PIRENEI TT E i TA E e | Pubblicazione bimensile. —oma 5 luglio 2568. N. 1 vu ATTI DELLA | REALE ACCADEN IA DEI LIN ORE ANNO GCCV. SEDI ponTI he, matematiche e naturali. Volume XVII. — Fascicolo 1° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 5 luglio 1908. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serde quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano | una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze ; siche, matematiche e naturali valgono lemorme seguenti : 1.1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due: volte al inesé; essi contengono | le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa: Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni . | 75 estratti gratis ai Soci 6 Corrispondenti, 6/50. agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della ‘spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le diseus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. Il. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi» cati al paragrafo precedente, e le Memorie pre- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com: missione la quale esamina il lavoro e ne rife. risce in una prossima tornata della Classe. uzioni. -' 4) Con una proposta di a Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra; ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre cedente, la relazione è letta in seduta pubblica stampa d ue!l’ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame, è d..1: ricevuta con lettera, nella quale si avverte chu i manoscritti non vengono restituiti agli atvri, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 di ll'o Statuto. 5.L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- toi! di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50. se e-t;anei. Laspesa di un numero di copie in più | “ch. fosse richiesto. è messa 4 carico degli autori. Pi DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI ANINOTECGCGCM. ISO) SRI TA Ù RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. VOLUME XVII. 2° SEMESTRE. Îl Il | tI Ha Il i SZ SS A (NA | sentare lastftgg SR (I ROMA a Uan | | TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI = ) di + (0 222259.) | PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI 1 A ; 4 (LÌ Ne Selane Must N 1908 ese : Ù | RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 5 luglio 1908. Cas Meccanica. — Sull’attrazione esercitata da una linea mate- riale in punti prossimi alla linea stessa. Nota del Corrispondente T. LEVI-CIVITA. Nella teoria del potenziale e nelle sue varie applicazioni ha essenziale importanza il comportamento dell'attrazione newtoniana nell'interno o nel- l'immediata prossimità dell'agente. La questione, esaurientemente trattata per le distribuzioni a tre e a due dimensioni, attende ancora una risposta sistematica per il caso di una linea materiale. La maggior parte degli autori si limita ad osservare che nè la funzione potenziale V, nè le sue derivate si mantengono in generale finite, quando il punto potenziante si avvicina indefinitamente alla linea. Ora è ben chiaro che interessa sapere qualche cosa di più, e precisamente in qual modo tali funzioni diventano infinite, ciò che è messo in evidenza dalle così dette espressioni asintotiche. Nell'idrodinamica, lo studio dei filetti vorticosi rettilinei o circolari aveva imposto da tempo la considerazione di speciali espressioni asintotiche. Spetta però al sig. Da Rios (') il merito di aver per primo istituita una ricerca generale di questo tipo. Egli ha trovato (prescindo dall’interpre- tazione idrodinamica, per rilevare soltanto il contenuto analitico) espressioni asintotiche, valide per una linea qualunque, le quali competono a certe tre differenze formate con derivate di potenziali newtoniani (componenti del rotor di un potenziale vettore). (1) Sul moto di un liquido indefinito con un filetto vorticoso di forma qualunque. Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, tomo XXII, 1906, pp. 117-135. LARA Il metodo del Da Rios si potrebbe facilmente trasportare a casi ana- loghi; in particolare alle derivate di un potenziale di linea. È tuttavia preferibile riprendere la ricerca 40 iri/0, sostituendo all’ in- dagine diretta delle tre componenti dell'attrazione quella di un unico ele- mento: il relativo potenziale V. Con opportuna trasformazione vien fatto di distinguere nella funzione sotto il segno una parte principale ed un termine complementare, il contributo del quale si mantiene finito assieme alle sue prime derivate, anche quando il punto potenziato si avvicina indefinitamente alla linea potenziante. Eseguendo la effettiva integrazione della parte principale, e riducendo, si ha una espressione asintotica V del potenziale V, alta alla derivazione, tale cioè che non soltanto la differenza V — V, ma anche le derivate di V—V si mantengono finite. Ciò val quanto dire che le derivate di V°® forniscono senz'altro le cercate espressioni asintotiche delle componenti del- l'attrazione ('). Con questo procedimento si ha il vantaggio che tutto è sostanzialmente riassunto in una formnla unica, l'eguaglianza asintotica V= V°, da cui discendono come corollari immediati le particolarizzazioni e combinazioni, che interessano dal punto di vista idrodinamico od elettrodinamico. Ho così ritrovato, a titolo di esempio, le espressioni asintotiche dovute al Da Rios. Seguirà prossimamente un'applicazione ai campi elettromagne- tici puri. i 1. Preliminari. — Sia L una liena materiale (aperta o chiusa); O un suo punto qualunque; 4 un tratto nor nullo di L, avente uno degli estremi in 0; 4* un analogo tratto in verso opposto a partire da O, coll'ovvia av- vertenza che Z* viene a mancare, qualora O sia un estremo di L. Diciamo 4 ciò che resta di L, quando se ne tolgono i tratti 4 e 4* (il solo 4, se O è un estremo); 4L un generico elemento della linea; w la densità (lineare) spettante all'elemento; P il punto potenziato, esterno ad L, che faremo poi avvicinare indefinitamente al punto (arbitrariamente prescelto) O di L; 7 la distanza fra P e il generico elemento potenziante. Il potenziale newtoniano dell'attrazione, esercitata dalla linea L su P, può manifestamente scindersi in tre (due, nel caso particolare, in cui O coincide con un estremo di L) addendi, che corrispondono ai tratti 4, 4* e 4 (o, rispettivamente, 4 e 4). (1) Una espressione asintotica del potenziale V, valida per una linea materiale di forma qualunque, si trova nella 7héorie du potentiel newtonien (Paris, Carré et Naud, 1899, pag. 128) del sig. Poincaré. Va notato tuttavia che tale espressione non è atta alla derivazione, essendo ricavata in base alla sola condizione che resti finita la diffe- renza fra essa e V. Non si può quindi pretendere che rimangano finite anche le derivate. Il confronto colla nostra V‘9 mostra anzi che ciò in generale non accade. Ponendo ° padL v=[f, (1) Nd n \ È del (se O è un punto intermedio) (2) VWag = i A Li due 10 (se O è un estremo), © pdL (8) v=| E, OLA scriveremo in conformità (4) Ve Mt VWe+ Vi. Occupiamoci per ora del primo addendo. 2. Specificazione delle ipotesi concernenti È. — Supponiamo che il tratto di linea 4 sia regolare; più generalmente, che le coordinate dei suol punti siano esprimibili come funzioni dell'arco, finite assieme alle loro de- rivate prime, seconde e terze. Detta s la lunghezza dell'arco, compreso fra l'estremo O e un punto ge- nerico di , / la lunghezza totale di 2, sarà AL = ds e la (1) potrà scriversi mu) lo 0 Supponiamo ancora che la densità w(s) sia, in tutto l'intervallo (0,2), funzione finita assieme alle sue derivate prima e seconda. Ciò permette di applicare ad essa lo sviluppo di Maclaurin, arrestato al secondo termine, e porge (5) u(5) = wo + Mt08 + Ma 8° essendo us e o i valori di u e della sua derivata per s=0, e wu, una funzione di s, anch'essa finita e continua. Assumiamo una terna di riferimento coll’origine in O e cogli assi orien- tati come segue: asse + diretto secondo la tangente, nel senso della linea 4; asse y secondo la normale principale, nel senso della concavità (a piacere, ove fosse nulla la curvatura); asse < diretto in modo da rendere la terna trirettangola e, diciamo, sinistrorsa. Indichiamo con &, n, é le coordinate di un punto generico di 4, e con € il valore della curvatura nel punto O. Avremo, per s=0, SI=210) el m==06, «Mo—10% dé Onsirttini ego | ELOS TRAE To CES I) UT Ra a ORE gi con che lo sviluppo abbreviato di Maclaurin, arrestato al terzo termine, porge, in tutto l'intervallo (0, /), 3= BSP (6) Aa = SEAGNE È,,%,é rappresentando funzioni di s, finite e continue. Introduciamo infine: le coordinate #,y,z del punto potenziato P; la sua distanza e da O; l'inclinazione 4 di OP sulla direzione positiva 4 della tangente; l'angolo g (contato nel verso y —+ 2), che la proiezione di OP sul piano normale (ad L in O) forma colla direzione positiva y della normale principale. Sarà evidentemente: (7) q=ec089 , y=esendcosp , s=esendseng; dopo di che, avendo riguardo alle (6) e ponendo \ H+ 28, +sz+esm+s0=0, (8) —2(&2+my+04)=S$, Os S=T, risulta (0) i i Vee O) E =s° — 2sec089 +e + (— cy Ts)s?. Il nostro scopo è di indagare il comportamento di V, quando P si avvicina indefinitamente ad 0, quando cioè si fa convergere a zero la di- stanza e, pur seguitando — questo si intende bene — a ritenere P esterno alla linea e quindi e >0 (senza di che l'integrale (1’) sarebbe privo di significato). Circa le modalità con cui P si avvicina ad O, non faremo ipotesi spe ciali, come sarebbe l’ammetlere che ciò avvenga secondo un determinato cammino. Ci basterà precisare una limitazione, che risiede nella natura delle cose, ed è la seguente: trattandosi di un punto P esterno alla linea, il suo avvicinamento ad O non può seguire in direzione tangenziale; noi ammet- teremo che, al convergere di e a zero, la direzione OP si mantenga, non soltanto distinta da 4, ma addirittura esterna ad un cono rotondo, trac- ciato attorno ad 4 con apertura %, ron nulla. Con tale restrizione, sarà in ogni caso ILI Linz i Dacchè 4° è un polinomio omogeneo di secondo grado in #,Y,4,5, al numeratore compete il grado h + 1. La frazione è quindi d'ordine h+1-(kK+2)=n-1. c. d. d. Combinando le due proprietà di derivazione e di comportamento, sì ha ancora: Una funzione d'ordine =1 si mantiene finita, assieme alle sue derivate (rapporto ad x,y ,), anche per e=8= 0. 5. Discriminazione dei termini d'ordine minimo contenuti n = e in n. — In base alle ipotesi del n. 2, c è una costante (curvatura di 4 in 0) e T una funzione di x.y,,s, che possiede un limite superiore finito, ogni qualvolta la distanza di P da O non supera un limite prefis- sato, del resto qualunque, #0 - Supponendo «, abbastanza piccolo e limitando, se occorre, la lunghezza / di Z, potremo ritenere |— cy + Ts|< sen? do, per ogni = = £, @ per ogni s=l. Ove si ponga € Ts) s° (18) q=- Wise MRI RE { LS 1 è i e si ricordi che il modulo di Fao supera rg? 8 avrà pure la disu- 0 guaglianza \<1- Essa permette di scrivere sl 1 (14) (Apo ae 00 designando / una funzione di g, olomorfa per |g|<1- Veniamo ormai al punto principale della discussione, che è lo studio di Li n RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 2 cui) Yi Le (9), (11) e (13) dànno anzitutto ro=4°|+(—cy+ Ts)s = 4°(1+9). Di qua, elevando entrambi i membri alla potenza -; e badando alla (14), sì ricava Esplicitando — 39 a norma della (13) e ponendo (IE (15) Gal risulta (16) df(9) agg Per riconoscere il comportamento di G, conviene richiamarsi al numero pre- cedente, e osservare quanto segue: 1°. g è, a norma della (13), una frazione di prim'ordine: pure di 2 prim'ordine è in conseguenza 6). 2°. per le (8), o è funzione finita di s, S funzione lineare omogenea di 2,y,4 (con coefficienti che sono funzioni finite di s). Risultano quindi di prim'ordine T=0s-+$, nonchè Dopo ciò, il termine complementare G si presenta come somma di due frazioni di primo ordine. La derivabilità dei coefficienti rapporto ad «@,y,% essendo evidentemente assicurata, si può asserire, per l'osservazione finale del numero precedente, che G si conserva finito, assieme alle sue derivate rapporto ad 4,y,<, anche pers=e= 0. La stessa proprietà compete naturalmente a uG, essendo u la funzione di s (finita assieme alle sue due prime derivate), che rappresenta la densità. Ove si ponga mente alla espressione (5) di w(s), e si considerino i prodotti su 5CYS(UWo 4 418) 4% 2 hi 3 si vede subito che sono entrambi di primo ordine. Ne viene, in base alle (15) e (16), (17) A O dove LU s? r$ (18) a=T+3 WI Tg e OE GTO) la funzione A mantenendosi finita assieme alle sue derivate (rapporto ad XY), anche per e=s=0. l 6. Espressione asintotica di V\. — L' J eds si valuta coi procedi- 0 menti elementari del calcolo. Anzi tutto, tenendo conto della definizione (11) di 4°, d°=s° — 2sa + e? (a =£c089), potremo scrivere l'espressione (18) di @ sotto la forma U 4° + 2a(s — x) + s°(cos° 3 — sen? 3) 23 ” + 3 6W0Y ria a o E 7 D ; 1 STA tu 7 += ib +3 00) + morit Me ao Ca ST + +64 y(c0s° d — sen? 9) +77. Siccome poi = qleM+:Td). s-a__dl 43 ds 4° Chl na IAA Sa 4° sen9ds A s—%X d vani Eri così, integrando e limitando fra 0 e /, ove si chiami J, il complesso dei termini, che si riferiscono al limite superiore /, e si avverta che, per s=0, 4=e, risulta subito l | ® S'ado=— )u(1+ te) + iz progle — 2) + ew 22 cos°.4 — sen? d € AR OG LOC — oe ario i np Ro Si riconosce senza alcuna difficoltà, in base alle (7) e alla disugua- glianza fondamentale (10), che —}}cuoy + usa log (1 -2) i 1; Tiles cost 9 — sen? d x sen? 4 e ey — 2° x 3 CU0Y i eno get , _ Mo € nonchè J, si mantengono finiti, assieme alle loro derivate (rapporto ad X,Y,8) anche per «=y=z<=0. Potremo quindi scrivere, chiamando 8 l'insieme di questi termini, l fads=— polog@e— 2) —}tcwy + uso floge +8. 0 0 Dato il comportamento di A, siamo fatti certi che anche fas è 0 funzione di 4 ,y,4, che sì mantiene finita, assieme alle sue derivate prime, nell'intorno dell'origine. Se quindi si pone ce e 1) DI (21) m=B+ | 445, 0 si avrà dalle (1°) e (17) (22) Ve=eVO4+F con F, finita assieme alle sue prime derivate. Il primo addendo VI costituisce pertanto una espressione asintotica di Vy atta alla derivazione. 7. Espressione asintotica del potenziale V. — Riportiamoci al n. 1 e ricordiamo che, essendo L la linea potenziante ed O un suo punto qua- lungue, abbiamo immaginato di scindere L nei tratti 2,4* e 4, man- cando Z* quando O è un estremo di L. Ammetteremo, come è ben naturale, che la configurazione geometrica di L e la distribuzione delle masse posseggano i soliti requisiti, siano cioè rappresentabili mediante funzioni finite e generalmente derivabili quanto occorre. L’avverbio generalmente sta a significare che si esclude al più un cf SE numero finito di punti amgolosi, nei quali può subire brusche variazioni qualcuno di questi elementi: direzione della tangente, curvatura, densità. Ciò posto, tanto se O è un punto ordinario, quanto se è un punto an- goloso (purchè soltanto non sia un estremo di L), si potranno certamente staccare da una parte e dall'altra di esso due archi Z e 4*, dotati entrambi delle proprietà specificate al n. 2, e abbastanza brevi, perchè sia valida la disuguaglianza, di cui è parola in principio del n. ©. Ne viene che i due addendi V, e V,x della formula (4) posseggono ciascuno una espressione asintotica, a norma della (20). Il terzo addendo V, rimane regolare nell’ intorno di O, perchè proviene da elementi situati a distanza finita da O. L'espressione asintotica VW di V si riduce dunque a V@ + VS. Qualora O sia un estremo, viene a mancare ilNtrattolNz se rimane Va) == VISO) d Esplicitiamo V°®, distinguendo all'uopo tre casì: a) O è un punto ordinario di L. Il triedro principale 0xyz, relativo all'arco 4, differisce dall’analogo triedro relativo all'arco 4* soltanto per il fatto che sono diretti per verso opposto i due assi delle 4, e anche quelli delle <, se i due triedri si ri- tengono congruenti (entrambi sinistrorsi per es.). Affinchè le coordinate 4,y,s di P, le quali appariscono nelle due espressioni di V@ e di V4 , siano riportate al medesimo sistema coordi- nato, basterà, in una delle due, in quella di V@ per es., scambiare # e < ini—te fot D'altra parte, trattandosi di un punto ordinario, le due costanti c e fo sono le stesse tanto per VW quanto per V(%, mentre (essendo opposte le direzioni dei due archi Z e 4*) il w/, relativo a V(, presenta un cambia- mento di segno rispetto all'elemento analogo, relativo a V@ . Ne risulta (23) — uo log (e — 2°) — 2}icwn + mat log e, dove — riassumo, per comodo di consultazione, il significato delle lettere — le coordinate x,y ,8 si riferiscono al triedro principale della linea L nel punto O, coll'asse & diretto secondo la tangente (in un senso arbitrario) e l’asse y secondo la normale principale (verso la concavità di L); c è la curvatura nel punto 0; uo îl valore della densità in questo punto; uo él valore della derivata di w (rapporto all'arco, nel senso assunto come posi- tivo sulla tangente); infine s— Warp y° deg è la distanza del punto potenziato P_da O. 5) O è un estremo di L. Manca l’addendo V$) e si ha per V l’espressione (20). c) O è un punto angoloso. SERE CI In questo caso sono in generale diverse le orientazioni dei due triedri principali relativi a Z e a 4*, nonchè i valori di c, w e ug. L'espressione asintotica si ha ancora esplicitando (a) a) peer come nel caso a); ma la trasformazione di coordinate, necessaria per far apparire nei due addendi uno stesso sistema di riferimento, non dà luogo, in generale, a riduzioni significanti. 8. Espresstone asintotica della velocità indotta da un vortice li- neare. — Ferme restando le notazioni finora adoperate, sia w una funzione di s (finita assieme alle sue due prime derivate), e si ponga Met IICGIC — 2 © ds r dic 0 ds °° L'espressione asintotica di P in un punto ordinario O si ottiene senza altro dalla (23), sostituendo, al posto di w, de, e, d oÈ)=v d°È i do do dé ds (0 ds ds * ds ds’ per conseguenza, al posto di w'. Analogamente per Q ed R. Nel punto O si ha, in virtù delle (6), roi nili MORSO : RIE: . dw . : Se quindi si rappresentano con e e «w, i valori di w e di ds È O, risulta subito che bisogna porre nella (23): ERA Ne conseguono le espressioni asintotiche pose 2 log(e° — «°) —- {104 + wyX 4 log 8, (25) Q@e=— i conda log 8, IT Re = 0 i Il rotor del vettore (P,Q,R) ha per componenti BR _1 dy de GAY (0453 (26) gr | __dQ __dP "a de dy Le loro espressioni asintotiche « , v, w si hanno senz'altro, limitando nei secondi membri P,Q,R alle parti asintotiche (25). A prescindere da termini che rimangono finiti anche per «= 0, risulta (27) u®=0, E > d Ta ®© = 30 cloge+ = - Yy n. Le (26) definiscono in particolare (!) le componenti w,v,w della ve- locità provocata, in seno ad un liquido indefinito, da una linea vorticosa L, o meglio da un filetto vorticoso di sezione infinitesima avente L per diret- trice e 20 per momento: in questo caso @ (semicircolazione) è a ritenersi una pura costante, e coincide quindi con wo. Comunque, le espressioni asintotiche di tale velocità sono date dalle (27), come, per altra via, aveva già dimostrato il dott. Da Rios. __ (©) Cfr. per es. Appell, Zrasté de mécanique rationnelle (Paris, Gauthier-Villars, 1903), t. III, pag. 415. ST Chimica-fisica. — £Aicerche chimico-fisiche sui liquidi ani- mali. - II. Il contenuto in azoto proteico del siero del sanque dei diversi animali ('). Nota del Corrisp. F. BoTTAzZI. INTRODUZIONE. Le determinazioni del contenuto in sostanze proteiche dei liquidi, dei quali nella Nota precedente furono esposti i risultati riguardanti il « tempo di deflusso », hanno una duplice importanza. In primo luogo, possono gettare qualche luce su questi risultati stessi, nel senso che possono eventualmente mostrarci qualche relazione fra il « tempo di deflusso » e il contenuto in colloidi di quei liquidi. In secondo luogo, servono a istruirci sul progressivo arricchirsi dei liquidi animali in sostanze proteiche. Per quanto riguarda il metodo di separazione dei proteici del siero del sangue o del liquido cavitario, molto ho esitato prima di scegliere quello che mi è parso più conveniente. Io avevo bisogno di adottare un precipitante universale d'ogni specie di sostanze proteiche, data la grande varietà di quelle che io avrei trovate in liquidi tanto differenti quanto sono per es. il liquido cavitario di una Oloturia o di un'Aplisia, il siero del sangue dei Selacii e quello dei Mam- miferi. D'altro canto, era necessario che questo precipitante lasciasse sciolte sostanze azotate, quali l’urea che si trova in grande quantità nel siero dei Selacii, i sali dell'acido urico del siero degli Uccelli, ecc. Un precipitante dei corpi proteici, che soddisfa a tutte queste esigenze, è appunto il tannino. Ho usato una soluzione di tannino puro della Casa Merck, satura alla temperatura di 15° C, filtrata, limpidissima, conservata in boccia ermetica- mente chiusa al riparo dall’attecchimento delle muffe mediante cloroformio aggiunto sempre in eccesso alla soluzione. Io precipitavo le sostanze proteiche, aggiungendo dai 5 ai 15 cm? della soluzione di tannino, a seconda che il liquido era meno o più ricco di pro- teici. a un volume del liquido che variò dai 30 ai 5, raramente ai 3 cmì, secondo la minore o maggiore ricchezza del liquido in sostanze proteiche. Nei casi, in cui non potevo fare subito la determinazione dell'azoto del precipitato (non mai prima di 24 ore dal momento della precipitazione), (1) Il materiale fu raccolto nella Stazione Zoologica di Napoli. Le determinazioni quantitative di azoto furono eseguite nel Laboratorio di Fisiologia sperimentale della Regia Università. I A aggiungevo 1 o 2 cm? di cloroformio al miscuglio, conservato in recipienti chiusi con tappo smerigliato, per evitare l’attecchimento dei microrganismi. In pochi casi volli provare l’infiuenza che, sulla precipitazione col tan- nino, esercita l’acidificazione più o meno forte del miscuglio, fatta con acido cloridrico. Un giorno o più giorni dopo la precipitazione, filtravo il liquido, sag- giavo con soluzione di tannino il filtrato per assicurarmi che la precipita- zione era stata completa, indi lavavo con la stessa soluzione di tannino il precipitato sul filtro, e del filtro (piccolo, del diametro di 8 cm., privo di azoto) insieme con tutto il precipitato determinavo il contenuto in azoto col metodo di Kjeldahl. Essendo noto il volume di liquido originale usato, e avendo determi- nato l'azoto di tutto il precipitato proteico ottenuto, con un semplice calcolo avevo il contenuto in azoto proteico di 100 cm* del siero di sangue o del liquido cavitario. Naturalmente, furono fatte (tre volte, a vario intervallo) determinazioni di azoto in campioni dei filtri che si usavano, in campioni della soluzione di tannino (preparata sempre in grande quantità, da servire per molte preci- pitazioni), e nei liquidi di Kjeldahl. I filtri furono trovati privi di azoto. Delle piccole quantità di azoto trovate nelle determinazioni di controllo fu fatta una media, e ne fu tenuto conto nei singoli esperimenti. ESPERIMENTI. Ho fatto, in primo luogo, alcune determinazioni del contenuto in azoto di varii campioni di acqua di mare, presi dai tubi per i quali essa circola nelle stanze del Laboratorio di Fisiologia della Stazione zoologica. Ho trovato che, in media, il contenuto in azoto dell’acqua di mare da me esaminata è eguale a circa g 0,0007 °/o. Seguono le ricerche fatte sui liquidi degli animali marini e terrestri. 31 gennaio 1908. -- Siero di sangue di Sipunculus nudus centrifugato e filtrato, privo di Urnae. Liquido cm? 18 N mg 1,68 N°/ g 0,00933 21 febbraio 1908. — Siero di sangue di Sipurculus nudus. Liquido cm3 30 N mg 3,64 N° g 0,0111 8 gennaio 1908. — Liquido cavitario di Holothuria tubulosa. Filtrato cm? 40 (!) N mg 1,54 N° 0,00385 (1) Si aggiungono 10 cm3 di soluzione di tannino: scarsissimo precipitato. RenpICONTI, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 3 Li e 81 gennaio 1908. — Liquido cavitario di Zolothuriae Poli. Filtrato cm? 8 (1) N mg 0,56 N° 0,907 21 febbraio 1908. — Liquido cavitario di Molothuriae Poli. Filtrato cm? 30 (1) N mg 1,24 N°/ g 0,0042 17 gennaio 1908. — Liquido cavitario di Sphaerechinus granularis. Filtrato cm? 20 (1) N mg 0,70 N°/, g 0,0035 Lo stesso liqui- do non filtrato cm? 40 (3) N mg 1,96 N°/ g 0,0049 28 decembre 1907. — Liquido cavitario di Astropecten aurantiacus. Filtrato cm? 20 N mg 0,98 N°/ g 0,0045 28 decembre 1907. — Liquido cavitario di Astropecten aurantiacus. Filtrato cm? 30 N mg 1,26 N°/ 0,0042 4 gennaio 1908. — Liquido di Asterias glacialis (misto). Filtrato cm? 17 N mg 1,68 N°/o g 0,00988 3 gennaio 1908. — Liquido cavitario di Aplysia limacina. Filtrato cm? 25 N mg 1,68 N°/, g 0,00672 81 gennaio 1908. — Liquido cavitario di Aplysia depilans. Filtrato cm? 20 (9) N mg 6,16 No g 0,088 81 dicembre 1907. — Siero di sangue di Eledone moschata. Liquido cm? 4 ($) N mg 64,26 N° gg 1,6065 5 gennaio 1908. — Siero di sangue di Octopus vulgaris. Filtrato cm? 10 (5) N mg 171,34 N°/, g 1,7184 21 gennaio 1908. — Siero di sangue di Jaja squinado. Filtrato cm? 10 (8) N mg 64,26 N°/ £ (,6426 (1) Si aggiungono 10 cm3 di soluzione di tannino: scarsissimo precipitato. (2) Si aggiungono 10 em3 di soluzione di tannino: precipitato più abbondante. (3) Si aggiungono 10 cm3 di soluzione di tannino e un po’ di cloroformio: si forma un precipitato mediocre, che però non si deposita e non fiocchifica. (4) Siccome il liquide è molto denso, si aggiungono prima 10 cm3 di H20 e poi 10 cm3 di soluzione di tannino: abbondantissimo precipitato. (5) Per la stessa ragione, qui si aggiungono 20 cm3 di H20 prima di aggiungere il tannino: abbondantis- simo precipitato. (6) Si aggiunge anche acqua. ur (AO see 17 gennaio 1908. — Siero di sangue di //aja verrucosa. Filtrato cm? 6 (*) N mg 43,12 N°/0 g 0,7186 21 gennaio 1908. — Siero di sangue di Jaja squinado. Filtrato cm? 10 (*) N mg 64,54 N° g 0,6454 27 febbraio 1908. — Siero di sangue di Maja squinado. Filtrato cm? 5 (?) N mg 32,94 N°/ g 0,6468 Altro campione dello stesso siero (trattato nello stesso modo). Filtrato cm? 5 N mg 32,62 N°/ g 0,6254 10 marzo 1908. — Siero di sangue di Zomarus vulgaris (dopo la prima coagulazione). Filtrato cm? 5 (°) N mg 27,02 N°o/n g 0,9404 Altro campione dello stesso siero (dopo la seconda coagulazione). Liquido cm? 5 (*) N mg 25,76 Noj g 0,5150 21 gennaio 1908. — Siero di sangue di ScyIlium stellare. Filtrato cm? 10 (4) N mg 67,72 N°/ g 0,6762 27 febbraio 1908. — Siero di sangue di Scyllium stellare. Filtrato cm? 5 (5) N mg 21,28 Nol g 0,4256 27 febbraio 1908. — Siero di sangue di Torpedo marmorata e ocellata. Filtrato cm? 5 (9) N mg 24,92 N°/, g 0,4984 Altro campione dello stesso siero. Filtrato cm? 5 (*) N mg 25,62 N° gg 0,5124 14 marzo 1908. — Siero di sangue di Conger vulgaris (7). Filtrato cm? 5 N mg 30,38 N°/, g 0,6076 Altro campione dello stesso siero ("). Filtrato cm? 5 N mg 29,96 N°/ g 0,5992 (1) Si aggiunge anche acqua. (2) Si aggiunge anche pochissimo acido cloridrico diluito. (3) I due campioni sono trattati nell’identico modo. Il minor contenuto in azoto del secondo campione può esser dovuto al fatto che questo siero s'era intanto spogliato ancora più di fibrina. (4) Fu aggiunta acqua (10 cm) prima della soluzione di tannino: abbondante precipitato. (5) Oltre all'acqua, qui fu aggiunto anche un poco di acido cloridrico; la precipitazione fu imperfetta: a ciò forse è dovuto il minor contenuto in azoto. (6) In tutt'e due i campioni fu aggiunto acido cloridrico; la precipitazione dei proteici fu imperfetta; così si spiega il contenuto in azoto abnormemente basso. (7) Prima di precipitare con tannino fu aggiunta sola acqua, non acido cloridrico. RI pn 28 febbraio 1908. — Siero di sangue di Rane. Filtrato cm? 5 N mg 30,240 N° £ 0,6048 Altro campione dello stesso siero. Filtrato cm? 5 N mg 30,100 N°/ gg 0,602 26 gennaio 1908. — Siero di sangue di Polli. Filtrato cm? 8 N mg 49,70 N° g 0,62125 28 febbraio 1908. — Siero di sangue di Polli. Filtrato cm? 5 N mg 30,14 N°/ gg 0,6048 Altro campione dello stesso siero. Filtrato cm? 5 N mg 29,96 N° gg 0,5992 13 marzo 1908. — Siero di sangue di Anatra (un poco torbido). Filtrato cm? 3,9 N mg 19,88 NJ g 0,568 9 marzo 1908. — Siero di sangue di Anatra limpidissimo. Filtrato cm? 5 (1) N mg 16,94 N°, £ 0,3388 81 gennaio 1908. — Siero di sangue di Coniglio. Filtrato cm? 10 N mg 77,14 N° gg 0,7714 19 marzo 1908. — Siero di sangue di Coniglio un poco torbido. Filtrato cm 5 N mg 43,12 N°/ g 0,8624 Altro campione dello stesso siero. Filtrato cm? 5 N mg 43,54 N°/, 0,8708 25 marzo 1908. — Siero di sangue di Agnello, conservato per 2 giorni in ghiac- ciaia, poi fatto gelare in miscuglio frigorifero. Avvenuto il disgelo, furono separati gli strati superiore (@) e inferiore (8); quindi fu rimescolato il siero rimanente (y). Furono fatte determinazioni di azoto dei tre liquidi: a) Siero cm? 5, di aspetto acquoso, pallido. ) N mg 364 N°/ g 0,728 (8) Siero cm? 3,5 molto viscoso, fortemente pigmentato. N mg 69,1 (y) Siero cm? 5, d'aspetto normale 13 marzo 1908. — Siero di sangue di Bue. Filtrato cm? 5 N N %o INTO) OO N mg 29,8 N°/ g 0,993 mg 42,56 g 0,8512 (1) È difficile spiegare come mai questo siero contenga così poco azoto proteico. Esso fu trattato come il precedente, senza aggiunta di acido cloridrico. Probabilmente sarà avvenuta perdita o di proteine durante la fil- trazione o di NH3 durante la determinazione dell’azoto. MON 4 aprile 1908. — Siero di sangue di Bufalo. Filtrato cm? 5 N mg 68.18 N°/, g 1,3636 5 gennaio 1908. — Siero di sangue di Cane. Filtrato cm* 10 N mg 98,56 N° g 0,9856 23 gennaio 1908. — Siero di sangue di Cane ('). Filtrato cm? 10 N mg 91,70 N°/ g 0,9170 23 gennaio 1908. — Altro siero (normale) di sangue di Cane. Filtrato cm? 10 N mg 93,58 N°/o g 0,9358 28 febbraio 1908. — Siero di sangue di Cane (a). Filtrato cm? 5 (2) N mg 46,62 No/o g 0,9324 Lo stesso siero (d). Filtrato cm 5 (2) N mg 37,52 N° g 0,7504 15 marzo 1908. — Siero di sangue di Gatto molto pigmentato e un poco torbido. Filtrato cm? 5 N mg 58,38 NUO Gp 28 marzo 1908. — Siero di sangue di Gatto (normale). Filtrato cm? 5 N mg 40,32 N Altro campione dello stesso siero. Filtrato cm? 5 N mg 40,74 25 marzo 1908. — Siero di sangue di Gatto (*). Filtrato cm? 3 (p) N mg 24,26 N°/ g 0,8080 Altro campione dello stesso siero (°). Filtrato em? 3 (0) N mg 23,94 i INIVO, @ OVES Altro campione dello stesso siero (*). Filtrato cm? 3 (7) N mg 50,96 Nof g 1,698 (1) Questo siero era stato conservato per alcuni giorni in boccia chiusa, con uno strato di cloroformio al fondo. Il cloroformio aveva precipitato una piccola parte delle proteine. Per ciò il siero filtrato è meno ricco in azoto proteico. (2) I due campioni di siero furono trattati con poco acido cloridrico puro prima di aggiungervi la soluzione di tannino. La precipitazione delle proteine anche dopo parecchi giorni era imperfetta. Allora fu aggiunto al cam- pione (a) altro acido cloridrico puro a gocce. Questa aggiunta determinò la fiocchificazione e deposizione del pre- cipitato colloidale sospeso. Il campione (0) fu lasciato com'era: ma dopo la filtrazione, il filtrato era sempre tor- bido (precipitato colloidale sospeso). La differenza nel contenuto in N proteico dipende appunto dal fatto che in=(a) la precipitazione delle proteine fu completata, in (8) fu lasciata incompiuta. (8) Il campione (a) è preso dallo strato superiore acquoso del siero congelato e poi lasciato a disgelare len- tamente; il campione (Y) è preso dallo strato inferiore; il campione (8) dal siero dopo averne rimescolato ijdi- versi strati. Lago e 25 marzo 1908. — Siero di sangue di Maiale, limpidissimo, conservato in ghiacciaia per due giorni, quindi fatto gelare in miscuglio frigorifero. Avvenuto il disgelo, furono separati gli strati superiore (@) e inferiore (8), e il rimanente siero fu rimescolato (7). Furono fatte determinazioni di azoto nei tre liquidi: (@) Siero cm? 3, d'aspetto acquoso, pallidissimo. N mg 298 N°/ g 0,998 (8) Andò perduto, perchè si rovesciò il recipiente che lo conteneva. (y) Siero cm? 3, d’aspetto normale. N mg 34,58 N°/ g 1,152 6 aprile 1908. — Siero di sangue di Maiale, normale. Siero filtrato cm? 5 N mg 61,6 N°/ & 1,230 Ordiniamo i valori ottenuti nella Tabella I secondo la classificazione zoologica degli animali di cui fu esaminato il siero di sangue o liquido ca- vitario, e nella Tabella II gli stessi valori in ordine crescente. Ho fatto la media di tutti i valori ottenuti negl’ Invertebrati inferiori fino all’ Homarus escluso; questi sono i valori più bassi, e differiscono di poco fra loro. Ho fatto anche la media dei valori ottenuti in più individui della stessa specie, e in animali molto affini fra loro (per es. Zledone mo- schata è Octopus vulgaris). Ho escluso dalle Tabelle i valori troppo aber- ranti, qualunque sia stata la causa dell’abnormità del resultato. Non ho po- tuto nemmeno tener conto delle due sole determinazioni di azoto proteico fatte sul siero di Torpedo ocellata e marmorata, perchè a quel siero fu aggiunto acido cloridrico, e quindi la precipitazione dei proteici non fu completa, come dimostra la cifra troppo bassa dell'azoto trovato. O TABELLA I N proteico ANIMALI contenuto in 100 cms di liquido in g Sipunculus nudus (siero del liquido cavitario privo di Urnae) 0,00938 Sipunculus nudus (siero contenente VEROA)N ST iis olo 0,0111 RIDICOLE UTI O MRO A SA OA PONI ra ei "=. SOMRSINO 0 0,007 pe OTO IAN MEI A OI ia n SR N 0,0042 $ FRTSO GINA SE RS CS Bo; 0,00385 di Sphaerechinus granularis . . /. 2/0 0,0035 I demi (siero moniffiltrato)f AN: e E 0,0049 * Astropecten AUrantiacus. > > 0/0/0200 0,0045 C Astropecten aurantiacus . 1... 000... 0,0042 da DA stenta SW V0 C+ ISMEA IO EIN 0,00988 Si pisana NOMINA A o 0,00672 Mpiysialdenansi RNA 0,038 VC AONERMOSCHAt OMAR OSSO SANO 0. TO. 1,6065 OctopuskouloGrt SARE ST AIA 1,7134 Maagsquina dor N Ur. 0,6426 Mara\0errucos A N A e. 0,7186 Mojo uindo s 10 elrollol ol ee ao tt NGIMIOA NE 0,6454 MORSO GIACOMO N. . (CM. 0,6468 Moci(IGRStESSORiSIerO) (MAN 0,6524 Homarus vulgaris (dopo la prima coagulazione). 0,5404 Idem (dopo la seconda coagulazione) . . . . /...0... 0,5150 Ccuiiumiste lane MERE O ON 0,6762 CUT DMTORIS BI et o o oi ot 6 EMA! SNA 0,6076 den 1ONSTeSSOMSIerO) ME E N 0,5992 VOI OMESCU VENE CNR NN RAI ESAMI EPA O 0. (BO: (00 0,6048 VACINA(OMStESSORSICrO) MO O - RO 0,602 CONUSBIOMESTICUSRIO TA) OOO SOSIO SNO 0 RM 0 0,62125 (CAUSA OMNES US RP AT SR NS SIMO 0,6048 Volemi(\0}stessogsiero) IMA N N 0,5992 Anastdonestico RR RA Mn. 0,568 VC IUSNCUNICULU SANO SATA TA IO. E. 0,7714 VI E PUSMCUNA CULI SENESI O PO. 0,8624 aemA(ORStESSONSICrO) De n... MR i 0,8708 BOSCO UIU SMI RAR RONN O RM 0,8512 VU GA LASO DUE TUUS ANCONA INS TN INS o sO 1,3636 CONSCI VOTES ION ATI AS O E 0,9856 CONISDTATMIONI SAONA OE SO TOSI oe 0 (BBSIO. LO 0,9358 CONISMTOMAONOSO A SERENA AO ON NO Io 0,9324 VEE TISMO O MESIICORME MERO ONTANI fn he. MMI 0 0,8064 WII ETNA CSR NE SESANE EA PINA RARA FAI TRA e o MB E 0,8148 SSUSMAOMESbI CUS I O, AMM O 1,230 | | — 24 | TABELLA II. | s | ANIMALI N proteico /,in g | Î | | | Sipunculus nudus . <> die | | aa Bali 6 e è 00 009 0 Il | Holothuria tubulosa | Sphaerechinus granularis Î Astropecten aurantiacus. | >. > 0.0. ++. > MU QLoea | i Asterias glacialis | | Aplysia limacina i Aplysia depilans I Homarus vulgaris . 0,5277 i Anas domestica . 0,5680 Il Conger vulgaris 0,6034 il | Manaresculenta es» > SMR O 0,6034 | Gallus domesticus 0,6084 | i Maja squinado . . . . . . > Maja verrucosa . Mena SHOE | Scylliumistellane ttt MESI: 0,6762 Felis domestica . 0,8106 | Lepus cuniculus 0,8348 Ì BOS CAUTUSO ORA TAO: - MERE RO TORE E SI. 0,8512 Ì | Cunis familiaris 0,9512 il | Sus domesticus . 1,230 i pubalustbufelUst O 0 > NIE 1,3636 il | \Eledonetmoseh'at N MENR OO. VETTA i Octopus vulgaris su RR. Miano Leo CONSIDERAZIONI GENERALI E CONCLUSIONI. | Dalle sopra esposte ricerche risulta chiaramente che: Ì 1) Per quanto riguarda il contenuto in azoto proteico del siero del | sangue e rispettivamente del liquido cavitario degli animali marini e ter- restri da me studiati, questi si possono dividere in quattro gruppi: a) Quelli che contengono pochissimo azoto proteico, meno di g 0,5 °/o, e sono i Sipunculi, gli Echinodermi in generale, e fra i Molluschi le Aplisie; il liquido cavitario di questi animali, e verosimilmente di altri invertebrati marini inferiori, è poverissimo di sostanze proteiche. ) Quelli il cui liquido cavitario o siero del sangue contiene da | g 0,52 a g 0,67°/ di azoto proteico, vale a dire (calcolando a 15 °/, il Î contenuto in azoto delle loro sostanze proteiche) da g 3,35 a g 4,18°/ di | sostanze proteiche. Questo gruppo comprende animali appartenenti a specie -———_Pm—/.===-== scali -sticotinet el ELEISO o IS diversissime, invertebrati e vertebrati: i Crostacei decapodi, gli Uccelli, le Rane, le Maie e i Selacii. c) Quelli il cui siero di sangue contiene da 0,8 a0,9 °/, di azoto pro- teico, vale a dire da g 5,06 a g 5,93 °/, di sostanze proteiche. Questo gruppo è composto di Mammiferi, erbivori e carnivori domestici: gatti, cani, conigli, bovi. d) Finalmente, quelli il cui siero di sangue ho trovato essere il più ricco di azoto proteico, e sono i Cefalopodi, il cui siero contiene in media g 1,66°/, di azoto proteico, vale a dire g 10,37 °/, di sostanze proteiche. Ricchissimo di azoto proteico trovai anche il siero del sangue di Bu- falo, che contiene g 1,3636°/ di N, vale a dire g 8,5 °/, di sostanze pro- teiche (anche quello di maiale, che contiene g 1,230 °/ di N proteico). 2) Se si confrontano i risultati di queste ricerche con quelli della Nota precedente, si osserva che, in generale, il contenuto in proteine dei liquidi esaminati va di pari passo con la viscosità di essi. I liquidi degli animali del primo gruppo contengono la minore quantità di azoto proteico, e sono anche i meno viscosi; il sangue dei Cefalopodi è il più ricco di pro- teine e presenta il massimo tempo di deflusso, ecc. Si può dunque affermare che la maggiore o minore viscosità del plasma sanguigno è dovuta al mag- giore o minor contenuto di esso in proteine. 8) Ciò è confermato anche dal fatto che, negli esperimenti in cui si aumentò artificialmente la concentrazione proteica del siero, i campioni di siero meno viscosi sono quelli che contengono meno azoto proteico, e quelli più viscosi sono invece i più ricchi in proteine. 4) Per quanto riguarda il metodo da me usato: precipitazione delle sostanze proteiche con tannino e determinazione dell'azoto nel precipitato col metodo di Kjeldahl, la bontà di esso risulta dal confronto dei valori nume- rici da me ottenuti con quelli ottenuti da altri autori. To trovo nel siero di sangue dei Mammiferi una quantità di proteine variabile dal 5,06 °/, al 8,5 °/. Ebbene, Lewinsky (') trovò: nel cane 6,03 °/o, nella pecora 7,29 °/,, nell'uomo 7,26 °/, nel cavallo e nel maiale circa 8 °/o di sostanze proteiche. Se l'Autore ottenne valori superiori ai miei, ciò è do- vuto evidentemente al fatto che egli dosò l'azoto totale del plasma, e da questo calcolò il contenuto in proteine: nel plasma, non solo esiste in più il fibrinogeno, ma si trovano anche sostanze azotate non proteiche, sebbene in piccolissima quantità. Similmente, Alderhalden (*) trovò nei Mammiferi quantità di proteine variabili dal 5,35 °/, nel coniglio al 8,42 °/, nel cavallo. Nel siero di sangue di polli, Hammarsten (*) trovò 3,95 °/, di proteine, e io ho trovato 3,80 °/. (1) Pflùger's Arch., Bd. C, 1903, pag. 611. (?) E. Abderhalden, Lehrbuch d. physiol. Chemie. Rerlin und Wien 1906, pag. 592. (*) O. Hammarsten, Lehrb. d. physiol. Chemie. VI Aufl.,, Wiesbaden 1907, pag. 188. RenpiconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 4 = x MEO GI Nelle Rane, Halliburton (*) trovò 2,54°/, di sostanze proteiche, mentre io ne ho trovate 3,77 °/. Nelle Tabelle XXII e XXV del vol. II della mia Chimica fisiologica, pp. 174 e 176, sono riferiti molti dati numerici riguardanti il contenuto in sieroproteine di varii animali, e specialmente quelli ottenuti dal di Frassi- neto nel laboratorio di Fano. Il di Frassineto però separava le globuline mediante precipitazione col solfato di magnesio, le albumine mediante cot- tura del filtrato, e pesava i precipitati disseccati. Questo metodo non è il più sicuro per determinare il contenuto totale in sostanze proteiche del siero, e forse a ciò è dovuto il fatto che i valori ottenuti da quell’Autore sono sempre più bassi di quelli degli altri autori. o) Le mie ricerche, finalmente, confermano i risultati di Lewinsky, che cioè fra animali della stessa specie, ma anche fra i diversi individui, esistono differenze nel contenuto del siero in sostanze proteiche, differenze che non sono trascurabili, quando si vede che per es. l’azoto proteico del siero di sangue di gatto è solamente 0,8106 °/, e quello del siero di cane è 0,9512°/, e quello del siero di bufalo ammonta a 1,3636°/,. Chimica. — Sopra alcuni omologhi della naftalina (£). Nota di G. BARGELLINI e G. MELACINI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Mentre sono ben conosciuti molti omologhi del benzene, soltanto pochi omologhi della naftalina sono stati preparati sinteticamente. Lo studio di questi potrebbe essere importante perchè per decomposizione di alcune so- stanze naturali (specialmente nella distillazione con polvere di zinco o con P.0;) si formano idrocarburi che sono stati caratterizzati come omologhi della naftalina. È vero che gli idrocarburi ottenuti in tal modo con reazioni troppo energiche, non ci possono mostrare in modo sicuro la costituzione delle so- stanze dalle quali si ottengono, ma pure ci possono talvolta fornire qualche utile indizio. Pensando quindi che fosse interessante imparare a conoscere meglio gli omologhi della naftalina, ci siamo occupati di prepararne alcuni che finora non erano conosciuti. Abbiamo per ora ottenute le due propil-naftaline nor- mali e le due butil-naftaline normali, delle quali in questa Nota descriviamo brevemente la preparazione e le proprietà. Facendo agire il cloruro di propionile o il cloruro di butirrile normale sulla naftalina sciolta nel CS, in presenza di cloruro di alluminio, secondo 1) Cit. da Hammarsten. (9) () Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico della R. Università di Roma. BO le indicazioni di Rousset (!), si ottengono contemporaneamente i due chetoni isomeri « e 8 che si possono separare facilmente per mezzo dell'acido pi- crico, come indicò il medesimo Rousset che per il primo li descrisse. Ottenuti così i chetoni puri, li riducemmo con iodio, fosforo rosso e acqua, nelle stesse condizioni in cui Claus (2) aveva trasformato in idrocar- buri alcuni chetoni derivati del benzene. Per riduzione dell’a-, e del f-etil-naftil-chetone ottenemmo l’a-, e la B-propil-naftalina normale: C.oH7.CO.CH,. CH; — CH; .CH,.CH,.CH;. Per riduzione dei due propil-naftil-chetoni, ottenemmo le due butil- naftaline normali: CH; .CO.CHs,. CH,. CH: — CH; .CH,.CH,.CH;. CH;. Abbiamo ancora cominciato a studiare la riduzione dei due isobutil- naftil-chetoni (preparati dal cloruro dell'acido isovalerianico) per avere le iso-amil-naftaline corrispondenti, allo scopo di confrontarle coll’idrocarburo, che il prof. Paternò (3), ottenne dal lapacone. Crediamo migliore, però, di render noti subito i risultati che abbiamo per ora ottenuti, perchè in una recente pubblicazione di Darzens e Rost (‘), viene descritta la riduzione con Ni ridotto e H a 180°, dei due etil-naftil-chetoni e dei due isopropil-naftil- chetoni, come mezzo per preparare le due etil-naftaline e lo due isobutil- naftaline. La preparazione dei chetoni fu eseguita seguendo esattamente le indi- cazioni di Rousset, facendo cioè agire il cloruro di propionile, o il cloruro di butirrile normale sulla naftalina sciolta in CSs in presenza di cloruro di al- luminio. Si ottiene come prodotto della reazione una mescolanza dei due iso- meri « e 8, che si separano, aggiungendo acido picrico in soluzione alcoo- lica, alla soluzione alcoolica della mescolanza dei chetoni. Nel caso degli etil-naftil-chetoni, si deposita cristallizzato il picrato dell’a-etil-naftil-chetone meno solubile. Nel caso dei propil-naftil-chetoni si deposita cristallizzato il picrato meno solubile che è quello del B-propil-naftil-chetone. Decomposti i picrati con carbonato sodico, si ottengono i quattro che- toni che, purificati per distillazione frazionata, mostrano le proprietà descritte da Rousset: a-etil-naftil-chetone. Bolle a 305°-307°. Il suo picrato fonde a 77°-78°. B-etil-naftil-chetone. Bolle a 312°-314°. (1) BI. (8) 15, 58. (2) J. fur pr. Ch. (2) 45, 380; 46, 490. (8) Atti R. A. Lincei, vol. XII (8-1-1882). (4) Comp. Rend. 146, 933. IATA a-n-propil-naftil-chetone. Bolle a 316°-318°. f-n-propil-naftil-chetone. Fonde a 50°51°; bolle a 322°-324°. Il suo picrato fonde a 68°-69°. Di questo f-propil-naftil-chetone potemmo isolare alcuni cristalli appiat- titi, lunghi qualche centimetro, che furono studiati nel- l’Istituto Mineralogico della R. Università di Roma, dal prof. A. Rosati, il quale ci ha gentilmente comunicati i seguenti risultati : «A. Rosati, Studio cristallografico del composto: B-pro- pil-naftilchetone. Sistema triclino : a:b:c=0,6774:1:0,6029 CARO B = 140,34 ya== 904276 Combinazione delle forme: 31004, }010t, 3001}, }170t, }101} come si vede dal seguente disegno : rr I | I I I I I | Il J > B-propil-naftil-chetone. Le facce, generalmente molto regolari, si prestano a buone misure gonio- metriche. Spigoli Angoli osservati Angoli misurati To ? calcolati N.° | Limiti Medie r (001). (010) | 5 8210 — 8244 89025 * (100). (010) 4 83,51 — 83,56 83,53 si (100). (170) | 3 24,21 — 24,41 24,28 * (001). (110) 3 47,3 — 47,16 47,10 * (001). (101) | 4 60,39 — 60,53 60,45 A (010). (101) | 5 86,27 — 86,44 86,36 86,42 (110) . (101) 1 = 78,40 78,23 (110) . (010) 6) 71,40 — 71,58 71,47 71,39 I cristalli ottenuti per lenta deposizione dall’alcool sono incolori, tra- sparenti, tabulari per prevalente sviluppo della 3010. Sulla faccia (010), a luce bianca, una direzione di estinzione fa circa 20° con l'asse 2 nell'angolo # ottuso. Sulla stessa faccia, a luce convergente, sì nota una figura d’interferenza biassica, alquanto confusa ». La riduzione dei chetoni a idrocarburi fu eseguita nelle condizioni se- guenti : Una parte di chetone si mescola con un egual peso di fosforo rosso e con un terzo del suo peso di acqua: poi riscaldando leggermente a b. m. COMI si aggiungono (per ogni peso molecolare di chetone) 4 o 5 pesi molecolari di iodio. Dopo aver terminato di mettere l’iodio, si comincia con precauzione il riscaldamento a fiamma diretta e a ricadere aggiungendo di tanto in tanto qualche goccia di acqua. Dopo 7-8 giorni si aggiunge acqua al prodotto della reazione e si fa distillare in corrente di vapor d'acqua: il distillato si estrae con etere, si fa svaporare l'etere e il residuo, dopo essiccamento con Ca Cl, fuso, viene distillato sul sodio. Si ottengono così dei liquidi scolorati che odorano di naftalina e di petrolio. La rendita non è grande: raramente si ha più del 20 °/. a-propil-naftalina normale. La frazione bollente a 274°-275° dette all'analisi i seguenti risultati : Gr. 0,1936 di sostanza diedero gr. 0,6495 di CO, e gr. 0,1412 di H;0. Donde per cento: Trovato Calcolato per Ci3Hi4 C 91,5 91,8 H 8,1 8,2 Il suo picrato fonde a 141°-142°. B-propil-naftalina normale. La frazione bollente a 277°-279° dette all'analisi i seguenti risultati : Gr. 0,1814 di sostanza diedero gr. 0,6105 di CO, e gr. 0,1362 di H,0. Donde per cento: Trovato Calcolato per CisHis C 91,78 91,8 H 8,34 8,2 Il su picrato fonde a 90°-92°. Si conosce una -propil-naftalina preparata da Roux (!) facendo agire il bromuro di propile normale sulla naftalina sciolta in CS» in presenza di cloruro d'alluminio. Tale propil-naftalina bolle a 265° (755 mm.). Il suo pierato fonde a 89°-90°. Molto probabilmente però la nostra f-propil-naftalina non è identica a quella di Roux, sebbene i punti di fusione dei due picrati siano assai vicini. La propil-naftalina di Roux, come fece già notare lo stesso autore, deve essere la f-isopropil-naftalina formatasi a causa dell’azione isomerizzante del cloruro d'alluminio. È noto infatti come facendo agire per esempio sul ben- zene in presenza di cloruro d'alluminio, il cloruro di propile, oppure il clo- ruro di isopropile, si ottiene il medesimo isopropil-benzene (1). (3) Ann. de Ch. et de Phys. (6) 12, 315. (2) Berichte, 11, 1251. =" Tr _‘>——re o _—— <= SS a-butil-naftalina normale. La frazione bollente a 281°-283° dette al- l'analisi i seguenti risultati: Gr. 0,1902 di sostanza diedero gr. 0,6336-di CO. e gr. 0,1536 di H.0. Donde per cento: Trovato Calcolato per C14His C 90,92 91,9 H 8,97 8,7 Il suo picrato fonde a 104°-106°. B-butil-naftalina normale. La frazione bollente a 283°-285° dette al- l'analisi i seguenti risultati: Gr. 0,2822 di sostanza diedero gr. 0,9428 di CO, e gr. 0,2168 di H;0. Donde per cento: Trovato Calcolato per C4His C 91,11 91,3 H 8,59 8,7 Il suo picrato fonde a 71°-74°. Una f-butil-naftalina fu preparata prima da Wegscheider (') e poi da Baur (?) per azione del cloruro o del bromuro di isobutile sulla naftalina sciolta in CS,, in presenza di cloruro di alluminio. Bolle a 280°. Il suo picrato fonde a 96°. Questa butil-naftalina che contiene probabilmente il gruppo butilico ter- ziario, è certamente differente della nostra f#-butil-naftalina normale. Chimica. — Su alcuni ososali complessi del iunsteno. Nota di ArrIGo MazzuccHELLI e GIrusEPPE INGHILLERI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In una Nota precedente di uno di noi fu affermata in termini generali la possibilità di ‘ottenere sali complessi del tunsteno ove a far parte del- l'’anione entri il perossido WO, (*). La presente Nota è destinata a render conto dei risultati cui siamo giunti finora nella preparazione di questo tipo di composti. Anche qui, come nel caso del molibdeno (‘), si sono presi come oggetti di esperimento gli ossalati complessi: sali che, mentre sono dotati di note- vole stabilità, hanno anche una composizione stechiometricamente semplice, (!) Monatshefte, 5, 237. (2) Berichte, 27, 1623. (3) Questi Rendiconti, XVI, 1907, 1° sem., 966. (4) Loc. cit. ION — in grazia della quale riesce più semplice e convincente la interpretazione dei risultati analitici. In via generale può osservarsi. che il tunsteno non ha quella tendenza alla formazione di ozosali complessi che è così spiccata nel suo omologo superiore, l’uranio; esso è inferiore sotto questo riguardo anche al molibdeno, ed i suoi ozosali, quasi tutti solubilissimi, difficilmente possono ottenersi puri ed esenti dai sali normali che han servito a prepararli. Per tal modo, non abbiamo finora potuto isolare in alcun modo un oz0- volframossalato di litio, e solo allo stato impuro il sale potassico e quello di bario; mentre si sono ottenuti in stato di purezza soddisfacente i sali di sodio, ammonio, calcio, che passiamo senz'altro a descrivere. Osovolframossalato sodico. — Il volframossalato sodico, come si sa dagli studî del Rosenheim ('), è solubilissimo nell'acqua, e perciò, senza se- pararlo allo stato solido, ci contentammo prepararne una soluzione concen- trata, trattando il volframato sodico colla quantità equivalente di acido 0s- salico; questo liquido, addizionato di H,0, Merck in leggero eccesso sulla quantità che si calcola pel rapporto WO; , C.0, Na: :H,0,, depose dopo un certo tempo dei cristallini bianchi, che raccolti e compressi fra carta si di- mostrarono essere il persale cercato. Le acque madri, quasi sciroppose, ad- dizionate di altra H,0, diedero per aggiunta graduale di alcool un precipi- tato cristallino, la cui composizione all’analisi risultò identica a quella del primo prodotto. Per analizzare questo e gli altri ozosali qui riportati, si determinò la quantità complessiva di anidride tunstica e ossido alcalino mediante cauto riscaldamento con successiva calcinazione, quindi trattando con acido nitrico il residuo (2), l'anidride tunstica, da cui l’ossido alcalino per differenza. In un’altra porzione si determinò l'ossigeno attivo per via iodometrica, e l'acido ossalico titolando al permanganato il precipitato avuto con cloruro calcico e ammoniaca dal liquido precedente. Si ebbero così i risultati qui riportati. 1° preparato 2° preparato Calcolato WO:; 49,4 50,25 49,15 (0) 3,60 3,86 3,99 030, 22,50 22,96 18,64 Na. 0 13,4 13,1 12,15 I valori calcolati si riferiscono alla formula: Nas (075 0, ) WO, + 5 H,0 secondo la quale il perossido WO, avrebbe preso il posto occupato dalla anidride tunstica nel volframossalato iniziale. I valori troppo elevati per il (0) Z. anorg. Ch., 4, 1893, 360. (®) Cfr. Treadwell, Quant. Anal., IV Aufl., 214. SEO. residuo ossalico e un po’ anche pel sodio sono probabilmente dovuti all’esser cristallizzata insieme una certa quantità di ossalato acido di sodio, come ha osservato, in casi analoghi, il Rosenheim. Ozovolframossalato ammonico. — Dopo varî tentativi si trovò conveniente sciogliere in una soluzione di tunstato ammonico un certo eccesso di ossalato ammonico, acidulando fortemente con acido acetico, e dopo aggiunto un ec- cesso di H.0, evaporare fra i 70° e gli 80°. Per raffreddamento della so- luzione concentrata si depone allora un misto dei lunghi aghi dell’ossalato ammonico e di sferocristalli bianchi, i quali, separati dall'ossalato ammo- nico per rapidi lavaggi con acqua calda, ove sono più lentamente solubili di questo ultimo, poi raccolti e compressi fra carta han fornito alla analisi i risultati seguenti : Trovato Calcolato WO; 60,7 59,5 (0) 4,53 4,10 N 1,94 7,20 C.0, 23,52 22,58 I valori calcolati si riferiscono alla formula: (NH); C,0,, WO, + H,0 analoga a quella del sale sodico. Ozovolframossalato di calcio. — Questo sale è stato ottenuto per azione dell'acqua ossigenata sul volframossalato calcico. Quest'ultimo composto, che finora non era stato preparato, fu ottenuto da noi precipitando una soluzione satura del volframossalato potassico, che è, com'è noto, poco solubile, con cloruro calcico. Si ebbe così un precipitato bianco cristallino fioccoso, che fu separato dalle sue acque madri e compresso fra carta. Questo sale fu macinato in mortaio con poca acqua in presenza di un piccolo eccesso di H.0, ottenendosi dissoluzione completa in liquido gial- lastro, da cui per aggiunta di alcool precipitò, piuttosto lentamente, l’ozo- sale. Questo, dopo raccolto e compresso fra carta, fornì all’analisi i risultati seguenti: Trovato Calcolato WO; 60,0 58,9 (0) 4,07 4,06 C,0, 21,9 22,9 Cao 14,5 14,2 I valori calcolati si riferiscono alla formula: Ca C0,, WO, + H; 0. ARR NEAR Per ciò che concerne i sali pei quali abbiamo ottenuto risultati meno soddisfacenti, ci limitiamo a dire che, per quanto riguarda l’ozovolframossalato di potassio, sì è osservato che il comune volframossalato K3C.0,, WO034-H20, che è assai poco solubile nell’acqua, si scioglie invece largamente in presenza di H;0,, processo che può venire accelerato con mite riscaldamento. Da questo liquido, per aggiunta di alcool, si è ottenuto precipitato un sale, dove, a se- conda dei risultati analitici, l'anidride tunstica, il residuo ossalico e l’ossì- geno attivo sono contenuti nei rapporti W0:;:C,0,:0 = 1:1:1, ma che con- tiene un difetto di potassio, e sembra quindi costituire un sale acido. Relativamente all’ozovolframossalato di bario, un indizio indubbio della formazione di un ozosale si è osservato ‘nel fatto che il volframossalato di bario, di per sè quasi insolubile, si scioglie facilmente nell'acqua contenente H,0,. Peraltro i risultati analitici del sale che precipita da questa soluzione per azione dell'alcool non conducono ad una formula semplice: verosimil- mente si tratta di un miscuglio. Questi studî saranno continuati ed estesi ad altri derivati complessi del triossido di tunsteno. Chimica. — osfati acidi (). Nota di N. PARRAVANO € A. Misti, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Alcuni fosfati hanno la proprietà di combinarsi con l'acido fosforico per dar luogo alla formazione di sali ultra acidi, di composti cioè i quali con- tengono una quantità di acido fosforico maggiore di quella che comunemente si trova nei fosfati. Per primo Rammelshberg (*) ha descritto un sale di litio di questa specie LiH,P0,.H;P0,+ aq. In seguito Filhol e Senderens (°) hanno preparato un fosfato Na3P0,.H;P0,.3H;0, e Staudenmayer (4) ha descritto i sali di po- tassio e di sodio corrispondenti al sale di litio ottenuto da Rammelsherg. Come l'acido fosforico anche altri acidi organici e inorganici hanno la proprietà di unirsi ai loro sali: così gli acidi formico, acetico, ossalico, fluo- ridrico, iodico, nitrico, solforico, selenioso, possono tutti dare composti che per una molecola di sale ne contengono a seconda dei casi una, due, ed anche tre di acido. Questa classe di composti fino ad ora era stata poco presa in conside- razione, e solo negli ultimi tempi si è rivolta l'attenzione su di essi, in (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Generale della R. Università di Roma. (®) Pogg. Ann. 16, 694 (1882). (3) C. R. 93, 388 (1882). (4) Z. f. An. Ch. 5, 383 (1894). RenpicontI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 5 =. === SESTIERE Tn ig = 94 maniera che oggi possediamo un discreto numero di lavori che ne hanno chiarito molto la natura (!). È stata fino ad ora opinione diffusa tra i più quella che considerava questi sali come combinazioni di una grande instabilità, capaci di esistere allo stato solido e non in soluzione. Oggi invece non si riconosce alcuna differenza sostanziale fra questi e i veri sali complessi stabili in soluzione, come non se ne riconosce fra i sali doppî e i sali complessi. I sali acidi, sia quelli che risultano dalla satura- zione incompleta degli acidi polibasici, sia quelli che si formano per unione dei sali neutri od acidi con altre molecole di acido, formano una classe unica di composti differenziati solo dal diverso grado di complessità che pre- sentano in soluzione. Così accanto a quelli che si scompongono appena in contatto dell’acqua se ne trovano numerosi altri che hanno una notevole sta- bilità in presenza di essa: NaHSO, con l’acqua si scompone, e nella soluzione compaiono H-ioni dovuti alla presenza dell’ acido solforico, mentre NasHPO, sì scinde in 2Na: e HPO,"; KNO;.HNO; si altera appena a contatto con piccole quantità di acqua, mentre KNO;.2HNO; si scioglie in poca acqua senza scomporsi, e solo per ulteriore aggiunta di questa si decompone. Oggi sì sa pure che quando un sale si può unire all’acido rispettivo in diverse proporzioni per dare origine a diversi sali ultra acidi, i rapporti di formazione e di scomposizione sono per questi gli stessi che per gli idrati e i sali doppî, perchè, astraendo dalla temperatura, dipende dalle quantità dei componenti se dalla soluzione si separa il sale neutro o un sale più o meno acido. Noi siamo perciò attualmente abbastanza informati sulla natura di questi composti, e certo appare degno di interesse il venire completando le nostre conoscenze sopra di essi. Per queste ragioni ci è sembrato opportuno studiare alcuni sali ultra acidi ai quali dà origine l'acido fosforico. A questo scopo abbiamo preparato i tre fosfati NaH,P0,.H;PO,, KH,P0,.H;3PO,,(NH.)H,P0,.H3PO,, i due primi già ottenuti da Stauden- mayer, il terzo ottenuto e analizzato da noi: e di questi tre sali abbiamo fatto uno studio completo, determinandone la solubilità in acido fosforico e il comportamento rispetto all'acqua. Sale di sodio. Lo abbiamo preparato mescolando quantità equimolecolari di fosfato monosodico e acido fosforico, concentrando fino a consistenza sciropposa, e lasciando in riposo. A poco a poco cristallizza il sale di sodio. Esso però in genere si separa con una certa difficoltà, essendo difficile il. provocare una (*) Per la letteratura v. in Koppel e Blumenthal, Gleschgewichte im System K.0 — CrO; — H:0. Z. f. An. Ch. 53, 228 (1907). MRO buona cristallizzazione. Quando il liquido è troppo concentrato col raffredda- mento si rapprende in un vetro trasparente, e allora occorre addizionarlo di un po’ di acqua e tornarlo a fondere per farlo cristallizzare. Il sale si presenta in forma di aghi allungati, oppure in prismetti pic- coli, splendenti, riuniti a rosetta. È molto deliquescente. All’analisi ha dato questi risultati: P:0; 65,37 Na;0 14,41 i quali portano alla formola NaH,PO,.H;PO, già stabilita da Staudenmayer e per la quale si calcola P,0; = 65,12, e Na,0 = 14,23. Quando viene riscaldato, si conserva inalterato fino a 126°,5 = 0,5. A questa temperatura fonde interamente in un liquido omogeneo. Per determinarne la solubilità in acido fosforico abbiam dovuto prepa- rarci dell'acido fosforico perfettamente anidro; e questo, a dir la verità, non è compito molto facile se si seguono le prescrizioni che ordinariamente si trovano riportate nei trattati. Generalmente, per privare dell’acqua l'acido fosforico si consiglia di scal- darlo a lungo in stufa a 150° e non oltre. A questo modo però noi ci slanio assicurati che non si riesce ad avere acido fosforico privo di acqua; è oppor- tuno invece riscaldare fra 150° e 160°, fino a che si inizia la formazione di acido pirofosforico. Si fa cristallizzare in parte lo sciroppo che sì ottiene, sì succhia alla pompa la massa cristallina, e questa si conserva nel vuoto so- pra anidride fosforica. A questo modo noi abbiamo ottenuto un acido perfet- tamente esente di acido pirofosforico, e che fonde a 40°,6. Berthelot aveva trovato come punto di fusione 40°,75 (*), Thomsen 389,6 (2), e Rosenheim (*) il valore certo troppo basso di 35°. Queste diffe- renze sono naturalmente dovute alla presenza di acqua, la quale anche in piccola quantità abbassa notevolmente il punto di fusione dell'acido fosforico. Con l'acido fosforico a punto di fusione 40°,6 da noi preparato, abbiamo eseguito le determinazioni di solubilità, mettendo assieme acido e sale in quantità esattamente pesate dentro tubetti di vetro che chiudevamo alla lampada. Questi tubetti prima li scaldavamo per fonderne il contenuto e avere così un miscuglio omogeneo; poi li raffreddavamo per far di nuovo solidificare il miscuglio, e quindi li mettevamo ad agitare in un bagno di acqua o di soluzione di cloruro di magnesio. Il bagno veniva scaldato len- tissimamente: come temperatura di equilibrio si assumeva quella a cui scom- pariva l’ultima traccia di solido. (1) Abeggs Handbuch, III B., 3 Teil, pag. 439. (2) Ibid. () Berichte, 39, 2840 (1906). iù A Sr = —==c = ===, _—_ “e— n gie Abbiamo ottenuto così i dati riportati nella tabella seguente: NaHsP0,.HsP0, NaHsP0, Temperature °/o in -peso °/o in peso di saturazione 52,72 29,02 98,50 69,59 38,31 111,0 77,59 42,69 119,0 81,71 44,98 122,0 87,20 48,01 123,0 Se con questi dati si rappresentasse graficamente la solubilità di NaH.P0,.H;PO, in acido fosforico, si avrebbe una curva la quale non pre- senta particolarità notevoli. Questo fosfato di sodio è stabile in presenza di una certa quantità di acqua, e solo con quantità maggiori di essa si scompone. Per studiare il comportamento di fronte all'acqua tanto di questo sale, quanto di quelli di potassio e di ammonio di cui parleremo in seguito, ab- biamo. operato come per le solubilità in acido fosforico. Le temperature di equilibrio si sono stabilite a questo modo: si scaldava fino a che qualche traccia di solido rimaneva ancora indisciolta, e si notava la temperatura; raggiunto questo punto, s' incominciava ad abbassare la temperatura del bagno, e, sempre agitando, si notava il punto in cui i cristallini del solido inco- minciavano a crescere. Come temperatura di saturazione si assumeva la media tra queste due temperature limiti. Nei casi nei quali la cristallizzazione non tornava a compiersi facil- mente per raffreddamento, abbiamo assunto come temperatura di equilibrio quella a cui sparivano le ultime porzioni di sostanza solida. Naturalmente in questi casi si procedeva con lentezza massima nel riscaldamento appunto in vicinanza della temperatura di equilibrio. Le temperature corrispondenti a separazione di ghiaccio sono state de- terminate col metodo crioscopico ordinario. NaH.P0, . HsP0, NaHsP0, Ò H;P0, Temperature °/o in peso °/o in molecole di saturazione [e] 0 0 (0) 20,77 1,81 — 9,0 26,92 2,95 — 7,9 34,15 4,11 zi 56,66 9,75 circa — 38 70,52 16,50 = 80,46 25,89 34,0 81,82 27,11 41,0 83,068 29,75 51,7 87,48 36,62 79,7 88,65 39,22 85,0 91,47 46,98 101,7 92,67 51,09 104,5 95,79 65,28 110,0 95,86 65,68 110,7 97,99 80,12 119,0 100,00 100,00 126,5 eo Questi numeri ci permettono di costruire il seguente diagramma. 100° | pra 80° 60° 40° 20° °° il a = Tr CA + _ — 0° — 20° TA i i 33 SERA 290) L__ - I — 20° — 40° Na H. PO,.Hs PO, °/ di soluzione L’ascissa dà le concentrazioni in sale NaH,P0,.H;PO, per cento grammi di soluzione, e l’ordinata dà le temperature di equilibrio. Le temperature di equilibrio qui prese in considerazione si riferiscono a soluzioni acquose contenenti NaH,PO, e H;PO, in quantità equimoleco- lare, perchè noi abbiamo determinato le temperature a cui sparisce la fase solida in miscugli di sale NaH.P0,.H3PO, e acqua. Come si vede, compaiono nel diagramma tre curve distinte : AB lungo la quale si separa ghiaccio, CD che corrisponde alla separazione di NaH;P0,, e DE che corrisponde a NaH,P0,.H;PO, come fase solida. Della esistenza di quest’ultimo come fase solida lungo DE ci siamo assicurati con l'esame diretto del solido che è in equilibrio con le soluzioni a quelle concentrazioni. Il punto d'incontro della CD con la AB non fu potuto trovare speri- mentalmente, perchè al di sotto delle temperature indicate nel diagramma le soluzioni si rapprendono in un vetro trasparente senza alcun accenno @ cristallizzare. DORATO Sale di potassio. È stato preparato nella stessa maniera del sale di sodio. Qualche volta dal liquido denso si separano cristalli di KH,PO, facilmente riconoscibili dalla forma cristallina; ma più spesso cristallizza lentamente KH,PO, .H;PO, in aghi lunghissimi perfettamente simili a quelli del sale di sodio. Anche esso entra subito in deliquescenza all'aria. All’analisi ha dato: P:0; 60,44 K,0 20,38 Questi dati portano alla formola KH,P0,.H;P0,, pure essa stabilita già da Staudenmayer, per la quale si calcola P,0; = 60,64 e K,0=20,13°/. Per questo sale Staudenmayer dà 127° come punto di fusione. Noi invece abbiamo osservato che a 127°,5 il sale subisce solo una fusione parziale: si forma un liquido che è una soluzione di KH,PO, in H;PO, e resta solido un po di KH,PO,. La trasformazione può rappresentarsi a questo modo: «[KH,PO,.H3P0,] — [2 H;P0, +y KH,P0,]-+[x — y] KH;PO, Continuando a scaldare, a 139° il KH,PO, scompare tutto per completa soluzione e si ottiene un liquido limpido. Come per il sale di sodio, anche per questo di potassio abbiamo sta- bilito una serie di temperature di saturazione in miscugli di sale e di acido fosforico. KHsP0,.H3P0, KHsP0, Temperature °/o in peso °/o in peso di saturazione | o 18,17 10,56 38,5 98,42 33,97 84,0 77,98 45,08 110,0 89,26 51,90 | 126,5 Il comportamento di questo sale rispetto all'acqua è stato studiato allo stesso modo che per il sale di sodio. Ecco le temperature di equilibrio per una serie di soluzioni che contengono tutte KH:PO, e H;PO, nello stesso rapporto. Mi gt co KHsP0,.H3P0, KH,P0,.H3PO, Temperature °/o in peso °/o in molecole di saturazione 0 | 0 0° 3,337 0,27 —(0,6 8,284 0,69 — 1,7 12,13 1,05 Ia) 20,50 1,94 — 5,7 29,43 EI (600 36,98 4,32 09 45,80 6,10 circa 0 50,33 7,21 + 10,9 68,44 14,30 65,2 72,43 16,81 78,0 77,60 21,05 87,5 85,88 31,86 105,5 92,18 47,57 120,0 95,78 63,91 134,5 96,10 65,47 135,0 98,85 88,88 137,5 100,00 100,00 | 139,0 La curva che si può costrurre con questi numeri si riferisce tutta a separazione di ghiaccio e di KH,PO,. Sale di ammonio. Staudenmayer aveva solo accennato alla possibile esistenza di un sale di ammonio simile a quelli di potassio e di sodio; e infatti noi lo abbiamo ottenuto sciogliendo a caldo la quantità necessaria di (NH.)H,PO, in acido fosforico. Ha la forma di aghetti piccoli, splendenti, estremamente delique- scenti. Il sale preparato di recente è perciò sempre umido e dà all'analisi una quantità di P,0; un po’ inferiore al calcolato; solo dopo lunga dimora sopra l’anidride fosforica si riesce a togliergli tutta l'umidità e ad avere un sale perfettamente secco. L'analisi di esso ci ha dato i seguenti risultati : P,0; 66,27 (NH,):0 12,15 AI sale spetta perciò una formola simile a quella dei sali di potassio e di sodio: (NH,)H:P0,.H;PO,, per la quale sì calcola P:0; = 66,65 e (NH.):0 = 12,25 Of ° tti I =_= > TT ===> SEA ie Scaldando il sale da solo, fra 77° e 78° esso subisce una fusione par- ziale dando una soluzione di fosfato monoammonico in acido fosforico, mentre resta nel fondo il fosfato monoammonico solido. La trasformazione che qui si compie, come nel caso del potassio, è rappresentata dall’equazione: x[(NH,.)HP0,.H:P0,]J=[ 9 3 pm. 4» 5 b}) 6» DD 3 D ui a 14°-15° C. Ore in cui si fanno Ore di dialisi le determinazioni — 9 e 15° am. 1 10 e mo » È 2 lle 15” » di - 3 12 e 15’ pm. + Meo 5 2 e 15 » 6 De 1 7 4 e 15° » 8 Del a 25 10 e 15’ am. 29 2 e 15” pm. del giorno seguente. distillata nel vaso esterno. Dislivello del liquido del manometro in mm. (il liquido si fa opalescente) (si osservano piccoli fiocchi) (l’opalescenza del liquido è di molto aumentata) EsperIMENTO VI (3 aprile 1908). t 2.987 .4/37 DURA TZ 2'.98/ 4/37 226.1]; 9.237 2.29” 2/5" 97.99” 27.20” 2/3” 2/,18/.3/5" ZINEHE Bo 00 37.5 37.5 9192 X 1078 6268 3939 3004 1954 1487 1067 977 795 417 366 ciascuno di 5 cm? non sono filtrati prima di determinare la tensione superficiale, nè re- stituiti al liquido originale. Durante questo esperimento l’acqua distillata del vaso con- Cm? 50 di siero di sangue di bue in dializzatore di « viscose » (Leune). Dialisi a 5° C. Ogni ora si cambia l’acqua distillata nel vaso esterno. Il siero nel dializzatore è agitato continuamente nel modo detto dianzi. I campioni di siero, ciascuno di 5 cm?, sono filtrati, ma non più rimessi nel dializzatore. Le determinazioni di t e di £ si fanno Lo stesso siero serve per le seguenti determinazioni di tensione superficiale. Cm? 50 di siero di sangue di bue in dializzatore di « viscose » (Leune). Dialisi a 5° C. Il siero nel dializzatore è agitato continuamente come nell’esperimento del 27 marzo. I campioni di siero, ciascuno di 4 cm?, sono filtrati ma non rimessi nel dializzatore. Le determinazioni di tensione superficiale si fanno a 37° C. Ad ogni ora si cambia l’acqua e "© se —_____— EEE —————— ——_—_—_—_—_—_tT—t—_—_@ e \peLI i 39.125 38.220isonok.. Ore di dialisi 1) La conduttività elettrica del siero di sangue diminuisce notevol- mente durante la dialisi, prima rapidissimamente, poi sempre più lentamente; la più cospicua diminuzione ha luogo già nelle prime tre ore di dialisi. Curva II (Esp. 3 aprile 1908). Ora in cui si fa la determinazione 9.15” am. 10.15» MID 9 (il liquido si fa opalescente) LOSE ” 1.15” pm. 25 > SUO 9 4.15” » 5.15” » 10.15” am. 2.15” pm. del giorno seguente CONCLUSIONI. Dislivello del liquido del manometro in mm. 38.0 38.0 37.1 36.8 37.0 36.5 36.5 36.5 36.5 36.0 36.0 SSA — 2) Anche la tensione superficiale sì comporta allo stesso modo: di- minuisce prima rapidamente, poi lentamente; la più cospicua diminuzione della tensione superficiale ha luogo nelle prime cinque ore di dialisi. 3) Le dette variazioni della conduttività elettrica e della tensione superficiale sono rese certe tanto se il siero, prima delle rispettive deter- minazioni, è filtrato, quanto se non è filtrato. 4) La viscosità del siero sì trova che diminuisce, se il liquido viene filtrato prima di determinare il tempo di deflusso ; tuttavia, anche in questi casi, si può osservare nel principio della dialisi un lieve aumento del tempo di deflusso (Curva II). Se invece il siero non viene filtrato, la viscosità da prima presenta va- riazioni di poco rilievo; ma poi, quando incomincia la fiocchificazione della globulina, aumenta notevolmente, per tornare poi a diminuire, quando il precipitato incomincia a depositarsi (Curva I). 5) La fiocchificazione della globulina è già molto cospicua verso la quinta o sesta ora di dialisi, tanto nei dializzatori di pergamena artificiale, quanto in quelli di « viscose » (Leune). 6) La diminuzione della conduttività elettrica è evidentemente do- vuta alla diffusione degli elettroliti, che, come è noto, determina anche la precipitazione della sieroglobulina. La diminuzione della viscosità, quando si filtra il siero, è anch'essa evidentemente un effetto dell’impoverirsi del siero in colloidi; mentre l’au- mentare della viscosità, quando i granuli di globulina rimangono sospesi (siero torbido), è dovuto verosimilmente al passare del siero dallo stato di gel (secondo A. Mayer) a quello di s0/, 0 magari all'aumentare di volume dei granuli ultramicroscopici di esso. Non altrettanto facile è lo spiegare la costante diminuzione della ten- sione superficiale da noi osservata. Forse altre ricerche, parte già fatte da uno di noi ('), parte in corso di esecuzione, sulle variazioni della tensione superficiale del siero del sangue in diverse condizioni sperimentali, varranno a chiarire il fenomeno osservato. (1) G. Buglia. Biochem. Zeitschr., XI, 311, 1908. Mero Fisica terrestre. — Za Radiazione solare al Monte Rosa. — Osservazioni esequite alla Capanna-Osservatorio Regina Marghe- rita negli anni 1905-1906. Nota del dott. CAMILLO ALESSANDRI, presentata dal Socio V. VOLTERRA. La Capanna-Osservatorio Regina Margherita trovasi, come è noto, sulla estrema vetta della Sjgnalkuppe o Punta Gnifetti del gruppo del Monte Rosa ed ha la seguente posizione geografica: Jatitudine boreale, ARM 4505 longitudine Est da Greenwich . . . . 7°. 55°. 30". altitudine sul livello del mare . . . . . m. 4560. L'opportunità di studiare in quell’alta stazione la radiazione solare è così manifesta. da non richiedere parole per essere dimostrata. Le osserva- zioni vennero iniziate nell'estate del 1905 e continuate negli anni succes- sivi. Nelle seguenti tabelle è riunito il materiale d'osservazione relativo agli anni 1905 e 1906; di quello relativo al 1907; verrà detto in altra Nota. Nelle tabelle si comunica. I. Il giorno delle osservazioni; II. L’ora delle medesime espressa in tempo medio dell'Europa Centrale. III. La pressione atmosferica in mm. di mercurio. I valori relativi vennero desunti dai diagrammi ottenuti con un barometro registratore Richard grande modello, rettificato per confronto colle indicazioni di un termoba- rometro; IV. La temperatura dell’aria (indicazioni del termometro asciutto dello psicrometro); V. La temperatura segnata dal termometro bagnato dello psicrometro. Nel 1905 mi valsi di uno psicrometro a fionda; nel 1906 di uno psicro- metro ad aspirazione di Assmann; VI e VII. La direzione e la velocità del vento. I valori relativi vennero desunti dai diagrammi ottenuti con due registratori Richard (anemometro e anemoscopio) regalati all'Osservatorio Regina Margherita da S.A. R. il Duca degli Abruzzi, e che avevano formato parte della suppellettile scien- tifica della « Stella Polare » ; VIII. Il potenziale elettrico dell’aria. I numeri della colonna VIII vennero ricavati dai diagrammi ottenuti con un elettrometro registratore ideato dallo scrivente e del quale venne data una descrizione sommaria nella nota « Campagna meteorologica del 1904 al Monte Rosa », Memorie del R. Istituto Lombardo di Scienze e lettere, vol. XX, 1905, pag. 177; Manor IX. I valori della intensità della radiazione solare in piccole calorie per cm? e per min. primo, vennero ricavati dalle osservazioni fatte con un pireliometro a compensazione elettrica di Angstrom (pireliometro n. 57). Questo venne costruito nel 1904 dall’illustre inventore prof. Knut Angstròm dell'università di Upsala, appositamente per l'osservatorio del Monte Rosa, dietro richiesta del prof. Ciro Chistoni, direttore dell'Istituto di Fisica Ter- restre dell'Università di Napoli. Il prof. Chistoni volle in persona occu- parsi della montatura del pireliometro, quale venne mandato dall'Àngstròm, in modo da renderlo meglio adatto alle condizioni in cui doveva essere ado- perato, e della preparazione e montatura degli strumenti accessorî necessarii per le misure. Dal prof. Teglio, allora assistente del Chistoni, venne fatto il confronto fra il pireliometro destinato al Monte Rosa e il pireliometro campione del prof. Chistoni ('). Come è noto, l'intensità della radiazione ottenuta col pireliometro di Angstròm è data dalla formola: ge GORE MANILA: picc. cal. per cm? e per min. primo essendo ; j= intensità in Ampères della corrente compensatrice; —= larghezza delle striscie in cm.; a= potere assorbente delle superficie; r = rosistenza elettrica in Ohm delle striscie per cm.; Pel pireliometro n. 57 da noi adoperato al Monte Rosa, si ha : r = 0,2198, indipendentemente dalla temperatura ; Di_10 9926 a= 0,98. L'intensità della radiazione, perciò, è espressa nel nostro caso (indi pen- dentemente dalla temperatura delle striscie) dalla relazione semplice g= 16,12 X pice. cal. per cm? e per minuto primo Quale misuratore della corrente compensante, venne usato il milliam pe- rimetro Siemens-Halske n. 99630, applicatavi la derivazione n. 19881, per modo che ogni divisione della graduazione veniva corrispondere a 0,01 di Ampères. Confrontato in precedenza coll'’amperimetro campione del prof. Chi- stoni, era stato trovato, praticamente, esatto. Per quanto si riferisce alla teoria e all'uso del pireliometro, rimando alla Memoria dell’Àngstrim (*) e non mi vi trattengo, essendo ormai cose note. Per le osservazioni alla Capanna Margherita, non essendo possibile l' in- stallazione all'aperto degli strumenti di misura, perchè ivi il freddo inte ns0 avrebbe congelato i liquidi delle pile, e, sopratutto, per le oscillazioni do- (1) V. Rend. R. Accademia dei Lincei, vol. XV, 1° sem., serie 5°, fasc. 4°. (2) V. Nova Acta regiae Societatis Scientiarum Upsalientis; series tertias vol. XVI, 1893. RenpIcoNTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 8 A vute al vento e all’instabilità dei sostegni non sarebbe stato possibile l'uso del galvanometro, venne collocato sulla terrazza dell’Osservatorio il solo apparato pireliometrico propriamente detto, mentre le pile, l’amperimetro, il galvanometro, il cannocchiale-scala e gli altri accessorii per la misura, vennero tenuti all’interno e posti sui pilastri fissi della stanza a terreno della torretta (*). Per le misure, mentre il custode Francioli, sulla terrazza, manteneva orientato verso il sole il tubo pireliometrico, io, all'interno, re- golavo la corrente compensatrice e facevo le letture all'amperimetro e al galvanometro. Al mattino, nei primi minuti di sole, e alla sera poco prima del tramonto, anzichè ricorrere alla riduzione a zero del galvanometro me- diante la corrente elettrica compensatrice (al che non si poteva riuscire pel rapido variare dell’ intensità della radiazione solare), ricorrevo al seguente espediente: senza lanciare la corrente compensatrice nella striscia del pire- liometro riparata dal sole, leggevo le deviazioni prodotte nell’ago del galva- nometro dalla corrente termoelettrica dovuta alla radiazione solare; poi, su- bito dopo, proteggendo entrambe le striscie pireliometriche dall'azione dei raggi solari, facevo in modo di riprodurre, per mezzo della corrente delle pile, le stesse deviazioni al galvanometro, prima ottenute per mezzo del riscaldamento solare ; X, XI e XII. L'attinometro di Arago consiste, come è noto, in una coppia di termometri a bulbo sferico (uno dei quali affumicato) racchiusi in involucri di vetro in cui è stato praticato il vuoto. All'ombra (o meglio nella oscurità) i due termometri segnano la stessa temperatura; al sole, invece, ed anche semplicemente alla luce diffusa, il termometro annerito segna una temperatura superiore all’altro: si ammette che l' intensità della radiazione sia proporzionale alla differenza fra le temperature segnate dai due termo- metri. I risultati che si ottengono con questo apparecchio, non sono certo paragonabili, per esattezza, con quelli che si possono avere col pireliometro di Angstrom. Credetti nondimeno utile di provvedere l'osservatorio del Monte Rosa dello strumento di Arago, principalmente per le ragioni seguenti : a) perchè essendone l’uso, relativamente, semplice, avevo la possibi- lità di affidarne l’impiego al custode Francioli, e così anche quando io, per qualsivoglia ragione, sono impossibilitato a fare le osservazioni col pireliometro di Angstròm, possono, nondimeno. le osservazioni attinometriche, in qualche modo, venir continuate; 5) perchè, fino a questi ultimi anni, quasi tutte le osservazioni atti- nometriche in alta montagna vennero eseguite con lo strumento di Arago: per la critica dei risultati cui sono giunti gli osservatori che mi hanno pre- ceduto, non sarà inutile raccogliere al Monte Rosa, simultaneamente alle osservazioni col pireliometro di Angstròm, anche accurate e numerose osser- vazioni coll’attinometro di Arago. (1) V. C. Alessandri, Due mesi sulla vetta del Monte Rosa, Boll. Soc. Geografica Ital., giugno 1906. | puri (Ke) | -a,] 21uDIMP DSOY 99UOJI 1° ayoragomonand o |<61 [06 |9°86 6FS"I | 00L | 0°9 su |eer—|ctr—|9°98p| 9961] “ “ s19141A04]]9)9 9YLb0]040A1IU LUOMZVALI8SO) A) gg1 [ze |osg |TS9T | 088 0°9 s_|agr—|oor-|9°9F| W681| “ “ ratSupT OI wiSUSI IEP ‘ESOU QFUON TY o3on] 861 |0‘6 {886 — |oos | 69 S |601- LOL —|0°96F| ILLI| “ “ aqgo 9U9 assI[oa,] 9FutINP 0U919S auawtpoz1od o'sI |S°9 cz |or91|08t | 99 s_ leur —|cor—|6cp| WOI| “ “ 9os 9 OWISSI[[®Q 0[9I9 ‘OquoA ©UI ‘OUIIzEUI TU OI |LF 013 |6cct | 008 | 99 su |gIar—|01-|8'S6F| IV 6 “ “ oueres ezuegseqqe o[o19 ‘Uuijeo ezuezseqqe 9} ON SI |GF eo sie RO su |per—|ee1 —|8‘SF| 988 08 03503 y ron [ost |1E8 |OSct _ Sa i = ce L'OFr OSEI| “ = = — |68t1| — # “ RSI al] g‘0xf| Hell “ “ ofor |s or egg |6691 | 0801] — me i L‘OFF gl) “ eser lost |eg |OI9T| — = si — |a +|L‘077| SII “ “ ‘ato Hip 941 \66Gr (|S08 |\6691) — = =: — log +|9°%077| 0701) “ “ dOSOLI guorzesueduo9 el ‘@q10; OJUOA ‘ou9I9S 0]9I) 051 SGSI ‘63 OGGI = _ — = STI —|q ‘opt | 076 19 09505Y — = — |o0IST| — = = — [oe —|L°68F SI| « ‘@]10 Ip ea lofet |sac |OSST| — = i — |o1 —|8‘68F| 0S7I « “ QOSILI euorzesuaduroo eI ‘aq10y 0FU9A ‘on9I9s 0]91) GLI OST (49 OLI e o — = s‘0 —|6 ‘687 FI 03 03S03Y «questa ipnwmo foquoa fotogr © |0'91 |0*SI |0'T6 699° | 00IL| — Si — llg'1 —|6ger|109gr] ‘61 03809V or |er |ceg |6FST | OSTI| — = a ge G'867 OgcI| “« “ coT |L°9T |gfeg |67ST | OSS) — = — log —|v8er| serl) “ “ oi (GGi |A GSS oe = — lo — 8°8sF| esi) “« “ *EISOSTEA UTI IQunu Ip oIBU ‘019881191 361 |ogr |g1g |69S0 | 0068 | — = — |a — 8 ‘8sp| ossei] “« “ “od jou oseqrp oero foumeur qu TRueStA ITMuno cet [0FI [966 |6FST | OSIT| — = — |ec —!g867| 08II| SI 0gs05y ost |ofer |of0g |6FSL| — = = — [oa —|#°8SH| 076I| “ “ get er |066 |65S1| — = = — | =|S8Sg SOFT = “ *UISOSTU A UL Iquu Ip oItwr ‘019 © gr |0g1r+|888+|OLST | — — = — el So sol FI 09s03y IJX IX o Se XI IIIA IIA IA A AI III II I sopra | on | avo, | (rpm (muito | opuosos | cure | ou |OMMOS® arsowge vd 1uO012V 98 O 0 suo: | oipom | orso | otefa | atm [vasoroa| costa |. uso | run | “sett | odor a O0DVUV II ONLIMONILLV lè) S.L'IOA OLNIA OULINOUOISI tei CIO ‘6061 ONNY - VIIUIAHOUVIN VNIDHY OITOLVATHSSO ‘I VIIZIVI, = = — |881 | 083 = = = = — |8rsr| « “ S =i = genio = = = == = = |(OUgii @ “ = = — |0SST | 00€ = FISI| “« “ = = — |OIST | 068 = = @ = =_| Gigi “ = = i 70.1 208S = MS = — |6‘967| ITSI| <“« “ SOT |ST —|0G1+|001°1 | 089 | 0° — |9ST—|9gI—|6 98 | 6G7FI “ « = “ = = 060 LSFI “ “ a SÉ — |O00°T | OIL “ SSTI| « “ GL60 | 088 = = = = “ ISFI “ “ = = — |L98°0 | 086 i = “ 6PFI|. “« “ S = — |S99°0 | 066 = — [LIST -|0FT—| « SEFI| « “ DD, 071 —|09 —|2090| — = = “ IRTI|. « “ = = sniicS SOM = = = = « GEFI|: « “ Mao = = = = ai “ 8SEFI| “« “ = = — |[oxrso| — — = = = « LEFI| “ 99 o°fgI —|S9 —!9Ic0 | — — — = _ « IEFI|! « “ = = — |LL70 | 066 = — [ast -=|0F1—=| « SEFI|! « “ 0°9 GGI —|S9 —|8680 “ 63 FI “ “ 898°0 | 086 i > “ 8SFI|. « “ TG SOT —|gG —|SE80| — = — = — “ LEFI|: « “ ‘0[[9q Quioz “,] 9] osIeA ‘Tod — — — |ze0 - « SITI! « « eu ‘eIognq è] ewISSOIÎ eARIQUIOS 0 ISIBAO[]OS — — — |8630 | 086 « VAAE A « « è OUOIBIQUIUTODUI Iqnu e] “g9T 9] OSISA ‘ossi]o — = —_ 8630 | 0L6 — MS — _ 698 | OGFTI « « -a.] 0doq ‘egnioysie”i euuede9 erlop 0Vosip Ie [9° Figi ISO = MS = — |6°9% | 8ITI| « « TI}OU1 Q0OT BOITO ® SAT [Op ollgA UL 0 LISOSIBA = = = 00 = MS # Ie i e “ UT Iqnu Tp oIguI [9q un 2qgo IS OUIOLS ]I 099N], i = 980 | 086 | 0°G MS = — |6'9% | 9TpI| « ‘(L06I OUUe ‘TAXXX ewnjoa “Tuerperg 1sIdoos [9° co —[so0 +|g880 | 006 | e MS [OFI —|SET —|6°98 | ILFI “ “ -01ads I[Sap g}oroog el[op ariowregg ‘tipues (ofer |s°o +|efer |9I181T | 095 | 6$ SU [ogr—|[ogr=|8°98 | ISEI| « « -S9TV ‘DIP EION G067 018007 0E 29p 28849 (et |ce S8I |SZ0T | og, | 06 SU [ser [ser =|L°96F| iPeI| 02 09805 y wr u Y TIX IX X XI IIIA IIA IA A AI III II I BOLI I AI 0179UI RI POLI 9 TA ARS a I AE A ALOE || OT | CASE DIR DIO -91 I 9 Z O U R AL Rn elogia o oro ODVUV IA OULIMONILIV lè) SLIOA OLNHA OLLANOUDISI qa CIO ‘9061 ONNV - VIIMIHHDUVI VNIDHY O01H0LVAUHSSO ‘I VITHAVI, (2u0120nuUOI) i) | ì E re sel saio — — — ——— © igù *TUOIZBA = Sn — |OIO9'T | 0S2I | OTI Mia ES OSE “ siosso 0] eqinysip oques [i eur oprpuo]ds odwog], |G'LT |SFI |PGg 6FST | OSGI | OTI = = — |8°8F| 068I| TI 91qUHOg e (e sr gere ie SO TOSI] SE “ RATIO UA] SSA SISERE (009,10 so MOST 3 —_ — |efor | oggl| “ « ICW euugdeag eTTe o1onotd @poA IS IN9 UL EIpOA PAICHI #81 9g 019° a GT = |M 9‘°0 + SF 07 I “ “ gorun] ejsanb ny fIosonoI © oA0Id 49] 9] OSIOA 0 |g'91 [081 (6FE |66°1]| — 08 Beni ci SR BS « osorqqou tod ©p Is ‘“ypI eIe cu cuonq ‘odwoy IT | — - OL 0 = — — |a‘opr| or1gIi| S 91qU0H99S g‘LI |66 053 |T99°T | OGOLI | 9°S — |por—|96 —|68 | SPII| “ “ OLE |0°6 096 | TS9°I | 00901 | SE — |ofor—|oî6 —|64FS | OGII| “ “ = = — |T<9T | 066 | SY = = > te E “ aa IS91 | S96 (ara — |ezr—|gor-|6 #8 | 0601 “ “ 991. 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Nota del dott. Luciano PELACANI, presentata dal Socio G. STRÙUVER. Nelle vicinanze di Montresta (circondario di Oristano) a pochi metri dall'abitato, nell’andesite augitico-iperstenica che fiancheggia la strada che viene da Bosa, trovasi un importante giacimento di zeoliti. Esse tappezzano le pareti delle geodi, o sono disseminate nella roccia in vene ed amigdale. La stilbite non è mai sola, ma associata alla heulandite ed alla cabasite. Le altre specie si trovano anche sole, per quanto più frequentemente cri- stallizzate insieme. La mesolite è di gran lunga più abbondante delle altre specie; vengono poi in ordine decrescente di quantità la cabasite, l’ heulan- dite e la stilbite. Il prof. Millosevich ha recentemente pubblicato alcune notizie (*) sul giacimento e sulle forme di queste zeoliti, e per suo consiglio e col suo aiuto, di cui gli sono grato, io ne ho intrapreso lo studio chimico, non sol- tanto per determinarne la composizione quantitativa, ma anche per studiare il loro comportamento circa la perdita ed il riassorbimento dell'acqua e por- tare così un modesto contributo alla risoluzione del problema della costitu- zione chimica di questi interessanti minerali tanto discusso e non ancora risoluto. La mesolite e l’heulandite di Montresta non furono ancora analizzate; della cabasite si conosce un’analisi del Rimatori (8). Mesolite. — Si trova anche sola in vene, amigdale e geodi, nelle quali sporgono i cristalli aciculari rigidi o flessibili, che continuano le fibre più grosse che si impiantano sulle pareti delle cavità della roccia o sui cristalli di cabasite. Più spesso è associata alla cabasite, raramente alla heulandite. L'analisi chimica ha portato ai seguenti risultati: Si-0g ME 42594 Als 0g MEN 25:05 Ca:0: MM E 0187 Na, e 81 KG O e e traccie E PRON SR RE 100,30 (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Sassari. (*) F. Millosevich, Appunti di mineralogia sarda. Il giacimento di zeoliti presso Montresta. Rend. R. Acc. dei Lincei, vol. XVIII, serie V, 1° sem. 1908. (*) C. Rimatori, Sulle cabasiti di Sardegna e sulla granulite di Striegau in Slesia. Rend. R. Acc. dei Lincei, vol. IX, serie V, 2° sem. 1900. DOT Si tratta dunque di una vera mesolite con quantità ragguardevoli di calce e di soda, che differisce dalle altre note sopratutto per la maggiore quantità di queste due basi e per la minore quantità di silice e di allu- mina. Fu determinato anche il comportamento circa la perdita ed il rias- sorbimento dell'acqua coi seguenti risultati : In essicatore ad acido solforico a pressione e temperatura ordinaria. Dopo 24 ore perde 0,43 °/, di acqua ” 48 >» » 0,57 ” L) IO Lu) 0,59 Li » 336 » » 0,76 ” Dopo 4 ore, in ambiente saturo di umidità, la zeolite riassorbe tutta l'acqua perduta. In essicatore ad acido solforico ed a pressione di 6 cm. Dopo 24 ore perde 0,99 °/ di acqua ” 48 » » 1,05 ” » 10, » t,) 1,09 a » 144 > » 1,16 ” » 408 » » 1,28 ” L'acqua emessa è riassorbita in 5 ore. La stessa zeolite viene poi riscaldata alle diverse temperature fino a peso costante (che si raggiunge dopo 3-5 ore di riscaldamento) coi seguenti risultati : a 100-105° perde 0,92 °/ di acqua 125-130 » 1,40 ” 150-160» 1,85 ” MYBEFI0 oe 2008 ” 200-210 =». 3,26 ” 250-260 =» 4,84 ” 3002310 RMERRMN6:06 ) SEO o SA ” La mesolite di Hauenstein, secondo Hersch, perde a 100° 2,43; a 160° 3,19; a 200° 4,93; a 250° 5,99; a 300° 7,92; al rosso 14,50 °/. La me- solite che si considera come una miscela isomorfa di scolecite e di natrolite, riguardo all'emissione dell’acqua per riscaldamento si avvicina più alla prima che alla seconda specie. L'acqua perduta a 100° viene riassorbita in 20 ore 125° 20 ) RR MS 6) > b) ” I/O ” ” » 78.» ” ” 200°» ” » 120 » ” ” 250° ” ” » 120 » D) L) 300° ” Li) » 230. » RenpIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 9 A ra L'acqua emessa a 350-360° (9,03 °/,) viene solo parzialmente ripresa (3,09 °/,) dopo 650 ore con una perdita definitiva di 5,94 °/. Dopo calci- nazione, la quantità di acqua emessa è di 13,32 °/, della quale neppure una piccola parte viene riassorbita, anche dopo esposizione della zeolite per molti giorni in ambiente saturo d'umidità. Cabasite. — Si presenta in cristalli di dimensioni maggiori delle altre specie, isolati o geminati, associati più frequentemente alla mesolite, più raramente alla stilbite (sulla quale i cristalli sono in parte impiantati). An- cora più rara è l'associazione della cabasite coll’ heulandite. L'analisi chimica ha dato i seguenti risultati, alquanto differenti da quelli ottenuti dal Rimatori. La differenza più rilevante si riscontra nella quantità di acqua, che io determinai dopo aver privata la zeolite dell’acqua igroscopica, frapponendone la polvere tra carta bibula per qualche giorno. La maggior quantità di acqua da me ottenuta importa necessariamente una minore quantità degli altri componenti. I Sio, A 0. 0 46:30 | AO; e 0. 206 Cao eee 8 KO, MM 027 Hi 0 e I IO 99,68 Secondo Rimatori: SIO, “e 47196 A, 03 E O VE 22051 Gao et. 0027 K,0. CS o. 2,96 Hg 0 Se 0. c.d L968 99,38 Comportamento circa la Sull’acido solforico perdita ed il riassorbimento dell’acqua: a pressione e temperatura ordinaria. o Dopo 6 ore perde 1,44 °/, di acqua | nl 24 (BM 0055 - nl AS AMG ’ TIZIA) » 3,24 ” 3 196 MM 03 ” » 120 » » 3,49 L) ni 1240. ZZZ 01 ’ i » 450, fai 472 ” I n 6901 MA 86 ; Dopo 690 ore il peso è costante. L'acqua emessa in questo tempo viene ripresa in tre ore dalla zeolite posta in ambiente saturo di umidità. gole Sull’acido solforico a pressione di 6 cm. Dopo 24 ore perde 4,86 °/ di acqua Dj 48» ” 5,39 L Pin AZ » 5,61 ” » 96 » DSS L) » 120 » » 5,89 L » 240 » » 5,82 ” In ambiente umido la zeolite riassorbe in tre ore tutta l'acqua perduta. Dopo riscaldamento fino a peso costante, che si raggiunge in 3-5 ore. a 100-110° perde 6,02 °/ di acqua 150-160 > 10,88 ” 200-210 » 14,96 ” 250-260 » 16,73 ” 300-310 a 17,79 ” 350-360 » 18,30 ” L'acqua emessa alle varie temperature fino a 250-260° viene riassor- bita in tre ore; quella emessa a 300-350° in 48 ore. Dopo arroventamento fino a peso costante perde 21,37 °/, di acqua. Dopo 850 ore in ambiente umido riassorbe 5,51 °/ d’acqua, nè il peso aumenta anche dopo parecchi giorni. La perdita definitiva è quindi del 15,86 °/0. Arroventata fino a fusione incipiente, perde totalmente la proprietà di riassorbire acqua. Confrontando i risultati ottenuti riguardo all'emissione ed al riassorbi- mento dell’acqua di queste due specie, sono messi in evidenza i seguenti fatti: 1°. La cabasite emette acqua in quantità sempre decrescente alle varie temperature fino a 350°. Quindi, mentre a 200° ha già perduto circa i due terzi della sua acqua, da 200° a 350° ne perde soltanto poco più di un sesto ed il rimanente coll’arroventamento. La mesolite invece perde acqua in proporzione sempre crescente; mentre a 200° ne ha perduto soltanto un quarto, fra questa temperatura ed i 350° ne perde circa la metà ed il resto per arroventamento. 9°. Il riassorbimento dell’acqua perduta col riscaldamento alle vario temperature fino a 350° avviene rapidamente e completamente nella caba- site; mentre nella mesolite, riscaldata alle stesse temperature, si compie più lentamente e, dopo riscaldamento a 350°, soltanto parzialmente. 3°. Dopo arroventamento, la cabàsite assorbe ancora circa un quarto dell’acqua totale emessa; la mesolite invece non ne assorbe affatto. Mir) — Heulandite. — Si presenta in cristalli di piccole e mediocri dimen- sioni, frequentemente di forma tabulare, con faccie talvolte curve, lucenti in vario grado. Si associa più frequentemente alla stilbite, più raramente alla cabasite ed alla mesolite. Eccone i risultati dell’analisi : STORE MO 009 ASSO te. Seo :09 Cat. 0. z:02 Sr0-Ba0 . . . . . traccie riconoscibili alla fiamma Na; 0... . . .. 2,87 con traccie di potassio Hi ent. on 99,54 Chimicamente questa heulandite si accosta a quella di Berufiord ana- lizzata da Rammelsberg (!), con la quale, secondo il Millosevich, ha anche analogie cristallografico-fisiche. La quantità di heulandite disponibile non è sufficiente per studiarne il comportamento circa l'emissione ed il riassorbimento dell’acqua. Stilbite. — È la specie più scarsa del giacimento. Si trova in piccoli cristalli, isolati o compenetrati, più spesso in aggruppamenti cristallini a struttura fibrosa e disposizione a ventaglio od a covone, di color bianco e lucentezza perlacea. Non è mai sola, bensì associata all’heulandite ed alla cabasite. Nel materiale raccolto vi si rinviene in così piccola quantità da non bastare per un'analisi. Mineralogia. — Contributi alla mineralogia della Sardegna. Nota di A, PeLLOUX, presentata dal Socio G. STRUEVER. II. Sopra alcuni cristalli di idocrasio del Sarrabus e dell’Iglesiente (DÌ Dalle quarziti della miniera di Baccu Arrodas nel Sarrabus e precisa- mente da quegli stessi banchi in cui l'ing. Stefano Traverso (?) raccolse la wollastonite, il granato, l’ epidoto ed altri minerali derivanti dal metamor- fismo, determinato in questa roccia dall’intrusione di dicchi di porfirite pirossenica ed anfibolica, proviene un esemplare, che a prima vista potrebbe (1) Zeitschr. d. d. geol. Ges., XXI, 1869, pag. 93, (2) Vedi per la I parte di questo lavoro: A. Pelluux, Contributi alla mineralogia della Sardegna: I. Atacamîte, valentimte, leadhillite, caledonite, linarite ed altri mi- nerali dell Argentiere della Nurra (Porto Torres). Rend. Acc. Lincei, vol. XIII, serie 5°, 2° sem. 1904. (8) Vedi S. Traverso, Quarziti e scisti metamorfici del Sarrabus (Sardegna). Atti della Società ligustica di Scienze Naturali e Geografiche. Anno IV, fasc. I, Gennaio 1893. SM scambiarsi per granato misto alla pitrotina, nel quale il trattamento con acido acetico mise allo scoperto, liberandola dalla calcite che la nascondeva, una piccola geode tappezzata da nitidi cristallini di idocrasio. Intorno a questi cristalli di Baccu Arrodas raccolti dall'ing. G. B. Traverso e facenti parte della collezione del Museo Civico Genovese e ad altri che, avuti gentilmente dal Prof, Lovisato, provengono invece dalla mi- niera di Rio Planu Castangias nell’ Iglesiente, dove si trovano intimamente commisti alla blenda ferrifera ad indio studiata dal dott. Rimatori (*), credo opportuno il dare un ragguaglio, non avendo nessuno, che io sappia, sino ad oggi, descritto l'idocrasio di queste o di altre località della Sardegna. Ricordo anzitutto come l'esistenza dell’ idocrasio nell'Isola sia stata per la prima volta indicata dal Lamarmora, il quale riferisce (*) trovarsi questo minerale, insieme al granato, nella località di S' Acqua Arruinosa presso S. Vito, dove accompagna il ferro ossidulato. Lo Jervis (*) cita lo stesso minerale fra quelli che si rinvengono insieme al granato nella miniera ferrifera di Sa Ginestra a circa 20 Km. ad ovest di Pula, mentre il Lovisato, oltre che a Rio Planu Castangias, trovò l'ido- crasio, sempre unito al granato, in una roccia quarzosa negli scisti che nel Vallone di Ospe, presso Oliena nel Nuorese, contengono la molibdenite e la molibdite; è probabile inoltre che, quantunque meno comune del granato, possa i’ idocrasio trovarsi in qualcheduna delle molte altre località dell'Isola in cui l’esistenza del primo di questi minerali è stata segnalata (4). Tanto i cristalli di Baccu Arrodas come quelli di Rio Planu Castangias, hanno dimensioni piccolissime, misurando al massimo 7 mm. di lunghezza per 11/2 di diametro, ed abito prismatico determinato dall’ allungamento secondo l’asse verticale; ma mentre i primi sono finiti da una parte, gli altri, di rado terminati da un lato, lo sono anche eccezionalmente da tutti e due. Le facce osservate nei cristalli di Baccu Arrodas sono le seguenti: a (010) m (110) / (120) @ (350) o (011) e (001) s (131) p (111) t (341) d (241). Il prisma (110) è la forma predominante e presenta, il più delle volte, una striatura verticale che è invece meno marcata e non sempre si osserva nelle altre facce della zona prismatica; seguono i prismi (120) e (010), mentre la base è più o meno estesa a seconda dello sviluppo delle facce (!) Vedi C. Rimatori, Analisi ponderale e spettroscopica di nuove blende sarde. Rend. R. Acc. Lincei, Serie V, Vol. XIV, fasc. 12. Roma, 1905. (®) Vedi A. Di La Marmora, Voyage en Sardaigne. Turin, 1839, vol. I, pag. 154. (3) Vedi G. Jervis, / tesori sotterranei d'Italia. Vol. III ‘ Le Isole”, pag. 38. Torino, 1881. (4) Vedi D. Lovisato, Il granato a Caprera ed in Sardegna. Rend. della R. Acc. dei Lincei. Roma, 1396. Di piramidali, che in vario grado la riducono sino a farla quasi sparire. La superficie della base è per lo più ruvida e poco lucente presentando in qualche cristallo delle cavità microscopiche a contorno quadrato. Delle piramidi la (131) è abbastanza estesa e quasi sempre presente; molte piccole sono invece le (011), (381) e (241). Più rare tutte le altre forme, compresa la piramide (111) che però è bene sviluppata in alcuni cristalli, mentre manca del tutto in altri, rarissimo è il prisma (350) osser- vato soltanto in un cristallo con una sola faccia molto sottile. Mentre le faccie della zona prismatica riflettono bene, quantunque spesso presentino, delle immagini multiple, dovute alla striatura, la base e le pira- midi danno misure non sufficientemente esatte da autorizzare al calcolo del rapporto parametrico per i cristalli di questa località. Nel seguente specchio sono riportati gli angoli misurati, messi a con- fronto con quelli dati dalle Winkeltabellen del Goldschmidt e da questo autore calcolati in base al rapporto a: c=I: 0,5376. Valori calcolati Media degli angoli SE Tea Glielo son azioni i degli angoli di posizione di posizione misurati | 2 sl I di ann -— _ ur E Ie I o 93 = ——— _—r__ISMM-_TT_P = ndice 5 s P 0 P @. SE P 0 Vai ° m 110 45° 0” — 45° 1 — 8 | 44°50/-45° 5° — P 350 38 58 —_ SUIS, _ 1 31°8” | —_ A 2008 2.637 — 26 21 SI 9|26 5-26 56 | - 0) 011 0 28015” _ 980117 | 6 = 28° 5/-28925” p 111 45 0 37 14 45 1 37 23 3 | 44 55-45 d | 87 23-37 34 t 331 ” 66 20 — 66 20 83 “n | 66 19-66 20 s 131 18 26 99 82 18 29 99 29 2 | 18 27-18 31 | 59 25-59 34 d 241 26 34 67 25 26 28 67 48 2 | 26 26-26 30 | 67 46-67 50 ] Come si vede la media dei valori degli angoli misurati sì avvicina con sufficiente approssimazione al valore calcolato degli angoli. Il colore dei cristalli di Baccu Arrodas è giallo di resina più o meno carico; alcuni sono trasparenti, altri invece sono torbidi in modo uniforme: in tutti il pleocroismo è insensibile. Una lamina tagliata parallelamente alla base lascia scorgere, alla polarizzata convergente, una croce che si decom- pone col ruotare del preparato, come accade nei cristalli biassici ad an- golo assiale piccolissimo. Il segno della doppia rifrazione è normale e cioè negativo. Nella massa dell’ esemplare, che è formato di idocrasio compatto, tro- vansi disseminati dei granuli di pirrotina a contorno irregolare, mentre nella geode, insieme ai cristalli descritti, si osservano delle masserelle informi di 225 17/9 granato giallo miste ad una sostanza terrosa di colore verdiccio che ritengo essere clorite. La calcite che ostruiva la geode era bianca e spatica. Noi cristalli di Rio Planu Castangias le forme osservate sono le seguenti : a (010), m (110), « (021), 0 (011), e (001), p (111). Tali forme si presentano combinate in vario modo, ma essenzialmente secondo due tipi. In uno si ha assoluto predominio del prisma (110) e della base su tutte le altre forme, le quali sono rappresentate da piccole facce, non sempre presenti, del prisma (010), della piramide (111) e più raramente della (021); nell'altro tipo, che è meno comune, le facce prismatiche hanno sviluppo irregolare predominando ora (110) ed ora (010), mentre le piramidi (111), (021) e (011) maggiormente estese che nel tipo più comune, ma in modo variabilissimo da faccia a faccia, riducono la base ad essere appena visibile. Anche per questi cristalli le misure ottenute non si prestano per il cal- colo del rapporto parametrico. Gli angoli messi a confontro coi valori teorici sono indicati nella seguente tabella: Ù FR a E 3 Limite delle osservazioni =i x er r—--_T—|-re- +-—_——-2 S|-—_—_TP__s:="="="= — E Indice E i P Q P Q È 2 0) Q z° Mm 110 45° 90° 450 90° 6 | 44° 56-450 11’ 90° 0 011 0 28 15° 0 98331000 al 0° 28° 38” U 021 0 47 04 0 47 20 2 0 47° 18/-47° 22” p 111 45 97 14 45 Orde2 5 45945011” 97 8-37 22 Se i cristalli di idocrasio di Baccu Arrodas sorgono su di una massa compatta dello stesso minerale, questi del Rio Planu Castangias stanno invece irregolarmente distribuiti nella blenda ferrifera, che li avvolge, in individui isolati, in fascetti di cristalli in accrescimento parallelo ed anche, ma più raramente, in gruppi complessi, coll’ apparenza di geminati, in cui più individui sembrano compenetrarsi a vicenda senza che sia possibile determinare se e con quale legge si abbia una geminazione. Il colore dei cristalli di Rio Planu Castangias è generalmente più cupo di quello dell’idocrasio di Baccu Arrodas e qualche volta dal giallo passa al verdastro; i caratteri ottici sono normali. Oltre che dalla blenda, i cri- stalli sono accompagnati da pirite e da limonite epigenica di quest ultimo minerale. Dell'idocrasio di Rio Planu Castangias venne eseguita un'analisi chimica del dott. Carlo Rimatori, analisi fino ad oggi inedita, che mi fu comunicata e SS insieme agli esemplari avuti in istudio dall'illustre prof. Lovisato, e che quì di seguito riporto: SUO . È 5 î SIOILT Al; 03 } : 2 , 11.35 Fe, 0; ; , 5 3 13.39 Ca 0 . 5 ; ; . 33.91 Mg 0 È . ; . tracce Na. 0 1 } , 3 tracce KO: È È 3 - 3.74 100.96 Notevole in questa composizione è il forte tenore in sesquiossido di ferro e così pure rilevante è la dose di potassa, mentre invece non si hanno che delle tracce di magnesia e di soda e piuttosto scarsa è l'allumina. Il peso specifico alla temperatura di 22° fu calcolato dal Lovisato, che lo trovò corrispondente a 3,358. Chimica. — Saponificazione dei grassi per mezzo dell'idros- silamina (®). Nota del dott. EuceNnIo MoRELLI, presentata dal Cor- rispondente A. ANGELI. L'esame delle sostanze grasse, di origine animale oppure vegetale, che nella maggior parte dei casi sono costituite da miscugli più o meno com- plessi, viene eseguito per lo più facendo le solite determinazioni (proprietà fisiche, numero di acido, numero di saponificazione, numero di iodio, ecc.); in altri casi il grasso viene saponificato per mezzo degli alcali e successi- vamente si studiano i prodotti che in tal modo si formano: l'alcool da una parte (che nella maggior parte dei casì è costituito dalla glicerina) e gli acidi grassi dall'altra. L'esame degli acidi (oppure quello dei grassi) viene eseguito per lo più in blocco, sopra il miscuglio, e ciò dipende sopra tutto dalle difficoltà che si incontrano a separare gli acidi l'un dall'altro, difficoltà che sono dovute specialmente al basso punto di fusione che gli acidi presentano, ad analoga solubilità nella maggior parte dei solventi e molto probabilmente a relazioni di isomorfismo (dovuto ad analogia di struttura) che legano gli uni agli altri. Anche la separazione degli acidi per mezzo dei loro sali, come è noto, non è scevra di difficoltà. Per questi motivi, in occasione di alcune determinazioni che recente- mente ho avuto occasione di eseguire sopra alcuni grassi normali e patolo- (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica farmaceutica del R. Istituto di studî superiori di Firenze. den, — gici, io ho cercato di stabilire alcuni metodi per mezzo dei quali fosse possibile trasformare direttamente i grassi in derivati che nelle ordinarie condizioni di esperienza fossero ben cristallizzati e avessero un punto di fusione superiore a quello degli acidi da cui derivano. Dalle numerose esperienze che finora ho eseguito, in questa Nota pre- liminare mi limiterò ad accennare a quelle ottenute mediante la saponifi- cazione per mezzo dell'idrossilamina. Come è noto, la saponificazione dei grassi, sia essa eseguita per mezzo di alcali, di acidi, ovvero anche a mezzo del vapore di acqua soprariscal- dato, in ultima analisi si riduce a un processo di idrolisi: CH,.0.OR CH,(0H) di] CH .0.0R + 3H,0 = CH(0H) + 3R0,H LITE CH,(0H) dove RO,H rappresenta l'acido grasso che si è formato. L'azione dell'idrossilamina sopra gli eteri degli alcool monovalenti è stata studiata, come è noto, per la prima volta da Jeanrenaud (*) il quale in tal modo pervenne agli acidi idrossamici, corrispondenti agli acidi da cui deriva l'etere impiegato, per es. NOH 0,H,.C00C,H; + NH:(0H) = CH, 0 + 0,H;(0H). OH Si opera in presenza di eccesso di alcali ed in soluzione alcoolica e perciò si perviene direttamente ai sali degli acidi idrossamici. Era quindi da aspettarsi che anche le sostanze grasse, che si devono riguardare come eteri dell'alcool trivalente glicerina, si fossero comportati rispetto all’idrossilamina in modo analogo, avessero formato cioè i derivati idrossamici degli acidi grassi costituenti il gliceride impiegato. CH,.0.0R CH,(0H) lia .0.0R + 3NH;(0H) = cn (OH) + 3R(NOH) (0H) | CH;.0.0R CH;(0H) La reazione, che si compie con grande facilità, ha pienamente confer- mato le previsioni, e in tal modo si pervenne a prodotti ben definiti, che presentano tutti i caratteri degli acidi idrossamici, sono molto stabili e pos- siedono punto di fusione superiore a quello degli acidi da cui derivano. Prima di iniziare la ricerca sopra i miscugli, ho eseguito alcune espe- rienze con i gliceridi di alcuni acidi provenienti dalla fabbrica di Kahlbaum di Berlino. Lo stesso metodo si può applicare anche per lo studio delle lecitine. (1) Berichte, XXII, 1270. RENDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 10 wr =. NOH Acido stearinidrossamico O,rHx3 0 > OH La soluzione di gr. 1,8 di cloridrato di idrossilamina in alcool meti- lico bollente, si aggiunge alla soluzione di gr. 1,8 di sodio in alcool etilico, e quindi si filtra per eliminare il cloruro di sodio formato. Al liquido lim- pido vengono aggiunti 5 gr. di tristearina e a lungo si agita. Apparente- mente non accadono modificazioni; dopo aver lasciato a sè per circa un'ora, scaldando a bagnomaria la sostanza solida facilmente si scioglie, e per raf- freddamento formasi abbondante deposito bianco cristallino. Nel domani vien raccolto su filtro, lavato con alcool ed essiccato su acido solforico. Il suo peso corrisponde a gr. 5,4, il che dimostra che il rendimento in sale è quantitativo, e che questo è insolubile in alcool. Bollito con acqua dà un liquido torbido e che fa schiuma, segno che il sale viene in parte idrolizzato. Si acidifica con acido acetico e, raccolto su filtro l'abbondante precipitato formatosi, si lava onde levare l’acetato di sodio e l’eccesso di acido acetico. Il prodotto così ottenuto, a freddo è poco solubile in alcool ed in ben- zolo, meno in etere, quasi insolubile in etere di petrolio. Ricristallizzato dall’alcool due volte e lavato con molto etere, fonde a 104°. Essiccato su acido solforico diede all'analisi i seguenti numeri : I. gr. 0,1842 di sestanza diedero gr. 0,4906 di CO. e gr. 0,2100 di H,0; II. gr. 0,3131 di sostanza diedero cc. 13,3 di azoto a 28° e a 761 mm. In 100 parti: Trovato Calcolato per C,g8 Hz37 02 N C 72,63 72,24 H 12,66 12,97 N 4,64 4,68 La sostanza è insolubile nell’acqua che per questa ragione non vien colorata dal percloruro di ferro; invece la soluzione alcoolica dà, con lo stesso reattivo, la bellissima colorazione rosso-violetta propria degli acidi idrossamici. Se si scioglie in alcool, con l'aggiunta poi di alcuni ce. di soluzione di acido solforico diluita al 25° e si riscalda, tosto alla superficie del liquido si raccolgono delle gocciole oleose che vanno aumentando man mano procede l’ ebollizione. Dopo un'ora si aggiunge circa lo stesso volume di acqua e si raffredda. L'acido stearico solidifica alla superficie del liquido, e in questo rimane sciolto il solfato di idrossilamina. Mi. NOH Acido palmitinidrossamico Ci5Hs1- O OH Come nel caso precedente, una soluzione di gr. 0,9 cloridrato di idros- silamina in alcool metilico, viene unita alla soluzione di gr. 0,6 di sodio in alcool etilico; se ne separa il cloruro di sodio e al liquido limpido si aggiungono gr. 2,5 di tripalmitina. Sbattendo a lungo, come per la tristea- rina, non si osservano modificazioni. Però scaldando a bagnomaria il depo- sito si scioglie e per raffreddamento ricristallizza un abbondante deposito bianco. Raccolto su filtro viene lavato con alcool ordinario prima, poi con alcool assoluto ed essiccato nel vuoto su acido solforico. Il peso è di gr. 2,05 : a differenza del derivato dalla tristearina, il rendimento non appare quan- titativo, e ciò in causa della maggior solubilità in alcool di questo sale. Di fatti l’aleool di lavaggio, concentrato, lascia abbondante deposito. Il sale, decomposto con acido acetico, viene raccolto su filtro e lavato con acqua; ricristallizzato dall'alcool e lavato con etere, fonde a 99°. Il prodotto essiccato su H,SO, diede all'analisi i seguenti numeri: gr. 0,2997 di sostanza diedero cc. 14,4 di azoto a 28° e 763 mm. In 100 parti: Trovato Calcolato per Cis H33 0: N N 5,26 5,16 Come lo stearinidrossamico, anche quest'acido in soluzione alcoolica dà con il percloruro di ferro la colorazione rosso-violetta, e così pure, sciolto in alcool e bollito previa aggiunta di soluzione diluita di H,S0O,, si scinde in acido palmitico e in solfato di idrossilamina. Acido oleinidrossamico C,:H33. “ 5 6 10M VAfequattigroscopica .. RMMPRANE OGR |- (0/0 gr 27,22 ”» ASTE QUIRNMP'EEAIta Na R IUO CO. e (MN ” 87,11 » ASEIEZA iS FIOM ICAO Care PA I e e ” 223,40 ” 2 SA AE e ec: 0 0 6 oca ” 543,33 » TE ORAONO) (Sabbiatersilicati insolubile e » 110,09 Terra fina e (ei 0. 