anche all’eocene. PROTOZOA. * Nummulites intermedius * Nummulites Fichteli. Micht. D'Arch. ZOANTHARIA. Dendracis seriata Reuss. Antillia cfr. cylindroides Reuss. Dendrophillia vicentina n. * Montlivaultia carcarensis Sp. Micht. Phyllocenia lucasana Defr. Trochosmilia alpina Michel. *Cyatomorpha rocchettina Flabellum appendiculatum Mich. Brongn. Rabdophvllia tenuis Reuss. (1) Sono segnati nel diagramma con un tratto discontinuo. RENDICONTI, 1907. Vol. XVI, 2° Sem. 69 — 526 ECHINODERMATA. * Echinolampas affnis (Goldf.) Agas. MoLLUSCA. * Pecten arcuatus Broce. Tapes, sp. Pachyperna laverdana Oppenh. Nucula Greppini Desh. * Cardita Laurae Brongn. *Crassatella neglecta Micht. A ” problematica Micht. ) trigonula Fuchs. i) De Gregorioi Dain. (anche da M. Promina). ’ plumbea Desh= (0. tu- mida Lmk. i) sulcata Sol. Corbis major Bay. Cardium, sp. * Venus Lugensis Fuchs. Venus, sp. * Cytherea porrecta V. Koen. S ” dubia Micht. ’ brevis Fuchs. Tellina laverdana n. sp. * Psammobia pudica Brongn. Macrosolen plicatus Schaur. * Pholadomya Puschi Goldf. * Homomya Heberti Bosqu. ti 7 declivis Micht. *Thracia maninensis De Greg. SCHAPHOPODA. * Entalis appenninicum Sacco. GASTEROPODA. Turbo Asmodei Brongn. Delphinula latesulcata De Greg. * Trochus lucasianus Brongn. Turritella Archimedis Brongn. ” incisa Brongn. ” asperulella Sacco. var. simplicula Sacco. var. ventrosimplex Sacco. * Natica crassatina Lmk. x ” scaligera Bay. ” Garnieri Bay. ” (ampullina) Vulcani Brongn. Diastoma Oppenheimi n. sp. (trovasi anche al M. Promina). * Diastoma costellatum Lmk. * Cerithium Ighinai Micht. *Chenopus pes-carbonis Brongn. * Cypraea (Zonaria) explen- dens Sacco. Cassis vicentina Fuchs. * Cassis (Galeodocassis) am- bigua Sol. Triton Delbosii Fuchs. * Eburna apenninica Bell. Hemifusus Brongniartianus D'Orb. Fasciolaria Lugensis Fuchs. * Pyrula condita Brongn. Murex pumilis Fuchs. Marginella amphiconus Fuchs. ” lugensis Fuchs. * Mitra comperta Rov. Voluthilites elevata Sow. * Pleurotoma carcarensis Bell. Cryptoconus lineolatus Lmk. Drillia obeliscoides Schaur. * Dolichothoma cataphracta Brocc. * Conus ineditus Micht. ” alsiosus Brongn. ANNA, protensus Micht. — 527 — CRUSTACEA. Coeloma vigil A. Edw. Uno sguardo alla surriferita nota delle specie ci mostra che quattordici appartengono all'Eocene e soltanto quattro, cioè (Pholadomya Puschi Goldf: Turritella Archimedis Brongn; Pyrula condita Brongn; e Dolicothoma cataphracta Brocc), anche al Miocene; perciò il nostro terreno ben a ra- gione fu da tutti gli A. attribuito all’oligocene. L'esame delle specie conferma pure la grande affinità con quelle vicentine di Sangonini, di Gnata, di Salcedo, di Soggio di Brin, di Lavacille presso Bassano. Oppenheim (') è riconosciuta « l'equivalenza dei conglomerati e marne « di Laverda e dei tufi di Sangonini con gli strati a briozoi e con le più « profonde formazioni calcaree dei gruppi di Castelgomberto e di Montecchio « Maggiore ». Egli à esclusa l’equivalenza stessa con le formazioni più ele- vate dei due gruppi ricordati. La fauna dei molluschi da me ritrovata a Laverda, se presenta, come dissi, numerose corrispondenze con quella di Sangonini, à infatto ben poche specie comuni con quella delle formazioni tipiche di Castelgomberto (Pecter arcuatus Brooc.; Trochus lucasianusBrongn.; Turritella incisa Brongn.; Diastoma costellatum Lmk.; N. crassatina Lmk; Cerith. Ighinai Michl.; Cassis vicentina Fuchs), formazioni che Oppenheim (*) considera oligoceniche medie. Egli spiega le differenze fra la fauna tipica di Castelgomberto e quelle di Laverda, Sangonini ete. con una diversità di facies, dovuta alle differenze di profondità (*). Sono intimamente connesse con le formazioni della Val di Laverda quelle di Dego Carcare; Sassello in Liguria, attribuite pur esse al Ton- griano o Bormidiano o Miocene inferiore od Oligocene secondo i varî autori, concordi nella sostanza, discordi sul nome. Molte sono, come si vede dalla nota delle specie, le forme da me riconosciute comuni, delle quali alcune poche già erano note come tali, altre potei ridurle col confronto dei lavori di Bellardi (*), Sacco (*), e Rovereto (°), dovendosi tener presente che non mancò il caso ch'io riconoscessi nella fauna laverdana specie ritrovate finora solo nei giacimenti piemontesi. Tutto ciò mi porta ad ammettere fra i due bacini oligocenici, veneto e piemontese, una concordanza faunistica perfetta, anche più ampia di quella indotta da Oppenheim (”) e finora dagli (1) Oppenheim, Zeitsch. d. d. geol. Gesells., 1900, pp. 250-251. (*)Oppenheim, Zeitschr. d. deuts. geol. Gesellsch., 1896, pag. 276, 279 ; 1900, pag. 248- 249; 1906, pag. 169, 170. (5) Oppenheim, Zeitschr. d. deuts. geol. Gesellsch., 1900, pag. 252. (4) Bellardi, Moll. dei terr. terz. Piem. e Ligur. Torino. Vol. I-V. (5) Sacco, ” 2) » » n b) Vol. VI-XXX. (8) Rovereto, Illustr. dei moll. foss. tongriani. Genova, 1900. (7) Oppenheim, Z. d. d. g. G. 1900, pag. 255. — 528 — altri. A queste osservazioni generali sulla fauna ne farò seguire alcune par- ticolarmente importanti per certe specie. Accennerò dapprima brevemente alla denominazione generica e specifica da me adottata di Macrosolen pli- catus Schaur. (= Solen plicatus di Schauroth = Psammobia cfr. Hollo- waysi Sow. di Bayan e Fuchs= Zatosiliqua plicata Schaur. di De Gre- gorio = Psammobia plicata Schaur. di Oppenheim). — Relativamente al nome specifico converrà avvertire che, poichè per le differenze negli umboni e nella ornamentazione la specie inglese (Z/0//owaysi) di Sowerby va tenuta distinta da quella di Schauroth (plicatus), cui appunto la nostra si ravvi- cina, così dovremo usare per quest'ultima il nome stesso di Schauroth. Avendo inoltre riconosciuta la differenza generica di questa specie dai generi Psam- mobia, Solen, Sanguinolaria ete., e il suo riferimento al gen. Macrosolen Mayer-Eym, o al gen. Zatosiligqua de Greg., fedele ai principî di priorità, ho adottato il primo. Nella nota delle specie leggiamo: Homomya Heberti Bosq., Homomya declivis Micht. È necessario spiegare fin d'ora lo spostamento di queste due specie dalle G/ycymeridae Desh. al gen. Homomya delle Pholadomydae Desh. In due degli esemplari di H. Heberti Bosq. da noi raccolti a Laverda è par- zialmente conservato il guscio, e su di esso, come anche è d'avviso il col- lega Toniolo, si vedono le fini serie di granulazioni, che caratterizzano il gen. Homomya (*), al quale ho così riferita la specie di Bosquet. Ritengo che gli possano appartenere anche altre delle specie ad essa affini quali la Glye. intermedia Sow. e la Glyc. declivis Micht. Si tratta quindi di vere Pholadomydae e non di Glyeymeris o Panopeae. Chiuderò questa mia Nota con un'osservazione relativa alla Cras- satella maninensis De Greg. (*)e Thracia Canavarii Rov. (3). Nel confronto con alcune forme che ho ad essa riferite della Val di Laverda ho potuto stabilire: prima che la specie di De Gregorio è una 7hracia e non una Crassatella; e in secondo luogo che le due specie posson considerarsi iden- tiche, adottando peraltro il nome specifico di De Gregorio, come quello di data anteriore. (1) Zittel, Palaeozoologie, II, pag. 124, fig. 178. (*) De Gregorio, Envir. de Bassano, Ann. de Paléont., XIII, pag. 20, tav. III, fig. 62. (*) Rovereto, Moll. Tongr., pag. 125, tav. VII, fis. 20. Geologia. — Osservazioni geologiche su Monti Picentini nel Salernitano ('). Nota preventiva del dott. AGOSTINO GALDIERI, presentata dal Socio F. BASSANI. Sto studiando da parecchio tempo i Monti Picentini, ed ho già raccolto alcuni fatti che accrescono le nostre cognizioni geologiche su quella regione. Perciò, pur non avendo ancora pronto il lavoro completo, credo opportuno di far conoscere i principali risultati finora ottenuti dalle mie ricerche (?). La regione di cui qui mi occupo è precisamente quella, aspra e mon- tuosa, compresa tra le alte valli del Picentino, del Sabato e del Sarno. Le rocce più antiche di essa, messe allo scoperto dal Picentino e dal Fiume di Prepezzano, sono dei calcari a liste e noduli di selce con inter- calazioni dolomitiche e scistose, ai quali seguono dei calcari scuri siliciferi e degli scisti argilloso-marnoso-silicei. Questo complesso di rocce, tra loro strettamente connesse, che era sfuggito ai ricercatori precedenti, ricorda assai da vicino, dal punto di vista litologico e stratigrafico, quello che costituisce la base del Trias dei dintorni di Lagonegro e del resto della Basilicata; inoltre vi ho raccolto il Chondrites triasinus, De Stef. e pochi frammenti di una Za/obia, che credo di potere identificare con la Holobia sicula, Gemm. Per tali ragioni ritengo -che questi sedimenti si possano parallelizzare a quelli consimili della Basilicata, che il De Lorenzo ascrive alla parte supe- riore del Trias medio. A questo complesso scistoso-calcareo-dolomitico segue una potente ed estesa formazione dolomitico-calcarea, che costituisce la massima parte di questo gruppo di monti, e che prima veniva ascritta per intiero alla Dolomia principale. Essa risulta: in basso da una grande massa di dolomia chiara, massiccia, friabile, nella quale sono intercalati degli scisti marnoso-calcarei, alternati e ricoperti da calcari scuri reticolati; ed in alto da dolomia stra- tificata. Questa è scura nella porzione inferiore, e chiara e spesso silicifera nella superiore: la parte più alta della dolomia scura racchiude dei calcari dolomitici fortemente bituminosi. Nella dolomia massiccia sottostante agli scisti marnoso-calcarei ho osser- vato dei grossi Megalodonti e qualche Sphaerocodium. Negli scisti marnoso- (!) Lavoro eseguito nell’Istituto di Geologia dell’Università di Napoli. (2) Devo questi risultati agli amorevoli consigli ed aiuti di cui mi è largo il prof. Bas- sani. Egli permetta quindi che gli esprima pubblicamente la mia vivissima gratitudine. — 590 — calcarei, che finora erano passati inosservati, ho raccolto le seguenti specie : Estheria minuta, Goldf. sp. Casstanella tenuistria, Mist. sp. Pseudomelania Minsteri, Wissm. sp. Moernesia bipartita, Mér. sp. Dentalium undulatum, Minst. Myophoria vestita, v. Alb. Avicula decipiens, Sal. Cardita Gimbeli, Pichl. Cassitanella Beyrichi, Bittn. Cardita latemarensis, Phil. Casstanella decussata, Minst. sp. Cardita petaloidea, Costa sp. Cassianella gryphaeata, Minst. sp. Protocardium rhaeticum, Mér. Cassianella Napolii, Costa sp. Lingula affi. tenwissima, Bronn. Nei calcari scuri reticolati, che fanno insensibilmente continuazione agli scisti sottostanti, e nella porzione inferiore della dolomia massiccia chiara immediatamente soprastante si osservano numerosissimi Sphaerocodium Bornemanni, Rothpl. In base a questi varii elementi paleontologici ascrivo quindi al S. Cas- siano-Raibl, che ritengo costituire un solo piano, la dolomia massiccia infe- riore, gli scisti, assai bene confrontabili a quelli della Punta delle Pietre Nere, i calcari scuri e la porzione inferiore della dolomia massiccia superiore. Questa dolomia massiccia superiore, mentre alla base è gremita, come ho detto, di Sphaerocodium, diviene poi, salendo, subito quasi affatto sterile, e tale si conserva per tutta la sua restante altezza, contenendo solo verso l’alto qua e là qualche rara plaga fossilifera, in cui ho trovato le seguenti specie: Coelostylina conica, Minst. sp. Meg. Hoernesi, var. elongata, Frech Megalodus complanatus, Gimb. Megalodus Loczyi, Hoern. Megalodus Damesi, Hoern. Megalodus triqueter mut. panno- Megalodus Gimbeli, Stopp. nica, Frech Megalodus Hoesnesi, Frech Trigonodus atî. postrablensis, Frech. Nella dolomia stratificata scura soprastante, che è compatta ed assai tenace, ed ancora meno fossilifera della precedente, non ho raccolto che poche specie, tra le quali ho determinato: Acteonina scalaris, Minst. sp. Arcomya Sansonii, Sal. Promatildia tyrsoecus, Kittl Trigonodus aff. postrablensis, Frech. Ben più importanti dal punto di vista paleontologico sono i su- periori calcari dolomitici bituminosi. Questi fornirono al Costa la bellissima ittiofauna di Giffoni, che, come è noto, il Bassani dimostrò identica a quella della Dolomia principale di Seefeld e di Lumezzane. Essi racchiudono anche, ma solo nella remota regione del Pettine e dintorni, degli strati o, piuttosto, delle lenti di ottima lignite, purtroppo poco spesse e poco estese. — 591 — Infine nella dolomia stratificata chiara soprastante ho raccolto, oltre a molte minute Gyroporellae, una fauna non meno interessante di quella rin- venuta negli scisti marnoso-calcarei. Ecco le specie che per ora vi ho de- terminate: Gosseletina Calypso, Lbe sp. Gervilleia eailis, Stopp. sp. Stuorella subconcava, Minst. sp. Gervilleia De Lorenzoi, n. sp. Worthenia coronata, Minst. sp. Myoconcha gregaria, Bittn. Worthenia Escheri, Stopp. sp. Myoconcha Mulleri, Gieb. sp. Worthenia Plutonis, Kittl Macrodus imbricarius, Bittn. Worthenia spuria, Minst. sp. Macrodus juttensis, Pichl. Neritopsis Costai, Bass. Palaconeilo praeacuta, Klipst. sp. Neritopsis pauciornata, Wéòhrm. Anoplophora Minsteri, Wissm. sp. Purpuroidea crassenodosa, Klipst.sp. Myophoriopsis Bassanii, n. sp. Coelostylina conica, Minst. sp. Megalodus anceps, Lbe sp. Avicula falcata, Stopp. Megaiodus rostratus, Lbe sp. Avicula Gea, d'Orb. Gonodus Mellingi, Hauer sp. Mysidioptera Cainalli, Stopp. sp. Gonodus subquadratus, Par. sp. Mysidioptera Wòhrmanni, Sal. Amphiclina ungulina, Bitta. È bene rilevare che queste specie, fra le quali predominano quelle di S. Cassiano, associate principalmente a quelle di Raibl, furono da me rac- colte in gran parte a Pizzo Autolo, in strati che sono certamente sovrapposti a quelli a lignite con ittiofauna della Dolomia principale. Questa sovrappo- sizione parve anche evidente al prof. De Lorenzo, che, da me pregato, si recò sul luogo a verificarne le condizioni tettoniche: della qual cosa qui lo ringrazio sentitamente. Includo per ora nella Dolomia principale tutti i membri testè indicati, cioè la porzione superiore della dolomia massiccia superiore, la dolomia stra- tificata oscura, i calcari dolomitici ittiolitiferi e la dolomia stratificata su- periore; ma non posso tacere che il fatto di avere ritrovato molti fossili del S. Cassiano e del Raibliano certamente al di sopra dei pesci della Dolomia principale, aggiunto all’altro fatto, già ripetutamente osservato, come nota il Di-Stefano, della frequente presenza nella Dolomia principale di forme di orizzonti triasici più bassi, mi fa fortemente sospettare, per quanto ciò possa sembrare a molti inammissibile, che il S. Cassiano-Raibl e la Dolomia prin- cipale debbano raggrupparsi in un sol piano, o per lo meno che essi, sia paleontologicamente che stratigraficamente, sieno collegati tra loro in modo assai più intimo di quanto finora in generale si ammetta in base allo studio del Trias delle Alpi. Certo è che nella regione da me esaminata la distin- zione fra S. Cassiano-Raibl e Dolomia principale è assolutamente artificiale e forzata dai punti di vista litologico, stratigrafico e paleontologico. 590 = Riassumendo, ecco come sono costituiti e disposti i sedimenti triasici dei Monti Picentini, e come sarebbero alla meglio da parallelizzare, rite- nendo corrispondente al vero l'attuale suddivisione del Trias alpino: + 2| Polomia stratificata chiara s | # £&| Caleari dolomitici ittiolitiferi S| 2 | Dolomia stratificata oscura ì 2 Z| Dolomia massiccia a Megalodonti CANE Dolomia massiccia a Sphaerocodium È È = | Calcari scuri reticolati S È È | Scisti marnoso-calcarei ms Dolomia massiccia a Sphaerocodium SÌ È Ss Scisti argilloso-marnoso-silicei S|. | Calcari scuri siliciferi È 3 Calcari a liste e noduli di selce R Aggiungo però che in questo schema sono trascurate molte variazioni, come la mancanza di marne tra la dolomia massiccia inferiore e la superiore (p. es. nella valle di Calvanico); la presenza di lenti di selce nella dolomia stratificata chiara (p. es. a Sud-Est di Piazza di Pandola); la rara comparsa di stratificazione in mezzo alla dolomia massiccia, e, viceversa, il frequente aspetto massiccio in dolomie lateralmente stratificate; la frequenza di do- lomie fra i sedimenti del Trias medio, ed altre modalità, che non è il caso di riportare in una nota preventiva. Sui terreni del Trias superiore ora menzionati poggia un calcare grigio, compatto, quasi ceroide, a fossili spatizzati, spesso a struttura oolitica con cemento cristallino incolore. L'aspetto di questo calcare, che è assai caratte- ristico, sia in massa che nella frattura fresca, mi fa essere certo ch’esso è la continuazione di quello identico che ricopre il Trias al Massico, al S. An- gelo Albino e al Parco di Mercato S. Severino, e che affiora nell'isola di Capri, al Pizzo Acuto di Nocera ed in molti altri punti dell'Appennino me- ridionale. Sarebbe quindi assai importante determinarne esattamente l’età; invece al Massico, dove sottostà a calcari urgoniani, è stato indicato come probabile Lias dal Cassetti e dal Baldacci; a Capri, dove affiora alla base del Monte Solaro, fu compreso nel Titonico dall’Oppenheim; e negli altri luoghi indicati non ha richiamato l’attenzione, ma viene implicitamente in- cluso nel Cretaceo. Che in fatto poi sia Cretaceo, mentre me lo confermerebbero delle Nerinee, in esso da me rinvenute, le quali sembrano affini ad altre cretacee, d'altra parte me ne fanno dubitare delle sezioni di bivalvi a guscio sottile, cuoriformi, che si direbbero di Megalodonti. Spero di poter essere in seguito più esplicito mercè la determinazione dei pochi fossili a stento finora raccoltivi ed il ritrovamento di altri. Intanto è utile notare che in questo calcare è talvolta intercalata qualche massa di dolomia bianca, sac- | — 593 — caroide, spesso farinosa, come alla Costa. presso Mercato S. Severino, e a S. Maria a Monte, presso Nocera; e che esso poggia in discordanza sul Trias, riposando ora sulla dolomia stratificata, come al Varco del Pruno, ora su quella massiccia sottostante, come a Terra Vecchia. Sui sedimenti ascritti al Cretaceo, che coronano i Monti Picentini, non posso ancora riferire nulla di mio. Certo però non sono cretacei «i calcari a Rudiste che », secondo il De Amicis, « formano la cima del M. Pettine (950 m. sul mare) ». Nè al Pettine (m. 1045), nè nella vicina cima alta 950 m., nè nei dintorni vi sono calcari a rudiste: la cima del Pettine è fatta di dolomia stratificata chiara; quella vicina alta 950 m., di dolomia stratificata oscura. I sedimenti mesozoici, di cui risulta essenzialmente la regione studiata, costituiscono nell'insieme delle enormi pile di strati, tra i quali sono inter- calati grandi ammassi dolomitici, inclinate generalmente tra Nord-Ovest e Nord-Est ed attraversate da numerose fratture longitudinali e trasversali. Le zolle pressochè rettangolari, derivanti da questi due sistemi di fratture orto- gonali, si presentano in generale spostate a gradinate oblique verso Sud. Queste gradinate sono però spesso interrotte da scaglioni protuberanti, perchè meno sprofondati di quelli vicini. In relazione a questa tettonica molto semplice, in generale i monti staccati risultano da zolle isolate, i dorsi al- lungati da zolle allineate, e le valli, specialmente le principali, corrispondono ai due sistemi di fratture. Le sorgenti, almeno le più importanti, si hanno quasi tutte al contatto dei calcari scuri reticolati (ai quali, come s'è visto, sono associati e sottoposti gl’ impermeabili scisti calcareo-marnosi) con la do- lomia massiccia soprastante. Le estreme falde di questo gruppo montuoso sono lambite a Sud-Est da depositi eocenici, formati da calcari marnosi, scisti argillosi ed argille. Questi depositi poggiano in discordanza su quelli mesozoici. Il fondo delle valli è occupato dal Quaternario, che risulta principal- mente di materiali alluvionali, di solito incoerenti, a cui si associano, spe- cialmente in alto, dei tufi vulcanici sciolti, in prevalenza trachitici, ricchi di pomici e più o meno alterati. Tra questi ultimi, nella valle di Fisciano, fin oltre Calvanico, è compreso del tufo trachitico coerente, grigio, o rossastro per alterazione, sonoro: il così detto tufo campano. Qua e là, al di sotto dei materiali anzidetti, si nota del /eRm con pomici alterate e del ehm senza po- mici; quest'ultimo probabilmente di origine lacustre ed anteriore all'attività vulcanica della Campania. Scarsi depositi di travertino ancora in formazione fiancheggiano qualche corso d'acqua. Tutti questi materiali quaternarii si presentano per lo più terrazzati per effetto dei corsi d’acqua, che li incidono più o meno profondamente, de- terminandovi delle belle sezioni naturali. Il Quaternario, oltre a costituire tali terrazzi alluvionali, ricopre pure Renpiconti. 1907, Vol. XVI. 2° Sem. 70 — 534 — dei terrazzi di erosione, che intaccano qua e là i monti studiati e quelli vicini. Su questi terrazzi, ora per la prima volta notati in questa parte del- l'Appennino, non posso fornire per il momento che scarsi particolari Essi sono rappresentati in generale da più serie di altipiani frequentemente in- terrotti da gole di erosione o da valli trasversali, i quali vanno declinando nello stesso senso della relativa valle principale, ma in grado assai meno notevole ed i cui cigli per lo più precipitano rapidamente verso la sotto- stante valle e le vallecole laterali. Essi s'incontrano a varie altitudini, fin oltre i mille metri; sono incisi uniformemente nelle diverse rocce in modo indipendente dalla resistenza assai varia di esse; e sono di solito ricoperti per altezza notevole, crescente verso l’asse della valle principale, da banchi di conglomerato, spesso ammantati da tufi sciolti. I banchi di conglomerato hanno spessore variabile, e risultano ordinariamente delle stesse rocce che . affiorano in sito, alle quali però qualche volta sono associate altre rocce, che ora non si trovano a monte dei posti ove questi banchi vengono osser- vati. I frammenti, per solito ad angoli smussati, sono cementati da calcite per lo più compatta e ferruginosa, qualche volta cristallina ed incolore, di origine concrezionare. I tufi sciolti, quando non sono stati asportati dall'acqua, sì trovano costantemente sopra e mai in mezzo al conglomerato; hanno lo spessore di qualche metro, e sono in uno stato piuttosto avanzato di altera- zione. È anche degno di rilievo che un conglomerato simile a quello che ricopre i terrazzi di erosione si trova pure, in banchi pressochè orizzontali, sul cocuzzolo di colline o sulla sommità di alti speroni montuosi che risul- tano di roccia affatto diversa da quella predominante nel conglomerato. Così, p. e., lo sperone dolomitico che termina ad Est di Piazza di Pandola ha i punti più sporgenti della vetta costituiti da un conglomerato risultante quasi esclusivamente di quel calcare grigio, spesso oolitico, che ho notato ricoprire in discordanza il Triasico, e che non si trova in posto a meno di parecchi chilometri di distanza. È assai probabile che codesti elevati e spesso isolati cappelli o manti di conglomerato ricoprano anche essi dei residui di ter- razzi rimasti isolati in seguito al regresso dei solchi vallivi verso le vette. Ad ogni modo questi terrazzi, formatisi assai probabilmente nel periodo tra gli ultimi tempi del Pliocene e le prime grandi conflagrazioni vulcaniche della Campania, erano molto estesi e frequenti. Ora non ne rimane che qualche lembo; il resto è stato eroso per effetto soprattutto delle consecutive emersioni. L'erosione ha dunque avuto un'importanza grandissima nel fine modellamento di quelle montagne; ed infatti la massima parte delle valli, pur dovendo, specialmente le maggiori, come ho detto innanzi, la loro ori- gine alla tettonica, si mostrano però notevolmente modificate dalla erosione, e le altre sono state prodotte esclusivamente da questa. — 539 — Geologia. — Cenni geologici sul Monte Malbe presso Perugia. Nota di PAOLO PRINCIPI, presentata dal Socio ©. DE STEFANI. Il Monte Malbe appartiene a quella serie di affioramenti mesozoici, che, dopo avere formato il Monte Tezio ed il Subasio riappare maggiormente svi- luppata nei dintorni di Terni, di Narni, e di Amelia. Esso è situato precisamente ad ovest della collina di Perugia, da cui dista in linea retta appena due chilometri e mezzo. La sua massima lun- ghezza, tenendo conto dei varî frammenti che costituiscono il sruppo mon- tuoso esaminato, è di circa 12 km.; la sua massima larghezza è di quasi o km. La vetta principale, situata nel versante ovest, raggiunge i 652 m. Il Verri, Lotti e Merciai vi fecero già qualche studio. Le formazioni del Monte Malbe e delle sue dipendenze sono tutte sedi- mentarie e si possono dividere nella seguente serie, a principiare dalle più profonde: Dachstein, Retico, Giuraliassico, Cretaceo, Bocene. Il sistema giuralias- sico comprende, poi, quattro piani: Lias inferiore, Lias medio, Lias superiore, Titonico. Alcuni di questi terreni sono ben caratterizzati dalla fauna che in essi sì riscontra; degli altri la determinazione non fu possibile in base ai fossili, dei quali non si potè scoprire alcuna traccia; ma venne fatta considerando le analogie che essi presentano con altri terreni fossiliferi dell'Appennino centrale. Il Dachstein è rappresentato da calcari cavernosi brecciformi, grigio- cupi con Megalodus Gimbeli Stopp. Il Retico è formato da calcari scuri, intramezzati da scisti marnosi e contenenti numerosi e piccoli lamellibranchi, gasteropodi e brachiopodi. Le specie trovate sono le seguenti : Natica subovata Miinster. Modiola subcarinata Bitt. Naticopsis nova sp. Modiola pygmaea Miìnst. Chemnilzia sp. ind. Dimya intusstriata Emm. Anomia alpina Opp. Nucula subobliqua D'Orb. Anomia striatula Opp. Pecten Hehlit D'Orb. Anoma Mortilleti Stopp. Pecten sp. ind. Avicula Dofanae Bitner. Rhynchonella portuvenerensis Capp. Mytilus liasinus Terq. Rhynchonella nova sp. Mytilus sp. ind. Encrinus granulosus Minst. Modiola rustica Terq. Cidaris sp. ind. — 536 — Ad est del Toppo Tanella, nei calcari retici, si trovano dei depositi di gesso a struttura saccaroide, simili ai gessi che si trovano nella valle sot- tostante di S. M. di Cenerente; è probabile che questa formazione gessosa rappresenti il risultato della trasformazione del carbonato in solfato per opera di sorgenti solforose e di putizze. Il Zias inferiore compare sotto forma di calcari compatti biancastri, attraversati da numerose fenditure o litoclasi; essi sono ricchi di traccie di residui organici, i quali si scorgono sulla superficie della roccia esposta alla erosione meteorica, e, quantunque difficilmente isolabili, si possono nella maggior parte dei casì riferire a gasteropodi, e ad articoli di crinoidi. La roccia appartenente al Zias medio è data da un calcare grigio rego- larmente stratificato, con letti e noduli di selce. Il Zias superiore è ben distinto per la sua fauna caratteristica. Le specie trovate sono le seguenti: Phylloceras Spadae Mgh. Hildoceras comense De Buch. ” Capitanei Cat. ” erbaense Hauer. ’ selinoides Mgh. ” Mercati Hauer. ” Doderleinianum Cat. ’ sp. ind. ” frondosum Reynes. Harpoceras fallaciosum Bayle. Lytoceras cornucopiae Y. et B. ’ falciferum Sowerb. ” Dorcadis Mgh. 7 discoidale Whrigt. ” spirorbis Mgh. Coeloceras subarmatus Y. et B. ” veliferum Mgh. Hammatoceras Reussi Hauer. Hildoceras bifrons Brug. Il Titoniano è rappresentato da una formazione diasprina, costituita da strati silicei scistosi rossi e verdicci e da calcari grigi con selce verdastra sottilmente stratificati. È da notare come a nord-ovest del podere Romitorio esso si trova direttamente sui calcari biancastri del Lias inferiore. A questo terreno fanno seguito in alcuni punti degli strati di calcare di notevole potenza, limitati nella parte superiore da scisti grigi, rossastri, gial- lastri con numerose fucoidi. Ora è stato dimostrato come gli scisti a fucoidi dell'Appennino centrale debbano ascriversi all’A/biazo 0 MNeocomiano supe- riore; e perciò quegli strati calcarei che si trovano tra i diaspri titonici e i suddetti scisti varicolori possono appartenere alla parte inferiore del cretaceo. In alcuni luoghi al di sopra della zona scistosa a fucoidi compaiono altri calcari biancastri con noduli o lenti di selce, i quali fanno graduale passaggio al calcare rosato del Senoniano inferiore. Il Senoniano è rappresentato pure da calcari marnosi scistosi rosso-cupi e privi di selce, ed in alto dalla scaglia cinerea costituita da scisti calcarei ai i — 537 — grigi e verdicci, che potrebbero anche rappresentare la parte inferiore del- l’Eocene. Dei terreni più recenti che circondano il gruppo mesozoico, il più ricca- mente rappresentato è l’Focene costituito da una rilevante zona di argillo- scisti, di arenarie e di marne. Solamente verso la parte sud-ovest e precisa- mente verso Ellera il monte secondario viene a contatto con i depositi traver- tinosi del Quaternario, e così pure sotto Migiana e Capocavallo si trovano abbondanti le formazioni alluvionali del Quaternario. La tettonica del Monte Malbe si presenta assai complessa; in generale però si può dire che l'insieme dei rilievi descritti costituisce una cupola elissoidale incompleta per la mancanza dei terreni dal lias medio alla creta nella parte nord-est, cioè dal Toppo del Boschetto fino a Migiana e nella parte di M. Torrazzo e del colle del Cardinale. Questa mancanza, per le condizioni stratigrafiche dei varî terreni, mal si spiega con un'erosione; sembra più probabile invece l’esistenza di una faglia, che abbia troncato il monte nella parte nord-est. Noteremo, poi, come vere trasgressioni sì veri- fichino tra il Senoniano ed il Neocomiano e tra il Titonico ed il Lias su- periore; trasgressioni del resto che si riscontrano anche in altre regioni dell'Umbria, e che forse sono dovute più a dislocazioni degli strati, che a discordanze di sedimentazione. Nel Monte Malbe si osserva la struttura carsica, che si manifesta colla presenza di grandi accumuli di terra rossa, di sprofondamenti o doline più o meno ampie e di piccoli %arrez. Le doline presentano due tipi principali con qualche deviazione dalla forma normale. Due di esse, il cui rapporto tra l’asse maggiore e la profondità oscilla intorno a 7 si possono ascrivere al tipo delle doline a piatto, altre, invece, il cui rapporto suddetto oscilla intorno a 4, sono da riferirsi al tipo delle doline a imbuto. In una valle di non molta entità situata sotto le pendici orientali del Monte Malbe si trovano dei depositi di una terra incoerente e grigiastra, chiamata volgarmente cenere, e da cui deriva anche il nome del luogo Cenerente. Questi depositi stanno in stretta relazione colle roccie retiche e del Dachstein che formano il lato ovest della valle, ed infatti derivano da un disgregamento e da un minutissimo disfacimento delle roccie stesse. — 098 — Geologia. — £cWni fossili del miocene medio dell’ Emilia. Nota di GIusEPPE STEFANINI, presentata dal Socio C. De STEFANI. La ricchezza della fauna echinologica del miocene Emiliano è già nota per i lavori del dott. A. Manzoni e dell'Ah. G. Mazzetti, illustranti le col- lezioni da loro stessi raccolte. Di queste, la prima trovasi per la maggior parte al Museo di Paleontologia dell'Istituto Superiore di Firenze, l'altra è conservata nel Museo di Geologia dell'Università di Modena, ed è stata posta a mia disposizione dalla somma cortesia del prof. D. Pantanelli. Ma un la- voro di revisione e di coordinamento di questo stesso materiale si imponeva, ed io mi sono accinto ad esso da tempo; talchè sono oggi in grado di an- nunziarne li primi risultati. Le specie da me studiate sono in numero di 58, distribuite in 28 ge- neri. Eccone la nota: SPATANGIDI. Spatangus corsicus Des. — Molasse di Montese e S. Maria Vigliana. Marne di Praduro e Sasso, Guiglia, Pavullo. ” delphinus Defr. — Molasse di Montese e Salto. ” austriacus Lbe. — Molasse di Montese, S. Maria Vigliana e Serra dei Guidoni. Marne di Praduro e Sasso, Guiglia e Pantano. ” n. s. — Marne di Praduro e Sasso. , subconicus Mazz. [= Botto Miccai Air. non Vin.]. — Molasse di Montese. Marne di Praduro, Guiglia e Pantano. ” aequedilatatus Mazz. — Molasse di Montese, Vigliana e Serra. Marne di Guiglia e Pantano. Mariania Marmorae (Ag. et Des.)Air. — Molasse di Serra. Manzonia Pareti (Manz.) Pom. — Molasse di Montese? Marne di Praduro e Sasso e Guiglia. Brissoides pressus (Mazz.) [= Euspatangus Melti Air.]. — Lago, Viazzano. ” sp. — Molasse di Montese. Trachypatagus Peroni Cott. — Molasse di Serra. Sarsella anteroalta Greg. — Molasse di Salto. BRISSIDAE. Macropneustes Saheliensis (Pom.) — Molasse di Montese e Serra. ” n. s. — Molasse di Montese e Vigliana. ’ Sp. — Molasse di Montese e Serra. Metalia Sp. — Molasse di Serra. Brissus sp. — Molasse di Montese. — 589 — Brissopsis Borsonti (Sism.) Ag. et Des. — Molasse di Montese e Serra. Marne di Praduro e Sasso e Guiglia. 7 cfr. S7smondae Agass. — Molasse di Vigliana, Salto (?) e Serra (?). Schizaster eurynotus Agass. — Molasse di Montese, Salto, Vigliana. Marne di Guiglia. ” Desori Wright. — Molasse di Montese, Salto, Serra. Marne di Praduro e Guiglia. 7 Parkinsoni (Défr.) Agass. — Molasse di Montese, Salto e Vi- gliana. ” Bellardii Agass. — Molasse di Montese, Salto e Vigliana. ” trigonalis Mazz. — Molasse di Montese e Salto. Opissaster Lovisatoi Cott. var. inflatus (Mazz.). — Molasse di Salto, Vi- gliana, Serra. Marne di Guiglia. ) ” var. truncatus. (Mazz.). — Molasse di Montese e Salto. " ” var. gibbus (Mazz.). — Molasse di Montese e Salto (?). ” n. sp. — Molasse di Montese. Pericosmus latus Agass. — Molasse di Vigliana, Serra, Montese (?) e Salto (2). ” Edwardsii Agass. — Molasse di Montese, Vigliana e Serra. ” Orbignyi Cott. — Molasse di Serra. Marne di Praduro e Sasso. ” callosus Manz. — Molasse di Montese. Marne di Praduro e Sasso. Cyelaster sp. — Molasse di Vigliana. Dictyaster n. g. malatinus (Mazz.) — Molasse di Vigliana, Serra e Rocca Malatina. Marne di Praduro e Sasso e Guiglia. ” n. s. Molasse di Montese e Vigliana. Marne di Pra- duro e Sasso e Guiglia. Gregoryaster Grateloupi (Sism.) Lamb. [= G. (Pericosmus) coranguinum (Greg.) Lamb.]. — Molasse di Vigliana e Serra. ECHINOCORYDAE. Toxcopatagus italicus (Manz.) Pom. — Molasse di Montese, Vigliana e Serra. Marne di Praduro e Guiglia. Heterobrissus Montesti Manz. et Mazz. — Molasse di Montese. Marne di Praduro e Sasso e Guiglia. CASSIDULIDAE. Tristomanthus n. s. — Molasse di Serra. Pliolampas marginatus (Mazz.). — Molasse di Montese e Salto. Echinolampas angulatus Mér. — Molasse di Montese, Vigliana e Serra. Marne di Pavullo. ” n. s. — Molasse di Montese e Vigliana (?). — Wo Echinolampas n. s. — Molasse di Montese. ” n. s. — Molasse di Montese, Vigliana e Serra. ’ plagiosomus (Ag. et Des.) Cott. — Molasse di Vigliana. ” montesiensis Mazz, (= Heteroclypeus elegans Air.). — Molasse di Montese, Vigliana e Serra. SCUTBLLINIDAE. Echinocyamus cfr. Studeri (Sism.) Des. — Molasse di Serra. ECHINIDAE. Psammechinus sp. — Molasse di Montese. Hipponoe Parkinsoni (Agass.) Cott. — Molasse di Montese e Salto. CIDARIDAE. Phyllacanthus florescens (Air.). — Molasse di Montese. ” verticillum (Mazz.). — Marne di Iola. Cidaris avenionensis Desm. — Molasse di Montese. ’ rosaria (Bronn.) Mich. — Molasse di Montese. ” cfr. tessurata Menegh. — Marne di Pantano. ’ Peroni Cott. ” n. ss — Marne di Pavullo. Dorocidaris papillata (Leske) Agass. — Molasse di Montese. Marne di Praduro e Sasso e Guiglia. Tylocidaris n. s. — Molasse di Montese, Vigliana e Serra. Di queste, 10 sono specie nuove, 9 altre sono specie fino ad oggi esclu- sive delle formazioni in studio, e a 6 non ho creduto attribuire un nome specifico, perchè rappresentate da esemplari unici o non ben conservati. Le altre 33 sono specie già note come appartenenti ad altre formazioni quasi tutte del miocene medio per lo più della regione mediterranea: d’Algeria, di Malta, di Corsica e Sardegna, dell'Italia centrale (Umbria, Lazio, Marche) e settentrionale (Piemonte e Liguria), delle molasse del mezzogiorno di Francia, dello Schlier austriaco ecc. In complesso, adunque, i dati paleontologici sono notevolmente concordi nel presentarci la fauna echinologica dell'Emilia come una fauna appartenente al miocene medio, includendo in questo anche il Glodigerina limestone di Malta e la Molassa Burdigaliana di Vence. Non è esatta l'opinione che at- tribuiva al Miocene inferiore parte dei fossili da me esaminati. Con tale conclusione non contrasta il fatto del ritrovamento di alcune specie di tipo assai più antico, miste a quelle mioceniche, poichè se il tipo di esse real- mente è antico, le specie sono nuove e nettamente distinte. Aggiungerò che questi risultati paleontologici sono perfettamente con- — 541 — cordi con le osservazioni stratigrafiche che mi è stato dato di fare, esami- nando le formazioni onde provengono i fossili. Anche la equivalenza cronologica delle molasse e arenarie — costituenti ordinariamente le parti più elevate degli affioramenti — con le marne, trova dei validissimi argomenti in suo favore nell'esame dettagliato delle località ove i fossili sono stati rinvenuti e nel numero delle specie comuni, pari a 17, contro 36 esclusive della molassa e 5 esclusive delle marne. D'altro canto, ponendo in relazione con le località stesse le diversità di quegli affioramenti si ha una nuova conferma dell'ipotesi, che la diversa natura litologica sia dovuta a differenze di facies di un medesimo mare. Degni di speciale considerazione mi sembrano alcuni echini di tipo an- tico cui ho già fatto allusione, quale il 7oropatagus italicus (Manz. sub Hemipneustes) che appartiene alla famiglia — prevalentemente sviluppata nel mesozoico — degli Echinocoridi, e che ha i suoi più prossimi parenti tra gli echini della creta; tale altresì l'’Z7elerobrissus Montesti, che, sebbene vicino a fossili terziarî delle Indie Occidentali e a specie viventi, appartiene a questa stessa famiglia, nella quale coi suoi affini, costituisce un gruppo interessante di forme che sembrano rappresentare l’anello di congiunzione tra Cassidulidi e Spatangidi (s. 1.). Può essere qui menzionata anche una nuova specie di 7y/ocîdaris, genere fino ad oggi noto solo nella creta, seb- bene nei Cidaridi la mutabilità sia assai minore che nelle altre famiglie degli echini, e perciò appaia meno strano il loro ricomparire in formazioni cronologicamente molto lontane. Questi echini, insieme al gen. Cleistechinus De Lor., fossile nella contemporanea formazione marnosa delle Marche (Ca- merino) ma non mai ritrovato — che io sappia — nell'Emilia, costituiscono un gruppetto assai numeroso di generi di tipo antico. Ora è noto che anche nelle maggiori profondità dei mari attuali sono state dragate specie appar- tenenti a tipi ritenuti fino allora estinti, conservatisi invece quasi senza mo- dificazioni negli abissi marini. Ma l'interesse maggiore del mio studio sta forse nella grande ricchezza delle collezioni, che ne sono l'oggetto. Gli echini da me esaminati oltrepas- sano il numero di due mila: la maggior parte delle specie sono rappresen- tate ciascuna da parecchie decine di individui, alcune da oltre cento. In queste condizioni, anche se lo stato di conservazione non è perfetto — come non di rado succede — le descrizioni possono essere completate desumendo i caratteri da diversi individui; quando — beninteso — si abbia la mas- sima prudenza nell’assicurarsi della loro identità. Inoltre l'esame comparativo di tutti questi individui rivela quasi sempre una notevole variabilità nell’ambito della specie: talora si hanno anzi vere e proprie serie di lento e graduato passaggio. Questa variabilità, che rara- mente si può osservare nelle collezioni di fossili, non è priva d'importanza e di significato. RenpIconTI 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 71 — 542 — Chimica. — Za costituzione dei sali di Roussin (!). Nota di Livio CAMBI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. La costituzione dei cosidetti sali di Roussin costituisce tuttora una delle questioni più interessanti della chimica inorganica. Come il lungo la- voro analitico di circa mezzo secolo ha stabilito, e come hanno anche confer- mato recenti ricerche (°), ai nitrosolfuri della cosidetta epta-serie, quelli che si ottengono più comunemente, per l'azione combinata di solfuro e di nitrito alcalino sui sali ferrosi o ferrici, spetta la formola più semplice 'RFeyS3(NO),, dove R è un catione monovalente. Il problema della costi- tuzione si presenta al primo esame della formola: a quale grado di ossi- dazione sono contenuti nell’anione complesso il ferro, lo zolfo e l'azoto. L'ipotesi più semplice è che l'azoto e l'ossigeno siano combinati atomo ad atomo, che lo zolfo agisca da bivalente come nei solfuri comuni. Con la domanda a qual grado di ossidazione sia contenuto il ferro, sorge la questione se i gruppi NO esercitino tutti o in parte delle valenze come quelle che tale aggruppamento dispiega nello ione complesso del nitroprussiato, oppure dispieghino una valenza negativa, alogenica. Ammesso lo zolfo bivalente, per ammettere che i gruppi NO si comportino tutti come molecole neutre di addizione, occorre supporre che il ferro sia contenuto in uno stato spe- ciale di riduzione, per lo meno in parte, da esercitare una valenza inferiore a quella minima comunemente manifestata. Volendo escludere tale ipotesi, si è condotti ad ammettere che il gruppo NO si comporti per lo meno par- zialmente come monovalente; ma un tale gruppo legato ad atomi metallici, fungendo come negativo, monovalente, non esiste di per sè, esso si accoppia con se stesso nell’aggruppamento dell'acido iponitroso, come sappiamo dalle ricerche di Angeli sulla biossiammoniaca (*). Quindi in questa ipotesi nei sali di Roussin vi sarebbe contenuto il residuo bivalente "N,0, dell'acido ipo- nitroso. Che tutti i sette gruppi nitrosilici appartengano all’acido iponitroso dipende dalla valenza del ferro, nell'ipotesi più semplice, ammesso che il ferro agisca tutto da trivalente, tutti quei gruppi sarebbero monovalenti ; ossia dell'acido iponitroso. Se anche parzialmente il ferro fosse contenuto allo stato ferroso, alcuni gruppi nitrosilici sì dovrebbero considerare come (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (2) I. Bellucci e D. Venditori, Gazz. chim., 1905, II, 518. (*) Angelo Angeli ha anche notato che il biossido di azoto, quando agisce chimica- mente, si comporta sempre come N» 0». Memoria della R. Accademia dei Lincei, Serie V, volume V, 1905, pag. 83. — 543 — molecole neutre di biossido di azoto: le ricerche e le considerazioni che esporrò tenderebbero ad escludere tale supposizione. Che l’aggruppamento NO sia contenuto come monovalente nei sali di Roussin ammise pure 0. Pavel (*); egli ammetteva che quel gruppo agisse ‘come nell'iponitrito di argento, allora noto nella formola semplice; ma per spiegare il passaggio dei nitrosolfuri a nitroprussiati per azione dei cianuri metallici, supponendo egli in questi il ferro contenuto a metà come tetrava- lente e a metà come bivalente, ammise che questo elemento fosse contenuto in eguale stato anche nei nitrosolfuri. Con questo a lui sfuggì l'intimo mec- canismo della formazione dei nitrosolfuri, se pure concepì la riduzione del nitrito alcalino ad iponitrito. I fenomeni caratteristici della formazione degli eptanitrosolfuri di ferro sono dovuti al comportamento particolare del ferro allo stato di solfuro. L'ossido ferroso agisce comunemente sui nitriti ridu- cendo l'azoto fino ad ammoniaca; in condizioni speciali, non ancora netta- mente stabilite, può ridurre i nitriti ad iponitriti (*). Il solfuro ferroso pos- siede proprietà riducenti meno spiccate, ma pure notevoli; voglio ricordare la sintesi dell’eptanitrosolfuro di ferro e ammonio operata da Hofmann e Wiede (*) facendo passare una corrente di biossido di azoto in acqua in cui era sospeso del solfuro ferroso. In questo caso è evidente la riduzione del biossido fino ad ammoniaca; e nella mia ipotesi, in via intermedia, la ridu- zione parziale ad acido iponitroso, riduzione collegata al passaggio del ferro a composto ferrico. Il persistere dell'acido iponitroso è dovuto con grande probabilità alla minore attività riducente del solfuro ferroso rispetto all’os- sido, come anche alla stabilità relativamente notevole dello ione complesso. Roussin preparò la prima volta (*) l’eptanitrosolfuro di ferro e ammonio facendo agire il cloruro ferrico su una miscela di solfidrato di ammonio e di nitrito sodico. Qui si manifesta l’azione caratteristica del ferro: il solfuro ferrico nelle condizioni ordinarie sì riduce a ferroso separando solfo, e il sol- furo ferroso nell'ambiente speciale può compiere la riduzione del nitrito ad iponitrito. Nella sintesi di Pavel (*) si fa agire il solfato ferroso su una miscela calda di nitrito e solfuro alcalino: in un primo tempo si formerà il solfuro ferroso, questo riduce il nitrito formando forse un solfo- iponitrito ferrico, ma alla riduzione totale del nitrito concorre anche indi- rettamente il solfuro alcalino eccedente; esso può agire scindendo in parte i composti ferrici formatisi, producendo solfuro ferroso e solfo, ed il solfuro ferroso può di nuovo partecipare alla riduzione. Così si spiega come nella sintesi di Pavel alla riduzione del nitrito concorrano e il sale ferroso ed il (1) O. Pavel, Berichte. XV, (1882), II, 2600. (2) Moissan, Traité, I, 594; Abegg. Handbuch der anorg. Chemie, III 196. (*) Zeit. fiir anorg. Chem. 9 (1895), 295. (4) Annales 52, (3), [1858], 285. (5) Loc. cit. — 544 — solfuro alcalino, con formazione finale del composto complesso, di prodotti ferroso-ferrici basici e di solfo. Nell'ipotesi che i nitrosolfuri fossero iponitriti e solfuri ferrici complessi, il tentativo più semplice per dimostrare l'acido iponitroso in essi era quello di scinderli con nitrato d’argento, per constatare se per doppio scambio, data la grande insolubilità dell’iponitrito di argento, si fosse potuto otte- nere questo sale che è il più accessibile ed il meglio caratterizzabile dei sali dell'acido iponitroso; ossia se fosse stata possibile la reazione: n EePexS(N:0:)1 + 264gNO; =2KNO; +8 Fe(NO;) + + TAG» N,0, + 6A 9» S Ò Il nitrato di argento agisce sulle soluzioni dei nitrosolfuri, come aveva già notato Roussin ('), dicendo che si formava solfuro di argento e solfuro ferroso svolgendosi biossido di azoto; si trattava di studiare più attentamente questa reazione. Versando in una soluzione di nitrato di argento diluita una soluzione molto diluita di eptanitrosolfuro di ferro e potassio, ho osser- vato coll’aggiunta delle prime porzioni la formazione di un precipitato bruno, che la soluzione assume il colore caratteristico dei sali ferrici, e si ha svol- gimento appena apprezzabile di biossido di azoto; proseguendo nell’ ag- giunta della soluzione di nitrosolfuro, avendo cura che il nitrato di argento sia sempre in eccesso, prosegue la precipitazione, ma a grado a grado si rende sempre più notevole lo svolgimento del biossido di azoto. Il liquido assume il colore bruno intenso delle soluzioni di quel gas in quelle dei sali ferrosi. Separando rapidamente il precipitato, è facile constatare nella solu- zione filtrata la presenza di sale ferroso; col riscaldamento si svolge il bios- sido di azoto, essa perde il colore bruno assumendo quello delle soluzioni dei sali ferrici. Il precipitato consta principalmente di solfuro di argento e di iponitrito di argento che ho isolato e caratterizzato, come descriverò; nel precipitato sono anche contenuti in quantità variabili più o meno notevoli composti ferrici: probabilmente si tratta di composti complessi ferrici ed argentici. L'insieme della reazione secondo me ya interpretato nella maniera se- guente: per doppio scambio si formano dapprima solfuro ed iponitrito di argento; nella soluzione rimane nitrato ferrico, formatosi nel doppio scambio: aumentando la concentrazione del sale ferrico aumenta l'acidità della solu- zione, l’iponitrito di argento è solubile, come è noto, nell'acido nitrico di- luito, quindi in parte esso rimane in soluzione. L'acido iponitroso ha note- voli proprietà riducenti, è lecito anche pensare che esso possa ridurre lo ione ferrico a ferroso, ossidandosi a biossido di azoto secondo l'equazione: II) ESS 20, + Fex03= H:0-+4+2N0+-2Fe0. (1) Idem, pag. 290. e Nei sali di Roussin della serie epta R' Fe, S3 (NO), il ferro è in difetto rispetto all’acido iponitroso in essi contenuto, ed una parte dell'acido può sfuggire all’ossidazione, nel doppio scambio con nitrato d’argento. In accordo con quanto ho detto i rendimenti in iponitrito aumentano notevolmente con la diluizione dei sali reagenti. In soluzioni concentrate, per l’aumentata acidità, e per l’azione ossidante dell'acido nitrico che si renderà sempre più manifesta, tutto l’iponitrito di argento può venire scomposto. A riprova della reazione II tentai di ossidare con un eccesso di sale ferrico, in assenza di acido nitrico, l'eptanitrosolfuro di ferro e potassio, in presenza di un eccesso di sol- fato di argento ed acido solforico; la reazione conduce ad una ossidazione quan- titativa, con completo svolgimento del biossido di azoto, dell'acido iponitroso, formandosi in soluzione la quantità corrispondente di sale ferroso. Questa reazione, dal punto di vista generale, può considerarsi come la reversione della sintesi di Hofmann e Wiede che ho sopra citata. In soluzioni anche lieve- mente alcaline il biossido di azoto può venire ridotto dai composti ferrosi ad acido iponitroso; in soluzioni acide lo ione ferrico può venire ridotto a ferroso dallo stesso acido. Infine osserverò come il passaggio dei nitrosolfuri a nitroprussiati per l’azione dei cianuri metallici ('), al quale si ricollegano tutte le ipotesi finora emesse sulla costituzione dei sali di Roussin, possa spiegarsi con grande probabilità in base al processo di ossidazione su esposto. Per la grande tendenza a formarsi ioni complessi del tipo di quelli dei ferro- cianuri, anche in presenza di cianuro alcalino il ferro potrebbe ridursi in parte, ed ossidare gli iponitriti: sappiamo quale grande influenza possa avere sui fenomeni di ossidazione e riduzione la formazione di certi ioni complessi. Verrebbe così a prodursi il biossido di azoto necessario per la formazione dello ione del nitroprussiato. Tutto quello che ho esposto condurrebbe a considerare i sali di Roussin come iponitriti e solfuri ferrici complessi: la grandezza molecolare di quelli della serie-epta deve essere per lo meno doppia di quella espressa dalla loro formola più semplice, data la costituzione dell'acido iponitroso. Sche- maticamente la loro costituzione potrebbe rappresentarsi nella maniera se- guente: K,N30:.2Fe,S3.2Fes(N0,):; ma, trattandosi di atomi e gruppi polivalenti, la distribuzione di essi può essere complicata, e non è improba- bile che i tre atomi di solfo siano distribuiti in varî atomi di ferro. Infine nella mia ipotesi il passaggio dei sali della cosidetta prima serie (epta) a quelli della seconda serie (tetra), per azione a caldo degli alcali, deve interpretarsi nel modo seguente: K, Fs Se (Na 02); | 6 KOH — Ro 20, + 8 K, Fe, S, (Na 03); + Ro, 0,3 3H:0 (1) Roussin, loc. cit., pag. 300. — 545 — l'iponitrito alcalino a caldo subisce la nota decomposizione in alcali e pro- tossido di azoto, che si svolge in questo processo. PARTE SPERIMENTALE. Ho adoperato nella reazione (I) il sale K. Fe,S3 (NO); .H.0 preparato con il metodo di Pavel ('), e ricristallizzato. Con una soluzione di circa un centesimo molecolare di questo sale ho trattato una soluzione di nitrato di argento circa al mezzo per cento, scegliendo le proporzioni in maniera che l'argento fosse in eccesso rispetto al calcolato secondo l'equazione I, pag 544. Filtrando alla pompa ho separato il precipitato che lavai ripetu- tamente con acqua. Il precipitato venne sospeso in acqua e trattato con acido solforico diluito, portando così in soluzione l’iponitrito d'argento, rimanendo come residuo insolubile il solfuro di argento. La soluzione solforica la neu- tralizzai con ammoniaca diluita: ottenni così iponitrito di argento, che ripre- cipita in fiocchi gialli, contenente però, come dissi, ferro allo stato di composto ferrico. L'iponitrito raccolto su filtro venne seccato a 40°: ho osservato che la separazione completa del ferro si raggiunge solo dopo aver seccato il sale. Questa venne operata disciogliendo prima l'iponitrito impuro in acido sol- forico diluito, precipitando poi con un eccesso di ammoniaca che ridiscioglie l’iponitrito di argento e lascia indisciolto l’idrato ferrico; la soluzione am- moniacale venne poi neutralizzata con acido solforico diluito, e si ottenne così iponitrito di argento puro che fu raccolto su filtro e seccato nel vuoto. Il sale ha tutte le proprietà descritte dai varî autori: giallo citrino, inaltera- bile alla luce, per riscaldamento si scompone lasciando un residuo di argento metallico. L'analisi condusse al seguente risultato : gr. 0,1554 di iponitrito di argento dettero: cc. di azoto 13,9 a 21° e a mm. 769 di pressione, e gr. 0,1212 di argento metallico. In 100 parti: Calcolato Trovato N 10,18 10,50 Ag 78,28 78,00 Come dissi, i rendimenti in iponitrito di argento variano moltissimo con la concentrazione dei sali reagenti, essi crescono con la diluizione; si hanno poi perdite notevolissime di prodotto nella varie manipolazioni di depuramento. Ho eseguito inoltre, come ho sopra esposto, l'ossidazione dell'acido ipo- nitroso contenuto nel nitrosolfuro suddetto con sale ferrico, in presenza di sale di argento. Nel palloncino di un apparecchio Schulze-Tiemann ho posto prima idrato ferrico di fresco precipitato e solfato di argento entrambi in (1) O. Pavel, loc. cit., pag. 2600. eccesso rispetto al calcolato, ed acido solforico diluito pure in lieve eccesso; dopo scacciata per ebollizione l’aria e dopo raffreddamento ho introdotto l'eptanitrosolfuro ferrico potassico, riscaldando poi lentamente ed infine bol- lendo per raccogliere completamente il gas formatosi. Esso viene assorbito dalla soluzione di cloruro ferroso. Ottenni il resultato seguente: gr. 0,1176 del sale KFe,S:(NO),.H:O dettero: cc. 33,6 di biossido di azoto a 21° e a mm. 757 di pressione. In 100 parti: Calcolato Trovato NO 35,80 309,46 Voglio ricordare che il metodo di dosaggio col biossido di azoto nei nitrosolfuri da me adoperato, in ultima analisi è identico a quello che adoperò Roussin ('); egli impiegava in luogo del solfato di argento il solfato di rame, in luogo del sale ferrico lo iodio. Il solfato di rame aveva evidentemente l’ ufficio di scomporre il solfuro, precipitando solfuro di rame, lo iodio agiva da ossidante. Ho anche osservato che, facendo reagire l’eptanitrosolfuro con un eccesso di solfato di argento in soluzione acida per acido solforico, riscaldando lieve- mente in corrente di anidride carbonica, in soluzione non rimangono che tracce lievissime di sale ferrico; l'acido iponitroso in eccesso riduce adunque il ferro contenuto nel nitrosolfuro completamente allo stato ferroso. Da quanto ho esposto, dalle ricerche compiute risulta molto probabile che i sali di Roussin debbano essere considerati come solfuri ed iponitriti complessi. È mia intenzione proseguire su questa direttiva nello studio dei cosidetti nitrosolfuri, dei loro derivati e delle loro scissioni e sintesi. Ho intenzione inoltre di estendere la ricerca, per quanto sarà possibile, alla sin- tesi di altri iponitriti complessi, di omologhi ed analoghi ai sali di Roussin. Chimica. — £Eterificazione dei derivati azoici degli ossiacidi per mezzo del solfato dimetilico (€). Nota di AmeDEO CoLOMBANO, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. La stessa facilità di reazione, che abbiamo descritto del solfato dimetilico per gli azofenoli, si ha parimenti coi derivati azoici degli ossiacidi (ossi- benzoici). Infatti dal derivato azoico di questi acidi, tanto gli orzo che i meta (non ho potuto per mancanza di prodotto tentare ìî para), con un piccolo eccesso sulla quantità molecolare doppia di KOH ed un piccolo eccesso su due molecole di solfato dimetilico, si forma nel caso dei composti meta un pre- (*) Roussin, loc. cit., pag. 291. (2) Lavoro eseguito nel Laboratorio chimico-farmaceutico dell’ Università di Ca- gliari diretto dal prof. Luigi Francesconi. — 548 — cipitato (*) costituito da un miscuglio dei due eteri: il neutro e l'acido: _0K —0CH3 aa cel: AN io )s0.= lesi + COOK +-40H;0 — C00CH RENE Ned RN ed di ì _0K DAR + | | CHO KO. L__leooCHRSE SO? + 3 So, Re NESS cH:07 CH,0 Non sono invece riuscito, almeno nei saggi finora fatti, ad ottenere il terzo etere che la teoria lascia prevedere, quello cioè in cui il gruppo ossimetile andrebbe ad occupare il solo ossidrile fenico. Questo fatto andrebbe del resto d'accordo con quanto ha dimostrato Wegscheider (*), che cioè îi gruppi carbossilici sono più rapidamente eteri- ficabili che i gruppi ossidrilici fenolici quando si adoperi il solfato dimeti- lico con quantità insufficienti di potassa. Spero tuttavia, variando le condizioni di esperienza, di riuscire ad otte- nere anche questi eteri e nello stesso tempo studiare sistematicamente ed ampliamente la velocità di reazione fra il solfato dimetilico ed i singoli gruppi di questi acidi ossibenzoici copulati col diazonio sale. O. ossiacidi. Derivato azoico dell'acido o. ossibenzoico e solfato dimetilico. La preparazione del derivato azoico dell’acido salicilico fu fatta nel modo già noto (*) copulando il cloruro di diazobenzol (1 mol.) con una so- luzione di acido salicilico (1 mol.) in 4 mol. d'idrato sodico. Il prodotto della reazione cristallizzato dalla benzina si ottiene in aghi giallo-aranciati, brillanti, fondenti a 211°; è facilmente solubile negli idrati alcalini e reagisce col solfato dimetilico per dare gli eteri corrispondenti. Dei tre eteri, fenolico (eter), acido (ester), e neutro, che la teoria fa pre- vedere di potersi ottenere da questo azocorpo OH Ù VAGCEN_ R era noto solo l'eter (4) ottenuto col solito processo dei joduri alcoolici. (') Col composto orto, come a suo tempo verrà descritto, solo a caldo si ha un pre- cipitato che facilmente si ridiscioglie a freddo. (2) M., 23, 883 (1902) (3) Berichte, 1/3, 716, Ann., 263, 224. (4) A. 263, 228. — 549 — Gr. 5 (1 mol.) dell’azocorpo descritto vengono disciolti in 24 ce. di KOH al 10°/ (4 mol.) ed alla soluzione limpida, che facilmente si ottiene, ven- gono aggiunti ce. 4,54 (un eccesso su 4 mol.) di solfato (d. 1,32) ed agitati fortemente in imbuto a rubinetto: non si nota alcun riscaldamento e neppure dopo alcune ore si ha traccia di precipitato. Però se dopo qualche tempo il miscuglio bruno, limpido, si riscalda nello stesso imbuto a rubinetto, a b. m. per circa mezz'ora, allora si ha un intor- bidamento che a poco a poco va raccogliendosi al fondo del recipiente in un olio nero. Se però si lascia nuovamente raffreddare l'olio si ridiscioglie. Perciò venne separato a caldo e lasciato all'aria. Si ebbe così una massa costituita da minuti cristallini lucenti. Cristallizzato dall'alcool fonde a 63°-64°. Analisi: Sost. gr. 0,2606; CO. 0,7200; H.0 0,1430. Trovato °|o Calcolato per l’etere neutro Ci5H1403Ns C. 75,90 75,58 HE 6,09 9,93 In acqua è leggermente solubile tanto a caldo che a freddo. b) Il liquido dal quale si è separato l'etere neutro (O CH; . CO O CH; . C; H;-N=N-R) trattato con corrente di anidride carbonica dà un precipitato giallo che raccolto, lavato bene con acqua, mostra una lucentezza metallica. Cristallizzato due volte dall’alcool fonde a 162°-165°; analizzato corri- sponde al monoetere e per i suoi caratteri chimici devesi ritenere per l’ester. Sost. gr. 0,2988; CO. gr. 0,7154; H.0 gr. 0,1278. Trovato %o Calcolato per il monoetere C14H,903Na C. 65,62 65,29 IG 4,68 4,75 c) Le acque intanto dalle quali si è separato questo secondo etere, vengono trattate con HCl diluito. Si forma tosto un precipitato giallo che sì raggruma in fiocchi leggeri e che raccolto e cristallizzato dall'alcool, nel quale è solubilissimo, si ha in una massa giallo-chiara che fonde fra 155°-190°. La quantità troppo piccola di prodotto mi ha impedito di tentare la separazione del monoeter (eter) _0CH, ( w COOH N N=N.R RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 72 — 5590 — dall'azofenolo inalterato, di cui probabilmente doveva essere formata questa frazione, la quale essendo però solubile in idrato potassico, non precipita con anidride carbonica, mentre precipita con HCI]. M. ossialidi p. Clorobenzolazoderivato dell’ acido m. ossibenzoico e solfato dimetilico. Il p. clorobenzolazoderivato dell'acido m. ossibenzoico CI OH 8 DN IL evo fu preparato nel modo già noto (') e si presentava in bellissimi aghi pri- smatici, giallo chiaro, fondenti a 235°-236° con decomposizione, L'eterificazione per mezzo del solfato dimetilico dei derivati azoici del- l'acido m. ossibenzoico viene condotta nel solito modo, adoperando come nel caso precedente due molecole di solfato per una dell’ossiacido sciolto in due molecole di idrato di potassio. Avviene in queste condizioni che appena si aggiunge il solfato alla so- luzione dell’azocorpo si forma subito un bel precipitato costituito dal miscuglio dei due eteri, l'acido ed il neutro, eterificandosi nella reazione tanto il solo carbossile, quanto l’ossidrile fenico contemporaneamente al carbossile. Non sono riuscito, come nel caso precedente, ad ottenere il prodotto di eterificazione del solo ossidrile fenico. Gr. 2,70 (1 mol.) dell'azocorpo vengono sciolti in 15 ce. circa di KOH al 10° (2 mol. ed un ece.) ed alla soluzione limpida ottenuta si aggiun- gono ce. 2,25 (2 mol. cd un ecc.) di solfato, ed il miscuglio quindi forte- mente si agita. Dopo pochi minuti comincia a formarsi un precipitato giallo-chiaro che va mano mano aumentando e che trattato con soluzione di KOH parzial- mente si scioglie. a) La parte che resta indisciolta, raccolta sul filtro, lavata accuratamente con la stessa soluzione di idrato potassico e con acqua e quindi cristallizzata dall'alcool si ottiene in bellissimi cristalli giallo-aranciati che fondono a 89°9-90°. Analisi: Sost. gr. 0,1955; CO. gr. 0,4218; H:0 gr. 0,0880. Trovato °|o Calcolato per l'etere neutro CisH1303NeCIl C. 58,80 59,11 H. 4,99 4,26 (1) Gazz. Chim. XXXVI, 906. — 551 — Cristalli lucenti, aghiformi, completamente insolubili tanto nei carbonati che negli idrati alcalini. b) La frazione del precipitato primitivo solubile in idrato potassico, viene trattata con una corrente di anidride carbonica. Si forma tosto un precipitato che cristallizza dall'alcool in cristallini rossi brillanti che fondono a 159°. Analisi: Sost. gr. 0,2352; CO,.gr. 0,4924; H.0.gr. 00881. Trovato °|o Calcolato per l’etere mono C14H1103N2C1 0. 97,52 57,83 HÉ 4,12 3,7 Questo etere monometilico -0H AN WE co BENSI i è facilmente solubile negli idrati alcalini dai quali precipita per azione del- l'anidride carbonica; è insolubile nei carbonati alcalini. c) Le acque madri separate da quest'ultima frazione, trattate con acido cloridrico diluito dànno subito un precipitato voluminoso, giallo-chiaro, che raccolto e cristallizzato dall'alcool fonde a 230°-235° con decomposizione ed ed è l'azocorpo di partenza inalterato. Chimica. — Sopra alcuni sali complessi dell’iridio. — Irt- doossalati (). Nota di C. GraLDINI, presentata dal Socio S. Can- NIZZARO. Lo studio dei sali complessi dei metalli del gruppo del platino conte- nenti il residuo dell’acido ossalico, pure essendo molto importante ed avendo anche un interesse speciale dal punto di vista teoretico, non è esteso che ad una piccola parte di essi. Il Doebereiner pel primo nel 1833 otteneva un derivato ossalico del platino (*) facendo agire una soluzione di acido ossalico sopra un platinato di sodio mal definito e mal cristallizzato. Dalla soluzione otteneva per raf- freddamento dei piccoli cristalli rossi che, senza avere analizzati, qualificò per un ossalato platinoso Pt C* 04. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale dell’ Università di Roma. (2) Pogg. Ann., t. XXVIII, pag. 180; 1833. = 992 = Il Souchay ed il Lessen nel 1858 (') ripeterono accuratamente le espe- rienze del Doebereiner e dopo ripetute analisi assegnarono al prodotto sopra indicato la formula: C° 0* Pi 4- C° 0* Na?. 4H°0. Prima di questi autori però, ossia nel 1847, il Kane (*) descriveva un ossalato doppio di palladio e di ammonio avente la formula: C°OSRdtz0*(NH*)? :2H"0% In seguito il Fischer (*) nel 1847, aggiungendo ad una soluzione satura di cloruro palladoso una soluzione di ossalato potassico, ottenne una polvere giallo-chiara insolubile nell'acqua, che non fu da lui analizzata e che il Berzelius (4) considerò come un ossalato palladoso. Nel 1888 il Soderbaum (*) fece uno studio minuto e preciso dei deri- vati ossalici del platino, ripetendo e controllando le analisi dei precedenti autori. Studiò quindi l’azione del nitrito potassico sul platoossalato di po- tassio, traendone fatti e conclusioni di grande interesse. Dopo questi, molti altri si sono occupati dell’ argomento con maggiori o minori risultati pratici e teorici, finchè arriviamo ai recenti e bellissimi studi del Vèzes (5). Troppo oltre si andrebbe volendo fare la storia completa di questi lavori. Il Vèzes ed il Loiseleur poi hanno studiata l’azione dei platonitriti sui platoossalati del tipo generale Pt X* M? (dove M rappresenta un atomo di un metallo monovalente) ottenendo sali misti, interessantissimi: [Pt (CO? — CO?) (NO?)9] M?. Oltre ai derivati ossalici del platino, hanno estese le loro ricerche a quelli del palladio, ottenendo sali dello stesso tipo di combinazione di quelli del platino, come i palladoossalati Pd(C*04)? M? ed i palladoossalonitriti : [Pa(C° 04) (NO?)*]M?°, sali derivanti dalla forma bivalente del metallo. Per ciò che riguarda la preparazione di essi, vari sono i metodi che furono usati per ottenere i plato- ed i palladoossalati. Vennero fatti agire ora gli ossalati alcalini sui nitriti complessi, ora gli stessi ossalati alcalini o l'acido ossalico sui cloroderivati, ottenendo la sostituzione del cloro di questi col residuo ossalico e dimostrando così la relazione che passa fra i cloroplatiniti e i platoossalati. Questi sono da considerare come appartenenti al tipo dei platosali Pt X* M?, ai quali appartengono appunto i cloroplatiniti. (1) Lieb. Ann. Ch., t. CV, pag. 256; 1858. (®) Phylos. Trans., t. CXXXII, pag. 297; 1842. (*) Pogg. Ann., 1. LXXI, pag. 443, 1847. (4) Zraité de chimie, 2° édition frangaise, t. IV, pag. 314, 1847. (5) Studier òfver Platooralylforeninger, pag. 21, Thèse Upsal, 1888. (6) C. R., t. CXXV, pag. 252. 53 — In un recente lavoro lo stesso Vèzes ed il Wintrebert (') hanno studiata l’azione dell'acido ossalico sopra una soluzione potassica di peros- sido d’osmio. Questi autori ottengono un sale che chiamano osmilossalato di potassio e gli attribuiscono la formula 0504(C05:6K?. 2 HO (ba i La reazione che avviene fra il perossido d’osmio, l’idrato potassico e l’eccesso dell'acido ossalico è la seguente: 0s0' +2 KOH + 3 C*0*H? — 080? (C° 04)? K* + 200° + 4 H?0 viene dunque a formarsi l’anione complesso bivalente [Os 0°(C®04)?]" nel quale l’osmio è esavalente e conserva il gruppo caratteristico Os 0? dei sali complessi d'osmile che corrispondono al tipo Os 0° X4 M°. Dell'iridio non è stato fatto fino ad oggi nessun lavoro riguardante i derivati dell'acido ossalico. Era dunque molto interessante occuparsi di tale argomento per constatare se anche questo metallo del gruppo del platino, che collega l’osmio al platino, potesse a sua volta dar luogo a derivati os- salici e per vedere a qual tipo di combinazione questi appartenessero. L'azione dell'acido ossalico fu soventi volte provata per il suo potere riducente sui sali metallici, giacchè con tal mezzo si ottiene facilmente il passaggio dalle forme massime di ossidazione alle medie, ed in alcuni casi al metallo libero, mai però, nel caso dell’ iridio fu tentato di farlo entrare in combinazione. L'iridio, come è noto, a differenza del platino e del palladio, ha tre principali stati d'ossidazione corrispondenti ai tre ossidi IrO — Ir 0° — Ir0°. Il primo stato, o forma bivalente, è quello meno stabile e perciò meno studiato. Skoblikoff, Palmer, Seubert ed altri hanno descritto alcuni sali dell’iridio dove ammettono l’esistenza di un cloruro Ir C1?, che però non è stato ancora isolato. Esistono pure alcuni altri sali doppi dell’iridio bivalente, quali i solfiti che risultano dalla combinazione di un solfito iridoso con un solfito alcalino IrS0* .3(Na? S0*).10H?0O, e qualche altro ancora di minore im- portanza. Invece le forme di combinazione corrispondenti ai due cloruri Ir C1* e IrCl* sono le meglio e più largamente studiate. Nei sali complessi dell’ iridio la forma che si rinviene più spesso, la forma più stabile perciò, è la tri- valente, alla quale forma appartiene il tipo generale di combinazione Ir X° M° contenente l’anione complesso trivalente [Ir X°]". A questo tipo apparten- gono il clorosesquiiridito di potassio Ir C1° K*, il solfito Ir(S0*)* K*.3H°0, il nitrito Ir(NO?)° K3 e le forme miste [Ir(S0?)? C1?] K® — [Ir(NO?)? C14] K° insieme a molte altre. (1) C. R., 28 juillet 1900, 1er avril 1901. — 554 — Gli iridoossalati che formano lo studio del presente lavoro, appartengono essi pure allo stesso tipo di combinazione, come risulta, sia dalle molteplici analisi eseguite, sia dal loro modo di formazione e di decomposizione, sia infine dalle reazioni di doppio scambio fra l’anione complesso e la base, tal quale avvengono negli altri sali complessi di questo tipo. Spetta perciò ad essi la formula generale 1r(0*0*)? M*, dove M rappresenta un atomo di un metallo monovalente. Dirò adesso del modo di preparazione dell'acido iridoossalico e dei metodi adoperati nelle analisi dei diversi suoi sali, premettendo che l'iridio metallico adoprato fu acquistato dalla Ditta C. W. Heraeus di Hanau che di preferenza purifica i metalli del gruppo del platino e li pone in com- mercio ad un alto grado di purezza, che per l'iridio raggiunge il 99,8 per cento. PARTE SPERIMENTALE. Dei metalli del gruppo del platino erano stati ottenuti, come abbiamo veduto per opera del Vèzes e di altri autovi, i derivati ossalici del platino, del palladio e dell'osmio; era dunque da ritenersi come non improbabile che con adeguate ricerche si potessero ottenere anche i derivati ossalici dell’ iridio o iridoossalati, e ciò tanto più pel fatto, che molti altri metalli nella loro forma trivalente, come per es. il cromo, il vanadio, ecc., donno ossalati com- plessi molto stabili, tanto che la condensazione tra gl'ioni [C®04]" con gl'ioni metallici trivalenti è ritenuta per questi ultimi caratteristica. Oltremodo difficile fu però, in pratica, la sostituzione del residuo (C? 04)" al cloro del cloroiridiato ed a quello del clorosesquiiridito, giacchè se l'acido ossalico per la demolizione della sua molecola si presta bene come riducente, non è d'altra parte capace d'entrare come sostituente nella molecola del sesqui- cloroiridito al posto del cloro, perchè questo tende a fare la reazione inversa. Infatti fu cimentata prima di tutto una soluzione acquosa di IrC1°K?® con ossalato neutro potassico. Scaldata alla ebullizione per lungo tempo, filtrata ed evaporata, lasciava cristallizzare il cloroiridito potassico IrCl°K3 formatosi per la riduzione operata dall'acido ossalico, ma senza traccia di iridoossa- lato. Risultati negativi identici si ebbero con l’ossalato acido di potassio ed infine anche coll’acido ossalico puro. Tentai anche la prova della sostituzione dei gruppi NO? neì cloronitriti complessi [Ir (NO?)? C1*] M° analogamente a quanto avevano già fatto il Vèzes e gli altri per i platoossalati, ma i ten- tativi fatti condussero a risultati complessi e non ancora perfettamente chia- riti. Occorreva, a mio credere, ricorrere a qualche sale complesso non conte- nente cloro, o meglio ancora partire direttamente da un ossido di iridio. Pensai allora di far reagire a caldo con l'acido ossalico in soluzione acquosa il biossido idrato di iridio Ir0®.2H?