1000,00 ANALISI CHIMICA SOMMARIA Ossido di potassio solubile in HCl bollente . °/oo gr. 8,98 Anidride fosforica solubile in HC1 bollente . ” 0,97 AGO GOA 0 GSS io 0 0 olo oo » 1,07 Nell'anno precedente il terreno era stato coltivato a frumento ed erasi mostrato di uniforme fertilità in tutto il tratto adoperato per le esperienze. Le concimazioni eseguite nelle singole aiuole e la quantità dei prodotti ot- tenuti, risultano dal seguente prospetto: RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. Tal | | | TABELLA I. i 4 CONCIMAZIONE PER ETTARO PRODOTTO PER AIUOLA DI mq. 100 \| 253 i Fusti, cartocci i Cielo Perfosfato Solfato | Nitrato Solfato Calciocia- Tone sonni e tutoli \ minerale potassico | sodico ammonico | namide kg. kg. DE | 1 AS st = => — 55 16,0 35,9 il 2 TE can — — — 47,3 16,5 30,8 | 3 2a sa LE si = 50,2 17,2 83,0 | | 4 200 — — —_ — 59,0 20,5 38,5 | 5) 500 — —_ — — 54,0 21,1 92,9 I 6 1000 — _. — — 63,5 27,6 39,9 TI 200 150 —_ _ —_ 49,4 17,4 32,0 i 200 300 ts — — 54,0 18,7 35,3 Il 9 — 150 — — — 49,0 16.8 32,2 10 — 300 —_ — _ 47,8 16,1 81,7 \ 11 | 200 de 150 Li di 708 | 258 | 450 | 12 200 — 300 — — 88,4 29,4 59,0 | | 13 _ = 150 = —_ 69,8 22,0 47,8 I 14 = — 300 —_ _ 80,0 29,0 51,0 | 15 200 — — 150 — 82,0 27,4 54,6 16 200 —_ — 300 —_ 93,0 34,9 58,7 I 17 2 — —_ 150 —_ 80,0 80,0 50,0 | 18 _ — = 300 Ca 90,4 33,2 57,2 \ 19 | 200 i ad Si 150 64,5 21,0 | 435 I 20 200 — — — 300 79,6 27,0 52,6 21 = — — — 150 60,0 29,9 94,7 22 — — _ — 300 70,9 29,4 41,5 Le analisi dei semi sono state eseguite dall’ egregio dottor Nicolò Gallo, della R. Stazione Enologica di Asti. Per la determinazione degli albuminoidi ha servito il contenuto azoto totale (Kyeldahl) moltiplicato pel fattore 6,25. La cellulosa si è ottenuta attaccando la farina dei semi con acido solforico e glicerina. L'amido si è dosato convertendolo in zucchero mediante riscaldamento a 130° in bottiglia di Lintner, per tre ore, in bagno di paraffina. I risultati ottenuti sono riassunti nella tabella seguente: TABELLA II. PER CENTO DI FARINA UMIDA Numero della CONCIMAZIONE DI CIASCUNA AIUOLA PER Ha i cito equa [Stanze Ab: [ mio | Sol sli. LE O: "__’"""—%} R}È»l}}»1]|... as | 1 | Teste (senza concime) 17,52| 1,10| 9,84|55,00| 1,79 2 idem 17,20| 1,20 | 9,31| 56,00| 1,98 3 idem 17,40| 1,08 | 10,50| 53,00| 2,62 4 | Perfosfato minerale Kg. 200 18,12| 1,22 | 10,88| 59,00| 1,93 5 ” ” » 500 16,12] 1,26) 9,84| 63,00) 1,80 6 ” ” » 1000 17,82 1,08 9,62 64,75 2,45 17 Solfato potassico » 150-+ perfosf. 200 19,44| 0,98 | 10,93 | 59,9 1,93 8 » ” » 300 perfosf. 200 | 18,14| 1,12 10,38 | 63,00| 2,66 9 ” ” » 150 18,64| 0,90 | 10,06] 61,25| 3,06 10 ” ” » 300 19,32) 0,82 | 10,93| 62,25| 3,02 11 | Nitrato sodico n 150+ perfosf. 200 | 19,24| 1,14 | 9,32| 62,00 1,76 12 ” ” » 300+ perfosf. 200 | 18,00) 1,08 | 10,28 | 54,5 2,18 13 ” ” n 150 18,60 | 0,98 | 10,16 | 53,9 2,33 14 ” » » 300 18,82| 0,92 | 10,61| 53,8 2,42 15 Solfato ammonico » 150-+ perfosf. 200 18,76| 0,84 | 10,06| 53,50| 2,72 16 b) È) ” 300 + perfosf. 200 19,00| 1,16 | 11,69 55,00| 3,10 17 ” ” » 150 17,66) 0,88 | 12,31| 56,00| 2,72 18 ” ” » 300 18,24| 0,86 | 11,25| 61,00| 2,06 19 Calciocianamide » 1504 perfosf. 200 18,02| 1,24 | 10,17| 55,00| 3,00 20 ” » 300+ perfosf. 200 | 18,70| 0,96 | 10,93 5502/05 21 » » 150 18,38! 0,86 | 10,38| 57,00| 3,00 22 ” » 300 18,64| 0,92 | 10,38| 56,25| 2,19 —_______—_——__—____-=---=====-f=«==-«=“«“««&«=“=“"“““““““f‘e== DRZTO PER CENTO DI SOSTANZA SECCA della CONCIMAZIONE DI CIASCUNA AIUOLA PER ETTARO suol Seo ea Pa 1 | Teste (senza concime) 1,382 | 11,91| 66,66| 2,16 2 idem 1,44 | 11,24| 67,65| 2,49 3 idem 1,30 | 12,70| 62,90) 3,17 | 4 | Perfosfato minerale Kg. 200 1,48 | 12,66 | 72,04] 2,35. 5 | ” ) » 500 1,50 | 11,78| 74,86] 2,14 6 ” ) » 1000 1,31 | 11,71 | 78,79) 2,98 7 | Solfato potassico » 150+- perfosf. miner. 200 1,09 18,55 | 73,84 | 2,38 8 ” ) » 300+ perfosf. miner. 200 1,36 12,60 76,90 | 3,24 9 » ) » 150 JO: 12:23] 75723) Mob 10 E) ) mn. 300 1,01 | 13,54| 77,15| 3,74 TO: | Nitrato sodico » 1504 perfosf. miner. 200 1,40 | 11,54| 76,76) 2,05 | ” ” » 300-+ perfosf. miner. 200 | 1,81 12,58 | 66,46 | 2,67 Ra ) n 150 1,19 | 1249| 65,73| 286 del bo (Ab » 300 1,12 | 13,07| 65,65| 2,98 15 Solfato ammonico » 150+ perfosf. miner. 200 1,34 | 12,90) 65,86) 3,36 16 » ) » 300-+ perfosf. miner. 200 1,43 | 14,43| 67,90| 3,81 17 ” ” » 150 1,06 | 13,73 | 68,02 | 3,30 18. | ) 7) »n 300 1,52 | 13,73 76,61) 2,53 19 | Calciocianamide » 150-+ perfosf. miner. 200 | 1,51 | 12,31| 68,43| 3,82 20 » » 300+- perfosf. miner. 200 | 1,17 | 13,45 | 68,00| 2,52 21 ” n. 150 1,05 | 12,72 69,59| 3,67 22 ” » 300 1,13 | 12,76) 69,15| 2,67 ME TABELLA TIOL Ln 7 FI La concimazione fosfatica e quella potassica hanno fatto aumentare sempre la percentuale di amido. Gli albuminoidi non presentano grandi variazioni: essi non sono aumen- tati in seguito alla somministrazione dei sali azotati, eccezione fatta pel solfato ammonico. Le differenze provocate dalla concimazione, nel contenuto in sostanze grasse, sono di piccola entità, e, ad ogni modo, non sono costanti per nessun singolo concime. La cellulosa presenta qualche sensibile variazione: essa è quasi sempre aumentata per effetto di qualsiasi somministrazione di concime. | Dato il non forte, sebbene costante, aumento della umidità nei semiì prodotti dalle piante comunque concimate, i fatti accennati appaiono di importanza un poco minore se si considerano le cifre della tabella III Le concimazioni da noi eseguite, sono simili a quelle che nella pratica si adoperano. Si potrebbe osservare soltanto che, ordinariamente, il granturco, nella sua qualità di pianta da rinnovo, riceve una certa quantità di stallatico oppure vien coltivato dopo un sovescio. Trattandosi di determinare la influenza che è capace di esercitare un dato concime, è necessario evitare qualunque causa di variazione estranea allo scopo che l’esperienza si prefigge, e, perciò, quantunque non si tratti di ricerche di Laboratorio, devesi adottare qualche espediente, il quale mentre assicuri la esattezza della prova, non diminuisca il valore pratico dei risultati. Sono questi i principî che ci hanno guidato nello stabilire le concima- zioni e che ci hanno fatto scartare qualsiasi sostanza di complessa compo- sizione capace di arricchire molto, direttamente 0 indirettamente, il terreno di gran copia di materiali facilmente assimilabili dalla pianta. Complessi- vamente i risultati da noi ottenuti, sono tali da convincere che la compo- sizione immediata dei semi di granturco varii molto a seconda della concima- zione. Ma debbonsi tener presenti separatamente l'uno e l'altro dei due prin- cipali usi di tali semi. Se, per ciò che riguarda l'alimentazione, le varia- zioni da noi accertate, non possono considerarsi se non di scarsa impor- tanza, lo stesso non può dirsi quando il medesimo cereale si consideri come materia prima della produzione dell'alcool: è facile comprendere che, ferme tutte le altre condizioni, una percentuale di amido, anche di poco superiore alla normale, possa avere una notevole influenza sul rendimento dell’ industria. Riguardo poi agli altri componenti immediati, facciamo notare che, siccome qui si tratta di un prodotto che va sottoposto a fermentazione, anche l'e- same di essi acquista importanza. Le numerose ricerche eseguite specialmente in Germania e in Austria, intorno alla influenza delle concimazioni sul con- tenuto in albuminoidi, in sostanze grasse, ecc., dell'orzo destinato alla fab- 90) e . bricazione della birra, sono giustificate appunto dal fatto che ognuna di I tali sostanze, spiega una influenza considerevole sull'andamento di quelle I fermentazioni. La necessità nella quale si trova l'agricoltura di molti luoghi d'Italia, di non abbandonare il granturco come pianta da rinnovo, e, d'altra parte, le misure profilattiche contro la pellagra che tendono a far diminuire o anche a far scartare il mais nella alimentazione dell’uomo, contribuiscono certamente a fare aumentare l’uso di questo cereale nella distillazione. Rua ritenersi dunque opportuno che altri molti studî si compiano, onde stabi- lire, come si è già fatto per l'orzo, le condizioni di ricchezza del terreno in uno o nell'altro degli elementi utili alla pianta, le quali possano con- durre, nello stesso tempo che ad alti prodotti, ad avere una materia prima quanto meglio è possibile adatta alle fermentazioni alle quali deve venire assoggettata nell'industria dell'alcool. Concludendo, risulta dalle nostre ricerche, che la composizione imme- diata dei semi di mais, varia col variare della concimazione somministrata alla pianta che li produce. La entità di tali variazioni, se può ritenersi di piccola importanza per quanto riguarda l'alimentazione, presenta invece notevole interesse dal punto di vista dell'impiego dei semi di granturco nella fabbricazione dell'alcool. Le concimazioni fosfatiche e quelle potassiche, sembrano ottimi coeffi- cienti di un sensibile aumento del contenuto in amido dei detti semi. Le sostanze grasse, quelle azotate e la cellulosa, risentono una minore influenza che l’amido, dalla concimazione; data, però, la importanza che, anche una loro poco differente proporzione, potrebbe avere sull'andamento delle fermentazioni, meritano ogni considerazione e sarà opportuno formino oggetto di ulteriori studî (!). (?) Porgo vivi ringraziamenti al chiarissimo prof. Federico Martinotti, Direttore della R. Stazione Enologica di Asti, per aver voluto metterci a disposizione il Laboratorio chimico, per la esecuzione delle analisi. Zoologia. — Contributo alla fisio-patologia del Mal di Mon- tagna. Nota del dott. ALserto AgcazzottI, presentata dal Socio A. Mosso. Gli animali di diversa specie o razza sottoposti alla forte rarefazione dell’aria si mostrano di una sensibilità molto varia e reagiscono anche con differenti sintomi di malessere. Nelle esperienze che descriverò, mi sono proposto di studiare la causa di questo diverso modo di reagire degli ani- mali nell'aria rarefatta. Non mi sono occupato delle differenze individuali, cioè di quelle che si osservano fra gli individui di una medesima razza, ma delle differenze costanti e più grandi che si hanno fra gli individui di specie o razza differente. Fra le diverse specie di animali, queste differenze di resistenza sono molto forti e da molto tempo conosciute. Tutti sanno che una rana, per esempio, messa sotto la campana pneumatica sopporta, senza dare alcun sintomo di malessere, una pressione inferiore ai 100 mm. di mercurio; un colombo in- vece ha movimenti oscillatorî del capo, andatura incerta e vacillante, vomito ad una pressione di circa 350 mm. Fra i mammiferi, i primi sintomi del mal di montagna si manifestano nel coniglio ad una pressione di circa 200 mm., nel cane a 250 mm., nel gatto a 270 mm. Le scimmie sono ancora più sensibili all'aria rarefatta, tanto che a 300 mm. di pressione sono prese dalla sonnolenza più o meno profonda: lo stesso sintomo compare poi nell'uomo alla pressione ancora alta di 350 mm. circa. Differenze di resistenza si osservano anche negli animali di ugual specie‘ ma di razza diversa: queste differenze sono evidenti e costanti, e non sono state ancora descritte. Nei colombi esistono molte razze ben caratterizzate, ciascuna delle quali ha una speciale resistenza alla rarefazione dell'aria. Osservando a che pres- sione si manifestano in questi animali i movimenti oscillatorî del capo, il vacillamento del corpo, durante una graduale e progressiva rarefazione del- l’aria, si vede che nella razza più sensibile i primi sintomi di malessere si hanno in media a 394 mm. di pressione, mentre nella razza meno sensibile si hanno a 276 mm. circa (!). Classificando le razze di piccioni secondo la loro resistenza si ha (()E 1°. Razza Sassetta (o colombo Torraiuolo) primi sintomi a mm. 276 2°. » Belga (o colombo viaggiatore) » 7 i) 318 3°, » Modenese (o razza triganina) . »” ” ” 349 (1) Su queste esperienze coi colombi feci già una breve comunicazione al V Con- gresso dei Fisiologi, tenuto in Torino nel 1901. ME) 4°. n Pavoncella . ... . . . . primi sintomi a mm. 376 LOR Gazzi inglesi RA ” ” 380 60° 0a Reggianina Xe OA ” ” 394 Da ciò si vede che nelle razze che più si scostano dal tipo primitivo della Columba Livia e che hanno subito un lungo periodo di selezione per arrivare ad un tipo esteticamente più perfetto, nelle forme del corpo e nel colore delle penne, in esse minore è la resistenza all'aria rarefatta. La razza Sassetta, che più si avvicina pei suoi caratteri alla Columba Zivia e che vive ancora in uno stato quasi selvatico, è risultata la più forte. La selezione artificiale agirebbe adunque piuttosto sfavorevolmente sopra la resistenza delle razze alle cause debilitanti dell'aria rarefatta. Si può a priori escludere che le razze più resistenti abbiano subìto un adattamento durante la loro evoluzione. Fra i piccioni, per esempio, la razza Belga, che per le sue qualità istintive si è guadagnata il nome di piccione viaggiatore, è quella che spontaneamente vola ad altezze maggiori e può con facilità valicare montagne assai alte: essa avrebbe dovuto mostrarsi la razza più forte, mentre essa è molto inferiore alla razza Sassetta. Anche negli altri uccelli succede lo stesso fatto: P. Bert ha veduto che gli uccelli rapaci, che rag- giungono volando altezze atmosferiche straordinarie, sono ugualmente sensi- bili alla depressione delle passere. Fra le diverse razze di scimmie la sensibilità all'aria rarefatta è forse ancora più evidente: in un Orang-utan che da parecchi anni vive nell'Istituto di Fisiologia di Torino, ho trovato che i primi sintomi di malessere sì hanno in media ad una pressione di 300 mm., mentre in una scimmia Macacus sint- cus gli stessi sintomi di malessere si hanno ad una pressione di 250 mm. Tanto negli animali di diversa specie come in quelli di varia razza, noi vediamo che v'è una relazione fra resistenza dell'animale all'aria rarefatta e grado di evoluzione. Quanto più gli animali sono evoluti, tanto più dimi- nuisce in loro la resistenza per l’aria rarefatta. Anche nelle malattie in ge- nere noi vediamo che gli animali non sono ugualmente resistenti, ma non troviamo un rapporto fra grado evolutivo e resistenza alla malattie. Esistono certe malattie alle quali vanno soggetti solo gli individui di una data specie o razza, oppure malattie che colpiscono prevalentemente gli animali inferiori, lasciando immuni le classi superiori. Nelle malattie hanno grande importanza l'età, il sesso, lo stato di nu- trizione ecc. ecc., mentre ciò non ha un'azione molto evidente sulla resistenza degli animali all'aria rarefatta. Un colombo, per esempio, presenta i primi sintomi del mal di montagna al medesimo grado di rarefazione tanto se ben nutrito, quanto se tenuto a digiuno per molti giorni e ridotto in uno stato di profonda magrezza. Prendiamo ora in esame le condizioni che modificano la resistenza e la O] sensibilità di un animale alla rarefazione dell'aria per vedere se esse ci pos- sono spiegare l’inftuenza della specie e della razza. Le alterazioni della circolazione sanguigna hanno una influenza sulla resistenza alla rarefazione dell’aria, e ciò è naturale e prevedibile. La forte rarefazione è causa dell’acapnia e dell’anossiemia, e questa sarà più forte se le condizioni della circolazione del sangue sono tali da non permettere di utilizzare il più possibile l'ossigeno atmosferico reso deficiente dalla rarefa- zione. Negli animali anemizzati, i sintomi di malessere compaiono ad una ra- refazione minore che negli animali normali, come si vede nella seguente esperienza: 20 novembre 1906: Ore 15,47. Una scimmia Macacus sinicus viene messa sotto alla campana pneumatica, ma non si incomincia subito la rarefazione perchè è agitata. » 16.05. Si incomincia la rarefazione : la pressione diminuisce lentamente, la scimmia fa 45-52 atti respiratorî al minuto. » 16,14. Pressione 617 mm.: il respiro è 52. » 16,26. Pressione 357mm.: socchiude gli occhi, il respiro è ancora nor- male (52 al minuto). » 16,29. Pressione 297 mm.: sta bene, si muove, giuoca colla campana e fa smorfie a noi che stiamo osservandola. » 16,32. Pressione 257 mm.: il respiro è più frequente e più superficiale; fa 76 atti respiratorî al minuto. » 16,34. Pressione 237 mm.: perde le forze e si regge appoggiandosi alle pareti della campana; nel muoversi i movimenti sono incerti, barcolla. » 16,37. Pressione 217 mm.: cade addormentata e non reagisce quando si percuote contro la campana. » 16,38. Pressione 197 mm.: respiro dispnoico ed irregolare. Si interrompe la rarefazione e si ritorna lentamente alla pressione normale; ogni sintomo di malessere rapidamente scompare. Il giorno dopo alla stessa scimmia vien fatto un salasso dalla carotide di 100 em? di sangue; contemporaneamente per la giugolare si iniettano 100 ce. di liquido di Ringer. Dopo tre ore dal salasso si mette la scimmia nuovamente sotto alla campana. Ore 14,32. Si incomincia la rarefazione: la scimmia è molto tranquilla, fa 32-30 atti respiratorî al minuto. » 1440. Pressione 417 mm.: la scimmia si muove sotto alla campana 6 non è possibile contare il respiro. » 14,43. Pressione 357mm.: sta bene, giuoca col tubo di afflusso dell’aria. RenpicontI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 12 Mi 09 e Ore 14,44. Pressione 337 mm.: diventa un po’ sonnolenta. » 14,46. Pressione 317mm.: perde le forze e si deve appoggiare alla cam- pana; il respiro è più frequente (62 al minuto), più superficiale. » 14,47. Pressione 297 mm.: dorme e non si sveglia percotendo un oggetto contro la campana in modo da fare un rumore. » 14,49. Pressione 277 mm.: dà segni di profondo malessere; nel muoversi barcolla. » 14,51. Pressione 237 mm.: è in uno stato di profondo assopimento; il respiro è molto frequente (76 al minuto). » 14,55. Pressione 197 mm.: il respiro diventa irregolare, dispnoico ; sì interrompe l’esperienza; appena tornata alla pressione nor- male, la scimmia ha convulsioni e dispnea che persiste a lungo. L'evidenza di questa esperienza è tale che non occorre spendere molte parole d’illustrazione. In condizioni normali, le alterazioni nella meccanica respiratoria si fanno evidenti solo alla pressione di 257 mm., e i sintomi di profondo malessere, con movimenti incoordinati e con perdita delle forze, solo alla pressione di 237 mm.; nella scimmia anemizzata tutti questi sintomi compaiono alla pressione di 317 mm. Anche negli animali malati, in cui esiste un certo grado di anemia, si riscontra un evidente diminuzione della resistenza. In una scimmia Papio anubismaschio, che da tre anni viveva nell'Istituto di fisiologia a Torino ed aveva servito a parecchie esperienze sull'azione dell’aria rarefatta, si era sviluppata gradatamente una paresi degli arti posteriori e ultimamente essa non poteva più tenersi sulle gambe e rimaneva tutto il giorno seduta. I muscoli degli arti ammalati erano divenuti contrat- turati e atrofici. La pelle e le mucose erano pallide e lasciavano scorgere anche un certo grado di anemia: infatti all'esame emometrico coll’Emome- tro di Fleischl-Miescher trovai che essa aveva solo il 10.94 °/, di emoglobina, e all'esame col contaglobuli di Thoma-Zeiss si ebbero soltanto 3,416000 di globuli rossi per mme. In questa scimmia la resistenza all'aria rarefatta era molto diminuita. Quando questo Papio era normale, i primi sintomi di malessere — come risulta dalle esperienze fatte su di essa in tempi diversi — si avevano sol- tanto fra una pressione di 270 e 250 mm.; ed i sintomi più gravi dî vomito e perdita delle forze e svenimenti, solo ad una pressione che variava fra 240 e 220 mm. Quando essa era ridotta alle condizioni suddette, i primi sintomi di malessere si manifestavano a 541 mm. di pressione ed il vomito alla pressione di 341 mm. Credo utile riferire per esteso alcune esperienze fatte su questa scimmia durante la sua malattia. 6 novembre 1906: Ore 10,50. Si mette la scimmia sotto alla campana, e dopo 10 minuti, quando un po’ si è tranquillizzata, si incomincia la rarefazione. a 11,00. Si incomincia la rarefazione, la ventilazione dell’aria viene rego- lata in modo che la pressione diminuisce di quattro centi- metri di mercurio al minuto; il respiro è di 80-85 atti al minuto. » 11,05. Pressione 541 mm.: tiene la testa fra le gambe e si lamenta; il respiro è più frequente (90-93 al minuto). » 11,10. Pressione 341 mm.: alza ripetutamente il capo dalle ginocchia per poi lasciarlo ricadere, vomita, il respiro è irregolare (116 al minuto). » 11,12. Pressione 280 mm.: sta molto male, vomita di nuovo, si contorce ed ha profonda dispnea. » 11,13. Pressione 260 mm.: cade, il respiro si arresta, il corpo lentamente si rilascia; la scimmia è moribonda, si arresta subito la rarefazione e appena sì può togliere l’animale dalla campana si pratica la respirazione artificiale, riuscendo a condurre di nuovo in vita la scimmia. In un altra esperienza, in cui non si fece la respirazione artificiale, la scimmia morì ad una pressione di 242 mm., mentre in numerose esperienze fatte l’anno prima essa aveva superato benissimo, senza risentirsene affatto, le pressioni di 200 mm. La poca resistenza di questa scimmia nell'aria rarefatta rimaneva eviden- tissima anche se essa respirava durante la rarefazione una miscela di ossiì- geno ed anidride carbonica, come si vede dalla seguente esperienza: sì prepara- rono 600 litri di una miscela d’aria che conteneva 0.80°/, CO» 15/0, e la si fece ventilare abbondantemente sotto alla campana durante la rare- fazione, in modo da assicurare un perfetto ricambio dell’aria. In questo am- biente artificiale, la resistenza della scimmia naturalmente aumentò tuttavia i primi sintomi si ebbero alla pressione di 250 mm., il vomito alla pressione di 165 mm., e la scimmia dopo una forte convulsione divenne moribonda; l’ar- resto del respiro si ebbe alla pressione di 135 mm. mentre un’altra scimmia di razza Macacus sinicus, non ammalata, con una miscela che conteneva il 67,51°/ di O, e 11,60 °/, di CO, alla pressione di soli 96 mm. di mercurio non presentava alcun sintomo di malessere (1): in condizioni normali queste due razze di scimmie Macacus e Papio hanno la stessa resistenza all'aria rarefatta. (1) A. Aggazzotti, Azione simultanea dell’ O» e CO» nel malessere prodotto dalla rarefazione dell’aria. Rend. R. Accademia Lincei, vol. XIV, pag. 256, 1905. gi È probabile che la estrema sensibilità all'aria rarefatta di questa scimmia ammalata non dipendesse soltanto dall’anemia, che non era poi molto forte, ma anche da altre lesioni del sistema nervoso centrale, i polmoni e il cuore si presentarono all’ autopsia perfettamente normali. | Le condizioni della circolazione sebbene abbiano una grande importanza nel variare la resistenza all'aria rarefatta, certamente non ci possono spiegare le differenze di resistenza osservate fra le diverse razze e specte : non si può ammettere che coll'evoluzione della specie si modificarono il circolo e il sangue in modo da esagerare gli effetti nocivi dell’aria rarefatta. Le condizioni del sistema nervoso centrale, îl suo grado di eccitabilità, devono pure avere un'importanza grandissima nel modificare la resistenza degli ant- mali all'aria rarefatta. 1 primi sintomi che si osservano durante le forti ra- refazioni, i sintomi più evidenti, quelli che danno il quadro tipico del mal di montagna, dipendono da un'alterata funzione del sistema nervoso centrale ; come la sonnolenza, le vertigini, i movimenti incoordinati, le convulsioni ecc. È perciò probabile che la causa della differente resistenza degli animali alle depressioni barometriche debba ricercarsi nelle diverse condizioni del sistema nervoso centrale. Il rapido adattamento e l'acclimatizzazione che si osserva negli animali e nell'uomo sulle alte montagne e sotto alla campana pneumatica sono una prova che gli effetti dannosi delle basse pressioni sì esplicano in massima parte sul sistema nervoso: giustamente Mosso osserva che solo al sistema nervoso, è possibile un così rapido adattamento ('). Sono specialmente questi sintomi di alterata funzione nervosa quelli che si presentano con caratteri diversi e varia intensità nelle specie e razze di animali quando vengono sottoposti all’azione delle forti rarefazioni. Esaminiamo questi sintomi. Nelle rane, fra gli anfibi, non sì osservano sintomi per lesa funzione del sistema nervoso nemmeno nella rarefazione in- feriore a 100 mm. Nei piccioni e negli uccelli in genere i fenomeni di ecci- tabilità hanno il soppravvento sui fenomeni di depressione; il vomito è facile, e non mancano mai le convulsioni, anche se la rarefazione procede lentamente, purchè la pressione arrivi sotto un certo limite. Nei cani noi osserviamo pure dei sintomi di eccitamento, che si palesano all’inizio della rarefazione con un irrequietezza insolita; ma il vomito e le convulsioni sono meno forti e non costanti come nei piccioni. Nei cani sono più evidenti che nei piccioni i fenomeni di depressione nervosa cerebrale, che si palesano con la sonnolenza, i movimenti di incoor- dinazione e di vacillazione del capo; la forza muscolare e tutte le energie vanno scemando gradatamente e ben presto il cane non può più reggersi sulle gambe. (1) A. Mosso, Fisiologia dell’uomo sulle Alpi, pag. 194, edit. Treves. Milano. ioni Nelle scimmie, più che nel cane e molto più che negli uccelli, sono evi- denti i fenomeni di prostrazione: l’aria rarefatta produce subito in esse apatia e sonno, che raramente viene turbato dal vomito; le convulsioni sono rare e l'animale soccombe senza presentare fenomeni di eccitamento. Nell'uomo i fenomeni di malessere incominciano esclusivamente nella sfera psichica con un offuscamento dell’'intelligenza, con un indebolimento della memoria; l’attenzione riesce difficile, quasi impossibile, questo stato di prostrazione e indifferenza nell'uomo è tanto forte, che molti alpinisti colpiti dal mal di montagna si lascerebbero morire di freddo sul ghiacciaio piut- tosto che decidersi di ritornare sui proprî passi. L'uomo muore nell'aria for- temente rarefatta in uno stato di prostrazione comatosa senza alcun sintomo di eccitamento, senza convulsioni. Noi vediamo quindi che i sintomi nervosi di malessere negli animali meno evoluti sono specialmente di eccitamento e riguardano la sfera mi- dollare, mentre negli animali più evoluti e nell'uomo sono specialmente di depressione ed interessano la sfera cerebrale. Una ragione di questo fatto sta probabilmente in ciò, che le diverse parti del sistema nervoso non s'accrescono proporzionalmente nell'evoluzione della specie; più ci avviciniamo all'uomo, più il cervello aumenta e meno il mi- dollo tiene d'importanza e di sviluppo. Contemporaneamente coll’evoluzione della specie s'accresce anche la sensibilità e l'eccitabilità del sistema nervoso centrale. Il primo quesito che dobbiamo studiare è di vedere quale importanza ha la massa e la eccitabilità del cervello anteriore sulla resistenza e sensi- bilità di animali di diversa razza alla rarefazione dell’aria. A questo scopo in un primo gruppo di esperienze ho studiato se la resistenza all’ aria rarefatta veniva modificata quando l’animale era avvelenato coi veleni spe- cifici del sistema nervoso: il Cloralosio, la Morfina, il Cloroformio. Queste sostanze, come è noto, entro certi limiti, esplicano la loro azione sui centri corticali e rispettano le funzioni bulbari e midollari. Ogni animale veniva sottoposto a due esperienze: in una prima si determinava la sua re- sistenza in condizioni normali, in una seconda esperienza, fatta lo stesso giorno o il giorno appresso, sì stabiliva la sua resistenza durante l’avvelena- mento con una delle suddette sostanze. Per lo stato ipnotico in cui si trovavano gli animali durante la seconda esperienza, i sintomi di malessere prodotti dalla rarefazione erano solo rile- vabili dalle modificazioni della meccanica respiratoria. Cloralosio. — Questo veleno venne somministrato agli animali per la via gastrica alla dose di 25-40 cge. per Kg. EsPERIENZA PRIMA. — Un coniglio di Kg. 2,500 è avvelenato con gr. 0,50 di clora- losio: dopo 25 minuti incominciano i movimenti di incoordinazione e 1° ipersecrezione na- sale; dopo 40 minuti si addormenta. L’eccitabilità riflessa è molto esagerata. Sottoposto MOR) alla rarefazione dell’aria, si osserva che la frequenza del respiro rimane normale (26-30 al minuto) fino alla pressione di 264 mm.; poi va rapidamente scemando; e alla pressione di 244 mm. il respiro si arresta e l’animale muore. In condizioni normali, il ritmo respirato- rio andò gradatamente aumentando fino a 136 atti al minuto quando la pressione è di 284mm., e la rarefazione potè essere spinta sino a 240 mm. senza che nell’animale si aves- sero i sintomi più gravi di malessere. ESPERIENZA SECONDA. — Un cane giovane di due mesi che pesa Kg. 4,500, viene addor- mentato con gr. 1,25 di cloralosio. Sottoposto alla rarefazione dell’aria, i centri respira- torî reagiscono come in condizioni normali; il ritmo del respiro, che all’ inizio era di 36 atti al minuto, alla pressione di 165 mm. è di 80. La resistenza del cane perciò non si direbbe modificata. EsPERIENZA TERZA. — Cane adulto di Kg. 7,200, addormentato con gr. 1,25 di clo- ralosio. Nell'aria rarefatta, la frequenza del respiro aumenta ancor più che in condizioni normali: alla pressione di 205 mm. è di 112 atti al minuto, mentre che nell’esperienza col cane normale era di 58 atti. ESPERIENZA QUARTA. — Scimmia Macacus sinicus si addormenta con gr. 0,75 di cloralosio. Sottoposta alla rarefazione dell’aria, sopporta come in condizioni normali la pressione di 222 mm.: la frequenza del respiro aumenta da 18 atti al minuto a 44, mentre allo stato di veglia andò da 21 a 78. Morfina. — Agli animali venne somministrato il Cloridrato di Morfina, in soluzione al 5°/ per iniezioni sottocutanee, in dose sufficiente per avere abolita completamente la funzione dei centri psichici. EspERIENZA QUINTA. — Ad un cane di Kg. 7 si iniettano sotto cute 10 cgr. di clo- ridrato di morfina:in mezz'ora il cane dorme; messv sotto alla campana, sopporta bene la rarefazione fino a 202 mm.; il ritmo respiratorio aumenta da 25 a 52 atti respiratorî al minuto, senza divenire molto dispnoico. Nel cane sveglio la reazione del respiro nel ritmo fu quasi la stessa: solo nella forte rarefazione era molto dispnoico. ESPERIENZA SESTA. — Ad una scimmia Macacus sinicus si iniettano a più riprese 10 cgr. di cloridrato di morfina sotto cute. Non si addormenta, solo diventa molto inton- tita e si lascia pungere senza reagire. Sottoposta alla rarefazione dell’aria, essa si addor- menta; non si ha un aumento degli atti respiratorî, anzi una diminuzione; alla pressione di 585 mm. fa due inspirazioni al minuto, poi il respiro si arresta; ritornati subito alla pressione normale, il respiro a poco a poco si riprende. Sottoposta a una seconda rarefa- zione dell’aria, l’arresto del respiro si ha alla pressione di 425 mm.; dopo che alla pres- sione normale si è ripreso, si fa una terza esperienza: l’arresto del respiro si ha alla pressione di 305 mm.; anche questa volta l’ animale può essere salvato ritornando subito alla pressione eil Cloroformio. — EspERIENZA SETTIMA. — Si addormenta un cane con una miscela di etere e cloroformio, indi lo si sottopone alla rarefazione: la frequenza del respiro cresce da 34a 70, poi rapidamente diminuisce e alla pressione di 262 mm. il cane cessa di respi- rare ; ritornati subito alla pressione normale, non si riesce a ricondurlo in vita. Da queste esperienze si vede che negli animali addormentati coi veleni suddetti, sebbene la funzione dei centri nervosi cerebrali fosse più o meno lesa, non si ha una evidente e costante diminuzione di resistenza all'aria rarefatta. Bisogna però osservare che nell’animale addormentato è difficile giudicare dell’azione dell'aria rarefatta, mancando la maggior parte dei sin- SIL Oa tomi: come i diversi atteggiamenti dell'animale, la perdita delle forze, gli svenimenti ecc. Inoltre esiste una grande differenza nell'azione di questi veleni sui diversi animali, e, benchè si cercasse di somministrare loro la minima dose ipnotica, pure non è escluso che anche a questa dose venissero interessati anche i centri bulbari e midollari: ciò che ci può spiegare come in alcuni casi la rarefazione provocasse un aumento degli atti respiratorii più forte che negli animali normali (Esperienza terza); come in altri casi la reazione del respiro fosse più debole del normale (Esperienza quarta e settima); e come talora anche avvenisse un arresto del respiro (Esperienza prima e sesta). In una seconda serie di esperienze ho studiato se la resistenza degli animali alla rarefazione dell’aria si modificava asportando direttamente gli emisferi cerebrali. In queste esperienze, a differenza delle altre, sì potevano meglio osservare i sintomi prodotti dalla rarefazione, non essendo l’animale addormentato. Le ricerche vennero fatte sopra dei colombi che, come è noto, si possono facilmente scerebrare. L'animale operato veniva nutrito artificial mente fino a che la ferita fosse guarita, poi veniva sottoposto all'aria rare- fatta. In dieci esperienze che ho fatto su piccioni di varia razza, i risultati furono sempre negativi: non si ebbe mai una modificazione della resistenza ; il vomito, le convulsioni avvenivano esattamente alla stessa depressione che in condizioni normali. Per meglio sorprendere le piccole differenze, ho fatto anche ricerche mettendo contemporaneamente sotto alla campana due colombi della stessa razza l’uno operato, l’altro normale; ma, giunta la rarefazione ad un certo limite, si vedevano i due colombi cadere in convulsioni, poi morire quasi con- temporaneamente. Perciò possiamo concludere che : Le lesioni del cervello anteriore prodotte sia coll’ablazione degli emi- sferi cerebrali, sia coll’avvelenamento coù narcotici non modificano la 1e- sistenza degli animali alla rarefazione dell’aria e non fanno scomparire le differenze di resistenza che esistono fra le diverse specie e razze. Tuttavia, poichè, come abbiamo veduto, le cause di questa diversa resì- stenza risiedono probabilmente nelle modificate condizioni del sistema ner- voso, noi dobbiamo rivolgere le nostre ricerche ad altre parti del sistema nervoso oltre il cervello anteriore e specialmente il cervelletto. Ciò sarà l'argomento di una prossima Nota. og. ELEZIONI DI SOCI Colle norme stabilite dallo Statuto e dal Regolamento, si procedette alle elezioni di Soci e Corrispondenti dell’Accademia. Le elezioni diedero i risultati seguenti per la Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali : Furono eletti Soci nazionali: Nella Categoria I, per la Meccanica: SomiGLIANA CARLO. Nella Categoria III, per la Geologia e Paleontologia: PARONA CARLO FABRIZIO. Nella Categoria IV, per la Patologia: MARCHIAFAVA ETTORE. Furono eletti Corrispondenti : Nella Categoria II, per la Fisica: CARDANI PIETRO; per la Cristal lografia e Mineralogia: ARTINI ETTORE. Nella Categoria IV, per l’Agronomia: BAccARINI PASQUALE e SIL- VESTRI FILIPPO. Furono eletti Soci stranieri: Nella Categoria I, per la Meccanica: LsAPUNOW ALESSANDRO; per l Astronomia; DesLanpres EnRIco e SeeLIGER Uco; per la. Geografia matematica e fisica: STERNECK RoBERTO. Nella Categoria II, per la Fisica: Crooges WiLLIAM; per la Cri stallografia e Mineralogia; Lacro1x ALFREDO. Nella Categoria III, per la Geologia e Paleontologia: Heim ALBERTO. E. M. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1% — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2° MEMORIE della Classe di science fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Voi VW VIESVITE Serie 3* — TRANSUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — II. (1, 2). — HII-XIX. Memorie della Classe di scienze. morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — ReNnpICONTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fasc. 2°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fase. 12°. MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-16°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fase. 7°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte ai mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. 19; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : | Ermanno Loescner & C.° — Roma, Torino e Firenze. Utrico Hoepri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Luglio 1908. INDICE Classe di scienze fisfche, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 19 luglio 1908. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTA'E DA SOCI Nasini. Sull’origine dell'acido borico nei soffioni della Toscana. RE Pag. Id. e Levi Sopra l’ozonizzazione dell’aria per azione dei sali e dell'emanazione di radio . Bottazzi, Buglia e Jappelli. Ricerche chimigo-fisiche sui liquidi degli animali. - IMI. Varia- zioni della conduttività elettrica, viscosità e tensione superficiale del siero del sangue durante da dialisi, 0 RR N Alessandri. La radiazione solare al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla Capanna-Osser- vatorio Regina Margherita negli anni 1905-1906 (pres. dal Socio Volterra) . . . + ? Pelacani. Studio chimico delle zeoliti di Montresta (Sardegna) (pres. dal Socio Strdver). » Pellour. Contributi alla mineralogia della Sardegna (pres. /d.). . /. 0-0 a #08 Morelli. Saponificazione dei grassi per mezzo dell'idrossilamina (pres. dal Corrisp. Axgeli) » Pellini e Pedrina. Selenio e iodio (pres. dal Socio Ciamician). . + e 192 COIN Nazari. Influenza di alcune concimazioni sulla composizione immediata dei semi di gran- turco (pres. dal Socio Cuboni) . AB o a Aggazzotti. Contributo alla fisio-patologia del Mal di Montagna (pres. dal Socio Mosso) . » ELEZIONI DI SOCI Risultato delle elezioni nella Classe di scionze fisiche. matematiche e naturali. Nomina dei signori: Somigliana Carlo, Parona Carlo Fabrizio e Marchiafava Ettore a Soci nar zionali; Cardani Pietro, Artini Ettore, Baccarini Pasquale e Silvestri Filippo a Corri- spondenti; L/japunow Alessandro, Deslandres Enrico, Seeliger Ugo, Sterneck Roberto, Crookes William, Lacroix Alfredo e Heim Alberto a Soci stranieri . . . . . . ” ds K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. EE STI EE RR E Pubbiicazione bimensile. Roma 2 agosto 1908. N. 3. ug DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI ANNO CCCVv. 1908 Seui) QUObENEID:A: RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XVII. — Fascicolo 3° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all’Accademia sino al 2 agosto 1908. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1908 | PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Sere quenta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze tisiche, matematiche e naturali valgono lenorme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, . due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da ! Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 - | agli estranei: qualora l’autore ne desideri ‘un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. fi 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso i parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi | Isono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi-’ cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei ' Volumi accademici se provengono da Soci o. da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- . missione la quale esamina il lavoro e ne rife- | risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- | guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 5) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti | contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- | cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. i 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte | che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli an- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se ‘estranei. La spesa di un numero di copie in più || che fossa richiesto. è marsa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 2 agosto 1908. Zoologia. — Ulteriori ricerche sulla fillossera gallicola della vite (Dalla fine di maggio alla metà di luglio 1908). Nota del Socio B. Grassi e del dott. R. GRANDORI. Le precedenti ricerche si estendevano fino alla fine di maggio; troviamo opportuno di qui riferire quanto abbiamo in seguito verificato. IR Riassumiamo in questa prima parte le ricerche che il dott. Grandori ha continvato sui caratteri e sui costumi delle ultime neogallicole della terza generazione (uscenti dalle seconde galle), e sulla quarta e quinta ge- nerazione. Le prime neogallicole della quarta e quinta generazione somigliano per- fettamente alle prime delle due generazioni precedenti; presentano le stesse piccole variazioni per i peli dell'antenna come per quelle si è già accennato. Aggiungasi che tanto queste tipiche gallicole della quarta e quinta genera- zione, quanto quelle della seconda e terza presentano l'antenna alquanto più lunga e meno esile di quella della neonata dall’uovo d'inverno. La lun- ghezza del rostro è di circa 123 w nelle prime neogallicole con carattere di gallicola della quarta e quinta generazione, mentre nelle tardive neonate dello stesso tipo oscilla intorno a 146 circa. Nella Nota precedente si era accennato alla produzione di neogallicole con caratteri intermedî fra gallicoli e radicicoli verso la fine della seconda e terza generazione; ora è opportuno precisare in che cosa consistano questi caratteri intermedì. RenpIcONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 13 — 100 — a) Antenna. — Già in altra Nota fu stabilito che nella neogallicola con carattere di tipica gallicola il grosso pelo laterale al disotto del castone olfattivo è sempre inserito almeno una piega al disotto di questo, mentre nella necgallicola con carattere di tipica radicicola lo stesso pelo è sempre inserito sull'orlo del castone stesso come nelle neoradicicole. Tra queste due posizioni vi sono però posizioni intermedie, proprie delle forme di cui par- liamo. Inoltre questo pelo, che è lungo circa il doppio e molto più robusto nella neogallicola con caratteri di radicicola, mentre nella neogallicola con caratteri di gallicola è molto più breve ed esile, e presenta nelle forme inter- medie lunghezza e grossezza intermedie. Trovansi anche forme nelle quali questo pelo si direbbe di tipica radicicola per la sua lunghezza, ma esso è inserito una o due pieghe al disotto del castone come nelle tipiche gallicole. Anche queste forme debbono interpretarsi come intermedie, tanto più che vi si aggiunge il carattere intermedio della larghezza dell'antenna, che non si presenta nè così esile come nelle tipiche gallicole, nè così larga come nelle tipiche radicicole. Quest'ultimo carattere è comune a tutte le forme intermedie in generale, come pure quello delle dimensioni intermedie varia- bilissime del castone olfattivo, il cui taglio a becco di flauto è sempre nelle forme intermedie meno accentuato che nelle neogallicole con caratteri di tipica radicicola. b) Zampe. — Le tre paia di peli pari distali del tarso, lunghissimi nelle neogallicole con caratteri di gallicola tipica, e ridotti a metà circa alcuni, altri a circa due terzi in quelle con caratteri di radicicola, presentano lunghezze intermedie nelle forme di cui parliamo. In alcuni casi sì verifica che l’uno dei peli pari BB' del tarso (*) resta lunghissimo, cioè conservasi di tipo gallicolo, l’altro s'accorcia della metà, diventando di tipo radicicolo. Questi individui s'incontrano però assai raramente. I sei peli distali della tibia sono meno variabili: in generale sì può dire che nelle forme intermedie più somiglianti al tipo gallicolo essi si conservano esili e lunghi quasi come nelle tipiche gallicole, mentre nelle forme intermedie più somiglianti al tipo radicicolo essi si presentano quasi o del tutto uguali a quelli delle tipiche radicicole. c) Rostro. — In queste forme intermedie oscilla fra 135 e 146 w circa. Questi caratteri, qui sommariamente accennati, delle forme intermedie si riferiscono ad esse, a qualunque generazione appartengano, dalla seconda alla quinta. Per definire con esattezza il carattere di tipica antenna di radicicola, può adottarsi il criterio del rapporto fra la lunghezza della parte distale e quella della parte prossimale del terzo articolo. Considerando come linea divisoria fra queste due parti la linea trasversale che passa per il punto (1) Adottiamo sempre la nomenclatura di Cornu. — 101 — più prossimale dell’orlo esterno del castone olfattivo, si verifica costante- mente che tutti i caratteri dell’antenna, delle zampe e del rostro sono di tipica radicicola quando la lunghezza della parte distale del terzo articolo (dalla linea suddetta all'apice dell'antenna, esclusi i peli) supera la lun- ghezza della parte prossimale (dalla detta linea alla base del terzo articolo); e che detti caratteri di radicicola (specialmente il profondo taglio del castone a becco di flauto e la brevità dei peli distali del tarso) sono tanto più ac- centuati quanto più la lunghezza della parte distale supera quella della prossimale. In queste tipiche forme di neogallicole con caratteri di radici- cole la lunghezza del rostro oscilla fra 146 e 160 w circa, salvo casi raris- simi in cui può raggiungere un minimo di 140 w e un massimo di 165 w circa. E riunendo insieme tutto quanto si è osservato da noi sulla lungh.zza del rostro delle neonate, risulta che come il rostro della neogallicola con caratteri di gallicola tipica non raggiunge mai il massimo della neoradici- cola, così il rostro di quest'ultima e della neogallicola con caratteri di ra- dicicola non raggiunge mai il minimo della neogallicola con caratteri di gallicola. Nelle neogallicole con caratteri di radicicola riscontrasi alla testa — se la preparazione è opportunamente fatta — un evidente inizio dei tuber- coli caratteristici delle radicicole, come pure riscontrasi evidente nelle neo- radicicole. Queste ultime, prima della muta, arrivano a presentare tutti i tubercoli dorsali caratteristici; probabilmente avviene lo stesso anche nelle prime, dopo che sono discese alle radici e s'avvicinano alla muta. Al con- trario non riscontrasi traccia dei tubercoli nelle neogallicole con caratteri di gallicola. È facile accertare negli individui discesi dalle galle sulle radici, do- pochè vi hanno compiuta la prima muta, tutti i tubercoli dorsali, in modo che non sono distinguibili dai comuni individui della serie radicicola. Sulla struttura dei tubercoli dorsali, come pure sulle caratteristiche sculture della cuticola del dorso delle neonate e degli stadî ulteriori, ritorneremo nel lavoro in esteso. A completare quanto fu detto nelle precedenti Note a proposito della proporzione fra neogallicole con caratteri gallicoli, radicicoli e intermedî, che nascono da una stessa madre gallicola, debbonsi tenere presenti le se- guenti osservazioni. Come si legge nella precedente Nota, dall’uovo d'inverno escono soltanto neonate con caratteri di gallicola. Dalle uova delle madri gallicole escono invece tanto neonate con caratteri di gallicole, quanto neo- nate con caratteri di radicicole. Si può dire che nessuna madre gallicola è capace di produrre uova d'una sola sorta (V. più avanti un’apparente ec- cezione per le viti europee). Nella seconda generazione (uscente dalle prime galle) si producono quasi totalmente neonate con caratteri di gallicole su tutti i vitigni; solo un mi- — 102 — nimo numero di uova (le ultime deposte) dànno neonate con caratteri di radicicole. | Nella terza generazione (uscente dalle seconde galle) si producono a grande maggioranza neonate con caratteri di gallicole e soltanto negli ultimi giorni neonate con caratteri di radicicole, la cui quantità totale prodotta da ogni madre è sempre superiore a quella prodotta nella generazione prece- | dente. Questo numero totale di neonate con caratteri di radicicole varia però i col variare dei vitigni nella terza generazione: per es. sulle /parze in generale, e specialmente sulla Riparia gloire di Montpellier, la percentuale di neogallicole con caratteri di radicicole può raggiungere circa '/s3 del nu- mero totale dei giovani uscenti da una galla, mentre sull'Aramon Aupe- stris Ganzin N. 1 il numero delle neogallicole con caratteri di radicicole | prodotte è senza confronto minore. Si trovano poi gradazioni intermedie di I questi rapporti in altri vitigni. Da questa terza generazione in poi abbiamo accertato con sicurezza che allorquando in una galla è incominciata la produzione di neogallicole con caratteri di radicicole, non s'arresta la produzione di neogallicole con caratteri di gallicole, ma seguono a nascere individui delle due forme e forme intermedie ogni giorno, promiscuamente. Soltanto negli ultimi giorni si producono in qualche vitigno (Riparia gloire di Montpellier) esclusiva- mente neogallicole con caratteri di radicicole. Nella quarta generazione la produzione di neogallicole con caratteri di radicicole — oltre ad essere molto più abbondante e a presentare percen- tuali variabilissime — può incominciare in qualche vitigno fin dal primo giorno (Riparia Martineau, Riparia gloire di Montpellier), e in generale incomincia più presto che nella generazione precedente; la madre gallicola nipote della fondatrice può perciò deporre fin dal primo giorno — a differenza della madre uscita dall’uovo d'inverno e delle sue figlie — uova che da- ranno origine a neonate con caratteri di radicicole, sempre miste però a quelle che daranno neonate con caratteri di gallicole e forme intermedie. In generale si può dire che in questa generazione sì producono a gran mag- gioranza neogallicole con caratteri di radicicole, eccezione fatta però per qualche vitigno, come l'Aramon X Rupestris Ganzin N. 1 che produce an- cora a grande maggioranza neogallicole con caratteri di gallicole tipiche, ma soltanto in certe località. Così, come dobbiamo dire che col variare del vi- tigno varia la percentuale delle diverse forme prodotte, dobbiamo anche ritenere che influiscano su di essa fattori ignoti che la fanno variare su uno | stesso vitigno in diverse condizioni (*). Non entriamo in ulteriori particolari riflettenti i varî vitigni riservandoli al lavoro esteso. (1) Fu appunto l’osservazione di questa esclusiva produzione di neogallicole con I caratteri di gallicole sull’Aramon Rupestris Ganzin N. 1 per molti giorni che l’anno scorso ci indusse a credere che su questo e qualche altro vitigno la produzione di neo- gallicole con caratteri di radicicole si verificasse soltanto a stagione più avanzata. Lg — Nella quinta generazione — da cui cominciarono le osservazioni meto- diche dell’anno scorso — il comportamento delle varie forme è press'a poco come nella quarta; ma le osservazioni non sono ancora complete. Per quanto riguarda la produzione delle forme con caratteri intermedî, deve notarsi che nella seconda generazione il loro numero è estremamente limitato, nella terza ancora assai limitato, ma un po’ superiore a quello della precedente; nella quarta generazione queste forme sono un po’ meno scarse, ma soltanto su qualche vitigno: per esempio, le terze galle di £7- paria Martineau ne producono fin dal primo giorno un buon numero, mentre altri vitigni ne presentano anche nei giorni successivi un numero assai più piccolo. Osservando giorno per giorno una galla che contiene le uova di una sola madre, si verifica che il numero delle neonate che si schiudono in un giorno dalle uova di una sola madre è variabilissimo, potendo oscillare da 12 a 111 nelle ventiquattro ore. È stato generalmente ammesso che il numero totale di uova deposto da una madre gallicola vada diminuendo col succedersi delle generazioni. Noi possiamo soltanto dire che il calcolare questo numero presenta grandis- sime difficoltà; nessuna galla infatti può mai contenere tutte le uova che una madre è capace di deporre, perchè, non richiedendo le uova delle gal- licole che un periodo di otto giorni al massimo por schiudere (fondatrice), ne consegue che un gran numero di uova sono già schiuse quando ancora la madre seguita a ovificare e seguiterà per molti giorni. Aggiungasi che il periodo necessario alla schiusa delle uova diminuisce col succedersi delle generazioni primaverili ed estive: l'uovo deposto dalla pronipote della fonda- trice richiede un periodo minore di cinque giorni per schiudere. Coll'avanzarsi della stagione sì è verificato nel R. Vivaio di Palermo che l'infezione gallicola — laddove essa esiste — è diventata fierissima, ciascuna pianta attaccata porta migliaia e migliaia di galle, onde la produ- zione di neonate destinate a fondarne delle nuove raggiunge delle cifre enormi. Queste neonate, anzichè fondare galle nuove, possono invadere quelle già esi- stenti che incontrano sul loro cammino. Questo fatto, combinato col rimanere alcune neonate entro la galla della genitrice ('), fa sì che è attualmente quasi impossibile trovare una galla matura che contenga una sola madre; in ciascuna galla si trovano comunemente dieci o quindici gallicole di varia età, fra cui tre o quattro madri oviticatrici. In un caso furon trovati 24 individui, in parte madri, in parte in diversi stadî di sviluppo, entro una galla sola. Verso la fine di giugno e il principio di luglio quest'anno nel Vivaio di Palermo sono apparse numerossime larve di un coleottero (probabilmente una (1) Questo fenomeno abbiamo riscontrato con sicurezza essere generalissimo su tutti i vitigni europei, americani ed ibridi. — 104 — di quelle Coccinelle (1), di cui parla il Riley), attivissime predatrici delle uova delle fillossere gallicole e delle gallicole stesse. Si tratta probabilmente della stessa specie che nell'Italia media tiene efficacemente a freno lo sviluppo delle fillossere delle foglie delle quercie. Attualmente (metà di luglio) non v'è quasi più vite con galle che non porti coccinelle in gran numero. Diret- tamente al microscopio seguendo l’animale mentre va alla ricerca della preda, lo si vede affacciarsi all’orificio delle galle, aspettando quivi in agguato : in mezzo ai peli che chiudono l’apertura della galla esce di tanto in tanto una neonata e il predatore l’ afferra fra le mandibole, la mastica, e getta via la chitina. Gran numero di queste spoglie si trovano sulle foglie le cui galle furono invase dalle coccinelle; quando nessuna neonata esce dalla galla, la larva predatrice vi penetra, a divorare le uova e quanti individui vi trova dentro. Se questa larva si fosse sviluppata in abbondanza più pre- cocemente, avrebbe certamente avuto un'efficacia nel tenere a freno il di- lagare dell'infezione gallicola; ma al momento attuale non può più avere che un'efficacia assai limitata. La monìa delle fillossere gallicole, prodotta verosimilmente da funghi, quest'anno non è ancora cominciata a Palermo. Si son continuati i tentativi per ottenere artificialmente l’attecchimento delle neogallicole con caratteri di gallicola sulle radici più o meno scoperte di viti europee. Per quanto finora si è veduto, malgrado che un enorme nu- mero ne vada perduto, non mancano quelle che si fissano. Tra queste ultime, qualcuna, a grande stento e dopo molti giorni, arriva a fare una muta, ma in grandissima maggioranza muoiono anche dopo essersi fissate all'apice delle giovanissime capillari. Finora nessuna è arrivata 2 maturare. Ripetiamo che in natura questa infezione delle radici per opera di neogallicole con caratteri di gallicole non sì verifica. Portando opportunamente a contatto del fusto di viti americane indenni galle da cui si sviluppano neogallicole con caratteri di radicicole, sì constata che esse nel discendere si soffermano anche sulle radici vecchie, e vi si fis- sano forse perchè hanno bisogno di nutrirsi subito, dopo lunghi giorni di pe- regrinazione. È probabile che si possano così produrre artificialmente quelle lesioni su grosse radici di viti americane resistenti che è tanto difficile di trovare in natura. IC Furono continuate le osservazioni sulle galle sviluppatesi spontaneamente in primavera sulle viti europee non innestate. Delle quattro viti che alla fine di maggio portavano poche seconde galle, soltanto due hanno dato un piccolo numero di terze galle, sulle altre due l'infezione si è spenta. Invece sulle viti europee a portainnesto americano (1) Ci riserviamo di darne in seguito la determinazione. — 105 — si è avuta la produzione di terze galle molto più numerose, benchè sempre imperfette e meno abbondanti che sulle viti americane; in nessuna di quelle che produssero seconde galle l'infezione si è spenta, anzi si è comunicata alle viti vicine, e ciò si è verificato tanto a Palermo quanto a Spadafora presso Messina. Alcuni esperimenti fatti seppellendo seconde galle giovani al piede di viti europee indenni, diedero risultato negativo; ciò è in armonia con quanto: abbiamo verificato, che cioè le prime uova deposte dalle seconde madri dànno esclusivamente neogallicole con caratteri di gallicole. Ripetuti gli esperimenti, ma usando seconde galle mature, contenenti anche le ultime uova, ossia quelle che producono neogallicole con caratteri di radicicole, si ebbe prontamente una forte “infezione alle radici. Facciamo seguire la continuazione delle ricerche fatte dall'altro di noi (prof. Grassi) a Messina. Quivi, nel laboratorio di Zoologia della R. Uni- versità, erano rimaste inesaminate 24 viti europee, con cui erano state op- portunamente messe a contatto moltissime uova d'inverno. Furono osservate alle radici il 9 luglio e nessuna si trovò infetta. (Una sola presentava sul lembo d'una foglia una galla evidentemente formata da pochi giorni da una gallicola ivi migrata da altre viti, che portavano galle e si trovavano ad essa vicine, V. più avanti). Furono riprese in esame anche le 15 viti europee, pure allevate nel Laboratorio di Zoologia di Messina, delle quali si è parlato nella Nota pre- cedente. Come ivi si legge, su tre di queste viti si produssero galle di fon- datrici, che dovettero esaurirsi prima di produrre neogallicole con caratteri di radicicole ('); infatti, alla fine di maggio non presentavano alcuna infe- zione alle radici. Comparvero però alcune seconde galle, dalle quali dovette svilupparsi qualche neogallicola con caratteri di radicicola; infatti il 9 luglio si trovarono complessivamente sulle radici di queste tre viti, cinque fillossere non ancora ovificanti, ciascuna su una nodosità; evidentemente queste fillossere non potevano essere figlie delle fondatrici, sibbene loro nepoti. Contemvora- neamente erano comparse alcune terze galle ancora piccole. Le altre 12 viti, che non portavano galle, erano al 9 luglio ancora indenni come alla fine di maggio. Riassumendo, a Messina le uova d'inverno furono portate in grandissimo numero opportunamente a contatto con 39 viti europee. Il 9 luglio 35 di esse erano indenni, tanto alle radici quanto alle foglie: una presentava soltanto una galla della terza generazione (migrazione secondaria); tre presentavano prime galle esauste, seconde galle del pari esauste, terze galle ancora piccole e iniziale infezione alle radici (quivi in tutto cinque fillossere prossime a (1) A questo punto nella Nota erroneamente si legge neoradicicole in luogo di neogallicole con caratteri di radicicole. — 106 — diventare madri), mentre alla fine di maggio questa infezione mancava, erano esaurite le prime galle e non si rileravano ancora le ulteriori. Ciò, mentre dimostra un’altra volta la non impossibilità che le uova d'inverno infettino le radici di viti europee, soltanto però attraverso generazioni gallicole, tende evidentemente a confermare l'ipotesi da noi precedentemente esposta, che le fondatrici sulle viti europee, morendo precocemente, non arrivino a deporvi quelle ultime uova, le quali sole dànno origine a neogallicole con caratteri di radicicola sulle viti americane. Matematica. — Su/le equazioni differenziali lineari. Nota del dott. LurcI SINIGALLIA, presentata dal Corrispondente E. PASCAL. 1. Dopo i lavori fondamentali del prof. Volterra e del sig. Fredholm sulle equazioni integrali, si è cercato di ridurre la integrazione delle equa- zioni ordinarie lineari alla risoluzione di equazioni integrali. Però fra i varî modi proposti per questa riduzione non mi sembra sia stato notato quello che qui mi propongo di esporre e che certo è il più semplice, perchè i nuclei delle equazioni integrali che si ottengono sono appunto i coefficienti delle equazioni differenziali che si vogliono integrare. Si ha così il vantaggio di potere ottenere gli integrali chiesti espressi direttamente in funzione dei coefficienti della equazione data e di non avere bisogno di fare alcuna ipo- tesi sulla derivabilità dei coefficienti stessi: basta supporre che essi siano finiti ed integrabili. 2. Consideriamo il sistema differenziale dyi “ 1 (1) 1 D Gaia tdi, (AES) hei ove le @;n e le d; sono funzioni della sola #. La integrazione del sistema (1) ha per iscopo la determinazione delle funzioni y;= w;(x) che soddisfanno alle (1) e che per un valore qualunque della variabile 4 (potremo prendere c= 0 senza nuocere alla generalità) assumono dei valori qualsiasi presta- biliti w;(0). Dunque la integrazione del sistema (1) equivale alla risoluzione del sistema di equazioni integrali lineari yi f anQu0d= fo0d+ 10) (= 1 Bg) (2) Il sistema (2) è del tipo di quelli considerati dal sig. Fredholm e può — 107 — subito ridursi, come ha dimostrato questo Autore ('), ad una sola equazione integrale lineare, la cui risoluzione ci darà appunto le funzioni w;(x) che soddisfanno alle (1) e che in 2=0 prendono i valori assegnati w;(0). Segue pure di qui che la integrazione della equazione alle derivate parziali del primo ordine i iu IO a ove al solito le @;n,%; non contengono che la variabile 4, dipende dalla risoluzione di un'equazione integrale lineare. In particolare dunque dipenderà dalla risoluzione di una equazione in- tegrale lineare, la integrazione della equazione ordinaria di ordine dr cn | d (8) en ra ++ pagg +24 TEN infatti l’integrale generale della (3) è una funzione y= w.(«) che soddisfa alla (8) e tale che la wo(x) e le sue 2 —1 prime derivate, che denoteremo con Wiz), Ws(2),...,%Wn-:(2) in cui un punto qualunque x = 0 prendono dei valori prestabiliti wo(0), wi(0), ..., Wn-1(0). Ora il sistema (2) diviene qui va) [va arti a pel 2) VD+ fp Ut + + fon nod+ fav = ove (4) = fTOU+ 0 Perciò se definiamo la funzione F(,#) colle condizioni seguenti 299) ser>a>r_-l,r+lb>t>r.e=1,2,..0-01) A sex +1=#7 EA 0 ser +1<4 99) sen>a>a—-1,r>t>r_l (e=1,2,..2) Pez ER, sea—n+r=t1 OE 0 seqtntr (RElozoosa= i) Z(a)=f(a—n+1) se a>a>n-1, ponendo 1 EROE + Se ye f le E.) EER avremo per le formole di Fredholm che l'integrale generale della (3) sarà ge v(0— f Ax 6) (4) di (1) quando per la funzione 4(,) che compare sotto il segno integrale del secondo membro si prenda l’espressione che corrisponde ad 1>« > 0. 8. Il prof. Burgatti (') estende il problema della inversione degli inte- grali definiti proponendosi la determinazione della funzione /(x) che sod- disfa alla equazione 6) gl= fe, 0/04 pe O + + pale (01 di egli però non considera che i casi r=0 ed n=1,w,(x,9)=1 ed in ambedue questi casi la (5) si riduce, come osserva il sig. Lalesco ad una equazione di Volterra. A proposito della (5) il sig. Lalesco in un suo re- cente lavoro (*) dimostra che se wo(2,4) non è identicamente nulla esisterà sempre una ed una sola funzione che soddisfa alla (5) e che in #=0 prende assieme alle sue x —1 prime derivate dei valori qualsiasi presta- biliti. Però egli nella sua dimostrazione deve supporre che le funzioni w,.(x,t) (l=0,1,...) abbiano le derivate parziali rispetto a # dei primi m-—r ordini. Ora si può giungere, in modo analogo a quello tenuto nel paragrafo precedente, allo stesso risultato, ammettendo solamente la esistenza della derivata prima di w,(4,) rispetto a #. Infatti con una integrazione per parti la (5) diviene 2) + 4o(e,0)f"(0)= (#32) + sn +00 i (7) ZÒ | pn) + ye, 9/9) + SEE (1) Burgatti, Sulla inversione degli integrali definiti. Rend. Acc. Lincei (5), vol. 12 (1903). (3) Lalesco, Sur l'équation de Volterra. Journal de Liouville (6), t. 4 (1908). — 109 — ora supponendo w(,<)== 0 alla (5°) potremo sostituire il sistema ra frroa=/0 (2) — |. di = e" (0) 0 ia) fre di o EZIO) pn) fi I [pm + Wo(££) m-») ima Vi IAA Ve) (0) + pe 9/2) +e E Perciò, se wo(, x) #0, potremo determinare la f(x) che soddisfa alla (5) ed in modo che essa e le sue prime 7 — 1 derivate assumano in 4 = 0 i valori f(0), (0), ...,/©-P(0) prestabiliti. È bene però notare che supponendosi le funzioni wi(x , #) finite ed in- tegrabili per la risolubilità della (5) dovrà aversi g(0)=0: altrimenti potrà risolversi soltanto la equazione che si deduce dalla (5) sostituendo alla funzione (x) del suo primo membro l’altra g(c) — (0). Quando poi wo(4,x) è identicamente nulla potranno darsi due casi: 1°) anche la wo(2,0)=0 ed allora la (5) può trasformarsi in una altra equazione della stessa forma, in cui però sotto il segno integrale non vi è al più che la derivata 2 —1 della funzione incognita /(x). 2°) wo(e,a)=0 ma w(7,0)=0 per x 0: ed allora potrà di- minuire il numero delle condizioni che si possono imporre alla funzione in- cognita. Senza volerci fermare su tale discussione, notiamo che per n= 1 la (5) individuerà in tale caso in generale una ed una sola funzione /(): ma solo in generale perchè essa potrà in qualche caso essere insolubile quando non si assoggetti la g(<) che alla condizione g(0) = 0. Ciò avviene appunto per l'equazione (© fe-Ir0+/014=90, che è insolubile se g'(0) + 0. Invece se g(0)= g'(0)=0 esisterà sempre una funzione che soddisfa alla (a) e prende un valore assegnato /(0) in #=0. 4. I risultati precedenti possono applicarsi al caso della equazione li- neare del secondo ordine d? d (6) ti ove al solito le funzioni p(4),g(2),7(#) si suppongono finite ed integrabili, — 110 — almeno pei valori di x che si avranno a considerare. Però qui per brevità ci limitiamo a verificare i risultati che col metodo esposto si ottengono. Colle funzioni Po(£ 1) = € Pi(2, 1) =f Pod, T,) q(t1) de, { Polta ,t) des 2) (fe p(6)do (7) l Pad, T) =f Go(T, T1) g(t1) der f ‘ga(t ,t) dt, Poe, t) == Î Pod, 1) q(t1) de, [ nor (73 , t) dra formiamo la serie (8) Pe, =) (1) pe, Parimenti colle funzioni ia (2 ,t)= Î Pod, T1) g(11) de, UT wi(£, 7) =f Po(£ sti) g(7,) der f "ose, , t) dry TB T CT (0) (ole) (lea fade 0,4 , T) = Po(& , Ti) q(t1) de f toro (c) , T) dry formiamo la serie (10) Uz,)= Di 1o,(2,9), Le serie D(z, 7), 2(7,7) sono del tipo di quelle considerate dal pro- fessore Volterra e quindi sono equiconvergenti. L'integrale generale della (6) si esprime per mezzo delle serie Dx, t), (x, ©): abbiamo ora bisogno della espressione delle derivate prime di queste funzioni rispetto alla variabile 7. Dalle (7) ricaviamo (11) IPod a t) de =_—_ pa) pd, 7) — ll — e, poichè go(e,4)= 1, n CL) d d 9, Ti apt! =[ Spiro n) q(t1) dv | Pn-r(T2 5 T) dts - + g(2) f gui(0, 0) do e per la (11) ei = — p(e) pa(0,0) + a(2) INC, , t) do Dunque la serie delle derivate dei termini della serie ®(x , 7) è — p(&) Da, c) — a) | 9(c ,t) do e perciò (12) amet) — n.) — (0) IC ,3) do. Analogamente avendosi per le (9). (11) BO sla) — pe) (e 31) 21 (7) fosso, 1) do p(2) (2,9) sarà 189) EI fifa, 1) dol — plc) A 3) 5. Premesso ciò, consideriamo la funzione = S| ‘ p(t) po D(0,t) do 29) Q(0,7) do\ (0) de: si ha subito dla) = [uo De, 1) + (e, 7) f(c) de Ancora per le (12), (13) poichè Dx, 2)=1,2(2,2)=0; abbiamo dl da p(e) (e +1) f(@) de=p(£) {(#) — (2) foce. t) pe) f(1) de — — g() fo ICLAN D(0, 1) do (‘a ide go) (10) de 0) (10) de [Ade — — p( DI x, 1) f(0) de — 112 — e perciò d°0,(%) cla) da TIA) +40) 0) =) f(+ d(0) f fd Sicchè la funzione 0a) = { (0) a_0()= f"}1-20 [2(0,9) dg di {80,0 de | 0) da soddisfa all’equazione differenziale OLE OLIO CI ma per la (4) f'(@)= r(£) dunque la funzione @(x) è un integrale della (5), ma non è l'integrale ge- nerale. Infatti la sua derivata 0'(x) assume in 2 = 0 il valore fissato ,(0), ma la 6(2) inx=0 si annulla. Per avere l'integrale generale dovremo procurarci un integrale della equazione omogenea (14) YVIRDy +gy=0: ora si vede subito che, poichè la funzione = il q(t) di f D(0 , t) do *70 T per le formole precedenti soddisfa all’equazione OE DECORI] la funzione - 1—- {(a) sarà una soluzione della (14). Perciò, essendo w,(0) il valore che l'integrale generale della (6) deve prendere in z=0, esso sarà dato dalla formola y=4(0)+ (1-20) f 060,9 d5— (27,2) d0| /(0) de — -— 40 fd [00.0 do. — 1153 — Fisica terrestre. — Za radiazione attinica del sole al Monte Rosa. - Osservazioni eseguite alla Capanna Regina Margherita coll’attinometro fotoelettrico di Elster e Geitel. Nota di C. ALES- SANDRI, presentata dal Socio V. VOLTERRA. 1. In altra Nota (*) abbiamo studiato l'andamento della energia termica della radiazione solare alla Capanna Margherita, deducendolo dalle osserva- zioni ivi eseguite il giorno 8 settembre 1907 col pireliometro a compensa- zione elettrica di Angstròom, e abbiamo trovato che l'energia termica della radiazione solare in funzione dello spessore d’aria attraversato, poteva essere con notevole approssimazione rappresentata mediante la formola recentemente proposta dal Bemporad (?). Q=A.p" essendo Q l'intensità della radiazione corrispondente allo spessore d’aria «; A, p ed x delle costanti che, nel nostro caso, avevano i valori A = 2,0858 p = 0,7338 n. == 0,625 Il risultato più importante che ne deducemmo (prescindendo dalla de- terminazione del valore dell'energia termica della radiazione solare ai limiti dell'atmosfera) fu che il coefficiente medio di trasmissione dell'alta atmo- sfera pei raggi solari che, assorbiti dal nerofumo, si convertono in calore, non è costante ma cresce gradatamente col crescere della distanza zenitale del sole, e cioè cresce coll’aumentare dello spessore d’aria attraversato. Come vedemmo, questo fenomeno si spiega bene ritenendolo come una conseguenza dell’assorbimento selettivo dell'atmosfera terrestre sulla luce degli astri, in accordo colle idee prima esposte dal Langley e più recentemente sviluppate dal Bemporad. 2. Oltre alle misure pireliometriche, vennero fatte, in quel giorno, alla Capanna Margherita, delle misure attinometriche della radiazione solare con un attinometro fotoelettrico di Elster e Geitel. Come si sa, questo appa- (1) Osservazioni alla Capanna Regina Margherita col pireliometro di Angstròm. Memorie della Società degli Spettroscopisti Italiani, anno 1908. (*) Cfr. A. Bemporad, Saggio di una nuova formola empirica per rappresentare il modo di variare della radiazione solare col variare dello spessore atmosferico attra- versato dai raggi. Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. CI. di Sc. fis. mat. e natur. Vol. XVI, 2° sem. 1907. — 114 + recchio consta essenzialmente di una sfera di zinco amalgamato, di 2 cm. e mezzo di diametro, in comunicazione con l'armatura interna di un con- densatore e con un elettrometro; la sfera è rinchiusa in un involucro me- tallico da cui è elettricamente isolata; l'involucro, l'armatura esterna del condensatore e la scatola dell'elettrometro, sono al suolo (erano metallica- mente collegati col rivestimento di rame della Capanna). Per le osserva- zioni, sì carica il sistema di elettricità negativa fino a un dato potenziale, poi si fa cadere sulla sfera di zinco, attraverso a un diaframma, che, nel nostro caso, era di 15 mm. di diametro, un fascio di raggi solari. Perchè l’esperienza riesca. la superficie dello zinco deve essere perfettamente speculare e amalgamata di recente. Si deduce il grado di attinicità della radiazione che si esamina, dalla quantità di elettricità negativa che si di- sperde in un dato tempo, o, come facemmo noi, dalla rapidità con cui una data massa elettrica negativa si disperde sotto l'azione della radiazione stessa. Ammettendo, infatti, che il coefficiente di dispersione della elettricità sopra una sfera di zinco amalgamato di recente sia una funzione lineare del- l'intensità attinica della radiazione, si ha che l’effetto fotoelettrico (cioè la misura relativa della intensità della radiazione attinica J) sarà dato dalla formola: (1) If hg OE dove V, è il potenziale iniziale della sfera di zinco; V, è quello dopo la esposizione; V; il potenziale al quale si giunge nel tempo # quando la sfera non è esposta; C la capacità del sistema; % la durata della esposizione; ò il fattore di dispersione. Nel caso nostro, potendosi operare con grande capacità elettrostatica, vennero disposte le cose in modo da aversi: C= cost.; b=cost.; Vo ==cost.; Vi= Vo (questa ultima condizione poteva ritenersi, nel nostro caso, prati- camente soddisfatta, perchè, operando con una grande capacità elettrostatica ed essendo l'isolamento elettrico del sistema assai buono, nel tempo # di durata dell'esperimento il potenziale del sistema non variava in modo ap- prezzabile quando la sfera di zinco era tenuta sottratta all’azione dei raggi solari, e cioè l’otturatore del diaframma era tenuto chiuso. In tali condizioni la formola (1) assume la forma semplice 2) 1 (2) J=%4 La misura veniva fatta nel seguente modo. Si caricava la sfera di zinco a un potenziale di alcun poco superiore ai 300 Volts (Vo = 300); verificato che, a sfera coperta, il potenziale rimaneva sensibilmente costante, si apriva l'otturatore e si notavano gli istanti in cui, scaricandosi il sistema, la fo- — 115 — gliolina d'alluminio dell'elettrometro, osservata con un microscopio micro- metrico, passava alla prima, seconda, terza, quarta divisione del micrometro, corrispondenti rispettivamente a potenziali del sistema decrescenti in pro- gressione aritmetica: se la serie dei tempi era ben regolare e, ripetendo l'esperimento per almeno tre volte di seguito, si ottenevano valori ben con- cordanti, l'osservazione era tenuta buona, altrimenti si riamalgamava la palla e si ricominciava la misura. Con la formola (2) vennero poi calcolati i va- lori della intensità attinica della radiazione quali figurano nella colonna 5 della tabella I. Tali valori essendo espressi in unità arbitrarie, hanno, natu- ralmente, solo un valore relativo, e vennero ottenuti ponendo nella (2) 4=12. In queste misure, come già si è accennato, è di grande importanza la costanza nelle condizioni dello strato superficiale della sfera di zinco amal- gamato. Questa deve essere di zinco ben puro, perfettamente levigata, e va amalgamata a tutte le misure, mettendola nel mercurio ben secco e strofi- nandola poi con carta seta, in modo da renderne ben tersa la superficie. Ma non basta: le condizioni superficiali della sfera si modificano rapida- mente, sopratutto quando essa è esposta al sole; e, conseguentemente, anche il valore della costante è di dispersione della formola (1) che da tali con- dizioni è dipendente, non ha un valore costante. Questa circostanza fa sì da rendere non ben paragonabili i risultati di due misure quando i tempi di esposizione # corrispondenti sono notevolmente diversi fra loro. Io tentai di ovviare a tale inconveniente notando, come dissi, i tempi di scarica relativi a cadute di potenziale crescenti in progressione aritmetica, in modo da poter prendere poi, a base della determinazione dell’energia attinica, per le osser- vazioni meridiane, i tempi corrispondenti a forti cadute di potenziale, mentre per le osservazioni fatte a Sole basso sull'orizzonte, quelli relativi a piccole cadute di potenziale; operando in tal modo, i tempi d'esposizione assunti a base dei calcoli, risultano poco diversi; di più, come accennai, si ha un con- trollo delle condizioni d'isolamento e della costanza del fattore è durante l'esperienza. Resta in ogni modo vero che sarebbe pericoloso anche per le nostre osservazioni di ritenere perfettamente comparabili le osservazioni fatte con distanze zenitali troppo diverse; e quindi sarà prudente di limitare la discussione ai risultati ottenuti con osservazioni fatte a distanze zenitali del Sole non troppo differenti, e precisamente, nel nostro caso, alle sole osservazioni eseguite dalle 72.80" alle 162.30”, trascurando le altre. Il materiale d'osservazione trovasi riunito nella tabella I. Le ore sono espresse in tempo vero del Monte Rosa. Oltre alla misura relativa dell’ in- tensità attinica della radiazione (') vi sono pure riportati i valori corrispon- denti dell’intensità termica in piccole calorie della distanza zenitale del Sole e degli spessori d'aria attraversati dai raggi ai tempi delle osservazioni. Per (1) I numeri della 5% colonna della tabella I sono stati dedotti per interpolazione grafica dai valori di J effettivamente osservati. RenpicontI. 1908, Vol. XVI, 2° Sem. 15 — 116 — quanto si riferisce al calcolo di queste ultime grandezze, non che alle con- dizioni meteorologiche durante le misure, rimando alla Nota sopra citata. Dirò solo qui che il tempo fu, in quel giorno, tutto quanto si può deside- rare di favorevole per questo genere di ricerche. Come evidente risulta dalla figura 1, la radiazione attinica resta as- sorbita dall'atmosfera terrestre molto più energicamente che non la radia- zione termica. 0 02. 0.4 0.6 0.8 10 IO 1.6 1.8 DO. 22 ZA 2 —___{]%‘8riazione attinica in unità arbitrarie ; —.—:—.— radiazione termica, in piccole calorie per cm.* e per min. primo. Le ascisse rappresentano gli spessori atmosferici (espressi in atmosfere normali) attra- versati dai raggi solari alle diverse ore del giorno, nel tragitto dai limiti del- l’atmosfera terrestre all'Osservatorio Regina Margherita; le ordinate rappresentano le corrispondenti intensità (attinica e termica) residue della radiazione. Assunta come formola d'interpolazione la formola a tre costanti (del Bemporad). (3) J= Bg” dove J rappresenta l'intensità attinica della radiazione, e lo spessore d'aria attraversato, B, 4 ed n tre costanti da determinarsi, si trova che la nostra e — curva sperimentale della radiazione attinica resta assai bene rappresentata assumendosi per le costanti i seguenti valori: n=l B= 4,2695 q = 0,3629 Essendo il parametro n della formola (3) uguale all'unità, la curva è adungue, una logaritmica, e quindi, la sottotangente alla curva essendo co- stante, anche il coefficiente di trasmissione sarà costante ('). Ne risulta che per la radiazione attinica, contrariamente a quanto si è trovato per la ra- diazione termica, l'assorbimento selettivo o è tanto piccolo da potersi ritenere praticamente inesistente, o per lo meno, anche dalle nostre misure alla ca- panna Margherita, quantunque fatte in condizioni eccezionalmente favorevoli, non è stato messo in evidenza. Questo risultato, a prima giunta in contrad- dizione con quello già ottenuto per le radiazioni termiche, può spiegarsi con- siderando che le radiazioni cui è sensibile l’attinometro fotoelettrico di Elster e Geitel (radiazioni ultraviolette) essendo comprese fra limiti assai ristretti dello spettro, devono comportarsi, dal punto di vista dell'assorbimento atmo- sferico, come luce monocromatica. Ora, per quanto si è detto nella Nota già più volte citata, la legge secondo cui la energia raggiante di una determinata refrangibilità resta assorbita dall'aria atmosferica, quando tale aria non sia inquinata da elementi estranei quali il pulviscolo e il vapore acqueo (o le vescichette d’acqua) che, in notevole quantità trovansi nelle basse regioni dell'atmosfera, deve appunto essere la legge esponenziale di Bouguer-Pouillet, secondo la quale l'energia trasmessa attraverso a uno strato decresce in ragione geometrica col crescere in ragione aritmetica dello spessore dello strato assorbente. Anche il risultato da noi ultimamente ottenuto, adunque, anzichè in contrasto coi risultati precedenti, sarebbe una nuova prova della superiorità, sulle stazioni di pianura, di quell’alta stazione d'osservazione per questo genere di ricerche. Numericamente poi, il coefficiente di trasmissione per la radiazione at- tinica, quale risulterebbe dalle nostre misure, sarebbe q= 0,363. Per la radiazione termica, a mezzodì, si è trovato in quello stesso giorno il valore [Wi_10}80.607 Il rapporto fra i due coefficienti sarebbe adunque Po l92) q (*) Cfr. Nota citata. — 1183 — Osservazioni analoghe simultanee eseguite al Colle d'Olen dal prof. Fe- derico diedero X = 2,40. In generale poi si sa che, in pianura, coll’aumentare della nebulosità del cielo, il coefficiente di trasparenza per la radiazione attinica del Sole diminuisce relativamente a quello della radiazione termica, talchè il rap- porto del secondo al primo risulta aumentato. Questo dato di fatto in piano, è, come si vede, in pieno accordo col risultato da noi ottenuto all’altitudine di 4560 metri sul livello del mare. TABELLA I. Osservazioni alla Capanna Regina Margherita, 8 settembre 1907. Ora Z0 € Q Jo Te (t.°v.° M. Rosa)| apparente (atmosfere) nno e; Msn Di (1) (2) (3) (4) (5) (6) (1) 12. _ 39.52.50” 0.7480 1.611 2.03 2.080 0,000 lisst= 41.57. 2 0.7775 1.601 1.95 1.941 + 0.009 li. — 47.35. 11 0.874 1.574 1.80 1.798 + 0.002 15. — 00.39. 0 1.0242 1.524 1.51 1.511 — 0.001 16. — 65. 5.41 1.3692 1.431 1.07 1.066 + 0.004 16.20 68.26. 0 1.5655 1.380 0.87 0.873 — 0.003 16. 40 71.49.42 18411 1.300 (0.70) 0.660 + 0.040 o = 75.14.54 2.2446 1.248 (0.50) 0.440 -— 0.060 17.10 76.59.11 2.5300 1.200 (0.45) 0.333 + 0.117 17.20 78.43.14 2.8920 1.144 (0.35) 0.228 -+ 0.122 (1) Ora dell’osservazione in tempo vero m.° monte Rosa. (?) Distanza zenitale apparente del sole all'istante dell’osservazione. (3) Spessore atmosferico (in atmosfere normali) attraversato dai raggi solari nel tra- gitto dal limite dell’atmosfera all'Osservatorio Regina Margherita. (4) Intensità termica della radiazione residua, in piccole calorie per cm.? e per min. primo (pireliometro Angstrom). (5) (5) Intensità attinica ottenuta col fotoattinometro Elster e Geitel. — 119 — Chimica. — Sul 2°-4-diossi-idrocalcone (*). Nota di G. BAR- GELLINI € M. MARANTONIO, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Molte sostanze che esistono in natura contengono l'aggruppamento Aa -08 — OH — H0 + < ALIA \.0H OH noi abbiamo potuto ottenere un 2'-4'-diossi-idrocalcone del quale in questa Nota descriviamo le proprietà ed alcuni derivati. Nostro scopo ultimo era veramente quello di aprirci una via per tentar poi di ottenere sinteticamente la floretina, condensando l'acido p-ossi-idro- cinnamico colla floroglucina OH Î Dan Xe i Malo {PaW a MIA MAN = A => dl. Di | di a OH OH MESTAIFE: |a — 50 + HO< )-CHx-CHr-00-{ )-0H slo ni OH ma alcunì tentativi fatti in questo senso non ci hanno dato per ora buoni risultati. Sembra che per la sua natura speciale, la floroglucina sfugga a questo genere di condensazioni, onde la sintesi della floretina dovrà tentarsi o con altro agente condensante o per una via differente. PARTE SPERIMENTALE. 2'-d'-diossi-idrocalcone. — Una mescolanza intima di gr. 30 di acido idrocinnamico (*), gr. 20 di resorcina e gr. 30 di ZnCl. fuso e polverizzato, fu riscaldata per 15-20 minuti a 140-150°. La massa fusa che era andata diventando sempre più rossa si versa poi in circa 200 cc. di acqua acidulata con acido cloridrico. Si deposita una sostanza pastosa rossa che poco a poco diventa dura e si può polverizzare. La polvere si raccoglie sopra un filtro e si lava con acido cloridrico molto diluito per portar via tutto il Zn Cl, e tutta la resorcina che può essere rimasta inalterata nella reazione. (*) L'acido idrocinnamico necessario per le nostre ricerche fu preparato riducendo l'acido cinnamico con amalgama di sodio e purificato per distillazione. — 121 — Il prodotto così ottenuto si scioglie in una soluzione diluita di Na OH. Facendo passare CO; nella soluzione colorata intensamente in rosso e con fluorescenza verde si deposita una sostanza rosea che si raccoglie e si lava con acqua fredda. In soluzione nel Na, CO; resta quindi l’acido idro- cinnamico che non aveva preso parte alla reazione. Si ottiene in tal modo il 2'-4'-diossi-idrocalcone privo delle sostanze che avevano servito a prepa- rarlo, ma impuro di una sostanza colorante rossa che non ci siamo occupati di purificare e studiare in modo particolare, ma che probabilmente è una sostanza colorante del tipo delle benzeine. Si forma tanto più sostanza colorante quanto più si prolunga il riscal- damento e quanto più alta è la temperatura. Le condizioni migliori per avere buona rendita in diossi-idrocalcone sono quelle precedentemente descritte: riscaldando per 15-20 minuti a 140-150° una mescolanza di gr. 30 di acido idrocinnamico, gr. 20 di resorcina e gr. 30 di Zn Cl, si hanno circa 20 gr. di diossi-idrocalcone. Per separare questo dalla sostanza colorante, si fa seccare il prodotto precipitato dal CO» e si scioglie poi nel benzolo a caldo; la soluzione si fa bollire con carbone animale e si filtra a caldo. Per raffreddamento si depo- sita il prodotto in aghetti che potemmo avere perfettamente bianchi dopo una cristallizzazione nell’acido acetico diluito. Dopo un'altra simile cristal- lizzazione, la sostanza raggiunse il punto di fusione costante 88°. Sottoposta all’analisi, dette i seguenti risultati . Gr. 0,243 di sostanza dettero gr. 0,6578 di CO, e gr. 0,125 di H;0. Donde per cento: Trovato Calcolato per Cis His 0s 0 73,80 74,38 H DAN 5,78 La sostanza è molto solubile nell’alcool e nell’acido acetico; si scioglie un poco nell'acqua bollente e si deposita per raffreddamento ben cristalliz- zata. Anche dal benzolo si può ottenere ben cristallizzata; sì ha però una associazione di elementi fibrosi e non dei cristalli ben definiti. Osservati 2 luce parallela con nikols incrociati si nota che la direzione di estinzione coincide con quella di allungamento. La soluzione acquosa dà con una goccia di cloruro ferrico una colora- zione giallastra. Nell’ H,S0, conc. si discioglie con colorazione giallastra. Negli idrati alcalini si discioglie facilmente dando soluzioni colorate in giallo: chiaro. Cercammo di preparare un aceti/derivato di questo diossi-idrocalcone, facendolo bollire con anidride acetica e acetato sodico. Ottenemmo però una sostanza resinosa giallo-chiara che non potemmo purificare e analizzare. — 122 — Migliori risultati avemmo invece nella preparazione degli eteri me- tilici. Ad una soluzione di gr. 5 di diossi-idrocalcone in cc. 15 di Na OH al 15 °/, aggiungemmo gr. 5 di solfato dimetilico e agitammo continuamente per circa mezz'ora. Si depositò una sostanza solida di colore bianco sporco, mentre il liquido restò colorato in rosso. Etere monometilico. — Aggiungendo H;SO, diluito al liquido rosso (dal quale per filtrazione era stato separato il prodotto insolubile) si depo- sitò una sostanza oleosa scura che fu estratta con etere. Svaporato l'etere, il residuo fu disciolto a caldo nel benzolo e fu fatto bollire poi lungamente con carbone animale. Dalla soluzione filtrata, per aggiunta di ligroina, si depositano aghetti bianchi che presentano il punto di fusione 74-75° che si mantiene costante anche dopo una cristallizzazione nell'acqua bollente. La sostanza, seccata nel vuoto sull’acido solforico, dette all'analisi i seguenti risultati : Gr. 0,308 di sostanza dettero gr. 0,8433 di CO» e gr. 0,1807 di H,0. Donde per cento: Trovato Calcolato per C16H160: C 74,67 15,00 H 6,51 6,25 La sostanza è facilmente solubile nell’alcool e nell’acido acetico: si scioglie negli idrati alcalini. Etere dimetilico. — La sostanza solida che si era depositata nel trat- tamento con solfato dimetilico e che era stata separata per filtrazione, fu fatta cristallizzare nell’acido acetico diluito caldo: per raffreddamento si deposita in aghi lunghi anche due o tre centimetri. Fatta cristallizzare di nuovo, raggiunse il punto di fusione costante 103-104°. Seccata nel vuoto sull’acido solforico, dette all’analisi i seguenti risultati : Gr. 0,2166 di sostanza dettero gr. 0,5996 di CO, e gr. 0,1326 di H,.0. Donde per cento: Trovato Calcolato per C1:H150; C 79,49 79,99 Jel 6,80 6,66 La sostanza è solubile nell'aleool, nell’acido acetico e nel benzolo dalla cui soluzione viene precipitata per aggiunta di ligroina. È quasi insolubile nell'acqua anche a caldo. È insolubile negli idrati alcalini. Ossima. — Gr. 4 di diossi-idrocalcone furono disciolti in ce. 100 di alcool: a questa soluzione si aggiunse poi una soluzione di gr. 1,30 di clo- ridrato di idrossilammina e gr. 1,00 di Na,CO; in 20 cc. di acqua e si — 123 — riscaldò per circa due ore a h. m. a ricadere. Al liquido diventato giallo- gnolo, si aggiunse poi altro cloridrato di idrossilammina (gr. 0,65) e altro Na, CO; (gr. 0,50) e si scaldò per altre due ore. Dopo aver svaporato poi a Db. m. tutto il solvente, restò come residuo una sostanza solida di colore bianco sporco che fu raccolta su filtro lavandola bene con acqua. La sostanza così ottenuta fu seccata e poi cristallizzata più volte dal benzolo. Si ebbe così una polvere cristallina bianca fusibile a 171-172°. Seccata a 100°, dette all’analisi i seguenti risultati : Gr. 0,2762 di sostanza dettero gr. 0,7110 di CO, e gr. 0,1414 di H30. Gr. 0,2572 di sostanza dettero cc. 12 di N misurati a 20° e 760,5 mm. Donde per cento: Trovato Calcolato per C,5H1503N C 70,10 70,04 H 5,68 5,89 N 9,92 5,44 La sostanza si discioglie un poco nell'acqua bollente e si deposita per raffreddamento. Molto più facilmente si scioglie nell’alcool, nell’acido ace- tico e nel cloroformio. Mentre colla preparazione degli eteri viene dunque dimostrata la na- tura fenica del prodotto di condensazione dell'acido idrocinnamico colla re- sorcina, la preparazione dell’ossima mette fuor di dubbio la sua natura chetonica, onde si può a questo prodotto attribuire la formula < \-08,08,00-___)-0H OE ammettendo che la condensazione avvenga in posizione orto ad uno degli ossidrili della resorcina e in posizione para all’altro, come avviene in molti casi analoghi. Volemmo cercare però di dimostrare direttamente che il radicale del- l'acido idrocinnamico sta in posizione orto-para agli ossidrili. A questo scopo riscaldammo il nostro diossi-idrocalcone con una soluzione concentratissima di KOH. In condizioni simili, dalla p- ossi-desossibenzoina (ottenuta per conden- sazione dell'acido fenilacetico col fenolo) Weisl (*) ottenne toluene ed acido p- ossibenzoico C5Hx-0H,-00-_)-0E Mc, 00K__>-0H H OK OK (2) oc: cit: ReNDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 16 — 124 — dimostrando così che la condensazione avviene in posizione para all’OH del fenolo. Riscaldando per molte ore a ricadere il nostro diossi-idrocalcone con KOH al 70°/,, ottenemmo però sempre la sostanza inalterata. Sembra che ì diossi-chetoni derivati dalla resorcina siano molto più resistenti all’azione della potassa. Anche Finzi (') cercò di decomporre in modo analogo la sua 2’-4'-diossi- desossibenzoina, ma anche scaldandola per tre ore a 180° in tubi chiusi, riottenne sempre la sostanza inalterata. Nel caso del diossi-idrocalcone ci si sarebbe potuti anche aspettare che per azione della potassa, avvenisse una scissione analoga a quella che, nel caso della floretina, dà acido p-ossi-idrocinnamico e floroglucina, ma, come abbiamo detto sopra, il nostro diossi-idrocalcone rimane inalterato. Per via analoga a quella con cui abbiamo preparato il 2’-4'-diossi- idrocalcone abbiamo potuto ottenere anche il corrispondente 2'-4'- diossi- calcone condensando l'acido cinnamico colla resorcina < | }CH-CH-00.0H-F 1 Mi: e O VIINCD penne Sinai 9 OH = H:0 + < >-CH=0H-00-< )-0H Me psi OH A questo scopo sì riscalda una mescolanza di ac. cinnamico (gr. 30) resorcina (gr. 20) e ZnCl» (gr. 20). La massa diviene rossa. Non bisogna protrarre il riscaldamento per più di 5-10 minuti e non si deve oltrepas- sare la temperatura di 140-150°: altrimenti si forma in prevalenza una sostanza colorante rossa anzloga a quella che si ha condensando l’acido idro-cinnamico con la resorcina. Il prodotto della reazione si versa nell'acqua acidulata con HC1. $i deposita allora una sostanza pastosa rossa che a poco a poco diventa dura e friabile. Si polverizza, si filtra, si lava e infine si scioglie in una solu- zione di KOH. Facendo passare una corrente di CO; si deposita una mescolanza di 2'-4-diossi-calcone e di sostanza colorante che si separano per mezzo del benzolo nel quale la sostanza colorante è completamente insolubile. La so- luzione benzenica del diossi-calcone, per aggiunta di ligroina lascia depo- (1) Loc. cit. — 125 — sitare una polvere cristallina bianco-giallognola che, cristallizzata di nuovo nell'acqua bollente si ha in aghetti fusibili a 175°. La rendita è piccola. La sostanza, seccata a 100°, dette all’analisi i seguenti risultati : Gr. 0,1518 di sostanza diedero gr. 0,4192 di CO» e gr. 0,0671 di H.0. Donde per cento: Trovato Calcolato per Ci5H1203 C 79,91 75,00 H 4,91 5,00 Questo 2'-4'-diossi-calcone non sì è mai potuto ottenere col metodo generale di preparazione dei calconi, condensando cioè la benzaldeide col resaceto- fenone ANTI DI IRE i È 1 TRENO Db <__ >:0HO-E Hx/cH-00 wi >-0H OH LA AIN Io ZA —H0+ )-CH-CH-c0 CA OH OH Sono noti invece alcuni dei suoi eteri che Kostanecki ha preparati conden- sando la benzaldeide cogli eteri metilici od etilici del resacetofenone. Chimica. — Sugli equilibri d’idrogenazione (1). Nota di M. Pa- DOA e U. FasRIs, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. In una Nota precedente (*) furono esposte le esperienze fatte per ricer- care la natura degli equilibri fra idrocarburi e relativi derivati idrogenati, in presenza del nickel a varie temperature. Nelle ulteriori esperienze che formano oggetto di questa Nota, ci siamo occupati principalmente di esaminare il comportamento di quegli idrocar- buri che possono venire idrogenati gradualmente, variando in modo opportuno la temperatura: è noto che per varie sostanze, che possono dare più di un prodotto d’idrogenazione, quanto più bassa è la temperatura alla quale si fa l’idrogenazione e tanto maggiore è la quantità di idrogeno fissato nella mo- lecola. In questi casi si poteva pensare che il processo fosse completamente invertibile e che cioè, dopo aver fissato 2, 4, 6 atomi d’idrogeno, innalzando a gradi la temperatura, questi si potessero eliminare nello stesso ordine. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Bologna. (®) Questi Rendiconti 1908, I, 111. — 126 — Senonchè l'esperienza ha dimostrato che questa eliminazione graduale non si può effettuare quasi mai. ; Abbiamo poi fatto una ricerca sommaria riguardante la influenza della pressione sugli equilibri, specialmente in quei casi in cui è possibile la idro- genazione graduale. Fenantrene. Uno studio sistematico dei prodotti di riduzione di questo idrocarburo venne fatto recentemente da Schmidt e Mezger (!). Questi autori, idrogenando il fenantrene col metodo di Sabatier e Sendereus, ottennero sol- tanto il diidrofenantreno. Poi prepararono, con acido iodidrico e fosforo, una serie di prodotti maggiormente idrogenati, fino al dodecaidrofenantrene. Noi sperimentammo nel senso già detto su alcuni termini della serie. Ma prima di tutto abbiamo voluto riconoscere se proprio il metodo catalitico non poteva condurre oltre al diidrofenantrene. Intanto verificammo che idrogenando il fenantrene a 200° (ponendolo in navicella e facendovi passare una discreta corrente d’idrogeno) si formano due prodotti (Schmidt e Mezger, nelle loro condizioni d'esperienza, a 200° non ottennero che diidro- fenantrene); e cioè una sostanza solida che riconoscemmo per diidrofenantrene e un liquido che era tetraidrofenantrene. Tra 175° e 200° si forma soltanto un liquido che dà un picrato fondente a 102°-107° (a-tetraidrofenantrene). A 175° si forma pure un liquido che non dà picrato e bolle quasi tutto a 270-75° (dodecaidrofenantrene); a 150° si ottiene pure un liquido che non dà picrato, ma in quantità così esigua da non poterlo identificare (a questa temperatura la volatilità del fenantrene è assai piccola). Si vede dunque che anche sul fenantrene l’attività idrogenante del nickel sì manifesta completamente, come finora per tutti gli altri idrocarburi che vennero ridotti con questo metodo. Ciò posto, abbiamo esaminato come procedeva il fenomeno inverso, la disidrogenazione in presenza di nickel. Preparammo il tetraidrofenantrene, secondo le indicazioni di Schmidt e Mezger, riducendo il fenantrene con sodio e alcool amilico; poi riducemmo il fenantrene con acido iodidrico e fosforo e preparammo così l’esa- e il dode- caldrofenantrene. Poichè quest’ultimo si forma, secondo le nostre esperienze, a 175° idro- genando il fenantrene, mentre che a 200° si formano idrocarburi assai meno idrogenati, si poteva aspettare che il dodecaidrofenantrene perdesse a 200° gran parte dei 12 idrogeni. Invece l'eliminazione ha luogo soltanto verso i 220°; raccogliemmo il gas che si svolgeva e ne eseguimmo l’analisi, secondo il procedimento indicato nella Nota precedente: Gas analizzato, cme. 20,4. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 20,4 (1) Berichte XL, 4240. — 127 — Addizionato con cme. 22,6 di ossigeno e fatto esplodere, si ridusse acme. 17,6. Dopo trattamento con potassa, cme. 15,9. Si vede che una parte dell'idrogeno attacca l'idrocarburo per dare idro- carburi gassosi; questo fatto è notevole perchè avviene ad una temperatura relativamente bassa. La massima parte del dodecaidrofenantrene fenantrene fornì, eliminato l'idrogeno, idrocarburi liquidi; ma le ultime porzioni, che soggiornarono ‘maggior tempo sul nickel, erano solide: ciò che dimostra che il processo di disidrogenazione segue, alla temperatura indicata, lentamente ma comple- tamente. L'esaidrofenantrene in presenza del nickel a 220° sviluppa anch'esso idrogeno e idrocarburi gassosi: Gas analizzato, cme. 23,0. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 22,6 Addizionato con cme. 24,3 di ossigeno e fatto esplodere, si ridusse a cme. 16,4. Dopo trattamento con potassa, cme. 11565 Si ottiene così un idrocarburo liquido che non dà picrato: poichè il solo prodotto di- o tetraidrogenato del fenantrene che non dà picrato: è il f- tetraidrofenantrene, così bisogna ammettere che si tratti appunto di questo. Il tetraidrofenantrene non dà sviluppo d'idrogeno che a cominciare dai 280°; in queste condizioni ottenemmo un gas che l'analisi dimostrò essere idrogeno puro : Gas analizzato, cme. 22,6. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 22,6. Addizionato con cme. 21,6 di ossigeno e fatto esplodere, si ridusse a cme. 13,2. Dopo trattamento con potassa rimase a cme. 13,2. Si forma poi un idrocarburo solido che, dal punto di fusione del picrato (142-43°), riconoscemmo per fenantrene. L'eliminazione dei quattro idrogeni avviene dunque, in queste condizioni, in una sol volta e senza intaccare il carbonio del nucleo. Dopo queste esperienze, eseguite in tubo aperto, ne facemmo altre col dodecaidro- e col tetraidrofenantrene in ambiente chiuso. Col dispositivo indicato altrove (1) ponemmo in tubo chiuso gli idrocarburi in presenza del nickel e riscaldammo per parecchie ore. In tal modo, avendo calcolata pre- (1) M. Padoa, questi Rendiconti 1907, I, 818. — 128 — ventivamente la quantità d’idrogeno che avrebbe potuto svilupparsi se il tubo fosse stato aperto, potevamo avere un'idea, dal volume gassoso effetti- vamente sviluppato, della influenza della pressione nel far retrocedere la rea- zione. Analizzammo poi i gas sviluppati per conoscere se la formazione di idrocarburi gassosi fosse di uguale o diversa entità rispetto a quella avuta in tubo aperto. Un grammo di dodecaidrofenantrene in tubo chiuso a 250° per 12 ore diede circa 200 cme. di gas (nell’aprire i tubi, per quante precauzioni si usino, non sì riesce sempre a far sì che non ne sfugga qualche piccola por- zione); se il tubo fosse stato aperto si sarebbero svolti circa cme. 1400 di gas. Dallo sviluppo ottenuto si deduce che nel tubo caldo esisteva una pres- sione di circa 5 atmosfere. Analisi del gas: Gas analizzato, cme. 19,5. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 19,5. Addizionato con cme. 42,1 di ossigeno e fatto esplodere, si ridusse a cme. 34.4. Dopo trattamento con potassa, cme. 32,8. Il tubo conteneva poi del fenantrene che riconoscemmo dal picrato (p. f. 142-143°). Gr. 1,8 di tetraidrofenantrene riscaldati in tubo chiuso a 330° in pre- senza di nickel per ore 9 !/», diedero circa cme. 100 di gas; se l’idrocar- buro avesse perduto completamente 4 idrogeni, si dovevano svolgere circa cme. 500 di gas. L'analisi dimostra trattarsi di puro idrogeno: Gas analizzato, cme. 22,6. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 22,6 Addizionato con cme. 28,8 di ossigeno e fatto esplodere, divenne eme. 23,5. Dopo trattamento con potassa, cme. 23,5. Nel tubo rimase un idrocarburo solido di cui il picrato, giallo-aranciato, cristallizzato più volte, fondeva a 135-137°. Si trattava dunque del diidro- fenantrene; la formazione di questo idrocarburo sta in accordo col minore sviluppo gassoso ottenuto rispetto al teorico, e dimostra che la pressione può in questo caso far retrocedere la disidrogenazione, poichè, come s'è visto, in tubo aperto si ha senz’altro del fenantrene. Si rileva poi che i soli derivati idrogenati del fenantrene che non vengano intaccati dal nickel sono il tetra- e il diidrofenantrene. Naftalina. Nella Nota precedente si sono esposti i risultati delle esperienze fatte con la naftalina e la tetraidronaftalina. Ora ci occuperemo del comportamento della decaidronaftalina in tubo aperto e in tubo chiuso, e della tetraidronaftalina in tubo chiuso. — 129 — La decaidronaftalina venne preparata idrogenando a 150° la tetraidro (*); è noto che a 200° quest’ultima si forma dalla naftalina : perciò doveva aspet- tarsi ahe a 200° la decaidronaftalina perdesse idrogeno. Ma ciò non avviene: la disidrogenazione si inizia soltanto a 250° e allora lo sviluppo gassoso è notevole; all'uscita del tubo si condensa naftalina. L'analisi del gas dimostra la formazione di idrocarburi gassosi : Gas analizzato, cme. 19,3. Dopo trattamento con bromo e potassa, cm. 19,8 Addizionato con cme. 31,2 di ossigeno e fatto esplodere, divenne cme. 26,0. Dopo trattamento con potassa sì ridusse a cme. 24,0. In tubo chiuso a 250° da gr. 1,38 di decaidronaftalina si svolsero dopo 10 ore di riscaldamento soltanto circa cme. 30 di gas, mentre che per for- mare naftalina si dovevano svolgere circa cme. 1200 e per formare tetraidro- naftalina cme. 700 circa d'idrogeno. In questo caso, data la pressione assai piccola (circa 2 atmosfere), che doveva esistere nel tubo caldo, si rileva la grande influenza della pressione nell’ostacolare l'eliminazione d'idrogeno. L’analisi del gas sviluppato dimostra la formazione di idrocarburi gassosi. Gas analizzato, cme. 19,8. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 19,6. Addizionato con cmc. 33,0 di ossigeno e fatto esplodere divenne cme. 34,2. Dopo trattamento con potassa si ridusse a cme. 32,8. In un’altra esperienza in tubo chiuso, riscaldando a 300°, si ebbe uno sviluppo gassoso assai maggiore (circa '/, litro); l'analisi del gas dimostrò un maggior contenuto di idrocarburi gassosi, rispetto all'esperienza precedente. Nel tubo si riscontrò la presenza di naftalina. Da gr. 1,82 di tetraidronaftalina riscaldata in tubo chiuso in presenza di nickel per 8 ore a 250°, si svolsero circa cme. 60 di gas, mentre che una completa eliminazione di 4 idrogeni avrebbe dato cme. 470 circa; anche qui è dunque manifesta la notevole azione della pressione. L'analisi del gas fa vedere che, contrariamente a quanto avviene in tubo aperto, si formano idrocarburi gassosi e probabilmente anche benzolo od omologhi : Gas analizzato, cme. 18,6. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. I/0% Addizionato con cme. 45,3 di ossigeno e fatto esplodere, divenne cme. 46,3. Dopo trattamento con potassa si ridusse a cme. 43,9. (*) Leroux, Comptes-Rendus, CXXXIX (1904), 672. — 130 — Decaidrofluorene. Il fiuorene si può ridurre secondo le esperienze di Schmidt e Mezger (') con varî metodi, compreso quello catalitico (£), fino a decaidroflorene e non più oltre. Secondo L. Spiegel (*) si può ottenere il dodecaidrofluorene. Noi abbiamo preparato il decaidruro riducendo il fluorene con acido iodidrico e fosforo, nel modo indicato dai due primi autori. Questo idrocar- buro, in presenza del nickel a 250°, in tubo aperto, dà uno sviluppo gassoso assai lento. A 300° si sviluppa discretamente un gas che è quasi tutto idrogeno: Gas analizzato, cme. 20,6. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 20,6. Addizionato con cme. 32,8 di ossigeno e fatto esplodere, divenne cme. 27,6. Dopo trattamento con potassa si ridusse a cme. 26,2. In tubo chiuso per 7 ore a 300° diede un forte sviluppo gassoso. Circa 1 gr. dell'idrocarburo sviluppò 400 cme. circa (calcolato 700 circa); da ciò sì deduce che verso la fine del riscaldamento si aveva nel tubo una pres- sione di circa 9 atmosfere. L'analisi del gas dimostra che sotto pressione si ha una maggiore pro- duzione di idrocarburi gassosi: Gas analizzato, cme. 19,8. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 19,7. Addizionato con cme. 33,5 di ossigeno e fatto esplodere, divenne cme. 22,0. Dopo trattamento con potassa si ridusse a cme. 13,6. Ammesso che vi fosse soltanto metano, dalle cifre suesposte, si calcola che la miscela analizzata conteneva metano ed idrogeno quasi in parti eguali. Tetraidrobenzolo. Lo preparammo ossidando il cicloesanolo con acido ossalico; bolliva a 83°. Abbiamo voluto esaminare il comportamento di questo idrocarburo per confrontarlo col cicloesano e vedere l'influenza del grado di idrogenazione sulla scomposizione. In tubo aperto a 250° si ha un abbondante sviluppo gassoso: Gas analizzato, cme. 21,4. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 20,8. Addizionato con cme. 36,6 di ossigeno e fatto esplodere, divenne cme. 38,8. Dopo trattamento con potassa si ridusse a cme. 37,5. (1) Berichte, XL, 4566. (2) L’idrogenazione ha luogo a 150°. (*) Berichte, XLI, 884. — 131 — Si rileva che pel tetraidrobenzolo l'attacco è assai minore che pel ciclo- esano e omologhi ('). Ben diverso è il comportamento del primo in tubo chiuso; da un grammo di tetraidrobenzolo riscaldato per 10 ore a 250°, non ottenemmo che 20 cme. circa di gas, mentre che avrebbe ‘potuto svolgersi più di mezzo litro di idrogeno: è dunque assai notevole in questo caso l'influenza della pressione. Riscaldando per 10 ore a 275°, si ebbero da gr. 1 dell'idrocarburo circa eme. 200 di gas; l’analisi dimostra che la miscela gassosa era prevalente- mente costituita da metano: Gas analizzato, cme. 19,3. Dopo trattamento con bromo e potassa, cme. 19,2. Addizionato con cme. 42,2 di ossigeno e fatto esplodere, divenne cme. 33,8. Dopo trattamento con potassa si ridusse a cme. 22,2. In quest’ultima esperienza non si può evidentemente parlare di influenza della pressione; infatti, ogni quantità d’idrogeno sviluppato (che costituirebbe una pressione utile per far retrocedere la disidrogenazione) attacca immedia- tamente il tetraidrobenzolo, trasformandolo in metano; in tal modo si rende possibile una nuova eliminazione di idrogeno, e prolungando sufficientemente il riscaldamento, la distruzione dell’idrocarburo ciclico sarebbe completa. Da tutte queste esperienze e da quelle esposte nella Nota precedente, si rileva: i 1. Che gli idrocarburi mono-e polinucleari idrogenati, nella disidroge- nazione per azione del nickel vengono più o meno intaccati con formazione di idrocarburi gassosi. Se un idrocarburo dà parecchi prodotti idrogenati, sono maggiormente attaccati quelli a maggior contenuto d’idrogeno. Così il cicloesano è più attaccato del tetraidrobenzolo. Degli idrocarburi da noi presi in esame, i soli non intaccati sono il tetra- e il diidrofenan- trene, anche sotto pressione, e la tetraidronaftalina, a pressione ordinaria. 2. La pressione ha un'influenza sull’azione distruttiva del nickel; in parecchi casi, per le pressioni raggiunte nelle nostre esperienze (non oltre le 10 atmosfere), questa influenza è nel senso di un maggiore attacco. Nel caso della tetraidronaftalina, si ha a pressione ordinaria eliminazione di puro idrogeno; ad una pressione di circa 3 atmosfere si ha formazione di idrocarburi gassosi. 3. Quando un idrocarburo dà parecchi prodotti idrogenati ed ogni ter- mine può essere ottenuto idrogenando ad una data temperatura, se si fa agire il nickel sull’idrocarburo idrogenato al massimo, a temperature man (1) Sabatier e Sanderous, Mouvelles méthodes générales d’hydrogénation, ecc. pag. 139. RenpIcoONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 17 — 132 — mano crescenti, non si può in generale ottenere una eliminazione graduale dell'idrogeno; quasi sempre l'eliminazione comincia a temperatura molto più elevata di quella alla quale avveniva il fenomeno inverso ed è allora com- pleta, fino a rigenerare l'idrocarburo meno idrogenato. Tutto ciò vale per le esperienze fatte a pressione ordinaria. Questo comportamento mette in chiaro che l'idrogenazione ed il fenomeno inverso sono due processi distinti; nella maggior parte dei casi il nickel può provocarli ambedue: ma vi sono sostanze su cui questo catalizzatore opera in un solo senso, come vi sono altri catalizzatori che sono capaci sol- tanto di disidrogenare. Se però si aumenta la pressione, i due limiti di temperatura (massima temperatura alla quale è possibile l’idrogenazione, e minima temperatura alla quale può aver luogo il processo inverso) si vanno avvicinando. Infatti sotto pressione si può idrogenare a temperature alle quali ciò non è pos- sibile a pressione ordinaria ('). Facendo esperienze in tubi chiusi ci risultò in parecchi casi che la disidrogenazione va incompletamente; si vede dunque che sotto pressione i due processi inversi possono aver luogo contemporanea- mente, ed in tal caso il fenomeno assume l'aspetto di un equilibrio. Se poi sui fattori di questo equilibrio abbiano influenza, oltre che la temperatura e la pressione e le concentrazioni dei componenti, anche la natura del catalizzatore, non si può dire @ priore. Se, anche variando ii metallo, per ogni temperatura sì avranno, a pa- rità delle altre condizioni, i medesimi rapporti fra il corpo idrogenato, quello non idrogenato e l'idrogeno libero, il sistema potrà essere studiato come un equilibrio omogeneo. In questo senso ci proponiamo di proseguire la nostra ricerca. Chimica fisiologica. — Sul comportamento del fenilglicosa- zone nell'organismo (*). Nota preliminare del dott. Luciano PIGo- RINI, presentata dal Socio L. LucIANI. Per quanto mi è noto finora dei molti composti che gli zuccheri in generale e il glicosio in particolare formano con svariatissime sostanze orga- niche, a parte gli alcaloidi naturali, furono studiati e illustrati dal punto di vista del comportamento nell'organismo animale la glicosammina e il cloralosio col suo isomero il paracloralosio. Della glicosammina: CH,.0H-(CH.0H);-CH.NH,-CHO, s'occuparono (*) Così il benzolo si idrogena a pressione ordinaria a 200° e non più (Sabatier e Senderens), mentre che a forte pressione può essere idrogenato a 250° (Ipatiew). (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Fisiologica della R. Università di Roma. — 133 — quattro autori, in ordine cronologico Ed. Fabian (*), Offer e Frànkel (?), e infine Manfr. Bial (*). Le ricerche di tutti questi AA. eseguite sia sommi- nistrando la glicosammina, libera o come cloridrato, per os sia iniettandola sotto la cute concordano nel risultato che questa sostanza non viene in modo praticamente rilevabile scissa o in qualunque modo utilizzata dall'organismo. Il cloralosio secondo Hanriot e Richet (‘) ha la formula: cal; CH CH. nf: Di -0H-CH. 0H-CH,. OH 0 Il cloralosio solubile è un ipnotico di azione più intensa dell’idrato di cloralio, invece il cloralosio insolubile o paracloralosio come anche gli. eteri del cloralosio [acetilcloralosio Cs HCl; 0: (C..H30»)*; il benzoilcloralosio Cs H; C130:(C:H;0:)*; l'acido cloralosio disolforico Cs Hs Cl3 0, (SO, H2)?; l'acido cloralico C, Hs CL3:0;, e gli eteri del paracloralosio (acetilparaclora- losio Cs H:C1303(C:H30:); il benzoilparacloralosio; l'acido paracloralosio disolforico Cz H; Cl; 0:(S0,H)?], l'acido paracloralico non possiedono le pro- prietà ipnotiche del cloralosio (*). Sui prodotti di scissione cui va incontro e in cuì il Aosalorto abban- dona l'organismo nulla sappiamo ancora di positivo. Azione del fenilglicosazone. — È noto per i lavori di Fischer (°) che la fenilidrazina reagendo cogli zuccheri dà origine a due serie di composti: gli idrazoni e gli osazoni, dei quali i primi risultano dalla combinazione di una molecola dello zucchero con una di fenilidrazina e i secondi dalla combinazione di una molecola dello zucchero con due di fenilidragina. Più sotto riporto la formula relativa (7). Non essendo ancora riuscito a preparare in quantità sufficiente gli idra- zoni assolutamente puri mi occupo qui orà solo dell’azione del fenilglico- sazone. (1) Fabian in Zeitschr. f. physiol. Chemie, 27, 167. (2) Offer und Frankel in Centrbl. f. Physiol. 13, 489. (*) Bial in Berl. Klin. Wochenschr. 42 (Fetnummer f. Prof. Ewald). (4) Hanriot et Richet in Bull. Soc. chim. de Paris, X/, 37; C. R. Acad. d. Sciences, 117, 134. (5) Hanriot et Richet in Bull. Soc. chim. de Paris, XI. (9) Fischer B. 19, 1020, 27, 2631. (?) Sugli idrazoni e osazoni, loro preparazione, proprietà chimiche, ecc., oltre tutti i più noti manuali di chimica organica, vedi: Maquenne, Zes sucres et les principaua dérivés. 1900, pag. 254; Gattermann, Die Praxis des organischen Chemichers. 1907; Ullmann, Organisch-Chemisches Praktikum. 1908; Parsons Mulliken, /dentification of pure organic compounds, 1905. DE gd Sull'azione dei singoli due componenti di questo corpo, essendo ozioso l’intrattenersi di quella del glicosio, riferirò brevemente di quella della fenilidrazina. La fenilidrazina è assai tossica. La sua azione oltre al manifestarsi sui centri nervosi deprimendoli, si esercita specialmente sul sangue (*). Heinz (?) ha descritto in modo assai esatto i cambiamenti morfologici che avvengono nei corpuscoli rossi nel sangue degli animali avvelenati colla fenilidrazina. Essa riduce inoltre l’ossiemoglobina a metemoglobina. Della fenilidrazina furono sperimentati sull'organismo animale diversi composti, quali l’acetato, l’acetilfenilidrazina o idracetina o pirodina, il levulinato o antitermina, l’aga- tina, prodotto di condensazione: salicilaldeide-metilfenilidrazina, i quali tutti si dimostrarono tossici (5). Io vidi che dosi piccolissime di fenilidrazina non sono sopportate dalle rane, che muoiono rapidamente presentando nel sangue le alterazioni descritte dall’ Heinz. Dalle esperienze che sto per esporre pare invece che la combinazione della fenilidrazina col glicosio, nota sotto il nome di fenilglicosazone e che ha per formula: CH, 0H(CH.0H)-—0——CH | Il CH,.NH.N N.NH.C;H; sia indifferente per l'organismo. Esperienze colle rane. EspERIENZA 1*, 21 aprile 1908, ore 9. — Inietto sotto la cute del dorso una piccola quantità di fenilglicosazone sospeso in acqua distillata (4). Tengo durante la giornata l’animale nella mia stanza del laboratorio. Alle 19 l'animale non ha ancora mostrato alcun disturbo. Taglio e asporto la pelle del dorso e rinvengo un cumulo di cristalli dell’osazone affatto inal- terati. EsPERIENZA 2%, 22 aprile, ore 9. — In una rana ripeto l'esperienza di ieri. In un’altra inietto l’osazone nella cavità peritonale. Lascio tutta la giornata le rane in una vaschetta esposta al sole, in condizione cioè che tutti i loro processi vitali si esplichino nel modo più intenso. Alle 19 le (*) Kobert, ZeArduch der intomikationen. 1906, Bd. II, 783. (3) Heinz in Virch. Arch. 120, 112. (3) Kobert, loc. cit. (4) Gli osazoni si possono ritenere affatto insolubili in acqua. La loro solubilità aumenta secondo Neuberg (Zeitschr. f. physiol. Chemie, 29, 274) in presenza di derivati d’ammoniaca e di alcune sostanze organiche, delle quali sostanze non ho creduto oppor- tuno servirmi in queste prime esperienze sia per la tossicità di molte fra esse sia pel timore di alterazioni nell’andamento dei fenomeni. — 135 — rane che non hanno dato alcun accenno a disturbi, uccise lasciano vedere inalterato il cumulo di osazone nelle relative sedi di iniezione. ESPERIENZA 88, 23 aprile, ore 9. — 5 rane sono iniettate nella cavità peritoneale e esposte nella vaschetta all'aperto, al sole. Alla sera del primo, ‘secondo e terzo giorno ne uccido ogni volta una e nel peritoneo trovo integro il cumulo di osazone. Al quarto giorno le due rane superstiti che come le altre non avevano dato alcun accenno a disturbi funzionali, muoiono per disseccamento, essendosi evaporata nelle ore calde l’acqua posta sul fondo della vaschetta. Esperienza coi pulcini. 1° maggio. A due pulcini dò del grano tritato misto a osazone e inu- midito con acqua. I pulcini mangiano avidamente. 2 maggio. Le feci eliminate dai pulcini si presentano intensamente co- lorate in giallo e al microscopio si riconoscono nettamente i cristallini di osazone. I pulcini stanno benissimo. Esperienze colla cavia. EsPERIENZA 1°, 22 aprile, ore 9. — Inietto sotto la cute una piccola quantità di osazone sospeso in acqua distillata. L'animale non mostra alcuna sofferenza. Le urine raccolte nelle ore seguenti all'esperienza sono normali. 23 aprile, ore 9. Le urine sono normali. Eseguisco una seconda iniezione come quella di ieri. In tutta la giornata nessun fenomeno nè nel compor- tamento dell'animale, nè nella composizione delle urine. 24 aprile, ore 19. Urine normali, l'animale ha ottimo appetito. EspPERIENZA 28, 25 aprile, sera. Usata la cavia dell'esperienza prece- dente che sta benissimo. Una certa quantità di osazone viene sparsa su tre pezzi di foglia di cavolo e dati quindi a mangiare il primo alle 17 e gli altri due coll’intervallo di un quarto d'ora l'uno dall'altro. La cavia mangia la foglia così preparata con eccellente appetito, nè mostra nella sera il mi- nimo disturbo. 26 aprile, la cavia sta ottimamente. 3 maggio. Alla cavia precedente, che è in ottime condizioni, tenuta digiuna da mezzogiorno alle 16, dò a quest'ora foglia di cavolo cosparsa abbondantemente di glicosazone. La cavia mangia con eccellente appetito. Per la notte metto nella gabbia foglia normale. 4 maggio, mattino. L'animale sta benissimo. Le feci hanno esternamente invece del solito colo- rito nero un colorito giallo verdastro, e esaminate al microscopio presentano i cristallini di osazone. Esperienza col cane. 5. maggio, ore 12. A un piccolo cane di kgr. 2,750 somministro per os gr. 0,59 di glucosazone. Nel pomeriggio il cane sta benissimo e nelle prime — 136 — feccie eliminate sembra che l’osazone sia presente. 6 maggio, ore 9. Nelle feccie eliminate dal cane che sta benissimo e ha preso in abbondanza altro cibo, sono presenti numerosi altri cristalli di osazone. L’esperienza viene ripetuta nelle identiche condizioni il 18 e il 20 maggio. Il 22 maggio il cane pesato affatto digiuno raggiunge kgr. 2,860. Da queste esperienze fatte su animali così diversi, per vie diverse, si può dedurre che con molta probabilità il fenilglicosazone non viene scisso dall'organismo animale o che almeno se una parte di esso viene scomposta non si rimette in libertà fenilidrazina che sappiamo essere estremamenta tossica e dar origine ad una evidente sindrome di fenomeni tossici. Quanto a spiegare questo fatto in paragone col comportamento dei gli- cosidi, del cloralosio e della glicosammina ci possa servire la formula di costituzione del fenilglicosazone sarà quello che ci diranno nuove più par- ticolareggiate ricerche su questo composto stesso, sugli idrazoni e una siste- matica serie di ricerche sui derivati degli zuccheri che mi riserbo di fare alla ripresa autunnale dei lavori. Fisiologia. — Su/la lipasi del secreto intestinale (*). Nota riassuntiva del dott. LomBroso, presentata dal Socio L. LUCIANI. Gli autori che peri primi studiarono le attività enzimatiche del secreto intestinale, giunsero ai più contradditori risultati, per cui opinioni assai disparate erano sostenute. Mentre qualche autore attribuiva al secreto en- terico tutte quelle attività enzimatiche che sono riconosciute al secreto pan- creatico (amidolitica, proteolitica, lipolitica), altri autori negavano l'esistenza di attività enzimatiche nel secreto enterico. La causa di così diverse opinioni è da ricercarsi nelle modalità colle quali veniva volta a volta raccolto il secreto enterico e ne venivano saggiate le proprietà enzimatiche. Così coloro che (Leuret, Lassaigne (*), Bidder e Schmidt (3), Frerichs (4), Zander (3) ed altri) raccolsero il succo enterico che defluiva da fistole inte- stinali semplici, praticate in tratti vari dell'intestino, o il secreto raccoltosi dopo semplici legature; osservarono per lo più che questo succo era attiva- mente lipolitico, proteolitico ed amidolitico. Ma giustamente sì obbiettò che tali risultati non erano dimostrativi, perchè con queste tecniche si raccoglieva (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Fisiologia della R. Università di Roma. (®) Leuret et Lassaigne, Rech. physiol. et chim. pour servir a l’histoire de la di- gestion. Paris, 1825. (®) Bidder u. Schmidt, Die Verdauungssifte u. d. Stofwechsel. Leipzig, 1852. (4) Frerichs, Wagner's Mandwòrterbuch d. Physiol. Bd. 3, 1846. (5) Zander, De succo enterico. Inaug. Diss. Dorpat, 1352. — 137 — oltre al succo enterico, succo panereatico e bile; e che a questi potevasi attri- buire i fenomeni digestivi osservati. Coloro invece che credettero di saggiare le attività enzimatiche del succo enterico introducendo nel lume intestinale le sostanze di prova rac- chiuse in sacchetti, giunsero a risultati positivi soltanto se lasciarono molto tempo le sostanze in sito (Bidder e Schmidt ('), Dobrozlawin (2), Busch (5))- In questi ultimi anni, coll’introduzione di un metodo più adeguato, sia per la raccolta del secreto enterico (fistola intestinale del Tiry-Vella), sia per l'esame delle sue proprietà enzimatiche, si è raggiunto fra i varî autori un completo accordo riguardo alla esistenza di molte proprietà enzimatiche. È ormai ammesso da tutti che il succo enterico esercita un'azione amidolitica molto attiva specialmente sull’amido cotto, un’azione inversiva sullo zucchero di canna, un'azione sensibilizzatrice sul secreto pancreatico mediante la sua chinasi, ecc. ecc. Ammessi questi fatti fondamentali, gli sforzi dei ricercatori sono oggi- giorno rivolti a problemi più particolareggiati, come ad esempio a determinare quale degli elementi chimici componenti il succo enterico costituisca la chinasi, se esista un erepsina, se la chinasi e l’erepsina siano due distinti enzimi o se invece non costituiscano che azioni diverse d'uno stesso en- zima, ecc. ecc. Che il secreto enterico di per sè solo non sia capace a digerire l’albu- mira è ora affermato universalmente; discusso invece è tuttora, dalla mag- sioranza però negato, se sia o non sia il succo enterico capace di scindere i comuni grassi neutri alimentari. L'esame in vitro dell’azione esercitata dal succo enterico sui grassi neutri dimostrò, anche nei casi più favorevoli, che una assai scarsa quantità. d'acido grasso s'era liberata, la quale, dati i metodi piuttosto grossolani usati per determinarla, non costituiva una prova soddisfacente per ammettere l’esì- stenza di un potere lipolitico (Kriger (4), Pregl (?)). Altri casi nei quali s'era liberata una quantità sufficientemente apprez- zabile d'acido grasso non furono presi in considerazione; contro questi si obbiettò che la presenza di microrganismi poteva spiegare la formazione dell’acido grasso, indipendentemente dall'eventuale azione propria del succo enterico. Ricerche di controllo, eseguite in presenza di sostanze (cloroformio, calomelano) atte ad arrestare l'azione microbica, dimostrarono che in queste condizioni non si liberano acidi grassi dai grassi neutri. A queste ultime ri- cerche si può però obbiettare che l'enzima lipolitico è vulnerabilissimo, quello. (1) Bidder u. Schmidt, loc. cit. (®) Dobrozlawin, Rollets Untersuchungen, 1870. (?) Busch, Virchows Archiv. Bd. 14, 1858. (4) Kriger, Zeitschrift f. Biologie. Bd. 37, 1893. (5) Pregl, Pfiùgers Archiv. Bd. 61, 1895. — 138 — del succo pancreatico ad esempio viene molto attenuato, se non completa- mente reso inattivo, in condizioni nelle quali invece le altre sue proprietà enzimatiche non mostrano una corrispondente alterazione; era quindi possibile che le stesse sostanze le quali ovviavano l’azione microbica, alterassero nel contempo l’azione lipolitica propria del succo enterico. Ma alla conclusione che il succo enterico non possieda enzimi lipolitici, giungevasi anche pel risultato di ricerche eseguite in altro campo. Fu osser- vato che dopo l'estirpazione del pancreas compare nelle fecce una quantità di grasso corrispondente in peso alla quantità del grasso alimentare (Abel- mann (!), Hédon (*) ed altri). Si dedusse da questo fatto : 1° che il grasso delle fecce rappresenta il grasso alimentare non assorbito ; 2° che il grasso alimentare non veniva assorbito perchè mancava il secreto pancreatico nel tubo digerente. Soltanto il secreto pancreatico sa- rebbe dotato di una attività enzimatica efficace per la digestione ed assor- bimento del grasso. Queste deduzioni appaiono talmente giustificate dal dato di fatto osser- vato, che sono state accettate da tutti. Eppure contro esse stanno altri dati di fatto altrettanto validi per cui io credo che altra avrebbe dovuto essere l’in- terpretazione del fenomeno osservato dopo l'estirpazione del pancreas. Io ricorderò che l’assorbimento del grasso si compie pressochè normalmente quando invece di esportare il pancreas si legano e recidono i detti escretori, e che d'altra parte, quando un animale è spancreatizzato perde nelle fecce grasso in quantità presso a poco uguale all'alimentare, anche se veniva som- ministrato in forma d'acido grasso o sapone (*), che rappresentano appunto il risultato dell'azione del secreto pancreatico sui grassi. Non mi trattengo oltre su tale questione; ho voluto soltanto farne cenno, perchè il risultato delle ricerche che esporrò, contribuisce appunto a spiegarci come può il grasso venir assorbito anche quando manca nel tubo digerente il secreto pancreatico. Già nel 1903 (*) avevo osservato che il succo enterico che defluisce da un'ansa del Vella sia spontaneamente dopo il pasto, sia per la somministra- zione di piccole dosi di pilocarpina, è lievemente lipolitico. Da due c. c. di tale secreto con cinque c.c. d'olio di mandorle dolci si sviluppa (in presenza di timolo) in tre-sei ore nel termostato a 40°, tanto (‘) Abelmann, Veber die Ausnutzung der Nahrungstoffe nach Pankreasexstirpation, 1890. Jnauguraldissertation. Dorpat. (3) Hédon. Arch. de Physiologie, 1597. | (®) U. Lombroso e San Pietro, Sull'assordbimento dei grassi neutri, acidi grassi e | vaponi nei cani spancreatizzati, 1902. Giornale della R. Accademia di Medicina. Torino. (4) Lombroso, Atti del Congresso di Patologia. Firenze 1903. — 139 — acido oleico da richiedere 1,5-2,5 c. c. di soda ’/,o n. per esser neutralizzato. Avevo inoltre osservato che non si presentano differenze rilevabili di questo lieve potere lipolitico fra un secreto raccolto dopo un pasto ricco di sostanze grasse ovvero privo delle stesse. Nel 1905 Boldireff (*), nel laboratorio di Pawlow giunse a risultati uguali. Recentemente ho potuto convincermi che quando la muccosa intesti- nale è opportunamente eccitata, il secreto enterico è molto più attivamente lipolitico di quanto le mie prime ricerche m'avevano indicato. Studiando l’azione della mucosa intestinale rispetto agli acidi che sì formano durante la digestione (*) (acidi grassi, acido cloridrico, lattico, carbo- nico ecc.), avevo osservato che introducendo in un'ansa del Vella una soluzione d'acido grasso (acido oleico sciolto in bile) si determinava un’ abbondantis- sima secrezione di un succo denso, vischioso. Questo secreto è dotato di una cospicua attività lipolitica; da 2 c. c. di secreto più 5 c. c. olio mandorle dolci in presenza di timolo si sviluppa dopo tre-sei ore di termostato a 40° tanto acido oleico da richiedere 6, 7, 8 ed anche più c.c. di soda !/,, n per essere neutralizzati. Se noi facciamo gli opportuni calcoli per applicare la legge di Schultze Borilow vediamo che il secreto raccolto in queste condizioni è dieci-venti volte più lipolitico che il secreto raccolto per secrezione spontanea dopo il pasto. Gli altri suoi poteri enzimatici non appaiono aumentati ‘in simili pro- porzioni. } L'introduzione di altri acidi (cloridrico, lattico, carbonico) determina una secrezione sierosa, più scarsa, sprovvista o quasi di attività lipolitica; ciò che fa sempre di più emergere il fatto che lo stimolo chimico partico- lare prodotto dall’acido oleico in diretto contatto colla mucosa, è capace di determinare questa particolare secrezione. Che a stimoli speciali, a diretto contatto colla mucosa intestinale possa corrispondere una secrezione dotata di speciali attività enzimatiche, è un concetto che trova appoggio in un’altra osservazione fatta molto prima della presente, da Pawlow. Pawlow (3) avrebbe osservato che introducendo in un'ansa intestinale del Vella, del succo pancreatico fresco, si ha una rilevante produzione di chinasi, ciò che non avviene se si introduce succo pancreatico bollito. Sarebbe dunque in questo caso la protripsina, la sostanza, secondo Pawlow, specifica per determinare una secrezione di chinasi atta a trasformarla in tripsina attiva. (1) Boldireff, Arch. des sciences biologiques, St. Pétersbourg, 1905. Le travail pério- dique de l’apparat digestif. (2) Lombroso, Sull'azione della muccosa intestinale rispetto agli acidi che si for- mano nella digestione. Archivio di Fisiologia, Firenze, 1907, pag. 356, vol. Ve (*) Pawlow, Ze travail des glandes digestives, 1901. RenpIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 18 — 140 — È ovvio che dopo la somministrazione di grasso, tutto il lume intesti- nale è sottoposto all’azione stimolante degli acidi grassi. È stato già osservato e confermato che nello stomaco stesso sì inizia la scissione del grasso neutro in acido grasso e glicerina. Attivissima poi, a questo riguardo è l’azione del succo pancreatico coadiuvato dalla bile, nel primo tratto dell’intestino. Du- rante la digestione del grasso, sì versa quindi nell'intestino una grande quantità di succo intestinale capace di cooperare efficacemente a questo processo. Il fenomeno che ho sopra ricordato, che cioè si può osservare un discreto assorbimento di grasso quando si legano i dutti pancreatici, o si impedisce in altra maniera al secreto esterno di giungere nell’intestino, si comprende assai più facilmente ora che abbiamo appreso l'esistenza di un’enzima lipo- litico nel secreto enterico. Non è quindi più necessario ricorrere all'ipotesi di Abelmann ('), Rosenberg (*), Pflùger (*), i quali, per spiegare come mai fosse possibile l'assorbimento del grasso a pancreas presente nell'organismo ma non segregante nell'intestino, ammisero che il secreto esterno venisse riassorbito e giungesse in esso per altra via. Dato che il succo intestinale che si segrega durante la digestione del grasso, è dotato di quelle proprietà enzimatiche che sono atte a collaborare in tale processo, il grasso può venire assorbito in virtù appunto di questa sua azione. Biologia. — Contribuzione alla conoscenza di alcuni protozoi parassiti della Periplaneta orientalis. (Lophomonas blat- tarum Stein, L. striata Bitschli, Amoebdba blattae Bùtschli). Nota del dott. CosrANTINO JANICKI, presentata dal Socio B. GRASSI. Ho preso a studiare nel Laboratorio di Anatomia Comparata di Roma, dietro consiglio del prof. B. Grassi, la morfologia ed il ciclo evolutivo di due specie di Zophomonas e dell'Amoeba blattae, protozoi abbastanza comuni insieme ad altri numerosi nell'intestino posteriore della Periplaneta orientalis. Benchè non abbia ancora terminato le mie ricerche in proposito, tuttavia l'insieme dei fatti da me finora osservati mi autorizza a pubblicarne un breve riassunto preliminare; riservo al lavoro definitivo i particolari più minuti e le ulteriori osservazioni dirette a completare lo studio. Non posso tuttavia lasciar trascorrere l'occasione senza ringraziare cal- damente il prof. B. Grassi dell’ ospitalità cortese offertami nel Laboratorio da lui diretto e dei preziosi consigli, che egli ebbe sempre a prodigarmi. (1) Abelmann, loc. cit (3, Rosenberg, Pfligers Archiv, 1898. (3) Pflùger, Pfiùgers Archiv. Bd. 108, S. 123, 1905. — l4l —- Ringrazio pure la signorina dott. A. Foù per avermi gentilmente aiutato a superare le prime difficoltà, che presenta la tecnica microscopica dei protozoi. Lophomonas blattarum Stein. Questo fiagellato presenta un corpo in forma tondeggiante o ovalare, di cui il polo posteriore nella direzione dell'asse longitudinale è curvo, l'altro polo, anteriore. alquanto ristretto e.tronco terminalmente. La grandezza del- l'animale varia considerevolmente; la maggior parte degli esemplari misu- rano 0,032 mm. secondo il diametro longitudinale. La estremità anteriore, provvista del ciuffo dei flagelli, porta il caratteristico apparato nucleare, il quale, come vedremo, attesta i suoi rapporti colla funzione locomotrice dei flagelli. L'apparato nucleare risulta da un grazioso calice approfondato nell’estremità anteriore del corpo, e questo calice alloggia il nucleo tondeg- giante; oltre ciò dalla base del calice, quasi come suo prolungamento, si approfonda nel plasma dell'animale verso la sua estremità terminale, attra- versandolo per tutta la sua lunghezza e anzi sporgendo alquanto al di là della periferia del corpo, un bastoncello assile. Attorno al calice contenente il nucleo si riscontra come una parte dell'apparato nucleare una formazione quasi sferica, che mostra una struttura raggiata risultante da sottilissimi fibrille; questa formazione vista in sezione ottica ricorda in certo modo una aureola raggiata; essa è certamente omologa all’organello descritto da Grassi e Foà nella Joenia annectens col nome di collare (*), può essere quindi in- dicata collo stesso nome. Lo spazio, nel quale si trova il collare, apparisce occupato da un fluido incoloro ed è limitato più o meno nettamente con una linea quasi circolare dal plasma granuloso adiacente. Al margine del calice che circonda il nucleo si trova l'inserzione del ciuffo di circa 40-50 flagelli. La inserzione di questi avviene secondo una linea quasi a ferro di cavallo, cioè non perfettamente circolare e come si può scorgere nei preparati colo- riti oppure, mediante un opportuno trattamento, anche a fresco ogni flagello sta in relazione con un doppio corpusculo basale (Diplosoma), vale a dire, con un piccolissimo corpicciuolo distale e con un corpuscolo prossimale più grande, allungato secondo l'asse principale dell'animale. Questi ultimi cor- puscoli basali per la loro adiacenza formano nel loro insieme vicino alla periferia del calice una stria rifrangente, quasi continua, della forma di un ferro di cavallo. I flagelli, come io debbo rilevare contrariamente 2 ciò che dice Biitschli (*), sono tutti liberi, il loro accollamento non è un fenomeno di natura costante. D'altra parte io posso confermare il reperto di Bitschli, (1) B. Grassi e A. Foà, Ricerche sulla riproduzione dei flagellati. I. Processo di divisione delle Joenie etc. Rendic. R. Accad. dei Lincei, Cl. sc. fis. mat. e nat., vol. XIII, 1904. (®) O. Biitschli, Beitràge eur Aenntniss der Flagellaten und einiger verwandter Organismen. Zeitschr. f. wiss. Zoologie, Bd. 30, 1878, pag. 259. — 142 — che cioè i flagelli mediani sono più lunghi di quelli esterni. Non mi è stato possibile determinare un qualsiasi collegamento tra i corpuscoli basali ed il nucleo. L'insieme degli organelli, cioè il nucleo, colle membrane che lo cir- condano in forma di calice, il collare, il bastoncello assile, i corpuscoli hba- sali e il ciuffo di flagelli formano una unità totalmente distinta dal resto del protozoo, nel quale è racchiusa, e può forse in un modo adatto essere indicata come « apparato nucleare-locomotore », notando che implicitamente ad esso si debbono attribuire anche le funzioni di scheletro. Questo apparato è stato in particolar modo descritto da Grassi e Foà nel genere Joerza e sembra, che esso debba riguardarsi come una formazione molto caratteristica nella famiglia dei 7r:chonymphidae; ma oltre che in questi esso si deve poter riscontrare, almeno nelle sue parti principali anche in altri flagellati, come infatti è già avvenuto per parte di alcuni autori, specialmente di Prowa- zek e di Foà. Il nucleo tondeggiante apparisce in vita come una vescicola omogenea un po rifrangente. Mediante le colorazioni si riconosce che la cromatina in certe determinate fasi del nucleo è diffusa nello spazio nucleare a granuli talvolta piccoli, talvolta grandi, e corrispondentemente più o meno numerosi. In molti casì la ripartizione della cromatina nel nucleo è omogenea; in altri casi apparisce entro il nucleo per lo più alla sua periferia una massa cromatica, spesso in forma semilunare, distinta dal rimanente contenuto nucleare e mostrante una fortissima affinità per i colori nucleari; il signi- ficato di questa massa è ancora incerto. Cromosomi spiccatamente indivi- dualizzati si scorgono specialmente durante i processi della formazione delle cisti, come poi estesamente si dirà in seguito. La forma del corpo del LZ. dlattarum non mostra alcuna modificazione considerevole quando il protozoo nuota, quando cioè i movimenti si effettuano liberamente. Allorchè invece l’animale si muove tra le numerose particelle del contenuto intestinale della Blatta il corpo, specialmente nella sua estre- mità anteriore è soggetto ad una metabolia rilevante. Una vera formazione di pseudopodi però non avviene. Il corpo del flagellato è per lo più pieno di corpuscoli di nutrizione, relativamente grossi, tra i quali prevalgono le spore dei saccaromiceti, della Pleisfophora inoltre corpuscoli amilacei; tal- volta sì riscontrano i corpicciuoli nutritivi in quantità straordinaria. Attorno ai corpicciuoli di nutrimento si trova un vacuolo di nutrizione, oppure esso può mancare, evidentemente secondo il diverso stadio del processo di dige- stione. La presa del nutrimento avviene in corrispondenza ad ogni parte del corpo, eccezione fatta per l'estremità anteriore in relazione coll’apparato nu- cleare-locomotorio. Altrettanto si dica per l'espulsione dei prodotti fecali. Ambedue i processi debbono prodursi in modo straordinariamente rapido, in relazione colla intensa vitalità di questi protozoi. Posso confermare (Bùtschli), — 143 — che talvolta all'estremità posteriore del corpo dell'animale si forma un fila- mento plasmatico, il quale nel movimento viene trascinato; talvolta questo filamento serve ad una temporanea fissazione del parassita che però seguita sempre a vibrare il suo ciuffo di flagelli. Sopra i processi della divisione nucleare allo stato libero per ora non posso precisare nulla, avendo riscontrato finora in questa specie soltanto nuclei già divisi. Non di rado, come già ha accennato Biitschli, vengono trovati esemplari in divisione, cioè provvisti di due nuclei e corrispondentemente di due ciuffi di flagelli ecc. ossia di un doppio apparato nucleare-locomotorio; i nuclei da principio si trovano vicini uno all’altro e si allontanano in se- guito migrando alla periferia. Inoltre si riscontrano anche flagellati in divi- sione contenenti in diversi punti del corpo tre o quattro nuclei coi rispet- tivi ciuffi, bastoncelli ecc. In tutti questi casi i flagelli si muovono attorno vivacemente e per la presenza di tre o quattro ciuffi di flagelli gli animali mostrano movimenti irregolarissimi e la forma del corpo apparisce in alto grado variabile. Tali animali possono essere pieni di particelle nutritive, come quelli, che non si trovano in fase di divisione. In ogni stagione dell’anno vengono trovati nel contenuto dell’ intestino posteriore della Periplancta le cisti del ZL. blattarum. Le cisti sono di forma regolarmente tondeggiante, di diametro trasverso di circa 0,017 mm. La membrana della cisti è spessa, trasparente, rifrangente fortemente, molto resistente ma però facilmente permeabile ai liquidi. Per lo più queste cisti presentano due nuclei non grandi, tondeggianti ovalari sino a forma di reni, disposti ai poli di un fuso di notevole grandezza in forma di un bastoncello. La cromatina è talvolta condensata in una grossa massa centrale in mezzo allo spazio chiaro del nucleo, o si mostra suddivisa in cromosomi tondeg- gianti. Nella vicinanza di ognuno dei due nuclei si scorge per lo più un piccolo corpicciuolo cromatico, in casi rarissimi due; se si tratti di corpu- scoli polari non si può finora dire con precisione. Talvolta ad ogni estremità del fuso è visibile un granulo paragonabile ad un centrosoma o centriolo. Il plasma della cisti presenta uniformemente dei grossi granuli. Tra l’animale libero e la cisti si riscontrano diversi stadi di passaggio. Il protozoo inizia il suo incistamento liberandosi di tutta la sostanza nutri- tiva, e questo processo si può forse spiegare in modo, che l'animale mal- grado la presenza di nutrimento abbondante attraversa un periodo di digiuno. Il corpo assume una forma regolarmente tondeggiante. Quindi viene riassor- bito il collare e in seguito avviene pure una riduzione del bastoncello as- sile. Il calice intorno al nucleo si dissolve e quest’ultimo perde in questo modo i rapporti col ciuffo dei flagelli. Nello stesso tempo apparisce nel plasma addossato strettamente al nucleo l’abozzo del fuso in forma di un piccolo bastoncello spesso. Questo abozzo del fuso è completamente indipen- dente dall’esiguo resto del bastoncello assile dell'animale. Durante questo — 144 — processo nei grandi nuclei distintamente limitati rispetto al circostante plasma da una membrana nucleare i cromosomi tondeggianti divengono net- tamente visibili nello spazio nucleare completamente trasparente (s'intende. che ciò si riferisce a preparati coloriti). Ho rilevato i cromosomi in numero di 5, 6, 7, 8 e ritengo quest'ultimo numero, che inoltre si riscontra spesso in altri flagellati, come il normale. Il nucleo, con l’abozzo del fuso in via di accrescimento, che gli giace accanto, si approfonda nel corpo del- l'animale, il quale allora segrega la membrana della cisti. Dopo che la mem- brana nucleare si è sciolta il nucleo si divide in due secondo una primitiva mitosi, e i due nuclei ugualmente grossi risultanti della divisione si di- spongono ai poli del fuso persistente. Se a questa divisione del nucleo della cisti segua un processo di auto- gamia, io per ora purtroppo non posso precisare nè in modo positivo nè in modo negativo. Rimane però come un fatto certo, che il numero preponderante delle cisti nell'intestino posteriore della blatta e nelle feci è formato da cisti contenenti due nuclei. Per la durata di mesì interi nelle feci disseccate ri- mangono delle cisti in questo stadio, sempre con il fuso persistente, che dà l'impressione di una formazione stabile e rigida. Frattanto altre cisti hanno subìto una moltiplicazione dei nuclei, la quale certamente dovrebbe mettersi in relazione con una divisione del contenuto delle cisti per produrre diversi individui, ciò che nel mio caso non ho ancora potuto determinare. La mol- tiplicazione dei nuclei si compie innanzi tutto in modo che ogni nucleo su- bisce una divisione in due parti uguali, con graduale riduzione del fuso primitivo. Le due nuove paia di nuclei rassomigliano per la grandezza e l'aspetto ai due originari nuclei della cisti, e i nuclei di ogni paio riman- gono riuniti per mezzo di un fuso della stessa qualità del primo. In seguito, mediante divisione, vengono prodotti diversi piccoli nuclei (soltanto da un paio solo?) e si riscontrano due specie di nuclei. Così per esempio una cisti presa da feci vecchie mostra oltre a due grandi nuclei vescicolosi, 14 piccolis- simi nuclei i quali appariscono riuniti paio a paio mediante 7 sottilissimi fusi bastoncelliformi. Io non posso finora dire nulla di sicuro sul prodotto della cisti, la quale deve essere interpretata come cisti duratura e riproduttiva. Secondo le mie ricerche non esiste una eterogamia dei flagellati nello stato libero vegetativo. Lophomonas striata Bwtschli. Questo flagellato, descritto fedelmente nel suo aspetto esterno da Bitschli (*), mostra pure, come il precedente, una considerevole variabilità nelle sue dimensioni; in media la sua lunghezza può essere indicata di (') Butschli, 1. c. pag. 261 e seg. — 145 — 0,048 mm. La caratteristica striatura del corpo a fascie oblique, talvolta quasi disposte a spirale, è nella sua maggior parte una formazione dello strato superficiale del plasma. L'apparato nucleare-locomotorio forma come in L. blattarum una unità, e presenta in questo caso in modo più spiccato una formazione assile del corpo. Sulla linea mediana entro il corpo, dal- l'estremità anteriore troncata, si estende all'indietro sino circa al primo terzo del corpo una formazione a cono allungato, costituita da sottilissime membrane, che si va gradatamente affilando all'indietro. Questa forma- zione corrispondente al calice del Z. blaltarum contiene oltre una specie di plasma alquanto modificato un nucleo allungato ovale, collocato in vi- cinanza all'estremità anteriore del corpo. La formazione membranacea a cono allungato si continua posteriormente in un sottilissimo bastoncello assile, che si può mettere specialmente in evidenza con l’ematossilina fer- rica ('). Questo bastoncello termina in corrispondenza al secondo terzo del corpo e contrariamente a quanto avviene nella specie precedente non sporge mai fuori del corpo. Manca completamente a questa specie quel collare, il quale nel Z. dlattarum abbraccia la regione contenente il nucleo, ciò che tenuto conto della grandissima somiglianza fra i due flagellati, in riguardo alla struttura dell'apparato nucleare-locomotorio, certamente apparisce come un carattere importante. Il ciuffo dei flagelli, come nel LZ. blattarum, sta in relazione con una doppia serie di corpuscoli basali, cioè con un corpicciuolo sottilissimo distale e un corpuscolo prossimale piuttosto allungato disposto in vicinanza del nucleo. Si deve ritenere, che come nell'altra specie anche qui ogni flagello corrisponda ad un paio di corpuscoli basali eterogenei, che si trovano uno sopra l’altro, benchè qui questi rapporti siano molto meno analizzabili in confronto al Z. blattarum. Per la loro posizione avvicinata i corpuscoli basali della serie inferiore destano, nella posizione ordinaria dell'ani- male, l'aspetto di una stria fortemente rifrangente. I corpuscoli basali sono disposti adiacentemente alla parte anteriore della membrana a forma di cono, che circonda il nucleo, e perifericamente ad essa. Una qualsiasi relazione fra il nucleo e i corpuscoli basali nello stadio vegetativo di riposo dei fla- gellati non può essere determinata. Il nucleo relativamente piccolo, di forma ovale allungata, con il suo lungo diametro situato lungo l’asse principale dell'animale, mostra una di- stinta membrana nucleare e secondo le fasi presenta la cromatina in granuli più o meno grandi. Spesso nel nucleo, adiacente immediatamente alla sua, (®) Sarà forse opportuno di ricordare a questo riguardo che la vera natura del ba- stoncello assile è stata riconosciuta per la prima volta nel 1888 dal Grassi nella Joente e Trichomonas in contrapposto a Biitschli e Blochmann, che hanno descritto nel Zricho- monas la stessa formazione come una carena alla superficie del corpo. (B. Grassi, Mor- fologia e sistematica di alcuni protozoi parassiti. Atti d. R. Accad. dei Lincei, 1888, Ser. IV, Rendiconti, vol. IV). — 146 — base, si vede un particolare granulo di cromatina molto spiccato e forte- mente tingibile coll’ematossilina. Questo granulo può essere interpretato come una sorta di corpo interno (« Innenkòrper =) o cariosoma. In contrapposto alla notevole metabolia del corpo del £. blaztarum, la L. striata è una formazione rigida, che sebbene si trovi in continuo movi- mento in diverse direzioni mediante l’incessante attività dei flagelli, non si mostra capace di curvare il corpo. Grandi particelle di nutrizione come spore, saccaromiceti ecc. non vengono mai trovate nell’interno dei flagellati, ma anche piccole particelle nutritive sembrano mancare totalmente. Talvolta nel plasma perifericamente al bastoncello assile, oppure nel passaggio tra quest’ultimo e le membrane che circondano il nucleo, vengono trovate for- mazioni granulose, però neanche in questo caso si dovrebbe trattare di nu- trimento direttamente assunto. Sembra che in questa specie il nutrimento sia rappresentato soltanto da liquidi che vengono assorbiti mediante tutta la superficie del corpo. Si riscontrano nello stadio libero del fiagellato diversi stadi di divi- sione. Il nucteo viene liberato delle membrane circostanti e migra nella direzione dell'asse longitudinale verso la parte media dell'animale. Il vecchio bastoncello assile viene disciolto, ma il ciuffo di flagelli colla doppia serie di corpuscoli basali resta conservato immutato durante tutto il processo di divisione e seguita a vibrare indipendentemente dai processi di divisione, che si effettuano nel nucleo, un fenomeno questo, che sembra in certo modo appoggiare la interpretazione della autonomia dei corpuscoli basali. In ogni modo, tanto per il ciuffo di flagelli quanto per i corpuscoli basali nulla viene usato per i due individui figli; questi organelli sono in essi comple- tamente neoformati. In diretta vicinanza del nucleo, che migrato nella pro- fondità del corpo si sta preparando alla divisione si costituisce nella dire- zione dell'asse lungo del corpo (') come abbozzo del fuso, una formazione a bastoncello per lo più debolmente curva nella sua parte media; ai suoi poli si trova un piccolissimo corpicciuolo in forma di centriolo. Mi riserbo di par- lare sui minuti processi della divisione nucleare nel lavoro esteso. Dopochè i due piccoli nuclei risultanti dalla divisione appariscono ai poli del sottilis- simo fuso in rapporto ad ogni nucleo, eoll’anteriore anteriormente, col posteriore (!) A questo proposito deve essere rilevato che il comportamento del bastoncello ‘assile, durante la divisione del 7richomastix lacertae descritto dal Prowazek certamente non dovrebbe corrispondere a ciò che veramente avviene. Secondo il Prowazek il bastoncello assile, che si trova in direzione dell’asse longitudinale del corpo, mediante un accorcia- mento e un'espansione in senso trasversale assume una posizione di 90° in riguardo alla precedente e provoca una dilatazione e divisione della cellula. Il vecchio bastoncello as- sile invece deve andar perduto, come nella Joeria (Grassi e Foà) e nel Lophomonas, e il bastoncello perpendicolare ad esso deve essere un fuso nuovamente formato. S. Prowazek, Untersuchungen iiber einige parasitische Flagellaten. Arb. aus d. kais. Gesundheitsamte, Bd. XXI, 1904. nr—===" === — 147 — posteriormente diventano visibili gruppi di granuli che si comportano come la cromatina e sono gli abbozzi dei corpuscoli basali dei due futuri individui. Se questi abbozzi dei corpuscoli basali provengano dai rispettivi nuclei di- visi mediante un processo da paragonarsi ad una nuova divisione, non si può finora determinare con sicurezza, ma io lo ritengo verosimile. I due nuclei, che vanno accrescendo, ciascuno accompagnato dall' abbozzo dei corpuscoli basali, si allontanano man mano l’uno dall'altro nella direzione dei poli del fla- gellato. Dal residuo del fuso, che ha partecipato alla divisione nucleare, e pre- cisamente dalla sua metà anteriore e dalla sua metà posteriore, hanno origine rispettivamente i due bastoncelli assili in relazione coi due nuclei nuovi, ciò che corrisponde al comportamento determinato per la prima volta da Grassi e Foà nella Joenza (*). Quando già uno dei nuclei arriva in vicinanza dell’ estremità anteriore, quest’ ultima conserva ancora in modo invariato il vecchio ciuffo di flagelli coi suoi corpuscoli basali e anzi queste vecchie parti persistono quando già le nuove serie dei corpuscoli basali delle due parti hanno raggiunto la superficie del corpo, benchè non ancora proprio all'estremità dei poli, e quando in relazione con questo fatto si sono formati i nuovi ciuffi di flagelli. L'animale presenta quindi in questo stadio l’aspetto esterno ordinario di un individuo, che non è in divisione, colla sola diffe- renza però, che in vicinanza al vecchio ciuffo di flagelli vibra il neoformato apparato flagellare di una metà del corpo, mentre all'estremità posteriore, ancora normalmente affilata, si riscontra il nuovo ciuffo della seconda metà. Finalmente va perduto il vecchio ciuffo di flagelli col suo apparato basale, i due poli del flagellato diventano uguali presentandosi come normalmente si presenta il polo anteriore e si mostrano provvisti di nucleo, ciuffo di fla- gelli e corpuscoli basali. L'animale si allunga, prende la forma quasi di manubrio, diventando sempre più lungo, finchè le due parti rimangono riu- nite soltanto da un sottile filo e dopo ciò segue la completa divisione. Anche in questa specie vengono formate cisti durature, in generale della stessa grandezza come nella specie precedente, oppure più piccole. Quando i L. striato stanno preparandosi alla formazione delle cisti essi si presentano in forma sempre più breve e accorciata sino ad avvicinarsi alla forma ton- deggiante col diametro lungo di circa 0,020 mm. o ancora meno, e in questo stadio il flagellato nuota per mezzo del ciuffo di flagelli ancora conservato. Tali forme tondeggianti erano già note a Bitschli. In seguito gli animali perdono i loro flagelli e diventano immobili; sotto la striatura del plasma, la quale in questo stadio apparisce in particolar modo regolare ed eviden- (1) B. Grassi e A. Foà, 1. c. — Hartmann e Prowazek danno la stessa interpretazione del bastoncello assile senza ricordare però che la dimostrazione esatta della natura di esso è stata per la prima volta data da Grassi e Foà. Vedi: M. Hartmann und S. v. Prowazek: Blepharoplast, Caryosom und Centrosom. Archiv f. Protistenkunde, Bd. 10, 1907. pag. 327. RenpIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 19 — 148 — temente soltanto una produzione dello strato superficiale, si vide il limite netto del contenuto tondeggiante della cisti. Ben presto la striatura esterna va perduta e i suoi elementi appariscono come sottili bastoncelli rifrangenti sparsi in modo irregolare intorno alla cisti ormai formata. Anche in queste cisti il nucleo si divide in due parti, che rimangono riunite per mezzo di un fuso a forma di bastoncello per altro molto sottile. Poco dopo apparisce nel plasma della cisti una struttura filamentosa ravvolta, la quale non è soltanto superficiale, ma si estende a tutto il contenuto della cisti e ricorda in certo modo un fascio aggomitolato di spermatozoi in un follicolo testi- colare. Sopra gli ulteriori processi delle cisti binucleate di Z. str%ata io non posso finora nulla comunicare di particolare. Dalle mie ricerche sinora non risulta se Z. str7ata abbia qualche rap- porto col ciclo vitale della specie tanto vicina Z. blattarum, ciò che già Biitschli ha espresso come supposizione ('), pensiero che anche oggi può tornare in campo. Amoeba blattae Bitschli. Aggiungo alcune osservazioni sopra questo rizopodo parassita tanto in- teressante sotto molti punti di vista; non sono però riuscito a stabilire il ciclo completo della sua vita malgrado l’attenzione che io ho rivolto a questo soggetto, ciò che del resto 3 anni addietro è avvenuto anche a Schubotz (?). Specialmente notevole è il nucleo ovale, grande fino a 0,025 mm., che nella sua struttura come nel suo destino merita uno studio più minuto. Il nucleo è provvisto di una membrana capsulare molto spessa, che quasi sempre ad un polo apparisce prolungata in forma di un piccolo becco; in certi casì eccezionali si riscontra quest'ultimo in forma sproporzionatamente lunga e larga, raggiungendo quasi il diametro lungo del nucleo. Non posso confermare per lo stadio di riposo del nucleo il fatto che esso cambi di forma, presen- tando dei movimenti propri (Schubotz) (*); però si verifica questo fatto subito dopo la divisione del nucleo. L'aspetto del nucleo a fresco è molto diverso da quello che si riscontra nei preparati colorati in toto. In vita colpisce nel nucleo l’esistenza di numerosissimi granuli, molto rifrangenti, giallastri, i quali di regola appariscono accumulati in grande quantità ad un polo del nu- cleo e più di rado in corrispondenza anche dell'altro polo, in tal caso sparsi in numero esiguo alla parte periferica di esso. Oltre ciò, allo stato vivo si riscontra nel nucleo alquanto eccentricamente, perchè sporgente proprio nella parte libera dei suddetti granuli, uno spazio omogeneo chiaro. Più di questo, allo stato libero, non si può vedere; ma invece si scorge coll’aggiunta di sostanze coloranti ecc., ciò che ci conduce a parlare delle figure ottenute (1) Biitschli, loc. cit. pag. 261; 263. (2) Schubotz, Beitrige zur Kenntnis der Amoeba blattae (Bitschli) und Amoeba proteus (Pall.). Estratto dall’Archiv f. Protistenkunde Bd. IV, 1905. (3) Schubotz, loc. cit. pag. 17. — 149 — coi metodi ordinarî di colorazione. In quest'ultimo caso i granuli giallastri, tanto caratteristici per il nucleo vivente, non si scorgono oppure si riscontra soltanto la traccia di essi, i quali vengono quasi completamente disciolti per mezzo del trattamento che subisce il preparato fino a che esso viene chiuso col balsamo di Canadà. In queste condizioni l'aspetto del nucleo è ben diverso. Esso lascia scorgere uno spazio centrale rotondo od ovale, che sì tinge sempre più debolmente della parte periferica del nucleo; in questo spazio nucleare centrale si riscontra una struttura reticolare finissima, molto difficilmente ana- lizzabile, la parte periferica nucleare apparisce talvolta indistintamente gra- nulosa, talvolta omogenea. La parte costituente il nucleo che più colpisce dopo il trattamento coi colori nucleari, è rappresentata dai nucleoli cromatici, che sono disposti separatamente al limite della zona periferica e centrale, e in sezione ottica nel loro insieme si presentano in forma di un cerchio. In certe determinate fasi del nucleo i nucleoli sono tutti della stessa grandezza, in altre alcuni dei nucleoli appariscono in forma molto più grande dell'ordi- nario. Il diametro della zona centrale chiara cambia entro certi limiti. Le mie ricerche sulla struttura del nucleo dell’Amoeda blattae confermano i risultati ottenuti dalle accurate ricerche di Schubotz. Soltanto io ho l'impres- sione, che questo autore non abbia rilevato tutta l'importanza dei granuli giallastri tanto caratteristici per lo stato vivo del nucleo. Secondo la mia opinione essi sono sostanze di riserva del nucleo, e questa qualità, come anche il possesso di una membrana nucleare eccezionalmente spessa, quasi capsulare, dovrebbe mettersi in relazione con una proprietà particolare del nucleo di questo parassita, che conferisce al nucleo stesso il carattere di una cisti nu- cleare (nucleocisti). Nell’Amoeba blattae si constata questo notevole fenomeno, che fuori del corpo dell’Ameba si trovano liberi nel contenuto intestinale dell'ospite nuclei normalmente formati, che per l'insieme del loro aspetto si debbono giudicare capaci di vita indipendente. Per la prima volta, sin dall'anno 1882, il Grassi ha fatto menzione di questo fenomeno ('), mentre il Bitschli, che nel 1878 ha sottoposto l’Amoeba blattae ad una minuta descrizione, non comunica nulla in proposito (*). Anche il Schubotz non rileva questa particolarità rimar- cabile e sembra non conoscere l’osservazione di Grassi (*). Secondo me non vi è alcun dubbio, che questo fatto nell’A. blaftae abbia un significato di un fenomeno fisiologico. Certamente anche questa comparsa di nuclei liberi non è da mettersi in relazione coi cosidetti processi di ricostruzione del nu- cleo, come secondo Schaudinn avviene nell’ #utamoeba coli prima dell’auto- samia, dove in particolari casi i due nuclei figli dell’ameba che si sta in- (1) B. Grassi, Intorno ad alcuni protisti endoparassitici, ecc. Estratto dagli Atti d. Società. Ital. di sc. nat., vol. XXIV. Milano, 1882, pag. 54. (2) Biitschli, loc. cit., pp. 273-277, (*) Schubotz, loc. cit. — 150 — cistando, dopo la trasmissione dei cromidi al plasma, subiscono una espulsione in toto (*). La particolarità di questo fenomeno nell’A. dlattae deve riguar- darsi come uno special modo di riproduzione, come già Grassi ha accen- nato (°). Però le mie ricerche a questo riguardo non sono finora terminate. In quali circostanze avviene questa liberazione dei nuclei? Sicuramente mediante la espulsione dalle amebe provviste di nuclei. Credo però certa- mente di poter escludere, che questa espulsione avvenga per parte degli individui mononucleati. Mentre Grassi (1882) in relazione colla presenza di nuclei liberi, accenna all'esistenza di individui mancanti di nuclei del resto normali e agilissimi (*), io per parte mia non ho potuto registrare in un materiale ricchissimo di Amebde che 2-3 casi, nei quali il nucleo mancava com- pletamente. Se i nuclei liberi, talvolta numerosissimi, dovessero la loro origine a esemplari di amebe provviste di un nucleo solo, allora l'apparire di forme prive di nucleo dovrebbe essere un fenomeno comunissimo e facilmente rile- vabile. Per contro io dò importanza all'esistenza di grosse amebe con due tipici nuclei di grandezza massima ordinaria, un fenomeno d'altra parte che si riscontra solo di rado. Io suppongo che uno di questi due nuclei, del resto in apparenza tra di loro completamente uguali, sarà espulso. (Le amebe con molti nuclei, delle quali si parla in seguito, non possono essere considerate a questo riguardo, perchè contengono nuclei più piccoli, di aspetto quasi giova- nile, come non si trovano allo stato libero fuori dell’ameba). Per quanto riguarda la divisione del nucleo rispettivamente della cellula, questo fenomeno è difficilissimo a riscontrarsi nell’A. bla/ae, come del resto in talune altre amebe. Così Schubotz, malgrado l’attenzione rivolta in particolar modo su questo punto, non è stato mai in grado di trovare una divisione nucleare. Secondo i miei scarsi risultati, ottenuti soltanto in preparati a fresco, non posso dire altro che la divisione nucleare avviene senza sciogli- mento della membrana nucleare e apparisce esternamente, cioè senza riguardo alla parte cromatica del nucleo, come una divisione diretta, nella quale il nucleo assume la forma di manubrio, poi che il nucleo stesso subito dopo la sua divisione può mostrare, nonostante la sua spessa membrana, dei movimenti ameboidi e infine, che alla divisione completa del nucleo in pochi minuti segue lo strozzamento del corpo dell'ameba in due parti uguali. Così si verifica una analogia colla divisione parimente amitotica dell’Yntamoeda coli (4). È nota la presenza delle amebe multinucleati, che hanno in certo senso un carattere giovanile, come già lo Schubotz ha ritenuto. In particolare (1) F. Schaudinn, Urtersuchungen dber die Fortpflanzung einiger Rhizopoden. Arb. aus d. Kais. Gesundheitsamte, Bd. XIX, 1903, pag. 567. (*) Grassi, loc. cit., pag. 54. (®) Ibid. (<) Schaudinn, loc. cit, pag. 565. — 151 — spesso si riscontrano piccole amebe, con plasma finamente granuloso, senza srandi particelle nutritive, provviste di otto piccoli nuclei tutti delle stesse dimensioni. Queste amebe si riscontrano in maggior parte in movimento atti- vissimo, così che i nuclei spostandosi di continuo difficilmente possono essere distinti tutti insieme. L’apparente cambiamento di forma del nucleo in questo stadio (Schubotz) è da me ritenuta come una illusione. Con una certa sicurezza posso dire che queste amebe provviste di otto nuclei sono soggette ad incistarsi. In favore di ciò parla per primo il fatto della coincidenza della grandezza delle suddette amebe colle cisti (queste ultime hanno il dia- metro trasversale di 0,033-0,049 mm.), quindi l’uguale qualità del plasma e del nucleo e da ultimo — una circostanza importante — che sono riuscito a vedere vere cisti di A. dlattae, le quali non contengono più di otto nuclei (sebbene in divisione). Di regola, come è noto, si trovano cisti con più nuclei, fin con più di trenta. È opportuno qui ricordare, che le cisti di Entamoeba coli, che d'altra parte si formano in un altro e complicato modo, presentano parimenti otto nuclei, i quali però rimangono in questo numero ('). Debho inoltre notare in coincidenza col Schubotz (*), che talvolta in modo eccezio- nale vi sono amebe contenenti più di otto nuclei e ancora non incistati. La moltiplicazione nucleare nelle cisti con otto nuclei avviene costante- mente, almeno nel primo atto di divisione, secondo un processo di una vera e propria mitosi. Anche a questo riguardo si può forse ricordare l’Entamoeba coli, nella quale Schaudinn descrive nello stato libero una amitosi, mentre nel complicato processo della formazione delle cisti una mitosi. Sull’esito finale delle cisti non voglio ancora esporre alcun dato defini- tivo. In coincidenza cogli altri autori (Grassi, Schubotz), io ritengo come molto verosimile che le piccolissime amebe, che talvolta si riscontrano in grandissima quantità nell'intestino posteriore della Periplaneta, abbiano ori- gine dalle cisti digerite. Anche sull'eventuale presenza di processi sessuali nel ciclo vitale dell'A. blaftae, io per ora non posso nulla comunicare di positivo. (1) Schaudnin, loc. cit., pag. 569. (2) Schubotz, loc. cit., pag. 20. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, i matematiche e naturali. 3a MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. Va VIE: VIE VII. Serie 3* — TransuntI. Vol. I-VIII. (1876- 84). i MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. . Vol. I. (1,2), — IL. (1, 2). DMEXIX, . MemoriE. della Classe di scienze ‘morali, storiche e filologiche. smi Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIconTI Vol. I-VII. (1884-91). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche Vol. I-X. Serie Ual — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. i Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fasc. 3°. . RENpICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 12°. MemoRrIE della Classe di science fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-16°, MemoRrIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fase. 7°. CONDIZIONI DI ASSOCIA ZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. f1®; per gli altri paesi le spese di posta in più. «Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LorscHeER & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrIco HoepLi. — Milano, Pisa e Napolk. RENDICONTI — Agosto 1908. INDICE Classe di scienze fisithe, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 2 agosto 1908. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENT'A'l'E DA SOCI Grassi e Grandori. Ulteriori ricerche sulla fillossera gallicola della vite Ca fine di maggio alla metà (di luglio 1908)... i. 00 | o Sinigallia. Sulle equazioni differenziali lineari fi dal Qoriitp. ‘Bisga no Alessandri. La radiazione attinica del sole al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla Capanna Regina Margherita coll’attinometro fotoelettrico di Elster e Geitel (pres. dal Socio Vol- terra). . ° . . » Bargellini e UR Sol 2- ra ul sd i ni ‘Socio Cna LONIn Padoa e Fabris. Sugli equilibri d’idrogenazione (pres. dal Socio Ciamician). . . » Pigorini. Sul comportamento del fenilglicosazone nell'organismo (pres. dal Socio Licia » Lombroso. Sulla lipasi del secreto intestinale (pres. /d.) . . . . AIRES) Janicki. Contribuzione alla conoscenza di alcuni protozoi parassiti della Perno on (Lophomonas blattarum Stein, L. striata Bitschli, Amoeba blattae Biutschli) (pres. dal Socio Grassi) . È »” E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. 99 106 113 119 125 132 136 140 Pubblicazione bimensile. Foma % agosto 1908. AT DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO ©6060 LO00S StTEIE QUE ira RENDICON Classe di scienze fisiche, matematiclb e naturali. Volume XVII. — Fascicolo 4 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino Ql 16 agosto 1908. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUCCI 3 1908 | | | | ESTRATTO DA REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serre queta delle pubblicazioni della R. Accademia di Lincei. oltre i Rendiconti della nuova seri formano una pubblicazione distinta per ciascun delle due Classi. Per i Rendiconti della Classeli scienze fisiche, matematiche e naturali valgo» le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe discienze fi- siche matematiche e naturali si publicano re- golarmente due volte al mese; essicontengono le Note ed i titoli delle Memorie pesentate da Soci e estranei, nelle due sedute nensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bbliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Socio Corrispon- denti non possono oltrepassare e 12 pagine di stampa. Le Note di estranei yresentate da Soci, che ne assumono la respossabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l'autore /ile desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. | 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie prc- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o | da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. Tia relazione conelude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 5) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. — c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre | cedente, la relazione è letta in seduta pubblica \ nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli | autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa diun numero di copie in più che fosse richiesto. è messa « carico degli 2utori. | | | } | | RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 16 agosto 1908. A Chimica-fisica. — Aicerche chimico-fisiche sulla lente cri- stallina. Nota del Corrisp. FiLippo BoTTAZZI e di Nok SCALINCI (1). I. — ALCUNE OSSERVAZIONI PRELIMINARI SUI LIQUIDI OCULARI. Sebbene le nostre ricerche siano essenzialmente volte allo studio della lente cristallina, tuttavia non potendo trascurare il fatto che essa normal- mente si trova, per così dire, immersa da una parte nell’umor acqueo e dall’altra nel vitreo abbiamo creduto di aggiungere alle ricerche da noi (?) già fatte su questi liquidi, queste altre non meno intimamente connesse col- l'argomento principale del nostro studio. Vitrei dializzati. — Una ventina di corpi vitrei di cane furono messi a dializzare in dializzatore di « viscose » Leune, contro acqua distillata satura di cloroformio, fra il 20 e il 24 febbraio 1908. (1) Dal Laboratorio di Fisiologia sperimentale della R. Università di Napoli. (?) Fil. Bottazzi e E. Sturchio, Sull'origine della pressione oculare. Arch. di Oftalm., XIII, 1906. Arch. ital. de Biol., 45, pag. 198, 1906. N. Scalinci, Untersuch. iber die physikalisch-chemischen Eigenschaften des Humor aqueus. Arch. f. Augenheilk., 57, pag. 214, 1907. RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 20 — 154 — Sono esaminati il 18-20 giugno 1908. Durante la lunga dialisi, i vitrei si rigonfiarono ma non presentarono altre modificazioni degne di nota. Il volume del contenuto del dializzatore è un poco aumentato. Esame di questo contenuto. Esso è divisibile in una parte fluida, e in una parte « gelatinosa ».. Parte liquida. — Non coagula minimamente al calore. Ha reazione neutra alle carte di tornasole e alla fenolftaleina. L'alcool non vi produce precipitazione. Reazioni di Heller e del biureto, negative. Conduttività elettrica < 1 X 1079. Questo liquido è privo di colloidi proteici. Parte gelatinosa. — Questa apparisce costituita dai singoli corpi vitrei originali, che non si sono nè disfatti nè deformati, e sono rimasti nettamente distinti fra loro. La soluzione 10 °/; Na OH non modifica minimamente il corpo vitreo. L'aggiunta di soluz. 3 HCI fino a neutralizzazione, e poi a forte acidifica- zione, non provoca alcuna mutazione. Bollito il vitreo in questa soluzione acida, esso si liquefà, senza che vi apparisca alcun coagulo. Due vitrei, evidentemente rigonfiati, messi in una provetta, sono portati alla temperatura di 100° C: si osserva che, durante il progressivo riscal- damento, man mano essi si coartano, assumendo una forma prima ovalare, poi globosa, mentre se ne spreme il contenuto liquido. Da ultimo, i due vitrei sono ridotti a due piccoli grumi opachi; sembrano due grumi di fibrina. Esaminati questi al microscopio, rivelano una costituzione fibrosa re- ticolare. n 1 vitreo dializzato, che galleggia su esso. Immerso un vitreo dializzato in alcool 97 °/,, esso va al fondo; man mano diminuisce di volume, si raggrinza, si deforma; sembra una vescica semivuota, con la parete pieghettata. Le stesse modificazioni presenta un altro vitreo immerso in soluzione La soluzione - Na Cl non modifica, in breve tempo, l’ aspetto del 7 HOI, ma dopo maggior tempo. Vitrei non dializzati. — I vitrei non dializzati presentano, le seguenti reazioni. Scaldando un vitreo alla fiamma, in un comune tubo d’'assaggio, mentre prima era affatto trasparente, vi comincia ad apparire una opalescenza e poi una opacità a chiazze alla superficie. Nel tempo stesso, il vitreo, di cui ora — 155 — può scorgersi il contorno nel suo proprio liquido in cui è immerso, sì viene retraendo, coartando, e a misura che si coarta diventa più opaco, mentre la sua struttura spugnosa vi apparisce più distinta. Finalmente il vitreo si ri- duce a un grumo di materia grigiastra nuotante nel liquido limpidissimo da esso spremuto. Come si sa il vitreo sembra essere costituito di una trama fibrillare disposta a maglie, una specie di spugna, contenente una certa quantità di liquido, che sembra essere una soluzione acquosa di più cristalloidi. Le fibrille del reticolo del vitreo, probabilmente più fitto alla periferia che al centro, sono dunque costituite di sostanza proteica, coagulabile al calore; non possono quindi essere di natura collagena (*) (connettivale) o elastica; e il liquido del vitreo sembra essere privo di proteine coagulabili al calore, senz'altro trattamento. Se però si aggiunge al liquido già riscaldato una goccia di soluzione 0,1n di acido acetico, il liquido s’intorbida, e più tardi vi apparisce un precipitato granuloso, che non si ridiscioglie in un eccesso dello stesso acido; il che dimostra che, se proteine esistono nell’umor vitreo, indipendentemente da quelle organizzate che costituiscono il reticolo fibrillare e che coagulano al calore senza altro trattamento, esse non sono proteine della lente. Pro- babilmente, l’albumina trovata da Morner è sieroproteina; ma questa forse vi passa dopo la morte dell’ animale, non preesiste nell’ umor vitreo; essa non coagula, non fiocchifica al calore di ebullizione, a causa della reazione alcalina del liquido stesso; neutralizzando il liquido caldo con acido acetico questa proteina coagulerebbe. Ma questo risultato è reso poco chiaro dal fatto che l'aggiunta dell'acido acetico, per poco che sia superiore alla quan- tità sufficiente a neutralizzare il liquido, precipita l’ialomucoide di Morner, che è quello a cui è dovuta propriamente la fiocchificazione che si osserva in tali condizioni. La reazione di Heller dà risultato positivo nell’umor vitreo estratto da occhi di animali uccisi 24 ore prima. Umor acqueo. — L' umor acqueo bollito non dà precipitato di sorta; ma se si aggiunge al liquido caldo un poco di acido acetico diluito, tosto il liquido s'intorbida, poi fiocchifica, e da ultimo un piccolo ma nettissimo precipitato fioccoso si raccoglie al fondo del tubetto. Un piccolo eccesso di acido acetico non ridiscioglie il precipitato. Ciò dimostra che la sostanza (*) Hammarsten dice (Zehrd. d. physiol. Chemie, 1907, pag. 492): « Der Glaskòper wird oft als eine Art Gallertgewebe betrachtet. Die Hiute (?) desselben bestehen nach C. Morner aus leimgebender Substanz ». Molti Autori hanno accettato questo modo di vedere di Morner, contro il quale stanno anche i risultati delle ricerche circa la natura e la genesi e le connessioni dei filamenti formanti il reticolo del vitreo. — 156 — che coagula al calore non deriva dalla lente cristallina (*) Essa è forse d'origine sanguigna. L'esistenza di proteine nell'umor acqueo è dimostrata dalla reazione di Heller, e dal fatto che anche l'alcool vi produce un tenue precipitato. Dell’ esistenza d'un mucoide nell’umor acqueo non è fatta parola dagli Autori. Reazione chimica dei liquidi oculari. — Gli Autori sono concordi nel- l'ammettere che l'umor acqueo e l'umor vitreo dànno reazione alcalina (?). Solo recentemente C. Foà (5), servendosi del metodo elettrometrico (pile di concentrazione) per determinare la concentrazione degl’idrogenioni, trovò: per l’umor acqueo di cavallo Ca = 0,893 X 1077 per l’umor vitreo ” Ca = 1,005 X 1077 per l’umor acqueo di cane Ca = 7,92 X 107, vale a dire che « l'umor acqueo e l’umor vitreo di cavallo e di cane sono liquidi sensibilmente neutri ». Invece di fare determinazioni elettrometriche, noi abbiamo accurata- mente indagato il modo di comportarsi dei due liquidi oculari alla fenolfta- leina (soluzione alcoolica). Ecco quel che abbiamo constatato. I liquidi, estratti da animali viventi (cani, conigli) e saggiati subito, non arrossano immediatamente la fenolftaleina, ma l'arrossano in un tempo variabile da 20' a 30". L'arrossamento incomincia ad essere manifesto negli strati superiori del liquido, a contatto dell’aria; rimescolando, sparisce, e poi ritorna; man mano invade gli strati profondi, finchè tutto il liquido appa- risce intensamente rosso. Basta farvi gorgogliare per pochi secondi anidride carbonica, per vedere il liquido scolorarsi. I liquidi estratti da animali morti da eirca 24 ore (buoi e altri ani- mali da mattatoio), arrossano la fenolftaleina dopo un tempo notevolmente maggiore, che varia dalle 6 alle 12 e più ore; e l’arrossamento si comporta come nel caso detto dianzi. Ma se per il liquido si fa gorgogliare idrogeno per qualche tempo, o se si bollisce il liquido (acqueo o vitreo) per pochi secondi, esso diventa capace di arrossare subito la fenolftaleina. E l’ arros- (1) Leber, dopo aver detto che il contenuto dell’umor acqueo in albumina aumenta dopo la morte aggiunge: « Diese erhebliche (von 0,05 bis 0,58 °/,) Zunahme des Eiweiss- gehaltes kann, da keine andere ausreichende Quelle dafiir vorhanden ist, nur aus der Linse stammen ». (Graefe-Saemisch, Handbuch der gesamten Augenheilk. I Teil. II Bd. Kap. XI, pag. 439, II° Aufl., Leipzig. 1908). (2) O. Hammarsten. Lehrb. d. physiol. Chem.; VI© Aufl.; pag. 265 e 403; 1907. (*) Arch. di Fisiologia, III, pag. 405-406, 1906. — 157 — samento sparisce, se vi si fa gorgogliare CO,, per tornare se sì scaccia l’a- nidride carbonica mediante un gas inerte o la bollitura (la fenolftaleina aggiunta al liquido non si altera in modo degno di nota durante queste ope- razioni). I liquidi oculari, dunque, si comportano, per quanto riguarda la loro «reazione chimica », come una soluzione di Na H CO; contenente quantità più o meno grande di acido carbonico. Questo acido si trova in quantità maggiore nei liquidi estratti da ani- mali morti da parecchie ore: evidentemente l’acido carbonico, formantesi nei tessuti, per il sangue e la linfa si diffonde verso i liquidi oculari, dove rag- giunge una tensione tale da conferire reazione acida ai medesimi, disso- ciandosi esso elettroliticamente: H, CO, =H*:-+ HO; La concentrazione degli idrogenioni, secondo recentissime determinazioni elettrometriche fatte da C. Foà () nei liquidi di animale morto da sette ore, fu trovata: nell’acqueo Ca = 1,85 X 107° nel vitreo Ca = 3,11 X 107. Se invece si estirpa l'occhio dell'animale, mentre questo è ancora in vita e respira, per raccogliere il vitreo, o si aspira l’acqueo dall'occhio nor- male, si comprende che la Cx in questi liquidi debba esser trovata minore, tale da non conferire « reazione acida » ai medesimi; essa fu infatti trovata da C. Foà (1): Ca = ASI ae, ‘ per l’acqueo. Bisogna però convenire che il tempo necessario per raccogliere l'acqueo e per fare le determinazioni è già sufficiente a impoverire il liquido di CO3; così che se i valori di Cx dati dai liquidi di animali morti sono eccessi- vamente alti, perchè in quei liquidi si è diffuso l'acido carbonico dei tessuti asfittici circostanti, i valori di Cx dati dai liquidi tolti dagli animali vi- venti sono sempre un po’ più bassi dei liquidi normali. Infatti nemmeno i liquidi tolti da animali viventi e saggiati subito arrossano la fenolftaleina. Essi debbono rimanere all’aria un certo tempo, prima di arrossarla; durante il qual tempo essi perdono un poco di acido carbonico, e quando la concen - (1) Ringraziamo il dott. C. Foà di aver fatto, in seguito a nostra preghiera, queste nuove determinazioni, e di avercene comunicato per lettera i risultati. — 158 — trazione degli H+ è tale (C, = 1X10-°) da permettere che la fenolfta- leina muti di colore, questa svela reazione alcalina. In conclusione: 1. L'umor acqueo contiene normalmente una quantità piccolissima di proteina coagulabile dal calore, che però non ha i caratteri delle proteine lenticolari, e forse è d'origine sanguigna (o linfatica). 2. Il corpo vitreo è fatto a simiglianza d'una spugna, il cui reticolo è costituito di sostanza proteica coagulabile dal calore, e che si coarta durante la coagulazione, spremendo fuori il liquido contenuto negli alveoli. Questo liquido contiene piccola quantità d'un corpo precipitabile dall’ acido acetico e che non si scioglie in un eccesso dell'acido (ialomucoide di Mòorner), e forse anche la stessa proteina, coagulabile dal calore, che si trova nel- l’acqueo. 8. Trascurando queste minime quantità di colloidi proteici, i liquidi oculari possono considerarsi come soluzioni acquose di cristalloidi, fra i quali prevale il cloruro sodico. 4. Per quanto riguarda la « reazione chimica », i liquidi oculari si comportano come una soluzione di Na HCO; contenente acido carbonico in quantità tale da rendere quei liquidi neutri alla fenolftaleina, in condizioni fisiologiche. Se diminuisce il contenuto (la tensione parziale) di acido carbonico, pre- valendo la scissione idrolitica del Na HCO; sulla dissociazione elettrolitica del H,C0;: Na H CO; + H,0 = (Na* + 0H-) + (H* + HC0;), la concentrazione degli OH- sarà maggiore della concentrazione degli H*, e i liquidi daranno reazione alcalina. Se, per contro, aumenta molto il contenuto in H, CO;, siccome il primo H di questo si dissocia facilmente in forma di H*, la concentrazione degli H* sarà maggiore di quella degli OH, e i liquidi, passando per lo stato di neutralità, finiranno per diventare acidi, e non arrosseranno la fenolftaleina. (Se essi presentano tuttavia «reazione alcalina » alle carte rosse di torna- sole, ciò è dovuto al fatto che, l'acido carbonico essendo volatile, tenendo la cartina bagnata all’aria esso si libera dal liquido che la bagna, rima- nendo sulla carta l’alcali che l’imbluisce. È come quando si fa gorgogliare l'idrogeno per il liquido cui è stata aggiunta una goccia di fenolftaleina. Se, invece delle carte, si usa la tintura di tornasole, i liquidi oculari saturi di acido carbonico appariranno acidi, o per lo meno non alcalini, anche al tornasole). — 159 — 5. Questo modo di comportarsi dei liquidi oculari non è senza impor- tanza per quanto riguarda la normale trasparenza del cristallino, perchè, come vedremo, l'acido carbonico è capace di precipitare le proteine lenticolari csitole allo stato di alcaliproteine, onde può prevedersi che anche un ec- cesso di acido carbonico nei liquidi oculari può produrre opacamento superfi- ciale della lente cristallina. Matematica. — Condizioni necessarie e sufficienti perchè un insieme continuo co” di trasformazioni costituisca un gruppo. Nota di CARLO SEVERINI, presentata dal Corrisp. G. LAURICELLA. In due Note recentemente pubblicate (') ho cercato di generalizzare il primo teorema fondamentale di Lie, e sono riuscito nel mio intento, di a8- segnare le condizioni necessarie e sufficienti, affinchè un insieme continuo 00” di trasformazioni costituisca un gruppo, nel caso che ad esso appartenga la trasformazione identica. Mi propongo ora di far vedere come si risolva per un insieme qualsivoglia la medesima questione. 1. Si consideri l'insieme co” di trasformazioni: (1) TS (290) (= 1) ove le /;(2,a) indicano funzioni analitiche, monodrome delle variabili 41, La, dn 0 dei parametri 4;,42,...,4, alle quali funzioni intenderemo sempre riferirci iu seguito. Perchè le (1) costituiscano un gruppo dovranno anzitutto essere tali, che la trasformazione composta : (2) ali=tf(fi(2), a));0) (CEE) con due qualsivogliano di esse: xi sp fi(@ ’ a) ai = fi(a' 0) contenga soltanto 7 parametri essenziali. (1) Studio sul primo teorema fondamentale di Lie. Rend. del Circ. Mat. di Palermo, t. XXV (1908); Aggiunta alla Nota: Studio sul primo teorema fondamentale di Lie. Idem, t. XXV (1908). — 160 — Le condizioni necessarie e sufficienti perchè ciò abbia luogo sono state da me poste sotto una nuova forma, che ben si presta al caso nostro, nella prima delle Note dianzi citate. Conviene anzitutto che richiamiamo breve- mente le considerazioni svolte in detta Nota. Perchè le (2) contengano soltanto 7 parametri essenziali, è necessario, come si sa, che le 2’, date dalle (1), quali funzioni dei parametri, soddisfino ad equazioni della forma: QI = ; = (3) SES Ex(2°) Wor(@) (Ei pe in cui il determinante delle wox(a) non sia identicamente nullo, e le £n(2') non soddisfino a nessun sistema di equazioni della forma: par” I 9oSon(e)=0 (=1,2,.,9 ol coi coefficienti go indipendenti dalle %' e non tutti nulli. Inoltre la (2) potrà scriversi : eii=9:(27,0) (MEA ove le e sono funzioni delle a e delle d: (4) ca= 0x(4, db) (= 12009) e le (4) possono risolversi sia rispetto alle 4, sia rispetto alle 0. Se ne deduce che è possibile, dato un sistema di valori a‘ dei parametri, soddi- sfare alle equazioni: 6x(a, b) = O (a, a) (eee) sia assegnando le a e calcolando le 2, sia inversamente assegnando le è e calcolando le a; ovvero, ciò che è lo stesso, indicando con Sa la trasfor- mazione rappresentata dalle (1), che si può soddisfare all’equazione simbolica : (5) Soi So sia assegnando la Sa e calcolando la Sè, sia assegnando la Ss e calcolando la Sa. La (5) può anche scriversi: -1 —l al 9, o 9,0 S)) i Ponendo: (6) S,0 Sa = Ea — 161 — si ha allora: SO) 9 na E, donde: (7) Sy cn E, $,(0) . Se le a‘ sono scelte in modo che per esse non si annulli il determi- nante delle wpx(a), le (6) costituiscono, in base al primo teorema fondamen- tale di Lie, un gruppo, al quale appartiene la trasformazione ke sicchè posto: sì ottiene, per la (7): Questa relazione e la (6) ci dicono che l'insieme dato di trasformazioni coincide con ciascuno dei due insiemi: (8) 9,0) DO 9 lp 9,0 Ù Se con a ed 4 indichiamo i parametri che in questi due insiemi rispet- tivamente determinano una medesima trasformazione, potremo scrivere: i So Bg E7 940 ossia : E,= S,0E7 So donde in ultimo, per la (6) (9) Sa 8,0 97 9,0 * Perchè la trasformazione composta con due qualsivogliano delle (1) con- tenga soltanto r parametri essenziali è dunque anche necessario che l’insieme dato venga, per mezzo di una sua trasformazione, corrispondente a valori dei parametri, che non annullano il determinante delle Wo (a), trasformato in se stesso. Questa condizione e l’altra sopra detta che le ', date dalle (1), come funzioni dei parametri, soddisfacciano ad equazioni della forma delle (3), colle indicate proprietà per le Éx(2') e per le Yor(a), sono anche sufficienti al nostro scopo. Se partiamo infatti dalla (9) e risaliamo, otteniamo che all'in- sieme dato competono le due rappresentazioni, simbolicamente indicate me- diante le (8), e però la trasformazione composta con due qualsivogliano di esso: S a Sg0 È 5 S,=E7 50 RenDICONTI, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 21 — 162 — potendosi scrivere: Sa 89= Sy E E7 Sao » contiene come parametri essenziali gli ” parametri essenziali, da cui dipende la E, Bg - In ciò che precede s'intende bene che ci si deve riferire a convenienti intorni di S,0, ma la proprietà che, componendo due qualsivogliano delle (1), si ottenga una trasformazione, contenente soltanto 7 parametri essenziali, resta nondimeno, senza limitazione alcuna, stabilita. Posto infatti: (10) AIA 0) I) CIA): se con w s' indica la caratteristica della matrice: aP or 2R dA, dA * AIB ioni fo da) > BR GI MI MST - dEi dF. dA, >, >, c'e ET 30) dF:i dF: dI db, Sa Bi 0 SEMINA dò, con u, la caratteristica della matrice analoga, ottenuta aggregando alle F, tutte le loro derivate prime rapporto alle 4, con us la caratteristica della matrice ottenuta, aggregando tutte le derivate prime e seconde rispetto alle z, e così via, il numero dei parametri essenziali nell'insieme di trasformazioni (10) coincide col massimo valore s = 27, che si può raggiungere, percor- rendo la successione : up =....=2r (1); e se s=7 mentre le a e le d variano in certi intorni delle a‘, ciò dovrà verificarsi sempre. Con quanto precede resta stabilito il seguente teorema, al quale in principio abbiamo accennato: Se l'insieme dato o" di trasformazioni (1) ica) (Rien) (!) Cfr. Bianchi, Lesioni sulla teoria dei gruppi finiti, continui di trasformazioni. Pisa, Ed. Spoerri, 1903. — 163 — è tale, che la trasformazione composta con due qualsivogliano di esso contiene soltanto r parametri essenziali: a) le a', come funzioni dei parametri, soddisfano ad equazioni della forma: da à hi=10 2,0, (3) sa e) p- Le in cui il determinanle delle wor(a) non è identicamente nullo, e le En") non possono soddisfare a nessun sistema di equazioni della forma: p=r D ge tone") = 0 (REMO) eri coi coefficienti go indipendenti dalle a' e non tutti nulli; b) essendo Sy una trasformazione dell'insieme, corrispondente a valori dei parametri che non annullano il determinante suddetto, l'insieme medesimo viene, per mezzo di Syo, trasformato in se stesso. Viceversa, se le a', come funzioni dei parametri, soddisfano ad equa- zioni del tipo (3), ed esiste una trasformazione come Sg, che gode delle dette proprietà, la trasformazione composta con due qualsivogliano delle (1), contiene soltanto r parametri essenziali. 2. Le due condizioni contemplate nel precedente teorema sono eviden- temente necessarie, affinchè l'insieme dato di trasformazioni possa costituire un gruppo. Vogliamo ora far vedere che queste condizioni, insieme coll’altra, pari- menti necessaria, che esista una trasformazione S,@, corrispondente a valori dei parametri che non annullano il determinante delle w;x(a), per la quale moltiplicando le trasformazioni dell'insieme (1), si ottengano trasformazioni dello stesso insieme, sono anche al nostro scopo sufficienti. Riguardo all’ ultima condizione è da osservare che non fa d’'uopo distin- guere in quale ordine la S,a Ss’ intenda composta colle trasformazioni (1), dacchè essa trasforma in sè l'insieme di tali trasformazioni, e si ha quindi: Sg Sa = 9,0 Sy , almeno fiuchè la S, e la Sy variano in convenienti intorni di S,4, come a noi occorre. Questo fatto che è senz'altro espresso dalla seconda condizione, ove in particolare la Sy coincida colla Sg, è in ogni caso conseguenza delle prime due condizioni, le quali fanno sì che la trasformazione composta con due qualsivogliano delle (1) contenga soltanto ” parametri essenziali, e quindi che la S,0, come ogni altra trasformazione, i cui parametri non annullino il solito determinante, trasformi in sè (cfr. teor. prec.) l'insieme dato. — 164 — Ciò posto, dalla prima delle condizioni ora dette, tenendo conto che nell'insieme (1) gli 7 parametri sono essenziali, deduciamo, come è noto, che le 7 trasformazioni infinitesimali : h=n D X:f= Y tra(a) 2L (0=1020600) n= Th sono linearmente indipendenti ed atte a generare un gruppo G, ad 7 para- metri essenziali. Ogni trasformazione dell'insieme dato, nell'intorno di una di esse, corrispondente a valori dei parametri, che non annullano il deter- minante delle wp(4), si otterrà facendo seguire a questa una trasformazione di detto gruppo, presa in un intorno della identica. Si considerino ora due trasformazioni qualsivogliano nell'intorno della Sa 3 (5, Samb, , Sh= SE, ove Eu , E, indicano due determinate trasformazioni di G,, e si formi il prodotto : (11) Sg 9 S al) E, Sy® Bb, 3 Dalle prime due condizioni, che abbiamo posto, segue, in forza del risultato del $ 1, che la trasformazione composta con due qualsivogliano delle (1) contiene soltanto 7 parametri essenziali, e l'insieme dato viene quindi, per la prima parte del risultato medesimo, trasformato in sè da ogni trasforma- zione di esso, i cui parametri non annullino il solito determinante, in par- ticolare dalla Sg, cosicchè si potrà scrivere: —1l So S, 5 7x0 ni Sy donde: | i 1 N —l 9,0 5,0 Sa S,0 sù 9,0 Sy 3 e poichè il gruppo delle S% S, coincide col gruppo G,, sarà: —1 9,0 E, S70 == By ossia: E, $,0 = SO By , per modo che la (11) si cambia nell'altra: 2 Sg 9 = So By E, 3 e posto: — 165 — si ha ancora: 2 DÌ Sy == SO B, . In fine se: n) E, ni Sg) 9, risulta: 2 —l Sg 9, FA $,@ 940 Sc cioè: 9, 9, cn 9,0 Sg la quale, per la terza delle poste condizioni, ci dice che la S, S} appartiene all'insieme dato: questo costituisce dunque un gruppo. Riassumendo possiamo ora enunciare il seguente teorema : Affinchè l'insieme co di trasformazioni: Go (503) (=: 0) costituisca un gruppo è necessario e sufficiente: a) che le a', come funzioni dei parametri, soddisfino ad equazioni della forma: pie RESO) va a sal) on cui il determinante delle W(a) non sia identicamente nullo, e le Eon(2') non soddisfino a nessun sistema di equazioni della forma: per Y geEene')=0 (6=183059) el coi coefficienti go indipendenti dalle x' e non tutti nulli; b) che esista nell'insieme una trasformazione So, è cui parametri non annullino il determinante delle War(a), per mezzo della quale l'insieme medesimo venga trasformato in se stesso; c) che esista una trasformazione, distinta 0 no dalla So, e cor- rispondente ancora a valori dei parametri, che non annullano il detto determinante, per la quale moltiplicando le trasformazioni dell'insieme, sî ottengano trasformazioni che ad esso appartengono. Osservazione. — La seconda e terza condizione sono in particolare soddisfatte, se, per valori dei parametri, che non annullano il solito deter- minante, esiste fra le (1) la trasformazione identica: si ha allora il primo teorema fondamentale di Lie. — 166 — Chimica. — L'azione dei vini e degli alcoli studiata sulle rane (!). Nota preventiva del prof. Vitrorio NAZARI, presentata dal Socio L. LUCIANI. Mentre nella letteratura recente non mancano studî sugli alcoli e spe- cialmente su quello etilico, considerati come alimento, molto meno nume- rosi sono quelli che riguardano l'azione fisiologica e l’azione tossica di queste sostanze. Tale circostanza mi spinse ad intraprendere una serie di espe- rienze intorno all'importante argomento, delle quali mi accingo a riassu- mere qui i risultati conseguiti. Lo scopo preciso delle mie ricerche è stato quello di studiare i feno- meni che si manifestano negli organismi viventi, somministrando ad essi dosi leggere di alcool etilico e di altri alcoli della medesima serie, di quelle dosi, cioè, che non determinano la morte degli animali. Le esperienze sono state eseguite per ora sulle rane, animali che si prestano molto bene a queste ricerche, poichè, oltre ad essere sensibilissime all’azione dell’al- cool, possono presentare un periodo tipico di rilasciamento muscolare, dal quale si rianno completamente, quando la dose non è molto forte. Questo pe- riodo veramente tipico di narcosi, corrispondente con tutta probabilità al periodo di ebbrezza nell’ uomo, venne utilizzato, per così dire, nella esecu- zione delle esperienze necessarie agli studî intrapresi. Esso venne conside- rato in relazione con il peso delle rane, con la qualità e quantità dell'alcool iniettato e con la durata della narcosi. Nel procedere, pertanto, alle nume- rose prove, ho pesate le rane ed iniettato, quasi sempre, un centimetro cubico della soluzione alcoolica da sperimentare nella cavità addominale. La determinazione della ricchezza alcoolica si fece sempre col processo della distillazione. cento cc. di un vino, o di una soluzione alcoolica, esatta- mente misurati alla temperatura di 15° C., vennero messi in un pallone, a fondo rotondo, della capacità di circa 300 ce., insieme all'acqua di lavaggio del recipiente che conteneva il vino o la soluzione alcoolica. Dopo ciò si in- cominciava la distillazione e la si sospendeva solo dopo aver distillato, per lo meno, 75 ce. del liquido primitivo. A questo liquido si aggiungeva del- l'acqua distillata, fino ad avere un volume di 100 cc., non tralasciando di fare attenzione alla temperatura, che doveva essere di 15°. Dopo ciò veniva determinato il peso specifico del liquido, mediante una bilancia idrostatica ben controllata, sensibile fino alla quarta cifra decimale, e si calcolava il volume dell'alcool per 100 cc., consultando le tavole di Windisch. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica fisiologica della R, Università di Roma. — 167 — I risultati delle singole esperienze ordinati secondo il grado di alcooli- cità del liquido iniettato, dimostrano che le soluzioni al 4°/, su rane il cui peso oscillava da 14 a 18 gr., non produssero narcosi. Con la soluzione al- coolica del 5°%/, soltanto in cinque rane mancò la narcosi; il loro peso oscillava da 12 a 18 gr. Le altre presentarono narcosi di durata variabile, che si prolungò per un maggiore intervallo di tempo in quelle meno pesanti (da 10 a 13 gr.), e fu di pochi minuti in quelle più pesanti (da 18 a 20 gr.). Con le soluzioni alcooliche al 7,5 °/, due rane che pesavano rispettivamente 13 e 15 gr., morirono. Quattro che pesavano, rispettivamente, 26, 28, 29 e 40 gr., non presentarono narcosi; cinque ebbero un periodo narcotico di- verso per durata, quantunque il peso delle rane fosse quasi uguale. Le rane che subirono l'iniezione all'8°/,, ad eccezione di una, molto piccola (12 gr.), che morì, entrarono in narcosì per un tempo variabile: tempo non sempre proporzionale al peso dell'animale. Infatti, p. es., si osservò che la narcosi di una rana che pesava 26 gr., durava dieci minuti, mentre quella di un’altra rana che pesava 16 gr., durava soltanto cinque minuti. Una grande quantità delle esperienze sono state eseguite con una solu- zione al 10°/, che rappresenta la ricchezza alcoolica più comune dei vini da pasto. Iniettando questa soluzione si ebbero soltanto quattro casi di as- senza di narcosi. Questi risultati però non sono paragonabili, inquantochè, mentre due rane erano del peso medio di 15 a 18 gr., le altre due pesa- vano, rispettivamente, ben 30 e 38 gr. -Non si riesce a spiegare l'assenza della narcosi in questo caso, specialmente nelle rane di medio peso, per le quali, in condizioni analoghe, si è avuta costantemente la narcosi. Viceversa, in altri quattro casi, si osservò la morte, spiegabile, ad un tempo, con la ricchezza alcoolica della soluzione iniettata e con il piccolo peso delle rane sottoposte all'esperimento. In tutte le altre prove si verificò sempre la narcosi, di durata peraltro variabilissima e non sempre in relazione col peso delle rane. Con le solu- zioni che oscillano da 14 a 16°, notiamo nuovamente parecchie assenze di narcosi e due casi di morte. Tutte le altre rane subirono un periodo narco- tico più o meno lungo. Le assenze della narcosi si osservarono anche con iniezioni di mezzo cc. di soluzione al 30 °/,. Invece iniettando un cc. di questa soluzione o mezzo ce. di soluzione al 40 °/,, si verificò sempre la narcosi e qualche volta anche la morte delle rane. Finalmente si è osservato avvenire costantemente la morte, usando so- luzioni al 50 °/, anche in rane grosse, così che si può stabilire come, mentre le soluzioni al 4°/, non producono alcun sintomo narcotico apprezzabile, e quindi devono ritenersi innocue, quelle al 50 °/, rappresentano invece la dose minima mortale delle rane. Consultando poi i risultati delle esperienze ordinati secondo la durata della narcosi, si rileva che l'alcool etilico nelle rane può non produrre alcun — 168 — periodo di narcosi o produrne uno più o meno lungo, o dare anche la morte dell’ individuo. Per periodo narcotico venne considerato quello stato di rilasciamento mu- scolare che sussegue, spesso, a fenomeni di eccitazione 0 si presenta subito con assenza di questi ultimi. La durata della narcosi venne misurata dal tempo trascorso perchè la rana, messa sul dorso, ritornasse in grado di poter ri- prendere la sua posizione normale. Era quindi còmpito speciale quello di precisare il momento in cui la rana entrava in narcosi e di ciò ci sì accor- geva mettendola, a brevi intervalli, sul dorso, finchè rimaneva in tale po- sizione. Il periodo narcotico veniva, come abbiamo detto, limitato dalla ripresa della posizione normale. Spesso, peraltro, dopo questo periodo di narcosi, le rane rimesse di nuovo sul dorso, vi possono rimanere, sempre, però, per un tempo molto più breve del primo. Tuttavia noi non abbiamo tenuto conto di questo secondo periodo di narcosi. Ritornando all'esame dei risultati conseguiti, osserviamo come il periodo di narcosi più lungo che si è ottenuto, è quello di 70 minuti. Con molta probabilità l’azione narcotica non scompare a misura che avviene la elimi- nazione dell'alcool, ma, piuttosto, è da ritenersi sia in relazione agli effetti esercitati dall'alcool sui centri nervosi. Di modo che l'assenza della narcosi starebbe in rapporto con la dose non sufficiente a impressionare questi ul- timi. Lo stato narcotico indica, forse, che i centri sono stati funzionalmente lesi, ma sono, tuttavia, capaci di riprendere la loro funzione, che, invece, resterebbe completamente annullata con le dosi ripetute o con le dosi molto forti. Sulla durata del periodo narcotico nulla si può dedurre di preciso. Esso, certamente, è in relazione con la dose e con il peso dell'animale, ma questo rapporto non è esattamente determinato e molto spesso è in contradizione. Probabilmente influiscono sullo stato di narcosi altri fattori, che, con i mezzi di indagine che si possiedono, non si poterono stabilire. Se poi esaminiamo le esperienze nelle quali mancò la narcosi, ad eccezione del fatto già notato, che con le soluzioni del 4°/,, anche nelle rane più piccole, non sì ottengono 1 fenomeni derivanti dall'azione alcoolica, nulla di più è possibile dedurre, inquantochè gli altri casi rappresentetebbero, se mai, eccezioni alla regola generale di osservare lo stato narcotivo per azione dell'alcool. I risultati infine ordinati secondo il peso delle rane meglio chiariscono come, a peso uguale, le rane, anche con le medesime dosi di alcool etilico, non dànno periodo di narcosi della medesima durata. Con ciò non si intende di escludere qualsiasi influenza del peso, limitandoci a dire, soltanto, che, con i mezzi a disposizione, non si può spiegare se e specialmente quanta influenza eserciti il peso delle rane, rispetto all’azione fisiologica dell'alcool etilico. Così nessuna differenza è stata accertata nei fenomeni susseguenti — 169 — alla iniezione del vino, in confronto di quelli prodotti dalla iniezione del- l'alcool contenuto nel vino stesso, separatovi a mezzo della distillazione ed opportunamente diluito. Rane anche di ugual peso, hanno presentato narcosi differente, ora di durata maggiore, ora di durata minore, tanto se iniettate col vino, quanto se iniettate con l'alcool estratto dal medesimo vino. A conferma di questi risultati, citiamo le esperienze eseguite con l'estratto secco del vino. Evaporando a bagno maria 100 cc. di vino, sciogliendo il residuo in 100 cc. di acqua, questo liquido filtrato e iniettato nelle rane, non solo non si è dimostrato in alcun modo velenoso, ma non produsse nessun sintomo patologico in esse, anche se iniettato in dose maggiore di 1 ce. Di modo che si può senza dubbio ritenere, che tanto vale iniettare una deter- minata soluzione alcoolica, quanto un vino della medesima gradazione al- coolica. Stabilito questo fatto, è da ritenere possibile che esso permetta di usu- fruire del metodo sperimentale seguìto, per potere, a mezzo di questi orga- nismi viventi, determinare il grado di alcoolicità dei vini da pasto. Ammet- tendo, infatti, che l’alcoolicità di questi oscilli dagli 8 ai 12 gradi di alcool, basandosi sul criterio che le soluzioni al 4°/, mai dànno narcosi, possiamo, con opportune diluizioni di un vino, calcolare, dall'assenza della narcosi, sempre in modo approssimativo, l’alcoolicità di esso. Diluendo, infatti, un campione di vino a metà, e iniettandone 1 cc. ad una rana anche di peso bassissimo, se essa non presenterà fenomeni di narcosi potremo affermare che quel vino avrà un’alcoolicità di 8° o di meno di 8°. Se, invece, la narcosi si presenterà, potremo ritenere che il vino avrà una alcoolicità maggiore di 8°. In questo ultimo caso, per potere meglio stabilire con approssimazione l'al- coolicità del vino, lo diluiremo al terzo e se questo vino iniettato non darà narcosi, allora potremo ritenere che l’alcoolicità di quel vino non supererà i 12°. Se, invece, la narcosi si presenterà, vorrà dire che saremo in presenza di un vino il cui grado alcoolico supererà i 12°. Diluendo ancora il vino al 24, 21, 24, si riuscirà a stabilire se esso ha un'alcoolicità compresa tra gli 8 e i 9°, trai 9 e i 10°, trai 10 è gli 11° e tra gli 11 e i 12°. Con ciò non si intende affatto di proporre che questo metodo venga consi- gliato in sostituzione di quelli chimici e fisici, già da tutti accettati nella pratica perchè facili ed esatti, per determinare la alcoolicità dei vini. Ma abbiamo ritenuto di parlarne, soltanto per dare ancora una prova del fatto che l'organismo animale, spesso, può venire utilizzato come reattivo. Con l’accennato metodo si potrebbero anche stabilire i diversi periodi del decorso della vinificazione. Su questo argomento si sono anzi eseguite delle esperienze che qui non si riportano, avendo intenzione di rinnovarle, in modo più completo, alla RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 22 — 170 — prossima vendemmia. Forse allora si potranno risolvere anche altre questioni, riguardanti l'estratto secco ed il diverso effetto dei vini, a seconda della loro età. Si potrà, inoltre, sperimentare meglio l'effetto dei mosti, in piccola mi- sura già provati e di speciali bevande alcooliche, come il Marsala, i Vermouth, la Birra, ecc. A conferma dei risultati ottenuti con l’alcool etilico, poichè nei varî liquidi alcoolici sono contenuti anche altri alcoli in proporzioni variabili, abbiamo creduto conveniente di estendere le ricerche con alcuni di essi, stu- diando i primi sintomi di avvelenamento, cioè il periodo narcotico, come abbiamo fatto con l'alcool etilico. La serie degli alcoli monovalenti che abbiamo sperimentata, comprende l'aleool metilico (CH* OH), il propilico (C* H” OH), l'isobutilico (C4 H° OH), l'isoamilico e l'amilico (C° H'' OH). Questi alcoli, ad eccezione dell'alcool me- tilico, sì ottengono tutti per fermentazione. Essi, per quanto riguarda la loro azione tossica, sono stati studiati dal Rabuteau, dal Dujardin-Beaumetz e da molti altri. In generale tutti sono d'accordo nell'ammettere che l'azione tossica di questi alcoli aumenta, per quanto più sono ricchi di carbonio e di idrogeno. Alla medesima conclusione hanno condotto le attuali prove, studiando, cioè, la dose minima con la quale si manifesta la narcosi nelle rane. In primo luogo diremo come questa narcosi sì ottiene con tutti gli alcoli che abbiamo passati in rassegna, e non dimostra differenze notevoli nei sintomi. Un'eccezione alla regola sovra enunciata si notò nello studio dell'alcool metilico, il quale, pure essendo meno ricco di carbonio dell'alcool etilico, tuttavia dimostra di essere più velenoso. Infatti abbiamo visto che l'alcool etilico in soluzione al 4°/, e nella dose di 1 ce., non produce nelle rane alcun fenomeno di narcosi. Invece per ottenere la medesima assenza di fenomeni con l'alcool metilico, bisogna usare soluzioni più diluite, cioè quelle del 3 °/,. Tutti gli altri alcoli, nella loro azione narcotica, presentano una gra- dazione bene accertata. Così l'alcool propilico è più velenoso dell'etilico, dando l'assenza di narcosi tra l'1 ed il 2°/. L'alcool isobutilico al 2 °/ è narcotico, mentre non lo è all'1°/,. L'alcool isoamilico non dà azione narcotica con una soluzione del 0,25 °/,, mentre la dà con soluzione del 0,50 °/ e, finalmente, l'alcool amilico, insolubile, il quale si è dimostrato più velenoso di tutti, non produce azione narcotica quando, sotto la cute se ne lascia cadere un'unica goccia da un ago della siringa di Pravaz, da noi adoperata, la cui quantità è stata calcolata a gr. 0,0071, dato e non con- cesso che un cc. di questo alcool pesi un grammo come l’acqua. Quando le goccie invece di una siano tre, cioè, in peso, gr. 0,0213, si presenta sempre il periodo narcotico. Nelle nostre esperienze soltanto una rana grossa, che pesava 36 grammi, resistette all’azione della dose sovra accennata. ui Non si è per tutti gli alcoli studiata la dose minima mortale, che non presentava un grande interesse, limitando le ricerche agli alcoli amilici, dei quali si è dimostrato che basta una piccolissima quantità per produrre la morte delle rane. Infatti con l'alcool isoamilico si ha la morte, sempre, con le soluzioni al 2°/ e con l'alcool amilico si ottiene con dose ancora minore, cioè con gr. 0,05. Abbiamo detto che questi alcoli, ad eccezione del metilico, si ottengono nella fermentazione. Infatti l’alcool propilico si prepara per distillazione frazionata dagli altri alcoli contenuti nelle acqua- viti di vinaccie. L’alcool butilico, scoperto dal Wirtz nel 1852 nell'olio di barbabietola, si ottiene anch'esso per distillazione frazionata. L’alcool ami- lico si trova pure abbondantemente nell'acquavite di patate, di barbabietole e di vinaccie e, a differenza degli altri, è completamente insolubile nell'acqua. Tutti questi alcoli sono capaci di dare alcoolismo acuto e alcoolismo cronico e, come si è detto, la loro azione tossica aumenta col crescere degli atomi di carbonio e di idrogeno contenuti nella loro molecola. La medesima legge possiamo ora sostenere riguardo ai fenomeni di nar- così, per il presentarsi dei quali occorrono sempre dosi più piccole, a misura che si procede nella serie degli alcoli. Non possiamo però trascurare di far presenti le osservazioni del Chirone, alla legge del Dujardin-Beaumetz. Il Chirone (*) nota che nella serie degli alcoli ottenuti per fermentazione, bi- sogna anche considerare che l’effetto locale di queste sostanze diminuisce, a misura che ci eleviamo nella serie. L'azione locale è dovuta al fatto che questi alcoli, al contatto dei tessuti, li disidratano, mentre ne coagulano l’albumina. E poichè l'alcool etilico ha grandissima avidità per l’acqua, mentre l'alcool amilico vi è in- solubile, ne viene di conseguenza che l’azione coagulante sull’albumina è massima nel primo e nulla nel secondo; e siccome l’azione locale si oppone all’assorbimento del farmaco, si può anche da questo lato spiegare la difte- renza nella quantità che occorre usare per ottenere la narcosi. L'azione degli alcoli deve, pertanto, dipendere anche dalle proprietà fisico-chimiche di essi e non soltanto della loro composizione elementare. Contro, infatti, alla legge di Dujardin-Beaumetz stanno gli studî sull'azione degli altri alcoli mono-atomici, tra cui il metilico, l'enantilico, il caprilico ed il cetilico, i quali non seguono la legge riscontrata per gli alcoli pro- dotti da fermentazioni. Infatti si è riscontrato che l’azione di questi alcoli dipende, principalmente, dalla loro maggiore o minore solubilità. Però anche questa legge soffre delle eccezioni, poichè l'alcool cetilico, pure essendo com- pletamente insolubile, è inattivo, mentre ciò non succede per l'alcool ami- lico il quale è velenosissimo, mentre è ugualmente del tutto insolubile. (*) Manuale di materia medica e terapeutica. Napoli, Casa Editrice cav. dott. N. Pasquale. — 1722 — Entra dunque in azione, con tutta probabilità, un altro fattore, che ri- guarda l’assorbibilità del farmaco e, forse, anche le modificazioni strutturali che la serie alcoolica va subendo nei termini più alti. Il cetilico, infatti, è un alcool che si ottiene dallo spermaceti e quindi si avvicina più, anche per la sua azione fisiologica, ai grassi, anzichè agli alcoli. Da Dal complesso delle esperienze risulta chiaramente, anzitutto, come per le rane, al pari che nei mammiferi e nell'uomo, esiste una dose alcoolica la quale si limita a causare dei fenomeni di narcosi, producendo, cioè, uno stato completo di rilasciamento muscolare, dal quale l’animale ritorna ad integrum, mostrando, dopo, di non aver risentito disturbi permanenti. Esistono pure delle dosi, inferiori a quelle che determinano la narcosi, le quali non producono sulle rane alcun fenomeno. Uno studio altrettanto accurato e minuto potrebbe, forse, mettere in grado di vedere se queste minime dosi, pur non manifestando influenza sullo stato del sistema nervoso, abbiano, o, comunque, spieghino azione sul cuore e sugli altri organi. Sarebbe pure interessante provare se tali dosi minime, continuate per moltissimo tempo, riescano a causare un vero e proprio avvelenamento, od almeno un deterioramento permanente nell'organismo. Non bisogna però dimenticare che nel vino si riscontrano spesso delle piccole quantità di altri alcoli, i quali sono più tossici e quindi concorrono indubbiamente a rinforzare, per così dire, l’azione dell'alcol etilico. Rammento, infine, come l'assenza dei fenomeni di narcosi, possa, fino da ora, dare un'idea abbastanza approssimativa dell’alcoolicità di un vino iniettato nelle rane. Provando in seguito un maggior numero di soluzioni alcooliche sempre più diluite, si potrà, certamente, riuscire a determinare, entro limiti ancora molto più ristretti, l’alcoolicità di un vino o di una qualsiasi altra soluzione alcoolica. E con lo stesso metodo si riuscirà, anche, a stabilire i diversi periodi del decorso della vinificazione. Di queste prove biologiche e delle altre numerose questioni che vengono additate dai risultati delle esperienze eseguite, spero di potere occuparmi quanto prima. Questi studî e queste esperienze potrebbero, infatti, riuscire anche di notevole utilità per la pratica, recando un contributo per risolvere la eterna questione, acutizzatasi in questi ultimi tempi per l'aumento della produ- zione, relativa agli effetti, sull'organismo umano, dell'uso moderato delle bevande alcooliche ed in special modo del vino. — 173 — Chimica. — Su composti del piombo con l'acido nitroso (1). Nota di ALBERTO CHILESOTTI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. III. — NITRITO NEUTRO DI PIOMBO (°). 3. Determinazione della concentrazione degli ioni Pb: nelle soluzioni di Pb(NO»):. — Nella speranza di avere qualche indizio sul modo in cui è dissociato il nitrito di piombo nelle sue soluzioni acquose, si eseguirono alcune misure della forza elettromotrice di elementi a concentrazione, costi- tuiti di due elettrodi di piombo immersi, l’uno in una soluzione d'un sale di piombo a concentrazione nota di ioni Ph, l’altro in una soluzione di nitrito di piombo, della quale si conosceva soltanto la concentrazione complessiva del piombo. È ben noto come dal valore della forza elettromotrice di una pila di questo genere si possa, secondo la teoria del Nernst, calcolare la con- centrazione degli ioni Pb: nella soluzione del nitrito. Con questo metodo erano già state determinate le concentrazioni degli ioni Pb: nelle soluzioni di varî sali di piombo da Abegg e Labendzinski (*). Per il calcolo delle concentrazioni dell’ione Pb: nelle soluzioni del nitrito si usarono appunto i valori relativi trovati dai citati autori. Secondo questi ultimi fu ammessa per unità di concentrazione quella degli ioni di piombo nella soluzione 0,01 n. di Pb(N03)».. Anche le concentrazioni calcolate dalle seguenti esperienze si riferiscono quindi alla stessa unità di misura. Gli elettrodi usati erano fili di piombo ricoperti galvanicamente, per elettrolisi di una soluzione di Pb(NO:), e NaNO; secondo Glaser (4). I diversi elettrodi immersì nella stessa soluzione di Pb(NO:). presen- tavano tutti lo stesso potenziale e cioè le variazioni non superavano !/, mil- livolt. Le determinazioni della forza elettromotrice si fecero secondo il solito metodo di compensazione di Poggendorf e come strumento a zero serviva un elettrometro capillare di Ostwald. La pila campione era un elemento Clark, tarato della Reichsanstalt di Berlino. Nelle seguenti determinazioni si cercò di eliminare dal calcolo le forze elettromotrici che si manifestano a contatto dei liquidi, poichè nelle pile studiate il calcolo matematico di queste cadute di potenziale sarebbe stato impossibile. Trattandosi di pile a concentrazione (') Lavoro eseguito nel Laboratorio di Elettrochimica del R. Politecnico di Torino. (?) Vedi questi Rendiconti; vol. XII, serie 5, 1° sem. 1908, pag. 824. (*) Labendzinski, Disert. Breslau, 1904; Abegg, Zft. f. Elektroch, 20, p. 77 (1904). (4) Zft. f. Elektroch, 7°, 1900-1901, pag. 365. — 174 — aventi una debole forza elettromotrice, si preferì evitare la misura diretta e si determinarono invece le /. e. delle pile Pb | sol. di Pb: | KC1”/, HgCl | Hg che avevano un valore più elevato e potevano essere misurate con maggiore esattezza. Per le seguenti combinazioni a 21° si trovarono i valori e delle relative f.e.: 1) Pb | Pb(NO:): 0,107.1 NaNOs 0,107 | KC1?/, HgCl | Hg e1= 0,4546 Volt 2) Ph | Pb(NOs)s 0,122 | NaNOs 0,107 | KC17/, HgCl | Hg e» = 0,4681 Volt 3) Pb | Pb(NO:) 0,10 | Pb(NO;): 0,107 | KC1?/, HgC1 | Hg e = 0,4556 Volt 4) Pb | Pb(NO»); 0,127 | Pb(NO;): 0,107 | KC12/, HgCl | Hg e,=0,4691 Volt 5) Pb | Pb(NO;): 0,10 | Pb(NO): 0,12 | KC1?/, HgC1| Hg e,=0,4548 Volt 6) = Pb|Pb(NO;): 0,122 | Pb(NOs): 0,122 | KC1*/, Hg01 | Hg e = 0,4680 Volt È facile vedere che le differenze es, — a = 0,0135. es, — e3= 0,0135 e — &;==0,0137 rappresentano la F. E. della pila a concentrazione Pb BERO: Pb(N0O»): | Pb ,10% c 12 n II! II" IDU che risulta a sua volta dalle tre cadute di potenziale /7' IZ Z7!", dove ZI! è la caduta di potenziale catodica e /7" l’anodica. Se ora si considera che ss=e3— 0,0013 sj, = +0,0011, e se si tien conto di tutte le singole cadute di potenziale 77 da cui risultano le F.E. di queste pile 3, 4, 5 e 6, e si sostituiscono questi valori al posto di «5, 83,4 ed «s nelle due prece- denti eguaglianze si deduce che 71 — 1». = 3 + 0,0013 Volt e 77, + 72 = — 73 + 0,0011 Volt., dove 7 77, e 773 sono rispettivamente le cadute di po- tenziale: Pb(NO3)s 0,10 x | KC1”/, HgC1, Pb(NO:)30,10 x | Pb(NO:)» 0,12 7 e Uda n Ph(NO»), 0,12 4 |KC1"/, HgC1. E quindi si vede che 7: =7" ha un valore che non supera gli errori sperimentali e che perciò si può ritenere trascurabile. Si è quindi autorizzati ad ammettere che il valore 0,0135 della pila a concentrazione non dipende che da 27, e I, essendo Z trascurabile. Ma per una pila a concentrazione, nella quale si può trascurare la ca- duta di potenziale a contatto dei liquidi vale la formola di Nernst: RT Ci a lo Ca dove E è la forza elettromotrice della pila, R la costante dei gas, T la tem- peratura assoluta, F l'equivalente elettrochimico della corrente, ossia 96540 coulomb, n la valenza dell'ione considerato (quì del Pb e quindi n= 2), c, è la concentrazione ionica della soluzione più concentrata e c, quella della più diluita. Ora, poichè nelle combinazioni swrriferite il piombo è anodo e poichè la forza elettromotrice più elevata è quella della pila con nitrito di — 175 — piombo, vuol dire che questa soluzione contiene meno ioni Pb:*, a parità di volume, ed essendo stato trovato da Abegg e Labendzinski che la concen- trazione degli ioni Pb: nella soluzione di Pb(N0:). 0,10 è 8 sì ha: 0,0002.294 8 8 e, — = 0,0135 = 9 log n 0,0294 log "A da cui 7 = 4,42. Per ottenere un valore direttamente confrontabile con quelli di Labendzinski si preparò anche una soluzione esattamente 0,10 2 di Pb(NO»), e si misurò la combinazione : Pb | Pb(NO:): 0,107 | Pb(NO3) 0,10 n | KC1”/, HgCl|Hg. A 21° la f. e. di questa pila era # = 0.4701 volt. La pila corrispon- dente con Pb(NO:) 0,10 x al posto di Pb(NO»), 0,10 x aveva lo stesso valore trovato precedentemente e” = 0,4556 . Quindi per la pila Pb|Pb(NO:)» 0,10 x|Pb(NO:), 0,10 x|Pb si deduce la forza elettromotrice # — £"= 0,4701 — 0,4556= 0,0145. E, potendosi tra- scurare la caduta di potenziale a contatto dei liquidi, si ha: 0,0145 = 0,0002.294" To: 8 2 Bo da cui 7 = 4,08. Un valore che si accorda sufficientemente con quello tro- vato per la soluzione 0,12 x . Da questi dati risulta quindi che nella soluzione di nitrito di piombo 0,10 n. la concentrazione degli ioni Pb è minore che quella del nitrato e quasi eguale a quella del cloruro, a parità di concentrazione complessiva. In fatti Labendzinski aveva trovato per le soluzioni 0,10 x di Pb(NO;)?, PbC1l, e Pb(Cx.H3 03); i seguenti valori delle rispettive concentrazioni degli ioni Pb: 8,4 e 3. La ragione per cui la conducibilità delle soluzioni di Pb(NO»), è più bassa di quella delle soluzioni di PbCl, non si deve quindi ricercare nel grado minore di dissociazione (*). Il fenomeno dipende probabilmente dalla diversa mobilità degli ioni complessi, la cui presenza sembra confermata dalle presenti determinazioni. La concentrazione degti ioni Pb: nelle solu- zioni 0,10 di Pb(NO,), e PbOl, fa ritenere anche. probabile che la com- plessità del nitrito non sia più forte di quella del cloruro, ciò che starebbe d'accordo con le già citate deduzioni di Abegg e Pick intorno alla elettro- affinità di NO$ (*), contrariamente a quanto si avrebbe potuto supporre dalla conducibilità. 