®O. Sulla preparazione di tale ossido è utile fare alcune osservazioni. — 5999 — Quando si fa agire sopra la soluzione di cloruro iridico o di un cloro- iridiato alcalino un eccesso di soda o potassa caustica la reazione che avviene non è così semplice come sembra indicarla la equazione : IrCl' +-4K0H=Ir0?. Aq.4+4KC1+ 2H°0. In realtà è assai complicata e si compie in più fasi successive. In primo luogo, se la soluzione è molto diluita, può avvenire che la precipitazione non sì compia immediatamente anche se detta soluzione è o no in contatto con l'ossigeno dell’aria. In secondo luogo, se la soluzione è concentrata, avviene una immediata precipitazione, ma di una sola parte del biossido d’iridio che doveva formarsi, l’altra parte resta invece disciolta con colorazione azzurra intensa nell’ec- cesso di potassa e, fatto caratteristico, dalla soluzione si svolge un debole odore di acido ipocloroso; poi la precipitazione continua, ma lentissima. Si può in parte accelerarla con l'aggiunta di acqua ossigenata. Vi è dunque nella reazione una divisione; una porzione dell’ossido di iridio precipita subito, un’altra ossida il cloruro alcalino ad ipoclorito e precipita poi, in seguito ad una ulteriore e lenta ossidazione prodotta dal- l'ossigeno atmosferico o da altri ossidanti. Le seguenti reazioni ci rendono conto chiaramente di quanto avviene nelle diverse fasi del fenomeno: Reazione principale IrCl4 + 4K0H = Ir 0° +4KC1+2 H°0 2IrC1*#+ 7KOH = Ir° 03 4 7KC1+3H?0 + HC10 Reazioni secondarie. HC10 + KO0H= KC1+ H°?0+0 Tr:OAq:E{0nMv= 2Ir0264gr Come si vede dunque facilmente perchè non avvenga la decomposizione dell'idrato Ir(OH)* deve limitarsi più che sia possibile la reazione: Ir(0H)' + Cl’ == I:(0H) +HC10. Allora, dal momento che l'acido ipocloroso sembra avere una funzione così importante nella formazione dell’ossido d’iridio, pensai, che aggiungendo altro acido ipocloroso, aumentando cioè la sua concentrazione, fosse possibile di spostare l'equilibrio della suddetta reazione nel senso da destra verso sini- stra, di facilitare cioè la precipitazione dell’ossido di iridio tetravalente. Scaldai perciò il liquido a bagno-maria ed aggiunsi una soluzione assai diluita di acido ipocloroso recentemente preparata. L'effetto fu immediato e sorprendente, giacchè appena cessata la primitiva violenta effervescenza sì separarono dal liquido, grossi fiocchi di ossido bruno e in meno di una mez- z'ora tutto l’iridio era precipitato allo stato di ossido idrato ed il liquido soprastante era rimasto perfettamente incoloro e trasparente. — 556 — Ora, mentre cogli altri metodi di preparazione dell’ossido occorrono diversi giorni e non si giunge che difficilmente ad una separazione completa dell'iridio allo stato di ossido idrato, col metodo da me indicato si giunge rapidamente alla totale precipitazione. Questo potrebbe anche essere un buon metodo di dosamento quantitativo dell'iridio in quei casi nei quali l'iridio non si potesse dosare allo stato metallico colla calcinazione o colla riduzione. Ottenuto in tal guisa l’ossido, fu lavato per decantazione con acqua calda, onde asportare l'eccesso dei sali alcalini disciolti. Si ripetè tale ope- razione finchè il filtrato non divenne leggerissimamente colorato in azzurro. È da notarsi che in questi ripetuti lavaggi una piccola porzione dell’ossido va perduta, giacchè, quando è quasi completamente lavato esso passa un poco attraverso al filtro allo stato di soluzione colloidale. Terminato il la- vaggio con acqua si procede ad un ripetuto lavaggio con una soluzione di- luita di acido ossalico allo scopo di togliere le ultime tracce di alcali, che come nel caso di altri ossidi metallici, riesce difficilissimo di asportare. Tale lavaggio con acido ossalico si può ripetere molte volte giacchè oltre ad essere l'ossido d’iridio insolubile a freddo nell’acido ossalico, questo impedisce la formazione della soluzione colloidale. Terminato il lavaggio con nuova acqua distillata bollente, sempre per decantazione, si getta l'ossido su di un filtro e si lascia bene sgocciolare. Allora con una spatola si introduce l'ossido in un palloncino, vi si aggiunge una quantità di acido ossalico pu- rissimo assai maggiore di quella che deve entrare in combinazione, si adatta al collo del palloncino un refrigerante e si pone il tutto a bollire a fiamma diretta. Appena comincia il riscaldamento si nota un abbondante sviluppo di gas; tale gas è l'acido carbonico dovuto alla riduzione del biossido d' iridio che passa alla forma trivalente per azione dell'acido ossalico il quale funziona da riduttore ed agisce sul biossido d’'iridio come tutti gli altri riduttori quali l'alcool, l'idrazina, l'idrossilammina, l'acido nitroso, l'acido solfi- drico, ecc. La riduzione che si opera nel liquido può essere quindi rappresentata dalla seguente equazione: 2I1r0° + C*0*(H*=Ir° 0° + H®0 +2C0?. Il rimanente acido ossalico entra poi in combinazione col sesquiossido di iridio per formare l'acido complesso. Ir(C?04)8 H*, che chiameremo acido- sesquiiridoossalico, dello stesso tipo dell'acido sesquicloroiridico IrC1l°H*, nel quale al posto dei sei atomi di cloro sono entrati tre radicali bivalenti dell'acido ossalico, pur rimanendo eguale a 6 il numero di coordinazione dell’iridio nell'anione complesso trivalente [Ir(C®0*)"]" che si è in tal modo formato. — 557 — La seconda fase della reazione sì può esprimere così: Ir° 0° + 6C°04H* = 2Ir(C° 0*)* H* -+-3H°0. Sommando poi le due equazioni avremo che per due molecole di bios- sido d’iridio occorrono sette molecole di acido ossalico, come si vede chia- ramente dalla equazione : 2Ir 0° + 70° 0*H? = 2Ir(C° 0*)? H° -4H?°0 + 2C0?. Quando è cessato lo sviluppo di acido carbonico si continua a far bol- lire il liquido ; da ripetute esperienze ho potuto constatare che occorrono da 30 a 35 ore da ebullizione perchè l'operazione sia completa. Tale ebul- lizione può esser fatta non consecutivamente, ma in periodi di tempo se- parati. Man mano che la reazione procede sì osserva un graduale e lento cam- biamento nel colore del liquido; l’ossido si scioglie a poco a poco e la so- luzione acquista un colorito che dall’azzurro chiaro passa lentamente al verde, poi al giallo, finchè dopo circa una trentina di ore il liquido ha as- sunta una magnifica colorazione giallo d’oro. In sospensione resta una piccolissima quantità di ossido nero insolubile e un po d'iridio metallico polveruleuto che si separano facilmente per fil- trazione dopo raffreddamento del liquido. Il filtrato contiene l'acido sesquiiridoossalico Ir(C* 04)? H°, assieme ad acido ossalico libero, se questo fu messo in grande eccesso. Per separare quest'ultimo si ricorre alla cristallizzazione frazionata; ma più facile riesce la separazione dei sali potassici dei due acidi ossalico e iridoossalico come vedremo in seguito. Sale di potassio. Ir(C* 04)? K3.4H?°0. Per avere il sale di potassio fu neutralizzata la soluzione con carbo- nato potassico e concentrata a bagno-maria a debole calore. Per raffredda- mento si separa tutto l'acido ossalico come ossalato potassico. Si filtra allora ed al filtrato si aggiunge una nuova quantità di carbonato potassico fino a leggerissima reazione alcalina, si concentra di nuovo e raffreddando il liquido si ottengono dei bei cristalli gialli che si purificano mediante nuova cristal- lizzazione. Tali cristalli appartengono al sistema triclino, sono di colore giallo-arancio carico, colore che nei grossi campioni raggiunge quello del bicromato potassico. Quando la cristallizzazione avviene lentamente si possono ottenere dei cristalli che misurano fino due centimetri di lunghezza per uno di larghezza. Macinati in mortaio d'agata si riducono in una polvere giallo canaria chiara che perde lentamente acqua. Contengono quattro molecole di acqua di cristallizzazione delle quali { due sono eliminate a 100°, le altre solo a 120°. Il sale anidro si presenta mo CD) RenDpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. — 598 — di colore giallo chiarissimo. Scaldato su lamina di platino, passa dal giallo carico, al giallo chiaro, senza fondere, ma ad un certo punto, verso circa 160°, sì scompone tutto in una volta con leggera deflagrazione e con perdita di CO?; lasciando un residuo nero costituito da iridio metallico e carbonato potassico. Il sale è solubilissimo nell'acqua calda, meno nella fredda; insolubile nell’alcool e nell'etere. Anche per prolungata ebullizione, la soluzione del sale, se questo è puro e neutro, non si altera, nè si altera se trattata cogli acidi minerali diluiti, cogli acidi nitrico e cloridrico concentrati, dopo un certo tempo a caldo, si demolisee la molecola, il liquido si colora in rosso oscuro, e non rimane che cloroiridato potassico. Caratteristica è l'azione degli alcali; questi se diluiti, anche a caldo, non hanno azione rimarchevole, ma concentrati e bollenti colorano la soluzione prima in giallo carico, poi in rosso; continuando a bollire la soluzione si scolora quasi completamente finchè all'improvviso si precipita tutto l'iridio in fiocchi neri allo stato d'’ossido, ma quasi subito si ridiscioglie nell'eccesso di potassa o soda e si ottiene una bella colorazione azzurra: diluendo riprecipita l'ossido che poi si ridiscioglie nuovamente ma questa volta con colore violetto intenso. Aggiungerò a questi cenni alcuni dati cristallografici sul sale di potassio dovuti alla squisita gen- tilezza del ch.mo prof. Zambonini al quale esprimo qui i più vivi ringrazia- menti. Sistema cristallino: Triclino a:b:e=0,7319:1:0,9565 a= 88° 34 37” B= 94° 30" 12" «2 SE (001):(100)= 83° 42’; (001):(010) = 94°38' 3"; (100):(010)= 123° 14' 20”; Forme osservate 4)100, 93010}, c }3001%, m2}110}, 73112}, 7.}011{, q}0124, che si riuniscono nelle seguenti combinazioni: IO) VOTA nia cr 3) macrn ilmacrnq Dlziale 7 n qb. Le forme più sviluppate e più frequenti sono }100{, }110}, }001{,}112{ e 3001}: la }012{ non è rara, ma per lo più si trova con faccette piccolis- sime, spesso ridotte ad un punto luminoso; la {010} è, quando esiste, sempre sottilissima. — 559 — Oltre alle forme sopra citate se ne osservarono sovente delle altre curve, che non permisero alcuna misura. L'abito dei cristalli è piuttosto variabile: ve ne sono alcuni molto al- lungati secondo l’asse verticale ed altri poco allungati in questa direzione ed altri ancora presso a poco ugualmente estesi in lunghezza e larghezza. Nei cristalli di questo tipo, uno dei quali è rappresentato dalla figura 2 Fic. 2. le forme dominanti sono }100} e }110} ora ugualmente estese, più spesso, però, con }110: più grande di }100t: raramente accade il contrario. Tra le RIGARIE forme terminali di solito la più grande è }112}, solo di rado questa è più piccola della base. La }011{ è, per lo più abbastanza grande, ma in genere non si osserva che ad una estremità di c. I cristalli di questo tipo sono spesso terminati disugualmente alle due estremità. Un tipo del tutto differente (fig. 1) è offerto soprattutto dai cristalli più piccoli nei quali }110{ domina fortemente, dimodochè essi si riducono — 560 — a delle tavolette più o meno sottili. Nei cristalli di questo tipo non ho osservato altra combinazione che la 1). Spigoli misurati Media delle misure Valori calcolati (100): (110) * 45° 30" co (001) :(110) * 86 36 = (001) :(112) 32 24 32° 37" (112): (110) 04 12 53 59 (100): (112) 62 9 62 8 (001) :(100) * 83 42 — (001) :(011) * 50 ol = (100): (011) *109 44 — (001): (012) 287 28 264 Sfaldatura non osservata. I cristalli sono di colore rosso arancio. Sulla faccia (100) una direzione di massima estinzione forma un angolo di circa 30° con l’asse c verso (010). Pleocroismo intenso; su (100) giallo canarino e color rosso bicromato di potassio chiaro. Come ho già detto il sale di potassio contiene 4 molecole di acqua di cristallizzazione e la sua formula è: Ir(C° 04) K°.4H°0 come risulta dal- l’analisi che fu eseguita nel modo seguente. Per la determinazione dell'iridio e del potassio, la sostanza, previamente polverizzata in mortaio d’agata era posta in un pesafiltri tarato e tenuta in stufa ad aria a 120° fino a peso costante. In tal modo determinavo l’acqua di cristallizzazione. Avuto in tal guisa il peso della sostanza anidra, questa veniva sciolta nella minor quantità possibile di acqua calda e, sempre nel pesafiltri, venivano aggiunte 2 o 3 gocce di acido cloridrico per poter poi pesare il potassio allo stato di cloruro. Evaporato ripetutamente il liquido a b. m. si portava il residuo in crogiolo di porcellana tarato e munito di coperchio di Rose e si calcinava alla temperatura più bassa possibile in corrente d’'idrogeno fino a peso costante. Colla liscivazione asportavo il clo- ruro potassico che pesavo a parte. Il residuo d’iridio veniva scaldato di nuovo in corr. d' idrogeno, raffred- dato in corr. di anidride carbonica e pesato. È noto che l’iridio metallico deve esser sempre calcinato in corrente d'idrogeno, perchè all'aria aumenta dal 4 al 5 per cento in peso, d'altra parte deve essere raffreddato in corrente di anidride carbonica, perchè col raffreddamento la spugna d'iridio occlude l'idrogeno. Per la determinazione quantitativa diretta del residuo ossalico non ho potuto fare la combustione, come d'ordinario si fa pei composti organici, prima pel pericolo d'una esplosione, poi per la difficoltà di dosare nel corso stesso della operazione il carbonio rimasto indietro come carbonato potas- sico. Eseguii però la combustione con bicromato alcalino. Pesata la sostanza in navicella di porcellana, vi univo 8 a 10 volte il suo peso di bicromato — 561 — sodico fuso e polverizzato; poi introducevo la navicella in una corta canna da combustione che era riunita da una parte con un grande tubo ad © ripieno di calce sodata, ed una boccia di lavaggio con soluzione concentrata di soda caustica; dall’altra parte la canna era unita con due tubi ad © conte- nenti cloruro di calcio per assorbire l'acqua di cristallizzazione, poi con due tubi pure ad © ripieni di calce sodata e destinati a fissare l'anidride car- bonica svoltasi nella reazione; un aspiratore mi permetteva di far passare nell’apparecchio una lenta corrente di aria secca e priva di anidride carbo- nica. Riscaldavo la navicella fino a fusione tranquilla della sostanza e tutta l'operazione non richiedeva che circa un'ora e mezza. I risultati furono oltre- modo soddisfacenti. Ecco ora i diversi risultati analtici ottenuti pel sale di potassio : I. 0,3923 gr. di sostanza trattati con acido cloridrico in eccesso, calcinati all'aria, quindi in corr. d'idrogeno hanno dato un residuo di gr. 0,2486 di lr 4-3 KCI, costituito da gr. 0,1172 di iridio e gr. 0,1333 di cloruro potassico, corrispondenti a gr. 0,0699 di potassio. II. 0,7946 gr. di sostanza scaldati a 130° hanno perduto gr. 0,0923 di acqua, lasciando un residuo di gr. 0,7020, che scaldato, come sopra con acido cloridrico e quindi calcinato in corrente di idrogeno, ha dato gr. 0,5066 di Ir-+3KCI1, contenenti gr. 0,2352 di iridio e gr. 0,2743 di cloruro po- tassico, equivalenti a gr. 0,1440 di potassio. III. 0,9758 gr. di sostanza scaldati come sopra a 130° hanno perduto gr. 0,1101 di acqua. Il residuo di gr. 0,8652 scaldato con acido cloridrico e calcinato dette gr. 0,2874 di iridio e gr. 0,3368 di cloruro potassico con- tenenti gr. 0,1767 di potassio. IV. 0,4576 gr. di sostanza scaldati a 130° han perso gr. 0,0533 di acqua. Il residuo calcinato come sopra ha dato gr. 0,2946 di Ir 4 3 KCI contenenti gr. 0,15368 di iridio e gr. 0,1537 di cloruro potassico corrispondenti a gr. 0,0806 di potassio. V. 0,7661 gr. di sostanza trattati come sopra persero gr. 0,0871 di acqua. Il residuo di gr. 0,4908 era costituito da gr. 0,2264 di iridio e gr. 0,2651 di cloruro potassico che contenevano gr. 0,1391 di potassio. VI. 0,4569 gr. di sostanza calcinati con bicromato sodico fuso hanno perduto gr. 0,1847 di anidride carbonica. VII. 0,5089 gr. di sostanza calcinati come sopra hanno perduto gr. 0,2052 di anidride carbonica. Ora riferendo questi risultati a 100 parti di sostanza si ha: Calcolato Trovato I II IMI IV V VARAvVADI TA 9900729) 85 29,87 29,60. 29,46. 29,89. 29,56. — — CO EP tI 72,00 11,14 — — — = e MEO MANO] 2 O 1921002970 = = — = Si TOO. VICE UR A 7,84 18,11 MSAN2 MET (048 18 - CIRO e to 0 vo e 208 A 612640118960 e _ Ir(C*0*)K*.4H°0 616,51 100,00 — 562 — Chimica. — Sw derivati dell’idrato di difenileniodonio. (Nuova classe di sostanze eterocicliche contenenti lo iodio in ca- tena chiusa) (1). Nota di Lurcr MASCARELLI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Con alcune ricerche compiute in questi ultimi anni (*) ho avuto occa- sione di dimostrare, che le sostanze contenenti il gruppo — JO» si compor- tano, almeno per i casi finora studiati, in modo analogo ai nitroderivati (*); parimenti si può dire che gl iodosoderivati si comporteranno come i nitroso- derivati, sebbene in questo caso sia difficile dimostrarlo sperimentalmente per la quasi insolubilità di quei composti. Ora volli vedere se anche l'iodio trivalente potesse sostituire l’azoto, pure trivalente, nei composti a catene chiuse. A questo scopo credetti opportuno di applicare una reazione già sco- perta da Vittorio Meyer e riguardante la preparazione delle basi iodoniche. Nel 1894 Vittorio Meyer ed Hartmann (4), sciogliendo l’'iodosobenzolo in acido solforico concentrato ben freddo, ebbero una sostanza basica a cui attribuirono la costituzione : TIE : VI.0H CH; Poco dopo (°) gli stessi Autori riuscirono ad avere con un rendimento dell'80°/, un'altra sostanza pure basica, contenente iodio trivalente, alla quale assegnarono la struttura: cH Mm. 01 CH; Questa base si prepara con facilità trattando un miscuglio equimolecolare di iodosobenzolo e iodilbenzolo con ossido d'argento umido; la reazione si suole esprimere colla equazione: CHHEJo C&Hsr + AgOH = AgJ0, + dI. OH CsH;J0: C;Hs (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Generale, R. Università di Bologna. (£) Mascarelli, Rend. R. Acc. Lincei, 1905, II, 199; 1906, II, 459; 1907, I, 183. (*) Per la nomenclatura delle varie sostanze iodurate, vedi Rend. R. Acc. Lincei, 1905, II, 199. (4) Ber. d. d. Ch. Ges. 1894, 426. (5) Id. id., 1894, 502. — 503 — I rappresentanti di questa classe di sostanze, denominate basi iodoniche, crebbero tosto in numero in seguito ai lavori di Meyer stesso, di Willge- rodt e dei loro allievi. Oggi si sa che le basi iodoniche si possono preparare: 1) per azione dell’ossido d’argento umido su un miscuglio equimo- lecolare di iodosoderivato e iodilderivato; 2) per azione prolungata dell'idrato di bario o dell’idrato di sodio sull’iodilcomposto corrispondente ; 3) scaldando alcuni iodilderivati con soluzione di ioduro di potassio: si ha prima la formazione di un perioduro intermediario, indi si origina lo ioduro della base [ad es. (C;H;)-J.J] da cui l’ossido d'argento rimette in libertà l'idrato. Altri metodi qui non ci interessano. Queste basi iodoniche sono note solo in soluzione acquosa (se si eccettua un caso da poco tempo presentatosi al Willgerodt di una base solida), perchè, concentrando la soluzione, il prodotto si scompone. Invece sono stabili i sali e fra questi specialmente i sali alogenati, i quali si possono ritenere prati- camente insolubili a freddo in acqua. A me parve che la reazione di Meyer, applicata a sostanze contenenti contemporaneamente nella molecola ed in determinate condizioni particolar- mente favorevoli il gruppo iodilico (—JO:) ed il gruppo iodoso (— JO), avrebbe permesso di ottenere una sostanza del tipo delle basi iodoniche, ma contenente l’iodio in catena chiusa con atomi di carbonio. Soddisfaceva a tale condizione il derivato iodoso-iodilico del difenile che contenesse en- trambi i gruppi sostituenti in posizione orto, poichè per lo schema: CHi.-J0, C6Hy | + AgOH = AgJ0; + | )I.0H CH, JO CeH, avrebbe potuto dar luogo alla chiusura dell'anello. Punto di partenza fu l’o-diiodiodifenile, che non si trovava descritto nella letteratura; questa sostanza venne preparata facendo il derivato diazoico dell’o-diamidodifenile già noto e scomponendo il tetrazoderivato con ioduro di potassio. Il rendimento in o-diiodiodifenile è assai scarso, perchè in preva- lenza si forma una sostanza polverulenta insolubile in tutti gli ordinarî solventi organici, poco solubile in acqua bollente; di questa dirò meglio in seguito. L’'o-diiodiodifenile, che è una sostanza ben cristallizzata dal p. f. 108°, dà facilmente il cloruro (I) del diiodosoderivato corrispondente, dal quale con soluzione diluita di potassa caustica, si ha l’o-diiodosodifenile (II), che, bollito con acqua, si trasforma in o-diiodildifenile (III). (1) (II) (III) Cl,J.CH,—CoHy.JClL 0T.CH—CH..JO. 0,J.CH.— CH . JO: — 564 — Dibattendo il derivato diiodoso, o diiodilico con ossido di argento umido si ottiene, con maggiore o minore facilità, un liquido a reazione alcalina, che dà tutte le reazioni delle basi iodoniche; la qual cosa dimostra che la chiusura dell'anello mediante l’iodio avviene anche senza ricorrere al deri- vato iodoso-iodilico. Concentrando il liquido alcalino si separa una sostanza solida, in fiocchi bianchi, che con ogni probabilità sarà l'idrato di dife- nileniodenio : (C715 PR MI >.3..0H RE Questa sostanza non venne analizzata, non presentando essa i caratteri di conveniente purezza; invece si analizzarono i sali, ‘che meglio si prestano ad essere purificati. La somiglianza di comportamento dell'ioduro di questa base con quello della polvere, che si forma nella preparazione dell’o-diiodiodifenile, m' in- dusse a studiarne meglio le proprietà. Risultò infatti che quella polvere è l’ioduro di difenileniodonio, poichè anche essa dibattuta con ossido d'argento dà un liquido a reazione fortemente alcalina, dal quale per concentrazione sì separa una sostanza solida identica a quella ottenuta col metodo dianzi descritto. Evidentemente nel passaggio dal tetrazocomposto a diiodiodifenile av- viene una interessante trasposizione degli atomi di iodio nella molecola, per cuì si origina l'ioduro di difenileniodonio isomero coll'o-diiodiodifenile : cosa che si può rappresentare schematicamente così: Reni de RO RIO SETA VS tetrazoderivato o-diiodiodifenile DE di difenileniodonio Questa trasposizione ci sta ad indicare che la chiusura dell'anello me- diante l'iodio si fa colla stessa facilità con cui avviene la chiusura nel caso dell'azoto (passaggio dall'o-diamidodifenile a carbazolo). Le ricerche ora iniziate mi fanno sperare di poter isolare ed analizzare la base libera e di studiarne meglio i derivati, quando mi sarò procurato una maggior quantità di sostanza prima. È poi facile immaginare che si potranno preparare molte altre sostanze a nuclei eterociclici contenenti car- honio e iodio: a questo proposito ho già intrapreso ricerche che mi fanno bene sperare. — 56950 — PARTE SPERIMENTALE. Ortodiiodiodifenile. — Questa sostanza, non ancora descritta nella let- teratura, si ottiene trasformando l’o-diamidodifenile (p. f. 81°) già ottenuto da Tàaube (*) in derivato diazoico e scomponendo il sale del tetrazoderivato con soluzione di ioduro potassico. Il rendimento in o-diiodiodifenile è alquanto scarso, perchè si forma contemporaneamente una sostanza resinosa che tosto si rapprende in massa nerastra per l’iodio che l’impregna. Si estrasse con etere, il quale ne scioglie una piccola parte mentre lascia indietro una pol- vere bruna, insolubile a freddo nei comuni solventi. Scacciato l’etere, rimase l’o-diiodiodifenile: questo, purificato convenientemente e ricristallizzato dal- l'alcool acquoso si presenta in cristalli bianchissimi aghiformi dal p. f. 108°. La combustione e la determinazione dello iodio col metodo Carius diede i numeri richiesti per la formula C,,3.HzJ» (*). La polvere bruna che l’etere lascia indisciolta fonde verso i 200-205°: questo punto di fusione così elevato poteva accennare alla presenza di car- bazolo (p. f. 238°) facile ad originarsi dall’o-diamidodifenile (*), come pure dal cloruro del tetrazoderivato (4) corrispondente. Si bollì a ricadere la so- stanza con etere acetico, che esportò in piccola quantità una polvere nera- stra da cui per sublimazione si ottennero squamette bianche fondenti a 239° e che davano tutte le reazioni cromatiche del carbazolo. Rimaneva ancora indietro la polvere bruna; questa venne dibattuta con anidride solforosa e poi purificata da molta acqua bollente: si ebbe sotto forma di polvere microcristallina giallo-chiaro, p. f. 210-211°. L'analisi elementare dimostrò trattarsi di un isomero dell’o-diiodiodi- fenile. Infatti in cento parti: Calcolato per C,» Hz J» Trovato I II IMI (O, 39,90 35,12 —_ — H 1,99 2,27 — — Ji 62,54 = 63,93 62,51 Come debba interpretarsi la struttura di questa sostanza vedremo dopo. Tetracloruro dell’o-diiodosodifenile. — Si ottiene facilmente facendo passare una lenta corrente di cloro in una soluzione convenientemente diluita di o-diiodifenile in cloroformio. In poche ore si separa il tetracloruro in cristalli aciculari, gialli, p. f. 130-135° con decomposizione. La determina- (1) Ber. d. d. Ch. Ges. 24, 198. (8) Qui sono riportati solamente i dati analitici delle sostanze che più interessano; per le altre verranno pubblicati altrove. (3) Ber. d. d. Ch. Ges., 25, 133. (4) Ber. d. d. Ch. Ges., 1893, 1703. RenpiIconTI. 1907, Vol. XVI. 2° Sem. 74 — 566 — zione del cloro venne fatta titolando con iposolfito sodico la quantità di iodio che il tetracloruro sposta dallo ioduro potassico (Trovato per cento: Cl 22,67, calcolato per C,3HzJy Cl, , Cl 25,91). La differenza in meno del 2,24 per cento nel trovato è dovuta al fatto che le ultime tracce di sostanza sten- tano a reagire coll'ioduro potassico, inoltre al fatto che tutti i cloruri di iodosoderivati perdono con grande facilità cloro stando all'aria. Del resto qui l'analisi aveva il solo scopo di decidere se trattavasi di prodotto biclo- rurato o tetraclorurato. o-Ditodosodifenile. — Il tetracloruro, dibattuto con soluzione di potassa caustica al 4 per cento, si trasforma in due giorni in una polvere gialliccia amorfa: raccolta su filtro e lavata con etere fonde a 109-110°. Essa ha le proprietà di un iodosoderivato. o-Diiodildifenile. — Lo iodosoderivato bollito con acqua si trasforma in iodilderivato. Cristalli sottili bianchi, che rassomigliano nell'aspetto allo iodilbenzolo: il punto di scomposizione è verso 280°. Derivati dell’idrato di difenileniodonio. — La determinazione dell'os- sigeno nell’iodilderivato (dosando l’iodio che viene spostato dall'ioduro po- tassico) non potè farsi, perchè trattando con ioduro potassico si ha un preci- pitato giallo-chiaro, che purificato dall'acqua bollente è in polvere microcri- stallina e fonde a 215°. Questa sostanza è identica alla polvere che sì forma nel passaggio dall’o-diamidodifenile ad o-diiodiodifenile. E per vero entrambe dibattute con ossido d'argento e acqua dànno una soluzione a reazione for- temente alcalina, la quale per trattamento con ioduro potassico torna a pre- cipitare lo ioduro. La soluzione alcalina venne concentrata a bagno-maria, con che cristal- lizza in sottili filamenti bianchissimi una sostanza basica (forse è l’idrato di difenileniodonio, non venne ancora analizzata). Essa annerisce a 130° e fonde, scomponendosi, a 145-148°. È insolubile in etere, benzolo. La sua ba- sicità è tale che bollita con etere acetico lo saponifica, così che per raffred- damento cristallizza l'acetato in prismi bianchi, duri, che imbruniscono a 187° circa e fondono, scomponendosi, a 195,5°. Anzi questo è un buon me- todo per prepararne l’acetato. L'analisi elementare diede i numeri richiesti per la formula: CRE | DI .000CH; CH Infatti in cento parti: Calcolato per Cs Hi 02.J Trovato gii C 49,72 49,60 — H 3 28 3,79 — Oa La determinazione della grandezza molecolare dell'acetato venne criosco- picamente fatta in uretano etilico, in cui però non è molto solubile. Si trovò 376 invece del teorico 338. La soluzione alcalina primitiva precipita colla maggior parte degli acidi o coi relativi sali alcalini. Il cloruro si ha in forma di precipitato bianco voluminoso, il bromuro è leggermente giallo, più giallo è l'ioduro: il sol- fato, il fosfato, il nitrato (da soluzioni più concentrate) sono bianchi, il cromato è giallo, il bicromato di color giallo più intenso, ecc. L'ossalato cristallizza facilmente dall'acqua in prismi incolori, che al- l'aria ed alla luce si colorano più o meno in giallo o in rossiccio; fonde a 191-192° con decomposizione. L'analisi diede i numeri richiesti per la formula : CH, [Too ec (| . E si 00. J CA N sH, CH, Si ottenne ancora la base dibattendo il diiodosodifenile oppure anche il diio- dildifenile con ossido d'argento umido, la soluzione alcalina, che così si ottiene precipita con tutti i reattivi innanzi enumerati: concentrando il li- quido si separa la sostanza basica. In queste ricerche sono stato validamente coadiuvato dall'opera del lau- reando in chimica sig. Giuseppe Benati, che qui ringrazio pubblicamente. Ghimica. — Solubilità allo stato solido fra composti aroma- tici ed i relativi esaidrogenati ('). Nota di Lurcr MASCARELLI e di Uco PesTALOZZA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Dalle ricerche compiute in questi ultimi anni sulle soluzioni solide si è indotti a credere che siano capaci di dare cristalli misti fra loro composti a catena chiusa coi loro derivati idrogenati, fino a che gli atomi di idrogeno addizionati non tolgono la struttura ciclica; pei composti a catena aperta il caso è più complicato a causa degli isomeri, che possono presentarsi nello spazio (isomeria fumaroide e malenoide) (°). Ora che l’idrogenazione a mezzo dell'idrogeno in presenza di nickel suddiviso ha dato al Sabatier ed al Senderens (*) risultati così fruttuosi e che le modificazioni da Ipatiew (4) apportate a questo metodo dimostrano (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Generale della R. Università di Bologna. (3) Bruni e Gorni, Gazz. chim. ital., 1900, I, 55. (*) Compt. Rend., /32, 210, 566 ecc. (4) Ber. d. d. Ch. Ges., 1907, 1281. — 568 — come ormai più nessuna sostanza aromatica sfugge alla idrogenazione com- pleta, ci rimaneva semplificato d’'assai il compito di procurarci le sostanze. prime per le ricerche in proposito. Non ci parve quindi privo d'interesse l'intraprendere lo studio del comportamento crioscopico tra composti aroma- tici ed i relativi derivati esaidrogenati, adoperando gli uni o gli altri come solvente. a seconda che le proprietà fisiche delle sostanze ce lo permet- tevano. Gli esempî che si riscontrano nella letteratura di ricerche crioscopiche fatte con corpì ciclici più o meno idrogenati si riducono a pochi, così: l'anidride maleica (C, H, 03) dà soluzione solida colla succinica (0, H, 03) (solvente) (!). la diidronaftalina (Co Hio) dà soluzione solida colla naftalina (C,0 Hg) (sol- vente) (°). il tetraidrodifenile (C,, Hi) dà soluzione solida col difenile (C;s Ho) (solvente) (*). il mentolo (Co Hao 0) dà soluzione solida col timolo (Cio Hus 0) (solvente) (4). Quest'ultimo è il solo esempio che corrisponda esattamente al nostro caso. Ci servimmo per queste determinazioni del solito apparecchio Beck- mann: il termometro era diviso in centesimi di grado. Le sostanze liquide furono introdotte nell'apparecchio mediante palline di vetro tarate. Le sostanze usate, quando non è detto in modo specificato, sono della fabbrica Kahlbaum di Berlino; tutte vennero purificate per distillazione o per cristallizzazione. I corpi con cui sperimentammo sono: cicloesano (Cs His) in benzolo (Cs Hg) e viceversa esaidro-p-xilolo (Cs Hig) in p-xilolo (Cg Ho) esaidro-naftalina (C,o H.s) in naftalina (C,0 Hx) cicloesanolo (C His 0) in fenolo (C: Hz 0) esaidro-o-cresolo (0, Hi 0) in o-cresolo (0, II 0) esaidro-p-cresolo (C, H14 0) in p-eresolo (C, Hz 0) acido esaidrobenzoico (C, H,s 0») in benzoico (C, Hg 03) Come si vede subito, nessuna delle sostanze adoperate (se si eccettua la coppia cicloesano e benzolo) permette di studiare il comportamento criosco- pico dei composti aromatici sciolti nei relativi esaidrogenati, poichè la tem- peratura di congelamento di questi ultimi è così bassa, che non si presta ad esperienze di tal natura. Quindi le nostre ricerche sono appena iniziate, 1) Garelli. Gazz. chim. it., 1894, II, 252. 2) Kiister, Zeit. f. phys. Ch., 8, 592. 8) Garelli, Gazz. chim. it., 1898, II, 360. 4 ( ( ( (4) Garelli e Calzolari, Gazz. chim. it., 1899, II, 258. — 569 — nè figurano ancora nello specchio ora dato certe sostanze che sarebbe neces- sario studiare per risolvere la questione ora accennata. L'unica coppia che si prestava a risolvere il quesito suaccennato era quella del cicloesano e benzolo, e con questa si fecero le determinazioni. Anche colla coppia cicloesanolo e fenolo speravamo di fare altrettanto, ma, come vedremo più tardi, il cicloesanolo, sebbene geli. a temperatura speri- mentabile, non ha le qualità per cui si presti ad esser usato come solvente in crioscopia. L'acido esaidrobenzoico poi, che fonde a 28° circa, non potè essere adoprato come solvente crioscopico pel suo prezzo troppo elevato. Avvertiamo subito che, in tutti i casi finora da noi contemplati, si ri- scontrò sempre, che composti esaidrogenati sciolti nei relativi composti aro- matici dànno un abbassamento normale del punto di congelamento. Viceversa, nell'unico caso in cui poterono esser fatte misure per un composto aromatico (benzolo) sciolto nel relativo esaidrogenato (cicloesano) si ebbero valori anormali e tali da non porre in dubbio trattarsi di formazione di cristalli misti tra le due sostanze. Ecco ora i dati sperimentali. Premettiamo che dalle determinazioni da noi fatte per stabilire la co- stante di abbassamento molecolare dell'o-cresolo (di cui ci serviamo poi) risultò : (1). determinazioni con difenile, media del valore di K = 54.46 ” naftalina » ” K= 57.12 ” dibenzile » ” Ro 57.01 media generale 56.2 Se si applica la regola empirica di Ravult (?) sì trova: K=108 x 0.62 = 66.9 valore che concorda solo approssimativamente con quello trovato sperimen- talmente, cosa questa che succede in molti altri casi. Colla nota formola di van’'t Hoff si calcola, che il calore latente di fusione per un chilogramma di o-cresolv è (303.5)? w= 0.02 36.2 = 32,78 cal. e per una gr. molecola = 3.54 cal. (1) Le tavole colle singole determinazioni verranno riportate per esteso in altro luogo. (2) Compt. rend., 95, 1030 (1882). — I. Idrocarburi. Cicloesano (Cs His = 84) sciolto in benzolo. ___—_— li E Concentrazione Abbassamento PasolonotecniRtà e in gr. per 100 termometrico 5 gr. solvente d (Gaps) z 1 0.707 0.44 81.9 2 1.461 0.885 84.2 3 2.332 1.415 84.0 4 3.282 1.93 85.4 5 4.792 2.755 88.1 6 5.682 3.245 89.3 Esaidro-p-xilolo (Cs Hig == 112.0) sciolto in p-xilolo (K=43) 7 0.3609 0.14 110.9 8 0.8132 0.32 109.3 9 1.725 0.67 110.7 10 3.813 1.425 115.1 11 5.434 2.01 116.3 Esaidronaftalina (Cio Hi4= 184) sciolta in naftalina. (K = 69) 12 0.6588 0.34 133.7 13 1.988 1.08 127.2 14 3.596 1.86 133.4 15 5.238 274 ! 131.9 Il benzolo era di quello per le determinazioni di peso molecolare, soli- dificava a 5.39; la costante d'abbassamento usata è K = 51. Il cicloesano pro- veniva dalla fabbrica Poulene Frères di Parigi: si impiegò la parte bollente a 81-82° e fondente a 6.2°. Risulta dai dati riportati che non vi ha separazione di cristalli misti. Il p-xilolo bolliva a 138° e solidificava a 14.5°; la costante, determinata da Paternò e Montemartini (*), è K= 43. Il relativo derivato esaidrogenato venne da noi preparato col metodo Sabatier e Senderens: il prodotto purificato bolliva a 117-120° e 762%», Anche in questo caso i valori trovati pel peso molecolare sono normali. La naftalina solidificava a 79°: usammo la costante K = 69, determinata da Auwers (*). L'esaidronaftalina venne preparata col metodo Graebe (*), (1) Gazz. chim. it., 1894, II, 197. (3) Zeit. f. phys. Ch., 18, 595. (*) Ber. d. d. Ch. Ges., 76, 3032. — 91 — riducendo cioè la naftalina in tubo chiuso con fosforo e acido jodidrico: le de- terminazioni si fecero colla parte bollente tra 200-202° a 756", ed in cor- rente d’idrogeno secco, data la facile ossidabilità della esaidronaftalina. Anche qui i valori trovati pel peso molecolare non accennano ad anomalie per for- mazione di soluzione solida. Sarebbe interessante studiare il comportamento crioscopico degli altri derivati idrogenati della naftalina, tetra-, octa-, deca- idronaftalina, poichè, come già dicemmo, la diidronaftalina fa soluzione solida colla naftalina. II. Fenoli. Cicloesanolo (C; Hi; O0= 100) sciolto in fenolo. E Concentrazione Abbassamento Pasolimolecolare 3 in gr. per 100 gr. termometrico u È solvente V| desto) Zi 16 0.7681 0.54 102.4 17 1.598 1.10 100.7 18 3.107 2.21 101.2 19 4.586 3.29 100.3 Esaidro-o-cresolo (C} H.4 0 = 114) sciolto in o-cresolo (K = 56.2) 20 0.7744 0,41 106.2 21 | 1.681 0.92 102.7 22 3.467 1.84 105.9 29 6.556 3.465 106.5 Esaidro-p-cresolo (C, Hi40 = 114) sciolto in p-cresolo (K= 77) 24 0.6063 0.42 111.2 25 1.285 0.88 112.4 26 2.036 1.41 111.2 27 2.874 1.98 111.9 28 3.933 2.71 111.8 29 5.333 3.70 111.0 Data la grande igroscopicità dei fenoli qui usati, tutte le determinazioni vennero fatte in corrente di idrogeno secco. Il fenolo sintetico di Kahlbaum da noi usato bolliva a 188° e solidifi- cava a 40.7°. Adottammo la costante K = 72 determinata da Eykmann ('). Il cicloesanolo era della fabbrica Poulene Frères: venne trattato con bisol- fito sodico per liberarlo dal cicloesanone frammisto, seccato su solfato di (1) Zeit. f. phys. Ch., 4, 497. — 572 — sodio anidro e distillato, p. eb. 161°. Sono degni di nota i valori del peso molecolare del cicloesanolo in fenolo per la loro concordanza col teorico e per la loro costanza fino a concentrazioni oltre il 5 °/. L'o-cresolo fu mantenuto una notte sotto campana in presenza di ani- dride fosforica: solidificava a 30.5°; la costante di abbassamento molecolare da noi trovata è K — 56.2. L'esaidro-o-cresolo della ditta Poulenc-Frères bolliva a 165° e 7660, Il p-cresolo, seccato come si fece pell’o-cresolo, solidificava a 369. La costante d'abbassamento fu determinata da Eykmann (') ed è K= 77. L'esaidroparacresolo di Poulene bolliva nettamente a 170° e 7602, Nessuna di queste sostanze dimostra di aver tendenza a sciogliersi allo stato solido nel relativo fenolo, anzi i valori ottenuti emergono per la loro costanza alle varie concentrazioni. III. Acidi. Acido esaidrobenzoico (C; H,» 0, = 128) sciolto in benzoico. E Concentrazione Abbassamento PASO OI GROlatO Si in gr. per 100 gr. termometrico age 5 solvente 4 fis E09) z 30 1.156 0.78 116.3 81 2.715 1.87 113.9 32 4.995 3.30 118.8 38 7.536 4.95 119.5 L'acido benzoico purissimo di Kahlbaum solidificava a 123°; adottammo per la costante di abbassamento il valore già trovato da Garelli e Monta- nari (*), cioè K= 78,5. L'acido esaidrobenzoico pure di Kahlbaum bolliva a 232-233° a pressione ordinaria. I valori inferiori al teorico trovati pel peso molecolare dipendono verosimilmente da tracce d'umidità, poichè risulta dalla letteratura chimica che questo acido ne abbandona difficilmente le ultime tracce (3). I risultati di queste prime esperienze dimostrano, che nessuno dei corpi esaidrogenati adoperati è capace di sciogliersi allo stato solido nel rispettivo composto aromatico quando questo funge da solvente. Il caso inverso potè essere studiato per ora solo sciogliendo il benzolo nel cicloesano. Dai dati (1) Zeit. f. phys. Ch., 4, 594 (1889). () Gazz. chim. it., 1894, II, 239. (3) Aschan, Liebig's Ann.. 27%, 260. — 573 — riportati già a proposito di un altro lavoro {') si rileva, che l'anomalia pre- sentata dal benzolo sciolto nel cicloesano è spiccata, poichè essendo 78 il peso molecolare del benzolo, il valore, che si trova alla concentrazione del 0.56 °/,, è già di 21 unità superiore al teorico. Un'altra sostanza esaidrogenata, che speravamo di usare come solvente crioscopico, era il cieloesanolo od esaidrofenolo, senonchè questo corpo por- tato vicino alla temperatura di solidificazione si fa dapprima gommoso, indi opaco, poi a poco a poco si rapprende in massa bianca senza che il termometro segni nettamente una temperatura di solidificazione. Un fenomeno analogo succede pel mentolo (*); è molto probabile che ciò succeda per tutti i corpi del tipo del cicloesanolo, cioè per le sostanze a funzione alcolica contenente il gruppo alcolico secondario in catena chiusa e completamente satura. Questo appare tanto più verosimile se si pensa al comportamento analogo, che presentano tutti gli alcoli grassi, cosa questa che è nota dalla letteratura chimica e che fu anche osservato da Abegg e Seitz (5). Come è già detto prima non impiegammo l'acido esaidrobenzoico come solvente a causa del prezzo troppo elevato. Dopo ciò non ci parve privo d interesse lo studiare l'andamento com- pleto della curva di congelamento fra benzolo e cicloesano. La tavola e la curva relativa riportata nella figura mostrano che essa è composta di due rami discendenti, che si incontrano in un punto eutettico, il quale, come sì ricava per estrapolazione grafica, corrisponde ad una miscela di 75 p. di cicloesano e 25 p. di benzolo ed è alla temperatura di circa — 44°. Le determinazioni a bassa temperatura furono fatte colla miscela frigorifera di etere e anidride carbonica solida. (1) Mascarelli, I cicloesano come solvente crioscopico. Rend. Acc. Lincei, 1907, I, 928. (2) Garelli e Calzolari, Gazz. chim. it., 1899, II, 258. (£) Zeit. f. phys. Ch., 29, 242 (1899). RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 75 ei 10° Ù +50 » 0° — 10° n — 30° — 400 Num. d'ordine Benzolo Ia 0. 0. 0. 0. 0. (0) 0 gr. 8513 8403 7152 5616 4058 1764 1036 ra: — Concentrazione in gr. Cicloesano per 100 gr. di miscea Temperatura È Benzolo Cicloesano = | 100 0 + 5.0 0.1368 95.78 4.27 2 20 0.2821 91.59 8.4] — 04 0.4435 87.39 12.61 — 2.8 0.6306 82.96 17.04 — 5.2 0.8291 78.74 21.26 — 76 1.2091 71.74 28.26 —- 11.3 2.4129 55.99 44.01 — 21.3 3.4450 47.12 92.88 — 26.9 1.6507 39.76 60.24 — 324 5.7122 34.95 09.05 — 362 4.3402 | 29.90 70.10 — 59.6 S:0770008 N 21:45 78.55 28701 — 18.86 81.14 — 81.2 - 15.44 84.56 — 24.2 —_ 11.66 88.34 — 16.5 2.497 6.38 93.42 — 6.7 5.53 1.84 98.16 usalo 2.49 0 100 + 62 100 — 575 — Il comportamento del cicloesano in benzolo è quasi normale fino alla concentrazione del 14°/, circa (conc. n. 3), poi i valori del peso molecolare che si calcolano vanno crescendo rapidamente, come succede in tuttii casi di soluzioni concentrate. Il ramo di curva su cui sì separa come fase solida il cicloesano invece giace tutto più alto di quello, che richiederebbe il com- portamento normale di questi corpi. Si tratta quindi di due sostanze solu- bili limitatamente allo stato solido. Casi simili sono gia noti e qui ci piace di ricordare quello osservato da Bruni e Padoa (!), cioè che se si sciolgono i nitroderivati aromatici nei rispettivi derivati alogenati si ha in generale for- mazione di soluzione solida: mentre invece usando come solvente il nitro- derivato si hanno valori debolmente anormali o normali. Il fenomeno presentato dal benzolo e cicloesano è evidentemente dovuto ad isodimorfismo dei corpi in questione. Sarebbero interessanti misure cristal- lografiche in proposito. Al riguardo notiamo che in una memoria di Ze- linsky (*) questo Autore dice: « Ein krystallographischer Vergleich mit dem dus- serlich àhnlich krystallisirenden Benzol, nach der liebenswirdigen Mittheilung meines Collegen Prof. Wernadsky, erwies, dass das Hexamethylen anscheinend in regulàren Systeme krystallisirt und die Krystalle nur sehr schwach auf polarisirtes Licht wirken, wahrend die rbhombischen Prismen des Benzols bekanntlich stark auf polarisirtes Licht einwirken ». Non abbiamo trovato altra descrizione più particolareggiata. In corso abbiamo anche lo studio dell'equilibrio tra fenolo e cicloesanolo, il quale, dai dati finora ottenuti, si mostra anche più interessante, ma su questo ci riserviamo di ritornare ad esperienza completa. Conclusione. In questo lavoro si studiò la capacità a formare cristalli misti tra so- stanze del tipo aromatico e le relative esaidrogenate. Le sostanze finora stu- diate appartengono alle serie degli idrocarburi, dei fenoli e degli acidi. Ogni qualvolta si scioglie la sostanza esaidrogenata nel relativo com- posto aromatico non si osserva anomalia crioscopica. Il caso inverso, cioè quello di sciogliere il composto aromatico nel rela- tivo esaidrogenato, potè applicarsi solo pel benzolo sciolto in cicloesano ed in questo caso si nota un'anomalia crioscopica assai spiccata, dovuta alla formazione di cristalli misti fra le due sostanze. Il cicloesanolo, come il mentolo studiato da Garelli e Calzolari, e come la maggior parte degli alcoli grassi, non sì presta ad essere usato quale solvente .crioscopico. (1) Gazz. chim. it:, 1904, I, 133. (2) Berich. d. d. Ch. Ges., 1901. 2799. — 5760 — Chimica. — Su «cuni sali complessi del perossido di uranio(*). Nota di ARRIGO MazzuccHELLI e di FERRUCCIO BIMBI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In uno studio di carattere analitico eseguito da uno di noi sulle con- dizioni di precipitazione quantitativa del perossido di uranio (2) fu accen- nato alle ragioni per le quali occorre ammettere la esistenza di composti solubili di detto perossido diversi dai sin qui conosciuti. Nella presente Nota ci proponiamo di riferire brevemente sui tentativi fatti per identificare aleuni di questi composti e sui risultati finora ottenuti. Indizii che permettano di arguire l'esistenza di persali solubili nelle solu- zioni di sali di uranile addizionate di acqua ossigenata sono facilissimi ad osservarsi, per poco che si operi su soluzioni concentrate o in presenza di sali estranei; ma nel più dei casi la soluzione, dopo un tempo più o meno lungo, si intorbida con precipitazione di perossido di uranio, senza che si riesca ad ottenere il persale inizialmente formatosi. Questo comportamento fu la causa di una certa perdita di tempo nei primi saggi, eseguiti su sali inorganici e quando non si poteva ancora avere una idea del carattere ge- nerale di questi nuovi composti; e in tal modo pure si spiega come, dopo tanto tempo che è noto il perossido di uranio, nessuno avesse finora sospet- tato l’esistenza di tali suoi derivati. I primi risultati favorevoli si comin- ciarono ad ottenere quando si presero in esame i sali organici dell'uranio, che, assai più degli inorganici, si prestano alla formazione di persali; perciò, e anche pel fatto che la maggior parte dei preparati così finora ottenuti si riferiscono a questa categoria, cominceremo la nostra esposizione dai derivati organici. Se una soluzione concentrata di acetato di uranile viene addizionata di H:0; si ha da principio una colorazione arancione senza precipitato, e poi si depone il perossido idrato, ma in quantità non corrispondente all’ H,0,, di cui una parte resta in soluzione, e tanto - più quanto più questa è con- centrata rispetto al sale di uranio; lo stesso effetto ha la presenza di un acetato alcalino che, se in quantità sufficiente, può impedire interamente la precipitazione del perossido, come già aveva osservato uno di noi (*). Finora abbiamo studiato più particolarmente il caso dell’acetato di ammonio, e si è trovato che aumentando gradualmente la quantità di quest'ultimo, la colo- (1) Lavoro eseguito nell’Istituto Chimico della R. Università di Roma. (2) V. questi Rendiconti, XV, 2° sem. 1906, pp. 429 e 494. (3) inte: utiss — 577 — razione arancione va divenendo sempre più intensa e più stabile, e maggiore la quantità di uranio che può restare in soluzione allo stato di persale, senza precipitare come perossido, sino a raggiungerne il limite di solubilità, dopo di che il persale si depone cristallizzato allo stato solido. Si sono ottenuti buoni risultati colle proporzioni seguenti: 10 gr. di nitrato di uranio cristallizzato (preferito all’acetato a causa della sua facile solubilità) e 10 gr. di acetato ammonico sono portati al volume di 110 cc. di soluzione e trattati con 20 cc. di H,0, 1,5 normale (cioè meno della quantità equivalente all’uranile). La soluzione giallo-arancio comincia a de- porre già dopo qualche minuto aghetti gialli, la cui quantità va crescend. col tempo, che dopo un paio d'ore sono raccolti su filtro, separati il più possibile dalle acque madri, ancora gialle, lavati con alcool a 95°, che scioglie tanto l’acetato ammonico quanto l'eccesso di sale di uranile, poi con etere anidro, e infine liberati dall'etere con una breve esposizione all'aria. I cristalli, con una soluzione abbastanza concentrata di acetato ammonico, si sciolgono in liquido limpido di color giallo che si decompone con precipi- tazione di perossido di uranio per riscaldamento un po' prolungato o per aggiunta di H,0,; lo stesso ha luogo al contatto dell’acqua pura. La deter- minazione quantitativa dei componenti, di cui i saggi qualitativi avevano accertato la presenza, ha dato i seguenti risultati: Calcolato °| Trovato Uranio 56,67 56,29 O attivo 1,99 1,88 Anidr. acetica 24,15 23,90 ; 24,48 Ammoniaca 4,04 3,96; 3,96. I valori calcolati si riferiscono alla formula: UO, , UO:(C.H30»), , 2 C:H30,.NH,, e la concordanza, come si vede, è soddisfacente. Secondo questa formula, nel persale in questione il perossido di uranio si unirebbe in complesso con l’anione già complesso UO:;(C,H30:){, e tale ammissione rende soddisfacentemente conto della poca stabilità di questo persale che può sussistere solo nelle soluzioni concentrate di acetato am- monico, dove la presenza di molti aceto-joni ostacola la dissociazione del- l'anione UO;(C.H30») , alla cui esistenza è subordinata quella del com- plesso perossidico ('). (1) Poichè coi presenti persali dell’uranio e cogli altri, già resi precedentemente noti, del molibdeno, tunsteno, titanio (v. questi Rendiconti XVI, 1° sem. pp. 963-966 e XVI, 2° sem., pp. 265-273 e 349-352) viene inaugurata una nuova serie di sali complessi di cui finora non si conoscevano rappresentanti, non è forse inopportuno fissarne fin d'ora la nomenclatura. Mi pare che ciò possa farsi nel miglior modo premettendo al nome del — 578 — Più che la preparazione di qualche altro sale alcalino di questo stesso tipo, per questo primo lavoro presentava interesse la preparazione di un sale alcalino-terroso, dove sarebbe stata diversa la valenza della base, e così è stato preparato l’ozouranilacetato di bario. Anche l'acetato di bario, come quello ammonico, ritarda la precipita- zione dell'acetato di uranile con H:0,, ma in grado minore: onde fu ne- cessario adoperarlo in concentrazione più forte per poterne preparare il persale corrispondente. Gr. 3,2 di acetato di uranile, e 15,5 di acetato baritico cri- stallizzato furono sciolti in acqua calda con aggiunta di 4 cc. di acido acetico glaciale (per risciogliere il sale basico di uranile separatosi) e portati a 55 cc. Per aggiunta di 1 cc. di Perhydrol Merck la soluzione assume dap- prima un bel colore arancione, poi s' intorbida e depone lentamente un pre- cipitato giallo polverulento e sottile, restando il liquido quasi perfettamente scolorato dopo qualche ora. Il precipitato fu raccolto su filtro, liberato il più possibile dalle acque madri siroppose, macinato in mortaio con alcool metilico a 90°, che scioglie abbastanza bene l’acetato baritico senza alterare visibilmente il persale, poi lavato con alcool a 98° e con etere. Si ha così una polvere gialla che in presenza di acqua si scompone con formazione di precipitato e in soluzione concentrata e un po’ acida di acetato baritico si scioglie a caldo in liquido arancione che col tempo vira al giallo, senza precipitare. L'analisi ha fornito i seguenti risultati : Calcolato %o Trovato Uranio 35,81 36,41 O attivo 2.40 2 BITAZION Bario 20,63 20,09; 20,41 Anidr. acetica 15,92 L'ORTLERoni Acqua 16,23 15,02. I valori calcolati si riferiscono alla formola UO, , Ba(C:H30.); - 6H,0 2 che concorda abbastanza bene coì dati sperimentali, ma è affatto diversa da quella trovata pel sale ammonico. Potrebbe supporsi che il sale abbia subìto una decomposizione per opera dell'alcool metilico di lavaggio, ma, oltre il fatto che esso dopo lavato è solubile nell’acetato baritico come lo è appena sale complesso, da cui il persale deriva, la particella Ozo-, già adoperata per composti analoghi dal Muthmann (Ber. XXXI, 1836); così il sale sopra descritto sarebbe ozoura- nilacetato di ammonio. Naturalmente per altri sali la cui costituzione non è ancora del tutto posta in chiaro, bisognerà attendere che questa sia definitivamente stabilita prima di assegnare il nome. A. M. — 579 — precipitato, parlano contro questa ipotesi i risultati dell'analisi di un pre- parato che non fu lavato, ma solo liberato alla meglio dalle acque madri siroppose per compressione tra carta. Da quei risultati sì calcola per i varii componenti il rapporto: UO, , (Ba C4Hs0,)1,35 + (CH 402)0,56 - Si ha, come si vede, un forte eccesso di acido acetico e di bario, spie- gabili colla depurazione forzatamente incompleta, ma l'ossigeno attivo è pur sempre in quantità equivalente all'uranio, onde occorre ammettere che la formula UO;, Ba C;H;0, rappresenta realmente la composizione del- l'ozouranilacetato di bario. Naturalmente essa non ne esprime la costituzione, 0, per la quale si propone provvisoriamente la formula UO, À Co equivalente raddoppiata. Il sale in questione risulterebbe per tal modo dal- l'unione dell’uranilacetato coll'ozouranato di bario, e questa differenza di costituzione renderebbe conto, fino a un certo punto, della differenza di pro- prietà (specie per quanto riguarda la solubilità) fra esso e l’ozosale ammonico. Del resto la sopracitata formula è appoggiata, come vedremo, dai risultati ottenuti con altri sali. Per vedere se nella serie alifatica si mantiene a lungo la proprietà di dare questi ozosali, abbiamo esaminato il comportamento di un valeria- nato. Versando una soluzione concentrata di nitrato di uranile in un eccesso di valerianato sodico al 15 °/, sì ha un precipitato giallo-chiaro caseoso, che non si scioglie neppure. agitato a lungo colle acque madri, e che consta verosimilmente di uranilovalerianato sodico. Questo sale non era stato pre- parato finora e per la sua insolubilità si distingue dagli omologhi inferiori. Senza esaminarlo ulteriormente si versò nel liquido un difetto (80 °/, della quantità equivalente all’uranile) di Perhydrol. Il precipitato per agitazione sì sciolse con bella colorazione dorata, e dalla soluzione limpida si deposero dopo poco cristalli arancione i quali furono raccolti su filtro, dove si tra- sformarono in una massa pastosa, a causa dell'acido valerianico, poco so- lubile, liberatosi per azione dell’ H,0, sul sale di uranile. L'acido valeria- nico fu eliminato macinando sotto ligroina la massa liberata il più possibile dalle acque madri, e si ottenne così una polvere gialla, asciutta e priva di odore, che fu sottoposta all’analisi coi seguenti risultati : Calcolato “| Trovato Uranio 38,10 38,24 O attivo 162 1,18 Anidr. valerianica 28,16 81,63 Sodio 3,66 4,54 Acqua 18,63 19,19 — 580 — I valori calcolati si riferiscono alla formula UO, , UO.(C:Hs03): , 2 Na C;H:0; + 13H.0 e la concordanza è in generale soddisfacente, meno che pel sodio e l’ani- dride valerianica, il cui eccesso non indifferente può forse spiegarsi colla presenza di una certa quantità di valerianato sodico. Comunque, risulta in- dubbiamente che il tipo del composto è lo stesso che per l'acetato, e che quindi i varii acidi alifatici si comportano uniformemente sotto questo ri- guardo. Dopo gli acidi alifatici si sono esaminati gli uranilosali di alenni acidi bibasici, e primo fra tutti l'ossalico. Per azione dell'’H,0, sull'uranilossalato ammonico si formano ozosali che sono abbastanza stabili anche in assenza di un eccesso di ossalato alcalino; in questo caso perciò poterono prepararsi varii composti a seconda che nella soluzione era presente o no l’ossalato ammonico. Una soluzione satura di uranilossalato ammonico dà con H:0, una colo- razione arancione, e poi depone lentamente una polvere gialla ben filtrabile, solubile lentamente, ma in liquido limpido, nell'acqua fredda, più rapida- mente nella calda, ove si ha pure notevole sviluppo di gas, senza però ohe precipitino, almeno nei saggi in piccolo, quantità apprezzabili di UO,. I risultati analitici sono stati i seguenti: Calcolato °| Trovato Uranio 59,50 59,46 O attivo 1,98 1,90 Anidr. ossalica 17,89 17,48 Ammoniaca 4,23 4,10 I valori si riferiscono alla formula UO,, UO:(C,0,. NH,).. Anche in questo caso dunque l' UO, si copula all’anione complesso UO:(C20,)}", e poichè questo anione, come risulta anche dagli studii del Dittrich, possiede una stabilità considerevole, si comprende come possa essere abbastanza sta- bile anche l'ozosale. Operando in presenza di una soluzione satura di ossalato ammonico, si hanno qualitativamente gli stessi fenomeni: ma la polvere gialla, che si ottiene anche in questo caso, dà all’analisi un risultato diverso. Calcolato %o Trovato Uranio 41,24 41,24 O attivo 1,36 em Anidr. ossalica 24,80 26,27 Ammoniaca 6,51 8,44 nin — 581 — I valori calcolati si riferiscono alla formula UO, , UO; (00, . NH,),, 2 C.0,(NH,): +7 H:0. Operando infine in presenza di ossalato ammonico un po' diluito, si ha con H:0; solo colorazione dorata, senza precipitato; questo fu provocato per aggiunta di alcool in quantità insufficiente a precipitare l'eccesso di ossalato ammonico, come ci si accertò con saggi paralleli, e la polvere così ottenuta diede all'analisi i seguenti risultati: Calcolato o Trovato Uranio 43,97 44,15 O attivo 1,47 1855 Anidr. ossalica 26,48 27,80 Ammoniaca 9.39 9,56 I valori calcolati si riferiscono alla formula UO, , UO:(0:0,. NH)», 2C0:0,(NH,): +3H:0 che si differenzia dalla precedente solo pel minore contenuto in acqua; ciò può essere dovuto all’azione disidratante dell'alcool. Più importante però è il fatto che, mentre si ha una concordanza soddisfacente per l’uranio, ossigeno attivo e ammoniaca, l'anidride ossalica è in eccesso, e di una quantità pres- sochè uguale in ambedue i preparati; ciò mostrerebbe che al composto sopra ammesso è frammisto un altro più povero di acqua e più ricco di acido ossalico (che vi esisterà verosimilmente in forma di sale acido di ammonio). Ma su questo porteran luce studii ulteriori; pel momento basta constatare che, anche preparato in quelle condizioni, l’ozosale, per quanto concerne il rapporto fra uranio e ossigeno attivo, mantiene il tipo UO, , UO» X, M.. Si è poi esaminato l’uranilosuccinato sodico. Questo sale, che è eviden- temente di una complessità assai meno spinta dell’ossalato, è capace ancora di dare un ozoderivato, ma solo in una soluzione concentrata (30 °/,) di succinato sodico, la cui presenza rende difficile il poter precipitare puro, me- diante l’aggiunta dell’alcool, l’ozosale. Perciò abbiamo, sì, ottenuto a questo modo un precipitato giallo, decomponibile al contatto dell’acqua con preci- pitazione di UO, e solubile inalterato con color dorato in soluzione con- centrata di succinato sodico, ma poichè all'analisi non ci ha dato risultati soddisfacenti, non li riportiamo, contentandoci per ora di questi accenni qua- litativi. Dopo gli acidi alifatici, è stato esaminato un acido bibasico aromatico, l'ortoftalico. Una soluzione di uraniloftalato sodico (da nitrato di uranio e ftalato sodico in quantità calcolata) per aggiunta di H,0s depone lentamente un precipitato giallo, mucillaginoso, che è quasi impossibile a filtrare e che trattato con alcool si decompone con precipitazione di UO,, onde non è RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 76 stato ulteriormente esaminato. Invece operando in presenza di un eccesso di ftalato sodico si ha solo colorazione intensa, ma non precipitato, che può ottenersì solo per aggiunta di una quantità rilevante di alcool a 95° (6 a 7 volumi). In queste condizioni si ha una lenta separazione di fiocchi gialli, che può essere accelerata assai agitando vivamente il liquido, fino a non restare quasi più uranio in soluzione. Il precipitato mostra la tendenza ad aderire alla carta fra cui si comprime per eliminarne le acque madri; è solubile quasi inalterato nell'acqua con colore oro, e all'analisi ha fornito i dati seguenti: Calcolato Yo Trovato - Uranio 38,80 38,70 O attivo 2,60 2,88; 2,74 Anidr. ftalica 26,00 20,35 Sodio 7,50 7,90 Acqua 14,65 17,25 I valori calcolati si riferiscono alla formula UO, , CsH,0, Na, +-5H0, e, nonostante la divergenza nell'anidride ftalica e nell'acqua, siamo indotti ad WA EE ammettere che anche qua esista un complesso del tipo UO 3 C:H,.0,Na o il corrispondente raddoppiato. E qui notiamo come anche i risultati ottenuti dalle analisi dell’ozouranilosuccinato sodico, sebbene non concordanti suffi- cientemente con una formula semplice, accennano però chiaramente all’esi- stenza di un complesso di questo stesso genere. Fin quì quanto riguarda gli uranilosali organici. Degli inorganici ab- biamo meno da dire. Col nitrato, cloruro, solfato ece. di uranile è abba- stanza facile ottenere, specie in presenza dei corrispondenti sali alcalini, con H.0: colorazioni aranciate senza precipitato: ma questo si produce poco dopo, e per ora non si è potuto isolare gli ozosali inizialmente formatisi. Migliori risultati si sono avuti coll’uranilopirofosfato sodico, UO:(P:0;)Na:, sale fortemente complesso. Questo sale, sciolto in acqua colla quantità equiva- lente di pirofosfato sodico, per aggiunta di H,0, si intorbida quasi imme- diatamente e depone goccie oleose, che col tempo si induriscono e tanto più rapidamente quanto più concentrata è la soluzione. Evidentemente il liquido soprastante opera una specie di « Aussalzung » sulla soluzione soprasatura, oleosa, che si depone inizialmente, e questa è una delle ragioni per cui è necessario quell’eccesso di pirofosfato alcalino. La sostanza arancione, di consistenza cerosa, fu raccolta e asciugata accuratamente fra carta, ma non si potè comprimerla, perchè ha tendenza ad aderire tenacemente alla carta, mentre i varii frammenti si riuniscono in una massa unica. La sostanza è solubile nell'acqua, specie a caldo, con piccola decomposizione. — 583 — Aggiungiamo qualche parola sui metodi analitici adoperati. Il tratta- mento della soluzione nitrica con mercurio o stagno metallici risultò insuf- ficiente a separare l'acido fosforico dall’uranio, di cui una parte viene trascinata col precipitato; il secondo metodo tuttavia fu utilizzato per de- terminare l'alcali nella soluzione soprastante. L'acido pirofosforico, previa digestione con acido nitrico per convertirlo in ortofosforico, fu determinato come fosfomolibdato ammonico, secondo Woy (I), o come fosfato di uranio (II); i risultati dei due metodi, per ragioni ignote, non concordavano interamente fra loro. Per l'uranio fu tentata la precipitazione allo stato di UFI], per riduzione elettrolitica in soluzione fluoridrica, proposta anni sono per altro scopo da F. Giolitti; si ha in tal modo un precipitato interamente esente di acido fosforico e di alcali, purchè si distacchino le parti che tenderebbero ad aderire alla capsula di platino, e si faccia un buon lavaggio per decan- tazione. Ecco i valori ottenuti: Calcolato ° Trovato Uranio 40,00 38,80 O attivo 2,67 2,60 Anidr. fosforica 11,86 12,80 (I); 13,42 (II). Sodio 7,10 7,09 Acqua 27,08 26,76 I valori calcolati si riferiscono alla formula 2U0,, P,0;Na, + 18H,0, e anche in questo caso occorre perciò ammettere una apparente addizione dell’UO, al sale alcalino, la quale si potrà poi interpretare con un simbolo O,—Na TÀ di questo genere: f UO; O, analogamente allo ftalato, SETA 2 acetato baritico ecc. Un altro sale fortemente complesso dell'uranio è l'uranilocarbonato am- monico. Se una soluzione abbastanza concentrata di questo sale, avuta fa- cendo gorgogliare CO, in una sospensione di uranato ammonico, si tratta con H,0;, si ha una colorazione rosso-aranciata senza precipitato; questo può ottenersi per aggiunta di alcool, e la sostanza cristallina polverulenta così ottenuta, lavata con alcool e compressa fra carta, ha dato all’analisi i se- guenti risultati: Trovato %o Calcolato Uranio 54,87 54,22 O attivo 3,68 3,37 Anidr. carbonica 10,12 10,14 Ammoniaca 7,99 7,95 — 584 — I valori calcolati si riferiscono alla formula UO, , C03(NH,): + 2H.0, e dalla buona concordanza coi dati sperimentali dobbiamo concludere che anche in questo caso si ha che fare con un composto del tipo 0O,—NH UO VA 2 4 18 . CO;—NH, La preparazione e le proprietà degli ozosali dell'uranio descritti nella presente Nota mostrano a sufficienza che siamo di fronte ad una intera classe di nuovi composti, il cui studio è attualmente continuato in questo labo- ratorio. Nella « Gazzetta chimica » pubblicheremo quanto prima i dati analitici completi e qualche particolare accessorio relativo ai composti qui descritti Chimica. — Sulla grandezza molecolare dei ferro-nitrosol- furi ('). Nota di I. BeLLUCCI e F. CARNEVALI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. In continuazione di nostre precedenti ricerche già pubblicate (*), ci oc- cupiamo nella Nota presente della grandezza molecolare che compete ai sali di Roussin, ossia ai ferro-nitrosolfuri del tipo [ Fe,(NO), Ss] R/, intorno alla quale non esistono finora che notizie incerte. Ricordiamo a tal proposito che Pawel (*), uno degli autori che per l'addietro si è occupato dei ferro-nitrosolfuri, in un breve capitolo intorno alla probabile costituzione di questi sali, ammette senza basarsi su alcun dato sperimentale, che essi posseggano una formola doppia, cioè [ Fes(NO),, Se] Rs, per potere così mettere in evidenza una molecola di solfuro alcalino. Gli unici autori che abbiano però affrontato direttamente la questione della grandezza molecolare dei sali di Roussin sono Marchlewski e Sachs in una Nota pubblicata nel 1892 (4). Questi, approfittando della solubilità del ferro-nitrosolfuro di potassio [Fe,(NO),S:]K nell’etere etilico, hanno ese- guito delle determinazioni ebullioscopiche in tale solvente concludendo per un peso molecolare semplice, corrispondente cioè alla formola [ Fes(NO); S:]R. Le determinazioni di Marchlewski e Sachs non si potevano però assu- mere come prove definitive dappoichè non era escluso che l'etere, avesse (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale della R. Università di Roma. (2) Bellucci e Venditori, Gazz. chim. ital., 35 (2), 518 (1905): Bellucci e Cecchetti, id. id., 27 (1), 162 (1907); Bellucci e Carnevali, id. id., 37 (2), 22 (1907). (8) Berichte 75, 2600, 1882. (4) Zeit. Anorg. 2, 175, 1892. — 589 — provocato in tal caso qualche eventuale alterazione. E difatti gli autori ora ricordati, pur credendo di poter escludere questa alterazione, data la breve durata della prova ebulliscopica, affermano tuttavia la necessità di control- lare in qualche modo le loro conclusioni. Dalla comparsa della Nota ricordata di Marchlewski e Sachs, avvenuta nel 1892, fino ad oggi, non è stata però pubblicata, a quanto noi sappiamo, alcuna altra esperienza in proposito, rimanendo così la questione in uno stato di grande incertezza. Prima di procedere oltre nello studio da noi intrapreso sui ferro-nitrosolfuri era quindi necessario di chiarire, possibilmente in modo definitivo, questo punto di grande importanza per spiegare la costituzione di tali composti. Abbiamo a tale scopo compiuto le ricerche i cui risul- tati qui sotto brevemente esponiamo. PARTE SPERIMENTALE. Prima di tutto sono state da noi ripetute con l'etere le prove ebullisco- piche sopra ricordate, impiegando in una prima serie di esperienze, i nitro- solfuri di potassio e di sodio. Era preferibile adoperare questi sali cristallizzati dall’etere, ma questo solvente nell'atto della cristallizzazione provoca su di essi una decomposizione non trascurabile. Essi furono invece purificati per ripetute cristallizzazioni dal- l'acqua e seccati prima su cloruro di calcio e poi per qualche ora su acido solforico. L’etere impiegato era stato purificato con la massima cura, trattando per più giorni il prodotto commerciale rettificato con miscuglio cromico fino a che questo accennava a ridursi; quindi scaldato all’ebollizione a ricadere su soluzione concentrata di potassa caustica e distillato poi più volte sopra ossido di bario. Il prodotto ottenuto bolliva fra 34°,8-35° (press. mm. 759). Trascuriamo naturalmente di descrivere le precauzioni adoperate nell’apparec- chio ebullioscopico per evitare l'influenza dell'umidità atmosferica, precau- zioni che sono state messe in opera, per quanto meglio si è potuto, anche per gli altri solventi organici di cui parleremo in seguito, specialmente avuto riguardo all'introduzione della sostanza. Le nostre numerose determinazioni ebullioscopiche in etere ci hanno sempre condotto a risultati molto discordanti fra loro e del tutto saltuarî. I pesi molecolari avuti dall'esperienza oscillavano infatti da un massimo corrispondente all’ incirca alla formola semplice dei nitrosolfuri, fino a va- lori anche inferiori alla metà di questa, e ciò impiegando concentrazioni variabili entro limiti vasti. Marchlewski e Sachs nelle due determinazioni eseguite (loc. cit.), hanno adoperato concentrazioni molto piccole (0,31 °/ e 0,62 °/;), misurando innalzamenti minimi di temperatura (09,012 e 0°,022), e sembra a noi strano che tali autori si siano limitati a sperimentare con concentrazioni così piccole ed insolite, leggendo degli innalzamenti minimi, — 586 — quando il solvente permettera benissimo di usare molto maggiori concentra- zioni. Una sola volta con una concentrazione del 0,63 °/, noi abbiamo con- statato un innalzamento di 0°,022, per cui si calcola un peso molecolare pari a 609, abbastanza vicino cioè a quello del sale [ Fe,(NO);$3]K. A tale determinazione però noi non possiamo attribuire alcun valore definitivo. Per togliere ogni dubbio sulla possibile influenza che nelle nostre de- terminazioni potesse avere l'acqua di cristallizzazione dei nitrosolfuri di sodio e di potassio impiegati, abbiamo anche esperimentato con il sale anidro di piridina [ Fe,(NO);S: H]Py, col quale però sì sono ottenuti gli stessi valori discordanti e saltuarî, mentre d'altra parte le prove di controllo eseguite, impiegando come sostanza la naftalina, ci hanno dato sempre buoni ri- sultati. Vogliamo anche ricordare a proposito delle determinazioni ebulliosco- piche in etere, che, se questo contiene dell'alcool etilico, come avviene per il prodotto commerciale rettificato, si hanno fenomeni molto singolari. Il più delle volte, con concentrazioni di nitrosolfuro, pure variabili entro limiti molto estesi (dal 0,24°/, al 2,30 °/), si hanno abbassamenti in luogo di innalzamenti del punto di ebollizione, e solo elevando molto le concentrazioni si può ri- salire al punto di ebollizione del solvente puro e raramente oltrepassarlo di pochissimo. Tali fenomeni sono del tutto evitati impiegando etere etilico scrupolosamente purificato dall'alcool, con il quale si hanno sempre innal- zamenti di temperatura. Intorno al fenomeno suddetto non abbiamo creduto opportuno di stabilire indagini, perchè ci avrebbero portato lontano dal nostro scopo, soltanto ci è sembrato necessario ricordarlo per mostrare a qnali fal- laci risultati ebullioscopici possa condurre un etere impuro di alcool. Noi dobbiamo tuttavia concludere che l'etere etilico non sì presta per determinazioni ebullioscopiche sopra i nitrosolfuri, per quanto apparentemente non sia possibile constatare alcun indizio di decomposizione durante l’espe- rienza, e per quanto lo stesso nitrosolfuro alcalino resista, come vedremo fra breve, a determinazioni ebullioscopiche in acqua. Verificato come l'etere non si presti alla risoluzione del nostro problema, abbiamo esteso le indagini compiendo anzitutto determinazioni di conduci- bilità elettrica sulle soluzioni acquose del nitrosolfuro sodico, ricorrendo cioè alla nota regola di Ostwald e Walden. Riportiamo qui appresso i risultati ottenuti impiegando il sale sodico purificato per ripetute cristallizzazioni dall'acqua, ben seccato tra carta e poi su cloruro di calcio, e poniamo a lato per confronto i valori di conduci- bilità trovati da Wialden (!) per l’arseniato monosodico e per il butirrato sodico. (1) Zeitschr. f. Physik. 2, 53 (1888). 