4. Scomposizione delle soluzioni di Pb(NO»)». — La poca stabilità delle soluzioni di questo sale fu osservata da quanti ebbero occasione di prepararle e di studiarle. (1) Vedi questi Rendiconti, vol. XII, serie 5°, 1° sem. 1908, pag. 833-834. — 176 — A proposito della preparazione del nitrito di piombo si ebbe pure occa- sione di rilevare che le soluzioni concentrandosi, anche a temperatura ordi- naria sull’acido solforico, sviluppano vapori nitrosi. Anche le soluzioni diluite (0,06 — 0,1 x) mandano odore di vapori nitrosi, indizio sicuro di scomposi- 1 mg 5 si osservò che la conducibilità equivalente 4 variava lentamente col tempo: zione. Studiando la conducibilità di una soluzione di Pb(N0O3), Giorni trascorsi dalla ( 1 3 5 13 preparazione . . ( GR - - 959 92159192 La seconda misura fu eseguita quando la soluzione era restata 5 ore a contatto degli elettrodi di platino-platinato nella cellula per la conducibilità. A maggiori diluizioni le variazioni di conducibilità erano ancora meno sensibili; sì trovò per es. 4= 131,7 per v= 1117 tanto dopo uno che dopo tre giorni. Da queste misure risulterebbe che la scomposizione avviene lentamente. Va anche notato che la soluzione studiata fu sempre a contatto dell’aria e che quindi alla scomposizione spontanea del sale si aggiungeva l'azione ossi- dante dell’aria. L'aumento della conducibilità sarebbe dovuto non solo al- l'idrolisi, ma anche alla trasformazione del nitrito in nitrato, alla quale, come si vedrà in seguito, contribuisce l'ossigeno dell’aria — che con l' NO, che si forma, dà NO, e quindi con l’acqua HNO; ed NO. La stessa soluzione analizzata dopo esser stata tenuta 4 mesi in una bottiglia chiusa a 15-25° conteneva 0,0444 gr. NO; in 20 cm, mentre subito dopo la preparazione ne conteneva gr. 0,0558 nello stesso volume. La scomposizione ha quindi luogo con sparizione di ioni NO;. Gli studî sulla scomposizione dei nitriti, eseguiti da Montemartini (?), Veley (*), Ssaposhnikoff (*), ed Abegg e Pick (4) ecc. hanno permesso di trac- ciare uno schema generale del modo di scomposizione dei nitriti e di preve- dere la stabilità di ciascuno di essi. La causa determinante la scomposizione di questi sali è la tendenza dell’ione NO; a trasformarsi secondo l'equazione 2N0; — NO; + NO+#-©, dando luogo cioè a due prodotti dell'azoto, uno di forma superiore d’ ossidazione (NO;) e l’altro di forma inferiore (NO), mentre si mette in libertà una carica negativa. Quest'ultima, quando siano presenti ioni di metalli poco elettroaffini, come l'argento, ne neutralizza la carica positiva e deposita l'elemento allo stato metallico: Ag «+-+ © = Ag, ciò che si osserva appunto nelle soluzioni di AgNO, Pick. (1) Atti R. Acc. Lincei (4), 6, 263 (1890). (3) Chem. News, 66, 175-189 (1892). (3) Journ. russ. chem. Gesell. 32, 375 (1900), 23, 506 (1901). (4) Zeitschr. Anorg. Ch. 57, 1 (1906). Pick, Diss. Breslau (1906), — 177 — L'energia libera della reazione 2N03 — NO + NO: + © fu calco- lata da Pick e risultò che la forza elettromotrice en corrispondente è (NO)? [No] (N03) specie chimiche reagenti, la tendenza a prodursi della reazione 2N0; > N0;+ + NO+ 9, con cui vien messa in libertà la carica negativa, è di 0,43 Volt meno forte che quella dell’ione H-, a trattenere la sua carica positiva, quando la sua concentrazione equivalente è pure = 1. In queste condizioni quindi lione H:, non può venire scaricato a spese della energia messa in libertà da detta reazione. Ma poichè la concentrazione dell’ossido d'azoto nelle soluzioni del nitrito [N05]? [NO][NO;] riore a 0,43 e quindi non è esclusa la possibilità che gli ioni idrogeno, che si trovano sempre anche nelle soluzioni dei nitriti neutri, vengano scaricati. Questa possibilità non fu però ancora confermata dall'osservazione di svi- luppo dello idrogeno, che dovrebbe accompagrare la scomposizione: (1) 2M: + 2N0; + H: + 0H' = 2M- -- NO + NO3+-H+- OH". Generalmente ha luogo invece la reazione : e) 3M NO, + H,0 = M NO; +2N0+ MH. 0,43 — RTln Volt. Ciò significa che, per concentrazioni = 1 delle è molto bassa il termine RTln può assumere un valore supe- Ci sembrò non senza interesse vedere a quale di questi due schemi corrisponde la scomposizione delle soluzioni di Pb(N0»)s. Lo sviluppo di NO da soluzioni contenenti nitrito neutro di piombo era stato osservato già da Berzelius, scaldando soluzioni di nitrato e nitrito e raccogliendo il gas sviluppato, di cuni riconobbe le proprietà ('). Alcune nostre esperienze preliminari dimostrarono pure qualitativamente lo sviluppo «di NO, che con l’aria diventava bruno. Per stabilire quale fosse il mecca- nismo della reazione era necessario eseguire la scomposizione fuori del con- - tatto dell’aria, determinare il nitrito trasformato e l’ossido d'azoto svilup- pato e vedere se il gas raccolto conteneva idrogeno. A tale scopo, dopo varie prove, si trovò conveniente scaldare la soluzione (50 cm*) in un palloncino da 100 cm? che portava un tubo 4 saldato lateralmente, il quale toccava quasi il fondo. Il collo del palloncino portava un tubo lungo circa 40 cm., il quale era circondato da un refrigerante e terminava con un capillare, che comunicava con quello di un nitrometro di Lunge pieno di mercurio. Dal tubo 4 si introducevano i 50 cm? di soluzione e quindi dallo stesso tubo sì faceva entrare azoto puro (preparato da NH,Cl ed NaNO, e purificato dagli ossidi di azoto e dall'ossigeno), in modo da spostare tutta l’aria contenuta sopra la soluzione. Chiuso il tubo laterale a e ridotta la pressione dell'azoto «+ . (*) Ann. de Chimie, tomo 83, pag. 5 (1812). RERDICONIIE 1008 Vol. XVIL2° Semo 07 5 SEMbNGI LI — 178 — (per evitare di avere poi un volume troppo forte di gas) si faceva bollire il liquido mantenendo la pressione poco inferiore alla atmosferica. Quando lo sviluppo di gas era cessato, od era diventato molto lento, si allontanava la lampada e dal tubo « si lasciava entrare tanta acqua distillata fino a spostare tutto il gas contenuto nel pallone e nel tubo soprastante fino al robinetto del nitrometro. Il miscuglio gassoso veniva misurato ed analizzato. L'NO si assorbiva con soluzione alcalina di solfito sodico (secondo Divers), e poichè l'assorbimento era molto lento, non si cessava l'operazione, finchè il volume di gas non fosse rimasto costante dupo 12 ore di contatto con la soluzione. Il residuo gassoso veniva poscia mescolato ad ossigeno e fatto passare diverse volte nel capillare di Drehschmidt per vedere se diminuiva di volume, ciò che sarebbe stato indizio di presenza di idrogeno, ed avrebbe anche permesso di determinarne la quantità. D'altra parte ri raccoglieva tutto il liquido che era stato bollito e diluito con acqua e vi si determinava I NO} col solito metodo. Un'analisi preliminare della soluzione usata sta- biliva quanto NO} era contenuto nella. soluzione primitiva e quindi si sapeva quanto NO; era sparito nella scomposizione. 1* Determinazione. I 50 cm? di soluzione contenevano prima della scompos. gr. 0,2697 di NO; 7 ’ ’ dopo la ” » 0,2538 Erano quindi spariti gr. 0,0164 di NO;. Volume totale del gas raccolto (N: -- gas sviluppato) = cm? 44,2 a 13,5° e 744 mm. di pressione B (B—/= 733 mm. Hg), ossia 40,62 cm? a 0° e 760 mm. a secco. Dopo assorbimento con solfito il volume era dic imel9 Stomia ta e 748 mm. B(B — h= 739 mm. Hg), ossia 35,70 cm? a 0° e 760. Mescolato il gas con 8,8 cm? di O, aveva un volume di 47,4 cm? e 14,2° B=7498,B—R= 739. Dopo essere passato tre volte nel capillare di Drehschmidt rovente il volume era 47,1 cm? a 14° ed alla stessa pressione, ossia non era praticamente cambiato di volume. Il volume di NO sviluppato era 40,62 — 35,7 = 4,92 em? a 0° e 760 a secco, corrispondente a gr. 0,0066 di NO ed a gr. 0,01)1 di NO;. Dalla titolazione risultavano spariti gr. 0,0164 di NO; dei quali dalla equazione (2) pag. 177, */3 ossia gr. 0,0109 dove- vano svilupparsi come NO, mentre secondo la (1) avrebbe dovuto svilup- parsi !/, come NO , ossia gr. 0,0082. 28 Determinazione. 50 cm? di soluzione contenevano prima dell'esperienza gr. 0,2697 NO; ” ” ” dopo ” » 0,2435 NO; sparito nella scomposizione . . 0, ‘0,0262 Volume del gas raccolto = cm' 53, 65 @ — 14,2° ,,B= 744, B— h=732)= 49,10 cm? a 0° e 760 mm. di pressione e secco. — 179 — Di questo gas fu analizzata una parte aliquota e cioè cm? 49,5 (£=14,3°, B= 744,B—4h=732)= 45,30 cm° a 0° e 760. Dopo assorbimento con solfito di sodio il gas misurava cm° 40,40 (£=13,6°, B=742,7,B—4%=731)=37,01 em° a 0° e 760. Dopo aggiunta di ossigeno il volume del gas era 50,35 cm° (6 = 14,6°, B = 736,3) = 45,60 a 0° e 760, dopo passato 6 volte nel capillare di Drehschmidt misurava 50,45 cm? a 15° (B= 736) ossia 45,62 a 0° e 760. Si deve quindi escludere la presenza di idrogeno. D'altra parte si calcola facilmente che in tutto il volume di gas raccolto (ossia in 49,10 cm?) erano 8,98 cm? di NO a 0° e 760= gr. 0,0120 NO = gr. 0,0185 NO;. Dalla soluzione erano spariti gr. 0,0262 di NO; e dalla equazione (2) si calcola che di questi gr. 0,0175 (ossia ?/3) si sarebbero dovuti sviluppare come NO. 3% Esperienza. 50 cm3 di sol. scomposta conteneva prima dell'esperienza gr. 0,2697 NO; ’ ” x dopo l’ ’ » 0,2339 Spariti nella scomposizione . . . . . ., . . +. +. gr. 0,0358 NO, Volume totale del gas raccolto = cm? 63,85 (£= 15° , B= 730, B—h= 718)= cm? 57,18 a 0° e 760. Parte aliquota analizzata = cm° 46,3 ((=15°, B=730,B—%= 718) =cm? 41,46 a 0° e 760. Dopo assor- bimento con solfito cm? 36,40 (£f= 14°, B= 744, B—h= 732) = 33,35 a 0° e 760. Nel volume analizzato cm? 8,11 NO a 0° e 760. Nel volume totale cm 11,19 NO a 0° e 760 = gr. 0,01501 NO = gr. 0,02301 NO;. Teoricamente secondo la (2) avrebbero dovuto svilupparsi gr. 0,0238 NO, come NO. Da tutti questi dati, considerando che delle cause d'errore erano inevi- tabili, sia per la presenza di qualche po’ di ossigeno nel gas sopra la solu- zione, sia per la perdita di NO portato via dall'azoto, che si faceva passare per eliminare l’aria dalla soluzione già parzialmente idrolizzata, sia nella titolazione, che si doveva fare sopra una parte aliquota della soluzione ecc., si può concludere con sicurezza che la scomposizione del nitrito di piombo avviene secondo la equazione : 3Pb(NO,). + 2H,0 = Pb(NO;), + 2Ph(0H), + 4N0 e non secondo la 2Pb(N0:). + 2H,0 = Pb(NO:): + Pb(0H), + 2N0+ H,, la quale ultima resta esclusa non solo dalla quantità di NO sviluppata, in rapporto al nitrito scomposto, ma anche dalla mancanza di H, nei gas. Non — 180 — resta escluso però che possa aver luogo, in piccole proporzioni, qualche rea- zione secondaria, magari con sviluppo N30 . Le soluzioni da noi studiate, dopo bollite, ancora calde, restavano limpide, ma a freddo lasciavano deporre delle scagliette cristalline a splendore madreperlaceo, che potevano essere tanto di Pb(NO:).. Pb(OH); . H:0 come di Pb(NO; NO») Pb(OH).. H:0. La piccola quantità di sostanza ottenuta non ha permesso di poterne fare l'analisi. Nella soluzione possono certamente trovarsi i sali citati oltre alle altre possibili combinazioni degli ioni Pb: , OH’, NO; e NO;. La soluzione diventa alcalina, dopo la scomposizione, ed è appunto l'au- mentata concentrazione degli ioni OH', che limita la scomposizione. Dalle presenti esperienze non si può determinare Ja concentrazione dei componenti corrispondente all’equilibrio, ma pare che esso fosse raggiunto, nelle condizioni della 3° esperienza [cioè a circa 100° e per la conc. di NO corrispondente alla sua solubilità, alla sua pressione parziale ed a quella temperatura] quando il 13 °/, circa di NO; era trasformato in NO ed NO;. Notiamo finalmente che a contatto dell’aria la scomposizione di queste soluzioni deve prodursi in più forti proporzioni, poichè NO in gran parte viene ossidato ad NO, quando è ancora disciolto e quindi trasformato in HNO;, ciò che mantiene molto bassa la concentrazione degli OH' e NO, favorendo la scomposizione. IV. — NITRITI DOPPI DI PIOMBO E POTASSIO. È noto da lunghi anni che il nitrito di piombo entra facilmente in combinazione col nitrito di potassio. Fischer (*) dalla soluzione di acetato di piombo, trattata con KNO: aveva isolato un sale doppio che ricristallizza in prismi monoclini aranciati, al quale secondo l’analisi di Hampe (*), che lo ripreparò, spetta la formola 4Pb(N03). 6KNO,.3H,0. Con eccesso di KNO, dalla soluzione di acetato di piombo furono ottenuti da Lang (*) dei prismi rombici di colore arancio, ai quali egliattribuì la formola Phb(NO»): . 2KNO:.H:0 . Avendo dovuto pre- parare un nitrito doppio, come punto di partenza, per ottenere un nitrito basico che sarà descritto in seguito, ebbi occasione di fare alcune osserva- zioni sulla composizione di questi sali, e non sarà inopportuno farne qui un rapido cenno. La preparazione si faceva mescolando la soluzione calda e concentrata di Pb(C,H30:); H:0 con quella di KNO,, in diverse proporzioni e lasciando poi cristallizzare il sale doppio dalla soluzione gialla filtrata. (1) Pogg. Ann. 74, 115, J. B. 1847-1848, pag. 384. (®) Ann. Pharm. 125, 334, J. B. 1863, 161. (®) Lang. Sv. Vetensk. Akad. Handling. 1860, J. B. 1862, 102. — 181 — Dalle acque madri, per concentrazione a bagno-maria, sì depositano altre frazioni di sale doppio. Furono analizzate diverse porzioni del sale così otte- nuto direttamente, ed altre del sale ricristallizzato in diverse maniere. I ri- sultati analitici sono riferiti nella seguente tabella, ed a proposito notiamo che i pesi del PbO,, ottennto elettroliticamente, notati nella tabella non sono quelli trovati pesando il perossido scalato a 160-180°, che contiene ancora un po’ d’acqua, ma corretti in base ai dati. di Treadwell, e di Hollard e Ber- tiaux. Le percentuali di NO}, dedotte secondo il metodo già citato, erano le medie di diverse titolazioni tra loro concordanti. Il potassio fu determi- Sa gr. hanno dato gr. PbOs |= Pb°/s| e gr. KCI| = K%o Pb:K=| ingr.sost. [erano gr.NO/s| NO/2 °/0| Pb: NO/2 1 | 0,3068 | 0,1669 | 47,12 — - _ _ — — — l 0,8486 | 0,1901 | 47,09| 0,0863| 12,99 |1:1,46 == = = = 2 | 0,3849| 0,2094 | 47,11 0,4012 0,1463 | 36,47| 1:3,48 3 | 0,4249| 0,2352 | 47,96| 0,1168| 14,43? 1:1,59| 0,3762 0,1400 | 37,22) 1:3,49 4 | 0,8712| 0,2078 | 48,49] 0,0907| 13,71 |1:1,49| 0,3011 0,1113 | 36,97| 1:3,42 5 | 0,3426 | 0,1919 | 48,52| 0,0878| 13,45 |1:1,47| 0,3290 0,1211 | 36,80] 1:3,41 6 | 04320 | 0,2443 | 48,98| 0,1097 | 13,33 |1:1,44| 0,3018 0.1088 | 36,07 | 1:3,51 n 0,4350 | 0,2259 | 44,98| 0,1283| 15,48 |1:1,82| 0,1525 0,0555 | 36,36| 1:3,63 ! 0,4222 | 0,2190 | 44,92| 0,1261| 15,56 |1:1,83 0,1433 | 0,0518 | 36,13| 1:3,61 nato nelle soluzioni dalle quali era stato depositato elettroliticamente il piombo. Il sale 1 si depositò dalla soluzione di 2 mol. di KNO. e di 1 mol. di Pb(C,H;0,).3H,0 in gruppi di cristalli aghiformi intensamente colorati in giallo, e fu lavato con alcool diluito e con acqua leggermente acidificata con C,H30, e poscia asciugato tra carta. Esso aveva quasi la stessa com- posizione del sale 2 ottenuto in condizioni molto diverse e cioè ricristalliz- zando un nitrito doppio in presenza di un eccesso di KNO,. Era costituito di aghi piuttosto lunghi e sciogliendosi in acqua dava un piccolo residuo. Il sale 3 era stato ottenuto ricristallizzando parecchie volte dall'acqua il sale doppio depositato dalla soluzione di 1 mol. di acetato e due molecole di nitrito. In modo analogo era stato preparato il sale 4. Il n. 5 invece era stato ottenuto da una soluzione di diverse porzioni di sale doppio, trattata a freddo con alcool e riscaldata poi a 40-50° in modo da portare in so- luzione il precipitato. Per raffreddamento si depositò il sale 5 in cristal- lini aghiformi. Il sale 6, costituito di cristalli prismatici gialli splendenti, era stato ricristallizzato in presenza di un eccesso di KNO,. Dall'esame dei dati analitici risulta che nelle condizioni qui sperimentate tende sempre @ formarsi il sale doppio contenente 2 mol. di Pb(NO»), per 3 mol. di KNO,, | — 182 — ossia si trova lo stesso rapporto che nel sale di Hampe 4Pb(NO:), . 6KNO;. 38H,0., per il quale si richiederebbero le percentuali 46,99 °/, Pb, 13,34 °/,K, 36,60 °/, NO; e 3,07 °/, H30 con le quali si accordava abbastanza bene l'ana- lisi di Hampe (46,87 °/, Pb, 13,42% K, 17,35 °/ NO; legato al piombo). Nessuno dei sali qui ottenuti corrispondeva però esattamente a questa formola. Le percentuali dei sali dall'1 al 6 sono comprese tra quelle calcolate dalla formola precedente e dalle: 2Pb(NO:);, ENO; , 48,48 °/, Pb, 37,76 °/ NO! e 13,76 °/, K 2Pb(NO:):, 8KNO;, H,0 , 47,48 °/ Pb, 36,98 °/ NO! e 13,48 °/, K È possibile che una causa della inconstanza della composizione sia do- vuta alla facilità degli idrati di perdere l’acqua di cristallizzazione. Inoltre dall'esame dei rapporti Pb: K e Pb: NO; risulterebbe che general- mente in questi sali cristallini è contenuto un eccesso di PbO, dovuto pro- babilmente alla scomposizione del Pb(NO»):, dal quale si sviluppa qualche po di NO anche in presenza di KNO, e dalla formazione di sali basici determinata anche dall'aggiunta di KNO; parzialmente idrolizzato. Infatti, nella maggior parte dei casi, sciogliendo questi sali doppi si formava un leg- gero deposito di nitrito basico. Un'altra prova della possibilità di questa impurezza si ha pure nel fatto che in certe circostanze, trattando con Pb(0H), la soluzione di nitrito doppio si ottenne un prodotto cristallizzato in cui Pbh:N0;=3:5,09, Pb:K=3:0,91 ossia prossimamente nel rapporto della formola SPbO,2N:0;, KNO, che sarebbe il sale doppio di un nitrito basico. Inoltre dalla tabella precedente risulterebbe che Ph:K è più prossima a 1:1,5 che Pb: NO; al rapporto teorico 1:3,5, ciò che si deve attribuire alla presenza di NO; formato nella scomposizione del Pb(NO,).. Questi nitriti doppi conterrebbero quindi come impurezza nitrato di piombo o qualcheduno di quei nitrati-nitriti doppi di Pb e K già noti (*) che si formano facendo agire il KNO; sul Pb(N0;):. La presenza di quantità notevoli di NO; in un sale ottenuto a questo modo fu pure osservata in queste ricerche determinando l’ N,0; e l'azoto totale. Si trovarono i rapporti: Pb: NO;=1:3,37 e Pb:N=1:83,72. In conclusione i sali dall’1 al 6 corrispondono alla formola 2PbO , N30; , 3KNO; con quantità d'acqua comprese tra O ed 1,5 molecole, e resi impuri dalla presenza di PbO in eccesso e di NO;. Non si credette opportuuo insistere in queste ricerche, ma sembra che volendo preparare puro questo sale doppio converrebbe mescolare le soluzioni fredde e far cristallizzare il composto per evaporazione sull'acido solforico, acidificando magari leggermente con acido acetico la soluzione dell’acetato. (*) Lang. loc. cit.; Hayes Sill. Am. Journ. (2) 37, 226; J. B. 1861, 279. — 183 — Il sale di Lang PbN:0,.2KNO,. H;0 non si potè ottenere neanche in presenza di un eccesso di KNO,, l’unico indizio della possibilità che si formi si avrebbe nel sale 7, per il quale i rapporti Pb:K e Pb:NO; sono superiori ad 1:1,561:3,5. Era un sale costituito di cristalli aghiformi giallo chiari, ottenuti come seconda porzione dalla ricristallizzazione a freddo di 50 gr. di uno dei precedenti nitriti con 20 gr. di KNO.. È quindi possibile si trattasse di cristalli misti dei due sali doppi. Ad ogni modo si vede che il sale Pb(NO:): . 2KNO,.H:0, se pure se ne deve ammettere l’esistenza, è estremamente instabile. In fatti anche il sale ana- lizzato da Lang conteneva 42,14°/, Pb e 37,12 NO;, mentre la formola ri- chiede 42,45 °/, Pb e 37,79°/, N0;. Per tutti questi fatti si può dedurre che in questi sali la stabilità del complesso non è così forte come in molti altri nitriti doppi. Petrografia. — Contributo allo studio petrografico del Vul- cano Laziale. Rocce erratiche del Colle di Fonte Molara, sulla via Monte Compatri-Zagarolo (Lave) (*). Nota di AristIDE Ro- SATI, presentata dal Socio STRUEVER. Il Prof. G. De Angelis D'Ossat in una sua recente comunicazione sulla geologia della provincia di Roma (?) fa conoscere che sul fianco NE-SW del Colle di Fonte Molara, lungo la via Monte Compatri-Zagarolo esiste una piccola sezione naturale di speciale interesse per la storia del Vulcano La- ziale. Egli disegna la sezione, come io riporto qui sotto riferendomi testual- mente alle sue osservazioni : N. 4. - Lapillo giallastro con scorie, m. 1,20. N. 3. - Tufo granulare, leucitico, incoerente, grigio-chiaro, m. 0,50. N. 2. - Tufo grigio oscuro, coerente, breccioide, con cristalli grossi di mica, augite e ciottoli subangolosi; passa insensibilmente al membro inferiore: m. 0,40. N. 1. - Conglomerato poligenico. Ciottoli di svariata grossezza, arrotondati o subangolosi; cementati da poco materiale sottile grigio costituito da frammenti di mine- rali e rocce. I ciottoli di maggiori dimensioni raggiungono col diametro maggiore, m. 0,380-0,40. Gli strati pendono verso NW. La linea di base rappresenta pure la via carroz- zabile. E dopo aver notato che l’ultimo strato ciottoloso offre una strettissima somiglianza con quello che si conosce specialmente presso l’osteria del Ta- (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Mineralogia della R. Università di Roma. (*) Sulla Geologia della provincia di Roma. - INI. Alcune sezioni geologiche del Vulcano Laziale. Boll. Soc. Geol. ital., vol. XXIII (1904), f. 3, p. 419. — 184 — volato sull'’Appia Nuova, fa una descrizione sommaria delle diverse rocce da lui raccolte senza entrare in dettagli petrografici, che però a suo stesso parere potrebbero riuscire di non lieve interesse. Così io ho creduto opportuno di seguire il consiglio del De Angelis e nella presente Nota espongo i risultati ottenuti dallo studio petrografico delle principali rocce, che costituiscono la formazione suddescritta. Lo stesso De Angelis D’Ossat mi comunica che si propone di studiare in seguito i due giacimenti menzionati con gli altri analoghi al lume delle nuove conquiste sulle breccie ed i conglomerati, assicurate alla scienza con l’investigazione diretta delle grandiose manifestazioni della Pelée, di Saint- Vincent e del Vesuvio (') I campioni da me raccolti non differiscono da quelli, che il professor De Angelis enumera nella sua Nota, e che gentilmente ha voluto mettere a mia disposizione; e così le osservazioni stratigrafiche, che ho potuto fare — sul posto, confermano pienamente quanto fu già detto con molta chiarezza dal De Angelis. Ad un esame dei caratteri esterni possiamo intanto distinguere tre diversi tipi di rocce: 1° Lave 2° Aggregrati di cristalli 8° Tufi vulcanici. Nello strato ciottoloso predominano le lave, e specialmente quelle a frattura scaglioso-concentrica, che talvolta raggiungono la dimensione di circa mezzo metro di diametro. Intercalati tra esse a modo sporadico sono gli aggregati di cristalli; i tufi terrosi, come s'è visto, occupano la parte superiore visibile della formazione e contengono frammentini di lava decom- posta. Le lave si possono suddividere in due gruppi: 1°) Lave di aspetto decisamente porfirico specialmente per i molti e grandi cristalli di leucite disseminati nella loro massa. | (1) Lacroix A., Contribution è l’étude des Brèches et des Conglomérats volcaniques (Antilles 1902-03, Vesuve 1906). Bull. Soc. Géol. Frane., Sér, 4, t. VI. Fasc. 8. Paris, 1907. — 185 — 2°) Lave in cui le leuciti si riducono a sottili punti bianchi, e che per ciò all'esame esterno risultano costituite da una massa più o meno uni- forme, compatta, salvo a riscontrarvi sporadicamente qualche grande cristallo di leucite. Comincerò col descrivere le lave del primo gruppo, premettendo per maggior chiarezza il quadro di classificazione delle leucititi laziali stabilito dal Sabatini (') nella sua pregevole opera: 7 Vulcani dell'Italia Centrale e î loro prodotti. 1. Leucititi con due tempi bene sviluppati. A) Cristalli visibili a) con transazioni abondanti o tra I e II a) con leuciti inter- B) Cristalli visibili ) £) senza transazioni medie bi con pirosseni în scarsi tra I e II 0) senza leuciti inter- termedî medie bb) senza pirosseni in- termedî 2. Leucititi col primo tempo poco sviluppato 0 quasi assente. a) con leuciti inter- @) con grandi leuciti | medie in I 9 senza leuciti in- termedie B) Cristalli visibili scarsi x EIRURAG i a) con leuciti inter- 8) senza grandi leu- \ medie a) con pirosseni in- citi in I 2) senza leuciti in- termedî termedie b) senza pirosseni intermedî LAve DEL 1° GRUPPO. Leucitite Ala — (roccia a del De Angelis). Lava alquanto porosa di color grigio-cenere scuro e di struttura porfi- rica. La massa fondamentale ha una tessitura finamente granosa, ed appare cosparsa di innumerevoli puntini bianchi. In essa sono inclusi grandi cri- stalli porfirici di lewcite, augite e biotite, con grande prevalenza della leu- cite sugli altri due minerali relativamente scarsi. Le dimensioni dei cristali di Jeucite sono molto variabili, ma raramente raggiungono i 15 mm. di diametro o poco più; d’ordinario hanno un dia- metro di 2 0 di 5 mm. La biorite è notevolmente decomposta; le sue grandi lamine hanno lucentezza metalloidica, e sono facilmente sgretolabili. Anche (1) Memorie descrittive della Carta Geologica d’Italia. Vol. X. Roma, 1900. RenpiconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 24 — 186 — i cristalli di pirosseno sono d'ordinario molto vistosi ed hanno un colore verde-bruno cupo. Al microscopio in sezioni sottili la pasta grigia si mostra composta di leucite, pirosseno, magnetite, nefelina e biotite. La leucite è in piccoli cristalli arrotondati del diametro di mm. 0,02 sino a mm. 0,04; le forme ottogonali sono rare, talvolta si ha contorno irre- golare. Non ha azione molto sensibile sulla luce polarizzata; soio colla lamina di gesso sì riesce a distinguere qualche stria di geminazione. Spesso è priva d'inclusioni; talvolta racchiude cristallini e frammenti di pirosseno e granuli di magnetite, ma quasi mai regolarmente disposti. Il pirosseno è un'augite”microlitica di color giallo-verdognolo. Estingue sotto un angolo massimo di circa 40° dall'asse di allungamento e non di rado si altera in prodotti ferruginosi. Non ha pleoeroismo avvertibile. Per quantità è all'incirca uguale alla leucite. La mnefelina incolora, con rifrazione quasi uguale a quella del balsamo ed estinzione retta, decomposta dall’acido cloridrico, è relativamente abbon- dante; non ha forme proprie, ma riempie gl'interstizî cementando i minerali ora ricordati. La magnetite ha forme granulari, e spesso circonda i cristalli porfirici di leucite e di augite; si altera in limonite; è diffusissima. Si notano infine laminette di d20///e inalterata, a contorno irregolare, con il consueto pleocroismo. Nella pasta fondamentale così formata sono sparsi i grossi cristalli di leucite, augite e biotite, già osservabili macroscopicamente. I cristalli di /ewucite più comuni nella sezione sottile hanno un diametro variabile da mm. 0,1 a mm. 0,26-0,75, e manifestano distintamente la strut- tura polisintetica. La forma delle sezioni è poco regolare avendosi spesso cristalli esternamente corrosi; le solite inclusioni di magnetite ed augite sono frequenti, ma di rado hanno disposizione radiale simmetrica. L’augite è in frammenti o in cristalli spezzati ad orli corrosi, comune- mente allungati secondo le facce del prisma verticale. In sezione molto sot- tile è di color giallo pallidissimo senza pleocroismo distinto. In sezioni più grosse è pleocroica con a=c giallo chiaro 6 verde chiaro. Estinzione dalle linee di sfaldatura fino a 44°-46°; è frequente l'estin- zione ondulosa. Sono comuni le inclusioni di magnetite e leucite. Talvolta si notano geminati secondo (100). Si trova anche augite stratificata; in un cristallo il nucleo estingue a 35°, l'orlatura a 49° dalle linee di sfaldatura, inoltre l'orlo è colorato più intensamente del nucleo. Le grandi lamine di bzozile al microscopio si presentano ripiene di pro- — 187 — dotti ferruginosi nerastri e bruno-giallastri disposti parallelamente alle tracce della sfaldatura; la parte inalterata è ridotta a minimi termini. Il minerale più raro è la biotite, il più frequente è la leucite; anche l’'augite è poca. I due tempi di formazione della roccia non sono nettamente distinti, avendosi molti cristalli di leucite ed augite di grandezza intermedia tra quelli del I e del IT tempo. Quindi seguendo la classificazione del Sabatini la nostra roccia è una leucite di tipo A 1 a. Leucitite Ala molto alterata — ‘({- De Angelis). Lava molto alterata, friabile, di color grigio-biancastro. Si notano nu- merosi cristalli porfirici di /ewcite bianca caolinizzata. Al microscopio risulta che sono elementi della massa fondamentale: augite, magnetite, leucite; minerali porfirici sviluppati in grandi cristalli : leucite, augite, olivina. Tutti questi minerali, come già si è notato all'os- servazione macroscopica, sono più o meno alterati, e quindi raramente presen- tano caratteri ben definiti. Nella massa fondamentale compaiono ossidi di ferro secondari, che la co- lorano in rossiccio. In essa l'augite assume forme granulari essendo i cri- stalli piccoli e corti, ha un colore giallo-verdognolo, si altera spesso in limonite ed è molto diffusa; la /ewczte ‘costituisce piccoli cristalli isotropi di contorno irregolare con rare inclusioni; la magnetite è diffusissima in gra- nuli più o meno grandi. Fra i minerali porfirici è molto diffusa la /ewcdte in grandi elementi di forme irregolari quasi completamente alterata in un materiale granuloso leg- germente giallognolo, che ha poca azione sulla luce polarizzata (caolino). L’augite del I tempo è in grandi cristalli colorati in verde-giallognolo chiaro, spesso corrosi e spezzati, con un angolo massimo di estinzione di circa 48° dalle linee di sfaldatura, che però sono poco evidenti. L'olivina, che è tutta del I tempo e relativamente rara, si presenta in forme arrotondate od ovoidali a contorno limonitico. Avendosi transazioni complete tra I e II la presente roccia deve rife- rirsi allo stesso tipo della precedente A 1 «. Leucitite A1Bbb — (6 De Angelis), Lava di color grigio-seuro, simile al primo esemplare descritto (Lewci- tite Ala). Ne differisce per la struttura più compatta, per il colore più scuro, @ per essere priva dei grandi cristalli di mica nera. I cristalli porfirici di Zewci/e hanno un diametro variabile da 3 a 10 mm; quelli di augi/e sono generalmente molto piccoli, — 188 — Dalle osservazioni microscopiche risulta che anche qui, come nella leu=. citite Ala, la massa fondamentale è costituita dai seguenti minerali: Augite microlitica di color giallo-brunastro chiarissimo con angolo mas- simo d'estinzione di circa 46° dalla direzione d’allungamento. Leucite in piccoli cristalli isotropi spesso arrotondati e del diametro di 0,09 mm.; per lo più priva d'inclusioni, ovvero con le comuni inclu- sioni di magnetite ed augite disposte ora irregolarmente ora simmetrica- mente. Magnetite granulare, talvolta alterata in limonite, molto diffusa. Biotite in laminette o in forme irregolari, pleocroica con a giallo-chiaro, D e c giallo-bruno cupo. Nefelina allotriomorfa o in cristalli prismatici. Gli ultimi due minerali sono in poca quantità. A differenza dalla /ewcitite A la le dimensioni delle leuciti della massa fondamentale sono qui ridotte circa della metà, e l’augite presenta un colore molto più chiaro. Sono minerali porfirici la lecite, l'augite e l'olivina. La leucite appare in grandi sezioni ottagone, o di forma irregolare più o meno tondeggiante con poche inclusioni di magnetite. A nicol incrociati e specialmente adoperando la lamina di gesso si rendono visibili bellissime anomalie. L'augite estingue con un massimo di 44° dalle linee di sfaldatura, e comunemente presenta forme prismatiche molto allungate. Di rado si osser- vano sezioni basali limitate dalle forme }010|, }100},}110{ con le ca- ratteristiche linee di sfaldatura, che s'incontrano ad angolo quasi retto. I suoi cristalli sono spezzati o corrosi agli orli, ed attraverso le larghe fendi- ture penetrano i minerali circostanti. È presente anche l’augite zonata. L'olivina forma cristalli di variabile grandezza e di aspetto più o meno ovoidale con gli orli corrosi. Nella parte esterna si sono depositati per alte- razione materiali ocracei, così che spesso si distingue un nucleo incoloro circondato da una larga zona rosso-scura; altre volte l'alterazione si estende anche alla parte centrale e ciò avviene specialmente per i piccoli cri- stalli. È notevole l’alterazione di una parte delle leuciti del II tempo, e di qualcuna del I tempo in un feldspato, che sembra appartenere, almeno pre- valentemente, alla serie dell'olzgoglasto, essendo il valore massimo dell’an- golo d'estinzione nella zona | a (010) di circa 5°. La trasformazione, che in alcuni punti è distintamente riconoscibile, in altri appare vaga ed incerta. Si vedono talvolta interi gruppi di piccole leuciti alterate in feldspato, che sì presenta o senza geminazioni, o in forma di geminati semplici secondo la legge dell’albite a contorno irregolare. La trasformazione ha quasi sempre luogo con andamento irregolare dall'esterno all'interno, e talvolta con tra- — 189 — boccamento e formazione di geminazioni nella parte esterna, presentandosi fenomeni del tutto analoghi a quelli descritti dal Sabatini per la petrografia della Colata di Squarciarelli a pag. 276 dell’opera precedentemente citata. Qualche volta si osserva la trasformazione di una parte delle grandi leuciti in nefelina. Un attacco con acido cloridrico, mentre decompone la leucite e la nefelina, lascia inalterato il feldspato. Non avendosi transizioni tra I e II si ha qui il tipo A1£2b. Leucitite A1Bba — (e De Angelis), Lava compatta, grigio-cenere, molto alterata. Sono presenti grandi cri- stalli porfirici di Zeweite, augite e mica nera, come nella leucitite Ala, ma più numerosi. La leucite è divenuta biancastra e farinosa per altera- zione. Si notano anche prodotti rossicci e giallognoli dovuti a minerali di ferro secondarî. La mica osservata alla luce polarizzata convergente si di- mostra quasi uniasse. I minerali della massa fondamentale osservati al microscopio presentano caratteri confusi per la loro profonda alterazione. Ad ogni modo vi si distin- guono la Zewciîte, l'augite microlitica e la magnetite. Ma dovunque sono abbondanti materiali di colore rosso-bruno dovuti agli ossidi di ferro, e la leucite è trasformata in una sostanza granulosa non bene determinabile, pro- babilmente caolino. Dalla massa fondamentale si differenziano nettamente i grandi elementi porfirici di lewczte, augite e biotite. La leucite è di forma irregolarissima e completamente alterata oltre che nel materiale bianco, granuloso, già notato per i cristalli del II tempo, in minerali che indubbiamente appartengono alla serie dei plagioclasi. Questi plagioclasi secondarî hanno sempre un contorno irregolare e si distribuiscono nell'interno delle grandi leuciti con disposizione a mosaico, senza alcuna determinata orientazione spesso prolungandosi oltre i confini del cristallo ori- ginario, di cui rimane solo qualche traccia della caratteristica forma. sfe- roidale. Non è raro di trovare geminati semplici o polisintetici secondo la legge dell'albite, in cui il valore massimo dell'angolo d'estinzione nella zona | a (010) raggiunge circa 25°. È quindi presumibile che in massima il feldspato appartenga alla serie della labradorite, senza escludere che siano presenti anche feldspati più acidi. Si ha dunque in questa leucitite alterata molta quantità di feldspato secondario, ma la sua composizione mineralogica non ne mula il nome, che dipende dai soli elementi di formazione primaria (primo e se- condo tempo). Un'analisi della silice da me eseguita fa rilevare come in conseguenza dell'alterazione cresca notevolmente l'acidità della roccia, essendo Si (055 3 51,54% — 190 — mentre nelle leucititi normali, come risulta dalle analisi sinora eseguite, e di cui si legge un quadro riassuntivo nell'opera citata del Sabatini a pag. 163, il tenore in silice è 45 — 47°/,. Solo le leucotefriti, che sono più ricche in silice delle leucititi, dànno: Si 0, = 51,42 g/0 (Tavolato, blocco erratico, Aichino) — Si 0,= 48,38 °/ (Lago di Nemi, banco III, Aichino). L'augite si presenta sotto due aspetti diversi. Da un lato abbiamo grandi cristalli più o meno spezzati o corrosi, spesso con alterazioni limonitiche e cloritiche e con inclusioni di magnetite, che hanno un colore giallo-pallido senza traccia di pleocroismo ed estin- guono con un angolo massimo di circa 52° dalle linee di sfaldatura. Dall'altro cristalli più piccoli che estinguono fino a 39° circa dalle linee di sfaldatura e presentano un distinto pleocroismo proprio della augite-aegi- rina con a verde b verde oliva c giallo-verdognolo. La biotite in grandi lamine fortemente pleocroiche con a giallo palli- dissimo b=c giallo bruno carico è un minerale abbondante. La nostra roccia, dove non sì vedono transazioni complete tra I e II ma che presenta pirosseni intermedî, appartiene al tipo A1f da. Note presentate all'Accademia sino al 10 agosto 1908. Matematica. — Sulle vibrazioni delle piastre elastiche inca- strate. Nota del Corrispondente G. LAURICELLA. Chimica. — Sull’aldeide p-ossimetilidrocinnamica derivante dai 1-ossimetil-p-fenil-1.2-propilenglicoli stereoisomeri. Nota del Corrispondente L. BALBIANO. Petrografia. — Contributo allo studio petrografico del Vulcano Laziale. Rocce erratiche del Colle di Fonte Molara, sulla via Monte Compatri-Zagarolo (Aggregati di cristalli e tufi). Nota di Aristipe Rosati, presentata dal Socio E. STRUEVER. — 191 — Fisica — Azione delle onde elettriche sull’allungamento per magnetostrizione di un filo di ferro magnetizzato longitudinal- mente. Nota di L. TrerI, presentata dal Socio P. BLASERNA. Fisica-terrestre. — Za radiazione solare ol Monte Rosa. — Osservazioni eseguite alla Capanna-Osservatorio Regina Marghe- rita nell’anno 1907. Nota del dott. CAMILLO ALESSANDRI, pre- sentata dal Socio V. VOLTERRA. Mineralogia. — A proposito dell'origine dell’acido borico nei soffioni boriferi della Toscana. Nota di G. D’ACHIARDI, presentata dal Socio R. NASINI. Mineralogia. — A/oiszite, nuovo idrosilicato dei tufi di Fort Portal (Uganda). Nota del dott. Lurer CoLomBa, presentata dal Socio G. SPEZIA. Fisica. — Radicattività di roccie della regione attraversata dalle linee di accesso al Sempione. Nota di G. GALLO, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Fisiologia. — Ancora sul cielo della « Phillorera quercus » Boyer. Nota preliminare di Branca BonFIGLI, presentata dal Socio B. Grassi. Meccanica. — Sopra la distribuzione locale di azioni tan- genziali sulla superficie di un suolo elastico. Nota di UMBERTO CisoTTI, presentata dal Corrispondente TuLLio LevI-CIVITA. Fisica. — L’interruttore di Wehnelt con corrente alternata. Nota di F. ProLA, presentata dal Socio P. BLASERNA. — 192 — Fisica. — Su un rivelatore di onde elettriche. Nota di L. TIERI e U. CirALDEA, presentata dal Socio P. BLASERNA. Chimica. — Za determinazione elettrolitica del Tallio, e ‘la probabile esistenza di un nuovo ossido di questo metallo. Nota di G. GaLLo e G. CENNI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Chimica. — Equilibrii negli stereoisomeri della santonina. Nota di Mario Levi-MaLvano e Antonio MANNINO, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Chimica. — Decomposizione elettrolitica di acidi organici bi- carbossilici (Acido pimelico). Nota del dott. B. L. VANZETTI, presentata dal Socio G. K6RNER. Chimica. — Reazioni catalitiche ed equilibri fotochimici. Nota del dott. B. L. VANzETTI, presentata dal Socio G. KòRNER. Chimica. — Contributi allo studio dei fenomeni di salifi- cazione dal punto di vista chimico-fisico. Nota di G. BRunI e A. AITA, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Chimica. — Nuove ricerche ecrioscopiche sopra soluzioni di gas în liquidi. Nota di Prerro FALCIOLA, presentata dal Socio KR. PATERNÒ. Patologia vegetale. — Intorno alla Cuscuta Gronovii, Wild. Nota del dott. Virrorio PEGLION, presentata dal Socio G. CuBONI. Queste Note saranno pubblicate nei prossimi fascicoli. R. M. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 33 MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. VON VANE VIE Serie 3* — Transunti. Vol. I-VIII. (1876-84). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1, 2). — IL (1, 2). — IEXIX. Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIIIL Serie 4* — RenpicontI Vol. I-VII. (1884-91). Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5 — RENDICONTI della Classe di scienze fistche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fasc. 4°. RenpIconTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907).-Fase. 12°. Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fase. 1°-16°. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasce. 7°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1 Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. #0; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti «editori-librai : Ermanno Lorscner & C.° — foma, Torino e Firenze. ULrico Hoepri. — Milano, Pisa e Napoh. RENDICONTI — Agosto 1908 FRID'T GE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all’Accademia sino al 16 agosto 1908. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTA'E DA SOCI Bottazzi e Scalinci. Ricerche chimico-fisiche sulla lente cristallina . . . ; “paso Severini. Condizioni necessarie e sufficienti perchè un insieme continuo ce” di agio costituisca un gruppo (pres. dal Corrisp. Zawricella). . . ... i agio Nazari. L'azione dei vini e degli alcoli studiata sulle rane (pres. dal si ui CUSANO Chilesotti. Sui composti del piombo con l'acido nitroso (pres. dal Socio Cannizzaro) . . » Rosati. Contributo allo studio petrografico del Vulcano Laziale. Rocce erratiche del Colle di Fonte Molara, sulla via Monte Compatri-Zagarolo (Lave) (pres. dal Socio Striver) . > Lauricella, Sulle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate (). . 0. . È ” Balbiano. Sull’aldeide p-ossimetilidrocinnamica derivante dai 1-ossimetil- -p-fenil 1 9. n alicoliistereni sone. ; : 5 : ” Rosati. Contributo allo studio petrografico del Wil, iii. Ru Side del Colle di Fonte Molara, sulla vin Monte Compatri-Zagarolo (Aggregati di cristalli e tufi) (pres. CESTI) SR SEARS GRID x D) Teri. Azione delle onde ii alal per magnetostrizione gii un ‘filo di Ti magnetizzato longitudinalmente (pres. dal Socio Blaserna) (®). .... IT Alessandri. La radiazione solare al Monte Rosa. — Osservazioni eseguite alla o servatorio Resina Margherita nell’anno 1907 (pres. dal Socio Volterra) ©). 0 » D'Achiardi. A proposito dell'origine dell’ acido borico nei soffioni boriferi della Toscana (pres idaliSocio Nas 3 ” Colomba. Aloisiite, nuovo idrosilicato dei tufi di Port Portal Uzardo) e dal Sori a c )E Gallo. Radioattività di roccie della regione attraversata dalle linee di accesso al Sempione (pres: daliSocio 20/0), RO STO) Bonfigli. Ancora sul ciclo della « Philloxera quercus » Lote, i. dal Sua; i, ©. 7) Cisotti. Sopra la distribuzione locale di azioni tangenziali sulla superficie di un suolo elastico (pres. (dallCorrisp Ve 0e 00) SITO ego ; Raro Piola. L’interruttore di Wehnelt con corrente alternata na dal Socio Bui (o) STO Tierr e Cialdea. Su un rivelatore di onde elettriche (pres. /4.) (Mo... 0» Gallo e Cenni. La determinazione elettrolitica del Tallio, e la probabile esistenza di un nuovo ossido di questo metallo (pres. dal Socio Paternò) ©)... .° . } a (0 Levi-Malvano e Mannino. Equilibrii negli stereoisomeri della 0; (Lo Id.) ( DÌ RT) Vanzetti. Decomposizione elettrolitica di acidi organici bicarbossilici (Acido pimelico) (pres. daliSogio Rion pie ARIA E OSATO A RI) Id. Reazioni catalitiche ed equilibri fotochiiti ie 1) No PRETORIA » Bruni e Aita. Contributi allo stndio dei fenomeni di Sari dal punto di Do chi mico-fisico (pres. dal Socio Cramician) A) 0/0... SUSE NS EST) Falciola. Nuove ricerche crioscopiche sopra soluzioni di gas in liquidi ee dal Socio Pa- INDRO, Be ere Peglion. Intorno alla Cusco ei Wild i foi Socio Cu ©. A ET (*) Questa Nota verrà pubblicata in uno dei prossimi fascicoli. E. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Pubblicazione bimensile. Ioma 6 settemre 1508. N. 5. A TURI . DELLA REALE ACCADEMIA DIE LINCRI ANNO CCCV. MES IO/S RENDICONT | Classe di scienze fisiche, matematic] e naturali. Volume XVII. — Fascolo 5° 92° SEMESTRE. I Comunicazioni pervenute all'Accademia sinal 6 settembre 1908. | ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMDEI LINCEI | i PROPRIETÀ DEI CAV. V. SALVI ; | 1908 ESTRATO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER E PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la rie quarta delle pubblicazioni della R. Accamia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nur serie formano una pubblicazione distinta per,scuna delle due Classi. Per i Rendiconti della asse di scienze fisiche, matematiche e naturalilgono le norme seguenti : 1.1 Rendiconti della Cla di scienze fi- siche matematiche e naturali pubblicano re- golarmente due volte al mese;si contengono le Note ed i titoli delle Memo1presentate da Soci e estranei, nelle due sed mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettibibliografico. Dodici fascicoli compongi un volume, due volumi formano un’annata 2. Le Note presentate da S o Corrispon- denti non possono oltrepassale 12 pagine di stampa. Le Note di estraneresentate da Soci, che ne assumono la respabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per questemunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrindenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore desideri un numero maggiore, il sovrappiù Ila spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproduo le discus- sioni verbali che si fanno nel s dell'Acca- demia ; tuttavia se i Soci, che vanno preso parte, desiderano ne sia fatta Izione, essi sono tenuti a consegnare al Segrio, seduta stante, una Nota per iscritto. tips N LD, | II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi= cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci © da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com: missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conelude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di il stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra; ziamento all’ autore. - 4) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli | autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. . 5.L’Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mersa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 6 settembre 1908. 2° Fisica-matematica. — Sulle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate. Nota del Corrispondente G. LAURICELLA. In due pubblicazioni del 1896 (') mi occupai del problema generale delle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate, giovandomi dei metodi escogitati dal Poincaré (*) nella teoria della propagazione del calore, e sup- ponendo dimostrata l’esistenza della soluzione del problema generale del- l’equilibrio delle piastre stesse, la quale era allora nota soltanto in pochi casi particolari. Le condizioni oggidì sono migliorate assai; giacchè il detto problema generale dell’equilibrio è risoluto, mentre i recenti progressi della teoria delle equazioni integrali offrono, come è stato dimostrato con diversi esempi, un potente strumento di ricerca in quistioni di tale natura. Nella presente Nota, valendomi della proprietà di simmetria della se- conda funzione di Green, con l'aiuto appunto della elegante teoria delle equazioni integrali a funzione caratteristica simmetrica, ritrovo immediata- mente i risultati di già stabiliti nelle mie suddette Memorie, ne dò altri ancora, e studio nei suoi dettagli la formola, mediante la quale si può espri- mere il moto vibratorio generale di una piastra elastica incastrata. (1) Sull’equazioni delle vibrazioni delle placche elastiche incastrate (Memorie della R. Acc. delle Sc. di Torino, ser. II, t. XLVI); Sulle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate (Nuovo Cimento, ser. IV, vol. IV). (2) Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, t. VII. RenDpICONTI, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 25 — 194 — Premetto qui in un primo articolo alcuni nuovi teoremi sulle equazioni integrali, che trovano applicazione nell’articolo II, nel quale. mi occupo esclusivamente del detto problema di fisica-matematica. Altri problemi analoghi della fisica-matematica possono risolversi ripe- tendo, senza sostanziali mutamenti, i ragionamenti contenuti nell’articolo II della presente Nota. Citerò ad es. (essendo oramai risoluto il problema del- l'equilibrio dei corpi elastici isotropi per dati spostamenti in superficie) il problema delle vibrazioni di un corpo elastico isotropo, quando i punti della superficie limite sono in riposo, del quale mi occupai già nella mia antica Memoria: Sulle equazioni del moto dei corpi elastici (*) e del quale pure si occupò due anni or sono il sig. Korn (?). ART. I. — Teoremi sulle equazioni integrali. 1. È noto (*) che, se la funzione caratteristica K(s,#) ha la forma: 1) K6,0= (0) 20, l'espressione: ) © = fr lm con x(t) funzione arbitraria, ma atta all'integrazione nel campo (4, d), è una soluzione dell'equazione : (3) al a no Di guisa che si avrà: se l'equazione (3) non ammette soluzione alcuna diversa da zero (*), è impossibile esprimere K(s,t) mediante una somma di prodotti della forma f(s) x(t), ossia (*) la serie delle costanti della funzione caratteristica K(s,t) è certamente infinita. Possiamo anzi enunciare il seguente risultato: sî sappia in un modo qual- siasi che le funzioni ortogonali Wi, W..... godano tutte di certe mede- sîme proprietà di continuità e di derivabilità nel campo (a, b); se il loro (1) Memorie della R. Acc. delle Sc. di Torino, ser. II, t. XLV. (®) Sur les vibrations d'un corps élastique dont la surface est en repos (Comptes rendus, 26 février 1906); Die Zigenschwingungen eines elastichen Kòrpers mit ruhender Oberfliche (Sitzungsberichte der mathem.-phys. Klasse der Kgl. Bayer. Akademie der Wissenschaften, Bd. XXXVI, 1906, Heft II). (*) Lauricella, Sopra alcune equazioni integrali, $ 6 (Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, ser. 5°, vol. XVII, 1° sem.). Le notazioni adottate nel presente articolo sono quelle introdotte nella Nota testè citata. (4) Cioè, servendosi della denominazione introdotta da Hilbert, se Za funzione carat- teristica K(s,t) è chiusa. (5) Lauricella, loc. cit., $ 3;. — 195 — numero è finito, si potrà scegliere la funzione y(#) in modo tale che la cor- rispondente funzione 6(t), data dalla (2), sia non identicamente nulla e goda delle medesime proprietà di continuità e di derivabilità delle Wi, W2,...; di modo che se l'equazione (3) non ammette soluzione alcuna diversa da sero, godente delle medesime proprietà di continuità e di derivabilità delle Wi, Ws,..., è impossibile esprimere K(s,t) mediante una somma di prodotti della forma f.(s) ys(t), ossia la serie... 2. A complemento di un noto teorema di Schmidt sulla sviluppabilità in serie ('), si può enunciare il seguente altro: se sî ha: g(s) = SG 3 0) h(t) di e se la funzione }h(t)\} è atta all'integrazione nel campo (a , db), la serie SOG ( b \° Dalf 0g sarà convergente. Infatti, rammentando le formole: lseu=v, fuovoa= #7" [owwa=sf 0904, e ponendo: = f 0904 si ha per ? qualsiasi: b ( i 2 a 1 b 0 i b = tI Ind di +, 2d—2),d sf h(t) wy(t) di a 1 1 o b i =f ed, dd. (0) 1 Donde risulta il teorema enunciato. 3. Sussiste ancora il seguente teorema di derivazione per serie: se si ha: (4) g()= of "K(s dh) dt con h (t) funzione atta all'integrazione nel campo (a,b), se all’integrale al secondo membro della (4) è applicabile i volte la derivazione sotto il (1) Zur Theorie der linearen und nichtlinearen Integralgleichungen $ 16 (Math. Ann., Bd. LXITI, H. 4). — 196 — segno, e se esiste una quantità finita A tale che si abbia per tutti i va- lorî di s tra a e db: b i 2 Di dec i ® Por DICINTO i cd =. g(0) gy(6) di , e la serie al secondo membro convergerà assolutamente ed uniformemente. Infatti basterà tenere presente la formola: SE (ga f TELO (0 wo dt f 10) )vi di, ed applicare senz'altro un noto teorema di Schmidt (?). Sarà : Art. II. — 23 funzione di Green. 1. Indichiamo con s una linea piana chiusa, con o l’area piana finita da essa racchiusa, con # la normale nei punti di s, e prendiamo per dire- zione positiva di 2 quella rivolta verso l’area o. Supponiamo poi che per la linea s sia risoluto il problema dell'equilibrio delle piastre elastiche in- castrate, ossia che, riferiti i punti del piano di s a due assi cartesiani orto- gonali, indicate con È, 7;z,y le coordinate di due punti variabili rispet- tivamente nell'interno del campo o e sulla linea s, e posto: Di DE Ari: d ZS A dn 27 008 + cos i , si sappia che esista una funzione (é,), la quale soddisfaccia alle equa- zioni: (nei punti di o) d4*u=f(£,), 1 (1) (nei punti di s) MERITI dove /(£,7) è funzione arbitraria, alla quale però sia applicabile il noto teorema di Poisson (?). (®) Vedi loc. cit., $ 2. (2) Come è noto, questo problema è stato risoluto in casi molto generali (cfr. ad es. la mia Memoria: Sur l’intégration de l'équation relative à l'équilibre des plaques élastiques .., in corso di pubblicazione negli Acta mathematica). — 197 — Rammentiamo qui che (') se si introduce quella funzione g(É, 7°; È,7), la quale nei punti (£',°) di o soddisfa all’equazione: AGgi—10 e nei punti (£',7)= (x,y) di s alle equazioni: AT, dg 1d(rilogr) IRAeSt oe dove 7, indica il vettore che congiunge il punto (£,7) col punto variabile (x,y); e se si pone: A 1 (r°logr con r=1(E— FP +(M— N). l'integrale u&, n) delle equazioni (1) si può esprimere mediante la formola (*) @ ut ,m)= (GE, ;8,2)/(E,9) de. La funzione G(€' ,m ; È,n), detta ordinariamente 2° funzione di Green, come si sa (*), è simmetrica rispetto alle coppie di variabili E ,y :E,n (4). Esistenza di infiniti valori eccezionali. 2. Si considerino le equazioni: Î (nei punti di o) 4'v=%v(£,Mm)+/(E,), dv (nei punti di s) O Verezzi (3) con /($ , 7) funzione arbitraria, alla quale sia applicabile il teorema di Pots- son, e con X parametro indipendente da È e da n. Applicando la (2) si può scrivere: (4) v(E,n)— 1 [GE En) do — (ee, ” 5,n)f(E,7/)do. Donde risulta che l'integrale v(È,n) delle equazioni (3) è soluzione di un'equazione integrale di Fredholm a funzione caratteristica simmetrica. (1) Cfr. mia cit. Memoria sulle placche elastiche, art. I, pag. 68. (?) Ibid., art. I, form. (10). (*) Vedi Boggio T., Suile funzioni di Green d'ordine m (Rend. del Circ. Mat. di Palermo, t. XX). (*) Per fare sulla formola (2) le verifiche al contorno s, basterà osservare che, quando il punto (É,7) si avvicina, secondo una direzione qualsiasi, ad un punto (2, y) di s, al dG limite si ha, in tutti i punti (£°, 77) dell’area 0, G = 0. — 198 — 3. La teoria delle equazioni integrali a funzione caratteristica simme- trica ci dà (!): esiste uma serie finita 0 infinita di valori reali, crescenti in valore assoluto, del parametro k: (5) ei... e una corrispondente serie di funzioni : (5) Pi(É 1) pen) tali che: (6) DIE) — ky | GE, 7 ;E,m)pi(E,)do=0, © Saesdo=|0 i Es I valori assoluti di k,,kx,..., nel caso che non siano in numero finito, hanno il solo punto limite k= 0. Dalla (6) segue per le funzioni py(£, n): \ (nei punti di o) A*p,=Apy(É,7), (8) (nei punti di s) n= 0: U e da queste si ha, in virtù di un noto risultato (*), che è valori (detti ec- cezionali) ki, kx, ... sono tutti positivi. 4. Vogliamo ora dimostrare che la serze (5) dei valori eccezionali è infinita. Per fare ciò, osserveremo anzitutto che, in virtù della (6), le funzioni (dette soluzioni eccezionali) ps(€ , n) sono tutte certamente finite e continue insieme alle loro derivate del primo ordine. D'altra parte l'equazione inte- grale: ©) fee n; E, 0(E,n)do=0 non ammette soluzione alcuna diversa da zero, finita e continua insieme alle sue derivate del primo ordine. Infatti si ha dalla (9), in virtù del noto teorema di Poîsson, (nei punti di 0) 1 [GE sN ;E,M E ,y)do=6(,n)=0; donde, in forza del secondo teorema al $ 1 dell’art. I, risulta la proposizione che volevamo dimostrare (*). (1) Schmidt, loc. cit., Zweites Kapitel. (3) Mia cit. Mem. sulle placche elastiche, art. II, $ 1. (*) Facendo uso del teorema di Poisson nella forma di Stekloff (Sur certaines é9a- lités générales, ecc., Mémoires de l’Ac. Imp. des Sc. de St.-Pétersbourg, vol. XV, n. 7), potevamo limitarci a considerare la sola continuità delle py(£ 7). — 199 — 5. Dalla nota formola di Schmidt (*), relativa alla soluzione di un’equa- zione integrale di Fredholm a funzione caratteristica simmetrica, come la (4), si ha che l'integrale delle equazioni (3), per valori di % diversi da X,,%s,..., si può esprimere mediante la formola : UE , n) = [ce 37 ;é,n)f(E n) do + +PRr ESD I pen) [EEE IE ded; ossia, ponendo mente alla simmetria della G(£',7';é”,77) e facendo uso della (6), vE,m= fGE, 5,0 (E) do + +e till ara pil 1) (E 5) do. Sviluppi in serie di soluzioni eccezionali. 6. Supponiamo che la funzione data f(E,n) sta tale che l'espressione 4*f risulti una funzione avente le derivate prime finite în tutti © punti dell'area o, e che nei punti di s si abbia: at IE Potremo scrivere, applicando la (2), re,m= SG: Ma do. Da questa formola, in virtù del noto teorema di sviluppabilità di Hil- bert-Schmidt, risulta : (10) fEM= Za E MAE, e la serie al secondo membro sard convergente assolutamente ed unifor- memente nel campo 0. Posto poi : dy i fre 9’ 7) PIE 9 7) do segue, dal teorema al $ 2 dell'art. I, che la serze: (11) > hd è convergente. (1) Loc. cit, pag. 454. ole Finalmente, se si osserva che le derivate della funzione G(£",97 ; £,m) del secondo ordine rispetto a È 6a 7 si comportano come la funzione log 7, e se si applica il teorema al $ 3 dell'art. I, avremo: alla serze (10) è applicabiie due volte il teorema di derivazione per serie rispetto a È e rispetto a n. e le serie derivate convergono assolutamente ed arno mente nel campo o (i punti di s inclusi). 7. Avuto riguardo al fatto che nei punti di s la funzione p, e la sua derivata normale hanno valori nulli, si può scrivere, come è noto, Pe (nei punti di 0) nEm= > frgr dn do ; per cui, se si indica con T,(7) una funzione della nuova variabile £, dipen- dente da %, e indipendente da È e da 7, e tale che sia sempre |T,()|= |, avremo per # e per g qualsiasi: Mtq Questa ci dà, in virtù della nota disuguaglianza di Schware, mi 19 da DÌ 2 mA DI n Pra T.() piE +1) A do. f}. 94 VE, Ta (4) 4° Dy “do 0; m+l e poichè: (12) dn, - 4° ny do = (ha d*py do=k, { pupi do 9 risulterà : m+q | )? log ZIE DI svi rosi = f(E ao Didi. Da questa formola, in virtù della convergenza della serie (11), segue facilmente che la serze: > du T.(9) pilE è convergente uniformemente nel campo di variabilità formato da o e dal campo di variabilità della t. Come conseguenza di questa proposizione, in virtù della (6), sé ha (*): 19) ZE nOn [IENE MI AVIO de. (:) I risultati fin qui stabiliti sono ancora validi, se al parametro k si sostituisce questo stesso parametro moltiplicato per una funzione g(é n) di segno invariabile nel- l’area c. Basterà infatti rammentare un teorema di Goursat (Comptes rendus, 17 février 1908), secondo il quale, l'equazione integrale che ne risulta (della forma, detta da Hil- bert, polare), sì può sempre trasformare in un'equazione integrale a funzione caratteristica simmetrica (detta da Hilbert, ortogonale). — 201 — Problema delle vibrazioni delle piastre. 8. Lo studio delle vibrazioni di una piastra elastica incastrata, assog- gettata a forze esterne indipendenti dal tempo #, della quale sono noti gli spostamenti iniziali e le velocità iniziali, dipende, come è noto, dal problema analitico di trovare una funzione w(5,n,t), la quale soddisfaccia alle equazioni : d*w dt? (nei punti di 0) +afd'w=0, (nei punti di s) w= En die, = dove a è una costante dipendente dallo spessore della piastra, dalla sua densità e dai coefficienti di elasticità relativi alla materia di cui la pia- stra stessa è costituita; e dove f(E,m) e g(E, n) sono due funzioni qual- siasi, le quali soddisfanno alle condizioni: È 2 Ba df (nei punti di s) ie rai, e rappresentano rispettivamente gli spostamenti iniziali arbitrari e le velocità iniziali pure arbitrarie della piastra. Se si fa l'ulteriore ipotesi che Ze funzioni f(È , n), g(£, x) siano tali che le espressioni 4'*f,A* risultino funzioni aventi le derivate prime finite in tutti i punti dell’area 0, potremo ad esse funzioni /(£,7) e g(£,7) applicare i risultati dei paragrafi 6, 7. Ciò premesso, sì adottino per l’attuale funzione / (£, n) le notazioni dei due precedenti paragrafi, e si ponga : (= (9 ME) do. Avremo allora: le due serte w(E,n,t)= Y dy cos (tav/in) (E n), de n sen (£@1/7u) pu(é > n) ba w rappresentano due funzioni finite e continue delle variabili £,n,t, le quali soddisfano alle condizioni : (nei punti di s) w(é,y,9)=0 + w(£,79,69)=0, sulE nm, in = D_ dupl(é nm) = (E. n) ’ }ws(E Mt) = 0. RenpicontI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 26 —_ DI Le formole: n = —-ai dy|/k,sen(tal/k,) DE . 7), dws Nur, 3 VE meal du cos(tal/ku) Pu(È , n) o ò dw, dws o 5 b ci dicono che /e e anche esse finite e continue e soddisfano alle condizioni : ( dw, ) ( dws ) , 3 fercagio ni (0) ) Sc Pa = di, gi? È ’ O ( di VE: ( di e È / AG n) g( n) Dal risultato alla fine del $ 6 si ha che eszstozo e sono finite e con- linue le derivate dei due primi ordini di wi(£,M,t), wx(É,n,t) rispetto a È e a n în tutto il campo o (i punti di s inclusi), e che queste deri- vate st possono ottenere derivando per serie. Per conseguenza si ha ancora: ; ua dw, dws (nei punti di s) “00 riale Dalla formola: d? ws 14) ” = — da DI UV sen (aV/ku) Pu(È ’ n) d° ws dt° Applicando la (13) risulta inoltre che /@ ws(È,n,t) ammette le deri- vate rispetto a È e a n dei primi tre ordini, che si possono ottenere de- rivando per serie, e soddisfa all'equazione (?): segue poi che /a è finita e continua. (nei punti di 0) 4*w,= ; Da dt ly sen (taVku) Pul(È , 7) - Da questa equazione e dalla (14) si ricava che la ws(É, 7,4) soddisfa ancora all'equazione: d° ws dt (nei punti di 0) + a4'w, = 0. Finalmente, ammesso che la serie: (15) > dykyeos(tay/ks) pi(E ; n) (1) Basterà infatti rammentare la convergenza uniforme nel campo o delle serie che rappresentano le derivate terze di wse della serie al secondo membro della (14). — 203 — sia convergente uniformemente nel campo di variabilità formato da 0 e dal campo di variabilità del tempo t, risulta: 2 se, DI = — dè DI dyky cos (talks) pilé » 7)» e dalla (6): w(é,n,})= > dh cos (£a1//) pi(E = (18) i — [ce Airis A, cos (talks) p(E , 9) do. d° wi di derivate del terzo ordine rispetto a È e a n finite e continue e soddisfa all'equazione: Abbiamo quindi: la è finita e continua, la wi(£,%,0 ha le d° wi dt* (nei punti di 0) +adtw,=0. Riassumendo, sì ha che la funzione: w(E 7,0) =w(f,7,9)4+w($.n,6)= (16) ( di sen(faV/k,)! py(£,7 dv (tak, }y (E, n) —_ qb cos (fay/4) + v risolve completamente il problema enunciato al principio del presente pa- ragrafo. La forma (16) dell'espressione di w(5,,4) ci dice poi che #/ moto vibratorio di una piastra elastica incastrata può ottenersi in generale mediante la sovrapposizione di infiniti moti vibratori elementari della specie: ;a, cos (La1/) +— n sen (£ay/Xy) )} (£, n). LEN 9. Rammentiamo che, per giungere ai risultati testè enunciati, si è ammesso che la serie (15) fosse convergente uniformemente nel campo di variabilità formato da o e dal tempo /. Può darsi che tale ipotesi possa dedursi senz'altro dalle condizioni già poste per la funzione /(£, 7). Noi qui dimostreremo che essa è certamente verificata, se si suppone inoltre che /4 funzione f(E n) soddisfaccia alle condizioni: 4‘) (noi puntil dis), \4*f=00 dal 20, abbia le derivate del quinto ordine rispetto a È e a n finite e continue — 204 — în tutto il campo o (i punti di s inclusi) e l'espressione A°f sia atta al- l'integrazione nel campo 0. Infatti, in virtù della supposizione fatta, si ha: fas Mido | dif.4*p, do=k, | pi. 44fd0 = == (4 pdo=% | fpdo=Wd; per cui, rammentando la (12), risulta per < qualsiasi: î 2 î 0 3. ar— Nd dv) do =[ ;A°f{2do—-)_ &k. (o) 1 (0) 1 Da questa formola segue che la serie > d8 #Î è convergente; ed allora y basterà ripetere sulla serie (15) i ragionamenti del $ 7, per dimostrare ap- punto che essa è convergente uniformemente nel campo di variabilità for- mato da o e dal campo di variabilità del tempo t. Fisica — Azione delle onde elettriche sull’allungamento per magnetostrizione di un filo di ferro magnetizzato longitudinal- mente ('). Nota di L. TIERI, presentata dal Socio P. BLASERNA. Nel 1897 Rutherford mostrava (*) che fili sottili di ferro o di acciaio magnetizzati a saturazione costituiscono dei rivelatori di onde elettriche in quanto queste hanno per azione di alterare il momento magnetico del filo. Marconi poi mostrava (*) che esiste sempre una variazione della magne- tizzazione di un filo di ferro percorrente un ciclo magnetico e in generale in un punto qualunque dello stesso ciclo magnetico, sotto l'azione di onde elet- triche. Le brusche variazioni del momento magnetico del filo venivano accu- sate da un telefono. Ora l’uso del telefono è comodo se l'apparecchio serve semplicemente da rivelatore di onde, ma non si presta per misure quanti- tative. Il metodo usato per queste misure è il magnetometrico, il quale però presenta parecchi inconvenienti (il principale, la lentezza con cui il magne- tometro ci accusa le variazioni di energia magnetica del filo di ferro) incon- venienti che si eliminano se si ricorre al fenomeno della magnetostrizione. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto Fisico della R. Università di Roma. (2) Phil. Trans. of the Roy. soc. of London, 1897. (3) Proc. Roy. soc. London, 1902. — 205 — G. A. Rossi ha rivelato l’azione delle onde sulla torsione per magneto- strizione, e di questo risultato se ne è giovato per costruire dei rivelatori di onde elettromagnetiche ('). Nel presente lavoro io mi propongo di studiare l’azione delle scariche oscillatorie sul momento magnetico di un filo di ferro magnetizzato longi- RIGHE di tudinalmente, rivelandola per mezzo della variazione di lunghezza subìta dal filo stesso. Il dispositivo di cui ho fatto uso nelle mie ricerche è schematicamente rappresentato dalla fig. 1. Un filo di ferro dolce «@ d. ricotto prima di cimentarlo, della lunghezza di cm. 85 e del diametro di cm. 0,03, è mantenuto verticalmente nell’in- (1) A. G. Rossi, Nuovo sistema di rivelatori d'onde elettromagnetiche fondati sulla magnetostrizione. Nuovo Cimento, serie V, vol. XV, pag 63. — 200 — terno di due bobine coassiali fatte su due tubi di vetro e lunghe anche cm. 85. La bobina interna è costituita da uno strato di filo di rame rico- perto del diametro di cm. 0,02 a nudo, e in essa vengono lanciate le onde; l'esterna, con cui viene magnetizzato longitudinalmente il filo di ferro, è com- posta di 6 strati dello stesso filo di rame ed ha 211 spire per centimetro. Il filo di ferro è saldato a due pezzi d'ottone: l'uno fissato superiormente e l’altro congiunto all'estremità superiore di un apparecchio L ideato dal Righi (!) per la misura di piccoli spostamenti rettilinei; apparecchio che, costruito e regolato con cura, è di una sensibilità sorprendente. Un raggio luminoso riflesso dallo specchietto s, che fa parte dell'apparecchio del Righi, viene fatto cadere su una scala posta alla distanza di circa 4 metri dallo specchietto stesso. Il filo di ferro viene ciclizzato magneticamente fra i campi =* 13,29 C. G. S. Lo spostamento massimo subìto dal raggio luminoso sulla scala a causa della dilatazione magnetica del filo di ferro quando si percorre il ciclo magnetico è, nelle condizioni in cui opero, di circa cm. 6. Raggiunta la ciclizzazione, viene arrestata la variazione del campo magnetico in un punto qualunque. E, dipendentemente dal punto del ciclo in cui ci si arresta, lan- ciando una scarica oscillatoria nella bobina delle onde il raggio luminoso si sposta bruscamente e permanentemente o verso l'alto o verso il basso o non si sposta affatto. Uno spostamento minore e nello stesso senso producono una seconda e una terza scarica oscillatoria; le successive, in generale, non pro- ducono uno spostamento apprezzabile nelle condizioni in cuì opero. Adunque, per azione delle onde, un filo di ferro inagnetizzato longitu- dinalmente subisce in generale una variazione di lunghezza; cosa da preve- dersi in quanto le onde hanno in generale per effetto d’'alterare il momento magnetico di un filo di ferro magnetizzato longitudinalmente. L'apparecchio adoperato per generare le onde è schematicamente rappre- sentato nella fig. 1; e i seguenti risultati sperimentali furono ottenuti con una scintilla di cm. 0,8. Ciclizzato longitudinalmente il filo di ferro fra i campi == 13,25 C. G. S., mi fermavo ad un determinato valore del campo e notavo la posizione del raggio riflesso (punto del ciclo normale), poi lanciavo delle scariche oscilla- torie nella bobina delle onde fino a che non avessero più un effetto apprez- zabile sulla lunghezza ‘del filo, e notavo la deviazione del raggio riflesso (punto del cielo perturbato). Poi ciclizzavo di nuovo il filo di ferro fra + 13,25 C. G. S., mi arrestavo ad ‘un altro valore del campo e ripetevo le precedenti operazioni, e così di seguito. I risultati così ottenuti sono registrati nella seguente tabella: (3) A. Righi, Rend. R. Acc. delle Scienze dell’ Ist. di Bologna. Nuova serie, vol. I, (1896-97), pag. 185. — Se CAMPI DEVIAZIONI IN CENTIMETRI IN UNITÀ DEL RAGGIO RIFLESSO 0. G.S. Ciclo normale Ciclo perturbato 0,00 0,0 0;3 2,65 2,0 IL 5.30 105 = 0,7 7,95 LZ 045 EROE 10,60 FeSs 2,0 a 3,6 13,25 SONG SESSO 10,60 BE 5 7,95 2000) BIO i8 5,30 — 19,0 SARO) 2,65 — 2,0 ZIO) 0,00 05 07 mio 1,0 1,0 ie 1,5 — 07 — os 0,5 _ 20 — 10,60 =:9.(0) — 40 DEr995 — 85 Die = 10,60 185 SUS TEO 3,0 SE95 SN) — Dl —. 9) — 2,65 219 200 0,00 0,0 0,3 E prendendo come ascisse i valori registrati nella prima colonna della precedente tabella e come ordinate quelli registrati nella seconda e nella terza colonna, si ottiene la fig. 2; in cui il ciclo a linea continua rappresenta. il ciclo normale degli allungamenti magnetici, quello tratteggiato rappresenta — 208 — il cielo perturbato. È da notare la non molta regolarità del ciclo, causata probabilmente dalle piccole variazioni di temperatura a cui va soggetto il filo di ferro quando si eiclizza. La fig. 2 ricorda quelle da me ottenute con altre variabili studiando l’azione delle onde sui cicli magnetici per torsione (!). Nella fig. 3 sono riportate alcune fotografie, alquanto impiccolite, del raggio luminoso fatto cadere sopra un foglio di carta al bromuro che si spo- Fic. 3. stava orizzontalmente nel senso della freccia. Le quattro fotografie si riferi. scono rispettivamente ai punti A, B, C e D del ciclo della fig. 2. Nelle prime due fotografie è apprezzabile l'accorciamento del filo prodotto dalla sola prima scarica oscillatoria. Nella terza fotografia si vede nettamente l'allungamento brusco subìto dal filo a causa della prima scarica oscillatoria. In essa si vede anche l’effetto di altre due scariche oscillatorie. Nella quarta fotografia invece si osserva l’accorciamento prodotto nel filo dalle tre prime scariche oscillatorie. (1) L. Tieri, Memorie R. Acc. dei Lincei (anno COCII, 1905), pag. 579. ss — 209 — Fisica. — Radioattività di roccie della regione attraversata dalle linee di accesso al Sempione('). Nota di G. GALLO, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In seguito allo studio chimico-litologico eseguito in collaborazione coi sigg. proff. Giorgis G. e A. Stella (*) sopra numerosi campioni di roccie incontrate durante la costruzione delle linee di accesso al Sempione, per consiglio del prof. Giorgis, ho sottoposto gli stessi campioni ad alcune mi- sure di radioattività, i risultati delle quali, credo che possano riuscire inte- ressanti, per farsi un’idea sempre più approssimata della diffusione di so- stanze radioattive sulla crosta terrestre. Avrei voluto estendere il mio studio di radioattività anche alle varie sorgenti di acqua che scaturiscono dalle roccie già chimicamente e minera- logicamente studiate, ma diverse difficoltà mi impedirono finora di completare lo studio che mi riservo di fare a migliore occasione, e mi limito per ora ad esporre i risultati ottenuti coi materiali solidi. L'apparecchio da me impiegato per le misure di radioattività fu quello di Curie, modificato dal Débierne, fornito dalla casa Alvergniat-Chabaud di Parigi. Si compone di un elettroscopio ad una sola foglia d'oro fissata ad una lamina fissa di ottone, sostenuta da un pezzo isolante di composizione speciale. Il tutto è chiuso in una riserva metallica, munita su due faccie di due lastre di vetro. La parte destinata a contenere il materiale da sot- toporsi ad esame è costituita da una cassetta metallica verniciata, chiusa, che porta lateralmente un cappello mobile che protegge due piatti circolari di latta (del diam. di 8 cm. ed alla distanza di 3 cm.), fra i quali si deve misurare la conduttanza dell’aria. Dei bastoncini che sostengono i due piatti, quello superiore attraversa per tutta la lunghezza la cassetta per appositi fori senza toccarla ed è sostenuto da un’asticina metallica che è fissata con un isolante alla parte superiore della cassetta, e che serve inoltre a cari- care l’elettroscopio. L'altro piatto destinato a portare la sostanza è saldato col suo sostegno alla cassetta stessa, che stabilisce il contatto con terra. Allo scopo di evitare il disperdersi di polveri radioattive intorno all’elettro- scopio, che sarebbe in tal modo messo fuori d'uso, e per impedire le azioni (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica applicata della R. Scuola Ingegneri di Roma. () G. Gallo, G. Giorgis, A. Stella, Studio chimico litologico di roccie della regione attraversata dalle linee di accesso al Sempione, e con appendice sulle acque della Gal- leria Elicoidale di Varzo. Roma, tip. Squarci, 1906. RenpICcoNTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 27 — 210 — elettriche vicine, il collegamento del piatto superiore coll'elettroscopio, an- zichè direttamente, è fatto coll'intermezzo di un filo lungo circa un metro e 50 cm., molto sottile, per diminuire la sua capacità e protetto prima da un manicotto di ebanite, e quindi da un cilindro metallico collegato a terra. Questo cilindro spezzato in tre, è chiuso alle estremità da due tappi isolanti, che sostengono il filo, e porta due piccole camere protette dalla polvere, che contengono delle sostanze disseccanti per assicurare l'isolamento completo. Prima di procedere alle varie determinazioni fu campionato lo strumento con un voltometro campione di Hartmann et Braunn, eseguendo la carica contemporanea, con due fili di eguale capacità, dell'elettroscopio e del volto- metro, per mezzo di un replenisher di lord Kelvin, strumento questo molto pratico, e che sostituisce opportunamente le ordinarie pile a secco. Per os- servare la velocità di spostamento della foglia d’oro, si prende di mira un punto del bordo della stessa, mediante un microscopio fisso all’elettroscopio, e munito di un micrometro oculare. Mediante il voltometro campione si può, da un'apposita curva ottenuta riportando sopra le ordinate il potenziale in Volt e sulle ascisse le divisioni della scala del micrometro fisso all’appa- recchio, ricavare direttamente il potenziale corrispondente a ciascuna divi- sione della scala. Per mezzo di un orologio conta secondi, si tien conto del tempo necessario perchè l’immagine del punto preso di mira, si sposti sul micrometro di un certo numero di divisioni, e si può così misurare la di- spersione dovuta o all’aria o alla sostanza radioattiva. Prima di ogni misura si procedeva alla verificazione dell'isolamento, ed alla determinazione del valore della conducibilità normale dell’aria, no- tando il tempo necessario perchè la foglia dell’elettroscopio carica a 300 V si spostasse di 10 divisioni della scala, corrispondenti ad una dispersione di 40 V. Quindi il materiale da sottoporre allo studio, in quantità di gr. 100, sot- tilmente polverizzato, veniva portato su un piatto mobile (allo scopo di im- pedire l’azione permanente delle sostanze radioattive sul piatto fisso) sopra il piatto inferiore dell’apparecchio, si copriva il tutto con l'apposito cappello, e si procedeva alla nuova carica dell’elettroscopio a 300 V. Si determinava quindi il tempo necessario per avere uno spostamento di 10 divisioni della foglia d’oro sulla scala, e la differenza fra la velocità di scarica dell’appa- recchio a vuoto e quella in presenza della sostanza radioattiva, ci forniva in Volt il valore della dispersione prodotta da 100 gr. di sostanza. I campioni di roccie sottoposti allo studio sono quelli stessi di cui nel citato lavoro sono riportate per esteso le diagnosi chimico-litologiche, e come dal punto di vista mineralogico-petrografico si credette opportuno di ridurle a 6 gruppi fondamentali, così pure dal punto di vista della loro radioatti- vità, torna ovvio tener presente tale distinzione, perchè la radioattività varia col variare della composizione delle roccie stesse. È — 211 — I gruppi sono i seguenti: I. Calcari, dolomie, gessi ed anidriti (Cam- pioni 1-8); II. Calcescisti (Campioni 4-6); III. Micascisti (Campioni 7-8); IV. Filladi (Campioni 9-11); V. Gneis (Campioni 12-29); VI. Parti piri- tose (Campioni 30-32). I campioni (') erano stati raccolti qualche tempo prima di venire esa- minati, e da ciascuno di essi si prelevano, possibilmente nelle parti interne, i 100 gr. di polvere da sottoporre allo studio della radioattività. Per ciascun campione vengono riportati i valori della dispersione in Volt per ora, pro- dotta da 100 gr. di sostanza. I GRUPPO. Campione n. 1. — Calcare cristallino, micaceo, cavernoso. Lungo Ja ferrovia Domodossola-Iselle, a monte della galleria del ponte dell’Orco. Volt-ora = zero. Campione n. 2. — Scisto calcareo micaceo incoerente, nella galleria elicoidale di Varzo alla progressiva 1443,50 dall’imbocco sud di essa. Volt- ora= 1,4. i Campione n. 3. — Roccia gessoso-anidritica. Progressiva 1418 della galleria elicoidale di Varzo. Volt-ora = 1,0. II GRUPPO. Campione n. 4. — Calcescisto biotitico. Galleria elicoidale di Varzo. Progressiva 1197 dall'imbocco sud. La massa generale consta di un aggre- gato cristallino di quarzo e di calcite, con filaretti minutissimi, dove si col- lima la mica, accompagnata da fibrille di grafite, ed immersa in un aggregato di plaghe allungate di feldispato, associate a sciami di cristallini prismatici di tormalina, ed a fitte punteggiature di pirite, con alcune plaghette di epi- doto e qua e là grani di titanite. Volt-ora = 17,3. Campione n. 5. — Calcescisto anfibolico-epidotico. Galleria elicoidale di Varzo alla progressiva 328 dall’imbocco nord. Oltre l’anfibolo e gli epi- doti si riscontrano al microscopio qua e là titanite in grani irregolari e quarzo. Volt-ora = 20,5. Campione n. 6. — Calcescisto muscovitico. Fianco orientale del passo del Gries, a mezza costa al piede del Grieshorn sul confine italo-svizzero. Mentre i campioni di calcescisti nn. 4 e 5 provengono dalla zona più in- terna della regione, questo campione proviene invece dalla zona più esterna. Al microscopio appare formata di un aggregato di plaghe di quarzo e di calcite. Volt-ora = 8,3. (1) Alla Direzione generale delle ex Strade Ferrate del Mediterraneo ed al profes- sore ing. À Stella che si sono prestati gentilmente per procurarmi i campioni, rendo pub- blicamente i dovuti ringraziamenti. — 212 — III cRUPPO. Campione n. 7. — Micascisto granitifero. Galleria elicoidale di Varzo alla progressiva 431 dall’ imbocco sud. Oltre al quarzo V, che forma la massa principale, si hanno elementi micacei costituiti da muscovite, biotite e clo- rite, con granati irregolari di color roseo. Si riscontra inoltre al microscopio la presenza di tormalina ed apatite. Volt-ora = 7,5. Campione n. 8. — Micascisto a placchette di biotite. Nel vallone di Neufelgiu presso la omonima baita. Il campione appartiene ad un tipo di speciali scisti micacei, che assomigliano a molti scisti (schistes lustrés) della Galleria del Sempione, ai quali del resto corrispondono geologicamente. È interessante in questo campione la presenza di grafite. Volt-ora = 6,2. IV cRrUPPO. Campione n. 9. — Fillade grafitoidica a granati. Galleria elicoidale di Varzo progressiva 340-360 dall’imbocco nord. Presenta l'aspetto di scisto filladico plumbeo con lucentezza tendente al metallico. Tale lucentezza è do- vuta a laminette grafitoidiche, diffuse specialmente nei minerali micacei della roccia. Volt-ora = 15,9 Campioni nn. 10 e 11. — Scisti sericitici di Vogogna, provenienti dalla cava che sovrasta la linea ferroviaria Domodossola-Arona, fra Ponte Masone e Vogogna-Sorao, caratterizzati mineralogicamente dalla presenza di molta sericite. N. 10, Volt-ora= 11,2. N. 11, Volt-ora= 9,8. V cruPpPo. — RoccIE GNEISSICHE. Queste roccie comprendenti i campioni 12-29, provengono tutte da gal- lerie praticate lungo la linea Domodossola-Iselle. Dal punto di vista geolo- gico e dallo studio chimico-litologico, risulta giustificata la naturale divisione in tre sottogruppi delle roccie gneissiche qui prese in esame e cioè: 1) Or- togneiss delle masse gneissiche principali, geologicamente anteriori alla for- mazione dei calcescisti. 2) Paragneis spettanti alla formazione stessa dei calcescisti e dei micascisti. 3) Gneiss che sarebbero geologicamente incertae sedis, e che risultano quasi certamente paragneis, 0 equivalenti dei calce- scisti e micascisti, o di natura geologica speciale, come il così detto Le- beudungneiss. Il I sottogruppo comprende i campioni 12-19, e ad esso corrispondono quattro tipi diversi di gneiss che a seconda della località si distinguono in: a) gneiss di Beura (12), 6) gneiss di Preglia (13-14-15), c) gneiss di Ponte dell’Orco (16-17) e d) gneiss di Val Diveria o Antigorio (18-19). — 213 — Campione n. 126} (0. oMNolt ora) (752 ” » 18 ” 8,8 ” » 14 ” 30,5 ” » 15 ” 43,2 ” » 16 ” 32,9 ” QNT ” 28,5 ” » 18 ” 36,6 ’ » 19 ’ 29,1 II sottogruppo. Campioni nn. 20-23. Le roccie gneissiche comprese in questo sottogruppo sono geognosticamente equivalenti di roccie che sì pos- sono ritenere parascisti, cioè di origine certamente sedimentaria, per quanto risulta dalla giacitura geologica. Così il campione n. 23 preso nella galleria elicoidale di Varzo, è intimamente inserito fra calcescisti, e così pure fra scisti calcarei analoghi si trova inserito il n. 21. D'altra parte il campione n. 22 alterna con scisti micacei, come quelli addietro studiati e dimostrati sedimentarî, mentre il campione n. 20 trovasi inserito come filaretto nei micascisti che in Valle Antigorio equivalgono litologicamente e geologica- mente ai micascisti granatiferi della galleria elicoidale, dimostrati pure se- dimentarî. Campionein 2000080. ©. .ageiViolt-oran 2,2 ’ PIEDI e Lele ” 1,6 i) FORO ZIORI RI 0. E ’ 4,2 ” 2 IRAN. 0.0 E 2 1:0:0) III sottogruppo. Campioni nn. 24-29. I due campioni 24-25 provengono da Colle Corona di Groppa interposti o sovrastanti ad una doppia zona cal- careo-scistosa, mentre il campione n. 26 viene a trovarsi fra i calcari e calcescisti di Nembro in Val Cairasca, ed il campione n. 27 nella fascia superiore calcareo-scistosa di Alpe Lorino sopra Iselle. Il n. 28 infine pro- viene da un taglio della ferrovia a monte della galleria dl Ponte dell'Orco, ed il campione n. 29 dalle Balze sotto Lago Nero, bacino della Frua. Campione n. 24 . . . . . . Volt-ora 8,9 n b) 25 o Ò ° . n 2,2 DÌ » 26 L) 4,7 ” » 27 Lu 6,8 n b,) 298 n 9,1 » ” 29 » 12,4 VI erupPo. — PARTI PIRITOSE. Campioni nn. 30-31-32. — Queste parti fortemente piritose incontrate lungo la linea Domodossola-Iselle, sono legate a vene di quarzo, e proven- gono sia dal gneiss di Preglia (camp. n. 30), sia dal gneiss di Antigorio (n. 31), sia infine dai micascisti di Varzo. In questi campioni l’analisi chi- mica ha riscontrato la presenza dell'oro, e l’analisi microscopica mosche di pirrotina, calcopirite, ed anche di galena. La presenza dell'oro in questi campioni si accorda coll'esistenza dei noti filoni di pirite aurifera di Gondo, della medesima formazione, ed inoltre — 214 — dei filoni dell'Alfenza presso Crodo, nella medesima formazione dei micascisti. Campione Nnt30) VANE INA Volt-ora (2950 ” "91 MI. LI 36,0 ” >: 02 RMB ” 27,5 Riassumendo i risultati brevemente esposti, si rileva come le roccie calcareo-gessose (campioni 1-2-8) e le roccie comprese in zone calcareo-sci- stose, come i campioni 20-26, o siano completamente inattivi, o manifestino una radioattività molto debole. Non così succede invece per gli ortogneiss, che per composizione chimica e coefficiente di acidità appartengono al gruppo dei magmi granitici eruttivi, intesi nel senso lato del Rosembuch : per questi l'attività si è manifestata abbastanza forte fino ad arrivare ad un valore massimo di 43,2 Volt-ora per il campione n. 15. È importante far notare inoltre come la radioattività si dimostri in generale accompagnata dalla presenza di alcuni minerali, come titanite e zircone. Infine anche le parti piritose dei campioni 30-31-32 si sono manifestate abbastanza radioattive, senza però che si possa con sicurezza attribuire la loro attività ai solfuri metallici presenti, piuttosto che alla ganga gneissica che li accompagna. Del resto la radioattività da me riscontrata in queste roccie si accorda completamente con uno studio eseguito dal Borne (!) sopra l’emanazione ra- dioattiva delle acque sorgive della Galleria del Sempione, acque prove- nienti da roccie che geneticamente, geologicamente e mineralogicamente si avvicinano molto a quelle incontrate nelle vie di accesso al Sempione, e da me sottoposte ad esame. Il Borne deduce dalle sue determinazioni, che le sorgenti d'acqua sono molto diversamente fornite di emanazione, ma che le sorgenti più ricche in emanazione sono nettamente quelle che sgorgano dai gneiss, e dalle roccie granitiche. Fisica-terrestre. — Za radiazione solare al Monte Rosa. — Osservazioni eseguite alla Capanna-Osservatorio Regina Marghe- rita nell’anno 1907. Nota del dott. CAMILLO ALESSANDRI, pre- sentata dal Socio V. VOLTERRA. In una Nota precedente venne comunicato il materiale d'osservazione raccolto alla Capanna-Osservatorio Regina Margherita sul Monte Rosa negli anni 1905 e 1906. Riunisco nella seguente tabella il materiale d’osserva- zione relativo all'anno 1907. Valgono le medesime considerazioni generali fatte precedentemente, solo osservando che, per quanto riguarda l'umidità dell’aria, anzichè il psicrometro venne usato un igrometro registratore gior- naliero Richard grande modello, controllato e rettificato di quando in quando per confronto con un igrometro ad appannamento. (1) Georgev. Borne (Jahrbuch der Radioakt. und Elektr. 1905). -OZZQUI Ep owIssif[oq ‘ourzeur qe oqrqeraea odwtot | LET | 051 | 298 | — = TI |MNM| dé [ST —|e Fey] cagi) ‘(SE 03s08y 06 | 0T=|o°l — 0 “ 6L |8g —|8°8eFr| cei] « “ o | C0=|L00 = — 80 “« — xe —| — |9861| « “ CCR NOLO ASIE © #80 “ = ne Psseni “« de oi] 0 _ 2 |_E0 “ gL |a —|p8sr| osser] « ‘ 891: | sce | = -- | ST [MNM] ss |o08 —|<°88F 6I| « “ due Sars 40% “ ge |L0 —|9°8SF gI| « ‘ Ae | ae og = =. || GT “ 86 [eo —|L8EF| OFLI| « “ Ge GO SU M 09 |c'o —|6‘88| 089T| « “ o | dor | 8 | "| Su “« — [eo —| « |ossr] « “ SOC | 00 8 | AI “ 19 (po —=| © |Neren « “ 091 | 891 | 88 | — = | GL vr = [0 e |a « Nei | Odi | Le = — | 0°9 to elia L6 9 € Li 9 [ego ® 19JSIH 01}GWIOUT]}E, [[Pp BINYEQUOUI ©] 6‘9 xI +| 88 sa pai 0‘9 “ = lge —| — LT9 « « rod BIOAC] IS — *U9Q1SSUY Ip oIza wood 109 0° co — CK re => ‘9 « micia — 99 « “ TUOIZE@AI9SSO 9] EqIngsIp ‘qrod ‘0gu9A ]I { QUIOLS 0° 0g — dual = ra ‘9 « 2.7 A 9 « « Tr 09m qquewreppoziod omotas ‘opipuo[ds odutog | 0° e || = — 99 MN ou | —| S'96F] Ses 9 9I1quIo}}9s SG V| = 86 (e 87 |eL —|F SS] 0661 (6 & (dire | We 40 — — | 86 “ Op |] == oe e “ Gio OE 7 —_ —_|_8%6 “ O) | LOR Ge “ L'6 |L'0 —| 06 — — il 86 “ 7 GO = = [OSL e “ S°6 0° SII _ — SE © ad (GI 07 8I do È 646 9% STI = —_ 8 |MNM| 3h [09 —| = 068I « G LTL | 06 L'9T — — EE 6 Or (Sa 068L © « 8II |L9 S8I | — —. | BE “ GEIN O: | GISSTAO] 8 e “ OI |S'8 see | — — 0°8 “ GR Di e ZI < II |FII G'96 _- —_ 36 di (do een roy GIULI « (e 091 |ogL | 088 | — — | £6 “ eri iSss7 dii “ | ST | SI 0°66 = — 0° 6; 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ER « dè |0G=| = {SG “ “ GIGMOrGi ESITO — | 0088 | 6 « do |a = GI “ « ce | eee (!) Boussinesg, loc. cit., pp. 59 e 60 (8) Loc. cit., formole (63) e (58). Cfr. anche Cesàro, Introduzione alla teoria mate- matica della elasticità, pp. 125-126. avremo in definitiva i A dU, | dUa ana dI To dY (+ 1 AU é dd P (9) T 482) de n 4nB de! DO DO ZL dei a WA Ponendo z= 0 e introducendo la dilatazione superficiale du dv see da Li È e la componente normale della doppia rotazione 20 = du = SA ded delle particelle di o. avremo A Ja QU» } 1 dU3 ua LIE, Po i 1 4ArB(A— B)( > dY -3y MAE) da di o iu 20). saBi 3a = dy ° formole notevoli che applicheremo tosto. 2. Posizione del problema della distribuzione delle pressioni dovute ad un corpo pesante che poggia sopra un suolo inclinato, scabro. — Assumiamo nel piano s= 0 come asse delle 7 la linea di massima pen- denza del piano stesso, diretta verso il basso. Sia o l'area di contatto del corpo colla superficie del suolo. In ogni punto di o avremo una pressione incognita di componenti L, O,N. Chiamando P il peso del corpo, < l'inclinazione del piano sull'oriz- “zonte, sarà {Ldo=P sen, fndo= Posti. In o abbiamo dunque: una distribuzione di pressioni /angenziali L e una distribuzione di pressioni normale N. Chiamo w,v',w' gli spostamenti dovuti solamente al sistema di pres- sioni tangenziali; «”,0”,w" quelli corrispondenti al sistema delle pressioni normali. Per la natura lineare ed omogenea delle (2) saranno —u+u', v=v+v", w=w+w", — 230 — le componenti degli spostamenti dovuti ai due sistemi di pressioni agenti simultaneamente. Sieno ora in 0,9" e w' la dilatazione superficiale, e la componente normale della rotazione, dovute alle sole azioni tangenziali L. Avremo dalle (4) | QU, _47B(A— B) MI | dI A UL | J | QUI pc dy dalle quali ancora (5) Unt= sa ([ È "N di dda — o'dy | + costante (nei punti di 0): Sieno w” le componenti normali degli spostamenti dei punti di o dovuti DÌ alle sole azioni normali N. Dalla terza delle (2), tene.do presenti le (1), si ricava 7 N 0 n= p) Vos O ovvero | (6) U; — TOA LB w'" (nei punti di 0). | I | Siamo ora in grado di determinare le distribuzioni di pressioni L ed N in o, quando sieno note in o stessa: 9", o. w". La questione si riduce, infatti, alla determinazione di due funzioni, finite e continue U,,U;, armoniche nel semispazio S occupato dalla massa ela- stica, e tali che sul piano limite “= 0 assumano i valori definiti rispetti- dU, dU; | Ga | (punto all’ co compreso). Quest'ultima condizione risulta manifestamente dalla | duplice circostanza che le U, e Uz sono simmetriche rispetto al piano 2=0 e ammettono nei punti di questo piano, esterni a o, derivate normali con- tinue. Come è noto, le funzioni U, e Us riescono pienamente determinate. | Trovate le U, e U;, la L e la N sono definite dalle formole (!) vamente dalle (5) e (6) entro o, mentre fuori di o si annullino le d pA DI Leal EEA È NEEZAza) i 2rt de / 2=0 Tali formole risolvono il problema che ci siamo proposti. (1) Cfr. per es. Cesàro, loc. cit., pag. 83. — 231 — Da esse direttamente apparisce che L=0 , N=0 fuori di o, precisamente come si voleva. Osservazione. — Quando in superficie = 0 si ha N=0, cioè quando i punti della superficie stessa sono soggetti ad azioni puramente tangenziali, la dilatazione cubica nei punti della superficie è proporzionale tanto alla dilatazione superficiale, quanto alla dilatazione lineare di un elemento ad essa normale. Infatti, dalla terza delle note equazioni ai limiti (*), nella fatta ipo- tesì, si ha è du' (7) (A— 2B) © sii 0 (pene 0)f} dove Vi DI dv O ga E AS Su =... "FAN dy n da nio, Per questa, la (7) può anche trasformarsi nella dw' > (8) (A—2B) 9 4PA 0. Da questa e dalla (7) scende quanto abbiamo asserito. 7 Le (7) e (8) definiscono 9’ quando sieno noti in o: 0 la a oppure la dilatazione cubica ©. Siccome abbiamo già accertato che la distribuzione di pressioni tan- genziali L in o è determinata, quando sieno noti in 0 stesso la componente normale di rotazione &' e la dilatazione superficiale # (dovute alle sole pressioni L), per l'osservazione dianzi fatta, possiamo aggiungere che /a predetta distribuzione è determinata anche quando sieno dati in 0: la w' e la dilatazione cubica ®'; oppure la w' e la dilatazione lineare £— PP dB (dovute sempre alle sole azioni tangenziali L). 8. Integrale generale corrispondente al caso in cui, entro 0, è di wmi=0.— Noti 9 ew nei punti di o, si sa determinare in modo completo (vedi n. 2) la distribuzione di pressioni tangenziali L, cui esse corrispondono, se (come nel caso del corpo pesante che si trova in equili- brio sopra un piano inclinato) si sa che queste azioni hanno tutte una me- desima direzione. La questione rimane invece indeterminata se si conoscono 9 e @/, e sì sa solo che esse sono dovute ad azioni tangenziali. (1) Cfr. per es. Cesàro, loc. cit., pag. 42. — 292 — In tal caso, per le (4), sì ha ; A (dU, ua, DU: | * — 4nB(A—B)l de ui y | (per i punti di 0). Prendiamo a considerare il caso in cui, in tutta l’area o è ==. Le precedenti allora danno DO QU: poli SZ 2(), > dyY QU, _3U dI dY Queste ci dicono che U, e — U, in o si possono risguardare rispettivamente come parte reale e coefficiente dell'immaginario di una funzione della va- riabile complessa é=a+dy. Perciò, posto (9) Ul —/U.=g(6), possiamo dire che ad ogni funzione g(6), regolare entro l'area o (contorno incluso), corrispondono due speciali distribuzioni L e M di azioni tan- genziali nei punti di o stesso: le prime parallele all'asse x e le seconde parallele all'asse y. Infatti, assegnata ad arbitrio la @(é) in o, rimangono definite, per la (9), le espressioni di U, e U, in 0 stesso; allora, a norma di quanto ab- biamo detto nel numero 2, rimangono definite le U, e Us in tutto il semi- spazio S, ed avremo Prendendo in particolare dove c designa una costante reale, dalla (9) scende (10) Ural US 05 (nei punti di 0). Annullandosi U, in o e la sua derivata normale fuori di o (nel piano 2 = 0), — 233 — sarà Us= 0 in tutto il semispazio S, e quindi intanto NI10% Riguardo alla distribuzione delle pressioni L, essa è definita, per la prima delle (10). da una relazione del tipo L=P.f(c,y), dove la P è uguale alla risultante delle azioni L e la /(2,y) designa una funzione dipendente soltanto dalla forma dell’area 0; essa si può va- lutare caso per caso senza difficoltà concettuali. Osservazione. — È interessante notare che f(x, y) è la densità della distribuzione di equilibrio di una carica elettrica sopra o, supposto che 0 rappresenti un disco conduttore isolato. Mineralogia. — A/ozsizte, nuovo idrosilicato dei tufi di Fort Portal (Uganda) (‘). Nota del dott. Lurcr CoLomBA, presentata dal Socio G. SPEZIA. Fra i materiali delle collezioni petrogratiche fatte dal dott. A. Roccati durante la spedizione di S. A. R. il Duca degli Abruzzi al Ruwenzori, degna di nota è una serie di esemplari provenienti dai dintorni di Fort Portal, nel regno di Toro, località collocata lungo la falda orientale del mas- siccio del Ruwenzori e nella quale si hanno tracce abbastanza importanti di manifestazioni vulcaniche, attualmente però del tutto estinte. Queste formazioni vulcaniche non sono del resto solamente limitate ai dintorni di Fort Portal, poichè da quanto risulta per le ricerche degli autori che si occuparono delle dette regioni, esse appariscono sviluppate anche lungo la falda meridionale del Ruwenzori, formando una successione continua che dai dintorni di Katvè, sul lago Alberto Edoardo, giunge sino a Fort Portal essendo anche probabile che si estenda oltre questa località verso settentrione. Scott Elliot (?), il quale in particolar modo si occupò dello sviluppo di queste formazioni vulcaniche, le suddivise in un certo numero di serie, essendo appunto l’ultima, da lui indicata col nome di serie del lago Vijongo, quella che si può determinare nei dintorni di Fort Portal. Il carattere fondamentale di tutte queste formazioni vulcaniche è quello di essere costituite esclusivamente da tufi; tale fatto risulta, oltre che dalle brevi osservazioni compiute da Gregory (*) e Prior (4) su materiale prove- (*) Lavoro eseguito nell’Istituto mineralogico della R. Università di Torino. (3) Maturalist, in Mid. Africa. London 1906. (#) (e Scott Elliot). On the Geology of Mount Ruwenzori. Quart. Journ. of Geol. Soc., LI (1895). i (4) Contributions of the Petrology of British East Africa. Min. Mag. XIII, 61, (1903) pag. 228. RenpIcoNnTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 30 — 234 — niente da Katvè, anche dalle numerose ricerche da me fatte suì materiali di Fort Portal raccolti dal dott. A. Roccati. Questi tufi, sebbene presentino esternamente aspetti e caratteri molto differenti, sì possono essenzialmente ridurre a due tipi, molto intimamente connessi, di cui il primo è rappresentato da tuti compatti più o meno alterati, ed il secondo da tufi con struttura nettamente clastica e che risultano costi- tuiti da frammenti di tufo compatto cementati da calcite. Nei tufi compatti, quando sono sani, si nota la presenza di una sostanza bruno-violacea che ha l’aspetto di una massa fondamentale e che dà ai tufi stessi l'apparenza di roccia cristallina; in essa sono disseminati alcuni mine- rali rappresentati da calcite in granuli oppure in cristalli prismatici spesso disposti con evidente fluidalità intorno agli altri minerali, da biotite, da ma- gnetite e da augite; inoltre la roccia presenta spesso una struttura amigda- loide essendo le amigdale ripiene di calcite, di opale ed anche di ciuffettini di cristalli di aragonite. In molti casì poi sì osservano diffusi senza ordine e con frequenza molto variabile, interclusi di rocce differenti, le cui dimensioni variano assai da un esemplare all'altro. La sostanza bruno-violacea che forma in certo modo la massa fondamen- tale dei tufi di Fort Portal è costituita da un idrosilicato, amorfo; per cui questi tufi si possono in certo modo avvicinare a quelli indicati col nome di iufi palagonitici, nei quali pure si può osservare la presenza di una massa fondamentale avente la composizione di un silicato idrato e che sotto forma di un vetro ne costituisce il cemento. Però, quantunque il silicato dei tufi di Fort Portal abbia di comune con la palagonite e col sideromelano il carattere di essere molto facilmente decomposto dall’acido cloridrico, ne differisce sensibilmente per la sua composizione chimica. Invero se si considerano le analisi riguardanti la palagonite di Vidoe in Islanda ed il sideromelano di Osterinsel, ambedue riportate da Rosem- bech (!), si hanno da esse i seguenti risultati: Palagonite di Vidoe Sideromelano di Osterinsel Sio» 44,35 0,739 1 49,67 - 0,827 1,9 AL03 13,14 0,129 14,46 0,141 Fes0; 22,88 0,143 18,52 0,116 Mg0 4,07 0,102 3,74 0,093 Cao 8,44 0,151 1 7,28 0,130 l Na,0 2,19 0,035 2,92 0,047 K,0 0,70 — 1,64 0,017 H,0 4,23 0,235 1,17 0,075 100,00 99,99 (1) Gesteinlehre 1898, pag. 320. — 299 — dai quali si deduce come, se si ammette che anche i sesquiossidi siano allo stato di basi, il primo silicato corrisponderebbe alla costituzione di un me- tasilicato, mentre il secondo corrisponderebbe ad un silicato più acido ancora, avendosi che il rapporto della silice alle basi è di 1,3 ad 1 per cui potrebbe con sufficiente approssimazione riferirsi ad un silicato dedotto da un acido del tipo HySi,0,,. Invece il silicato dei tufi di Fort Portal ha una costituzione chimica molto differente sia per il fatto che in esso manca, si può dire del tutto, qualsiasi traccia di sesquiossidi, sia per la sua minima acidità poichè dalle ricerche analitiche da me compiute dovrebbe riferirsi ad un acido del tipo HsSi0,. L'analisi di questo silicato presentava difficoltà non trascurabili per il fatto che occorreva di escludere che i risultati potessero in qualche modo essere modificati dai minerali contenuti nei tufi. Mi fondai quindi sul fatto della facilissima attaccabilità sua coll’acido cloridrico, poichè in tal modo potevo avere disciolte allo stato di cloruri tutte le basi contenute in essa, senza che venissero decomposti gli altri minerali ad eccezione della magnetite e della calcite. Ora per quanto riguarda la prima, essa poteva, prima di qualsiasi espe- rienza chimica, essere completamente eliminata mediante l’azione della ca- lamita, per cui non poteva avere nessuna influenza sui risultati delle analisi; in quanto alla seconda era pure possibile evitare ogni qualsiasi causa di errore, per il fatto che, potendo separatamente determinare la quantità di anidride carbonica contenuta nel minerale analizzato, riusciva facile in se- guito di calcolare quale fosse la quantità di calce che doveva trovarsi nei tufi stessi allo stato di calcite. Per ciò che si riferisce alla silice la potei determinare in modo semplice e sicuro, senza correre rischio di far entrare nei calcoli anche quella che, come dissi, si trova frequentemente allo stato di opale nelle amigdale, basandomi sulle esperienze di G. Spezia (') riguardanti il differente comportamento pre- sentato dalla silice preparata di fresco o non, di fronte alle soluzioni fredde di idrato potassico, esperienze dalle quali risulta che quando la silice è pre- parata di fresco è facilmente solubile in una soluzione fredda di idrato po- tassico, mentre tale facilità diminuisce di molto quando si tratta di silice preparata da molto tempo. Dopo aver finamente polverizzato il minerale da me scelto già per quanto mi fu possibile scevro di sostanze estranee, esso venne ripetutamente sottoposto all’azione della calamita; in questo modo venne eliminata non solo tutta la magnetite libera, ma anche una parte non indifferente di biotite (') Su un deposito di quarzo e di silice gelatinosa ecc. Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino, XXXIX (1899), pag. 705. i Il — 236 — e di augite, per il fatto che questi minerali si mostravano spesso ricchi di inclusioni di magnetite; poscia collocato il materiale così purificato ‘in un crogiuolo, lo scaldai a temperatura gradatamente crescente e potei allora constatare come lo svolgimento dell’acqua si iniziasse sui 100° e andasse gra- datamente aumentando sino verso i 350°, temperatura oltre la quale cessava completamente; in seguito scaldai il erogiuolo al calor rosso sino ad ottenere un peso costante ed in tal modo potei determinare la quantità di anidride carbonica. Compiuti tali saggi decomposi il silicato con acido cloridrico concentrato a freddo ed appena la decomposizione fu completa, e ciò avvenne molto ra- pidamente, decantai e filtrai rapidamente, lavando ripetutamente sino a quando le acque di lavaggio non davano più reazione acida; poscia mentre il filtrato fu da me sottoposto alle solite operazioni dell'analisi quantitativa, trattai la parte indisciolta con una soluzione concentrata fredda di idrato potassico e potei in tal modo sciogliere tutta la silice proveniente dalla decomposi- zione del silicato. I saggi quantitativi mi avevano indicato solamente la presenza come basi, del protossido di ferro, della calce, della magnesia e della soda: due analisi quantitative (I e II) compiute su materiale ricavato da due esem- plari differenti, mi diedero i seguenti risultati : I II Si 0, 17,65 16,93 Al» 03 tnE: tr. Fe 0 14,95 14,03 Ca 0 33,48 35,68 Mg 0 8,15 7,48 Na, 0 7,23 6,81 H,0 5,05 4,75 (007 11,15 D2527 Residuo insolubile 2,31 3,97 99,97 99,52 Il residuo insolubile osservato al microscopio risultò composto di lamine di biotite e di cristalli di augite; il fatto della sua scarsità dipendeva sia dal- l'aver io scelto il materiale possibilmente scevro di minerali estranei, sia dalla grande quantità di sostanze che erano già state eliminate mediante la calamita. Deducendo da questi valori il residuo insolubile e le quantità di car- bonato calcico e riportando gli altri risultati a 100 ottenni i seguenti valori: I II Media Rapporti molecolari Si 0; 24,39 24,65 24,52 0,407 1 Fe0 20,66 20,46 20,56 0,285 Ca 0 26,64 26,96 26,50 0,473 Mg0 11,26 10,91 11,08 0,277 3,88 Na, 0 9,99 9,93 9,96 0,160 H,0 6,98 6,93 6,95 0,385 99,92 99,14 99,57 — 237 — che portano con sufficiente approssimazione alla seguente formola generale: (RUS RIISIO; in cui R''O—Ca0, Fe0, Mg0; R0=Na,0, H,0. Il silicato dei tufi di Fort Portal deve quindi considerarsi come cor- rispondente ad un tipo estremamente povero di silice e quindi non può aver nulla di comune con quelli ai quali ho prima accennato. Se si considera poi il suo modo di presentarsi emerge subito l’impos- sibilità di riferirlo ad un vero vetro vulcanico, poichè i caratteri che esso presenta sono del tutto differenti; invero esso ha l'aspetto di una sostanza colloide che si sia formata lentamente ed anche lentamente rappresa, me- diante un fenomeno di consolidazione analogo a quello che sì osserva nella silice idrata quando venga lasciata a sè; ed anche il modo di presentarsi dei minerali associati giustifica tale ipotesi, poichè essi hanno tutta l’'ap- parenza di minerali che siano rimasti impigliati in una sostanza che abbia subìto un lento processo di consolidazione. Si può quindi ammettere che esso si sia formato in seno alle acque nelle quali avvenne il deposito dei tufi di Fort Portal, probabilmente in seguito a reazioni avvenute fra sostanze che si trovavano disciolte nelle dette acque in conseguenza dei fenomeni vulcanici stessi, potendo queste sostanze essere rappresentate da sali solubili di ferro e di magnesio, da silicati sodici e da bicarbonato calcico. Malgrado questo speciale modo di origine è degno di nota il fatto che il silicato dei tufi di Fort Portal ha una costitozione mineralogica assai costante, come lo provano le minime differenze di composizione centesimale che si deducono dalle due analisi da me eseguite; questo fatto porta neces- sariamente ad ammettere in esso la presenza di una vera individualità mi- neralogica che io ho creduto bene di affermare, dando ad esso un nome che ricordi quello dell'Augusto Capo della spedizione al Ruwenzori. E poichè il nome di /uzgite è già impiegato per indicare un’altra specie minerale, partendo dal latino A4/0îs:us, ho dato al silicato in que- stione il nome di Alodszite. Non è raro di accertare nei tufi di Fort Portal e specialmente in quelli a struttura clastica, la presenza di aloisiite alterata. Quest'alteraziene si manifesta in generale in modo costante e consiste essenzialmente in una graduale eliminazione delle basi con conseguente sepa- razione di silice, ed il grado più o meno avanzato di alterazione è indicato, quando si trattano frammenti di tufo con acido cloridrico, dal fatto che le quantità di silice gelatinosa che si separano vanno sempre più diminuendo quanto più è avanzato il processo di alterazione. Notevole è però il fatto che in generale anche quando l’aloisiite è alte- rata in grado molto elevato, gli altri minerali che si trovano diffusi in essa, — 238 — compresi pure la calcite e la magnetite, si mantengono del tutto inalterati, il che indica come gli agenti a cui è dovuta l'alterazione dell’aloisiite deb- bono essere dotati di una attività chimica piccolissima ed io credo che l'acqua stessa possa lentamente decomporla, come lo proverebbe il fatto che i tufi in cui presenta il massimo grado di alterazione sono i più superficiali. Mineralogia. — A proposito dell’origine dell'acido borico nei soffioni boriferi della Toscana. Nota di G. D’ACHIARDI, presentata dal Socio R. NasInI. In una breve Nota del chiarissimo prof. Nasini dal titolo: Sull'origine dell'acido borico mei soffioni della Toscana pubblicata in questi Rendi- conti(*) si fanno due rilievi alla mia Memoria: Considerazioni critiche sull'origine dell'acido borico nei soffioni boriferi della Toscana (*), ai quali credo opportuno di brevemente rispondere. Il primo si è che il Nasini dice averlo io ritenuto quasi autore in- sieme all’ing. Perrone dell'ipotesi che farebbe derivare l’acido borico dei sof- fioni dalla tormalina dei graniti, mentre egli non fece che esaminare questa ipotesi del Perrone, dal solo punto di vista dal quale un chimico poteva esaminarla ; il secondo riguarda la conclusione che sembrerebbe io avessi voluto attribuire al prof. Nasini, dopo il ritrovamento della radioattività del granito elbono, che cioè essendo questo radioattivo ed essendo tali anche i prodotti gassosi dei soffioni, questi dovessero derivare da quello. Per quello che riguarda il primo rilievo faccio notare all’egregio e ca- rissimo collega, avere io scritto solamente che : l'ipotesi del Perrone aveva avuto validità di appoggio dal nome del prof. Nasini, il quale aveva di- chiarato che essa offriva un maggior grado di possibilità. E se nel se- guito della mia Memoria io ricordo, in un sol punto, Ze ipotesi emesse dal Perrone e dal Nasini, si fu perchè a me sembrò più idea di questo che di quello, non la ipotesi sostenuta in tesi principale dal Perrone e sopra ri- portata, ma l’altra di considerare come prodotti di una stessa causa acido borico dei soffioni e tormalina dei gramti, alla quale aveva alluso, è vero an- che il Perrone, ma solo incidentalmente, mentre il Nasini scriveva che fra - le due teorie la scelta non poteva restare che indecisa. Riguardo al secondo rilievo osservo come esclusivamente nella prima parte della mia Memoria si combattono quegli argomenti addotti in sostegno della ipotesi Perrone, che si ritennero combattibili, e che per ciò cfie ri- guardava le ricerche del prof. Nasini io dissi soltanto : eglé appoggia l’ipo- tesi del Perrone dimostrando come radioattive sieno le emanazioni dei soffioni ed i graniti tormaliniferi dell’ Elba. (1) Vol XVI, 2 sem. (5), fasc. 2, 1908. (8) Atti Soc. Tosc. Sc. Nat., Memorie, vol. XXII, Pisa 1907. 