6.) — 587 — fi =250 [Fe (NO)? S8] Na AsO,HsNa C:H,.COONa O E v K251 pa u u u 32 64,4 64,2 64,3 72,9 71,8 64 659 116553) N65:6 Dio 74,4 128 6460 66,9 6/72 78,3 77,0 256 68,9 63,8 68,8 80,6 78,9 512 (RD TIE AEG 82,7 80,7 1024 AA 0A) 745 84,0 82,5 A=10,2 A = WWLY A ZIA OT dopo 16 ore: v Ui 32 64,4 1024 77,4 Il valore ottenuto per 4 mostra chiaramente come si sia in presenza del sale sodico di un acido monobasico e comprova in modo molto netto che ai nitrosolfuri spetta un peso molecolare semplice. La grande stabilità del nitrosolfuro sodico risulta anche dai valori di conducibilità ora ripor- tati, ed ottenuti per le diluizioni dopo 16 ore da che erano Tyre 32 1024 state preparate le soluzioni e mantenute poi al riparo della luce; alla di- luizione 39 il sale non ha mostrato la più piccola alterazione di conduci- bilità e solo alla orande diluizione (corrispondente a circa 4 gr. di g | 5 N 1024 sale per litro) si può notare un leggero e sensibile principio di idrolisi. In accordo con i dati della conducibilità elettrica ora riportati stanno i seguenti risultati delle determinazioni crioscopiche ed ebullioscopiche in acqua, da noi eseguite sui nitrosolfuri di sodio e di potassio. Crioscopia in acqua (K = 18,5). Nitrosolfuro di sodio: Solv. Sost. Concentr. ° Abbass. osservato H gr. 31,70 gr. 0,6302 1,988 00,14 II n» 23,87 » 0,4100 TRTALE 00,11 Peso molec. trovato Calcolato per I II 3 [Fex(NO),S:] Na 262,7 288,9 276 — 588 — Ebullioscopia in acqua (K=5,2). Nitrosolfuro di potassio: Solv. Sost. Concentr. °)o Innalz. osservato I gr. 15,84 gr 0,8180 2,073 00,04 (metodo Landsberger) II » 19,30 » 0,2103 1,089 0°.032 Peso molec. trovato Calcolato per I II 3 |Fex(NO); S3] K 269,9 293,6 284,8 Questi risultati, come vedesi, dimostrano che i ferro-nitrosolfuri di sodio e di potassio subiscono a forti diluizioni acquose una completa e normale dissociazione elettrolitica, fornendo anche una nuova e caratteristica prova della loro forte natura complessa. Per quanto il valore trovato per 4 definisse la questione, noi abbiamo eseguito anche delle determinazioni ebullioscopiche e crioscopiche in altri solventi organici che si prestavano a sciogliere i nitrosolfuri, sperando di evitare fenomeni di dissociazione. Ricordiamo a questo punto come nessun nitrosolfuro [ Fe.(NO), S3]R', dei molti da noi preparati con le basi più dif- ferenti (loc. cit.), si è mostrato solubile in benzolo, venendo così ad esclu- dere per le nostre determinazioni il solvente più indicato. I solventi da noi adoperati sono stati l’acetone (ebullioscopia) ed il nitrobenzolo (crioscopia); essi, per quanto dissocino fortemente i nitrosolfuri, hanno dato risultati che ci sembra opportuno riportare essendo ben limitati i casi di solubilità di sali inorganici in tali solventi. Ebullioscopia in acetone (K = 18). Si adoperò il prodotto puro (dal bisolfito) proveniente dalla fabbrica Kahlbaum. Dopo distillazioni fu seccato ripetutamente ed a lungo su ossido di bario; bolliva a 56°,4 (press. 758 mm.). Nitrosolfuro di sodio: - Solv. Sost. Concentr. %o Innalz. osservato I gr. 21,13 gr. 0,2725 1,289 09,08 II n 21,13 » 0,4334 2,051 09,125 III » 16,70 » 0,2492 1,492 09,10 Peso molec. trovato Calcolato per I II III 1 [Fe,(NO),S,] Na. 2H20 290 295,3 268,5 294,5 — 589 — Nitrosolfuro di potassio, anidro : Solv. Sost. Concentr. ° Innalz. osservato I gr. 20,03 gr. 0,2768 1,381 09,09 II » 18,09 » 0,2369 1,309 0°,082 Peso molec. trovato Calcolato per I II 1 [Fes(NO): Ss] K 276.2 287,8 284,8 I due nitrosolfuri di sodio e di potassio (quest'ultimo anidro), sono perciò completamente dissociati in acetone, e le loro soluzioni in tale sol- vente conducono molto bene la corrente elettrica. Il potere dissociante del- l’acetone osservato nel nostro caso, se è in relazione con l'elevato valore della sua costante dielettrica (20,7), corrispondente all'incirca a quella dell'alcool etilico, non concorda però con il comportamento generale dell’acetone stesso, che ha quasi sempre mostrato ebullioscopicamente di dare pesi molecolari normali. Crioscopia in nitrobenzolo (K = 70). Il nitrobenzolo puro della fabbrica Kahlbaum fu cristallizzato e distil- lato frazionatamente. Bolliva a 208° e fondeva a 5°,6 (press. 761 mm.). Nitrosolfuro di potassio, anidro: Solv. Sost. Concentr. °| Abbass. osservato I gr. 25,92 gr. 0,3807 1,468 00,39 II » 25,92 » 0,5863 2,262 09,58 III » 26,50 » 0,0755 0,284 09,07 Peso molec. trovato Calcolato per Il II II I [Fe,(NO),S;] K 263 273 284 284,8 Anche in nitrobenzolo, come in acqua ed in acetone, il nitrosolfuro di potassio risulta completamente dissociato, il che concorda pure in tal caso con la costante dielettrica (34-35) posseduta dallo stesso nitrobenzolo e su- periore a quella dell’alcool metilico. La soluzione del nitrosolfuro in nitro- benzolo conduce bene la corrente elettrica ('). (1) In questi ultimi giorni è comparsa nel fascicolo di settembre della Zeitschr. fir physik. Chemie (60, 385) una Nota di Beckmann e Lockemann sopra il nitrobenzolo come solvente crioscopico. Questi autori pongono in rilievo l’alto grado di igroscopicità posseduto da tale solvente, il quale, per essiccamento molto accurato, può giungere ad RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. ST — 590 — Risulta provato dai valori trovati per 4: nelle determinazioni di con- ducibilità elettrica, che spetta ai ferro-nitrosolfuri un peso molecolare cor- rispondente alla formola semplice [Fe,(NO),S,]R'. Inoltre il comportamento di tali composti sia in soluzione acquosa, come negli altri solventi organici adoperati, dimostra che essi appartengono alla categoria dei veri sali com- plessi. La quale cosa appariva pure da prove del tutto chimiche, poichè era stato a noi possibile, come si è reso noto precedentemente (loc. cit.), di eseguire numerosi e svariati doppî scambî anche con basi polivalenti e nei quali l'anione [Fe,(NO); SJ è rimasto sempre inalterato, riuscendo pure a salificare basi molto deboli, quali ad esempio la piridina. Abbiamo poi provato, pure in Note precedenti (loc. cit.), che questo complesso nitrosolforato si mantiene inalterato anche di fronte all’azione di energici riducenti come l'idrazina, l'idrossilammina, ed altri, dei quali può fornire i rispettivi nitrosolfuri perfettamente definiti e cristallizzati. A dimostrare la forte natura complessa dei ferro-nitrosolfuri sta pure il fatto, da noi verificato, che se si mantiene in vaso chiuso, esposta alla luce solare diretta, anche per più giorni, una soluzione di nitrosolfuro potassico [Fej(NO);S3]K in alcool etilico (99 °/,), essa si conserva perfettamente inalterata, nè può notarsi alcun fenomeno di decomposizione; evaporando poi il solvente si riottiene il primitivo nitrosolfuro in bei cristalli lucenti. È superfiuo ricordare come in identiche condizioni, molti fra i sali inorganici più complessi e stabili vengano più o meno completamente ridotti. elevare il suo punto di congelamento di 0°,4. La costante crioscopica 70, finora adottata, si riferirebbe soltanto al nitrobenzolo umido, giacchè per quello secchissimo il valore si eleverebbe a più di 80 (valore massimo osservato 84,63). Beckmann e Lockemann, nelle loro esperienze crioscopiche, hanno seccato il nitroben- zolo anzitutto per distillazione e cristallizzazione frazionata e poi conducendovi attraverso e per più giorni, una corrente di aria secchissima. Il nitrobenzolo usato per le nostre esperienze, come sopra si è detto, era stato purificato per ripetute distillazioni e cristalliz- zazioni frazionate, mantenendo il prodotto, distillato poco prima dall'esperienza criosco- pica, al riparo dell'umidità atmosferica. Crediamo perciò nel nostro caso che possa bene applicarsi la costante 70, comunemente accettata, ed impiegata dallo stesso Beckmann (loc. cit.) per il nitrobenzolo sottoposto soltanto a cristallizzazioni e distillazioni, e ciò in vista anche della concordanza dei risultati ottenuti nelle nostre determinazioni ripetute molte volte ed in epoche diverse. i n “pe — 591 — Embriologia vegetale. — Nuove ricerche sulla nutrizione dell'embrione vegetale. Nota preliminare di B. LonGo, presentata dal Socio R. PIROTTA. Proponendomi di continuare le mie ricerche sulla nutrizione dell’em- brione vegetale, mi è sembrato opportuno far oggetto del mio studio alcune famiglie di Dialipetale. Mentre infatti sono già molti i casi messi in luce nei quali la presa dei materiali nutritizi necessari allo sviluppo del giovane embrione viene operata per mezzo di organi speciali (austori), sono pochis- simi i casi constatati in piante appartenenti alle Dialipetale, anzi in queste ultime non è stata segnalata finora da alcun autore la presenza di ben ca- ratteristici austori endospermici, che costituiscono in vece un caso abbastanza frequente nelle Simpetale. Le ricerche da me fatte mi hanno condotto a stabilire che questi austori endospermici si trovano anche nelle Dialipetale e così caratteristicamente sviluppati e costituiti come i più caratteristici segnalati nelle Simpetale. Ho constatato, in fatti, la presenza di tali organi in alcune specie di /m- patiens (I. amphorata Edgew., I. Balsamina L., I. Holstitù Engl. et Warb., I. parviflora DC., I scabrida DC) da me studiate, e questa breve Nota ha per iscopo appunto di rendere di pubblica ragione i principali risultati delle mie ricerche. Poichè però ho trovato che le varie specie presentano differenze nella struttura dell'ovulo, come pure nei rapporti che gli austori vengono ad as- sumere con le parti di esso, per brevità mi limito per ora a descrivere una delle specie studiate, l' Impatiens amphorata Edgew., riservandomi di esporre particolareggiatamente tutte le mie osservazioni in altra pubblicazione. Gli ovuli dell’ Impatiens amphorata Edgew. sono anatropi e provveduti di due tegumenti. La nucella, che è piccola, a completo sviluppo dell’ovulo è già riassorbita, di modo che il sacco embrionale viene a trovarsi in con- tatto col tegumento interno. La serie interna delle cellule di questo tegu- mento si differenzia in un tappeto ben manifesto che circonda interamente il sacco embrionale. Il sacco embrionale, allungato, si assottiglia di molto in corrispondenza all'estremità micropilare, e, all’epoca della fecondazione, non si osservano in esso che i due elementi essenziali del sacco: la oosfera, che ne occupa la parte apicale ed assottigliata, ed il nucleo secondario, che si trova immediatamente al di sotto dell'oosfera, in contatto o quasi con essa. Avvenuta la fecondazione, mentre l’'oospora si mantiene ancora indivisa, procede la divisione del nucleo secondario; e ben presto una cellula endo- — 592 — spermica, in alto, vicino alla oospora, si differenzia nettamente, ed, accre- scendosi verso l'alto, penetra nel canale micropilare, lo percorre e fuoresce dal micropilo. Essa si mantiene semplice e stretta lungo il canale micropi- lare, ma, appena fuoruscita dal micropilo, aumenta considerevolmente di vo- lume e manda dei rami che penetrano nel funicolo ed anche nel tegumento esterno. Nell'interno di questa cellula endospermica così enormemente accere- sciuta si osservano abbondante contenuto plasmatico e granuli d’amido, non si | È e. È 1. 7 N > = 03: ICI. Fra. 1. — Austorio micropilare dell’ Impatiens amphorata Edgew. (ingr. 110) che un nucleo (talora anche più d'uno) considerevolmente ipertrofizzato. Tale nucleo si presenta allungatissimo fino ad occupare tutta la lunghezza del ca- nale micropilare nei preparati in cui tale cellula endospermica sta per fuo- ruscire dal canale stesso, e si presenta amebiforme nei preparati in cui la cellula è fuoruscita e ramificata. Si viene così a costituire uno sviluppatis- simo e caratteristico austorio micropilare. L'oospora, che si mantiene indivisa fino a che l’austorio non è fuoruscito dal micropilo, si allunga poi verso l'interno del sacco e comincia a segmentarsi. Intanto anche nella regione calaziale del sacco si differenzia nettamente un'altra cellula endospermica, che viene a costituire un breve austorio calaziale. Ora è da notare che, mentre si vanno sviluppando l’endosperma e l’em- brione, si cutinizzano le pareti interne delle cellule del tappeto, cosicchè tutto il sacco embrionale viene ad essere circondato da pareti cutinizzate ad eccezione di due piccole porzioni, l'una micropilare e l’altra calaziale, cor- rispondenti rispettivamente ai due austori, micropilare e calaziale. È da no- tare ancora che, contrariamente a quanto avviene nella generalità degli ovuli, — 593 — il fascio, che dalla placenta penetra nel funicolo, si arresta alla base del funicolo stesso, ove terminano gli ultimi tracheidi, e nel resto del funicolo e nel rafe non si osserva che un accenno di fascio senza elementi vasco- lari (1). Quindi la corrente trofica, che arriva dalla placenta, deve certamente subire alla base del funicolo un considerevole rallentamento, e quella piccola parte di essa, che può giungere alla calaza e venire raccolta dal piccolo austorio calaziale, deve essere certamente insufficiente ai bisogni dell’em- Fre. 2. — Austorio micropilare dell’Impatiens Balsamina L. (ingr. 42) SPIEGAZIONE DELLE LETTERE. e = giovane embrione; end. = endosperma; f.= funicolo; p.= placenta; t. = tappeto; t. e.=tegumento esterno ; t. i. = tegumento interno. brione in via di sviluppo. È appunto l’austorio micropilare che, sviluppan- dosi nel modo su descritto, assicura all’embrione anche l’arrivo di quei ma- teriali nutritizi che il fascio vascolare trasporta soltanto ad una certa distanza dal sacco embrionale. Il caso dell’ /mpatiens parla dunque anch'esso in favore dell'opinione già da me emessa (*) che gli austori, che si presentano nell'’ovulo durante lo sviluppo dell'embrione, altro non siano che speciali adattamenti in rapporto (1) Solo nell’/mpatiens Balsamina L., e neppure costantemente, ho osservato nel rafe uno o due tracheidi, i quali però sono senza rapporto con quelli della base del fu- nicolo e ad una notevole distanza da essi. (3) Longo B., Osservazioni e ricerche sulla nutrizione dell'embrione vegetale. An- nali di Bot. Vol. II, pag. 393. — 594 — con la particolare struttura dell'ovulo atti ad assicurare l’arrivo dei mate- riali nutritizi necessari allo sviluppo dell'embrione. Di questo austorio micropilare, che è pur tanto evidente, io non trovo fatto cenno dal Guignard (*) nè dagli altri autori che si sono occupati dello sviluppo dell’ovulo e del seme degli /mpatiers. Soltanto lo Schacht (1850) parla di un considerevole aumento in diametro del tubetto pollinico nell'ovulo dell’ Impatiens glanduligera Royl. (?). Molto probabilmente lo Schacht ha dovuto avere sott'occhio l’austorio micropilare, che egli però avrebbe erro- neamento interpretato come tubetto pollinico; del resto egli non vi annette alcuna importanza dal punto di vista della nutrizione dell'embrione. (1) Guignard L., Recherches sur le développement de la graine et en particulier du tégument séminal. Journ. de Bot. 7 année, pag. 97. (2) Schacht H., Entwickelungs-Geschichte des Pflanzen-Embryon. Verh. d. eerste Klasse Kon. Ned. Inst. 3 Reeks. tweede Deel. Amsterdam, pag. 144. — 595 — DISSERTAZIONI ACCADEMICHE DELLE UNIVERSITÀ DI GIESSEN E DI KONIGSBERG. I. — GIESSEN. ANKELE. H. — Das Myopiematerial der Giessener Augenklinik in den Jahren 1879-1905. Giessen, 1906. 89. BezoLp F. — Das Verhalten chemischer Verbindungen in Methylacetat. Mainz, 1906. 8°. 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Bismarckarchipel und auf dem Salomonen. Giess., 1907.8°. HennIinGER E. — Reaktionen von Metall- salzen in wasserfreiem Aethylacetat. Giessen, 1907. 8°. HrusseL G. — Ueber permutable Grup- penbasen aus zwei Elementen. Darm- stadt, 1907. 8°. HoeLzincER 0. — Ein Beitrag zur Frage der Beziehungen zwischen tierischer und menschlicher Tuberkulose. Gies- sen, 1907. 8°. Horman A. — Ueber Ausscheidung des Veronals bei chronischem Veronalge- brauch. Giessen, 1906. 8°. HowmmeLsHEIMm F. — Zur Kasuistik der angeborenen lipomatésen Dermoide des Augapfels. Berlin, 1907. 8°. Jena C. — Ueber Verbindungen, welche Vanadinsiure und tellurige Sàure en- thalten. Giessen, 1907. 8°. — 596 — JuncHans 0. — Tallianine und seine Wir- kung. Geithain, 1907. 8°. KaznELSON H. — Scheinfiitterungsversu- che am erwachsenen Menschen. Alten- burg, 1907. 8°. KisseL J. — Der Bau des Gramineenhal- mes unter dem Einfluss verschiedener Dingung. Giessen, 1906. 8°. KLeIn C. — Ein Fall von Pseudofurun- kulosis pyaemica (Finger). Prag, 1907. so KLEIN W. — m-Dichlor-p-dioxydipheny]- trichloraethan und seine Abkòmmlin- ge. Giessen, 1906. 8°. KneLL W. — Ueber die Kombinationwir- kung von Morphium muriaticum und Chloralhydrat bei gleichzeitiger intra- venòser Application. Giessen, 1907. 8°. KonLHepp A. — Ueber Wirkung und An- wendung der Massage bei Tieren. Giessen, 1906. 8°. Kunst A. — Bericht iber die Wirksam- keit der Universitàts-Augenklinik zu Giessen vom 1. April 1902 his zum 31 Màrz 1903. Giessen, 1907. 8°. Kurz K. — Die Beeinflussung der Ergeb- nisse luftelektrischer Messungen durch die festen radioaktiven Stoffe der At- mosphire. Giessen, 1907. 8°. Lange M. W — Die Verteilung der Elek- trizitit auf zwei leitenden Kugeln in einem zu ihrer Zeutrallinie symmetri- schen elektrostatischen Felde. Berlin, 1906. 4°. Lear H. — Ueber die Einwirkung von Ammoniak auf Methyl-p-tolylketon. Giessen, 1906. 8°. Leun L. — Ueber die Behandlung von Pseudarthrosen durch Blutinjektion nach Bier. Giessen, 1906. 8°. Lony G. — Ueber die beim Nachzeich- nen von Streckenteilungen auftreten- den Gréòssenfehler. Hamburg, 1906. 8°. LupwrG W. — Ueber Verinderungen der Ganglienzellen des Rickenmarks bei der Meningitis cerebro spinalis epide- mica. Giessen, 1906. 8°, Lypinc H. — Zur Kenntnis der Arterio- sklerose bei Haustieren. Jena, 1907. 3°. Mann A. — Zur Kenntnis des wirksamen Bestandteile von Ecballium Elaterium, Giessen, 1907. 89°. Massie P. — Ueber die Verbreitung des Muskel-und elastischen Gewebes und speziell iber den Verlauf der Mu- skelfasern in der Wand der Wieder- kiuermigen. Erfurt, s. a. 8°. McKenzie A. J. — Ueber wàsserige Lòs- ungen gemischter Chloride. Giessen, 1906. 8°. MerTE FERD. — Untersuchungen iiber die Pathologisch-histologischen Vertinde- rungen an der Linse bei den verschie- denen Kataraktformen des Pferdes. Stuttgart, 1906. 8°. Mette FR. — Ueber einige Abkòmmlinge des Laktylp-phenetidids. Amorbach, SOT SP Meyer F. — Ueber Hiufigkeit der Damm- risse und Prognose der primiren Naht. Giessen, 1907. 8°. MiLLER A. — Zur Methodik der Chloro- formbestimmung in tierischen Gewe- ben. Giessen, 1907. 8°. Monxarp H. L. — Folgezustinde der Neu- rektomien bei Pferden. Giessen, 1907. 8°. MirLer J. — Zur vergleichenden Histolo- gie der Lungen unserer Haussiuge- tiere. Bonn, 1906. 8°, MiLLer W. — Ueber den Ersatz von Ei- weiss durch Leim in Stoffwechsel. Giessen, 1906, 8°. OgLKERS V. — Die Ueberbeine am Meta- karpus des Pferdes. Stuttgart, 1907, 8°. Rasrnow1rscH C. — Experimentelle Un- tersuchung iber den Einfluss der Ge- wiirze auf die Magensafthildung. Ber- lin, 1907, 8°. Ranm F. — Untersuchungen iber den Wert und Preis des animalischen Diin- gers und iber die Rentabilitàt nutz- viehschwacher Betriebe an der Hand der Zusammenstellung von genauen Buchfihrungsergebnissen. Neudamm, 9070898 ReuninG E. -- Diabasgesteine an der Westerwaldbahn Herborn-Driedorf. Stuttgart, 1907 89. — 597 — RicgarDp L. — Ueber die Einwirkung von Grignard-Lòsungen auf organische Ha- logen-Ammonium-Verbindungen. Gies- sen, 1906. 8°. RosenTHAL B. — Zur Symptomatologie der Tumoren des Hinterhauptlappens. Halle, 1907. 89. RossmiLLeR E. — Ueber den histologi- schen Bau der Arterien in der Brust- und Bauchhohle des Rindes. Bamberg, 1906. 8°. Rossner H. — Zur Kasuistik der akuten. Osteomyelitis der Wirbelsiule mit prà- vertebralen Abszessen im Bereich der Brust-und Lendenwirbel sowie des Kreuzbeins. Giessen, 1906. 8°. RuppertT J. R. — Ueber einen Fall von Teratoma Ovarii. Giessen, 1907. 8°. Ruscue W- — Kann Pferdefleisch durch die quantitative Glykogenanalyse mit Sicherheit nachgewiesen werden? Al- tenburg, 1907. 8°. ScHipp C. — Ueber den Einfluss steriler tierischer Fàulnisprodukte auf Milz- brandbazillen. Hannover, 1906. 8°. Scamipt L. — Ueber die Keratitis dendri- tica und ihre Beziehungen zum Herpes corneae. Giessen, 1906. 8°. ScHMmIDTcHEN P. — Die Sehnenscheiden und Schleimbeutel der Gliedmassen des Rindes. Stuttgart, 1906. 8°. ScamipTeEN 0. — Die Cloake und ihre Organe bei den Schildkròten. Naum- burg, 1907. 8°. ScanEIDER A. — Ueber die elektro-che- mische Reduktion einiger Abkòmm- linge des o-Toluol-Azo-m-Toluols. Amor- bach, 1906. 8°. ScHuLTZ A. — Beobachtungen iber Spon- tanausgang bei Geburten mit ver- schleppter Querlage. Giessen, 1907. ef, Seitz K. — Der periodische Wechsel der Erregbarkeit des Herzmuskels. Giessen, 1906, 8°. Seitz PH. — Der Bau von Echiurus chi- lensis (Urechis n. g. chilensis). Naum- burg, 1907. 8°. SommerrELD K. — Ueber Siuglingsmilch mit besonderer Beriicksichtigung des RenpiIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. much-und Rémerschen Verfahrens. Berlin, 1907. 8°. STEINBRECHER M. — Die Schitzung der Transversa des Beckeneingangs nach Lòhlein. Nachgepriist au 74 Banderbe- cken. Berlin, 1907. 8°, STEINER H. — Molekulargewichtsbestim- mungen nach der Siedemethode und Leitfàhigkeitsmessungen von Metall- salzen in Methylautat. Giessen, 1906. (E SroLz W. — Ein Beitrag zur Kenntnis des Pankreassteapsins. Giessen, 1907, 8°. STURHAN H. — Ueber die Bindung des Chlo- roforms im Blute. Giessen, 1907. 80, TuHaER C. — Ueber Invarianten, die sym- metrischen Eigenschaften eines Punkt- systems entsprechen. Leipzig, 1906. o TinnereLD W. — Bericht iber 22 in der Giessener Augenklinik an Cataracta congenita behandelte Kranke. Giessen, 1906. 8°. Ursrant K. F. — Kritische Betraktung der Weberschen Formeln ùiber die Wach- stumsgesetze des Einzelstammes und ihrer Anwendbarkeit. Darmstad, 1906. 8°. VeTTER A. — Die Ergebnisse der neueren Untersuchungen iber die Geographie von Ruanda. Darmstadt, 1906. 8°. Vorsine K. C. — Der Trass des Brohlta- les. Berlin, 1907. 80. Vossius A. — Ueber Star und Staroperatio- nenin der Giessener Augenklinik. Gies- sen, 1906. 4°. WeckerLInG A. G. — Komplikation der Tubargraviditàt mit Torsion der Tube. Friedberg, 1907. 8°. WeceneR W. — Ueber Appendicitis im Bruchsack. Giessen, 1907. 8°. WrinerTtH E. — Zur Kenntnis des ana- Nitro-p- Chlorchinolins. Amorbach, 1906, 8°. WimmenauER K. — Zur Casuistik der Aneurysmen des rechten Sinus Val- salvae der Aorta. Darmstadt, 1907. 80. WinpratH E. — Ueber Beckenniere als Ge- burtskomplikation. Berlin, 1907. 8°. 78 — 598 — WinreRER K. — Riickenmarksanàsthesie. Heildelberg, 1907. 8°. WirzeL H. — Beitrag zur radikalen Behand- lung des callòosen Magengeschwirs. Neustadt, 1907. 89°. WoLreL K. — Beitrige zur Entwickelung des Zwerchfelles und Magens bei Wie- derkiuern. Jena. 1907. 8°. ZBIRANSKI À. — Beitrige zur Kenntnis der Knochenbriiche beim Schwein. Ber- lin, 1906. 8°. II. — K6NIGSBERG. Baumwm G. — 100 Falle komplizierter Frak- turen aus der chirurgischen Abteilung der stàdtischen Krankenanstalt zu K6- nigsbers i. P. Kénigsberg, 1907. 8°. BenpIG P. — Ueber die Wirkung der Saug- stauung nach Bier. Kénigsberg, 1907. 8°. BLask R. — Zur Diagnostik und Therapie der Polyposis des unteren Darmabsch- nittes, (zugleich ein Beitrag zur Rekto- romanoskopie). Kénigsberg, 1907. 89. Bystrow P. — Ueber die angeborene Trich- terbrust. Wiesbaden, 1907. 8°. DosrowoLsKy S. — Ueber schwere Narben- kontrakturen nach Verbrennung und iiber Thiosinaminwirkung. Konigsberg, 1907. 8°. ELkonin J. — Ueber Bleivergiftung nach Schussverletzungen. Konigsberg, 1907. 8°. Favre H. — Ein Beitrag zur Kenntnis und forensischen Wirdigung der Geburts- verletzungen des kindlichen Kopfes. Konigsberg, 1906. 8°. FerT E. — Die Aussichten der Roentgeno- graphie der Gallenkonkremente. Ké6- nigsberg, 1906. 89. FortHKE E. — Anvendung der erweiter- ten Euklidischen Algorithmus auf Resultantenbildung. Kònigsherg, 1907. 8°. Funk E.— Beitrag zur unblutigen Varizen- behandlung. Kénigsberg, 1906. 8°. HoLranp J. F. — Ueber den tuberkulésen Tumor der Flexura sigmoidea. Leipzig, 1907. 8°. JapHa A. — Ueber die Haut nord-atlanti- scher Furchenwale. Naumburg, 1907. 8°. JureL G. — Ueber die Einklemmung des Leistenhodens im Leistenkanal. K6- nigsberg, 1906. 8°. KirrteL F. — Ueber eine neue Verschluss- naht bei Pylorusresektion. Kénigsberg, 1906. 8°. Kopczynsk1 P. — Ueber den Bau von Co- donocephalus mutabilis Dies. Naum- burg, 1906. 8°. LoyAaL A. — Beitrige zur Jejunostomie. Tibingen, 1906. 8°. MererreLDT KR. — Ein Beitrag zu den funk- tionellen Unfallsnervenkrankheiten (traumatische Neurose). Konigsberg, 1907. 8°. PapERNO H. — Behandlung und Mortalitàt bei Schenkelhalsfracturen. K6nigshberg, 1907, 8°. PryLewskv F. — Untersuchungen iber die Labung der Milch und Kalber- Fiitterungsversuche. Leipzig, 1907. 8°. Rupp W.— Ueber Aneurysmen der Arteria glutaea superior. Kinigsberg, 1907. 8°. ScHiporsky H. — Kasuistiche Beitràge zur Diagnose der Affektionen der Cauda equina und des unteren Riickenmarks- abschnittes. Kònigsberg, 1907. 89. ScHirRon G. — Ueber den durch die iso- liert verlaufende Vena mesenterica in- ferior verursachten Strangileus. Kénigs- berg, 1906. 8°. ScuuLtz W. — Ueber congenitale Brachy- daktylie. Konigsherg, 1907. 8°. SieBeRT K. — Ueber « retrograde Incarce- ration » des Darms. Konigsberg, 1907. 80. TeLEMAN W. — Ueber die Konfiguration des Oesophagus in Beziehung zu phy- siologischen und pathologischen Zu- stànden desselben. Kònigsberg,1906. 8°. Uncermann E. — Uber einen Fall von Athyreosis mit vikariierender Zungen- struma, Berlin, 1906, 8°. E. M. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1% — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2° — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 23 MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 5a MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. MolcelVacvi: VISSNIUO VELE Serie 3* — TransuntI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemorIiE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — IIF-XIX. Memorie della Classe do scienze morali, storiche e filologiche. Vol. XIII. Serie 48 — RenpICONTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVI. (1892-1907). 2° Sem. Fasc. 8°. . RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 49-59. Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fase. 1°-12°. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 5°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della I. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. «Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. #0; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : | Ermanno LoescHer & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrico HoepLi. — Milano, Pisa e Napol. ST SAIRI inte catia RE Classe di scienz Comunicazioni pervenute MEMORIÎ E NOT SE Angeli e Marino. Ricerche sob l’acido | n Peratoner è Palazzo. Azione dei dia V. Acido prussico (Costituzione) . Bottazzi. Grassi e glucogenv nel fegato Garbasso. Traiettorie e onde luminose dal Socio. Volterra)... .. DIE SSEPIONI) III Galdieri. Osservazioni geologiche sui Bassani). . . i) ; ‘pi esso Perugia (pres. dal Socio De. Emilia (pres. Id. ), i Principi. Cenni Giologidi id Monti Mali Stefanini. Bchini fossili del miocene mei Cambi. La costituzione dei Sali di Rouss Colombano. Eterificazione dei derivati azoici (pres. dal Socio Cumniztaro). . . Gialdini. Sopra alcuni sali complessi dellî i Mascarelli. Suì derivati delì'idrato di difenil contenenti lo iodio in catena chiusa Id. è Pestalozta. Solubilità allo stato ‘genati (pres. Id) SEME INOLTRATO RI ART Bellucci e Carnevali. Sulla grandezza mi Ae SIINO ARORI A0 00 PI VALSE BULLETTINO BIBLIOGRAFICO |. . . dal and AECE- Pubblicazione bimensile. Roma 3 novembre 1907. N. 9. 0 DELLA REALE ACCADEMIA DEL LINCEI AININO. C GGI: PIAD7 SHvbitEeibeeet O, UBbritt A RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 3 novembre 1907. ‘ Volume XVI.° — Fascicolo 9 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1907 | | ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze tisiche, matematiche e naturali valgono lenorme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassivo i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc-. priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - @) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica nell'ultimo in seduta segreta, 4. A chi presenti una Memoria per esame è date ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L’ Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mepsa a carico degli autori. Same eecu SORIA PAGA RENDICONTI DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. NINA Seduta del 3 novembre 1907. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTI DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Astronomia. — Osservazioni delle comete ec Giacobini, d Daniel ed e Mellish 1907 fatte all’equatoriale Steimheil-Cavi- gnato del R. Osservatorio astronomico al Collegio Romano. Nota del Socio E. MIiLLOSEVICH. La cometa c 1907 fu scoperta l’1 giugno 1907 dall'astronomo Gia- cobini a Nizza: si presentò debolissima e non potè essere osservata che per breve tempo. La cometa d 1907 fu scoperta dall'astronomo Daniel il 9 giugno a Princeton (U.S. A.): l’astro divenne splendido e fu visibile ad occhio nudo per un notevole periodo di tempo, anzi, nei riguardi del nostro emisfero, è la cometa più interessante che sia apparsa dal 1882 in poi, benchè non abbia assunto proporzioni di sviluppo di coda eccezionali, nè apparenza di grande splendore. La cometa e 1907 fu scoperta dall'astronomo Mellish a Madison (Visc.) il 13 ottobre; essa non potè essere osservata che una. sola volta al Collegio Romano per ingiuria di cielo. Cometa e 1907 Data T. MIR, C. R. « apparente d apparente Osserv.® giugno 5 10h 1553 10h31195.03 (9. 639) + 23°35/45.6 (0. 632) M » 5 1024 42 10 81 23. 09 (9. 656) + 23 35 42. 6 (0. 655) Z ” 8 10 4 52 10 44 24. 32 (9. 639) +23 755. 4(0. 657) M ” 12 926: 22 11 1 48.369.594) + 22 23 37. 3 (0. 603) M ” ND 951 47 11 1 52.28(9. 623) +22 23 16. 6 (0. 629) Z RENDICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 80 giugno 16 » 18 » 21 » 30 luglio 4 ) 5 » 11 È) 18 ”» 26 » 31 agosto 7 » 10 ” 14 è) 18 ” 18 DI 22 » 22 ”» 26 ottobr. 19 14h57m585 14 2 13 14 33 20 14 44 14 159 12 175159305 = OS Cometa d 1907 Oh 7m]98,65 (90.544) 0 13 0.25 0 56 114 oi) 1.50 235 3 39 4 24 5 30 d 58 634: To (AUS 740 740% 8 10 In 0. . 87 (92.556) 32 (92.523) 60 (92.604) 03 (92.571) 7 (92.566) . 51 (02.650) . 16 (92.658) . 57 (92.660) . 29 (92.657) .57 (92.655) 53. 10 (92.648) Cometa e 1907 gh]3m9298,75 (92110) 6 10 50. 826 7. +11 16 46. + 14 26.29. +16 025. + 17 1450. Ls 29 35 Sci ea +16 45 3. + 16 4445. +16 142. + 16. 185. ++4++4+++ +15 658 . 765) . 764) .759) . 744) 31) 0. 735) Mii92) . 723) . 692) 711) . 692) 701) . 713) . 759) . 748) . 740) . 734) . 726) — 6°53/38/8 (0.817) Eccettuate tre osservazioni mie, una spettante al dott. Bianchi al dott. Tringali, tutte le altre si debbono al dott. Giovanni Zappa. NNGYQEKHNNNNKNNNNNNNNXNN ed una Paletnologia. — Ze arm: più antiche di rame e di bronzo. Memoria del Socio A. Mosso. Questo lavoro sarà pubblicato nei volumi delle Memorie. Fisica. — Sulla relazione fra la tensione superficiale e la pressione osmotica. Nota del Corrispondente A. BATTELLI e del prof. A. STEFANINI. Cristallografia. — Determinazione degli indici principali di rifrazione di un cristallo mediante i piani di polarizzazione. Nota del Corrispondente C. VIoLA. Queste Note saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. — 601 — Matematica. — Sopra alcune equazioni integrali. Nota di Luciano ORLANDO, presentata dal Corrisp. T. LEvI-CIVITA. Se K(2,Y,..; $,7,..) rappresenta una data funzione dei due punti E,Y, 3 €,7),.. di un campo x; se F(x,y,...) rappresenta anch'essa una data funzione del punto x,%,...; e se g è una funzione incognita, la equazione integrale (I) GIG Acca) = 600) n Ki... SR DIR(E de (dove 4 è una costante nota, e dr indica l'elemento del campo 7 che intornia il punto £,7,...) è stata, in questi ultimi tempi, profondamente studiata. Un potente impulso a questo ordine di studî, che hanno condotto a de- duzioni per generalità ed importanza utilissime, è stato dato da I. Fredholm, il quale ha considerato il problema di determinare @ come caso limite di un problema d'algebra; tale concetto era già stato intuito dal Volterra a proposito di un'equazione integrale affine alla (I). Le ricerche ulteriori di D. Hilbert e della sua scuola (nella quale è da segnalarsi principalmente lo Schmidt) hanno approfondito il problema, specialmente in ciò che si ri- ferisce ai valori della costante 4. Tali ricerche hanno permesso grandi sin- tesi, mostrando la possibilità di collegare campi, che erano separati fra di loro, ed anche molto difficilmente accessibili. In questa breve Nota, noi accenneremo a un problema, il quale costi- tuisce un'estensione di quello finora richiamato. Il nostro accenno, anche per la difficoltà e relativa. lunghezza che l’intera ricerca presenta, si limiterà all'esposizione di risultati parziali ed imperfetti: ma abbiamo fiducia che ciò non sia interamente inutile, e che possa rendere non difficile un ulteriore svolgimento. Consideriamo l'equazione integrale no) g=F+2|Kk/9d dove f è simbolo di una data funzione. Abbiamo omesso i parametri per brevità di scrittura: fuori dall’ integrale si leggerà @(@,%,..), F(2,7,..), ed entro l'integrale si leggerà K(x,y,...;É,7,-.), 9(É,7,...) come nella (I). Noi ci limiteremo per ora a studiare la (II) per una forma molto par- ticolare della f; e scriveremo al posto della (II) l'equazione seguente: (1) g=F+2f Kgtde. — 602 — Supponiamo che esista un numero ®, tale che non debba essere oltre- passato da |g| nel campo. A noi basta che tale numero @ esista, e, se nelle applicazioni importa molto conoscerlo, in teoria ciò non è necessario (*). Adopereremo, per risolvere la (1), un procedimento di approssimazioni successive. Se, invece della (1), poniamo ASRAEAE l’errore s=—2|Kg°dr verifica l'inuguaglianza i le] <]|4|P? | |K|dr. Se stabiliamo che sia ; (2) Ri, 30 | |K|dr dove @ è una costante positiva <1, la precedente inuguaglianza sì può scrivere: aP (3) ll < DI: Ora, in seconda approssimazione, scriveremo: g+ta=F+2fK@+a}d=F+fKFde. L'errore sarà: Eo = | ge, + 59) dt 3 ed è facile vedere che, per la (2) e per la (8), si può scrivere: lal<5[29a + |< Zlall20+a]<5jal30<®. 2 3! 1 1 3 1] 1| 30 3 Se ancora, in terza approssimazione, poniamo: g+ta=F+1/Ey+e)d= T (dove ps. s intende dato dalla precedente espressione F + f KF° dr, (1) Basta opportunamente scegliere le unità di misura per impicciolire ® quanto sì vuole, ma ciò, beninteso, altera anche le altre grandezze e non è sempre conveniente in pratica. 260 -— relativa qui al polo $#,7,...), l'errore = if K(2ge + #2) de verifica la relazione a a a a3® pesa 2 ® ica e ls] <39 299 + £|<39 [80] |2 + al<3zpl£19 < 3 Continuando, si vede che l'errore LA af 17, SEGR) cp hs verifica la relazione a‘ aa (D) Ora, per v infinito, il secondo membro tende a zero, dunque l'errore tende a zero per v infinito. Se, dunque, la funzione F fosse nulla, le successive grandezze g + 81, + «»,... sarebbero tutte nulle e risulterebbe nulla. Tutto ciò appare valido soltanto quando sia valida la restrizione (2). Noi vogliamo ora (ed è questa la cosa più importante) liberarci da questa restrizione. Nella (1) poniamo cw al posto di 4 (con c rappresentiamo una costante). Allora la (1) diventa (1) ia Ky? de. Quest'equazione, perfettamente analoga alla (1), contiene "i al posto di F, il che poco importa, e poi contiene c4 al posto di Z. Basta fissare € in modo che |cZ| verifichi la (2) per ricavare w dalla (1) con quell’appros- simazione 7 che sì vuole. Moltiplicando w per ec, si ricaverà % con appros- simazione cn (numero perfettamente arbitrario che può sempre pensarsi < 7). E si potrà dire in generale che alla condizione F=0 corrisponde soltanto (!) la soluzione p= 0 della (1). Cosa analoga, come è noto, non capita per la (I), anzi esistono valori speciali di 4 (Zzgenwerthe) per i quali a F=0 può zox corrispondere p= 0. Se, invece della (1), avessimo considerato l'equazione g=T+2f Kgede, (1) Noi non consideriamo quelle soluzioni che diventano infinite per A=0. Di ciò parleremo in una prossima Memoria. — 604 — con 7 positivo arbitrario (diverso da 1), saremmo giunti, in modo più com- plicato ma perfettamente analogo, al risultato che abbiamo dimostrato per Iu(Cb} Se avessimo considerato l'equazione 4 g=P+4f k(9+9) de. la sostituzione g = il ci avrebbe condotti a g=T+3-2/Fa4:f kg 13 T diversa soltanto dalla (1) per avere la funzione nota F +37 afTar al posto della funzione nota F. La nullità di F non impegna, per quest'ultima equazione (4), la nullità di . Ed ora, per non dilungarci, noi ci limiteremo ad enunciare un teorema, che ormai risulta abbastanza semplice. Se f() è una funzione (della variabile 4) sviluppabile come segue: f(g) = dop°+4 43° + a pi + aan s l'equazione integrale 9=2( k/(9)de ha, qualunque sia A, l’unica soluzione p= 0. Notiamo che questo teorema non è più valido (ma continua ad essere valido il nostro metodo di risoluzione) quando lo sviluppo ha la forma dd 2 + 429° + ----. Se poi esso non si riduce identicamente ad 41@, allora siamo nel noto caso dell'equazione di Fredholm. Matematica. — Sulle equazioni integrali. Nota di EuGENIO Enia Levi, presentata dal Socio Lurcr BIANCHI. 1. Il risultato fondamentale della bella teoria delle equazioni integrali della forma b 0 A+ fHe) 9) 4 = 11) è stato stabilito dal Fredholm (') nell'ipotesi che la funzione caratteristica k(cy) restasse sempre finita, nel campo a = x =d,a=y=b, od anche divenisse infinita nei punti «="y di ordine = dove @ indica un (*) I. Fredholm, Sur une classe d’équations fonctionnelles, Acta Math. 27. — 605 — numero <1. Nè le acute indagini dello Hilbert (*), dello Schmidt (*), del Korn (*) sopra l'equazione integrale (1) hanno finora permesso di allargare il campo delle funzioni caratteristiche, per cui vale la teoria del Fredholm. Però in una recente Memoria pubblicata nei Mathematische Annalen, lo Schmidt (‘) ha dato di questi risultati una nuova dimostrazione, che mi pare si presti, con poche modificazioni, ad estendere alquanto il campo delle funzioni caratteristiche, che è legittimo considerare. Io mi propongo di in- dicare qui come ciò possa farsi. 2. Supporrò che per x variabile nell'intervallo a...b l'integrale b \K(xy)|dy esista e sia uniformemente convergente (*): assegnato un nu- a mero e piccolo a piacere sarà possibile trovare un polinomio P(x7y) tale che si abbia @ — Jin -renia [lFenlwy<: Zoni 1) 7 Si costruisca un polinomio P(zy) tale che in tutto R si abbia key) — — P(2y)|< 7, cosa che per il noto teorema di Weierstrass è sempre possi- bile. Si avrà allora evidentemente, qualunque sia #, ricordando (3) (4), Sk) — P(ey)|dy = Î (E (24) — Ply) 4y + (5) 4 4% (16(20149+x fd =n00—9+21: Basterà quindi prendere 750) +32 perchè la (2) sia soddisfatta. Osserviamo, per completare, che se s7 suppone che la k(xy) soddisfaceia ancora alla condizione che per y variabile nell'intervallo a...b esista b l'integrale Î |k(cy)|dx e sia uniformemente convergente (*), sì potrà pren- dere P(.7) in modo che insieme colla (2) si abbia pure b 2) f lie) = P@eylae= segnare i due punti che distano dagli estremi di esso di 37 Kina = una funzione continua che sul contorno di 7; sia uguale a X(2y), su y; e in 7’; sia zero, e in 7; — ti sia in modulo sempre = K. (3) In particolare quindi X(7y) non potrà divenire infinita sopra tutto un tratto di parallela all'asse delle 2, cosa che le ipotesi del principio di questo numero non esclu- devano minimamente. — 607 — per ogni valore di y compreso fra 4 e d. Infatti si potrà allora prendere gli intorni 7, dei punti di infinito o di discontinuità di %(2y) tanto piccoli che, detti Z,,4>,... i segmenti di una parallela all'asse delle 4 interni a questi campi 7;, si abbia insieme colla (3) anche la disuguaglianza G) > f leniaeca; e scegliere quindi la (cy) in modo che, insieme colla (4) si abbia i > f Reylae a) By), dove @i(7) @2(2),..., au(2) e Bi(9), Be), > Pul4) 1 sono polinomi nelle variabili 4 ed y che si possono supporre linearmente indipendenti, il teorema precedente ci dimostra in particolare che : se la funzione k(xy) è tale che per x variabile nell'intervallo a... b esista l'in- D tegrale il \&(xy)|dy e sia uniformemente convergente (e per y variabile a b nell'intervallo a... b esista l'integrale Ni |k(ey)|da e sia uniformemente convergente) si possono sempre trovare, per m sufficientemente grande, um coppie di funzioni ey(x),B,(y) delle variabili x ed y rispettivamente, finite e continue per a=ax =b,a=y=b e linearmente indipendenti, tali che si abbia ) pi Sen Ye <1 a 1 (e fi) — dono) de <1). Questo teorema farà l’ufficio del teorema invocato dallo Schmidt nel prin- cipio del $ 3 della Memoria citata (II Th.) e dimostrato nella I Th. della Memoria pubblicata nel vol. 63 dei Math. Ann. 3. Premesso ciò, perchè la dimostrazione dello Schmidt si possa appli- care nelle condizioni più generali in cui qui ci poniamo, basterà mostrare che, se în un'equazione integrale (1) la funzione k(xy) è assolutamente integrabile rapporto ad y e soddisfa alla condizione 1) fiseniy» +f lex(29) [sw + DA.(9) al B(/1) 9(Y1) UN — 10) ] dy=0. dirt si — 611 — Si ponga O) = g9(2) + YA.) | RM) SM WA); la (13) diverrà D+ f File) 0) dy=0. Ma se si suppone che /(z) e @(z) siano finite, D(z) sarà pure finita: e ciò, perchè ®(4) soddisfa all'equazione precedente e per l'osservazione I del n. 3, non può essere se non è ®(z)= 0; quindi affinchè la funzione g(4) supposta tinita, soddisfaccia all'equazione (1) è necessario che (14) g(2)+ f (ZA) 800) s) dw= fi) Ed inversamente se (x) soddisfa la (14), essa è soluzione di (1) in virtù di (13) e di (12). Ma l'equazione (14) ha per funzione caratteristica la somma di un nu- mero finito di prodotti di funzioni della sola 4 per funzioni della sola 7, onde, come dicemmo in principio di questo numero, essa si riduce alla riso- luzione di un sistema di equazioni lineari ordinarie. E potremo conchiudere: Se si suppone che la funzione k(xy) sia assolutamente ed uniforme- mente integrabile rapporto ad y per x compreso fra a e b, possono aversi per l'equazione (1) due casì: 1°. Non esiste soluzione finita e diversa da sero dell'equazione omogenea (15) p(£) + f ky) g(y) dy=0; l'equazione (1) è allora risolubile appena si supponga che f(x) sia finita; ed allora essa ammette una sola soluzione finita. 2°. Esiste una soluzione finita dell’equazione (15). Non si può allora assicurare che esista una soluzione di (1) per qualunque funzione f(x): quando ne esiste una, ne esistono parecchie differenti fra loro per una soluzione di (15). Basta osservare che se non esiste soluzione finita di (15), non esiste neppure soluzione finita dell'equazione omogenea p(c) +f 4) BY) (4) dy= 0 corrispondente a (14) e inversamente. Questi risultati si completano quando si suppone che (xy) soddisfaccia alla seconda condizione del n. 2, cioè quando si suppone che (xy) sta — 612 — anche integrabile assolutamente ed uniformemente rapporto ad x. Fon- dandosi allora sul teorema dimostrato in tal caso nel n. 2 e sull’osserva- zione I del n. 3 si deduce che @(x) non può essere assolutamente integra- bile e + 0, o in altri termini che ogni soluzione assolutamente integrabile di (1) soddisfa a (14): quindi basta sapere che l'equazione (15) non am- mette soluzioni assolutamente integrabili per essere certi che ci troviamo nel primo caso. E inoltre perchè allora esista la soluzione di (1) non è necessario supporre f(x) finita, ma basta supporre che sia assolutamente integrabile e che parimenti esistano gli integrali b b b WROIOVAROIARTIOIONE e che uno di essi sia finito. Ma in queste ipotesi viene facile completare anche ulteriormente i ri- sultati relativi al secondo caso; poichè seguendo i ragionamenti dello Schmidt sì vede che per l'equazione Mi 9 + f hey) sto) de=/()) si potrà sviluppare una teoria affatto analoga a quella svolta per la (1): e per questa equazione si presenta il primo od il secondo caso a seconda che si ha il primo od il secondo caso per la (1). Quando si presenta il secondo caso, esiste un numero finito di soluzioni @1(£) ... Pm(£) dell’equa- stone omogenea b 9(Y) + | lx) p(a) da =0; Va e condizione necessaria e sufficiente perchè il secondo membro di (1) sia tale che (1) ammetta soluzione è che si abbia fam/muw=0 Gi=1.m). È immediata l'estensione delle considerazioni precedenti al caso delle funzioni di 2 o più variabili. — 6015 — Matematica. — Integrazione dell'equazione funzionale che regge la caduta di una sfera in un liquido viscoso. Nota I di Tommaso Bocaro, presentata dal Corrispondente Levi-CIvita. Se una sfera si muove di moto lento (tale cioè che si possano trascu- rare ì quadrati e i prodotti delle componenti della velocità e loro derivate) in seno ad un liquido viscoso, incompressibile, indefinito, in guisa che il suo centro percorra, con velocità qualsiasi, una retta, essa incontra una re- sistenza che si sa calcolare, e che, per un generico istante 7, dipende in modo funzionale dai valori della velocità e della accelerazione in tutto l' in- tervallo di tempo che va dall'istante iniziale fino all'istante £ (?). Conoscendo la resistenza che la sfera incontra nel suo movimento, è naturale il proporsi lo studio del moto della sfera nel liquido. Supponendo che la sfera e il liquido, essendo soggetti alla gravità, siano inizialmente in quiete, l'equazione funzionale alla quale deve soddisfare la velocità della caduta della sfera, è stata stabilita dal Basset (*), il quale l’ha pure inte- grata per approssimazione, nel caso in cui il coefficiente di attrito del liquido sia molto piccolo. In una Nota recentissima, che ha lo stesso titolo della presente (Ren- diconti di questa Accademia, 2° semestre 1907), il Picciati ha integrato tale equazione, qualunque sia il valore del coefficiente d'attrito; egli ottiene l'integrale espresso mediante serie, ricorrendo al noto metodo delle appros- simazioni successive. In questa Nota io tratto il caso generale in cui il liquido e la sfera, essendo soggetti alla gravità, il liquido ha inizialmente un determinato stato di moto, e la sfera è lanciata (verticalmente) con una data velocità iniziale. To risolvo l'equazione funzionale a cui soddisfa in tale ipotesi la velo- cità, mediante soli integrali definiti. Ottengo questo risultato applicando semplicemente la celebre formola d'inversione di Abel, mediante la quale riesco a dedurre dall'equazione funzionale data, una equazione differenziale ordinaria di 2° ordine, a coeffi- cienti costanti. Tale equazione differenziale si integra con procedimenti assai semplici, che permettono di ottenere la funzione incognita (velocità della sfera) espressa mediante quadrature. Dal mio metodo d'integrazione apparisce che l'integrazione dell’equa- zione funzionale in questione, che, anche nel solo caso particolare in cui la (1) Picciati, Sul moto di una sfera in un liquido viscoso, formola (25) (Rendiconti di questa Accademia, 1° semestre 1907). (*) Basset, A Zreatise on Hydrodynamics, vol. II, pag. 291 (Cambridge, a. 1888). — 614 — diede il Basset, sembrava a questi impresa pressochè disperata il tentare di risolvere in modo completo (il Basset infatti dice, a pag. 292: « It seems almost hopeless to attempt to determine the complete value »), poteva, al contrario, già farsi (e mediante quadrature), da lungo tempo, adoperando: opportunamente strumenti analitici noti già ai tempi di Abel. La formola che io trovo si presta bene ad una verifica diretta, però qui non riporto i relativi calcoli, perchè essi sono un pochino lunghi e del resto è sempre scarso l'interesse che presentano simili verifiche. Dall'espressione della velocità deduco poi, con una quadratura, la lun- ghezza del cammino percorso dal centro della sfera. In una Nota successiva applico i risultati ottenuti al caso particolare trattato dal Basset e dal Picciati, dando le formole esplicite che risolvono la questione proposta. Esse sono comodissime per il calcolo numerico della velocità, approfittando di tavole numeriche che già da tempo sono state co- struite per la risoluzione di altre questioni di Analisi. Da esse si trae subito che al crescere indefinito del tempo, il moto della sfera tende a divenire uniforme, il valor limite della velocità essendo quello corrispondente al moto stazionario, allorquando si fanno equilibrio il peso e la resistenza diretta. Si ritrova in tal modo una nota formola di Stokes (che è pure stata ottenuta dal Picciati mediante il suo sviluppo in serie), che ha assunto in questi ultimi tempi una speciale importanza, per l'applicazione che ne è stata fatta alla determinazione della carica di un elettrone. Per ultimo determino il valor limite della velocità nel caso generale trattato nella Nota I, e dimostro che anche ora il moto della sfera, al cre- scere indefinito del tempo tende a diventare uniforme, la velocità limite essendo d'altra parte quella stessa data dalla formola di Stokes, nel caso del moto stazionario. È bene osservare che questo risultato era fisicamente prevedibile, perchè la viscosità del liquido tende ad attutire gradatamente la variazione di ve- locità proveniente dalla velocità iniziale della, sfera e dallo stato iniziale di moto del liquido, in guisa che, dopo un tempo molto grande, tutto pro- cede come se sfera e liquido fossero stati inizialmente in quiete. Il metodo esposto serve pure per integrare varî altri tipi di equazioni funzionali, ma su ciò mi riservo di ritornare prossimamente. 1. Converrà richiamare alcune formole note, che ci saranno assai utili. Sia { una quantità positiva, e g una funzione regolare nell'intervallo da 0 a #; allora si ha la formola: d (se i 09 | ep) a) è {| Selen Pd 0 Vea ove g' è la derivata di g. — 615 — Questa formola, che di solito si dimostra trasformando il 1° membro con un integrazione per parti, può pure essere dimostrata mediante un op- portuno cambiamento di variabile. Poniamo infatti: € = allora si ha: È )d (2) ria 0 g(i— x) dx, perciò : d ati dA bee 21 9a) de= Tg a+? (""* gi a) da, di qui segue subito la (1). Consideriamo poi un'altra funzione regolare w, legata alla dalla formola: (8) v0= f Lei allora sussisterà la formola d’inversione d'Abel: (4) rig—s0)=f ZE. OM — E 2. Consideriamo ora una sfera di raggio R, e densità 7, immersa in un liquido incompressibile, viscoso, indefinito, di densità @. Supporremo il liquido e la sfera soggetti alla gravità, inoltre la sfera dotata di moto traslatorio (lento), il cui centro descriva, con la velocità V(t), la verticale, che assumeremo per asse <, ritenendo positivo il senso diretto verso il basso. Supponiamo inoltre che vi sia simmetria rispetto alla direzione del- l’asse #, cioè che il moto del liquido abbia luogo, anche inizialmente, in piani passanti per l'asse # e sia lo stesso in tutti i piani. Supposto che inizialmente la sfera venga lanciata verticalmente con una data velocità Vi, e che lo stato iniziale del liquido sia qualunque, si tratta di determinare il movimento rettilineo della sfera considerata. La velocità V() all'istante (positivo) 7 deve allora soddisfare all'equa- zione funzionale: (5) VA+AVA)TyA=—w pv i Me) de i o qt —T ove: 90 RA I a=——_—— , n= di R°(274+ e) 10 ReNDICONTI. 1907. Vol. XVI, 2° Sem. 82 — 616 — e v indica il coefficiente cinematico di viscosità del liquido, e y(#) una fun- zione dipendente dallo stato iniziale del liquido. Bisogna ora ricavare dalla (5) la funzione V(t), colla condizione iniziale: (6) V(0)= Vo. Applicando la formola (4) alla (5), che è del tipo (3), risulta: — auf [V() — V(0)] = i VOTANO Vi—-1 cioè: Ao pe Mi) V(r) AA uYvLV(2) vad=S 75 sn” Albrri = Tesio ovvero, tenendo conto della (5): uv [V(A) — tl = VO)+LbVO) —0— = (CM) v(1) — 2uvYv det uo Mn: Sal Sa derivando, ed applicando la (1) si ottiene: au V()= VA) yy) = V'(t î (A —hoo| 7 via 103 de |tutg n pre cioè, ricordando la (5): mi VO=VO+IVO-r0— ) ‘_y(7) TV. VOTATO MH 41h 7 ;ti7 ra — ut») che può scriversi: (7) V'()— (eu? — 24) vV'(4) +2°V(A4)= F(d) avendo posto: Ù 24 ; y(7) CE 1 © FO=INO0+/0w07S 74 de Vi La funzione V() deve dunque soddisfare all’equazione differenziale ordinaria di 2° ordine (7), che si integrerà tenendo conto della condizione iniziale (6), e della seguente, che si desume dalla (5): (6°) V'(0)=y(0) — 20V. . — 617 — 3. L'equazione semplicissima (7), essendo a coefficienti costanti, si può integrare con procedimenti noti. Se si determinano le due costanti 4,d in guisa che: (9) (ak b= (su —22)v lab=}%, si potrà dare alla (7) la forma: (e Li a) (7 DE )) Vo=F(0, cioè: at d \ Ed —bt ) sso, Gee VORO, da cui, facendo una prima integrazione : d t (10) con Lresvala f estate. 0 ove c; è una costante arbitraria. Supponiamo dapprima a diverso da 2; con una seconda integrazione sì ottiene: Ca b) a— db t u eb! Va= (Cai du eTaT F(7) dr + Gi efa-bt L 0 Ò at— d ove e, è un'altra costante arbitraria. Integrando per parti si può scrivere: eat t a ebt t Vo GR -f e F(1) da — REI al e?” F(7) da + 1 ar a— (11) (c1 e + cs e). Determiniamo le costanti c,,c:. Da quest'equazione, poi dalla (10), il cui 1° membro vale: em V'(t) — be" V(t), e dalle (6), (6') si trae, scrivendo y, invece di y(0): (12) co=to— (Av 4 0)Vo , co=—-Yo+(4v+a)Vo. — 618 — Sostituendo nella (11) ad F il suo valore (8), facendo delle integra- zioni per parti, e ricordando le (12), sì ottiene: at Mo _. (Av + 4) fa y(t) dî — (4) dl 0 PS va | es de sh i dc, 1uyysY, [E eee de _ (13) — (4v+ 85) vi \av+0) [O ent y(7) de — — u] vd pr def (0) dI _ VA Al + 2ur)/v Vo fe a — (Av + 0) Vil : Non è difficile verificare che questa espressione di V(7) soddisfa effet- tivamente alle (5), (6); però siccome occorrono, per questa verifica, calcoli alquanto lunghi, per quanto semplici, non staremo a riportarli qui; ci limi- teremo a fare in seguito la verifica per un caso particolare. Supponiamo invece 4=d; dalla (10) si deduce allora con una seconda integrazione : t u ene V()i== [ du | eo? F(1) dr + ct+ 68, «/ 0 0 ovvero, integrando per parti: t t (CR WVAE CE È e F(7) dt — e Î te F(a)dr +-ec,te + ese”, 0 0 la quale formola, del resto, potrebbe pure dedursi dalla (11) con un pas- saggio al limite. Per le costanti c,,c, si trovano i valori: (12°) co=fo—(4v+4 a) VARI, se= "oo Sostituendo nella (11’) ad F il suo valore (8), e facendo delle integrazioni per parti, si trova: V(t) = te (Av + a) fs y(1) de — 0 0 pro 0 Ve — (A ia a + a) free y(t) de — 10, — t t — uv af Genet de (e 200) du n il ee? y(t) der + /0 vo PVe—-u + ay PSE Serve ( — 619 — che, col cambiamento di variabile 7=—%, può scriversi più semplice- mente: VW) oe) Ji e So t teu — uq/v af e % du { See +f ex y(t — u) du — o Vit—u—v my (0)Id0 ue du _ uu du { — LAuvy/v V Ji of 0 iena» ui lesa — (Av + a) Vote“ 4 Voe. (13) È ora assai facile determinare il cammino #, percorso dal centro della a agpadi Ae dz sfera, a partire dalla posizione iniziale <=0. Poichè “uene V(t), con una quadratura, seguita da un'integrazione per parti, si ha dalle (11), (11°): ea! ‘Al "PF di ebt (f se F a in (7) A (©) dr + (14) 10 1 i, MO, Fd (fe pe, n su 2 Jo — F(t) de — 2f te F(7) dt + 1 TN. Ci de cal Yor (Av - 2a) Vo if F(a)dr + -< te 0, — 620 — cioè, a causa delle (I): vo > 87, 1 valori delle costanti 4, sono reali e positivi. Se poi: (16’) mu — 44==0, onde 50 =87 SINNas dy i => (= R°* Supposto invece: (16) mu — 44<0, le costanti 4, sono immaginarie; inoltre se: (17) mu —24>0, cioè: 70>47 la parte reale delle costanti 4,2 è positiva, mentre tale parte reale è ve- gativa se: (1570) mu — 2A <0, cioè: 7o<4n. Le condizioni precedenti, inerenti alla realità o non delle costanti 4,d sono indipendenti dal coefficiente cinematico di viscosità v del liquido, ma dipen- dono soltanto dalla sua densità 0, e dalla densità 7 della sfera che si mmove nel liquido. Se è verificata la (16) si riconosce facilmente che la (11) può scriversi sotto la forma: V)= Ji Di “) p(e— men du 4 + Dro — (40-40) Va] MUCO cat Lv, cosh (99) e, B ove senh(7),cosh(8%) indicano il seno e coseno iperbolico dell'argomento f7. Se è verificata la (16), si trova invece l’espressione perfettamente ana- loga: wai 2 F({— u) e! du + to ee) Vela a O) al + Vi cos(L") e, ove: p= Î uv yr(44 — au) D0. Se è soddisfatta la (16°) si deduce: 1A v)= ( uP(— 2) edu+ rn — (20 + a) ViJ te + Va e”, 0 — 621 — Astronomia. — Sw/la più opportuna scelta delle declinazioni stellari per determinare le costanti strumentali azimut e colli- mazione e l'errore dell'orologio usando lo strumento dei passaggi in meridiano senza inversione (*). Nota del dott. GIOvANNI ZAPPA, presentata dal Socio ELiA MILLOSEVICH. Quando si possiede un grande strumento in meridiano, il metodo ovvio del determinare la collimazione C invertendo, oltre essere faticoso, può pro- vocare, per la sottrazione e l'immissione successiva d’un grande peso sui cuscinetti di sostegno, deviazioni strumentali, minime sì, ma tuttavia del- l'ordine della grandezza C che si cerca. Volendo evitare l'inversione si pre- senta il metodo dei due collimatori; ma questi sono generalmente di portata non comparabile a quella dei cerchi meridiani e per essi la coincidenza dei fili può lasciare residui anche di 2”, non avvertiti per la piccola amplifica- zione degli oculari, senza dire che si incontrano gravi difficoltà per la loro conveniente istallazione nel meridiano a nord e a sud dello strumento dei passaggi. L'altro metodo fisico, quello del bagno a mercurio usato con la livella, dà, è vero, ottimi risultati, quando di impianto e mezzi ottimi si disponga, ma richiede sempre un tempo piuttosto lungo. Pertanto nell'uso pratico si ricorre in generale alla determinazione delle tre incognite C, azimut A ed errore dell'orologio 4# colle osservazioni di stelle opportunamente scelte; ma sta appunto in questa opportuna scelta la ragione della presente Nota, poichè l'osservatore può trovarsi, ove non pro- ceda con cautela, di fronte a risultati incerti o illusori, o per lo meno in con- dizioni tali che gli errori di osservazione e quelli delle ascensioni rette stellari influiscano in modo gravissimo sui valori delle incognite che debbono esser determinate. Cominciamo col trattare il caso più semplice, quello in cui si osservano tre sole stelle. Ci troveremo da risolvere le tre equazioni a, —-T,=4t+a&A+6,0 co —T,=At+ a, A+ 650 ao -T=d4t+aA+4c30, nelle quali, occorre appena dirlo, le @ sono le ascensioni rette apparenti affette anche dell’aberrazione diurna, i T i passaggi osservati corretti del- l'effetto dell’inclinazione determinata con la livella, e quando ne sia il caso di quello della marcia dell'orologio, le « i coefficienti di azimut e le € (1) R. Osservatorio Astronomico al Collegio Romano. — 622 — quelli della collimazione calcolati in modo che le incognite A e C risultino in tempo come naturalmente è richiesto per 47. Qualunque siano le @ e le d, teoricamente, salvo casi specialissimi le tre incognite vengono determinate, ma praticamente e per gli errori dell’os- servare e per i limiti delle approssimazioni numeriche la cosa è ben diversa. Di solito si osservano due stelle polari, una in culminazione superiore ed una in culminazione inferiore insieme con una terza stella non polare; però è frequentissimo il caso che pur seguendo questa norma non si riesca ad ottenere una sicura risoluzione del sistema: le condizioni alle quali devono soddisfare le tre stelle sono più restrittive. Sia «sd, la polare culminante inferiormente, allora le tre equazioni, quando si segua il metodo di Meyer, assumono la forma Dt 0) A + sec d, € Mi di nio d, da AME da) a M=4t+ SI A — sec d30 EHE Mo = 414 EMO i L30090, 3 e la precisione maggiore o minore del sistema viene data dal valore asso- luto maggiore o minore del determinante | CSO 1 ene d) dI) sec d, cos d, 4=)|1 sen(y + dè ) — sec d, cos d, sen(g — d3) 1 ii" 9, sec d3 Se sciogliamo i seni di archi somma o differenza ed effettuiamo la di- visione dei coseni, che sono al denominatore, abbiamo È seng — cos g tg d, sec d, i. seng+ cos ptgd, — secd. 1 sengp—cosgptgd; sec dz e sottraendo dalla seconda colonna la prima moltiplicata per sen g e mol- tiplicando successivamente la seconda linea e la seconda colonna per —- 1 1 cosgptgdò, secò, 4A=)|—-1 cosgptgd, secd, 1 cosgptgd; secd; — 623 — cioè A=4A'cosg per 1 tgd, d'=|—-1 tgd, 1 tgd, Aggiungendo la seconda linea alla prima e 0 tgd,+t90, d4' = Sil t9 d» 0 tgd3 4 ted, cioè a tg d, + tg dì» d'= tg dì + tg 0» sec d, + sec d» sec 0; + sen d» sec d, sec dè |. sec d3 alla terza giungiamo a sec d, + sec d, sec di sec d3 + sec d» Notiamo incidentalmente come per il calcolo sia molto più comoda questa forma tg d, + 190, tod, + tg d, sec d, + sec d; d= cos g sec d3 + sec dè» in luogo di quella di partenza, specialmente quando si disponga di tavole coi valori numerici delle funzioni trigonometriche. Di più osserviamo come da questa appaia subito evidente l'impossibilità di risolvere il problema, come è ovvio, per p= 90. Ed inoltre vediamo come più siamo vicini all'equatore e meglio possiamo risolvere il nostro sistema. Dalla forma tod + tg d, tg d. + tod, sec d, + sec dè» d4'= sec ds + sec d3 passiamo subito all'altra 4'=[tgd, + tgd,] [secd; + secd,] — [sec d, + secd»] [tgd3 + tgd0.]= 4" e all’equivalente ,__Send, — send; , send, — send; cos d, cos d3 cos d; così, send, — senda — cos d, cos d, "II Su queste due ultime forme baseremo le nostre considerazioni per determi- nare il modo di rendere più sicura la soluzione del sistema. È ovvio che per tale scopo dovremo vedere come rendere il più grande possibile il 4?. RENDICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 83 — 624 — La questione dunque è semplicemente di massimi e minimi, ma per le tre variabili indipendenti in cui c imbattiamo e più per la forma trascendente complicata, lo studio contemporaneo delle derivate prime e del differenziale secondo non presenta tutta la semplicità desiderabile e di più per il campo ristretto da considerare praticamente tal metodo non ci condurrebbe ad utili risultati. Vediamo intanto subito come 4° sia massimo per i due sistemi do, = + 90° d,=— 90° 0, — AO O, ==1908 di = — 90° d, = + 90° e minimo per d, “a ds = dy Questo anzi sarebbe il risultato al quale giungeremmo per la via ordi- naria; ma se nel minimo facilmente, volendo, potremmo cadere, presso il mas- simo invece non potremmo mai trovarci per il campo limitato di cielo che. possiamo osservare. Se consideriamo, ad esempio, il caso degli osservatori ita- liani, che sono compresi tra le latitudini + 37° e + 46°, quando ci si ponga la condizione di osservare astri con almeno 20° di altezza ci troviamo come limiti, per le culminazioni superiori il polo e da — 33° a — 24° e per le cul- minazioni inferiori il polo e da 73° a 64° rispettivamente. Se conveniamo di chiamare delle due stelle 1 e 3, quella con la d mag- giore con 1 e l'altra con 3, il massimo dato di sopra sì restringe a d, Sf 90° di = + 90° e ci resta di vedere come prendere il d; e verificare insieme se questo spo- stamento del d; non ci porta a dover modificare d, e d,. Come primo passo sostituiamo allo studio del 4* quello più semplice del 4; e per questo osserviamo che il 4 assume solo valori positivi, date beninteso le nostre ipotesi, chè basterebbe per esempio mutar tra loro le stelle 1e3 per passare a valori negativi. Che il 4 sia sempre positivo lo vediamo dalla forma 4” ad esso equivalente a parte del fattore cos g del quale già ci siamo occupati e che non modifica per nulla i nostri ragionamenti. Di fatti dei tre termini che costituiscono questo 4" il primo cioè il sen d, — sen d, cos d, cos d, è sempre positivo per essere d, > d3 per ipotesi e d, <90° e da < 90° per la natura del problema, — 625 — Gli altri due termini sen d, — sen d, cos d, cos d sen d, — sen dò, cos d, cos d, - quando siano messì sotto la forma [tg d, — tg d:]sec d. — [sec d, — sec d; ]tg d» ci appaiono anch'essi nel loro complesso positivi; di fatti è sempre seca > ig a tgy—tgz > secy — secz per y>e e secd, > 0. Possiamo dunque concludere esser legittimo il considerare semplicemente il 4 anzichè il 4? per determinarne il massimo, purchè si tenga presente che è sempre 4>0. Se fosse possibile separare le variabili, cioè ottenere A=A:(9) + 42 (92) + 43(93) il problema sarebbe facilmente risoluto: una via simile a questa, non proprio questa perchè impossibile, sarà quella che terremo: dalla forma 4” e dalla 4" trarremo tre espressioni in ciascuna delle quali potremo studiare gli effetti di una sola variabile prescindendo da quelli delle altre. Se dal 4” prendiamo i due termini che contengono il d, abbiamo Adz= sec d3 [tg d, + tg d.] — tg 03 [sec di +- sec da] e le variazioni del 4 per il d; saranno identiche a quelle di questo 43 e dunque possiamo scrivere malon4; «lol Doni dI5 TE così dì to d, + to d,ì sen da — Îsecd, + sec d34]; lo) g iù { ora, qualunque sieno i valori di d, e d,, sempre restando verificate le con- dizioni precedenti, la parte tra le parentesi quadre è sempre negativa per essere >tg d; e di < 90° si ha igdi — | d, Tri tg d, d, COS così, DA) cioè che il punto ENI) E di rr Seca tg d, — tg d3 è un punto di minimo per la 4 relativamente alla sola d.. Discostandoci da questo minimo per d, crescente o decrescente la 4 cresce continuamente per tutto il campo, qualunque sieno i valori della d, e della 03. Tale punto di minimo però dipende dai valori d, e d; quindi non possiamo dire a priori prima di ogni altra considerazione come decidere del modo di prendere il d, indipendentemente dalla d, e d3. Per poter giungere anche a questo calcoliamoci tale punto di minimo per tutti i valori possibili di d, combinati coi possibili di d3: e per le considerazioni su fatte prendiamo 0, da 60° a 85° di cinque in cinque gradi e d; da + 5° a — 25° parimenti di cinque in cinque gradi. E così otteniamo la seguente tabella dei valori di d, che per determinati valori di d, e d3 rendono minima la 4. GEM Mo 0 | ZI 10 | e; i ol Sw pesi isteria Mesia Mez i 643 | (esioMiMizio | 607 » 80 Si 5 542 | TT do DO sig on e ves | oi ALI » 70 46.2| 444 | 426 | 407 | 888 | 3867 | 345 1 65 Als 30/6 376 | 356 | 88500318 | 289 » 60 87:8| 353 | 882 | g10 | 288 | 265 (241 E da esso vediamo come il minimo per d, raggiunge appena nel caso p S g più sfavorevole il limite superiore delle stelle osservabili e quindi possiamo dire anche che dovremo prendere il d, il più boreale possibile. p p Dunque, concludendo, devesi desumere: Una stella culminante superiormente il più boreale possibile. Una stella culminante inferiormente il più boreale possibile. Uno stella culminante il più australe possibile. Questi sono i criteri diremo così analitici, ai quali bisogna aggiungere i pratici, e per questi non saranno poi da prendersi le due stelle boreali ecces- sivamente polari per gli errori maggiori di osservazione, per il tempo che richiede l'osservarle e per il piccolo numero di tali astri nel catalogo fon- damentale che può costringere sia ad aspettare per un lungo tempo, sia ad allargare eccessivamente l’ intervallo delle osservazioni. Mon = Per queste cause e per l'altra che non sempre è possibile formarsi il programma d'osservazione ideale riportiamo da ultimo in due tabelle il valore 4 del 4" cioè del — per COS Y O,=1800 0.900 = 0° 70) = 70 = — 10° {50 = — 20° — 50 = — 80° i = d, | 0° | MO — CORNER) d, + 80° 11.34 13.55 16.26 19.75 n° 10 7.66 9.32 11.36 13.98 600 6.04 7.52 9.34 11.66 n 50 4.91 6.30 8.01 10.19 ds 0° — 10 — 20 — 30 d,+80°| 9.18 | 10.84 12.88 15.50 » 70 5.50 6.61 7.98 9.72 » 60 4,05. 4.99 6.13 7.59 ». 90 8.15 400 5.08 6.35 Abbiamo così esaurito il caso di tre stelle e passiamo a trattare bre- vemente quello di n. Le considerazioni fatte sinora ci conducono subito a stabilire di osservare tre gruppi di stelle, uno di boreali culminanti supe- riormente, uno di boreali culminanti inferiormente ed infine uno di australi: per ciascheduno di essi dovremo seguire le norme date precedentemente per le singole stelle, vale a dire che i due gruppi delle boreali dovranno esser composti di stelle il più possibile polari, quello delle australi, il più pos- sibile australi. Ognuno de’ tre gruppi di equazioni risultanti dovrà esser ridotto per suo proprio conto ad una sola equazione ed infine le tre equa- zioni così ottenute ci daranno i valori delle tre incognite cercate. È forse utile osservare come la distinzione delle x equazioni in tre classi non è rag gruppamento arbitrario di alcune tra equazioni equivalentesi sotto l'aspetto 20 — della teoria degli errori, cioè per i dati delle osservazioni e per la natura dei coefficienti; quando però non si voglia fare tale separazione si dovrà for- mare ciascun gruppo con un numero uguale di stelle rispondenti sempre in ognuno di essi alla relativa norma data sopra, cioè prendere x stelle boreali in culminazione superiore il più polari possibile, 2 in culminazione inferiore parimenti il più polari possibile, x australi il più australi possibile, e poi si dovranno trattare le 3 7 equazioni risultanti tutte insieme nel modo or- dinario. Quando poi non volessimo seguire questa restrizione talvolta incomoda di osservare un numero di astri multiplo di tre, ci vedremmo venir meno i criteri precedentemente stabiliti per la formazione del programma d'osser- vazione e dovremmo calcolarci in precedenza il determinante 4, facendo un lavoro necessario sempre e che può risparmiarci quello dell’osservare quando fossimo caduti su una cattiva scelta di stelle. E per far comodamente tale calcolo trasformiamo da ultimo detto de- terminante. Dalla forma primitiva 1 5 Seno dòd Z sec d; cos d; Sragit NA A RASO VA x sen(g — d;) = Seng d;) Fade sen(g — dì) cos d; cos? d; cos d; DETTE Z sec d; 3 sec dì; SE) X sec? d; cos d; nella quale non distinguiamo per il momento le culminazioni superiori dalle inferiori, passiamo subito all'altra n nsengp — cosp E te dì; Z sec d; nseng—cosp tod; nsenep+ costpIte?d — 2sengpcosp Stgd; senp>secd; — cospIted;secd; 2 secd; seng 2 secd; — cosp Z tod; sec dì; 2 sec? dì; con la quale introduciamo subito tale distinzione col prendere negative le tangenti e le secanti relative alle culminazioni inferiori, mentre dovremo sempre porre ig —d — —tgd. Sottraendo successivamente dalla seconda colonna la prima moltiplicata per sen g e dalla seconda linea la prima moltiplicata per lo stesso fattore otteniamo n Ztg d, 3 sec d; d=cosp|3tgd, St9°d, 2 tg d; sec d; ò Zsecd, Ssecd;tgd, . Ssecd; — 630 — dalla quale espressione infine per 3;tgd,=T 3; seco, = S Z;tg2d0,=T. Zi.sec? dj = So Z;secd; tg d, =, con i segni sopraddetti per i singoli termini delle sommatorie, l' ultima 4=c0sg}w[T:S,— @]+T[CS—TS,]+S[T0— ST;]}. Fisica. — Le stratificazioni nella scintilla elettrica. Nota di L. MacRI, presentata dal Corrispondente A. BATTELLI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisica. — Sulla radioattività della cotunnite vesuviana (). Nota del dott. PAoLo Rossi, presentata dal Corr. M. CANTONE. In una Nota pubblicata in questi Rendiconti il dott. Zambonini (*) richia- mava l'attenzione sopra un minerale vesuviano, la cotunnite, che presentava una radioattività assai maggiore di quella di altri prodotti vulcanici finora esaminati. Mi si presentò così spontanea la ricerca della sostanza o delle so- stanze radioattive che accompagnano questo minerale. Intrapresi questo studio nel mese di luglio ed espongo in questa Nota i risultati finora ottenuti. Per l'esame della radioattività mi servii d'un elettroscopio del tipo Wil- son, interponendo fra la sostanza attiva e la camera dell'elettroscopio uno schermo di alluminio dello spessore di cm. 0,0105 quando volevo studiare l'effetto dei raggi # separatamente da quello dei raggi «. (1) Questo lavoro fu eseguito nell’Istituto di fisica della R. Università di Napoli, diretto dal prof. M. Cantone, àl quale mi è grato esprimere pubblicamente un vivo rin- graziamento per essermi stato largo di incoraggiamento e di aiuto e per aver messo a mia disposizione quanto poteva fornire il laboratorio. Mi è doveroso aggiungere un rin- graziameuto al prof. E. Scacchi, che mi ha gentilmente concesso l'esame del minerale di appartenenza dell’Istituto di mineralogia da lui diretto, nonchè al dott. F. Zambonini che generosamente mi cedette per questo studio cotunnite da lui raccolta nell’aprile di que- st’ anno. (3) F. Zambonini, Sulla radioattività della cotunnite vesuviana. Rend. R. Acc. Lîncei, Vol. XVI, 1° sem. (1907) pag. 975. — 631 — Per la carica dell'elettroscopio disponevo di due batterie Kriger di 100 elementi ciascuna del tipo Weston. A ciascun intervallo della scala micro- metrica corrispondevano sempre 0,66 volta. Per dare un'idea della sensibilità dell’elettroscopio usato, dirò che gr. 0,1 di ossido nero d’uranio, disteso quanto meglio era possibile sopra 3 cm.° di superficie, determinava — non interponendo alcuno schermo — una caduta di potenziale di 53 volta al minuto primo, corrispondenti ad 80 divi- sioni della scala micrometrica, mentre nelle stesse condizioni l’effetto ioniz- zante di gr. 0,1 di cotunnite ridotta in polvere era di 40 divisioni al minuto, conformemente a quanto ha trovato il Zambonini (1. c.), tenuto presente che il nitrato d' uranile ha un’attività che è, secondo Curie, ?