1930) 2A Nella seconda parte della mia Memoria si prendono invece in esame quelli argomenti che furono dati a sostegno delle molte altre teorie formu- late per ispiegare l'origine dell’ acido borico, e riepilogando tutta la discus- sione in merito giungo alla conclusione che : « Non da scomposizione di bo- « rati sedimentarî, non per azione della serpentina o dei graniti si sarà for- « mato l'acido borico nei soffioni, ma per una di quelle tante cause, per lo « più misteriose per le quali si formano tutti gli altri prodotti vulcanici ». E siccome la radioattività ritrovata dal Nasini nei prodotti gassosi dei soffioni veniva in appoggio a questa mia idea, e siccome potevo supporre che la comunanza di caratteri radioattivi fra questi ed i graniti potesse portare nuovi, ipotetici sostenitori dell'ipotesi Perrone ad illogiche conclusioni (e pur troppo non è l'illogicità che fa più spesso difetto nelle passate discussioni su questo argomento), io facevo precedere il periodo sopra riportato dalla se- guente considerazione : « La radioattività riscontrata dal Nasini per le emanazioni dei soffioni, « per il granito tormalinifero dell'Elba e per i prodotti di decomposizione « della tormalina non è certo un carattere che possa servire a stabilire fra «“ essi un legame. Altrimenti tutte le sorgenti termo-minerali, tutte le ema- « zioni gassose dovrebbero provenire da rocce granitiche essendo, tutte più o « meno radioattive! Invece il carattere della radioattività, così costante nelle «emanazioni gassose come nelle rocce ipogee, può esserci, se mai, di ap- « poggio a farci ritenere il fenomeno dei soffioni boriferi come un fenomeno « puramente vulcanico ». Questa è la spiegazione esatta di quanto allora scrissi : certo si è che il ragionamento sopra riportato io l'avessi voluto far fare al prof. Nasini, l’avrei posto nella prima parte del mio lavoro, servendomi della critica ad esso per combattere subito l'ipotesi Perrone. Posso quindi affermare che tale ragionamento che al Nasini è sembrato così... così strano io non ho neppur pensato, com'egli ha creduto di attribuirlo a lui. Ma a parte questo, confesso che a me non sembra... neppure s/ra70. Il Nasini aveva detto che l'ipotesi Perrone era avvalorata dalla radioattività dei graniti elbani, io aggiunsi : si badi che questo carattere di radioattività non è sufficiente a stabilire fra essi un legame, altrimenti sarebbe lo stesso che ammettere che tutte le sor- genti termo-minerali, tutte le emanazioni gassose, essendo più o meno ra- dioattive, derivano dai graniti! Se mai potrebbe essere, un ragionamento... superfluo. Io spero che l’egregio collega il quale ringrazio per aver presentato queste mie brevi osservazioni ai Lincei, resterà convinto di quanto sopra ho esposto e riterrà, con me, non indispensabile che io rilegga la sua pregiata Memoria, a me già ben nota, per convincermi che egli conosceva da un pezzo che ci sono tante rocce radioattive che non sono graniti, e tanti graniti che non sono radioattivi ! oo Petrografia. — Contributo allo studio petrografico del Vulcano Laziale. Rocce erratiche del Colle di Fonte Molara, sulla via Monte Compatri-Zagarolo (Aggregati di cristalli e tufi). Nota di ARISTIDE Rosati, presentata dal Socio G. STRUEVER. LAVE DEL 2° GRUPPO Leucitite BI a — (g De Angelis). Lava porosa, alterata, di color grigio-scuro, che in alcuni tratti diviene rosso:scuro. Sono visibili piccoli cristalli di augite e lewcite disseminati sporadicamente nella roccia. senza che questa perda il carattere di essere costituita da una pasta più o meno uniforme. Al microscopio risulta che la massa fondamentale è costituita da pic- coli cristalli di Zewezie, e da sottili microliti augitiche, a cui si aggiungono in grande abbondanza varî prodotti ferruginosi ed amorfi, che conferiscono all'insieme un caratteristico colore giallo-brunastro. La lewcite ha spesso inclusioni simmetriche di prodotti amorfi ferruginosi con relativa divisione in settori, e mentre in alcuni cristalli, circondati da una sottile zona di augite e magnetite granulari, si manifesta un contorno distintamente otto- gonale, in altri il contorno non è più visibile, e rimane solo una croce o una stellina bianca, tra cui penetra il magma circostante. Essa non ha quasi alcuna azione sulla luce polarizzata, le anomalie essendo appena avvertibili col gesso, e presenta molta variabilità nella grandezza dei cristalli, quan- tunque si tratti sempre di dimensioni piccolissime. 1 cristalli porfirici di /ewcife, già notati all’osservazione macroscopica, hanno contorni irregolari, e spesso sono circondati da un addensamento di granulazioni nerastre, dovute in gran parte a magnetite. L'augite del I tempo ha un colore verde-giallognolo chiaro, e presenta un massimo di estinzione di circa 38° dalla direzione di allungamento. Essendo i cristalli chiaramente visibili scarsi e notandosi la presenza di leuciti e di pirosseni intermedî, abbiamo il tipo B le. Leucitite B 1 fa compatta — (c De Angelis). È una roccia compatta di color grigio-cenere scuro e di struttura fina- mente granosa. È abbondantissima la /eucéie, per lo più diffusa in forma di minute granulazioni, che compaiono come altrettanti puntini bianchi sul fondo grigio della roccia, e sono meglio visibili con una lente d’ingrandi- — 241 — mento. Solo raramente si trovano grandi cristalli di leucite, di cui alcuni hanno persino un diametro di 10 mm. Insieme alla leucite qua e là si notano piccoli cristalli verde-bruni di perossero. È caratteristica la frattura scaglioso- concentrica. Al microscopio si ha una struttura distintamente porfirica. Numerosi cristalli di /eveite (in media mm. 0,25 di diametro) spesso in sezioni distin- tamente ottogonali, provvisti di numerose inclusioni simmetriche di magne- tite e pirosseno, e alcuni pochi cristalli di augite giallognola allungati se- condo 2, sono compresi in una pasta fondamentale costituita essenzialmente da augite microlitica di color giallo-bruno e con estinzione massima da.la direzione di allungamento di circa 40°, da /eucite con diametro medio di mm. 0,03 e da magnetite, a cui si aggiunge poca quantità di mefelina. Raramente si trovano cristalli di feldspato secondario geminati secondo la legge dell’albite, ed i pochi, che potei riconoscere, non si prestano ad alcuna determinazione specifica. Un attacco con acido cloridrico, mentre lascia inalterato il feldspato, decompone la nefelina, e la leucite. La roccia è a due tempi, quantunque i cristalli del I tempo ben visibili ad occhio nudo siano eccezionali, e invece risultino abbendanti quelli di piccole dimensioni. Abbiamo qui il tipo a due tempi, con cristalli visibili scarsi e leuciti intermedie, cioè B 1 £ a. Leucitite B 1 8 a porosa — (d De Angelis). Roccia porosa di color grigio-cenere scuro e di struttura granoso- porfirica. Si notano alcune piccole /eucit;, che al massimo presentano un diametro di 3 mm. circa; ma sono rare. Sono invece abbondanti specialmente nelle cavità, prodotti ferriferi di alterazione colorati in rossiccio. Al microscopio sì riconosce una leucitite porfirica con leuciti di dimen- sioni intermedie tra le più grandi del I tempo e le più piccole del JI tempo. La massa fondamentale è essenzialmente costituita di augite, lewezte, magnetite e olivina. L'augite ha un colore verde-bottiglia chiaro, si presenta in piccoli cri- stalli allungati secondo 2 o in forme granulari, ed è molto diffusa essendosi formata quasi tutta nel II tempo. L'olivina è notevolmente diffusa in piccoli cristalli più o meno arroton- dati e colorati in rossiccio dalla limonite di alterazione. La /eucite e la magnetite si presentano con i comuni caratteri già ricor- dati nelle rocce precedenti. Il minerale caratteristico del I tempo è la leucite, sebbene non manchi qualche cristallo porfirico di avgite. I grandi cristalli di leucite sono general- mente a contorno irregolare, con anomalie distintissime, e con poche inclu- RenpIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem sli RO sioni per lo più non simmetriche, fra cui notevoli quelle aghiformi, incolore o leggermente verdognole, con estinzione fortemente obliqua, dovute al piros- seno. La leucite è talune volte alterata in un materiale granuloso bianco- giallognolo, che ha poca azione sulla luce polarizzata, e che per ciò pare rife- ribile a caolino. Essendovi leuciti intermedie e pochi cristalli visibili, la nostra roccia è del tipo B1f a. Leucitite melilitica nefelinica B 2 8 bb Roccia di color grigio-cenere e di struttura granosa. Sono copiosamente diffusi e ben visibili all'osservazione esterna piccoli cristallini bianchi di leucite associati ad un materiale granulare giallo-vossiccio e a cristalli piros- senici di color verde-bruno. Sporadicamente s'incontrano grandi cristalli giallo- verdrastri di o/:vina in parte alterati in limonite. Presenta una frattura scaglioso-concentrica uguale a quella osservata nella leucitite B 1 8 a compatta, a cui è molto simile per caratteri esterni. Forma grandi blocchi sferoidali, ed è uno degli elementi principali dello strato ciottoloso. Anche per questa roccia la sezione sottile dimostra che i minerali es- senziali, cioè quelli più abbondanti, sono l'augzte e la lecite, e che quindi anche qui si tratta di una leucitite. L'augite sì presenta in cristalli spezzati allotriomorfi o addirittura in frammenti, che hanno colore giallo-verdognolo pallido, estinguono con un an- golo massimo di circa 39° dalle linee di sfaldatura e spesso racchiudono gli altri minerali della roccia, specialmente magnetite; mostra un principio di alterazione in limonite, e qualche rara volta geminati di contatto secondo }100!. La leucite anch'essa allotriomorfa è in cristalli della dimensione media di mm. 0,3 di diametro, provvisti delle solite inclusioni, che però solo rara- mente assumono disposizioni simmetriche. Osservata colla lamina di gesso presenta distinte anomalie. Oltre l'augite e la leucite, che come ho detto sono i minerali essenziali e sì distribuiscono in quantità all'incirca uguali, sono molto diffusi la nefe- lina, la melilite e la magnetite. La nefelina si presenta in sezioni rettangolari allungate, o in plaghe irregolari, con tutti i caratteri ricordati precedentemente. La melilite, che ha sempre forme irregolari, è completamente alterata in un prodotto giallo-chiaro, senza strie, isotropo, facilmente decomponibile dall’acido cloridrico. La magnetite assume le comuni forme granulari, ed è generalmente inclusa nei minerali sopradescritti. Sono molto meno diffusi i minerali seguenti: Biotite in laminette poco estese, di forma irregolare, con pleocroismo: 6 =c bruno-scuro, a giallo-chiaro. — 243 — Olivina in cristalli arrotondati ovoidali, ovvero con orli corrosi, di grandezza variabile, e tutti più o meno completamente alterati in sostanze ocracee, che si distribuiscono in modo da produrre una zona periferica rosso- scura ed un nucleo interno incoloro, o colorato in giallognolo o giallo-ros- siccio. Data la presenza di molta melilite e nefelina, si deve ritenere che la roccia in esame è una leucitite melilitica nefelinica. Il I tempo è quasi assente, la struttura è granosa allotriomorfa. Abbiamo qui esempio di una leucitite del tipo B 2 8 2 Db. AGGREGATI DI CRISTALLI. 1. — (7 De Angelis). — È un aggregato di mica nera a piccole dimen- sioni, attraversato da vene di color grigio-chiaro, nelle quali si riconosce la presenza di haduyna e di pirosseno. La biotite produce bellissime figure d'interferenza quasi uniasse, e si sviluppa in piccole lamine a contorno irregolare, fortemente pleocroiche dal giallo-brunastro al bruno-scuro; le sue inclusioni sono poche, riducendosi ad alcune granulazioni di magnetite. Nelle vene l'elemento colorato si riferisce ad una augite-aegirina con il seguente pleocroismo: a verde 6 verde oliva c giallastro. Essa è intimamente mescolata all'elemento incolore rappresentato dal- l'hatyna e dalla nefelina, e costituisce insieme a questi minerali un caratte- ristico mosaico. È allotriomorfa, contiene rare inclusioni di magnetite, e ha linee di sfaldatura grossolane, sulle quali misurando l'angolo di estinzione sì nota un massimo di circa 40°. L'hatyna è incolora, e non presenta quasi mai sezioni regolari essendo allotriomorfa, e talune volte profondamente corrosa. Nel mezzo dei cristalli, e sovente anche verso l'orlo, si notano inclusioni di forma tondeggiante e di varia natura, ma riferibili in massima a sostanze gassose e vetrose, queste ultime con o senza bolla. In alcune sezioni è evidente la tendenza delle inclusioni a disporsi secondo le direzioni di simmetria dei cristalli. In molti punti della sezione accanto all'’hadyna ed all’augite si nota la presenza di nefelina in forme più o meno rettangolari, e spesso provvista di inclusioni tubiformi trasparenti, disposte parallelamente ai lati della sezione. Nei punti di contatto delle vene con l'ammasso biotitico risulta una perfetta compenetrazione dei varî minerali sopraccitati. — 244 — 2° —(% De Angelis. — È un aggregato di cristalli alquanto alterati. La parte biancastra pare riferirsi almeno in parte a /e/dspato, e in alcuni tratti è perfettamente sfaldabile; gli elementi colorati in verde-scuro sono di pirosseno e di biotite in piccole lamelle parzialmente decomposte. Le due parti onde risulta costituito l’aggregato sono intimamente commiste, ma con ineguale distribuzione, sicchè in alcuni punti prevalgono gli elementi bianchi, in altri quelli colorati, e di questi talvolta la sola biotite è il minerale ester- namente visibile. L'augite, che come al solito si presenta in individui allungati secondo l’asse verticale, ha un colore giallo-verdastro chiaro, ed un massimo di estin- zione dalle linee di sfaldatura di circa 43°. Per alterazione dà luogo a pro- dotti ferriferi. La biotite è nelle comuni forme laminari con pleocroismo dal giallo al giallo-bruno; le lamelle sono spesso piegate. La parte incolora costituisce larghe plaghe irregolari intorbidate da una sostanza granulosa debolmente birifrangente, e deve riferirsi, almeno in gran parte, a sanidino, perchè la sua rifrazione è inferiore a quella del balsamo, e sulle lamine di sfaldatura ottenute parallelamente a (010) si ha un angolo d'estinzione di circa 21° rispetto a e e di circa 5° rispetto alle linee di sfaldatura basale, mentre altre lamine di sfaldatura, quelle parallele a (001) dànno estinzione retta. Il prodotto d’alterazione sembra essere caolzzo. 8° — (2 De Angelis). — Anche il campione 3° è un aggregato di cri- stalli alterati. Si distinguono laminette di dvozzte, cristalli di piro0ssezo, è in prevalenza un materiale biancastro, dove sono diffuse molte leuctte. Al microscopio, oltre i minerali precitati, si rendono visibili l’apalite in forma di lunghi aghi, molto diffusa, e la mefelina, ambedue intimamente as- sociate alla lewezte. L'augite è leggermente pleocroica con i seguenti colori propri della varietà augite-aegirina: a verde 6 verde oliva c giallo verde. Ha linee di sfaldatura grossolane, sulle quali misurando l'angolo d'e- stinzione risulta un massimo di circa 40°. La bdiotite presenta i comuni caratteri, ed è discretamente diffusa. La leucite è al'otriomorfa, presenta numerose strie di geminazione ed inclusioni irregolarmente distribuite. 4°. — È un aggregato di dvotize a piccole lamine, alquanto alterata. Osservando le lamine al microscopio in luce convergente risulta una figura d'interferenza quasi uniasse; in luce parallela si nota che hanno un colore verde-pallido, donde il colore tendente al verde dell'ammasso, e che in al- cuni punti sono alterate in limonite. 20) (pe 5° — È un caratteristico aggregato di cristalli, colorato prevalente- mente in nero dalla biotite e dal pirosseno, salvo a presentare color bianco nei tratti in cui prevale la /ewczze. I suoi varî elementi sono poco uniti risultandone così una massa in- coerente facilmente sgretolabile. È diffusissima la diotite, per lo più fortemente alterata in prodotti fer- riferi, e che alla luce polarizzata convergente produce una figura d’interfe- renza distintamente biassica, ma con piccolo angolo degli assi ottici. Essa forma grandi lamine di color nero, talvolta esagonali, che per alterazione hanno perduto la caratteristica flessibilità e sono divenute friabili. Un altro minerale colorato in nero o in nero-verdognolo è l’augite, che però non presenta mai cristalli netti con forme determinabili ed è molto meno diffusa della biotite. La parte bianca è rappresentata prevalentemente dalla /eucite 0 dai suoi prodotti di alterazione. Nelle cavità si notano lunghi prismi aghiformi incolori di apatite, in cui talvolta sono visibili le forme }1010{ e j10I1{. È più raro il caso di trovare cristallini di magmetite per lo più con la combinazione }111}, }110| ed associati regolarmente in posizione parallela. Infine è presente l’hazyna in forme granulari di color azzurro-palli- dissimo. TUFI. 1° — (mm De Angelis. — È un tufo litoide, breccioide, color marrone, simile a quello detto Zapîs gabinus, come appunto lo definisce il De Angelis. Fra i cristalli che sono inclusi porfiricamente nella sua massa, noto l’augite, la leucite e la biotite. Sovente i grandi cristalli di augite hanno forme determinabili risultando della combinazione più comune : 3100}, }010t, {110}, }111}. Nelle sezioni per il microscopio l'augite risulta leggermente pleo- eroica con a verde 6 verde oliva c giallo verde. Si tratta quindi di augite-aegirina. Il massimo di estinzione dalle linee di sfaldatura è di circa 40°. i È poi diffusissima la /ewcite in piccoli cristalli arrotondati e corrosi, e spesso fortemente alterati in caolizo 0 in altri prodotti non bene determi- nabili, distribuiti in un materiale giallo-brunastro ricco di ossidi di ferro. 2° — (n De Angelis). — È un altro esemplare di tufo litoide con colore grigio-cenere tendente al violaceo; compaiono diffusi nella massa a — 246 — modo porfirico cristalli di augite, Zeucite e biotite con gli stessi caratteri descritti precedentemente. La sezione sottile rileva un materiale ferruginoso di color giallo-bru- nastro in cui sono distribuiti i minerali sopracitati. Le leuciti sono spesso invase dai prodotti ferruginosi. 3° — (p De Angelis) — È un vero tufo litoide, breccioide, di color grigio-cenere scuro, alquanto somigliante al peperino laziale, come osservò giustamente il De Angelis nella sua nota geologica. Anche qui abbiamo diffusi nella massa grigio-cenere molti cristalli di awgite, diotite e leucite; quest'ultima spesso alterata. La sezione sottile fa distinguere numerose /euciti diffuse in un mate- riale amorfo giallo-brunastro, ricco di ossidi di ferro e di microliti in forma di piccoli aghi. Le leuciti hanno un diametro generalmente variabile da mm. 0,03 a mm. 0,18, e talvolta presentano bellissime inclusioni simme- triche di materiale ferrifero con formazione di settori. L'augite e la biotite non sono molto frequenti. L'augite al microscopio ha un colore giallo-pallido e non è affatto pleocroica. 4° — (0 De Angelis — È un tufo leggerissimo, pulverulento, di color rosso-chiaro uniforme, che per la sua profonda alterazione non si presta ad alcuna determinazione microscopica. RIASSUNTO E CONCLUSIONI. Le /ave della formazione conglomeratica di Colle Fonte Molara, almeno per quanto finora si è potuto conoscere, sono /ewcititi, cioè sono costituite essenzialmente di /eucile e pirosseno. Mancano le lewcotefriti cioè quelle rocce che oltre la leucite, e il pirosseno contengono come minerale essenziale del II tempo il /eldspato; ma appunto sappiamo che la maggior parte delle lave laziali sono leucititi, limitandosi le leucotefriti ad alcune for- mazioni speciali. Tenuto conto della loro struttura, come risulta dall'esame dei caratteri esterni e di quelli microscopici, con il sistema di classificazione adottata ne deriva il seguente quadro: 1° Leucititi con cristalli visibili \ Tipo A : ph ba abbondanti. Î 7 Ù i i di 2° Leucititi con cristalli visibili | Tipo si o ; i ; scarsi. i | Tipo >28 2) — 247 — Come si vede sono rappresentate ugualmente bene le leucititi del 1° e del 2° gruppo Prevalgono le leucititi con i due tempi bene sviluppati, e generalmente sono presenti transazioni complete o parziali. I minerali che prendono parte alla costituzione delle varie rocce come elementi essenziali ed accessori sono fra quelli più comunemente diffusi nel Lazio e cioè: leucite, augite, biotite, olivina, nefelina, melilite, feldspato secondario. L'augite del I tempo in alcuni casi si presenta distintamente pleo- eroica, e talvolta con le colorazioni proprie della varietà augite-aegirina. L'olivina si trova preferibilmente in grandi cristalli del I tempo più o meno alterati in limonite. Anche la bdiotite è per lo più in grandi lamine del I tempo, e tende a trasformarsi in prodotti ferruginosi perdendo la sua catatteristica lucen- tezza e flessibilità. La leucite è talvolta alterata o in materiali non bene determinabili o in minerali riferibili alla serie dei feldspati triclini. Per le rocce del Vul- cano Laziale, le leuciti a grandi dimensioni essendo presenti, in quantità rilevante, solo nelle leucotefriti, molto raramente nel nostro caso si hanno cristalli che sorpassino 1-2 cm. di diametro. E in ciò trovano piena con- ferma i risultati, che si ebbero per opera del Sabatini. La melilite è sempre alterata in un -prodotto giallo isotropo; è poco diffusa, figura in uno solo degli esemplari raccolti. Tutti questi minerali in genere non presentano alcuna regolarità di forma; quelli del I tempo sono stati corrosi, incisi più o meno profonda- mente dal magma, che consolidandosi ci ha dato i minerali del II tempo in forme microlitiche irregolari. È frequente una larga produzione di minerali secondarî. Dallo studio degli aggregati di cristalli risultano i seguenti mine- rali: augite, leucite, biotite, apatite, nefelina, magnetite, sanidino, hatiyna. I cristalli, salvo quelli formati liberamente nelle cavità sono sempre im- perfetti, impediti nel loro sviluppo, alcuni sono come sottoposti a fusione. I tufi non presentano particolari caratteri, e per la loro composizione mineralogica si riferiscono al gruppo dei uf lewcititici. Comparando lo studio petrografico di questi prodotti con quello della formazione analoga del Tavolato sull'’Appia Nuova, rimane questa sempre unica per contenere le ave leucotefritiche ed haùynifere descritte nei loro caratteri microscopici prima nel 1876 dal prof. Striver (*), e più tardi nel 1900 dal Sabatini (?). 1) Memorie Acc. Lincei, 1876. ) ( (2) Op. cit., pagg. 235-246. — 248 — Zoologia. — Ancora sul cielo della « Phillorera quercus > Boyer. Nota preliminare di Branca BonrIGLI, presentata dal Socio B. GRASSI. In una Nota preliminare, pubblicata il 1° settembre 1907 nei Rendi- conti della R. Accademia dei Lincei, il prof. Grassi e la dott. Foà, rife- rendo le loro osservazioni sul ciclo della Ph. quercus Boyer, confermavano « in maniera assoluta nei punti essenziali » le osservazioni che già il Lich- tenstein, il Targioni Tozzetti e da ultimo il Del Guercio avevano fatto in- torno al ciclo stesso. Riunendo insieme gli studî dei tre ultimi autori, si era creduto di poter fissare per la PA. quercus un ciclo così ('): Sur LEccIO Maschi atteri Femmine attere senza succhiatoio senza succhiatoio mr Ovo d’inverno Fondatrice —> SULLE QUERCIE Forma emigrante Forma moltiplicatrice Forma sessupara Il sig. Fuschini, che, per incarico del prof. Franceschini, aveva preso anch'esso a studiare il ciclo della Ph. quereus indipendentemente dal pro- fessor Grassi e dalla dott. Foà, in una Nota del 20 sett. 1907 sostenne che il ciclo fosse fondamentalmente diverso, come risulta dal seguente schema: (*) In questo schema, che tolgo dal Fuschini, non si tiene conto delle alate tardive. — 249 — ——_—_——— —» Sur Leccio Maschi atteri Femmine attere (senza succhiatoio) (senza succhiatoio) Ovo d’inverno Fondatrice Forma sessupara emigrante ——_—_—_—- SLLE QUERCIE Maschi atteri Femmine attere (senza succhiatoio) (senza succhiatoio) Ovo fecondato estivo Fondatrice (1) Moltiplicatrice Forma sessupara autunnale o di ritorno —————_—_—__====-———————+—+ __-=- = “=“—_— Sebbene il Fuschini raffigurasse il ciclo così, mai notò lo schiudimento dell'uovo fecondato estivo; tuttavia lo ammise : CRAS le femmine depongono un 0v0 fecondato estivo dalla cui schiusura ha origine /a larva..... Subite le mute necessarie per raggiungere lo stato adulto, ritengo inizierà la deposizione di ova, da cui la forma moltiplica- trice corrispondente a quella studiata anche dal Del Guercio... Non ho po- tuto ottenere in laboratorio la schiusura di uova fecondate..... « Potrebbe darsi che la forma da me chiamata fondatrice quercicola non fosse che la moltiplicatrice di Del Guercio, derivante però sempre da ova di sessuati e non da madre partenogenetica ». (1) « Queste due forme... potrebbero non costituirne che una sola: resta da stu- diarsi ». RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 32 — 250 — Il ciclo ammesso dal Fuschini veniva subito criticato dal prof. Grassi e dalla dott. Foà, in una ristampa del loro lavoro, che seguì alla pubbli- cazione del Fuschini ('): « In una Nota pubblicata il 20 settembre dal Fuschini..... leggiamo che dalle uova delle migratrici alate della Ph. quercus Boyer, depositate sulle querce si ottengono maschi e femmine. Le nostre osservazioni accurate e ripetute della primavera scorsa dimostrano che da queste uova nascono in- vece..... larve (non sessuate) le quali iniziano una nuova generazione parte- nogenetica. « Noi supponiamo che il Fuschini sia stato tratto in inganno da na altra specie di fillossera, ovvero che egli abbia sperimentato con le ritar- datarie, mentre noi abbiamo finora fatto i nostri esperimenti con alate nate su leccio in primavera ». Ma Fuschini parve dubitare e replicò: «è da escludersi lo scambio di specie.... Non resta che l’altra supposizione del prof. Grassi per spiegare la discordanza tra i risultati dei nostri studî. Ad ulteriori indagini il dire se sia possibile che una stessa forma alata, che si svolge senza soluzione di continuità, possa, in poco più di un mese, mutare così profondamente la sua funzione biologica (identico restando l’ambiente) da dare uova da cui schiudono individui sessuati, mentre che prima di così breve lasso di tempo dovrebbero derivarne larve non sessuate ». * % x A parte le discordanze — e non lievi — sopra riferite, gli autori erano d'accordo nell’ammettere che, per completare il ciclo, fossero necessarie due piante diverse: il leccio e la quercia. Ora si erano presentati dei fatti per cui pareva si potesse dubitare della necessità assoluta di ambedue gli ospiti. Sulla terrazza del laboratorio di Anatomia comparata a Roma, nume- rose piante di lecci tenute in vaso avevano conservato per più anni l'infe- zione, senza che vi fossero sul posto o nelle vicinanze piante di querce (Osservazione del prof. Grassi e della dott. Foà). Sulla terrazza del laboratorio di Entomologia Agraria a Portici, ancora lecci isolati si erano mantenuti costantemente fillosserati, d'anno in anno (Osservazione del prof. Silvestri). n XX Tenendo conto di tutti questi dubbi, per incarico gradito del mio maestro, il prof. Grassi, ho ripreso io quest'anno a studiare sotto la sua guida il ciclo della Ph. quercus. (1) Bollettino del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 8 ottobre 1907. Ricerche sulla fillossera e in particolare su quella della vite, eseguite nel R. Osservatorio Antifillosserico di Fauglia fino all'agosto 1907, per incarico del Ministero di Agricoltura. — 261 — Dirò subito con che mezzi conducevo le esperienze. Sulla terrazza del laboratorio avevo collocato un numero considerevole di quercine e di piccoli lecci, in vaso, infetti; all'occorrenza i vasi potevano essere protetti da campane di garza; nelle stanze del laboratorio avevo delle serie di capsule Petri; di più tenevo conto dei fatti che si svolgevano al- l’aria libera, sia nel giardino dell’ Università, in via Panisperna, sia all'orto Botanico; casualmente poi facevo osservazioni in altri e diversi luoghi, sempre in aperta campagna, a una certa distanza da Roma ('). In tal modo potevo avere molti e svariati controlli per le mie osser- vazioni. Nel mese di aprile le fillossere cominciarono a schiudersi dalle uova d'inverno e continuarono poi anche in maggio. Rapidamente crebbero e ovi- ficarono; a mezzo maggio nei vasi e nelle capsule di Petri avevo la seconda generazione (figlie delle madri fondatrici): di questa, una parte dette ninfe ed alate, una parte rimase attera. Le alate emigrarono sulle querce (*) e vi deposero uova; le attere rimasero sui lecci. Sempre, dalle uova di alate nacquero larve rostrate; sia in laboratorio, sia nelle campagne vicine a Roma, sia anche a Fauglia, dove la dott. Foà fece osservazioni di controllo con materiale raccolto a Pisa, là dove il Fuschini diceva di aver preso le sue fillossere, da cui egli ebbe figli sessuati. Il prof. Grassi, recatosi in provincia di Novara, ad Arizzano, dove il Fu- schini ancora aveva raccolto materiale, prese e portò a Roma rami di querce con ninfe e alate. Tali ninfe e alate, che corrispondevano perfettamente pei loro caratteri alle nostre, dettero in capsule Petri figli rostrati (23-24 giugno), che si svilupparono poi regolarmente. Quest'ultimo controllo, da una parte mi faceva escludere uno scambio di specie, dall'altro veniva in appoggio all'ipotesi del prof. Grassi e della dott. Foà, che Fuschini avesse sperimentato con alate tardive. ‘ Mentre sulle querce i rostrati crescevano, i figli delle attere rimasti su leccio (nipoti delle fondatrici) quivi in parte si tramutavano in ninfe e poi in alate, in parte rimanevano senz'ali. Per avere il minor disperdimento possibile di materiale, già io al tempo della prima emigrazione avevo avvicinato i vasi di querce ai lecci; avevo anche coperto molti vasi con gabbie di garza: in tal modo tutte le alate indi- sturbate passavano alle querce. In capsule Petri mettevo insieme foglie di querce e di lecci. (1) Ringrazio qui sentitamente il sig. Giovanni Faure, che mi fu in principio buon aiuto e che poi si è talora recato per me a fare osservazioni e a raccogliere materiale in campagna. (*) Come abbiamo contemporaneamente osservato la Foà a Fauglia, ed io a Roma, se le piante si toccano, passano già le ninfe. — 252 — D'altro canto, invano avevo tentato di impedire l'emigrazione dai lecci, con retini di garza: le alate in prigionia erano morte quasi tutte, attaccate alle maglie della rete; solo alcune, rare, avevano ovificato sui lecci, ma subito poi le neonate (fornite di rostro) erano morte. Essendo le nuove ninfe (nipoti della fondatrice) sui lecci prossime a divenire alate, ho disposto le piante come la prima volta; soltanto non ho tentato più di impedire l'emigrazione, visto che l’esperienza già la prima volta era completamente fallita. Con mia grande meraviglia ora le alate non emigrarono ('). Esse dai teneri germogli e dalle foglioline giovani su cui si erano sviluppate scesero sulle foglie più dure, più rigide, sui piccioli delle foglie, sui ramoscelli, e mentre le foglioline giovani già prima attaccate cadevano, le alate deponevano al sicuro un numero assai limitato di uova ellittiche; alcune, ed erano in maggioranza, di colore arancione; altre, in minor numero, giallognole chiare, più grosse delle prime: da queste uova nacquero poi rispettivamente maschi e femmine, senza rostro (?). Erano i sessuati che già il Fuschini aveva veduto; egli però negando l'esistenza delle alate virgopare aveva dovuto ammettere che quelli si svi- luppassero normalmente su querce e ivi continuassero il ciclo. Così aveva ideato la schiusura di un wovo fecondato estivo che doveva iniziare la gene- razione moltiplicatrice sulle querce (?). Che il Fuschini abbia ottenuto la deposizione e la schiusura di uova su foglie di quercia, ‘2 vitro, non è da meravigliare. Anche io l'ho ottenuta talora nelle capsule Petri, ma in modo artificioso: mettendo in capsula delle ninfe o delle alate, in gran numero, con una sola foglia di leccio e molte foglie di quercia, avvenne che qualche volta una o due alate ovificassero sulle foglie di quercia. Invece all'aperto, sulla terrazza io ho avuto sempre la deposizione esclu- sivamente sui lecci; è lo stesso risultato ho avuto in una serie di sessanta capsule di Petri, ciascuna delle quali ospitava una sola alata con una foglia di leccio e una di quercia. Sui lecci le femmine, dopo la fecondazione, deposero un uovo estrema- mente piccolo, ovale, di un colore giallo di intensità assai variabile; di pre- ferenza alla base delle foglie, in mezzo al tomento del picciolo; spesso anche (1) Anche il prof. Grassi in ottobre e novembre del 1897 aveva invano tentato di far passare le alate del leccio sulle giovani querce. (2) I sessuati, in capsule di Petri, furono contemporaneamente ottenuti anche dalla dott. Foà, a Fauglia. (*) Recentemente anche il Fuschini ha osservato l’esistenza di figli rostrati, nati dalle prime alate. — 253 — lungo la nervatura centrale delle foglie dure, e sulle piccole sporgenze del legno non più verde, non più tenero, del tronco. Queste uova non si sono mai schiuse e non si schiuderanno per ora: bisogna ben dire che esse sverneranno e alla primavera ventura potranno iniziare di nuovo il ciclo sul leccio, indipendentemente dal ritorno di alate dalla quercia. Così riusciamo ora a spiegare l'infezione continuata alle scuole di Portici e di Roma, ed anche l'infezione che, in seguito a ricerche gentilmente fatte quest'anno (21 giugno) per me, videro a Lucca l'ing. E. Bonfigli e il dott. A. Paoli sui lecci piantati in cima alla torre dei Guinigi, che un'al- tezza di 52 metri salvaguarda con ogni probabilità da una immigrazione di alate a distanza (!). Le forme attere, su leccio, ovificano di nuovo; su foglioline giovani, se ve ne sono; in caso contrario sulle foglie meno dure, sui piccioli, sui ra- metti un po verdi; dalle uova nascono dei piccoli rostrati che possono, se si trovano in condizioni favorevoli, crescere rapidamente per dare ancora forme alate e forme attere. Se il leccio non offre facile e abbondante nutrimento ai suoi ospiti, questi stentano a vivere, passeggiano in su e in giù per il tronco, per i rami; crescono poco, ma restano vivi; se per fortuna una gemma sì svolge, là accorrono quanti possono; se poi per molto tempo nessuna fogliolina tenera spunta per gli affamati, essi in buona parte muoiono e solo pochi si adat- tano definitivamente a succhiare le vecchie foglie e pian piano si mutano in ninfe e poi in alate, le quali però restano assai piccole e dànno un numero limitatissimo di uova; al solito alcuni rimangono atteri e iniziano una nuova, identica generazione. Anche queste alate, come tutte le altre che vengono in seguito alla generazione migratrice, rimangono sui lecci e vi depongono uova di maschi e di femmine. Lentamente così vanno poi aumentando le uova di inverno le quali assicurano il mantenimento dell’infezione per l’anno seguente. Il numero di generazioni che si possono ottenere in uno stesso leccio è variabilissimo; se artificialmente si favorisce lo svolgersi di germogli po- tando via via alcuni rami, se ne possono avere parecchie, perchè i piccoli crescono presto; in condizioni naturali però lo sviluppo è relativamente lento e può anche mancare totalmente. Sulle quercie, dalle uova delle moltiplicatrici nascono tre sorta di in- dividui. Alcuni, in buon numero, rimangono biancastri, atteri, e dànno dei figli rostrati; altri si trasformano in ninfe rosse e poi in alate (*) che pren- !) Vivamente ringrazio l’ing. Bonfigli e il dott. Paoli della loro cortesia. (A (*) Queste alate sono state verificate anche a Fauglia. | — 254 — dono il volo verso i lecci; altri ancora, assai rari, di un rosso intenso, al- lungati, senza traccia di ali, depongono uova da cui nascono dei rostrati. Ritornerò in seguito su queste ultime forme, che non ho ancora bene studiato. I piccoli rostrati che crescono ancora sulle querce, già avanti di subire la prima muta, assumono una bella colorazione rosea, che poi si fa subito rossa intensa. Però le ninfe che si svolgono dalle larve restano molto pic- cole, e così anche le alate: queste piccole alate che, salvo la grandezza, finora mi pare che non differiscano da quelle della generazione precedente, emigrano come esse dalla pianta che le ospitava per tornare ai lecci, su cui vanno a deporre uova aranciate, di sessuati. A tutt'oggi, 26 agosto, l'emigrazione continua bene senza disperdita di alate, per la provvida vicinanza del leccio, per le provvide gabbie di garza: così tra non molto sui lecci altre uova d'inverno andranno ad aggiungersi a quelle che già deposero e ancora depongono i figli delle alate che non abbandonarono mai la loro sede. Diceva Del Guercio (*) riferendosi alla forma sessupara di ritorno: « Capo e torace spesso quasi sprovvisti dei tubercoli conici nerastri ricordati per gli alati che emigrano dalle foglie del Leccio a quelle delle Quercie, nella primavera; e non si scorgono talvolta che a molto forti ingrandimenti ». Infatti, raccogliendo ed osservando alate sui lecci da mezzo agosto circa in avanti, si trova che alcune di esse hanno dei tubercoli spiccatissimi, altre dei tubercoli minimi. Ma se invece raccogliamo distintamente da una parte le alate prima che lascino le querce, dall’altra le alate non migratrici, fatte schiudere, per sicurezza, in capsule Petri, vediamo che le prime presentano i tubercoli minimi le seconde i tubercoli bene sviluppati. Vi saranno probabilmente anche delle altre differenze tra le due sorta di alate; questa è certo la più appariscente, ed io d'altra parte non ho fatto per ora confronti più fini. In seguito ritornerò anche su questo. Riassumendo, si può col diagramma quì unito raffigurare quanto finora è stato osservato sul ciclo della Ph. quercus Boyer. (1) Nuove relazioni intorno ai lavori della R. Stazione di Eutom. Agraria di Fi- renze per cura della direzione. Firenze, 1900. ‘@qeje tot © eqeje our10z oAonu Tp ouoonpord erge ew10] aqsand eppue equeuwqiqeqoig (7) (o1edussas) TOIIYVISIUI (2) 21099 PULITO] 03E]e a urTo (a1ednssas) | IO IIY CIS TUI Q19qpe Quo] OJee QUILO] AILIVOITrZ[oU CULTO] VIOUINO NQ — 255 — (1) 010990 ourI0] (01edussos) TOLIZRISIUL UOU QjU]e QULIO 9199Yè QUIIO ] ie] (oredodara) T9IIZRISIUI 9YR]R QUIIO] 0911) PUO J OUIQAUI,p 0A0A o10geIgoons eZuIs 01997? QUrULULO OID9NT INS — “ETÀ 1909 9 @qe[e UO a aqeje aunroy oAOnNT Tp omoonpordia 0199qe eurtoz 0T (1) __t OTIOAUI ,p_o0A0( OIOqRIoons VZuos OIOFRITOONS eZuos 9199) AG UIULUTO T199Y® IUOSEHI 1 ____-* IOLI}RISIWI Uou OqUTe oULIO g (o1ednssos) Q10ge QULIO.] OTOFITooOnS eZuos Toe TUoSEN —- 256 — Come il lettore rileva facilmente il nuovo diagramma amplia in un punto molto importante quello ammesso dalla maggior parte degli autori, compresi il Prof. Grassi e la Dott. Foà, riferito nella prima pagina della presente nota, ed è invece profondamente diverso da quello del Fuschini, il quale, avendo dimostrato per primo che le alate tardive (da lui non distinte) sono sessupare, ritenne che tutte le alate del leccio fossero tali. In conclusione delle due ipotesi avanzate dal prof. Grassi e dalla dott. Foà per spiegare i dati contradittori del Fuschini, la seconda, come risulta dalla presente Nota, si è dimostrata conforme al vero; evidentemente il Fuschini aveva tralasciato di sperimentare con quelle prime alate su cui gli altri avevano fatto le loro osservazioni. Il fatto più importante, messo in luce da me, si è che le alate ses- supare, nate sul leccio, non vanno sulla quercia, ma sul leccio producono delle uova, non già estivanti, bensì ibernanti, le quali servono a mantenere l'infezione sui lecci indipendentemente dalle querce ('). Roma, 26 agosto 1908. Aggiunta del 1° Settembre 1908. Avevo già consegnato il manoscritto allo stampatore, quando ho notato un fatto nuovo che viene ad aggiungersi agli altri. Non tutte le alate ritornano sui lecci; alcune, assai rare, restano sulle querce; ivi depongono poi un numero limitatissimo di wova ellittiche, aran- ciate, da cui nascono dei sessuati. Questi prontamente dalle foglie scendono sui rami e sul tronco e lì si accoppiano. Certamente le femmine deporranno un uovo d'inverno sulle querce. (1) Non so spiegare proprio come il Del Guercio possa scrivere di avere osservato il passaggio continuo di tutte le alate sulle querce fino a dicembre. — 257 — Note presentate all'Accademia sino al 6 settembre 1908, Agronomia e Chimica Agraria. — Intorno ai vecchi cd ai nuovi concimi azotati: Calciocianamide, Nitrato di Calcio, Solfato Ammonico e Nitrato Sodico. Nota del dott. VirtoRIo NAZARI, pre- sentata dal Socio R. PIROTTA. Chimica. — Radioattività di rocce e altri materiali dell’isola d'Ischia. Nota del Socio R. NasINI e di M. 6. Levi. Chimica. — /radioattività di alcune emanazioni gassose ita- liane. Nota del Socio R. Nasini e di M. G. Levi. Chimica. — Comparsa della radioattività in materiali inat- tivi vulcanici dell'ultima grande eruzione vesuviana (aprile 1906). Nota del Socio R. NasIini e di M. G. Levi. Matematica. — Sui criterii d'integrabilità finita di una equa- zione di Riccati. Nota del dott. CARMINE AyELLO, presentata dal Corrispondente E. Pascat. I Fisica. — L'emissione luminosa nei vari asimut da parte d'un vapore incandescente in un campo magnetico. Nota di 0. M. CoRr- BINO, presentata dal Corrispondente M. CANTONE. Matematica. — Ze varietà con tre dimensioni che ammettono per l'equazione del Laplace l'integrale Fa, , x) f(x3). Nota di F. A. DAaLL’Acqua, presentata dal Corrispondente LEVI-CIVITA. Matematica. — Sulla regolarità del sistema aggiunto ad un sistema lineare di curve appartenente ad una superficie algebrica. Nota di FRANcESco SevERI, presentata dal Socio C. SEGRE. Geologia. — Nummuliti oligoceniche di Laverda nel Vicen- . lino. Nota di MarIA RavagLI, presentata dal Socio CARLO DE STEFANI. Queste Note saranno pubblicate nei prossimi fascicoli. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875- -76). Parte 1 TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. sa MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Mol'ViSe Ve VE AVIIFSAVIBRiS Serie 3* — TransunTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. 1. (1,2). — IL (1, 2). — IR-XIX. MemoRrIiE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIcoNTI Vol. I-VII. (1884-91). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 54 — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fase. 5°. ‘ RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1907). Fasc. 12° Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturale. Vol. I-VI. Fasc. 1°-16°. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 7°. i CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI 1 Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. | Il prezzo di associazione per ogni volume € per tutta l’Italia di L. 10; per gli altri paesi 1 spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno Loescner & C.° — Roma, Torino e Firenze. Urico Horrri. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Settembre 1908 | NEBIICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 6 settembre 1908. MEMORIE KE NOTE II SOCI O PRESENTA'"NEG DA SOCI Lauricella. Sulle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate . . . . Ba Tieri. Azione delle onde elettriche sull’allungamento per magnetostrizione di un filo di ferro magnetizzato longitudinalmente (pres. dal Socio Blaserna) . . ./.. spa Gallo. Radioattività di roccie della regione attraversata dalle linee di accesso fi Sdiono (pres. dal Socio Paternò). . . . + : j . Si Alessandri. La radiazione solare al Monte Rei _ Wsseriazioni deal 1A calielor servatorio Regina Margherita nell’anno 1907 (pres. dal Socio Volterra) . . . 5009 Cisotti. Sopra la distribuzione locale di azioni tangenziali sulla superficie di un suolo lattico (pres. dal Corrisp. Zevi-Civita) . . . st EER) Colomba. Aloisiite, nuovo idrosilicato dei tufi di Fort Portal Usi (pres. dal Socio Spezia) » D'Achiardi. A proposito dell'origine dell’ acido borico nei soffioni boriferi della Toscana (pres: daliSocioNiVas.m) Eee ; » Rosati. Contributo allo studio petrografico del io ic nisi i Gi Colle di Fonte Molara, sulla via Monte Compatri- i Sa di cristalli e tufî) vor. dal Socio Strùver) . . . i É ” Bonfigli. Ancora sul ciclo della « «Phillendpa quercus » ho geo dal 13: sg poca) Nazari. Intorno ai vecchi ed ai nuovi concimi azotati: Calciocianamide, Nitrato di Calcio, Solfato Ammonico e Nitrato Sodico (pres. dal Socio Pirotta) (®). 0...» Nasini e Levi. Radioattività di rocce e altri materiali dell’isola d’Ischia(®) . ./... 0» Id. Id. Radioattività di alcune emanazioni gassose italiane (È) . . .... SEDI Id. Id. Comparsa della radioattività in materiali inattivi vulcanici dell’ultima dando eruzione vesuviana (aprile 1906) ©)... 20° ” Ayello. Sui criterii d’integrabilità finita di una equazione di Riccati na cei CO Pastal È » Corbino. L'emissione luminosa nei vari azimut da parte d'un vapore incandescente in un campo magnetico (pres. dal Corrisp. Cantone) È). . . .. . 6 » Dall’Acqua. Le varietà con tre dimensioni che ammettono per Lea del Laplace ti tegrale F(21, 2) f(£3) (pres. dal Corrisp. Levi-Civita) (@). . . .. . 0» Severi. Sulla regolarità del sistema aggiunto ad un sistema lineare di curve ERO ad una superficie algebrica (pres. dal Socio Segre) (È) . . . . . » Ravagli. Nummuliti oligoceniche di Laverda nel Vicentino (pres. dal Socio De Biel) O ” 193 204 (*) Questa Nota verrà pubblicata in uno dei prossimi fascicoli. XK. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Pubblicazione bimensile. Roma 20 settembre 1508. N » 6. ATA DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO G@ev. 1908 >. bg KBî, Qui) SFLA. RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XVII. — Fascicolo 6° 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 20 settembre 1908. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEI CAV. V. SALVIUGCI 1908 ren ==; ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quarta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi cati al paragrafo precedente, e le Memorie pree priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci 6 da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com. missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra; ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mersa 3 carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCHI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 20 settembre 1908. DS Chimica. — Sull’al/deide p-ossimetilidrocinnamica derivante dai 1-ossimetil-p-fenil-1.2-propilenglicoli stereoisomeri (!). Nota del Corrispondente L. BALBIANO. Nella Nota pubblicata l'anno passato in questi Rendiconti (°), ho de- scritto due nuovi glicoli isomeri CH:30 — CH, — CHOH — CHOH — CH; che si ottengono per ossidazione coll’acetato mercurico dell’anetolo, e dimo- stravo che l’isomeria era geometrica, perchè mediante eterificazione coll’ani- dride acetica e successiva saponificazione, riuscivo a trasformare la modifica- zione del glicole @ fusibile a 62-63°, in quella #? fusibile a 114-115°. Quest’ ultima modificazione, che pare la più stabile, riscaldata con piccola quantità di cloruro di zinco, dà un prodotto di disidratazione che il dott. Pao- lini ed io caratterizzammo come aldeide p-metossidrocinnamica (*), perchè dava la nota reazione Angeli-Rimini, caratteristica delle aldeidi, coll’acido solfinidrossilaminico del Piloty, mentre i punti di fusione dell'ossima, del semicarbazone ed il comportamento all’ossidazione la differenziavano netta- mente dall’isomero 2.p-ossimetil-fenilen-3-propanal CH, CH30 — GH,— CH Ni VE preparata da Bougault. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico-farmaceutico dell’ Università di Roma. (*) Rend. Acc. Lincei, t. XVI, ser. 5°, pag. 477. (*) Atti Acc. Lincei, 1905, 515 e Gazz. chim. ital. 36, 1906, pag. 237. RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 33 — 260 — Nel febbraio dell’anno passato Tiffeneau e Daufresne (') per ebollizione con acido solforico al 20°/, dello stesso glicole 8 ottennero un prodotto di disidratazione C,0H1:0, che considerano invece come anisilchetone CH30 ne? CoH, an) CH, a (0x0) Toe CH; perchè dà un semicarbazone p. f. 182°, mentre il semicarbazone da noi pre- parato fonde a 174-175°. Se i due chimici francesi avessero applicata al loro prodotto la reazione Angeli-Rimini si sarebbero accorti che l’interpretazione da loro escogitata della reazione non regge all'esperienza, perchè il prodotto di disidratazione non è un chetone ma un'aldeide. Ho ripetuto e riferisco in questa Nota una serie di esperienze fatte allo scopo di riconfermare che %/, prodotto di disidratazione dei glicoli derivanti dell'anetolo è un'aldeide ed inoltre ho cercato di dimostrare che questo è l’unico prodotto che si forma. Ho tentato dapprima di ottenere per via sintetica l’aldeide p-metossi- idrocinnamica, per poterla confrontare col mio prodotto di disidratazione, ma ho trovato ostacoli insuperabili nell'esecuzione. Ho preparato perciò l’aldeide p-metossicinnamica condensando, col processo di M. Scholtz ed A. Wiede- mann (°), l'’aldeide anisica coll’acetaldeide in presenza di idrato sodico, ed ho potuto accertare l'esattezza dei loro risultati. Ho verificato la purezza dell'aldeide, oltre che dal p. f. 59°, trasformandola in semicarbazone cristal- lizzato in belle laminette splendenti, leggermente colorate in giallo se si ha dalla soluzione benzolica, invece in begli aghi setacei dall'alcool. È poco so- lubile nell’alcool, nell’etere, nel benzolo e nell’etere acetico; si scioglie bene nell’acido acetico glaciale. Fonde con decomposizione a 202-203° (term. Anschutz) cominciando ad ingiallire a 195°. La determinazione dell'azoto, N°/, 10,12 cale. 19,18, confermò la purezza del prodotto. Se l'aldeide viene idrogenata con zinco ed acido acetico, la reazione si porta anche sul gruppo aldeidico, perchè il composto oleoso che si ottiene, non reagisce più colla semicarbazide, perciò ho tentato di idrogenare l’ace- talio corrispondente, ma tanto col metodo di Fischer ed Erwin Hoffa (*) quanto col metodo di L. Claisen non sono riuscito ad ottenere tale composto. L'aldeide p-metossicinnamica disciolta in 4 p. di alcool metilico anidro con- tenente 1°/, di acido cloridrico, abbandonata alla temperatura ordinaria per 8 a 10 giorni si resinifica e colla distillazione del solvente, anche a bassa temperatura a pressione ridotta, si ottiene soltanto resine peciose e rimane una certa quantità di aldeide inalterata. Lo stesso risultato ho ottenuto col (1) Compt. Rend. Acc. 144, 1907, 1354. () Berl. ber. 36, 1903, 853. (3) Berl. ber. 31, 1898, 1989. — 261 — procedimento di Claisen (*) coll’etere ortoformico, adoperando come catalizza- tore una traccia di acido cloridrico. L'aldeide però dà coll’acido del Piloty, il sale di rame dell’acido idrossamico corrispondente secondo la reazione An- geli-Rimini, ma nello stesso tempo una notevole quantità di aldeide si resi- nifica; infatti 1 gr. mi ha dato circa gr. 0,5 di sale ramico, mentre la teoria sarebbe gr. 1,5. Dalla parte resinosa potei separare col cloridrato di semi- carbazide una piccola quantità di aldeide inalterata. Il sale di rame del- l'acido idrossamico sciolto in acido cloridrico diluito dà colla soluzione di cloruro ferrico la colorazione violetta caratteristica. Fallito il tentativo sintetico ho seguito quantitativamente la reazione Angeli-Rimini sui due prodotti disidratati dei glicoli dell’anetolo. Per mettermi nelle stesse condizioni nelle quali hanno operato Tiffeneau e Daufresne ho ottenuto la disidratazione dei due glicoli mediante ebolli- zione prolungata con soluzione al 20 °/, di acido solforico, ed i risultati ot- tenuti si possono riassumere nelle seguenti conclusioni. 1°. Tanto il glicole @ quanto il f danno come prodotto di disidra- tazione un liquido che distilla, dopo ripetute rettificazioni nel vuoto, a 136- 137° a 10mm., 141-142° a 14 mm.(°). Contemporaneamente si forma da tutti e due i glicoli una piccola quantità, circa 2 gr. da 60 gr. di glicole, di una sostanza bianca cristallizzata in bei prismetti microscopici fus. a 181- 182°, che l’analisi dimostrò essere un isomero del liquido prodotto principale e di cui il peso molecolare determinato crioscopicamente colla soluzione ben- zolica, portò alla formola (C,0H1s0:)? di un dimero. In questo composto la funzione aldeidica è scomparsa, nè l’aggruppamento delle due molecole è avvenuto come nella formazione del benzoino dall’ aldeide benzoica, perchè esso non reagisce colla semicarbazide. Si è indagato, con risultato negativo, se la condensazione fosse avve- nuta con formazione di etere, ma il composto resiste alla saponificazione coll’etilato sodico. Si è escluso parimenti un concatenamento etilenico, con formazione di ossidrili, perchè il composto non assorbe bromo in soluzione acetica, nè da derivati benzoilici mediante la benzoilizzazione col processo Einhorn (*); perciò per esclusione si arriva ad uno schema R—CH — CH, — CH? Î Ì (0) O R= (CH30 Fm CsH, —) ou) I CH.— CH:—CH—R contenente i 2 at. di ossigeno sotto forma di ossido alchilico. 7 prodotti di disidratazione dei due glicoli dell'anetolo sono quindi identici. (!) Berl. ber. 29, 1896, 1005 e 40, 1907, 3903. (*) Nella Memoria citata col dott. Paolini s'era trovato 132-135° a 10 mm. (3) Liebig*s Ann. 301, 95. — 262 — 2°. I semicarbazoni dei due prodotti sono identici, e cristallizzati frazionatamente dall'alcool si dimostrano costituiti dello stesso ed identico prodotto perchè le diverse frazioni mantengono lo stesso p. f. 175-176°. 3°. La reazione Angeli-Rimini coll'acido idrossilamminico del Piloty ha luogo in modo incompleto, perchè una parte dell’aldeide si resinifica col- l'alcali adoperato, come ha luogo nel caso dell’aldeide p-metossicinnamica. Nel residuo, separato il sale di rame dell'acido idrossamico, si può mediante la semicarbazide ricuperare l’aldeide inalterata e questa ha le proprietà del composto primitivo e sottoponendola di nuovo alla reazione Angeli-Rimini coll’acido del Piloty, si ha nuovamente una seconda porzione di sale ramico, resine ed aldeide inalterata, che dà una nuova porzione di semicarbazone p. f. 175-176°, che frazionato per cristallizzazione dell'alcool si dimostra una sostanza unica. Da queste esperienze sono autorizzato a concludere che l'aldeide ottenuta nella disidratazione dei due glicoli è una sostanza unica. 4°. Non ho potuto completare lo studio del sale ramico dell’acido idrossamico per difetto di materiale, perchè all'idrolisi, almeno nelle con- dizioni tentate, si resinifica in gran parte e dei prodotti di decomposizione ho potuto soltanto caratterizzare l'acido anisico ed una sostanza cristallizzata azotata di cui non ho potuto finora stabilire in modo indiscutibile la com- posizione. PARTE SPERIMENTALE. IL Disidratazione del f-glicole dell'anetolo. Gr. 30 circa di 8-glicole fusibile a 114-115° si fanno bollire a rica- dere per 5 ore con gr. 160 di acido solforico al 20 °/,, indi, dopo raffred- damento, si estrae con etere l'olio giallo-rossastro che si è separato. Distil- lato l'etere rimane come residuo un olio che lentamente deposita una piccola quantità di sostanza cristallina, deposito che dopo alcuni giorni è comple- tato. Questa sostanza verrà descritta e studiata in seguito, perchè è identica a quella che si separa nella disidratazione del «-glicole: la quantità di essa è piccola, pesa circa 1 gr. La parte oleosa viene sottoposta alla distil- lazione a pressione ridotta; distilla a 14 mm. in massima parte fra 140-145°, lasciando !/; circa di residuo pecioso nero. Rettificata distilla a 14 mm. fra 141-142° e presenta i caratteri descritti nella mia Memoria col dott. Pao- lini, ai quali posso ora aggiungere che raffreddata a — 15° non presenta indizio di cristallizzazione. All’analisi dette il seguente risultato : Gr. 0,1884 sostanza CO. gr. 0,5024 H,0 gr. 0,1282 Trovato Calcolato per Ci0H1203 C 72,72 73,17 H 7,56 7,92 — 263 — Semicarbazone. Gr. 1 di aldeide dettero gr. 1,22 (teorico 1,24) di com- posto, che cristallizzato frazionatamente dall'alcool presenta in tutte le fra- zioni lo stesso punto di fusione 175-176°. Cristallizza in belle laminette come è stato descritto nella Memoria pubblicata col dott. Paolini. Reazione Angeli-Rimini. Siccome da saggi preliminari si era accertato che la trasformazione dell’aldeide in acido idrossamico col composto idrossil- aminico del Piloty non avviene completa, ma con parziale resinificazione dell'aldeide, mentre una notevole quantità di essa rimane inalterata, si seguì quantitativamente la reazione. Gr. 7 di aldeide, sciolta in alcool assoluto, si addizionò di cm? 66,5 di soluzione doppio normale di idrato potassico, indi si aggiunse tanto alcool assoluto fino ad ottenere soluzione limpida e poco alla volta, agitando e raffreddando gr. 7,35 di acido del Piloty. La soluzione assume color giallo- rosso che va man mano aumentando d'intensità; dopo 24 ore si distilla l'alcool a b. m.; si separa unolio giallo-rosso che viene estratto con etere. La soluzione eterea lascia alla distillazione un olio che pesa gr. 4,5. La parte acquosa alcalina viene scaldata a b. m. per eliminare l'etere, indi filtrata da un po’ di sostanza resinosa e resa leggermente acida con acido acetico, viene trattata con leggero eccesso di soluzione satura a freddo di acetato ramico. Si produce subito un precipitato fioccoso di color verde bottiglia che poco a poco diventa polverulento. Dopo 24 ore si filtra. Si lava prima con acqua fredda, indi con alcool ed infine con etere, solventi nei quali è quasi insolubile ('); si dissecca nel vuoto sull’acido solforico. Il peso del sale è di gr. 1,8. L’olio estratto con etere si distilla a pressione ridotta; la maggior parte distilla a 10 mm. verso i 140°, ma durante la distillazione succede decom- posizione, perchè il liquido passa lattiginoso per acqua che distilla. La parte distillata, dopo che si è chiarificata col riposo e filtrata per filtro asciutto, raffreddata a — 15° si conserva liquida e pesa gr. 2,8. Su di essa si ripetè l’azione dell'acido solfoidrossilaminico di Piloty, nelle stesse condizioni su descritte; si potè avere altri gr. 0,7 di sale ra- mico dell'acido idrossamico e rimase per distillazione dell’etere un residuo oleoso pesante gr. 1,8 che venne lavorato con semicarbazide. Le due porzioni di sale ramico riunite vennero analizzate col seguente risultato: Gr. 0,2311 di sale disseccato nel vuoto sull’acido solforico dettero gr. 0,0668 di CuO. Giova avvertire che anche con riscaldamento lento non si evita la deflagrazione. (1) Il composto può dirsi praticamente insolubile, tuttavia le acque di lavaggio danno la caratteristica colorazione violetta col cloruro ferrico. — 264 — Gr. 0,2375 sostanza dettero cm? 11,38 di azoto a 23° ed alla pressione ri- dotta a 0° di mm. 758. Trovato Calcolato per CioHi1NO;Cn Cn °/ 28,09 24,77 N°/ 0,98 0,46 Traccia minima di detto sale sciolto in acido cloridrico diluito dà col cloruro ferrico intensa colorazione viola. Il semicarbazone ottenuto dalla parte oleosa ultima, depurato per cri- stallizzazione dall'alcool, cristallizza in belle laminette splendenti che fon- dono a 175° (term. Anschutz); il suo peso ascende a gr. 1,6. Dalla esperienza descritta si deduce quindi che da gr. 7 di C,0H120», anidride del glicole dell’anetolo CH:0-C;H,-CHOH-CHOH-CH; si ottenne gr. 2,5 di sale ramico dell'acido idrossamico corrispondenti a gr. 1,59 di anidride, ma l’ottenere nel secondo trattamento coll’acido del Piloty il sale ramico dell'acido idrossamico e nella parte inattaccata il semicarbazone colle stesse proprietà che ha quello del composto primitivo mi autorizza a con- cludere che il prodotto C.0H,20, di disidratazione del glicole è una so- stanza unica ed è un’aldeide perchè dà il composto idrossamico che un chetone come pretendono i sigg. Tiffenau e Daufresne non potrebbe dare e difatti non dà effettivamente come ho dimostrato nella Nota: Suz 7-0sst- metil-p-fenil 1,2-propilenglicoli stereoisomeri ('). Un'altra esperienza fatta nelle stesse condizioni dette il seguente ri- sultato. Gr. 6,43 di aldeide lavorata coll’acido del Piloty dettero gr. 1,18 di sale ramico corrispondente a gr. 0,74 di aldeide e dal residuo etereo si ot- tenne, col cloridrato di semicarbazide, gr. 3,8 di semicarbazone fus. a 175° corrispondente a gr. 2,45 di aldeide inalterata. II. Disidratazione del a-glicole dell'anetolo. Gr. 60 circa di glicole fusibile a 62-63° si sciolgono a caldo in gr. 200 di acido solforico al 20°/, e si fanno bollire a ricadere per 6 ore, indi, dopo raffreddamento, si estrae l’olio giallo separatosi con etere. Il residuo della distillazione dell'etere è un olio giallo, pesante circa gr. 53, che col riposo alla temperatura ordinaria lascia depositare una piccola quantità di sostanza cristallizzata. L'olio si lasciò per qualche giorno alla temperatura dell'ambiente, 10-15°, fino a che il deposito cristallino fosse completato, indi decantato, si sottopose alla distillazione frazionata a pressione ridotta. (1) Rend. Lincei, 1907, 478.. — 265 — La quantità di sostanza cristallina ammonta a circa gr. 2 e verrà in seguito descritta. La parte oleosa distilla a 27 mm. in massima parte fra 150-156°, la- sciando una certa quantità, circa !/, di residuo pecioso nero. Sottoposta a ripetute rettificazioni si raccoglie in massima parte in una porzione bollente a 10 mm. fra 136-137°, che si presenta in un liquido leggermente giallo- gnolo di un debole odore aromatico; raffreddato a — 15° si conserva liquido e non accenna a cristallizzare. All’analisi dette il seguente risultato : Gr. 0,2574 sostanza dettero CO, gr. 0,686 — H,0 gr. 0,1732. Trovato Calcolato per CioHis0 C 72,69 73,17 H 7,47 î 17,82 Semicarbazone. Gr. 1,67 della sostanza dettero gr. 2,1 di semicarba- zone (teorico gr. 2,25), che ricristallizzato ripetutamente e frazionato dall’al- cool, presenta in tutte le frazioni lo stesso punto di fusione di 174-176°, il che unito agli altri fatti che descriverò in seguito, serve a dimostrare l'omogeneità della sostanza. Il semicarbazone cristallizza in belle laminette splendenti che fondono a 175-176° (term. Anschutz) ed all'analisi dette il seguente risultato: Gr. 0,2328 sostanza disseccata nel vuoto su acido solforico dettero cm? 38 di azoto a 18° e 768 mm. a 0°. Trovato Calcolato per Ci1H15Ns0: N di 19,05 19,00 Reazione Angeli-Rimini. Riassumo per brevità i dati sperimentali, ri- mandando per il dettaglio dell'esperienze a quanto ho scritto per il 8-glicole. Gr. 25 di aldeide proveniente dal a-glicole dettero gr. 5,7 di sale ra- mico dell'acido idrossamico corrispondenti a gr. 3,6 di aldeide; dall'estratto etereo, lavorato con cloridrato, di semicarbazide si ottennero gr. 16,65 di semicarbazone corrispondenti a gr. 9,05 di aldeide. Il semicarbazone si cri- stallizzò frazionatamente dall'alcool e delle diverse frazioni si determinò il punto di fusione, che si constatò sempre di 175-176° (term. Anschutz) per ogni frazione. Le diverse frazioni riunite si idrolizzarono per riscaldamento a 100° in autoclave con acido cloridico diluito; l'aldeide rimessa in libertà distilla a 11 mm. fra 140-141° e raffreddata a — 15° di conserva limpida e non accenna a cristallizzazione. Gr. 7,8 di quest’aldeide ricuperata, dettero per trattamento coll’acido del Piloty, gr. 1,8 di sale ramico dell'acido idrossamico corrispondenti a gr. 0,84 di aldeide e gr. 4,73 di semicarbazone corrispondenti a gr. 3,5 di — 266 — aldeide. Il semicarbazone cristallizzato dall'alcool ha il punto fusione 175- 176° (term. Anschutz). Le due porzioni di sale ramico riunite dettoro all'analisi dell'azoto il seguente risultato : Gr. 0,2828 sostanza disseccata nel vuoto su acido solforico dettero cm? 14,5 di azoto a 23° e 761 mm. a 0°. Trovato Calcolato NO 000577 5,46 Da queste esperienze risulta evidente che il composto Ci0H1:0, ottenuto per disidratazione del f-glicole dell’anetolo è un a/deide ed è un composto unico identico a quello risultante dalla disidratazione dell’a-glicole. III. Idrolisi del sale di rame dell’acido idrossamico. Ho tentato di idrolizzare in diverse condizioni questo sale di rame, ma finora non sono riuscito a caratterizzare tutti i composti che contemporanea- mente si formano. Oltre a grandi quantità di resine si produce una piccola quantità di acido anisico che ho caratterizzato colla combustione e col punto di fusione. L'acido non era completamente depurato perchè era un po’ colo- rato; fondeva fra 181-182°, mentre l'acido anisico puro fonde a 184° e dava all'analisi: Trovato Calcolato per CsHs0s C°% 62,18 63,12 HROS 5,62 5,26 Accompagna l’acido anisico una piccola quantità di sostanza contenente azoto, cristallizzata in belle lamine splendenti fondenti verso i 150°, la cui composizione corrisponde alla formola C:HyNO0:. Trovato Calcolato C 46,00 45,85 H 4,79 4,45 N 8,69 8,91 Sulla funzione e costituzione di essa non posso per ora fare alcuna con- siderazione. — 267 — INA Polimero dell’aldeide C,oHis0s. Le due frazioni di composto cristallizzato che si sono deposte dalle al- deidi gregge provenienti dalla disidratazione dei due glicoli dell’anetolo, pre- sentano lo stesso punto di fusione 178-180°, quindi vennero riunite e ricri- stallizzato ripetute volte dall’alcool assoluto bollente, fino a costanza del punto di fusione. La sostanza pura cristallizza in bei prismetti microscopici, bianchi; inso- lubile nell'acqua, poco solubile nell’alcool bollente e pochissimo nel freddo; è abbastanza solubile nel benzolo freddo {circa 2 °/,), di più nel benzolo bol- lente. Fonde senza decomporsi a 181-182° (term. Auschutz). L'analisi dette ii seguente risultato: I Sostanza gr. 0,1983 CO» gr. 0,5284 H,0 gr. 0,1342 Il _ » » 0,1439 n n 0,3826 » » 0,0989 Trovato Calcolato per C10H120a I II C 72,67 72,51 È 73,17 H 7,51 7,69 7,32 La determinazione crioscopica del peso molecolare nel benzolo dette il seguente risultato : Trovato Calcolato per (C10H:203)? Conc. 1,68 Ab. term. 0°,25 P.M. 336 328 Di confronto si fece una determinazione crioscopica nel benzolo del peso molecolare dell’aldeide derivante dall’a-glicole: Trovato Calcolato per Cio H130: Conc. 2,944 Ab. term. 0°,90 P. M. 163 164 Per dimostrare se il modo di concatenamento delle due molecole fosse avvenuto come pel benzoino dall’aldeide benzoica R— CH, — CH, co pg 0 CHOE uan i H Gr) Hi Ig R—CH.,T—- CH, 0 R = (CH30-CsH, —) RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 94 — 268 — si sospesero gr. 0,75 del polimero in 80 a 35 gr. di alcool a 95 °/ e si addizionarono di una soluzione acquosa concentrata di gr. 0,25 di clo- ridrato di semicarbazide e gr. 0,25 di acetato potassico, indi si fece bollire a ricadere il tutto fino a soluzione completa. Col raffreddamento cristalliz- zarono gr. 0,65 di sostanza inalterata che fonde a 180-181° ed un’altra pic- cola quantità, presentante lo stesso punto di fusione, si ricava dalle acque madri. Il concatenamento rappresentato dallo schema: H R Ch, CH, Cd (ih dib-=00 No x 0 Quote cn Î RSA, ‘4 GR ie cis XE è escluso perchè gr. 0,5 di composto fatti bollire per 4 a 6 ore con 20 0 25 em di alcool assoluto addizionato di un leggero eccesso di etilato sodico, non vengono alterati per niente e si riottiene nella stessa quantità il com- posto primitivo collo stesso p. f. 180-181°. Un concatenamento che dia origine a nuclei aliciclici con formazione di ossidrili o a legami etilenici, come sarebbero quelli rappresentati dagli schemi: 0 R_MaleScni 4 \H 0 R_MeSicH, — c/ Ni ZA > RT CH,—-CHH—CT-0H RT_—CH—T— CH, CH—0H | | | R—T— CH. CH, CT 0H RT—CH— CH, CH 0H non venne confermato dall’esperienza. Il dimero in soluzione acetica non assorbe bromo, e un tentativo di benzoilizzazione col metodo Einhorn ha dato risultato negativo. Gr. 0,85 di composto disciolti in cm* 9 di piridina a blando calore, indi addizionati di gr. 0,73 di cloruro di benzoile, dettero col raffreddamento deposito di sostanza cristallina, che ridisciolta nuovamente col calore, si abbandonò per 20 ore alla temperatura ordinaria. Si ridisciolse col calore i cristalli depositatosi e la soluzione limpida si versò in eccesso di acido solforico al 20°/,. Si precipitò una sostanza bianca fioccosa che raccolta su filtro e lavata con acqua, si fece digerire a freddo con soluzione di bicar- — 269 — bonato di sodio in eccesso. Si lavò in seguito il residuo insolubile con acqua, si asciugò su carta e si disseccò nel vuoto sull’acido solforico. Il peso di essa è gr. 0,83; fonde a 181-182° ed all'analisi dette: Trovato Calcolato (0; 12,72 73,17 H 7,98 71,92 Il che dimostra essere la sostanza primitiva inalterata. Per esclusione si deve ritenere che i due atomi di ossigeno del dimero dell’aldeide siano sotto forma di ossido alchilico come ad es. nello schema: 0 PESCH S'eHi 4 R— CH — CH.—CH NE È D) } 2 (0) pro | C{— CH, — CH, — R CH, — CH, —CH—R H Matematica. — Ze varietà con tre dimensioni che ammettono per l'equazione del Laplace l'integrale F(a,, x) f(&s). Nota di F. A. DaLL’Acqua, presentata dal Corrispondente Levi-UIviTA. Argomento di questa Nota è una generalizzazione di un notissimo pro- blema di Lamè (*), e può enunciarsi così: « Determinare l'elemento lineare di una varietà con tre dimensioni in « guisa che l'equazione del Laplace ammetta un integrale della forma «F(&1, 2) f(3), dove F contiene due ed / una costante, arbitrarie e non « moltiplicative ». Qui ed in seguito, sempre, indico con lettere latine maiuscole le fun- zioni indipendenti da #3, con lettere latine minuscole quelle indipendenti da x:,%> (2), con lettere greche tutte le altre. I risultamenti cui giungo sono i seguenti, abbastanza semplici: « Esistono due tipi per il quadrato dell'elemento lineare della varietà « cercata, tipi che si possono scrivere rispettivamente 2 ds = DE; (GAnk + rBnk + SC) dan da | + (DH dx3)? S 2 dst=21), Andando + (4B das) I b) « dove H? è il discriminante della forma racchiusa entro parentesi quadra. (1) Cfr. Darboux, Zegons sur les Systèmes orthogonaua et les Coordonnées curvi lignes. Paris, 1898, L. II, C. III, $ 121 e segg. (3) Eccezion fatta per i coefficienti 4,s del quadrato dell’elemento lineare. — 270 — « È notevole che nell’uno e nell’altro caso le superfici 23 = cost sono « ortogonali alle x,= cost, za = cost, e costituiscono una famiglia iso- « terma ». 1. Cominciamo dal considerare v% portata delle nostre ipotesi. La funzione /(43) contiene una costante arbitraria n0n moltiplicativa: dlog f dI , che avrà perciò essa pure un grado di 3 quindi la conterrà anche la arbitrarietà. Analogamente la F(x,,s) contiene due costanti arbitrarie non molti- plicative: le conterranno quindi le DEE ; iogi dI dI 2 quindi considerarsi arbitrarii e — ammetteremo anche — indipendenti. La funzione F(x,,%2)./(3) deve sodisfare l'equazione del Laplace. Avremo dunque in coordinate generali (indicando con apici le derivazioni rispetto ad 3) , i cui valori potranno {Fa + f! Da — a” + FA n | DE # a a 4 > 2° Aaa 0 dAh dI Lili = Se facciamo in questa x, 6 4» costanti (possiamo senza ledere la gene- ralità porre x,=z2=0) la (A) assume la forma: /"+fp+fqg=0, o scegliendo opportunamente il parametro 43 f+fa=0. Per questa la (A) si riduce a contenere solo la /' e la 7, o meglio la d log f das valore di questa derivata. Essa quindi si scinderà nelle due , e per l'osservazione fatta sopra dovrà essere soddisfatta per ogni 2 (8) >, 3 am + FAm—0 2 d°F (0) Tomi dn dXCK dF arm 4 DI % At — Fga®®=0. Queste pure, per l’osservazione già fatta, devono essere soddisfatte per ogni 5 log F 5 3 log F dI: dI (1) aid=0 0, a*®=0 AX%3= 0. 2 valore di . La (B) si scinderà quindi alla sua volta nelle — 271 — Quindi le superficie #3 = cost sono ortogonali alle x,1= cost, za = così, e costituiscono una famiglia isoterma. La Ax3=0 sviluppata e integrata dì immediatamente 2 (2) a ya en) 2. Poniamo per comodità (3) acida DD, ap DI Sarà allora Uras = 099 Va (Apr 12) Porremo anche G Da da da sg a=laAa=_, + 4 4 = = ( ) E Vane dA dI DEAI dI e talvolta scriveremo anche (047 i qD 3 Faremo inoltre (Cp _PAE (Ce, = dx, (h0= cost). Con queste posizioni la (C) assume la forma d°F CINE Cn4k + DA rrigie IC =0. È poi ovvia la forma che assumerebbero le equazioni che si traggono da questa per z3= 0 e per 23= ho. Queste tre equazioni — se indichiamo con Ayy il determinante OLIO 0, A, As Ai B, Bs B; — sì possono facilmente risolvere sispetto alle derivate seconde di F (purchè A334=* 0). Avremo d°F F VANTA su dF Ass dDF A6s dai A234 dA A234 dd A234 d°F — pie dF As54 dF As (0) pr Are DI Are dI Aa dI1 dC D234 dI A234 = dle A234 d°F ZA Mi dF A235 0 dF DL 236 EA A234 dA: A234 ,, dle A 334 I primi membri di queste sono indipendenti da «3: dovranno quindi essere — 272 — tali i secondi membri, e tali quindi — per la osservazione già ricordata — i coefficienti della F e delle sue derivate. La condizione trovata, per i coefficienti di una delle tre equazioni, si scrive (sviluppando i determinanti A) 4 4 4 (5) a, == Da enbn: ; desi Di, cenQn ; SY nn © 2 2 2 per i coefficienti delle altre due essa è allora identicamente sodisfatta. Infatti, se insieme con le (5) consideriamo quelle che se ne ottengono facen- dovi una volta 23=0 e una volta #3 = /, otteniamo le colonne di indice 1,5,6 (nei determinanti A) espresse linearmente per le colonne di indice 2,3,4. Se le colonne 1,5,6 si sostituiscono, nei A che le contengono, con tali espressioni, si vede facilmente che le P rappresentano i coefficienti di F, le Q i coefficienti di DI le R i coefficienti di i, nelle (0°). dI dI ZA Tali coefficienti riescono quindi indipendenti da 43, come avevamo asserito. 38. Ritorniamo alle equazioni (5). Le due ultime, ricordando le (4), fa- cilmente si scrivono: dA3 d des dA3 _ 4 = 5' do a 5 1 Qua Ri. (5)) dai Y da, Da n dar der: Da Me Queste evidentemente ammettono dei sistemi di integrali indipendenti da x3. Indicandone tre. linearmente indipendenti (*), con on=Ln , a=M , on= Na (h=2,3,4) sarà pure un sistema integrale on= Ly + rM, + sN (h=2,3,4). Queste dovranno soddisfare la prima delle (5) 4 qD= DI an Pn; e quelle che se ne traggono per derivazione rispetto ad %3. È facile rico- noscere allora che deve essere (p. es.) {= 9g e 4. (6) DI, M, Pn 2 e seg=*0 | 4 (ORIREE Da Ni Pan0, (1) Che essi esistano si vede facilmente, ricordando noti teoremi di Calcolo. Si sa infatti che scelto 4 ad arbitrio ci sono due soli integrali «s(21, e), cs(01, 2) del si- stema (5°), che per 21 = 4109 si riducono a due funzioni prefissate u(x2) , 0x2). L'arbi- trarietà poi di @,,v,v assicura che il determinante || L, Ma N; |] è diverso da zero per x1= 169 e quindi per valori di 4, che si scostino abbastanza poco da' questo. — 273 — Queste sono sempre possibili per opportuni valori delle P. Queste, e queste soltanto, se le P sono diverse da zero ('). Quindi non esiste in tal caso un sistema integrale del tipo trovato,, con più di 3 termini. È poi facile riconoscere che questo sistema integrale trinomio (per P.,,P:,P, non tutte nulle) è il più generale possibile (?). Abbiamo così finalmente, ricordando le (3) e le (1), (2), e scrivendo Ank, Br Ca in luogo di L,D, M,D, N,D (i simboli con due indici sono simmetrici) e 1:D in luogo di D: | Gan = 9Ann + Ban + 84m (0 =I02)5 (Ge=0 ,, da =0 , a33 = D?(411 4208 — dî2) (7) 4fEd'ora veniamo al'casi esclusi: 1°. P.=iPi—=P,=05:29 Ass =0 ammettendo però che la matrice Co 3 4 Ao Az Au non sia identicamente nulla. Allora, al più scegliendo opportunamente la costante X,, non sarà identicamente nulla neppure la matrice Ag Az Au =M. Bi Bi B} Siano intanto nulle le P. Ricordando il loro significato, si ha tosto A134 = Az4= 4231 = 0. L'ultima, introducendo due indeterminate 4 e w, si scrive (8) an = ZA, + uBa dove 4=1,2,3. Le altre due, ricordando che la matrice M non è iden- ticamente nulla, mostrano che la (8) vale anche per #=4 e che è quindi A234=0. Basta dunque considerare il caso As4="0: le (C') (prima della divi- sione ivi effettuata per Az34) portano allora, per l'osservazione più volte ricordata, che siano nulli tutti i A che in esse compaiono. Come nel caso delle P nulle, varranno le (8), e varranno per ogni indice % da 1 a 6. Eli- (1) Invero un quarto integrale @n = T, dovrebbe soddisfare ad una equazione del tipo (6). Il determinante del sistema (6) così completato dovrebbe esser nullo, e quindi le T linearmente dipendenti dalle M e dalle N. L’integrale conserva quindi la sua forma an =QLn + rMx+4 sN. (3) Lo si vede p. es. facilmente, supponendo il sistema integr. gen. sviluppabile in | serie di potenze di xs. — 274 — minando fra queste e le (4) le @, si ottiene A=#,u= ('), e con sem- plici modificazioni formali A=qg,wu=7r. Abbiamo così un caso particolare delle (7) (s= 0). 5. E finalmente esaminiamo l’ultimo caso: la matrice ACWAGUAI, k 43 A è identicamente nulla. Se ne trae DA, (0=9,8,4) Allora tutti i A risultano nulli, e le (C’) identicamente sodisfatte. I coefficienti del quadrato dell'elemento lineare assumono la forma (cessi al52) Cs MATA gigi — G330— 00M AB dove abbiamo indicato con B* l’espressione positiva (A,1 Az» — Aîa): D°, è con 4 una funzione completamente arbitraria. Fisica. — .Su un rivelatore di onde elettriche. Nota di L. TIERI e U. CIALDEA, presentata dal Socio P. BLASERNA. Una goccia di mercurio m (vedi fig.) comunica col polo negativo di una pila Warren de la Rue, il polo positivo della quale è in comunicazione con un sottilissimo ago da cucire a. La superficie libera s del mercurio è ricoperta da uno strato di liquido cattivo conduttore purissimo e assolutamente anidro. Per mezzo di un congegno micrometrico al quale l'ago è rigidamente connesso, si sposta l'ago in modo che venga a sfiorare appena il menisco di mer- TT curio. Tale apparecchio è pronto per rivelare la su presenza di onde elettroma gnetiche quando un milli- amperometro s inserito nel circuito accusa il pas- saggio di una corrente di due o tre milli-ampère. Anche un telefono % inserito nel circuito ci accusa per mezzo di un soffio quando l'apparecchio è al ; suo massimo di sensibilità. In tali condizioni esso rivela le onde generate da un campanello elettrico a circuito chiuso posto alla distanza di circa otto metri, purchè si abbia l'av- vertenza di adoperare del mercurio purissimo e l'ago con punta pulita. (1) Si ottengono quattro equazioni lineari omogenee nelle derivate prime di 4 e w rispetto a x: e 2. Il determinante del sistema non è identicamente nullo, come si vede p. es. se si prende ho tale che (9)x,=n = 0 — 275 — A prima vista potrebbe sembrare che tale rivelatore fosse simile al coe- sore Castelli, però differisce sostanzialmente da esso, essendo indispensabile la presenza del liquido cattivo conduttore fra la punta di acciaio e il me- nisco di mercurio. Ne è da confondersi con l’autodecoesore Lodge, poichè in questo non vi è contatto fra la ruota girante di acciaio a orlo tagliente e il mercurio, a causa del velo d’olio che ricopre il taglio della ruota stessa. Da un grossolano esame microscopico ci sembra di poter dire quale sia il funzionamento del nostro rivelatore di onde e quale sia la causa che de- termina in esso la decoesione. Quando è al suo massimo di sensibilità ab- biamo notato che delle bollicine di vapore si formano all'estrema punta del- l'ago, e molto probabilmente è la formazione del vapore che determina la decoesione. Quando le onde arrivano, viene alterato il contatto fra la punta di acciaio e il menisco del mercurio, contatto che viene. subito modificato «dalla formazione del vapore. Un altro elemento che fa sembrar giusta la precedente spiegazione, va ricercato nel liquido che si adopera. I liquidi da noi adoperati furono etere, solfuro di carbonio, acetone, cloroformio, alcool, benzolo, acqua distillata, to- luolo, benzina, olio di trementina, anilina e glicerina. Ed abbiamo notato che, disponendo le cose come in figura, con liquidi aventi il punto di ebollizione basso il funzionamento del rivelatore è ottimo, mentre funziona male o non fanziona affatto con liquidi aventi il purito di ebollizione elevato. Però, au- mentando e regolando opportunamente l’intensità della corrente, anche con questi ultimi liquidi alle volte l'apparecchio funziona. Quanto all'uso dei- l'apparecchio per recezioni radiotelegrafiche bisogna notare che esso sarebbe per sensibilità preferibile a quelli già noti, se non presentasse l'inconveniente della poca stabilità. Siccome la punta dell'ago deve avere quella determinata posizione rispetto al mercurio, perchè sia soddisfacente il funzionamento del rivelatore, ne viene che quando la detta posizione varia, o è troppo intensa la corrente che passa pel circuito, o la corrente non passa affatto : nè nel- l’uno nè nell'altro di questi casi l'apparecchio è sensibile. Un leggero urto può essere la causa che ciò determina. Malgrado questo inconveniente esso ci servì per ricevere dei radiotelegrammi e dei radiofonogrammi alla distanza di circa cinque chilometri. RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 95 — 276 — Chimica. — Za determinazione elettrolitica del Tallio, e la probabile esistenza di un nuovo ossido di questo metallo (*). Nota di G. GaLLO e G. CENNI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Il dosamento del tallio presenta delle serie difficoltà basate principal- mente sulla incompleta insolubilità della massima parte dei suoi sali, e sulla facile volatilità delle sue combinazioni, che non possono per conseguenza ve- nire calcinate, senza che non subiscano una rilevante perdita di peso. Si è quindi costretti a pesare i precipitati o in filtri tarati o in crogiuoli di Gooch. I metodi di dosaggio per pesata sono fondati principalmente sull'insolubilità dell'ioduro e del cloroplatinato di tallio. Il processo all’ioduro (*), che è il più comunemente usato, è lungi dal- l'essere rigoroso, perchè una piccola porzione dell’ioduro si discioglie sempre verso la fine del lavaggio, nonostante che si impieghi, come liquido di lavaggio, una soluzione di ioduro potassico ed alcool. Il cloroplatinato ha il grave in- conveniente di non essere trattenuto bene dal filtro. I metodi volumetrici sono altrettanto lunghi ed incerti, perchè sì procede sempre per via indiretta, e non sono certo raccomandabili per determinazioni rigorose. I tentativi di deporre il tallio per via elettrolitica non mancano nella letteratura, sebbene anche questa via presenti delle difficoltà, inerenti al fatto che il tallio ha la tendenza a separarsi dalle soluzioni dei suoi sali per azione della corrente elettrica, in parte allo stato metallico al catodo, ed in parte allo stato di ossido all’anodo; non riesce difficile però, mediante l’im- piego di soluzioni convenienti, impedire del tutto il deposito di ossido al- l'anodo : ed è opportuno ricordare, a tale proposito (*), che, in presenza di eccesso di ossalato ammonico, si può da una soluzione neutra di solfato tal- loso separare tutto il tallio al catodo allo stato metallico; se non che, appena in contatto dell’aria (analogamente al piombo metallico deposto elet- troliticamente), esso si ossida con estrema rapidità, ed il lavaggio, l’essicca- mento e la pesata riescono impossibili. Per girare la difficoltà il Neumann (‘) ha proposto di trattare il deposito elettrolitico, fuori del contatto dell’aria, con acido cloridrico, e di dedurre dal volume dell'idrogeno svolto, il peso del (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di chimica applicata ai materiali da costruzione della R. Scuola ingegneri di Roma. (3) Baubigny. Compt. Rend. 1891, 113, 544. (*) Classen, Quant. chem. Anal. durch Electr. 1902, pag. 90. (*) Berich. Deuts. chem. Gesetl. XXI, pag. 356. — 277 — metallo. Ma questo metodo, che esige apparecchi di maneggio complicato, è poco pratico, e non facile ad eseguirsi. Collo scopo di conoscere più da vicino la strana fisonomia di questo elemento, e colla speranza di poter arrivare con un metodo già adottato da uno di noi (*) per il tellurio e l’iodio ad una verifica del peso atomico del tallio, approffittammo della cortese offerta fattaci dal sig. ing. E. Clerici del R. Ministero di agricoltura, industria e commercio, di circa 400 gr. di cloruro di tallio puro, per iniziare i nostri studî in proposito. Diciamo subito che i numerosi tentativi da noi fatti di deporre il tallio allo stato metallico in condizioni tali da poterlo lavare e pesare, andarono completamente falliti; ragione per cui, abbandonando decisamente questa via, ci occupammo di arrivare alla determinazione elettrolitica del tallio me- diante la sua separazione allo stato di ossido all’anodo. Nella letteratura esistono alcune notizie intorno alla determinazione del tallio allo stato d'ossido mediante precipitazione anodica. Così lo Schucht (?) riferisce che da una soluzione nitrica il tallio può venire deposto o solo allo stato di sesquiossido, o in piccola parte allo stato metallico, e che questo ossido dopo arroventamento può venire pesato allo stato di T10(?). Neu- mann (°) aggiunge però, citando le asserzioni di Schucht, che questa sepa- razione non è applicabile per una determinazione quantitativa. Un solo studio particolare sulla deposizione anodica del tallio, e di cui noi venimmo a cono- scenza solo quando si era già arrivati a risultati soddisfacenti col nostro metodo, venne pubblicato nel 1903 dal dott. E. Heiberg dell’Università di Kopenhagen (4). L'Heiberg propone di operare nel seguente modo: Si sciol- gono gr. 0,2-1 di solfato talloso in 80-100 cc. di acqua in capsula di pla- tino; si aggiungono da 2-6cc. di acido solforico normale, e 5-10 cc. di acetone; si mantiene la temperatura a 50-55° e si elettrolizza alla tensione di 1,7-2,8 Volts, e con un'intensità di corrente (di cui non specifica la densità) di 0,02, 0,05 Ampère. L'operazione dura molto a lungo, ed è neces- sario mantenere il liquido nell'interno della capsula a livello costante, altri- menti, la parte di ossido deposto che può rimanere scoperta, all'aggiunta di nuova acqua, si stacca sotto forma di piccole scaglie, che vengono a galleg- giare nel liquido. Secondo l’Heiberg, il peso dell'ossido deposto diminuisce dapprima me- diante l’essiccamento, e questo avviene nei primi 40 minuti; in seguito invece aumenta, e l’Heiberg ammette che questo aumento sia dovuto al- l’azione dei prodotti della combustione del gas impiegato per riscaldare la (1) G. Gallo, Gazz. chim. ital., t. XXXV, p. II, 1905. (*) Zeitschr. analyt. Chem. 22 (1883) 490. (*) Theorie und Praxis der analyt. Elektr. 1897, pag. 154. (*) Zeitschr. fùr anorg. Chem. 35, pag. 347. — 278 — stufa, e principalmente all'anidride solforosa, benchè Werther (') sia invece di opinione che si tratti dell’azione di anidride carbonica. Il migliore risul- tato si ottiene conservando la capsula in istufa a 160° per circa 20 minuti. Il per cento di tallio calcolato era di 80,95; l’Heiberg trova in tre deter- minazioni 81,22 °/,, 81,29°/ e 81,14°/: vale a dire, e questo c'interessa di far rilevare, dei risultati sempre superiori al teorico. Il cloruro di tallio a nostra disposizioae, venne trasformato in solfato talloso, ed accuratamente purificato con ripetute cristallizzazioni. La compo- sizione di solfato talloso puro venne stabilita mediante la determinazione del tallio allo stato di ioduro (?) e quella dell’acido solforico. Calcolato per Tla SO Trovato Ti 0A =" Ti) = SO SO, dh == 15,87 SO; A = 15,79 Dopo varî tentativi, noi trovammo che la deposizione dell’ossido di tallio all’anodo per via elettrolitica, può venire eseguita molto semplicemente nel seguente modo: Si discioglie una quantità nota del solfato talloso puro nella capsula di Classen in circa 100 cc. di acqua distillata; si aggiungono circa 10 centigr. di acido ossalico per rendere debolmente acida la soluzione, e si elettrolizza alla temperatura ordinaria impiegando come elettrodo nega- tivo un disco di platino, mantenuto in rotazione per mezzo di una turbina ad acqua, o un motorino elettrico. Il disco deve compiere circa 800 giri al minuto, ed in queste condizioni viene evitato completamente il deposito di tallio metallico al catodo. La differenza di potenziale agli elettrodi deve essere di 3-4 Volts, con una densità N di corrente = 0,15-0,20 Ampères. Dopo un'ora circa dall'inizio dell’elettrolisi, incomincia a deporsi all'anodo una sostanza bruna con riflessi bluastri che va acquistando successivamente un colore nero vellutato. La disposizione molto semplice permette di impiegare una quantità anche rilevante di solfato di tallio, protraendo convenientemente l'elettrolisi, anche durante la notte. Il metodo migliore per riconoscere la fine dell'elet- trolisi consiste nell’aggiungere un po’ d’acqua nella capsula, in modo da aumentare il livello del liquido, al di sopra del deposito, e si continua per ‘/s ora l’azione della corrente; se non si depositano traccie di ossido sulla superficie pulita della capsula, l'operazione si può considerare come termi- nata. Questo processo è molto sensibile, e permette di svelare traccie di tallio in soluzione anche quando l’ioduro potassico, che è pure un reattivo così sensibile per i sali tallosi, non dia alcuna opalescenza con 2 o 3 cc. del liquido. Si lava quindi il deposito con acqua per decantazione, poi con alcool e con etere. (1) Journal prakt. chem. 91, pag. 1522. (*) Bambigny, loc. cit. Dogg — Il deposito così ottenuto è aderente, compatto, di un bel colore nero splen- dente, e si può lavare ripetutamente senza pericolo alcuno di perdite, per distacco di parte dell’ossido deposto. Senonchè quanto semplice ed elegante è la condotta dell'operazione fino ad ottenere il deposito elettrolitico dell’ossido, altrettanto difficile si presenta il trattamento ulteriore di quello, durante l’essiccamento e la pesata. Già abbiamo detto che 1’ Heiberg aveva notato che durante l’essicca- mento in istufa della capsula, si osservava dapprima una diminuzione di peso corrispondente alla perdita di traccie di acqua trattenuta meccanica- mente, ed in seguito invece un aumento di peso che venne attribuito da alcuni all’azione di anidride solforosa, da altri all’azione della anidride car- bonica proveniente dai prodotti della combustione del gas. Però anche la quantità d’ossido determinato al momento della minima pesata, forniva sempre numeri superiori alla quantità teorica. Oltre a ciò il Rabe in quattro Memorie pubblicate l’anno scorso e quest'anno (') intorno agli ossidi di tallio, dimostra con numerose determinazioni che l'aumento di peso è dovuto all’assorbimento di anidride solforosa, che trasforma in parte il T1, 03 in solfato di tallio. Infine tutti i trattati (Moissan, Abbegg, Dammer, Muspratt's ecc.) rife- riscono uniformemente le osservazioni fatte già a questo proposito dal Crookes, Botger (*) e Lamy e Wilm (8) e che cioè per ossidazione elettrolitica di soluzioni di solfato o di nitrato di tallio, parte del metallo si deposita all'anodo, secondo alcuni allo stato di Tl, 0, anidro, secondo altri allo stato di Tl,0,, H.0, che si può disidratare completamente alla temperatura di 110-115, ma che a questa disidratazione corrisponde una leggera riduzione in Tls 0, riduzione che verrebbe però compensata da un assorbimento di anidride carbonica (*). Ognuno vede però che è molto elastico ritenere che la perdita dovuta alla ‘ formazione di T1, 0 venga compensata esattamente dall’assorbimento di ani- dride carbonica senza notare poi che, come ha dimostrato il Rabe(*), la ri- duzione ad ossido talloso non ha luogo per riscaldamento (perchè il Tl, 0; può volatilizzare indecomposto fino alla temperatura di 800°) ma solo quando si proceda alla soluzione dell'ossido tallico in un acido, ed allora è diversa la quantità di sale talloso che si forma, a seconda dell'acido impiegato per la soluzione. Ammaestrati da tutto questo, noi cercammo di adottare una disposizione tale che ci potesse mettere al riparo da qualunque causa di errore. A tal uopo riscallammo dapprima fino a costanza di peso alla tempe- (3) Otto Rabe, I Zeitsc. fir anorg. Chem., 48, p. 427; II ibd., 50, p. 158; II ibd., 55, p. 130; IV ibd., 58, fasc. I, p. 23. (3) Z. f. prakt, chem. 90,27. (3) Ann. de phys. e chim. 5, IV T. V, p. 1. (4) Lamy, loc. cit. (8) Loc. cit. DI — 280 — ratura di 160° la capsula col deposito elettrolitico in una comune stufa ad aria, accuratamente chiusa, nell'interno della quale, sul piano inferiore, veniva conservato uno strato uniforme di calce sodata. In queste condizioni il peso del deposito, anzichè diminuire e poi aumentare col prolungare l'essiccamento, andava invece sempre diminuendo, fino a diventare costante dopo circa due ore di essiccamento, arrestandosi infine a dei risultati che pure essendo ab- bastanza concordanti fra loro, anche per quantità diverse di sostanza impie- gata, conducevano però sempre ad un numero che era alquanto superiore a quello teoricamente calcolato per l’ossido Tl, 03. Nella seguente tabella sono riportati i risultati delle prime determina- zioni eseguite procedendo all’essiccamento del deposito elettrolitico, nelle condizioni indicate, fino a costanza di peso: TABELLA I. Peso di solfato Reso ED Differenza elio meta ico IO corrispondente di dell’ossido nel solfato fioduro nell’ossido ditelo TI, 0, teorico deposto Inpita,e impiegato ISS 1 0,3202 0,2896 0,2940 1,55 0,2592 0,2582 2 0,3159 0,2858 0,2898 1,42 —_ 3 0,3202 0,2896 0,2934 1,35 = 4 0,3202 0,2896 0,2934 1,35 0,2592 0,2578 5) 0,6013 0,5440 0,5504 TEIO7: 0,4867 0,4853 6 0,3202 0,2896 0,2936 1,98 —_ ina Il deposito veniva talvolta disciolto in acido solforoso, e sottoposto, dopo eliminazione dell’eccesso di anidride solforosa, alla determinazione del tallio allo stato di ioduro. La quantità di tallio trovata, corrispondeva, nei limiti degli errori di esperienza, alla quantità di solfato di tallio impiegato. Inoltre sciogliendo il deposito elettrolitico in acido cloridrico, si osserva sensibile sviluppo di cloro, mentre nella soluzione cloridrica non esistono traccie sensibili di solfati con nitrato di bario, nè si è potuta constatare la presenza di anidride carbonica, come meglio vedremo in seguito. Nel dubbio però che l’essiccamento in istufa, anche in presenza di calce sodata, potesse non preservare in modo completo il deposito elettrolitico dal- l’azione dei prodotti della combustione del gas, modificammo le condizioni di esperienza nel seguente modo: la capsula col deposito elettrolitico veniva introdotta subito dopo il lavaggio in una calotta sferica di ferro contenente al fondo calce sodata, e che si poteva chiudere ermeticamente con un co- perchio a vite. Tre fori erano praticati opportunamente nel coperchio: l'uno serviva per dar passaggio ad un termometro, gli altri due per far attraver- sare una corrente d'aria perfettamente secca ed esente di anidride carbonica. — ag La calotta sferica veniva quindi riscaldata sopra un fornello mantenendo la temperatura per 2 ore a 160, 165° e facendo attraversare l’ apparecchio dalla corrente d'aria, il cui tubo adduttore arrivava sino nell'interno della capsula. In queste condizioni era evitata in modo sicuro qualunque azione dei prodotti della combustione sul deposito elettrolitico. Talvolta, dopo aver lasciato raffreddare l'apparecchio sempre in corrente di aria secca, si toglieva la capsula, si pesava; e poi, introducendola di nuovo nel recipiente di ferro, veniva riscaldata per qualche tempo fino alla tempe- ratura di 210°. Il peso rimaneva sempre costante anche a questa temperatura. Noi eravamo persuasi che in queste condizioni i risultati delle nostre determinazioni dovessero coincidere soddisfacentemente colla quantità teorica di Tl, 03; invece, anche in questo caso, essi riuscirono sempre superiori al valore teorico, ma, d'altra parte, molto concordanti fra di loro come risulta dalla seguente tabella: TABELLA II. | TI. 0 Tallio metallico | di tallio 28 Ossido deposto Differenza Tallio determinato corrispondente x come ioduro pesato 5 elettroliticamente in più °/o metallico teorico | nell’ossido | teoricamente deposto 1 0,3159 0,2858 0,2889 MATO 0,2557 0,2550 2 0,3156 0,2855 0,2888 1,12 0,2555 — 8 0,2524 0,2283 0,2307 1,08 0,2043 — 4 0,5054 0,4573 0,4628 1,20 0,4091 0,4082 ò 0,2301 0,2082 0,2102 1,20 0,1864 —_ 6 0,3154 0,2853 0,2887 1,19 0,2558 — 7 0,2712 0,24583 0,2487 1,32 0,2195 0,2185 8 0,3768 0,3409 0,3452. > 1,25 0,3050 — Possiamo ora discutere sulla causa di questo risultato superiore di una quantità costante al valore teorico ammesso per Tl, 03. Potrebbe darsi in primo luogo che questo eccesso fosse dovuto alla presenza di una certa quan- tità di acqua trattenuta chimicamente; ma lasciando a parte che il rap- porto tra la quantità di ossido teorico ed il peso in eccesso, che dovrebbe rappresentare l’acqua presente, non corrisponde ad un rapporto molecolare semplice, non si può ammettere che questa differenza in più fra il valore trovato e quello teorico sia dovuta all'acqua, una volta che fu provato che il TL. 0; si disidrata alla temperatura di 110-115° e dopo che parecchie volte noi sperimentammo che, mantenendo anche per due ore il deposito elettrolitico ad una temperatura superiore a 200°, esso non subiva alcuna sensibile diminuzione di peso. Sembra dunque che la presenza dell’acqua sia da escludere in modo assoluto. Allo scopo di verificare poi se eventual- mente l’acido ossalico impiegato potesse avere influito per mezzo dei gas sviluppantisi in seguito alla sua decomposizione per azione della corrente, — 282 — ed in particolar modo coll’anidride carbonica, noi sottoponemmo alcuni de- positi elettrolitici a ricerche qualitative per determinare l'eventuale presenza di questo gas: ed a tale scopo si poneva la capsula col deposito elettrolitico sotto una campana di vetro a bordo smerigliato, munita alla sua parte supe- riore di un tappo a tre fori. L'uno di questi dava adito al collo di un imbuto a rubinetto con acido cloridrico diluito, gli altri due servivano per ricevere un tubo di afflusso e di efflusso di una corrente di aria perfettamente esente di anidride carbonica; in derivazione veniva collocato un tubo di Peligot con acqua di calce ed un tubo a calce sodata che comunicava a sua volta con un aspiratore. Disposte così le cose, si apriva il rubinetto dell'imbuto e si lasciava cadere un po' di acido cloridrico nella capsula; si completava la soluzione del deposito inclinando opportunamente il sostegno, mentre sì pro- vocava una rapida aspirazione colla pompa attraverso al tubo di Peligot. In nessuna di queste prove, come del resto era prevedibile, fu possibile svelare la minima traccia di anidride carbonica. Ed infatti, se veramente l'eccesso in peso fosse dovuto alla presenza di CO,, proveniente dall’acido ossalico, e fissata durante l’elettrolisi, la differenza dovrebbe variare col variare della quantità di ossido deposto, colla quantità di acido ossalico impiegato e colla durata dell’elettrolisi. Ora, variando comunque queste tre condizioni, non si ebbero mai oscillazioni sensibili nel peso di ossido deposto, e la tabella II ci dimostra chiaramente che la differenza in più si mantiene molto costante anche con quantità diverse di sostanza. Infine la soluzione cloridrica non conteneva traccie di acido solforoso, nè solforico. Riassumendo dunque, il deposito elettrolitico ottenuto da una soluzione di solfato talloso, in presenza di acido ossalico, essiccato a 170° in reci- piente chiuso, non contiene acqua, non contiene anidride carbonica, non con- tiene acido ossalico. Non ci resta che concludere che esso è costituito di 0ss240 di tallio. Ma di quale ossido si tratta? Se noi, fondandoci sul peso dei depo- siti elettrolitici, e riferendoci alla quantità di tallio impiegata allo stato di solfato di tallio, oppure a quella determinata direttamente nel deposito elet- trolitico, calcoliamo il rapporto esistente fra il tallio e l’ossigeno in questo composto, si trova che: per 204 di Tl, peso atomico del T1, si hanno le seguenti quantità di ossigeno: I) Mif204 N: 26008 E 230,5 2). 204 : 26.6 | 280,6 3) 0204 9-0 2641 #8| 230,1 4) 000 204 ‘1 26/68 o0naf:S0) 1 230;6 Bla MO204:80: "062 SE) 230,2 6): 100204 1 :011264%7 38] 230,7 7) lod'204001- 572/700 E 231,0 8) 10204)/1:10/2619 $ 230,9 Media 230,6 per 204 di TI — 283 — mentre il peso molecolare dell’ossido Tl1,0, è uguale a 228 per 204 di tallio. Ora, l’unico ossido di tallio che corrisponda a questo peso molecolare sarebbe un ossido della formula T1;0;, il cui peso molecolare è = 230,7 per 204 di tallio. Esso potrebbe venire considerato come un miscuglio equi- molecolare di due ossidi e precisamente dell’ossido Tl, 03 e dell’ossido TI1O,, ossido superiore del tallio questo, che, intraveduto da Carstanjen (') e Pic- cini (2) e negato da Lepsius (*), renderebbe il tallio suscettibile di una forma superiore di ossidazione a quella massima Tl,0; generalmente ammessa, e mediante la quale viene fissata giustamente la sua posizione nel III gruppo del sistema periodico. La formula di costituzione di questo miscuglio equimolecolare dei due ossidi si potrebbe rappresentare nel seguente modo: iO 0 M=0 0 milo Ed una prova reale che esso contenga una quantità maggiore di ossigeno dell’ossido normale T1,0;, si ha nel fatto che allorquando si scioglie il de- posito elettrolitico anche in HCl diluito, si ha sviluppo di cloro, mentre che dalla soluzione cloridrica si deposita un sale giallo, cristallizzato in la- melle, che analizzato corrisponde al cloruro intermedio di tallio TI C13 .3 TI CI. Per cui la decomposizione dell’ossido dovrebbe aver luogo presso a poco nel modo seguente: 8TL0;=3T1,03 + 9TLO+110, Da tutti questi fatti noi siamo quindi condotti a ritenere probabile, nelle condizioni della nostra esperienza, la formazione di un ossido superiore di tallio corrispondente alla formula Tl3 0;, e contenente 1'88,48 °/, di tallio. Se noi moltiplichiamo infatti le varie quantità di ossido deposto elettroliti- camente per il fattore 88.48, le determinazioni riportate nella tabella II dànno i seguenti risultari : Tallio impiegato Tallio trovato Differenza 1) 0,2557 0,2556 — 0,0001 2) 0,2555 0.2559 0,0000 3) 0,2043 0,2041 — 0,0002 4) 0,4091 0,4093 -+ 0,0002 9) 0,1864 0,1360 — 0,0004 6) 0,2553 0,2594 + 0,0001 7) 0,2195 0,2200 + 0,0005 8) 0,3050 0,3052 + 0,0002 (*) Gmelin Kraus, Handuch der Chemie. (3) Gazz. chim. ital., vol. XVII, p. 450. (*) Chem. Centr. BI. 694, 1891. Renpiconti, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 36 — 284 — L'esistenza di questo nuovo ossido di tallio non deve meravigliare quando sì pensi che il tallio ha una grande tendenza a dare sali doppî della forma talloso-tallica, e quando si pensi quanto singolare sia il suo modo di com- portarsi nelle varie reazioni, tanto che il Dumas ebbe a chiamarlo giusta- mente l’ornitorinco dei metalli: quindi, comunque venga collocato nel sistema periodico, non può mostrare relazioni semplici e nette come quelle che si constatano in altri elementi. Dice il Piccini che quando si dava la preferenza, alla forma di combina- zione più stabile e più caratteristica fosse o no quella limite, il tallio si collocava coi metalli alcalini, coi quali presenta anche grandi analogie di isomorfismo ; ma il metallo libero è ben diverso dai metalli alcalini, e d'altra parte il tallio per essere rappresentato in tutti ì suoi aspetti ha bisogno di essere messo in relazione non con uno o con pochi elementi, ma con molti, come appunto concede, anzi esige il sistema periodico. Infatti la proporzione TI:Al=Hg:Mg=Pb:Sìi, ci dimostra che il posto assegnato al tallio, è in relazione coi suoi caratteri; per cui il tallio deve essere veramente collo- cato nel III gruppo. D'altra parte anche se il tallio è capace di dare in speciali condizioni l'ossido superiore TlO,, non è questa una ragione sufficiente perchè esso debba essere spostato direttamente al IV gruppo insieme col Pb, col quale ha pure grandi analogie; perchè è noto che non è sempre la forma superiore di ossi- dazione che stabilisce il limite di combinazione; perchè tutti gli ossidi su- periori agli ordinarî limiti hanno proprietà e funzioni peculiari, sicchè è facile conoscerli e distinguerli con poche reazioni da quelli del tipo dell'acqua, e perciò devono anche essere considerati diversamente dal punto di vista della sistematica. Inoltre l’esistenza di un ossido T10, instabile, data la posizione del tallio nel sistema periodico fra il mercurio ed il piombo, si ricollega stret- tamente con un fatto scoperto di recente dal sig. Antropoff (!) e confermato dal Pellini (°), dell’esistenza del perossido di mercurio Hg0,, che fu potuto isolare ed analizzare. Non è quindi improbabile che, in condizioni peculiari, l'ossido di tallio normale Tl 03 possa in parte trasformarsi nell’ossido superiore T10,, e che dalla combinazione equimolecolare dei due ossidi Tl,0;.T10, risulti il nuovo ossido Tl,0;: sullo studio del quale ci riserviamo di ritornare tra breve. (*) Zeitser. fir Elektrochemie 12, 585 (1906). (3) Gazz. chim. itel., anno 38, 1908, pag. 71. — 2859 — Chimica. — Reazioni catalitiche ed equilibri fotochimici. Nota del dott. B. L. VANZETTI, presentata dal Socio G. KoRNER (1). Data la incertezza che regna tuttora sulla interpretazione della maggior parte dei cosidetti fenomeni catalitici e Ja controversia che ancor oggi si agita sulla essenza di tali reazioni, tra le due teorie, quella fisica. che li fa dipendere da una specie di radiazione emessa dal catalizzatore, e quella chimica, che ammette la formazione di prodotti intermedi a durata effimera, ho creduto interessante di iniziare una serie di ricerche per tentar di asso- dare: se sia assolutamente necessario il contatto immediato della sostanza da catalizzare col catalizzatore, o se l’azione di questo possa manifestarsi anche a distanza. Le ricerche da me iniziate su questo argomento si possono dividere in due serie: dapprima ho sperimentato l’azione di un catalizzatore inorganico (nero di platino) sulla miscela tonante idrogeno-ossigeno a traverso una pa- rete che tenesse separato il metallo dal miscuglio gasoso. La parete era co- stituita in un caso da membrane di materiale organico (gelatina, collodio), che veniva stesa in doppio strato su uno strato di nero di platino sorretto da un adatto supporto, nell’altro da una lastrina di vetro di minimo spes- sore, quale la si può ottenere soffiando il vetro rammollito alla fiamma, fino a lacerazione (nel qual caso si ottengono pellicole iridescenti, il cui spessore è dell'ordine delle lunghezze d'onda luminosa). La prova fu fatta in eudio- metro, contenente il gas tonante, prodotto elettrolisando una soluzione acida diluita. Risultato : a) a traverso la membrana di gelatina, o di collodio, si manifesta l'azione del catalizzatore e la combinazione si compie lentamente, ma in modo perfettamente misurabile (questo metodo sperimentale si presta per lo studio diretto della cinetica della reazione); 6) a traverso la laminetta di vetro non si manifesta nessuna azione sensibile. Le membrane di vetro, anche sottilissime, sono dunque impermeabili all'attività catalitica del platino suddiviso ; sono permeabili invece le mem- brane organiche adoperate; ma dal modo come decorre la reazione in quel caso, appare verosimile che la combinazione sia preceduta e subordinata al fenomeno di diffusione del gas a traverso Ja pellicola, il che determinerebbe il contatto diretto tra metallo e miscela gasosa. (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica organica della R. Scuola Superiore di Agricoltura di Milano. — 286 — Questa ipotesi è altresì appoggiata dal fatto che la diminuzione del vo- lume gasoso nell’unità di tempo, anche se varia la pressione, la quantità ca- talizzata è, cioè, proporzionale alla concentrazione del gas; questa catalisi adunque pare si sottragga alla legge di azione di massa, che in realtà passa in seconda linea, per obbedire alla legge di Henry che riguarda gli assorbimenti dei gas da parte di fasi omogenee (in questo caso il platino), come è stato sostenuto da Bodenstein e da Ernst, (*), che sperimentarono la stessa catalisi con lamine di platino e con soluzione colloidale dello stesso metallo. Ad il- lustrare questo fatto riporto qui le cifre che rappresentano l'assorbimento e scomparsa del gas nel tubo eudiometrico misurate in centimetri, incomin- ciando a contare a tubo pieno (pressione normale 76 cm.) per poter giudi- care più comodamente l'andamento della reazione, di centimetro in centimetro, man mano che la colonna di mercurio sale diminuendo così la pressione del gas: cm. 76 secondi 0 cm. 62 secondi 11,5 75 12 61 MIO 74 12 60 12,5 78 11,5 59 MPS 72 12,5 58 12 71 11,5 57 TL 70 12 i 56 11,5 69 12 55 12,5 68 TO, 54 11,5 67 11,5 58 12,5 66 105 52 12 65 11 51 5 64 12 50 JUE5 63 11 49 JMB5 l'intervallo è sufficiente per giudicare l'andamento della reazione. In una seconda serie di esperienze, cercai di eliminare ogni diaframma, per stabilire se, ed in quali casi un catalizzatore ed un sistema in condi- zioni di metastabilità, separati spazialmente tra loro, possano manifestare qualche reazione. Mi valsi ancora del platino come catalizzatore, e come mi- scela reagente scelsi il delicatissimo sistema fotografico del bromuro d'ar- gento in sospensione di gelatina (pellicole fotografiche). All’uopo sovrapposi alla gelatina sensibile delle lamine di platino elettroliticamente platinate, impedendone il contatto diretto mediante strisce di carta o cartoncino fog- giate a croce, che permettevano così di realizzare una distanza di circa /s a 1 mm. tra pellicola e metallo. Le prove furono ripetute su lastre foto- (1) Zft. f. phys. Chem., 37. ogg — grafiche ordinarie rapidissime, di varie provenienze e su lastre ortocromatiche intatte, o previamente velate. È noto come le azioni di varie sostanze, ed anche dei metalli, sulle lastre fotografiche a contatto diretto ed a piccole distanze sono state ripe- tutamente studiate, rilevandone come in molti casi si ottengono effetti simili a quelli dati dalla luce ed in qualche caso contrari (effetto di Russel, raggi Moser, ecc.) ; tuttavia sulla natura di questi fenomeni vertono ancora discus- sioni e si dichiarano opinioni diverse. Per il platino fu negata qualunque azione e solo di recente Piltschikoff (!) gli attribuì una leggera azione po- sitiva, come la maggior parte dei metalli. Dalle mie ricerche risulta invece che tanto il platino in lamina, quanto il nero di platino, alla distanza di circa 1 mm. manifestano in prevalenza un azione negativa (posa da 5 a 12 giorni), tolgono cioè le velature, prodotte sulle pellicole sensibili, dalla luce; questa azione però è affatto diversa da quella della luce e da quella degli altri metalli che dànno l'effetto Russel. anche per il fatto che si esplica solo, alla superficie della pellicola fotografica e la penetra solo molto lenta- mente (°). Con altre serie di esperienze ho potuto accertarmi che l’effetto negativo del platino, il quale si manifesta bene nell'aria umida, viene diminuito di molto nel vuoto dei raggi catodici e viene tolto completamente anche nel- l’aria se vi sia presente dell'anidride fosforica. Una prova comparativa con altri metalli ha messo in evidenza il fatto che alcuni tra essi e specialmente gli analoghi del platino esplicano una si- (') Ref. C. BI., 1906, I. (3) Riproduciamo una delle prove ottenute, in essa però l’effetto è opposto, perchè stampata su carta dal negativo: nella pellicola sono invece trasparenti le parti riprodotte in nero nella incisione. — 288 — mile azione, mentre manca per essi, o resta soffocato l’effetto positivo, che è proprio degli altri. Alcune mie esperienze dànno la serie seguente, i cuì primi termini dànno effetto positivo (+) che va diminuendo nei successivi fino al 5°, al di là del quale incomincia l’effetto negativo (—) che ha il suo massimo nel platino: i (+) Cd,Zn,Al,Pb.Fe,...Cu,Sn,Ag,Pd,Ir,Ni, Au, Pt (+). Ora, se noi rappresentiamo l'equilibrio tra i sistemi fotochimici di questa reazione con lo schema recentemente proposto (!): per az. della luce ee (Ag, Bri-LyAogBr, <— 3 Ag Br all’oscuro possiamo considerare la azione del platino a distanza, come un'azione acce- leratrice della reazione inversa di quella fotografica; in ogni modo una azzone catalitica che si compie a distanza. sia essa considerata come diretta, vale a dire, proveniente da vibrazioni o emanazioni speciali del metallo, sia come indiretta, proveniente cioè da una azione intermediaria di altre sostanze pro- dotte, o (attratte?) dalla presenza del platino; ipotesi questa che si presenta come più verosimile, dato che l’azione manca con lo scomparire dell'umidità e dato che essa si esplica intensa solo alla superficie della pellicola sensibile, e si mostra inoltre più intensa, benchè più diffusa, se tra il metallo e lo strato sensibile intercede uno spazio, il quale permette all'aria di circolare; in caso contrario, vale a dire quando la distanza è troppo piccola, l’azione si manifesta solo intorno ai bordi del metallo. La differenza tra l'effetto pro- dotto dalla lamina di platino e dal nero di platino, non è molto grande, di solito però è più intensa quella del secondo. Chimica. — Sui composti del piombo con l'acido nitroso (È). Nota di ALBERTO CHILESOTTI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO, V. — NITRITI BASICI DI PIOMBO (5). 1. Azione dell'idrato di piombo sul nitrito di piombo e potassico. — Per le ricerche che si volevano eseguire onde stabilire quali tra i nitriti basici di piombo sono composti definiti, era interessante avere il sale basico nel quale il rapporto Pb: NO; fosse il più basso tra quanti erano stati osservati. Questo sale era il Pb(NO:).. Pb(OH). già preparato da Bromeis (*) in cristalli gialli, bollendo per poco tempo col piombo la soluzione del sale (1) v. Homolka, Jahrb. f. Photographie etc. Eder, 1907. (2) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Elettrochimica del R. Politecnico di Torino. (8) Vedi questi Rendiconti [5] 17, 1° sem., p. 825 e ibid., 2° sem., p. 173. (4) Ann. Chem. Pharm. 