/16 di quella dell’ossido d’uranio. Si intende che in tutte le determinazioni ho tenuto conto della dispersione naturale dell’aria racchiusa nell’elettroscopio. Però a questo proposito debbo far osservare che essa variava notevolmente (fino al 30 °/, circa) anche nel corso della giornata (*). Per es. accertai più d'una volta che lasciando alla sera l’elettroscopio carico, alla mattina seguente la posizione delle foglio- line accusava una caduta di potenziale considerevolmente maggiore di quella che si sarebbe dovuto avere se di notte la dispersione naturale fosse stata uguale, in media, a quella diurna. Siccome però mi rese certo che la dispersione naturale sì manteneva praticamente costante (°) in corrispondenza ad un mi- nimo nelle ore pomeridiane, così procurai di esperimentare quasi sempre in queste ore, dispensandomi dal fare frequenti determinazioni della dispersione naturale, che avrebbero richiesto necessariamente un enorme dispendio di tempo. Avendo anzitutto accertato che fra le sostanze radioattive che accom- pagnano la cotunnite non ve ne sono di quelle che dànno luogo all'emanazione e conseguentemente all'attività indotta sui corpi che si trovano in presenza dell'emanazione stessa, procedetti allora a parecchie prove tendenti a separare qualcuna delle sostanze radioattive contenute nella cotunnite, esaminando ogni volta separatamente l’attività dovuta ai raggi @, e che brevemente chia- merò attività a, da quella dovuta ai raggi f e y. Approfittando del fatto che il Pb Cl, è assai più solubile nell'acqua hol- lente che nell'acqua fredda, separai da una soluzione bollente di cotunnite, mediante raffreddamento, dei piccoli cristalli di Pb Cl,, che confrontai sia con altra cotunnite, sia col residuo che ottenni tirando a secco la soluzione raf- freddata. () Intorno alle variazioni periodiche giornaliere della ionizzazione spontanea veg- gansi le recenti memorie. A. Wood a. N. R. Campbell., Phil. Mag., febbraio 1907; G. Accolla, N. Cimento, maggio 1907. (®) Avevo allora uno spostamento della fogliolina di circa 0,15 divisioni per mi- nuto primo. RENDICONTI, 1907. Vol. XVI, 2° Sem. 84 — 632 — Si intende che in questo ed in analoghi confronti esaminavo i diversi prodotti presi in pesi uguali (generalmente di gr. 0,1) e distesi quanto era possibile sopra superfici uguali (cm.* 3). Orbene, il Pb Cl, precipitato per raffreddamento non differiva essenzial- mente nelle sue proprietà radioattive nè dal residuo ottenuto per evapora- zione, nè dalla cotunnite, se non in ciò che mostrava una radioattività un poco più piccola. Feci precipitare mediante acido solforico il solfato di piombo da una soluzione di cotunnite. Tanto l’attività a, quanto la $#, y di questo precipitato, lavato ed essicato a moderato calore, aumentarono notevolmente nel corso d’una settimana. Lasciando questo Pb SO, attivo sopra una lamina rovente di pla- tino per un po’ di tempo, scomparve circa la metà dell'attività a, ma si mantenne pressochè inalterata l'attività #8, y. Inoltre una spirale di rame tersa, tenuta per circa 8 ore in una soluzione acquosa di cotunnite, acquistò una forte attività, che si mantenne pressochè costante per qualche giorno, ed i cui effetti ionizzanti erano completamente annullati coll'interposizione dello schermo di alluminio di cm. 0,0105. La spirale di rame attivata, portata all’arroventamento fino ad iniziale fusione del rame, non conservò che pochi centesimi dell'attività primitiva. Faccio notare incidentalmente che l'annullarsi dell'effetto ionizzante — dovuto all'attività della spirale di rame — coll'interposizione dello schermo di alluminio, mostra che detto schermo è sufficiente per la separazione completa dell'effetto dei raggi @, emessi da una delle sostanze radioattive contenute nella cotunnite. Per tutti questi fatti si rendeva sommamente probabile che la marcata attività « della cotunnite fosse dovuta al polonio o radio F, e che l’attività 8,y fosse dovuta al radio E: infatti fra le sostanze radioattive note solo il radiotorio ed il polonio hanno la proprietà di emettere solamente raggi @ e di presentare in pari tempo una trasformazione così lenta da non essere ap- prezzabile nel corso di qualche giorno. Il radiotorio però va escluso per la mancanza della emanazione, e d'altra parte è caratteristico del radio F il fatto di essere una sostanza di attività a che volatilizza a temperatura infe- riore di un'altra (il radio E) di attività #, y, che normalmente l’accompagna, e conformemente a ciò il Ph SOy portato ad alta temperaturatura perdette buona parte dell'attività @, e non l'attività #, y. Per togliere ogni incertezza sulla natura delle sostanze che attivano la cotunnite, cercai di separare da una soluzione di cotunnite il radio F, sospen- dendovi dei pezzi di bismuto, sul quale, è noto, si deposita il polonio. Sul bismuto però si depositava anche una sostanza attiva in raggi # e y; il fatto era dovuto probabilmente ad impurità contenute nel bismuto (*), e di esso (1) Skl. Curie, Nachtrag zu meiner Mitteil. ete. Phys. Zs. 7 Jahrg. (1906) pag. 180). — 633 — approfittai per impoverire, quanto più era possibile, la soluzione di cotunnite delle sostanze capaci di emettere raggi osservabili. Dopo aver lasciata la soluzione di cotunnite per una settimana in presenza di diversi pezzi di bismuto a larga superficie, feci evaporare fino a secchezza parte della soluzione, e del residuo secco di Pb Cl, presi in esame al solito gr. 0,1. Allo scopo però di ottenere un ulteriore impoverimento delle sostanze che emettono raggi, feci precipitare dalla rimanente soluzione del Pb SO,; portai in seguito questo precipitato, dopo il lavaggio, al calor rosso in una capsula di porcellana e ne presi in esame gr. 0,11 per avere pressochè la stessa quantità di piombo che in gr. 0,1 di Pb Cl,. L'attività #, y dei due preparati era press'a poco la stessa, ma l’atti- vità « del Pb Cl» era inizialmente quintupla di quella del Pb SO,. Di giorno in giorno aumentava tanto l’attività @, quanto la 8,y di entrambi i pre- parati. Mi fermerò anzitutto a considerare quest'ultima radioattività, che d'ora in poi chiamerò semplicemente attività 8 in quanto che l’effetto dovuto ai raggi y, nel caso del RaE, è al massimo 0,3 per mille di quella dei raggi f, secondo Meyer e Schweidler, e propriamente, secondo H. W. Schmidt, 0,16 per mille ('). Il modo con cui aumentava col tempo l'effetto dei raggi # dei due prepa- rati risulta dalle tabelle I e IT. TABELLA I. TABELLA II. Pb SO, Pb. Cl; t I t I t I div div div. giorni Tata giorni Tin giorni mo 0 0,30 9,92 | 1,785 0 0255 | £ 092 | 051 10,98 | 1,82 092 | od | £ 1,69 0,73 11,88 | 1,90 OoR Oz Chi 2,62 0,935 13,0 1,955 2,62 0,985 | SI 396 | 1,17 15,02 | 2,09 396 115 (SE 5,87 1,39 15,85 214 5,87 1468 CES 7,96 1,615 | 190 2,21 796 | 161 | #5 8,93 1,73 gie to ih Kee Ilt atteristico di trasfi i va ui; - n di dior CR erIstico di trasiormazione 15,90 2.16 5 N 1898 | 223 |F Il tempo venne misurato in giorni dal momento della prima determina- zione, fatta appena ottenuto il preparato, e l'attività dal numero di divisioni (1) H. W. Schmidt, Finige Versuche mit p-Strahlen von RaE. Phys. Zs. 1 giugno 1907. — 634 — per minuto primo. Come ho detto, per avere la caduta di potenziale in volta basta moltiplicare il numero delle divisioni per 0,66. Un pezzo di bismuto tenuto sospeso per due giorni in una soluzione di cotunnite, venne pure esaminato durante il decremento della sua attività £, ed i risultati sono dati dalla tabella III. Un altro pezzo di Bi, trattato nello stesso modo, diede come valore del tempo di trasformazione di metà della sostanza circa giorni 4,6. TABELLA III. t | I 4 ) div. giorni min. 2h 0 0,636 Ties ru so 0,94 0.547 SSRE Ola 2,05 0,472 | FE EA 5,01 0,32 Se 5,92 0,275 SEA n 7,05 0,24 7 QUE Allo scopo di ricavare un valore approssimativo della costante caratte- ristica di trasformazione dai dati delle tabelle I e II aspettai tanto tempo (circa due mesi e mezzo), perchè potessi ritenere praticamente costante l'at- tività 8, e trovai per il Pb SO, il valore 2,42, per il Pb Cl, 2,48. Calcolai allora il valore della costante di trasformazione Z mediante la formola (!): dove 2, ed I, denotano rispettivamente il valore dell’attività # all'inizio delle determinazioni e quello raggiunto dopo il tempo indicato di circa due mesi e mezzo. Sostituendo ad I ed a i valori corrispondenti contenuti nelle tabelle I e II, ottenni altrettanti valori di 4, dei quali presi la media. Mi risultò in tal modo per il Pb SO, 4= 0,124 (giorni)! e per il Pb Cl, 2 = 0,1215 (giorni). A tali valori di 4 corrispondono i tempi ca- ratteristici di giorni 5,6 e 5,7 rispettivamente. (1) Considerando infatti l’attività 8 della sostanza in esame in un tempo qualunque come data dalla somma di quella dovuta alla sostanza attiva che esisteva inizialmente e non ancora scomparsa (trasformata), e di quella dovuta alla nuova sostanza che si va man mano formando, si può porre = ine?! LI (1 — et) da cui si ricava IMI = de — 635 — Questi valori della costante di trasformazione della sostanza di attività 8, mostrano indubbiamente che essa non è altro che il RaE; si ritiene infatti che questo si trasforma per metà in 6 giorni circa. Ma il fatto che l’attività #8 dei pezzi di bismuto, attivati per immer- sione in una soluzione di cotunnite, si riduce a metà in un tempo inferiore a quello che caratterizza la riattivazione dei preparati impoveriti di questa attività, non può lasciarsi passare inosservato. Giova ricordare che già il Rutherford (!) trovò che mentre l'aumentare dell'attività # pel formarsi del radio E dal radio D avveniva secondo un tempo caratteristico di 6 giorni, invece il decrescere di essa dopo l’arroventa- mento ne mostrava uno di soli giorni 4,5. Il Rutherford (Phil. Mag., loc. cit., pag. 294) attribuì la differenza ad un'influenza dell’arroventamento sulla ra- pidità di trasformazione del RaE, ma nel caso presente non può valere una tale ragione. Invece il fatto può trovare una completa spiegazione ammettendo coi sigg. Meyer e Schweidler (*) che il radio E si componga propriamente di due sostanze, che questi Autori denotano con RaE, e RaE., le quali si seguono nella serie delle trasformazioni radioattive. Il RaD cioè si trasformerebbe nel RaE, e questo nel RaE,; tanto il RaD quanto il RaE, non emetterebbero raggi osservabili. ed il solo RaE, sarebbe dotato dell'attività f. I citati Autori hanno ricorso a questa ipotesi per spiegare certe anomalie da loro riscontrate nella disattivazione del RaE separato per elettrolisi: le curve relative, in coordinate logaritmiche, di taluni dei numerosi preparati di RaE erano perfettamente rettilinee; quelle di altri preparati constavano di due porzioni rettilinee, di cui la seconda accusava una costante di tempo maggiore. In base alle curve che presentano in modo più marcato questa ano- malia si deduce che il RaE, si trasformerebbe per metà in un tempo compreso fra giorni 6 e 6,5 mentre il RaE, si trasformerebbe per metà in giorni 4,8. Questa ipotesi basta a spiegare il fatto su accennato, cioè come il valore del tempo che caratterizza la legge di riattivazione sia maggiore di quello relativo alla disattivazione. Intanto, se così stanno le cose, il valore di 4 ri- cavato per mezzo della (4) non ha più il significato primitivo di costarzte caratteristica di trasformazione, ma può considerarsi semplicemente come il valore della costante di trasformazione d'una sostanza ipotetica, la cui legge di riattivazione si approssimerebbe a quella reale, entro certi limiti di tempo. In generale poi la legge di riattivazione sarebbe data da una relazione della forma I=LA+:B+4 dC (0) (1) E. Rutherford, Slow transformation products of Radium. Phil. Mag. VI S., vol. 10 (1905) pag. 290. V. anche Radio-activity, II Ediz., pag. 401. (2) St. Meyer u. E. v. Schweidler, Weber die aktiven Bestandteile des Radiobleis. Sitz. Ak. Wiss. in Wien. maggio 1906. — 636 — dove per brevità si è posto La Dt — A eda 1— ray =A, (el pare ed!) —B 3 eh — C; essendo 4, e 4» le costanti di trasformazione del RaE, e del RaE. rispetti- vamente. Esistendo infatti, in generale, all'inizio delle osservazioni tanto il RaE, che il RaE. oltre al RaD che costituisce la sorgente primaria, si può consi- derare l'attività # della sostanza, dopo un tempo qualunque 7, come data dalla somma di tre termini, di cui l'uno misura l'attività del RaE. prove- niente dal nuovo RaE, somministrato dalla sorgenta primaria, e che è della forma di IA (’); un altro termine si riferisce al RaE. proveniente dal RaE, che inizialmente accompagnava il RaD ed è proporzionale a B (Ruther- ford, loc. cit., pag. 332); infine il terzo misura l'attività del RaE. che esi- steva inizialmente e che ancora non si è trasformato, attività che tende a scomparire secondo la solita legge esponenziale. Quindi la legge di riattivazione varia a seconda dei valori di I,; % @ do, o meglio secondo i valori dei rapporti — ed -° poichè essa riguarda il modo () 0 con cuì varia col tempo il rapporto 1 però volendo persuadersi della p0s- 0 sibilità che detta legge venga approssimativamente caratterizzata da una costante di tempo maggiore di quella propria del radio E,, basta supporre inizialmente assente tanto il radio E, quanto il radio E.. In tal caso si può ottenere facilmente la rappresentazione grafica della legge di riattivazione, non dovendosi tener conto che del primo termine del secondo membro della (2). Prendendo in particolare per 2, e 4, i valori cor- rispondenti ai tempi caratteristici di giorni 6,5 e 4,8 rispettivamente, si ottiene una curva in cui la differenza fra l’ascissa massima e quella d'un punto corrente, cioè la differenza I, —I(?), diventa metà prima in un tempo che supera i 10 giorni, poi in un tempo via via minore, ma sempre mag- giore di quello che caratterizza la disattivazione del RaE.. Questa legge di riattivazione si modifica, è vero, se si tien conto anche degli altri due ter- (!) Infatti è lecito supporre che il RaE, venga somministrato in quantità costante dal RaD, data la lentezza con cui questo si trasforma, ed allora si cade nel caso IV considerato dal Rutherford in Radio-activity, II ed., pag. 337. (2) In ogni curva rappresentativa della semplice legge di riattivazione espressa dalla formola I=I (1— e724) la differenza I, — I fra l’ascissa massima e quella d'un punto corrente diminuisce socondo la solita legge esponenziale, infatti è I —I="Ip e? dunque il tempo caratteristico di trasformazione è dato dal tempo necessario perchè questa dif- ferenza si riduca a metà del suo valore. è ig mini della (2), e sostanzialmente la modifica il secondo termine, il quale influisce nel senso di diminuire il valore del tempo che caratterizza la legge di riattivazione; rimane tuttavia dimostrata almeno la possibilità di avere per la riattivazione valori del tempo caratteristico maggiori di quello proprio della disattivazione. Dal punto di vista teorico sarebbe facile verificare se l'ipotesi di Meyer e Schweidler s' accorda anche quantitativamente coi risultati sperimentali, ma io credo che sarebbe illusoria una verifica di tal genere fatta sui pochi dati sperimentali ottenuti finora; perciò mi accontento di accennare che, assumendo come valori di Z, e 4, quelli ultimamente indicati, ricavai dalla serie di dati relativi al Pb SO, e contenuti nella tabella I, i valori più pro- babiliNdiaIfed®hziecioà Io =23:426; 4. = 2,917. Calcolando poi in base a questi valori la curva di riattivazione del RaE., ottenni una curva che si accorda benissimo coi dati sperimentali; faccio notare anche che il valore di I, così calcolato è vicinissimo al valore raggiunto dalla attività 8 del Pb SO, dopo due mesi e mezzo. Quantunque da ciò che precede si possano fare deduzioni sicure circa la natura delle sostanze che attivano la cotunnite, pure accennerò anche alla verifica fatta relativamente all'esistenza del polonio o radio F. Avendo usato lo schermo di alluminio per la separazione degli effetti delle due attività, mi era necessario conoscere l'assorbimento che esso eser- citava sui raggi #. Sopprimendo l'effetto dei raggi @ mediante una sottile lamina di mica e sperimentando sia sulla cotunnite, che sui preparati che si stavano riattivando, ottenni come valor medio del rapporto, secondo cui diminuiva l'effetto ionizzante dei raggi # per l'interposizione dello schermo di alluminio, 0,59. Sottraendo dall'effetto totale quello dovuto all'attività #, ottenni i va- lori dell'attività «. Rappresentando graficamente nel modo solito i valori crescenti dell'attività « del Pb SO, disattivato nel modo già indicato, ottenni dei punti che si trovavano approssimativamente sopra una curva avente la concavità rivolta verso l’asse delle ordinate, come deve essere. Calcolando la curva relativa alla riattivazione di detto Pb SO,, ottenni un accordo suf- ficiente a dimostrare l’esistenza di una sostanza attiva in raggi @, che si forma per la disintegrazione di una di attività ? e che presenta una tale costante di trasformazione da dover esser identificata col radio F. Infine, l'esistenza del radio F è messa fuori dubbio dal fatto che sul Bi immerso in una soluzione di cotunnite si deposita una sostanza dotata unicamente di attività @, che diminuisce con lentezza e propriamente se- condo una l3gge esponenziale per la quale si ridurrebbe alla metà in circa 140 giorni. — 638 — CONCLUDENDO: 1) La cotunnite vesuviana non contiene, almeno in modo apprezza- bile, il radio, data l'assenza dell'emanazione e della sua attività indotta a rapida evoluzione. 2) Le sostanze che attivano la cotunnite sono quelle che costituiscono la così detta attività indotta del radio a lenta evoluzione (radio-piombo), cioè il RaD, RaE e RaF. Questo risulta tanto dalla legge di riattivazione, quanto da quella di decremento dell'attività 8 dovuta al RaE, ed è confer- mato dalla presenza del polonio separabile coi metodi noti. 3) La differenza fra la legge secondo cui aumenta l'attività # d'un preparato disattivato e quella secondo cui tende a scomparire detta attività, quando si separa la sostanza che ne è dotata dal RaD, può trovare una plausibile spiegazione ammettendo che il RaE non sia unico, ma consti di due sostanze succedentisi nella serie delle trasformazioni, di cui solo la se- conda sia dotata di attività f. 4) Altre sostanze radioattive pare che non accompagnino la cotun- nite, data l'assenza dell'uranio, come si può accertare con metodi chimici (F. Zambonini, loc. cit., pag. 978) e data la mancanza di emanazione e della corrispondente attività indotta. Inoltre le attività « e f sì distinguono così nettamente tanto nei processi di riattivazione, quanto in quelli di di- sattivazione, che vanno attribuite unicamente a due sostanze, come il RaE ed il RaF, che emettono l'una solo i raggi # e l'altra solo i raggi @, e che si succedono immediatamente nella serie delle trasformazioni radio- attive. Osserverò da ultimo che il trovarsi l’attività indotta del radio a lenta trasformazione, per la massima parte, nei minerali di piombo fra tutti i pro- dotti vulcanici, può trovare una ragione nel fatto che molte proprietà chi- miche del RaD sono affatto simili a quelle del Pb, come ho potuto farmi certo trattando la cotunnite in diversi modi: ho sempre trovato infatti che il radio D accompagna quasi esclusivamente il Pb sia allo stato metallico (per es. precipitandolo col magnesio) sia allo stato di combinazione; aggiun- gasi che il RaD volatilizza ad una temperatura più vicina al punto di ebol- lizione del Pb, del suo solfuro e meglio ancora del cloruro, che non a quello degli altri prodotti vulcanici, e quindi volatilizza e si condensa quasi’ con- temporaneamente coi detti composti del piombo. — 639 — Chimica. — Su alcuni derivati azoici del quaiacolo (*). Nota di AmeDEO CoLomBANO e BATTISTA LEONARDI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Per quanto da lunghi anni sia noto in terapia e diffuso in commercio il guaiacolo, ed allo scopo di variarne le sue proprietà chimiche e fisiolo- giche si sia da esso preparato un gran numero di derivati, tuttavia poco o nulla erano stati studiati i prodotti che questo fenolo può dare per copula- zione col diazonio sale. Interessandoci, per altre ricerche che ci eravamo proposti, di avere un certo numero di derivati azoici di questo fenolo, ne abbiamo preparati di- versi, ma poichè per la partenza di uno di noi devesi interrompere il lavoro in comune, così pubblichiamo nella presente Nota i prodotti finora ottenuti, riservandosi, l’altro che resta, di estendere queste ricerche. Della numerosa serie di prodotti che per copulazione del guaiacolo col diazonio sale, ottenuto da amine diverse, si poteva prevedere, non era noto finora che il benzolazoguaiacolo ottenuto la prima volta da Jacobson, Jae- nicke e Meyer (*) con un processo alquanto lungo e complicato, ed ultima- mente da Mameli e Pinna che se ne servirono per la preparazione del p. iodo- guaiacolo da loro recentemente descritto (*). Noi abbiamo cercato di estendere lo studio di questi azoderivati pre- parandone altri sei, di molti dei quali abbiamo ottenuti i derivati metilici, etilici ed acetilici e di qualcuno di questi ultimi anche il prodotto di ridu- zione, come l'acetilaminoguaiacolo, per altra via recentemente ottenuto da Fichter e Schwal (4). La preparazione di questi azoguaiacoli veniva condotta quasi sempre nello stesso modo: la soluzione alquanto acida di una molecola del diazonio sale, tenuta alla temperatura di circa 0° veniva aggiunta, versando a poco a poco e sempre agitando la massa, con robusta bacchetta di vetro, alla soluzione fortemente alcalina e fredda di una molecola di guaiacolato sodico in acqua. In questo modo appena le prime goccie della soluzione acida del di- azonio sale cadevano nella soluzione alcalina del fenolo, si formava un pre- (1) Lavoro eseguito nell’Istituto Chimico farmaceutico della R. Università di Cagliari diretto dal prof. L. Francesconi. (*) Berichte, XXIX, 2685. (*) Arch. di farm. sperim. e scienze affini, vol. VI, fase. IV, (4) Berichte, XXXIX, 3339. Renpiconti 1907, Vol. XVI, 2° Sem. (0.0) (ai — 640 — cipitato colorato, che diventava presto abbondante, talvolta grumoso, quasi sempre nettamente cristallino. Raccolto questo precipitato, veniva filtrato alla pompa, asciugato per bene e quindi cristallizzato da alcool ed acqua: sì otteneva così già dalla prima cristallizzazione quasi puro, e purissimo dopo altre due o tre cristallizzazioni. - Il rendimento, così operando, è quasi sempre teorico per l’azocorpo cer- cato; e solo per il benzolazoguaiacolo si ottiene in piccola quantità anche il disazo. Gli eteri alcoolici di questi azoguaiacoli, di cui però abbiamo appena incominciato lo studio, vennero preparati, gli etilici per mezzo della solita reazione dei ioduri alcoolici sul sale sodico, ed i metilici più frequente- mente per mezzo del solfato dimetilico che, come uno di noi (*) ha recente- mente dimostrato, si presta benissimo alla eterificazione di questi ossiazo- composti per la grande velocità di reazione e per il rendimento quasi sempre teorico che con esso si ottiene. Gli acetilderivati d'altra parte venivano preparati per azione dell'ani- dride acetica, a caldo, in presenza di acetato sodico fuso sull’azoguaiacolo : si ottengono facilmente e con buon rendimento, e sono sufficienti una o due cristallizzazioni dall'alcool o dalla ligroina per averli puri. La mancanza di tempo ci ha invece impedito di potere, come era nostro precipuo intendimento, preparare per riduzione di questi eteri ed acetilde- rivati, gli aminocorrispondenti e per successiva copulazione cogli acidi mono e bibasici della serie grassa di arrivare a prodotti che la teoria lasciava prevedere facili ad ottenersi e dotati di proprietà fisiologiche, avendo essi un'analogia di costituzione con altri prodotti già vantaggiosamente introdotti nella pratica terapeutica. Diremo soltanto che per riduzione dell’acetilderivato del #.naftilazo- guaiacolo per mezzo della fenilidrazina noì eravamo riusciti ad ottenere un prodotto che corrisponde nel punto di fusione a quello recentemente dato da Fichter e Schwal (*) per l’acetilaminoguaiacolo da loro recentemente ottenuto per altra via, per acetilazione cioè del 4. aminoguaiacolo. Queste ricerche tuttavia, lasciando prevedere risultati abbastanza inte- ressanti, verranno riprese e completate con lo scopo anche di apportare qualche contributo nella discussione che già da tanti anni si agita fra i chimici, eirca la costituzione di questi p. azofenoli che, come è noto, insieme agli o. ossiazo ed ortoaminoazo, alcuni vorrebbero considerare come ossiazo dalla formula: OH (1) V. Nota precedente. (3) Loc. cit. — 641 — ltri invece come idrazoni dei parachinoni: % VENERE Accenneremo solo che finora abbiamo osservato che questi azoderivati del guaiacolo si comportano come dei veri azofenoli. Essi infatti: 1°). Sono tutti facilmente solubili a freddo negli idrati alcalini e neppure dopo lungo tempo si ha idrolisi del sale formatosi. 2°). Trattati tanto con ioduri alcoolici che con solfato dimetilico, dànno, tutti, facilmente, gli eteri ossidi corrispondenti che sono stabili, al contrario di molti degli isomeri orto. 5°). Con anidride acetica ed acetato sodico, dànno tutti in quantità teorica e facilmente purificabili, i corrispondenti acetilderivati. 4°). Aggiungeremo a queste per quanto non senza riserva, non avendo sufficientemente estese al riguardo le esperienze, che gli acetilderivati di questi azoguaiacoli per riduzione con fenilidrazina dànno l'acetilp.aminocor- rispondente il che potrebbe dimostrare la funzione azofenolica di questi corpi. PARTE SPERIMENTALE. I. Benzolazoguatacolo. Il benzolazoguaiacolo G i e gd era stato preparato, come più sopra abbiamo accennato, da Jacobson, Jae- . nicke e Meyer (') ed ultimamente da Mameli e Pinna (*) mediante la rea- zione del diazonio sale sui fenoli. Interessandoci averne una certa quantità per ottenere gli eteri e l'acetile derivato non ancora studiati, l’abbiamo preparato seguendo il metodo dai due ultimi indicato e siamo riusciti ad averlo puro e con un rendimento quasi teorico. Gr. 93 di anilina {1 mol.) sciolti in 272.5 di acido cloridrico (3 mol.) venivano diazotati a 0°, con 108 gr. di nitrito sodico (1’/, mol.). (*) Loc. cit. (2) Loc. cit. — 642 — La soluzione del cloruro di diazobenzene così ottenuta, veniva versata lentamente ed agitando in una soluzione di 124 gr. di quaiacolo (1 mol.) sciolti in 160 gr. di idrato sodico (4 mol.) mantenuta intorno a 0°. L'eccesso di alcali impediva la precipitazione dell'ossiazocomposto, che però dopo parecchie ore di riposo veniva precipitato aggiungendo a poco a - poco una soluzione di acìdo cloridrico diluito. Il prodotto che si separava in fiocchi rossi, veniva cristallizzato da miscela idroalcoolica, dalla quale forma bei ciuffi di cristalli aghiformi rossi fusibili a 71°. In piccola quantità, così operando, si separava pure una frazione p. f. 150° di guaiacoldisazobenzolo. Acetilderivato. — Si prepara facilmente facendo bollire a ricadere per alcune ore il derivato azoico con un piccolo eccesso sul calcolato, di ani- dride acetica ed acetato sodico fuso. Versato quindi in acqua fredda, il prodotto della reazione presto si so- lidifica in una massa giallo-rossa che cristallizza facilmente dalla ligroina in bei cristalli aghiformi rosso-bruni p. f. 61°. Analisi: Sostanza: gr. 0,4196; N. ce. 36,25; T. 11°; H. 756 mm. Trovato °|, Calcolato per Ci; His Na 03 N 9,96 10,36 È facilmente solubile in alcool, etere, benzolo, cloroformio: leggermente solubile in acqua, insolubile negli idrati alcalini. Etere metilico. — Venne preparato nel modo descritto da uno di noi in altra Nota (') per azione del solfato dimetilico sulla soluzione del benzol- azogualacolo in potassa caustica. Basta sciogliere l’azocorpo nella quantità calcolata (1 mol.) di potassa caustica al 10°/ (1 mol. più un piccolo ec.) ed alla soluzione così ottenuta, in imbuto a rubinetto od in boccia a tappo smerigliato, aggiungere il solfato dimetilico (1 mol. più un pice. eccesso) ed agitare fortemente. Si nota subito un leggero riscaldamento e quindi un precipitato che mano mano va racco- gliendosi al fondo del recipiente in goccie oleose nere. Raccolto all'indomani questo deposito oleoso e lavato bene con soluzione diluita di KOH, col riposo o con miscuglio frigorifero si ottiene in una massa solida che cristallizzata dall’alcool o meglio dalla ligroina fonde a 53-54°. È solubile nei solventi organici più comuni, insolubile negli idrati alcalini. L'etere metilico del benzolazoguaiacolo, corrispondente al benzolazove- ratrol, era stato preparato per azione dei ioduri alcoolici sul guaiacolato (*) Colombano, loc. cit. — 643 — sodico da Jacobson, Jaeniche e f. Meyer (!). Il loro prodotto fonde però a 44.,5-45°. Abbiamo tentato di ottenere il prodotto di riduzione, cioè l’aminovera- trol o veratrilamina ma con risultato ancora non troppo buono. Etere etilico. — Venne preparato nel solito modo, per azione cioè dei ioduri alcoolici sul sale sodico dell’azoguaiacolo. Gr. 4,5 di benzolazo puro disciolti in alcool assoluto vennero versati in una soluzione, anch'essa in alcool assoluto, di etilato sodico contenente gr. 1 circa di sodio. Al miscuglio così preparato si aggiunsero gr. 6 di ioduro di etile e si fece bollire a ricadere per alcune ore. Dopo questo riscaldamento, distillato l'eccesso di alcool, si versò il re- siduo in acqua fredda: si formò tosto un precipitato abbondante di color giallo-canarino, che dopo qualche tempo sì riunì in ciuffi cristallini. Raccolto, lavato con soluzione di soda e cristallizzato da alcool ed acqua si ottiene subito in bellissimi, lunghi aghi setacei, disposti anche a ciuffi, fusibili a 86-89°. Analisi: Sostanza: gr. 0,2920; CO. gr. 0,7512; H:0 gr. 0,1686: Trovato °| Calcolato per C.3Hi6 Na 0: C 70,12 7.053,11 H 6,40 6,25 Questo etere è completamente insolubile negli idrati alcalini, facilmente solubile nei comuni solventi organici. II. o. Nitrobenzolazoguatacol. 20 H 3-9 de lip \/7N0 Per la preparazione dell'o. nitrobenzolazoguaiacolo si disciolsero gr. 13,8 di o.nitroanilina pura in 23,35 ce. di HCl (d. 1,20), si diluì con acqua (1) B. XXIX, 2686. = did — ed alla soluzione ottenuta, mantenuta a circa 0°, si aggiunsero gr. 10,3 di nitrito sodico sciolti in circa 100 ce. d'acqua. Il diazoniosale così ottenuto sì versò a poco poco nella soluzione di guaiacolato sodico, preparato scio- gliendo gr. 12,4 di guaiacol in 80 ce. di idrato sodico al 20/,. La reazione come sempre avviene prontamente e con rendimento teorico. Appena le prime goccie del diazoniosale cadono nella soluzione sodica del fenolo, si forma un abbondante precipitato rosso-granato grumoso che raccolto, lavato e cristallizzato da una miscela idroalcoolica dopo due o tre volte è puro. Analisi: Sostanza: gr. 0,1160; N. ce. 15,5; T. 16°; H. 762 mm. Trovato °| Calcolato per Cis Hi Ns 0 N 15,62 15,34 Massa color rosso-granato costituita da minuti cristallini aghiformi, leg- geri fusibili a 144°. È facilmente solubile nei solventi organici, alcool, etere, cloroformio ecc. e negli idrati alcalini dà una bella colorazione di color rosso-vinoso. Etere metilico. — Venne preparato nel modo descritto da uno di noi (*) per mezzo del solfato dimetilico. Si ottiene facilmente e con rendimento teorico in bei cristallini lucenti di color rosso-cupo p. f. 152°. Analisi: Sostanza: gr. 0,2582; CO, gr. 0,5516; H.0 gr. 0,1145. Trovato o Calcolato per Ci Hi3 N3 04 (0, 58,24 58,93 H 4,88 4,52 È completamente insolubile in acqua e negli idrati alcalini, e poco so- lubile negli acidi minerali. III. m. e p. Nitrobenzolazoguatacolo. Il m. nitro _0H ir 0C0H, ini N I, ed il p.nitrobenzolazoguaiacolo -0H NO, 4 IA | N | \/ (1) Colombano, loc. cit. — 645 — vennero preparati usando le stesse quantità molecolari impiegate per la pre- parazione dell’isomero precedentemente descritto. Il prodotto della diazotazione del meta era di color giallo tendente al rosso che cristallizzò da miscela idroalcoolica in aghi dello stesso colore fon- denti a 124°. Analisi: Sostanza: gr. 0,3084; N. cc. 42.2; T. 20°; H. 760mm. Trovato °| Calcolato per Ci3H;1 N30 N 15,65 15,38 Il prodotto ottenuto dalla copulazione del guaiacolo col cloruro del p.nitrodiazobenzol era bruno-cioccolatte e cristallizzò subito e benissimo da miscela idroalcoolica in cristalli aghiformi splendenti, p. f. 125-135°. Acetilderivato del m.nitrobenzolazoguaincol. — Di questi tre azogua- iacoli non fu potuto preparare che un solo acetilderivato: quello del m. nitro, che si ottenne nel modo già descritto per l'acetile del benzolazoguaiacolo. Cristallizzato dalla ligroina l’acetilderivato dal m.nitrobenzolazoguaia- colo si presenta in bei cristalli, p. f. 95-97°. Analisi: Sostanza: gr. 0,2244;. N. cc. 25,7; T. 15°; .H: 762 mm. Trovato %o Calcolato per C,5 Hia Na 0; N 13,45 13,39 È facilmente solubile in alcool, etere, cloroformio, benzolo, insolubile negli idrati alcalini. VI. o. Totuolazoguatacol. OH = OCH, fe) SA ee Gr. 10,7 di ortotoluidina pura sciolta in 23 ce. di HCl (d. 1,20) ven- nero diazotati con gr. 10,3 di nitrito sodico sciolti in circa 100 ce. di acqua. La soluzione fredda del diazonio sale così ottenuta venne quindi versata a poco a poco ed agitando il miscuglio su una soluzione parimenti fredda di guaiacolato sodico, ottenuta sciogliendo gr. 12,4 di guaiacol in 160 cc. di Na0H al 10°/,- L'eccessiva alcalinità della soluzione impediva la precipitazione del- l'ossiazo libero che si otteneva facilmente aggiungendo a poco a poco una soluzione di acido cloridrico diluito. — 646 — Cristallizzato da alcool ed acqua dopo due o tre volte, si ha in cri- stalli aghiformi di color rosso-bruno che fondono a 85°. Analisi: Sostanza: gr. ‘(0,172457 IN@fect 17,45 T. 11°; H° 750,4 mot Trovato %o Calcolato per C.4H, N. (0, N 11,97 11,57 Acetilderivato. — Si prepara facendo bollire a ricadere a bagno di lega gr. 7,26 dell'azoguaiacolo con un eccesso di anidride acetica ed ace- tato sodico fuso. Il prodotto ottenuto si versa in acqua nella quale in parte si discioglie colorandola in rosso-aranciato. Raccolta su filtro la massa solida formatasi e lavata con idrato sodico ed acqua sì cristallizzò alcune volte dalla ligroina. Analisi: Sostanza: gr. 0,3282;. N. 29; T. 12°; H. 746 mm. Trovato °|o Calcolato per Cis His Ns 0; N 10,29 9,86 Cristallizza dalla ligroina in grossi romboedri rosso-ranciati p. f. 87°. È solubile in alcool, etere, benzolo. cloroformio ece., alquanto solubile in acqua, insolubile negli idrati alcalini. V. a. Naftilazoguatacolo. -0H ZI OCH,; ANTA È È Nd x Na Venne preparato come i precedenti azoguaiacoli dal diazonio sale della a.naftilamina. Il prodotto giallo-bruno formatosi nella copulazione si ha in aghi bruno- nerastri che fondono a 125°. Analisi: Sostanza: gr. 0,4196; N. ce. 35,2; T. 13°; H. 750 mm. Trovato %o Calcolato per C17 H14 Na 0: N 9,78 10,07 Acetilderivato. — Gr. 8,34 di @.naftilazo puro si trattarono con gr. 3 di anidride acetica in presenza di acetato sodico fuso. Si riscaldò su bagno di lega a ricadere per alcune ore, quindi si versò il prodotto ottenuto in acqua fredda che non venne colorata essendovi inso- — 647 — lubile. Si formò un olio denso che agitato con bacchetta di vetro si rapprese in una massa facilmente polverizzabile. Cristallizzato dalla ligroina si ha puro. Analisi: Sostanza: gr. 0.2382; N. cc. 19; T. 19°; H. 756 mm. Trovato %o Calcolato per Cis His N: 0; N 9,16 8,75 Cristalli aghiformi di color rosso-ranciato-oscuro, p. f. 105-110°. Solu- bile in alcool, etere, benzolo, cloroformio; insolubile in acqua e negli idrati alcalini. VI. $. Naflilazoguaiacolo. Venne preparato come l’isomero precedente. Il prodotto formatosi ha lo stesso colore dell'a. naftilazo. Dalla solita miscela idroalcoolica a parti quasi uguali precipita in parte resinosa e nera, perciò si cristallizza dall'acqua con piccolissima quantità di alcool. In questo modo si ha subito in bei fiocchi di color giallo-pallido, dopo alcune cristallizzazioni fus. a 92-94°. Analisi : Sostanza: E A0:23/10ENS 82091 0T. 16°; MRE7/60 mm. Trovato | Calcolato per Ci: Hi4 N30» N 10,08 10,07 Etere metilico. — Venne preparato col processo descritto da uno di noi (') per mezzo del solfato dimetilico. Gr. 11,0 di f.naftilazoguaiacolo puro vennero sciolti in 20 ce. di KOH al 10°/ ed alla soluzione limpida, contenuta in un imbuto a rubinetto, vennero aggiunti gr. 6 di solfato dimetilico. Appena una goccia del solfato cade nella soluzione si nota una colo- razione azzurro-violacea che subito sparisce, mentre la soluzione si riscalda sensibilmente. Il miscuglio agitato fortemente dà presto un abbondante precipitato che raccolto, lavato con soluzione diluita di KOH e cristallizzato dall'alcool fonde a 103-105° e presenta tutti i caratteri già descritti da uno di noi (*). Di questo etere abbiamo fatto la riduzione per mezzo della fenilidra- zina, ma per la scarsa quantità del prodotto ottenuto non abbiamo finora potuto analizzarlo e farne lo studio. (1) Loc. cit. (2) Loc. cit. RenpiIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 86 — 648 — Acetilaminoguatacolo. L'acetilaminoguaiacolo è stato descritto nei suoi caratteri in una Nota pubblicata da Ficther e Schwal (') ed era stato ottenuto per acetilazione del 4. aminoguaiacolo. Noi l'abbiamo invece ottenuto per riduzione dell’acetilderivato di un azoguaiacolo (l’ortotoluolazo) per mezzo della fenilidrazina che, come è noto, è stata recentemente adoperata, come riducente anidro, da Oddo e Puxeddu (*) per ottenere gli aminofenoli dagli ossiazocomposti. Il prodotto da noi ottenuto in questo modo facilmente ed in quantità quasi teorica corrisponde nel punto di fusione e nei suoi caratteri chimici al prodotto di Ficther e Schwal: cristallizzato infatti dalla benzina due o tre volte si ha in scagliette lucenti che difficilmente imbruniscono all'aria, p. f. 118-122°. Si scioglie negli idrati alcalini senza però dare la colorazione caratte- ristica rosso-granato degli azoguaiacoli ed è solubile negli acidi, al contrario di quanto avviene per questi azocomposti. Ora se, come alcuni vorrebbero, la costituzione di questi p.ossiazo, fosse analoga a quella degli orto ed il gruppo acetile non fosse stabilmente le- gato all’ossidrile fenico ma al gruppo azoico, avrebbe dovuto formarsi per riduzione l'aminoguaiacolo il quale come è noto però fonde a 177-178°. Chimica — ZWeriori ricerche sopra alcuni sali complessi dell’iridio. — Iridoossalati. Nota di C. GIALDINI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Sale di argento. Ir(C?04)* Ag? .3H?0. Il sale di argento può ottenersi sia per doppia decomposizione del sale di potassio col nitrato d'argento, sia dalla soluzione primitiva, contenente l'acido iridoossalico col nitrato o con l’acetato di argento. Molto meglio però è adoperare l’acetato che non il nitrato, poichè l'acido nitrico posto in libertà dalla reazione (ed anche in parte il nitrato potassico) agiscono energicamente sulla soluzione del sale ed in breve la decompongono, specie colla concen- trazione e col riscaldamento. Per ottenere il sale di argento adoperai una soluzione di iridoossalato potassico ben raffreddata e vi aggiunsi una soluzione di acetato di argento in leggero difetto. Ottenni immediatamente un precipitato giallo arancio denso e fioccoso che si depose al fondo del vaso. (') Berichte, loc. cit. (3) Gazz. Chim., 1905, II 598. — 649 — Il liquido sovrastante resta però sempre colorato in giallo più o meno carico, e ciò a causa della solubilità del sale d'argento nell'acqua. Questa circostanza permette di avere per cristallizzazione il sale puro di argento. Ottenuto perciò il precipitato, questo venne filtrato alla pompa e lavato un paio di volte con acqua freddissima, indi sciolto nella minor quantità pos- sibile di acqua calda. Occorre filtrare la soluzione, giacchè può contenere ossalato di argento insolubile, se il sale fu preparato dalla soluzione pri- mitiva. Il filtrato, limpidissimo, è di un colore giallo d'oro; evaporato dolce- mente a b. m. e poiraffreddato, lascia cristallizzare una magnifica sostanza in aghi gialli setacei splendenti, che asciugati su carta bibula sì fanno ri- cristallizzare dall'acqua. Da una soluzione di questo sale, satura a freddo e posta in essiccatore su acido solforico, ottenni, dopo alcuni giorni, hei campioni di cristalli che misuravano più di due centimetri di lunghezza. Il sale di argento ha tre molecole di acqua di cristallizzazione e dalle ana- lisi più sotto riportate si deduce la formula Tr(C405):MA9?. 3 HZ 0? La sua soluzione scaldata per molto tempo si decompone parzialmente; come pure si decompone per l'azione della luce, degli acidi minerali anche diluiti ed infine per quella delle basi. Il sale secco, riscaldato su lamina di platino assume poco a poco una bella colorazione rossa, sempre più intensa, finchè verso i 145-150° improv- visamente esplode con estrema violenza. Importantissimo sarebbe lo studio della sua potenza esplosiva, la quale ha reso difficile ed assai pericolosa la sua analisi. Infatti, avendo pesato una certa quantità di questo sale, circa tre decimi di grammo, e postala in crogiolo di porcellana con coperchio di platino forato per sottoporla all’azione del calore in corrente d’idrogeno, giunto il riscaldamento ad un certo punto, avvenne, improvvisa, una esplo- sione che ridusse il crogiolo in polvere ed il coperchio di platino fu lanciato a grande distanza riducendolo una palla come battuta al martello. Riscal- dato però il sale lentamente in stufa ad aria si può arrivare fino a 130° senza che avvenga esplosione alcuna. A 110° perde tutta la sua acqua di cristallizzazione, nè varia più di peso per aumento di calore o di tempo. Posto allora il sale di argento in erogiolo di porcellana tarato lo tenni nella stufa ad aria fino a peso costante, determinando in tal guisa l'acqua di cristallizzazione; dopo raffreddato aggiungevo poche gocce di acido nitrico diluito facendo evaporare il liquido a bh. m. Ripetuta questa operazione per tre volte, calcinai il residuo, prima a bagno d'aria, indi a fiamma diretta in corr. d’idrogeno. Ebbi in tal guisa il peso dell'iridio più quello dell'ar- gento. Trattavo allora nel crogiolo stesso di porcellana il residuo con acido nitrico diluito e dopo liscivazione con acqua pesaro nuovamente l'iridio solo. — 650 — Dal filtrato precipitavo l'argento con eloruro di sodio e pesavo il cloruro di argento in un crogiuolo di Gooch tarato. Restava da determinare il residuo ossalico, direttamente colla combu- stione, ma ciò non mì fu possibile pel pericolo di una quasi certa esplosione. Ecco ì risultati analitici del sale d'argento: I. 0.5317 gr. di sostanza trattati con acido nitrico, calcinati in ero- giolo tarato, indi asportato l'argento con acido nitrico diluito, hanno dato un residuo di iridio di gr. 0,1231. II. 0,5707 gr. di sostanza hanno perduto a 120° gr. 0,0364 di acqua; il residuo trattato come sopra ha dato gr. 0,1322 di iridio e gr. 0,2900 di cloruro d'argento, equivalenti a gr. 0,2183 di argento. III. 0,8975 grammi di sostanza trattati come sopra hanno perduto gr. 0,0605 di acqua; ed ‘hanno fornito gr. 0,2062 di iridio, gr. 0,5788 di cloruro d’argento eguali a gr. 0,4357 di argento. IV. 0,9175 gr. di sostanza hanno perduto gr. 0,0632 di acqua ed hanno dato gr. 0,4752 di cloruro di argento equivalenti a gr. 0,3577 di argento. V. 0,8205 gr. di sostanza hanno perduto gr. 0,0550 di acqua; ed hanno fornito gr. 0,1889 di iridio, gr. 0,4225 di cloruro d’argento eguali a gr. 0,3180 di argento. VI. 0,5370 gr. di sostanza hanno lasciato un residuo di gr. 0,1252 di argento. VII. 0,5275 gr. di sostanza sciolti in acqua e trattati con acido clo- ridrico, hanno fornito gr. 0,2724 di cloruro d’argento ; equivalenti a gr. 0,2050 di argento. Il filtrato, evaporato in crogiolo di porcellana, calcinato in corr. di idrogeno ha dato un residuo di gr. 0,1254 di iridio. Riferendo i risultati a 100 parti di sostanza avremo: Calcolato Trovato LI, ea TR 0023312 23;l5 23,16, 22,98 —. ‘23020 23:91 02377 940) Re 64/0002 - - —_ —_ — — _ SrA o re re 223: 03879 — 38,25 38,56 38,98 38.76 —_ 38,87 O) te ono I 6,47 _ 6,37 6,74 6,88 6,70 — — Ir(C? 04)° Ag*.3H*0 834,84 100,00 Il sale di argento Ir(C° 04)? Ag*.3H°0, dato lo stato di grande purezza a cui può ottenersi si prestava molto bene per qualche determinazione di indole fisico-chimica, diretta a stabilire il grado di complessità che questo sale presenta a forti diluizioni acquose. Era infatti assai interessante lo sperimentare se ad una concentrazione acquosa molto piccola esso subisca soltanto la dissociazione elettrolitica, ovvero vada incontro a dissociazioni d’indole secondaria derivanti dalla de- — 651 — molizione del suo complesso. Ciò, come è noto, può dimostrarsi anche con mezzi puramente chimici, con la facoltà cioè, che presenta questo sale di dare o no dei doppi scambi in soluzione acquosa; ma in modo più sicuro risulta da determinazioni fisico-chimiche, le quali ultime possono essere di svariata natura. Ho eseguito in proposito alcune determinazioni crioscopiche in acqua, spingendomi fino a fortissime diluizioni (0,16 gr. di sostanza per 100 grammi, 50) 150 / I risultati ottenuti da tali determinazioni sono riassunti nel seguente vale a dire adoperando una soluzione più diluita di un specchio : DETERMINAZIONI CRIOSCOPICHE IN ACQUA SUL SALE D'ARGENTO. Grammi di Grammi di Grammi di sostanza Abbassamento Peso solvente sostanza per 100 gr. di solvente osservato molecolare o 19.34 0,0414 0,1605 0,02 202,8 — 0,1104 0,4250 0,05 216,4 _ 0,1772 0,9121 0,08 216.6 7 780.8 h, : Teoria = Tono 195,2 Media= 211,9 . Da tali determinazioni risulta un peso molecolare medio di 211,9, va- lore che corrisponde a circa la quarta parte del peso molecolare, quale si calcola per il sale Ir(C? 05)? Ag?. Tale risultato: dimostra, come è noto, che il sale di argento trovasi in soluzione acquosa scisso in quattro ioni: [[Ir(C705)*]— Ag — Ag'Z24p7 vale a dire nell’anione complesso iridoossalico e nei tre ioni argentici. Le determinazioni crioscopiche eseguite dimostrano inoltre in linea ge- nerale che gli iridoossalati da me ottenuti, non subendo a forti diluizioni una decomposizione idrolitica, sono senza dubbio da ascriversi tra i veri sali complessi, come avevo accennato nella parte generale del presente lavoro. Sale di piridina. [Ir(C*0*)*](C* H*N)?.3H?0. Importanti sono i sali che l'acido iridoossalico fa colle basi organiche. Di questi ne ho potuti ottenere diversi e tutti ben cristallizzati, ma mi limito qui a descrivere il solo sale di piridina, ottenuto anch'esso da quello LIS di potassio Ir(C°* 04)* K*.4H®0 per doppio scambio col cloridrato di piri- dina. Si può notare a questo punto che la piridina non agisce quando è sotto forma di base libera, ma è necessario, per farla entrare in combina- zione, che sia salificata con un acido che le ceda il suo idrogeno, per for- mare il sale del tipo ammonio C* H° N, o piridonio, col quale allora facil- mente avviene il doppio scambio [Ir(C® 0*)*]K5 + 33 H°NC1=[Ir(C® 0*)](C3H°N)* +8 KC1. Saturata dunque la piridina con acido cloridrico, l'ho fatta reagire a freddo sulla soluzione acquosa satura di iridoossalato potassico. Il liquido risultante, filtrato e concentrato a debole calore a bagno maria, lascia ab- bondantemente cristallizzare dapprima il cloruro potassico formatosi nella reazione. La concentrazione deve essere spinta fino ad ottenere un liquido vischioso e densissimo, che viene posto in un essiccatore nel vuoto. Dopo circa un giorno comincia a cristallizzare il sale di piridina. Occorre filtrare alla pompa per liberare il sale dal liquido vischiosissimo che lo accompagna, si lava poi nel filtro stesso con poca acqua fredda. Così ottenuto il sale di piridina si presenta sotto forma di sottilissime laminette esagonali di color rosso-arancio, splendenti, untuose al tatto e so- lubilissime nell'acqua. Cogli acidi diluiti è stabile anche a caldo, ma cogli acidi concentrati presto si decompone. Cogli alcali svolge piridina e si forma il sale complesso corrispondente alla base introdotta, ma scaldando lungamente precipita l'os- sido d'iridio che poi si ridiscioglie nell'eccesso di reattivo. Scaldato su lamina di platino, il sale di piridina, fonde svolgendo densi fumi, poi brucia e lascia un residuo costituito da iridio metallico splendente. Cristallizza con tre molecole di acqua che perde a 115°. Nell’analisi, fu prima determinata l'acqua di cristallizzazione scaldando una certa quantità del sale nella stufa ad aria fino a peso costante; dopo aggiungevo qualche goccia di acido nitrico e scaldavo gradatamente fino a calcinazione completa, pesavo poi il residuo costituito dall'iridio, come ho detto per gli altri sali. L'azoto fu determinato come azoto elementare, col metodo Dumas. Ecco ora i risultati analitici dell’iridoossalato di piridina : I. 0,1407 gr. di sostanza hanno perduto a 115° gr. 0,0104 di acqua; calcinato il residuo come è stato sopra detto, ha lasciato gr. 0,0358 di iridio. II. 0,2946 gr. di sostanza trattati come sopra hanno lasciato un re- siduo di gr. 0,0755 di iridio. III. 0,1407 gr. di sostanza hanno perduto gr. 0,0102 di acqua, la- sciando poi un residuo di iridio metallico di gr. 0,0361. — 653 — IV. 0,8717 gr. di sostanza hanno fornito cc. 16,5 di azoto equiva- lenti a gr. 0,020748. Calcolato per Trovato [ Ir(C®04)8] (C5H° N) .3H®0 In ei a 20,08 25,44 25,65 25,65 — FINE Ro 000 _ = _ 5,95 3H?0 5 7,19 (939 _ 7,24 —_ Iridoossulato di Barito. [1x(C°0*)*]? Ba? .5H?°0. Quando si versa in una soluzione concentrata e fredda di iridoossalato potassico una soluzione di cloruro di bario, si forma tosto un denso preci- pitato che si depone rapidamente ed il liquido sovrastante resta quasi inco- loro. La reazione che ha luogo è la seguente: 2Ir(0? 04)? K° + 3 Ba C1.= [Ir(C® 04]? Ba + 6KC1. Questo precipitato è l’iridoossalato di bario. Lavato ed asciugato si presenta sotto forma di una polvere micro-cristallina impalpabile di colore giallo chiaro; è pochissimo solubile nell'acqua calda, cogli acidi concentrati si decompone rapidamente. Non fonde, brucia con piccola esplosione e lascia un residuo spugnoso costituito da iridio e carbonato baritico. L'analisi fu fatta in due diverse maniere. Nella prima si scioglieva il sale di bario a caldo, aiutando la soluzione con acido cloridrico; appena questa era com- pleta, si precipitava il bario con la quantità strettamente necessaria di acido solforico; dopo riscaldamento si filtrava il precipitato per un filtro tarato e si pesava il bario allo stato di solfato; il filtrato veniva evaporato e quindi calcinato in crogiolo di porcellana per poi dosare l’iridio allo stato metailico. D'altra parte, pesato il sale in crogiolo tarato, veniva riscaldato fino a peso costante in stufa ad aria, per dosare l’acqua di cristallizzazione; il crogiolo veniva in seguito lentameute riscaldato fino a calcinazione completa; poi con acido cloridrico diluito si asportava il bario allo stato di cloruro e si pesava al solito come solfato, nel crogiolo restava il solo iridio. Ecco ora i risultati analitici del sale baritico. I. 0,5293 gr. di sostanza scaldati a 125° hanno perduto gr. 0,0336 di acqua. II. 0,38270 gr. di sostanza hanno lasciato un residuo di gr. 0,0390 di iridio; ed hanno fornito gr. 0,1603 di solfato di bario. IIT. 0,3377 gr. di sostanza hanno lasciato un residuo di gr. 0,0915 di iridio. IV. 0,6626 gr. di sostanza hanno lasciato un residuo di gr. 0,1792 di iridio ed hanno fornito grammi 0,3328 di solfato di bario equivalenti a gr. 0,2004 di bario. — 654 — V. 0,5957 gr. di sostanza hanno lasciato un residuo di gr. 0,1617 di irìdio; fornendo poi gr. 0,2969 di solfato di bario equivalenti a gr. 0,1747 di bario. VI. 0,6423 gr. di sostanza hanno perduto a 125° gr. 0,0416 di acqua; ed hanno fornito gr. 0,3200 di solfato di bario equivalenti a gr. 0,1883 di bario. Riferendo i dati a 100 parti di sostanza si ha: Calcolato per Trovato [Ir(C 04°]? Ba. 5 H?0 È ema = _———rcxrrccc::::r_.rr;r-<: > TÉT'P'P- I JI III IV V VI DAT: ERE RI PRRAR ZO DO St 97,210 2709027042714 _ Si Bat Re 2901 — 28,85 _ 29,56 29,33. 29,32 5JH2 0 IGI8G BO mao ce Z= i 6,47 CONCLUSIONE. Dalle molteplici esperienze riferite risulta dunque chiaramente che l’iridio nella sua forma trivalente, dà, come altri metalli, nella stessa forma di combinazione, ossalati complessi molto stabili. Gli ividoossalati da me ottenuti corrispondono al tipo generale Me" (C°0*) R° che è il tipo più comune degli ossalati complessi dei metalli trivalenti. Nell'iridio sembra perciò sinora mancare il tipo infe- riore Me''(C° 04) R che il Rosenheim (') ha ad esempio trovato per liAl, Hel Ordl Resta ora a vedere se è possibile ottenere degli ossalati complessi della forma bivalente; certo la potenza riduttrice dell'acido ossalico non sarà più sufficiente e si dovrà ricorrere all'aiuto di qualche altra sostanza a potere riducente più energico. Sarebbe anche molto interessante stabilire, se è possibile, l'esistenza di ossalati complessi derivati dall'Ir!, del tipo cioè Ir (C* 04) R°. Ma piut- tostochè di tipo puro è prevedibile l’esistenza di ossalati misti dell'lr!”, la cui preparazione è possibile avvenga per addizione di radicali acidi agli ossalati da me preparati e derivati dall'Ir'"”. Attualmente sto tentando l'azione dell’acido nitroso sopra gli iridoos- salati Ir(C° 04) M?; il che può condurre a due risultati, o rimanere nel tipo trivalente dell’iridio, ovvero passare ad ossalonitriti dell’Ir®. Però il comportamento specialmente del platino, fa prevedere che si riuscirà diffi- cilmente a preparare ossalati puri o misti dell’iridio tetravalente. In ciò, del resto, l'iridio seguirebbe il comportamento di molti altri metalli fra cui, per rimanere nell'8° gruppo il Pt ed il Pd, che non hanno ossalati com- plessi derivati dalla forma superiore di ossidazione, ma soltanto dalla loro forma bivalente. (*) Zeitschr. f. Anorg. t. XI, pagg. 225 e 226. — 655 — Contemporaneamente alle ricerche che sto compiendo nell'indirizzo sopra esposto, rivolgo specialmente la mia attenzione all'intento di ottenere l'acido libero Ir(C? 04) H°, come è stato ottenuto quello Pd(C?0*)? H?.6 H° 0 dal Loiseleur (*). Se riuscirò, come spero, ad isola retale acido tribasico, sarà questo uno dei pochissimi esempi di stabilità offerti da acidi complessi po- libasici, e si presterà certamente a molte considerazioni sia dal lato teorico . che sperimentale. Chimica. — Diffusione di elettroliti in soluzione acquosa e nelle gelatine (*). Nota di B. L. VAnzETTI, presentata dal Socio G. KOERNER. In una precedente Comunicazione furono esposti i risultati di esperienze eseguite in collaborazione col prof. G. Bruni (*), allo scopo di studiare il modo come diffondono attraverso la gelatina elettroliti di varia natura. In quel nostro lavoro ci fu dato di controllare e di confermare alcune eleganti esperienze eseguite da Buscalioni e Purgotti e rese publiche negli Atti del- l'Istituto botanico della R. Università di Pavia. Esponemmo allora le ragioni che ci portavano ad una diversa interpre- tazione del fenomeno che riguarda la formazione di setti separati, quando nei tubi di gelatina si incontrano due sali capaci di reagire tra di loro, formando due precipitati insolubili (come è il caso del solfato di argento col cloruro di bario). Quegli sperimentatori, tratti forse in inganno da una fortuita corrispondenza numerica nei valori rappresentanti il cammino per- corso dalle soluzioni, credettero di scorgere in questo fenomeno elementi suf- ficienti per appoggiare la ipotesi della diffusione indipendente degli ioni e ne deducevano una loro legge che avrebbe permesso di calcolare il cam- mino fatto dai singoli ioni e di stabilire così il punto preciso in cui tali precipitati si dovevano formare; applicavano cioè, in altre parole, agli ioni in soluzione la legge di Bunsen sulla diffusione dei gas, affermando che la loro velocità di diffusione è inversamente proporzionale alla radice quadrata del loro peso. (1) Compt. Rend. t. CXXXI, pag. 262. (2) Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica organica della R. Scuola superiore di agricoltura di Milano. (8) Sulla diffusione degli elettroliti. R. Accad. Lincei, XV, 5, 11 (1906). Io ringrazio il prof. Bruni alla cui iniziativa è dovuta questa ricerca e che gentilmente ha messo a mia disposizione una parte del materiale occorrente; ed il direttore della Scuola prof. Koerner della cui ospitalità usufruisco, e che ha seguito sempre con interesse lo svolgersi di questi lavori. RenpicontI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 87 — 656 — Noi credemmo piuttosto di scorgere la ragione di quei fenomeni in un semplice fenomeno di sovrasaturazione, senza correre il rischio di mettersi in contraddizione con fatti e deduzioni ormai definitivamente acquisiti alla dottrina elettrochimica. Si presentava inoltre come più verosimile che una relazione dovesse esistere tra la velocità di diffusione degli ioni in soluzione .e le loro mobilità elettrolitiche, e ci pareva che ciò si sarebbe potuto forse dimostrare, qualora si fossero messi a confronto tra di loro soluzioni aventi ioni di peso diverso, ma dotati di velocità di migrazione pressochè eguali. Un grande ostacolo si presentava anzitutto nella scelta di tali esperienze, perchè, se è facile trovare serie di elementi che soddisfano alle due condi- zioni sopra accennate, molto più difficile è trovarne che diano anche, e con uno stesso ione, dei sali insolubili, o che nelle gelatine formino una precipita- zione netta; così per es. alcuni degli alogeni (bromo e specialmente iodio), i quali dànno con l'argento dei sali che sono certamente tra i meno solu- bili, formano nella gelatina dei precipitati diffusi, vere soluzioni colloidali sostenute dalla gelatina e forse anche combinazioni più complesse, così che gli stessi autori sopracitati dovettero rinunciare a servirsene per i calcoli delle loro esperienze. La nostra scelta cadde allora sul gruppo dei metalli alcalini: NH,, K, Rb, Cs, il cui peso relativo cresce nello stesso senso delle mobilità elettrolitiche (peso relativo risp. 18 — 39,15 — 85,4 — 133 e mobilità re- lative: 64,40 — 64,67 — 67,60 — 68,2) e scegliemmo come termine di pa- ragone la reazione dei loro cloruri con il cloroplatinato solubile di sodio. Certo questi elementi non dànno dei sali insolubili nel senso stretto della parola, infatti la solubilità dei loro cloroplatinati, che sono certamente i loro sali meno solubili, sono rispettivamente: 0,724, 0,74, 0,193, 0,021 a 0° in 100 di acqua. Però adoperando soluzioni sufficientemente concentrate, sì ‘pote- rono avere delle precipitazioni nette, che si deponevano costantemente nello stesso punto. Furono messi a confronto da prima i sali di NH, e di K, i quali hanno press'a poco identica solubilità allo stato di cloroplatinati: la esperienza si eseguiva così nel modo più semplice e spiecio. In un tubo cilindrico di vetro, del diametro interno di circa 15 mm. e lungo circa 25 cm., si preparava uno strato di 10 cm. di gelatina all’8 °/,, in modo che occupasse la posi- zione centrale ed avesse le estremità nettamente tagliate. Ai due lati della gelatina si ponevano le due soluzioni, di cloruro alcalino e di cloroplatinato sodico, chiudendo le due estremità con un tappo di gomma portante un tubo di vetro ricurvo verso l'alto, a fine di mettere il liquido in comunicazione con l'esterno. La diffusione dei due sali verso l'interno della gelatina dava luogo col loro incontro, alla formazione del precipitato. Le soluzioni saline erano molto concentrate e precisamente quelle del cloruro erano 4-normali, quelle del cloroplatinato solubile #-normali. — 657 — Tanto per il sale di ammonzo, quanto per quello di potassio si osservò la formazione del precipitato cristallino di cloroplatinato, dalla parte del Na» PtCl, pressa poco nella stessa posizione e cioè a 2,5 cm. circa con- tando da sinistra. Il precipitato cristallino è diffuso, ma la sua posizione si può leggere bene. Ora, la legge di B. e P. richiederebbe che i precipitati si formassero in posizioni differenti dato il peso differente dei due ioni NH, e K-, e cioè il primo dovrebbe aver percorso più strada nel medesimo tempo; invece se una differenza si rende evidente, essa dimostra che il sale di NH, si trova un po’ più a destra, verso la soluzione del cloruro, il che vorrebbe significare che l’ione NH, avrebbe fatto il cammino un po meno rapida- mente dell'altro. Soluzione Soluzione del di Naz Pt Cl Cloruro alcalino LI || È \ il na AL \ù 7 i A ] Î 410 Quattro coppie di cilindri hanno dato identici resultati. Confrontando poi tra di loro i sali dei metalli alcalini che dànno un cloroplatinato meno solubile, e cioè il Rb ed il Cs, l'esperienza riesce ancor più chiara e dimostrativa, e si vedono i rispettivi cloroplatinati formarsi in setto netto e compatto a circa 4 cm. da sinistra, nella identica posizione entrambi, già adoperando soluzioni normali; e ciò costantemente per 5 coppie di cilindri, con una nettezza quale non si poteva desiderare migliore. Ciò dimostra adunque che Rb e Cs, non ostante il loro peso relativo differente, hanno fatto lo stesso percorso nello stesso tempo; sono cioè do- tati della stessa velocità di diffusione. Dunque anche i risultati delle esperienze ora esposte escludono l’appli- cabilità della legge di Bunsen alla diffusione degli elettroliti in soluzione e non contradicono affatto, anzi paiono confermare la ipotesi che esista una relazione tra le mobilità elettrolitiche di tali sostanze e la loro velocità di diffusione nell'acqua. Chimica. — Za costituzione dei sali di Roussin (*). Nota II di Livio CAMBI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Nell'intento di ampliare sempre più la base sperimentale dell'ipotesi da me emessa (*) sulla costituzione dei sali di Roussin, volli studiare più det- tagliatamente, di quello che finora non fu compiuto, l'azione dei cianuri me- tallici sui nitrosolfuri. Roussin aveva già notato (*) che per azione dei cianuri sui suoi sali si formavano nitroprussiati; ed in base a questa trasfor- mazione, ed a quella reciproca da lui pure osservata nell'azione dei solfuri alcalini sui nitroprussiati, egli costruì un paralielo fra le due serie di sali, ritenendo che in entrambi i tipi il gruppo nitrosilico avesse una funzione analoga. Nella mia ipotesi, ritenendo che i sali di Roussin siano sali ferrici e che l'aggruppamento NO agisca da monovalente, per ispiegare la formazione di nitroprussiato contenente questo l'NO come molecola di biossido di azoto, cioè in una forma ossidata rispetto a quello dei nitrosolfuri, doveva ammettersi una contemporanea riduzione del ferro con probabile formazione di ferrocia- nuro. Nell’azione dei cianuri alcalini sui sali di Roussin si formeranno per doppio scambio iponitrito e solfuro alcalino insieme con ferrocianuro e nitro- prussiato ; il solfuro alcalino agisce però sui nitroprussiati rigenerando nitro- solfuri, deve quindi raggiungersi un equilibrio complesso (4). Io ho fatto agire contemporaneamente cianuro mercurico e cianuro potassico sull'eptanitrosolfuro di potassio; e precisamente per un peso espresso da K . Fe, Sz (NO), .H.0, il primo in quantità equivalente allo solfo, il secondo nella quantità necessaria per la completa formazione di ferrocianuro. Supponendo che si avesse precipi- tazione di solfuro mercurico, e per completo doppio scambio iponitrito alca- lino, insieme a ferrocianuro e nitroprussiato contemporaneamente. La reazione però può procedere anche più oltre: l'iponitrito alcalino già a freddo e più velocemente a caldo specie in soluzione diluita si scinde in alcali e protossido di azoto; l’'alcali agisce sui nitroprussiati (*) secondo l'equazione III II II II K,. Fe (CN) NO + 2KOH = K,. Fe (CN); NO, + H,0 (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (2) Questi Rendiconti, vol. XVI, serie V, 2° sem., pag. 542. (®) Roussin, Annales, 58 [3]. 1858, pag. 300. (4) La formazione di nitrosolfuri dai nitroprussiati può con grande probabilità ricon- dursi allo schema generale della formazione dei nitrosolfurì da me esposto nella Nota precedente. (5) Hofmann, Zeit anorg. Ch. 11-279. — 659 — generando il ferronitritocianuro, questo per azione del cianuro di potassio può liberare nitrito potassico formandosi ferrocianuro. Nell'azione definitiva dei due cianuri sul nitrosolfuro ho ottenuto in realtà solfuro mercurico, nitrito alcalino, ferrocianuro. Versando nella soluzione contenente i due cia- nuri quella di nitrosolfuro si ha immediata precipitazione di solfuro mer- curico, e la soluzione assume il colore del nitroprussiato. Già a freddo si ha svolgimento gassoso la soluzione passa al colore giallo del ferrocianuro, velo- cemente scaldando. Il ferrocianuro si può ottenere concentrando, per cristalliz. zazione, oppure precipitandolo completamente con alcool. Il nitrito si può caratterizzarlo trasformandolo in sale argentico; precipitando frazionatamente con nitrato di argento le acque madri di cristallizzazione del ferrocianuro, separando prima il ferrocianuro di argento misto ad ossido, infine aggiun- gendo un eccesso di nitrato di argento a caldo; per raffredda mento si otten- gono i cristalli di nitrito di argento. Entrambi i sali ricristallizzati li analizzai: Gr. 0,5076 di ferrocianuro fornirono gr. 0,0966 di ossido ferrico. In cento parti: Calcolato Trovato Fe 13,21 13,52 Gr. 0,3318 di nitrito hanno prodotto gr. 0,3086 di cloruro di argento. In cento parti: Calcolato Trovato Ag 70,30 70,18 La reazione su esposta dal punto di vista generale può riguardarsi come una reversione della sintesi di Pavel degli eptanitrosolfuri: essa conduce in- fatti ad un solfuro, ad un sale ferroso, ad un nitrito. I fatti finora noti tutti si accorderebbero con la mia ipotesi sulla costi- tuzione dei sali di Roussin; ma debbo ora notare un fatto che è in disac- cordo con essa. Io avevo ammesso che, dall'insieme dei fenomeni osservati della precipitazione con nitrato di argento dei sali di Roussin, risultava come probabile che l’acido iponitroso riducesse i sali ferrici a ferrosi; ba- sandomi anche su alcune esperienze quantitative che mi condussero ai risul- tati aspettati. Da mie esperienze ora eseguite, mancando nella letteratura qualsiasi accenno sull'azione di iponitriti sui sali ferrici in soluzioni acide, risulta che l'acido iponitroso in condizioni normali non compie la riduzione supposta. Da questa constatazione occorre ammettere che o nel caso dei sali di Roussin intervengono fattori speciali che per ora sfuggono all'analisi, o che in essi l’aggruppamento NO (monovalente) vi sia contenuto in una forma tale capace di produrre la riduzione supposta ('). Bisognerebbe ammettere (1) Gli aggruppamenti che possono produrre iponitriti sono: — N:0; O0:N.N.0-; —O0.N:N.0—-. Il primo per polimerizzazione, il secondo per tautomerizzazione, il terzo di per sè stesso. — 660 — altrimenti, non considerando i miei risultati quantitativi, che nei sali di Roussin il ferro vi fosse contenuto allo stato ferroso per lo meno parzialmente, che quindi una parte dei gruppi NO agissero come molecole di addizione di bios- sido di azoto. Ma questa supposizione si accorderebbe difficilmente con varie reazioni presentate dai nitrosolfuri. Nell’azione della fenilidrazina (*) sui nitroepta- solfuri si ha precipitazione di ossido ferrico con svolgimento di azoto (?) e formazione dell'etere fenilico (C$H;), . Fe. Ss (NO), della serie tetra. Il sepa- rarsi ossido ferrico in presenza di un eccesso di fenilidrazina, in un ambiente riducente induce ad ammettere che il ferro preesista allo stato trivalente nel nitrosolfuro. Come è noto, i sali della serie seconda, che si ottengono per azione degli alcali degli eptasali, già spontaneamente, più rapidamente in presenza di acido carbonico riproducono i sali della prima serie; basterebbe saponificare l'etere fenilico per ottenere di nuovo il sale epta e su questo fare agire ancora la fenilidrazina: il che rende molto verosimile che tutto il ferro sia allo stato ferrico. D'altra parte Bellucci e Cecchetti (?) hanno dimostrato che l'idrazina, l'idrossilamina non agiscono sui sali di Roussin; quelle basi forniscono i sali corrispondenti. Questo fatto unito all’altro che la fenilidrazina stessa non agisce sul tretranitrosolfuro di fenile inducono a supporre che nei nitrosolfuri il gruppo nitrosilico è contenuto in una forma diversa che nei nitroprussiati; sui quali quei reattivi anche a bassa temperatura agiscono energicamente, riducendo. Da quanto dissi risulta la necessità di uno studio più dettagliato, quan- titativo, delle scissioni dei sali di Roussin in ambiente acido; studio che mi propongo di compiere. Chimica. — Osservazioni ad una Nota sulla velocità di eri- stallizzazione di miscele isomorfe. Nota di M. PADOA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Chimica. — A/eune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari. Nota di Lurcr MASCARELLI, presentata dal Socio G. Cra- MICIAN. Mineralogia. — Intorno alla tormalina dell’ Asinara (Sar- degna). Nota del dott. AURELIO SERRA, presentata dal Socio G. STRiVER. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. {‘) Hofmann e Wiede, Zeit. f. anorg. Chm. 11-288. (3) Gazz. chim. 1907, I, pag. 162. — 661 — Bacteriologia agraria. — Intorno al processo microbiochi- mico d'ammonizzazione nel terreno agrario. Nota del dott. R. Pe- ROTTI, presentata dal Socio G. CuBONI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI MiLLosevicH F. Studi sulle rocce vulcaniche di Sardegna. I: Le rocce di Sassari e di Porto Torres. Pres. dal Socio STRiVvER. PERSONALE ACCADEMICO Il Presidente BLASERNA comunica che hanno inviato ringraziamenti all'Accademia per la loro recente elezione: il Socio nazionale MOoRERA; i Corrispondenti: LAuRIcELLA, MARCcACCI, PERATONER, VASSALE ; i Soci stra- nieri: ALBRECHT, EHRLICH, LENARD, PAWLOW, Ramsay, RETZIUS, RoscoE. Lo stesso PRESIDENTE dà il triste annuncio delle perdite che colpirono l'Accademia, durante le ferie, nelle persone dei Soci seguenti : Von ZAcHARIAE GioRGIo, morto il 15 giugno 1907; era Socio straniero per la Geografia matematica e fisica sino dall’ 11 settembre 1904. KLEÎN CARLO, mancato ai vivi il 23 giugno 1907; apparteneva all'Accademia come Socio straniero per la Cristallografia e Mineralogia, dal 9 agosto 1899. ZeuNER Gustavo AntonIo, morto il 17 ottobre 1907; era Socio straniero per la Meccanica, dal 20 settembre 1887. Loewy MavrRIZzIO, morto il 15 ottobre 1907; era Socio straniero per l’Astronomia sino dall’ 11 settembre 1904. Il PRESIDENTE partecipa inoltre che l'Accademia si è associata alle onoranze che oggi tributansi in Firenze al Collega senatore PasquaLE VIL- LARI il quale dell’Accademia fu già Presidente; ed aggiunge che oggi del pari si onora in Martano, colla inaugurazione di un monumento, la memoria del compianto Socio prof. SaLvatoRE TRINncHESE. Da ultimo ricorda che — 662 — otto lustri sono trascorsi da quando il Socio senatore Ulisse Dini assunse l'effettivo insegnamento universitario ed accenna alla riuscitissima sottoseri- zione pubblica fra scolari ed ammiratori, dalla quale risulterà un premio per la matematica detto premio Dini, nessun festeggiamento personale avendo avuto luogo per espressa volontà del nostro Socio. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvicH presenta le pubblicazioni inviate in dono all'Accademia durante le ferie, dai Soci BAssANI, CANTONE, LokyER, Lo- RENZONI, Pascar, PizzeTTI, PFLUEGER, RAJNA, RAMON Y CAJAL, SCHIA- PARELLI: e dai signori LomBaRpI e MaiLLET. Richiama inoltre l'attenzione della Classe sulle opere seguenti: Regesto biografico Galileiano, dalla edi- zione nazionale delle Opere, del prof. Favaro; Vita e scritti vari di Carlo Linneo, dono della Università di Upsala; Relazione della Missione Russa per la misura di un arco di meridiano allo Spiteberg; Rapporto scien- tifico sui risultati zoologici del viaggio polare antartico della « Belgica ».. Il Socio CapELLINI offre le seguenti sue pubblicazioni: Guida del R. Istituto geologico in Bologna; Discorso per la solenne Commemora- zione di Ulisse Aldrovandi; Mastodonti del Museo geologico di Bologna. Il Socio Nasini fa omaggio della sua recente pubblicazione: Za Chi- mica-fisica e il suo passato, quello che è e quello che si propone, e ne discorre. CORRISPONDENZA Il Presidente BLAsERNA comunica una lettera colla quale la R. Acca- demia delle scienze svedese ringrazia l Accademia dei Lincei per la parte presa da quest'ultima alle onoranze tributate a CARLO LiNNEO. Il Segretario MiLLosevicA dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. Ringraziano per le pubblicazioni ricevute: La R. Accademia delle scienze di Lisbona; la Società Reale di Lon- dra; la Società degl'Ingegneri di Parigi; le Società geologiche di Calcutta, di Ottawa, di Sydney, di Manchester; il Museo britannico di Londra; il Museo di storia naturale di Nuova York; il Museo nazionale di Mexico; il Museo di zoologia comparata di Cambridge Mass.; il R. Istituto meteorolo- gico e magnetico di Budapest; gli Osservatorî di San Fernando e di Cam- bridge Mass.; la Biblioteca della Scuola politeenica di Zurigo. E. M. PERSONALE ACCADEMICO Blaserna (Presidente). Comunica che inviarono ringraziamenti per la loro recente elezione, il Socio nazionale J/orera; i Corrispondenti Lauricella, Marcacci, Peratoner, Vassale; i Soci stranieri Albrecht, Ehrlich, Lenard, Pawlow. Ramsay, Retzius, Roscoe . Pas. Zd. Dà annuncio della morte dei Soci stranieri Von Zochariae Giorgio, Klein Carlo, Zeuner Gustavo Antonio, Loewy Maurizio . . . 3 STIRIA ICARO ” Id. Ricorda le onoranze tributate ai Colleghi Villari e Dini. al i ibianto Socio prof. s Tri in- CRESCReniarparie: che; ad'essela preso) l'Accademia bro 0 PRESENTAZIONE DI LIBRI Millosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci Bassani, Cantone, Lokyer, Lorenzoni, Pascal, Pizzetti, Pllueger, Rajna, Ramon Yy Cajal, Schaparelli; dei dr Lombardi e Maillet, del prof. Favaro e della Università di Uppsala: SM E 0) BP I N Capellini. Offre due sue Ai SIIT ERBINENIO, lO TOR A i E Noro soiogdigunsuo)lavoroseme” parla: .. SRRMAMANiO oe I i CORRISPONDENZA Blaserna (Presidente). Dà comunicazione di una lettera di ringraziamento della R. Accademia svedese delle scienze . . , . MB ? SRO) Maillosevich (Segretario). Dà conto della ia relativa al DO) degli "Atti BEGAN) RENDICONTI — Novembre 1907. BNDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e natmrali. Seduta del 3 novembre 1907. MEMORIE R NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Mosso. Le armi più antiche di rame e di bronzo (*). . . Pas. Millosevich. Osservazioni delle comete c Giacobini, d Daniel Ci e Mellish 1907 fatte all'equa- toriale Steinheil-Cavisnato del R. Osservatorio astronomico al Collegio Romano . . » Battelli e Stefanini. Sulla relazione fra la tensione superficiale e la pressione osmotica (**) » Viola. Determinazione degli indici principali di rifrazione di un cristallo mediante i piani di polarizzazione (9) Ms io LIE DI RON Orlando. Sopra alcune equazioni intepiali tha, dal (Goo Tano di Lao Levi. Sulle equazioni integrali (pres. dal Socio Bianchi) . . . . RS) Boggio. Integrazione dell’equazione funzionale che regge la caduta di una cia in un liquido viscoso (pres. dal Corrisp. Levi-Civita). . . . FASSA) Zappa. Sulla più opportuna scelta delle declinazioni sl per ETRE le conigli stru- mentali azimut e collimazione e l'errore dell’orologio usando lo strumento dei passaggi in meridiano senza inversione (pres. dal Socio Millosevich). . . . ERRE iu Magri. Le stratificazioni nella scintilla elettrica (pres. dal Corrisp. Batlelli) e"): Ro) Rossi. Sulla radioattività della cotminite vesuviana (pres. dal Corrisp. Cantone). . . . 0» Colombano e Leonardi. Su alcuni derivati azoici del suaiacolo (pres. dal Socio Canzizearo) » Gialdini. Ulteriori ricerche sopra alcuni sali complessi dell’ iridio. — Iridoossalati (pres. /4.) » Vanzetti. Diffusione di elettroliti in soluzione acquosa e nelle gelatine (pres. dal Socio 0rzer) » Cambi. La costituzione dei sali di Roussin (pres. dal Socio Ciamician) . . . MS Padoa. Osservazioni ad una Nota sulla velocità di cristallizzazione di miscele isso (pres. TOO) VSC na a LTRIARE ZI Mascarelli. Alcune din dagli siglibii in Sini ten hi 1) e). SEA Serra. Intorno alla tormalina dell'Asinara (Sardegna) (pres. dal Socio StrWver)(®). . . >» Perotti. Intorno al processo microbiochimico d’ammonizzazione nel terreno agrario (pres. dal Sacio Cuboni) (tt), it BM A OE: MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Millosevich F. Studi sulle rocce vulcaniche di Sardegna. I: Le rocce di Sassari e di Porto Torres (pres, dal Socio Sfrwver) Osa... «RO E ” (Segue in terza pagina) (*) Questo lavoro sarà pubblicato nei volumi delle Memorie. (*#*) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Pubblicazione bimensile. Roma 17 novembre 1907. N. 10. AO REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO. | CGI. 1907 recbebo it O, UBEb, LÀ RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del A7 novembre 1907. Volume XVI. — Fascicolo 10° 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1907 —— _——-_— ii E ———_— _P_____ ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti: 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon» denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri ‘un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus; sioni verbali che si fanno nel seno :dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - @) Con mna proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o în esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è messa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCE] Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 17 novembre 1907. F. p'Ovipio Vicepresidente. MI&MORFIS E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Fisica. — Sulla relazione fra la tensione superficiale e la pressione osmotica. Nota del Corrispondente A. BATTELLI e del prof. À. STEFANINI. 1. In una nota pubblicata in questi Rendiconti (*) abbiamo cercato di dimostrare, mediante considerazioni teoriche, che, per diluizioni sufficiente- mente grandi, debbono ritenersi isosmotiche quelle soluzioni che hanno ugual tensione superficiale. Il prof. Sella pubblica ora (*) alcune osservazioni che, a suo parere, met- tono in dubbio la validità di quella dimostrazione. In ciò che segue noi ci proponiamo di far vedere che quelle osservazioni non toccano il nostro ra- gionamento, il quale, insieme con le conclusioni che ne abbiamo tratto, ri- mane giusto dentro i limiti di approssimazione che ci siamo imposti nella Nota sopra citata. La nostra dimostrazione si fonda sopra un'ipotesi contenuta implicita- mente nel ragionamento che facemmo, per passare dal caso di due soluzioni separatamente messe a confronto col solvente puro (equazioni 5 e 6 della nostra Nota sopra citata) al caso delle medesime due soluzioni confrontate fra di loro (equazione 7). E tale ipotesi è la seguente: Se in due soluzioni 1, 2, delle quali le superficie libere siano poste sopra uno stesso piano oriz- zontale, immergiamo due tubi capillari di ugual diametro, e se poniamo (1) Vol. XVI serie 5°, 1° sem., pag. 11. (3) Vol. XVI serie 5°, 2° sem., pag. 384. RenDpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 88 — 664 — questi due capillari in comunicazione mediante una camera contenente il solo vapore del solvente — com'è indicato nella figura 1 — è possibile, sotto determinate condizioni, disporre le cose in modo, da ottenere l’equilibrio fra le due soluzioni e il vapore che sovrasta i menischi nei capillari. Ammesso questo, risulta evidente la relazione 2d fon (045) (1) DÒ DAS $9 S fra le tensioni di vapore p. e ps delle due soluzioni, le loro tensioni super- TITTI Hi dA A A LL) BGA ficiali @,, @», i loro pesi specifici s,, ss, la densità media 4 del vapore, e il raggio dei due tubi capillari. Ora il Sella nota che in un sistema così costituito ha luogo l’'evapora- zione anche delle superficie libere delle soluzioni e che per l'equilibrio è necessario disporre quelle superficie a livello diverso, non sullo stesso piano orizzontale. Perciò la relazione (1) dedotta in questa ipotesi, secondo il Sella, non potrebbe sussistere. Ma, sebbene non sia esplicitamente notato nella pubblicazione alla quale il prof. Sella si riferisce, è chiaro che la distillazione dalle superficie libere delle due soluzioni è eliminabile con i più semplici artitizî usati nelle trat- tazioni termodinamiche. Infatti, per questo basterà togliere le superficie stesse dal contatto con l’ambiente esterno, sia sovrapponendovi un liquido privo di tensione di va- pore, sia sovrapponendovi uno stantuffo perfettamente mobile. Facendo così non c'è più da preoccuparsi che dell'evaporazione dai menischi capillari i quali si trovano ad altezze pie 2a, $10 2d he= ire — 665 — dalle superficie dei liquidi in cui sono immersi i tubi; e per ottenere l’equi- librio basterà disporre questi menischi ad altezze diverse, in modo che cia- scuno sopporti dal vapore sovrastante quella pressione che gli compete. Ma le altezze h, e %> dipendono da o, e la loro differenza può assumere quel valore che più ci piace variando convenientemente il raggio dei tubi. Dunque se la soluzione che si dispone ad un livello più alto ha una tensione di vapore più piccola, noi possiamo mantenere allo stesso livello le superficie esterne e rendere la differenza %» — /, tale, che la colonna di vapore ANI Bre. 2: che intercede fra i due menischi abbia un peso uguale alla differenza delle tensioni di vapore relative ai due menischi; allora questi sopporteranno ognuno la pressione che è necessaria per l'equilibrio e non vi sarà passaggio di liquido da una soluzione all'altra. Esprimendo che questa condizione è verificata, si trova la relazione (1). Se, contrariamente a quanto abbiamo supposto qui sopra, il liquido che sì dispone a un livello più alto sopporta, nell'equilibrio, una tensione di va- pore più grande, basterebbe rifare le stesse considerazioni sopra lo schema della figura 2. Allora i livelli esterni sarebbero disposti ad altezze diverse e i menischi sarebbero posti sullo stesso piano orizzontale. Si intende che in tal caso, per impedire l'evaporazione dei menischi, è necessario sovrapporvi o lo stantuffo ideale o il liquido privo di tensione di vapore, e tale, per di più, che non alteri la tensione superficiale delle due soluzioni. Dunque anche in questo caso si può stabilire una relazione analoga alla (1) e precisamente 2d 5 2) Pb oa Ti . (0) Sì Sa Però in questo caso le tensioni di vapore che compariscono nel primo — 666 — membro sono quelle che competono alle superficie piane delle due soluzioni; ossia sono le tensioni di vapore propriamente dette delle due soluzioni. Per avere una formula valevole per i due casi, scriveremo 2d(a a; 2 i ina Ò (2) 1 1 A s, 2. Il prof. Sella afferma che, per avere il dislivello a cui si debbono trovare le due superficie dei menischi perchè non avvenga da essi la distilla- zione, bisogna operare nel seguente modo: In una camera ripiena del solo vapore del solvente siano due reci- pienti (fig. 3) contenenti le due soluzioni; perchè vi sia equilibrio, le superficie ENrGansi delle due soluzioni dovranno trovarsi a un dislivello K. tale, che la differenza delle tensioni di vapore delle due soluzioni sia uguale al peso della colonna di vapore di sezione unitaria e di altezza K. Se poi nei due liquidi si immer- gono due capillari di ugual diametro, si avranno due ascensioni di altezza h, ed hs a seconda delle loro coesioni specifiche. Se chiamiamo 4 la diffe- renza fra gli estremi delle superficie nei capillari, nel caso dell'equilibrio, essendo 4 la densità media del vapore, vale la relazione: i ia = ua) Tutto ciò sta benissimo, ma non contraddice in nessun modo le nostre osservazioni, che sì riferiscono a casi essenzialmente diversi. Del resto è note- vole il fatto che anche per questa via si può ritrovare il nostro risultato. ea — 667 — Infatti, 4 dipende dal raggio dei tubi capillari; orbene, prendiamo tubi tali che 4 sia zero. Ciò sarà possibile ogni volta che si tratti di tali soluzioni, che quella che ha un'altezza capillare maggiore abbia anche una tensione di vapore maggiore. Per queste soluzioni si avrà dunque con un raggio conve- niente dei tubi capillari Para d(h ho), ossia l'equazione (1) a cui eravamo arrivati per altra via. 8. Stabilita così la relazione abbiamo dimostrato che quando due soluzioni hanno tensioni superficiali uguali e sono sufficientemente diluite, esse hanno anche uguali sensibilmente le tensioni di vapore e quindi le pressioni osmotiche. Le osservazioni che il prof. Sella fa sopra quest'ultima parte del ragio- namento sono giuste, ma è facile vedere che esse sono solamente formali. Infatti, per dimostrare quella proposizione si può ragionare così: conside- riamo una coppia di soluzioni che abbiano le tensioni superficiali uguali, ego, — e allora sarà (3) Pi Pa = 206 IS _ -) sà (o) Sì Sq S ammesso che per quella coppia nella (2) valga il segno +. Ora, diluiamo le due soluzioni mantenendole sempre di ugual tensione superficiale. Per tutte le nuove coppie che così si ottengono ci sarà un particolare valore di pel quale varrà la relazione (3). Ma procedendo con la diluizione, il binomio 1 IRAN et an: s nei diventa sempre più piccolo e tende verso zero. Insieme con esso Sì 2 tenderà verso zero la differenza fra le due tensioni di vapore, quando si am- st ae 1 1 o: RAR A metta che al diminuire del valore (3 —_ =) non diminuisce con uguale rapi- Sl Sa dità il valore di @. Noi faremo tale ipotesi, la verità della quale sarà provata dalla concor- danza fra le risultanze sperimentali e quelle teoriche. Posto ciò, le soluzioni potranno sempre ridursi tali da avere sensibil- mente la stessa tensione di vapore o relativamente a menischi capillari di ugual curvatura, o relativamente a superfici piane. Però, secondo le ipotesi sopra ammesse, si vede subito che se due soluzioni hanno uguale tensione di vapore rispetto a due menischi capillari di ugual curvatura, esse hanno ugual tensione di vapore anche rispetto alle superficie piane. Quindi abbiamo ancor sempre la couclusione generale che, se due solu- zioni hanno ugual tensione superficiale e sono sufficientemente diluite, esse hanno anche ugual tensione di vapore e quindi ugual pressione osmotica. Cristallografia. — Determinazione degli indici principali di rifrazione di un cristallo mediante i piani di polarizzazione (*). Nota del Corrispondente C. VioLa. Questo metodo è conosciuto e anche impiegato per la determinazione dell'indice di rifrazione nel corpi isotropi, mentre nei cristalli è negletto. Eppure esso può rendere utili servizi oggi che il polarimetro a penombra è reso molto sensibile. Mi permetto in primo luogo di richiamare alla memoria questo metodo, come è applicato nei corpi isotropi, indi tratterò dei cristalli. Chiamando con é l'angolo di incidenza di un raggio luminoso monocro- matico proveniente da un mezzo isotropo (il vuoto, l’aria ecc.), il quale incida su un piano riflettente di un secondo mezzo isotropo, e con 7 l'an- golo di rifrazione di quel raggio tra il primo e il secondo mezzo, sì avrà, come è noto um — 900, quando 7, è l'angolo di polarizzazione. Con questa relazione è trovato 7, e quindi l'indice di rifrazione n da x sen7,= senz,. Non è affatto indi- spensabile ricorrere all'angolo di polarizzazione per avere il suo corrispon- dente angolo di rifrazione. Si può anzi con più efficacia, e direi con più semplicità ed esattezza, assumere un qualsiasi valore dell'angolo di incidenza % diverso da 7,, tenendo conto del grado di polarizzazione, il rapporto costante di Fresnel, fra la tangente dell'angolo 0 che il piano di polarizzazione del raggio riflesso fa con il piano di incidenza, e la tangente dell'angolo e che il corrispondente piano di polarizzazione del raggio incidente fa con lo stesso piano di incidenza, e preso nello stesso senso: ta 2 Magro (cose?) (1) L ge cos(é — 7)” Si assume a piacere l'angolo «, e si determina con un polarimetro sensibile a penombra l'angolo o. Per avere il grado di polarizzazione, la costante K, per qualsiasi valore di 7, si scelgono varie coppie di 0 e #, e si fa la media aritmetica dei vari valori di K così ottenuti e affetti di errore. Risolta la (1), dà (2) tag i tagr= pr ; da cui risulterà 7 e quindi l'indice 7, a senz = senz. (?) Lavoro eseguito nel Gabinetto di mineralogia della R. Università di Parma. — 669 — Questo modo semplice e direi elegante di determinare l’indice di rifra- zione di un corpo isotropo con la sola riflessione, e basato sulla nota rela- zione (1) di Fresnel, può trovare applicazione nei cristalli a uno o a due assi ottici. Per dimostrare questo, dovremo ricorrere alle leggi, che reggono il feno- meno della riflessione su piani riflettenti dei cristalli immersi in mezzi iso- tropi. Queste leggi passano, come è noto, sotto il nome di Mac Cullagh (1). È necessario che noi le esponiamo, sia pure brevemente, prima di passare alle conseguenze utili al nostro scopo. Bed. Sia ancora % l'angolo di incidenza e di riflessione su un piano riflettente di un cristallo in contatto con un mezzo isotropo rispetto al quale si vuol conoscere gli indici di rifrazione del cristallo. Siano 7, e r» (fig. 1) (°) i due angoli di rifrazione corrispondenti, ai quali si riferiscono due piani di polarizzazione facenti con il piano di incidenza 7) i rispettivi angoli 4, e 3». Si continui a chiamare con o l'angolo di polarizzazione del raggio riflesso e con e quello del raggio incidente rispetto allo stesso piano di incidenza e preso nello stesso senso. (1) F. Neumann, Berliner Akademie, Abhand]g., 1855, pag. 144; Mac Cullagh. On the Laws of cristalline Reflezion and Refraction, Dublin, Trans. 18 (1837), pag. 51; A. Cornu, Recherches sur la Réflezion cristalline, Ann. Chim. et Phys., Paris, 1867, pag. 283; F. Pockels, Zehrb. d. Kristalloptik, 1906, pag. 185. (*) Nella figura 1, Z è il polo del piano riflettente, Q,il polo di un'onda rifratta, Q: quello dell’altra ed j) rappresenta il piano di incidenza. — 670 — Mac Cullagh ha dimostrato che esistono due speciali valori dell'angolo &, quali «, e «», corrispondenti a due speciali valori dell'angolo 0, quali 0, e 03, per cui il secondo raggio rifratto (7.) o rispettivamente il primo (7,) è di intensità nulla, e li ha denominati ac:muti uniradiali. Le espressioni di essi nella elegante forma data da F. Pockels (*), sono le seguenti: : sen® 7 tag e, = cos() — 7) tag 9, — - — tag 7 pie | tag da sen(é +7) cost, 3? sen? 79 Tao e, —:C09( — o) ©; Ta olivon CHA a)ltag 3. sen(é + 72) cos 93.1 908 (83) sen? 7, tacco, = — cos(éd + r,;)tac 9, © —— 1 tag 7 cali Ur ea sen(îé — 71) cos 9, e? È sen? 79 taro. = — cos(i--Mltagg, = tanti sen(7 — 73) cos ds essendo 7, e 7» gli angolì che i raggi luminosi nel cristallo fanno con le normali alle rispettive onde rifratte. Conosciuti così gli azimut uniradiali, ogni altro azimut o è determi- nabile facilmente in funzione dell’azimut e del raggio incidente. La fun- zione lineare che lega i due azimut è allora la seguente: Btace4+D O tage=t parco. essendo le costanti A.B,C,D date come appresso: A=M—N;B=Ntagoo—Mtagoo; C=—Mtage 4 Ntagea,; (5) Re, 0 Î senlé +). y__ senli—"n) — sen(î+r:)’ © ——senli—rz) 0). Incidentalmente sia ricordato che la relazione (4) esprime che l'inter- sezione dei due piani corrispondenti di polarizzazione, l’ uno del raggio inci- dente, l’altro del raggio riflesso, descrive una superficie conica di secondo grado, la quale contiene ancora i due raggi incidente e riflesso. Anche fra corpo isotropo e cristallo esiste l'angolo di polarizzazione %, quando e, = 0:="0, per qualsiasi valore di e. Ma non avvenendo la pola- rizzazione del raggio riflesso nel piano di incidenza come nei corpi isotropi, si suol chiamare l'angolo 0, la deviazione polarizzatrice. L'angolo di polarizzazione soddisfa alla condizione che il raggio riflesso è normale a una retta, la quale è l'intersezione di due piani polari; e come (1) F. Pockels, op. cit., pag. 185; A. Cornu, op. cit., pag. 828. (3) F. Pockels, op. cit., pag. 151; A. Cornu, op. cit., pag. 335. Le (3; Ca piano polare sì intende, secondo Mac Cullagh, un piano normale al piano di polarizzazione della rispettiva onda rifratta e facente, nel più dei casi, un piccolo angolo con il raggio e la normale all’onda (’). Si comprende da ciò che non si potrà sempre ricorrere all'angolo di polarizzazione per determinare gli indici di rifrazione del cristallo, poichè vi sono incognite che esso non è in grado di risolvere. Ma vi sono d'altro canto certe posizioni dell'onda rifratta, facili a riconoscersi, che possono dare completamente la chiave del problema. Dovremo quindi ricercare questi ar- tificìè, ma converrà considerare a parte i cristalli a un asse ottico e i cri- stalli a due binormali (assi ottici). Cristalli a un asse ottico (fig. 2) (@). — In questi cristalli essendo uno dei due raggi rifratti sempre ordinario, sarà 7,= 0; onde i due azimut uniradiali di Mac Cullagh saranno dati così: tage, = cos(é —r,)tagd9,, tago, = — cos(é + 71)tagd,, sen? 773 6 2= C0S(î — 73 = = AL (6) tag e» cos(i — rs) tag, = > E) a, tag 7., i sen? 7» = — C0S ?9 oa ; È 3 tag 0: cos(é + 7) tag 4, (A ag Ty (1) F. Pockels, op. cit., pag. 188 e 189. (*) Nella figura 2, A è il polo dell’asse ottico, Z il polo del piano riflettente, Q; il polo del raggio ordinario e Qa il polo dell’onda straordinaria, j) è il piano d'incidenza. RenpICONTI. 1907. Vol. XVI, 2° Sem. 89 — 6072 — dove si assumerà il segno -- quando l'indice ordinario 0 è maggiore del- l'indice principale e, e il segno — viceversa. Le posizioni speciali dell'onde rifratte, che dovremo considerare nei cristalli a un asse ottico, sono date dalle condizioni seguenti : 1 Ae2i—=1902E Di vii==0,.12==9088 5) Le onde rifratte sono normali all'asse ottico; 4) L'angolo di polarizzazione 7, è tale, che il piano polare dell'onda straordinaria passa per il raggio ordinario. E passiamo ad esaminare uno a uno questi singoli casì speciali. Dr 902(1e9)E In questo caso la sezione principale del cristallo passante per il raggio ordinario è normale al piano di incidenza. La sezione principale che passa per la normale all'onda straordinaria non sarà normale al piano di incidenza, poichè Q, non coincide con Q., ma in ogni modo l'angolo 3, sarà molto vicino a 180°. Ciò posto, le tangenti degli azimut uniradiali saranno: tag ef== 00 , tago,= 0 tag «, e tag o» piccolissimi. Inoltre sì hanno i rapporti seguenti : tager ___coslitm) tago» tageo j__A tage, (WNW cos(CES)® tag e, tags Fi tag e, Ciò posto, la relazione (4) si riduce alla seguente N cos(i + n), N cos(î +7) Coe mins. th tag e: + af cosi) e” Siamo liberi di assumere a piacere l'angolo es e quindi anche molto grande la sua tangente. Non è all'opposto nel nostro arbitrio l'angolo o, il quale è dipendente da 7% e 7. Per esempio, allorquando 7= 7, l'angolo @ diviene la deviazione polarizzatrice 0, qualunque sia «. Ma possiamo dare all'angolo di incidenza 7 un valore distante da 7, sicchè la tag o sia grande quando lo è tag e. Allora di fronte ad esse i membri che contengono tag 0» e tag e, nella (4,) sono piccolissimi e trascurabili. Si raggiungerà perciò una sufficiente approssimazione, scrivendo semplicemente: tag e Nest) _ 1a A fi. tao 8 =” cos(i— ri) K, (costante); intendendo che questa costante di polarizzazione dovrà essere determinata in base a grandi valori di tago e tags e per corrispondenti valori dell'an- golo di incidenza 7. rr — Introducendo quivi per M ed N i loro valori dati dalle (5), avremo: (7a) geni irene — Id ossia (8) sen(e 4 72) K tag(dA4- 71) “x toc speri 5 sen(d — 73} © Se fosse dato uno di essi, p. es. 7,, sarebbe determinabile facilmente l’altro 7». L'esattezza di 7, a parità di condizioni dipende da quella di K,, cioè dalla costante di polarizzazione, la quale, come si è detto, va determi- nata per grandi valori di o e e. Anche qui la costante K, potrà risultare come la media aritmetica di più determinazioni affette da errore, da aversi per varie coppie di 0 e «. Interessa sapere dove vengono a trovarsi tutti i raggi ordinarî per 1 quali 9,= 90°, ovverosia il rapporto tag 0 : tag «e = costante. A tale intento sia di nuovo Z il polo del piano riflettente del cristallo, fig. 3, e sia A il polo dell'asse ottico; /) rappresenti ancora un qualsiasi piano di incidenza, e siano Q, e Q: i poli delle onde ordinaria e straordi- naria. Il cerchio massimo passante per A e Q,, taglierà ad angolo retto il diametro //, se vuolsi che 4, = 90°. Il detto cerchio è infatti il luogo di una sezione principale nella quale è polarizzato il raggio ordinario. — 674 — Come si vede nella fig. 3, i due angoli g e w, che individuano la po- sizione di Q, sono legati dalla relazione (9) 1=coshtaggtagy; e segue da qui che il raggio ordinario dal polo Q, fa parte di una super- ficie conica di secondo grado nella quale sono contenuti l'asse ottico e la normale del piano riflettente. L'intersezione di questo cono con la sfera fondamentale è nella fig. 3 tracciata a tratti in proiezione stereografica. Quando l'onda rifratta è normale all'asse ottico, i poli Q, e Q» cadono in A esìha7,=7>=7; 8 allora dall'equazione (7,) risulta cos (fo + 70) Co cos (îo — 70) = K epperò senz =" 0 sen 79 come pei corpi isotropi. In questa equazione K è misurato, 2) può essere noto, e può essere determinata l'incognita 75. Si può ricavare un criterio per rendersi conto se l'onda rifratta è nor- male all'asse ottico. Infatti, se nell'equazione (7) si sostituisse 7, in luogo di 73, si avrebbe cos(é +7) = me = peri = cos(i — 73) e “i Sicchè, determinando 7; con la relazione (11) rt pe cos(é — 71) si avrebbe per 71 un valore che non è eguale a 7, e precisamente ri ==MM Per 10 7). Calcolando poi l'indice fittizio #1 con la relazione ; sen 7 METTI sen 7 questo indice sarebbe VAS OTIS] cioè sempre maggiore o sempre minore dell'indice vero. Epperò il valore di o che si ottiene dalla (11) sarà o un massimo o un minimo secondo che 7» = 7), allorchè l’onda rifratta risulta normale all’asse ottico ('). È tag (1) A. Cornu nell’op. cit. considera bensì il rapporto n 5 tico, ma non indica il criterio per riconoscere questo luogo. nel luogo dell'asse ot- — 675 — 2) Jj=0,9,= 90°. In questo caso la sezione principale del cri- stallo, la quale contiene il raggio ordinario e straordinario, è piano di inci- denza; è rappresentato nella fig. 3 dal diametro ZAZ/. Gli azimut uniradiali sono : tage,=0 , tago,=0 , tageo = , tagoo=0%0; e inoltre risultano i seguenti rapporti: i sen? 73 — cos(2 P2) = = — tao ts tag 03 (ande sen(f — 72) ° ae I sen? 7: 3 O. cos(î —r.) © ——- tag. sen(2 + 73) tag oi E tag e, 0 A\ tag e» ° tage» di o In conseguenza di ciò il rapporto fra le tangenti di o e e è una costante, vale a dire os(7 + 70) QOt tao COS (2 Tio;) = =:777 pars Ta (12) tag 0 M tes senz eo tag N sen? 73 cos(îf — 7°) © ———- tag 7, ( sen(d+ 72) > Ma in questa espressione si possono eliminare i termini che contengono tag 7», essendo questa piccolissima nella maggior parte dei casi. Possiamo scrivere il detto rapporto così: ct ag 0 sen(é +7.) sen27— sen 27, == sen°r> tag 73 tape (N senile — 73) sen24-| sen 273 sen?7; tag c. dove infatti i termini che contengono tag 7» sono trascurabili per rispetto a sen2 e sen27, ove questi siano scelti sufficientemente grandi. Avremo dunque semplicemente: tag 0 M cos(é + 73) 2 È — — — > È te). (13) e Nagel n) K, (costante) Sostituendo poi i valori di M ed N dalla (5) si deduce tag 0 tag((— 7.) sen(é+71) = — —® . = = — K, (13%) tag e tag(7 +47.) sen(é—-71) 5 ossia (14) K tag (6 + 7.) __senlée 4”) ° tagli—r.) seni —r) Questa relazione che è in tutto analoga alla (8), contiene due indici di rifrazione 7, e 7», e può perciò essere utilizzata per determinare uno di — 676 — essi quando fosse noto l'altro. Se fosse dato 7,, converrebbe risolvere la detta relazione per via di approssimazione; metodo spedito e anche suffi- ciente per raggiungere l'esattezza che si desidera. È facile vedere che tutti i raggi i quali soddisfano alla condizione che F,=0 e ds= 90° si trovano sopra un piano, che è la sezione principale del cristallo normale al piano riflettente e data nella fig. 3 dal diametro LAZI. Abbiamo così due luoghi dei raggi ordinarî soddisfacenti alla condi- zione che il rapporto ugo = costante, tag e il cono di secondo grado e la sezione principale normale al piano riflettente. Se anche in questo caso speciale l'onda ordinaria e straordinaria saranno normali all’asse ottico e quindi 7,=7,==%,, ricaveremo dalla (13) di nuovo la nota espressione cOS(éo + 70) _ K: COS (Îo — 70) ; nella quale 7, è l’unica incognita, essendo misurabili 2; e K. Anche proce- dendo con il raggio ordinario lungo la sezione principale, si cadrà nell'asse ottico, e il criterio per riconoscere ciò sarà analogo a quello che si è veduto per passare nell’asse ottico seguendo col raggio ordinario il cono di secondo grado. Se infatti si scrivesse la relazione 13 semplicemente così cos(it ri) — = cos (î — 71) ; si otterrebbe per 7; un valore differente di 7, e un indice 7%’ sempre mag- giore o minore di o finchè il raggio ordinario non cada nell'asse ottico. Sicchè, quando ciò avvenga, l'indice avrà o un valore massimo o un valore minimo. 3) Il raggio ordinario coincide con l’asse ottico. Questo terzo caso speciale è stato esaurito nei due casi precedenti. 4) L'angolo di incidenza è l'angolo di polarizzazione 7, e la devia- zione polarizzatrice 0, è nulla, essendo tag 4, diversa di zero. In questo caso l'espressione dell'azimut uniradiale ©, tago, = — c0S(i, + 7,)tag d, ci dice che deve essere 7, +7,= 90°, vale a dire che il raggio riflesso è normale al raggio ordinario rifratto, ossia il piano polare pp, fig. 2, dell'onda straordinaria passa per il raggio ordinario. Se vi è un piano di incidenza, che soddisfa a questa condizione, ve ne devono essere due che si trovano simmetricamente disposte rispetto alla sezione principale /AZ/; ossia questo — 677 — piano divide per metà l’angolo che fanno i detti due piani di incidenza. È facile dimostrare che questa condizione può verificarsi quando il polo Z del piano riflettente ha una posizione determinata e favorevole rispetto al polo A dell'asse ottico. Consideriamo infatti l’espressione che dà l’'azimut uniradiale 0, messa sotto la forma 2 cosd, tago, =[— sen 25 + sen2r,] seng, = 2 sen? 73 tag 7. DS) Quivi è da tenersi il segno + per 0 >e ossia 7, > 7, e il segno — nel caso opposto. Supponiamo dapprima che sia 7, < 7». Per 7:.=0, ossia quando il raggio straordinario è normale all'asse ot- tico, sarà tag o. <0; per 4, > 90° sarà tag o» > 0. Dunque tag 0» passerà dal segno negativo al segno positivo, e quindi anche per zero. Se poi 7, > 7», sarà tago» > 0 per 9,=0 e <0 per 7.=0. E anche qui tag o, passera per zero. Allorchè la normale al piano riflettente farà un piccolo angolo con l’asse ottico, non si potranno avere piani di incidenza, a causa della riflessione totale, in cui l'angolo di polarizzazione avvenga per tagr:=0, e allora questo quarto caso speciale sarà escluso. Oltre di ciò, come si è detto, anche nella sezione principale AZ, come piano di incidenza, l'angolo di polarizzazione 7, avrà luogo con la deviazione nulla; ma questa posizione del piano di incidenza dovrà essere esclusa per la determinazione dell'indice 0. Essa divide per metà l'angolo che i due piani di incidenza sopra citati fanno fra di loro. Procedimento per determinare i due indici principali di rifrazione o ed e nei cristalli a un asse ottico. — Consideriamo dapprima una po- sizione generale del piano riflettente per rispetto all'asse ottico del cristallo. Si girerà il piano di incidenza fino a che l'angolo di polarizzazione 7, abbia luogo con deviazione nulla. Vi sono tre posizioni o una sola di questo piano. Nel caso ve ne siano tre, una di esse divide per metà l'angolo che fanno le altre due, e dà la posizione della sezione principale del cristallo normale al piano riflettente e che contiene l’asse ottico. Nelle altre due posizioni del piano di incidenza, l'angolo di polarizzazione soddisferà alla condizione if + r,= 90°, e quindi l'indice di rifrazione sarà o=tagtî,. Fissata la sezione principale, si assumerà in questa, come piano di in- cidenza, un qualsiasi angolo di incidenza i e per varie coppie di angoli o e e si determinerà la costante DI — — K., RC SOS A — 678 — con la quale si calcolerà l’angolo 75 facendo uso della formola cos (7 + 75) __ JI DEODETA COS (? — 72) — e quindi l'indice di rifrazione fittizio 7 sen 7 io sen 7, Questa operazione si ripeterà sopra varî valori dell'indice di rifrazione, e allora il minimo o il massimo valore di tutti gli indici 7° che così si ot- terranno, sarà l'indice 0, e così sarà pure data la posizione dell'asse ottico. Nello stesso tempo si avrà un controllo dell'indice o. Se poi non esistono i tre piani di incidenza per i quali l’angolo di polarizzazione abbia luogo con la deviazione 0, nulla, ma solamente uno, allora questo sarà senz'altro la sezione principale AZ, e in questa si determinerà l'indice o con la costante come si è detto or ora. Trovato uno degli indici di rifrazione principali sì passerà alla deter- minazione del secondo. A quest'uopo si assumerà di nuovo la sezione prin- cipale come piano di ìncidenza, e quivi, per un qualsiasi angolo di inci- denza 7, sì determinerà la costante e poscia risolvendo la relazione K tag(i(d=- 71.) __senll4+n) tag (0 — 72) senli—7) si calcolerà 7», e da quest'angolo l'indice intermedio 7, da n, sen 7, = senz, essendo noto 7, da o senz, = senz. Conosciuto ora 7, si otterrà l'indice e dalla equazione dell'ellisse messa sotto la forma sen (h— 73) 1 + = e* Na cos? (A — #3) lola poichè h — 7» è l'angolo che la normale all’onda straordinaria fa con l'asse ottico essendo % l'angolo che la normale al piano riflettente fa con l'asse ottico, fig. 3. Si potrà avere e come la media aritmetica di diversi valori, da ottenersi assumendo varî valori dell'angolo di incidenza %. Da questa esposizione si vede che una sezione del cristallo a un asse ottico è in generale sufficiente per determinare i due indici principali di ri- frazione col mezzo dei piani di polarizzazione del raggio incidente e riflesso; ma perchè il problema sia pienamente risolvibile, occorre che il piano ri- flettente abbia una posizione favorevole. Una posizione di esso è per es. as- SOM: solutamente insufficiente, quando cioè il piano è normale all'asse ottico. In questo caso infatti i piani di incidenza sono tutti egualmente situati rispetto all’asse ottico, sono le sezioni principali; cosicchè la scelta si restringe a un solo piano di incidenza. Quivi non è possibile un raggio incidente incli- nato verso il piano riflettente, al quale corrisponda un raggio rifratto avente la direzione dell'asse ottico. E non è nemmeno possibile un angolo di pola- rizzazione tale, che il piano polare dell'onda straordinaria passi pel raggio ordinario. Vedremo però che anche questo caso sfavorevole si presta ad una soluzione, ma approssimata. Una sezione molto favorevole è allorquando essa è parallela all’asse ot- tico. Nel piano di incidenza normale all'asse ottico, l'angolo di polarizzazione avviene appunto in guisa che il piano polare dell'onda straordinaria passa pel raggio ordinario. Per esso vale 2, 4-7, = 90°; ed è sufficiente tanto per la diretta determinazione di 0, quanto per la determinazione dell'asse ottico. Di più in questo piano di incidenza per un qualsiasi valore di 7 sono gli angoli di polarizzazione 4, = 90° e d,= 180°; onde si ha tag «= 00, tago, = 0%, tages=0, tago.=0 e di più tagzs=0. Per conseguenza sarà rigorosamente: tago — N coslo+”.) tage M coslî—7) = K, (costante); e sostituendo i valori di N ed M: sen (7 + 73) _ taglit71) sen(/—=073) iitagi(( 97) Quivi 7, è noto essendo o senz, = senz. L'indice 7, che da questa equa- zione si ricaverà, è misurato normalmente all'asse ottico, onde si avrà senz'altro e sen 7, = senz. In una prossima Nota tratterò dei cristalli a due binormali, e in una terza Nota riporterò alcuni dati sperimentali. RempIconTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. ° 90 — 680 — Fisica. — Le stratificazioni nella scintilla elettrica (). Nota di L. MAGRI, presentata dal Corrispondente A. BATTELLI. 1) Nello studio del complicato meccanismo della scintilla avrebbe par ticolare importanza l'osservazione della luminosità che si desta nell'aria per il passaggio della scarica, ma tale luminosità è ordinariamente così de- hole in confronto di quella provocata da altri fenomeni, che quasi sempre sfugge all'esame che si fa con lo specchio rotante o con lo spettrografo. Nel caso della scarica oscillatoria (che è quello che adesso ci occupa) i vapori metallici staccati dagli elettrodi sono quelli che danno luogo a quei partico- lari luminosi così vivaci e così splendenti che si osservano comunemente nella scintilla, mentre poi queste masse metalliche luminose non prendono parte attiva al trasporto dell'elettricità dall’uno all’altro elettrodo. Ho creduto utile esaltare lo splendore del gas attraversato dalla scarica facendo avvenire questa nell’aria compressa, ed ho potuto così osservare alcuni fenomeni che descriverò adesso brevemente. 2) Ecco come erano disposte le esperienze: nell’asse di un robustissimo recipiente cilindrico di acciaio del diametro interno di 16 cm. ho collocato due asticine metalliche portanti agli estremi due elettrodi quasi sempre di cadmio, qualche volta di ferro. Una di queste asticine è fissa ed è isolata dal resto del recipiente per mezzo di una grossa ghiera di ebanite; l’altra è invece in comunicazione con la massa del cilindro ed è serrata dentro un premistoppa in modo da poter scorrere avanti o indietro con l’aiuto di una vite. Riesce così agevole variare dall'esterno la lunghezza dell'intervallo di scarica. Nella parete del recipiente, di fronte agli elettrodi, è stato praticato un foro che può essere chiuso da un tappo a vite munito delle solite guarni- zioni per assicurare la tenuta d’aria; nel tappo a vite poi è stata masticiata una lastra di quarzo di 1 cm. di spessore e di 15 mm. di diametro, che permette l'osservazione della scintilla. Quest'apparecchio può sostenere a perfetta tenuta oltre 200 atm. di pres- sione ; nella pratica però non ho mai superato le 10 atm., perchè, volendo ottenere (come era il caso mio) delle scintille di quasi 1 cm. di lunghezza da condensatori di vetro, la differenza di potenziale esplosivo era in queste condizioni già così grande da compromettere il dielettrico delle bottiglie di (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di fisica dell’Università di Pisa, diretto dal pro- fessor A. Battelli. — 631 — Leyda e quello del manicotto che teneva l'asticina dello spinterometro isolata dal recipiente. Per facilitare e per rendere più regolare il passaggio delle scariche ho qualche volta introdotto nell'interno del cilindro alcuni pezzetti di pech- blenda. 8) La scintilla nell'aria compressa è naturalmente molto più brillante e molto più luminosa di quello che non sia nell’aria nelle condizioni ordi- narie; se poi la scarica è oscillatoria, si esalta non soltanto la luminosità dell’aria attraversata dalla scarica, com'era prevedibile, ma anche quella dei vapori metallici. Alla pressione atmosferica l’aureola che circonda la scintilla ottenuta con grande capacità, piccola resistenza e piccola autoinduzione è molto estesa; a pressione elevata essa diviene più luminosa, ma sì restringe notevolmente raccogliendosi intorno alla parte assiale della scintilla. Aumentando l’'auto- induzione, e per conseguenza il periodo, le successive scintilline elementari costituenti ogni scarica, nelle condizioni solite, avvengono in punti degli elettrodi sempre più lontani fra loro quanto più lungo è il periodo, appena si stabilisce una pressione un po’ rilevante (5 o 6 atm.) questo moto della scin- tilla sugli elettrodi cessa. e il più delle volte essa sì presenta a chi l'os- serva con l'aspetto di una scarica semplice e non di un ciuffetto di scintille, come appare nell'aria libera. 4) Tutto ciò del resto si vede anche più nettamente nello specchio rotante. Per questo ho disposto lo spinterometro a pressione ora descritto in posizione opportuna in uno dei soliti apparecchi per la fotografia delle scintille con lo specchio rotante, ed ho fatto molte negative in condi- zioni di circuito, di capacità e di pressione molto diverse. Il loro esame mostra che l'aspetto della scarica non è sostanzialmente diverso da quello che ha ordinariamente: il numero di oscillazioni per ogni scintilla resta im- mutato, e cioè lo smorzamento non cambia; la velocità con cui si muovono i vapori metallici non deve essere molto diversa da quella che si ha alla pressione atmosferica, perchè — almeno al semplice esame delle negative — le traiettorie dei vapori presentano press’ a poco la stessa curvatura in con- dizioni di pressione assai diverse, e si disegnano come ciuffi luminosi for- mati da più proiettili scagliati talvolta in vie diverse. L'intervallo d'aria riscaldato e reso luminoso dal passaggio della sca- rica va invece aumentando molto di splendore col crescere della pressione, e ciò si vede con maggior nettezza quando l'autoinduzione è abbastanza grande. In questo caso la scintilla pilota, che nell'aria aperta è esile e poco luminosa, diviene notevolmente grossa e vivace e per lo più distorta e tor- tuosa quasi come le scintille che siamo avvezzi a vedere fra gli elettrodi — 682 — non troppo allontanati di una macchina elettrostatica o di un rocchetto; anzi spesso è doppia, qualche volta aperta in mezzo e unica alle due estremità. Il gas, dopo il passaggio di questa scintilla, resta così ionizzato da divenire conduttore, e subito comincia attraverso ad esso il passaggio regolare della scarica con le leggi ben note. E le fotografie così fatte mostrano con grande chiarezza che l’aria interposta fra gli elettrodi diviene luminosa nei massimi d'intensità della corrente e non emette, o quasi, radiazioni luminose nei mi- nimi, e che il passaggio della scarica segue (anche nei periodi lenti) abba- stanza bene il cammino tracciato dalla pilota, tanto che le successive scin- tille d'aria — chiamiamole così — son tutte simili fra loro e simili alla pilota. Lo splendore dei vapori e quello delle scintille d'aria col progredire della scarica va a mano a mano indebolendosi, ma assai più rapidamente per quest'ultime che per i primi. 5) Nelle scariche ottenute usando circuiti di notevole autoinduzione ho osservato frequentemente il fatto singolare che le prime scintille d'aria, cor- rispondenti alle prime mezze oscillazioni d'ogni scarica, sono stratificate: la prima spesso dimostra questo fenomeno molto nettamente, meno netta- mente la seconda, molto meno la terza e solo di rado la quarta e le suc- cessive. L'aspetto di queste stratificazioni è analogo a quello che siamo abituati a vedere nei tubi a vuoto; ma però esse sono meno regolari, il loro numero varia da una scintilla ad un’altra anche se ottenute in apparenza nelle me- desime condizioni; non ho mai potuto vederle a pressione bassa ma sempre al di sopra di 7 od 8 atmosfere; le ho avute invece variando assai il periodo di oscillazione. La figura qui unita mostra appunto una di queste fotografie di scintille ingrandita di oltre due diametri; essa fu fatta usando un condensatore di 0,0015 microfaraday ed una autoinduzione di 4500000 cm. Avverto però che la riproduzione in zinco rende pochissimi dei particolari della negativa, — 683 — nella quale si vedono molto nettamente sette strati nella prima mezza oscil- lazione e cinque nella seconda, mentre nella terza cominciano ad esser confusi. Che io mi sappia, è questo il primo caso fino ad ora notato di scintilla stratificata in simili condizioni. Mi sembra che per la spiegazione di questo fenomeno si possano accettare senz'altro le idee così chiaramente espresse dal Thomson sulla formazione degli strati nei tubi a vuoto, tanto più quando si rammenti che esse rendono perfettamente ragione di un fenomeno che pre- senta con questo grandi analogie, e cioè la stratificazione della scarica di un rocchetto che attraversi una fiamma che arda liberamente nell'aria. La presenza di queste stratificazioni non richiede affatto l'ipotesi che la scarica avvenga in questo caso con discontinuità, e nemmeno quella che essa dipenda da fatti di costrizione elettromagnetica del genere di quelli studiati dal Bary (!). Chimica. — Su/la solanina estratta dai germi del Solanum tuberosum Linn. (*). Nota di Amepeo CoLomBANO, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Nella prima Memoria pubblicata in collaborazione col prof. Oddo sulla Solanina estratta dal Solanum sodomaeum, di fronte alle notevoli differenze che si hanno ne’ caratteri analitici e quindi alle numerose formule grezze che si propongono per questa sostanza, si esponeva il dubbio che « sia dai vari So/anum, che dallo stesso secondo lo stato di vegetazione, si « formassero dei prodotti che pur avendo analogia di comportamento hanno « composizione diversa » (8). Questa supposizione però allora veniva espressa col massimo riserbo, non trascurando nello stesso tempo di notare che altre cause potessero influire su questi fatti, così ad es. i metodi di estrazione e quelli di purificazione, adottati per questo glucoside, che pur si credeva, fino ad allora, facilmente saponificabile. Allo scopo di poter chiarire questi fatti ho pertanto voluto stabilire delle esperienze al proposito estraendo, nelle stesse condizioni, la solanina dalle diverse parti d'uno stesso Sol/anum e confrontando questi campioni fra loro e quindi con quella del S. sodomaeum estratta e purificata nello stesso modo, e con la solanina che si ha in commercio. Ho trovato così che la solanina estratta da diverse parti (germi e fiori) del S. tuberosum, pur variando nella quantità, presenta gli stessi caratteri (1) Ze Radium, vol. IV. pag. 328 (1907). (*) Lavoro eseguîto nell’Istituto chimico-farmaceutico dell’ Università di Cagliari, diretto dal prof. L. Francesconi. (3) Gazz. Chim., XXXV (1905), I, 36. e rele — 6084 — fisici ed analitici, caratteri che essenzialmente non differiscono da quelli di un campione di solanina del commercio, estratta sempre dal S. iuderosum ma in condizione e con metodo differente, mentre questi caratteri differiscono da quelli della solanina ottenuta dal sodomaeum. Più ancora però che nei caratteri analitici (come è noto, i più piccoli errori sperimentali tollerabili in tutte le determinazioni di azoto, possono far variare notevolmente la formula grezza), una differenza maggiore si nota su- bito nel comportamento chimico di questa base di fronte agli acidi minerali diluiti, tanto a freddo che a caldo. Già F. Selmi fin dal 1877 aveva notato che « facendo sdoppiare certa « solanina di derivazione ignota ma che pur possedeva tutti i caratteri di « purezza, se ne otteneva una solanidina il cui cloridrato cristallizzava ar- « borescente od a stella dall'alcool, mentre con solanidina ricavata da sola- « nina di Merck, il cloridrato si deponeva in grossi cristalli, per lo più « isolati ed anche in ottaedri romboidali » ('). Analoghe osservazioni erano state pur fatte da molti altri che si occu- parono dell'argomento, ed anche noi fin dalla prima Nota avevamo rilevato una differenza notevole tra il punto di fusione della solanidina ottenuta dal sodomaeum e quella d'un campiene del commercio (*). Un'altra differenza però maggiore si ha nel comportamento della sola- nina stessa di fronte agli acidi minerali diluiti a freddo. Mentre la solanina estratta tanto dai germi che dai fiori o dalle bacche del S. uberosum, trattata con soluzioni acquose di acidi (HC1) forma sali corrispondenti solubili nell’acido stesso, quella invece estratta dal sodomaeum forma dei sali insolubili. Così basta sciogliere la solanina in soluzioni diluite di acido cloridrico (e lo stesso avviene, sebbene meno facilmente, col nitrico e solforico, mentre nessun indizio di formazione ho avuto cogli acidi organici), perchè dopo poche ore si depositi un cloridrato cristallino in splendidi ciuffi aghiformi che fondono a 208-209°. Questo cloridrato, solubile in acqua, forma facil- mente sali doppi ben fusibili coi cloruri di platino, d'oro e di mercurio e trattato con idrati alcalini sì decompone e dà acido cloridrico e solazina che presenta tutti i caratteri del prodotto di partenza. Detto cloridrato, all'analisi, dà una percentuale di alogeno di molto inferiore a quello che dà il cloridrato da noi precedentemente ottenuto per precipitazione, con etere, eel sale, dalla sua soluzione alcoolica, e ne diffe- risce da esso, oltre che nel punto di fusione, per i caratteri fisici e per la maggiore stabilità. Diversamente dalla solanina del sodomaeum si comporta invece quella del #uberosum. Difatti una certa quantità di essa (estratta con lo stesso pro- (1) Enc. Selmi, vol. X. (3) Gazz. Chim,, l. cit. Meet 1 — 685 — cesso e purificata nello stesso modo) trattata in eguali condizioni con acido cloridrico diluito, e lasciata in riposo, neppure dopo più di un mese dà in- dizio alcuno di cristallizzazione 0 precipitazione e separata dalla soluzione acida la base, questa presenta gli stessi caratteri del prodotto di partenza. Inoltre trattando la solanina del sodomaeum, riottenuta dal cloridrato insolubile e la solanina del fuderosum riottenuta dal sale solubile, con so- luzione diluita e bollente di acido cloridrico, entrambe dànno un cloridrato di solanidina insolubile, ed uno zucchero che riduce il reattivo di Fehling; però mentre dalla solanina del sodomaeum si ha una solanidina che si scioglie difficilmente in etere, e dopo ripetuti trattamenti fonde a 190-192° (e dopo raffreddamento rifonde alla stessa temperatura) invece dalla solanina del #uberosum si ha una solanidina che già a freddo è facilmente solubile in etere, dal quale poi cristallizza in bellissimi aghi setacei, che dopo una o due cristallizzazioni fondono a 210-215°. Uguali risultati si hanno parimenti con la solanidina ottenuta dalla solanina del #uberosum del commercio, e gli stessi caratteri di solubilità, cristallizzazione e fusione si ha per cam- pioni diversi di solanidina di Merck e di Kahlbaum ottenuta dal (uberosum. To credo pertanto che la differenza dei caratteri fisici e chimici dei vari campioni di solanina, estratta e purificata sempre in eguali condizioni, possa fin da ora autorizzarci ad asserire che la natura della solanina varia a se- conda del Solanum da cui deriva e che la solanina estratta dal S. fubde- rosum è essenzialmente diversa da quella del sodomaeum, il che è anche confermato dal fatto che un loro prodotto di decomposizione (la solanidina) si presenta con differenti caratteri. To ho in corso di studio la solanidina da me ottenuta dalla solanina del fuberosum, e diversi campioni di solanidina del commercio, e presto potrò renderne noti i risultati non privi di interesse; dirò solo per il momento che questi fatti, almeno con le esperienze finora fatte, non trovano la loro spiegazione in una differenza stereochimica poichè, per i caratteri ottici (potere rotatorio), le dune solanine e le due solanidine non souo essenzial- mente differenti. PARTE SPERIMENTALE. Estrazione della solanina dai germi del S. tuberosum. L’estrazione della solanina dai germi del S. tuderosum venne fatta nel modo descritto nella seconda Nota pubblicata in collaborazione col prof. Oddo a proposito della solanina del sodomaeum (°). Ker. 50 di germi di patate, lunghi dai 2 ai 4 cm. ed ottenuti per germogliazione all'ombra, vengono minutamente triturati in un mortaio e messi a macerare per 24 ore circa in un bagno contenente il 2,5 °/, di acido (1) Berichte, XXXVIII, 2755 (1905) e Gazz. chim. ital. (1906), I, 310. — 686 — solforico ordinario, agitando di tanto in tanto la massa completamente im- mersa nel liquido. Passato quel tempo si filtra attraverso filtri di lana, si lava prima il residuo sul filtro con acqua acidulata con H.S0, e con acqua e si spreme quindi in torchietto. La soluzione filtrata, quasi limpida, di color giallo, si alcalinizza con idrato sodico sino a reazione alcalina. Si nota in questo modo, come nella estrazione della solanina dal sodomaewm, la formazione di un precipitato vo- luminoso, abbondante, bruno; mentre contemporaneamente le acque che lo contengono si colorano in rosso sangue molto più debolmente però di quello che avviene per il sodomaeum. Raccolto dopo un po’ di tempo questo precipitato su filtro anch esso di lana, sì lava con acqua finchè le acque passano incolore, si distende quindi su cartoni assorbenti ed il prodotto secco così ottenuto si polverizza e si fa bollire con alcool concentrato. L'alcool filtrato si distilla a metà volume, si aggiunge poi acqua sino ad incipiente precipitazione, si fa bollire di nuovo e si filtra per filtro di carta. Col raffreddamento del solvente si deposita su- bito la solanina in bellissimi cristalli lunghi aghiformi, setacei, bianco-sporchi, che raccolti e lavati con alcool diluito restano poco colorati. Si ottiens così, dopo la prima cristallizzazione, gr. 125 circa di pro- dotto. Il rendimento quindi è del 24 "/oo circa, rendimento che ho potuto controllare con diverse estrazioni fatte sempre in egual modo e con germi più o meno lunghi ed ottenuti o all'ombra, all'aria, od anche tenendoli sotto cumuli di terra umida. La media invece data dalla maggior parte dei chimici è solo dell’ 1°/s0. Operando in queste condizioni non sono mai riuscito a separare traccia di solanina amorfa (solaneina) descritta da Firbas (!). Pur purificare la solanina così estratta si seguì il metodo descritto nel- l'ultima Nota (*?) usando però alternativamente l'acido solforico e l'acido cloridrico (?). Si cristallizza perciò il prodotto estratto, ancora una o due volte dal- l'alcool a circa 80 °/,, quindi si scioglie in soluzione diluitissima di acido solforico o cloridrico puro, si filtra su doppio filtro di carta e si tratta con soluzione diluita di idrato sodico sino a leggera reazione alcalina. Il preci- pitato che subito si forma raccolto dopo qualche tempo, lavato esauriente- mente con acqua distillata, si cristallizza ancora una o due volte dall'alcool sino ad ottenere al microscopio cristalli ben netti. (1) Monatshefte fir Chemie, 1889 (X), pp. 541, 560. (*) Rend. Acc. dei Lincei, vol. XV, serie 5°, 2° sem., fasc. 59, pag. 313. (*) L'acido cloridrico è stato adoperato, perchè se durante l'estrazione fosse avve- nuta una idrolisi con formazione di solanidica, questa venisse separata come cloridrato insolubile. — 687 — Il prodotto così purificato e che tanto ad occhio nudo che al microscopio sì mostra in lunghi e bellissimi cristalli aghiformi finissimi, presenta, ri- spetto al calore, tutti quei caratteri descritti nell'ultima Nota testè citata, caratteri i quali dimostrano che ben poca fiducia si può avere nel punto di fusione, Così, riscaldata in doppio bagno di acido solforico, la fusibilità varia anche in frazioni di uno stesso campione, avvenendo la decomposizione a temperatura più o meno elevata a seconda che si riscalda più o meno ra- pidamente. A media fiamma comincia ad imbrunire leggermente a 245°, aumen- tando sino a 255°; a 260° cominciano a notarsi alcune goccioline e la massa si solleva svolgendo bolle di gas a 262-263°. Le acque madri alcaline, dalle quali si era separata la solanina e che erano di color rosso-sangue, trattate con soluzioni di acido solforico diluito, diedero un precipitato colloso nel quale vegeta rapidamente una ricca co- lonia di muffe, mentre esse stesse si decoloravano. Filtrato il precipitato, le acque alcalinizzate riacquistano il color rosso-sangue e trattate con cloruro ferrico si colorano in un debole color verde. Come si vede, contengono anch'esse, analogamente alle acque madri della solanina del sodomaeum una sostanza solubile che funziona da indicatore, ma in quantità tanto piccola che col metodo adoperato con buon esito nel caso del S. sodomaeum (*), non sono riuscito ad estrarre. Saturando difatti il liquido filtrato con sale ed estraendo con etere a caldo, coll’apparecchio Mameli, ottenni un piccolo residuo che però non riuscii a cristallizzare e di cui non potei determinare il punto di fusione. Risultato quasi analogo si ebbe lasciando immersi in soluzione di car- bonato sodico i germi dai quali avevo estratto la solanina. Filtrato, si eb- bero le acque colorate in rosso-sangue che si decolorano per azione di solu- zioni diluite di acido solforico, ma il prodotto estratto con etere è in quan- tità piceolissima. Esso tuttavia si comporta con cloruro ferrico e con gli alcali come il prodotto separato dal sodomacum. Miglior risultato ebbi invece durante l'estrazione della solanina dai fiori del fuberosum in cui riuscii a separare un prodotto che fonde quasi alla stessa temperatura di quello estratto dal sodomaeum. La solanina in questo modo ottenuta e purificata venne analizzata, e semplicemente disseccandola nel vuoto su acido solforico sino a peso costante, e a 105° nel tubo Mitscherlich in corrente d'aria secca. Operando in queste condizioni ho però notato questo fatto: Tanto la frazione disseccata solo nel vuoto su acido solforico che quella seccata a 105°, (!) B. 88, 2755 (1905). RenpIcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 91 > ft rn a — 688 — danno una percentuale di carbonio alquanto maggiore di quella finora data dai molti che hanno analizzato questa sostanza — estratta o da uno stesso o da diversi solanum — e di poco minore per l'idrogeno; ma ambedue le frazioni — che pur provenivano da uno stesso campione — tanto per il car- bonio che per l'idrogeno dànno risultati pressochè identici, quasi che la so- lanina seccata nel vuoto non perdesse a 105° dell'acqua e quella come tale finora data non fosse che l'acqua, che la sostanza, per la sua forte igrosco- picità, avesse assorbito durante le operazioni di passaggio. Questo dubbio, sorto dal risultato di quattro analisi fra di loro concor- danti, è invero un po’ arrischiato e dovrà confermarsi con ricerche più di- rette; in questo modo però si spiegherebbero tutte le differenze che da spe- rimentatore a sperimentatore si sono date sulle percentuali d'acqua di cri- stallizzazione della solanina e quindi anche sulle differenze fra le percentuali di carbonio ed idrogeno. Non deve tuttavia tralasciarsi di notare che questa concordanza di ana- lisi potrebbe anche dipendere dall'avere la sostanza, dopo disseccata a 105°, assorbito l’acqua perduta, per quanto le pesate si facessero colla maggior rapidità e sempre in pesa filtri. Analisi. Sostanza disseccata nel vuoto, su acido solforico, sino a peso costante : I. Sost. gr. 0,1795; CO, :g80;4053; H.0 gr. 01371. IDE ” 0,2245; CO, gr. 0,5042; H:0 gr. 0,1661. IDEE ” 0371046: N ce. l8582:;1 IT. 130%; He 7617 Trovato °/ C 61,55 61,24 > H 8,48 8,19 — N piso nu 2,28 Sostanza disseccata a 1052: I. Sost. gr. 0,2146; CO; gr. 04843; H.0 gr. 0,1600 TOI ” 0,1712: —_ H:0 gr. 0,1255. IHRG ” 0,2955; CO». gr. 0,6666; H.0 gr. 0,1234 TOVa ” 0,79760; N ce. MS TI 14° 5 REN 60 V. ” 07267; N co liei95e “TI 219,5 6A 760700) VI. ” ON4S2E00N colo TI 269 H 759,5 mm. Trovato °| I II Ill IV V VI GiM0861850 De 61,31 "= ca se H SIOANNI (8.14 8,10 e de sa N sa Db 22 2,29 (213 MOI > — 689 — Composizione media: seccata nel vuoto seccata a 105° C 61,39 61,40 H 8,393 8,16 N 2,28 2,14 (0) 28,00 28,90 100,00 100,00 Ora, tenendo conto degli errori inevitabili d'analisi, la formula che si deduce da questi dati sperimentali è C3:H;NO,, che richiede: C 61,38 H 8,29 N 2.23 0 28,16 100,00 La determinazione del peso molecolare, fatta come la solanina del so- domaeum, in soluzione acetica (!), conferma abbastanza questa formula che però non può darsi come definitiva per la ragione già più volte accennata in questa e nelle precedenti Note pubblicate col prof. Oddo (2) e per cui sarà necessario ricorrere a composti e derivati con percentuale maggiore di azoto ed allo studio completo dei suoi prodotti di decomposizione. Sostanza disseccata a 105°: Joncentrazione Abbass. termom. Peso molecolare IE 0,7687 0,054 555,17 IDE 1,051 0,070 585,50 ” (055 H;,N0;; si calcola M == 625,51. La solanina estratta dai germi del S. /uberosum con lo stesso processo usato per quella del sodomaeum ed in eguali condizioni purificata, non pre- senta differenze fisiche troppo notevoli: la sua purificazione è però più facile ed anche variando le condizioni di cristallizzazione si ha sempre in minuti cristallini aghiformi setacei più leggeri e delicati di quelli della solanina del sodomaeum. Il punto di fusione, come già si è accennato, presentando l'insieme dei caratteri di quest'ultima, è sempre più basso tanto riscaldando a fiamma (1) Con risultato negativo ho tentato di determinarlo, usando bromuro di etilene che ha un abbassamento molecolare molto grande, ed altri solventi; in nessuno ho trovato che essa si scioglie in quantità apprezzabili e le soluzioni fatte a caldo, col raffredda- mento riprecipitano. (3) Gazz. Chim. (1905), II, 579; Rend. Acc. Lincei (1906), XV, 2° sem., 817. — 690 — alta che a fiamma bassa e per quanto abbia insistito nella purificazione, tuttavia mai sono riuscito a motare un principio di decomposizione con sviluppo di bolle di gas ad un grado più alto di 262-265°. Uguale quasi del tutto è invece il suo comportamento rispetto ai sol- venti ed alla maggior parte dei reattivi generali degli alcaloidi che per bre- vità non riporto riferendomi a quelli già pubblicati (*). Accennerò solo, non avendolo fatto allora, che rispetto al reattivo di Mandelin, citato da Firbas (*), la solanina del sodomaeum si comporta ugualmente a quella del fuderosum da questo autore descritta. Come quella estratta dal sodomaeum (*), questa del iuberosum è dotata di potere rotatorio sinistrogiro abbastanza alto. Data però la sua poca solu- bilità in alcool (4) ho cercato di determinare il potere rotatorio specifico, non ancora noto per la solanina del tuderosum, adoperando soluzioni in acido solforico diluito in cui essa facilmente si scioglie, il che invece, come ho detto, non avviene con alcool concentrato o diluito. In soluzione di acido solforico all’ 1° [T. 25°], ottenni: Concentr. Lungh. tubo Deviaz. media Potere rotat. specif. IE 0,98 200 mm. — 09,83 — 429,34 TE 2,70 200» — 29,19 — 429,40 JONG 2,70 100» — 19,15 — 429,59 Per la soluzione del sodomaeum [T. 24°] si ebbe: Concentr. Lungh. tubo Deviaz. media Potere rotat. specif. 