72, p. 38. — 289 — 4PbO.N;0;.N:0;.2H;0. Dalla soluzione, insieme al sale giallo, s'era però depositato anehe il sale PbN:0;. PbN:0,.5PhO.3H,0, nè il PbN;0,. Pb(OH), era più stato riottenuto da alcuno degli sperimentatori, che ave- vano studiato l’azione del piombo sul suo nitrato. Essendo le condizioni di formazione di questo sale poco ben defi- nite, ed essendo noto che per azione del piombo sul nitrato di piombo, quando non si faccia reagire un eccesso tanto forte di piombo che il nitrito basico formato corrisponda al rapporto Pb:NO,=2:1, si deposita fa- cilmente qualche nitrato-nitrito, che sarebbe stato difficile separare, si tentò di preparare questo ed eventualmente altri nitriti basici per azione dell'os- sido idrato di piombo sul nitrito dello stesso metallo. Ma poichè la preparazione del nitrito neutro è assai incomoda, ed il sale facilmente scomponibile, con formazione di nitrato, si preferì usare come materia prima il nitrito doppio di piombo e potassico. I risultati della esperienza descritta nel precedente capitolo avevano già insegnato il modo di ottenere anche in forti quantità il sale doppio 2Ph(NO»):.3KNO, + H,0, che si separa facilmente dalla soluzione calda non eccessivamente concen- trata di 2 mol. di acetato di piombo e 7 mol. di nitrito potassico. Altre porzioni del sale doppio si ottenevano per ulteriore concentrazione delle acque madri. Ed il composto veniva purificato per ricristallizzazione dal- l’acqua. La soluzione 30 °/, circa di questo sale veniva scaldata fin verso l’ebol- lizione e continuando ad agitarla energicamente vi si aggiungeva a piccole porzioni l’idrato di piombo di fresco precipitato e ben lavato, sospeso in poca acqua. L'idrato in principio si scioglie rapidamente nella soluzione calda, ma poi la dissoluzione si fa più lenta, finchè al fondo del recipiente comincia a formarsi un precipitato pesante. È bene allora cessare di aggiungere l'idrato di piombo e si deve filtrare rapidamente alla pompa la soluzione bol- lente. Per raffreddamento si separano delle squamette cristalline di splendore madreperlaceo e giallognole che, raccolte sul filtro, venivano lavate con poca acqua e seccate tra carta o sopra una mattonella porosa. Dalle acque madri, trattate nuovamente con idrato di piombo sì separano nuove porzioni del sale basico, ma non è possibile così trasformare tutto il nitrito doppio nel sale basico; è conveniente dopo un certo numero di trattamenti, ricri- stallizzare dalla soluzione il nitrito doppio ancora inalterato, per separarlo dall'eccesso di KNO,. Il sale doppio così ricuperato può essere usato per una successiva preparazione. L'analisi del sale a squamette cristalline, ottenuto a questo modo, ha dato i seguenti risultati; i numeri d'ordine dei campioni analizzati sì rifesiscono a frazioni ottenute separatamente da diverse prepa- razioni : 9g ri gr. di sost. hanno dato gr. PbOa °/o Pb LI di sost. contengono gr. NO2 | °/0 NO: Pb:N0o= 0,3530 0,3022 74,17 r 1 0,5012 0,0482 16,80 1:1,021 0,2855 0,2441 74,05 | 0,6007 0,0839 13,97 2 0,3422 0,2965 75,04 1:0,88 0,2132 0,0294 13,78 0,3482 0.0603 17,33 1:1,020 3 0,3404 0,2940 74,87 | 04454 0,0776 17,43 1:1,026 4 | 0,4796 0,4128 74,54 0,3272 0,0550 16,80 1:1,013 | 0,4450 0,0749 16,83 O 0,3495 0,3014 74,69 1:1,011 0,4156 0,0697 16,73 Calcolato per le formole: POESIE NO) RIE TR GL BASA Le 17,06 si Pb(OH)s. Pb(NO:) H20. . . . . TAI I IAALARISLE UTO LARARO 16,51 ali 2/Pb(OH): SPP (NO) ON SON TO EROE 16,77 A: Tutti questi dati, ad eccezione di quelli relativi al sale N. 2, mostrano anzi tutto che nella reazione studiata si forma un sale basico nel quale il rapporto Pb:NO;=1:1. Le percentuali trovate si avvicinano a quelle calcolate per il sale Pb(0H),. Pb(NO»). con 1 o ?/, mol. di H;0 di cristallizzazione, ma oscil- lano entro limiti un po’ forti e non si accordano esattamente con alcuna delle formole citate. Inoltre si osserva, che, escluso il sale 2, il rapporto Pb: NO; dà costan- temente indizio di un eccesso di NO}. È quindi probabile che insieme al sale basico precipiti un po’ di KNO; o di nitrito doppio, che non viene elimi- nato completamente lavando il prodotto. Infatti questo ha luogo in propor- zioni molto più notevoli quando si tratta con Pb(OH) una soluzione troppo concentrata di sale doppio. In diversi casi si osservò che il sale basico da prima formato si trasforma a contatto delle acque madri in cristallini, gialli arancio uniti in grani. Uno di questi sali fu analizzato e conteneva 63,57 è (i Pb 23,99°/ NO; e 3,65%, di K, ciò che corrisponde approssimativamente ai rapporti 6PbO:3N,0:: 2KNO». In un altro campione ottenuto in modo analogo e contenente solo tracce di potassio si trovò 74,61%, Pb e 21,31°/ NO), da cui si calcola approssimativamente il rapporto 2Pb: 8NO;. Anche l'aspetto dei diversi sali basici analizzati variava: le squamette, generalmente gialle pallide, mostravano talora una colorazione gialla più intensa, oppure si ottennero cristalli appuntiti giallo-chiari (N. 6). Oltre l'eccesso di NO; contenuto nei sali studiati sembra varii anche la percentuale d'acqua. Per ottenere un sale a composizione definita e costante si provò a ricri- stallizzare il sale basico, preparato nel modo già indicato. Per evitare meglio — 291 — che fosse possibile la scomposizione idrolitica, si usava per la ricristallizza- zione la solusione gialla già satura a caldo del sale stesso, lasciata raffred- dare e filtrata dalla parte indisciolta. A questa soluzione, scaldata verso l’ebol- lizione ed agitata continuamente, si aggiungeva il sale basico a piccole por- zioni, fin che se ne scioglieva. La soluzione satura così ottenuta veniva fil- trata rapidamente dal residuo, e si faceva cristallizzare il sale per raffred- damento. Il precipitato, costituito di sottili squamette giallognole veniva raccolto sul filtro, deacquificato alla pompa, lavato con poca acqua fredda e seccato tra carta. Riporto quì le analisi di diversi campioni : Sale N gr di sostanza hanno dato gr. °/o PbO |gr. di sost. hanno dato gr. NO"2 | °/o NO'» | Pb: N02 = 1 0,4192 0,3622 PbO: | 74,83 0,7044 0,1151 16,34 1:0,981 2 0,6216 0,4984 PbO 74,42 0,5199 0,0848 16,21 1:0,979 3 0,6688 0,5362 PbO | 74,42 0,5203 0,08556 | 16,44 1:0,993 ‘ Dai rapporti Pb:N0O3 si vede che nella ricristallizzazione è difficile evi- tare completamente la idrolisi, e che quindi il sale Pb(0H),.Pb(NO:)s . H20 cristallizza con quantità più o meno forti di un sale più basico. E che si formi un sale più basico nella ricristallizzazione risulta non solo dal fatto che nelle acque madri il rapporto Pb:N0,<1, ma anche perchè nella ri- cristallizzazione si forma sempre un residuo poco solubile, costituito da una polvere nocciola chiaro in cui il rapporto Ph:NO, è vicino e a 3:2. Un campione diede per es. all'analisi 82,76 °/, di Pb e 11,26 °/, NO}, Pb:N0;= — 1:0,61. Adoperando una soluzione che contenga una buona quantità di nitrito neutro ed evitando di scaldare troppo si può però limitare l’idrolisi in modo da ottenere il composto Pb(OH):.Pb(NO»):. Hs0 quasi puro, come mostra l'analisi del sale 3. Devesi inoltre osservare che lasciando raffreddare lentamente la soluzione ottenuta scaldando a b. m. 20 gr. del sale basico con 125 cm? delle acque madri, ottenute trattando ripetutamente il sale basico primitivo, sì separa- rono invece delle solite squamette, dei cristalli aghiformi di colore arancio, di cui riporto l’analisi: gr. 0,2988 di questo sale hanno dato gr. 0,2469 di PbO . 76,70°/, Pb gr. 0,4927 contenevano gr. 0,09204 NO; ossia 18,68 °/, NO; A queste percentuali corrisponde il rapporto PENO: 1: 115095. Anche in un altro caso simile il sale ricristallizzato era di colore giallo molto più intenso che d'ordinario, e conteneva 76,26%, di Pb e 17,12 °/ NO; ciò che corrisponde al rapporto Pb:NO,=1:1,009. La composizione di RenpICcONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 37 — 292 — questi prodotti si avvicina alla formola Pb(O0H),.Pbh(NO:). o 2PbO.N:0;. H.0 (76,65 °/, Pb - 17,06 °/, NO) già attribuita da Bromeis al sale giallo più sopra ricordato. Si può quindi concludere che esiste il sale basico contenente 2PbO per 1N,0; e che col metodo di preparazione da noi indicato si forma di preferenza l’idrato Pb(NO.). Pb(0H),.H.0; che però in certe condizioni si ottiene lo stesso sale con una molecola di acqua di meno Pb(NO:),. Pb(OH), e che probabilmente la presenza di questo sale in quantità variabili contribuisce, insieme alla causa più sopra ricordata, a rendere in- costante la composizione del primo idrato. Va notato inoltre che anche il sale preparato da Bromeis non aveva la composizione esattamente corrispondente alla formola attribuitagli, poichè secondo la sua analisi conteneva 82,46 °/ PbO = 76,56 °/, Pb, 8,93 °/0 03 e 4,91 °/ N» (corrispondente a 16,10 °/, NO»), mentre la formola ne richiederebbe 17,06. Il rapporto Pb:N era quindi eguale e 1:0,9454, ossia ache in questo caso il sale conteneva un eccesso di PbO. Ad ogni modo, ad onta della difficoltà di ottenere dei prodotti puri, sembra che la possibilità di arrivare allo stesso composto per vie così diverse, e la proprietà che questo sale basico possiede di venire ricristallizzato ripe- tutamente, conservando la medesima composizione, siano indizi sufficienti per ritenere che esistono effettivamente le combinazioni chimiche definite Pb(0H).. Pb(NO:), e Pb(OH).. Ph(NO;)..H:0 o 2PbO.N:0; con 1 e 2 mol. di H,0. Come fu detto precedentemente, quando si tratta con l'idrato di piombo la soluzione del nitrito doppio si forma un residuo poco solubile di colore leggermente giallognolo o nocciola, le cui proporzioni diventano più forti, se si fa agire un eccesso di idrato di piombo. Quest'ultimo non va in soluzione, ma a spese del nitrito disciolto si trasforma più o meno completamente in un nitrito più basico del precedente. L'analisi d'uno di questi residui ha dato i seguenti risultati: 80,76 °/, Pb e 13,25 °/,NO;, percentuali cor- rispondenti al rapporto Pb:NO,=1:0,737. In altri casi si osservò anche una più forte basicità; ma non sembra questo un modo adatto a preparare dei composti basici puri, per la difficoltà di separare i diversi sali basici che possono formarsi dall’eccesso di idrato di piombo eventualmente presente. 2. Azione del piombo sulla soluzione di nitrato di piombo. — Queste esperienze non furono eseguite allo scopo di fare un nuovo studio sistematico sull'azione del piombo metallico sul nitrito; le numerosissime ricerche dei precedenti sperimentatori (Berzelius, Chevreul, Peligot, Bromeis, v. Lorenz Peters) mostravano abbastanza chiaramente come uno studio di questo genere sarebbe stato poco promettente. Si è soltanto cercato di riottenere qualche- duno dei nitriti basici già preparati a questo modo da altri, per servirsene nelle ulteriori esperienze. Qui sono riferite solo alcune orrervazioni che sem- brano non prive di interesse. Si volle anzitutto preparare il nitrito basico — 293 — 4PbO.N;0:.H;0, che si forma facendo bollire lungamente la soluzione di- luita di nitrato di piombo con un eccesso di piombo metallico e che sarebbe il prodotto limite della riduzione del nitrato col piombo metallico. Era stato ottenuto probabilmente da Berzelius ('), in forma impura, e la sua esistenza pareva accertata dalle esperienze di Chevreul (*), Peligot (*), Bromeis (*) e v. Lorenz (*), mentre il Peters (°) nel suo studio sistematico non riuscì a riottenerlo ed osservò che in luogo di esso si formava il sale SPb(N:0,). Pb(0H):.6PbO o 3PbN,0,.3Pb(0H)..4PhO. Era quindi interessante vedere se si poteva preparare il 4PbO . N30, H,0. Ricordiamo anzitutto che un sale di composizione assai vicina a quella della ultima formola ci venne fornito dalla casa Erba di Milano. Esso conteneva 83,63%, Pb e 9,15°/,N0» e 2,84°/, di azoto totale, ossia Pb:NO,=1:0,492 Pb:N=1:0,4998. Anche a noi riuscì facile preparare il sale desiderato, di cui furono analizzati i campioni A, B e C, ottenuti da tre diverse operazioni e però della stessa composizione e dell'aspetto già descritto dai precedenti sperimentatori. La preparazione del sale A si fece aggiungendo il piombo metallico finamente diviso (ottenuto per elettrolisi di una soluzione dell'ace- tato con elettrodi di piombo) alla soluzione bollente di 25 gr. di Pb(NO;): in 1500 cm? di acqua. Questa soluzione era contenuta in un pallone rotondo chiuso da un tappo con rifrigerante a ricadere. La spugna di piombo, depo- sitata elettroliticamente reagisce rapidamente col nitrato. Se ne aggiunsero prima 25 gr. e dopo 2 ore ancora 6 gr. L'ebollizione durò 3 ore e la solu- zione leggermente gialla fu filtrata bollente dal residuo costituitodi Ph e di una sostanza biancastra. Si separò da prima una polvere bianca e, durante la notte, cristallini aghiformi di splendore setaceo e di colore salmone pallido (Sale A), che furono separati dalla polvere bianca più leggera, scuotendo con acqua e decantando la sospensione. Anche il sale B fu ottenuto nello stesso modo, soltanto l'ebollizione durò 8 ore e si aggiunsero 25 gr., poi 6 gr. e final- mente ancora 5 gr. di piombo. La soluzione leggermente giallastra e torbida fu filtrata, e lasciò depo- sitare per raffreddamento il sale B (30 gr.) in cristallini aghiformi color sal- mone chiaro, riuniti in fiocchi aderenti alle pareti, che furono separati dai pochi cristallini gialli, splendenti che s'erano formati insieme. Le acque madri del sale B contenevano in 25 cm? gr. 0,260 di NO; gr. 0,0115 di azoto totale e gr. 0,1625 di PbO (0,1508) Pb ossia Pb:NO, = =1:0,775 e Pb: N totale =1:0,924. La soluzione conteneva quindi an- (1) G. Ann. 40-194 e 200, 46, 156. (3) Ann. Chim. 83 p. 72, 1812. (3) Ann. de Chim., et phys. [38] 2, p. 87 (1841). (4) Ann. Pharm. 72, 38. Jahresber. 1849, 280. (5) Wien. Akad. Ber. (2 Abth.) 84, 1183. (6) Zeitschr. f. Anorg. Ch. Bd. 11, pag. 116 (1896). LA na cora NO; ad onta che il piombo, apparentemente non reagisse più. Nella pre- parazione del sale C si fece bollire una soluzione di 30 gr. di PA(NO;), da prima per circa 3 ore e !/» con circa 40 gr. di piombo aggiunti a più riprese e poichè il sale rosa s'era depositato con una quantità piuttosto forte di cri- stalli giallo-oro, si fece bollire nuovamente con un eccesso di piombo per 7 ore, ed il sale C si depositò in aghi sottili color rosa salmone. I sali così ottenuti vennero lavati con acqua ed asciugati tra carta. Le analisi diedero i seguenti risultati: Sale A. gr. 0,6038 conteng. gr. 0,0566 NO” 9,38 °/, NO” » 0,4567 diedero » 0,4131 PbO 90,45 °/ PbO . 83,96 °/ Pb Pb:NO"=1:0,502 » 0,7502 » » 0,0264 NH; 2,899 °/, N totale » 1,2339 » » 0,0429 NHz 2,86 0/0 » =9,88°%, NO” Pb:N ==1:0,502 Sale B. gr. 0,6424 conteng. gr. 0,0610 NO» 9,50 °/ NO" » 0,4643 diedero » 0,4201 Pb090,48°/ PbO . 83,98°/ Pb Pb:NO"=1:0,508 » 1,6720 » » 0,0588 NH; 2,89 °/Ntotale=9,49°/, NO"? Pb:N =1:0,508 Sale C gr. 0,05550 conteng. gr.0,5916 PbO 90,32 °/ PbO . 83,84°/ Pb » 0,5848 ” » 0,0550 NO 9,41 °/ NO" Pb:NO=1:0,504 » 1,4767 dedero » 0,0520 NHy 2,898°0/,/N=9,50N0' Pb:N =1:0,509 Calcolato per Pb(NO:):.3PbO.H,0 83,96 0/0 Pb 9,34% NO" 2,85 °/o N Resta dunque accertata l'esistenza del composto 4PbO.N,0;.H;0 già preparato da Chevreul e, ad eccezione del Peters, da quanti dopo di lui stu- diarono l’azione del piombo sulle soluzioni del nitrato È anche logico am- mettere che questa sostanza, che cristallizza così bene e che ottenuta in cir- costanze così diverse, quali furono sperimentate dai diversi autori, presenta sempre la stessa composizione sia, una combinazione definita. L'analisi, già riportata, delle acque madri del sale B, come pure l'os- servazione che insieme al sale 4PbO.N,0;.Hs;0 precipitavano dei cristalli giallo-oro di un sale meno basico, mostravano che le soluzioni da cui si de- posita questo sale basico, quantunque trattate con forte eccesso di piombo contengono ancora NO; non ridotto e più NO; di quanto corrisponde alla for- mola del nitrito analizzato. Di qui la necessità di usare una soluzione molto diluita di Pb(NO3), onde evitare che insieme al sale 4PbO.N:0;.H:0 si separino altri nitriti meno basici, o nitrati-nitriti più solubili di questo; quali possono prendere origine dai componenti della soluzione in equilibrio col piombo metallico. I cristallini giallo-arancio pesanti formatisi insieme al 4PbO.N,0;.H,0 si ottennero in più forti proporzioni in una prova eseguita per preparare il sale 3PbO.N:0; secondo v. Lorenz (azione di 2Pb sopra 1 mol. Ph(NO;): in so- luzione diluita). Dalla soluzione si separarono per raffeddamento insieme al sale giallo-arancio dei cristallini bianchi-giallastri, che difficilmente si pote- vano separare dal miscuglio. — 299 — L'analisi mostrò che il sale bianco era un composto basico contenente nitrato e nitrito in proporzioni variabili, a seconda della preparazione. I cri- stalli giallo-arancio sembravano costituiti di un composto puro, non si riuscì però ad eliminare completamente la sostanza bianca. Si analizzarono due sali ottenuti separatamente: gr. 0,7118 diedero gr. 0.6384 PbO 83,25 °/, Pb 89,69 °/o PbO » 0,5420 » n 0,0668 NO3 12,33 NO3 10,180/,. N20: Pb: N03 =1:0,666 = » 0,9733 » » 0,8730 PbO 83,25 0/0 Pb 99,87 = 3:1,998 II gr. 0,8686 diedero gr. 0,1089 NOz 12,65 °/, NO8 10,45 °/ NOs Pb:N03=3:2,04 » 0,6107 ” » 0,5470 PbO 83,14°/ Pb 89,57 °/ PbO 100,02 Calcolato per 3PbO.N:03 83,34 °/ Pb 12,36 0/0 NO” Il sale I si separò dalla soluzione di 25 gr. di Pb(NO;), in 1500 cm? di H,0 bollita per 5 ore con 31 gr. di Pb. Il sale II si ottenne pure in modo analogo, ma usando una quantità un po’ più forte di piombo. Pare dunque che in queste condizioni si formi il composto definito 3PbO . N30; preparato già da Bromeis in aghi sottili rosso mattone o verdi, forse identico al sale cui Lorenz attribuì la formola 11PbN,0,.Pb(OH),.20PbO, e poscia preparato anche dal Peters nella forma verde. L'aspetto però poco omogeneo della so- stanza da me analizzata non permette di concludere con certezza sì trattasse di un composto definito. Chimica. — Contributi allo studio dei fenomeni di salifi- cazione dal punto di vista chimico-fisico (!). Nota di G. BRUNI e A. Ara, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Mi propongo di esporre in una serie di Note i risultati di ricerche esperimentali abbastanza estese che ho intraprese da circa un anno insieme col dott. C. Sandonnini e con i laureandi in chimica A. Aita e G. Nadalini. Nelle prime Note verrò esponendo puramente i metodi seguìti ed i dati spe- rimentali, riservandomi di discutere in una Nota riassuntiva l’'interpreta- zione da darsi ai risaltati ottenuti e le conseguenze di natura generale che se ne possono trarre. In una prima serie di lavori si determinò la variazione della condut- tività elettrica di numerosi acidi durante la neutralizzazione con idrato so- dico o potassico. Questo metodo fu già usato da varî autori e principalmente da D. Berthelot (*), da Miolati e Mascetti (*), e da Kister e Griiters (*). (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale della R. Università di Padova. (3) Ann. de chimie et phys. (6), 24, 19 (1891). (3) Gazz. chim. ital. 3/, 1, 93 (1901). (4) Zeitschr. f. anorg. Chemie, 35, 454 (1903); 42, 225 (1904). — 296 — Soprattutto Miolati riconobbe ed espose chiaramente l importanza che tale metodo può avere per lo studio della natura dei varî acidi e principal- mente per determinare la loro basicità; e nel lavoro su citato ed in alcuni altri lo applicò con fortuna alla risoluzione di alcuni casì speciali. ; Kister e Griters invece pensarono di applicare questo metodo alla de- terminazione del punto di neutralizzazione di varî acidi. Nel modo di pro- cedere di questi diversi autori si nota però una differenza sostanziale su cui importa d'insistere. Infatti, Kister e Griters, come già Berthelot, si limi- tano a misurare la conduttività della soluzione acida dopo l'aggiunta di un certo volume di una corrispondente soluzione basica; è chiaro che così fa- cendo si viene man mano diluendo la soluzione, e che la concentrazione rag- giunge un minimo appunto alla neutralizzazione completa, per tornare ad aumentare appena si aggiunga un eccesso di base. Per lo scopo speciale che K. e G. si proponevano, questa circostanza è vantaggiosa; quando invece si voglia studiare l'andamento della conduttività durante la salificazione, è più opportuno operare su soluzioni veramente corrispondenti, e che cioè conten- gano nello stesso volume quantità uguali di molecole di acido, libere o sa- lificate. A tale scopo Miolati, dopo aver preso ogni volta un ugual volume di soluzione acida ed averla neutralizzata parzialmente o totalmente, portava sempre il liquido ad un volume uguale. Si vengono così a determinare le conduttività di soluzioni contenenti mi- scele di acidi e dei loro sali alcalini in tutti i rapporti, ma contenenti tutte un ugual numero di molecole. Anche qui però il numero di molecole aumenta appena sì aggiunga un eccesso di base. Diciamo subito che noi abbiamo se- guìto sempre questo ultimo procedimento. In tutte le ricerche degli autori precedenti fu eseguita una sola serie di determinazioni per ogni acido ad una sola concentrazione; in generale tutte le misure erano compiute su soluzioni diluite. Veniva così ad esser trascurata completamente la influenza della concentrazione che a priori sì può prevedere non esser indifferente; è noto infatti che molti acidi di media energia presentano a forte concentrazione un potere conduttore mzrore dei sali alcalini corrispondenti, mentre in soluzione molto diluita hanno una conduttività maggiore. Anche l'influenza della energia dell'acido sull’anda- mento delle singole curve era bensì stata studiata da Miolati, ma non in modo così esauriente come a noi sembrava utile. Per queste ragioni e per altre che saranno ampiamente esposte nella discussione teorica, abbiamo riputato necessario di studiare l'andamento della conduttività durante la neutralizzazione per numerosi acidi rappresentanti tutti i diversi gradi di energia e tutti i diversi tipi di basicità, e per ognuno di questi eseguire misure a tutte le possibili diluizioni. Il lavoro del sig. Aita riguarda gli acidi organici monobasici, mentre al dott. Sandonnini furono affidati gli acidi bibasici e tribasici. — 297 — Quanto ai metodi sperimentali seguìti, essi furono i soliti; si adoperò un eccellente ponte a rullo (Walzenbriicke) del tipo Kohlrausch modificato: così questo come gli altri strumenti ed accessorî impiegati erano stati for- niti da Fritz Kohler di Lipsia. La temperatura veniva mantenuta rigorosa- mente costante a 25° mediante un grande termostato di Ostwald. i Di ogni acido si faceva una soluzione due volte o cinque volte normale; di questa si prendeva ogni volta un certo numero di centimetri cubici, ai quali si aggiungeva il volume di una soluzione di idrato potassico corrispon- dente al grado di neutralizzazione che si voleva sperimentare e si portava quindi mediante diluzione al volume occorrente; per alcuni acidi come per l'acido ossalico si fecero serie parallele di misure a scopo di controllo, usando oltre questo procedimento, quello di impiegare miscele in proporzioni oppor- tune di soluzioni di acido e del sale corrispondente, preparate partendo dai sali solidi cristallizzati. Si ebbero sempre risultati completamente coincidenti. Per ogni acido furono eseguite undici serie di misure, e cioè a tutte le diluizioni corrispondenti a V=1,2,4,8,16,32,64,128, 256,512, 1024. Per ogni misura venivano fatte tre letture indipendenti, riferendosi a resi- stenze differenti nella cassetta di confronto. G. BRUNI. I. — ACIDI ORGANICI MONOBASICI. Per avere una serie di acidi monobasici che rappresentassero i diversi gradi di energia, si dovette ricorrere alla chimica organica e si scelsero i seguenti acidi di cui si riportano le costanti di dissociazione K: Acido acetico . . . . .. K=0,00180 PMTOLI COM » 0,214 » monocloroacetico . . . » 0,155 “i cianacelicoMi nt »_ 0,37 » dicloroacetico . . . . » 5,1 » tricloroacetico . . . . K superiore a 15. In questa prima Nota si dànno i risultati ottenuti coi primi tre di questi acidi. Di ognuno di essi si danno due tabelle, la prima contenente i valori delle conduttività specifiche, la seconda quelli delle conduttività molecolari; su questo punto occorrerà soffermarsi brevemente. Gli autori precedenti indi- cavano sempre le sole conduttività specifiche, ciò che operando ad una sola — 298 — concentrazione era perfettamente sufficiente. Siccome noi ci proponiamo so- prattutto di confrontare gli andamenti alle diverse concentrazioni, era neces- sario di ricorrere a valori paragonabili; noi adoperiamo quindi le conduttività molecolari, indicando con ciò le conduttività di quel volume che contiene una grammi-molecola dell'acido, libero o salificato, in cui cioè delle grammi-molecole di acido e di sale è = 1. Naturalmente i la somma valori per le soluzioni contenenti un eccesso di base si trovano solamente nelle tabelle delle conduttività specifiche. I valori delle conduttività molecolari sono espressi dai diagrammi ‘in cui sulle ascisse sono portate le proporzioni fra acido e base e sulle ordinate le conduttività in unità Ohm reciproche. Per gli acidi e per alcuni sali neutri sono riportati fra valori precedentemente trovati da Ostwald, che come sì vede sempre bene coi nostri. 110 100 |” 90 {7 9° È vZ i È | s vel Ss Uci s (el 2 i 40 |- T = v=512 ii 30 |- a -_ v=256 d 20. |- v=128 di 10 DE Ù Ù (i 0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 0,8 0,9 1,0 Molecole di alcali per una di acido. Fic. 1. — Agido acetico + KOH. parentesi i concordano 120 110 100 90 80 50 40 30 20 10 — 299 — TABELLA I. Acido acetico + KOH Conduttività specifiche. Temperatura: 25°. molecole di alcali per una d'acido 0,0 0,1 0,2 0,4 0,6 0,8 1,0 1,2 0,0 0,1 0,2 0,4 0,6 0,8 1,0 Vatu 2 Conduttività molecolari. Temperatura: 8,90| 9,96| 10,5 16,8 | 18,3 | 20,2 32,5 | 36,8 | 39,2 47,6 | 53,6 | 58,0 RenpICONTI. 1908, Vol 1,48] 2,26) 3,28| 4,64 (4,63) 11,2 20,9 16 6,50 (6,50) 12,1 21,9 41,9 61,3 79,8 98,9 . XVII, 2° Sem. 82 9,28 (9,20) 13,8 29,5 42,7 64 12,2 (12,9) 15,6 23,5 103,9 (101,4) 128 0,38 17,9 (18,1) 19,0 25,0 45,7 66,5 84,4 104,8 (104,3) 256 0,098 0,095 0,112 0,172 0,26 0,34 0,41 0,54 87,0 106,7 (106.6) 512 0,067 0,064 0,067 0,101 0,14 0,18 0,21 0,27 92,1 109,5 (109,5) 38 1024 0,047 0,044 0,045 0,058 0,073 0,093 0,109 0,14 111,6 (111,7) TABELLA II. Acido formico + KOH Conduttività specifiche. Temperatura: 25°. molecole di di Veli 4 8 TGR N32 64908 28 2560 05120 027 d’acido 0,0 5,8| 8,95| 2,75] 1,95| 1,46] 0,95| 0,643| 0,46| 0,312] 0,216| 0,137 0,05 7,3] 444| 2,82f 1,86) 1,20] 0,89) 0,635| 0,43| 0,302] 0,205 | 0,133 0,1 11,7) 6,52| 3,67] 2,16| 1,32| 0,86|0,606| 0,41| 0,288| 0,191| 0,127 0,15 16,5 8,99] 4,87] 2,90) 1,53| 0,90| 0,601| 0,40| 0,280] 0,182] 0,123 0,2 20,2 | 11,2 6,00% 3,27) 1,72) 0,96) 0,644| 0,41] 0,268] 0,173] 0,116 0,3 29,0 | 16,0 8,45 4,47 2,94| 1,25) 0,776] 0,45| 0,276] 0,167| 0,106 0,4 88,8 | 21,4 | 11,0 9,14] 3,02| 1,60) 0,90 0,51 0,281] 0,169| 0,100 0,5 45,9 | 25,8 | 13,4 7,12] 3,74| 1,95| 1,03 0,57 | 0,81 | 0,177| 0,102 0,6 55,1 | 29,8 | 16,1 8,80| 4,24| 2,33! 1,21 0,64| 0,85 | 0,186| 0,106 0,8 71,5| 39,8 | 20,8 | 10,9 5,64| 2,97] 1,54 0,79] 0,40 | 0,211| 0,114 1,0 38,5 | 47,8 | 25,6 | 13,2 6,93| 3,63| 1,85 0,95 | 0,48 | 0,245| 0,124 1,2 119,1| 62,4 | 33,8 | 17,5 8,91] 4,62| 2,399 1,23 | 0,63 | 0,343 | 0,177 Conduttività molecolari. Temperatura: 25°. 0.0 9,8 8,0| 11,3] 16,4) 23,1) 31,8| 43,8| 597) 815] 110,0] 141,5 (16,2)| (22,6)| (31,2)| (43,2)| (59,2)| (80,6)|(108,8)|(143,6) 0,05 7,9 8,8/ 114| 149] 19,3| 28,6| 40,7] 55,4| 77,4| 105,3| 136,6 0,1 Ti 20) Ai Mi, 21001 2755 1138/81 5253) 7,313] Mosto) 5250 0,15 16,5] 17,9] 19,5] 21,5) 245] 29,5) 394] 509| 71,7| 92,3| 126,7 0,2 20,2 22,4] 24,1| 26,2) 295] 317| 412] 525| 676) 88741212 0,3 290]. 32,0] 33,8] 35,8] 37,5] 40,2) 495) 57,6| 698) 85,5| 1083 0,4 38.8] 42,9] 44.1| 45,9] 48,3] 51,2) 57,6] 65,3| 730 86,5 102,0 0,5 45,9] 50,3) 53,6| 57,0| 59,8| 62,4| 66,1) 72,4| 805] 90,7| 104,6 0,6 55,1] 59,6] 64,5] 66,0|.68,6| 744| 77,2) 80,6| 884| 95,6) 108,9 0,8 71,5) 79,6] 834] 87,6] 90,4] 955) 98,8) 101,6] 103,8 108,2| 117,2 1,0 88,5 | 95,6] 102,4] 106,0 | 111,1| 116,5 | 118,9| 121,8 | 124,6| 125,8| 126,8 (112,8)|(115,8)|(119,9)| (122,3)|(124,8)| (127,6) Conduttività molecolari. — 301 — V=102% 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 Molecole di alcali per una mol. di acido. FIG. 2. — Acido formico + KOH. 150 140 130 120 110 100 90 80 70) 60 50 40 30 20 10 — 302 — TABELLA IlI. Acido monocloroacetico +- KOH Conduttività specifiche. Temperatura: 25°. molecole di RA veli 2 4 8 16AM|32 64 | 128 | 256 | 512 | 1024 d’acido I 0,0 13,2 | 10,1 7,2 5,04} 8,47| 2,46| 1,60) 1,07) 0,669] 0,427| 0,207 0,025 131/| — | — SS SE LAME de. a: E 0,05 13,8] 9,57) 6,8 4,85] 3,25| 2,38] 1,55| 1,05] 0,65 | 0,41 | 0,250 0,1 14,0| 10,6 6,78] 4,75| 3,07) 2,21] 1,50) 1,00| 0,64 | 0,40 | 0,241 0,15 16,9| 11,2 | 6,87| 452| 2,98| 1,99) 1,43] 0,96| 0,61 | 0.88 | 0,233 0,2 19,1| 11,8 7,28] 466| 2,88| 1,88| 1,85| 0,91|0,57 | 0,37 | 0,220 0,3 25,9 | 15,1 8,68| 5,06) 3,08| 2,01| 1,81] 0,86|0,56 | 0,35 | 0,212 0,4 33,7| 18,1 | 10,8 5,73] 3,27) 2,10] 1,81| 0,88] 0,58 | 0,32 | 0,201 0,6 49,3] 27,3 | 15,1 771) 440) 244| 1,37) 0,82| 0,45 | 0,28 | 0,173 0,8 64,3 | 34,2 | 18,7 9,68| 5,75| 3,05| 1,62) 0,87|0,44 | 0,25 | 0,142 1,0 73,2 | 41,3. | 22,8] 1058 6,64| 3,45| 1,77| 0,90| 0,46 | 0,23 | 0,120 1,2 97,9| 55,6 | 80,5 | 16,2 8,63| 4,60| 2,36| 1,27| 0,61 | 0,32 | 0,170 Conduttività molecolari. Temperatura: 25°. 0,0 132| 20,8| 289| 405| 55,6| 78,8| 103,4| 137,2| 172,1) 218,9 | 263,4 (56,6)| (77,2)|(103,2)|(136,2)|(174,8){(219,4)|(265,7) Mg Reni | = e i e N 0,05 |. 13,8| 19,1) 27,6| 388| 52,2) 74,7] 99,6] 1345] 167,4 210,0 | 256,4 0,1 140|] 21,2| 27,1] 380| 49,4| 70,7| 96,3| 129,0) 164,5 204,1 | 246,9 0,15 169| 22,6| 27,5| 36,3| 47,6) 67,5| 91,7] 123,8| 157,6 195,3 | 238,3 0,2 19,1) 23,7| 28,9| 37,3) 46,1) 64,6| 86,7| 117,0 152,8 | 192,5 | 233,3 0,3 25,3| 30,2) 34,71 40,5| 48,5| 644| 84,4| 110,3 144,7 | 180,5 | 218,2 0,4 38,7| 87,0) 41,3] 45,8] 52,7] 67,2] 84,3] 105 134,6 | 168,1| 205,9 0,6 49,3] 54,6| 584| 617] 704| 78,0) 88,1| 106,2 126,1| 147,7 | 177,7 0,8 64,3| 684| 75,0| 783| 92,0) 97,8] 104.1 112,4| 121,2| 128,0| 145,1 1,0 78,2) 82,6| 91,8| 94,5| 106,8| 110,4| 113,6| 115,4 117,7| 118,5| 122,8 Nel periodo di tempo intercorso fra la presentazione di questa Nota (2 Agosto) e la sua pubblicazione è comparso nella Zeitschr. f. physik. Chemie, Bd., 63, Heft 6 (21 Agosto) un lavoro di A. Thiel e H. Roemer contenenti interessanti ricerche sullo stesso argo mento qui trattato. Essi hanno fra altro trovato alcuni esempi dei minimi di conduttività che si riscontrano in molte delle nostre curve. Delle loro conclusioni mi occuperò nella annunciata nota teorica. Conduttività molecolari. — 303 — 260 260 240 240 DA 220 200 200 180 180 160 160 140 140 120 120 100 100 so 80 60 |- 60 VE16 40 ve8 -| 40 Vel a 20 (2 | 20 0,0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 0,8 0,9 1,0 Molecole di alcali per una mol. di acido. Fic. 8. — Acido monocloroacetico +- KOH. — 304 — Note presentate all'Accademia sino al 20 settembre 1908. Mineralogia. — Sopra un esemplare di ematite con rutilo di provenienza dubbia. Nota del Corrispondente C. VioLa. Matematica. — Su/la formula integrale di Fourier. Nota di Luciano ORLANDO, presentata dal Corrispondente T. Levi-CIvITA. Matematica. — Complementi alla teoria delle tangenti con- tugate di una superficie. Nota del Socio C. SEGRE. Matematica. — Del legame fra l'equazione di Fredholm e le equazioni differenziali lineari ordinarie. Nota del dott. Mauro PICONE, presentata dal Socio LurGr BIANCHI. Chimica. — Sw/ peso molecolare del Selenio. Nota di F. OLI- VARI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Chimica. — Acerche sul sistema: solfo-iodio. Nota di F. OLI- VARI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Chimica. — Swi politoduri. Nota di F. OLIVARI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Queste Note saranno pubblicate nei prossimi fascicoli. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. INT. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. VOTI NERA TARIERZION Serie 3* — TRANSUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — II. (1, 2). — III-XIX. Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIIIL Serie 48 — RenpIcontI Vol. I-VII. (1884-91). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5 — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fasc. 6°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1908). Fasc. 3°. MemoRrIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-16°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 7°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. 20; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoescHER & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrico Hoepi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Settembre 1908. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 20 settembre 1908. MEMORIE ER NONE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Balbiano. Sull’aldeide p-ossimetilidrocinnamica derivante dai OR glicoli stereoisomeri .. . . ò . © pags Dall’Acqua. Le varietà con tre dimen dhe io per tei del Laplace l'in- tegrale (1, 2) f(4) (pres. dal Corrisp. Zevi-Civita) . . . c AIA ERA) Tieri e Cialdea. Su un rivelatore di onde elettriche (pres. dal Socio ‘Blaiugà HIS SIDE) Gallo e Cenni. La determinazione elettrolitica del Tallio, e la probabile esistenza di un nuovo ossido di questo metallo (pres. dal Socio Paterno)... ... METEO Vanzetti. Reazioni catalitiche ed equilibri fotochimici (pres. dal Socio Korner). MENSE T) Chilesotti. Sui composti del piombo con l'acido nitroso (pres. dal Socio Cazzizzaro) . . » Bruni e Aita. Contributi allo studio dei fenomeni di salificazione dal punto di vista chi- mico-fisico (pres. dal Socio Cramician) . . . ; BRNO AT) Viola. Sopra un esemplare di ematite con rutilo si provenienza E, LORA In) Orlando. Sulla formula integrale di Fourier (pres. dal Corrisp. Levi-Civita) (OA SR Segre. Complementi alla teoria delle tangenti coniugate di una superficie (*). . /. . 0» Picone. Del lesame fra l'equazione di Fredholm e le equazioni differenziati lineari ordinarie (pres. dal Socio Bianchi) (È) . 0.0. 5 LT RAMO SICARIO Olivari. Sul peso molecolare del Selenio (pres. dal Nail o, (Oro ei To, vicerehe ssulisistemna: solfo10 110 (MERO CR RR Id: Sui polboduris(pres.sZ4.00)- > e N, (#) Questa Nota verrà pubblicata in uno der prossimi fascicoli. K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. ISIN ZAN EI LI LIA DIS LIT 3 Pubbiicazione bimensile. Roma 4 ottobre 1508. Nu. ATTO DELLA REALE ACCADEMIA DEL LINCEI ANNO CIGGCV. 1908 SB Ue NE 0A RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XVII. — Fascicolo 7° 9° SEMESTRE: Comunicazioni pervenute all'Accademia simo al 4 ottobre 1908. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI | 1908 | oa | LZ: Otttttrr_ _‘PP@————7/-—é-EeE-EEt ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 175 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, ‘e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante. una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi= cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro priamente dette, sono senz’altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conelude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza-pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mersa < carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 4 ottobre 1008. Chimica-fisica — icerche chimico-fisiche sulla lente cristal- lina (‘). Nota del Corrisp. FiLippo BorTtAzzi e di No SCALINCI. II. — LE PROTEINE DELLA LENTE CRISTALLINA. Le numerose ricerche finora fatte da clinici e da fisiologi per scoprire la genesi della cataratta, non hanno dato risultati soddisfacenti. Di questo stato di cose pare che siano l'eco le seguenti parole di C. Hess: « Fiir ein weiteres Eindringen in das Verstiàndnis der Starbildung erscheint eine Ver- tiefung unserer chemischen Kenntnisse von den Altersverinderungen der nor- malen Linse auf Grund der modernen chemischen Forschung — die Mehr- zahl der eben mitgeteilten Untersuchungen liegt 25 Jahre zuriick — dringend erwinscht » (?). Parve che le ricerche si mettessero per la via buona, quando sì inco- minciarono a fare esperimenti per trovare la concentrazione molecolare di soluzioni di diverse sostanze, nelle quali la lente non si opaca, mentre in soluzioni di concentrazione maggiore, p. e. di cloruro sodico, l’opacamento avviene in un tempo più o meno breve. Ma nell'interpretazione dei risultati ottenuti, gli Autori, per ignoranza della chimica generale dei colloidi, e avendo tralasciato di tener debito conto della costituzione chimico-fisica della lente, da un canto furono fuorviati dall'idea di voler spiegare tutto coi soli processi osmotici, e dall'altro si lasciarono andare ad esagerazioni funeste, (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Fisiologia sperimentale della R. Università di Napoli. (2) C. Hess, Pathologie und Therapie des Linsensystems. In: Graefe-Saemisch, Hand- buch des ges. Augenheilkunde, IIe Aufi., II. T, VI. Bd., IX. Kap. Leipzig, 1905, S. 22. ReENDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem 39 — 306 — dando ad intendere p. e. che la cataratta dei diabetici potesse essere effetto dell'aumentata concentrazione molecolare del sangue di quegl’infermi. Ammaestrati dagli errori e dalle esagerazioni degli Autori precedenti, nell'’intraprendere nuove ricerche sulla lente cristallina, i cui risultati sa- ranno pubblicati in una serie di Note successive, abbiamo creduto indi- spensabile di renderci esatto conto della composizione chimica dell'organo, e principalmente dello stato chimico-fisico delle sue proteine costitutive ; senza mai perder di vista lo scopo fondamentale, che è quello di gettare qualche luce sul meccanismo di formazione della cataratta: la quale, se clini- camente costituisce una entità morbosa, ha certamente genesi multipla, nel senso che l'opacamento lenticolare può esser determinato da numerosi agenti chimici e fisici. È necessario indagare in che maniera questi agenti diversi producono un effetto eguale: l’opacamento della lente. Secondo C. Morner (1), le sostanze proteiche della lente, esclusa la capsula, sono in parte solubili in soluzioni saline diluite, in parte insolubili. La « proteina insolubile » in acqua e in soluzione di cloruro sodico fu detta dall'A. «albumoide »; essa è solubilissima in acidi e in alcali diluiti. La soluzione in soluzione 0,1°/o di KOH si comporta come un albuminato alcalino. L’albumoide costituisce in media circa il 48 °/ delle sostanze proteiche lenticolari. La sua composizione centesimale : C 53,12 ; H 6,8; N 16,62 ; S 0,79 ecc. dimostra che la sostanza non differisce notabilmente dalle altre proteine. La « parte solubile » delle proteine della lente risulterebbe, secondo Mérner, di una piccolissima quantità di albumina, e di due globuline, le @- e f-cristallina, che differi- scono fra loro per il contenuto in N, per il punto di coagulazione, e perchè la f-cristal- lina è precipitabile dalle soluzioni prive di sali (?), più difficilmente e incompletamente mediante acido acetico o carbonico. Le due cristalline sono precipitate dal solfato di ma- gnesio e dal solfato di sodio in sostanza. Già si sapeva che le così dette « globuline » della lente non sono precipitabili me- diante breve dialisi, il che dimostra che non sono affini alle sieroglobuline, e che quindi non vanno annoverate fra le globuline. Dalle analisi fatte da diversi autori (2) risulta che la lente ha la seguente compo- sizione media: ACQUA i O TOO Sostanze sode i N O O N 5A Di queste sostanze solide, secondo Laptschinsky (3), sono: Sostanze proteiche . . . . . . . . gr. 84,98 Tecitina.- RZ OO, Colesterina GI N e NON 2 0,74 GASSOSE ARE E A (EA DAN0129 Salits nb A RA EA 0158 0.76 Sali insol ubi ee 020 (1) Zeitschr. f. physiol. Chem., XVIII, pp. 60, 213, 233; 1893. (2) Cit. da K. Vessely, Der Flissigkeits- und Stoffwechsel des Auges etc. Ergebn. d. Physiol., IV Jahrg., 1905, pag. 669. (*) Pfliger's Arch., XIII, pag. 631. — 307 — Dalle analisi di Mérner (1) finalmente risulta che la massa totale delle osstanze pro- teiche è così costituita: AI Ge e i e Sr 17,000), cri sal ERE O 11,0 » n i RR o ABIN A o. RE 0,2 » Totale gr. 35,0 Dei sali si sa che vi si trova cloruro sodico, fosfato di calcio e notevole quantità di sali alcalini solubili, che conferiscono, si dice, reazione alcalina all’estratto acquoso della lente. Anche la sostanza proteica della capsula è insolubile in acqua e in soluzioni saline; a differenza dell’albumoide delle fibre, essa è però insolubile anche in acidi e alcali diluiti, alla temperatura dell'ambiente, ma vi si scioglie a caldo. Bollita con acido cloridrico di- luito, dà una sostanza riducente: trattasi dunque verosimilmente di una glicoproteina, che fu chiamata membranina da Morner (Morner ha chiamato membranine le sostanze pro- teiche aventi i detti caratteri e che entrano nella composizione di varie strutture mem- branose). Per esaminare dal punto di vista della chimica dei colloidi i costi- tuenti proteici della lente, abbiamo incominciato dal dializzare un certo nu- mero di lenti di cane, in dializzatore di « viscose » Leune, contro acqua distillata, satura di cloroformio per evitare la putrefazione. Le lenti (una ventina) furono messe a dializzare tra il 20 e il 24 feb- braio 1908. Dapprima esse rimasero trasparenti; ma, a misura che la dia- lisi procedeva (l’acqua era cambiata ogni giorno), s'intorbidarono, si sfal- darono in scaglie d'aspetto latteo, dalla periferia verso il centro; finchè, dopo alcuni giorni, delle lenti non rimase più forma alcuna, ma al fondo del dializzatore si depositò una massa amorfate granulosa avente l'aspetto di calce spenta mentre il liquido soprastante era limpidissimo. La dialisi, cambiando l’acqua esterna ogni due o tre giorni, e rimesco- lando di tanto in tanto il precipitato col liquido soprastante, durò fino al giorno 28 maggio 1908, vale a dire per circa tre mesi. In quel giorno fu separato il liquido dal precipitato, e l'uno e l’altro furono esaminati separa- tamente. Esame microscopico del materiale non sciolto. — Esaminato al micro- scopio, esso si rivela piuttosto come un prodotto di disfacimento, di minuta frammentazione delle fibre lenticolari, che come un precipitato proteico. Vi si veggono innumerevoli piastrine splendenti, dal contorno irregolare, della grandezza media delle piastrine del sangue, ma anche di grandezza minore e maggiore; fra queste, pezzi di fibre rigonfiate, lamine composte di fibre non disgregate, e finalmente i prodotti formati della disintegrazione della capsula lenticolare. (IL — 308 — Per accertarci che questo sminuzzamento non fosse dovuto al cloro- formio, onde era satura l’acqua, abbiamo fatto esperimenti di controllo, nei quali lenti freschissime furono immerse in soluzione 3! di Na C1(') satura di cloroformio, nel dializzatore, e questo fu sospeso in un gran volume della stessa soluzione, mentre al fondo del vaso, chiuso con tappo smerigliato, era sempre un eccesso di cloroformio. Già dopo 48 ore, si vedeva distintamente che le lenti immerse in acqua distillata si erano sfaldate negli strati esterni, e nel dializzatore era visibilissimo un precipitato pulverulento biancastro, mentre le lenti immerse in soluzione salina erano rimaste perfettamente integre. Dopo tre giorni, il disfacimento delle lenti immerse in acqua pro- gredisce; l'acqua del dializzatore diviene lattiginosa; le lenti presentano un nucleo centrale trasparentissimo ma fortemente rigonfiato, e una quantità di brandelli e di scaglie di color bianco latteo, alla superficie. Sono questi bran- delli, queste scaglie, che, disfacendosi e sminuzzandosi ulteriormente, dànno origine alle piastrine del precipitato sopra descritto. Nella soluzione salina, solo dopo parecchi giorni si vede un netto opacamento alla superficie della lente; ma nel liquido del dializzatore non si vede traccia di quel detrito biancastro sopra descritto. Questo dunque non si forma se non quando la lente si disgrega'; e il disgregamento delle fibre lenticolari è effetto del- l’acqua, non del cloroformio. Da questi semplicissimi esperimenti risultano i seguenti fatti non poco istruttivi. 1. Il semplice omogeneo rigonfiamento della lente per imbibizione in acqua non è causa d'intorbidamento, finchè non si sconnettono gli strati len- ticolari e le fibre di ciascuno strato, 0, peggio, finchè non si frantuma il materiale costitutivo delle fibre; e quando ciò avviene, e il materiale di- sgregato non si è ancora distaccato dal corpo della lente per andare a for- mare il precipitato sopra descritto, la Jente immersa in acqua distillata e tenuta al riparo da ogni processo di putrefazione si presenta catarattosa (cataratta da acqua distillata). L’opacamento della lente, che procede in questo, come in quasi tutti gli altri casi, dalla periferia verso il centro, è dovuto, in questo come in parecchi altri casi, a sconnessione meccanica (per rigonfiamento) e frantumazione delle fibre cristalline, per cui il rispettivo strato lenticolare cessa d'essere trasparente, e diventa torbido (da opalescente a latteo), perchè il materiale costitutivo della lente non è più omogeneo ma somiglia, per gli effetti della refrazione della luce, a un’emulsione o a una sospensione. 2. Il cloroformio, in soluzione acquosa, non produce per se stesso intor- bidamento della lente. Questa, tenuta al riparo dalla putrefazione, mediante (1) Ved. nelle Note successive la ragione per cui abbiamo preferito questa concen- trazione. — 309 — il cloroformio, immersa in una soluzione 5! di Na Cl rimane integra e per- fettamente trasparente per più giorni consecutivi. 3. La dialisi degli elettroliti della lente non è causa di intorbida- mento. Negli esperimenti di dialisi contro acqua, in pochi giorni la massima parte dei sali capaci di dializzare avevano certamente abbandonato la lente; e pure l’opacamento si limitava sempre agli strati disintegrati, mentre il nucleo era trasparente. Negli esperimenti di sospensione in soluzione za di NaCl, tutti gli elettroliti diversi da questo dovevano diffondersi nella massa del liquido esterno al dializzatore; e pure la lente, in queste condizioni, non presentò mai il minimo intorbidamento. Noi facemmo questo esperimento principal- mente allo scopo di vedere se la sottrazione dei sali alcalini (Na H C0;) bastasse a opacare la lente, immersa in acqua distillata o in soluzione di Na Cl. La sottrazione che può avvenire per dialisi, in pochi giorni, non è suf- ficiente a produrre opacamento. E d'altro canto nemmeno dopo tre mesi di dialisi le proteine lenticolari divengono elettricamente affatto neutre; nella loro soluzione (ved. appresso) dializzata per sì lungo tempo, esse si pre- sentano ancora debolmente elettronegative, e certamente le cariche elettriche negative sono loro conferite da OH7 che la dialisi prolungata non è stata sufficiente a eliminare del tutto. Non possiamo fare a meno di rilevare l'analogia che esiste fra i pro- dotti del disfacimento delle fibre lenticolari avvenuto durante i nostri espe- rimenti di dialisi, e quei prodotti che nella lente appariscono e sono con- statabili al microscopio durante certi processi catarattosi. « Die Einwirkung des Kammerwassers auf die Linsensubstanz — dice Leber (') — nach Ver- letzung der Vorderkapsel fihrt zuniichst zum Auftreten stdrker lichtbre- chender Tropfchen in den Fasern der vorderen Corticalis, und zwar vor- zugsweise oder ausschliesslich in dem vor dem Kerne gelegenen Teile derselben ». Queste « goccioline fortemente rifrangenti » somigliano molto a quelle che noi abbiamo chiamate « piastrine splendenti »; hanno l'aspetto di goccioline, ma tali in realtà non sono; esse sono costituite della parte inso- lubile in acqua e in soluzione salina delle proteine lenti colari; il disfa- cimento delle fibre, in assenza di un liquido capace di sciogliere la /aco- proteina insolubile (cioè in assenza di una soluzione acida alcalina sufficien- temente concentrata), darà sempre origine a queste piastrine o brillanti (mentre la facoproteina solubile passa in soluzione), e quindi a opaca- mento del cristallino. (!) Graefe-Saemisch, Handbuch d. ges. Augenheilk., I. T., II. Bd., kap. XI, p. 443. IIC Aufl., Leipzig, 1903. — dl Esame chimico del lipuido filtrato, limpidissimo. 1. Conduttività elettrica <1 X 10-0 (a 229,8 C). 2. Reazione neutra alle carte di tornasole e alla fenolftaleina. 8. Sottoposto il liquido all’azione di un campo elettrico (110 volta), da principio (dopo 2-3 ore) si osserva formazione di un tenue precipitato biancastro intorno all’elet- trodo positivo; ma dopo 24 ore si trova abbondante precipitato biancastro nella branca del tubo ad U nella quale pesca l'elettrodo negativo. Il liquido (+) è debolmente acido alle carte di tornasole. Il precipitato che si trova nel liquido (—) si scioglie istantanea- mente per l’aggiunta di qualche goccia di soluzione # Na OH o di soluzione 0 HCl Questi risultati non si possono spiegare se non ammettendo che il colloide conte- nuto nel liquido originale portasse cariche elettronegative. La neutralizzazione di queste cariche a contatto dell’elettrodo positivo cagionò il primo precipitato osservato nel liquido (4). Man mano in questo liquido, per ragioni che ora non è il caso di dire, si sviluppò reazione acida: il colloide si caricò positivamente, migrò verso l’elettrodo nega- tivo, a contatto del quale, scaricatosi delle cariche elettro-positive acquistate, cioè neu- tralizzato, precipitò. Il precipitato era colloide elettricamente neutro, privo di cariche elettriche; esso si scioglieva, abbiamo detto, per aggiunta di H+ o di OH. Per quanto la dialisi fosse durata tre mesi, il colloide non era dunque divenuto assolutamente neutro; ma la debolissima conduttività elettrica del liquido dimostra che le sue cariche elettronegative dovevano essere in numero sì straordinariamente piccolo, da poter dire che il colloide si trovava prossimo alla neutralità, cioè che fosse pratica- mente neutro, come dimostrano le seguenti altre reazioni, che sono proprie delle proteine elettricamente neutre (dializzate per lunghissimo tempo). 4. A 1 cm? di liquido si aggiunge 1 goccia di soluzione Cu SO 5/0: tenuissimo, a pena visibile intorbidamento. 5. In vicinanza del calore di ebullizione, il liquido coagula, con formazione di fiocchi e grumi, che si attaccano alle pareti della provetta. 6. L’alcool a 97° vi produce abbondante precipitato. 7. Il colloide contenuto nel liquido si trasforma istantaneamente, alla temperatura della stanza, in acido-proteina o alcali-proteina, per l'aggiunta di poche gocce di solu- zione TO) rispettivamente di HCl o di Na OH. In tale stato, le reazioni 5 e 6 riescono negative; e l’alcali-proteina è precipitata subito dal CuSO.. (Superfluo dire che le soluzioni di acido-proteina e di alcali-proteina non davano reazione acida e rispettivamente alcalina al tornasole e alla fenolftaleina). 8. L’acidoproteina è precipitata dall’aggiunta di soluzione 7 Na C1, meno a freddo, assai più a caldo. 9. L’alcaliproteina è precipitata solo a caldo dalla soluzione 7 Na C1, e incomple- tamente. La facoproteina solubile, dializzata per circa tre mesi, sebbene si tra- sporti ancora in piccola quantità verso l'elettrodo positivo, e per questo ri- spetto sia da considerarsi come elettronegativa, per le altre reazioni è da considerarsi come praticamente neutra. La sostanza proteica sciolta nel liquido dializzato corrisponde certa- mente alla « parte solubile » delle proteine lenticolari di Mérner. La distin- I] — sSll — zione però che faceva Mérner, di un'albumina e di due globuline, è basata sopra criterî (punto di coagulazione, precipitabilità cogli acidi) che non sono ora più ritenuti come sicuri; e la stessa distinzione in albumine e globuline non è sostenibile, poichè si tratta di sostanze proteiche che sono rimaste in soluzione dopo tre mesi di dialisi, mentre comunemente col nome di globu- line sogliono essere designate proteine insolubili in acqua. Del resto, queste distinzioni non hanno grande importanza dal punto di vista della chimica generale dei colloidi. Ciò che importa a noi di rile- vare è che la lente contiene proteina (facoproteina) solubile in acqua, priva di sali; e che questa proteina è elettronegativa, come dimostrano altre ri- cerche di trasporto elettrico fatte su estratti acquosi di lente meno lunga- mente dializzati. Esame chimico del prodotto di disgregamento delle fibre lentico- lari. — Questo materiale trovato al fondo del dializzatore, e che ha l'aspetto preciso di biacca da pittori, o di calce spenta, non può considerarsi come un precipitato formatosi durante la dialisi; ma è costituito, come abbiamo detto, di frantumi fibrillari, ciascuno dei quali è trasparentissimo, splen- dente, limitato da un doppio contorno. Si vede al microscopio, tra i frantumi più grossi, un pulviscolo che farebbe pensare a un precipitato proteico; ma è verosimile che esso risulti dei più minuti frantumi delle fibre lenticolari. 1. Questo materiale bianco latteo è insolubile, o pochissimo solubile, in Hs0, o in soluzione i di Na Cl. n 100 in breve tempo; una soluzione più concentrata, in pochi minuti. Nella soluzione riman- gono sospese le parti formate di dimensioni maggiori; ma anche queste si sciolgono quasi interamente, a caldo. La soluzione in alcali avviene anche in presenza di piccola quantità di sale. Si può seguire al microscopio il dissolvimento dei frantumi delle fibre, quando vi s’aggiunge una goccia di Na OH. 3. È solubile anche in acidi, massimamente in assenza di sali, anche a freddo. 4. Se la soluzione alcalina non dializzata è neutralizzata con un acido qualsiasi, la proteina precipita; basta aggiungere un piccolissimo eccesso di acido, perchè la proteina si ridisciolga; dell’acido basta aggiungere tanto meno, quanto minore è la quantità di sale presente nel liquido. La facoproteina lenticolare, dunque, non è solubile se non allo stato di alcalipro- teina o di acidoproteina: di alcaliproteina anche in presenza di sali, di acidoproteina solo in assenza di alcali. i 5. Per dimostrare la grande precipitabilità di questa acidoproteina, si ‘può indiffe- 2. Esso è massimamente solubile in alcali: la soluzione di Na OH lo scioglie rentemente, o fare una soluzione debolmente acida (in soluzione Ti HC1 o Hs SO.) del materiale originale, e saggiare poi questa soluzione con varî sali, o fare una soluzione alcalina (in soluzione 100 di Na OH), aggiungervi la soluzione salina (che non precipita. l’alcaliproteina) e poi trattarla con varî acidi. = 312 — L’acidoproteina in soluzione non dializzata è estremamente instabile, anche alla temperatura dell'ambiente, tanto che vien precipitata da poche gocce (2-4) di soluzione normale di Na C1, Ca Cl, Ba Cl:, Mg Cl, solfocianuro d'ammonio, KC1 ecc., aggiunte a l cm? della soluzione. Di maggiore importanza, dal nostro punto di vista, ci sembrò lo studio delle reazioni dell’alcaliproteina, perchè evidentemente allo stato di alcali- proteina si trova la proteina lenticolare, allo stato normale. Se, infatti, essa si trovasse allo stato di acidoproteina, sarebbe precipitata dal cloruro di sodio dei liquidi oculari. 6. Abbiamo preparato una soluzione di alcaliproteina lenticolare, sciogliendo il ma- teriale depositatosi al fondo del dializzatore nel minimo possibile di Na OH; però la so- luzione filtrata imbluiva la carta rossa di tornasole, e arrossava la fenolftaleina. Abbiamo quindi aggiunto soluzione TT HCI1, fino a che la soluzione incominciava un pochino a intorbidarsi, segno che eravamo prossimi alla neutralità. Ora il liquido imbluiva ancora leggermente la carta di tornasole, ma non arrossava più la fenolftaleina. a) Questa soluzione, nel volume di 1 cm?, è precipitata da una o due gocce di soluzione mi dei seguenti acidi: acido cloridrico, solforico, acetico, ossibutirrico, meta- fosforico, formico, ossalico, lattico, nitrico; precipita anche facendovi gorgogliar dentro un poco di CO» (questo precipitato torna a sciogliersi, se il liquido è lasciato all’aria, perchè l'acido carbonico abbandona il liquido). Il precipitato torna a sciogliersi, non appena si aggiunga :1 sola goccia in più di ciascuna delle soluzioni acide (formazione di acidoproteina). 6) L’alcaliproteina è precipitata anche dai sali acidi: p. e. da 1 goccia di solu» zione 2°/, di KHSO, aggiunta a 2 cm? della soluzione proteica; l’aggiunta di un’altra goccia produce già parziale ridissoluzione del precipitato; questo però non si ridiscioglie mai completamente, per quanto sale acido si aggiunga; il liquido rimane torbido, seb- bene sia acidissimo; gli acidi invece producono perfetta ridissoluzione della proteina. Ciò probabilmente dipende dalla poca solubilità dell’acidoproteina formatasi in presenza del sale. c) L’alcaliproteina è precipitata dai sali dei metalli pesanti: Ag NO; (solve. li n CuS0, (soluz. 5 °/); un eccesso del sale non ridiscioglie il pre- Hg Cl, (soluzione To ‘cipitato.. Esame di soluzioni di alcalifacoproteina e di acidofacoproteina dia- liszate. — La soluzione di facoproteina alcalina sopra esaminata non era stata dializzata; essa conteneva ancora un piccolo eccesso di OH7, come di- mostra il fatto che essa imbluiva la carta rossa di tornasole. Abbiamo fatto nuove ricerche sopra soluzioni preparate nel seguente modo. I. Alcalifacoproteina. Cm* 25 di sospensione di detriti lenticolari (dializzati per circa 15 RIGLtO i 3 BB) ca È n giorni) sono mescolati con cm? 75 di soluzione 100 Na OH. Il miscuglio — 813 — subito si chiarifica; la facoproteina in massima parte si scioglie, dando un liquido molto opalescente. La soluzione arrossa la fenolftaleina e dà rea- zione alcalina colle carte rosse di tornasole. Si mette la soluzione a dia- lizzare contro acqua satura di cloroformio, finchè non arrossi più la fenol- ftaleina. Durante la dialisi si forma scarso precipitato. Reazioni del liquido filtrato, opalescente : 1. 1 goccia di soluz. 5°/, CuSO, produce abbondante precipitato. 2. L’alcool non precipita nulla. 3. Il HCl mo produce abbondante precipitato. 4. Bollito, non coagula; diventa solo un poco più opalescente. Aggiunte 2-3 gocce di soluz. 7 Na C1, si forma abbondante precipitato, senza bisogno di scaldare di nuovo. 5. Il Na Cl ii non produce, a freddo, precipitato. 6. Ba Cla e Ca Cla + aggiunti a freddo nella proporziono di 1 goccia a 1 cm° di liquido provocano abbondante precipitato. Aumentando la quantità del sale, prima il pre- cipitato aumenta, poi incomincia a sciogliersi, finchè il liquido si chiarifica. Se la stessa quantità di soluz. di Ba Cl, o di Ca Cl. è aggiunta tutta in una volta non si osserva preci- pitato. Il Na 17, aggiunto nella proporzione di 1-2 gocce a 1 cm? di liquido, inibisce la precipitazione con Ba Cla o Ca Cle. To L00 IC S, il Nas SO, 7 e il solfocianuro d’ammonio na non precipitano l’alcali- proteina, e inibiscono in parte l’azione precipitante di Ba Cls e Ca Cla. 8. L’azione precipitante, a caldo, del Ba Cl. e Ca Cl, è maggiore di quella del Na CI. 9. La soluzione è precipitata non solo dall’idrato d’ossido di ferro colloidale, ma anche, e abbondantemente, dal solfuro d’arsenico colloidale. 10. Mescolata, a volumi eguali, con soluzione di acidofacoproteina dializzata (ved. appresso), si forma un precipitato (complesso colloidale di alcali — e acidofacoproteina), per la reazione delle due proteine aventi segno elettrico opposto. 11. Sottoposto il liquido all’azione di un campo elettrico (110 volta), si osserva dopo 5 ore abbondante trasporto elettrico della proteina elettro-negativa verso l’etettrodo positivo. Il. Acidofacoproteina. Cm? 25 di sospensione di detriti lenticolari dializzati per circa 15 giorni : n si 3 sono mescolati con 75 cm? di soluz. 100 HCl. I detriti in gran parte si sciolgono, formando un liquido molto opalescente, che arrossa la carta bleu di tornasole. La soluzione di acidoproteina è dializzata contro acqua satura di cloroformio, finchè non dia più reazione nettamente acida. RenpIcONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 40 — 314 — Durante la dialisi, man mano che il liquido s'impoverisce di acido libero, la proteina torna a precipitare in grande quantità. Evidentemente l’acidopro- teina è meno solubile dell'alcaliproteina: quella rimane sciolta solo finchè c'è un eccesso di H*; continuando la dialisi per molto maggior tempo, pro- babilmente la massima parte della proteina precipiterebbe. Il precipitato che n ; 100 HCI; è so- Na OH. Reazioni del liquido soprastante molto si trova nel dializzatore torna a sciogliersi subito in soluz. n 100 opalescente, che non arrossa più la carta blu di tornasole : lubilissimo in soluz. 1. Bollito, diventa lattiginoso, e vi si formano pochi grumi e fiocchi. Evidentemente l’acidoproteina è assai meno termostabile dell’alcaliproteina. 2. Sottoposto all’azione di un campo elettrico (110 volta) per circa 24 ore, avviene trasporto della proteina elettropositiva verso l’elettrodo negativo, attorno al quale si vede un precipitato pulverulento biancastro. 8. 1 goccia di soluz. 5°/, CuSO4 produce intorbidamento e poi fiocchificazione. 4. L’alcool provoca cospicuo precipitato granuloso. 5. Il Ba Cl., il Ca Cl, il KCI, il Nas SO; in soluzione d, il solfocianuro d’am- monio in soluz. po Lon esercitano azione precipitante. 6. Il HCO1 TE in piccolissima quantità non produce nulla; in quantità maggiore chia- rifica il liquido. IA 100 8. Bollito il liquido, dopo l’aggiunta di una minima quantità di soluz. 7 NaCl], si 7. La soluz. Na OH chiarifica la soluzione. formano subito grossi coaguli, che si appiccicano alla parete del tubo. Rimane un liquido opalescente che, travasato in un altro tubo, raffreddandosi fiocchifica. Da queste reazioni risulta che la proteina si comporta per certi rispetti (reazioni 1, 4, 5, 6, 7, 8) come una proteina elettricamente neutra," e per certi altri rispetti (reazione 2) come proteina debolissimame nte elettropo- sitiva. In tale stato, cioè essendo priva di cariche elettronegative, la facopro- teina non rimane in soluzione: la soluzione esaminata, infatti, da prima molto opalescente, abbandonata a se stessa, senza alcun trattamento, man mano s'intorbida e vi si forma un precipitato pulverulento che a poco a poco si deposita al fondo del vaso. Reazione chimica della lente cristallina. — Leber dice (') che « der wasserige Auszug der Linse reagiert alkalisch =. Abbiamo visto (*?) come si comportano l'umor acqueo e l'umor vitreo alla fenolftaleina. (1) L. c., pag. 423. (*) Ved. la nota precedente. — 315 — È forse lo stesso dell’estratto acquoso di lenti? In un primo esperimento, tenemmo immerse in acqua due lenti di bue tagliuzzate, in un'atmosfera satura di vapori di cloroformio, per molte ore, e aggiungemmo al liquido due gocce di fenolftaleina: ma questa non fu mi- nimamente arrossata, nè subito, nè dopo molto tempo. Lo stesso risultato ottenemmo saggiando con fenolftaleina l'estratto acquoso di 4 lenti intere di bue, fatto con poca acqua distillata satura di cloroformio, per circa 24 ore. L'estratto decantato era limpidissimo, ma con- teneva grande quantità di facoproteina solubile; la quale era sufficientemente alcalina, perchè l'estratto non coagulasse all’ebullizione (dava un abbondante precipitato appena lo si neutralizzava con poco acido acetico diluito). Può darsi quindi che la lente contenga normalmente tanto alcali quanto basta a rendere alcaline (elettronegative) le sue proteine; ma essendo gli OH7 legati al colloide, non possono agire sulla fenolftaleina, che per ciò non è arrossata dagli estratti acquosi di cristallino. Lo stesso alcali, contenuto nei liquidi oculari, arrossa la fenolftaleina quando ne è stato scacciato l'eccesso di acido carbonico, perchè i rispet- tivi OH”, essendo quei liquidi quasi del tutto privi di colloidi proteici sciolti, sono liberi e quindi capaci di modificare il sensibilissimo indi- catore. Considerazioni sullo stato normale del cristallino. — Il materiale co- stitutivo delle fibre lenticolari, in condizioni normali, non è una « soluzione di proteine =, non è un idrosol. Non è nemmeno un idrogel solido, somi- gliante p. es. a un blocco di gelatina solidificata; perchè, se si fa un buco o un'incisione nella capsula, la massa lenticolare protrude formando una goccia, che però non si distacca. Esse è dunque da considerarsi come un idrogel di consistenza piuttosto liquida (in ogni modo di consistenza liquida gommosa), che solida. L'esame ultramicroscopico di questo idrogel, che tenteremo di fare prossimamente, ci darà forse risultati istruttivi. Il colloide di questo idrogel è normalmente elettronegativo. In tale stato esso è in parte solubile in acqua, in parte insolubile. Quest'ultima parte, abbiamo detto, è solubile solamente in presenza di un eccesso di H+ o di OH-, vale a dire sotto forma di acidoproteina o di alcaliproteina. Ma le reazioni sopra dette delle soluzioni di acidoproteina o di alcaliproteina non possono consi- derarsi « priori come proprie anche della proteina elettronegativa insolu- bile, quale si trova in condizioni naturali nelle fibre lenticolari. Per indagare, quindi, le reazioni di questa proteina insolubile, bisogna fare esperimenti diretti sulla lente stessa, magari scapsulata; vale a dire bisogna indagare l’azione degli acidi, delle basi e dei sali sul cristallino, direttamente (v. le Note successive). Se però il colloide lenticolare è naturalmente elettronegativo e si com- porta approssimativamente come una soluzione di alcalifacoproteina dializ- — 316 — zata, si può prevedere che la neutralizzazione delle sue cariche elettronega- tive avrà per conseguenza la precipitazione di esso; si può prevedere che i cationi eserciteranno azione precipitante e opacheranno la lente, tanto più celermente, quanto maggiore sarà la loro rapidità di penetrazione nella so- stanza del cristallino; e forse sarà dato di scoprire una relazione fra il nu- mero delle loro cariche elettropositive e il loro potere precipitante (opa- cante). I risultati di queste ricerche, già iniziate, saranno prossimamente pubblicati. i Fisica. — L’interruttore di Wehnelt con corrente alternata. Nota di F. ProLa, presentata dal Socio P. BLASERNA. Fin dalla prima comparsa dell’interruttore di Wehnelt era stato notato dal D’Arsonval (!) che esso poteva funzionare oltre che con corrente continua anche con corrente alternata, ma solo durante il mezzo periodo di essa nel quale la punta fosse anodo. Osservazioni posteriori furon fatte e notevoli specialmente quelle di Kallir e Eichberg (?), nelle quali veniva impiegato un metodo stroboscopico. Ho voluto studiare le particolarità del fenomeno, sia con interruttore a punta che a foro, ed ho ottenuto qualche risultato, specialmente con que- st'ultimo, che non mi sembra privo d'interesse. Per il funzionamento con corrente continua rimando ad una mia Nota precedente (*). Disposizione degli apparecchi. — La corrente alternata traversante il W. è quella della rete cittadina di Roma (42 periodi per 15). In serie col- l'interruttore trovasi l’amperometro termico C ed in derivazione il voltimetro, pure termico, D di resistenza tanto elevata che la sua presenza od esclu- sione non viene mai a modificare sensibilmente i fenomeni che andremo a descrivere. Per rivelare in ogni istante l'intensità 7 ho impiegato il pen- nello catodico del tubo di Braun M, con disposizione analoga a quella descritta in altra occasione (*). Mentre la corrente traversante il W., per- correndo il rocchetto P (senza ferro), dà al pennello spostamenti verticali, un’altra, dello stesso periodo, poichè derivata dalla stessa conduttura, tra- versando il rocchetto Q (pur senza ferro) dà spostamenti orizzontali. Sfasando opportunamente la corrente di Q si vedrà la macchia fluorescente descrivere una linea chiusa. (1) Compt. rend. 1899, 128°, pag. 529. (2) Zeit. fur Elekt. 17°, pag. 184. (3) Nuovo Cimento, 1907, 16° pag. 54. (4) Rend. Lincei, 1906, 15°, 20 sem., pag. 18. ec Tr = ZZZ — 317 — Il tubo di Braun è alimentato da una Wimshurst a due dischi ed ha la parte allargata ricoperta di stagnola unita all’anodo ed al suolo, precau- zione questa necessaria per mantenere fissa la macchia. Una utilissima modificazione è stata introdotta (*). Fin dal 1906 il Rankin (2) aveva segnalato che un campo magnetico parallelo all'asse del tubo permette di diminuire la differenza di potenziale necessaria al funzio- namento e di ottenere una macchia più luminosa. Volendo ottenere il campo B === (ha 0 MO: : deu gi Voltimetro VOM MZIAO Ampi eromelro mico dle parallelo all’asse del fascio catodico ho avvolto sul tubo, ma in modo da poter scorrere su questo, un rocchettino, delle dimensioni indicate nella figura 2, formato con 1460 spire di filo del diam. di 0,2 mm. ed avente la resistenza complessiva di ohm 135. Non ho fatto misure relativamente al potenziale fra anodo e catodo del tubo e nulla quindi posso dire su questa questione che sembra controversa, ma quello che riescì subito evidente è stato l'impiccolimento dell'immagine ed il corrispondente aumento della luminosità. L'effetto, che non muta in- (*) Ringrazio vivamente il prof. Moisè Ascoli di avermela suggerita. (2) Elect. Rev., 1906, pag. 399. — 318 — vertendo il campo, non è lo stesso con differenti posizioni del rocchetto. Spostando questo dall’anodo fino alla parte rigonfiata del tubo si nota un massimo fra l’anodo e il diaframma, poi un minimo, ed infine un altro mas- simo, più elevato del precedente, subito dopo il diaframma, nella posizione indicata nella fig. 2. In questa posizione, con la corrente di 0,25 ampère nel rocchetto, la macchia riduce il suo diametro da mm. 2,5 ad un solo mm. e da essere poco luminosa diviene splendente. Le fotografie riprodotte nelle figg. 7, 8 e 9 sono ottenute in queste condizioni, con pose di 405, e quando si confrontino con quelle ottenute dallo scrivente (!) o da altri osservatori, senza il campo magnetico parallelo, ren- dono manifesto il vantaggio dell'artifizio impiegato. È però da notare che se il tubo volesse impiegarsi non come semplice indicatore ma come strumento di misura, dovrebbero introdursi correzioni Fic. 2. certo rilevanti nella valutazione dei resultati. Infatti il campo, che non può ottenersi rigorosamente parallelo all’asse del fascio catodico, dà a questo un moto elicoidale che viene rivelato dallo spostamento, dipendente dal senso ed intensità del campo, della macchia in riposo sullo schermo e da quello del- l'origine degli assi coordinati, quando la macchia è in movimento. Inoltre si nota una rotazione degli assi: le fotografie (figg. 7, 8, 9) sono riprodotte rotate in modo da presentare gli assi orientati come quando il campo non agisce. Forse, ad aumentar la complicazione, ad onta della grande rarefa- zione nel tubo, intervengono anche i ragg9gî magnetici delle recenti esperienze del Righi (°). Uno studio dell’azione del campo magnetico sul fascio catodico, con asse ad esso parallelo, sarà oggetto di una mia prossima ricerca intesa special- mente a mettere in evidenza se possa rendere completamente conto dell'im- (1) Rend. Lincei, 1906, 15°, 20 sem., pag. 222. (3) Righi, Bull. Soc. frang. de Phys., 1908, pag. 47. — 319 — piccolimento della macchia la non uniformità del campo magnetico e la di- vergenza del fascio. Interruttore a punta. — Con grande impedenza nel circuito del W. questo lascia passare la corrente, comportandosi come un’ordinaria resistenza liquida. Se lo sfasamento fra le correnti traversanti P_e Q è molto piccolo, si ha nello schermo un segmento luminoso, inclinato sugli assi, che, aumen- tando la differenza di fase, si sdoppia dando una elisse sempre più aperta. Diminuendo sufficientemente l’impedenza, il W. viene a funzionare da inter- ruttore e si notano differenti aspetti, secondo i casi, nella figura disegnata sullo schermo del tubo. Con W. avente per uno degli elettrodi un filo di ferro uscente da un tubo di vetro affilato e per l’altro una lastra di piombo, il tutto immerso Ò Dro SD LI Fic. 3. in soluzione di carbonato sodico, l'aspetto della curva è sempre simmetrico rispetto all'origine. Ciò indica che, in tal caso, l'elettrodo di minor super- ficie si comporta ugualmente sia esso anodo o catodo. A lungo andare il filo di ferro si rende acuminato nella sua parte sporgente dal tubo di vetro, fino ad assumere l'aspetto di una punta acutissima. Con piccolissimo sfasamento la curva assume l’aspetto che qui si ri- produce schematicamente (fig. 3), con un un tratto A B rettilineo. Essa di- mostra che, in ogni periodo, fino a quando la corrente traversante il W. non ha assunto una intensità sufficientemente elevata, il W. si comporta da volta- metro e solo per valori maggiori da interruttore. Con filo di rame e lastra di rame in soluzione di solfato di questo me- tallo non è stato passibile far funzionare l'apparecchio altro che da volta- metro. Con filo di platino, lastra di piombo ed acido solforico diluito la curva riuscì dissimmetrica rispetto all'origine, indicando che in tal caso le condizioni dell'apparecchio mutano col mutar senso della corrente confermando l'opinione comunemente accolta a questo riguardo. — 320 — Interruttore a foro. — Volendo operare con elettrodi in condizioni pressochè uguali, ho costruito un apparecchio del tipo Simon (!) e Caldwel (?). A tale uopo ho praticato un foro circolare in ciascuno di due recipienti di vetro da pile Leclanché, ho interposto una lastrina di vetro dello spessore di mm. 1,8 con foro del diametro di !/, mm., svasato dalle due parti, ed ho unito i due recipienti. Tentativi fatti per sostituire al vetro altre sostanze non hanno dato buoni risultati. Ho provato anche, fora non utilmente, un disco di caolino, cercando di usufruire i pori esistenti nel suo spessore. Il liquido impiegato è stato acido solforico di p. s. 1,17 e per elettrodi si presero due prismi di carbone di storta perfettamente uguali: col piombo si hanno uguali risultati, ma il liquido sì intorbita per solfatazione. Fic. 4. Derivando il circuito fra i 2 fili estremi dei 3 dalla conduttura cittadina (110 volta efficaci) si hanno numerosissime oscillazioni ed al foro il solito fe- nomeno luminoso, mentre facendo la derivazione fra i fili adiacenti le oscilla- zioni sono meno frequenti, ogni fenomeno luminoso è soppresso, come pure ogni svolgimento apparente di gas. Le esperienze che descriverò in seguito, fra le moltissime compiute, sono tutte eseguite in queste condizioni colle quali si ha maggiore regolarità di funzionamento. 1. In circuito si trova un rocchetto della resistenza di 12 ohm e del- l'auto (senza ferro) di henry 0,06. Introducendo completamente un fascio di fili di ferro si ha sullo schermo il segmento, mentre la intensità della corrente e la differenza di potenziale son tanto piccoli da non essere rive- labili dagli strumenti di misura. Estraendo mano a mano il ferro, mentre l'intensità cresce sempre, il segmento si trasforma nell’ellisse, questa si spezza riuscendo molto incerta, cresce il potenziale. Proseguendo, la curva si rende stabile e quale apparisce dalla fig. 5 superiore; il potenziale raggiunge il massimo di 80 volta, mentre l'intensità è di 1 ampère. Successivamente, il potenziale diminuisce, discendendo fino a 60 volta, e la curva assume la (3) Wied., Ann. 68°, pag. 273. (*) Etectrician, 48°, pag. 332. cioctt — 321 — forma della fig. 6 superiore, mentre la intensità raggiunge ampère 1,5. A circuito aperto: volta 49. Le due figure, insieme alle schematiche poste inferiormente, ci indicano che non si ha mai pel W. interruzione completa della corrente e che, nelle condizioni nelle quali si opera, la intensità della corrente discende brusca- mente, una volta per ogni !/, periodo, da A a B. La caduta si compie quando l'intensità assume un certo valore é, ed è definitiva (fig. 5) quando %, coin- cide col massimo I di 7, ossia quando si compie sulla cresta della sinusoide, mentre è susseguita da un rialzamento quando 2 d,, si capisce come si potranno avere altre cadute sullo stesso !/, periodo, ma tutte in un intervallo di Ei C----- RIG. d. Fic. 6. tempo comprendente l'istante del massimo, intervallo che è una frazione più o meno grande del mezzo periodo. 2. In circuito è il primario di un grande rocchetto di Ruhmkorff col secondario aperto. La fig. 7 rappresenta una fotografia dello schermo ottenuta in queste circostanze e che deve essere intesa, come le seguenti, descritta dalla mac- chia in senso contrario agli indici dell'orologio. Essa mostra evidente che la corrente subisce due cadute per ogni !/, periodo: ogni caduta rapidissima è susseguita da un rapido rialzo, poi interviene una sosta e quindi la intensità riprende lentamente a salire. Introducendo in circuito una resistenza non in- duttiva, all'aumentare di questa le due cadute e le corrispondenti soste spa- riscono insieme. Ci si può forse rendere ragione della sosta pensando alla extracorrente di chiusura, il massimo della quale farà sentire il suo effetto con ritardo, per il molto ferro abbracciato dal circuito. RenDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 41 Il potenziale, che a W. aperto è di 49 volta efficaci, sale a 60 quando si chiuda il circuito di quello, mentre l'intensità assume il valore di am- père 1,2. 3. Al primario del Ruhmkorff è sostituito un rocchettino con nucleo di ferro spostabile. Con tutto il ferro introdotto la curva assume l’aspetto foto- Fic. 7. grafato nella fig. 8, indicante tre rapide cadute susseguite da tre rapidi rialzi per ogni !/, periodo. Potenziale, a circuito aperto, volta 49; a circuito chiuso, 60; con l’in- tensità di ampère 1,3. a, I isla TT n Pie. 8. Fic. 9. Estraendo mano a mano il ferro, il numere delle cadute aumenta fino a non poterle più apprezzare distinte. La fig. 9 indica chiaramente il fe- nomeno: l'intensità cresce fino ad un certo valore, poi ricade bruscamente e segue una serie di vicinissime variazioni opposte, fino a che non scende, per la diminuzione del potenziale, sotto a un certo limite. Allora diminuisce —_——__—_—_É__o@ou@sgràsgtg — 323 — lentamente, si annulla, cambia segno e riprende la successione precedente. Nella prova fotografica dalla quale è tratta la fig. 9 si nota benissimo la debole luminosità della regione rapidamente percorsa dalla macchia: in questa riproduzione non sono visibili che i tratti continui e quelli in corrispondenza al cambiamento di segno nella velocità verticale del fascio catodico. Un fenomeno che accompagna il funzionamento dell’apparecchio va spe- cialmente notato. Ogni cura era stata posta nel fare tutto bene simmetrico e le curve osservate al tubo rendevano fede di ciò. Senonchè nella disposi- zione 1% si aveva una corrente di liquido che innalzava il livello in uno dei vasi e l’abbassava nell'altro, aumentando contemporaneamente la temperatura Fia. 10. del primo. Nella disposizione 3* il flusso di liquido aveva segno contrario e nella 2* non esisteva affatto. Che variazioni di livello si producano negli interruttori di W. è noto (1), ma non erano da aspettarsi nelle circostanze delle. esperienze qui descritte. Per dare un esempio dell'entità del fenomeno posso dire che, colla disposi- zione 3, avendosi a circuito aperto volta 46,5 ed a circuito chiuso volta 54 ed ampère 1, in 5" di funzionamento sono passati 32 cm? di liquido da A in B innalzando di 3° la temperatura in B, mentre in A rimaneva costante (29°). Ciò non poteva essere prodotto che da qualche dissimmetria nel foro. Infatti, smontato l'apparecchio, fu trovato che il foro aveva la forma indicata nella fig. 10. È chiaro allora che se la bolla, alla formazione della quale è dovuta la rapida caduta della intensità, si forma nella strozzatura, la tensione superficiale sarà maggiore dalla parte di B e se si forma agli orifici lo sarà dalla parte di A. Di qui gli opposti movimenti. Bisognerà (') Child, Elect. Rev., 1899, 44°, pag. 874. Trouton, Electrician, 1899, 43°, pag. 596. — 324 — dunque dire che nella disposizione 2* si hanno indifferentemente bolle alla strozzatura ed agli orificî, in quelle della 1° (una caduta per ogni !/s pe- riodo) le bolle si formano alla strozzatura ed in quelle della 32 (3 cadute) agli orificî. Il fenomeno va ristudiato. CONCLUSIONI. Da quanto ho esposto, possono trarsi le seguenti conclusioni: 1. L'impiego nel tubo di Braun di un campo magnetico parallelo al flusso catodico rende molto più ristretta e luminosa la macchia facendola meglio adatta a fotografar le curve da essa descritte. 2. L'apparecchio di Wehnelt funziona bene anche colla corrente alter- nata e, contrariamente alla opinione del D’Arsonval dai più ammessa, in modo uguale, nei due mezzi periodi, purchè si dispongano opportunamente le cose. 3. Quando avvengono più variazioni della corrente per ogni '/, periodo, esse non sono distribuite uniformemente nel periodo stesso, ma tanto più raccolte verso la cresta della sinusoide quanto più bassa è l’intensità massima. 4. Il funzionamento provoca, come colle correnti continue, una sopra- elevazione del potenziale agli estremi dell'apparecchio. 5. Anche con corrente alternata, come s'era trovato con la continua, la corrente traverso il W. mai s'interrompe completamente per azione di questo. Quindi non propriamente l’apparecchio vien chiamato enterruttore. 6. Con apparecchio di tipo Simon simmetrico, avendosi qualche dissim- metria nel foro, si producono delle correnti di liquido indicanti modi diffe- renti di produzione delle bolle aeriformi, a seconda delle circostanze. Chimica-fisica. — Muove ricerche crioscopiche sopra solu sioni di gas in liquidi (*). Nota di Prerro FALCIOLA, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In una Nota precedente dal titolo: Ricerche crioscopiche sopra solu- zioni di gas în liquidi (*) insieme col prof. Garelli ho studiato come varia il punto di congelamento di alcuni fra i solventi più usati in crioscopia quando in essi si facciano passare i gas: anidride carbonica, acido solfi- drico, acetilene e protossido di azoto Risultò da quelle esperienze che i gas sopraddetti, gorgogliando attra- verso il solvente contenuto nella provetta crioscopica, ne abbassano il punto di congelamento e si ottengono degli abbassamenti 4 che corrispondono a (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica tecnologica della R. Scuola Supe- riore politecnica di Napoli. (*) Rend. Acc. Lincei, XIII, 110, 1904. Gazz. chim. ital., 1904, pag. 1, II. re isa DITA E ZTZNI — 325 — varie concentrazioni ce di gas sciolto nel liquido; si possono inoltre ottenere degli abbassamenti 4 massimi che corrispondono alla massima concentra - zione c di gas sciolto nel solvente alla temperatura di congelamento di quest’ ultimo. Ottenuto quindi il 4 massimo, si può, in seguito, mediante la nota equazione: calcolare la solubilità di un gas in un liquido a temperatura prossima a quella di congelamento del liquido stesso. Venne così dimostrato che era possibile per via crioscopica determinare in modo abbastanza semplice l’assorbimento di gas in liquidi congelabili. Infatti la concentrazione c calcolata colla formula dianzi scritta, riesce ad un accordo soddisfacente colla concentrazione trovata con i comuni metodi, pur mancando i dati per fare tutte le correzioni che sarebbero necessarie ad un confronto rigoroso. Ho creduto utile di estendere queste ricerche ad altri gas e ad altri solventi organici ed ho pertanto presi in esame l’ossido di carbonio, l'azoto, l’idrogeno, l'ossigeno, il metano e di nuovo il protossido di azoto. La so- lubilità di questi gas nei solventi acqua ed alcool è conosciuta per molte esperienze accurate e fu studiata anche da Just (') per altri liquidi organici di cui alcuni vennero ora impiegati anche da me. ESPERIENZE CON OSSIDO DI CARBONIO. Il metodo operatorio di queste esperienze crioscopiche è il medesimo che viene descritto nelle citate ricerche di Garelli e Falciola. Il gas depu- rato ed essiccato si fa passare attraverso il solvente contenuto nella provetta crioscopica (del quale è stato preso prima il punto di congelamento) fino a tanto che il termometro segna delle temperature di congelamento concor- danti. I risultati delle esperienze riassunte nella tabella I riuscirono in gran parte inattesi; difatti, solo nel caso dei solventi acqua ed acido formico si sono verificati degli abbassamenti del punto di congelamento; per tutti gli altri solventi questo venne invece innalzato. (1) Zeit. f. phys. Chem., 1901, XXXVII, 361. — 326 — TABELLA I. SOLA Costante ii Abbassa- Innalza- k onSoonio mento 4a mento 4; Megna O 18,6 0,0 0,015 FAGICORIOFDIICONA N Ne e 28 + 7,5 0,060 Acido acetico. . . . . 39 Bo 2° 0,020 BEenzoLoRAN A SISSI 51 + 5,9 — 0,090 Nitrobenzol ore 73 + 5,28 _ 0,425 AcidORfenicoMi MON. 76 + 38 —- 0,100 Acetofenone Meana (i.n. 56 + 19,5 —_ 0,859 prodlere 43 -+- 14,0 — 0,040 Bromuro d’etilene . . . 118 + 7,9 — 0,150 Bromoformio . . . . . 144 + 7,8 —_ 1,540 p- biclorobenzolo. . . . 74 + 52,7 - 0,070 Il gas ossido di carbonio fu preparato decomponendo a debole calore l'acido ossalico in presenza di acido solforico e fu purificato mediante pas- saggi attraverso a soluzioni concentrate di potassa caustica; fu essiccato facendolo passare attraverso a cloruro di calcio e ad acido solforico concentrato. Nel caso del bromoformio l'innalzamento sale a 1°,540 e può anche divenire maggiore se si fa prolungatamente gorgogliare il gas nel solvente. Nella tabella I e nelle susseguenti sono indicati con 4, gli abbassamenti del punto di congelamento e con 4; gli innalzamenti. ESPERIENZE CON AZOTO, IDROGENO, OSSIGENO. Esperienze analoghe a quelle sopra riportate per il gas CO, eseguii anche per i gas N3,H.,0:; i risultati sono riassunti nella tabella II. I numeri segnati coll’asterisco nelle tabelle II, III e IV indicano degli in- nalzamenti che non sono i massimi e che probabilmente possono divenire maggiori con ripetuti e prolungati passaggi di gas attraverso il solvente. TABELLA II. GAS SOLVENTE Azoto Idrogeno Ossigeno IAC GUMP ESTE 4a insensibile | 4, insensibile | 4g insensibile Acido formico . . Aa 0°,495 Aa 0°,090 Aa 0°,180 Acido acetico . . Aa 0,125 Aa 0,080 Aa 0,200 BenZol OMMI RE 4; 0 ,095* Ai 0,220* A 0I208 Nitrobenzolo . . . — 4; 0,800 Ai 0 320% Nerola suo e o = 4; 0 ,230* — Bromoformio . . . 4; 1 ,110* 4i 1 ,105* Ai 0 ,570* — 327 — Questi gas furono preparati coi metodi consueti di laboratorio e conve- nientemente purificati ed essiccati. ESPERIENZE CON METANO E PROTOSSIDO D'AZOTO. Infine eseguii altre ed analoghe esperienze con metano e con protossido di azoto; i risultati sono riassunti nella tabella III. TABELLA III. GAS SOLVENTE Milfino Protossido d’azoto ACQUARI SO 4g insensibile Aa 0°,105 Acido formico. . . Aa 09,400 _ Acido acetico. . . Aa 0,080 Aa 0,790 BenzoloRs AN neo 4a 0,130 Aa 0,725 x Nitrobenzolo . . . di 0,265 Aa 0,470 Molo. o o seo 4; 0,420 — Acetofenone . . . — da 0,255 Bromoformio . . . Ad; 0 ,865* Aa 0,160. Il metano fu preparato decomponendo ad elevata temperatura acetato di sodio in presenza di calce sodata. Fu fatto passare attraverso a soluzione di soda caustica ed essiccato col cloruro di calcio e l’acido solforico. Il protossido di azoto fu preparato come nelle esperienze citate di Ga- relli e Falciola. Il protossido di azoto nel bromoformio dà luogo ad un abbassamento di 4,= 0°,160; però insistendo nel passaggio del gas attraverso il solvente, si nota in seguito un innalzamento 4; = 0°,125 che non è probabilmente il 4; massimo. X x x Il fenomeno dell’innalzamento del punto di congelamento si manifesta dunque in modo certo per i gas CO, N. , H.,0;; non si verifica per i gas CO, , HS, C.H,, N30; ha luogo in parte anche pel metano come risulterà evidente dalla tabella riassuntiva IV. oTmmu isenb | 09T°0 ?7 0030 ?7 185°0 27 c98°0 *7 | «0FST "7 OTT *7 | «0490 *7 SOTT *7 ” © OFULIOJOWLOXT = = = = = «OST 7 È * = " Qua]Izo p OIMUOIT = = ca = S 0700 *7 = $ = 3 ose -d S = “ " 0Gr0 *7 0010 *7 = = 0660 *7 AO TOL H 00S°0 ?7 GIco ?7 0960 27 8671 27 = xG980 7 = = = © ° ‘© @9UO0U970390y = oLv'o 27 # = G930 *7 coro *7 = «0980 #7 | «0080 *7 "© OJOZUOQOIZIN ogjnu isenb | GGL'o 7 OLLO 27 OF}1 27 0ET0 ?7 06040 *7 | «600 *7 | «0GI°0 #7 | «0600 !7 O] OZIIO 1 ouodwo99p 18] 0620 "7 0660 ?7 SPOT 27 080°0 ?7 0700 *7 Selo 27 003‘0 ?7 080°0 ?7 ° * 7001399€ OpIioy ofmu Isenb = 08S°0 27 Goro 27 007°0 "7 090°0 27 GGFO Py 0gtT0 °7 0600 ?7 "© OOIUIIOJ OPpIoy G6L0 "7 SOTO ?7 SITO "7 080002720) ali qisuesrazz RESTO: 0RSZN DIL SUSS Ue Ita iStleSttaz OTIASISALI dA REI S°H O°N 509 SH°O "HO 00 SN 50 nl SLLNMA"TOS ‘sof 11Da 19P 09200980249 07UIUDILOKWOI QuS 0RLunssvIL 0092208 ‘AI VIIUAVI — 329 —. Dalle citate esperienze di Just risulta che il CO, l' N e l’Hs (i quali dànno innalzamento 4;) differendo dal comportamento generale dei gas, sono, rispetto a certi liquidi, più solubili a 25° anzi che a 20°. Mentre la solu- bilità dell’ossido di carbonio in nitrobenzolo, benzolo, acido acetico e p- xilolo è rispettivamente, a 25°: 0,09366 0,1707 0,1714 0,1781 a 20° è invece: 0,09105 0,1645 0,1689 0,1744 verificandosi le diminuzioni sottoindicate dei coefficienti di solubilità : 0,00261 0,0062 0,0025 0,0037. Anche per altri liquidi organici si verifica lo stesso e Just ha fatto notare che, nel caso in cui si adoperino come solventi il tetracloruro di car- bonio e il cloroformio, dopo che sî è assorbita una maggior quantità di gas, în queste ricerche, a differenza delle altre, non viene raggiunto in seguito a frequenti agitazioni, uno stato di equilibrio ma il volume del gas diminuisce peco a poco sempre più. Fino a quando perduri questo fenomeno non fu ricercato (*). L'autore ammette poi che lateralmente all’assorbimento del gas nel liquido sia possibile una reazione chimica lenta; rileva pure l'impossibilità di una sottrazione di cloro da parte dell'idro- geno, data la stabilità del solvente nelle condizioni di ricerca. Nelle presenti esperienze non ho ottenuto sempre un innalzamento del punto di congelazione ad un primo passaggio del gas nel liquido; talora gli innalzamenti furono preceduti da lievi abbassamenti. Non ho potuto per ora stabilire quali siano gli abbassamenti massimi che si verificano prima che si incominci ad avere il 4; e ricercare se si possa attenere un 4; mas- simo nel caso in cui l'innalzamento del punto di congelazione ha dimostrato tendenza a crescere in seguito a prolungato passaggio di gas. Tl benzolo attraverso cui è passato l’ossido di carbonio e pel quale fu fatta la determinazione di un innalzamento 4;, riprende il punto di conge- lazione del solvente puro dopo il riscaldamento e tende anche a ripren- derlo, molto lentamente però, lasciandolo a sè, a freddo. Il bromoformio invece attraverso cui sono passati il CO e l'N., lasciato a sè qualche giorno fuori contatto dell’aria e all'oscuro, manifesta di conservare inalterato l'in- nalzamento 4; che si era prima verificato in conseguenza del passaggio del gas. Naturalmente si può supporre che nei casi in cui prima di ottenere i 4; sì ottengouo dei lievi abbassamenti, avvenga, in un primo tempo, so- luzione regolare del gas nel liquido; la quale però potrebbe anche sussistere in parte nel secondo tempo in cui si verifica il 4;. (’) Zeit. f. phys. Chem., 1901, 37, 359. RenpIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 42 — 330 — Risulta quindi evidente che la nota equazione o= 4 è applicabile, secondo queste esperienze soltanto nei seguenti casì: SOLVENTE GAS SCIOLTO ei Acqua Ossido di carbonio. . . 0,0222 ‘Acido Sformico |MIAroseno RR 0,0064 ” Ossiceno ln nin i. 0,2057 ” AZONORBR I 0,495 ” Ossido di carbonio . . 0,0600 ” Metanort: atuenosoi Hr 0,2285 Acido acetico | Idrogeno . . . . . . 0,0041 ” OSSICENONR A NONE 0,164 È) (ATZOLO MM niet 0,1153 ” Merano grana erre 0,0328 ” Protossido d’azoto. . . 0,891 Benzolo Merano fiero n 0,2286 Nitrobenzolo Protossido d’azoto . . . 0,2926 Naturalmente il metodo crioscopico non è sufficientemente esatto per determinazioni rigorose di solubilità; infatti questa non è calcolata nel caso che sia piccolissima come è per esempio per l'ossigeno, l'idrogeno, l'azoto in acqua. Quello che adunque rimane fin quì accertato è il fatto che molti gas, gorgogliando! attraverso il solvente, ne innalzano il punto di congelazione. In questi casi non sembra si tratti di azione chimica perchè gl innalzamenti, in massima, tendono a scomparire col riscaldamento del solvente o col tempo. In base alla teoria generale delle soluzioni, questo fenomeno interessante condurrebbe ad ammettere che parte del gas rimanga aderente al solvente e si separi con essa allo stato solido. Forse si tratta qui di speciale assorbi- mento che i gas subiscono per parte dei cristalli del solvente. Si rientre- rebbe quindi in questo caso nella teoria delle soluzioni solide delle quali gli assorbimenti (adsorptionen) sembrano essere un caso particolare. Continuerò, addentrandomi in maggiori particolari, queste esperienze che sembrano molto interessanti per lo studio degli equilibrî chimici eterogenei, estendendolo ad altri gas. — 381 — Chimica. — Decomposizione elettrolitica di acidi orgamici bicarbossilici (acido pimelico)(*). Nota del dott. B. L. VANZETTI, presentata dal Socio G. KOERNER. Nel pubblicare i risultati di ricerche eseguite precedentemente sull'azione della corrente elettrica sui sali neutri degli acidi della serie ossalica a ca- tena normale (glutarico, adipico, suberico) (*), ho avuto occasione di mettere in evidenza il fatto che per l’allungarsi della catena carbonica si rendono sempre più complessi i fenomeni secondarî dell’ossidazione anodica e si av- verano interessanti casi di sintesi, in conseguenza della demolizione dell’anione organico all'atto in cui avviene la sua scarica all’anodo, con formazione di alcoli e di acidi non saturi, dei loro prodotti di eterificazione, di ossiacidi e di lattoni, e di sostanze contenenti il carbonile aldeico e chetonico formatosi in seguito all’azione dell'ossigeno anodico. Dimostrai allora che mentre per l’acido succinico si ha, secondo le clas- siche ricerche di Kekulé, formazione di idrocarburo non saturo (etilene) in quantità notevole — il che si interpreta ammettendo la decomposizione della anione -00C-CH,.CH;-C00-, con la perdita contemporanea dei due COO - e formazione di un doppio legame —, un fenomeno analogo, o per meglio dire la formazione di idrocarburi non saturi, si ha molto più difficilmente dagli omologhi superiori, e tanto più difficilmente quanto più si allunga la catena degli atomi di carbonio. Cosicchè, mentre in condizioni analoghe l'acido glutarico HOOC -CH.-CH..CH,. COOH dà poco propilene, l’adipico H0OOC:-CH,:CH,-CH.,-CH,- COOH dà piccolissime quantità dei due idro- carburi butileni a catena normale e l'acido suberico HOOC -CH,- CH. -CH,- CH,-CH,-CH,-: COOH non dà idrocarburi in quantità apprezzabile. Potei accertare inoltre che, anche variando le condizioni della elettro- lisi, non si ha mai formazione di idrocarburi delle serie alicicliche, vale a dire dei corrispondenti tri-, tetra-, esametilene, la cui formazione si rende- rebbe verosimile quando i due COO dell’anione uscissero contemporanea- mente. Restava ancora da studiare il caso dell'acido pimeléco HOOC . CH; . CH». CH;: CH,-CH,- COOH, per il quale la chiusura dell’anello aliciclico (penta- (3) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica organica della R. scuola super. di agricoltura di Milano. (2) Rend. Accad. Lincei, vol. XIII, 2° sem. 1904, f. 2. — 332 — metilene) dovrebbe presentare il massimo di probabilità. Risulta invece dalle presenti esperienze che neanche in questo caso si ha la formazione dell’anello carbonico, e si separano invece, vicino a piccolissime quantità di idrocarburi non saturi più complessi, l'ezileze ed il propilene ordinario in quantità pres- sochè eguali. La decomposizione dell'acido pimelico si fece in cellula speciale, in cui spazio anodico e spazio catodico erano divisi da una membrana di perga- mena vegetale: la concentrazione primitiva del sale era di circa 30 °/. Il massimo di produzione di idrocarburi non saturi si potè avere con una cor- rente di densità 0,6-0,7 (agli elettrodi 15 V, temperatura media 35°). In questa reazione dimostra però molta attività l'ossigeno anodico, il quale resta completamente fissato. Si forma anche una certa quantità di CO. L'assenza assoluta di pentametilene e di idrocarburi isomeri della serie delle olefine, tra i prodotti gasosi della reazione fu accertata con ogni cura, facendo passare il gas in recipienti circondati da miscele frigorifere (ghiaccio e sale, anidride carbonica ed acetone), e, per i liquidi, sottoponendoli a distil- lazione frazionata (l'olio, che galleggia sulla soluzione a decomposizione inol- trata, lascia distillare le prime gocce sopra 150°, mentre gli idrocarburi in questione dovrebbero bollire a temperature inferiori a 60°). L’etilene ed il propilene furono trattenuti facendoli assorbire dal bromo. Se ne ottennero i bromuri corrispondenti, i quali furono separati abbastanza facilmente ed identificati per il punto di ebollizione, per il peso specifico e per il loro contenuto in bromo. Quanto alla composizione della soluzione dopo l’elettrolisi e dell'olio formatosi, si dimostra analogia completa con quelli ottenuti dalla elettrolisi del suberato; anche qui si tratta essenzialmente di sostanze appartenenti 2 serie non sature, che hanno una analoga origine ('). Il liquido riduce già a freddo ed istantaneamente le soluzioni permanganiche, e riduce pure a freddo, ma più lentamente, la soluzione ammoniacale di argento ed il liquido di Fehling; alcoli ed acidi si lasciano facilmente separare con operazioni suc- cessive (saponificazione, distillazione in vapor d’acqua, estrazione con etere), una parte si resinifica in soluzione alcalina a caldo, una piccola quantità di sostanza neutra passa in combinazione col bisolfito alcalino. Se ora tentiamo di dare una spiegazione del modo come sì formino etilene e propilene, ci si presenta come prima e più semplice ipotesi la de- molizione in due parti del residuo pentametilenico proveniente dalla decomposi- zione dell’anione all’anodo, nel momento in cui quel resto di molecola cerca di assumere un assetto stabile, che risponda alle esigenze della valenza; in questo caso bisogna ammettere la dissociazione ternaria della molecola e la 1) Vedi loc. cit — 333 — fuoruscita contemporanea dei due COO: 000: Loc SE CH; OH. (Ha; CR. CH, 0 CH, CH, CH CH, CH, CH, 000. Riesce però difficile in questo caso capire perchè le due valenze libere estreme del gruppo pentametilico non si uniscano tra loro a formare il pen- tamilene. Si potrebbe allora pensare che la dissociazione avvenga in due fasi, che si seguirebbero rapidamente, lasciando tuttavia il tempo al prodotto della prima fase di avviarsi verso la stabilità. Ciò sarebbe, del resto, in armonia col comportamento degli acidi bibasici i quali, a una certa concen- trazione, somigliano agli elettroliti binarî, tanto che vale per essi la formola: aC lt = K (costante di dissociazione) ricavata dalla applicazione della legge delle masse alle sostanze, che in soluzione forniscono due sole specie di ioni. Ne sisulta dunque, che se la presenza del secondo carbossile rafforza l'acidità e rende quindi più profonda la dissociazione del primo, la carica negativa che l’anione formatosi così riceve, si oppone alla dissociazione del secondo. Si sa inoltre che sul fenomeno della dissociazione ternaria ha grande influenza la posizione reciproca dei due car- bossili, e precisamente la vicinanza dei carbossili tra loro difficulta la disso- ciazione ternaria. Ed è appunto negli acidi a 5-6 e più acidi di carbonio che i carbossili possono raggiungere la massima vicinanza, come dimostra la loro tendenza alla formazione di anidride. Si sarebbe così tratti ad ammet- tere che in questi casi la formazione degli idrocarburi segua un processo molto più complicato ed essi traggano origine da sostanze secondarie forma- tesi nella dissociazione parziale. — 334 — Agronomia e Chimica agraria — Intorno ai vecchi ed mm nuovi concimi azotati: calciocianamide, nitrato di calcio, solfato ammonico e nitrato di sodio. Nota del dott. VittoRIO NAZARI, pre- sentata dal Socio BR. PIROTTA. Intorno all'uso della calciocianamide e del nitrato di calcio sono state fatte e si continuano numerosisssime esperienze. Da tempo si conosceva l’in- fluenza dell'azoto nitrico quando è unito al calcio, e le nuove ricerche, po- steriori al trovato dei norvergesi Birkeland ed Heyde, non hanno avuto e non potranno avere altro còmpito essenziale, che quello di determinare, per mezzo di esperienze (particolarmente di campo), quale valore devesi attri- buire all’unità di azoto contenuto nel nitrato di calcio, in confronto a quello del nitrato di sodio. La calciocianamide, invece, ha costituito e costituisce tuttora oggetto di interessanti e numerose prove. Infatti, sin dai primi studî eseguiti sulla azione dell'azoto contenuto nella cianamide, si è assodato che esso non è direttamente assimilabile dai vegetali; che, anzi, malgrado alcune prove in contrario, è indubbia un'azione venefica della cianamide stessa, eser- citantesi sui tessuti delle piante. Ond’'è che rendesi necessario che la ciana- mide si trasformi nel suolo e, sino a tal punto, da poter costituire una sor- gente di azoto utilizzabile dalle coltivazioni. Ora, quantunque parecchi sperimentatori si siano occupati, durante questi ultimi anni, a ricercare quali trasformazioni la calciocianamide è capace di subire nel suolo, si sa assai poco di preciso al riguardo. Le difficoltà originano, specialmente, dal fatto che si tratta di sostanze di aggruppamento molecolare tale da risentire fortemente, non solo l'influenza degli agenti chimici che nel terreno spiegano la loro azione, ma anche, e più, quella degli agenti biologici. E siccome, quando entrano in azione le fermenta- zioni, quando cioè si ha a che fare con organismi viventi, debbonsi tenere pre- senti tutte quelle condizioni di ambiente le quali possono far variare l’attività delle cellule vitali, le questioni che si riferiscono alla trasformazione della calciocianamide diventano complesse e, pertanto, meritevoli di ulteriori ricerche. Si aggiunga che, sin da quando la Società che si occupa delle fab- bricazione della cianamide mise in vendita il suo prodotto, oltrechè gli scienziati, si occuparono di sperimentarlo anche molti agricoltori più o meno istruiti. Ne derivarono giudizî contradittorî sulla efficacia del nuovo concime, giacchè, come abbiamo detto, la cianamide è sostanza la quale, essendo subor- dinata all'attività dei fermenti che vivono nel suolo, presenta, nei suoi effetti sulle piante, variazioni notevolissime da caso a caso. Ne consegue che tutte quelle esperienze, nelle quali non si tenga conto delle singole condizioni in cui esse sono state condotte, anzi che a favorire l’uso del nuovo concime, aumen- — 335 — tando le discordanze di opinioni, già assai numerose, non riescono che ad ingarbugliare sempre più la questione e ad intralciare, poco o molto, il lavoro di coloro i quali, mentre possiedono l’attitudine a sperimentare e non mirano se non alla ricerca del vero, tendono a stabilire tutte le condizioni dalle quali si può, in pratica, trarre il massimo beneficio possibile dall'uso della cianamide di calcio. Molte sono le cause, che possono far variare il coefficiente di utiliz- zazione dell'azoto della calciocianamide, ma le principali sono le seguenti: a) natura del terreno; 5) clima, specialmente in riguardo alle condizioni pluviometriche; c) tempo e modo di somministrazione del concime. La natura del suolo spiega una influenza assai notevole: ciò è stato facile stabilire dal momento che, se da una parte le ricerche di Léòhnis, di Ashby e di Kappen, assodarono che la cianamide di calcio vien trasformata principalmente dai microrganismi del suolo, dall'altra era noto quanta in- fluenza avessero su tutte le fermentazioni, la maggiore o minore compattezza del terreno, la ricchezza in materia organica, tutte le proprietà fisiche e chimiche e, in special modo, il potere assorbente. Il grado di umidità del terreno ha ancora grande importanza, poichè in esso hanno vita i microrganismi di fermentazione. La temperatura, oltre certi limiti, può riuscir dannosa, giacchè è noto come, tra le condizioni che in- ducono la polimerizzazione della cianamide in dicianodiamide, vi è quella di un riscaldamento a circa 40°. Queste le principali questioni concernenti l'uso del nuovo concime. Ma hanno ancora importanza per la sua efficacia: la reazione dei concimi con i quali si associa; la possibilità di usare, nelle concimazioni, delle mesco- lanze di cianamide e di perfosfato, di cianamide e scorie, e così via; la convenienza di accompagnare il nuovo concime con una somministrazione di una certa quantità di letame, atto a favorire l'iniziarsi e lo svolgersi delle non poche trasformazioni che la cianamide deve compiere prima di venire utilizzata dalle piante. Non staremo a ripetere, infine, ciò che riguardo al tempo e al modo di somministrare la cianamide si è detto e si è stabilito. Quello che occorre tener presente in proposito, è che molte controversie esistono ancora, e che perciò si rendono necessarie nuove esperienze. A) Influenza del contenuto del terreno in materia organica, sul- l’azione concimante della calciocianamide. Già alcuni sperimentatori, in diverse prove colturali, hanno potuto accer- tare che la calciocianamide riesce di maggiore utilità quando, contempora- neamente ad essa, venga somministrata al suolo una certa quantità di stal- latico. Tale benefica influenza deve spiegarsi col fatto che i microrganismi — 336 — preposti alla trasformazione della cianamide, trovando nel terreno abbon- dante ed ottimo substrato nella materia organica del letame, spiegano una maggiore attività e conducono, in ultima analisi, ad una più rapida e più completa ammonificazione e nitrificazione dell'azoto della calciocia- namide. Ora, con le esperienze che noi abbiamo creduto opportuno istituire in proposito, ci siamo proposti di ottenere, anzitutto, una conferma dei fatti osservati da Haselhof e da Hardt, ed anche di determinare sino a qual punto la quantità di materia organica somministrata, può esercitare detta influenza benefica. Si sono scelte dieci aiuole di terreno sabbio-calcare, della estensione di 100 mq. ognuna; di esse, due non hanno ricevuto stallatico, le altre otto ne hanno ricevuto le quantità indicate nella tabella che facciamo seguire. La calciocianamide è stata somministrata a tutte le aiuole nella pro- porzione di ql. 2 per ettaro, spargendola sullo stallatico e sotterrandola insieme a questo, con unico lavoro di vangatnra, a 25 centimetri circa di profondità. La semina del frumento, a righe, distanti fra loro 20 centimetri circa, venne eseguita dopo 13 giorni dal detto lavoro di vangatura. Per brevità non accenniamo ai lavori di coltivazione successivi, quali le scerbature, la mietitura, la trebbiatura, ecc. Si fa notare, peraltro, che detti lavori furono eseguiti in modo identico per tutte le aiuole. << << [I[9lt1.________——_—_—_—__—_—_-_"___+____+_+_+ _ {{_{ T_T EEEé \ PRODOTTO PER AIUOLA DI MQ. 100 QUANTIT _ Con calciocianamide | Senza calciocianamide di letame per Ha QUINTALI Totale Semi no Totale Semi RE Kg. | Kg. Kg. Kg. Kg. Kg. 0 40,2 13,5 26,7 30,0 9,3 20,7 100 49,5 17,9 31,6 88,1 12,5 25,6 300 72,9 22,57 49,8 56,9 16,8 40,1 600 87,3 25,0 62,9 68,7 20,2 48,5 1000 90,5 27,2 53,9 71,4 17,4 54,0 Tali risultati inducono a far pensare come veramente proficua possa riu- scire la presenza di materia organica, nelle concimazioni con la calciocia- namide. Essi confermano le osservazioni dei suaccennati sperimentatori e mo- strano, per di più, come influisca la quantità del letame. Invero, mentre i prodotti sono stati tanto più alti quanto maggiore è stata la quantità dello stallatico, gli aumenti si sono verificati in molto maggiore misura nelle aiuole concimate con calciocianamide anzichè, nelle — 337 — altre non concimate; il che val quanto dire che, quanto maggiore è stata la quantità di materia organica che la cianamide ha trovato nel terreno, e tanto più grande è stata la utilizzazione dell'azoto in essa contenuto. Nelle esperienze degli anni venturi, cercheremo di paragonare gli effetti del sovescio a quelli dello stallatico. Abbiamo ragione di supporre che col primo, anzi che col secondo, si debbano avere migliori risultati stante che il letame deve essere, in genere, meno atto del sovescio, a favorire lo svi- luppo dei piccoli organismi, ai quali devesi la trasformazione e la minera- lizzazione dell’azoto della calciocianamide. B) Sulla profondità alla quale conviene sotterrare la caletocia- namide. A queste esperienze abbiamo destinato sei aiuole di mq. 100 ognuna, tre delle quali poste in un appezzamento a terreno sabbio-calcare e tre in terreno argillo-calcare. La quantità di concime somministrato è stata, anche in questo caso, in ragione di due quintali per ettaro. Il sotterramento della calciocianamide fu dovunque eseguito 10 giorni prima della semina, alla profondità di centimetri 5 in un caso, di centi- metri 20 in un altro, di centimetri 35 nel terzo. Le variazioni eventuali dei risultati che saremmo stati per ottenere in tali condizioni, però, non si sarebbero potute attribuire solamente alla influenza della profondità alla quale era stato sotterrato il concime mentre si sarebbe potuto obiettare che in quei casi in cui il sotterramento sì era eseguito superficialmente, il terreno era stato più scarsamente lavorato e quindi reso meno atto a fornire un buon prodotto. Per eliminare quindi tale causa di irregolarità delle esperienze, siamo ricorsi al seguente espediente. Prima di spargere il concime e di eseguire i detti lavori di sotterramento, abbiamo fatto subire alle aiuole tre vangature successive, accuratamente ese- guite, per mezzo delle quali si venne ad operare un perfetto rivolgimento e rimescolamento della terra per uno spessore di circa 30 centimetri, tale da far ritenere pressochè uniforme in tutti i suoi punti il terreno di detto strato. In queste condizioni potemmo esser sicuri che un lavoro immediata- mente successivo, diversamente profondo da aiuola ad aiuola, non avrebbe condotto ad alcuna variazione di risultati, se non a quella che, eventual- mente, sarebbe dipesa dalla profondità, diversa da caso a caso, alla quale il concime sì era sotterrato. La pianta scelta per queste prove è stato il frumento marzuolo. Tralasciamo, anche a proposito di queste esperienze, di accennare ai lavori colturali e a quelli di raccolta, i quali tutti furono identici per le sei aiuole. Indichiamo, senz'altro, i prodotti ottenuti: RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 43 — 338 — ; SU TERRENO SABBIO-CALCARE | SU TERRENO ARGILLO-CALCARE Profondità N. delle alla quale Prodotto | Prodotto IRSL venne interrata la calciocianamide Totale Semi A Totale | Semi iano 1-4 CIOSNA O 39,5 14,8 24,7 46,0 18,0 28,0 2-5 DIO) o 48,3 18,1 30,2 59,0 20,9 38,1 3-6 DOO 42,4 16,8 25,6 52,4 19,0 33,4 Differenze relativamente piccole si notano tra i risultati ottenuti nel terreno sabbioso e quelli forniti dall’argilloso. Questo fatto non coincide con quanto a priori si sarebbe potuto credere, anche perchè un ben diverso com- portamento ha la calciocianamide nei singoli tipi di terreno, specialmente quando si tratta, come nel caso nostro, di paragonare un terreno sabbioso ad uno argilloso. Nessuna deduzione, però, da ciò si può trarre, che intacchi lo spirito informatore delle presenti esperienze, poichè differenze sensibilis- sime si sono avute nei prodotti delle parcelle, a seconda della profondità alla quale il concime era stato sotterrato. I migliori risultati sono stati dati dal sotterramento a 20 centimetri; i peggiori dal sotterramento più superficiale. Ora, quanto fino ad oggi è noto circa le trasformazioni che subisce la calciocianamide nel terreno, ci fornisce le ragioni atte a spiegare i fatti da noi accertati. L'azoto della cianamide di calcio, trascorso un periodo di tempo più o meno breve, dopo il suo spargimento, trasformasi in ammoniaca, ed è sotto questa forma che vien trattenuto dal terreno. Posto ciò, se, come è il caso delle nostre aiuole 1 e 4 il concime trovasi incorporato ad un piccolo strato di terreno superficiale, ci sembra non si possa dubitare che delle perdite di ammoniaca (sotto tale forma, oppure sotto quella di carbonato ammonico), possano verificarsi. Che se, per contrario, la produzione di tale ammoniaca fosse avvenuta in seno ad un sufficiente volume di terreno, l'alcali man mano liberantesi, non sarebbe potuto pervenire alla superficie del suolo e disperdersi, senza attraversare un maggiore strato di terra, la quale, pel suo potere assorbente, l'avrebbe trattenuto. Ma oltre a ciò, qualche altra causa ha dovuto determinare le accennate differenze nei nostri risultati. Com'è noto, la calciocianamide, per azione dell’acqua, si sdoppia in cianamide e idrato di calcio: la cianamide poi, se si trova in soluzione sufficientemente diluita, subisce quelle trasformazioni operate da microrganismi, le quali fanno passare il suo azoto allo stato — 339 — ammoniacale; mentre, se la soluzione che la contiene è relativamente con- centrata, può aver luogo la formazione di dicianodiamide, sostanza la quale è eminentemente velenosa per le piante secondo alcuni, e che, ad ogni modo, a queste ultime non è utile. Ora, nelle aiuole 1 e 4, dove, cioè, il sotter- ramento troppo superficiale del concime ha posto questo in uno strato di terreno poco umido, abbiamo ragione di dubitare che il fatto accennato della formazione di dicianodiamide si sia potuto verificare; tanto più che, dopo eseguito il sotterramento, per ben otto giorni non è caduta alcuna pioggia, e perciò il terreno, già poco umido, sì è reso ancora più asciutto. Che l'interramento, infine, alla massima profondità (35 centimetri), sia riu- scito meno efficace di quello medio (20 centimetri), ci sembra si possa spiegare: in primo luogo, col fatto che il concime interrato troppo profon- damente ha potuto subire delle perdite in cianamide (la quale è molto so- lubile in acqua), perdite più notevoli di quelle che, eventualmente, si sono verificate nelle aiuole 2 e 5; e, in secondo luogo, con le maggiori perdite che poteronsi verificare anche per l'azoto nitrico, a suo tempo prodottosi a spese dell'azoto della cianamide. Infine è da tener presente che, trattandosi di un concime il quale, per rendersi utile alle piante, deve necessariamente subire trasformazioni operate da agenti organizzati viventi, un interramento troppo profondo è da ritenersi, in genere, dannoso, se non al coefficiente di utilizzazione del concime stesso, almeno alla prontezza della sua efficacia. C) Influenza di alcuni concimi fosfatici, potassici e calcari, sul- l'azione concimante della calciocianamide. Il quesito che ci siamo proposti di risolvere con queste altre esperienze, è stato quello di determinare, per alcune coltivazioni, per questo primo anno pel frumento, se e come varia la utilità di una concimazione azotata fatta con calciocianamide, a seconda che con essa si associa una concimazione fosfatica di scorie, di perfosfati minerali o di perfosfati d'ossa; con una con- cimazione potassica di solfato potassico o di leucite; ovvero con una som- ministrazione di calce o di gesso. Riteniamo superfluo far rilevare di quanta importanza sia tale argo- mento, poichè è noto quale differenza di comportamento abbia l'uno di tali concimi di fronte ad un altro della stessa categoria, sia per la diversa com- posizione chimica, sia per la differente suscettibilità a subire trasformazioni chimiche e chimico-biologiche. Gli studî del Janusensky sulla influenza della reazione del suolo e dei concimi ai quali si associa la calciocianamide, ri- guardano per l'appunto gran parte dell'argomento che con queste esperienze colturali abbiamo impreso a trattare; e i risultati ottenuti da questo studioso giapponese, sono tali da incoraggiare la istituzione di estesi saggi di colti- vazione, aventi di mira la ricerca di quest'altra causa di variazione del pro- dotti, la reazione, cioè, del suolo e dei concimi in genere. — 340 — Per queste prove, che ci proponiamo di ripetere per varî anni conse- cutivi, abbiamo scelto un appezzamento posto su di una parte del campo a suolo argilloso. Nella tabella che facciamo seguire, vennero raccolti quei dati che sono necessarî od utili, alla interpretazione dei risultati conseguiti. Le cure di coltivazione furono identiche a quelle prodigate per le pre- cedenti esperienze. $ CONCIMI: LORO QUALITA’ E QUANTITÀ’ PER ETTARO PRODOTTI DI OGNI AIUOLA F | Calcio- p IRAN 3 È Sena Do i: 0 doc ai oi E SI d'ossa. [minerale | TROMAS (potassico potassico iva) 1| 200 — —_ — —_ _ D = — 68,4 | 15,7 | 52,7 2 200 | 300 — “ —_ e — —_ —_ 87,2 | 18,9 | 68,3 3 | 200 —_ 300 = — = = — — 82,0 | 18,8 | 63,2 4 | 200 —_ — 300 — — —_ = — 78,7 | 16,2 | 62,5 5 | 200 —_ _ — 100 = —_ —_ — 92,0 | 194 | 72,6 6 | 200 —_ —_ = = 400 — — — 983,277 7) 200 — — — = —_ 80 — — 73,9 | 17,0 | 56,5 8 | 200 — _ —_ —_ — —_ 400 — 73,6 | 16,0 | 57,5 9 | 200 — _ — — = — = 300 05918 MES MOL 10 | 200 | 300 —_ == 100 —- —_ — — 89,4 | 24,3 | 65,1 11 | 200 i 300 —_ 100 — — — — 88,3 | 22,1 | 66,2 12 | 200 — _ 300 100 — — — — 79,7 | 23,8 | 55,9 13 | 200 | 300 _ —_ _ 400 — — —_ 80,8 | 20,0 | 60,8 14 | 200 — 300 — — 400 —_ — —_ 84,2 | 18,8 | 65,4 15 | 200 — — 300 — 400 — _ oa 83,5 | 19,7 | 63,8 16 | 200 — 300 —_ — _ — 400 — 78,0 | 15,7 | 68,1 17 | 200 — 300 — _ _ —_ — 300 90,1 | 16,2) 73,9 Premesso che, secondo quanto abbiamo più innanzi accennato, stante la ristrettezza dello spazio disponibile, queste esperienze debbono ritenersi, per varie ragioni, non del tutto complete, e rammentato ancora una volta che i saggi colturali in piena terra, vogliono essere ripetuti parecchi anni, prima che al risultati da essi forniti si possa dare un valore assoluto, possiamo, tut- tavia, dalle prime esperienze di questo anno, trarre alcune deduzioni generali. Delle tre concimazioni fosfatiche, ha dato migliori risultati quella con perfosfato d'ossa; dei tre concimi potassici, si sono dimostrati pressochè egual- mente utili la leucite e il solfato potassico e, di quelli calcici, il gesso è stato meno efficace della calce. — 341 — Ora a noi sembra che tali risultati, nel loro complesso, stiano a dimo- strare che la calciocianamide si è resa maggiormente utile in quei casì in cui, le condizioni dell'ambiente suolo, si sono trovate le più favorevoli alla prosperità dei microrganismi. Senza entrare, per ora, nei particolari, accenniamo solo al fatto che il perfosfato d’ossa deve riuscire, come concime da associarsi alla calciociana- mide, più efficace di quello minerale, oltre che per altre ragioni, anche perchè contiene una certa quantità di sostanza facilmente fermentescibile, che può servire assai bene alla vitalità del microrganismi. Finalmente il gesso dovrebbe tornare più utile della calce, oltre che per la sua influenza sui materiali del terreno contenenti potassa insolubile, anche per l'azione stimolante che esso esercita su molte specie vegetali inferiori. D) Paragone fra vecchi e nuovi concimi azotati. Così come in alcune parti d'Italia e fuori molti si occupano di stabilire, mediante multiformi esperienze, il valore da attribuirsi all'uno o all’altro dei nuovi concimi azotati, paragonati ai vecchi, anche noi, per quel che ci è stato possibile, abbiamo iniziate alcune prove in proposito. Nelle quali prove le quantità dei concimi somministrati sono state tali, che ognuno di questi ha apportato al suolo una quantità di azoto costante : 30 chilogrammi, cioè, in ragione di un ettaro. i A tutte le aiuole inoltre si è dato del perfosfato minerale (16/18), nella quantità di 300 chilogrammi per ettaro; mentre non si è ritenuta utile, con- siderata la natura del terreno scelto, alcuna somministrazione di concimi po- tassici o calcari. Le esperienze sono state eseguite su terreno argillo-calcare. Il contenuto in azoto dei concimi usati è indicato dalle seguenti cifre: Nitrato sodico Niper >. AM 4,30 Solfatoliam moniconi: gent n. Ce 070) NitratoRdiicaleioni Mio o —. e 47 Calciocianamidem@Metben = eee lo 10 Le esperienze vennero eseguite sul frumento. I due nitrati furono sparsi in tre volte nel corso della primavera; il solfato ammonico fu dato: in un caso, tutto alla semina; in un altro, tutto in copertura; in un terzo, metà alla semina e metà in copertura. Per la calciocianamide si seguirono gli stessi periodi di somministrazione che per il solfato ammonico: soltanto si ebbe cura di somministrare la cianamide alla semina 15 giorni prima che quest'ultima venisse fatta, mentre il solfato si è sparso soltanto un giorno avanti. — 342 — = Numero PRODOTTO DI OGNI AIUOLA DI MQ. 100 | delle CONCIMAZIONE AZOTATA | aiuole Totale Granella P RENO D il | |a Rorien e ee a 0 le o 108,0 27,5 70,5 | 2 DG GORE O0O] 26,8 73,2 Î 9 Solfato ammonico: tutto alla semina. . .. . 92,2 25,9 66,3 | 4 Solfato ammonico: !/» alla semina e 1/s in co- perturalicà Afetenti e an 112,0 32,1 79,9 | 5. | Solfato ammonico: tutto in copertura... . . 97,6 26,4 71,2 | 6 Calciocianamide: tutta alla semina... . . 90,0 22,9 67,7 | ri Calciocianamide: '/» alla semina e !/» in copertura 78,9 20,3 58,6 Ì 8 Calciocianamide : tutta in copertura . . . . . 67,3 16,0 50,5 | 9 SCNZAZAZO LO N a REA O I 59,6 15,9 38,7 | Dalle cifre della tabella risulta, anzitutto, che differenze non molto grandi si sono avute con l’uso dei due nitrati e del solfato ammonico: que- st ultimo però ha dato una produzione in granella sensibilmente più alta, | forse per l'andamento della stagione singolarmente favorevole. Dei tre tempi di somministrazione scelti, pel solfato ammonico, è riu- scito più efficace quello frazionato: mezzo alla semina e mezzo in copertura; per la calciocianamide, la somministrazione alla semina è stata la più van- | taggiosa, mentre quella in copertura non ha dato luogo che ad un piccolo | aumento di prodotto, in confronto all'aiuola che non ricevette alcun concime | azotato. Î Il cattivo risultato fornito dalla calciocianamide data in copertura, deve certamente attribuirsi all'andamento della stagione, che non ha favorito la il trasformazione di esso concime in un tempo così breve, da potersi rendere utile alla coltivazione del frumento. Infatti, dal giorno in cui venne fatto lo spargimento della cianamide, trascorse un periodo di più di un mese i senza che una sola pioggia venisse a disciogliere il concime o a diluirne le so- luzioni: e abbiamo detto più innanzi quale inconveniente costituisca un periodo | di siccità, per la buona riuscita di una concimazione in copertura con cal- | ciocianamide. | La somministrazione alla semina, invece, è riuscita quasi della stessa | efficacia di quella del solfato ammoniaco, e di poco inferiore a quella dei | nitrati. Il prodotto avuto nel caso dello spargimento frazionato, conferma le | deduzioni che dai risultati ottenuti negli altri due casi si sono tratte: si è i avuta, cioè, una mediocre utilizzazione dell'azoto del concime ('). (*) Queste esperienze vennero eseguite nel Campo sperimentale del Presidio di Roma. — 343 — Patologia vegetale — Intorno alla Cuscuta Gronovti, Wild. Nota del dott. Virrorio PrcLION, presentata dal Socio G. CUBONI. Pochi anni or sono una comunicazione dello Schribaux, circa la com- parsa e la diffusione di cuscute esotiche nei medicai del mezzogiorno della Francia, suscitò gravi apprensioni nel mondo agrario; trattandosi di specie dotate di seme notevolmente più voluminoso di quel che non sia il seme della Cuscuta più diffusa da noi (Cuseuta epithymum, C. Trifolti), il metodo di difesa, cioè la selezione delle semenzine di medica o di trifoglio praticata coi decuscutatori, veniva a perdere ogni efficacia, onde l'allarme suscitato dall’eminente agronomo francese era pienamente giustificato. Anche da noi, e specialmente in queste provincie della Bassa Valle del Po, ove le leguminose foraggere formano il caposaldo dell'economia del- l'azienda, ed è tradizionale ed altamente rimunerativa la produzione di pre- giate semenzine di erba medica e di trifoglio pratense, il pericolo segnalato dallo Schribaux ha determinato i più progrediti agricoltori ad usare mag- giori cautele ogniqualvolta per contingenze speciali essi fossero costretti a ricorrere al commercio per la provvista delle semenzine. Tanto più che sino dal 1901, l'egregio prof. Todaro riscontrava campioni di seme di medica, inviati in esame alla R. Stazione agraria di Modena, inquinati da semi di Cuscuta arvensts. Rientra questa specie fra le cuscute esotiche, di importazione americana, fornita di semi il cui diametro in media è superiore al millimetro. Non mi consta che le altre cuscute di origine americana, indicate tra le specie accli- matatesi in Italia da varî autori, abbiano sinora dato origine a danni pra- ticamente degni di nota; ma non è da escludersi che spesso si considerino dai pratici come grongo comune anche infezioni dovute a specie differenti di Cuscuta. Neppure mi consta che sia stata segnalata sinora la presenza in Italia della Cuscuta Gronovii, la specie che, secondo le osservazioni di Schribaux, comparve nel 1892 nelle semenzine del mezzogiorno della Francia e contro la quale furono adottati energici provvedimenti. In questi ultimi giorni (luglio) in alcune località della provincia di Ferrara mi è stata segnalata la presenza di un grongo diverso dal consueto sviluppatosi in modo impressionante in mezzo ad appezzamenti di trifoglio destinati alla produzione del seme. Lo studio di questo paranita mi indusse a riferirlo alla Cuscuta Gronovii Wild., specialmente tenendo presenti la frase diagnostica datane di recente — 344 — dallo Schribaux (!) e lo studio delle Scaglie fiorali delle cuscute nord ame- ricane di W. D. Matthew (?). Tuttavia, per precisare la diagnosi, mi sono rivolto al chiarissimo prof. Baccarini, che colla consueta cortesia studiò il materiale, e, paragonandolo con esemplari esistenti nel ricco erbario fiorentino, ha espresso il parere che si tratti proprio di Cuseuta Gronovii Wild. Ana- loga conferma ebbi dal prof. Lecomte del Muséum di Parigi. Nel sopralluogo compiuto in una delle località ove era stata avvertita l'infezione, ho raccolto questa Cuscuta parassita sulle seguenti specie colti- vate o spontanee. 7yifolium pratense, Medicago sativa, Medicago lupulina, Melilotus officinalis, Ononis spinosa, Lotus corniculatus, Agropyrum glaucum, Setaria verticillata, 7rificum sativum, Cynodon dactylon, Beta vulgaris, Chenopodium urbicum, Carnabis sativa, Parietaria officinalis, Mercurialis annua, Carduus nutans, Cersium arvense, Sonchus oleaceus, Matricaria camo- milla, Lappa communis, Picris hieracioides, Artemisia vulgaris, Cichorium intybus, Anthemis vulgaris, Centaurea nigra, Heliotropium europaeum, Ana- gallis arvensis, Convolvulus arvensis, Verbena officinalis, Stachys annua, Plantago lanceolata, Sol/anum tuberosum, Passerina annua, Ammi majus, Daucus carota, Polygonum amphibium, P. aviculare, Linaria elatine, Rapistrum rugosum, Equisetum arvense. Piescindiamo ora dalle erbacce capaci di albergare il parassita, che possono interessare soltanto nel senso della estrema attitudine polifagica di questo grongo; la stessa presenza di esso su alcune piante di frumento ca- sualmente cresciute in mezzo al trifoglio e sicuramente penetrate dagli austorii, non può avere importanza pratica, perchè il parassita non trova all'evidenza condizioni favorevoli di nutrizione, come indicano il limitato sviluppo vegetativo e le scarsissime fruttificazioni. Gravissima invece dal punto di vista pratico è l'infezione dei medicai e trifogliai, e minacciosa quella presentata dalle bietole, dalla canape, dalla patata e dal pomidoro. Negli erbai lasciati per la produzione del seme, la C. Gromovii stende un'inestricabile rete formata da filamenti gialli, aranciati, che si ricoprono di caratteristiche infiorescenze o cime con fiori brevemente peduncolati o subsessili. Ora, mentre sotto l’azione della €. epithymum la medica ed il trifoglio sono rapidamente esauriti, cosicchè i cespi disseccano allorquando il parassita è in piena fioritura, le piante allacciate dalla Cuscuta Gronovii si mantengono lungamente vegete, fioriscono normalmente ed apparentemente fruttificano in modo regolare. Ma in realtà legumi o capolini riescono vacui, mentre la fioritura e la fruttificazione del parassita avvengono indistur- bate, ed è impressionante il quantitativo di capsule, misuranti da 3 0 4 mm. di diametro, tri-tetraspermi, che maturano lungo gli steli dell'ospite. Ciò non (*) Scribaux, Journ. Agr. prat. (2) Matthew W. D., Torrey Bot. Club XX, 1893. — 345 — accade colla €. epythimum, che mostrasi assai più virulenta verso l'ospite stesso, tanto che il rapido e talora fulmineo deperimento di questo sorprende il parassita allo stato puramente vegetativo od a fioritura appena ini- ziata, cosicchè la granigione dello stesso resta ridotta a minimi termini. Epperò anche una limitatissima infezione in un erbaio di trifoglio, se trascurata o trattata alla stregua del comune grongo, porta come conseguenza un gravissimo inquinamento di una ingente massa di sementa: se si tien conto che il diametro del seme della Cuscuta Gronovii può oltrepassare persino mm. 1,50 di diametro, si comprende agevolmente che i consueti de- cuscutatori, pure eliminando una certa parte dei semi di cuscuta compiono verso di questa un lavoro di selezione analogo a quello che subisce il trifoglio o la medica: resteranno cioè accomunati i migliori semi dell'ospite e del parassita, donde infezioni diffuse e spesso irreparabili nei terreni inve- stiti con questa semenza. È questa certamente l'origine di una delle infe- zioni più diffuse che ho avuto occasione di accertare in questi ultimi tempi. I semi di C. Gronovii sono di color giallo, volgente al rosso-scuro quando perfettamente maturi: è questo un carattere su cui conviene insi- stere, poichè i nostri agricoltori, avvezzi a riconoscere il seme di Cuscuta epithymum dalla colorazione nerastra oltrechè dalle dimensioni assai ridotte, sono restii ad ammettere che i semi voluminosi, gialli, predetti possano dar origine a una infezione di cuscuta più pericolosa del consueto. Avendo avuto sott'occhio campioni di semi di diverse specie di Cuscute esotiche, mi sono convinto che non sempre è agevole distinguere una specie dall'altra in base ai caratteri che i semi stessi offrono, poichè il colore e le dimensioni variano în una stessa specie entro limiti piuttosto ampî. Così, un campione di seme di Cuscuta Gronovit non ancora perfettamente maturo, vagliato con una serie di stacci Rober, si è così composto: Trattenuto dal vaglio n. 2 (mm. 1,50) gr. 0,063 ’ alga n.3 (mm. ME25)Ner. 3.840 Sottochivell rieti. . oO Sulle bietole e sulla canapa l'infezione è molto vistosa, ma non mi è dato ancora di esprimere con cifre quale possa essere l'entità del danno. Per analogia con quanto è stato osservato qualche anno fa dallo Stift, in casi di parassitismo della C. europea sulla bietola, c'è da prevedere che le bietole colpite presentino un sensibile arresto di sviluppo della radice ed un corrispettivo deprezzamento delle qualità industriali. Ho visto quest'anno — come anche due anni or sono — bietole arrestate nello sviluppo di fronte alle circostanti immuni; e la stessa canapa, il cui rigoglio vegetativo riesce ormai a sopraffare l'antica e temuta orobanca, può essere siffattamente avvolta dalla Cuscuta Gronovii da rimanerne strozzata. Tuttavia, pur facendo le ReNDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 44 — 946 — debite riserve per l'avvenire, sono propenso a ritenere che queste coltiva- zioni industriali non siano minacciate così seriamente come gli erbai. Ciò che rende gravi ed oggetto di preoccupazione queste infezioni, si è il fatto che esse contribuiscono potentemente a conservare e diffondere il parassita: questi matura miriadi di capsule fruttifere entro il luglio, cioè prima che si proceda al taglio dei canepai o alla scavatura delle bietole, ed i semi ma- turi vanno ad inquinare il terreno sottostante e le capezzagne ove non difet- tano certo le piante suscettibili di albergare la cuscuta. Le infezioni avvertite su altre piante coltivate — patate, pomodoro, cicoria, od ornamentali — Pelargonium — meritano di essere segnalate per le stesse ragioni delle precedenti: con questa differenza, che trattandosi di col- ture molto più ristrette, almeno per ora, esse possono destare preoccupazioni minori per ciò che riflette sia i danni diretti, sia la propagazione del pa- rassita. 05 Ho fatto qualche indagine nella speranza di riescire a chiarire l'origine di quest'infezione: tutto concorre a far ritenere che essa debba ricercarsi nella incauta importazione di semi di trifoglio o di medica inquinati, come purtroppo non mancano ormai sul mercato italiano. Ad evitare la propagazione dell'infezione, sarebbe necessario che venis- sero adottati anche da noi i metodi radicali, che per merito dello Schribaux vennero messi in opera in Francia ed in altre nazioni d'Europa: distruzione obbligatoria della cuscuta e divieto d'importazione di semi di leguminose cuscutate. Da noi ciò, può tutt'al più formare oggetto di un consiglio da dare a chi abbia la disgrazia di possedere erbai infestati. Ma se è tollera- bile questa libertà d'azione finchè si tratti di Cuscuta epithymum, essa diventa colposa di fronte a questi altri parassiti che, se non sieno soffocati sul nascere, non solo danneggiano coloro che incautamente portano i germi nei propri poderi, ma gettano il discredito e la diffidenza su intere regioni, nelle quali la produzione delle semenzine rappresenta una delle più proficue sorgenti di ricchezza. Note presentate all'Accademia sino al 4 ottobre 1908. Chimica. — Sopra alcuni composti di addizione dell'anidride seleniosa. Nota di F. CARNEVALI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. Matematica. — Sopra alcune formole fondamentali relative alle equazioni integrali. Nota di Tommaso BogGcio, presentata dal Corrispondente LeviI-CIVITA. — 947 — Fisica. — // fenomeno di Zeeman e il secondo principio della termodinamica. Nota di MARIA TENARI, presentata dal Corrispon- dente A. BATTELLI. Patologia vegetale. — Sulla propagazione della Sclerospora macrospora per mezzo della sementa di frumento. Nota del dott. VirrorIo PeGLION, presentata dal Socio C. CUBONI. Chimica. — Ricerche sopra alcuni composti aldeidici. Nota del Corrispondente A. AnceLI e G. MARCHETTI. Queste Note saranno pubblicate nei prossimi fascicoli. | Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol IV. VS VICSVIE. VII. Serie 3* — TransUNnTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I. (1,2). — II. (1, 2). — IN-XIX. MemoRrIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpICONTI Vol. I-VII. (1884-91). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e LaLurali: Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fasc. 7°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1908). Fasc. 3°. MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VI. Fasc. 1°-17°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIIT. Fase. 7°. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l'Italia di L. #®; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : | Ermanno Lorscaer & C.° — Roma, Torino e Firenze. Urrico HoepLi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Qttobre 1908. NES E Classe di scienze fisithe, matematiche e naturali. Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 4 ottobre 1908. MEMORIE FK NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Bottazzi e Scalinci. Ricerche chimico-fisiche sulla lente cristallina ........ . + Pag. Piola. L’interruttore di Wehnelt con corrente alternata (pres. dal Socio Blasernao). .. . » Falciola. Nuove ricerche crioscopiche sopra soluzioni di gas in liquidi (pres. dal Socio Pa- LETTO) NSA UMORE 5 i È $ Muse ii ” Vanzetti. Decomposizione elica di aci organici icabossiici (acido E Oda) a daliSOelo A 0n707) EIN E] 1 a RARE RN EL BORA E EN PRAIA VASCA RIETI Nazari. Intorno ai vecchi ed ai nuovi concimi i: calciocianamide, nitrato di calcio, solfato ammonico e nitrato di sodio (pres. dal Socio Pirotta) Li. 0. Peglion. Intorno alla Cuscuta Gronovii, Wild (pres. dal Socio Cudoni) . /. 0.» Carnevali. Sopra alcuni composti di addizione dell'anidride drama: (pres. dal Socio. Can- VIZZOPONN ON i 5 ”» Boggio. Sopra alcune formole idaho DALiin ine equazioni i (0 i Cono IRONICO Re Sa Le 5 x » Tenari. Il fenomeno di Zeeman e il scesi principio on Ra) a dal Corpi BICI e n OMM i E) Peglion. Sulla propagazione della Sclerospiati macrospora per mezzo oo sonata di fo mento (pres. dal Socio Cuboni) (*). o. DEA e TERI RS AO LARA go] Angeli e Marchetti. Ricerche sopra alcuni gomposti ia 0) a TORE OR ANTO FTNTAZEPAIO I (*) Questa Nota verrà pubblicata in uno dei prossimi fascicoli. Ri L K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Pubblicazione bimensile. Roma 18 ottobre 1908. N. s. ASILO REALE ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO Lev. 1908 Sbrge ENIT.A. RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Volume XVII. — Fascicolo 2° SEMESTRE. Comunicazioni pervenute all’ Accademia sino al 18 ottobre 1908. ROMA | i TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI | PROPRIETÀ DEI. CAV. V. SALVIUGCI I I | 1908 PEREZ raRa < " ; pini RF NOV 23." National Muee!® ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quanta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei, Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono lenorme seguenti ; 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 8. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un uumero maggiore, il sovrappiù della spesa è. posta a suo carico, 4,1 Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a cousegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi» cati al paragrafo precedente, e le Memorie pre- priamente dette, sono senz'altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci a da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 4) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra: ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro: posta dell’ invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell'ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è messa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al A8 ottobre 1908. \NNDNL Zoologia — Witeriori ricerche sulla fillossera della vete (fino al 1° ottobre 1908) ().T. Ancora & proposito delle galle prodotte dalle radicicole. - Il. Lunghezza del rostro delle neonate. - III. Le punture della fillossera. - IV. Madri radicicole con ca- ratteri minfali. — V. Quattro sole mite per arrivare all’alata. - VI. Differenziazione delle madri attere e delle alate. Nota preli- minare del Socio B. Grassi e di A. Foà. I. Dopo la nostra ultima Nota abbiamo continuato le nostre ricerche, alle quali fortunatamente potè dedicare tutta intiera la sua attività uno di noi, la dott. Anna Foà, che così ha fatto la maggior parte delle osserra- zioni contenute in questa nostra comunicazione. Le generazioni gallicole prodotte direttamente dalle radicicole, di cui ci siamo precedentemente occupati, benchè sempre in piccola quantità e limi- tate a pochissime piante in vaso, tenute in serra, o in altro ambiente chiuso, continuarono e continuano ancora. A tutta prima sorprende che queste gallicole siansi tanto poco moltiplicate, ma ogni meraviglia cessa quando si tien conto dell'ambiente sfavorevole, in cui si trovavano. Invece meritano speciale menzione due fatti che valgono ancora oggi a distinguere di primo acchito le neogallicole-gallicole dirette, cioè prodotte direttamente dalle radicicole, da quelle indirette, cioè prodotte indirettamente attraverso le uova d’inverno. Infatti: 1° non siamo riusciti colle neogallicole- gallicole dirette a infettare gli ibridi americo X americani (Liparia X Ru- pestris 3306 e 3309), che tanto facilmente si infettano di galle, per le quali (1) Dal R. Osservatorio Antifillosserico di Fauglia. RenpIcoNTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 45 — 350 — anzi si direbbe che hanno la massima predisposizione, quando si usano per l'infezione le gallicole indirette; 2° il rostro nelle neogallicole-gallicole di- rette non si è mai accorciato fino alla minima lunghezza che riscontrasi in quelle indirette. II. Il rostro delle neoradicicole che, come si disse in una Nota prece- dente, nella prima generazione primaverile era molto più corto che in quelle d'autunno avanzato e nelle ibernanti, è andato aumentando di lunghezza. L'aumento non è avvenuto gradualmente col succedersi delle generazioni, invece esso sembra collegato colla natura della radice su cui vive la fillos- sera, perchè le neonate con rostro più lungo si sono trovate dapprima sulle radici non capillari. Però l’allungarsi del rostro non deve dipendere esclusi- vamente da questa condizione della radice, perchè in primavera sulle radici grosse nessuna neonata aveva rostro di lunghezza eguale o poco diversa da quella delle neonate di tardo autunno, e in estate su queste radici se ne trovava appena qualcuna col rostro lungo insieme a molte altre con rostro più corto. D'altra parte, durante l'estate, sulle radici capillari nessuna aveva il rostro eguale a quelle dell’autunno avanzato, ma la maggior parte lo ave- vano più lungo che nella prima generazione primaverile. Adesso poi troviamo che tanto sulle radici grosse, quanto sulle capillari, le neonate nella grandis- sima maggioranza hanno un rostro di lunghezza uguale a quella che riscontra- vamo l’anno scorso in autunno avanzato. Solo una minima percentuale di neo- radicicole ha il rostro un po’ più corto, ma sempre più lungo che nella prima generazione primaverile. Abbiamo per un momento supposto, a somiglianza di quanto si ammette per certi Chermidi, che le forme con rostro più lungo fossero tutte destinate all'ibernamento e che senza di esso non potessero ulte- riormente svilupparsi; ma l'esame delle spoglie ci ha persuasi che la nostra ipotesi non era fondata. È infine degno di nota che le neonate figlie di una stessa madre, pos- sono avere il rostro di lunghezza alquanto differente. Esistono però le suddette differenze di lunghezza nel rostro delle neora- dicicole riferibili alla stagione: ciò sembra, come fu già detto altra volta, accennare, benchè lontanamente, a distinzioni che riscontransi nei Chermidi (1). III. Abbiamo ripetutamente richiamato l’attenzione sulle macchiette spe- cifiche prodotte dalle neogallicole-gallicole sulle foglie della Rupestris du Lot. In certi casì si producono galle regolari, e di queste non ci occupiamo; in altri, piuttosto rari, si inizia una galla che subito viene abbandonata; in altri infine le gallicole s allontanano senza che siasi iniziata alcuna galla, tranne un leggero avvallamento, di spesso non rilevabile. I tre casi possono verificarsi (1) La lunghezza dell’antenna della madre attera è molto variabile, e finora non sap- piamo che esistano leggi, che regolino questa variabilità, all’infuori di un'indiscutibile proporzione diretta tra la lunghezza dell'antenna e le dimensioni della madre (le madri sono più piccole sulle radici grosse che sui capillari). — 301 — sopra una stessa pianta contemporaneamente. È appunto nel secondo e nel terzo caso che troviamo le macchioline caratteristiche. Esse delimitano un cer- chietto più o meno regolare e completo, che abbiamo attribuito alla serie circolare di punture alla pagina superiore della foglia, di cui si fa cenno nel Corso di Viticoltura del Foéx. Riflettendo sulla questione, ci sono nati dei dubbî, specialmente derivati dalla considerazione che, se veramente le neogallicole gallicole hanno la facoltà di fare sulla foglia una serie circolare di punture, le neoradicicole per adattarsi a viver sulle foglie producendo galle, avrebbero dovuto mettere in giuoco un nuovo istinto, il che non è facile ad ammettersi. Abbiamo perciò tentato di fare altre più particolareggiate osservazioni, che riassumiamo brevemente. Di solito la fillossera resta sul posto uno o due giorni. Le macchiette si producono in un tempo breve. Esse possono comparire già circa dodici o ventiquattro ore dopo che la fillossera si è allontanata, ovvero iniziarsi prima che essa si allontani, oppure, ma molto meno frequen- temente, si può trovare il cerchietto completo colla fillossera ancora ferma nel mezzo. Qualche volta si trova una galla iniziata con un cerchietto scuro, che la delimita. Il cerchietto varia molto di ampiezza in guisa da essere o così piccolo da non poter contenere la fillossera, o appena più grande del contorno di essa. Talvolta anche nel centro del cerchietto notasi una macchiolina nera. Altre volte due fillossere, stando vicine, producono una figura composta di due archi di cerchio, che s'incontrano, maggiori ciascuno di mezza circonfe- renza. Qualche volta la fillossera si trova morta sul posto, e il Grandori ha appunto trovato una fillossera morta col rostro infisso in una macchiolina del cerchietto che stava producendosi. Avendo poi cercato di seguire il fenomeno più da vicino, abbiamo con- statato che la fillossera, fermatasi in un luogo dove poi si produrrà il cer- chietto di macchioline o la galla, non sta immobile; se determiniamo la po- sizione della testa, constatiamo che ad intervalli di ore essa muta, in modo da poter far ritenere fondatamente che la fillossera giri intorno a se stessa, appena spostandosi, per produrre quella serie circolare di punture, di cui ci occupiamo. Abbiamo sospettato che, invece che dal rostro, il cerchietto potesse esser prodotto dalle unghie; ma oltre all’inverosimiglianza di questa ipotesi, i casi in cui è molto stretto, non si potrebbero con essa spiegare. Per avere una dimostrazione più evidente, abbiamo ricorso ad un espediente, che consiste nell’allontanare artificialmente la fillossera poche ore dopo che si era fissata. Le prove fatte son poche e devono essere ripetute; però da quanto abbiamo veduto finora, com'era da aspettarsi, è risultato che la rimozione artificiale della fillossera ha per conseguenza la comparsa di un sol puntino nero, o di — 352 — un arco di cerchio invece del cerchio completo. Queste osservazioni sono state fatte soltanto con quelle neogallicole, che sopra abbiamo detto dirette. Aggiungasi che in parecchi casi, sezionando galle abbiamo trovato nel punto dove stava infisso il rostro di una spoglia, una macchiolina nerastra simile ad una di quelle che costituiscono il cerchietto. A questo proposito ci si permetta qui di intercalare che non è difficile trovare nelle galle, spoglie col rostro infitto; qualche volta ciò si verifica anche sulle radici. Quivi poi abbiamo osservato che l’animale si aiuta colle zampe a liberarsi dalla spoglia e a volte la lancia abbastanza lontana dal punto, in cui è avvenuta la muta. Il complesso delle osservazioni tende a confermare la possibilità delle punture in cerchio; abbiamo perciò cominciato a dubitare che punture simili vengano fatte anche dalla fillossera radicicola, e abbiamo tentato osservazioni in proposito, rimaste finora senza risultato sicuro. In un caso però abbiamo potuto seguire per un po’ di tempo una fillossera radicicola appena uscita dalla muta (2% o 3) e abbiamo veduto che, nello spazio di circa tre quarti d'ora, dopo essersi fissata una prima volta, si è sollevata e rifissata altre quattro volte, mantenendosi sempre nella piega della nodosità in cui stava da prin- cipio, ma avendo la testa ogni volta in un punto differente. Dopo questi movimenti è rimasta immobile per tutto il giorno e per quello seguente. IV. Le osservazioni che esponiamo in questo paragrafo ci hanno pro- fondamente meravigliati e dimostrano come, non ostante le ormai innume- revoli ricerche fatte sulla fillossera, siano potuti sfuggire fatti comuni. Il Moritz nel 1892 aveva notato due ninfe anomale, aventi, cioè, l’ac- cenno delle ali molto più corto di quello delle ninfe ordinarie. Questi fatti da lui riferiti insieme alla descrizione di una ninfa con un'antenna eviden- temente mutilata, non potevano destare alcun interesse e restarono isolati. Noi ce ne sovvenimmo soltanto dopo di aver osservato che la Ph. Danesti (delle radici delle quercie) molto frequentemente produce uova di sessuate, avendo gli occhi di ninfa (sempre?), però di solito senza traccia di ali. A questo riguardo ci permettiamo una piccola digressione. Nelle nostre osservazioni fatte dopo la metà d'agosto sulle radici di quercia, abbiamo tro- vato numerosi questi individui, ciascuno dei quali faceva un mucchietto d’uova in parte grandi (di femmina) e in parte piccole (di maschio), mentre erano molto rare le femmine attere, riconoscibili (sempre?) dagli occhi lar- vali, le quali deponevano uova tutte simili, da cui si sviluppavano neonate col rostro. In due casi la madre sessupara aveva moncherini, di ali, meno sviluppati che nelle ninfe, press'a poco come nelle suddette ninfe anomale della vite (?). (') Aggiungiamo alcune altre notizie sul ciclo di sviluppo della Ph. Danesii. Sulle radici della quercia in settembre le neonate col rostro erano molto più scarse dei maschi e delle femmine. Poche ninfe si trovavano qua e là. Le alate che ne derivavano, erano sessupare. Se esistano alate virgopare anche nella Ph. Danesti, resta da dimostrare. — 353 — Sulle foglie della quercia, purtroppo a cominciare soltanto dal mese di settembre, abbiamo inoltre trovata una fillossera che sembra corrispondere alla Ph. punctata, Lichtenstein (non ne abbiamo ancora potuto dimostrare con tutta sicurezza l'indipendenza dalla Ph. quercus), della quale abbiamo solo ri- scontrato femmine attere sessupare e sessuati. Queste femmine per lo più ave- vano occhio di sole tre faccette, ossia di attera ordinaria; soltanto qualcuna presentava occhi di ninfa. Abbiamo ragione di sospettare che la forma attera sessupara da nol una volta trovata sulle foglie della vite appartenga a queste forme delle foglie di quercia. Le attere sessupare del resto, non sono una novità nel ciclo evolutivo di parecchie altre specie di fillossere (Balbiani, Pergande ecc.) viventi. su varie piante. Nei Chermidi poi sono note forme intermedie tra le attere e le alate, ma non se ne conosce il destino. A tutti questi fatti si deve aggiungere l'osservazione del Balbiani rimasta isolata, di femmine senza rostro, trovate sulle radiei delle viti una volta sola. Questo caso potrebbe spiegarsi, o colla circostanza che l’alata può svilupparsi nel suolo e quindi, molto eccezionalmente, deporvi uova, oppure col fatto da noi osservato una volta, di un'alata di Ph. quercus, la quale non essendo riuscita a liberarsi completamente dall'involucro di ninfa, rimase immobile sulla carta che copriva il fondo della capsula di Petri, e vi depose un uovo di sessuato che si sviluppò regolarmente. Ma oltre a queste e altre simili spiegazioni, ragionando per analogia, si poteva supporre che forme simili a quelle anomale osservate dal Moritz avessero generato le femmine senza rostro, trovate dal Balbiani. Abbiamo perciò rivolto anche a questo punto la nostra attenzione e con nostro non poco stupore abbiamo trovato che individui simili a quelli osservati dal Moritz in soli due esemplari e da lui ritenuti anomali, nel mese di settembre, qui a Fauglia si riscontrano in proporzioni tali, che parlare di anomalia diventa assurdo: essi infatti si rin- vengono in ragione dell’1, 2 °/, fino all’8-10 °/; rispetto alle madri ordinarie, sì nei vasi da esperimenti che liberamente in aperta campagna, tanto sulle viti europee quanto sulle varie viti americane; sulle viti europee, però, sol- tanto quando vi sono anche ninfe. Riguardo ai caratteri di queste forme si può dire che la maggior parte di esse rassomiglia perfettamente alle due descritte dal Moritz, in certi casi però la loro differenza dalle ordinarie madri attere consiste solamente nell'aver l'occhio con più di tre faccette e nell'essere l'antenna più lunga. In altre invece, oltre a questi caratteri, vi è l'accenno delle ali molto più sviluppato ('). (1) Una forma presentava anche il castone prossimale del terzo articolo dell’antenna. Qualche volta si trovano madri attere con antenne lunghe, come nelle forme suddette, ma con occhi larvali e senza traccia di ali. — 354 — Alcune di queste forme hanno la vulva aperta, in altre invece si apre sol- tanto dopo una muta, dalla quale escono col moncone d'ali poco più svilup- pato di quello che si riscontra nella spoglia. Alcune, evidentemente, hanno già deposte le uova, altre ne sono piene, altre ne hanno deposte appena alcune, che stanno loro vicine. Opportunamente tenendole vive si può assi- stere alla muta suddetta e alla deposizione delle uova (una ne depose 27). In queste forme, in complesso, il corpo ricorda quello delle madri attere ordinarie sia per gli ornamenti della cuticola che per la sua forma allargata. La cosa più singolare è che, contrariamente a qualunque prevenzione deducibile per analogia, dalle uova di queste femmine nascono, o, più esat- tamente, finora ci sono nati individui rostrati (circa ottanta) e non sessuati. Esistono perciò normalmente nella legione ipogea della fillossera della vite, peculiari forme, con occhi di più di tre faccette (occhi ninfali) e con moncherini di ali, le quali, per quanto risulta fino ad oggi dai nostri sperimenti, ovificano come le attere ordinarie (1). V. Prima di passare ad altre considerazioni intorno a queste forme occorre accennare al numero delle mute delle alate. Il Cornu le riteneva cinque, mentre fissava a tre il numero delle mute della madre attera. Già l'anno scorso uno di noi dimostrava che nelle madri attere gallicole le mute invece erano quattro, e lo stesso fatto verificava in un caso sulle radici (*). Questa circostanza ci fece supporre che alla madre alata si giungesse con sei mute invece che con cinque. Nell'anno corrente con estese osservazioni si confermò definitivamente il risultato dell'anno scorso rispetto alle madri attere delle radici, di più in sei casi si è potuto verificare che anche per giungere alla madre alata occorrono solo quattro mute (*). Resta così confer- mato quanto il Dreyfus (1889) ammetteva per altre specie di fillossere che, cioè, si giunge all’alata con quattro mute, mentre non è giusta la sua asser- zione che le madri attere ne compiano solo tre. Il tempo che passa dall'uscita della fillossera dall’uovo alla prima muta è variabilissimo (basta ricordare le ibernanti in cui la prima muta avviene parecchi mesi dopo la fissazione); le altre mute della madre attera avven- gono ad intervalli press'a poco eguali tra loro, variabili un po’ nei varî mesi; in agosto avveniva una muta ogni trentasei o quarantotto ore, in settembre (1) Da certi sperimenti ci sarebbe risultato che da una stessa alata virgopara di Ph. quercus e di Ph. spinulosa possono eccezionalmente venire deposte tanto uova di ses- suate quanto virgopare. Trattandosi di questione molto interessante dal punto di vista biologico, noi ci riserbiamo di ritentare le prove per escludere qualunque errore. (3) Il Kessler, nel 1888, pubblicava d’aver constatato una volta quattro mute per una madre attera radicicola, ma la sua osservazione, oltrechè unica, non andava del tutto esente da objezioni. (*) Aggiungasi che l’embrione ad un certo momento nell'uovo si mostra in una sorta di muta, forse in rapporto con quella osservata nei sessuati dal Grandori. S'intende che la muta in discorso non è compresa nelle quattro sopra numerate. — 3859 — circa ogni tre giorni ('). Nelle forme che diventano alate, le prime tre mute, che dànno luogo alla ninfa, avvengono anch'esse ad intervalli presso a poco eguali di due o tre giorni ciascuno, ma la trasformazione della ninfa in alata richiede sei o sette giorni, ed a volte di più, nel qual tempo la ninfa aumenta notevolmente di dimensioni, modifica il colore, la forma del corpo, mentre l'occhio, che dapprima presentava solo tre ommatidi pigmentati, ne va acquistando altri e prende l’aspetto definitivo a tutti noto. Probabilmente anche le forme ovificatrici col moncone di ali, di cui sopra si è parlato, avranno subìto quattro mute. VI. Passiamo ora ad una questione che ci ha molto preoccupati senza che abbiamo avuto la fortuna di giungere ad una conclusione pienamente soddisfacente. Si tratta di determinare se le uova di una madre attera pos- sano indifferentemente dar luogo ad alate, o a madri attere, ovvero se siano già predestinate a dar luogo ad una di queste due forme piuttosto che all'altra. L'argomento è di grande interesse perchè è fuori dubbio che la fillossera resta frenata nella sua moltiplicazione sul ceppo su cui trovasi (s'intende, non tenendo conto dell'uovo d'inverno), quando le alate predominano notabilmente, e d'altra parte la fuoruscita delle neonate dal terreno avrebbe minore o maggiore importanza se esse fossero capaci o no di trasformarsi in alate. A questo riguardo, facendo una breve digressione, aggiungiamo di aver quest'anno ripetute le osservazioni con esito positivo; però, se la presenza delle neonate uscenti dal terreno si è dimostrata costante nelle vigne di viti europee, la loro quantità è stata relativamente tanto scarsa da lasciar àdito al dubbio che sal- gano alla superficie solo le forme destinate a diventar alate. Questa supposizione sembrerebbe corroborata dalla circostanza che dai vasi con viti americane, sulle cui radici si trovano facilmente molto abbondanti le ninfe, escon fuori numerosissime neonate e dal fatto che le ricerche del Faucon, il quale osservò molte migranti, furono compite in vigne di viti europee, che produ- cevano anche molte ninfe, a differenza di quanto accade in Toscana. Si ammette per i Chermidi che il formarsi di un’alata piuttosto che di una madre attera dipenda dalle condizioni dell'ambiente (temperatura, umi- dità, ecc.), ma le prove sperimentali esatte, per quanto noi sappiamo, fanno difetto, senza dire che una conclusione valevole per i Chermidi a rigore di termini non potrebbe essere applicata alla fillossera della vite. Volendo noi tentare esperimenti intorno all'argomento in discussione, abbiamo anzitutto ritenuto necessario di determinare se dalle uova di una madre potessero derivare madri attere e alate. Il fenomeno s'ammette per i Chermidi, ma noi non sappiamo quanto siano stati rigorosi gli esperimenti per dimostrarlo. Fa ritenere che uno stesso fenomeno si verifichi anche per le fillossere, il modo di distribuzione delle madri attere e delle ninfe sulle radici delle (!) Negli ultimi giorni abbiamo avuto ancora una spoglia ogni 48 ore circa. — 356 — viti e sulle foglie delle quercie. Noi però non ci siamo contentati di questa osservazione, e abbiamo rigorosamente dimostrato che sul leccio, da una sola madre attera di Ph. quercus, in luglio si sviluppano tanto altre madri attere, quanto alate sessupare. Conseguentemente sembrerebbe che per istudiare la predestinazione o meno delle neonate, basterebbe limitarsi allo studio della prole di un'unica madre, sottoponendola in parte a certe condizioni e in parte a certe altre, ma questa sorta di esperimento, apparentemente tanto facile, finora non ci è riescito perchè non basta mettere le fillossere neonate a contatto delle radici per ottenere che si fissino; le neonate infatti sono portate dal loro istinto a una vita randagia, che può prolungarsi per molti giorni e conduce spesso alla perdita, se non di tutte, di moltissime di esse. Non avendo, dunque, ottenuto risultati soddisfacenti colla prole isolata di una madre, abbiamo fatto queste altre prove complessive: a). Neonate di viti americane, le quali certamente se fossero rimaste sulla pianta ove si erano prodotte, in gran maggioranza si sarebbero trasfor- mate in ninfe, furono portate in parte su viti nostrali e in parte su altre viti americane: sulle nostrali dettero luogo soltanto a madri attere; sulle americane, tanto a madri attere che ad alate. 5). Neogallicole dirette, con carattere di radicicole, alla fine d’agosto furono messe su viti europee e su viti americane: come nel caso prece- dente, sulle europee si trasformarono solo in madri attere, sulle americane tanto in madri attere che in alate. Questi esperimenti sarebbero decisivi in favore della mancanza di pre- destinazione se in tutti i casì, per la ragione precedentemente esposta, non fosse andato perduto un grandissimo numero di neonate. Le asserzioni di Morgan e di Keller riguardanti l'influenza del nutrimento insufficiente, che condurrebbe ad una maggiore produzione di alate, sono state ripetutamente confutate. Se nei primi tempi noi potevamo nutrire in propo- sito qualche incertezza, oggi senz'altro le dichiariamo infondate. Sta il fatto che sulla vite europea si produce un numero di ninfe note- volmente minore che sulla vite americana anche nelle condizioni più favo- revoli al loro sviluppo. Precisiamo ulteriormente queste circostanze. È sulle radichette (capillari) che le ninfe, a gran preferenza, si sviluppano. Quando si tratta di viti americane, se le fillossere si stabiliscono sulle altre radici, le ninfe non mancano quasi mai, ma sono di gran lunga meno abbon- danti che sulle radichette, dove talvolta invece non è tanto facile trovare una madre. Scavando viti europee qui a Fauglia (Toscana) nel triennio 1905- 1907. a Trani nel 1907 e nel 1908, a Cellatica (presso Brescia) nel 1907, sulle radichette le ninfe erano scarsissime (scarsissime erano anche le nodo- sità !), e sulle radici meno giovani era un caso fortunato trovarne una. L'unica eccezione da noi riscontrata a Fauglia, si verificò nei dintorni della villa — 357 — Gioli, dove la fillossera sulle viti europee si comportava presso a poco come in varî luoghi dell’Italia settentrionale: le ninfe si presentavano abbastanza frequenti, ma sempre in proporzioni molto minori che sulle viti americane. Uguale frequenza nelle ninfe si verificò a Cellatica, presso Brescia, nel 1908. Sembrerebbe di dover mettere in rapporto questa difterenza di reperto tra il 1907 e il 1908 colla siccità dell'anno scorso, che invece quest'anno non si ebbe a deplorare. Nell’anno corrente qui a Fauglia si sono avute pioggie fino al principio di settembre, mentre nelle annate precedenti si era lamentato un grande asciuttore; in rapporto con questo fatto nell’anno corrente sulle radichette delle viti europee le ninfe fino al settembre sono state meno rare che negli anni antecedenti (naturalmente anche le nodosità furono del pari più frequenti). Incliniamo perciò ancora a ritenere che la siccità sia sfavorevole alla pro- duzione delle ninfe sulle viti europee, ma non deve essere il solo fattore, che ne regola la produzione. È indubitato che l'abbondante concime favo- risce la produzione delle radichette e quindi delle nodosità e delle ninfe; durante la siccità attuale è appunto in mezzo al concime che troviamo no- dosità e ninfe sulle viti europee. Tuttavia neanche il concime basta a spie- gare interamente il fenomeno. Ciò diciamo, tenendo presente l’esito non net- tamente positivo degli esperimenti, da noi fatti, di innaffiamento artificiale associato a concimazione. Comunque, è degno di nota il fatto che a seconda delle differenze di ambiente, delle sorta di viti, dell’età delle radici, si pos- sono produrre, o molte ninfe, o poche, o nessuna. In tutti questi casi però non è possibile scindere l’influenza esercitata dai varî fattori sulla madre, da quella esercitata sulle uova già deposte; con altre parole i fatti detti non' risolvono la questione della predestinazione delle neonate, che è quella che c’interessa. Passiamo a parlare delle osservazioni fatte allevando in capsule di Petri le fillossere provenienti dalle viti americane. Mettendo in capsula di Petri pezzetti di radici di viti americane con molte fillossere, si ottennero alcune madri attere e moltissime ninfe, come nelle viti da cui erano state tolte. Invece, allevando le neonate separatamente, cia- scuna sul pezzetto di radice di vite americana, su cui era fissata, e dal quale era stata tolta ogni altra fillossera, si ebbero in complesso più madri attere che ninfe, mentre contemporaneamente sulle altre radici della vite, da cui era stato staccato il frammento suddetto, si sviluppava un numero molto maggiore di ninfe che di madri attere. Questo fatto ci sembra solo spie- gabile, ammettendo la possibilità che la neonata si orienti in un modo piut- tosto che in un altro. Esso, collegato cogli altri or ora esposti, potrebbe condurre a pensare che il trovarsi molte fillossere riunite in un piccolo spazio favorisse la produzione di ninfe, se altri fatti non fossero contrari a questa ipotesi, come p. es., la presenza di molte madri attere addossate le une alle ReNDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 46 — 358 — altre, che si riscontra spesso sulle viti europee, e quella di ninfe isolate su nodosità, che si verifica a volte su viti americane. Nè le forme sessupare attere delle fillossere delle quercie, nè quelle virgopare con caratteri ninfali della fillossera della vite, possono fornire un argomento decisivo nella questione, di cui ci occupiamo. I casi di attere sessupare sì comprendono fino ad un certo punto interpretandoli come feno- meni di progenesi, non così facile è l’imaginare una spiegazione per i casi di virgopare con accenno di ali. Può sembrare che essi trovino riscontro nelle generazioni di alate vir- gopare che esistono in altre fillossere, ma quest'interpretazione presenta però una difficoltà nel fatto che tali generazioni di alate virgopare sono state da noi finora ottenute soltanto in primavera, mentre le forme in discorso della fil- lossera della vite sono state da noi trovate soltanto in settembre (dal Moritz in agosto, o in settembre). Noi non escludiamo che possano esistere in tutti i mesi in cui si svi- luppano ninfe, ma fin d'ora crediamo di poter negare che esistano già in primavera, prima della comparsa delle ninfe. Si tenga presente che non abbiamo potuto trovarne alcuna sulle viti europee che non presentano ninfe, mentre se fossero forme intermedie destinate tardivamente a diventar madri attere piuttosto che madri sessupare, sembrerebbe che dovessero trovarsi a preferenza appunto sulle viti europee, che non portano ninfe. Abbiamo cercato di affrontare l'argomento per un’altra via, studiando minutamente i caratteri esterni delle forme. Nelle neoradicicole, non abbiamo potuto trovare differenze che potessero alludere alla trasformazione in madri attere piuttosto che in alate. Il Borner ammette che dopo la prima muta si possano già distinguere dalla lunghezza delle zampe e delle antenne, le future alate sessupare dalle future madri attere; riconosce però che si hanno anche forme miste. Dagli allevamenti isolati da noi fatti, avendo cura di conservare separatamente tutte le spoglie, è risultato confermato che si possono distinguere le preninfe, ossia le forme destinate a diventar ninfe, prima della muta da cui esce la ninfa; più esattamente, abbiamo dimostrato che dopo la seconda muta si può stabilire se una fillossera di- venterà ninfa, tenendo conto della maggiore lunghezza della antenna, del colore più oscuro e della forma più cilindrica di essa, del notevole sviluppo dei tubercoli e qualche volta anche della maggiore mobilità dell’animale. È però l'insieme di questi caratteri che ci permette di far la diagnosi, mentre presi isolatamente uno per uno potrebbero trarci in inganno; così talvolta la lunghezza dell'antenna dopo la seconda muta può essere superiore in una forma, la quale diventa madre, che in una forma, la quale diventa ninfa. Invece dopo la prima muta non si riesce a presagire con sicurezza se una forma resterà attera o diventerà alata. Ci parve dapprima che nelle forme destinate a diventar madri l'antenna dopo la prima muta si accor- — 359 — ciasse, mentre in quelle destinate a diventar ninfe si mantenesse presso a poco eguale o si allungasse un pochino, e ciò inducevamo dalle misure della seconda spoglia; se non che prontamente abbiamo trovato eccezioni, tanto per le ninfe che per le madri. Come si vedrà dal lavoro in esteso, abbiamo finora invano cercato buoni caratteri differenziali nei peli dell’estremità po- steriore dell'addome, nelle sculture della cuticola, nella struttura dei tu- bercoli, nell’apparato respiratorio ecc. (*). Tenendo calcolo della circostanza che le alate mancano nelle due prime generazioni primaverili e cominciano solo alla terza, abbiamo voluto inda- gare se la lunghezza del rostro delle neonate avesse o no un'influenza sulla trasformazione in ninfe, e abbiamo dovuto escluderlo, avendo constatato che si trasformarono in ninfe neonate con rostro di differenti lunghezze. Tutto ben ponderato, è molto verosimile che le neonate non siano pre- destinate a diventar madri attere piuttosto che alate, ma la dimostrazione assoluta non è ancora data. Mancandoci questa dimostrazione, abbiamo almeno cercato di vedere se le forme suddette che fuoriescono all'aperto, potessero diventare madri attere. Di ciò abbiamo infatti avuto la prova, producendo l’infezione di viti europee con neonate uscite da bicchieri, nei quali erano collocate radici di viti ame- ricane con terra. Tornando alla questione dell’orientamento delle fillossere verso la forma attera o la forma alata, dobbiamo dire che è difficile formulare un'ipotesi sulle ragioni che lo determinerebbero. Come ipotesi di lavoro abbiamo pensato che possa influire il digiuno più o meno prolungato delle neonate prima della fissazione, la durata del tempo che precede la prima muta ecc. Vedremo se gli esperimenti confermeranno l'una o l’altra di queste supposizioni. Aggiunta — Furono ripetuti dal Grandori a Palermo alcuni esperimenti rivolti a determinare se le neogallicole-radicicole indirette, discese alle radici, potessero diventare esse stesse alate. L'esperimento riuscì affermativo usando neogallicole-radicicole di 9*. generazione (uscente da 8°. galle); ma la stessa prova tentata sul finire di maggio, con neogallicole-radicicole di 3. gene- razione, dette invece risultato negativo: non diventarono ninfe neppure le figlie degli individui discesi alle radici. (4) A questo riguardo notiamo che gli stigmi addominali della Phylloxera vastatria sono cinque paia: finora era sfuggito il paio anteriore evidentemente più piccolo nelle forme grosse. — 360 — Chimica. — Zcerche sopra alcuni composti aldeidici (1). Nota del Corrispondente A. AnGELI e di G. MARCHETTI. Le numerose esperienze che finora abbiamo eseguite sopra questo argo- mento ci hanno condotto a stabilire che tutte le vere aldeidi reagiscono con la biossiammoniaca per fornire gli acidi idrossammici: R.COH +- NE(0H),= R.C(NOH) 0H + H,0 e sopra questa reazione abbiamo fondato un metodo che permette di rico- noscere anche piccolissime quantità di aldeidi, di separarle dai chetoni ed anche di trasformarle nei corrispondenti acidi carbossilici (?). Come però a suo tempo abbiamo accennato, vi sono non poche sostanze, che di solito vengono del pari considerate come aldeidi perchè forniscono ossime, idrazoni, ecc., ma che si mostrano indifferenti rispetto al nuovo reat- tivo: e per questa ragione noi abbiamo intrapreso una serie di ricerche siste- matiche allo scopo di determinare a quali fatti sono da attribuirsi le ecce- zioni da noi osservate. Le esperienze, delle quali in questa Nota giudichiamo opportuno dare un breve riassunto, sono state molto laboriose soprattutto in causa delle diffi- coltà che si incontrano nel procurarsi alcuni prodotti di partenza; ma a superare tali difficoltà ci venne in aiuto la cortesia di alcuni colleghi, i quali gentilmente ci inviarono alcuni campioni originali delle sostanze da loro scoperte. Dagli esempî che seguono, come si vedrà, risulta che alcune delle so- stanze da noi prese in esame sono senza dubbio da considerarsi come vere aldeidi, mentre invece altre con tutta probabilità non contengono intatto il residuo caratteristico : — COH il quale perciò ha dovuto prendere parte alla formazione di qualche altro aggruppamento; man mano accenneremo alla nuova forma più probabile che avrà assunta la molecola. Il metodo di operare è quello che abbiamo più volte descritto. (*) Lavoro eseguito nel R. Istituto di Studî superiori in Firenze. (°) A. Angeli, Veber einige sauerstoffhaltige Verbindungen des Stickstoffs. Stutt- gart, 1908. — 361 — OssIALDEIDI. Ancora parecchi anni or sono noi avevamo osservato che il glucosio non forniva la nuova reazione; d'altra parte il dott. Ciusa (') ha trovato che l’aldeide glicolica reagisce con tutta facilità, e per questa ragione ab- biamo sottoposta all'indagine la serie dell’aldeidi ossidrilate : COH où, .CH(0H).CH(OH)... a y allo scopo di determinare con sicurezza quale è la posizione dell’ossidrile che impedisce il compiersi della reazione; come si vedrà in seguito, la rea- zione incomincia a diventare negativa a partire dall’eritrosio, e da ciò si deve arguire che in questi casi l’ossidrile in posizione y è quello che osta- cola l’azione della biossiammoniaca. Aldeide glicolica. CH3(0H).COH. — L'azione della biossiammoniaca sopra questa sostanza, come si è detto, è stata studiata lo scorso anno dal dott. Ciusa; il prodotto che si forma presenta le reazioni degli acidi idros- sammici e perciò essa si deve considerare come una vera aldeide. Aldeide glicerica. CH:(0H).CH(OH).COH. — Ancora qualche anno addietro uno di noi aveva osservato che la biossiammoniaca reagisce sopra il liquido che si ottiene per diretta ossidazione della glicerina; siccome però in questo caso si ottiene un miscuglio complesso nel quale potevano essere contenute anche altre aldeidi diverse dalla glicerica, così abbiamo giudicato opportuno ripetere l'esperienza sopra un prodotto che presentasse tutte le garanzie di purezza volute. E perciò siamo partiti dall’aldeide glicerica pre- parata decomponendo l’acetale: CH,(0H).CH(OH).CH(0CH;),; e nol porgiamo i più sentiti ringraziamenti al chrîno prof. A_Wohl che ha messa a nostra disposizione una piccola quantità di questa costosa sostanza da lui scoperta. Seguendo le norme date da questo autore, l’acetale venne decomposto con acido solforico diluito e così si ottenne una soluzione acquosa dell’aldeide libera sopra la quale facemmo reagire l'acido benzolsolfoidrossammico (*) in presenza di idrato sodico. Il liquido, acidificato con acido acetico, venne in seguito trattato con soluzione di acetato di rame, il quale determina la formazione di un voluminoso precipitato di colore verde erba. Raccolto sopra (*) Gazzetta Chimica, 38 (1907), vol. II, pag. 538. (?) Questo prodotto viene fabbricato dalla casa Th. Schuchardt, Gorlitz. — 362 — filtro e lavato abbondantemente con acqua, per successiva aggiunta di una goccia di acido solforico diluito e di percloruro di ferro, dà un liquido in- tensamente colorato in rosso violetto; segno non dubbio che si è formato l'acido idrossammico. Siccome il precipitato del sale ramico tratteneva molta acqua e noi operavamo nella stagione invernale, per asciugarlo più presto lo ponemmo in una stufa la cui temperatura non poteva superare certamente 50°; ma dopo poco tempo avvertimmo che il sale, dapprima inodoro, sviluppava un odore che ricordava quello di alcune aldeidi alifatiche. In seguito lo decom- ponemmo egualmente con idrogeno solforato, ed il liquido, separato dal sol- furo di rame, venne evaporato nel vuoto. Si ottenne così un prodotto incoloro, cristallino che possiede i caratteri e la composizione dell'acido formidrossam- mico. Esso rappresenta senza dubbio un prodotto di idrolisi che ha subìto l'acido glicerinidrossammico per azione del calore: CH:(0H). CH(OH).C(NOH) 0H = CH;(0H).COH + CH(NOH) 0H Non sì è potuta ripetere l'esperienza perchè avevamo esaurita la prov- vista di acetale; ma il risultato dimostra egualmente ed in modo non dubbio che l'aldeide glicerica contiene nella sua molecola il residuo — COH. Venne in seguito presa in esame una triossialdeide, e come tale sce- gliemmo un aldotetrosio, il d-Eritrosio. CH,(0H).CH(OH).CH(OH).COH. — Venne preparato seguendo il metodo descritto da Otto Ruff, per azione dell’acqua ossigenata, in presenza di acetato ferrico, sopra l'arabonato di bario (!). Il prodotto così ottenuto si trattò nel solito modo con acido benzolsolfoidrossammico in pre- senza di alcali: ma il liquido non presentava le reazioni caratteristiche degli acidi idrossammici e perciò la sostanza, contrariamente a quanto si ammette, molto probabilmente non contiene più intatto il residuo aldeidico; a diffe- renza dei due casì precedentemente studiati, l’ossidrile in posizione y deter- mina la formazione di un nuovo assetto che potrebbe avere la seguente forma: (OH) CH Ù CH, 7C0H{(OH) (0) CH(0H) nel quale, come naturalmente anche in quelli che seguono, non si tiene conto della configurazione. Reazione negativa si ebbe pure con un aldopentosio, il (1) Berliner Berichte, XXXII, 3674. — 363 — l-Arabinosio. CH,(0H).CH(OH).CH(OH).CH(OH).COH e perciò anche a questa sostanza si è condotti ad attribuire una formola analoga alla precedente; (OH) CH —TCH(0H) e (OH) CH\\ /CH.CH,(0H) Ò la quale giustificherebbe anche la facilità con cui queste sostanze forniscono furfurolo. La soluzione dell’arabinosio, trattata nel solido modo con acido benzol- solfoidrossammico in presenza di alcali, ed in seguito acidificata con acido acetico, per aggiunta di acetato di rame dà un lieve precipitato; ma da gr. 0,70 di arabinosio si ebbero solamente gr. 0,07 di sale di rame, dovuto probabilmente a prodotti aldeidici formatisi per azione degli alcali ovvero contenuti come impurezze nel prodotto di partenza. Ad ogni modo, per assi- curarci che l’arabinosio non viene modificato, prendemmo un gr. di questa sostanza, proveniente da Kahlbaum, e lo trattammo con gr. 1,5 di acido benzolsolfoidrossammico; reso alcalino con potassa si riscaldò lievemente a b. m. Il liquido ottenuto venne trattato con soluzione acetica di p-bromo- fenilidrazina, secondo le prescrizioni di Emilio Fischer (*); si ebbe così un abbondante precipitato costituito del p-bromofenilidrazone mescolato con ben- zolsolfinato di p-bromofenilidrazina. Per separare l’idrazone da questo sale, si trattò il precipitato con soda: si raccoglie sopra filtro, si lava con acqua e poi si ricristallizza dall'alcool. Il prodotto così ottenuto è perfettamente identico a quello che per il confronto preparammo direttamente dall’arabi- nosio e p-bromofenilidrazina. Glucosio. CH:(0H).CH(OH).CH(OH), CH(O0H).CH(OH).COH. — Per le nostre esperienze ci servimmo di un magnifico prodotto proveniente da Kahlbaum. Il risultato anche in questo caso fu negativo, sia operando sopra soluzioni recenti, come anche sopra quelle preparate da parecchi giorni. Con il percloruro non si ha la caratteristica colorazione violetta e con ace- tato di rame sì nota appena un lieve intorbidamento; dobbiamo però subito avvertire che lo stesso intorbidamento si osserva anche quando invece di glucosio si adopera levulosio cristallizzato di Kahlbaum. Nel dubbio che avesse potuto formarsi egualmente un acido idrossammico, ma che per la particolare struttura del prodotto non presentasse le solite reazioni che sono caratteristiche di questi acidi, giudicammo opportuno stabilire che il glucosio rimane realmente inalterato. A tale scopo un grammo di glucosio venne trattato con gr. 1,2 di acido benzolsolfoidrossammico, c. c. di acqua e c.c. 5 (*) Berliner Berichte, XXVII, 2491. — 364 —- di soluzione di potassa al 50/,; dopo un'ora, si tratta nel solito modo con acido acetico e fenilidrazina e si ricavarono gr. 1,6 di fenilglucosazone. Ciò dimostra che il glucosio non prende parte alla reazione e rende probabile che anche a questa sostanza sia da attribuirsi una costituzione analoga a quella stabilita per i composti precedenti; tal fatto giustificherebbe la for- mola di struttura proposta da Tollens. CHETOALDEIDI. Naturalmente anche per questo gruppo di sostanze, abbiamo impiegato composti nei quali il residuo chetonico è situato in differenti posizioni ri- spetto al gruppo aldeidico ed anche in questo caso i risultati sono stati molto diversi fra di loro. Fenilgliossal. Cs$H;.CO.COH. — Lo preparammo secondo le indica- zioni di Pechmann, partendo dall’ isonitrosoacetofenone. Venne trattato in presenza di acqua con le quantità calcolate di acido henzolsolfoidrossam- mico e soda caustica, operando sopra piccole porzioni per volta. Dopo ag- giunta di acido acetico, il liquido si colora intensamente in violetto; con percloruro di ferro e con acetato di rame fornisce un abbondante precipitato verde giallognolo che venne lavato con molta acqua. Per avere l’acido libero si fa passare una corrente di idrogeno solforato nel sale sospeso in acqua, ed il liquido separato dal solfuro di rame si evapora nel vuoto. Si ottiene così uno sciroppo impregnato di cristalli che vennero purificati dal benzolo bollente in cui sono pochissimo solubili; i cristalli più belli fondono verso 128°, dànno in modo marcatissimo con percloruro di ferro la reazione degli acidi idrossammici e con acetato di rame forniscono un precipitato giallo verde. Ma l'acido è oltremodo alterabile e per quanto si purifichi dal ben- zolo ovvero da poca acqua, si ottiene sempre inquinato da una piccola quan- tità di resina che non ci permise di avere dati analitici perfettamente sod- disfacenti; tuttavia non v’ha dubbio che si tratti dell'acido idrossammico: C;H;.CO.C(NOH) OH e perciò le chetoaldeidi che contengono il carbonile chetonico in posizione @ si devono riguardare come vere aldeidi. Formilacetofenone. CsHz.C0.CH,.COH ovvero CH; .C0.CH = = CH(OH). — Ottenuto dall’acetofenone e formiato di amile. Non fornisce le reazioni degli acidi idrossammici e questo fatto costituisce un’altra prova che queste sostanze sono da considerarsi come derivati ossimetilenici confor- memente alla seconda formola. Aldeide levulinica. CH: .CO.CH,.CH,.COH. — Un campione di questa interessante sostanza ci venne gentilmente regalato dal suo scopri- tore, il prof. Harries dell’ Università di Kiel. Anche questa sostanza sotto- posta al solito trattamento non fornì la reazione degli acidi idrossammici; — 365 — ciò rende probabile che il residuo aldeidico abbia concorso a dare alla mo- lecola un nuovo assetto. i Glucosone. CH:(0H).CH(OH).CH(OH).CH(0H).CO.COH. — La so- luzione di questo composto, ottenuto dal corrispondente glucosazone col me- todo descritto da Emilio Fischer, ha fornito del pari reazione negativa. E siccome, come prima si è visto, il carbonile prossimo al gruppo aldeidico non impedisce l’addizione della biossiammoniaca, ne viene di conseguenza che anche in questo caso la reazione è ostacolata da un ossidrile, e proba- bilmente da quello in posizione y. ALDEIDI CONTENENTI AZOTO. Le sostanze di queste serie sono ancora note in piccolo numero, e perciò le nostre esperienze hanno dovuto limitarsi a pochi esempî scelti fra i più facilmente accessibili. E dobbiamo subito avvertire che, in questi casi, sembra che le ordinarie reazioni che servono a caratterizzare gli acidi idrossammici che dovrebbero formarsi vengano turbate dall’azoto che contengono; così p. e. finora non ci fu possibile avere i sali di rame; ciò può dipendere dal fatto che l'azoto rende ancora più debole il carattere acido già per conto proprio debolissimo di questi composti, ovvero dalla formazione di prodotti complessi che non presentano più i caratteri degli ordinarî sali di rame. Amminoacetaldeide. CH,(NH,).COH. — La soluzione del cloridrato di questa base venne preparata dal corrispondente acetale seguendo le pre- scrizioni date da Emilio Fischer, e si trattò nel solito modo con la quan- tità calcolata di acido benzolsolfoidrossammico ed operando rapidamente con eccesso di soda al 10°/,. Si forma tosto un precipitato bianco caseoso che si ridiscioglie completamente per riscaldamento a b. m. Il liquido acidificato con acido acetico venne trattato con acido picrico e così si ottiene un ab- bondante precipitato giallo che fonde verso 108° con decomposizione. All’ana- lisi diede numeri che concordano con quelli richiesti dal picrato: NH;.CH,.C(NOH) OH , C,H.(0H)(N0)),. Aldeide d-amminovalerianica. NH,.CH,.CH,.CH, "CECSCOHR= Anche questa sostanza reagisce con la biossiammoniaca, come ha trovato Rimini (!) ancora parecchi anni or sono. p-Dimetilamminobenzaldeide. (CH),N. C:H,. COH. — Anche questa sostanza non presenta le reazioni degli acidi idrossammici, e, dopo averla trattata nel solito modo con acido benzolsolfoidrossammico si riottiene inal- terata. Questa è la prova più sicura che la sostanza non prende parte alla reazione. Ciò renderebbe dunque probabile che anche questo composto non contenga intatto il residuo — COH; ma in questo caso riesce alquanto diffi- (1) Questi Rendiconti, 10 (1901), 1° sem., pag. 855. ReNDICONTI. 1908. Vol. XVII, 2° Sem. 47 — 366 — \ cile l’indagare quale sia il nuovo assetto che avrà assunto la molecola. Le possibilità sono numerose, come p. e. le seguenti: N(CHs): N(CH;); N(0H;)» N VA % cHK 0 OH, CH CH C(OH) CO nel residuo aromatico delle quali sarebbero contenuti due doppî legami come nei chinoni. Bisogna però subito notare che secondo la terza formola, la sostanza dovrebbe presentare talune delle reazioni che sono proprie dei che- toni, e che in questi ultimi anni sono state studiate sopra tutto per opera di Standinger. Come gentilmente mi comunica il prof. Franz Sachs di Berlino, farò notare che questa aldeide purificata per cristallizzazione si presenta sempre giallognola e che conserva lo stesso colore anche quando si distilla nel vuoto. A questo riguardo crediamo opportuno di porre in rilievo che, in ge- nerale, non presentano la nuova reazione nessuna delle aldeidi che si pre- parano col metodo di Reiner e Tiemann, vale a dire per azione del cloroformio in presenza di alcali. Reazione negativa si ebbe infatti anche con le ossi- aldeidi aromatiche, mentre invece reagiscono gli eteri corrispondenti. Non è quindi escluso che, almeno nelle condizioni in cui si opera, anche queste sostanze non contengano più il residuo aldeidico intatto. Aldeidi pirroliche ed indoliche, che del pari vengono preparate per azione del cloroformio e potassa sopra gli indoli e pirroli. Anche queste sostanze non reagiscono con la biossiammoniaca, ed ancora lo scorso anno (') abbiamo dimostrato che tali composti sono con tutta probabilità da riguar- darsi come derivati ossimetilenici, p. e. HO--CH HCN C=CH(0H) N perchè si possono preparare anche per azione degli eteri formici in presenza di sodio metallico. Continueremo lo studio di queste reazioni. (1) Questi Rendiconti 16 (1907), 1° sem., pag. 382. — 367 — Matematica. — Sua formula integrale di Fourier (*). Nota di LUCIANO ORLANDO, presentata dal Corrispondende T. Levi-CIvITA. Nel classico trattato di fisica matematica di Riemann-Weber (?) è con- tenuto quanto basta per asserire che la formula integrale di Fourier si può considerare stabilita quando sia stabilita la formula preliminare o) fo de fu Neri =) (c>0). Il numero positivo fisso c, che figura in questa formula, si può ritenere arbitrariamente alto, per virtù di quest'altra relazione fi da o) ‘4(2) cos a4dA=0 0>0), chiaramente e rigorosamente dimostrata nel medesimo libro. Per la validità della (1) sono ivi imposte alcune condizioni alla funzione w(4). Accettando senz'altro quelle che non hanno relazione col limite infinito dell’integrale che figura a destra nella (1), fisseremo invece l’attenzione sulle tre seguenti: I. Esiste un numero fisso c, tale che per 4= e la funzione w(4) non cresca mai o non drecresca mai col crescere di Z (qui la considereremo, per esempio, non crescente). II. La funzione w(4) tende a zero per 4 infinito (supporremo dunque che w(4) per 4 = c non sia mai negativa). III. L'integrale of LO) 4 è convergente. La dimostrazione contenuta nel Riemann-Weber è, come ha recente- mente osservato il Pringsheim (*), fondata sopra un equivoco. Il Pringsheim (*) Nota pervenuta all'Accademia il 16 settembre 1908, (*) Die partiellen Differentialgleichungen der mathematischen Physik. V. il secondo capitolo del primo volume. (3) In un articolo sull’integrale di Fourier, inserito nei Jahresberichte der deutschen Mathematikervereinigung (B. XVII, 1907), il Pringsheim osserva che il Weber scrive abusivamente la formula p % % NI de (, (A) cos «A dd =| va sin AW dA , 0 e 0 dalla quale poi si deduce la (1). Questi punti poco chiari del Riemann-Weber costitui» scono una rarissima singolarità nella limpida eleganza dell’ottimo libro. — 3638 — afferma che, ciò nonostante, il teorema è valido, e che anzi bastano le sole condizioni I e II, fra le tre che qui abbiamo scritte, perchè si possa rigo- rosamente stabilirlo. Aspettando che l'illustre Autore abbia reso nota la sua dimostrazione, noi non crediamo, intanto, inutile darne una, rigorosa e semplice. Poniamo f(@) =f cos @À dà , e vediamo di provare che /(@) è, per ogni a > 0, una funzione continua dia. Che, intanto, per ogni a >Q, l’integrale converga, si deduce agevol- mente dal $ 7 del primo volume del Riemann-Weber. Se ora y e v sono due numeri positivi non inferiori a c, il secondo teorema della media ci permette di scrivere (2) Su cos aÀà dA = yy), sin ET sin - sin ay sin av — sin aé RW) re dove é è un numero intermedio fra y e v. La convergenza dell’integrale /(a) assicura che il secondo membro ha, per »v infinito, un limite ben preciso. i È 2 3 , Ma y(v) tende a zero, il suo coefficiente non supera —, come il coefficiente (04 di y(y), dunque possiamo scrivere la formula fu@ cos aÀ di | = 200) 5 ni (04 Per y abbastanza grande, il secondo membro è una quantità arbitrariamente piccola. Se facciamo variare @, in modo che, nel variare, non diventi più piccolo di un numero positivo fisso «, allora l'oscillazione di quest'integrale si può considerare arbitrariamente piccola, per y abbastanza grande. Fissato ad arbitrio un numero positivo w, piccolo quanto si voglia, esi- sterà dunque un numero /isso y tale che l’oscillazione di quest'integrale non . 0 ASSI AO Ma, se facciamo variare @ abbastanza poco, anche l'integrale " 1 p(2) cos c4 di c SIERRA . ® . DE i; oscillerà meno di 2° Infatti si può scrivere | fem [cos (@ + 4) 2 — cos 24] d4 | Lug | fa) P. Ù sin (e +3) 242 | 3 — 369 — $ da h : DU DIAZ Ora, il modulo di sin (a 4 9 À non oltrepassa 1,il modulo di sin g oltrepassa i, dunque l'oscillazione dell’integrale che stiamo esaminando non oltrepassa | sli Ayw(4) dA, e, come tale, si può, per 4 abbastanza vi- ; ; © cino a zero, ridurre <35 ; Ricomponendo (a) come segue: o (0.0) = À 4 dà 7) ahdi , = f"00) c08 202 + f 49 008 noi vediamo che, se a >Q0 varia abbastanza poco, la funzione /(@) oscilla meno di ©; ciò significa che /(a) è una funzione continua di @ per ogni AU Notiamo che dalla (2) si ricava ® fesa E Y dove o è una funzione di @, sulla quale non possiamo dire nulla di preciso ; ma invece sin eg è una funzione continua di ogni a > 0, la quale non esce mai dall'intervallo (— 1,1). La formula (3) è valida per ogni y = €; col variare di y, varia gene- ralmente anche sin ao, ma sempre fra —1 e 1; e il coefficiente di y(y) 2 non supera — . (04 La funzione /(@), essendo continua, è integrabile in ogni intervallo (e, u), limitato da due arbitrarî numeri positivi e, . Supponendo dunque che #“< 1 e u>e siano due numeri positivi fissi, noi possiamo scrivere (4) Ji CARO ee f "y(4) da f cio Ù sin ud — sin eà Ma la convergenza dell’integrale /(a) mostra che, fissato ad arbitrio un nu- mero positivo w, quanto si voglia piccolo, sì può, per v abbastanza alto, porre (13) | 26 Sa cos aÀ dà | < — 370 — Si deduce che il primo membro di (4) ha un limite ben preciso per » infi- nito, e si può scrivere Da S ca (5) f da i: w(4) cos aÀ dA = su) sin uÀ dÀ — E c c -f si) sin sÀdZ. È À Ora noi applichiamo alle due funzioni vo) e sin uà una formula come la (3), la quale è invece relativa alle due funzioni w(4) e cos 4. Otteniamo TUO _ 240) | ; 1 sin pai |< SRO o anche (6) lim ii LO) sin ud di —0 . u,=0%0 \ Esaminiamo poi l’altro integrale che figura nel secondo membro della (5). Esso si può decomporre come segue: 1) Dir vii sin ed = f 20 sin SA dd dl PO) A Vr Ora, qualunque siano i due numeri positivi / ed L, e comunque L cresca, 5 L sin 4 RIO, 3 l'integrale I ca dà resta sempre entro limiti fissi. Tenendo presente ciò, noì possiamo nel secondo integrale del secondo membro di (7) operare la sostituzione 4 = «4, dove Z' è la nuova variabile d'integrazione. Soppri- mendo l’accento, otteniamo È À\ sin 4 î. v(£) ai a. Ma, scrivendo IZ Tsin7% © sin 4 v sin 7 INTO, ; n=) S. - a+ v(*) f pda, dove È è un numero fra ye e v>y, noi vediamo che si può fissare y così alto, che, qualunque sia £<1, e qualunque sia v >y, quest’espressione diventi vicina a zero più del numero arbitrario fisso DE Fissato in tal modo — 371 — y, basterà ora assumere e abbastanza piccolo perchè anche la funzione di « fionda risulti vicina a zero più di 5 Con ciò, il primo membro di (7) risulterà vicino a zero più di @; dunque possiamo dire che esso tende a zero per e=0. Ma la (6) già indica che anche il primo integrale del secondo membro di (5) tende a zero per & infinito; dunque risulta senz'altro dimostrata la (1), che volevamo stabilire. Come si vede, non abbiamo adoperato la condizione III relativa alla funzione (4), ma soltanto la I e la II. La I sì potrebbe alquanto ampliare, ma ciò complicherebbe la dimostrazione. Comunque sia, la condizione III è superflua, come aveva già asserito il Pringsheim. Matematica. — Swi criteri d’integrabilità finita di una equa- zione di Riccati. Nota del dott. CarMINE AJELLO, presentata dal Corrispondente E. PascaL. Ultimamente il prof. Pascal, in due Note ('), ha considerato i casì di integrabilità finita di una equazione di Riccati del tipo (1) y4y°=S con S=Ax%-° LBea}-? 4 0x7, già considerata da Eulero, e comprendente i casi considerati da Malmstèn, da Brioschi e da Siacci. Ora io mi propogo in questa Nota di studiare i casi d’integrabilità della equazione del medesimo tipo, dove però S abbia la forma più generale SS ADE? + Dr CRLAUAL + SUA | Arti ad? + Oro In questa ricerca mi avvalgo dei risultati ottenuti dal Liouville nella sua Memoire sur l'intégration d'une classe d'équations différentielles du second ordre en quantites finies explicites e nelle sue Remarques nouvelles sur l’equation de Riccati (*), e poi dal Genocchi nei suoi Studi intorno ai casi di integrazione finita (*). Con la solita nota trasformazione la (1) si riduce alla equazione di 2° ordine (2) = e poi con l'altra trasformazione di 1 Peo gi AIDA. (') Rendiconti dell’Accademia delle Scienze di Napoli, 1903 e 1908. (2) Journal de Mathématiques, 1er sér., t. IV, VI, (*) Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, tomi XXIII e XXVIII. — 372 — abbiamo la (3) o'=| Miret +aene ++ Mm FA+7+$ sa o_- fmi? sora 47? } e tutti gli altri coefficienti sono rispettivamente quelli della (2) divisi per 4°, e propriamente di Am_2 Am_1 sp 0A = = reg b YE BS , Mi Dal numero 7 della prima Memoria del Genocchi, si deduce che se C non è della forma #(8 + 1), essendo f un numero commensurabile e positivo, la (3) non ammette integrale algebrico. E siccome è cre dam +1 4° 47? ; ponendo L=V14+ dm, 5 i È i l si avrà che dovrà essere commensurabile la frazione n ed almeno una delle due quantità 1 +i sl z dovrà essere positiva. Se poi C od ; non soddisfano a queste condizioni, ed è certo perciò che non esiste integrale algebrico per la (3), dobbiamo, seguendo il criterio del Liouville, ricercare se la equazione ( F+e=|aienpanon + +A+7+7] che si ottiene ponendo nella (3) O E i ammetta o pur no integrali razionali. Ora, con un ragionamento analogo a quello adoperato dal Liouville e poi dal Genocchi nelle citate Memorie e per casì simili, si riconosce che se la (4) ammette un integrale razionale, esso non potrà avere altra forma che (5) u==0Q+1 +] Li pred 4 i —- di Alel(075 t—- di — 373 — h potendo essere solo zero od uno, % essendo radice della 4(K—1)==C, e Q essendo la parte intera della radice quadrata di Bee Mer eee PA e ordinata secondo le potenze decrescenti di {. Se m è dispari, Q non potrà essere mai razionale, e quindi ricaviamo da ciò il primo risultato che: la (2) non è mai integrabile con un numero finito di segni algebrici, esponenziali e logaritmici quando m è dispari e maggiore di 1. Consideriamo ora il caso di m pari; ponendo m= 2e Q= Ao lP1 + Axl? LA Apt + Ap, Q* — CM, 2° +, ° + + Mg (+ A]= — E le e Pot; e tenendo conto della (5), la (4) si trasforma in — da di ALe I I [= + Ì send t—- a, i — 42 pe. t— di t—- dg i—- di t_-a,| t— ag t—- 43 t—- di (6) Ed eguagliando a zero prima di tutto il coefficiente della potenza più ele- vata di 4, abbiamo la duplice condizione =, ea dove 7 indica il numero delle @,,42,...,0;. Se ne deduce che deve essere E li tt —— — —_——_-- ©) TM 2 con ? intero nullo o positivo. Se una di queste condizioni si avvera, la (3) può essere soddisfatta da un valore (8) p= gt gr, RenpiconTI. 1908, Vol. XVII. 2° Sem. 48 — 374 — prendendo dei due segni quello che deve prendersi per P, nella (7), ed essendo Z 3 ((— 41) (4 a de) ceo (£ Se di) un polinomio di grado :, ed ? precisamente quel numero intero nullo o po- sitivo trovato sopra. Eguagliando a zero gli altri coefficienti della (6) si otterrebbero, oltre le (7), altre #40 —1 equazioni, tenendo conto di un sol segno, mentre le a da determinare sono <. Si hanno dunque @ — 1 condizioni per la esi- stenza di un integrale particolare e 2(0 — 1) per quella dell’integrale gene- rale della (2) in forma finita esplicita; bene inteso, oltre le (7). Ma noi preferiamo di sostituire nella (3) il valore di v dato dalla (8), dopo di aver posto ZA=t 4 ht + ho? + KFhutth, (supposto X4= 1). Così facendo, si ottiene il sistema: (= 2kAo-a — B) 0g == Dea =0 [Pp, = (26+1) Ap] +[=" (24 +2) Ap — BI hr + +2(12=27) k_,=0 Cl...) Aree + [Pod # (244 è) Apnaen] lim +: e 2, oe +[=2%A,,— B*2(—1)A.Jh=—[2%+i—1]i (9) : Piro — AE + [PB = (24 +4 — 1) A, = 206 —1) A]@a=0 P,+(2X-+0—3) A: + 204, + Dc +[P. © (26+0—2)A/+2@—1)A]h+ +[P,*(2X4+0—1)A+2(i—2)A]h =0 © 2iAo 1 — BE 2A + +. [PSR ea Prendendo una volta i segni superiori, un’altra volta quelli inferiori, secondo che delle (7) si avvera quella col segno + o quella col segno — per P,, si ottiene un sistema nel quale le (@), che sono 7, servono a de- terminare le % e quindi la Z, e le (8) forniscono le @— 1 condizioni che insieme alla (7), si debbono avverare per l'esistenza di un integrale parti- — 375 — colare. Se si avverano entrambe le (7), è chiaro che si hanno dalle (9) due sistemi corrispondenti (@) e (8) ed (e’) e (8"), quindi 2(0 — 1) condizioni, oltre le due (7), per l’esistenza dell'integrale generale. Può dirsi più bre- vemente che le condizioni per la integrabilità sono le stesse che occorrono per la compatibilità di ognuno dei due sistemi (@), (8) ed (@'), (8°) nelle incognite £. Se la compatibilità sussiste per uno solo di essi, si ha un integrale particolare; se per tutti e due, separatamente considerati, se ne hanno due e quindi l'integrale generale. Fermiamoci ora a considerare un poco più profondamente le (7), ed osserviamo anzitutto che la somma dei loro primi membri è eguale ad (10) tr. Ciò posto è evidente che se C = 0, non potendo essere X < 0, quella somma sarà certamente negativa, e perciò in quel caso le (7) non potranno coesi- stere, ossia: /a (2) non potrà ammettere integrale generale finito se C=0. Ma se C>0, esiste un valore negativo di 7, e se questo è tale da rendere positiva o nulla quella somma, allora è possibile la esistenza dello integrale generale finito nel senso sopra detto. Per avverarsi ciò dev'essere 4 9 ma per l’esistenza dell’integrale generale, quella somma espressa dalla (10) deve essere anche intera: dunque 2k=1—71+4C dev'essere intero, e perciò deve aversi V1+4C=n (n intero positivo) ossia ae = n Li con n =0. Ora, ricordando che Ge 4lm + 1— 4° wo 42? È e ponendo /=]/1- 4am, sì ricava (11) =in icon n =10È In conclusione la (11) è condizione necessaria per la esistenza dello integrale generale della (2) in forma finita esplicita. Se essa non sì verifica, — 376 — allora è possibile che si verifichi una sola delle (7), ossia che esista un solo integrale particolare della (2) di tal forma, ed in questo caso si può dire che l'integrale generale è ancora esprimibile sotto forma finita se ai segni algebrici, esponenziali e logaritmici si aggiunge anche il segno di integrale indefinito. i Facciamo ora qualche applicazione. Si debba integrare la equazione : gl — |} gue? + 2? V2 gI2 | - I + (12) + 42/20? + de ao Qui si ha e3>o, essendo o=2. Per la determinazione delle A è facile vedere che si hanno le seguenti equazioni : di s=l gi = Me= 2 AA, ((=1,2,3,..,0); e per la determinazione di P, si ha la formola gl Pi == DI À, Apr ra Mes . r=1 Nel caso della (12) si ha 1 Il i AMO na ; Q= 2006 ,2Aa=—2, Po=Aî-A=—-1 e per < si hanno i due valori uno e zero. Dalle (9) relative al caso attuale si ricava h va = V2 2 e perciò l'integrale generale della equazione proposta è Vediamo, terminando, come dalle cose su esposte si possano dedurre le condizioni per la integrabilità pel caso di m =2, già considerato dal prof. Pascal (*). (1) Vedi Note citate. — 377 — Per m= 2 deve aversi im) d(m'‘intero >WE Poi sì ha cosicchè le (7) in questo caso, notando che 7 n. diventano: (provi = intero nullo o positivo — (abili) 1 24 vi Sono queste le condizioni trovate dal prof. Pascal come sufficienti; ma ora, in conseguenza dei risultati di questa Nota, resta assodato che esse sono anche necessarie. Chimica — Swi composti del piombo con l'acido nitroso (*). Nota di ALBERTO CHILESOTTI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. o. Scomposizione idrolitica del sale Pb(0H), Pb(NO»), . H:0. — Come si disse in una precedente Comunicazione, la regola delle fasi permette di stabi- lire se e quali tra i prodotti della scomposizione idrolitica di un sale si devono considerare come individui chimici. Il Cox (*) per es. ha utilizzato con suc- cesso questo principio per determinare quali sali basici di mercurio siano composti chimici definiti. Qualche cosa di simile parve si potesse tentare anche per i nitriti basici di piombo. Il principio del metodo si può spie- gare come segue. Si abbia un sale M-* A, che per idrolisi dia origine ad un sale basico secondo l’equazione schematica: MA, -+mH,0=mAH-+M};Aon-m OHm. Se si tratta con acqua una quantità tale di M-* As da avere ad una data temperatura e pressione un eccesso del sale M-- A, indisciolto insieme ad una certa quantità del sale basico formato (generalmente meno solubile) e supposto raggiunto l'equilibrio, si avrà un sistema monovariante. Infatti il sistema è formato di tre componenti AH, M(0H), e H,0, di due fasi solide (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Elettrochimica del R. Politecnico di Torino. (®) Zft. f. anorg. Chem. 40 (1904), pag. 146. — ie — (i due sali M* A, e M,A>n-m(0H)m), una fase liquida (la soluzione satura a quella temperatura e pressione) e la fase gassosa (il vapore): ossia in tutto quattro fasi e due varianti indipendenti, temperatura e pressione. Per la regola delle fasi (*) la varianza del sistema è F=3+2—4=1, cioè il sistema è monovariante. Ossia ad ogni data temperatura corrisponde una pressione ed una concentrazione determinata, il sistema restando in equi- librio. Se quindi si agita con acqua il sale da scomporre fino ad avere il sistema in equilibrio, e, restando fisse la temperatura e la pressione, si tolgono successivamente delle porzioni di soluzione e si sostituiscono con altrettanta acqua, l'equilibrio tornerà ogni volta a stabilirsi, e la concentrazione della soluzione riprenderà sempre lo stesso valore, finchè si avrà ancora sale MA» nella fase solida. Ma quando per successiva aggiunta di acqua tutto il sale M*- A», sarà scomparso dalla fase solida e questa sarà costituita uni- camente dal sale basico formato, meno solubile, allora il sistema diventa divariante non essendo presenti che tre fasi, formate da tre componenti. Il sistema resterà quindi in equilibrio ad una data temperatura anche variando la concentrazione della soluzione. E cioè, sostituendo successivamente una parte della soluzione con egual volume d'acqua, varierà la composizione della soluzione, mentre resterà fissa quella della fase solida. Se noi quindi possiamo determinare la composizione della fase solida nel punto in cui comincia a variare la concentrazione di equilibrio della soluzione, sappiamo qual'è il sale basico formato e possiamo asserire che si tratta di un composto chimico definito e non di un miscuglio, poichè in tal caso la sostanza indisciolta sarebbe costituita di più d'una fase, e si potrà anche escludere l'esistenza di sali basici compresi tra M* As e M}Aon-m (0H)me Continuando ad estrarre soluzione ed a sostituirla con acqua, si arriverà nuo- vamente ad una soluzione a composizione costante. Se infatti il sale solido si trasformerà in un altro più basico, il sistema diventerà monovariante, appena nella fase solida sia comparso il nuovo prodotto della idrolisi: ed anche qui, dato che questo prodotto sia un composto chimico definito, la concentrazione della soluzione comincerà a variare nuovamente mentre la composizione della fase solida resterà fissa quando tutto il primo sale basico sarà scomparso e la fase solida sarà esclusivamente costituita dal nuovo sale formato; e così di seguito. Nel caso che il sale basico formato non si scomponga ulteriormente, si arriverà ugualmente ad una concentrazione costante che corrisponderà alla solubilità del sale a quella temperatura; la composizione della fase solida resterà tuttavia costante. Questo metodo non era applicabile al nitrito neutro di piombo, che, (*) Gibbs, Zrans. of the Connecticut. Acad. III, 108-343 (1874-78); Nernst, 7’heo- retische Chemie, 5° ediz., pag. 605; J. Meyer, Finfuhrung in die Thermodynamik Knapp. Halle, 1906. | — 379 — come s'è visto, nella idrolisi sviluppa NO e dà origine a nitrato formando un sistema pel quale non valgono le considerazioni più sopra esposte. Il sale che pareva meglio prestarsi era quindi il nitrito basico Pb(0H), . Pb(NO:):. H.0 che da esperienze preliminari era risultato abbastanza solubile a 25° e che a questa temperatura viene scomposto idroliticamente dando una solu- zione in cui, nelle condizioni sperimentali, il rapporto Pb: NO, era 1: 1,44 circa. È facile vedere che anche a questo caso è applicabile quanto si disse per la scomposizione di un sale neutro. Le esperienze si condussero nel modo seguente. Una quantità pesata di sostanza analizzata veniva agitata, per mezzo di un agitatore ad elica mosso da una turbina ad acqua, con un volume noto d'acqua distillata per la conducibilità. La provetta restava chiusa da un tappo di gomma attraverso il quale passava l’agitatore a chiusura a mer- curio ed un tubo dal quale si estraevano i campioni di soluzione da ana- lizzare ed introduceva l’acqua. Per estrarre i campioni da analizzare, si lasciava riposare il liquido, dopo raggiunto l'equilibrio, e quando il liquido era chiaro, o meno torbido che fosse possibile, se ne aspirava un volume noto con una pipetta tarata, introducendo tra la pipetta ed il tubo immerso nella soluzione un tubetto di vetro pieno di cotone, che serviva da filtro. Si introduceva poscia un eguale volume di acqua distillata, attraverso il filtro che ‘aveva servito precedentemente, in modo da riportare la soluzione al volume primitivo ed evitare, per quanto possibile, la perdita di sostanza solida e di soluzione. È facile vedere come, essendo nota la quantità e la composizione del sale ado- perato, il volume totale, costante della soluzione, i volumi della soluzione estratta e la sua composizione, si poteva anche calcolare quella della fase solida, ogni volta che si estraeva un campione, e si diluiva la solu- zione. Questo calcolo indiretto della composizione della fase solida è soggetto però a diverse inesattezze. Anzitutto, nelle successive determinazioni si fanno risentire tutti gli errori delle precedenti analisi della soluzione. Inoltre, nella estrazione e filtrazione dei campioni può andar perduta qualche po’ di solu- zione o di sale solido. Si è anche osservato che, quantunque si avesse un agitatore a chiusura a mercurio, nelle esperienze di lunga durata (oltre un mese) non si può evitare l’evaporazione del liquido e quindi la diminuzione del volume totale, che dovrebbe restare costante. In molti casi era anche impossi- bile estrarre un liquido perfettamente limpido. E finalmente, numerosissime de- terminazioni dell'azoto complessivo della soluzione, confrontate con quella dell’a- zoto nitroso, ci hanno mostrato, che anche qui, quantunque la soluzione fosse alca- lina, una piccola frazione del Pb(NO»),, formato nella scomposizione, si tra- sforma in nitrato. Si trovò per es. che in 100 cm? di soluzione erano contenuti gr. 0,1045 di azoto totale, corrispondenti a gr. 0,3427 NO;: mentre la determi- Mol. N02 per litro > 1000 O) (Sì — 380 — nazione con permanganato aveva dato gr. 0,3358 di NO!, da cui risulterebbe che circa 2 °/, dell'azoto era passato dallo stato nitroso allo stato nitrico. Date tutte queste cause d'errore, non si poteva attendersi di ottenere un andamento del fenomeno esattamente corrispondente a quello previsto dalla teoria; però, se nella scomposizione si formava un nitrito basico definito, si doveva trovare una forte vaziazione della concentrazione, quando la composizione della fase solida ct: almeno e o ad un rapporto semplice 80 ni (=) Fia. 1. Pb: NO:. Questo è infatti quanto si può osservare nelle seguenti tabelle che non hanno bisogno di spiegazioni. Diremo soltanto che nell’ultima co- lonna i valori di x rappresentano gli aumenti di basicità nella fase solida 3[Pb(OH).. Pb(NO»:).. H:0)—xN:0;], dove x si calcola dal rapporto i =j nella fase solida, 3 — 3y = x). Le curve della figura 1 non sono che le traduzioni grafiche delle rispettive tabelle, e furono ottenute portando come ordinate il numero di milimolecole di NO, sciolte in un litro di soluzione e come ascisse i corrispondenti valori di x. La curva 1, corrispondente alla tabella I, si riferisce ad una esperienza nella quale furono agitati con 125 cm' di acqua a 30°,2 gr. 12,48 di Ph(OH),. Pb(NO:):. H:0 contenente 74,69 °/, Ph e 16,88 °/, NO». Ogni volta si estraevano tre campioni da 25 cm? cadauno, e sì sostituiva la soluzione estratta con 75 cm? di acqua distillata. Dall’anda- mento della curva si vede che la solubilità varia rapidamente quando « diventa eguale ad 1, e, che mentre varia la concentrazione della soluzione, — 9381 — resta quasi costante la composizione della fase solida e corrispondente alla formola 3PbO . N,0; « H:0. Della esattezza della determinazione indiretta della composizione della fase solida è indizio sicuro il fatto che la composizione calcolata per il residuo indisciolto, corrispondeva sufficientemente ai dati dell'analisi diretta. Nella scomposizione idrolitica del: sale usato si forma quindi il sale basico con lo stesso rapporto 3PbO : IN:0; di quello già preparato da Bromeis, da Peters e da me, la cui individualità sembrava dubbia. Nella 2% esperienza si trattarono gr. 10,0 di nitrito basico Pb(OH),. Ph(NO:): . H:0 con 200 cm° di acqua: si estraevano ogni volta 75 cm? di soluzione che venivano sostituiti con altrettanta acqua. La curva 2 mostra che anche a 25° la scomposizione del nitrito basico ha luogo allo stesso modo. Il flesso però non ha luogo per #=1 ma per «= 1,05. Che questo dipenda dalle inesattezze del calcolo indiretto delle quali si fece parola più sopra, risulta dal fatto che 7 assume successivamente i valori di 1,052, 1,065, 1,035, 1,038 mentre x non può che aumentare. Anche l’analisi del residuo non s'accordava col calcolo indiretto della composizione (vedi tab. II). Quantunque però l'andamento complessivo della curva non lasciasse alcun dubbio circa la formazione del sale S5PbO.N,0;.x H.0, per avere una conferma diretta di questa deduzione sì eseguì un’altra esperienza a 309-299,9. I risultati ottenuti sono riportati nella tabella III e rappresentati gra- ficamente della curva 8. Si usarono gr. 21,18 del solito nitrito basico, con- tenente 80,18°/, di PbO e 16,44°/, NO;, che si agitò con 150 cm? d'acqua. Si estraevano ogni volta 150 cm? di acqua che si sostituivano con altrettanta acqua. Questa volta si interruppe l’esperienza quando l’analisi della soluzione mostrava che la comparizione della fase solida era ancora quasi costante. L'analisi del residuo mostrò che in esso il rapporto Pb: NO,= 1 :0,649 (la sostanza conteneva cioè 89,24 °/, PbO e 11,97 °/ NO) 2 = 1,05, mentre indirettamente s'era trovato 4 = 1,098. Spostando l'asta discendente della curva parallelamente a sè stessa in modo che l'ultimo punto corrisponda a questo valore di 7, il flesso si forma nel punto per il quale 2 è eguale ad 1,02, ossia quando nella fase solida il rapporto PbO:N; 0; si può conside- rare eguale a 3:1 — tanto di poco ne differisce il valore trovato. Nelle curve 1 e 2, ed anche in altre esperienze qui non riportate, s'era verificato un andamento poco regolare al principio della esperienza. La solubità da prima si mantiene bassa: essa sembra anzi diminuire, per salire poi rapi- damente al valore costante. Ed inoltre sul principio pare non abbia luogo o quasi scomposizione del sale. L’interpretazione più semplice di questo fatto è che forse abbia luogo da prima un lento fenomeno di idratazione, al quale corrisponde infatti anche una variazione d'aspetto della sostanza indisciolta. RenpiIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 49 — 382 — La costanza della concentrazione e la più forte scomposizione sarebbero proprie del nuovo idrato formato. Nella terza esperienza non si veritica questa prima fase, e l'equilibrio si stabilisce subito, quantunque l'agitazione precedente la prima determinazione non fosse durata più che negli altri casi. Si dovrebbe quindi concludere che il sale usato, ad onta della piccola diversità di composizione, presentasse la pro- prietà di idratarsi più rapidamente, forse per un differente stato di aggregazione. Per verificare l'ulteriore scomposizione idrolitica del sale 3PbO . N; 0; xHs0, che all'ultimo tratto della curva 1 mostra dare origine a due fasi solide, si trattò gr. 6,89 del residuo della esperienza III con 150 cm? d'acqua a 30°,2; si estraevano ogni volta 50 cm? di soluzione, che venivano sostituiti con acqua. I dati seguenti mostrano la composizione di campioni della solu- zione estratti successivamente. SPINO E 1 2 3 + 5) 6 7 8 9 10 Durata della agitazione in ore 42.52 71 52. 72. 71 72 72 72. 72 Mol. NO‘, “3000 Per litro. . 10,74 10,78 10,71 10,84 10,66 10,67 10,70 10,33 9,99 9,29 Da prima cioè la concentrazione della soluzione si mantiene costante; quindi diminuisce lentamente. L'analisi del residuo mostrò che esso conte- neva 78,37 °/, Pb e 5,18 °/, NO», ossia che il rapporto Pb:NO; era 1:0,32; mentre al principio della esperienza lo stesso era 1:0,649. Quindi nella scomposizione detto rapporto deve aver assunto il valore 1:0,5; ciò che rende probabile che alla variazione della concentrazione della soluzione corrispon- desse la formazione della fase solida unica 3PbO . N; 0; . H:0, il sale basico già noto, la cui esistenza pareva già assodata da quanto si disse più sopra. Sfortunatamente però il calcolo indiretto della composizione della fase solida, ha portato ad un valore talmente diverso da quello trovato con l’analisi diretta del residuo indisciolto, da non potersi dedurre quale fosse la compo- sizione della sostanza indisciolta quando la concentrazione cominciava a va- riare. La causa principale di questa discordanza devesi ricercare nella evapo- razione della soluzione, per effetto della quale una buona parte della sostanza disciolta s'era depositata sulle pareti del recipiente. Ad ogni modo, almeno qualitativamente, pare confermata la formazione del sale 4PbO .N; 03.H:0 già accertata per altra via. La prova di solubilità a 30,5° del sale 3PbO .N;03 preparato come sì disse più sopra, presentò un andamento poco regolare; la concentrazione dell’NO; restava cioè pressochè costante, mentre quella del piombo, dopo la prima esperienza, cominciava a diminuire. Si poteva dubitare che le deter- minazioni eseguite non corrispondessero allo stato d'equilibrio ad onta che l'agitazione durasse ogni volta circa 90 ore. Non si credette quindi fosse il caso di continuare queste esperienze. Finalmente si sperimentò anche la scomposizione del sale 4PbO . N; 03. H:0; ma si trovò che anche qui l’equi- librio si stabiliva con estrema lentezza e che la composizione della soluzione — 383 — differiva pochissimo da quella del sale, così che anche in questo caso il metodo tentato pareva prestarsi male a determinare quale fosse l’ultimo prodotto della idrolisi. (La soluzione conteneva circa 0,17 gr. PbO in 50 cm? a 300,2). Ad ogni modo da tutto il complesso delle esperienze eseguite sui nitriti basici, riteniamo potersi considerare come combinazioni definite i seguenti sali basici: Pb(OH),. Pb(NO:). ed il suo idrato con 1 mol. d’acqua, il sale 8PbO . N: 03 o 2PbO. Pb(NO:): e 4 PbO.N,0,.H:0. Il primo ed il se- condo di questi sali possono considerarsi come derivati dell'acido ortonitroso H,NO; ; Pb(OH). . Pb(NO,) =2 NOS pei GPL: 2EMPRNO,): — 04, NO DE "pp Il sale 4PbO.N,0;.H;0 si potrebbe invece far derivare da un acido H; NO, ; 2N0, . Pb,H= 4PbO. N, 0;.H;0. Finalmente si deve notare che le esperienze sulla solubilità del sale Pb(NO.).. Pb(OH).. H:0 hanno insegnato un nuovo metodo per la prepa- razione del sale 3PbO.N,0;. Trattando cioè il primo di questi composti con quantità crescenti d’acqua, si ottiene da prima una soluzione gialla lim- pida; ma poi, sostituendo la soluzione con acqua, si arriva ad ottenere un liquido quasi incoloro e torbido dal quale si deposita lentissimamente la sostanza in sospensione. A questo punto la sostanza rimasta indisciolta è costituita dal sale 3PbO . N.03.z H;0. TABELLA I. CF 2 COMPOSIZIONE DELLA SOLUZIONE |COMPOSIZIONE DELLA SOSTANZA INDISCIOLTA sE s ; Nella 1 i co ca NO.) Pb:NO, [ostenta |gr. PbO|gr. NOs|Pb: NO. » 100 See per litro Leo N e| 10,044 | 2,107 |1:1,016 48. |30°,2]| 0,3318 |0,0788 68,45 | 1:1,15 1 8,385 | 1,713 |1:0,989 3,9 67 |80, 2 | 0,3332 (0,0731 63,54 | 1:1,06 2 7,882 | 1,505 |1:0,987 3,9 48. |30, 2 | 0,8309 [0,072 62,55 | 1:1,05 3 6,394 | 1,291 |1:0,977 6,9 48. (30, 2 | 0,2863 |0,08765 | 76,15 | 1:1,48 4 | 5,624 | 0,997 [1:0,858 42,6 48. [80,15 | 0,2839 [0,0872 75,76 | 1:1,48 5 | 4,777 | 0,784 |1:0,744 76,8 53. |30,15 | 0,2253 |0,0661 57,45 | 1:1,42 6 4,219 | 0,578 |1:0,663 | 101,1 48. |80, 1 | 0,1434 |0,0346 39,01 | 1:1,17 7 3,952 | 0,537 |1:0,658 | 102,6 48. (80,15 | 0,0956*|0,02553*| 27,73 | 1:1,29 8* | 3,641 | 0,447 |1:0,5949| 131,8? 49. |80,15 | 0,1255 |0,0218 18,88 | 1:0,841| 9 3,324 | 0,422 |1:0,615 | 115,5 50 |30, 2 | 0,1210 |0,0186 16,15 | 1:0,742| 10 2,970 | 0,373 |1:0,608 | 117,6 48. |30, 2 | 0,1175 |0,0186 16,15 | 1:0,766) 11 2,625 | 0,817 |1:0,585 | 124,5 45 (30,15 | 0,118 |0,0186 16,15 | 1:0,763| 12 2,270 | 0,260 |1:0,554 | 133,8 48. |30, 2 | 0,1165 |0,0182 15,83 | 1:0,709| 183 1,924 | 0,206 |1:0,518 | 144,6 (*) Nella esperienza N. 8 furono estratti 60 cm? di soluzione ed aggiunti 60 cm? di acqua. Il PbO e l’acido nitroso furono determinati in 20 cm?, ed i numeri riportati si riferiscono al contenuto di questo volume. — 384 — Il residuo seccato pesava gr. 2,2. Era una polvere amorfa bianco-sporca leggermente giallognola, che fu analizzata. r. 0,2654 hanno dato gr. 0,2339 di PO — 81,80°/ Pb | a La r. 0,1628 ” » gr. 0,1536 PbO» -— 81,71 O SED RI de ont gr. 0,2057 contenevano gr. 0,0186 NO. — 9,04°/ NO, | i i osa IR TABELLA II. E g COMPOSIZIONE DELLA SOLUZIONE COMPOSIZIONE DELLA SOSTANZA INDISCIOLTA SANE 58 | È |gr.Pbo]|gr.N0, NO, EHo,|cc-taital gr PbO gr NOJ(FheNO, 55 | & lin25cm?fin25em3| 1900 primit. 2.100 Se A per litro vessrno|_8047 | 1,688 |1:1,015 77. | 25° | 0,2658| 0,0597| 51,84 | 1:109] 15,921 | 1,211 |1:0,990| 294 72 |2495 | 0,2665 | 0,0575| 50,00 | 1:105| 2 | 5,118 | 1,049 |1:0,992| 281 96 |25,05 | 02842 | 0,0681 | 59,20 | 1:141] 3 | 4,577 | 0,792 |1:0,838| 48,66 72. | 25° | 0,2826 | 0,0689| 59,86 | 1:148 4 | 3,887 | 0,581 |1:0.7237) 82,89 72. |24,9 | 0,1959| 0,0573 | 49,81 | 1:142°% 5 | 3,483 | 0467 |1:0,649 | 105,24 96 | 25° | 0,1505 | 0,0395 | 34,68 | 1:128| 6 | 3,259 | 0,484 |1:0,645 | 106,5 72 |25,05 | 0,11782| 0,0273 | 28,73 | 1:112| 7| 3,069 | 0415 |1:0,6559| 103,5 72 [24,95 | 0,1244 | 0,0239 | 20,80 | 1:098| 8 | 2,663 | 0,360 [1:0,654 | 1088 72 | 25° | 0,1248| 0,0224 | 19,46 | 1:087| 9 | 2,287 | 0,800 |1:0,685 | 1095 48. [25,05 | 0,11852| 0,0184 | 16,0 |1:0,78| 10 | 2,008 | 0,265 |1:0,640 | 108,0 La sostanza restata indisciolta era una polvere leggermente giallognola, che fu seccata sopra Ca Cl. e Na0H, e poscia analizzata: gr. 0,2090 hanno dato gr. 0,1859 PbO —- 82,56 °/, Pb gr. 0,1504 » » gr. 0,1430 PbOs — 82,33 °/ Pb Pb:NOs = 1:0,572 ossia gr. 0,2503 contenevano gr. 0,02626 NO» — 10,49 °/, NO/» 2.100 = 128,4. TABELLA III. CE s COMPOSIZIONE DELLA SOLUZIONE |COMPOSIZIONE DELLA SOSTANZA INDISCIOLTA = DS Gc TOA È Mol. Nella 28 | È |gr.PbO/gr.NOs yo, |Pb; NO,|sestazza| gr. PbO | gr. NO; |Pb: NO: £ a Gioco sl; 3 2/1000 5 2 primit. 2.100 58 Sg |in50cm?in50cm b D A per litro resp] Ne| 16,982 | 3,482 _|1:0,993 46 |29°,90| 0,5916 | 0,1688 | 73,83 |1:1,381 1 | 14,024| 2,638 |1:0,911 26,7 48 |29,95 | 0,5800 | 0,1670 | 72,55 |1:1,394 2 | 12,307 | 2,041 | 1:0,803 59,1 48 | 30° | 0,5777 | 0,1658 | 72,11 |1:1,389 3 | 10,579 | 1,546 | 1:0,707 87,3 58 |30,1 | 0,4666 | 0,1270 | 55,17 |1:1,319 4 9,401 | 1,242 |1:0,639| 108,3 51 |29,95 | 0,2861 | 0,0668 | 29,04 |1:1,031 5 8,904 | 1,162 | 1:0,632| 110,4 48 | 30° | 0,2504 | 0,0436 | 18,95 |1:0,843 6 8,224 | 1,078 |1:0,635| 109,5 48 [29,95 | 0,2538 | 0,0376 12,98 |1:0,718 7 7,456 | 0,977 |1:0,634| 109,8 Il residuo raccolto pesava gr. 8,30. gr. 0,6076 hanno dato gr. 0,5422 PhbO — 89,24 °/, PbO Pb:NO'n,= 1:0,649 gr. 0,7049 eontenevano gr. 0,8438 NO” — 11,97 °/, NO/a = 8:1,95 (9,89 °/o N20) doXE 1,05 di — 385 — Chimica. — Sopra alcuni composti di addizione dell'anidride seleniosa. (‘) Nota di F. CARNEVALI, presentata dal Socio S. CAN- NIZZARO. Nel 1893 Muthmann e Schéfer (*), occupandosi di ricerche sul selenio, hanno avuto occasione di descrivere i seguenti composti di addizione dell’a- nidride seleniosa : 28e0, , KC1,2H,0 2Se0,, KBr, 2H,0 ZSe0, ’ NH,C1 9 2H,0 2560, n NH,Br 5 2H,0 2560, , RbC1, 2H:0 I primi tre composti clorurati sono stati ottenuti in bei cristalli inco- lori, isomorfi, sciogliendo un forte eccesso di anidride seleniosa in acido clo- ridrico diluito ed aggiungendo poi i rispettivi cloruri alcalini, mentre quelli bromurati sono stati ricavati dalle acque madri della preparazione dei rela- tivi bromoseleniati Se Br, Me”... I composti ora indicati non presentano a prima vista nulla di eccezio- nale che li discosti dai prodotti di addizione del tutto simili formati dagli ossidi di tanti altri elementi, e rientrano nella categoria di quelle forme miste, alogenate ed ossigenate, che stanno a definire il passaggio fra gli alo- genosali puri e gli ossisali puri. Pur rimanendo infatti nel campo del selenio e dei suoi omologhi, solfo e tellurio, ricordo parimenti che Ditte (*), facendo agire in condizioni diverse gli acidi cloridrico e bromidrico sopra gli acidi selenioso e telluroso, ha ot- tenuti, derivati dall’anidride seleniosa, i composti: Se0,, HCl Se0, , 2HBr Se0,, HC1 2Se0, , 5HBr e dall’anidride tellurosa : Te0; , HCl —_—Te0,, HBr 2Te0.;,3HC1 2Te0, . 