1,12 200 mm. — 19,30 — 589,31 La mancanza di prodotto mi ha impedito di poter controllare, con altre, questa determinazione. (1) Gazz. Chim., l. cit. (2) L. cit. (3) Gazz. Chim. XXXV, II, 587. (4) Gr. 0,4740 di sostanza secca neppure prolungando il riscaldamento, si riuscì a sciogliere in 50 ce. di alcool a 50° e lo stesso esito negativo si ebbe in altre prove, scio- gliendo la sostanza in alccol a 80° e riportando il titolo a 50° con la quantità calcolata di acqua. Con alcool a 75° ebbi una concentrazione del 0,2100 °4 ed osservata al pola- rimetro ai raggi del sodio, in tubo di 200 mm., a 16°, questa soluzione diede una devia- zione media di 0°,21, colla quale si calcola [@]o = 50,00. — 691 — Chimica. — A/cune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari ('). Nota di Lurcr MascARELLI, presentata dal Socio G. CIA- MICIAN. Lo studio dei fenomeni di saturazione (congelamento o solubilità) che avvengono in sistemi binarî è oramai così progredito, che già è entrato nella pratica sperimentale, nel quale caso presta utile servizio specie per decidere se fra due sostanze ha luogo la formazione di uno o più prodotti di addi- zione. Senonchè, mentre lo studio dell'andamento della curva di congelamento (per semplicità mi restringo a considerare questo solo fenomeno, poichè le stesse considerazioni, convenientemente interpretate, possono estendersi ai fenomeni di saturazione in genere) dà risultati soddisfacenti quando la parte di curva corrispondente al composto mostra un massimo (giacchè esso cor- risponde, come si sa, alla composizione quantitativa del prodotto d’addizione stesso, fig. 1-1), tale studio invece non risponde pienamente allo scopo quando, per le condizioni particolari del sistema in esame, il tratto di curva del composto non passa per un massimo. In questo caso (fig. 1-II) si ha l’indizio della formazione di un prodotto d'addizione, ma nulla si può concludere circa la composizione quantitativa di esso. > Temperatura Concentrazione _— Nes ib La stabilità di un prodotto d’addizione, per es. tra C e D (fig. 1) è determinata dalla temperatura: al di sopra della temperatura corrispondente al punto # esso si scompone nei componenti; al disotto di questa, D torna a ricombinarsi con C. Si sa infatti che se una miscela liquida avente la (1) Lavoro eseguito nel laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bo- logna. — 692 — composizione espressa da 7 viene raffreddata, essa separa prima il compo- nente D al punto 9 e solo quando la temperatura corrisponde al punto x il componente D si trasforma tutto o in parte (a seconda della composizione primitiva da cui si è partiti) nel composto d'addizione. Se ora immaginiamo che al sistema binario II venga aggiunta una terza sostanza, che non rea- gisca nè con C, nè con D, nè col composto d'addizione, e che non sia iso- morfa con nessuno di questi, allora tutta la curva C cx D verrà abbas- sata, per quanto riguarda la temperatura, ed in generale sarà sempre teori- camente possibile trovare una terza sostanza, che abbassi talmente la tem- peratura da far sì che il punto di massimo corrispondente al composto giaccia in un intervallo di temperatura inferiore a quello (2) al quale il prodotto stesso si scompone. Questo in altri termini è quanto succede quando due sostanze, le quali non dimostrano di formare composto d'addizione qualora si studi l'andamento della curva di congelamento, lasciano poi isolare il composto se sono messe a cristallizzare da un solvente appropriato. Ciò significa, come si sa, che la curva di stabilità del prodotto d'addizione è inferiore (sempre per quanto riguarda la temperatura) a quella dei singoli componenti. Ora che le cognizioni teoriche riguardanti gli equilibrî in sistemi ter- narî sono, per opera specialmente di Bancroft, Roozeboom, Schreinemakers e loro allievi, assai estese, può tornare utile di servirsi qui della rappresen- tazione diagrammatica triangolare proposta da Roozeboom (!) ed ora gene- ralmente adottata, per stabilire la via da seguirsi quando si voglia ricer- care la composizione quantitativa di un prodotto di addizione, il quale sì origina fra due sostanze, ma che non ha un punto di fusione suo proprio (fio)! Per vero, se si hanno tre corpi A B € (fig. 2) di cui due A B formino tra loro un composto instabile, che per semplicità immaginiamo costituito da una molecola di A e una di B, come accenna la curva A e 8 B che rap- presenta (rovesciata sul piano del foglio) la faccia del prisma su cui viene a trovarsi raffigurato l’equilibrio tra A e B, e se C non reagisce nè è iso- morfo con questi corpi, allora tutte le sezioni del prisma, che avranno per proiezioni ortogonali (sul piano del triangolo di base) delle rette parallele al lato A, B, (come ad esempio a, # #, pi ecc.) taglieranno le superficie delle varie fasi solide, che si separano per prime, secondo curve simili alla AcbB e naturalmente tutte queste curve giaceranno ad una temperatura tanto più bassa quanto più la sezione è fatta lontana dalla faccia A, B, AB. È evidente che la sezione non dovrà effettuarsi troppo vicino a Ci poichè allora finirà per tagliare solamente la superficie di cristallizzazione di C. Teoricamente sarà sempre possibile scegliere C in modo che esso abbassi convenientemente il punto di fusione di A e B. (*) Zeit. phys. Ch., 1894, 2/5, 147. — 093 — La curva (in parte ipotetica nel caso di un composto che. non ha un punto di fusione suo proprio) che è luogo dei punti di massimo di tutte le curve risultanti dalla intersezione di piani paralleli alla faccia A, B, AB colla superficie di separazione del composto, avrà per proiezione ortogonale la retta C, d, poichè abbiamo ammesso che il prodotto di addizione risulti di una molecola di A e una di B, ed inoltre le figure sono costruite calcolando le concentrazioni in molecole per 100 molecole di miscela: se su questa retta | A Fic. 2. C, d, il punto 0, avrà una temperatura inferiore a quella di scomposizione del composto (punto x fig. 1) allora tutte le altre sezioni parallele ad 71 0: pi dalla parte di C, e che tagliano la superficie di cristallizzazione del composto, dovranno mostrare nella curva del composto un massimo corrispon- dente alla sua composizione quantitativa. Teoricamente il massimo è effettuabile tutte le volte che 0, non coin- cide col punto 7, (che si può anche considerare come il punto entettico fra C ed il composto d'addizione, qualora si prenda in esame non più il sistema ternario A B C, ma quello binario — C e composto — a cui il ternario può dare diede origine); praticamente occorre invece che i due punti 0, é, siano alquanto distanti, anzi quanto più saranno distanti tanto più sarà facile l’esperienza relativa. Le condizioni migliori per l'esperienza sono quelle in cui C, oltre ri- spondere alle qualità esposte prima, abbassi di molto la temperatura di soli- — 694 — dificazione di A e di B e che i punti eutettici dei tre sistemi binarî — AG; BC; C e prodotto d'addizione — siano vicini a C. Meglio che le parole valgono le figure 3-4-5 a mettere in rilievo i casi in cui è sperimentalmente effettuabile il massimo nella curva di un composto. In tutte, il campo « d e d corrisponde a quello di separazione del pro- dotto d'addizione come fase solida: in esse è ammesso per semplicità che Fic. 4. RIGO, il prodotto d'addizione risulti da una molecola di A e una di B. Nella 3 il massimo è facilmente effettuabile sperimentalmente; nella 4 difficilmente; nella 5 evidentemente è impossibile a raggiungersi. Naturalmente, se il prodotto d'addizione fra due sostanze avesse un'altra composizione o se fra le due sostanze A e B prese da sole si formasse più di un composto, di cui uno instabile, e se ne volesse stabilire con questo me- todo la composizione quantitativa, allora evidentemente la questione si com- plicherebbe. Non è qui però il caso dai discutere le combinazioni possibili. Vedremo in una prossima Nota come l'esperienza confermi la teoria. — 695 — Chimica. — Osservazioni ad una Nota sulla velocità di cri- stallizzazione di miscele isomorfe (*). Nota di M. PADOA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Nel Centralblatt del 19 giugno u. s. è comparso il riassunto di una Nota di A. Bogojawlenski e N. Ssacharow (pubblicata nelle Schriften der Dorpater Naturforscher-Gesellschaft) sulla velocità di cristallizzazione delle miscele isomorfe. Ritengo necessario, in seguito a questa Nota, di fare al- cune osservazioni per ciò che mi riguarda, essendomi per primo occupato dell’argomento (?). A quanto sembra questi autori hanno creduto necessario ritornare a sperimentare sull'argomento, in parte con sostanze diverse da quelle da me impiegate, ritenendo inesatte le mie conclusioni in proposito; io sono, al con- trario, convinto che queste nuove esperienze concordano con le mie, e però conducono necessariamente alle stesse conclusioni. B. e S. si sono preoccupati di sperimentare con sostanze di cui si potesse determinare il massimo della velocità di cristallizzazione (K. G.), e tali che questo massimo fosse mante- nuto per un intervallo abbastanza esteso di temperature; introducendo poi in esse varie quantità di corpi notoriamente capaci di dare soluzioni solide, determinarono per ogni miscela la K. G. massima. Ottennero così delle serie di valori per la K.G. massima di miscele binarie in tutte le proporzioni. Nelle mie esperienze impiegai alcune sostanze per le quali il massimo della K.G. è bene osservabile, come l’azobenzolo e la @ naftilammina; ma anche altre di cui quel massimo si manteneva soltanto per brevissimo inter- vallo di temperature, ed altre ancora per le quali esso non era praticamente raggiungibile; nei due casi ultimi paragonavo le K.G. delle sostanze pure e delle miscele per uguali sopraraffreddamenti; ciò è perfettamente lecito, trattandosi di raggiungere dei risultati puramente qualitativi, cioè di apprez- zamento sulla entità delle diminuzioni di K.G. prodotte dalle sostanze che dànno soluzioni solide in confronto di quelle che non le dànno; d’altra parte nessuna legge fisica o matematica riguardante l’ incremento della K. G. col- l'aumentare del sopraraffreddamento, vieta di paragonare le K. G. di due miscele ugualmente sopraraffreddate anche quando non sia raggiunto il mas- simo della K. G. o quando tale massimo non si manterga per un certo in- tervallo. (‘) Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (2) Questi Rendiconti, 1904, I, 329. In mancanza della Nota originale degli autori citati debbo riferirmi al resoconto, d’altronde abbastanza esteso, del Centralblatt. RenpIcoNTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 92 bin — 696 — Nelle esperienze mie non mi curai di sperimentare con serie complete di miscele, limitandomi ad osservare l'andamento delle K. G. per piccole concentrazioni. Ciò posto, veniamo a considerare i risultati miei e quelli degli autori citati. Dalle mie esperienze io concludevo che « l'aggiunta ad una sostanza, di corpi che con essa dànno soluzioni solide, non ne diminuisce o ne dimi- nuisce di poco la K.G.; in ogni caso l'entità di tale diminuzione è legata con quella delle anomalie crioscopiche ». Le ultime parole significano, se- condo il mio debole parere, che quando le anomalie crioscopiche sono pic- cole, le diminuzioni della K.G. sono relativamente grandi, e viceversa. Ora, che cosa scoprono Bogojawlenski e Ssacharow? Che « le curve delle massime K.G. delle soluzioni solide sono dello stesso tipo delle curve di fusione » ; cosa che naturalmente corrisponde alla mia affermazione precedente e che io pure avrei potuto dire se non mi fossi limitato alla considerazione di miscele a basse concentrazioni. Altra conclusione degli autori citati è che le K. G. di miscele isomorfe variano continuamente con la composizione; forse non era necessario intra- prendere lunghe esperienze per giungere a questa conclusione. In ogni caso, se Bogojawlenski e Ssacharow hanno creduto di dare maggior estensione alle mie esperienze, non trovo in ciò nulla a ridire; ma se hanno inteso con le loro esperienze di smentire i miei risultati, io credo aver mostrato come non abbiano ben raggiunto lo scopo. Chimica. — Azioni catalitiche dei metalli suddivisi sui com- posti azotati. Nota di M. PApoA e 0. CaHIaves, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Chimica. — Diffusione di elettroliti in soluzione acquosa (*). Nota di B. L. VANZETTI, presentata dal Socio G. KOERNER. Era certamente interessante, per lo studio della diffusione degli elet- troliti nell'acqua in relazione con le mobilità elettrolitiche dei corrispon- denti loro ioni, di confrontare tra di loro gli alogeni nella formazione del setto di sale d’argento insolubile, dato che i loro pesi relativi ed i valori delle mobilità elettrolitiche sono tra di loro in aperto contrasto (infatti abbiamo per Cl’, Br, I", vicino ai pesi relativi 85.5-80-127, le velocità di migrazione 65,44-67,63-66,4), ed hanno inoltre sul gruppo dei metalli alca- lini (*) il vantaggio di dare dei sali veramente insolubili. (1) Lavoro eseguito nel Labor. di chim. organ. della R. Scuola super. di Agricoltura di Milano. (*) Vedi Comunicaz. preced. Rend. Accad. Lincei, 1907, 2° sem., fasc. 99, pag. 655. — 697 — Ma siccome nelle gelatine questi sali degli alogeni non dànno, incontran- dosi col nitrato di argento, dei setti nettamente formati ed anzi il fenomeno della loro precipitazione appare, specie nel caso dell'Ag I, direttamente in- fluenzato dalla presenza della gelatina, così ho pensato di eliminare sen- z'altro la gelatina in considerazione anche dal fatto, ormai per più prove accertato, che in molti casi essa ritarda la formazione dei precipitati, favo- rendo il fenomeno della sovrasaturazione e la formazione di soluzioni di tipo colloidale da parte dei sali insolubili che in essa traggono origine. Sostituito adunque il tubo di gelatina delle precedenti esperienze con un capillare ad | |, lo riempivo di acqua distillata e ne immergevo le estre- a { Il — a a $i NESSO ZIIA gr Nic io cone | Solrz. di | Soluz. ||| di Cloruro alcat. | Ag N03 teo mità nelle due soluzioni contenenti i sali che attraverso il capillare dove- vano diffondere ed incontrarsi per formare in esso il precipitato. Dopo un certo tempo, che dipende soprattutto dalle dimensioni del tubo, compariva in esso un piccolo setto (a della fig. 1), il quale lentamente ingrossava propa- gandosi (nei casi osservati) verso la soluzione del sale che diffondeva più lentamente. Se l’esperienza deve servire solo a scopo qualitativo, essa è estrema- mente semplice; però, se deve fornire delle misure sulla velocità di diffu- sione, diventa molto delicata e dev'essere preparata con molta cura. Bisogna soprattutto aver riguardo alle condizioni idrostatiche, affinchè non si verifi- chino spostamenti per azione di sifone, o nell'interno del capillare non av- vengano versamenti di liquido o formazioni di correnti, che vadano a turbare il fenomeno tranquillo e regolare della diffusione. Occorre adunque, per sod- disfare alla prima esigenza, che il livello dei due liquidi, messi in comu- nicazione mediante il capillare, sia eguale. che le anse di quest'ultimo siano di egual lunghezza e per una eguale lunghezza peschino nel liquido: e che — 698 — finalmente le due soluzioni opposte abbiano la stessa densità. Perchè non avvengano versamenti, basterà poi che la parte media del capillare sia messa in posizione ben orizzontale e sia piuttosto corta. Alcune prove preliminari mettono subito all'erta sulle precauzioni che si devono prendere. Le soluzioni da sperimentare furono adunque preparate in modo che la loro densità fosse identica nelle identiche condizioni e precisamente eguale a 1,1238 a 28°, corrispondente alle concentrazioni rispettive : per KCÒI — 21.25 in 100 cc. di soluzione » KBr — 18,15 - ” ni RI — 17.50 ’ ’ » AgNO; — 15.40 ” ’ Come è ben naturale, le prove con i tre sali si eseguivano contempo- raneamente ed in condizioni identiche di temperatura, di livello liquido, ecc. I risultati di 16 osservazioni, fatte con tubi di varia lunghezza ed aventi le anse più o meno lunghe rispetto al tratto orizzontale, diedero i risultati qui appresso riportati : Punto in cui si forma il precipitato di Lunghezza del capillare e bi sir N in mm. È } a 5 a 5 120 64.5 59.7 62.5 52.1 59.5 49.6 120 64.0 53.3 62.0 DITA MID 48.8 120 64.5 53.7 62.5 02.1 58.5 48.8 82.5 44.0 53.9 43.0 i ZL 49.7 82.5 44.5 53.9 3.5 52.7 41.0 49.7 95.5 54.5 57.1 54.0 56.5 53.0 59,5 95.5 98.0 56.0 52.0 54.9 51.5 53.9 95.5 54.0 56.5 55.0 57.6 54.0 56.5 134 75.0 56.0 73.0 94.5 68.0 50.7 134 75.0 55.9 73.0 54.5 74.0 55.2 134 75.5 56.0 73.0 54.5 74.0 59.2 95.5 56.0 58.6 57.0 99.7 54.0 565 82.5 46.5 56.4 45.5 55.1 42.5 55 82.5 46.0 59.8 45.5 00.2 42.0 50.9 134 74.0 95.2 74.0 95.2 69.5 51.9 134 74.0 55.2 74.0 55.2 73.0 54.5 Media 50,4 54.6 52,3 (a significa la distanza del setto di sale insolubile di Ag, contata in mm. da sinistra, verso la soluz. di Ag NO; 2 è lo stesso valore riferito ad un tubo di 100 mm. di lunghezza). Le — 699 — Quello che dà subito nell'occhio, quando si abbiano presenti le esperienze coi cloruri in gelatina, è che il punto d'incontro dei due sali non è lo stesso; infatti, mentre nel tubo di gelatina il precipitato si formava a circa 65, con- tando in mm. sulla stessa misura dalla parte del cloruro alcalino, qui invece si forma a circa 55. Può questo attribuirsi alla formazione nella gelatina, per impurezze in essa contenute, di tracce di Ag CI, le quali ostacolerebbero un poco il procedere del sale d'argento solubile? Inoltre si vede come tutti e tre i sali di argento degli alogeni si for- mano pressochè nello stesso punto e precisamente a 55.4 il cloruro, a 54.6 il bromuro ed a 52,3 il ioduro, mentre il calcolo in base alla legge di B. P. prevederebbe le posizioni 63.6-53.7-47.9. Certo è, che se errore di apprezzamento o di lettura può farsi, esso è più probabile nel caso del cilindro di gelatina, che in quello del tubo capil- lare, dove, per la sua nettezza e per la comparsa improvvisa, il setto carat- teristico si segnala subito e con tutta facilità. Vogliamo ora vedere se si può spiegare la formazione dei 3 setti diversi nei punti indicati, usufruendo del concetto presupposto, che il regime della velocità di diffusione sia dato almeno in gran parte dal valore delle mobilità elettrolitiche degli ioni in causa. In realtà se la soluzione salina man mano che diffonde si mantiene omogenea rispetto al suo contenuto in anioni e cationi, è naturale che entri in giuoco non solo la velocità dell’ione che ci interessa, ma anche quella dell’ione di carica opposta che l’accompagna. Come questi due valori si influenzino reciprocamente noi non possiamo ora sapere; si può tuttavia supporre che si abbia come effetto una velocità — da attribuirsi alla coppia ionizzata —, che sia la media aritmetica delle ve- locità dei due ioni formanti il sale che diffonde; s'intende che nel caso di sali facilmente ionizzabili, come son quelli che ci occupano, la quantità di sale diffusa nel capillare si può considerare praticamente dissociata in modo completo. Si avrebbe così che essendo la velocità di migrazione dei due ioni Ag° ed NO;' rispettivamente 54.02 e 61.68, alla molecola ionizzata (Ag* 4 + NO;') spetterebbe una velocità di diffusione media Sister 01.63 + e: 64.67 + 65.44 DI re | per la coppia (K: + Cl’) una velocità 65.05; per (K- + 64.67 +4- 67.63 6 2 64.67 + 66.4 2 + Br) = 66.15, e per (K-+-1I) — 0539905 poichè il cammino percorso dai due sali concorrenti a pari condizioni è necessariamente in rapporto diretto con le velocità di diffusione, se ne cal- colerebbe con tutta facilità il punto di incontro, che, nel nostro caso, riferen- doci ad un tubo di 100 mm. di lunghezza, sarebbe dato dai seguenti valori: per AgCl — 52.9 » AgBr — 53.9 n Agl — bs. RITI e —_700 — ‘valori, i quali sì avvicinano in modo sorprendente a quelli trovati nella espe- rienza (55.4-54.6-52.3) e più si avvicineranno qualora si tenga conto di alcuni fatti che spiegano la precessione del cloruro rispetto agli altri sali. E cioè non tanto la maggior concentrazione, effettiva o calcolata in mole, del cloruro alcalino in confronto a quelle del bromuro e dell'ioduro, la quale non porterebbe, come sappiamo, una differenza molto sensibile nel percorso fatto da sale, quanto il fatto che il cloruro di argento è un po' più solu- bile che gli altri due sali, e ciò fa sì che si debba raggiungere una maggior concentrazione fra i due reagenti che s'incontrano, prima che avvenga una precipitazione. Infatti si osserva che, mentre la formazione del setto di Ag Br e di AgI si formano quasi contemporaneamente, perchè probabilmente la velocità un pochino maggiore del bromuro compensa la sua solubilità un poco più elevata, il setto di cloruro di argento si forma alcune ore più tardi. È chiaro però che, se le velocità di diffusione dei due sali concorrenti fosse identica, il precipitato dovrebbe formarsi nello stesso punto indipendente- mente dalla sua maggiore o minore solubilità, essendo invece la velocità del sale di argento minore, la precipitazione seguirà un po’ più dalla sua parte. I diagrammi seguenti, in cui le curve 44 e dd rappresentano le concen- trazioni dei due sali concorrenti, in due momenti diversi, dopo avvenuto l’in- contro, spiegano chiaramente i due casi possibili : 1) i due sali hanno la stessa velocità di diffusione: FIG. ‘2. il precipitato si formerà sempre nello stesso punto, che è quello che segue il primo incontro e su cui cade la perpendicolare 4 d, indipendentemente dalla solubilità del sale formatosi; 2) uno dei sali diffonde più rapidamente dell'altro (v. fig. 3): il precipitato non si formerà nel punto 4 dove avviene il primo incontro delle soluzioni, ma più a destra in 4, dalla parte del sale che diffonde meno ra- pidamente, appena si sarà raggiunta la concentrazione limite. Questo spostamento si può del resto calcolare, quando si conoscano le posizioni delle linee 4a e 20, vale a dire le concentrazioni delle soluzioni lconte - — 701 — nel capillare, e ciò si può avere applicando la equazione di Stephan che esprime algebricamente la legge di Fick. Riassumendo brevemente, questo è adunque il risultato delle mie espe- rienze: cloruro, bromuro ed ioduro di potassio percorrono nello stesso tempo un cammino pressochè eguale attraverso a tubi capillari, che contengono il solvente puro: acqua. Il cammino percorso da questi sali, di confronto col nitrato di argento si rende manifesto per l’incontro di soluzioni opposte con formazione di un precipitato di sale insolubile di argento. Questo percorso pare si trovi in rapporto diretto con la velocità di migrazione elettrolitica dei ioni singoli componenti i sali in questione. E qui è opportuno ricordare che gli studî di Schitzemberger hanno dimostrato, per altra via, che i coefficienti di diffusibilità di K C1, K Br, KI sono tra loro sensibilmente eguali; altri autori poi recano delle espe- rienze in cui apparisce che i composti del cloro diffondono un po’ più len- tamente che quelli degli altri due alogeni. Se poi si confrontano i dati for- niti da Beilstein e da altri sulla diffusibilità dei cloruri dei metalli alcalini: K, Na, Li, ne risulta che la velocità maggiore spetta al cloruro del metallo più pesante, al K, poi seguono il Na ed il Li, precisamente come avviene per i valori delle velocità di migrazione di questi metalli allo stato di ca- tione, le quali nello stesso ordine decrescono (64.67-43.35-33.44). Se prendiamo anzi i dati di Beilstein, il quale, mettendo come coeffi- ciente di diffusione del KCI il valore 1, trova di confronto per il sal di Na un coefficiente di diffusibilità = 0.8337, si può osservare una corrispondenza sorprendente con lo sperimento, quando si calcoli, nel modo sopra accennato, dalle mobilità elettrolitiche questo coefficiente: esso infatti risulterebbe eguale a 0.8376. Senza però voler dare un'importanza assoluta a questa interpretazione del fenomeno, che del resto è anche in armonia con le vedute su espresse da Nernst (*), e senza entrare in discussioni, che per ora potrebbero parere premature data la qualità delle ricerche, per sè stesse molto delicate, giacchè (1) Zeitsch. f. phys. Chem., II, pag. 619-620 (1888). — 702 — verosimilmente le cose saranno ben lungi dall'avere una tale semplicità, io mi limito qui a segnalare questi fatti, per mettere in evidenza la importanza che ha la eliminazione delle gelatine nello studio di questi fenomeni e la grande semplicità che in questo modo si può raggiungere, purchè si esperi- menti sempre di confronto al fine di eliminare le cause di errore derivanti da cambiamenti di temperatura o da altre influenze esterne. Le prove sono quindi da moltiplicarsi in questo senso, e, io credo, potranno portare uno sprazzo di luce sul comportamento fisico-chimico delle soluzioni in generale e serviranno a dirimere alcuna fra le tante controversie che ancora si agi- tano su tale argomento e mettono di fronte i dati più disparati che i diversi autori dedussero fin qui dalle loro esperienze. A ciò si dovrebbe riuscire allargando il campo di osservazione e portando alla prova, come è mia in- tenzione di fare, non soltanto le soluzioni saline, ma anche prodotti più complessi, e in solventi diversi, traendo profitto, oltre che dall'osservazione dei fenomeni di precipitazione, anche dalle reazioni colorate inorganiche ed organiche. Mineralogia. — Intorno alla tormalina dell’ Asinara (Sax- degna) ('). Nota del dott. AURELIO SERRA, presentata dal Socio G. STRUVER. Molto è discussa la complicata natura chimica di qnesto minerale, per cui non mi par privo d'interesse riferire i risultati d'una analisi da me com- piuta sulla tormalina dell'Asinara, ove essa trovasi in una roccia pegmatitica in grossi cristalli. Questi sono neri, non terminati all'estremità e presentano tinta uniforme in tutta la loro estensione. Nel procedere alle diverse determinazioni mi valsi del metodo indicatò dal Jannasch (*) per i silicati complessi e senz'altro espongo i valori cente- simali ottenuti : Siobrfgio «FM Da SE ole eno Brio. e e e FANGO. CM IRON, MOTO IS AAA CE Roe 0 e RO 00 160 ASD Porre BOSE ssi 1 PR Aaa ceo MniO ii o i LOI Cao... MR III IM O «ARABO 0 MRO Nas Oa) 0: 56M o t005. oasi SASLE2027 Kit. I 00 HO fasL00°% 5° "SPRAIRPI PIRA 0; — EROrni ae) eee 550 VIE Ate 1000" ARE ABIBPIABA [IAA 150007 SCIE RIONI Peso specifico = 3,08. OO7E(g0N! (!) Lavoro eseguito nell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Sassari. (2) Jannasch: Praktischer Leitfaden der Gewichtsanalyse pag. 306. — 703 — Il prospetto che segue nella colonna I dà le suddette parti dedotte delle quantità di Ti0,, Mn0, Ca0, K:0, la colonna II le corrispondenti per- centuali, la Ill il numero delle molecole ivi contenute, la IV le stesse quan- tità riferite a 100: I II III IV | Si 04 35,43 36,73 60,81 41,82 BIOS 9,72 10,08 14,40 | 9,90 Ala 0; 37,29 38,66 37,82 | 26,01 Fe0 5,65 5,86 8,15 5,61 My 0 460 | 4977 | 1182 8,14 Na 0 2,27 DIS5MNL! 3,78 2,60 H,0 1,50 1,55 8,61 5,92 96,46 | 100,00 | 145,39 | 100,00 Nella V, VI, VII, figurano rispettivamente i numeri esprimenti gli atomi metallici delle molecole della colonna III, gli stessi atomi riferiti a 100, gli atoni di ossigeno legati ai metalli : | V | VI VII Si 60,81 | 28,96 | 33,09 B 28,80 | 13,71 | 2991 AÌ 75,64 | 36,02 | 31,48 Fe 8,15 3,88 1,11 Mg | 11,82 5,63 3,75 Na 7,56 3,60 1,25 H 17,22 8,20 | 65,60 210,00 | 100,00 | 166,14 Questa tormalina sarebbe quindi espressa dalla formula Siz9 B14 Alss Fe, Mg; Na, Hz Oice (2). Per quanto riguarda la composizione chimica parrebbe avere una certa corrispondenza con quella verde-nera dell'Elba analizzata da Rammelsberg (2). — Il tono verde della tinta di questa, ritengo debba attribuirsi al tenore relativamente elevato di Mn0O.— Le due tormaline si differenziano un po’ (1) Ottenni la seguente formula calcolandola col metodo comunemente seguito : 16 Si Os . 4B.0; . 10 41,0, . 2Fe0 . 83Mg0.. Nas0 . 2H:0.. (?) Rammelsberg: Pogg. Ann. 1870, 139, 379. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 93 — 704 — per il contenuto di silice, più sensibilmente per quello di FeO e Mg0 e per contro in modo notevole si corrispondono le quantità di alcali e di B3 03. Una certa analogia si avrebbe anche con quella recentemente analizzata da Grubenmann (') (in Ziirich) cui corrisponderebbe anche il peso specifico (3,18 — 3,08). Di entrambe riporto i risultati : da da Rammelsberg Grubenmann Si 0 37,14 35,99 Ti 0» 0,24 B: 03 9,37 8,42 Als Og 34,15 34,81 Fe0 10,52 11,83 Mn0 1,87 —_ Mg 0 1,68 2,77 Ca0 — 0,56 Nas 0 2,30 1,89 K:0 0,75 0,89 Li: 0 0,32 — Hs 0 1,90 2,80 FI 0,47 0,23 100,47 99,83 Bacteriologia agraria. — Intorno al processo microbiochi- mico d'ammonizzazione nel terreno agrario. Nota del dott. R. Pe- ROTTI, presentata dal Socio G. CUBONI. Ricerche di laboratorio ed esperienze di campo, che altri ed io in questi ultimi tempi eseguimmo, hanno dimostrato che dei due principali prodotti i quali formano la base della concimazione con il « kalkstickstoff » — la cal- ciocianamide e la diciandiamide — nelle ordinarie condizioni di cultura, il primo viene ammonizzato, il secondo no; chè, anzi, per l'utilizzazione del primo l’ammonizzazione è indispensabile, comportandosi esso come un potente veleno verso la pianta. Il processo con il quale l'azoto calciocianamidico passa in azoto ammo- niacale, se non esclusivamente, è prevalentemente un fatto biochimico. Lòhnis per il primo lo ha studiato con metodi, i quali non difettano di mende (?). (1) Veber Pneumatolyse und Pegmatite mit einem Anhange ber den Turmalin- pegmatit vom Piz. Cotschen in Unterengandin (Vierteljahrschr. der Naturforsch. Geselsch. in Zurich 1904, 49, 376-391). (2) F. Lohnis, Veder die Zersetzung des Kalktickstoffs, Centr. f. Bak. II, 1905, nn. 3-4, 12-13. — 705 — To esaminai il suo lavoro rilevando queste e procurando di stabilire fin dove esse potessero infirmarne le conclusioni ('). Dalla mia critica e dalle mie ricerche, avviate per una nuova via, risultò che il fenomeno dell’ammoniz- zazione bacterica della calciocianamide era un fatto evidentissimo, del quale ottenne recentemente un'ulteriore conferma l'Ashby (?). Studiando le curve della formazione dell'ammoniaca dalla calciociana- mide, si rileva facilmente come esse seguano un tracciato molto irregolare che non permette di assegnare al fenomeno il valore di una fermentazione ; soprattutto, particolarmente, perchè esso si determina soltanto per la trasfor- mazione di rilevanti quantità di materiale dinamogenetico. Aggiungasi anche la circostanza che presenta il composto di possedere in sè dei legami chi- mici i quali, secondo le attuali conoscenze, non possiamo ritenere facilmente adatti ad una combustione respiratoria, ed apparirà di leggeri l'opportunità di dare un'interpretazione scientifica al fenomeno in questione, la quale s’ac- cordi con quanto è noto circa le attività funzionali che un organismo è ca- pace di esplicare. Finora il processo di ammonizzazione che si compie nel terreno, e che costituisce l’ultimo termine del ciclo che subiscono le sostanze organiche verso la loro mineralizzazione, fu considerato esclusivamente come un pro- cesso correlativo di un atto fermentativo, dovuto ai microrganismi terricoli i quali, per la maggior parte, traggono l'energia che ad essi necessita, indi- rettamente con la demolizione delle sostanze carbonate. La fermentazione pu- trida era la base del processo: fenomeno complesso, del quale non sono note con precisione tutte le fasi nè i prodotti primarî. L'ammoniaca, però, for- masi costantemente in esso come Marchal, Wiley (*), Wehmer (4), Butke- witsch (°) ed Emmerling (°) studiarono, sperimentando con sostanze albumi- noidi di varia natura (peptone Witte) per azione di bacteri, muffe e blasto- miceti. Interessano in proposito i risultati dell’Emmerling con i quali è dimostrato che, contrariamente a quanto avviene per i diamminoacidi, tutti i principali monoaminoacidi, eccezione fatta per la leucina e la fenilalanina, sono capaci di venire nel processo putrefattivo ammonizzati. Ma tali conoscenze possedute intorno all'argomento, fin troppo limitata- mente, oltrechè non determinare la natura del fenomeno, non possono appli- carsi alla spiegazione dell'ammonizzazione bacterica della calciocianamide (1) R. Perotti, Se la scomposizione della calciocianamide possa avvenire per mezzo dei bacteri. Arch. farm. sperim., anno V, vol. V. (3) Confr. ref. in Staz. sperim. agrarie ital., n. 8, pag. 763, 1906. (®) Chem. News, 1897, n. 1954; confr. anche Muntz e Condon, Comp. rend., CXVI, pag. 395 (1893). i (4) Iust. botan. Jahresber., 1892, Bd. I, s. 192. (9) Jahrb. wiss. Bot., XXXVIII, pag. 147, 1902. (9) Cent. f. Bak, X, 273, 1903. —- eo — 706 — che ha una singolare costituzione chimica e la cui caratteristica è quella di presentare tutte le proprietà di una sostanza eminentemente venefica. È una circostanza questa, la quale ha fornito a me l’occasione di passare da un caso speciale ad alcune considerazioni d’indole generale sul processo ammo- nizzante del terreno per illustrare una nuova causa di esso, la quale deve essere presa nella dovuta considerazione ora che, abbandonandosi alcuni pre- giudizî, si vuol profittare di nuove sorgenti di azoto nella concimazione agraria. Nel mio caso speciale, adunque, per risultato concorde di numerose spe- rimentazioni, abbiamo due sostanze: una, la calciocianamide potentemente venefica e che viene, malgrado ciò, per un processo biochimico ammonizzata ; l'altra, la diciandiamide, non venefica, e che non viene ammonizzata, anzi direttamente utilizzata da non pochi organismi. Le ragioni di questo diffe- rente comportamento, che vanno ricercate nelle differenti proprietà dei due composti, si debbono — secondo me — al fatto stesso del forte potere ve- nefico dalla prima sostanza posseduto. Difatti, non poche osservazioni hanno permesso di stabilire che allorquando la pianta trovasi in presenza di un elemento venefico estraneo alla composizione del proprio organismo od allor- quando qualcuno dei suoi costituenti raggiunge dosi così elevate che lo ren- dano tale, lo elimina con una grande facilità o con la separazione di deter- minati organi dove esso va ad accumularsi o con l’esplicazione di uno spe- ciale potere autolitico. Così ad es. fu accertato che i sali di rame, assor- biti dalla pianta, vanno ad accumularsi in alcune foglie ch'essa lascia poi cadere; e si verificò anche che la pianta è capace di eliminare i composti azotati, che eventualmente sì accumulino in essa fino a raggiungere una dose nociva, trasformandoli in ammoniaca. Anzi, sulla formazione autolitica dell'ammoniaca nella pianta abbiamo una serie di lavori i quali mirano a precisarne le cause, il meccanismo, la importanza. A lato delle ricerche di Schulze (') e di Castoro (*), che accerttarono per primi la produzione di ammoniaca durante la germinazione di alcune piante, e di quelle di Butkewitsch nelle quali si verificò lo stesso fatto du- rante l'anestesia con etere e toluolo dei germi, dobbiamo ricordare quelle di Hirschler (*), Kutscher (4), Zunz (*), Cohnheim (°), dimostranti la produzione di ammoniaca nella demolizione delle sostanze albuminoidi a mezzo degli enzimi proteolitici, in quanto che contribuirebbero a dare una spiegazione (*) Landw. Jahrb., XXXV. (*) Zeit. f. phys. Ch., Bd. L. (3) Zeit. f. phys. Ch., Bd. X. (4) Endproduckte der Trypsinverdauung, 1899. (5) Zeit. f. phys. Ch., Bd. XXVIII. (9) Zeit. f. phys. Ch., Bd. XXXV. — 707 — enzimatica del fenomeno. Meglio d'appropriarsi al nostro caso sono gli studî di Gonnermann ('), Lang (?), e Schibata (*), che ottennero la formazione dell'ammoniaca dagli aminoacidi nell’autodigestione con organi animali e con funghi, per i quali si potrebbe trarre qualche luce anche sulla questione se l'ammoniaca si formi direttamente dagli albuminoidi o dai loro primarî pro- dotti di scomposizione. Tuttavia neppure un recente studio dello Zaleski (4) riesce a chiarire in qualche modo questo punto, per il quale si è ancora costretti a riferirci all'ipotesi dello Schulze (°), che ammette la formazione dell'ammoniaca a spese dei prodotti primari. Nè maggior valore di un'ipo- tesi ha il significato che si vuol attribuire all'’ammoniaca, in tal modo pro- dotta, per la sintesi dell’asparagina, della glutamina e della sostanza pro- teica, benchè essa sia validamente suffragata dai lavori di Mazè (9), di Treboux (") e di Artari (8). Comunque, è sicuramente provato che l’orsanismo vegetale è capace di dar luogo ad un processo di produzione autolitica di ammoniaca e questo è a credersi si verifichi nel caso dell’ammonizzazione bacterica della calciocia- namide. Essendo la calciocianamide velenosa, i microrganismi che per speciali condizioni locali o di resistenza specifica sfuggono alla morte, esplicherebbero su di essa la loro attività autolitica; essendo la diciandiamide innocua, man- cherebbe la ragione biologica perchè questa attività venisse esplicata. Ma poichè l’azione venefica di un determinato composto chimico è re- lativa oltre che alla composizione chimica anche alla sua concentrazione — per dare un punto di appoggio sperimentale alla mia teoria — fui indotto a ricercare se, aumentando la concentrazione della diciandiamide, venisse anche questa ammonizzata. I risultati che ottenni furono positivi. Procedetti nel seguente modo: In quattro grandi Erlenmeyer preparai 300 cm della soluzione mine- rale priva d'azoto: HosfatoMbipotassicomasg cl .. See O Cloruro fdittcaleiogRiNete rt 0.1 Solfatof difimagnesionetatio o. RAM. 00;3 Clorurorsodicorane te seo: 1 MES: 0: ClorurosferriconiMeeedieo i i 10.01 Acquari atti ae deo: > LR L000 (1) Pfluger's Arch. f. gen. Phys., Bd. 89. (2) Beitràìge zur chem. Physiol. und Patol., Bd. V. (8) Ibid. (4) W. Zaleski, Veber die autolytische Ammoniakbildung in den Pflanzen. Ber. d. deut. bot. Gesell., XXV, pag. 357 (1907). (9) Loco cit., e Zeit., f. phys. Ch., Bd. XXIV. (6) Ann. Ist. Pasteur, XIV. (7) Ber. d. deut. bot. Gesell. XXII. (8) Jahrb. f. wiss. Bot., XLIII. | — 708 — cui aggiunsi il 0.5 °/ di glucosio e diciandiamide purissima nelle propor- zioni del 0.1, 1.0, 5.0, 10.0 °/ rispettivamente per ciascuna delle quattro bevute. L'ultima soluzione risultò satura per la diciandiamide. Determinai nei liquidi l'azoto ammoniacale all'inizio ed alla fine del- l'esperienza con il metodo della distillazione su magnesia usta. Inoculate le soluzioni con gr. 0.1 di uno stesso campione di buona terra di giardino, le coltivai in termostato a 28° C. per venti giorni. I reperti analitici furono: È Concentrazione gua nai Preleva to To S N 5 R rto t ig) AEREO Specifica della del liaido di Sol. Ho 504 7 NH3 Pr CINI = Heterminazione cultura saturata da E °/o cm.3 cm e) e la finale IE 0.1 iniziale 50.0 0.3 0.0102 ) 2.93 dopo 20 giorni 50.0 0.7 0.0238 ) di cultura JÙG 1.0 iniziale 50.0 0.5 0.0170 ) SO 10.51 dopo 20 giorni 50.0 5.2 0.1788 | di cultura III. 5.0 iniziale 925.0 0.5 0.0340 ) ch, .d dopo 20 giorni 50.0 8.3 0.2822 ) di cultura TIVA satura iniziale 25.0 0.6 0.0408 ) SU dopo 20 giorni 50.0 3.8 01292 | di cultura Per meglio illustrare questi dati eseguii anche alcune osservazioni cul- turali. Dopo cinque giorni di cultura cominciarono ad apparire i segni ma- croscopici dello sviluppo bacterico soltanto nelle bev. 1 e 2; più abbondan- temente nella 2, dove fin dal sesto giorno si manifestò una copiosa formazione ifomicetica. Nelle altre due bevute lo sviluppo fu scarso; evidente però anche nella stessa bevuta 4. dove si era formato un anello fungino sulle pareti in corrispondenza della superficie del liquido. Certamente le migliori condizioni di cultura sì realizzavano nella bevuta n. 2 nella quale il liquido si presentò sempre torbidissimo ed alla cui superficie si formò una coperta di muffe che tardarono molto a sporulare: peraltro è degno di nota lo sviluppo nella be- vuta n. 8 e sopratutto nella n. 4, dove la diciandiamide si conteneva in so- luzione satura. In particolar modo i risultati ottenuti con queste culture, tenuto anche conto di una evidente perdita di ammoniaca dai recipienti, permettono di — 709 — riconoscere come anche in condizioni culturali oltremodo sfavorevoli gli or- ganismi batteriacei ed ifomicetici sono capaci di esplicare la loro attività autolitica. La riproduzione sperimentale del fenomeno ottenuto esagerando le dosi di un composto come la diciandiamide, non velenoso in soluzioni diluite, e che normalmente non viene ammonizzato, mi sembra possa fornire una qualche spiegazione dell'’ammonizzazione biochimica, la quale si verifica in- vece normalmente con la calciocianamide che ha proprietà venefiche in so- luzioni diluitissime. E mi sembra anche che del fatto di questa produzione di ammoniaca da composti azotati i quali, per le loro proprietà venefiche, si vollero ritenere fin qui impropri ad usarsi come materiale concimante del terreno agrario, si debba tenere il dovuto conto sia nei processi della loro trasformazione in composti assimilabili dalle piante, sia nello stabilire le norme del loro pratico diretto impiego. MRS cai eur purrez:: e—___sli latta rr ii dna -— OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’'ACCADEMIA presentate nella seduta del 17 novembre 1907. AcHiarDI (G. d’) — Giuseppe Grattarola Commemorazione. (Proc. verb. della Soc. Toscana di Sc. nat. Ad. 5 maggio 1907). Pisa, 1907. 8°. Arera C. — Riassunto delle osservazioni meteorologiche fatte al Grand Hotel du Mont Cervin in Valle d'Aosta durante la stagione estiva 1906. (Pubbl. dal- l’Osserv. Meteorol. del R. Collegio Carlo Alberto in Moncalieri). Perugia, 1907. 8°, Amopro F. — Uno sguardo allo sviluppo delle scienze matematiche nell’evo an- tico. 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SA ei della R. i Accademia dei Lincei. © vai PI — Atti dla Dadi dei Nuovi Hiicei, Tomo I-XXIII. “Atti della Reale Accademia dei Lio pino XXIV-XXVI. — Vol. L (1873-74). Foo Nola II (1874-75). dc de Vo Il Le ui Parte 1» Tri | 2% MEMORI della Classe di scienze fisiche, du matematiche e naturali. della Classe di scienze morali, | storiche e filologiche. Meorie LI "Classe di scienze. cs he, matematiche e naturali. a Volk IL (1, 2). — Il (1,2). — IE XIX. Memorie della. Classe pd scienze | morali, storiche e filologiche. Vol: XI: De: danni Vol. I ID (1884-91). MEMORIE della. Classe di scienze. Vol. dal i , matematiche e naturali. “ Renpiconm a Cassa ‘a scienze Vol. I-XVI. (1892- -1907). Fasc. “Mena della Classe di scienze si che , A) e naturali. SU Du Fase. 1°-139.- ; SI e filologiche. sE: — CONDIZIONI DI n ASSOCIAZIONE cal fisiche, matematiche dc 1 od LI ei si pubblicano due Ù nese. Lo Lie due volumi all'anno, corrispon- i volume e per tutta ; spese di posta in più. ivamente dai seguenti ile vo È a ori dl paes ioni si ricevono esclus A ia to) ; | “ab $i I LAT Bash sionito cobenvA Usb RIACC*I aree { {fd i I : IA e a 10} o ATO, 9) ag sab INDICE 81) 11 Ia 180 SI niis LOV-GIB I 7 MM #5 1 Classe dî scienze fisiche, niatematiche e naturali. Seduta del 17 novembre 1907 - #0 bite MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Battelli e Stefanini. Sulla relazione fra la tensione superficiale e la pressione osmotica. Pag. 668 Viola. Determinazione degli indici principali di rifrazione di un cristallo mediante i piani di polarizzazione. . . ME) DINE Magri. Le stratificazioni deli A elettrica CRT dal cora Battelli) VA i) Colombano. Sulla solanina estratta dai germi del Solanum tuberosum Cine (pres. dal Socio Cannizzaro) .. . dna SM. AA Mascarelli. Alcune considerazioni sipti equilibrî i in Seni ternarî (has dal dado Ciamician) » 691 Padoa. Osservazioni ad una Nota sulla yelocità di cristallizzazione di miscele isomorfe, (pres) } RA Id. e Chiaves. Azioni Daiiicone fi metalli idivisi « sui gli sabati (pres. Zd.) (*) » 696. Vanzetti. Diffusione di elettroliti in soluzighe acquosa (pres. dal Socio Kòrzer) . . ... n» Serra. Intorno alla tormalina dell’Asinara (Sardegna) (pres. dal Socio Struver) . .. + +. ». 702: Perotti. Intorno al processo mierobiochimico d'ammonizzazione nel terreno agrario (pres. dal Socio CUDORI)E It at iMON O e RIGORE TORNO NS OI PSN CRANE INCL] BULLETTINO BIBLIOGRAFICO{. |.» » «. MBMS e » + > ea elise alte) cgOTR NE ANATT (*) Questa Nota sarà pubblicata. nel PiRgjicno fascicolo. SARÒ K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. > Pubblicazione bimensile. Poma 1° dicembre 1907. ca DELLA ANNO GCGCCIV. 1907 SEB RI N-"T-.A. RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 41° dicembre 1907. Volume XVI. — Fascicolo 11° 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI. CAV. VW. SALVIUCCI 1907 N. 11. REALE ACCADEMIA DEL LINCRI ESTRATTO DAL: REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE de Col 1892 si è iniziata la Serte quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a.suo carico, 4. I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, ossi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie pr<- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 5) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all'autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblioa nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mersa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. NNANANNNS dr, Di dS ]l do © p=fohÈ+:fon 2 (Za 1 DE dS 1 lo o, = {U Pi sl [N], È — 26 ([w; 2 ghi Questi potenziali sono la somma di potenziali ritardati di spazio, di super- ficie e di doppio strato e godono quindi delle proprietà note di questi potenziali. Costruiamo poi i potenziali ritardati di secondo ordine — asi x 1 de (7 r Ao=75 Di dr f Dora JE dr { [L] dr + 3L 26% 0 (00 + 2 [de 2 r[U]a dr = (CES x 1 do (7 r SEL dr {parta ). Sdf Coppar+ Jl A Db È +2 fee ( r[U]: de (!) Atti della R. Acc. di Torino, 1906, 1907. RenpIconTI 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 96 — 724 — ed i potenziali analoghi relativi alle altre due direzioni degli assi B,, Ca, Br Crt Questi potenziali ritardati di 1° e 2° ordine hanno fra loro relazioni analoghe a quelle che esistono fra gli ordinari potenziali newtoniani armo- nici e biarmonici. Difatti essi soddisfanno alle seguenti equazioni a derivate parziali : (Dî— a°4,)A,=4mva°X , (Dî—d4,)A,= 4nb*X aA,Ag=A, , bA,A,=Ap e quindi (Dî — a°4») A,A,= 47X (Dî — dA.) 4,A,=4rX, ece., nelle quali i valori delle X, Y,Z devono ritenersi nulli fuori dei campi S. Da queste formole e da considerazioni analoghe a quelle svolte nel paragrafo secondo della mia Nota Sulla propagazione delle onde nei mezzi isotropi (*) risulta subito ehe se noi consideriamo il movimento vibratorio rappresentato dalle formole 3 (dA A), d(Bi— Bo), ACT du n sr ri i n dy' y dal e bo 304555) 2B-B) E M (10) 47v, Sa > | da' 37 dv 3} de ) da By __ 3d (AA), dB — Ba) | (O e = 47rWw) e Dal ao A: È» le equazioni (3) risulteranno identicamente soddisfatte in tutto lo spazio. Per soddisfare anche alle altre condizioni relative alle superficie, con- viene considerare un altro movimento. Costruiamo i potenziali ritardati di 1° ordine di superficie Sles+ vil 4 w si DI Ù pe LED de_ ENTE W,= Lo W dn: Wy dr: >” Us sfre vè la Mi - AI S Di questi potenziali il primo g soddisfa alla equazione Di— 243) 1 =0 (1) Atti della R. Acc. di Torino, 1905. — 725 — e gli altri tre all'altra equazione analoga (Dî — d4,)w=0. Perciò il movimento vibratorio rappresentato dalle formole dP dY3 dWa dii eroe 7 — feno CETTE i dY d P_i ds 11 4 Ver = — a; Go) po o? mc De dP, de dYUi, ‘700, — Sono TIR dyY dove si è posto: a? — 2h? Pia a Pi si decompone in due, l’uno longitudinale e l’altro trasversale, ciascuno dei quali soddisfa alle equazioni (3), quando si suppongano X, Y, Z nulle în tutto lo spazio. Segue da ciò che la sovrapposizione del movimento (11) al movimento rappresentato dalle (10) non altera la proprietà di questi inte- grali di soddisfare le equazioni (3) in tutto lo spazio. Noi considereremo appunto il movimento vibratorio che risulta da questa sovrapposizione cioè il movimento: (12) u=u bu, o=v+0v0, w=wk vw Sì può dimostrare in via generale che esso soddisfa anche alle altre condizioni richieste dalla soluzione del problema di Maxwell. IIl. Per questo cominciamo ad osservare che le formole precedenti quando sì suppongano X, Y,Z, L, M, N, U,V, W indipendenti dal tempo dànno immediatamente la soluzione del problema statico di Maxwell. Inoltre se noi supponiamo che negli integrali di superficie che compaiono nei secondi membri delle (10),(11) le funzioni L (5), M ((-2), ; U (i _ A} ... Siano sviluppate secondo le serie di potenze dei rapporti ; ; A i primi termini di tali sviluppi daranno luogo ad integrali di forma identica a quelli che si hanno nel caso statico, e questi saranno i soli che converrà di considerare, quando si vogliano studiare le discontinuità degli integrali (10) (11) attraverso le superficie 0, 7, in quanto che gli altri, dipendendo da potenze d'ordine superiore della 7, non dànno luogo a discontinuità. Ora le discontinuità di questi integrali nel caso statico sono già state studiate (') e conducono precisamente a verificare le condizioni (4) (5), pei punti che non sono sul contorno di quelle superficie 0, 7 che sono aperte. Io (1) Vedi ad es. (oltre la mia Nota sopracitata dei Rend. dell’Ist. Lomb.), Lauricella, Equilibrio dei corpi elastici, Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, 1894. AE ritornerò su questa quistione per determinare in questi casi con precisione la natura delle singolarità sul contorno, ma intanto si può osservare che le condi- zioni fisiche del problema non vengono sensibilmente alterate se noi immagi- niamo prolungate oltre il contorno le superficie 0, 7 con striscie sottilissime, sopra le quali si assegnino valori tali alle L, M,... W. che, senza interrom- pere la continuità, si riducano a zero sul nuovo contorno. Potremo allora consi- derare queste superficie aperte, come chiuse, aggiungendo opportuni pezzi di superficie, sulle quali i valori di quelle funzioni siano sempre nulli. I teo- remi relativi alle discontinuità per superficie chiuse saranno allora applicabili. Finalmente per quanto riguarda il modo di comportarsi degli integrali (10) (11) all'infinito, osserviamo che essi sì comportano come potenziali ritardati di 1° ordine, e perciò quando si ammetta che in un tempo prece- dente remotissimo le funzioni X, Y,Z, L, M, N, U, V, W e le loro deri- vate rispetto al tempo abbiano valori nulli e non presentino discontinuità, con un ragionamento analogo a quello ben noto di Kirchhoff, si può conelu- dere che all'infinito si annullano in modo da soddisfare alle condizioni (6). Finalmente per dimostrare la unicità della soluzione del problema di Maxwell come fu da noi posto, si può osservare che mediante le formole di Love (!) qualsiasi soluzione si può rappresentare con formole integrali formate linearmente colle componenti X, Y,... W. Da ciò segue che la differenza di di due soluzioni corrispondenti a valori uguali per queste quantità risulta ne- cessariamente nulla. Segue di qui che se noi supponiano che le U, V, W siano sempre nulle, cioè che non esistano le superficie 7 di discontinuità, si può concludere: Esiste in generale sempre uno ed un solo movimento vibratorio, od una sola deformazione, che risolvano il problem& di Mazwell e sono continui in tutto lo spazio. Essi sono completamente determinati dalle forse del campo, e rappresentabili coile formole (12), posto U=V=W=0. IV. Mediante le formole generali della teoria dell'elasticità che legano le componenti di pressione a quelle di deformazione, noi possiamo studiare la distribuzione nel mezzo delle pressioni prodotte dal movimento vibratorio (12) o dalla corrispondente deformazione nel caso statico. Quelle formole, con notazioni ben conosciute sì possono scrivere mo: S dU QU DO 2 2)0— De IP — |}, Xe k(a 6?) 2kb 200 Y.=— Kb (E + di dv dU dWw PRES SI e E prrce 2 (18), k(at — b°) 0 — 2kb Ca Z=— kb (3435) i sesi dw dv du 7 pese pia 2, a EI SAN «12 Z.= — k(a 5°) 0 — 246 A X,= —kb - +3) , e quando in esse al posto delle «,v,w si sostituiscano i valori che sono (1) Cfr. le Note già citate: Sopra alcune formole fondamentali della dinamica dei mezzi isotropi. — 727 — dati dalle (10),(11),(12), si ottengono delle pressioni elastiche, che fanno precisamente l'ufficio delle celebri pressioni di Maxwell rispetto al campo di forze considerato. Non ci occuperemo per ora delle effettive espressioni di queste pressioni, che possono assumere una forma notevolmente semplice. Faremo invece un’os- servazione che ha un notevole interesse pel problema generale del quale ci siamo occupati. Noi non abbiamo posta alcuna limitazione, nè introdotta alcuna ipotesi, riguardo alle costanti elastiche a, del mezzo. Le soluzioni trovate val- gono quindi qualunque sia la sua natura fisica. Però è interessante vedere come esse si modifichino quando si attribuiscano al mezzo proprietà analoghe a quelle dell'etere luminoso. Le costanti 4,2 debbono soddisfare alla condizione EDI Noi possiamo quindi immaginare che 4 cresca indefinitamente, rimanendo fisso il valore di 9. Si vede allora facilmente che le funzioni A,,Ba, Ca. tendono allo zero; mentre le AaBi ; Ci sì conservano inalterate. Così @ si conserva finita e w,,%w:,ws3 inalterate. Pertanto le formole (10) (11) con- tinuano ad avere un significato, e perciò anche le (12). Possiamo perciò conchiudere che, in generale, la soluzione trovata pel problema di Maxwoll si conserva valida anche per un mezzo in cui la velo- cità di propogazione delle conde longitudinali sia infinitamente grande, rispeto a quella delle onde trasversali. Ma per vedere meglio come si comporti un tal mezzo rispetto al fenomeno delle vibrazioni, conviene osservare che la dilatazione, quando @ e d sono finite si può esprimere colla formola (?): 1 1 1 D- D_- Pa Ino00= [ (5a :+ CI 7 + Cet 1) d8+ $ 1 +if (anti ae PC: dr E) de DI 1 ci nia } i dI dA dr dY 107 DE mura 2220 ( DZUS Sa | 2d°U, ] dr de DE TORA SETA AIA dove U, e U, rappresentano le componenti delle discontinuità della vibra- (14) (1) Vedi la Nota 2°. Sopra alcune formole fondamentali della dinamica dei mezzi isotropi. — 728 — zione secondo la normale v ed il viaggio vettore 7, Ora se in questa formola dopo aver diviso per 4° facciamo crescere 4 indefinitamente troviamo: imo=.0, AZ cioè il mezzo si comporta come incomprensibile. Ciò era prevedibile; ma è interessante notare che si ha anche: lim a°0 = quantità finita. AZ Perciò anche le (13), cioè le espressioni delle pressioni, conservano un significato. Chiamando £ questa quantità finita limite del prodotto a*6@, si ha: 1 1 1 Cha ira È, 410 — DIC Y_ — 1 1 Ù 3; >; _ L_— M— —_ e Uh i T4+Np)de —o ((oaEpyvad wd o) de — DE du dI dn dY dn dI È (20, de Noi n Questo limite dipende quindi dai valori delle X, Y, Z,... V, W, nel tempo £. Considerazioni analoghe si potrebbero fare quando invece del problema di Maxwell si studiasse il problema generale del movimento vibratorio in mezzo indefinito come quello ora immaginato. Le formole precedenti varreb- bero ancora, quando si mutasse segno alle componenti delle forze di massa e superficiali, e si troverebbe che le equazioni del movimento di questo mezzo limite, come possiamo chiamarlo, sarebbero le seguenti: d°u B Li 2 Sag, cite ag ii — a DO dI dU dI dWw 2 PAV=Y+ copi Lo, DIA i n dW Yo dY 3 diw de a bAw=ZD+ > e le componenti di pressione: — 729 — e così via. In queste equazioni la funzione £ si presenta come un potenziale di forza, e come una nuova funzione da determinarsi. La trasversalità del movimento si può considerare allora come dovuta all’azione di questo potenziale. V. Le considerazioni precedenti sono d'indole troppo generale per potere da esse giudicare della opportunità della rappresentazione di un campo di forza mediante pressioni elastiche come quelle proposte. Conviene applicare le formole trovate a casi speciali e cercare a quali risultati esse conducano. Ciò mi propongo di fare. Intanto però mi sembra sia lecito concludere che non vi può esser dubbio circa la possibilità di risolvere in via generale il pro- blema di Maxwell senza uscire dal campo della meccanica ordinaria. Astronomia. — Osservazioni del passaggio di Mercurio 1907 novembre 13-14, fatte al RE. Osservatorio del Campidoglio. Nota del Corrispondente A. Dr LEGGE. Il cielo, quantunque più o meno nuvoloso nel mattino, ci ha permesso di osservare tutti i contatti. Le osservazioni furono fatte da me e dall’ astro- nomo F. Giacomelli per proiezione al refrattore di Merz, di 0%,117 di aper- tura, sull'imagine del disco solare di 0",40. L'astronomo aggiunto A. Pro- speri osservò anch'egli per proiezione il terzo e quarto contatto ad un cannocchiale di Dollond, di 0%,065 di apertura, montato parallatticamente sull’imagine del disco solare di 0",16. I tempi dei contatti osservati in tempo medio civile del Campidoglio sono ì seguenti: Primo contatto Secondo contatto Terzo contatto Quarto contatto Di Legge 1907 nov. 14 115 132 263 11° 152 498 14:37 825 14h 40 68 Giacomelli ” » 0» Digi DI » » 86 Di DIVA Tr Prosperi ” » ” uu i — — E » » 26 ) 3) VISO Le imagini dei bordi del sole e del pianeta furono oscillanti ed ondu- lati in tutti i contatti. Il disco di mercurio apparve circolare ed uniformemente nero senza traccia di aureola. Nel 2° e 3° contatto e più marcatamente nel terzo mi parve di vedere per qualche secondo un legamento in forma di striscia nera tra il bordo solare ed il bordo di mercurio. I tempi dei quattro contatti calcolati per Roma colle formole del Ber. Astr. Jahrbuch sono: 1° contatto 1907 nov. 14 11° 18" 1151 t. m. civile del Campidoglio 2° contatto ” » » i db 52.2» io ” ” 8° contatto ” E) TOR o ” È) 4° contatto ”» » » PIA:0 9019 ” ) ” — 730 — Matematica. — Integrazione dell'equazione funzionale che regge la caduta di una sfera in un liquido viscoso. Nota II di Tommaso Bocgio, presentata dal Corrispondente LEVI-CIVITA. 5. Prima di proseguire nella trattazione del caso generale, soffermia- moci sopra un caso particolare, molto importante, cioè quello trattato dal Basset e dal Picciati. Supponiamo che il liquido, inizialmente, sia in quiete, e che la velo- cità iniziale V, della sfera sia pure nulla; questa allora si muoverà entro il liquido, unicamente sotto l’azione della gravità. In tal caso la funzione y(#) si riduce ad una costante yo, che ha per valore: n 2m_e)g 2Mmt+e ove g indica l'accelerazione della gravità. Dalla (13) avremo quindi: DO, t c, i — 2u7/v ayo f e5°5 VT dî i- 0 pa 3 t rà le 2u]/v bro f eb y/r tr) j o) t= i lwtan eb e pIW+d x ovvero, integrando per parti: vm (EPS 2, srt Cilertit cioè, ricordando le (15): vo=g+7zrl FS pi de) — (18) Verifichiamo che questa funzione soddisfa effettivamente all’equazione fun- zionale (5). sro Osserviamo intanto che si può pure scrivere: fon i Dez Cina cea ei A d IAA | b i RO uu Il = t — hw DI =, (040) 1 y/v f I a proti Ja un — (LL x bu Sostituendo nella (5) ed effettuando alcune riduzioni mediante le (15), sì ha: (Av + a) ee VE — (4v + d) e VE - 225) È : Ti au t TR bu af da (i è — du — db ( do f S 5 È 0 So Pi—- ao Ve—-% ) = uv ( Vi 40 Ye—=- invertendo le integrazioni per mezzo del teorema di Dirichlet, il 2° membro può scriversi: t t L ce cs bf eb du | nl o e 0 e) e (Cl l RI Gesu du | === dI ( Li cu Pia Po—-% i Ù = | e du — of gpu du = uyvr(et-— e), 0 — uv n U — gli che si riconosce essere identico al 1° membro, a cagione delle (15). Perciò la funzione V(7), definita dalla (18), verifica la (5), inoltre si annulla per 4= 0, quindi soddisfa a tutte le condizione poste. Dalla (18) si deduce poi, dopo alcune riduzioni, che la lunghezza del cammino percorso dal centro dalla sfera vale: a TU — A Yo obi a O Sui 7392 oa SR A VA ea! v ; ( pr f e ve) di 5) Yo £ ] a Ji Ja 6. Supposto verificata la condizione (16), cioè (o le costanti a,b sono positive, e allora ponendo ar = w?, la (18) può scriversi : Yo ee! ITV OD (70000 VO='ia:|-AeO: —1—-& e dui (6) prot y/ 5 (1 Pr). e du) Ù Tv 2 (Wa = Yo n7/5- (i —_ = ( Sg i) 3 pet) Vir 0 RenpIcontTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. — 732 — introducendo col Bertrand, la funzione ©(x) definita da: 2 i odr==| edu, V T/0 potremo scrivere: V=33 + dg Yo 1 V a Ual ve o ge] Questa formola è utilissima per il calcolo numerico della velocità corrispon- dendente ai vari valori di £: infatti gli esponenziali e‘, e? sono calcolati in apposite tavole (*), e la funzione ©(z), che si incontra nel calcolo delle probabilità, nella teoria delle assicurazioni, e nella teoria della rifrazione astronomica, trovasi calcolata presso vari Autori, ad es. nel Caleul des pro- babilités (Paris, a. 1889) del Bertrand (in fine del volume), per valori del- l'argomento crescenti di un centesimo a partire da 0 a 4,80; tale funzione, al crescere dell’argomento, tende rapidamente ad 1, ad es. ©(4,80) diffe- risce, per difetto, da 1 per meno di 107. Il calcolo numerico di 4 è pure semplicissimo, perchè la (19) può pure scriversi : mu — 4 Yo ui» GE 23 y° Vo sh Ty lia 2 dle Yo i+ mv = Pes VE [Page] i, Yo lt VE [1 -o(y0)]. Supponiamo ora soddisfatta la (16”).e quindi O le costanti 4,d 8°’ risultano allora immaginarie coniugate, e dalla (18) si deduce poscia: g DINE el) bei — Ya eri) — at ZI —T p_iB'T ; Lt a—&T pip'T se Yo Ly (ef de da — er { a" de) 3 0 o ica 0 Vr osservando poi che: = Il LS lo: Ip Va a uyav Tia > 5 (1) Cfr. ad es. Kohler, Manuale logaritmico-trigonometrico, pp. 356-359. — 793 — e facendo il cambiamento di variabile #8"t = w? si ottiene: ne sele) |— Da n 2 [ sen n(#0 f"* c A (u?) du — ACI i ul — cos(#) f SIDE sen(u°) du |, (0) vO=p— e] Di n | cos dj OVVEero : 1 2 /y AI "i vo=i— eo cost) 1a | 1, — a) fis Ù sen(u?*) mu |+ 10) ctren(@) aa TE aee (0 ai. ant sen(#) vo | 557 81 > e cos(u?) du Se, in particolare, «= 0, cioè, come si deduce dalla (iv) zeri 2400v2 7 de 3 È vero y=70; le formole precedenti si semplificano, osservando che in tal Il caso p=i 74 v=Àv, e allora si trova: Vi) = _ — SAI Dì [i SO VES n mu |+ + Pol, :|1 2 VE 3 fi” cos(u?) an |. Questa formola è assai utile per il calcolo numerico di V(7), perchè gli integrali che qui figurano, che sono stati già incontrati da Eulero nella teoria della curva elastica, e poi da Fresnel nella teoria della diffrazione della luce, si trovano calcolati in apposite tavole, costruite da Fresnel stesso. 7. Dalle formole ora trovate si può subito dedurre il valor limite della velocità V(4), dopo un tempo infinitamente grande. Infatti dalla (18) si deduce intanto, con un cambiamento di variabile : (20) V(A= sa ron (1 fe ——-2 06 ema? du)— Lun (1 e da) ora se le costanti 4, sono reali (e allora saranno necessariamente positive, — 734 — come abbiamo visto), ovvero se sono immaginarie, ma con parte reale posi- tiva o nulla, sussiste la formola d' Eulero: pi 1,j/n 21 f nau Jy, — — VE (21) I du 2] 2) quindi avremo ancora : V A dr »f eau? 2a e i) edu? (= TRE on ayo dA du rev pe du, Dal teorema di De-l' Hospital si ha poi: 00 lim e { er du=lim i=% F t=% = ed un'eguaglianza analoga, in cui al posto di 4 comparisce d. Ne segue: im VOTI Del resto, a questo risultato si giunge pure osservando che la precedente espressione di V(7) si può pure scrivere così: 1 Sa (col te va=t+ na va f ECC de, Si conclude dunque che il moto della sfera tende a diventare uniforme, il valore limite della velocità essendo: Questa è la nota formola data da Stokes, nel caso del moto stazionario. Se poi la parte reale delle costanti 4,3 è negativa (cioò @«< 0), dalla (20) stessa risulta, con analoghe considerazioni, che per #= co il valore limite della velocità è ancora il 1° termine ; { 8. Se infine si suppone verificata la (16°) e quindi a=d, si può de- durre dalla (13°): Ae Pda nfZal Og, "ea a — 739 — e poichè, nel caso attuale, si ha: 4= 4», si ottiene, dopo qualche trasfor- mazione: U /v — È u Il CITTA ia o: “du . V À vt La penultima di queste formole è assai adatta al calcolo numerico di V(t). L'ultima è invece utile per dedurre il valore limite di V(7) per f= 00, valore che si trova essere eguale a DI come nei casì precedenti. Vv Il calcolo di 2 in questi vari casi, si può pure effettuare facilmente, ma, per brevità, mi dispenso di riportare le relative formole. 9. Riprendiamo il caso generale, nel quale la velocità di caduta della sfera è espressa dalla (13). La funzione y(t) è della forma: y()= ro + 9(5) ove Yo è la costante considerata precedentemente, e (4) è una funzione che dipende dallo stato iniziale di moto del liquido e della sfera (e che è nulla se sfera e liquido sono, inizialmente, in quiete); tale funzione deve inoltre annullarsi per f= 00. Sostituendo nella (13) si ottiene: vO= 0 +7 i@t d fe g(t) da — Vi = t U — uv pus pe de (e, 9 Vu—t Luyv2N, SE de — (2048) vil PE diodi v(t) designando la velocità dovuta al termine Y,, cioè quella che compete al caso in cui sfera e liquido sono inizialmente in quiete, la cui espressione è data dal 2° membro della (18). Si può ancora scrivere, invertendo le integrazioni col teorema di Diri- chlet, e tenendo sempre conto delle (15): V()= (0) + a U {/rova | fs gp(t) dî — 0 Gal av — 736 — con un cambiamento di variabili, si deduce: eat na LEDA ( t VO=:0+S ya) | e 91) de — Oi== b (È lh) — 2 Ve fee g(7) a da — Era fre supponendo le costanti 4,2 positive, o (se sono immaginarie) con parte reale non negativa, e ricordando la formola d'Eulero (21), si ottiene: VA)=%0%1)+ ara 4) = db i Vra Vaf es g(1) def e da — Vo Vi Ja ee? da Di (= E ee do Vai (SL auto fè gdr fe da VaVo J_e> CE t-T Questa formola, abbastanza semplice, ci dà la velocità V(t) della sfera al tempo £. Da essa si trae, con facilità, il valore limite della velocità, al crescere indefinito di #; infatti, dal teorema di De-l’Hospital, si ha: Na m| e" af e g(r) )def e da — ef e-DT gp(1) def e da | = Vir 15 T t [ee] ez g(T da a da DT g(T (@) de f eb? da sl. J MO), e Ke Oa, "_te_—_——_—mÒ0___o_o __11’_l’‘c e_D! 1 eo! È Nel ear? da DI CAI T e _(at_a7) dr Ù 9(0) È mp ) To =) o ed! embe? per —(bt—bt) 1 d 200] de —} 9(t) e = T —.lim————— === Abi. Vee, — i==90. — e = lim [50 (i Caesar -J ape îuy =0, perchè la funzione g(7) è nulla per {= c0. — 737 — Ne segue: lim VO)=limo()=. i=% i=% àv Si atriva allo stesso risultato se la parte reale delle costanti 4,2 è negativa. Concludiamo così, anche nel caso generale in cui sfera e liquido inizial- mente sono in movimento, che dopo un tempo infinitamente grande, il moto della sfera tende a diventare uniforme, la velocità avendo per valore limite quello assegnato da Stokes, corrispondentemente al moto stazionario della sfera. Tale risultato è in pieno accordo con ciò che suggerisce l'intuizione fisica. Meccanica. — Ur teorema sulle equazioni dell’elasticità. Nota di 0. TEDONE, presentata dal Socio V. VOLTERRA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Mineralogia — MNotzia cristallografica sull’azzurrite del Timpone Rosso presso Lagonegro. Nota di FERRUCCIO ZAMBONINI, presentata dal Corrispondente G. De LoRENZO. Recentemente il prof. G. De Lorenzo ha descritto un interessante gia- cimento di minerali di rame rinvenuto in certe rocce silicee certamente appartenenti agli strati triassici del Timpone Rosso, presso Lagonegro, in Basilicata (?). Dei diversi minerali notati dal prof. De Lorenzo uno, e cioè l’azzurrite, sì presenta, oltre che in venuzze ed in granuletti, anche qualche volta in piccoli cristallini, nei quali lo stesso prof. De Lorenzo riconobbe le forme IL10} e 31010. Non essendo finora stati descritti che pochissimi giacimenti italiani di azzurrite cristallizzata, sembrò al prof. De Lorenzo che una determinazione cristallografica dei cristalli da lui rinvenuti avrebbe costituito un interes- sante complemento delle sue ricerche. Con grande cortesia, della quale gli sono ben grato, il prof. De Lorenzo volle affidare a me per lo studio i cri- stallini da lui isolati. Nelle righe che seguono esporrò brevemente i risul- tati delle misure eseguite. (1) In un'ulteriore visita fatta in questo autunno alla località, mi sono convinto che i minerali cupriferi provengono senza dubbio dai terreni triasici. G. De Lorenzo. — 738 — I cristallini di azzurrite del Timpone Rosso raramente superano 1 mm. nella loro massima dimensione e sono, in generale, mal conformati ed irre- golarmente terminati. Ciò dipende dal fatto che essi di rado si presentano isolati e di solito sono riuniti in gruppi od in crosticine. Le forme semplici osservate sono le seguenti: e }001}, o }101{, 6 5101}, w }105{, 2 }010}, m}1104, p 3021{. Sono tutte assai frequenti, ad eccezione di }1054, che fu osservata in un solo cristallo con una piccola faccetta. Hreonik L’habitus dei cristalli è variabile e rende interessante l'azzurrite del Timpone Rosso, trattandosi spesso di abiti ben poco comuni in questo mi- nerale. Alcuni dei cristallini più piccoli presentano la combinazione assai semplice }001{ }101{ }110° nella quale 5001{ e }110{ non hanno grandezza 040 molto diversa ed anche }110} è piuttosto esteso. Uno dei cristalli di questa combinazione è rappresentato nella fig. 1: in esso, però, }101{ è più grande della base. Altri cristalli, che mostrano abito pseudoottaedrico, sono più ricchi di facce ed in essi riscontrai la combinazione }001{, }010{, 31104, {101{, 3101. Di queste forme, {110f, }I01{ e }101} sono le più estese: la base e l’altro pinacoide 3010} sono, invece, molto sottili (fig. 2). È in un cristallo di questo tipo che si è osservata la forma }105}. mn E o n — 739 — I cristalli più grandi, che raggiungono anche due millimetri nella loro massima estensione, mostrano di solito un habitus del tutto diverso da quelli finora descritti: essi sono, infatti, tabulari secondo la base e presentano forte- mente estesa la forma }021{. Il migliore dei cristalli di questo tipo è ripro- dotto nella fig. 3. 004 021 140 107 Fre. 3. Nella tabella che segue sono riuniti gli angoli più importanti che hanno servito a stabilire i simboli delle diverse forme semplici osservate. Per i calcoli si sono adoperate le costanti di Schrauf (?). a:b:ce=0,85012:1:0,88054 o= CTER Media Spigoli misurati delle misure Cale. (010):(110) = 49° 32! 49° 89 .1/y (110):(110) 80 45 80 41 (001):(101) 47 30 47 15 (001):(101) 44 40 44 46 (001): (105) 11 40 11,471) (001):(110) 882 88 10 (001):(021) 60 17 60 23 1/a (021):(021) 59 26 59.13 L'accordo tra gli angoli misurati ed i calcolati si può considerare come soddisfacente, se si pensa che le facce dei cristalli studiati sono quasi sempre poco adatte, causa la loro striatura e le ondulazioni della loro superficie, a misure esatte. Come si è già detto, cristalli di azzurrite somiglianti per il loro habitus a quelli qui descritti del Timpone Rosso sono rari. Una figura somigliante alla nostra fig. 2 è data dal Cesaro (*) per l'azzurrite di Lembecq (Belgio), e cristalli somiglianti assai a quelli della nostra fig. 3 sono stati descritti molti anni fa dal Lévy (*) come provenienti da Chessy. (*) Accettate dal Dana, System of Mineralogy, 6 ed., pag. 296. (®) Description des minéraua phosphatés, sulfatés et carbonatés du sol Belge. Mé- moires de l’Acad. Royale de Belgique, LIII, pag. 125-126 della Memoria, fig. 43. (3) Description d'une collection de minéraua ece., Atlas PI. LXIII, fig. 8. Cfr. Schrauf, Atlas der Krystallformen ecc., Taf. XXVII, fig. 31. RenpICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 98 — 740 — Chimica. — Sui sale di Roussin ('). Nota V di I. BELLUCCI e P. De CESARIS, presentata dal Socio S. CANNIZZARO, In una Nota pubblicata recentemente (2) abbiamo dimostrato che ai nitrosolfuri della prima serie compete un peso molecolare semplice, corrispon- dente alla formola generale [Fe*(NO)" S°]R', traendo tale conclusione dai valori trovati per 4 nella conducibilità elettrica del nitrosolfuro sodico. Stabilito questo punto essenziale ci è sembrato necessario, prima di pro- cedere oltre nelle nostre indagini, di confermare la formola suddetta, ricer- cando la quantità di ossigeno che viene consumata da una molecola di ni- trosolfuro. In presenza di un ossidante appropriato (nel nostro caso il per- manganato) ed in condizioni opportune, la molecola del nitrosolfuro va incontro ad una demolizione ed ossidazione totale, di modo che la quantità di ossigeno consumata non può fornirci alcun criterio circa il grado di ossi- dazione dei singoli componenti, ma può soltanto darci una indicazione sicura se nella molecola stessa sia o no contenuto qualche atomo di idrogeno. Il conoscere con sicurezza questo ultimo dato non appariva invero su- perfluo, giacchè non era affatto improbabile che nella molecola così complessa dei nitrosolfuri, la quale si genera in condizioni tanto poco definite, fossero presenti uno o due atomi di idrogeno che potevano facilmente essere sfug- giti nelle combustioni analitiche, di per sè stesse abbastanza difficili e delicate. Allo scopo suddetto noi abbiamo eseguito in opportune condizioni delle titolazioni con permanganato, sopra il nitrosolfuro potassico, ottenuto puris- simo per ripetute cristallizzazioni dall'acqua. Ecco i risultati ottenuti: I. Gr. 0,09738 di Fe‘(NO)"S8K,H:0 hanno consumato gr. 0,06948 di ossigeno. II. Gr. 0,06492 di Fe'(NO)" SK ,H:0 hanno consumato gr. 0,04608 di ossigeno. Da questi dati si ricava che la molecola Fe4(NO)" S° K , H:0 consuma nella sua totale ossidazione : DE 10L Atomi di ossigeno 26,1 26,07 mentre teoricamente, affinchè tutti gli elementi che la costituiscono giungano al loro grado massimo di ossidazione (come ci siamo assicurati che sono (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica Generale della R. Università di Roma. (2) Bellucci e Carnevali. Questi Rendiconti, XVI, 584, 1907. — 741 — pervenuti nelle titolazioni da noi eseguite) si richiedono 26 atomi di ossi- geno. Con ciò si esclude che la molecola dei nitrosolfuri contenga dell’idro- geno e resta confermato che essa realmente corrisponde alla composizione [Fe*(NO)" S°]R". Stabilito che ai nitrosolfuri della prima serie appartiene un peso mole- colare semplice e confermato per diverse vie che essi con sicurezza corri- spondono alla composizione rappresentata dalla formola [Fe'(NO)" S°]R, non resta che ad inoltrarsi nello studio della costituzione di questi sali così complessi. È evidente come la questione fondamentale sulla quale si impernia la costituzione dei nitrosolfuri, si basi sul grado di ossidazione che spetta ai quattro atomi di ferro, ed a tale proposito troviamo anzitutto opportuno ricordare alcune proprietà, riferentisi ai nitrosolfuri, da noi già descritte in Note precedenti. Abbiamo infatti dimostrato (') che due energici riducenti, quali l'idrazina e l'idrossilammina, non agiscono sulla molecola del nitrosol- furo Fe'(NO)" S° Na , 2H;0, in ambiente debolmente alcalino, se non formando 1 rispettivi nitrosolfuri di idrazina e di idrossilammina. Ancora più recen- temente abbiamo osservato (?) che una soluzione del sale Fe*(NO)? S° K, H0 in alcool etilico (al 99 °/,) si conserva perfettamente inalterata se esposta in vaso chiuso alla luce solare diretta, anche per la durata di più giorni. A tali fatti, che denotano di per sè soli la completa resistenza che offre la molecola dei nitrosolfuri di fronte a potenti agenti riduttori, siamo ora in grado di aggiungerne altri da noi osservati, i quali vengono non solo a corroborare quelli ora ricordati, ma gettano di per se stessi una gran luce sul grado di ossidazione che dovrà attribuirsi agli atomi di ferro dei nitro- solfuri. Una soluzione acquosa del sale Fe‘(NO)" S* K,H,0 (concentraz. 2 °/) posta a bollire e fatta attraversare durante l'ebollizione da una rapida cor- rente di acido solfidrico, o di anidride solforosa, per oltre un'ora, non ha dato alcun manifesto fenomeno di alterazione e col raffreddamento ha lasciato in entrambi i casi deporre l’originario sale potassico, in condizioni tali di purezza da poterlo senz'altro adoperare per l’analisi. Rimanendo sempre, come è logico, nel campo dei composti del ferro ricordiamo che in identiche con- dizioni, di fronte a tali riduttori, non resiste il ferricianuro potassico, uno dei sali più stabili e più complessi che annoveri la chimica minerale, men- tre all’opposto il prussiato giallo rimane inalterato nel suo tipo [ Fe" Cy°]R',. Nè, per le conoscenze che si hanno attualmente, si può attribuire ai nitro- solfuri un grado di complessità e quindi di stabilità superiore a quello dei () Bellucci e Cecchetti, Gazz. Chim. It., 27 (I), 162 (1907). (2) Bellucci e Carnevali, loc. cit., pag. 590. — 742 — ferricianuri, nei quali entra il radicale alogenico (CN), il formatore più tipico di anioni complessi. Abbiamo anche verificato che neppure altri energici riduttori quali l'idrosolfito sodico, la formalina, ecc. aggiunti ad una soluzione bollente del sale Fe*(NO)? S° K, H,0 producono alcuna alterazione. Le conoscenze gene- rali che si hanno a tal riguardo portano a credere che se i potenti ridut- tori da noi sperimentati si fossero trovati di fronte nella molecola dei ni- trosolfuri ad atomi di ferro allo stato ferrico, avrebbero dovuto con ogni probabilità produrre delle manifeste alterazioni. Del resto, se questi fatti di per sè soli non bastassero ad ammettere che il ferro per lo meno in mas- sima parte sia contenuto nei mitrosolfuri allo stato ferroso, possono certa- mente con più efficacia dimostrarlo le esperienze che ora passiamo a descri- vere (1). Lo stato di ossidazione degli atomi di ferro dipende in parte dal modo con cui trovansi collegati i tre atomi di solfo nella molecola Fe*(NO)? S3 Rl Per decidere se lo solfo si trovi realmente tutto allo stato di solfuro, abbiamo riscaldato una nota quantità del sale Fe‘(NO)? S° K,H:0 con acido clori- drico sufficientemente concentrato, entro un palloncino nel quale si manteneva costantemente una atmosfera di anidride carbonica. Il nitrosolfuro dopo una ebollizione di circa dieci minuti, e dopo aver svolto abbondantemente acido solfidrico, era totalmente passato in soluzione con è caratteristico colore verdognolo dei sali ferrosi, lasciando il liquido lattescente per piccole quan- tità di solfo rimaste in sospensione. Quando più non si svolgevano traccie di acido solfidrico, si aggiunsero alla soluzione lattescente (la quale non con- teneva acido solforico) poche goccie di acido nitrico che resero subito lim- pido il liquido colorandolo nel giallo caratteristico dei sali ferrici. Scacciato l'eccesso di acido, si dosò per pesata l’acido solforico formatosi, dopo avere eliminato il ferro, I. Gr. 0,7393 di Fe*(NO)"S°8K,H.0 — gr. 0,0791 BaS0, II. Gr. 0,7014 di ” —> gr. 0,0587 BaSO, dai quali dati, riferendosi a 100 p. di nitrosolfuro, si ha: TE II. Solfo 1,47 Telo (1) È noto, soprattutto per merito di Pawel, che, trattando a caldo con idrati alca- lini un nitrosolfuro della prima serie [Fe'(NO)" S*]R' si separa da ogni molecola di questi un atomo di ferro, allo stato di sesquiossido idrato, sotto forma di polvere rossa pesante e talora anche di lamelle lucenti, mentre contemporaneamente si svolge un atomo di azoto allo stato di Ns0. L’atomo di ferro che si separa allo stato ferrico preesiste come tale nella molecola? O non è piuttosto un atomo di ferro allo stato ferroso che viene nell’atto della precipitazione ossidato da un gruppo NO, il quale si riduce e si svolge per l’appunto allo stato di Ns0 ? — 743 — vale a dire della quantità totale di solfo (16,37 °/,) contenuta nel nitrosol- furo potassico, solo una piccola parte non si svolge come acido solfidrico, rimanendone indietro allo stato elementare una quantità di gran lunga in- feriore anche a quella che si calcola per un solo atomo di solfo (5,46 °/,). Da ciò può con sicurezza dedursi che tutti tre gli atomi di solfo tro- vansi nei sali di Roussin allo stato di solfuri e la piccola quantità di solfo che rimane indietro allo stato elementare, se vuole attribuirsi ad ossidazione prodotta da ferro ferrico sopra l'acido solfidrico, può solo riferirsi al mas- simo ad uno soltanto dei quattro atomi di ferro del nitrosolfuro, facendo però astrazione dal comportamento dei sali di Roussin di fronte ai ri- duttori. Per formarci un criterio un poco esatto su tale punto così interes- sante, noi abbiamo preparato per via secca i due solfosali Fe.Ss, SK. e 2FeS,SK?®, seguendo le indicazioni dettate da Schneider che fu il primo ad ottenerli (!) e mercè le quali si hanno con splendido aspetto cristal- lino e si appalesano all’analisi in stato di grande purezza. Questi due solfosali, l'uno, come vedesi derivato dal sesquisolfuro Fe, Sz, l’altro dal solfuro FeS, trattati con acido cloridrico concentrato a temperatura ordinaria ed in atmosfera inerte si sciolsono completamente, il primo con forte sepa- razione di solfo, il secondo rendendo appena lattescente il liquido. Essi ven- nero trattati a caldo con acido cloridrico, in atmosfera di anidride carbo- nica, nelle stesse precise condizioni nelle quali avevamo agito col nitrosolfuro. Lo solfo non svoltosi come acido solfidrico e rimasto dopo lunga ebollizione nell'interno del palloncino fu ossidato con acido nitrico e pesato come sol- fato di bario. Gr. 0,5922 di Fe.S:, SK. dettero in tal modo gr. 0,5556 di BaS0, donde si deduce: Trovato Calcolato per Fes Ss, SK» Solfo 13,10 40,30 vale a dire, nel caso del solfosale ferrico rimane indietro circa un terzo dello solfo totale, a causa evidentemente dell’ossidazione dell'acido solfidrico per opera del cloruro ferrico. Al contrario il solfosale ferroso 2FeS, SK, non ha lasciato indietro nelle stesse condizioni che una quantità molto piccola di solfo, niente affatto paragonabile alla forte quantità liberatasi dal solfosale ferrico. Ponendo in raffronto le quantità di solfo liberatesi nelle esperienze ora ricordate, compiute sul sale Fe*(NO)" S3 K e sui solfosali Fe? S?, SK? e 2FeS,SK?, risulta molto chiara l'analogia di comportamento fra il nitro- solfuro ed il solfosale ferroso, ed in accordo con quello che sopra abbiamo (1) Pogg. Annal., 136, 460 (1869). — 744 — detto appare chiaramente come il ferro nei sali di Roussin debba trovarsi, per lo meno in massima parte, allo stato ferroso ('). Per quanto è sicuro che tutto lo solfo trovisi nel sale Fe*(NO)? S° K,H:0 allo stato di solfuro, altrettanto però non è facile stabilire se anche il po- tassio sia direttamente collegato con lo solfo, ovvero questo sia unito com- pletamente al ferro. Noi vogliamo tuttavia ricordare qualche dato di fatto che può illuminarci intorno a tale punto. Il nitrosolfuro [ Fe‘(NO)? S$*]K trattato a caldo, in atmosfera di ani- dride carbonica, con acido cloridrico concentrato svolge come si è detto il suo solfo allo stato di acido solfidrico. Se invece nelle identiche condi- zioni esso sì tratta con acido acetico non si ha affatto sviluppo di acido sol- fidrico. Ciò appare strano se si pensa che il corrispondente nitrosolfuro della seconda serie [Fe(NO)* SK ]?, che è logico ritenere si aggiri nella stessa or- bita di complessità di quello della prima serie, dà invece abbondante svi- luppo di acido solfidrico sè egualmente trattato con acido acetico. È stato indubbiamente provato dai lavori di Pawel e di K. A. Hoffmann che la base, nei nitrosolfuri della seconda serie, è attaccata direttamente allo solfo, mentre per quelli della prima serie non si sa nulla di positivo a tal riguardo, giacchè tutti i tentativi di sintesi diretti ad ottenere eptanitrosolfuri alchi- lici non hanno mai approdato a nulla. Ciò farebbe ritenere che nei nitrosol- furi Fe*(NO)" S° R' la base non sia attaccata allo solfo (*) in accordo col fatto che l'acido acetico non svolge da essi acido solfidrico, mentre lo svolge dai nitrosolfuri della seconda serie ed anche in parte dai due solfosali Fe? S°, SK. e 2FeS, SK, , per quanto ottenuti per via ignea. A queste nostre considerazioni che tenderebbero a ritenere i tre atomi di solfo legati tutti direttamente al ferro noi non possiamo però attribuire che quel grado di probabilità imposto dalle poche conoscenze che ancora si hanno al riguardo, specialmente per quello che concerne il passaggio reciproco tra i nitrosolfuri delle due serie. Da quanto sopra abbiamo esposto risulta : 1°. Ai nitrosolfuri della prima serie spetta la formola semplice Fe*(NO)' S° R' ed è escluso realmente che essi contengano qualche atomo di idrogeno. (1) Abbiamo anche eseguito analoghe esperienze col nitrosolfuro della 2* serie Fe(NO)®SK. Questo, trattato con acido cloridrico non troppo diluito, in ambiente di gas inerte, dopo una sufficiente ebollizione fornisce un liquido perfettamente limpido e col nettissimo colore verde, proprio dei sali ferrosi. (2) A tale proposito vogliamo anche ricordare che l’epta-nitrosolfuro di piombo lascia passare completamente il piombo in soluzione quando viene trattato a caldo ed in atmo- sfera inerte con acido cloridrico diluito (1:5). — 745 — 2°. La completa resistenza di tali nitrosolfuri di fronte ai più ener- gici riduttori, mentre d'altra parte essi sono sensibilissimi all'azione degli ossidanti, insieme alle altre particolarità su ricordate, fanno ritenere che in essi gli atomi di ferro trovinsi se non tutti, in massima parte, allo stato ferroso. 8°. I tre atomi di solfo contenuti nella molecola Fe*(NO)" S° R', esi- stono allo stato di solfuro e secondo quanto finora si conosce si sarebbe in- clinati a ritenerli tutti legati agli atomi di ferro. Giova riflettere che siamo ancora ai principî dello studio dei sali di Roussin e le ricerche da noi compiute non sono che un modesto ed iniziale contributo intorno a tale questione. Noi crediamo che piuttosto di rivolgere l'attenzione e le ricerche soltanto sulla molecola dei nitrosolfuri convenga allargare in varî sensi le basi sperimentali, poichè altrimenti si correrebbe il rischio di rimanere in un circolo vizioso, soprattutto per il fatto che la mo- lecola stessa demolendosi mette in libertà agenti facili ad essere ossidati a fianco di altri egualmente facili ad essere ridotti, donde la difficoltà di rica- vare criteri sicuri e precisi. Tuttavia, nonostante le difficoltà che presenta, lo studio dei sali di Roussin dovrà essere coltivato sempre con più lena poichè da esso potranno derivarsi nuovi e preziosi criteri circa la funzione di alcuni gruppi, intorno a cui regna ancora grande o completa incertezza. Come sprone a questo studio stanno le suggestive parole dettate dal sommo Mendelejeff nei suoi Grund- lagen: « Die Eisennitrososulfide gehòren zu den Stickstoffverbindungen, die «noch wenig untersucht sind, die aber mit der Zeit warscheinlich ein sehr « werthvolles Material zur Erforschung der Natur dieses Elementes abgeben « werden. Diese Verbindungen zeigen mit den gewòhnlichen salzartigen Ver- « bindungen der Mineralchemie eine so geringe Aehnlichkeit wie auch die or- « ganischen Kohlenstoffverbindungen, . .... aber ihre Erforschung verspricht « die Entdeckung neuer Gebiete ». Chimica. — Swi persolfuri d’idrogeno (*). Nota di G. BRUNI e A. Borgo, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. I. PARTE STORICA. Le nostre conoscenze intorno ai composti persolforati dell'idrogeno sono ancora assai incomplete, nonostante l'interesse teorico che queste sostanze presentano, sia in sè, sia per le loro relazioni coi polisolfuri metallici. Dai non numerosi lavori che si trovano nella letteratura chimica su questo argo- mento, non risulta nemmeno in modo sicuro se esista un solo o più persolfuri d'idrogeno. (‘) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova. — 746 — Le prime esperienze risalgono a Scheele ('), il quale osservò che decom- ponendo un polisolfuro con acido cloridrico, si separa un olio giallo insolu- bile nell'acqua. I primi dati quantitativi sulla sua composizione si debbono a Berthollet, il quale gli assegna la formola Hz S;. Ricerche abbastanza estese si debbono a Thenard (*) il quale versa in acido cloridrico diluito il liquido che si ottiene bollendo a lungo zolfo con latte di calce e filtrando. Egli trova sempre nelle sue analisi più di quattro atomi di zolfo per una molecola di acido solfidrico, cioè composizioni cor- rispondenti a formole superiori ad H,S;. Tuttavia egli, guidato da considera- zioni aprioristiche e cioè dall'analogia col perossido d'idrogeno, persiste nel- l'assegnare al persolfuro d'idrogeno la formola Hs Ss, ritenendo i liquidi più ricchi in zolfo come soluzioni di zolfo libero nel vero persolfuro. Che il suo modo di operare, leggermente modificato più tardi da Liebig (*), possa facil- mente condurre a questo risultato, è chiaro; il suo liquido contiene infatti anche iposolfito, il quale, per trattamento coll’acido, dà zolfo, che si scioglie nel persolfuro contemporaneamente formato. Berthelot (4) osserva infatti che per preparare persolfuro puro è necessario partire da un polisolfuro alcalino preparato assolutamente fuori dal contatto dell'aria. Ramsay (°) il quale operò pure col metodo di Thenard, ottenne persolfuri assai ricchi in zolfo, la cui formola empirica variava fra H2S; e Ha Sio. Egli tentò di distillare il prodotto, ma osservò che ciò non è possibile nem- meno a pressione assai ridotta. Una serie di ricerche si deve quindi a P. Sabatier (°). Nella prima egli determinò il calore di scomposizione che trovò positivo: da esso si deduce che il persolfuro d'idrogeno è una sostanza endotermica. Nella seconda egli dice di aver potuto distillare il persolfuro a pressione ridotta da 40 a 100 millimetri di mercurio. In queste condizioni il persolfuro bollirebbe fra 60° e 85° e il liquido distillato avrebbe la composizione H,S;. L'autore in- clina però verso l'opinione di Thenard, ed ammette cioè l'esistenza di un persolfuro H,S, contenente ancora disciolto zolfo libero. Nella terza Memoria studia le reazioni e le condizioni di scomposizione. L'ultimo lavoro e nel tempo stesso il più esteso che si occupò del per- solfuro di idrogeno fu eseguito da H. Rebs ("). Questo autore decomponeva polisolfuri di sodio, di potassio e di bario preparati assai accuratamente 1 ) Von der Luft und dem Feuer, 153 (1777). ) Ann. chim. phys., 48, 79 (1831). ?) Ann. Pharm., 2, 27 (1832); 18, 170 (1836) (4) Ann. chim. phys. [3], 49, 450 (1857). (5) Journ. chem. Soc. [2], 12, 857 (1874). (9) Compt. rend. 97, 53 (1880); 100, 1346, 1585 (1885). (7) Lieb. Ann., 246, 356 (1888). ( (2 (i — 747 — evitando il contatto dell’aria ed aggiungendo ai solfuri neutri quantità cal- colate di zolfo, in modo da avere successivamente il bi-, il tri-, il tetra- ed il penta-solfuro. Da qualunque di questi polisolfuri egli partisse, otteneva sempre un persolfuro d’idrogeno la cui composizione oscillava in limiti ab- bastanza ristretti intorno alla formola HsS;. Egli concluse quindi che questo solo persolfuro fosse capace di esistere. Se abbastanza scarsi sono i lavori riferentisi al persolfuro d'idrogeno libero, molto numerosi sono invece quelli che si riferiscono ai suoi sali. Senza pretendere di riportarli qui tutti, accenneremo solo alcuni degli ultimi : Kiister ed Heberlein (*) dalla solubilità dello zolfo nelle soluzioni di solfuro sodico deducono l’esistenza di equilibrii complicati per diversi polisolfuri, fra i quali il tetrasolfuro si distingue per una maggiore stabilità. A risultati concordanti giunse più tardi Kiister (*) mediante determinazioni di potenziale elettrico. In genere sia per i polisolfuri alcalini, che per quelli alcalino terrosi, che per quelli di ammonio sembra che possano esistere tutti i diversi ter- mini della serie R, S,, Rs 93, ece., come individui chimici distinti. Pel sodio e pel potassio sembra che il limite massimo di solforazione sia R»S;. Che per i metalli alcalini a peso atomico superiore si possano avere polisolfuri più ricchi in zolfo è dimostrato da un importante lavoro di W. Biltz e Wilke-Dérfurt (*) i quali mediante l'esame delle curve di congelamento delle miscele di zolfo coi solfuri di rubidio e di cesio poterono provare in modo sicuro l'esistenza dei polisolfuri RbsS», Rb,S3 , Rb. Si, Rb3S; e Rbha Ss e corrispondentemente pel cesio. Come assai giustamente osservano ciò non prova ancora che in altre condizioni non possano esistere composti anche più solforati. Per l'ammonio sembra infatti che tali composti possano esistere; sulla loro composizione si hanno però dati poco concordanti. Fritzsche (4) de- scrive il prodotto (NH,).S,, al quale Sabatier (*) attribuisce la formola (NH.): Ss . Più recentemente Bloxam (°) avrebbe ottenuto l'enneasolfuro (NH,)sSs (7). Per analogia coi polijoduri, analogia che venne rilevata da parecchi au- tori, appare infatti verosimile che il massimo grado di solforazione che si possa aspettare sia Ro Ss. (1) Zeitschr. anorg. Chem., 43, 58 (1905). (2) Zeitschr. anorg. Chem., 44, 481 (1905), (*) Zeitschr. anorg. Chem. 48, 297 (1906). (4) Journ. prakt. Chem. 24, 460 (1841). (5) Compt. rend. 9/, 52 (1880). (9) Journ. chem. Soc., 67, 306 (1895). (*) È strano che nella Chimie minérale del Moissan (vol. III, pp. 222-228) dove pure è citata la memoria del Bloxam non sia accennato questo interessante composto. RenpIcontTI. 1907, Vol. XVI, 2°, Sem. 99 — 748 — Accenneremo infine che Le Blanc (') ha trovato che lo zolfo si scioglie catodicamente dando l’anione bivalente S!. Un particolare interesse presentano i polisolfuri di basi organiche, di cui però pochissimi sono conosciuti. Il primo lavoro su questo argomento si deve ad A. W. Hofmann (°). Egli, facendo agire una soluzione alcoolica di polisolfuro ammonico su una pure alcoolica di stricnina, ottenne un corpo ben cristallizzato che egli ritenne come un polisolfuro acido o persolfidrato della formola (C:,Hs902 N.) . Ha $3. Verificò che per azione di acido sol- forico concentrato si ottiene un persolfuro di idrogeno che egli però non analizzò, ma a cui attribuì in base alla suddetta analisi del composto di stricnina la formola HyS. E. Schmidt (*) il quale preparò lo stesso prodotto per azione dell'acido solfidrico ed ottenne pure un composto simile per la brucina, preferisce attribuire loro la formola (C., H»2 0% No): . 3H2 Ss che per la composizione centesimale differisce assai poco dalla precedente. Hofmann (‘) ritornò più tardi sull'argomento e dimostrò che contraria- mente alla sua prima opinione e a quella di Schmidt al composto di stric- nina è più razionale assegnare la formola (Cs, H23 0 No): . Ha Sg, interpre- tandolo come il polisolfuro neutro di un persolfuro d’idrogeno Hs Ss. È assai singolare come questi lavori di Hofmann siano riportati inesat- tamente nei trattati anche recenti. Così nel Moissan (vol. I, pp. 346-347), come nella nuova edizione del Gmelin-Kraut (vol. I, pag. 426-427), sì cita solo la prima delle due Memorie e si dice che Hofmann ottenne un olio della composizione H,S3, mentre come si disse egli non analizzò mai il per- solfuro libero; nello stesso equivoco caddero parecchi degli autori succitati come Rebs e Sabatier. Nessuno poi cita la seconda Memoria in enì egli rettifica la sua prima ipotesi. Tutti questi lavori sui polisolfuri mentre portano argomenti per far pre- vedere la possibilità di varii persolfuri d'idrogeno, non dicono però nulla sulla esistenza reale di tali sostanze allo stato libero. I lavori esistenti in quest'ultimo campo sono tutti più o meno antichi, risalendo almeno ad un ventennio; essi sono quindi stati eseguiti quando la chimica inorganica non disponeva ancora dei mezzi che le fornisce ora la chimica fisica, come in prima linea i metodi per la determinazione delle grandezze molecolari. Ci è quindi sembrato interessante di riprendere in esame la questione, applicandovi principalmente i metodi chimico-fisici. (1) Zeitschr. f. Elektrechemie //, 815 (1905). (*) Bericthe 7, 81 (1868). (8) Lieb. Ann. 280, 287 (1876). (4) Berichte 20, 1087 (1877). ro — II. PARTE SPERIMENTALE. 1. Preparazione, analisi e proprietà. Si sperimentarono i varî metodi proposti. Facemmo anzitutto due preparazioni secondo il metodo di Rebs, scio- gliendo cioè solfuro potassico puro « Kahlbaum » in alcool, aggiungendovi un eccesso di zolfo, scaldando a bagnomaria in tubo chiuso, cacciando l’al- cool in corrente d'idrogeno, riprendendo con acqua e versando la soluzione filtrata in acido cloridrico diluito con due volumi d'acqua. L'olio separatosi veniva poi accuratamente seccato con cloruro di calcio fuso. L'analisi si eseguiva pure col metodo di Rebs, che dà risultati esatti. Si scalda cioè il persolfuro in un palloncino prima pesato mantenendo una corrente d’'idrogeno, si raccoglie l'idrogeno solforato in una bolla di Mohr con potassa e si ripesa il residuo di zolfo rimasto. Preparato 1. Analizzato subito, diede : H,S — 15,50; S— 84,62 °/, ('). Composizione empirica Hs Ss. Preparato 2. Lasciato a sè per un paio di giorni, analizzato quando co- minciava a deporre abbondanti cristalli di zolfo: H,S — 10,84; S— 89,19 °/. Composizione empirica H3Ss,; Verificammo poi che non è necessario operare dapprima in soluzione alcoolica, ma che gli stessi risultati si ottengono anche operando addirittura in soluzione acquosa, sia in tubo chiuso, sia in un pallone in corrente d’idro- geno. Nelle preparazioni seguenti si usarono quantità pesate di zolfo. I pro- dotti sì analizzarono appena essicati, prima che avessero cominciato a de- porre zolfo. Preparato 3. Da 1 mol. K,S-+ 2 atomi S: H.S— 17,05; S— 83,17 °/,. Composizione empirica H, Sg,s . Preparato 4. Da 1 mol. K,S4-4 at. S: H,S — 18,97; S— 81,22°/,. Composizione empirica H3$;,;. Preparato 5. Proporzioni come sopra: H,S — 15,98; S— 84,16 °/,. Composizione empirica H3 $g,6. Preparato 6. Da 1 mol. K,S+4+- dat. S: H.S —» 16,49; S— 84,08 °/,. Composizione empirica H3Sg,4. (?) S'intende qui come sempre lo zolfo in più dell'atomo dell’acido solfidrico. — 750 — Preparato 7. Da 1 mol. K,S+- 9 at. S: H.S— 17,42; S— 82,64°/. Composizione empirica H3 Sg,04- Si fecero poi alcune altre preparazioni adoperando, invece di solfuro po- tassico, solfuro di calcio puro di Kahlbaum. Preparato 8. Da 1 mol. CaS+-2 at. S: H.S— 15,12; S— 84,83 °/. Composizione empirica H3Sg,s- Preparato 9. Da 1 mol. CaS+- 9 at. S: H,S — 17,89; S— 82,30 °/,. Composizione empirica HsS;,8 . Cercammo poscia di preparare liquidi più ricchi che fosse possibile in zolfo, sia sciogliendo zolfo cristallino in preparati gia analizzati, sia lascian- doli a sè per tempo lungo finchè depositassero abbondantemente zolfo, de- cantando ed analizzando il liquido limpido. Preparato 10. Dal preparato 9 per aggiunta di zolfo: H,S — 11,59; S — 88,73 °/,. Composizione empirica H3Sg,4. Preparato 11. Da persolfuro preparato col metodo di Rebs lasciato a sè per due settimane. Aveva depositato molto zolfo: H,S — 8,28; S— 91,97 °/,. Composizione empirica H3 19,8. Preparato 12. Ottenuto come sopra: H.S— 6,49; S— 93,74°/,. Composizione empirica Hg S1g,4 - Questo è, a quanto risulta, il persolfuro più ricco in zolfo preparato finora. Ramsay e Sabatier (loc. cit.) erano arrivati fino a Hs Sio. Come risulta dalle esperienze ora riportate, noi possiamo confermare l'osservazione di Rebs che la quantità di zolfo aggiunta al solfuro alcalino, ossia la composizione del polisolfuro alcalino da cui si parte, non ha influenza sulla composizione del persolfuro d’idrogeno che si ottiene. Noi anzi non ab- biamo mai potuto ottenere persolfuri così poveri in zolfo come quelli avuti da Rebs, nè di composizione così costante, non avendo mai potuto scendere al disotto di H,S;,;. Quanto alla massima parte delle proprietà fisiche e chimiche possiamo confermare i dati degli autori precedenti. I persolfuri d’idrogeno sono liquidi limpidi, pesanti, più o meno colorati in giallo-chiaro, solubili in molti sol- venti organici anidri (benzolo, toluolo, cloroformio, solfuro di carbonio, ecc.). Noi abbiamo tentato di averli allo stato solido cristallino per vedere se era possibile avere per questa via composti di composizione ben definita. Sottoponemmo a questo scopo persolfuri di diversa composizione sia puri, sia in soluzione concentrata nel toluolo a raffreddamento intenso mediante mi- — Q51 — scuglio di anidride carbonica solida ed acetone (— 82°), ma senza risultato. Dai liquidi puri non ottenemmo che masse assai viscose, ma sempre plastiche ed amorfe ed anche dopo molto tempo non si aveva nessuna traccia di for- mazione di cristalli. Fallito questo metodo di purificazione tentammo di ricorrere alla distil- lazione nel vuoto già usata da Sabatier (loc. cit.). Dobbiamo però dire che anche operando con persolfuro perfettamente disseccato, con ogni cura, e quantunque noi operassimo a pressioni da 2 a 3 mm., molto più basse cioè di quelle usate da Sabatier, noi non siamo riusciti ad avere una distilla- zione. Appena si fa il vuoto il liquido comincia subito a perdere abbondan- temente idrogeno solforato e questa perdita continua sempre con forti sus- sulti senza che si abbia una vera e propria distillazione. I nostri risultati concordano in ciò con quelli di Ramsay (loc. cit.). Nel palloncino rimangono liquidi saturi di zolfo ed assai solforati, come i due seguenti: Preparato 13 : H,S— 11,04; S— 89,07 °/,. Composizione empirica Ha Sy, . Preparato 14: H.,S — 8,26; S— 91,78 °/,. Composizione empirica H3 2. 2. Comportamento rispetto all'idrogeno solforato. Noi abbiamo voluto vedere se per assorbimento di idrogeno solforato si potessero avere preparati più poveri in zolfo. Preparato 15. A tale scopo abbiamo tenuto un persolfuro della compo- sizione Hs S6,4 (preparato 6) per due ore a 0° in corrente di idrogeno solfo- rato secco, facendo in modo che la corrente di gas lambisse la superficie del liquido. Non solo non siamo riusciti nel nostro intento, ma la corrente di gas ha favorito la eliminazione di idrogeno solforato dal liquido, ottenendosi un preparato ricchissimo in zolfo. L'analisi diede infatti i seguenti ri- sultati : H.,S — 10,24; S— 89,93 °/,. Composizione empirica Hs$10,2 - Pensammo allora di mescolare il persolfuro coll’ idrogeno solforato liquido. A tale scopo, in un tubo a pareti robuste contenente persolfuro liquido, raffreddato mediante anidride carbonica e acetone, facemmo conden- sare idrogeno solforato. Osservammo tosto che il persolfuro non si scioglieva sensibilmente. Siccome tal fatto poteva attribuirsi alla grande viscosità che il persolfuro presenta a temperatura così bassa, chiudemmo il tubo alla lampada e lo portammo alla temperatura ambiente (*). Con nostra sorpresa osservammo (1) Si era in estate e questa temperatura poteva variare dai 25 ai 30 gradi. SOA che nonostante ripetuta agitazione si avevano sempre due strati ben distinti. Ripetemmo più volte l'operazione sempre con lo stesso risultato. È dunque stabilito che l'idrogeno solforato liquido e il persolfuro d'idro- geno non sono miscibili. Il fatto è assai strano ed è, crediamo noi, il primo caso di due composti così strettamente analoghi che non si mescolino in tutti i rapporti. Volemmo sperimentare se si abbia almeno una solubilità limitata. Dopo di aver raffreddato nuovamente a — 80° uno dei tubi, lo aprimmo e decantato lo strato superiore lasciammo lentamente evaporare l'idrogeno solforato. 8 cen- timetri cubici di liquido lasciarono un residuo di grammi 0,55 di persolfuro, che analizzato approssimativamente diede numeri corrispondenti alla for- mula H, S.. 3. Determinazione dei pesi molecolari. Poichè è evidente che i preparati sopra ottenuti sono costituiti in genere da soluzioni di zolfo in eccesso in persolfuri di composizione ancora ignota, restava ancora a risolvere la parte sostanziale del problema che ci eravamo posti, e cioè quali di questi persolfuri esistano come individui chimici ben definiti. Non essendo riusciti a separare tali composti nè per cristallizzazione nè per distillazione, non restava che ricorrere al metodo crioscopico per de- terminare quali molecole rimangano non scisse in soluzione. Ecco come il metodo crioscopico può condurre a tale risultato: Si usi un solvente in cui lo zolfo si sciolga dando esattamente molecole Ss e vi sciolga un persolfuro di composizione empirica H, Sy. Questo sì scinderà in generale nella vera molecola del persolfuro, sia H2S,, più (2 — y)S che resterà in soluzione allo stato di zolfo ottoatomico. Si avrà così per l’abbas- Dia) 8 calcolare quale peso molecolare apparente dovrebbe aversi se in soluzione esistessero le molecole H,S;, HS; od H,S; o un miscuglio di queste. Re- sterà solo ad esaminare se la sensibilità del metodo sia sufficiente per deci- dere fra le varie formole. Come solvente fu usato il bromoformio, che si presta benissimo sotto ogni rapporto. Esso scioglie infatti bene sia il persolfuro, sia lo zolfo, gela a temperatura assai comoda (+ 8°), dà soprafusioni piccole, è facile ad aversi puro ed anidro ed ha una costante di abbassamento assai alta (K = 144), come fu determinato da Ampola e Manuelli ('), cosicchè permette determi- nazioni assal esatte. Determinammo prima in esso la grandezza molecolare dello zolfo e tro- samento di congelamento un coefficiente 7 = 1 + . Sarà dunque facile (’) Gazz. Chim. 25, II, 76 (1896). — 753 — vammo che si hanno con sufficiente esattezza numeri corrispondenti alla for- mola Ss (*). Eseguimmo quindi accurate esperienze colla maggior parte dei preparati sopra descritti. I risultati sono espressi nella tabella seguente: SI È Peso molecolare calcolato 2 |Composiz.| Peso mol. Fi Osservazioni © empirica | trovato per per per a) HsS:+Sx | HeSet+-S, | H2S:+-8: 4 | H2$5,; 184 168 a = per HsS:+H2$5; cale. 178 9 | HoS5,s 197 168 = — per H:S;:-4H,Ss » 188 7 HsS6,04 192 172 194,4 = = 5) HsS,6 194 178 198 = = 1 HsS6,s 212 178 199 w- per HsSst+4HsS, n 213 8 HoS6,8 207 179 200 —. ” DEE ” 10 HoS9,4 230 196 213 233 = 13 H2S0,6 238 197 213 234 — 2 HoSp.7 223 197 214 238 — 11 HsS12,8 245 209 223 239 — 14 Hx$12,8 248 209 223 239 — 12 Ho$16,4 276 218 229 243. | per HsS9-+-S 1,4; cale. 274. Soluzione leggermente torbida. Come si vede, le nostre esperienze conducono alla conclusione che in soluzione possono esistere, secondo la composizione del liquido da cui si parte, differenti molecole e così H,S;,H>S; ed H,S;. Nei persolfuri più ricchi in zolfo sembra anzi che si possa avere la molecola HySs (prep. 12); diamo questo risultato con qualche riserva perchè la soluzione relativa si era, per quanto leggermente, intorbidata, mentre tutte le altre erano rimaste per- fettamente limpide. Naturalmente non sarebbe possibile in base a queste esperienze de- durre se. ad es., si abbiano molecole H,Ss 0 miscele in proporzioni uguali di H:S; ed H,S,;. Siccome però esperienze succitate di molti autori e so- pratutto quelle di Biltz dimostrano in modo sicuro che esistono effettiva- mente tutti i varii polisolfuri corrispondenti ai varii persolfuri d'idrogeno, così è più naturale ammettere l’esistenza come molecole intere dei varii ter- mini succitati. Certo è ad ogni modo che si può escludere che avvengano scissioni in persolfuri inferiori ad H,S;. (°) Per non eccedere nello spazio omettiamo i dettagli di queste e delle successive determinazioni crioscopiche dando solo i risultati. Questi dettagli come quelli delle analisi verranno poi pubblicati diffusamente nella Gazzetta Chimica. — 754 — Rimane a vedere, come si disse sopra, se il metodo sia abbastanza sen- sibile, ossia se la scelta fra le diverse formole dipenda da differenze nei punti di congelamento che non cadono nei limiti degli errori d'osservazione. Diamo qui sotto un esempio per dimostrare che questo pericolo è asso- lutamente escluso: Abbassamento Abbassamento crioscopico calcolato per osservato HaS74+- Sx HsSs + Sy HsS5 4 S: ZO: 29,15 29,36 29,90 Si vede che le differenze fra gli abbassamenti richiesti dalle varie for- mole sono rispettivamente di 2 e rispettivamente di 4 decimi di grado, errori che sono assolutamente esclusi, poichè con un solvente come il bro- moformio, tali errori non possono superare i 2 o 3 centesimi di grado. 4. Polisolfuri di basi organiche. Accenneremo brevemente ad alcune delle esperienze fatte su questo ar- gomento. Abbiamo anzitutto preparato per altra via il persolfuro di stricnina di Hofmann (v. sopra), e cioè mescolando soluzioni benzoliche di persolfuro d'idrogeno di composizione HsS; con soluzione alcoolica di stricnina. Ab- biamo ottenuto i cristalli giallo-aranciati aventi le stesse proprietà indicate da Hofmann. Analizzati, ottenemmo pure risultati corrispondenti alla formola (C2:H2002Ne):H286. Verificammo che in opportune condizioni, e sopratutto raffreddando bene, altre basi organiche danno composti analoghi. Così isolammo allo stato di sufficiente purezza ed analizzammo il persolfuro di benzilammina che ha pure la composizione (C;H,N).H,S;. Torneremo in breve su questo ar- gomento. Osservammo pure che facendo condensare ammoniaca liquida sul persol- furo d’idrogeno si hanno dei bei cristalli rosso-aranciati di persolfuro ammo- nico, cristalli che ci riserviamo di studiare ulteriormente. Diremo infine che abbiamo in corso ricerche sulla costituzione dei per- solfuri alcalini, nelle quali applichiamo il metodo già usato con tanto suc- cesso da Stromholm (*) ed Abegg e Hamburger (*) nello studio dei polijo- duri e cioè la determinazione del rapporto secondo cui si ripartisce lo zolfo fra le soluzioni acquose o metil-alcooliche sature dei polisolfuri stessi ed il solfuro di carbonio. (*) Jour. prakt. Chem. 66, 4283, 517 (1902); 67, 845 (1903). (*) Zeitschr. Anorg. Chem., 50, 403 (1906). o — Chimica. — Sulla solanina estratta dai fiori del Solanum tuberosum Linn. ('). Nota di AmeDEO CoLoMBANO, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Per quanto in molti Trattati, nei quali è descritta la solanina ed il suo metodo di estrazione sia accennato che essa è contenuta in tutte le parti del S. tuberosum, tuttavia che io sappia non era mai stata estratta dai fiori, 0 per lo meno, il prodotto dei fiori non fu mai analizzato e studiato. Allo scopo di avere la solanina da una parte che fosse più estremamente opposta ai germi dei tuteri, dai quali sempre si è estratta, ho voluto ricor- rere ai fiori del fuderosum ed ho trovato che essi contengono una percentuale molto grande di alcaloide (dal 6 al 7 °/0), alcaloide però che presenta tutti i caratteri fisici, chimici ed analitici di quello estratto dai germi. Accennerò di passaggio che questa percentuale è ancora maggiore nelle bacche anche verdi (?) dalle quali, in un saggio fatto, ne ho potuto separare circa il 10 °/so (come colle bacche del sodomaeum), confermando in questo modo anche la credenza volgare della grande tossicità dei frutti delle patate. L'estrazione della solanina dai fiori venne fatta con lo stesso processo descritto per i germi e nelle stesse condizioni e metodo purificata. Si ottenne in questo modo facilmente pura in bellissimi cristallini lu- centi, incolori, perfettamente uguali a quelli ottenuti dai germi, più minuti però e delicati di quelli avuti dal sodomaeum. Seccata, nel solito tubo Mitscherlich, a 105° in corrente d’aria secca, all'analisi dà: I. Sost. gr. 0,2335 : CO» gr. 0,5252; H:0 gr. 0,1760. ITiSostwgni (0,43348:N/ 0042103, T. 2400068H. 75854. TUE (Sosta gr 041012: MN 007,81, T.: 239507624. Trovato °|o C 61,32 — = H 8,97 — =“ N sa 2,38 2,16 (media 2,27) (1) Lavoro eseguito nell’Istituto Chimico-farmaceutico della Università di Cagliari. diretto dal prof. L. Francesconi. (8) Non ho potuto, per mancanza di materiale, fare l’estrazione da bacche gialle, ben mature, come per il sodomaeum. RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 100 = (8 — per cui si calcola C3:H;1N0, la quale richiede: 61,38 8,23 2125 28,16 100,00 ozga Questa solanina, che come si vede, corrisponde nella formula a quella date per la solanina estratta dai germi, rispetto al calore presenta gli stessi caratteri di quest'ultima, raggiungendone lo stesso punto di fusione e di decomposizione, non mai quello però dato dal sodomaeum quantunque i prodotti, macro e microscopicamente, presentino uguali caratteri di pu- rezza. A media fiamma: a 225° ingiallisce leggermente; a 254° si nota qualche gocciolina di liquido, mentre tutta la massa va raggrumandosi; a 258° co- mincia la decomposizione che è completa a 260°-263°. Si nota sempre du- rante il riscaldamento di questa solanina, che quando il bagno raggiunge i 250°-254° la sostanza assume, raggrumandosi, un aspetto gommoso giallo- rossastro, come di caramella, carattere che non si nota con la solanina (a uguale stato di purezza) del sodomaeum che assume invece un color bruno-nerastro (!). Rispetto ai solventi ed ai reattivi più generali degli alcaloidi la so- lanina estratta dai fiori del /uderosum presenta caratteri quasi del tutto analoghi a quelli della solanina dei germi delle patate e delle bacche del sodomaeum. La scarsa quantità di prodotto puro, mi ha impedito di poter determi- nare il potere rotatorio ed il peso molecolare di questa solanina. Solanina del tuberosum del commercio (Schuschardt). Un campione di questa solanina che si trovava in laboratorio, venne purificata nelle stesse condizioni e modi descritti precedentemente: dopo due passaggi attraverso le soluzioni diluite di H,S0, e di HCl e dopo ripetute cristallizzazioni si ottenne in una massa bianca omogenea, costituita da mi- nuti cristallini aghiformi del tutto uguali a quelli della solanina ottenuta dai germi e dai fiori e precedentemente descritta. Anche questa rispetto al calore presenta quasi del tutto i caratteri già notati per le altre: a 230° leggermente ingiallisce e continua così sino a 260° che incomincia a decomporsi più rapidamente mentre si hanno delle goccioline di liquido; a 262°-265° la decomposizione è completa. (!) Vedi Fiv. Chim. farm. XXII, vol. 2°, fasc. 19. uo — Seccata a 105° in corrente d’aria secca, all’analisi diede: I. Sost. gr. 0,2060 : CO, gr. 0,4633; H.0 gr. 0,1545. HsSostaor 0:40 SORFENEC.CA8:09 7 IT. 232763, 5: Trovato °|o diga Fi} 13:38 — Mi 2,24 per cui si calcola la formula C3XH;1N0,,, analoga a quella ottenuta colla solanina da me estratta con metodo diverso, tanto dai germi, che dai fiori del S. tuberosum. Rispetto ai solventi ed ai reattivi più comuni degli alcaloidi questa solanina si comporta quasi analogamente alle altre. Per il confronto, insieme con i dati analitici e con le formule grezze proposte per le tre diverse solanine da me descritte, riporto nella tabella se- guente i dati analitici e le formule più recentemente proposte tanto per la solanina ottenuta dai germi delle patate, quanto per quella ottenuta dalle bacche del sodomaeum. Solanina del tuberosum. CHEN ZWENGER FUSNE CAZENEUVE HILGER COLOMGINO e KIND e BRETEAU e MERKENS (dai germi) A (germi) À a “ue = ra son (germi) (germi) (germi) germi fiori "a RA (1) (2) (2) (2) (2) 61,98 60,01 61,08 60,30 61,65 |61,39-61,32 61,32 61,26 8,67 8,4 8,90 8,67 9,76 8,33- 8,16 8,37 8,93 0,5-2,00 1,36 1,34-1,56 2,56 1,59 2,28- 2,14 2,27 2,24 Form. (Ora iO C.3H7,0,6N CseHssNO1sg CasHi NO, 0 CasHorNO;s CseHsiNO 1 Cs:HsiN0 1 Cs:HsaNO,, C;3Hg9gN09-1/2H20 Solanina del sodomaeum. | ODDO RoMmEO e COLOMBANO (3) (3) (CWno 60,99 60,48-60,73 Eat. 8,51 8,27- 8,98 NIRO 2,58 1,89- 1,90 Form. Ca-Ha7N0g C:6Hs5:N03 CseHssN0O1s (1) Media di cinque analisi. L’A. attribuisce l’azoto, trovato in due analisi, dovuto ad. impurezza. (2) Media di più analisi. (3) Media di più analisi. — 758 — Come si vede troppe differenze esistono nei dati analitici trovati dai di- versi chimici che hanno studiato questa sostanza, e per quanto quelli da me trovati per la solanina del. tudberosum — estratta e purificata sempre in eguali condizioni ed ottenuta da organi diversi d'una stessa pianta — siano concordanti fra di loro e con quelli di un campione del commercio, tuttavia non si può dare nè accettare la formula proposta come definitiva fino a tanto che i prodotti di decomposizione non saranno ben noti, il che richiede, fra l'altro, quantità di materiale non troppo facile ad aversi. Se però, per il momento, non può fissarsi con certezza la formula bruta della solanina, per alcuni caratteri differenziali che, tanto essa stessa che un suo prodotto di decomposizione presenta, può invece dirsi che quella del S. tuberosum è diversa da quella del sodomaeum, il che meglio si vedrà dalle esperienze che seguono. Azione dell’HCl alla temperatura ordinaria sulla solanina del sodomaeum. Gr. 1 di solanina purissima viene sciolta in 50 cc. di acido cloridrico al 2°/. Si ottiene subito una soluzione limpidissima che lasciata in una bevutina (T. 18°) dopo poco più di un'ora lascia depositare dei piccoli eri- stallini lucenti, che aumentano continuamente, tanto che dopo qualche ora, si trova tutta la bevutina internamente rivestita da una massa di ciuffetti nettamente cristallini. Raccolta questa massa su filtro, viene asciugata su carta bibula e quindi seccata sino a peso costante in essiccatore su acido solforico. Il prodotto così ottenuto pesa gr. 0,85: tuttavia il liquido filtrato, col riposo di più giorni, lascia ancora depositare dei minuti cristallini. Saggiato il liquido col reattivo di Fehling — dopo separato, alcaliz- zando, il piccolo eccesso di base — non lo riduce neppure facendolo bollire, dopo averlo acidificato, onde provocare l'inversione di un possibile diglucosio. Non avviene dunque una idrolisi del glucoside con formazione del sale di un suo prodotto di decomposizione (solanidina), ma invece la formazione del sale della solanina stessa, il che d'altra parte viene confermato dall'ana- lisi, dai diversi caratteri fisici e dall'aver riottenuto il prodotto di partenza inalterato. Analisi. Determinazione di cloro. — La piccola quantità di sostanza di cui disponevo mi costrinse a determinare il cloro in un modo diverso dai soliti: scioglievo il sale in acqua distillata ed alla soluzione limpida aggiungevo un piccolo eccesso di NaOH, al momento preparato da sodio metallico puro. Si formava tosto un precipitato bianco abbondante che riscaldavo alquanto e filtravo alla pompa, mentre nel liquido filtrato determinavo il cloro volu- — 759 — metricamente col metodo di Volhard pesando, per controllo, il eloruro d’ar- gento ottenuto. Dalla base intanto separata e che presentava tutti i caratteri fisici e chimici della solanina di partenza, facilmente si poteva riottenere lo stesso cloridrato che, seccato fino a peso costante, in egual modo veniva analizzato. Così operando con una stessa quantità di sostanza si poterono fare due determinazioni di cloro e decomponendo in seguito a caldo con HCl la base riottenuta, avere uno dei suoi prodotti di decomposizione, la solanidina, che certamente preparata da solanina purissima, per due volte passata allo stato di sale, doveva ritenersi esente di altre basi. All’analisi questo derivato di solanina fornì: I. Sost. gr. 0,6650; AgCl gr. 0,0983. II. Sost. gr. 0,4770; AgCI gr. 0,0733 (col metodo Volhard Ag gr. 0,0182). Trovato °/ I II Cl 3,69 3,07 — 3,81 (media 3,75). Come si vede, la percentuale di cloro di questo sale di solanina è mi- nore di quello trovato ed altrove descritto da me e da Oddo (5,93 °/5) (*) e che era stato ottenuto per precipitazione, con etere assoluto, dalla sua soluzione alcoolica. Questo cloridrato corrispondeva abbastanza colle formule proposte CorHy;NO; . HCl e C,,H NO, . HCl. 4 H,0 (?) mentre questo nuovo clori- drato, che come vedremo subito, presenta caratteri fisici e chimici affatto differenti, corrisponderebbe al monocloridrato di un multiplo di esse C:,Hs, N30;3. HCI e C;,Hg4N30;g. HC1 4 H0 per cui si calcola °/, C1.3,24 e 3,32. Non sta a me, essendosi il prof. Oddo, per comuni accordi presi, riser- vato lo studio della solanina del sodomaeum, entrare nel merito dell'argomento e riportare su questi fatti ulteriori considerazioni; accennerò solo ad una proprietà di questo cloridrato che potrebbe forse spiegarsi ammettendo per la solanina del sodomaeum il multiplo della formula da noi allora data. La soluzione acquosa di esso ha reazione leggermente alcalina, e questa reazione ha pure dopo varii giorni, quando il cloridrato si decompone dando la base libera. Ora ammettendo, data la quantità di cloro che contiene, che fosse un monocloridrato dalla formula doppia citata, con due atomi cioè di azoto, potrebbe spiegarsi questo fatto, che in soluzione di acido cloridrico al 2°/ sì neutralizzi un atomo di esso formando così il monocloridrato, mentre l’altro atomo di azoto libero impartisca il carattere basico di questo sale. Col processo invece dell'alcool ed etere citato e quindi in condizioni di acidità maggiore per HCl, si avrebbe il bicloridrato che sarebbe appunto (1) Gazz. chim. (1905), XXXV, I, pag. 36. (2) Rend. Acc. Lincei e Gazz. chim., l. c. SANE il sale da noi precedentemente descritto corrispondente alla formula C;4Hwu N:0,s (HCI), che richiede °/, 016,45. Riscaldato in tubicino, questo cloridrato, che si presenta in bei ciuffi nettamente cristallini, fonde a 208°-210° anche dopo seccato su acido sol- forico. Si scioglie non troppo facilmente in acqua (circa 1'1,5°/,) e la solu- zione che ha reazione leggermente alcalina, dopo qualche giorno di riposo anche a temperatura ordinaria si decompone dando la solanina inalterata. Trattata con cloruro di platino, questa soluzione dà subito un abbon- dante precipitato giallognolo, che raccolto e seccato fonde a 160°-65°; con cloruro d'oro, un precipitato giallo chiaro gelatinoso che fonde decomponen- dosi a 135° e con cloruro mercurico un precipitato bianco gelatinoso. Trattato invece con soluzione di KOH dà subito un precipitato bianco che raccolto, lavato bene e cristallizzato dall'alcool, presenta tutti i caratteri di fusione e decomposizione della solanina di partenza. Analogamente alla solanina da cui deriva, questo cloridrato è dotato di potere rotatorio sinistrogiro: una soluzione di gr. 0,2112 in 50 ce. di alcool diede, in tubo di 200 mm. a t. 21°, una deviazione media, ai raggi del scdio, di — 0,31. Aggiungerò che questo sale si ottiene facilmente tanto con solanina pu- rissima che cristallizzata anche solo una volta. Azione dell’HCl alla temperatura ordinaria sulla solanina del tuberosum. Nello stesso modo che con la solanina del sodomaewm si fece il saggio con la solanina ottenuta dai fiori e dai germi del /uZerosum e col campione del commercio. Tutte e tre queste solanine, appena trattate con eguali quan- tità di soluzione al 2°/, di HCl, si sciolgono completamente, dando una soluzione limpida che non dà alcun precipitato cristallino od amorfo, nep- pure dopo oltre un mese di riposo. Separata allora con soluzione di idrato sodico la base, il liquido saggiato, non riduce il reattivo di Fehling e la stessa base cristallizzata dall'alcool mostra tutti i caratteri della solanina. Questo saggio ripetuto diverse volte mi diede sempre lo stesso esito negativo mostrandomi anche come sia erronea la credenza che fino ad oggi si aveva, della facile decomponibilità di questo glucoside anche per azione degli acidi a freddo, mentre invece, come si vedrà in seguito, è tanto rapida a caldo. Scissione idrolitica della solanina del sodomaeum e del tuberosum. La frazione di solanina del sodomaeum, riottenuta per decomposizione del cloridrato e che presentava tutti i caratteri di purezza, la sciolsi in so- luzione al 2°/ di acido cloridrico e la feci bollire a ricadere. — 761 — Dopo otto o dieci minuti cominciò a depositarsi sulle pareti del pallone un precipitato bianco voluminoso che aumentò prolungando il riscaldamento, mentre il liquido, saggiato, riduce prontamente il reattivo di Fehling. Raccolto allora il residuo su filtro lo decomposi e purificai, come è de- scritto nella prima Memoria già citata, ed ottenni così una solanidina che presenta gli stessi caratteri allora descritti, rispetto ai solventi ed al calore. Essa infatti difficilmente cristallizza dall'etere e mai in lunghi e setacei cristalli come la solanina del /uderosum, ed anche dopo molte e ripetute cristallizioni il suo punto di fusione sì mantiene a 190°-192° e dopo raf- freddamento fonde allo stesso grado. Uguale risultato ebbi estraendo la solanidina direttamente dalle bacche secche e macinate di S. sodomacum, facendole bollire con soluzioni diluite di acido cloridrico e quindi decomponendo il cloridrato formatosi e purifi- cando la base ottenuta in egual modo con etere ed alcool. Si ottenne anche con questo nuovo metodo la stessa solanidina che fondeva a 190°-92°, e che difficilmente si scioglieva in etere ecc. ecc. Prodotto diverso si ha invece colla solanina estratta tanto dai germi che dai fiori del fuderosum e con quella del commercio. Trattate infatti nello stesso modo tutte e tre (le stesse frazioni, sepa- rate dalla soluzione in acido cloridrico a freddo) dànno un cloridrato dal quale facilmente si separa la solanidina che fin dalla prima cristallizzazione dall’etere si depone in lunghi e bellissimi cristalli setacei aghiformi che fon- dono, dopo essere stata nello stesso modo dell’altra purificata, a 210°-215° come campioni diversi di solanidina del commercio (di Kalhbaum, Merck e Schuchardt) ugualmente provenienti dai germi delle patate. Io ho in corso lo studio comparativo completo di queste diverse sola- nidine e nutro fiducia che presto potrò darne i risultati non privi di interesse. Dirò solo per il momento che tanto la solanidina del sodomaewm che quella del fuberosum hanno potere rotatorio sinistrogiro. Concludendo accennerò ad alcuni tentativi riusciti infruttuosi e fatti per ottenere composti con l’idrossilamina, la semicarbazide e la fenilidrazina della solanina dei germi delle patate, la mancanza di prodotto snfficiente impe- dendomi di farla per le altre. Azione dell’idrossilamina. — Gr. 1,5 di solanina si sciolgono in una soluzione idroalcoolica a caldo: separatamente, in una piccola quantità di acqua ed alcool, si sciolgono un grammo di cloridrato di idrossilamina e gr. 1 e mezzo di carbonato sodico secco. Fatto il miscuglio e riscaldato a b. m. per altre tre ore, la soluzione sì mantiene limpida a caldo anche per aggiunta di un altro gr. d'idrossil- amina e NasCoz e col raffreddamento lascia depositare un precipitato cri- stallino interamente costituito da solanina inalterata. — 762 — Azione della semicabarzide. — Uguale risultato si ba sciogliendo a caldo gr. 1 di solanina in soluzione idroalcoolica (circa 400 ce.) e separa- tamente gr. 1 di cloridrato di semicarbazide in alcool ed acqua insieme con gr. 1,5 di acetato sodico. Riscaldato a b. m., a ricadere, per oltre dieci ore col raffreddamento la soluzione si mantiene limpida; distillato l'eccesso di alcool e neutralizzato con carbonato sodico, si ha un abbondante precipitato bianco gelatinoso di solanina inalterata corrispondente in peso quasi esatta- mente alla quantità impiegata. Azione della fenilidrazina. — Sciolto gr. 1 di solanina in acido ace- tico, diluito con metà volume d'acqua, si aggiungono alla soluzione gr. 2 circa di fenilidrazina e si fa bollire per oltre dodici ore finchè la soluzione imbrunisce alquanto. Col raffreddamento non si deposita niente: distillato a pressione ridotta, quasi tutto l'acido acetico si diluisce con acqua e si neutralizza con NasCos. Si forma col riposo un precipitato abbondante costituito da solanina inalte- rata, mentre le acque separate da questo precipitato, neutralizzate con car- bonato sodico ed estratte con etere, dànno un prodotto cristallino che fonde a 125°-1830°, che è acetato di fenilidrazina. La mancanza di materiale mi ha impedito oltre che completare più rigorosamente lo studio comparativo, di poter tentare anche in altre condi- zioni la preparazione di questi derivati tanto interessanti e di altri che fin dal principio mi ero proposto. Prima di chiudere mi sia concesso di esprimere una parola di vivo rin- graziamento al ch.mo prof. Francesconi che mi fu cortese di tanti amiche- voli aiuti durante lo svolgimento di questo lavoro. Chimica. — Azioni catalitiche dei metalli suddivisi sui com- posti azotati (1). Nota di M. Papoa e C. CaiaAvES, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Azione del nickel e dell'idrogeno sul carbazolo. In una Nota precedente (?) sì è reso conto dei risultati conseguiti facendo agire l'idrogeno in presenza del nickel suddiviso sull'acridina; come è noto, si arriva così, in determinate condizioni, ad ottenere l'apertura di un nucleo omociclico e la formazione di una dimetilchinolina. Il fatto che, pur trattandosi di un corpo contenente un nucleo eterociclico, entrava in reazione soltanto uno degli anelli omociclici, fece prevedere che pure un altro corpo di analoga struttura, il carbazolo, avrebbe presentato analogo comportamento. Infatti le esperienze di cui ora (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (*) Questi Rendiconti 1907, II, 921. — 763 — esponiamo i risultati hanno confermato questa previsione; e dal carbazolo potemmo ricavare un indolo che per la composizione ed i caratteri è con ogni probabilità l’a-f-dietilindolo. Il carbazolo, come è ben noto, è un corpo assai poco volatile; e però, anche operando a temperature elevate (circa 300°, temperatura dimostratasi adatta nel caso dell’acridina) col metodo solito, ben poca sostanza veniva trascinata dalla corrente d’idrogeno nel tubo contenente il nickel. Tuttavia anche così operando potemmo osservare che il carbazolo subiva una trasfor- mazione; ma per esaminare i prodotti occorreva ottenerne in maggiore quan- tità, ed a tal fine pensammo di riscaldare il carbazolo in ambiente chiuso pieno d’idrogeno compresso ed in presenza di nickel ridotto. Mancandoci i mezzi per realizzare la disposizione indicata a tal uopo da Ipatiew ('), pen- sammo di ricorrere a un piccolo autoclave, di quelli comunemente usati nei laboratorî, che poteva resistere fino a 75 atmosfere. Nel recipiente si intro- duceva una capsula piena di carbazolo; al disopra di questa, appoggiata ad un piccolo trepiede di vetro, si poneva una capsula con qualche grammo di nickel ridotto; in seguito, dopo aver ben chiusa la caldaia, con un tubo di raccordo a vite, la si metteva in comunicazione con uno dei comuni cilindri a idrogeno compresso. In tal modo si portava la pressione d'idrogeno nel- l'autoclave a circa 8-10 atmosfere; con una buona guarnizione di piombo la tenuta era perfetta. Il recipiente così preparato sì riscaldava a 200-220° per 12-18 ore. Vogliamo dire anzitutto che i risultati che dà questo sistema sono in questo caso probabilmente paragonabili a quelli che si hanno in tubo aperto; e ciò è reso tanto più verosimile in quanto non si tratta di grandi pres- sioni (a recipiente caldo si arriva a 16-18 atmosfere. Non è da escludere che si avrebbe un comportamento differente operando a pressioni elevatissime, come ha fatto per varie sostanze Ipatiew; ciò è anche reso verisimile dalla diversità dei risultati ottenuti facendo agire a diverse pressioni il nickel sulla piperidina. La caldaia, una volta raffreddata, veniva sfiatata, poichè conteneva an- cora rilevante quantità d'idrogeno, e quindi aperta. Molta parte del carbazolo era ancora inalterata; ma si poteva subito rilevare essersi formate sostanze di carattere indolico. La separazione dei prodotti si faceva per mezzo del- l'alcool, traendo partito dalla loro grande solubilità in questo solvente e dalla piccola solubilità del carbazolo; non tardammo a riconoscere anche la pre- senza di una sostanza basica. A fine di separarla dagli indoli la soluzione alcoolica veniva diluita con acqua e trattata con acido cloridrico, tanto da portarla a lieve reazione acida, poi sottoposta a distillazione in corrente di vapore; così venivano a passare i soli indoli; il carbazolo ancora presente (1) Berichte, XL (1907), 1270. RenpICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 101 — 764 — non veniva trascinato che in minima quantità. Il residuo veniva filtrato per separare il carbazolo, poi concentrato: si ottenevano così minime quantità del cloridrato della base. Lindolo distillato era solido, bianco, alterabile all'aria e alla luce; a causa della sua grande solubilità nella massima parte dei solventi non si potè purificarlo tanto da analizzarlo direttamente; soltanto dal ligroino cri- stallizzava discretamente a squame. Il punto di fusione dell'indolo più puro che potemmo ottenere era di 95°. Come per tutti gli altri indoli, essendo preferibile preparare e analiz- zare dei prodotti di addizione, cercammo di ottenere il picrato. Lo prepa- rammo aggiungendo acido picrico cristallizzato all'indolo sciolto in poco alcool; il composto viene scisso dall'acqua; è assai solubile nell'alcool e ciò costituisce un inconveniente poichè non è possibile purificarlo per cristal lizzazione senza perderne la più gran parte; tale picrato cristallizza in aghi di colore rosso-scuro che anneriscono verso 165° e fondono a 172-73°. Non ritenemmo conveniente, per la ragione detta, di ricorrere per l’analisi al pi- crato. Altri nitroderivati aromatici danno cogli indoli prodotti di addizione che talvolta si prestano meglio dei picrati alla purificazione (*). Così il nostro indolo con cloruro di picrile diede un bel composto rosso-scuro ben cristal- lizzato in aghi, non eccessivamente solubile in alcool, dal quale cristallizzava facilmente. Dopo parecchie cristallizzazioni fondeva costantemente a 117°; l'analisi diede i seguenti risultati: Calcolato per Trovato CieHisN.CsHs (NO»); CI C 51,36 51,01 L, 4,04 4,15 N 13,99 13,41 Bisogna notare che i prodotti di addizione del metilchetolo e dello sca- tolo con cloruro di picrile preparati da Ciusa e Agostinelli (loc. cit.) conte- nevano due molecole di quest'ultima sostanza per una dell'indolo (*). Il nostro composto contiene invece quantità equimolecolari dei due com- ponenti; infatti la sua preparazione riesce bene soltanto impiegandoli in tali proporzioni; inoltre con due molecole di cloruro di picrile si avrebbe una composizione assai differente, tale che l’analisi precedente non corrisponde- rebbe ad alcun indolo. (*) Ciusa e Agostinelli, questi Rendiconti 1907, I, 409. (£) Il dott. Ciusa sta continuando le esperienze su questi prodotti di addizione per poter dedurre qualche regola sul numero delle molecole di cloruro di picrile addizionate dai varî indoli. — 765 — Ciò posto, l'analisi, come si vede, corrisponde ad un indolo alchilato, e precisamente ad un dietilindolo che avrebbe origine nel modo seguente: Pd Ai ASTA CH, Ù Lg lag | Lo CH Senonchè, parecchie altre sostanze di carattere indolico avremmo potuto ottenere, le quali all'analisi del prodotto d'addizione avrebbero dato risultati numerici poco dissimili. Così si poteva pensare alla formazione di mono- etilindoli, di metiletilindoli, di «-8 dimetilindolo, e finalmente di tetraidro- carbazolo, la quale ultima sostanza ha, come è noto, i caratteri di un indolo. Non essendo l’&-8-dietilindolo stato ancora preparato, non potemmo procedere ad alcun confronto diretto; di qui la necessità di fare un confronto fra l’in- dolo da noi ottenuto e gli altri sopra nominati. Intanto rimanevano esolusi gli @- e -etilindoli perchè questi sono liquidi, e l'a-metil-8-etilindolo che fonde a 56°, mentre il nostro è solido e fonde a 95°. Più facilmente poteva trattarsi dell'@-8-dimetilindolo, che fonde a 1069; senonchè questo corpo dà un picrato che fonde a 157°: e un prodotto di addi- zione con cloruro dì pierile (da noi preparato), che fonde a 138°; mentre che per gli analoghi composti dell’indolo da noi ottenuto i punti di fusione sono rispetti- tivamente 170-73° e 117°. Per le stesse ragioni rimane escluso il tetraidro- carbazolo; questo corpo, di quelli nominati, è quello più vicino per composi- zione al dietilindolo, differendone per una sola molecola d'idrogeno, e però si poteva anche pensare che il nostro prodotto non fosse altro che del tetraidro- carbazolo. A fine di procedere ad un confronto esatto, preparammo questa sostanza per riduzione del carbazolo con sodio e alcool amilico ('); essa fonde a 119°. Il picrato, che cristallizza in squame quasi nere, fonde a 133°; il composto d'addizione con cloruro di picrile, preparato da noi per la prima volta, si presenta pure in squame nerastre fondenti a 116°. L'aspetto di ambedue questi prodotti di addizione è assai diverso da quello dei corrispondenti ottenuti dal nostro indolo. Inoltre il tetraidrocarha- zolo non distilla in corrente di vapore. Come si vede, si arriva così per esclusione a concludere che l’idrogena- zione da noi ottenuta conduce ad un «-#-dietilindolo; naturalmente la cer- tezza sulla identità di questa sostanza sarebbe raggiunta rel solo caso che essa fosse anche ottenuta direttamente per sintesi. L’ossidazione non condur- (1) Zanetti, Gazzetta Chimica Italiana 1893, II, 294. — 766 — rebbe a risultati diversi da quelli che danno tutti gli altri indoli alchilati in a e inf. Per ultimo diremo quel poco che ci fu dato di constatare relativamente alla sostanza basica che si forma contemporaneamente all’indolo; il elori- drato ottenuto nel modo già detto era assai deliquescente; la base, liberata con potassa, è solida. Con cloruro di platino dà un cloroplatinato giallo che fonde a 213° con annerimento. Come si è detto, nelle nostre condizioni di esperienza, la base formata era in quantità assai esigua; perciò, pure accu- mulando i prodotti di varie preparazioni non potemmo averne tanta da rica- varne corpi analizzabili. Soltanto potemmo avere gr. 0,0683 di cloroplatinato discretamente puro, che adoperammo per determinare il platino. tanto per avere un indizio sulla probabile natura della sostanza. Il percento in platino risultò di 24,31; per un carbazolo completamente idrogenato si avrebbe 25,783; nessun confronto fu possibile non essendo questo corpo ancora noto. In ogni caso sembra si possa ritenere per varî indizi che la base ottenuta, anzichè essere un prodotto di demolizione molecolare del carbazolo, ne contenga an- cora il nucleo intatto, pure differendo pei suoi caratteri da tutti i carbazoli idrogenati finota noti. Anatomia. — Contributo alla conoscenza della spermatogenesi negli Ortotteri. Nota preliminare del dott. Gusravo BRUNELLI, presentata dal Socio B. GRASSI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Patologia vegetale. — Sopra un caso di parassitismo di una cocciniglia (Mytilapsis fulva Targ. var.?) sulle radici di olivo. Nota di L. PeTRI presentata dal Socio G. CUBONI. Alcuni campioni di radici di olivo, provenienti da un oliveto posto nei dintorni di Palermo ed inviati in esame alla R. Stazione di Patologia ve- getale, si presentano in gran parte ricoperti dai follicoli bruni, virgoliformi, di una cocciniglia, la quale, con le sue punture, produce nei tessuti corticali delle radici, delle alterazioni anatomiche che credo opportuno descrivere bre- vemente, giacchè, a mia conoscenza, mancano notizie a questo riguardo. Le radici attaccate si trovano a una profondità di circa 30 cm.; esse appartengono a delle vecchie piante di olivo coltivate in un terreno siliceo- argilloso, piuttosto secco, lasciato a prato da più anni (!). (1) Queste indicazioni sono dovute alla cortesia del prof. Paulsen, direttore del R. Vivaio di Viti americane di Palermo. nn n — 767 — Gli olivi che presentano le radici con le cocciniglie non sembrano, al- meno apparentemente, risentime alcun danno, ma ciò forse è dovuto all’ in- fezione di data recente, come può rilevarsi dalla grande quantità di ninfe femminili che si trovano sui campioni esaminati e dalla mancanza, quasi asso- luta, di vecchi follicoli d’insetti già morti. La fig. 1 mostra l'aspetto esterno di uno dei campioni di radici attaccati dalla cocciniglia in questione. La superficie esterna della corteccia si presenta alquanto bitorzoluta, verrucosa, con una manifesta produzione suberosa oltremodo abbondante. Anche le radici più giovani non sfuggono all'azione parassitaria della cocciniglia, e in queste i rigonfiamenti e le ineguaglianze della superficie sono ancora più manifeste; il numero degli insetti che vi si fissano è minore però, in propor- zione, di quello che si nota sulle radici più grosse, che sono quasi total- mente ricoperte dagli scudi quasi neri del diaspite. Dall'esame macroscopico della superficie di sezione di una di queste ra- dici si riconosce la natura esclusivamente corticale delle verrucosità esterne, il cilindro centrale conservando la sua forma regolare. In corrispondenza dei punti dove sono fissate le cocciniglie si nota una macchia grigio-giallognola, dovuta, come si vedrà, a una colorazione delle pareti cellulari e anche al neoformarsi di numerosi elementi cellulari che in tali regioni vengono origi- nati. La fig. 2 mostra la parte periferica di una sezione trasversa della radice, in corrispondenza del punto d’infissione del rostro di una cocciniglia. Si ve- dono infatti le setole rostrali (C) ancora immerse nei tessuti corticali, arre- state nel loro cammino dagli elementi sclerosi più esterni (S). L'effetto della puntura si traduce con una proliferazione centrifuga del felloseno peridermico, il quale dà origine in tal modo a un tessuto suberoso — 768 — di un notevole spessore (V). Processi neoplastici nello strato parenchimatico cor- ticale più esterno (R) non se ne formano; l'azione suggente del rostro ha per effetto di produrre la necrosi di gruppi di cellule (cellule tratteggiate nella fig. 2), le quali poi sono circondate da uno strato suberoso. Non si forma una guaina di composti insolubili intorno alle setole rostrali, come sempre avviene nel caso della fillossera della vite; si ha però anche qui la forma- 4 (C. . E ha di rà O ms SALANI SC CTEOATRTIIAS IRA IC EROE ® po (I) BIIGAN2 zione di una grande quantità di pectati insolubili negli spazî intercellulari e una colorazione giallo-ocracea delle pareti e del contenuto cellulare, dovuta probabilmente all'ossidazione di fenoli. Nelle radici normali e perfettamente sane di olivo, mancando una pro- duzione suberosa così abbondante come quella descritta, si comprende come l'attacco da parte di cocciniglie possa riuscire sul principio molto dannoso per la radice, data la lunghezza del rostro che può raggiungere la zona cam- — 769 — biale. In questo caso le alterazioni anatomiche della radice sono più pro- fonde, e come reazione alla lesione, si originano delle iperplasie anche nella zona più interna del parenchima corticale, senza la formazione però di vere tuberosità come avviene per le radici di vite fillosserate. La produzione di una gran quantità di sughero impedisce, generalmente, negli attacchi successivi al primo, che la necrosi e l'irritazione sieno por- tate molto profonde. Anche gli elementi sclerosi del parenchima corticale formano una linea quasi ininterrotta nelle radici attaccate, contribuendo ad impedire una maggiore penetrazione del rostro. La figura 2 rappresenta ap- punto il caso in cui le setole rostrali si sono contorte contro l'ostacolo op- posto dalle cellule sclerose. Nelle radici di uno o due anni, le conseguenze della puntura sono risentite anche dal cambio, che reagisce con una proli- ferazione in senso centripeto, e il cilindro legnoso assume quindi una forma irregolare, sviluppandosi maggiormente dal lato della lesione. Per quanto le piante attaccate dalla cocciniglia, non sembrino soffrire alcun danno, almeno apparentemente, e l'esame delle radici infatti escluda, nello stadio d'infezione incipiente, la presenza di microrganismi patogeni nelle lesioni, atti a produrre il marciume dei tessuti, pure sono di opinione che ulteriori ricerche, eseguite per stabilire nettamente le conseguenze pa- tologiche che da un tale parassitismo derivano per l’olivo, potranno essere di grande interesse, giacchè nella generalità dei casi l'azione delle cocci- niglie sulle piante essendo oltremodo perniciosa, è molto probabile che anche nel caso ora trattato le conseguenze delle alterazioni subìte dal sistema ra- dicale si rendano palesi più o meno presto negli organi aerei, sia diretta- mente, sia predisponendoli ad altre malattie. Sarà quindi interessante il ri- cercare quale diffusione prenda il parassitismo di questo diaspite sulle radici dell'olivo, specialmente nell'Italia meridionale. Per ciò che riguarda il riferimento sistematico di tale insetto, credo che esso possa esser ritenuto per una varietà della Mytilapsis fulva Targ., e più precisamente, per la disposizione e il numero dei dischi ciripari perivul- vari, sì avvicinerebbe alla varietà di questa stessa specie vivente sull’E/4e- agnus. Le dimensioni del corpo della femmina adulta e del suo follicolo sono però più piccole di quelle riscontrate in quest'ultima varietà. so PERSONALE ACCADEMICO 1l Presidente BLASERNA pronuncia affettuose parole in ricordo del prof. AL- FONSO SELLA, di cui l'Accademia deve lamentare la dolorosa perdita avve- nuta il 24 novembre 1907; e su proposta del Socio TopaARO, che sì unisce alle parole di rimpianto del Presidente, l'Accademia delibera d’inviare un telegramma di condoglianza alla famiglia del defunto Corrispondente. Il Socio E. MiLLosevicH legge la seguente Commemorazione del Socio straniero MauRIZIO LoEwy. A quella guisa che il soldato intrepido muore sul campo di battaglia ferito nel petto, così il nostro collega, l’astronomo Maurizio Loewyv, moriva il 15 ottobre durante una discussione di cose di scienza coi suoi colleghi, che aveva convocati a Parigi al Ministero della Istruzione pubblica, per prov- vedere a posti vacanti in due Osservatorî. Federico Guglielmo Bessel è senza contestazione l’astronomo più com- pleto del secolo XIX, perocchè in mirabile armonia associava quelle dispa- rate attitudini che dovrebbero essere possedute da chi fa professione abituale d'una scienza teorico-pratica così complessa come l’astronomia; ebbene, noi possiamo asserire che Maurizio Loewy in certa misura vi somiglia, chè al valore teorico aggiungeva un alto intuito pratico, con questo, tutto a suo favore, che, dai tempi di Bessel ad oggi, le esigenze tecniche dell'astronomia e la trionfale introduzione della fotografia domandano nelle attitudini soprad- dette manifestazioni eccezionali. Nato il 15 aprile 1833 a Vienna e compiuti gli studi al Politecnico, entrò all'Osservatorio imperiale retto da Carlo Littrow. Ricerche teoriche, osser- vazioni e calcoli d'orbite (cometa Donati, pianetino Eugenia) ben presto ap- parvero nell'Accademia di Vienna e nelle Astronomische Nachrichten, così che il giovane astronomo era segnalato a Leverrier come elemento prezioso per rinforzare l'Osservatorio di Parigi. Ben presto, assunta la piccola citta- dinanza francese, Loewy fece carriera all'Osservatorio, chè già nel 1866 ne è astronomo titolare. Sei anni dopo è membro dell'Ufficio delle Longitudini, e, morto Delaunay, nel 1873 entra all'Accademia delle Scienze, la grande cittadinanza avendo conseguita fin dal 1869. Due campi interessano in questo periodo della sua vita il valoroso astronomo, il miglioramento della Connais- sance des Temps, pubblicazione di spetianza dell'Ufficio delle Longitudini, e il problema di determinare la diversità di tempo nello stesso istante fisico in due luoghi collocati in diversi meridiani, valendosi della corrente elettrica per la registrazione dei tempi dei due orologi. Per opera di lui l’Effeme- —MU — ride di Parigi acquistò uno sviluppo ed una praticità sempre crescenti, così che si può ben asserire che la Connaissance des Temps è alla testa delle quattro grandi effemeridi di uso astronomico. Le differenze di longitudini fra Parigi, Vienna, Marsiglia, Algeri e Bre- genz diedero occasione a Loewy e ad Oppolzer di studiare, risolvere e perfe- zionare il problema della trasmissione dei segnali, immaginando opportuni apparecchi, che in seguito vennero adottati da tutti coloro che dovettero oc- cuparsi del problema sopraddetto; e i procedimenti d'oggidì sono opportune modificazioni e semplificazioni, alle quali non fu estranea l’Italia, del me- todo pratico primitivo. I grandi equatoriali d’oggidì esigono grandi cupole; gli ottici si sfor- zano ad abbassare il fattore della distanza focale dei grandi oggettivi, ma crescono î pericoli delle immagini difettose; grandi cupole e grandi equato- riali rendono funzionamento e maneggio non scevri di difficoltà. Maurizio Loewy le tolse di mezzo colla costruzione del tipo di equatoriale & gomito (coudé), per mezzo del quale può l’astronomo, senza mutar posizione, pren- dere in esame qualsiasi regione di cielo, e intanto la disposizione 4 gomito lascia accrescere la distanza focale, e le immagini degli astri si avvantag- giano specialmente nell’acromatismo. Il tipo fece fortuna non soltanto in Francia, ma anche in Osservatorî esteri. L'Osservatorio astronomico di Parigi ebbe una serie di direttori o illustri o assai benemeriti di quell’Istituto, e, per ricordare solo gli ultimi, si pensi a Bouvard, a Arago, a Le Verrier 1° periodo, a Delaunay, a Le Verrier 2° periodo, a Mouchez,. a Tisserand e a Loewy. È sotto la direzione di Mouchez che il nostro Socio assunse la vicedirezione dell’Osservatorio. Capo dei servizi meridiani egli rivolse il suo talento teorico-pratico, messo già alla prova negli studi sulle flessioni strumentali, ad escogitare nuovi metodi di osservazione per perfezionare i valori di alcune importantissime costanti dell'Astronomia, le quali erano state sempre determinate con osser- vazioni assolute di stelle. Le determinazioni assolute implicano la conoscenza completa della congerie degli errori, che passano sotto i nomi di sistematici ed accidentali, allo scopo di liberare quelle da questi. Nulla di più grave, di più difficile e sovente di più incerto od illusorio. Due costauti hanno nell'astronomia pratica una grande importanza, la costante dell’'aberrazione e quella della rifrazione. Se in luogo delle determinazioni assolute fosse possibile misurare col mierometro nel campo del cannocchiale quella ditfe- renza nelle posizioni assolute, che è funzione della costante che si cerca o di determinare o molto meglio di correggerla di grandezze assai piccole, tutta la congerie degli errori resterebbe eliminata. Partendo da questo concetto semplice e fecondo, Loewy volse le sue cure ingegnose alla realizzazione delle misure differenziali, che, per la rifrazione RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 102 — 772 — facilmente seppe compiere collocando davanti la lente oggettiva d'un equa- toriale un prisma atto a far cadere sul micrometro le immagini di due stelle, così che a lui fosse possibile di misurare le piccole variazioni di distanza di queste immagini, variazioni prodotte nella stessa notte per il cambiamento di distanza zenitale degli astri osservati, per il quale venivasi lentamente mutando il rispettivo valore della rifrazione vera. Se dalla costante della rifrazione si passa alla costante dell'’aberrazione, a raggiungere il massimo effetto conviene osservare nelle determinazioni assolute a sei mesi d'inter- vallo; ma Loewy, con un procedimento meccanico analogo, ridusse l'inter- vallo alla metà facendo misure differenziali nella distanza di stelle zodiacali collocate a 90° l'una dall'altra, così che gli accertamenti nelle variazioni venivano a cadere sempre di notte, eliminando gravi cause di errori e diffi- cilmente riducibili a conteggio. In una parola i metodi di Loewy condussero allo studio delle costanti prefate e quindi delle loro correzioni come se si trattasse di misurare gli angoli di posizione e le distanze d'una stella doppia, le preoccupazioni essendo ridotte alle opportune ambplificazioni, agli errori periodici e progressivi delle viti dei micrometri e alla stabilità dei muovi sistemi meccanici. Le prove sperimentali misero in piena luce la bontà dei nuovi procedimenti. All'estero le innovazioni geniali di Loewy trovarono consenso e premio, di quì la medaglia d'oro assegnatagli dalla Reale Società Astronomica di Londra. I progressi che i fratelli Henry apportarono alla fotografia stellare de- cisero la Francia a farsi iniziatrice della grande opera internazionale della Carta fotografica del cielo contenente le stelle fino alla 14 grandezza e del Catalogo fotografico per le stelle fino alla 11%. Devesi all’ Ammiraglio Mouchez la traduzione in atti della grande impresa. Loewy fu efficace col- laboratore durante la direzione dell'Osservatorio tenuta da Mouchez e da Tisserand; e poscia, succeduto nella direzione, egli rivolse i suoi talenti astro- nomici ai perfezionamenti teorici e pratici del grande lavoro, di qui una serie di ricerche per studiare ì minimi residuali errori delle misure delle lastre e per indicare i procedimenti per eliminarli. Allorchè il pianetino Eros nel 1900-1901 si accostò alla terra così da lasciar supporre che la parallasse solare, già nota entro 2 o 3 centesimi di secondo d'arco, potesse determinarsi con approssimazione maggiore, Loewy concepì un'intesa internazionale di comune lavoro, e i risultati sono copiosissimi materiali raccolti fotografici e visuali, così che è lecito ritenere che la di- scussione anche parziale di quelli debba ridurre l'incertezza nel valore della parallasse solare al mezzo centesimo di secondo. L'Osservatorio di Parigi, fino dai tempi di Arago, aveva assunto il grande lavoro di rifare le posizioni delle stelle che, sotto l'impulso e la direzione di Lalande, un nipote di lui aveva con mirabile assiduità osservate nel così — 173 — detto secondo Osservatorio della Scuola militare di Parigi nella fine del se- colo XVIII. Il grande lavoro di revisione impegnò l'Osservatorio di Parigi per circa 40 anni, e la pubblicazione del nuovo Catalogo, cominciata sotto Mouchez, vide la fine sotto la direzione di Loewy. Allorchè il lavoro volse al termiue, il valoroso direttore dell'Osservatorio pensò di dare un nuovo e moderno assetto alle osservazioni meridiane ir armonia colle esigenze della scienza, d'onde le nuove serie di osservazioni, che cominciano col 1897, di- vise in Memorie distinte e rispondenti ad obietti speciali. Un'altra grande impresa concepiva Loewy, quella cioè di utilizzare l'equato- riale 4 gomito per fotografare la luna. Sceltosi a compagno di lavoro l’a- stronomo Puiseux, dopo lunghe e pazienti esperienze, le immagini reali della luna, impresse snlla lastra sensibile nel piano focale dell'equatoriale, di circa 15 cm. riuscirono così mirabilmente nitide e perfette da permettere amplifi- cazioni da 8 a 17, offrendo quelle magnifiche fotografie lunari in circa 70 Tavole pubblicate fino ad ora in nove fascicoli con sapienti illustrazioni. Questo magnifico lavoro sorpassò quanto si possedeva di seleno-fotografia, benchè il materiale straniero fosse tutt'altro che esiguo. Se avvengano lievi variazioni sulla superficie lunare, e se queste sieno reali o apparenti, discutere potevasi, con poca speranza d’accordo, finchò privi eravamo di copiosi e squisiti saggi fotografici, ma dopo il lavoro di Loewy e Puiseux, insieme a quello di altri Osservatorî, la questione è entrata nella via maestra, e future e sistematiche seleno-fotografie potranno illuminarci sopra un così importante ed attraente argomento. Lo studio degli errori di divisione d'un cerchio impegnò eminenti astro- nomi, e arduo e faticosissimo è il lavoro quando sì voglia spingerlo fino alle ultime suddivisioni, d'onde metodi per diminuire nei risultati gli effetti di quelli pur non conoscendoli. Di quel tema proprio mesi or sono s'occupava il nostro Socio, e sembra che il procedimento da lui suggerito realizzi un progresso importante nell’astronomia di precisione, specialmente nel senso d'attenuare il lavoro senza venir mena alla esattezza. Fugace è il saggio, cari colleghi, che io vi ho porto dei frutti dell’ in- gegno cotanto equilibrato dell’illustre nostro Socio, ma opino sufficiente per provare quanto in principio aveva asserito, perocchè a lui non bastava con- cepire un'idea feconda di benefici alla scienza, a lui premeva tradurla in pratica nei più minuti particolari di carattere puramente meccanico e sotto- porla all'esperimento. Chi ebbe la fortuna di avvicinarlo parla di lui come di maestro emi- nente e cortesissimo, semplice, accessibile a tutti, e lieto di discutere di scienza coi più modesti suoi collaboratori. Divenuto di cuore cittadino francese lo addimostrò combattendo sulle mura della capitale nei momenti angosciosi per la Francia. Nel personale del- l'Osservatorio lascia oggi un vuoto profondo, che solo il tempo saprà colmare. — 774 — In quest'ultimo lustro la Francia fu crudelmente colpita nei suoi astro- nomi; scomparvero Faye, Callandreau, Rayet, Bossert, Trépied e Loewy: sia il successore di Loewy degno di lui e de' suoi predecessori, affinchè l'Osserva- torio Nazionale di Parigi possa mantenersi a quell'altezza scientifica che, con consenso universale, gli è riconosciuta. PRESENTAZIONE DI MEMORIE PER COMMISSIONI TRAINA E. Su alcune Celestine di Sicilia. Pres. dal Socio STRUEVER. RELAZIONI DI COMMISSIONI Il Socio STRUEVER, relatore a nome anche del Corrisp. VioLa, legge una Relazione colla quale si propone la inserzione negli Atti Accademici, di una Memoria del prof. F. MiLLOSEVICA, avente per titolo: Studi sulle rocce vulcaniche di Sardegna. I. Le rocce di Sassari e di Porto Torres. Le conclusioni della Commissione esaminatrice, poste ai voti del Presi- dente, sono approvate dalla Classe, salvo le consuete riserve. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosEvicH presenta le pubblicazioni giunte in dono, fa- cendo particolare menzione di quelle dei Soci MATTIROLO, HELMERT, HowARD, DARWIN; segnala inoltre la pubblicazione: Zes Observatoires astronomiques et les astronomes fatta su documenti ufficiali per cura dei Signori STROOBANT, DeLvosaL, PHiLippor, DeLPORTE e MERLIN. Il Socio PATERNÒ, a nome del Comitato del VI Congresso internazio- nale di Chimica applicata, fa omaggio degli Atti del Congresso, pubblicati in sette grossi volumi. Il Socio Paternò annuncia poi all'Accademia che le somme raccolte per questo Congresso non solo furono sufficienti a provvedere alle ingenti spese dello svolgimento del Congresso e della stampa degli Atti, ma che si è avuto un avanzo di lire 20 mila che il Comitato del Congresso, su proposta del Paternò, ha destinato ad un fine che mira al progresso e al decoro della scienza italiana. Saranno stabilite delle borse per i giovani chi- mici italiani che si recheranno al prossimo Congresso di Londra per farvi delle comunicazioni originali. Si avrà così il doppio vantaggio di eccitare l'e- mulazione fra i giovani chimici italiani e di esser sicuri di un notevole nostro contributo al Congresso di Londra. > (0) CORRISPONDENZA Il Presidente BLAsERNA dà comunicazione del telegramma fatto trasmet- tere da S. M. la Regina Madre, col quale S. M. ringrazia l'Accademia per gli auguri e le felicitazioni a Lei inviate pel Suo genetliaco. Il Segretario MiLLosevicH dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. Ringraziano per le pubblicazioni ricevute: La R. Accademia delle scienze di Stoccolma; la R. Accademia delle scienze di Lisbona; la R. Accademia di scienze ed arti di Barcellona; le Società Reali di Londra e di Melbourne; la R. Società zoologica di Amsterdam ; le Società di scienze naturali di Karlsruhe e di Emden; le Società geolo- giche di Edinburgo, di Sydney e di Manchester; l'Istituto Smithsoniano di Washington; i Musei di storia naturale di Amburgo, di Bruxelles e di Nuova York; il Museo nazionale di Mexico; gli Osservatorii di San Fernando e di Cambridge Mass.; la Università di Tokio e la Scuola politecnica di Zurigo. E. M. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti-dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia’ dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Nol 0, anzi che sa positivo il limite inferiore dei valori di u. Con ciò anche il valore assoluto della velocità V=|Vw + 0°| (finito per le ipotesi precedenti) «vrà (in tutto L, contorno compreso) 7 limite inferiore diverso da zero. 8. — Pressione. Condizioni ai limiti. Peri moti irrotazionali, soggetti a forze conservative, e stazionari (rispetto ad assi fissi, ovvero dotati di una traslazione uniforme), le equazioni idro- dinamiche si riassumono in un’ unica relazione fra il valore assoluto della velocità, la pressione (divisa per la densità) e il potenziale (unitario) delle forze attive. Nel caso presente si ha: SV +gy +p= cost : designando al solito p la pressione, 9 l’accelerazione di gravità, e immagi- nando assunta l’unità di massa in modo che la densità del liquido risulti eguale ad 1. (Si lasciano indeterminate le unità di lunghezza e di tempo). Sulla linea libera /, la pressione p è a ritenersi costante; sarà perciò (3) V? + 2gy= cost. , dn ogni punto di 1. — 780 — Le altre condizioni ai limiti provengono dall'esprimere che tanto il fondo y=0, quanto la linea libera / sono linee di flusso, cioè dirette come la velocità. Indichiamo con s l'arco di una generica linea di flusso, contato a par- tire da una origine arbitraria nel senso del moto (ovunque ben determinato, de di per essere V >0). Saranno +, i ds’ ds del moto, e avremo, sopra una tale linea, i coseni direttori della tangente nel senso UAN) DI ds VO’ ds VER donde, in virtù delle (1) e (2), \ dp _dpde | IP dy _ ISO VISIERA / CE DONARE = -— (0) ds MASSA myNas La seconda equazione mostra che w si mantiene costante sopra ogni linea di flusso; reciprocamente questa circostanza caratterizza una linea di flusso, perchè, se ce si annulla, lungo una qualche linea, ne segue da di —v7 +u as ds ds cioè la tangente ha la direzione della velocità. In O si è attribuito a w il valore zero; sarà perciò, qualunque sia 7, (4) = 0 RR ZIO. Volendo fissare il valore (costante) di w sopra /, basterà integrare la (2) da un punto generico del fondo ad altro, pure generico, della linea libera (seguendo un cammino qualsiasi interno a L). Integriamo per es. lungo l’asse delle ordinate da O sino all'intersezione A dell'asse con /. Avremo, essendo zero il valore di in partenza, e designando con g il cercato valore d'arrrivo, q =[ udy, quantità essenzialmente positiva, per l'ipotesi supplementare relativa alla w (!). Ne consegue (5) w=q , în ogni punto di L. Va notato che, in tutti i punti del campo L, la w rimane compresa (1) Si osservi che, essendo 1 la densità del liquido, g= {udy non è altro che la COR portata del moto relativo per unità di larghezza del canale. = 181 — fra zero e g. Infatti, per ogni funzione armonica, regolare in un dato campo, i valori, relativi a punti interni, sono sempre compresi fra il limite supe- riore e il limite inferiore di quelli assunti al contorno. La w è appunto armonica e regolare in L e assume sul complessivo contorno di tale campo i valori zero e g. L'equazione da = V, ove si tenga conto che (sempre per l'ipotesi sup- plementare) V non scende mai al disotto di una certa costante positiva, mo- stra che cresce costantemente e indefinitamente con s, convergendo Verso + co quando si procede nel senso del moto, verso —» co, quando si procede in senso opposto (lungo la linea di flusso, di cui si tratta; in par- ticolare sul fondo o sulla linea libera /). 4. — Conseguenze analitiche. Inversione. Posto ai ia | (6) u— iv =, Pif, w ed f riescono notoriamente funzioni della variabile complessa 2, in virtù Piano f=g+ 1% Fic. 2. delle (1) , (2); e le (1), (2) stesse si compendiano in (7) af — 0 Al variare di s nel campo L, w si mantiene sempre regolare, resta finita all’ 00, eil suo modulo |w|==V non si annulla mai. La / è pure regolare de Considerando un piano complesso, rappresentativo dei valori di f (fig. 2), (al finito), e non sì annulla mai a norma della (7). — 782 — le proprietà delle funzioni g e w, rilevate nel n. precedente, permettono di asserire quanto segue: 1. Mentre (nel piano del moto) « percorre l’asse reale da 4 = — co a «= + %, anche / percorre (nel suo piano) l’asse reale, sempre nel senso delle ascisse crescenti, da gp=—oo ag=+c0. 2. Mentre 2 percorre la linea libera /, diciamo nel senso delle ascisse decrescenti (con che si viene a descrivere l’intero contorno del campo L, sempre in uno stesso verso), f percorre la parallela w= g all'asse reale, l'ascissa g decrescendo costantemente da + 0 a — co. 3. Ad un generico punto # del campo L corrisponde nel piano f un punto della striscia S, compresa fra l’asse delle ascisse w=0 e la paral- lela &=q. Con ciò siamo autorizzati a concludere che la funzione /(z) porge la rappresentazione conforme di L su S. df | % non si annulla mai, basta che vi sia biunivocità di corrispondenza fra i contorni, perchè reciprocamente ad ogni punto / di S corrisponda uno ed un solo punto 2 di L ('). Si può così riguardare 4 come funzione uniforme di f entro la striscia S. Tale funzione è manifestamente reale sopra l'asse reale, regolare al finito, assume sulla W= 9g la successione di valori, che compete alla linea libera /, ecc. Naturalmente, anche la w=w— ?v, funzione regolare di 2 in L, si può pensare funzione dell'argomento /, pel tramite di 2: come tale, essa sì comporta regolarmente al variare di / entro S, resta finita all'oo, e sempre diversa da zero, assume valori reali sull'asse reale (perchè v= 0 sul fondo, cioè per W= 0), ecc. In virtù della (7), le due funzioni <(/),w(/) sono legate dalla rela- zione Infatti, sapendosi che /(z) varia in S, mentre 2 varia in L, e che af w(f) 5. — Riflessione. Equazione funzionale caratteristica. Le funzioni 2(/),w(/), definite in tal modo entro la striscia S, sono entrambe reali sull'asse reale w=0. Ne consegue, per il noto principio della riflessione analitica di Schwarz (*), che esse sono prolungabili analiti- (1) Cfr. per es. Osgood, Zehrbuch der Funktionentheorie [Leipzig : Teubner, 1907], Cap. VIII, $ 5. (2) Cfr. per es. Darboux, Zegons sur le théorie générale des surfaces, Vol. I [Paris: Gauthier-Villars, 1887], pag. 174-175. — 783 — camente nella sottostante striscia w=0,yw== —yg, assumendo quivi valori coniugati a quelli, che loro spettano in S. Più precisamente, se in un punto generico g + 2w di S è | eg+iw=z+wy. lwu(f+tiw)=u—iv, nel punto coniugato @ — pa=T DVap,pp=0 > = Cna Pp,9» e, ritenendo per un momento le e,,, come variabili indipendenti in modo che non si tenga conto delle relazioni e,,9 = e,,p, avremo anche IT (3) = (05,4 + Dp,g) = Ten,9) + (10) noe: dIT ao »( os ) Di,ita + (0,9); deiiti dlixrzi dove, è quasi inutile dirlo, la 77 che compare sotto i segni di derivazione è 7r(e,,9). Devono dunque essere verificate identicamente le equazioni : DAI RIA DIES dei (11) TE(GIp,9) = 0 ’ =), dei Poichè ora si può scrivere: 1 } T(D,9) = Mii + Giuria + dii + 5 (gii — Cina) ] Dia re | + Di [2a;41,i+s + (citi => &;+1,î) (Gi Pa &;+2;ì) — bdi;iva — bi+z;i] Di,i+1 Di,i+2 la prima delle (11) ci da: 1 \ dii + Ui+1,i+1 + dii + 9 (iii a: di+1,i) 0, (O) % sia Mi. NEREO I Ui+1,i+2 + (OG; FS i) (ivo Cai &;+2;i) di,ivo — dio, = 0 (=D, Analogamente, dall'essere dIT IT —_=2 Da Gi+1,h Cih T 2% Gin Ci+1,h + de; +1 dei H (Gia — Gioni) Dit Cene eni È (bisi — Dibrzi) Citizito 1 + (di+oi ma di,i+o) Ci+2;i + (di4rito Ta Dista) Ci+2;i+2 > tenendo anche conto delle (9), le ultime equazioni (11) ci danno: 2azivi tr (gia lipri) lii = 0, —2 Gisi+1 + (CZIERTI = In) Cixlsi+r = 0, (iii PR Gi+1,i) Ci+2,i+2 + Di+i,i+o ws Diso,iet — 0, (13) 2(Gi+rivr — Gi) + (iva — 241) (Ci + dii) = 0, 2 di+);i+2 + (eo son 0&i+1,1) (Ciito + At) + di+a,i Co dite =0, 2 Ai,i+2 + (Gita a Ci i) (ero + el) + dii divi = 0, dh, 2006 — 798 — Le (12) e le (13) formano un sistema di 24 equazioni dalle qualî eli- minando le quindici costanti « e %, si ottengono le equazioni seguenti fra le sole «: (Ge; ae &;+1,1) (&;; + Gi 1;it1) =0, 3 (14) Die; A C;+;i) (Qi; + @i+1,1) =), Cenni (;;41 DE %;+1,î) (C;;+9 + %;+9;;) ili (G;x1,+2 Sa C;+9,1+2) (2; + @irizs1) =0, (Gita Sr 41,1) (Girita +e d;+9,;+1) 5 ((;49,; TRI C; (+2) (a; + C;+1;+1) =(0) gii potendo, nella 1%, 3* e 4 di queste equazioni, l'indice 7 assumere i valori 1,2,53 e gli indici essendo eguali quando sieno congrui rispetto al mod. 3. 5. Le equazioni (14) del primo rigo ci mostrano che possiamo distinguere quattro casi a seconda che nessuna, una, due, o tre delle differenze &,,j — &,; si annullano. Però le equazioni (14) del 3° e 4° rigo mostrano che quando, per un determinato valore di 7, sia @,;,,, — &+,;==0, basta che una delle altre due differenze @,,,,;+2 — @+2,j+1 , &+2,;; — &;;+2 Sia diversa da zero perchè si abbia di necessità anche @,, + «,,,,,++="0. Si conclude di qui che i quattro casi precedenti si riducono soltanto ai due casi: Jef ei — epr 0,1 =192,8 3 2°. cit 41,1 = 0,0=1,2,8- 1°. Nel primo caso le (14) sono, senz'altro, identicamente soddisfatte, mentre le (12) e (15) ci danno: a,j;= bj =0 , ij; ©a=49,0=043,3=% ; by = de = dg = — UM, e quindi 3 la (15) Ii 2nLX; (E "n 2ei,i1) aa (en 37 €22 sin 233)" ] "ln 9 (E 7,9 ij)" Ui,j = Ui.i È In questa espressione di 77 la 2 e le @,; restano completamente arbitrarie. 2°. Nel secondo caso si richiede intanto che sia: Gre cgait=0 5 ER dalle (14) si deduce anche: a,jba;,;=0, E] e, quindi dalle (12) e (13): 2 Gn = 0 = 0g3=%, bi=—2n—2041:; Dii41 = — D Ai,;i+1 A;+1,i+2 « i= 1 4 2 , 3 e restano arbitrarie le costanti 7, @1,2, 2,3, @s1- — 799 — Nell’espressione di 77, corrispondente a questo caso, la parte che ha per fattore n coincide con l’analoga espressione che compare in (15). Scri- veremo quindi soltanto l'altra parte che è = ES Ci,i+1 (ue) + (16) “ 3r Zi Zi, Li+1i+2 (C;1 Ci+lsi+2 TT Ci+Lxi+1 C;1+2)] . Se nella (15) sì pone @,,= @26= @33 , &3=@:= @,3=0,sì ha il caso dell’ isotropia. Biologia. — Contributo alla conoscenza della spermatogenesi negli Ortotteri (‘). Nota preliminare del dott. GustAvo BRUNELLI, presentata dal Socio B. GRASSI. ggetto delle mie ricerche è stato il Gry/lus (in particolare Gry/lus desertus) la cui spermatogenesi in parte già ci è nota, grazie ai lavori di Baumgartner (2), di Voinov (8) e di Gutherz (4). Alcuni fatti da me posti in luce circa le cinesi spermatogoniali, il com- portamento dell’ eterotropocromosomo (?), la pseudoriduzione, la meiosi (°) sa- ranno qui brevemente esposti e poi sviluppati nel lavoro definitivo. (1) Lavoro esegnito nel R. Istituto di Anatomia comparata. Roma. (3) Baumgartner W.J., Spermatid transformations in Gryllus assimilis, with spe- cial reference to the Nebenkern. Kansas University Science Bulletin, 1902, vol. I; Some new evidences for the individuality of chromosomes, Biol. Bull., vol. 8°, 1904. (3) Voînov N., Sur une disposition spéciale de la chromatine, dans la spermato- génèse du Gryllus campestris, reproduisant des structures obsérvées seulement dans l’ovo- génèse. Arch. zool. expér., vol. 2°, 1904. (4) Gutherz S., Zur Kenntnis der Heterochromosomen, Arch. mikrosk. Anat., vol. 69, 1906. (5) Come è noto Wilson ha distinto tre categorie di eterocromosomi o cromosomi diversi dagli ordinari (autosomi) per il loro comportamento, cioè gli eterotropocromosomi, i microsomi e gli idiocromosomi. Queste due ultime categorie comprendono etecromosomi che nelle spermatogonie si presentano doppi (diplosomi di Montgomery) gli eterotropocro- somi invece appariscono univalenti (monosomi di Montgomery). Gli eterotropocromosomi (monosomi) corrispondono al cromosomo speeiale (De Sinety) chromatin nucleolus o ero- mosomo % di Montgomery, cromosomo accessorio di Me Clung. Gli idiocromosomi sono tipicamente disuguali, i microsomi uguali; in generale cioè si potrebbe dire che i primi si presentano come eterodiplosomi, i secondi come omodiplosomi. Gli eterocromosomi si distinguono essenzialmente per un diverso comportamento riguardo al concentramento della cromatina (eteropicnosi secondo Gutherz), riguardo all’accoppiamento (eterosindesi o asin- desi-Gutherz) e riguardo alla divisione (eterocinesi in contrapposto all’eucinesi-Gutherz). (6) Uso qui il termine di meiosi per indicare i processi maturativi secondo la nomen- clatura di Farmer e Moore: Farmer F. B. and Moore F. E. S., On the maiotic phase (reduction divisions) in animals and plants. Quart. Jour. of mier. Sc., N. 192, 1905. — 800 — Cinesi spermatogoniali. — Quell'aspetto caratteristico del nucleo delle spermatogonie seconde, per il quale apparisce evidente la formazione di ogni cromosomo da un determinato territorio nucleare, è stato per la prima volta minutamente descritto da Sutton (*) in Brachystola. Ma, per quanto i moderni autori di ricerche sulla spermatogenesi degli insetti non lo ricordino, un poli- morfismo nucleare di tal natura era già stato visto da Biitschli (*) in Periplaneta fin dal 1876. Di recente Otte (*) ha descritto un caso simile in Locusta ed ha rilevato insieme coll'interesse la rarità del fenomeno. Nel Gry0lus, per il rilevante sviluppo dell’eterotropocromosomo (fig. 1), un tale aspetto del nucleo è molto istruttivo e mostra chiaramente la indipendenza del cromo- somo accessorio che si disgrega e riapparisce in corrispondenza ad uno spe- ciale vacuolo, come dalle mie ricerche chiaramente apparisce (fig. 2-3). FiG. 1. — Spermatogonia in divi- Fic. 2. Fic. 3. sione che mostra lo sviluppo dell’eterotropocromosomo (e). Spermatogonie mostranti la individualità dell’eterotropocromosomo. Si comprende che questo fenomeno ha un interesse tutto speciale per la dottrina sulla individualità dei cromosomi di Boveri (4), il quale già in questo senso ha discusso il reperto di Sutton. Io ritengo un tale aspetto delle spermatogonie seconde non raro, ma frequente negli Ortotteri, e credo che gli autori non abbiano abbastanza fermato l’attenzione su di esso. Sul significato della cariosfera. — Designo con Blackmann (5) come «“ cariosfera » quella speciale formazione degli spermatociti primi risultante (1) Sutton W. S., The spermatogonial Divisions in Brachystola magna. Bull. Univ. Kansas, Bd. I, 1902; On the Morphology of the Chromosome Group in Brachystola magna. Biol. Bull., Bd. IV, 1902. (2) Biitschli O., Studien ber die ersten Entwicklungsvorginge der Bizelle, die Zelltheilung und die Konjugation der Infusorien. Abh. der Senckenb. Naturf. Ges., Bd. X, 1876, riportato da Goldschmit R., Untersuchungen ber Eireifung, Befruchtung und Zellteilung bei Polystomum integerrimum, Z. Wiss. Zool., V. 71. (*) Otte H.. Samenbildung und Samenreifung bei Lacusta viridissima. Zool. Jahrb., Bd. 24, Anat., 1907. (4) Boveri Th., Ergebnisse dber die Konstitution der chromatischen Substanz des Zellkerns. Fischer. Jena, 1904. (3) Blackmann M. W., 7'he îspermatogenesis of the myriapods I. Notes on the spermatocytes and spermatids of Scolopendra. Kansas Univ. Quart., X, 1901; he sper- matogenesis of the myriapods II. On the chromatin in the spermatocytes of Scolopendra heros. Biol. Bull., vol. V, 1903. ole dal condensamento delia cromatina attorno all’eterotropocromosomo, nella quale il nucleo si trova in condizioni simili a quelle della vescicola germi- minativa nell'uovo immaturo (pseudo-germinal-vesicle stage di Blackmann). Nel nostro caso il condensamento della cromatina è accompagnato dalla fusione del cromosomo eterotropico col nucleolo (fig. 4) che in un certo mo- mento nel suo aspetto ci ricorda, come giustamente osserva Htcker (*), il modo di presentarsi dei nucleoli nelle vescicole germinative sul tipo dei Lamellibranchi (Lamellibranchiaten-Typus. Hiicker). Il significato della cariosfera è ancora molto dubbio, ragione per la quale ho fermato la mia attenzione su di essa, tanto più che nel mio caso la formazione della cariosfera costituisce un fenomeno assai appariscente. Mi son domandato se la cariosfera sia omologabile a una formazione sinaptica e, FiG. 4. — Nucleo pachiteno in cui è visibile la fusione dell’eterotropocrosomo (e) col nucleolo (7). dovendo escludere tale supposizione, quale sia il suo significato rispetto ai fenomeni che precedono la diacinesi. Dal punto di vista della sinapsi due erano le possibilità: trovare un rapporto tra cariosfera e sinapsi nel senso di coniugazione dei cromosomi (sinapsi in senso stretto di Me Clung-sindesi di Htclker) e tra cariosfera e sinapsi nel senso di concentramento della cromatina (sinizesi di Me Clung- sinapsi in senso stretto di Hacker) (°). La cariosfera non ha rapporto colla sinapsi nel senso di sindesi: e infatti nel mio caso come vedremo si ha una sindesi presinaptica con justa- posizione dei coniuganti (parasindesi di Hacker). La cariosfera non ha rapporto colla sinapsi nel senso di sinizesi: infatti, nello stadio di gomitolo sinapteno, la cariosfera è in via di formazione e raggiunge il suo massimo sviluppo allo stadio di nucleo pachiteno. Era necessario in ogni modo risolvere la suddetta quistione perchè da una parte non si è descritta nel Gry//us una vera sinapsi, d'altra parte, grazie (1) Hiicker V., Die Chromosomen als angenommene Vererbungstriger. Ergebnisse und Fortschritte der Zoologie, Bd. I, 1907. (2) Questi due fenomeni da molti compresi sotto l’unica denominazione di sinapsi in molti casi coincidono ma, siccome possono essere dissociati, è meglio indicarli distin- tamente ed in ogni caso determinano la coincidenza o la dissociazione. RenpICcONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. 106 — 802 — alle ricerche di Guenther ('), si è pure ammesso che la contrazione cro- matinica che avviene in corrispondenza al nucleolo possa tenere il luogo della sinapsi ordinaria. Nel negare alla cariosfera ogni relazione col fenomeno sinaptico le mie ricerche si accordano con. quelle di Blackmann relative ai Miriapodi e di Pantel e Sinéty (?) circa una simile formazione in Mozoneeta Credo che la natura della cariosfera sia stata da me posta in sufficiente evidenza, unendo l'osservazione microscopica a una considerazione fisiologica. Risulta infatti dalle mie osservazioni che il massimo incremento della ca- riosfera si ha. in quello stadio degli spermatociti primi che rappresenta l’ultimo momento evolutivo degli elementi della gonade durante il riposo invernale. Poichè la quasi totalità della cromatina si concentra allora in corri- spondenza alla cariosfera (fig. 5), per me la cariosfera rappresenta un concen- Fic. 5. — Spermatocito nello pseudo-germinal-vesicle stage mostrante lo sviluppo della cariosfera (c). tramento della trofocromatina e della idiocromatina (secondo la dottrina di Schaudinn e Goldschmidt sulla duplicità del nucleo) () precedente la sepa- razione completa delle due cromatine che porta alla formazione del nucleo diploteno e talora più tardi alla completa individualizzazione dei due costi- tuenti cromatici dell’amfinucleo, in due nuclei distinti (’). Quello che chiamiamo eterotropocremosomo della prima divisione meio- tica è in realtà la fusione del nucleolo coll’ eterotropocromosomo spermato- goniale, e rappresenta la totalità della trofocromatina. In questo senso la omologia ammessa da Moore e da Robinson (?) tra nucleolo ed eterotropo- (*) Giinther K., Aeimfleck und Synapsis. Studien an der Samenreifung von Hydra viridis. Zool. Jahrb., Suppl. 7, 1904. (2) JT. Pantel e R. de Sinéty, Les cellules de la lignée male chez le Notonecta qlauca L. Cellule, vol. 23, 1906. (*) Goldschmidt R., Der Chromidialapparat lebhaft funktionierender Gewebseellen. Zool. Jahrb., Bd. 21, Anat., 1904. (*) Con ciò intendo di non porre alcun pregiudizio relativamente alla quistione di una possibile influenza dell’eterotropocromosomo sulla determinazione del sesso. (£) Moore J. E. S. and L. E. Robinson, On the behaviour of the nucleolus in the spermatogenesis of Periplaneta americana. Quart. J. microse. Sc., vol. 48, 1905. — 803 — cromosomo dello spermatocito primo in certi casi non può riguardarsi come assoluta. È interessante a proposito della ipotesi esposta che durante la inter- cinesi delle divisioni meiotiche i due nuclei propagatorio e somatico sono perfettamente individualizzati perchè l’eterotropocromosomo (che interpreto come nucleo somatico) si isola in forma di un nucleo minuscolo, come già Baumgartner e Gutherz hanno visto ed io riconfermo. La cariosfera perciò rappresenta una formazione transitoria che precede la separazione della trofocromatina e della idiocromatina innanzi alla cinesi meiotica prima. Nello stadio di ibernazione la cariosfera persiste perchè la idiocromatina non si individualizza, per esprimermi con un termine usato da Strasburger i gamocentri — ancora non sono attivi e la totalità della croma- a NI tina si trova mescolata. E molto probabile dal mio punto di vista teorico FrG. 6. — Sindesi presinaptica. Fic. 7. — Spermatocito nello stadio di nucleo sinapteno. che una cariosfera si trovi in molti artropodi ibernanti in cui l'evoluzione della gonade è arrestata allo stadio di nucleo pachiteno. Ipotesi dello sdoppiamento (Faltungstheorie) e della justaposizione (Junktionstheorie, Hacker, 1907). — Nel mio caso come ha già accennato esiste una sindesi presinaptica in forma di parasindesi come è visibile nella figura riportata (fig. 6). Questo stadio, che io ritengo in parte omologo a quello di spermatocito con nucleo a cromatina diffusa descritto da taluni autori, merita secondo il mio modo di vedere una speciale attenzione riguardo alla discussa coniugazione dei cromosomi e al modo come si effettua. Esso segue immediatamente alla telofasi dell'ultima divisione spermatogoniale. Secondo me il filo doppio nel nucleo sinapteno (fig. 7) non si forma per uno sdoppiamento di un filo unico (ipotesi dello sdoppiamento) ma per la ju- staposizione dei cromosomi omologhi. Escludo anche che il cordone doppio del nucleo diploteno che poi apparisce si formi per riavvicinamento di singoli tratti del dolichomena unico, in seguito alla sua torsione. Postriduzione o preriduzione? — La prima divisione meiotica appa- risce equazionale, con eterocinesi rispetto all’ eterotropocromosomo, la seconda riduzionale, ciò per il modo speciale di formazione delle tetradi e loro — 304 — disposizione in corrispondenza al fuso (figg. 8, 9, 10, 11). Nella prima di- visione vengono separate le metà 4|d, «|b, dei due elementi omologhi di cia- scuna tetrade, e nella seconda la diade 45 si scinde nei suoi due componenti. Non posso per ciò ammettere che ambedue le divisioni siano equazio- nali (o differenziali equazionali secondo Schifer) o che si tratti di una postriduzione con simmissi, secondo i casi di Gross (*), Schéfer (*) e Otte (?). relativi a Emitteri, Coleotteri e Ortotteri, recentemente descritti. Fic. 8. — Gomitolo doppio della profasi Fic. 9. — Stadio diacinetico seguente il gomitolo della prima divisione meiotica, doppio segmentato. FIG. 10. — Formazione delle tetradi. FiG. 11. — Prima divisione meiotica con eterocinesi dell’eterotropocromosomo. Le mie ricerche non possono per ora aggiungere una nuova prova all'esistenza di tal modo di riduzione. Neppure ho trovato una doppia divi- sione longitudinale portante alla formazione delle tetradi, come ammette De Sinéty (‘), nè una biriduzione nel senso di Wilcox (*). In conclusione, sebbene il modo sia alquanto differente, le mie ricerche relativamente alla (1) Gross J., Die Spermatogenese von Pyrrhocoris apterus L. Zool. Jahrb., Bd. 23, Anat., 1907. (8) Schàfer F., Die Spermatogenese von Dytiscus. Ibidem, 1907. (*) Otte, Mem. citata. (4) De Sinéty R. Recherches sur la biologie et l’anatomie des Phasmes. Cellule, vol. 19, 1901. (9) Wilcox E. V., Spermatogenesis of Caloptenus femur-rubrum and Cicada tibicen. Bull. Mus. Comp. Zool. Harward Coll. Boston, vol. 27. 1895. ea riduzione si accordano piuttosto con quelle di O. Rath (') e di alcuni altri autori di più recenti memorie (Sutton, Me Clung). Sulla intercinesi. — Innanzi ho accennato che nella intercinesi sì ha una separazione completa del nucleo propagatore e somatico (fig. 12), ed il fenomeno è molto interessante perchè si ha nel Gry//us un « semi-resting stage » e per il fatto che anche nelle cinesi spermatogoniali come ho messo in evidenza il cromosomo accessorio tende ad una perfetta individualizzazione. Così l'insieme delle cose è oltremodo suggestivo rispetto alla dottrina di Boveri. Sulla individualità dei cromosomi. — A tal proposito, per la separa- zione ora accennata nella intercinesi, io debbo dichiarare incompleta la cri- tica di Fick: « Auch die héchstinteressanten Beobachtungen von Henking, Montgomery, Paulmier, Sutton, Gross, Wilson u. a. iteber das Verhalten der Sonderchromosomen bei den Reifeteilungen sind natùrlich in keiner Weise Fic. 12. — Intercinesi mostrante la separa- zione completa dei nuclei propagatore e somatico (e). Semi-restig stage. als Stiitze fiir die von mir angefochtenen Hypothesen zu verwerten, da diese Teilungen ja ohne Ruhestadium aufeinanderfolgen ». Ciò che nel nostro caso non vale in un modo assoluto. Non discuto per ora più largamente questo punto, mi limito a manife- stare anche io la convinzione che la ipotesi del tatticismo di Fick(*), non può opporsi a quella della individualità di Boveri (*), in quanto riguarda una permanenza di struttura per la quale in potenza gli individui (unità tattiche di Fick) esistono sempre anche quando non appariscono in deter- minati momenti. Ciò che d'altra parte si spiega tenendo conto dei fenomeni che accompagnano l'evoluzione della cellula germinale, come nel caso esposto (1) Rath O. vom, Zur Kenntniss der Spermatogenese von Gryllotalpa vulg. Arch. f. mikr. Anat., 40, Bd. 1892. (2) Ho creduto di chiamare così quella che Fick designa come Manovrierhypotese. Fick R., Vererbungsfragen, Reduktions und Chromosomenhypotesen, Bastard-Regeln. Ergebnisse der Anatomie und Entwickelungsgeschichte, Bd. 16, 1906. (*) Si veda in proposito l’ultimo scritto di Boveri Th., Die Entwicklung dispermer Seeigel-Eier. Ein Beitrag zur Befruchtungslehre und zur Theorie des Kerns. Zellen Studien, Heft 6, Jena, Fischer, 1907. — 806 — della formazione della cariosfera. Questo almeno è lecito sospettare sinchè Fick non avrà dimostrato che non esiste realmente una qualitativa differenza dei cromosomi, e ancora sinchè Fick non avrà provato che i costituenti ele- mentari dei singoli cromosomi variano da una mitosi all'altra. Zoologia. — La Maria Grassii, n. sp. e la Filaria recon- dita, Grassi. Nota preliminare di G. NoÈ, presentata dal Socio B. GRASSI (1). Questa breve Nota ha soltanto per iscopo di stabilire la priorità del frutto di alcune mie ricerche sulle filarie del cane e sarà seguita a breve distanza da una pubblicazione definitiva. Come è noto, la Milaria recondita non è conosciuta se non per la de- scrizione fattane nel 1890 da Grassi nel « Centralblatt fir Baliteriologie und Parasitenkunde, VII Band » sopra un esemplare femminile immaturo. L'altra specie di filaria, passata finora inosservata dagli zoologi, è stata da me dedicata al professor Battista Grassi, mio illustre maestro. FinarIia GRrassu, mihi, 1907. Non posso descrivere, per ora, che la femmina, di cui posseggo 12 esem- plari. Corpo esilissimo e molto trasparente. Lunghezza mm. 23-24, larghezza massima mm. 0,085-0,090. Estremità cefalica piriforme lunga circa 113 &, larga circa 70 u. Posteriormente ad essa il corpo si restriuge a mo’ di collo, poi s'allarga gradatamente fino ad assumere il diametro massimo. Dietro al così detto collo esistono due rigonfiamenti, uno debolissimo, giugulare (*), a circa 260 u dall’estremità cefalica, l'altro cospicuo ed interessante tutta la superficie cilindrica della regione corrispondente per una lunghezza di circa 120 u. Esso fa acquistare al corpo in questo punto il diametro di circa 100 w; dista dall'estremità cefalica circa 600 u. Il primo corrisponde alle commis- sure cefalica cutanea (Looss) e cefalica interna (Looss); il secondo al seg- mento terminale della vagina, che, per esser ripiegato ad S, rigontia in quel punto le pareti del corpo e che chiamerò quindi rigonfiamento vagi- nale. All’inizio di questo rigonfiamento, sulla linea mediana ventrale, sì apre la vulva. L'estremità caudale è molto assottigliata e, almeno nell'animale morto, sempre ripiegata ventralmente a larga curva, ma talvolta quasi ad uncino. La lunghezza del tratto caudale (compreso cioè fra l’ano e la punta estrema posteriore del corpo) è di circa 190 w. (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Anatomia comparata dalla R. Università di Roma. (2) Spiegherò nella nota definitiva il significato di questa denominazione. — 807 — Nella parte anteriore dell'estremità cefalica piriforme sono visibili a stento quattro papille submediane, nello spessore della cuticola. L’estremità caudale termina con due punte laterali e perfettamente simmetriche, rispetto al. piano mediano, costituite di cuticola robusta e massiccia. Innanzi a questa e ventralmente esistono due deboli rigonfiamenti a calotta, toccantisi snlla linea mediana ventrale e sostenenti ognuna una piccola papilla di senso nello spessore della cuticola. Due altre papille come le precedenti trovansi una per lato in corrispondenza alle linee laterali, alla base delle due punte caudali. L’esofago, nel quale sono mal distinte le due sezioni muscolare e ghian- dolare, arriva fin quasi all'altezza della vulva, dove si attacca all’intestino chilifero. Esso incomincia subito dietro l'apertura boccale, ispessito a mo’ di bulbo sferico. L’intestino chilifero, molto esile, decorre a larghe volute fra od esternamente agli uteri, e termina in un 7rezto breve ed estremamente sottile, il quale sbocca a circa 190 w dall’estremità caudale. Gli ovari, come al solito asimmetricamente disposti, ossia l'uno più allo innanzi dell'altro, si ripiegano due volte sopra sè stessi nel senso lon- gitudinale. Gli ov:dozti, relativamente lunghi e stretti, son pure ripiegati due volte sopra se stessi. Azceftacoli seminali molto ampî, occupanti due buoni terzi della cavità viscerale, l’uno posto a poco meno di due mm. all'in- nanzi dell'apertura anale, l’altro a circa uguale distanza tra questa e il primo. Gli uferz, ampî, occupanti insieme quasi tutta la cavità viscerale, decorrono rettilinei fino al loro termine. A circa 650 w dall'apertura vulvale essi si fondono in un condotto unico; l’utero impari a circa 567 w dall’a- pertura vulvale si ripiega decorrendo posteriormente per circa 130 w, poscia sì ripiega di nuovo dirigendosi all’innanzi e trasformandosi ben tosto in una robustissima vagina. Questa finalmente, dopo un decorso rettilineo, poco dietro la vulva, si ripiega debolmente ad S, ispessisce le proprie pareti, e sbocca all’inizio del rigonfiamento vaginale, come è sopra spiegato. Oociti nell'ultima porzione dell’ovario scarsissimi e grandi, disposti alter- nativamente in due sole serie lineari. Le uova, perfettamente ovali, sparse disordinatamente ed in piccolo nu- mero fra gli spermii, di cui è riempito il ricettacolo seminale, hanno una lunghezza di w 34 ed una larghezza di w 19. Esse si allineano ben tosto, avvenuta la fecondazione in doppia serie analoga a quella dei grandi oociti. Finalmente, col progredire della segmentazione, si dispongono in un'unica serie regolarissima addossandosi l’uno all’altro per i fianchi; allora misurano w 55 di lunghezza e w 25 di larghezza. Più oltre, per il grande svi- luppo del chorzor, queste uova si trovano trasformate in sorta di vesciche leggermente ovoidali, turgide e ripiene di un liquido trasparente nel quale sta raggomitolato l'embrione. Questi embriofori misurano 84 w di larghezza e 91 4 di lunghezza. Gli embrioni poscia si vanno grado grado svolgendo — 808 — distendendo il chorion che li ravvolge, finchè, per stadii successivi, essi tro- vansi distesi e rinchiusi in un esile e delicato astuccio cilindrico alquanto più lungo di essi. Gli embrioni, giganteschi. hanno una lunghezza di w 567 ed una larghezza di w 12,25. L'habitat degli adulti può essere costituito tanto dalle sierose quanto dal connettivo lasso sottocutaneo od intermuscolare del cane: per lo più vi- vono nel connettivo sottocutaneo; una volta ne trovai uno nella cavità peri- toneale. Gli embrioni, contrariamente a quelli di altre filarie, non circolano nel sangue. È facile comprendere come per le rispettive dimensioni dell'adulto e degli embrioni, questi siano generati in numero molto piccolo rispetto a quello delle altre filarie. In una prossima Nota preliminare farò conoscere l'ospite intermedio di questa interessantissima specie di filaria ed il suo sviluppo larvale. FILARIA RECONDITA, (Grassi, 1890. Di questa specie posseggo da varii anni molti esemplari femminili e maschili. Femmina: lunghezza mm. 26-28; una volta trovai un esemplare lungo 30 mm. Larghezza massima, corrispondente alla regione dello stomaco ghiandolare, 144 u; nell’esemplare di 30 mm., 157 «. La larghezza va dalla metà del corpo in poi leggermente e gradatamente decrescendo tanto che pochi mm. innanzi all'apertura anale si riduce a circa 126 w. Maschio: lunghezza 12 mm., ad estremità caudale ravvolta a spira; larghezza massima 100-106 w. Estremità cefalica piriforme, lunga circa 170-180 w nella femmina, 157 w nel maschio; larga 119 w nella prima, 97 w nel secondo. Il corpo, dietro ad essa va restringendosi a mo di collo, poscia presenta un 7/90nfia- mento giugulare a 315 w dall'estremità cefalica in ambedue i sessi; la femmina, poi, possiede un rigonfiamento vaginale lungo circa 190 w, largo circa 163 u, ad 819 w dalla estremità cefalica. La vulva si apre appunto all'innanzi di qnesto rigonfiamento. L'estremità caudale più o meno diritta nella femmina è invece ripie- gata a spira come un cavatappi nel maschio; 3 sono i giri della spira. Il segmento caudale propriamente detto (cioè il tratto che si dilunga di là dall’ano) è lungo circa 222-230 w nella femmina, largo alla base 57 w, al- l'apice, ottusa, 13 w; nel maschio è lungo circa 132 w, misurato sulla su- perficie concava, la quale è tale che, in una proiezione sopra di un piano, appare fatta a semicerchio regolarissimo colla estrema punta caudale e colla apertura anale disposte agli estremi del diametro. Nella parte anteriore del- l'estremità cefalica esistono otto papille piccolissime nello spessore della cu- ticola, disposte secondo l'ordine gia descritto da Grassi, ossia a quattro a — 809 — quattro in due piani trasversali sovrapposti, ed a due a due sulle linee sub- mediane. Inoltre, sono visibili, a forte ingrandimento, due papille laterali le quali sembrano costituire io sbocco di particolari ghiandole (ghiandole cefa- liche ?) L'estremità caudale termina in ambedue i sessi con tre punte costituite di cuticula robusta e massiccia: la mediana più grossa e conica, rappresenta l'estremità morfologica dell'animale, le altri più brevi, compresse e triango- lari, corrispondono alle linee laterali. Queste tre punte formano un apparato probabilmente meccanico, la cui base misura 13 w in senso dorsoventrale. Innanzi a questo apparato e ventralmente si sollevano qui pure due calotte ognuna delle quali sostiene una papilla di senso nello spessore della cuticula; anche qui esistono due altre papille, una per lato, alla base ed esternamente alle punte laterali. Oltre a queste papille esistono anche le così dette papille del collo (Halspapillen) in numero di due, una per parte, a 412 u dall’estremità cefalica, poco posteriormente quindi al rigonfiamento giugulare; giacciono nella metà dorsale dei campi laterali. L'esofago è ben distinto in stomaco muscolare e stomaco ghiandolare. Il primo, che incomincia dietro la cavità boccale con un ispessimento della parete a mo' di bulbo ovoidale, meno appariscente nel maschio, ha una lun- ghezza di 400 w all'incirca ed una larghezza di circa 22 u. Lo stomaco ghiandolare lungo circa mm. 2,400 nella femmina e mm. 1,900 nel maschio, è molto più grande dello stomaco muscolare e riempie gran parte della ca- vità viscerale: siccome in questa regione esistono anche le estremità degli uteri pari, l'utero impari e si avvolge in anse numerose e strette la lunga vagina, oppure incomincia con anse brevi il testicolo, così la parete del corpo è costretta a dilatarsi; il diametro è massimo appunto in questa regione. Lo stomaco ghiandolare comunica per mezzo d'una valvola con l'intestino chilifero. Questo, senza offrire nulla di notevole all'osservazione, decorre piut- tosto sottile, a larghe volute intorno ai due uteri, finchè sbocca in un retto breve ed esile, dopo essersi dilatato per un certo tratto. Gli ovari asimmetricamente disposti, presentansi ripiegati sopra sè stessi e mettono, mediante lunghi ovidotti, in riceffacoli seminali dei quali il più anteriore giace a mm. 4,50 innanzi all'apertura anale, il posteriore a circa uguale distanza tra questa ed il primo. Gli uferi, ampii, occupanti insieme quasi tutta la cavità viscerale, de- corrono rettilinei fino al loro termine ossia fino a circa 819 w dietro la vulva ove sì fondono in un unico condotto. Questo finalmente mette in una lunga vagina variamente tortuosa la quale sbocca nella vulva, dopo essersi ripiegata strettamente ad S ed aver ispessite le proprie pareti. Le uova, perfettamente ovali, osservate nel ricettacolo seminale, misu- rano una lunghezza di 26 w per una larghezza di 17 «. Gli uteri appaiono infarciti di nn'enorme quantità di uova e di embrioni a varii stadii di svi- RenpICONTI. 1907. Vol. XVI, 2° Sem. 107 — 810 — luppo; poco prima di arrivare alla riunione dei due uteri si vedono gli em- briofori in forma di vescichette ovoidali lunghe 100 w, larghe 70, contenenti l'embrione completamente sviluppato e rasgomitolato sopra se stesso. Nell’utero impari gli embrioni, lacerato l'involucro, si liberano e si dirigono verso la vagina. Gli embrioni corrispondono perfettamente ai nematodi da me osservati varii anni or sono nel sangue di alcuni cani e descritti a pag. 35, 36 del mio lavoro « Sul cielo evolutivo della Filaria Bancrofti. Cobbold, e della Filaria immitis, Leidy (*) ». Essi hanno una lunghezza di 216 w ed una larghezza di w 4,30; sono relativamente scarsi nel sangue, eccetto che il nu- mero degli adulti non sia piuttosto elevato. Per quel che concerne la loro struttura ed i loro movimenti rimando per ora alla pubblicazione citata. Aggiungerò soltanto che raramente li ho veduti anch'io spingere coll'estre- mità cefalica contro il vetrino coprioggetti, fissarsi a qualche leucocito od a qualche filamento di fibrina e percuotere il liquido con rapidi movimenti a flagello. Non di rado, in questa posizione, erigono ed abbassano alterna- tivamente l’uncino che trovasi all'estremità cefalica, destinato evidentemente ad aprirgli un passaggio attraverso la parete intestinale della pulce. Il testicolo incomincia a circa 300 w, meno variazioni individuali, dietro il confine tra lo stomaco ghiandolare e l'intestino chilifero; dopo un breve percorso ad anse si avanza anteriormente sino a circa 200 w dal medesimo punto, poscia si ripiega definitamente all'indietro, decorrendo diritto al suo termine. Esile dapprima, il testicolo ingrandisce ben tosto occupando la mag- gior parte della cavità viscerale. Dei due spiculi, uno è più grande del- l’altro. Papille genitali (ossia le papille che circondano l’apertura ano-ge- nitale) in numero di 11, delle quali una impari all’innanzi dell'apertura e due pari quasi sul bordo posteriore di essa. Le altre 8 disposte su due serie di quattro ciascuna, fiancheggianti l'apertura ano-genitale; la loro posizione reciproca e le loro dimensioni sono variabilissime, come farò meglio rilevare nella Nota definitiva. Chimica. — Alcune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari. (Sui prodotti di addizione fra nitroderivati aromatici e cloruro-mercurici). Nota di Lurcr MASCARELLI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. (*) Ricerche fatte nel Laboratorio di Anatomia normale della R. Università di Roma ed in altri Laboratorii biologici. Vol. VIII, fasc. 3° e 4°, 1901. — 811 — OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ACCADEMIA presentate nella seduta del 1° dicembre 1907. ArtI del VI Congresso internazionale di chimica applicata. Roma, 26 aprile-3 maggio 1906. Vol. I-VII (1907). BarcagLI P. — Contribuzioni allo studio degli insetti che danneggiano i semi nella Colonia Eritrea. Firenze, 1907. Camera dei Deputati N. L (Documenti). Seconda relazione sulle Bonificazioni. (Testo unico di legge approvato con Regio Decreto 22 marzo 1900, n. 195). Roma, 1907. DeL Guercio G. — Notizie intorno a due nemici nuovi e ad un noto nemico dell’olivo mal conosciuto. Con un cenno sui rapporti di uno di essi con i Mi- crosporidi. Firenze, 1907. 8°. (Estratto dal « Redia». Vol. IV, fase. 2°). HreeMmERT F. R. — Bestimmung der Hò- henlage der Insel Wangeroog durch trigonometrische Messungen im Jahre 1888. Berlin, 1907. (Sitzungsberichte. XL 1907). Marie G. — Formule relative à une con- dition de stabilité des Automobiles et spécialement des Autobus. (Oscilla- tions diverses). Paris, 1907. 8°. (Ex- trait des Mémoires de la société des Ingenieurs civils de France). Marie G. — Les dénivellations de la Voie et Oscillations du matériel des Che- mins de fer. Paris, 1906. 8°. (Extrait des Annales des Mines 1905). Marie G. — Les oscillations du matériel des Chemins de fer è l’entrée en courbe et à la sortie. Paris, 1906. (Extrait des Mémoires de la société des Ingenieurs civil, 1905). Marie G. — Les oscillations du matériel dues au matériel lui-mème et les sran- des vitesses des Chemins de fer. Paris, 1907, 4°. (Extrait de la Revue Génè- rale des Chemins de fer et des Tram- Ways). Marie G. — Les Oscillations du matériel et la voie. (Les grandes vitesses des chemins de fer). Paris, 1906. 8°. (Ex- trait des mémoires de la société des Ingenieurs civils 1906). MarTIROLO 0. — Gli autoptici di Carlo Vittadini e la loro importanza nello studio della Idnologia. Milano, 1907. 8°. (Estratto dagli Atti del Congresso dei naturalisti italiani. 1906). MarTIROLo 0. — La Flora Segusina dopo gli studî di G. F. Re. (Mora Segu- stensis, 1805. Flora Segusina, Re-Caso, 1881-82). Torino, 1907. 4°. (Accade- mia reale delle scienze di Torino, 1906-1907). MartIRoLo 0. — Michele Antonio Plazza da Villafranca (Piemonte) e la sua operain Sardegna. 1748-1791. Torino, 1906. 4°. (Accademiareale delle scienze di Torino. 1905-1906). MartIROLO 0. — Parole pronunziate nel- l’Archiginnasio di Bologna il 12 giu- gno 1907,in occasione delle onoranze per Ulisse Aldrovandi nel III centena- rio dalla sua morte. Torino, 1907. 8°. (Accademia delle scienze di Torino. 1906-1907). MartIROLO 0. — Sulla opportunità di con- servare il nome generico di « Rea » (Bertero) in luogo di quello di « Den- droseris » (Don). Torino, 1907. 8°, (Accademia reale delle scienze di T'o- rino. 1906-1907). MemoRrIA que dirige al Congreso Nacional de los Estados Unidos de Venezuele al Ministro de Guerra y Marina en 1907. Caracas. 4°. Tomo II. StROOBANT P. ete.— Les Observatoires astro- nomiques et les astronomes. Bru- xelles, 1907. 8°. Trwonowycz I. — Die Erde als Quelle der Wirme. Wien, 1907. 8°. nuo anne O } pit uti E Ù ie. natale co dtansE ek (en SI VV ser OA Pri) # EROE deli ‘net t90% PERE Ma: EE LiTr LA ) SR GAI 0 LAO I Sat ne sei gt va ea d MAO 3 — 813 — INDICE DEL VOLUME XVI, SERIE 5°. — RENDICONTI 1907 — 2° SEMESTRE. INDICE PER AUTORI A Acqua. « Sull’accumulo di sostanze radio- attive nei vegetali ». 357. ALBRECHT. È eletto Socio straniero. 226. — Ringrazia. 661. Amapuzzi. « Potenziali esplosivi in presen- za di diaframmi ». 393. AneELI e MARCHETTI. « Nuove reazioni degli indoli e dei pirroli ». 790. — e Marino. « Ricerche sopra l’acido san- toninico ». 513. AnceLuccI. «Elettrolisi del nitrato di torio ». 196. B BaRBIERI. « Contributo alla conoscenza dell'argento bivalente ». 72. BARGELLINI. « Sull’1-2-4 dimetil-nafto-chi- nolo ». 205. — — «Sopra alcuni derivati chinolici del gruppo della santonina ». 262. — Sopra una dimetil-difenil-esametileni- mina ». 344. — e StcvestRrI. « Sull’1-2-metil-nafto-chi- nolo ». 255. BATTELLI e MAGRI. « Comportamento dei vapori metallici nella scintilla elettri- ca» 12. — e STEFANINI. «Sulla relazione fra la tensione superficiale e la pressione osmotica». 600; 663. BeLLUcci e CARNEVALI. « Sulla grandezza molecolare dei ferro-nitrosolfuri ». 584. — e Dre CrsarIs. « Sui sali di Roussin ». 740. Bemporap. « Saggio di una nuova formola empirica per rappresentare il modo di variare della radiazione solare col va- riare dello spessore atmosferico attra- versato dai raggi ». 66; 126. BLASERNA (Presidente). Comunica la rispo- sta ad un telesramma di felicitazione inviato dall'Accademia a S. M. la Re- gina Madre. 775. — Dà comunicazione di una lettera di rin- graziamento della R. Accademia svedese delle scienze. 662. — Ricorda le onoranze tributate ai Soci Dini e Villari e al compianto Socio Trinchese. 661. Boegio. « Nuova risoluzione di un proble- ma fondamentale della teoria dell’ela- sticità ». 248. — « Sull’equazione del moto vibratorio delle membrane elastiche ». 386. —- «Determinazione della deformazione d’un corpo elastico per date tensioni superficiali ». 441. — «Integrazione dell’equazione funzionale che regge la caduta di una sfera in un liquido viscoso ». 613; 730. Boreo. V. Bruni. BortAzzI. « Grassi e glucogeno nel fegato dei Selacii ». 514. — 814 — BruNELLI. «Contributo alla conoscenza della spermatogenesi negli Ortotteri ». 766; 799. Bruni e Borgo. « Sui persolfuri d’idro- geno ». 745. BruscHI. « Sopra alcuni presami o chimasi vegetali n. 360. C Cami. « La costituzione dei sali di Rous- sin». 542; 658. CANESTRELLI. « Revisione della fauna oli- gocenica di Laverda nel Vicentino ». 525. CapELLINI. Offre due sue pubblicazioni. 662. CoLomBano. « Eterificazione degli ossiazo- composti per mezzo del solfato dime- tilico ». 457. — «Eterificazione dei derivati azoici de- gli ossiacidi per mezzo del solfato dimetilico ». 547. — «Sulla solanina estratta dai germi del Solanum tuberosum Linn. ». 683; 755. — e Lronarpi. « Su alcuni derivati azoici del suaiacolo ». 639. Corsino. «La quantità d’elettricità cui dà passaggio la scintilla d’induzione e la sua così detta resistenza ». 51. Ciusa. « Sui nitroderivati aromatici ». 133. — «Alcune osservazioni sulle aldeidi ». 199. D DeGanELLO. « Gli ordegni nervosi perife- rici del ritmo respiratorio nei pesci teleostei: Ricerche anatomiche e spe- rimentali ». 279. De Lorenzo. «Il Neck subetneo di Motta S. Anastasia». 15. — «Azzurrite e Malachite dei dintorni di Lagonegro in Basilicata ». 328. Di LeGGE. « Osservazioni del passaggio di Mercurio 1907 novembre 13-14, tatte al R. Osservatorio del Campidoglio ». 729. DoreLLo. « Contributo allo studio dello sviluppo del Nucleo rosso (WVucleus tegmenti). Nota preliminare sopra lo sviluppo del nucleo negli embrioni del maiale ». 84. E En®Lica. È eletto Socio straniero. 226. — Ringrazia. 661. ErepIa. V. IMendola. F Foà. V. Grassi. FornaIni. V. Parravano. G GaALDJERI « Osservazioni geologiche sui Monti Picentini nel Salernitano ». 529. GARBASSO. « l'raiettorie e onde luminose in un mezzo isotropo qualunque ». 41. — «Traiettorie e onde luminose in un particolare mezzo isotropo e non omo- geneo ». 518. GraLDINI. « Sopra alcuni sali complessi dell’iridio. Iridoossalati ». 551; 648. Gorini. « Studio sulla fabbricazione razio- nale del formaggio di Grana». 296. Grassi e Foà. « Riassunto delle ricerche sulle fillossere e in particolare su quella della vite, eseguite nel R. Osservatorio antifilosserico di Fauglia fino all’agosto 1907, per incarico del Ministero d’A- gricoltura dal prof. B. Grassi (diret- tore) e dalla dott. Anna Foà (assi stente)». 305. —. « Inaspettata scoperta di una fillossera sulle radici della quercia ». 429. HasseLBeRG. È eletto Socio straniero. 226. H HeRLIZTKA. « Ricerche sulla catalasi. Sul- l’antagonismo tra catalasi e perossi- dasi ». 473. K KLEIN €. Annuncio della sua morte. 661. KoLrr. « Sulla fisiologia del cuore dei pesci Teleostei ». 479. Ole L LauriceLLA. È eletto Corrispondente. 226. — Ringrazia. 661. — «Sull’integrazione dell’equazione 44 V= —= 0). 3178. Lexarp. È eletto Socio straniero. 226. — Ringrazia. 661. Levi E. £. « Sul problema di Cauchy ». 105. — « Sull’equazione del calore ». 450. — «Sulle equazioni integrali ». 604. Levi Crvira. « Sullo sviluppo delle fun- zioni implicite ». 3. — « Sulle onde progressive di tipo perma- nente ». 777. Loewy. Annuncio della sua morte. 661. — Sua Commemorazione. 770. LomBroso. « Sulla possibile sopravvivenza dei colombi alla legatura e recisione dei tre dotti pancreatici ». 214. Longo. « Sul Sechium edule Sw. ». 470. — « Nuove ricerche sulla nutrizione del- l'embrione vegetale ». 591. M MaeGRI G. « Alcune considerazioni circa l’o- rigine delle ocre rosse depositate dalle acque termali degli stabilimenti dei bagni di Lucca ». 400. Magri L. « Le stratificazioni nella scin- tilla elettrica ». 630; 680. — V. Battella. Marcacct. È eletto Corrispondente. 226. — Ringrazia. 661. Maresca. « La quantità di elettricità cui dà passaggio la scintilla d’induzione a basse pressioni ». 113. MascaRELLI. « Sui derivati dell’idrato di difenileniodonio. (Nuova classe di so- stanze eterocicliche contenenti lo iodio in catena chiusa)». 562. — « Alcune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari ». 660; 691. — « Alcune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari (Sui prodotti di ad- dizione tra nitroderivati aromatici e cloruro-mercurici)» 810. — e Pesratrozza. « Solubilità allo stato solido fra composti aromatici ed i re- lativi esaidrogenati ». 567. MazzuccHELLI. « Su alcuni sali complessi del perossido di titanio ». 265; 349. — e Bimsr. « Su alcuni sali complessi del perossido di uranio ». 576. Mepici. « Sui gruppi di movimenti ». 166. MenpoLA e EREDIA. « Secondo riassunto delle osservazioni meteorologiche ese- guite all’ Osservatorio sull'Etna dal 1892 al 1906 ». 34. Mirri. V. Paternò. Mirazzo. V. Tamburello. MiLLosevicHÒ E. (Segretario). Dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. 662; 775. — Presenta le pubblicazioni dei Soci: Bas- sani, Cantone, Locker, Lorenzoni, Pascal, Pizzetti, Pftueger, Raina M., Ramon y Cajal, Schiaparelli. 662; Mattirolo, Helmert, Darwin, 774; dei sionori: Lombardi, Maillet, Favaro. 662; Stroobant, Delvosal, Philippot, Delporte, Merlin, 774; dell’Università di Upsala. 662. -- « Commemorazione del Socio straniero MU. Loewy ». 770. — « Osservazioni delle comete c Giacobini, d Daniel ed e Mellish 1907, fatte al- l’equatoriale Steinheil-Cavionato del R. Osservatorio astronomico al Collegio Romano », 599. — «Il passaggio di Mercurio sul Sole il 15-14 novembre 1907 ». 715. MirLosevica F. Invia per esame la sua Memoria: « Studî sulle rocce vulcani- che di Sardegna. I. Le rocce di Sas-- sari e di Porto Torres. 661. — Sua approvazione. 774. MorERA. È eletto Socio nazionale. 226. — Ringrazia. 661. Mosso. «Le armi più antiche di rame e di bronzo n. 600. N Nasini. Fa omaggio di un suo lavoro e ne parla. 662. NiccoLar. « Sulla resistenza elettrica di leghe molto resistenti, a temperature molto alte e molto basse ». 185. — 816 — No£. «La Filaria Grassii, n. sp. e la Filaria recondita, Grassi ». 806. 0 OccHIALINI. « Sulla dispersione elettrica dei metalli riscaldati ». 119. — «La scintilla fra elettrodi roventi ». 191. OrLanpo. « Sull’ equazione differenziale Asgut+Au=0 ». 244. — « Sopra alcune equazioni integrali ». 601. P Papoa. « Osservazioni ad una Nota sulla velocità di cristallizzazione di miscele isomorfe ». 660; 695. — e Cuiaves. « Azioni catalitiche dei me- talli suddivisi sui composti azotati ». 696; 762. PANTANELLI. « Su la revertasi nei funghi ». 419. PARONA. « Risultati di uno studio sul cre- taceo superiore dei monti di Bagno presso Aquila ». 229. ParRAVvANO e FornaINI. « Sopra gli idrati del solfuro di sodio ». 464. PateRNÒ. Fa omaggio degli Atti del VI Congresso internazionale di Chimica applicata. 774. — « Sulle origini della stereochimica ». 717. — e MieLi. « Sui miscugli del trimetil- carbinolo ed acqua ». 153. — e SpatLino. « Sopra i fluoruri di es- sile e di ottile ». 160. PawLow. È eletto Socio straniero. 226. — Ringrazia. 661. PeLLINnI. « Sul perossido di mercurio ». 408. — e Pegoraro. « Costituzione dell’acido fluoridrico ». 273. PeRATONER. È eletto Corrispondente. 226. — Ringrazia. 661. — e AzzaRELLO. « Azione dei diazo-idro- carburi grassi sul cianogeno e suoi derivati. I. Cianogeno (Parte teore- tica)». 237; «II. Cianogeno (Parte sperimentale)». 318. — e Parazzo. « Azione dei diazo-idrocar- buri grassi sul cianogeno e suoi deri- vati. IV. Acido prussico ». 432; «V. Acido prussico (Continuazione) ». 501. PeroTTI. « Intorno al processo microbio- chimico d’ammonizzazione nel terreno agrario n. 661; 704. PeTRI. « Sopra un caso di parassitismo di una cocciniglia (Mytilapsis fulva Targ. var. ?) Sulle radici di olivo ». 766. Picciati. « Integrazione dell’equazione fun- zionale che regge la caduta di una sfera in un liquido viscoso ». 45. — « Sul moto di un cilindro indefinito in un liquido viscoso ». 174. PocHeTTINO. « Sull’effetto fotoelettrico di alcune sostanze usate negli attinometri elettrochimici ». 58. Principi. «Cenni geologici sul Monte Malbe presso Perugia » 535. R Ramsay. È eletto Socio straniero. 226. — Ringrazia. 661. Rerzius. È eletto Socio straniero. 226. — Ringrazia. 661. Riccò. « L'Osservatorio Etneo in rapporto al servizio meteorologico ». 25. Roscoe. È eletto Socio straniero. 226. — Ringrazia. 661. Rossi. « Sulla radioattività della cotunnite vesuviana n». 630. Russo. « Sull’origine dei mitocondri e sulla formazione del deutoplasma nel- l’oocite di alcuni mammiferi ». 292. S SancIoreI. V. Viola. Sanzo. « Contrazioni ritmiche antiperistal- tiche nell’intestino terminale di larve di Discoglossus pictus». 149. SELLA. « À proposito di una Nota dei proff. Battelli e Stefanini: Relazione fra la pressione osmotica e la tensione su- perficiale ». 384. — Annuncio della sua morte. 770. SERRA. « Studio litologico-chimico delle rocce del Coloru (Sardegna sett.) n.359. — «Intorno alla tormalina dell’Asinara (Sardegna) ». 660; 702. — 817 — SEVERI. « Alcune proposizioni fondamentali per la geometria sulle varietà algebri- che n. 337. SEVERINI. « Su alcune particolarità morfo- logiche ed anatomiche delle radici di Hedysarum coronarium ». 145. — « Ricerche batteriologiche sui tubercoli dell’Hedysarum coronarium L. (Sulla) ». 219. SomieLIAna. « Sulla teoria maxwelliana delle azioni a distanza ». 719. SpaLLino. V. Paternò. STEFANINI. « Echini fossili del miocene medio dell'Emilia ». 538. StRUEvER. Riferisce sulla Memoria J/7/l0- sevich F. 774. T TamBuRELLO e MiLazzo. « Azione dei dia- zo-idrocarburi grassi sul cianogeno e suoi derivati. III. Composti alogenati». 412. TeDonE. « Un teorema sulle equazioni del- l’elasticità ». 737; 795. TRAINA. Invia per esame la sua Memoria: « Su alcune Celestine di Sicilia ». 774. VI VANZETTI. « Decomposizione elettrolitica RenpICONTI. 1907, Vol. XVI, 2° Sem. di acidi organici bicarbossilici. Acido suberico ». 79; 139. — « Diffusione di elettroliti in soluzione acquosa e nelle gelatine ». 655; 696. VENTURI. « Terza campagna gravimetrica in Sicilia nel 1905 ». 91. VassaLe. È eletto Corrispondente. 226. — Ringrazia. 661. VroLa. Fa parte della Commissione esami- natrice della Memoria JI/illosevich F. 774. —- « Determinazione degli indici principali di rifrazione di un cristallo mediante i piani di polarizzazione ». 600; 668. — e SangiorgI. « Sopra i supposti giaci- menti granitici dell'Appennino Par- mense ». 332. Von ZAcHARIAE. Annuncio della sua morte. 661. Z ZamBonINI. « Notizia cristallografica sul- l’azzurrite del Timpone Rosso presso Lagonegro ». 737. Zappa. « Sulla più opportuna scelta delle declinazioni stellari per determinare le costanti strumentali azimut e col- limazione e l’errore dell'orologio usando lo strumento dei passaggi in meridiano senza inversione », 621. Zeuner. Annuncio della sua morte. 661. — 818 — INDICE PER MATERIE A AnaToMIA. « Contributo alla conoscenza della spermatogenesi negli Ortotteri » G. Brunelli. 766; 799. — « Contributo allo studio dello sviluppo del Nucleo rosso(Nucleustegmenti). Nota preliminare sopra lo sviluppo del nucleo negli embrioni del maiale ». P. Dorello. 84. ANATOMIA VEGETALE. « Su alcune parti- colarità morfologiche ed anatomiche delle radici di Hedysarum coro- narium ». G. Severini. 145. — Ricerche batteriologiche sui tubercoli dell’Hedysarum coronarium. L. (Sulla) ». /d. 219. AstronoMIa. « Osservazioni del passaggio di Mercurio 1907 novembre 13-14, fatte al R. Osservatorio del Campidoglio ». A. Di Legge. 7129. — « Osservazioni delle comete c Giaco- bini, d Daniel ed e Mellish 1907, fatte all’equatoriale Steinheil-Cavignato del R. Osservatorio astronomico al Colle- gio Romano ». E. J{illosevich. 599. — «Il passaggio di Mercurio sul sole il 13-14 novembre 1907 ». Id. 715. B BATTERIOLOGIA AGRARIA. « Intorno al pro- cesso microbiochimico d’ammonizza- zione nel terreno agrario ». f?. Perotti. 661; 704. { BATTERIOLOGIA CASFARIA. « Studii sulla fab- bricazione razionale del formaggio di Grana ». C. Gorini. 296. BroGRAFIA. « Commemorazione del Socio straniero I. Loewy ». E. Millosevich. 770). Bollettino bibliografico. 491; 595; TOPI, C Chimica. « Nuove reazioni degli indoli e dei pirroli ». A. Angeli e G. Mar- chetti. 790. — « Ricerche sopra l’acido santoninico ». Id. e L. Marino. 513. — « Elettrolisi del nitrato di torio n. 0. Angelucci. 196. — « Contributo alla conoscenza dell’ar- gento bivalente ». G. A. Barbieri. 72. — « Sull’ 1-2-4 dimetil-nafto-chinolo ». G. Bargellini. 205. — «Sopra alcuni derivati chinolici del gruppo della santonina ». /d. 262. — « Sopra una dimetil-difenil-esametileni- mina ». /d. 844. — « Sull'1-2-4 dimetil-nafto-chinolo ». /d. e S. Silvestri. 255. — « Sulla grandezza molecolare dei ferro- nitrosolfuri ». J. Bellucci e F. Carne- vali. 584. — « Sui sali di Roussin ». /d. e P. De Ce- saris. 740. — «Sui persolfuri d'idrogeno ». G. Bruzi e A. Borgo. 745. — «La costituzione dei sali di Roussin ». L. Cambi. 542; 658. — « fiterificazione degli ossiazocomposti per mezzo del solfato dimetilico ». A. Colombano. 457. — « Eterificazione dei derivati azoici degli ossiacidi per mezzo del solfato dime- tilico ». /d. 547. — «Sulla solanina estratta dai germi del Solanum tuberosum Linn. ». /d. 683; 755. — «Su alcuni derivati azoici del guaia- colo ». /d. e B. Leonardi. 639. — 819 — CÒimica. « Sui nitroderivati aromatici ». R. Ciusa. 133. — « Alcune osservazioni sulle aldeidi ». /d. 100) — « Sopra alcuni sali complessi dell’iridio. Iridoossalati». 0. Graldini. 551; 648. — Ricerche sulla catalasi. Sull’antagoni- smo tra catalasi e perossidasi ». A. Herliztkha. 473. — « Sui derivati dell’idrato di difenilenio- donio. (Nuova classe di sostanze etero- cicliche contenenti lo iodio in catena chiusa)». Z. Mascarelli. 562. — « Alcune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari ». /d. 660; 691. — Alcune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari. (Sui prodotti d’addi- zione tra nitroderivati aromatici e clo- ruro-mercurici)» /4. S10. — « Solubilità allo stato solido fra com- posti aromatici ed i relativi esaidro- genati » Id. e U. Pestalozza. 567. — « Su alcuni sali complessi del perossido di titanio». A. Mazzucchelli. 265; 349. — «Su alcuni sali complessi del perossido di uranio ». /d. e F. Bimbi. 576. — « Osservazioni ad una Nota sulla velo- cità di cristallizzazione di miscele iso- morfe ». I. Padoa. 660; 695. — «Azioni catalitiche dei metalli suddi- visi sui composti azotati ». /d. e C. Chiaves. 696; 762. — «Sopra gli idrati del solfuro di sodio ». N. Parravano e M. Fornaini. 464. — « Sulle origini della stereochimica ». E. Paternò. 717. — « Sui miscugli del trimetilcarbinolo ed acqua». Id. e A. Mieli. 153. — « Sopra i fluoruri di essile e di ottile ». Id. e R. Spallino. 160. — «Sul perossido di mercurio ». G. Pel lini. 408. — «Costituzione dell'acido fluoridrico ». Id. e L. Pegoraro. 273. — Azione dei diazo-idrocarburi grassi sul cianogeno e suoi derivati. I. Ciano- geno (Parte teoretica). 237; II. Cia- nogeno (Parte sperimentale)». A. Pe- ratoner e E. Azzarello. 318. — « Azione dei diazo-idrocarburi grassi sul cianogeno e suoi derivati. IV. Acido prussico. 432 ; V. Acido prussico (Con- tinuazione) ». Id. e F. C. Palazzo. 501. CaHimica. « Azione dei diazo-idrocarburi grassi sul cianogeno e suoi derivati. III. Composti alogenati n. A. Tambu- rello e A. Milazzo. 412. — « Decomposizione elettrolitica di acidi organici bicarbossilici. Acido sube- rico». L. Vanzetti. 79; 139. — « Diffusione di elettroliti in soluzione acquosa e nelle gelatine ». /d. 655; 696. CHimico-FIsica. « Alcune considerazioni circa l'origine delle ocre rosse de- positate dalle acquetermali degli stabi- limenti dei Bagni di Lucca ». G. Ia- gri. 400. CRISTALLOGRAFIA. « Determinazione de- gli indici principali di rifrazione di un cristallo mediante i piani di polariz- zazione ». C. Viola. 600; 668. E ELezIoNI DI Soci. 226; 661. EMBRIOLOGIA vEGETALE. « Sul Sechium edule Sw. ». 5. Zongo. 470. — « Nuove ricerche sulla nutrizione del- l'embrione vegetale ». /d. 591. F Fisica. « Potenziali esplosivi in presenza di diaframmi ». ZL. Amaduzzi. 393. — «Comportamento dei vapori metallici nella scintilla elettrica ». A. Battelli e L. Magri. 12. — « Sulla relazione fra la tensione super- ficiale e la pressione osmotica ». /d. e A. Stefanini. 600; 663. — « La quantità d’elettricità cui dà pas- saggio la scintilla d’induzione e la sua cosidetta resistenza ». 0. Corbino. 51. — « Le stratificazioni nella scintilla elet- trica ». LZ. Magri. 630; 680. — « La quantità di elettricità cui dà pas- saggio la scintilla d’induzione a basse pressioni ». S. Maresca. 113. — « Sulla resistenza elettrica di leghe — 820 — molto resistenti, a temperature molto alte e molto basse n. G. Niccolai. 185. CHimica. « Sulla dispersione elettrica dei metalli riscaldati ». A. Occhialini. 119. — «La scintilla fra elettrodi reventi ». Id. 191. -— « Sull’effetto fotoelettrico di alcune so- stanze usate negli attinometri elettro- chimici ». A. Pochettino. 58. — « Sulla radioattività della cotunnite ve- suviana n». P. Rossi. 650. — «A proposito di una Nota dei proff. Bat- telli e Stefanini: Relazione fra la pres- sione osmotica e la tensione super- ficiale ». A. Sella. 384. Fisica MATEMATICA. « Nuova risoluzione di un problema fondamentale della teoria dell’elasticità n. £. Boggio. 248. — « Sull’equazione del moto vibratorio delle membrane elastiche ». /d. 386. — « Determinazione della deformazione di un corpo elastico per date tensioni superficiali n. /d. 441. — « Integrazione dell’equazione funzionale che regge la caduta di una sfera in un liquido viscoso ». /d. 613; 730. — « Traiettorie e onde luminose in un mezzo isotropo qualunque n. A. Gar- basso. 41. — « Traiettorie e onde luminose in un particolare mezzo isotropo e non omo- geneo ». /d. 518. — «Sull’equazione differenziale 4° u+ 4 =0». LZ. Orlando. 244. — « Sopra alcune equazioni integrali ». /d. 601. — « Sulla teoria maxwelliana delle azioni a distanza n. C. Somigliana. 719. FISICA TERRESTRE « Saggio di una nuova formola empirica per rappresentare il modo di variare della radiazione solare col variare dello spessore atmosferico attraversato dai raggi ». A. Bemporad. 66; 126. — « Secondo riassunto delle osservazioni meteorologiche eseguite all’Osservato- rio sull'Etna dal 1892 al 1906 ». £. Mendola e F. Eredia. 34. — «L'Osservatorio Etneo in rapporto al servizio meteorologico ». A. Ricco. 25. Fisiorogia. « Grassi e glucogeno nel fe- gato dei Selacii ». F. Bottazzi. 514. — «Gli ordegni nervosi periferici del ritmo respiratorio nei pesci teleostei: Ricerche anatomiche e sperimentali ». U. Deganello. 279 — «Sulla fisiologia del cuore dei pesci teleostei ». IV. Colf. 479. — «Sulla possibile sopravvivenza dei co- lombi alla legatura e recisione dei tre dotti pancreatici n. UV. Lombroso. 214. F FIsIoLOGIA VEGETALE. « Sull’accumulo di sostanze radioattive nei vegetali ». C. Acqua. 357. — «Sopra alcuni presami o chimasi vege- tali». D. Bruschi. 360. — «Su la revertasi nei funghi ». &. Pan- tanelli. 419. G GeEODESIA. « Terza campagna gravimetrica in Sicilia nel 1905». A. Venturi. 91. GeoLOGIA. « Revisione della fauna oligoce- nica di Laverda nel Vicentino». G. Canestrelli. 525. — «Il Neck subetneo di Motta S. Anasta- sia». G. De Lorenzo. 15. — «Azzurrite e Malachite dei dintorni di Lagonegro in Basilicata ». /d. 328. — « Osservazioni geologiche sui Monti Picentini nel Salernitano ». A. Gal- dieri. 529. — « Risultati di uno studio sul Cretaceo superiore dei monti di Bagno presso Aquila». C. Parona. 229. — « Cenni geologici sul Monte Malbe presso Perugia». P. Principi. 535. — « Echini fossili del miocene medio del- l’Emilia». G. Stefamni. 588. — «Sopra i supposti giacimenti granitici dell’Appennino Parmense». €. Viola e D. Sangiorgi. 332. M MartemaTICa. « Sull’integrazione dell’equa- zione 41 V=0». G. Lauricella. 373. — «Sul problema di Cauchy ». Z. Z. Leve. 105. SLVE MartEMaTICA. « Sull’equazione del calore ». Id. 450. — « Sulle equazioni integruli ». /d. 604. — «Sullo sviluppo delle funzioni impli- cite». 7. Levi Civita. 3. —. «Sulle onde progressive di tipo perma- nente». /d. 757. - «Sui gruppi di movimenti ». S. Iedici. 166. — « Alcune proposizioni fondamentali per la geometria sulle varietà algebriche ». F. Severi. 337. Meccanica. «Integrazione dell'equazione funzionale che regge la caduta di una sfera in un liquido viscoso ». G. Pic- ciati. 45: «Sul moto di un cilindro indefinito in un liquido viscoso », /d. 174. — « Un teorema sulle equazioni dell’ela- sticità ». 0. Tedone. 737; 795. MineRALOGIA. « Notizia cristallografica sul- l’azzurrite del Timpone Rosso presso Lagonegro». A. Zambonini. 737. N Necrologie. Annuncio della morte dei Soci: Sella. 770; Klein C., Von Zacha- riae, Zeuner. 661; Loewy. 661; 770. P PaLeTNoLOGIA. « Le armi più antiche di rame e di bronzo ». A. Mosso. 600. PATOLOGIA VEGETALE. « Sopra un caso di parassitismo di una cocciniglia (My- tilapsis fulva Targ. var. ?) sulle ra- dici di olivo». L. Petri. 766. PeTROGRAFIA. « Studio litologico-chimico delle rocce del Coloru(Sardegna sett.) » A. Serra. 353. — «Intorno alla tormalina dell'Asinara (Sardegna) ». /d. 660; 702. Z ZooLogra. « Riassunto delle ricerche sulle fillossere e in particolare su quella della vite, eseguite nel R. Osservato- rio antifilosserico di Fauglia fino all’a- gosto 1907, per incarico del Ministero d’Agricoltura, dal prof. B. Grassi (di- rettore) e dalla dott. Anna Foà (assi- stente)». B. Grassi e A. Foà. 305. — «Inaspettata scoperta di una fillossera sulle radici della quercia». /d. /d. 429. — «La Filaria Grassii, n. sp. e la Filaria recondita, Grassi». G. Noè. 806. — «Sull’origine dei mitocondri e sulla formazione del deutoplasma nell’oocite di alcuni Mammiferi ». A. Russo. 292. — «Contrazioni ritmiche antiperistaltiche nell'intestino terminale di larve di Discoglossus pictus». L. Sanzo. 149. a: R. Accademia dei SUOL: ANA Mc "d dai Ate Noa ee vo n Abi € di di Ma dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. n Atti della Reale Accademia dei Lincei. "Tomo XXIV-XXVI. — Vol. I (1878- 274) a olIL° (1874-75). ARREDI dI TIT. (187, DE mute 1a a i | 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, i matematiche e naturali. ut (ga Memorie de ella Classe di scienze morali, i © storiche e filologiche. matematiche e naturali. ji, storiche e filologiche. matematiche e naturali. la Classe Li sionso Corna storiche e filologiche. LIa. ° di scienze CA matematiche e naturali. 2 1907). 2° Sem. Fasc. 12°. Masse di scienze morali, storiche e filologiche. 907). Fase. 49-50. cienze do matematiche e naturali. Lan Soap: LA R. ACCADENTA cost inca no due CA all’anno, corrispon- i rea Pisa. e na RENDICONTI — Dicembre 1907. PIND IGE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta dei 15 dicembre 1907. MEMORIE KE NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Levi-Civita. Sulle onde progressive di tipo permanente. Angeli e Marchetti. Nuove reazioni degli indoli e dei pirroli i L'edone. Un teorema sulle equazioni dell’elasticità (pres. dal Socio Volter va) Brunelli. Contributo alla conoscenza della SI negli Ortotteri Grassi) . i. RT ; ; Noè. La Filaria Grassii, n. sp. e da i; ANGRI Gia Mascarelli. Alcune considerazioni sugli equilibri in sistemi ternari. (Sui prodi fra nitroderivati aromatici e cloruro-mereurici) (pres. dal Socio Ciamit BULLETTINO BIBLIOGRAFICO è. . +. . << + Indice del vol. XVI, 2° semestre 1907 ° Re? sed (*) Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. 47) Boat ( DÌ 586) SMITHSONIAN INSTITUTION LIBRA IT 3 9088 01356 8837