3HBr composti che mostrano la più grande parentela con quelli selenioso-alcalini di Muthmann e Schîfer. Nè va dimenticato che anche l'anidride solforosa appare capace di dare composti di addizione con i sali aloidi; così, ad esempio, Péchard (‘) ha ot- (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Chimica generale della R. Università di Roma. (*) Berichte 26. 1008. (*) Ann. de Chim. et Phys. [5] 20. 82. 1877. (4) Compt. Rend. 120. 1188. — 386 — tenuto a bassa temperatura un composto della formola SO; , KI ed altri si- mili con gli ioduri di sodio, ammonio, bario, calcio, argento; per la qual cosa si ha in questo senso una notevole analogia di comportamento fra le anidridi solforosa, seleniosa e tellurosa. I composti 2Se0,, Me'Al,2H,0 ottenuti da Muthmann e Schàfer sono solubili in acqua, dalla quale vengono però completamente scissi in acido selenioso e nel sale aloide alcalino, ed è riuscito infatti a questi AA. di titolare nettamente con alcali, in presenza di tornasole, l'acido selenioso che si rende libero; dalla soluzione, neutralizzata in tal modo con potassa, cri- stallizza poi per evaporazione cloruro e selenito acido di potassio. Data questa scissione molecolare operata dall'acqua, resta naturalmente esclusa anche la possibilità di effettuare doppî scambî con soluzioni di me- talli pesanti, ed è questa la ragione precipua per cui non è stato possibile di ottenere un maggior numero di composti simili del selenio. Per la completa uniformità che presentano nella composizione e per altre ragioni, a cui ora brevemente accennerò, Muthmann e Schîfer sarebbero indotti a considerare i composti da loro ottenuti non come semplici prodotti di ad- dizione dell'anidride seleniosa, ma da un altro punto di vista che offre no- tevole interesse teorico. Trattando una soluzione acquosa del composto 2Se0,, KC1,2H,0 con ossido di argento di fresco precipitato, gli AA. suddetti hanno avuto sepa- razione di cloruro di argento, e dal filtrato hanno ricavato allo stato cristal- lino il tetraselenito KHSe03,H-Se03. Questo ultimo sale, come già aveva provato Nilson (*), dopo otto ore di riscaldamento a 98° perde soltanto */s del suo idrogeno sotto forma di acqua, per cui soltanto !/3 della sua acqua sarebbe di costituzione e */; di cristallizzazione, e ad esso spetterebbe quindi la formola KHSe.0;, H;0 ossia: IV IV K0—Se0—-0—Se0—0H . Immaginando ora in questo ultimo sale il gruppo ossidrilico sostituito dal cloro, si giunge al composto KO—Se0—0—Se0—CI, ossia 2Se0,,KCI. Muthmann e Schàfer sarebbero perciò inclinati ad ammettere che i composti da loro ottenuti a partire dall’anidride seleniosa e da me riferiti in principio di questa Nota, debbano interpretarsi, piuttostochè come prodotti di addi- zione, come sali alcalini di un monocloruro (o bromuro) dell'acido pirose- lenioso Se.0;Hs, ossia come alogeno-piroseleniti. Gli stessi AA. osservano però giustamente come la formazione del te- traselenito Se03H., Se03KH, per azione dell’ossido di argento, possa egual- mente spiegarsi, sia che si consideri il composto iniziale come semplice prodotto di addizione (2Se0», KCl), ovvero come un cloro-piroselenito (Ses0:*“““«“““““‘“——’—rrrr N. SOLVENTE SOSTANZA conc Wi PM Rai e ee a ei e I I 1° SERIE. Il gr. 89,58 0.2012 0,5094 0,86 150,2 2 ” 0,4230 1,0710 1,71 158,8 3 » 0,6452 1,6330 2,52 164,3 4 ” 0,8730 2,200 3,94 167,7 2° SERIE. 1 gr. 40,27 0,2088 0,5186 0,87 151,1 2 ” 0,4234 1,052 1,68 158,7 3 ” 0,6060 1,505 2,35 162,4 Non v'ha dunque alcun dubbio che il peso molecolare del selenio sciolto in iodio corrisponda alla molecola Se. = 158.4. Devo osservare che anche coi dati ottenuti da Pellini e Pedrina (1. c.) nelle loro esperienze dì conge- lamento sulle miscele Se-I si calcola per il selenio un peso molecolare del- l'ordine Se;. Dal confronto dei miei risultati con quelli di Beckmann, se si annette valore alle esperienze in ioduro di metilene, emergerebbe che già in solu- zione la complessità molecolare del selenio è tanto minore quanto a più alta temperatura si fanno le determinazioni, vale a dire quanto più alto fonde il solvente: i pesi molecolari Sexo, Ses, Se, variano infatti in senso inverso del punto di fusione dei solventi in cui furono determinati: ioduro di metilene p. f. + 4°, fosforo p. f. + 42°, iodio p. f. | 113.9. Questo risultato è importante, inquantochè per lo zolfo si è sempre tro- vato in tutti i solventi sperimentati la molecola Sz (). Mi riserbo di rivedere in seguito più dettagliatamente l'esattezza di queste osservazioni, estendendo la determinazione del peso molecolare del se- lenio ad altri solventi. Zoologia — Intorno al ciclo evolutivo della fillossera del cerro. Nota preliminare della dott°. Anna Foà, presentata dal Socio B. GRASSI. Le ricerche da me fatte l’anno scorso intorno a questa fillossera mi avevano condotto a determinare un ciclo di sviluppo corrispondente a quello della fillossera della quercia studiata dal Balbiani, e ritenevo perciò che fosse completo. Avendo quest'anno ripreso lo studio dell'argomento per pre- parare il materiale necessario per il lavoro in esteso, mi sono invece accorta che a questo ciclo si doveva aggiungere un anello molto importante. (*) Cfr. Gazz. Chim. It. 37, parte 2°, p. 227. — 392 — L'anno scorso, seguendo il Del Guercio, indicai la specie di cui ora parlo, col nome di Ph. corticalis; quest'anno però, avendo trovata una fil- lossera non ancora segnalata in Italia, che ha molta somiglianza con quella nota come Ph. corticalis, sono restata molto incerta nella denominazione della specie. A questo riguardo si noti che in tutta la sistematica delle fillossere regna molta incertezza; e prima di pronunziarci vogliamo mettere a confronto le specie da noi trovate con esemplari di quelle descritte dai varî autori forestieri. Ora mi limito perciò a dire che la specie del cerro, di cui mi sono occupata, corrisponde senza dubbio alla P%. spinulosa di Targioni, e che il prof. Grassi ed io in Italia abbiamo trovato: I) la fillossera descritta come Ph. quereus dal Lichtenstein e dal Buckton (!) ecc.; II) una fillossera, la cui neonata è caratterizzata da tubercoli con peli biforcati alla punta e che forse deve denominarsi Ph. corticalis Kaltenbach; III) una fillossera, che sembra corrispondere alla PW. punctata Lich- tenstein (non ancora segnalata in Italia); IV) una che non sembra del tutto uguale a quella che il Lichtenstein ed il Buckton denominano Ph. coccinea; (se queste due ultime — INI e IV — siano o no specie buone, resta da determinarsi); V) la Ph. Danesii Grassi e Foà sulle radici della quercia; VI) la Ph. salicis Lichtenstein (non ancora segnalata in Italia); VII) una fillossera del gattice, che per ora non abbiamo distinto da quella del salice; VIII) una fillossera che sembra sia la Ph. acanthochermes Kollar; IX) la Ph. spinulosa Targioni, sopra nominata, di cui ora vengo a parlare (?). Le mie osservazioni dell’anno passato furono cominciate a stagione rela- tivamente inoltrata; quest'anno invece ho assistito alla comparsa, sulle foglie dei cerri, delle prime macchioline prodotte senza dubbio dalle fillossere uscite dall’uovo d'inverno. La località che mi è servita per tali ricerche è stata principalmente una macchia attigua all'Osservatorio antifillosserico di Fauglia; essa quest'anno si prestava molto bene allo scopo, perchè durante l'inverno era stata tagliata, ed in primavera riusciva molto agevole l'esame dei germogli che spuntavano alla base dei vecchi ceppi. (') Da oltre un mese qui a Fauglia le generazioni sulle foglie della quercia sono esaurite. Lo sono anche a Roma (Bonfigli). (3) Abbiamo avuto il piacere di mostrare queste forme già da noi ben distinte (eccetto la III, la IV e la VII, che non avevamo ancora trovate) al sig. dott. Bòrner nel luglio SCOrso. si DA esa Le prime foglie apparvero sui cerri verso la metà di aprile, e quasi subito si poterono osservare su alcune piante le prime fillossere. I cerri infetti in principio erano assai scarsi. Alla fine del mese d’aprile ho cominciato a veder madri attere, che deponevano le uova; solo verso la fine di maggio ho potuto raccogliere le prime alate, le quali si trovavano su cerri, su cui erano anche madri attere ovificatrici, ninfe e fillossere in tutti gli stadî di sviluppo. Sembra quindi che dall’uovo d'inverno si originino solo madri attere, e da queste tanto madri attere che alate. Il primo giugno ho raccolto una per una quaranta alate e le ho messe sulle foglie di un giovane cerro nella macchia, dopo essermi assicurata con un attento esame che esso non era infetto. Ho poi coperto il cerro con una gabbia di garza. Nello stesso giorno ho messo in capsula di Petri tre alate su foglie di cerro esaminate accuratamente. Dopo circa mezz'ora, sopra una di queste foglie ho visto cinque uova. Molto meravigliata per questa rapida deposi- zione di uova, ho raccolto altre tre alate e lo ho messe in un'altra capsula di Petri con foglie di cerro osservate prima con grande attenzione. Anche questa volta, dopo una mezz'ora circa, potei constatare la deposizione di due uova. Il giorno dopo ho esaminato il cerro della macchia, che avevo coperto colla gabbia dopo avervi messo sei alate, e vi ho trovato sulle foglie sei, o sette uova, eguali a quelle osservate nelle capsule. Il 6 giugno, si sono schiuse alcune delle uova deposte nelle capsule di Petri; con mia meraviglia ne sono uscite neonate bianche, allungate, con un lungo rostro. Evidentemente non erano i sessuati, ma quelle neonate ordinarie, che diventano madri attere o alate. Sono andata subito a vedere il cerro coperto, ed anche lì ho potuto trovare neonate bianche, allungate, che camminavano sulle giovani foglie. Queste neonate ben presto si fissarono. Dopo quattro giorni, già si vedeva nettamente ad occhio nudo sulle foglie, attorno a ciascuna fillossera, la macchiolina gialla prodotta dalla puntura dell'insetto; dopo otto 0 nove giorni, tutte quante le neonate erano diventate madri attere e cominciavano a deporre le uova (verso il 15 giugno). Concorda con quanto è resultato dagli esperimenti, il fatto da me più volte osservato nella macchia, nella prima metà di giugno, di cerri che ave- vano una sola fillossera, oppure soltanto due o tre fillossere, attere in via di sviluppo, senza presentare sulle foglie traccie di altre punture più o meno re- centi. Essendo già passati circa due mesi dalla comparsa dell'infezione sugli altri cerri infetti della stessa macchia, sui quali poi in giugno si trovavano numerosissime le fillossere in tutti gli stadî di sviluppo, non si può pensare che l'infezione scarsissima delle piante da me osservate fosse dovuta a — 394 — uova d'inverno schiuse tardi, e, non essendo i cerri a contatto tra loro, è anche poco logico ammettere che fosse derivata da attere passate da una pianta all’altra; si spiega invece in modo naturalissimo colle alate migranti da cerro a cerro, e producenti uova di forme partenogenetiche. È da questo fenomeno che deve dipendere in gran parte il fatto che l’infezione, in principio molto limitata come ho detto più avanti, si è più tardi estesa a quasi tutte le piante della macchia. To non so se tutte le alate della prima generazione (figlie delle madri derivate dall’uovo d'inverno) depongano solo uova, da cui derivano forme partenogenetiche. Mi sembra questa la cosa più probabile. Con alate raccolte nella macchia il 7 giugno, avevo anche infettato un altro cerro; ma poi, per osservare colla lente le giovani foglie, disgraziata- mente mi si è rotto il ramo su cui si erano appena fissate le giovani ro- strate nate dalle alate, e l'infezione naturalmente si è spenta, Io ho anche ripetuto parecchie volte gli esperimenti in capsula di Petri, raccogliendo le alate nella macchia. Da prima ho ottenuto soltanto neonate con rostro. Da alcune alate raccolte il 25 giugno su diversi cerri, ho otte- nuto ai primi di luglio una trentina di neonate con rostro, e verso il 4 luglio si sono schiusi quattro maschi. Dopo di allora, ho ottenuto altre due neonate con rostro l’11 luglio; poi, per quanto abbia ripetuto gli esperimenti, ho sempre ottenuto dalle alate solamente dei sessuati. In principio ottenevo soltanto maschi, più tardi ho avuto tanto maschi che femmine. È ben difficile poter dire a che generazioni appartenessero le alate che hanno dato luogo ai primi sessuati, perchè una madre attera impiega pa- recchi giorni nella deposizione delle uova, e lo sviluppo delle fillossere è molto rapido, sì che ben presto le generazioni si sovrappongono. Per decidere la que- stione sarebbero necessarî esperimenti di isolamento, che per ora non ho potuto fare, dovendo dedicarmi principalmente allo studio della fillossera della vite. Sul cerro che ho infettato artificialmente colle prime alate comparse nella macchia, come ho detto, dopo quindici giorni si vedevano già al- cune madri attere che deponevano uova (partenogenetiche). Tutte le figlie delle alate si trasformarono in madri attere; nessuna diventò ninfa. Queste madri deposero una quantità enorme di uova. Anche nella macchia, nello stesso tempo, ho trovato un cerro, su cui erano soltanto sette madri attere, che deponevano uova, e che devo ritenere figlie di un’alata migratrice. Non avendo trovato ninfe neanche su altri cerri, la cui infezione era limitata a poche fillossere tutte presumibilmente figlie d’un’alata, ritengo che dalle alate migranti derivino sempre soltanto madri attere; non posso asserirlo in modo definitivo. Sul cerro da me infettato, alla generazione composta di sole madri attere seguì un'altra generazione mista di madri attere e di alate. scsi — 395 — Queste alate, raccolte e messe in capsula di Petri, colle solite cautele, in parte morirono, in parte deposero uova da cui il 17 luglio son nati dei maschi. Sui cerri intanto l’infezione era così estesa, che non mi è stato più possibile distinguere neanche approssimativamente le varie generazioni. Verso la metà d'agosto, ho trovato le prime uova d'inverno, in numero piuttosto considerevole; certo ne dovevano esistere già molto prima. Queste uova si riscontrano alla base dei rami più grossi; essendo la corteccia liscia e senza screpolature, perchè abbiano un certo riparo vengono collocate di solito in quelle pieghe che si formano vicino all'inserzione delle foglie. Una volta ne ho trovato uno anche su di un picciuolo. Esse somigliano moltissimo alle uova d'inverno della fillossera della vite, tanto per la forma quanto per la maniera con cui stanno attaccate al sostegno, cioè aderenti per mezzo del peduncolo e un po’ inclinate. Il loro colore è un po’ più scuro di quello delle uova d'inverno della fillossera della vite; le loro dimensioni sono in media forse un pochino maggiori. Molte questioni restano ancora insolute intorno al ciclo della fillossera del cerro, oltre a quelle che ho prima indicate; tra le altre sarebbe impor- tante sapere se le alate migranti che fanno uova di forme partenogenetiche, siano distinguibili dalle alate sessupare. Con un esame superficiale non ho potuto riscontrare tra le une e le altre nessuna differenza; ma non è impos- sibile che caratteri differenziali possano risultare da un'osservazione più mi- nuta, a cui per ora non ho potuto dedicarmi (?). Per quanto queste notizie siano incomplete, ho creduto tuttavia che valesse la pena di comunicarle per due ragioni: dn primo luogo, perchè dimostrano in modo assoluto che anche nella fillossera del cerro ‘st devono distinguere alate sessupare e alate virgopare (più esattamente virginopare), queste primaverili (esclusivamente ?), quelle estivo-autunnali (esclusiva- mente ?); in secondo luogo, perchè riguardano un caso di migrazione alquanto diverso da quello finora noto della Ph. quercus, passando le alate da una pianta all'altra della stessa specie 0 da un ramo all'altro della stessa pianta. In ogni modo questo mio contributo serve allo scopo che ci siamo pre- fisso studiando le fillossere delle quercie, cioè di formarci dei criterî per rischiarare, s'intende indirettamente, il ciclo di sviluppo della fillossera della vite, che è quello che soprattutto c’interessa. (1) A questo riguardo noto che la distinzione trovata dalla Bonfigli tra le alate sessupare del leccio e quella della quercia per la Ph. quercus non è assoluta, avendo io ottenuto più tardi, durante l’ottobre, sessupare con tubercoli rudimentali anche dalle ninfe sviluppatesi dal leccio. — 396 — Zoologia. — Ulteriori ricerche sulla fillossera della vite (1). — Nota preliminare del Dott. Remo GRANDORI, presentata dal Socio B. GRASSI. Nelle Note precedenti fu ripetutamente parlato delle larve gallicole che presentano caratteri intermedî fra quelli di tipica gallicola e quelli di tipica radicicola. Si disse che tali forme sono molto rare nelle generazioni prima- verili e vanno facendosi più numerose — specialmente su qualche vitigno americano — col succedersi delle generazioni. Le ulteriori osservazioni confermano questo fatto. Il numero di forme intermedie che nascono nella sesta, settima e ottava generazione è relativa- mente assai elevato; ed in base allo studio accurato dei caratteri di queste forme comparativamente a quelli delle forme tipiche, si può stabilire la se- guente classificazione delle larve gallicole in generale: a) Forme tipiche, le quali si suddividono nelle due categorie di neo- gallicole con caratteri di gallicola e neogallicole con caratteri di radicicola. A questi due tipi di larve gallicole corrispondono i caratteri già descritti in una delle note precedenti. 6) Forme simili alle tipiche, le quali, pur essendo intermedie fra il tipo di gallicola e quello di radicicola, presentano tuttavia, in tutto o in parte, caratteri che le ravvicinano visibilmente all'uno piuttosto che all'altro dei due tipi. Queste forme si distinguono perciò anch'esse in due categorie, e cioè larve simili alle tipiche gallicole e larve simili alle tipiche radi- cigole. c) Forme decisamente intermedie, le quali presentano tutti i caratteri nettamente intermedî fra i due tipi. Le forme di quest'ultima categoria sono straordinariamente rare, spe- cialmente nelle generazioni primaverili; invece le forme della seconda cate- goria sono assai meno rare e divengono relativamente numerose nella settima e ottava generazione; infine quelle della prima categoria sono sempre nu- merosissime, poichè vi appartengono tutti gli individui della prima genera- zione, quasi tutti quelli della seconda, e la enorme maggioranza di quelli delle generazioni successive. In una Nota precedente fu espressa una riserva circa il destino delle forme intermedie in generale. Le ricerche ulteriori hanno messo in luce alcuni fatti che permettono di stabilire una conclusione. (') Dal R. Laboratorio antifillosserico del Ministero di Agricoltura. — 397 — Ricercando la prima spoglia nelle galle di recente formate, nella gran- dissima maggioranza dei casi si osserva che essa presenta tutti i caratteri di tipica gallicola; non mancano però le galle contenenti la spoglia di una neonata che presenta caratteri intermedì, simili in tutto o in parte a quelli di tipica gallicola. Per converso, portando a contatto di una vite indenne un enorme nu- mero di galle di Rupestris du Lot a stagione inoltrata (agosto), ed osser- vando tre o quattro giorni dopo l'infezione tutte le larve che son discese alle radici, si osserva che insieme all'enorme numero di neogallicole con ca- ratteri di tipica radicicola, discesero alle radici anche un certo numero di forme che sono simili ma non identiche a questo tipo (peli del tarso un po più lunghi, ecc.). Questi fatti, riuniti insieme, permettono di concludere che il destino delle forme intermedie simili alle tipiche può essere la vita aerea o la vita sotterranea, ma non indifferentemente l'una o l’altra: fonderanno una nuova galla quelle forme intermedie che somigliano di più al tipo di gallicola, mentre discenderanno alle radici quelle forme che somigliano di più al tipo di radicicola. Il carattere decisivo per riconoscere il destino di queste neo- nate, è fornito dal terzo articolo dell'antenna. Senza entrare qui in minuziosi particolari che troveranno posto nel lavoro esteso, basterà accennare che il taglio del castone olfattivo più o meno profondo e il rapporto di esso col pelo laterale vicino, la lunghezza e grossezza di questo pelo, il sistema delle pieghe o ispessimenti trasversali della cuticola e infine il rapporto fra la parte prossimale e la parte distale del terzo articolo (v. precedente Nota preliminare) forniscono nel loro insieme un indice sicuro della categoria a cui va ascritta la larva con caratteri simili ai tipici, e quindi del suo destino. L'ultimo di questi caratteri — descritto sommariamente nella Nota pre- cedente — fu confermato da ulteriori numerosissime osservazioni; esso ha un tale valore da fornire da solo il criterio per distinguere, senza l’aiuto di nessun altro carattere, non soltanto le tipiche radicicole dalle tipiche galli- cole, ma anche le forme simili alle radicicole da quelle simili alle gallicole. Basta infatti una maggior lunghezza di soli 3 w della parte distale in con- fronto a quella della parte prossimale del terzo articolo dell'antenna, per decidere che la larva in esame avrà tutti gli altri caratteri corrispondenti o ad una tipica radicicola o ad una forma intermedia simile alla radicicola. Quale sia il destino delle neogallicole con caratteri decisamente inter- medî, resta enormemente difficile determinare. Basterà infatti rammentare che fra le centinaia di migliaia di larve gallicole esaminate in quasi due annate intere, soltanto due individui si rinvennero presentanti caratteri de- cisamente intermedì. Nelle neogallicole con caratteri di radicicole tipiche va messo in luce un nuovo carattere dell’antenna, consistente nel rapporto del piccolo pelo la- RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem, 51 — 398 — terale sotto il castone con alcune pieghe della cuticola. Questo pelo corri- sponde sempre ad una piega trasversale, la quale s'interrompe nel punto da esso occupato per mettersi in rapporto ai due lati colla papilla del pelo; inoltre la papilla posteriormente è in rapporto colle due estremità della piega sottostante — pur essa interrotta — convergenti in alto verso la pa- pilla stessa del pelo. Questa disposizione è caratteristica delle neogallicole con caratteri di radicicole, nonchè delle forme intermedie simili alle radi- cicole e delle neoradicicole; in qualche caso può essere imperfettamente ac- cennata; essa manca però totalmente e costantemente nelle neogallicole con caratteri di gallicole e nelle forme intermedie simili alle gallicole. Inoltre nella neogallicola con caratteri di tipica radicicola il grosso pelo laterale presso il castone è tanto lungo da oltrepassare coll’apice l’orlo di- stale del castone stesso, mentre nella neogallicola con carattere di gallicola tipica non lo raggiunge mai. Dagli ultimi studî risultano anche altre differenze fra neogallicole con caratteri di gallicole e neogallicole con caratteri di radicicola. Il dorso di queste ultime presenta un sistema di pieghe o ispessimenti cuticolari di- sposti in tal guisa da suddividere l'intera superficie dorsale in poligoni più o meno grossolanamente delimitati. In corrispondenza ai tre segmenti toracici, i poligoni si distinguono nettamente, se la preparazione è opportunamente fatta, anche a deboli ingrandimenti; negli altri segmenti sono un po’ meno distinti. In mezzo a ogni poligono sorge un pelo corrispondente ad una papilla la qnale è in rapporto con due ispessimenti della cuticola. Nella neogallicola con caratteri di gallicola esiste pure un sistema di pieghe dorsali, ma esse sono tutte visibilmente più sottili, nè si riscontra in alcuna regione del corpo la netta divisione in poligoni come nell'altro tipo: inoltre i peli, che pure si osservano con identica disposizione, sono più piccoli, e la papilla del pelo non è in rapporto con alcun ispessimento della cuticola. Anche questi caratteri hanno un tale valore che osservando sol- tanto il torace di una neonata gallicola qualunque, si può con certezza decidere se trattasi di una forma con caratteri di gallicola o simili a quelli di gallicola, oppure di una forma con caratteri di racidicola o simili a quelli di racidicola. Maggiori particolari e le illustrazioni saranno dati nel lavoro esteso. Continuando lo studio delle generazioni gallicole dalla 52 alla 9? ge- nerazione si è costantemente verificato per le neonate aventi caratteri di gallicole, che le prime figlie di una stessa madre presentano il rostro lungo circa 123 w, verificandosi poi un allungamento che raggiunge nelle ultime figlie la lunghezza di 146 w circa. Nelle neogallicole aventi caratteri di radicicole, in queste generazioni estive oscilla, come nelle generazioni prima- verili, fra 146 e 160 w circa. Nelle forme intermedie simili alle tipiche la lunghezza del rostro è variabile entro gli stessi limiti indicati per le due — 399 — categorie di forme tipiche alle quali rispettivamente si riferiscono dette forme intermedie. Nuovi ed interessanti fatti biologici emersero dallo studio delle gene- razioni gallicole estive. In agosto e settembre, aprendo una crande quantità di galle dei più svariati vitigni, su foglie abbastanza giovani ancora, quasi sempre si rinveniva entro di esse una o più madri e individui di varie età morti e disseccati. Un esame microscopico accurato fece escludere in un enorme numero di galle l’intervento dei funghi parassiti. Ond'è che la causa della estesissima morìa delle gallicole rimaneva inesplicabile. Senonchè in alcune piante di Riparia grande glabre si rinvennero tralci la cui anor- male distribuzione di galle dalla base all'apice sembrava condurre ad una spiegazione del fatto. Le foglie basilari portavano galle numerose e grosse appartenenti alla 4* e 52 generazione; le foglie successive portavano galle di 62 e 72 generazione sempre più scarse e più piccole, man mano che sì avvicinavano all'apice vegetativo; infine le ultime quattro foglie e la gemma erano interamente indenni da galle e da neonate. Cercando accuratamente, lo stesso fatto fu verificato su numerose piante di varî vitigni. Aperte le galle, anche le più piccole, si constatò che tutte contenevano una o più gallicole morte, mentre le grosse galle delle foglie basilari contenevano in- dividui maturi (indubbiamente madri che arrivarono a ovificare, come è di- mostrato dalla presenza di galle nelle foglie ulteriori); invece le gallo delle foglie più vicine all'apice contenevano individui morti assai prima di divenir madri, e in stadî tanto più giovani quanto più le foglie erano vicine all'a- pice. Alcuni individui delle ultime foglie erano morti dopo fatta soltanto una muta. Nella prima quindicina di settembre si rinveniva in quasi tutte le galle un certo numero di gallicole morte, perfino allo stadio di neonata. Sembra difficile escludere che questa estesissima morìa delle gallicole sia in rapporto con le condizioni fisiologiche della pianta. Richiamando qui le osservazioni sulla strana morìa delle neonate dall’uovo d'inverno su certi vitigni americani, e limitatamente ad alcuni appezzamenti del R. Vivaio di Palermo, e rammentando finalmente come la neonata uscita dall'uovo d’in- verno sulle viti europee sia destinata — salvo casi estremamente eccezionali — a morire sulle foglie senza potervisi sviluppare; dall'insieme di questi fatti risulta lecito supporre che la loro spiegazione sia probabilmente unica, e vada forse ricercata in una estrema sensibilità della fillossera gallicola al variare del nutrimento che essa trova nei tessuti fogliari dei diversi vitigni nelle varie stagioni. Si sarebbe tentati di precisare il fenomeno mettendolo in rapporto con la siccità che dura da sei mesi a Palermo; senonchè fatti poco differenti si sono verificati l'anno scorso anche a Fauglia, quando cessò la produzione di nuove foglioline, mentre le galle continuarono a svilupparsi su viti che es- sendo state opportunamente cimate vegetavano ancora. — 400 — Comunque, questi fatti meritavano di essere segnalati, poichè tendono a dimostrare che per speciali condizioni fisiologiche della pianta l’infezione gallicola può arrivare a spegnersi del tutto anche su viti americane. Osservando tutte le neonate che schiudono dal primo centinaio di uova deposte da una sola madre gallicola di 72 generazione (72 galla) su Ru- pestris du Lot, fu constatato che tutte presentavano caratteri di tipica ra- dicicola o simili a quelli di radicicola. Questo fatto nuovo autorizzava da sè solo a concludere che tutta la prole di certe madri gallicole su certe piante in determinate condizioni di clima e di terreno è destinata a passare per intero alle radici. Tuttavia, ad escludere che dalle uova successive al primo centinaio schiudesse tardivamente qualche neogallicola con caratteri di gal- licola o simili a quelli di gallicola, si aggiunsero le due seguenti riprove. In un bicchiere furono messe centinaia di galle. Le neonate che schin- devano, si raccoglievano sull'orlo; ne furono osservate parecchie migliaia giorno per giorno fino all'esaurimento di tutte le galle, e non si rinvenne neppure una neonata con caratteri di gallicola o simili a quelli di gallicola. Al piede di quattro viti americane indenni (Leiparia X Rupestris 3309) piantate in vaso, furono accumulati mucchi di galle di kupestris du Lot tolte dalle viti su cui erasi osservata la produzione esclusiva di neogallicole con caratteri di radicicole o simili a quelli di radicicole. Dopo 25 giorni le galle deposte al piede erano tutte esaurite, e sulle quattro viti non si pro- dusse neppure una galla, nè si rinvenne sulle gemme alcuna neonata o pun- tura. Esse restarono e restano tuttora indenni da gallicole, mentre l’infozione alle radici è naturalmente fierissima. Risulta perciò dimostrato sperimentalmente che mentre in condizioni normali di vegetazione della pianta nessuna madre gallicola è capace di produrre uova di una sola sorta su viti americane, essa può invece produrre soltanto larve destinate a vita ipogea in certi vitigni, in certe condizioni, e in una certa epoca della stagione. Quest’epoca coincide appunto con quel periodo della vegetazione durante il quale le larve destinate a vita epigea non possono nutrirsi; infine il fenomeno si verifica soltanto in certe annate: l'anno scorso non si è affatto verificato. Resta anche qui difficile allontanare un'ipotesi: che cioè la produzione esclusiva di larve destinate a vita ipogea sia il risultato della selezione naturale in quelle regioni e stagioni in cui la legione epigea è condannata ad estinguersi. Furono continuati i tentativi per fare attecchire artificialmente le neo- gallicole con caratteri di gallicole sulle radici di viti europee. In complesso, in tutta la stagione maggio-settembre furono portate migliaia di queste neo- nate a contatto delle radici di 25 piante. Non siamo mai riusciti ad ottenere che la larva destinata a vita epigea — anche artificialmente costretta — maturasse e prolificasse sulle radici. — 401 — Le nuove osservazioni sulla generazione sessuata confermano che la fem- mina dopo uscita dall’uovo subisce una muta, e la dimostrano anche per i maschi, pei quali era stata accennata con riserva in una Nota precedente. Sì l'uno che l’altra escono dall’uovo in abito singolare: le zampe sono prive di unghie e di peli, le antenne non mostrano nè peli nè pieghe nè alcuna traccia di fossetta olfattiva. A tale stadio i sessuati sono incapaci di camminare, e restano quasi immobili presso la membrana dell'uovo da cui schiusero. Più tardi s' intravedono per trasparenza entro la spoglia che sta per essere abban- donata, le appendici fornite di unghie, peli, pieghe e castone olfattivo. Gettata la spoglia, l'animale ne esce agile, e va alla ricerca dell'altro sesso. Interes- santi variazioni delle antenne e delle zampe si verificano nei sessuati. Esse saranno descritte nel lavoro esteso; una delle più importanti consiste nella posizione del piccolo pelo laterale del terzo articolo dell'antenna, che si trova talvolta inserito più in alto del grosso pelo laterale prossimo alla fossetta olfattiva. Siffatta disposizione non si verifica in nessun'altra forma o stadio di fillossera della vite. Fin dal settembre dell’anno scorso furono intraprese nuove ricerche sulle generazioni radicicole delle viti europee impiantate nelle sabbie vulcaniche dei territori di Nicolosi, Pedara, Viagrande (Prov. di Catania) nel versante Sud dell'Etna. Quivi le vecchie vigne resistono da 27 anni all'invasione fil- losserica, e in molte località senza bisogno di cure con solfuro di carbonio. Il prof. Baccarini aveva già segnalato l'aspetto singolare delle colonie radicicole in quelle contrade; egli riscontrò che al sopraggiungere dei mesi estivi caldi tali colonie erano formate di giovani fillossere, perfettamente simili alle ibernanti, che passano l'estate senza poter svilupparsi, e le chiamò quindi per analogia esfivanti. Numerose osservazioni da me ripetute confermano ampiamente il fatto. In quelle sabbie vulcaniche l'andamento delle generazioni radicicole si può riassumere così. In primavera al risveglio delle ibernanti seguono alcune generazioni, la cui attività può prolungarsi fino al mese di luglio. Allora incomincia a verificarsi un arresto; sulle grosse radici restano colonie este- sissime di sole neonate, sulle capillari prosegue ancora una debole attività. In agosto le capillari sono scomparse, è l'arresto e completo. Sull’intero si- stema radicale delle viti non sì riscontrano che sole neonate. L'estivamento prosegue così — e fu osservato immutato mese per mese — fino al cader dell'autunno, quando cioè, verso il principio di dicembre, la temperatura media si abbassa al disotto di quel limite a cui corrispon- dono le ibernanti. Allora le stesse neonate passano dall’estivazione all’iber- namento: sì rifugiano in parte sotto le screpolature della corteccia, senza che intervenga un periodo autunnale di attività. Naturalmente, un gran numero delle estivanti muoiono, e durante il dicembre le colonie sono senza confronto meno numerose che nei mesi estivi. Va pure notato che in mezzo alle co- — 402 — lonie di neonate estivanti qualche rarissimo individuo si rinviene, che ha fatto la prima muta. Ma in tesi generale il ciclo si svolge come sopra è descritto. In complesso la fillossera è attiva per tre mesi dell’anno da aprile a giugno, cioè appunto nel periodo di massima vegetazione, e quindi il danno che la pianta ne risente è molto limitato. Quali sono le cause dell'arresto di sviluppo delle radicicole in quelle sabbie vulcaniche? A tutta prima sembrava che tali sabbie andassero con- siderate come altre sabbie, nelle quali l’acqua rimane lunghissimo tempo negli interstizi minutissimi per capillarità, e raggiunge così lo stesso effetto delle sommersioni che si praticano a scopo curativo. Ma contro questa spie- gazione sta un fatto. Portata la sabbia di Pedara nel Laboratorio di Pa- lermo, e piantate in essa alcune barbatelle europee indenni in vaso, dopo averle infettate in maggio con radicicole di viti europee, si ebbe una forte attività della fillossera durante tutta l'estate. I vasi venivano innaffiati ogni due giorni, e la sabbia vulcanica si mantenne sempre umidissima. Eviden- temente l'umidità non può essere la spiegazione. È invece più probabile che, data la natura di queste sabbie vulcaniche, la secchezza e l'alta temperatura siano la principale cagione dell'arresto di sviluppo. Alcuni vigneti di Pozzallo (Prov. di Siracusa) impiantati su vere sabbie marine, e perfino sulle dune, sono del tutto indenni da fillossera. Sull'intero sistema radicale d'una vite non si rinviene che due o tre neonate, sparse sporadicamente in punti diversi. Anche queste sono indubbiamente estivanti, ma qui l'andamento dei fenomeni è molto diverso da quello delle ceneri vulcaniche. Qui l'umidità può essere certamente una buona spiegazione, trat- tandosi di sabbie di tutt'altra natura e composte di granelli minutissimi. Infatti a dieci centimetri di profondità la sabbia si conservava umidissima dopo sei mesi di siccità assoluta; invece le ceneri dell'Etna sono aridissime — durante l'estate — fino a profondità molto maggiori. Un’altra causa che certamente opera in concomitanza all'umidità, è la enorme difficoltà per la fillossera di muoversi sulle parti della pianta seppellita in quelle sabbie. In un vaso contenente terra comune fu piantata una barbatella europea indenne: fu coperta la terra con uno strato di circa 5 cm. di sabbia presa dalle dune di Pozzallo, e sul fusto furono portate a contatto centinaia di galle producenti mi-. gliaia di neogallicole con caratteri di radicicole. Esaminato il sistema radicale dopo 30 giorni, vi si rinvennero sette individui, di cui una sola era appena arrivata ad esser madre, e due erano ninfe; gli altri quattro erano individui di media età. Altre barbatelle di controllo — senza strato superficiale di sabbia — avevano le radici gremite di fillossere, uova e ninfe. Evidente- mente furono innumerevoli le neonate che non arrivarono ad attraversare lo straterello di sabbia. Sono in corso nuovi esperimenti in proposito. Risulta dunque che la principalissima ragione dell'immunità delle viti in certe sabbie consiste nella quasi impossibilità per la fillossera di appro- TETTTITTE TENORE =; == oro ua. — 403 — fondarsi nel terreno e raggiungere le radici. È ovvio che le stesse cause che le impediscono di raggiungere le radici la prima volta, impediscono poi anche le sue migrazioni. Quindi, dopochè una fillossera è arrivata a stabilirsi e ovificare su una capillare, quasi sempre la sua prole sarà condannata a perire con la capillare stessa, spegnendosi l'infezione nell'annata medesima. La sabbia con cui fu fatto l'esperimento fu lasciata secchissima per tutti i 30 giorni; resta da vedere fino a qual punto possa immunizzare la vite se man- tenuta bagnata ('). Questi fatti ed esperimenti, che verranno riportati estesamente nel lavoro completo, spiegano abbastanza bene la ragione dell'immunità in certe sabbie, che dal punto di vista pratico può considerarsi come un'immunità assoluta. Aggiunta — Un accenno di estivamento, molto meno completo che nelle sabbie vulcaniche, si riscontra anche in terreni di diversa natura di varie contrade della Sicilia. (1) Nel lavoro in esteso metteremo a riscontro questi fatti con quelli del Marion, del Vannuccini ecc., che hanno studiato lo stesso argomento. E. M. Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. * Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI. 22 MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 9° Hicuosti della Classe di scienze morali, È storiche e filologiche. Vol \IV.ONasVI: VILCSVIII Serie 3* — TRANSUNTI. Vol. I-VIII. (1876-84). MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Mod (2) WE:(52). — IN MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIII. Serie 4* — RenpIconTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5® — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fasc. 8°. RENDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1908). Fasc. 3°. MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. Fasc. 2°. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Fasc. 7°. TZ r——_——_—_—_—_—_——_————_—_—_—_—r_rrrrrrrrrrrrrrre e ea __..._1È_4m— e _ ra—_O _ ueooÙt@mmee__o_o _me_ ve u . .T..—_—..+dT|È TIUETW---- CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta - l'Italia di L. #0; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoescHeER & C.° — Roma, Torino e Firenze. Utrico HoepLi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Ottobre 1908. INDICE Ulasse di scienze fisiche, matematiche e naturali. é Comunicazioni pervenute all'Accademia sino al 18 ottobre 1908. MEMORIE E NOTR DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Grassi e Foà. Ulteriori ricerche sulla fillossera della vite (fino al 1° ottobre 1908). — I. Ancora a proposito delle salle prodotte dalle radicicole. — II. Lunghezza del rostro delle neo- nate. — III Le punture della fillossera. — IV. Madri radicicole con caratteri ninfali. — V. Quattro sole mute per arrivare all’alata. — VI. Differenziazione delle madri attere e dellefalateneeanone ; È 5 RO RO ao Angeli e Marchetti. de: soprà dei i, aldeidici TRAE DES O Orlando. Sulla formula integrale di Fourier (pres. dal Corrisp. Zev?- Loi OE » Ajello. Sui criterii d’integrabilità finita di una equazione di Riccati (pres. dal Corrisp. Petar ” Chilesotti. Sui composti del piombo con l’acido nitroso (pres. dal Socio Cannizzaro). . » Carnevali. Sopra alcuni composti di addizione dell'anidride seleniosa (pres. Id.) . . . » Olivari. Sul peso molecolare del Selenio (pres. dal Socio Ciamician) . . MIRO LE ERRO Foà. Intorno al cielo evolutivo della fillossera del cerro (pres. dal Socio Gras) Re 00) Grandori. Ulteriori ricerche sulla fillossera della vite (pres. J4.) 0 4. 349 360. 367 371 37 385 389 891 396: H. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Pubblicazione bimensile. Roma 8 novembre 1908. N“9 A DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCRI ANNO: CGGeMm *9OS CER det Q oe A RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta dell'8 novembre 1908. Volume XVII: — Fascicolo 9 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1908 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Je Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.I Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. IG 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi» cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro- priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci o da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com: missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesta. è mersa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. n Seduta dell’8 novembre 1908. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTATE DA SOCI Matematica. — Complementi alta teoria delle tangenti co- niugate di una superficie. Nota del Socio C. SEGRE. 1. Sia O un punto ordinario di una superficie S; w il piano tangente in esso. La considerazione dei punti della superficie infinitamente vicini di 1° ordine ad O, e dei loro piani tangenti, conduce al concetto di fangenti coniugate. Sono cioè coniugate due tangenti #71, quando il punto di S, che è infinitamente vicino ad O su #,, ha un piano tangente che taglia « secondo #. Ora, se consideriamo anche i punti di S infinitamente vicini di 2° ordine, e poi quelli di 3° ordine, ecc., saremo condotti a nuove corrispondenze geome- triche. In fatti prendansi da prima, con w, i due piani tangenti ad S nei due ‘punti che son successivi di O su una data curva passante regolarmente per 0. Il punto P d’intersezione di questi tre piani sarà ben determinato quando si conosca il piano 7 di quei tre punti, cioè il piano osculatore in O alla detta curva. Nasce dunque in tal modo uua corrispondenza tra i piani 7 della stella O ed i punti P del piano w. Essa si può definire, come quella delle tangenti coniugate, introducendo, accanto Alle linee di S passanti per O, le sviluppabili circoscritte ad S lungo esse. Come 77 indica il piano osculatore in O ad una tal linea, così P è il punto singolare (punto dello spigolo di regresso) del piano è nella sviluppabile circoscritta lungo quella linea. In particolare si può ricorrere alla linea RenDICONTI, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 52 — 406 — sezione di S col piano 77; oppure, come sviluppabile, al cono circoscritto ad S dal punto P. Alcuni caratteri della corrispondenza appaiono subito, senza calcoli. Si vede cioè che essa sarà algebrica, e generalmente biunivoca: dunque Cremo- niana. Inoltre è chiaro che essa fa corrispondere ai piani 77 della stella O passanti per una retta f, del fascio O.w i punti P della retta # del fascio Stesso, corrispondente a 7, nell’involuzione delle tangenti coniugate. Se quindi sostituiamo alla stella O di piani un piano punteggiato w' ad essa reciproco, avremo fra questo ed il piano © una trasformazione di De Jonquières. Se il punto O è parabolico per S, la corrispondenza fra le tangenti co- niugate degenera; e però sarà pur degenere la nostra corrispondenza fra la stella O ed il piano . 2. Assumiamo O come origine di coordinate non omogenee, che chiame- remo x, %»2; © come piano <=0. La superficie S sia rappresentata dal- l'equazione (1) e=f(21 x), il cui 2° membro s’indicherà anche con /x. Siano (yy 0) le tre coordinate di un punto P di w; ez =(xu)[= vu. — 2%] l'equazione di un piano passante per O, sicchè w,w» si potranno riguardare come coordinate non omogenee di 77 entro la stella O. La linea di contatto di S col cono circoscritto da P sarà l'intersezione di S colla superficie 1 My 2)fia =0 (ore fix indica la derivata al "i ossia, per la (1), colla superficie (2) fer+SN(yi—c)fe=0. Il dire che P e 7 sono omologhi nella corrispondenza definita al n. 1, equivale a dire che 7 è il piano osculatore in O alla linea (1) (2). Ora, per esprimere che 7, cioè il piano <= (cu), ha contatto tripunto (o quadripunto, ecc.) in O con questa linea, basta scrivere che un tale contatto hanno in O le linee sezioni delle superficie (1) e (2) con quel piano: ossia le due linee piane (colle coordinate variabili x, Ca) (3) — (cu) +/e=0 (4) Dyufac=Safx+fe=0. Supponiamo /x sviluppabile in serie di potenze di x,%», sicchè fa=ox4+ fx +yx+4+..., "vere ui gree: — 407 — ove @,8,y,... sono forme risp. di 2°, 3°, 4°... ordine. (La ax =0 rap- presenterà la coppia delle tangenti principali di S relative al punto 0). Le equazioni (3), (4), ordinate secondo i gradi crescenti nelle x, diverranno: (3) — (cu) + ox +Px+...=0 (4) Nyo + (Dyfio — ax) + (Dyiyio — 2ba)t---=0. 3. Per avere il contatto tripunto di queste due curve nell'origine, scri- viamo anzi tutto che coincidono le loro tangenti, ossia: (5) Nya =0 . (vu). Dopo ciò, per avere l'incontro tripunto in O di (3') con (4), potremo sosti- tuire ad esempio a quest'ultima l'equazione che si ottiene aggiungendole l’altra moltiplicata per @ (!). Così, al posto di (4), avremo: (2) [(o—1)axr +SYyfa]+L(0—2) fer +Yyno]t.--=0. Questa curva ha O doppio, colle tangenti rappresentate dal primo gruppo di termini. Perchè essa abbia incontro tripunto colla (3’), dovrà la tangente in O a questa, cioè (xu)= 0, far parte di quelle, cioè (6) (o — 1)ou+Yyifiu=0. Di qui si trae un'espressione di 0; e sostituendola nella (5), questa identità lineare in x, x, esprimerà il legame analitico fra y, Ys € %1 %», rap- presentante la corrispondenza considerata tra i punti P di w e i piani sr di O. Basterà confrontare nei due membri dell'identità i coefficienti di x, e di x, per avere le due equazioni della corrispondenza. Ma possiamo ottenere facilmente le formole stesse, già risolte rispetto alle y, osservando che quell’identità (5) fra le x non può differire dalla nota identità C,X .ogu—a,r.au=d4.(cu), in cui 4 è il determinante dei coefficienti delle forme lineari @,, @», vale a dire il quadruplo del discriminante della forma quadratica @; e si sup- pone 4=- 0 (?). Confrontando i coefficienti di 10, a2x, (x), si ha: (7) y= Gaz ) pata; e sostituendo in (6) (o —1)4.au+o(a>u.fPiu—au.Bu)=0, () In generale, dalla definizione analitica (cogli sviluppi in serie) della multiplicità d’intersezione di due curve piane analitiche in un punto semplice per l’una di esse (od anche in un punto qualunque), risulta subito che essa non muta, se all’equazione dell’altra curva si aggiunge quella della prima moltiplicata per una funzione qualunque. (3) In fatti se le due identità fossero distinte, ne seguirebbe, risolvendole, che 01.7 e @2.7 avrebbero un rapporto costante; e quindi il loro determinante sarebbe nullo. — 408 — ossia, rappresentando con Ju il determinante funzionale delle due forme cu e Bu, 4d.cu (8) CA = Ja Quindi le (7) diventano: \u= QU. 9 U i SI 4d.au— Ju 9 ©) | SORA CU. XU Gen o Ju 4. Queste formole (9) rivelano subito alcuni caratteri della corrispondenza tra i punti P_di © ed i piani x di O. Ed altre proprietà si possono enunciare insieme, applicando a quelle la legge di dualità nello spazio, cioè scam- biando O con @, P con 7, ecc. Se poi al lettore farà comodo, sostituisca, come già si disse, alla stella O un piano reciproco ', interpretando w, z come coordinate di punto in '. Si vede che la nostra corrispondenza è Cremoniana, e in generale di 3° grado. La rete omaloidica in w' è determinata dalle tre cubiche au. a, OU . %9U AdA.ou—-Ju. Essa si compone dunque di cubiche passanti per O con due rami, tangenti risp. alle due rette fisse au = 0 (tangenti principali di S); per modo che ogni ramo ha incontro quadripunto in O con una cubica qualunque della rete, ossia che i rami aventi in O la stessa retta tangente hanno fra loro incontro tripunto, cioè contatto di 2° ordine. (In O cadono dunque 8 delle 9 inter- sezioni di due cubiche della rete). Tale sarà anche la rete omaloidica delle cubiche di © corrispondenti ai fasci di piani della stella O. D'altra parte, alle rette di © corrisponderanno in questa stella, come inviluppi di piani, dei coni di 3° classe, aventi © come piano tangente doppio, tangente cioè lungo le due tangenti principali « di $; e questi coni avranno fra loro, lungo ognuna di queste due generatrici, un contatto di 2° ordine, proveniente cioè dall’esi- stenza di tre generatrici successive comuni. — Nel ricavare la formole (9) abbiamo escluso il caso 4= 0, cioè del punto parabolico. Ma si possono ricavare le stesse formole, anche senza quella eccezione. In quel caso però esse si riducono ad esprimere y, e ys in funzione del solo rapporto u1: 2; cosicchè a tutti i piani della stella O passanti per una stessa retta del fascio Ow viene a corrispondere uno stesso punto P. Ritroviamo la degenerazione della corrispondenza, già notata al n. 1. — Un altro caso degno di rilievo è quello in cui le forme @ e £ abbian comune un fattor lineare: ciò vuol dire che una tangente principale (rap- presentata appunto da quel fattore) ha in O con S incontro più che tripunto. Qnel fattore lineare dividerà pure il Jacobiano J di @ e 8; sicchè le (9) si Ni | — 409 — semplificheranno colla soppressione di quel fattor comune, e rappresenteranno in questo caso una frasformazione quadratica. La rete omaloidica in w si comporrà di coniche tangenti in O alla 2° tangente principale: coniche fra loro osculatrici in 0. Questo caso si presenterà, ad esempio, sempre quando S sia una superficie rigata gobba. — Se poi entrambe le tangenti principali hanno con S incontro più che tripunto, cioè se @ divide #, e quindi anche divide J, le (9) si riducono al 1° grado: la corrispondenza fra il piano w e la stella O si riduce ad una reciprocità. 5. Procediamo ora ad una ricerca ulteriore. Rifacendoci a quanto accen- navamo al n. 1, prendiamo sulla superficie S, col punto O, altri dre (anzi che due) punti successivi su una curva passante regolarmente per O; ma in modo che quei 4 punti stiano in uno stesso piano sr. Domandiamo che i quattro piani tangenti in essi a S concorrano in un punto P. Otterremo così co! par- ticolari coppie di elementi P e 77 omologhi nella corrispondenza precedente- mente studiata. Per ognuna di esse potremo dire che: una linea tracciata su S, passante per O, ed avente 77 per piano stazzonarzo, cioè iperosculatore in O, dà una sviluppabile circoscritta lungo essa ad S per la quale il piano @ ha come punto singolare un punto stazionario P (punto di regresso sullo spigolo di regresso). In particolare: la linea di contatto di S col cono cir- coscritto da P ha in O contatto quadripunto col piano sr. Quest'ultima proprietà ci permette di proseguire nella via tracciata ai nn. 2 e 3, per ottenere i luoghi delle co! coppie Pr. Basterà che impo- niamo alle curve piane (8'), (4°) contatto quadripunto in O, mentre prima ei bastava il contatto tripunto. Già al n. 3 avevamo sostituito alla (4°) la (40) la quale, mettendovi i valori (8) e (9) di 0,71%», diventa: (10) [Ju.ax + au(azu.Bix — au. B2x)] + +[(—4.cu+2Ju)fxr + au(au. nr — mu.y:x)] +: =0. Il 1° gruppo, composto dei termini di 2° grado, si annulla (cfr. n. 3) per «= v; sicchè si potrà porre, indicando con A(q, u) una forma, lineare nelle x, e quadratica nelle «: (11) (cu). A(x ,u=Ju.ax + au(au.Pixa — au. P2 2) Sostituisco ancora alla (10) quella che se ne deduce sommandola colla (3') moltiplicata per A(x,%), cioè: ax. Ac, u+(-—4.eu+2Ju)fr +-au(au. ya — mu. y22) SO. Questa nuova curva ha in O un punto triplo, le cui tangenti son rap- presentate dai termini scritti, di 3° grado nelle x. Perchè abbia in O incontro — 410 — quadripunto colla (3'), la cui tangente è (xu)=0, dovrà quel gruppo di termini annullarsi per x = %, cioè (12) au.A(u,u—4.au.fu+2Ju.fu—ou.D(eu, yu) =0, ove D indica il determinante funzionale. Quest'equazione (12) caratterizza le coordinate vw» dei piani 7 di cui ora ci occupiamo. Si può determinare la funzione A(w,%) che vi compare, sui due membri dell’iden- ) $ d d eseguendo l'operazione V = au. —P — mu. dXI dXI tità (11), il che dà (un anut ur. a) Ae, u) + (0). VA(C,U) = = Ju(asu. ang — gu. a2x) + Loau[(a-u?. Bur — au. au. Par 4 (20). Poor]. Ponendo poi x =, e dividendo per 2@w, rimane: Alu, u=t[Pnv.(a2uP— 2a u.aru.agu+ Bau. (au ]. Con ciò la (12) diventa, sopprimendo l’indicazione delle variabili w, che ora possiamo sottintendere: sa[B10} — 2b2010» + Bxao0î — 24 .B]+ (13) +28.D(e,B)—«.D(a,7)=0. In quest'equazione i termini della 1° linea costituiscono una forma di 5° ordine, quelli dell'altra di 6°. Dunque: i piani singolari 77 della stella O inviluppano un certo cono di 6% classe avente w per piano quintuplo. Dual- mente: i punti singolari P, corrispondenti a quei piani, formano nel piano w una curva del 6° ordine avente O per punto quintuplo. I suddetti termini di 5° ordine della (13) presentano, col fattore qua- dratico @, la forma cubica (14) Bio — 2Bio 2102 + Boro — 24 . B. Ora si riconosce facilmente che quest'ultima ha appunto per Hessiano @ (a meno di un fattor costante): rappresenta cioè un ciclo di una projettività ciclica di 3° ordine, i cui elementi uniti sono gli elementi di e. Se in fatti si assume au = % us, fu = bow + --- + b3uì, la forma (14) diventa (14°) 8(bouî + ds). Dunque: il cono di 6* classe tocca il piano © lungo le due tangenti prin- cipali @ di S, e lungo altre tre rette formanti una terna che ha @ per Hessiano. La curva del 6° ordine del piano w ha in O per tangenti le due tangenti prin- cipali @, e tre rette formanti una terna di cui @ è l’Hessiano. Queste due terne di rette del fascio O sono corrispondenti fra loro nell'involuzione delle — 411 — tangenti coniugate, cioè nell’involuzione che ha « per coppia di elementi doppî. Ogni terna è dunque il covariante cubico Q dell'altra. 6. La prima di queste notevoli terne di tangenti fu già incontrata dal sig. Darboux (*) sotto un altro punto di vista. Consideriamo le quadriche aventi in O colla nostra superficie S, di equazione e=ax 4 fa +-<, un contatto di 2° ordine: vale a dire le quadriche seganti S secondo curve aventi in O un punto triplo. Hanno per equazione z—ax +e(c1% + 000, + 638) = 0. La curva d'intersezione di una di esse con S ha in O per tangenti le rette Be + (cx + coco) ae =0, le quali costituiscono una terna variabile in un’ involuzione 00? di 38° grado, entro al fascio Ow. I raggi #ripl? di quest'involuzione son quelli incontrati da Darboux (sotto il nome di fangentes d’osculation quadrique). Orbene un breve calcolo prova che essi sono appunto quei tre raggi del detto fascio (costituenti necessariamente una terna di quella medesima involuzione) che si rappresentano annullando la nostra forma (14), o la (14'). Coincidono dunque colla terna da noi considerata di generatrici del nostro cono di 6° classe. 7. Se il punto O è parabolico per S, cioè se © è un quadrato /?, l’equa- zione (13) diventa divisibile per /, e la forma (14) per /?. La tangente principale unica si stacca dunque come luogo di punti dalla curva di 6° or- dine, e come inviluppo di piani dal cono di 6* classe (?). — Se invece i due fattori lineari di @ sono distinti, ma uno di essi divide anche 8, di nuovo esso dividerà tutto il 1° membro di (13). Dunque anche una tangente principale a contatto più che tripunto si stacca come luogo dalla curva di 6° ordine, e come inviluppo di piani dal cono di 6* classe. (1) Sur le contact des courbes et des surfaces. Bulletin des sciences mathém. (2), 4, 1880; cfr. le pp. 356-358. (2) Il cono di 5 classe, che così rimane, è l’inviluppo dei piani osculatori in O ai due rami con cui passa per questo punto la curva di contatto di S col cono circoscritto da un punto variabile P_ della tangente principale !. La coppia delle tangenti in O a quella curva di contatto varia, movendosi P su /, in un’involuzione, di cui un raggio doppio è /; mentre l’altro è la tangente in O alla linea parabolica di S, e coincide colla retta residua della nostra terna (14). — 412 — Ma se ciò avviene per entrambe le tangenti principali, ossia se a divide f, si trova che la forma (14) è nulla identicamente. Si può accertarsene subito, assumendo @u=%;%, e quindi la (14) ridotta a (14’), ove nella ipotesi at- tuale do e 23 son nulle. Per conseguenza nella (13) rimangono solo i termini del 6° ordine, i quali son divisibili per @. Concludiamo che: quando entrambe le tangenti principali hanno con S in O incontro più che tripunto, la curva del 6° ordine si scompone in quelle due tangenti e in un'ulteriore quaterna di rette del fascio 0; e dualmente, il cono di 6° classe dà la quaterna delle tangenti coniugate di queste. 8. Un ulteriore passo, nel procedimento di calcolo dei nn. 2, 3 e 5, con- durrà facilmente a determinare un certo numero finito di coppie di punto P e piano - tali, che i piani tangenti ad S in O e nei quattro punti successivi comuni a S e 7r concorrano in P. — Un'altra ricerca da fare sarebbe quella delle modificazioni, che esige tutta la precedente teoria, nel caso che il piano w tangente in O ad $ sia singolare, o multiplo: cioè che nello sviluppo di 2 in serie di potenze di x, %» manchino i termini di 2° grado @, e poi anche quelli di 3° grado #, ecc. Del resto in tal caso va già modificato il teorema delle tangenti coniugate. Se lo sviluppo di z in serie di x, x» comincia coi termini g di ordine 2, se cioè la curva sezione di S con © ha in O un punto m-plo (di cui g darà il gruppo delle tangenti), la linea (2) di contatto di S col cono circoscritto da un punto generico P_di è avrà in O la moltiplicità m — 1, e per tangenti il 1° gruppo polare #1 2... fm-1 della retta OP(=#) rispetto al gruppo delle m tangenti principali di S in O. Possiamo dire allora che la retta ? è intersezione di « col piano infinitamente vicino che è tangente ad S nel punto successivo ad O su una qualunque delle rette f,...%m-,. Ciò si spiega col fatto che, considerando S come inviluppo di piani, © è piano (22 — 1)plo per S: sicchè, per una retta infinitamente prossima a una retta # del fascio 0@, pas- sano m piani tangenti di S infinitamente vicini ad ©. La corrispondenza fra le tangenti coniugate, che nel caso ordinario è biunivoca, qui diventa degli indici (1, 2 —1); e la denominazione di « coniugate » cessa di essere appro- priata, perchè la relazione fra due tangenti come £e f, non è più reciproca, in generale. — 413 — Meccanica. — Sull’attrazione newtoniana di un tubo sottile. Nota del Corrispondente LEvI-CIVITA. L'attrazione ®, esercitata da una linea materiale sopra un punto esterno P, tende notoriamente a diventare infinita quando P si avvicina indefinita- mente alla linea. In una Nota recente (') ho assegnata la espressione asin- totica di una tale attrazione, sceverando (nelle derivate del corrispondente potenziale, e quindi nel vettore da esse definito) la parte singolare DA, Questa dipende soltanto dal comportamento locale della linea materiale, nel- l’intorno di quella posizione, cui si suppone vada indefinitamente avvicinan- dosi il punto P. Dacchè la proprietà caratteristica di ® è che la differenza PD — PD — P rimanga finita (mentre ®‘ stesso si trova affetto da singolarità), è evidente che, per P abbastanza vicino alla linea, l'addendo ®° prepondera su ®; quest'ultimo può quindi essere trascurato di fronte a ® con approssima- zione tanto maggiore, quanto più è prossimo il punto potenziato alla linea potenziante. Scopo del presente lavoro è di passare dal caso ipotetico di una linea al caso concreto di un tubo (pieno) T, di sezione abbastanza piccola, rispetto alla lunghezza, da essere, quanto all'andamento generale, assimilabile ad una semplice linea. Anche quanto all’attrazione, un tale tubo non differirà sen- sibilmente da una linea materiale, finchè si tratterà di punti posti a debita distanza. Ma, per punti situati in prossimità o addirittura nell'interno del tubo stesso, non sono più trascurabili le dimensioni trasversali rispetto alle distanze degli elementi potenzianti dal punto potenziato, nè è quindi in alcun modo giustificata la identificazione suddetta. Si riconosce anzi a prima vista una differenza profonda fra i due casi. Per la linea, l'attrazione diviene infinita; per il tubo (comunque lo sì sup- ponga sottile), tutto resta finito. Non c'è dunque da aspettarsi in questo secondo caso una espressione asintotica, desunta da una semplice separazione delle singolarità. Tuttavia, se si immagina decomposto il tubo in fibrille elemen- tari, e si osserva che ciascuna di queste è effettivamente assimilabile ad una linea materiale, si può ragionare come segue: L'ipotesi che il punto potenziato P sia interno o prossimo al tubo (sup- posto il tubo abbastanza sottile), implica che sia piccola la distanza di P da (1) Pag. 3-15 di questo stesso volume dei Rendiconti. RenDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 53 — 414 — ogni fibrilla, così piccola in particolare perchè alla corrispondente attrazione su P sia con sufficiente approssimazione sostituibile la sua parte asintotica. Ma allora, sommando questi contributi asintotici, si avrà una espressione dell'attrazione tanto più approssimata, quanto più è sottile il tubo; e questa espressione (al pari dei contributi, da cui risulta) godrà della proprietà fon- damentale di dipendere soltanto da elementi locali, cioè dalle caratteristiche geometriche e materiali dell'agente in prossimità del punto P. Ecco il risultato ultimo, cui si perviene svolgendo sistematicamente un tale ordine di idee: Si fissi, entro il tubo T, una qualunque fra le infinite linee geometriche, atte a definire l'andamento generale del tubo: questa linea si chiamerà me- diana o direttrice, e si designerà con C. Sia P un punto generico di C; c la curvatura in questo punto; © la sezione del tubo, praticata col piano normale a C, condotto per P. Sieno ancora O e Q due punti di 7; d7,, dr due elementi della sezione ad essi circostanti; /=0Q; e si ponga 1 L (I) de (CAÙ dro log 7» dove / è una costante inessenziale, che figura per ragione di omogeneità, ed è vincolata alla sola condizione qualitativa di essere abbastanza grande rispetto alla massima corda di 7. (In eventuali applicazioni numeriche con- verrà assumere / dello stesso ordine di grandezza della lunghezza del tubo). La 4, così definita, è, come sì vede, un puro numero; essa viene a di- pendere, per un dato tubo, soltanto dalla sezione normale #, cui ci si rife- risce, o, ciò che è lo stesso, dal punto P. Se si immagina di fissare la po- sizione di P sulla direttrice C mediante l'arco s di curva, contato a partire da un'origine arbitraria, la 4 si presenta come funzione di s. Ciò posto, si prenda a considerare una porzioncina di tubo di spessore ds, compresa fra © e un’altra sezione normale vicinissima. Rappresentando con vds la quantità di materia (*), situata fra queste due sezioni, v sarà a dirsi la densità lineare in P del nostro tubo T. Rappresenti poi F ds (in grandezza e direzione) la risultante delle attra- zioni newtoniane, che la detta porzione elementare subisce da parte di tutto il tubo; con che il vettore finito F' si trova riferito all'unità di lunghezza. Dette F.,F,,Fs le componenti di F secondo la tangente a C (nel senso, in cui sì contano gli archi s), secondo la normale principale (nel senso (1) Ci riferiamo qui, per comodità di linguaggio, al caso dell'attrazione di masse materiali. Nel corso della ricerca è però trattata ‘la densità della distribuzione come una quantità, che può anche essere negativa. Ciò coll’ovvio intendimento di rendere senz'altro: applicabili i risultati anche alle azioni elettriche, alla teoria dei vortici, ecc. — 415 — della concavità) e secondo la binormale, ove si assuma la costante dell'attra- zione eguale all'unità, si ha asintoticamente d(v°k) ds L'appellativo « asintotico » va così inteso: Il vettore F, definito dalle (II), tende a differire tanto meno (in gran- dezza e direzione) dalla risultante F, quanto più è sottile il tubo. In modo più preciso: le direzioni di F e di F‘ tendono a coincidere; il rapporto a) i delle rispettive lunghezze tende all'unità, al decrescere indefinito della sezione del tubo. Mostrerò prossimamente come a queste considerazioni asintotiche si col- leghi una applicazione ai campi elettromagnetici puri, che già ebbi ad an- nunciare nella precedente mia Nota. 1. Tubi costituiti da linee di una data congruenza. — Sia data in una certa regione 7° dello spazio una congruenza di linee L, cioò una fa- miglia co? di curve, tale che per ogni punto ne passi una. Sieno generica- mente v,v due parametri determinativi delle curve della famiglia (per es. le coordinate delle rispettive intersezioni con un piano fisso, o con un’altra superficie qualsiasi, che tagli ciascuna di esse in un sol punto); sia w un terzo parametro atto a fissare la posizione dei punti sopra le curve L (per es. la lunghezza dell'arco, contata a partire dall’anzidetta superficie unisecante). Con tali ipotesi, rimangono univocamente definite le coordinate carte- siane <,y,< dei punti della regione Y°, in funzione di w,v,w. Scriveremo in conformità (II) ae ) IS e 0 e); (1) y=yU,v;u), Ia A e avremo in queste formule anche la rappresentazione parametrica d'una generica curva della congruenza: basterà naturalmente attribuire valori fissi ad u,v, facendo variare la sola w. Supponiamo ulteriormente che i secondi membri delle (1) posseggano (sempre entro T°) derivate finite dei primi quattro ordini, e che non si annulli il determinante funzionale da dy de du du du _|da dy dal. (2) Li du ‘de ‘du |V° dw dw dw anzi, in modo più preciso, che sia diverso da zero il suo limite inferiore. — 416 — Queste condizioni sono più che sufficienti per assicurare la continuità e la derivabilità per due volte successive (sia rispetto ad w,v,w, che rispetto ad x,y ,) delle caratteristiche geometrico-differenziali di primo e second'or- dine, spettanti alle curve della congruenza. Saranno in particolare funzioni continue e derivabili due volte i coseni direttori @,£,y della tangente, la curvatura c e i coseni direttori @,, 8, ,y, della normale principale. Ciò premesso, fissiamo una determinata fra le curve L e designiamola con C, supponendo (come è evidentemente lecito senza pregiudizio della ge- neralità) che essa corrisponda ai valori u=0,v= 0 dei due parametri de- terminativi. Consideriamo le curve L della congruenza vicine a C, e precisamente tutte quelle, che corrispondono a valori di w,v, situati in un certo intorno w diu=v=0: esse riempiono complessivamente uno spazio filiforme, con- tenuto in I°, che diremo uo T, caratterizzato, quanto all'andamento ge- nerale, dalla sola linea C (come del resto da un’altra qualsiasi delle varie L, che lo costituiscono). Diremo che C è la direttrice del tubo, 0, in par- ticolare (se si tratta di un tubo chiuso), dell’anello T'. Quanto all'intorno @ (da cui dipende la grossezza del tubo), converrà ritenerlo abbastanza piccolo perchè sussista costantemente una certa disu- guaglianza, che sarà specificata qui appresso [n. 2, d)]. Interpreteremo le coppie di valori di v,v come punti di un piano rap- presentativo ZZ; w viene così a corrispondere ad una piccola area compren- dente l'origine. Ogni punto di quest'area individua una curva L, e potrà dirsi piede della curva; il piede della direttrice C viene quindi a cadere nel- l'origine. 2. Comportamento delle sezioni trasversali. Lemmi diversi. — Le (1), risguardandovi costante w , ci porgono la rappresentazione parametrica di una sezione trasversale o del tubo; «,v possono naturalmente interpretarsi come coordinate curvilinee di tale superficie. Il relativo quadrato dell’elemento lineare sarà da° + dy° 4 de = E du? +- 2F dudv+ Gav, ove si ponga secondo la consuetudine (con evidente significato della notazione) da\? da da dx\} to) (a) i ZI Posto pure (3) H=|VEG—F?|, si ha in — 417 — il quadrato, fatto per righe, della matrice da dy de du du du (4) do dy de dv dv dv Come tale, esso ha, in tutto il campo T°, un limite inferiore certo di- verso da zero: infatti, in caso contrario, sarebbe pur zero il limite inferiore di D. Per la stessa ragione è diverso da zero il limite inferiore del radicale DIN? dy \} da \° 6) :=| (65) + (3) +(7) Introduciamo l’angolo (non ottuso) w, che la normale alla sezione o in un punto generico forma colla linea L passante per quel punto. Dacchè i coseni direttori @,8,y di L sono proporzionali a do ny an mentre quelli della normale a o sono proporzionali ai minori della matrice (4), È n fi: SRI 1 ll : i coefficienti di proporzionalità essendo = Li secondo il senso che si assume come positivo, si ha ovviamente SD) (6) cosy= 37 > donde apparisce che anche il limite inferiore di cos w è diverso da zero: ciò val quanto dire che w non supera mai un certo angolo acuto. A complemento di queste generalità, conviene rilevare quanto segue: a) Sia s la distanza fra due punti generici Q(x2,9,4) ed O(x0,Y0 80) di una medesima sezione trasversale 0 (2 = cost). Dette u,v;%0,%v le ri- spettive coordinate curvilinee, poniamo (7) a=|Vu—w}+0— vo], con che y misura, nel piano rappresentativo ZZ, la distanza fra i piedi delle due curve L, passanti rispettivamente per Q e per O. Nell’intorno ww del detto piano rappresentativo, eno + yy +6—s = — 2%) può considerarsi come funzione di u,v (nonchè di wo, vo), continua assieme alle sue prime derivate. —- 418 — Posto per brevità x d*x dix DE =, 2 (Cope , E(x — xo) DE =Gi, aVremo 2, APE CHEN % Ta =23(%a) +25) =2E+5), e analogamente Du d?8? d*8 Tudo St) ; rien (ia AE E,,F,,G, convergendo manifestamente a zero, quando Q ed O tendono a coincidere. Per u=%,0= vo, 8 si annulla assieme alle sue derivate prime; applicando ad essa lo sviluppo abbreviato di Taylor (rispetto alle due varia- bili u,v, a partire dai valori %,%), potremo scrivere 2=(E4+E)(uT—w)}+2(F+F.)(x— w)(0— 0) + + (GE n) i coefficienti riferendosi ad argomenti intermedî fra % 0 %0,V @ Vo. Nell'intorno di ogni coincidenza della coppia Q, O(x=%,0= Vo) » la precedente espressione di s° costituisce una forma quadratica definita ri- spetto agli argomenti v—w,,v—vo (in quanto i coefficienti differiscono tanto poco quanto si vuole da E, F,G, i quali appartengono ad una forma definita). 2 Pur definita è la forma y?. Il rapporto di oscilla pertanto fra numeri x finiti. Siccome d'altra parte, finchè la distanza e rimane superiore ad un certo limite fisso, lo stesso segue di g, così si può ritenere che, per qual- Sg i € ; A stasi coppia Q, 0, x resta compreso fra due costanti positive. b) Ipotesi complementare; interpretazione geometrica. — Il secondo membro della (6) dipende dalle nove derivate di x,y, rapporto ad u,v,w. Immaginiamo che sei di queste, e precisamente de dy de du’ du’ du do dy di dv’ dv’ dv’ si riferiscano ad un punto Q, cioè a certi valori «,v,w degli argomenti; e le rimanenti tre; due dy.. de du’ do’ dw° — 419 — ad un altro punto ‘O della stessa sezione, cioè a valori, in generale diversi, Uo 0, dei primi due parametri, e allo stesso valore di w . Doo olo Dacchè, per u=%0,0=%, e in particolare per u==0,v=%v=0, Per mettere in evidenza questa accezione, scriveremo l’espressione H, In si annulla, e sì tratta di funzione continua, potremo asserire che esiste un intorno w, di u=v=0, tale che, comunque si scel- gano nell'intorno le coppie %,0;%0,%,, rimanga (sopra qualsiasi sezione, cioè per tutti i valori di w, che giova considerare) diverso da zero il limite Del Holo | Ciò posto, introdurremo, accanto alle premesse del n. 1, l’ipotesi com- plementare seguente: L'intorno w, che caratterizza il tubo T, è abbastanza piccolo da tro- varsi tutto contenuto în ©, . Dal punto di vista geometrico, seguitando a designare con cos w il rap- Deo IHIRIZO in @ forma colla tangente alla linea Lin 0. Quest'angolo w, per qualsiasi coppia di punti Q ed O, appartenenti alla stessa sezione del tubo, rimane inferiore di porto ,w può interpretarsi come l'angolo che la normale alla sezione pertanto inferiore ad un angolo fisso, minore di x: Qualora si tenga presente: 1°) che le direzioni appartenenti al piano tangente (a o in Q) for- mano colla detta tangente a L in O angoli necessariamente compresi fra IT IT 3 ge n nido talchè i relativi coseni non possono superare sen w, in valore assoluto; 2°) che, se si congiungono due punti quali si vogliono di o con un arco tracciato sulla stessa o, una almeno delle tangenti nei punti intermedî dell'arco è parallella alla corda determinata dagli estremi; si è condotti alla conclusione che il coseno dell’angolo, compreso fra una generica corda di o e la tangente ad una curva L, spiccata da un punto, pure generico, della stessa sezione o, non può mai superare, in valore assoluto, una certa costante, essenzialmente minore dell'unità. c) Funzioni semi-finite. Ordine di grandezza dei rispettivi inte- grali. — Sia f una funzione dei due punti Q ed O e di quanti si vogliono altri punti parametrici P,R, ecc., variabili anch'essi sopra una medesima sezione o. Consideriamo in particolare la dipendenza di / dalle coordinate o 3 Vo del punto O, e supponiamo che (comunque varino i punti parametrici) essa possa al più diventare infinita di prim'ordine per O coincidente con — 420 — Q(u=%,v0=v), mantenendosi finita e continua per ogni altra posizione di O. In tale ipotesi, / potrà porsi sotto la forma Lo & è) essendo /, ovunque finita. Se, collo stesso significato di /*,/, può a sua volta presentarsi sotto la forma PR./*, con che (8) (= Da diremo che f è funzione semi-finita. Manifestamente le funzioni finite rientrano nella definizione come caso particolare: basta supporre PR= =. La ragione del nome sta nella circostanza che, pur potendo / diventare infinita nel punto Q, il suo integrale (9) JE fr san, due verifica una disuguaglianza dello stesso tipo di quelle che valgono per ogni funzione finita. La constatazione è immediata. Immaginiamo infatti di assumere, nel piano rappresentativo 27 delle %,%,, un sistema di coordinate polari col polo nel punto (v,v) (piede della curva L passante per Q). Il raggio vet- tore di questo sistema di coordinate è la y, definita dalla (7); chiamando + l'anomalia, si ha, per l'elemento di campo w, do =ydy dd. La precedente espressione di J, ove sì assumano come variabili correnti di integrazione x e 4, anzichè % ® Vo, © si abbia riguardo alla (8), potrà essere scritta ro) E Notiamo che, per l'osservazione a), il rapporto - oscilla entro limiti finiti, e che lo stesso può dirsi del rapporto DO, designando x: la distanza 1 (nel piano rappresentativo 27) fra i piedi delle due curve L, passanti ri- spettivamente per P e per R. — 421 — Se ne desume la possibilità di assegnare una costante positiva M tale che, per tutti i valori dei varî argomenti che interessa considerare, M Prri ” POM 040] _ — Perdita di acqua della lente (1) sugo so GIO = ce Perdita di acqua della lente (?) ie ii 0036 0,015 0,011 Diminuzione percentuale del peso della lente. . . . » 8,28 2,94 2,43 Singolare è, in verità, il modo di comportarsi della lente sospesa nello spazio saturo di vapor d’acqua: invece di aumentare di peso e rigonfiarsi, essa diminuisce di peso, costantemente; vuol dire, dunque, che la tensione di vapore della lente è sempre superiore a quella dello spazio in cui si trova sospesa, anche quando questa ultima è la massima possibile alla rispettiva temperatura. Dapprima credemmo che questo singolare comportamento fosse proprio della lente, in quanto è un organo sopravvivente. Ma poi abbiamo visto che non altrimenti si comportava una lamina di gelatina in certe ricerche di Schròder. « Bringt man nun — dice l’autore (*) — die mit Wasser im Gleichgewichts- (*) Dopo la 4* ora. (*?) Alla fine dell’esperimento. (3) P. von Schroder, Veder Erstarrungs- und Quellungserscheinungen von Gelatine. Zeitschr. f. physik. Chem., 45, pag. 74, 1903. (P. III. — 453 — zustande befindliche Gelatineplatte in einen mit Wasserdampf gesittioten Raum von derselben Temperatur, so steht zu erwarten, dass keine Aende- rung der Gelatineplatte eintritt, sie muss sich auch mit gesattigtem Wasser- dampfe im Gleichgewicht befinden. Dem ist aber nicht so. Es hat sich experimentell ergeben, dass die Gelatineplatte erhebliche Gewichtsinderungen zeigt, sie gibt Wasser ab, es tritt im Wasserdampf Entquellung ein ». « Ganz dieselbe Erscheinung zeigten auch Gelatineplatten, die nur kurze Zeit in Wasser gequollen waren, als das Quellungsmarimum noch nicht erreicht hatten ». Onde l’autore conclude che « das Quellungsmaximum im Wasser ist ganz erheblich von dem im Wasserdampf verschieden ». Sulla lamina di gelatina, i due esperimenti d’imbibizione in acqua e in vapor d'acqua possono esser fatti simultaneamente e sulla stessa lamina, tenendola in parte immersa in acqua, in parte nello spazio saturo di vapore soprastante all'acqua; allora « die Grenze zwischen Wasserquellung und Damfquellung ist eine fiussert scharfe ». « Offenbar — dice Schroder — ist der Dampfdruck der in Wasser gequollenen Gelatine ein anderer als der . Dampfdruck des Wassers, und zwar zeigt die gequollene Gelatineplatte einen hòheren Dampfdruck als das Wasser, da von ihr Wasser wegdestilliert ». Poichè, dunque, la gelatina presenta un fenomeno analogo a quello da noi osservato, è da pensare che esso dipenda piuttosto dalla natura colloi- dale del cristallino che dalla sua organizzazione. Da questo punto di vista, veramente la lente cristallina può essere considerata come un blocco d'idrogel organico. Altri esempî di questo singolar modo di comportarsi di corpi colloidali di fronte al vapor d'acqua non mancano nella letteratura. Lo stesso von Schròder cita alcune ricerche di Volbehr (!) sull’imbibizione delle fibre del legno. Durig (°) poi, tenendo sospese delle rane in uno spazio chiuso saturo di vapor d'acqua, osservò che « fand bei keinem der Thiere, obwohl ihr Wasserbedirfniss durch verschieden starke Wasserentziehung gesteigert worden war, eine Zunahme des Gewichtes statt; ja, es zeigte sich sogar durch mebrere Tage eine stete Verminderung desselben und zwar in gròsserem Maasse als bei Controlthieren, die gleichzeitig in Wasser gehalten wurden, was um so auffallender ist, als bei der trigen Circulation und den geringen Bewegungen der durstenden Thière jedenfalls kein regerer Stoffwechsel Ange- nommen werden kann ». Un'altra anomalia presenta la lente negli esperimenti di imbibizione in vapor d’acqua. Considerato il valore della disimbibizione dopo 4 ore, si vede che esso è direttamente proporzionale al peso iniziale della lente; vedemmo (*) A. Durig, Wassergehalt und Organfunction. I. PAiùger*s Arch., 85, pag. 401 (1901). (°) Volbehr, Untersuchungen dber die Quellung der Holzfaser. Kiel, 1896. RenpicontI. 1908, Vol. XVII. 2° Sem. 58 — 454 — invece che, entro un certo tempo, l'aumento dell'acqua d’imbibizione nelle lenti che s'imbevono in acqua è inversamente proporzionale al loro peso. Sarebbe da supporre che, quanto maggiore è la superficie relativamente alla massa della lente (lenti piccole), tanto maggiore dovesse essere la quantità d’acqua perduta in un dato tempo, come trovammo essere tanto maggiore la quantità in peso d'acqua assunta: invece non è così. Si direbbe che il processo di disimbibizione si svolge con un meccanismo diverso da quello di imbibizione. Matematica. — Sopra alcune formole fondamentali relative alle equazioni integrali. Nota di Tomaso Boggio, presentata dal Corrispondente Levi-CIvITA. Si consideri l'equazione integrale non omogenea, col parametro 4: g(1) = (+1 fK@,9) 9) dy. ove g(x) è la funzione incognita, f(x) una funzione data, K(x,y) una fun- zione pure data (nucleo), atta all'integrazione, ecc. L' integrale poi si intende preso fra due limiti costanti qualunque a e 4 (a< d). Supponendo che il nucleo K(x,y) sia una funzione simmetrica di x e y, 0, più generalmente, il prodotto di una funzione simmetrica per una funzione positiva p(y), ho dimostrato, in modo assai semplice, in una Nota pubblicata circa un anno fa (!), che la fanzione g(x), riguardata come fun- zione del parametro Z, non può avere che poli semplici (e reali). Il teorema è stato di poi esteso dal Goursat al caso di equazioni integrali con nuclei più generali. Da tale teorema, e dalla forma dell'equazione precedente, risulta dunque che la funzione g(x) è esprimibile con una formola del tipo: g() = 1E+A Ye an POI, ove a, indica una costante, Z, un generico polo, e il corrispondente residuo (x), come ho mostrato nella mia Nota, soddisfa all'equazione integrale omogenea : 91) =, (KE, Mg 1,2.) che determina y,(x) a meno di un fattor costante arbitrario. (1) Boggio, Un théorème sur les équations intégrales (Comptes Rendus de l’Aca- démie des Sciences de Paris, tome CXLVI, octobre 1907). — 455 — Orbene, con un procedimento pressochè identico a quello sviluppato nella mia Nota, si possono, con tutta facilità, determinare i coefficienti 4,, dopo di che la formola precedente riesce identica ad una elegante formola di E. Schmidt (?), che qui viene così stabilita nel modo più naturale e sem- plice. Da essa si traggono poi subito alcune formole fondamentali, che Hil- bert e Schmidt hanno stabilito in modo assai meno semplice. 1. Si abbia l'equazione integrale: a) g()= (+2 fK,9) 90), e supponiamo che K(e ,y) sia una funzione simmetrica di x e y; ponendo: (2) (x) = g(x) — (2), la (1) diventa: @) va) = 1 fK@,)L/M+ Id. Quest’equazione integrale, avendo il nucleo simmetrico, ha almeno un polo; chiamando 4, quello di minimo valor assoluto, poniamo: 4 E + un), ove a, è una costante da determinarsi, e y,(x) una funzione regolare per Ai,=(A. Sostituendo nella (8) si ha: ape) 4 (4, — 4) wi(0) = (5) =% Ji K(2,9)} 1494) + (A1-9 + VM) dg, onde, ponendo 4 = A,: (6) Pic) = di fre 14) Pi(4) dy . Sostituendo nel secondo membro della (5) all’ integrale relativo a , il suo valore (6), si ha: ) A n (A, — 2) 91 (0) + (4 — 2) Wi(e) = — 20,—)) fE@, MAM + 11%, e dividendo per 4, — 4: À O) atog@+u0=2/k.)MM+vWd: (1) Schmidt, Zur Theorie der linearen und nichtlinearen Integralgleichungen; I Teil (Mathematische Annalen, 63 Band, 1907). — 456 — per 4=4, risulta: O an+p0)=A fre, )/W+v ww. Poichè la (6) determina %;(x) a meno di un fattor costante arbitrario, si può disporre di esso in guisa che: frn@pea=1: moltiplicando poi la (6) per w.(2) dx, la (8) per gi(x) de, integrando e sottraendo, si ottiene : a=1 {fEC,9 10 9.0) de dy, che, per la (6), si riduce ad: 0) w= ff 90) de così la costante 4, è determinata. 2. Dalle (7), (6) segue che la funzione w;(x) soddisfa all’equazione integrale: v(0)=1 fK(7,) 0) — 9) + Md, che è del tutto analoga alla (3), quindi avrà almeno un polo; chiamando 4, quello di minimo valor assoluto (il quale, per altro, non potrà essere infe- riore a |Z,|), si può porre, similmente alla (4): x) vi Luo), ove a, è una costante da determinarsi, e w.(x) una funzione regolare per = A» 9 Con una formola analoga alla (9) avremo quindi: = fg: g:(7) do, che si riduce alla: (10) = f10) 90) dr, perchè sussiste la relazione di ortogonalità, che si verifica subito : fa po(x) de = L'espressione (10) è evidentemente della forma (9). — 457 — La funzione ws(x) soddisfa poi all’equazione integrale : n) =2fk@,) 7-0 -1PM+ MIU. La (4) porge quindi: v(= A 4a LE Ly). Così proseguendo, e supponendo dapprima che esistano solo m poli Ax ,42,.-,Àm, Si arriva all'espressione: (1) po) = O 4 re Le pan EL Lyle), in cui: an f/62) 90) da 91) = fE(@, gu) dy (1,2...) front d=1, e Wm(x) deve soddisfare all’equazione integrale : (12) Yn(c) sr a fx@ ’ y) L/(9) _ A Pi(Y) —-:-— ImPmY)+ Wm(Y)] dy . Ora, poichè non esistono ulteriori poli per y(x), quest'equazione integrale non deve avere alcun polo; per conseguenza è necessario e sufficiente che sia identicamente w,n(x) = 0, e allora la (11) si riduce a: (18) vp (0) 9,0) de Dalla (12) segue ancora: (4) SEEM (Od, OVVero SEE) fd = Igo (0) (JRE: N) 90) de dy ponendo: (15) = fEE,9) fd, avremo : (16) g(&) =D, 9u(0) fo) en) da — 458 — 3. Supponiamo ora che esistano infiniti poli, e, disposti in ordine di grandezza crescente rispetto al loro valor assoluto, siano 41, 4:,... Allora, ricordando anche la (2), le (13), (14), (16) diventano: (13) go) = FIS (10) 90) de 1 fre MUTI NA 9 e (16) = Ya 9x2) fy(0) 92) de ove g(x) è ancora espresso Don: (15). Le varie serie che figurano nei secondi membri sono assolutamente ed uniformemente convergenti, e ciò risulta subito, come osserva lo Schmidt, dal teorema di convergenza dato al S 2 della sua Memoria. È poi assai facile verificare che la (13') soddisfa effettivamente alla (1). La (13') è dovuta a Schmidt, le (14), (16’) ad Hilbert (!). Queste for- mole di Hilbert sono pure state ottenute da Schmidt nella sua Memoria, con metodo del tutto diverso, e meno semplice, di quello qui esposto; da esse egli ha poi dedotto la (13°). Dalla (14°) risulta: (KIM TT (M2) 910) de 1) 9) è questa una formola fondamentale di Hilbert, che egli ha dedotto, mediante passaggio al limite, dalla formola di trasformazione di una forma quadra- tica in forma canonica. Matematica. — Del legame fra l'equazione di Fredholm e le equazioni differenziali lineari ordinarie. Nota del dott. MauRO Picone, presentata dal Socio LuIGr BIANCHI. Il risultato principale ottenuto nella mia Nota: / teoremi d’'esistenza per gli integrali di un'equazione differenziale lineare ordinaria soddisfacenti ad una nuova classe di condizioni, pubblicata in questi Rendiconti (15 marzo 1908), consiste nel dimostrare che l’integrale y(x , 4) dell'equazione differen- ziale lineare ordinaria (1) y9 = p(0)yVHT + pa(e)y] + /(2) soddisfacente alle n condizioni lineari k=n b Q Di [ din) y*()de= i; (= 1,2 ;odon) h=1@ (1) Hilbert, Grundzige einer allgemeinen Theorie der linearen Integralgleichungen; I Mitteilung (Nachrichten von der Kénigl. Gesell. der Wissenschaften zu Géottingen, 1904). DI | — 459 — od anche alle altre: han = (3) DI Gin YI (TR) = li (CER h=1 1=1 nelle seguenti ipotesi: a) nel tratto finito (a, 2) le pi(x) e /() sono funzioni finite e continue, 5) per le condizioni (2), le 4ix(©) sono funzioni di 7 integrabili nel tratto (a, 5) assegnate insieme alle quantità /;, e per le condizioni (3) i punti tx, son di (a, d) in numero finito < D Ma, assegnati insieme alle quan- tità Aiki © li, c) esiste uno ed un sol polinomio in x di grado n— 1 soddisfa- cente alle condizioni (2) o alle condizioni (3), è soluzione di una certa e facilmente costruibile equazione integrale di Fredholm 4) +2 ( E D10E=ID dove f(x, E) e g(x) sono funzioni finite e integrabili dei loro argomenti. E viceversa, nelle dette ipotesi, ogni soluzione dell'equazione (4) è integrale dell'equazione (1) soddisfacente alle condizioni (2) o alle condi- zioni (8). ; Questo teorema ci permette di rappresentare immediatamente, in grazia della formula risolutiva data dal Fredholm dell’equazione (4), l'integrale y(x , 7) come quoziente di due trascendenti intiere in 4, nel quale quoziente è numeratore una trascendente intiera in Z avente come coefficienti delle varie potenze determinate funzioni della x, ed è denominatore il determi- nante D)y dell'equazione (4). La possibilità di una tale rappresentazione dell’integrale y(@ , À), anche quando non si verifichi l'ipotesi c), è del resto cosa ovvia dopo il teorema di Picard (!), secondo il quale un integrale della (1) determinato coll’'asse- gnare nel punto a i valori di r (n-1) VE è, rispetto a 4, una trascendente intiera in tutto il piano complesso. Scopo della presente Nota è di dimostrare che l'ipotesi c) oltrechè, come si è visto, sufficiente, è necessaria per la validità del nostro teorema; di dimostrare cioè che: Ove non esista uno ed un sol polinomio in x di grado n—1 soddi sfacente alle condizioni (2) 0 alle condizioni (3), la trascendente y(x , 4) non si può pensare soluzione di nessuna equazione integrale come la (4). (1) Picard, Zraité d'A., t. II, pp. 92-93. — 460 — Reputo tale risultato pubblicabile come necessario complemento alla mia citata Nota e per la ragione ch’esso non viene messo abbastanza in luce nella classica trattazione dell'Hilbert (') sulle equazioni differenziali lineari ordinarie del second'ordine e che nella trattazione del Mason (?) sullo stesso argomento sembra addirittura affermato, contrariamente a quanto qui dimo- striamo, che la trascendente y(x,4) integrale dell’equazione d? a+ My =/0), soddisfacente alle condizioni Ea ae o alle altre ga) —y(0)= ei, [E 40 -|#]= condizioni che non verificano l'ipotesi c), è soluzione di un'equazione inte- grale come la (4). In ultimo, al $ 8, è osservato che i risultati della citata mia Nota permettono, per valori di Z di modulo convenientemente limitato, un calcolo per approssimazioni successive dell'integrale della (1) soddisfacente alle con- dizioni (2) o alle (3), supponendo che le ipotesi 4), è) e €) siano verificate. SI Ricordiamo che nel citato teorema di Picard è dimostrato che, supposto che l'integrale n(x, 4) della (1) determinato dalle condizioni iniziali dm CY) A) Di SME CO LE 29 Ei sia rappresentato dalla serie Mo(2) + mA +-+ n(e)R+4-.., questa, per qualunque valore di 4, è, rispetto ad x, uniformemente e asso- lutamente convergente in (a, 4). Il Dini (*) completò questo teorema osser- vando di più che anche le serie YV—=00 dim 4” 0A) = dai ( ’ ODA) (') Hilbert, Gòttinger Nachrichten, zweite Mitteilung, 1904, Heft 3. (°) Masen, Zur T'heorie der Randwertaufgaben, Math. Ann., 58 Bd. (1904), S. 528. (*) Dini, Annali di Mat., t. XII—, S. III, pag. 179 e seg. — 461 — per qualunque valore di 4, sono, rispetto a x, uniformemente e assoluta- mente convergenti in (a, 0), per modo che si potrà porre: Ciò ricordato, diciamo 7, 2,--.,% un sistema di x integrali indi- pendenti dell'equazione omogenea (5) y® = A pi(2)yP A+: 4 p(0)y], e n un integrale particolare dell'equazione (1); l’integrale generale della (1) sarà rappresentato dalla combinazione y(e,4) + c1N1(€,4) +-+ ene 4), dove €,,€2,.-..,0n sono le 7 costanti arbitrarie. Le condizioni (2) o le condizioni (3) si traducono in x equazioni lineari nelle c,, €2,...,6n, i cui termini noti e il cui determinante risulteranno delle trascendenti intiere in Z. Diciamo 4(4) questo determinante. Per ogni valore di Z per cui sia 4(4)#+0, la trascendente y(x , 4), integrale della (1) soddisfacente alle (2) o alle (3), verrà pertanto certamente rappresen- tata da se Dan + gg A+ + 0A], dove ci(4), c»(4),-..,C2(4) rappresentano altrettante trascendenti intiere. Poniamo Ta ,1)= 20) Cene 2) +-+ ca(2) 02,4) e supponiamo che le serie di potenze Y=00 D Ind (C=13D0000 0) v=0 rappresentino i risultati delle operazioni indicate dai primi membri di (2) o di (3) fatte su 7(2, 4). La trascendente 7(x , 4) sarà l'integrale della (5) soddisfacente alle con- dizioni (2) o (3) dove al posto delle /; vi sono le quantità li —- Mld. 82. Supponiamo che non sia verificata l'ipotesi c), supponiamo cioè che non esista un polinomio in x di grado n—1 soddisfacente alle (2) 0 RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 1° Sem. 59 — 462 — alle (3) con le l; affatto arbitrarie; allora la trascendente y(a , 3) avrà di necessità un polo nell’origine. Difatti, supponiamo che, nella detta ipotesi, la y(x,4) non abbia un polo nel punto zero; allora la 7(x,4) avrà un punto ordinario nel punto zero e perciò, in un conveniente intorno di questo punto, essa ammetterà uno sviluppo procedente secondo le potenze intiere, positive e crescenti di 2. Si abbia: (6) 7 4) = yo) + yi(0) 4 +: 4 ys(0)® + >>. Poichè è Ti ie EE PE Hed= 7 2 me AA I mr, e pel teorema di Dini dg ,3) IX D' male, 4) - iv\d 2” s=0,1, 12), o Zelo) ( ) sì avrà _ d'ya) Yi(2) wr” dai e quindi d'7(2,4) dim N DE, (7) dai re S dai 7. ((=0,1, ;n) Introduciamo la (6) e le (7) nella (5); se ne ricaverà: (8) PA) =0 Sep (A+ pope) (=0,1,...). Introduciamo la (6) e le (7) nelle (2) o nelle (3), dove al posto delle 7; vi sono le quantità ff} — Y} 4y4”; se ne ricaverà che la funzione y(x) sod- disfa alle (2) o alle (3), dove al posto delle 7; vi sono le quantità %; — %o, e che le funzioni y,(x) (v > 0) soddisfano alle (2) o alle (3), dove al posto delle /; vi sono le particolari quantità — 2 . A — 463 — Ora la yo(x), come dice la (8), è un polinomio in @ di grado n —1. Per cui l'ipotesi che y(x , 4) non abbia un polo nell’origine, porta all'esistenza di un polinomio in x di grado n — 1 soddisfacente alle (2) o alle (3), dove al posto delle /; vi sono le quantità l; — Zio, il che, per l’arbitrarietà delle li— lio, dovuta all'arbitrarietà delle /;, è assurdo. La trascendente y(x , 4), ove l'ipotesi c) sia in difetto, non potrà dunque essere soluzione di un’equazione integrale come la (4), poichè una soluzione della (4) non ha mai un polo nel punto zero. Si osservi invero che il deter- minante D,; della (4) ha lo sviluppo: (21 ’ xa) f(x, , Lo) 1+2f e) +$ fune (xs 01) f(&s 22) Col nostro ragionamento si può dunque affermare che nel difetto dell'ipotesi c) la trascendente 4(4) si annulla nell'origine, e che se u è l'ordine di questo zero di /(Z),w= 1, fra le cx(4) ve ne ha almeno una che nel- l'origine ha uno zero d'ordine < w. dada, 4 -<: 8 3. Supponiamo, in quest'ultimo paragrafo, verificate le ipotesi a), 6) e c). Diciamo g(x) il polinomio in a di grado n — 1 soddisfacente alle condizioni (2) o alle (3), e diciamo G(x,è) la funzione di Green relativa alle con- dizioni: (9) DI J ‘an (0) y® > (r)de = 0 o alle altre: nn = (10) DRD a) — OMO. k=ajilii Se (x) indica una funzione finita e continua in (4,2), posto: = f Ge, 598 dE+ 92) sì avrà ya) = g(2) e la y(x) soddisferà alle condizioni (2) o alle (3); mentre, posto d =| 949, (1) V. la mia citata Nota. — 464 — la y(x) soddisferà alla stessa equazione differenziale e alle condizioni (9) o alle (10). La trascendente y(x, 4), integrale della (1) soddisfacente alle (2) o alle (3), essendo soluzione di un’equazione integrale come la (4), non ha un polo nel punto zero. Perciò, per valori di 7 di modulo convenientemente limi- tato, la y(x,4) ammetterà uno sviluppo procedente secondo le potenze posi- tive, intiere e crescenti di Z. Si abbia y(c, = YA) + wi) +- + n) D+. Si avrà ded) e diy va dra dx' 2 Introducendo questi sviluppi nella (1) e nelle condizioni (2) o (8), si trova che fra le y,(x) sussistono le relazioni 2) = (2) go) = (E (HT: + pale) ye) (=0,1,...) e che la yo, soddisfa alle condizioni (2) o (3), mentre le yy (v > 0) alle (9) o (10). Queste relazioni permettono un calcolo ricorrente per le y,. Si avrà infatti : vl=+ f Gf = f GEO OT- +0) VOTE. Possiamo dunque affermare che : Per valori di À convenientemente limitati di modulo, la trascendente y(x , 4) può essere calcolata conun metodo di approssimazioni successive. Precisamente, se 0 è il modulo dello zero di D\r di minimo modulo, il metodo delle approssimazioni successive per il calcolo di y(x , 4) può essere certamente adottato pei valori di Z per cui è |A|<. Tale metodo, per x»=2, coincide perfettamente con quello classico adot- tato da Picard (*) per ottenere un integrale dell’equazione d Te + MAG)Y= 0. soddisfacente alle condizioni ai limiti ya)=@ , y(0) = f (') Picard, 7raité d'A., t. III, chap. VI. Vedi anche il cap. IV della mia tesi di laurea: Su un problema al contorno nelle equazioni differenziali lineari ordinarie del second’ordine; Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, vol. X. — 465 — Matematica. — SuZla continuità di un integrale rispetto ad un parametro. Nota della dott." P. QuINTILI, presentata dal Socio V. CERRUTI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Matematica. — Sulla regolarità del sistema aggiunto ad un sistema lineare di curve appartenente ad una superficie alge- brica. Nota di F. SevERI, presentata dal Socio C. SEGRE. La regolarità del sistema aggiunto alle sezioni piane di una superficie algebrica, è stata dimostrata dal sig. Picard « par une voie détournée », mediante gli integrali semplici appartenenti alla superficie (?). Credo di rispondere a un desiderio dei cultori di geometria algebrica, esponendo in questa Nota una dimostrazione geometrica diretta del teorema di Picard. La mia dimostrazione conduce anzi ad un risultato più generale: la regolarità del sistema |C'| aggiunto ad una curva irriducibile qualunque C, che sia atta a definire un sistema continuo di grado > 0. Mi sembra degno di nota anche il risultato del n. 1, di cui mi giovo per stabilire la regolarità di |C'|: sopra la curva generica di un qualunque sistema lineare irriducibile |D| che contenga parzialmente C, il sistema com- pleto |D — C| stacca una serie completa. Questo è forse il primo di una catena di teoremi che condurranno @ meglio precisare il teorema di Riemann-Roch sopra una superficie. Intanto al n. 4 ne deduco un nuovo significato per la sovrabbondanza di un sistema lineare. 1. Sulla superficie F consideriamo un sistema lineare irriducibile |D|, effettivamente privo di punti base, ed una curva irriducibile C, la quale sia atta a definire un sistema continuo (in particolare lineare) almeno co!, di grado > 0, virtualmente privo di punti base. Dimostreremo che se esiste il sistema lineare B}=|D— 0], esso sega su una generica D una serie completa. (1) Picard, Sur quelques questions se rattachant à la conneaxion linéaire dans la théorie des fonctions algébriques de deux variables indépendantes (Journal de Crelle, Bd. 129, 1905). Ved. pure il trattato di Picard e Simart (Paris, Gauthier-Villars, 1906) a pag. 437 del t. II. — 4606 — Indichiamo infatti con X il sistema continuo completo cui appartiene |D| e ricordiamo il teorema (di Enriques) secondo cui è completa la serie caratteristica di X ('). Sia D, una generica D, e G il gruppo comune a C,D,. Denotiamo con X, il sistema algebrico formato dalle curve di X passanti per G: in forza del teorema ricordato, la serie lineare completa residua di G rispetto alla serie caratteristica di Do — la qual serie residua contiene totalmente quella segata su Do da |E| — è staccata su Do, fuori di G, dalle curve di x, infinitamente vicine a Do. Ciò posto, vediamo com'è costituito il sistema X,. Anzitutto ad esso appartiene il sistema 2,, di tutte le curve di che contengono come parte C. Dico che, toltone X,, in 2, restano un numero finito di sistemi lineari. Dovremo perciò provare che le curve di ®, che non contengono come parte C, appartengono ad un numero finito di sistemi lineari. Tali curve segnano su C il gruppo G, e appartengono quindi alla varietà algebrica H costituita dalle curve di X che staccano su C gruppi equivalenti a G. Ora, la varietà H è formata da un numero finito di varietà irriducibili, ciascuna delle quali, essendo costituita da curve che staccano gruppi equi- valenti sopra una curva, C, atta a definire un sistema continuo di grado > 0, è contenuta totalmente in un sistema lineare (anzi nel caso attuale forma addirittura un sistema lineare) (?). Si conclude pertanto che il sistema X, costituisce una varietà riducibile, composta dal sistema X, e da un certo numero di sistemi lineari DID. tra i quali havvi il sistema |D| delle curve D che passano per G (5). Ne deriva che le curve di X, infinitamente vicine a D,, appartengono tutte quante al sistema lineare |Dy|, perchè tali curve non possono appar- tenere nè ai sistemi |D.|,...,|D:| distinti da |D,|, nè al sistema X; le cui curve contengono tutte una parte non infinitamente vicina a Do. Il sistema lineare |Do|, col gruppo base assegnato G, ha dunque la serie caratteristica completa. Ora, se 7 +1 è la dimensione di |D,|, la dimensione di |E| risulta uguale ad 7, perchè basta imporre alle D, di passare per un punto generico (') Enriques, Sulla proprietà caratteristica delle superficie algebriche irregolari (Rend. della R. Acc. di Bologna, dicembre 1904); ved. pure Severi, Intorno alla costru- zione dei sistemi completi non lineari che appartengono ad una superficie irregolare (Rend. del Circolo mat. di Palermo, t. XX, aprile 1905). (*) Severi, Osservazioni varie di geometria sopra una superficie algebrica e sopra una varietà (Atti del R. Istituto veneto, t. LXV, aprile 1906), n. 2. (*) La varietà spezzata 2, è però commessa, in quanto ciascun sistema |D;| ha co- mune con X;, un sistema lineare di dimensione inferiore di un'unità rispetto a quella di | Dil. — 467 — di C, per ottenere tutte le D che contengono come parte C. La dimensione della serie 9 segata da |E| su D,, uguaglia quindi la dimensione della serie caratteristica di |D,|: ne deriva che le due serie coincidono, cioè che la prima è completa. Se i sistemi |D|,|C| posseggono punti base assegnati, si ricade subito nel caso precedente mediante una trasformazione che muti quei punti base in curve eccezionali, a condizione però che i punti base di |D| si assegnino con la loro molteplicità effettiva. Possiamo pertanto enunciare il teorema seguente: Avendosi sopra una superficie algebrica due sistemi lineari com- pleti irriducibili |C|,|D| — di cui il primo può anche essere 0°, purchè © sia in tal caso atta a definire un sistema continuo di grado > 0 —se esiste il sistema |D—C|, esso sega sopra una generica D una serie lineare completa. Quanto ai punti base, si tenga presente che |D| deve essere privo di punti base ipermultipli. Osservazione. — Nel corso del ragionamento abbiamo imparato a co- struire sopra una superficie irregolare un sistema lineare irriducibile colla serie caratteristica completa: è il sistema |D|. 2. Si mantengano le notazioni e le ipotesi introdotte al principio del nu- mero precedente, e si supponga di più che il sistema [E] sia regolare; in tal guisa che la sua dimensione risulterà espressa da (1) raen—-n+p, +1, ove 2,7 denotano il grado e il genere virtuali di |E|, e p, il genere aritme- tico di F. La dimensione del sistema |C'| aggiunto alla curva C, virtualmente priva di punti base, è data da o=o_-1Htp,+e (e= 0), ove w è il genere virtuale di C. Poichè il sistema |E + C'| è aggiunto a |D|, le curve C' segneranno su D, gruppi residui della serie 9 rispetto alla serie canonica: l'indice di specialità di g risulta pertanto espresso da CER rg (n=0). Quanto all'ordine della serie 9, esso è evidentemente eguale ad 2 + j, ove j denota il numero dei punti di un gruppo (E, C) onde la dimensione di 9, cioè del sistema |E|, viene uguale a ira 1 el, a indicando il genere di Db. — 468 — Se si osserva che CiAÙ *p (2) = J “nl ’ dalla relazione precedente si ricava rn pet, la quale, confrontata colla (1), porge {è = U| = 0 7 Si conclude che: Quando il sistema |D-C|— di cui all’enunciato precedente — è regolare, il sistema |C'|, aggiunto a C, è pure regolare e segna sopra una generica D una serie completa. 3. Prendiamo come modello della nostra superficie una, F, priva di sin- golarità in un iperspazio. Le curve di un multiplo abbastanza alto |D| delle se- zioni iperpiane di F, che passano colla molteplicità s —1 pei punti s - pli (accidentali) di C, segano altrove, su questa curva, una serie completa non speciale. Si può di più supporre, crescendo eventualmente l'ordine del mul- tiplo considerato, che i detti passaggi presentino condizioni indipendenti alle D. Indicando con m l'ordine di C, con &, il suo genere effettivo, e con I l'ordine delle forme che segnano su F il sistema (completo) |D|, sarà x FU LN -o += — nin XE iam_o+1 il numero delle condizioni che C presenta alle D che debbono contenerla; onde, essendo regolare il sistema|D|, il sistema |E|=|D — C| risulterà re- golare. Applicando allora il teorema del numero precedente, si perviene alla conclusione che |C'| è regolare. Tale conclusione è applicabile in particolare quando C sia effettivamente priva di punti multipli, e quindi anche quando C sia dotata di punti multipli, i quali si assegnino colla loro molteplicità effettiva. Infatti in tal caso una trasformazione birazionale di F avente per punti fondamentali i punti multipli assegnati, muta C in un'altra curva C, priva ef- fettivamente di punti multipli, e in questa trasformazione il sistema |C'| ag- giunto al sistema |C| col gruppo base definito, vien mutato nel sistema |C,'] aggiunto a C,. Onde |C'| è regolare come |C,'|. Si può dunque enunciare il teorema seguente: Sopra una superficie algebrica F, il sistema |C'| aggiunto ad una curva C, la quale sia atta a definire un sistema continuo che non sia un fascio irrazionale, è regolare. — 469 — Quanto ai punti base, che entrano nella definizione di |C'|, è sottinteso che i punti multipli di C si debbano riguardare come accidentali 0 come asse- gnati colla loro molteplicità effettiva; ma in questo secondo caso per l'applica- bilità del teorema basterà che C appartenga ad un sistema continuo di grado > 0, privo di punti base assegnati. Applicando la proposizione dimostrata al sistema delle sezioni piane della superficie F, supposta appartenente allo spazio ordinario, si ha il teorema di Picard: Le superficie d'ordine n—3, aggiunte ad una superficie F d'ordine n dello spazio ordinario, segano sopra un piano generico un sistema (regotare) di deficienza uguale all’irregolarità della superficie; mentre le superficie aggiunte d'ordine >n—3 segano su quel piano sistemi completi (regolari). In altri termini: Se una curva sghemba può considerarsi come linea doppia di una super- ficie d'ordine r, la formola di postulazione relativa a quella linea è applicabile per tutti gli ordini maggiori di 7 — 4 (ed anche per l’ordine n — 4 se la su- perficie è regolare). 4. Un'altra conseguenza dei teoremi dimostrati porta ad assegnare un nuovo significato geometrico per la sovrabbondanza di un sistema lineare irri- ducibile |C|, almeno co?, privo di punti base. È noto che tale sovrabbondanza è uguale alla somma delle deficienze della serie caratteristica di |C| e della serie segata sopra una C dal sistema cano- nico. Orbene, noi ora proveremo che: La sovrabbondanza di un sistema lineare irriducibile |C|. almeno co? e privo di punti base, è uguale alla deficienza della serie segata da |C°| sopra una curva 20. Detti n, 7 il grado e il genere di C, % l'indice di specialità, s la so- vrabbondanza, la dimensione 7 vien data da (2) ran_-T+p,+1_-i+4s. Pel teorema del n. 1 il sistema |C| sega sopra una curva irriducibile 20, una serie completa 9g. Se 0 è la dimensione del sistema |C°| e d la defi- cienza della serie segata da |C'| su 2C, l'indice di specialità della serie 9 risulta uguale a e quindi la dimensione di g, cioè di |C|, risulta espressa da r=2nT—-(2r+n—-1)+0e+41—-2+90= =nT-2r+24+0—?i+44. Pel teorema del n. 3 si ha o=t 14 Pa, RenpIcoNTI. 1908. Vol. XVII, 2° Sem. 60 — 470 — onde viene: raenT-1+p,+1—-i+0, la quale, confrontata colla (2), porge SON): Osservazione. Il teorema dimostrato era noto pel sistema |C| delle se- zioni piane di una rigata. In tal caso |C'| non esiste, e la sovrabbondanza di |C|] risulta uguale all'indice di specialità della serie segata da |C| su 2C (Segre). Fisica. — L'emissione luminosa nei vari azimut da parte d'un vapore incandescente in un campo magnetico. — Nota di O. M. CorBINO, presentata dal Socio M. CANTONE. Ammettendo che la ripartizione delle intensità luminose tra le compo- nenti del doublet e del iriplet di Zeeman sia quella che da tutti si ritiene conforme all’esperienza, ebbi a dimostrare in un precedente lavoro (*) che lo scambio d'energia tra due sorgenti identiche S, e Ss, situate in campi ma- gnetici ortogonali, è disuguale; e che perciò, per radiazioni di temperatura, il secondo principio sarebbe in difetto. Avevo inoltre esaminato come dovrebbero modificarsi le ipotesi sulle in- tensità delle componenti per eludere la contradizione. E ne avevo concluso che : a) 0 dev'essere l'emissione totale nel senso delle linee di forza mi- nore di quella nel senso normale, 5) ovvero la ripartizione tra le componenti del #r;plet dev'essere di- versa da quella comunemente ammessa; così, se le emissioni complessive in ciascuno dei due azimut sono eguali, dovrebbe essere nulla la componente centrale. E poichè da prove dirette, eseguite con mezzi insufficienti nell'Istituto Fisico di Messina, non mi risultò la disuguaglianza delle emissioni totali, e d'altra parte la componente centrale certamente non è nulla, ne dedussi che era impossibile ristabilire l'impero del secondo principio, ed emisi perciò l’idea che le radiazioni monocromatiche presentanti il fenomeno Zeeman non possono essere di temperatura. Il sig. Laue ha pubblicato in proposito una interessante Nota (*), che (') Si noti che questa costituisce una nuova dimostrazione del teorema di Riemann- ftoch sulle superficie, dedotta dal teorema concernente la completezza della serie carat- teristica di un sistema continuo completo. (?) O. M. Corbino, Rend. Linc., t. XVII, pag. 593; 1908. (3) M. Laue, Physik. Zeitschr., t. IX, p. 617; 1908. — 4791 — contiene alcune obbiezioni al mio lavoro; in essa egli conferma il risultato immediato della mia discussione, pur non consentendo nelle mie conclusioni finali. Dette Kja e Ks4 le intensità delle componenti del doublet, è Ki, K,, Kx;, quelle delle componenti del triplet, e lasciandole indeterminate, egli ripete il mio ragionamento e trova che, per esser rispettato il secondo principio, dev'essere (1) Kia + Ksa= Ku + Kos. È chiaro che questa condizione comprende insieme le condizioni a) e d) che io avevo ritenuto non conformi all’ esperienza. Il sig. Laue crede in- vece che la condizione (1) si verifichi in realtà, deducendolo, per una sor- gente di spessore sufficiente, dalle teorie dello irraggiamento, per le quali dev'essere Kia = Kxa= Ku= K,= Kx Noi possiamo prevedere quantitativamente, per mezzo di queste egua- glianze, l'entità dei fenomeni 4) e 6), la cui esistenza è richiesta perchè sia valido il 2° principio. Esse ci dicono invero che la luce emessa nel senso normale alle linee di forza dev'essere i /, di quella emessa nel senso lon- gitudinale; e che le tre componenti del ?rplet debbono avere eguale inten- sità, o, ciò che è lo stesso, che la luce emessa nel senso trasversale al campo deve presentare una polarizzazione parziale in misura di l/s. Ora, il primo fenomeno non è stato ancora osservato; quanto al secondo, ricorderò che le osservazioni di Egoroff e Georgiewski sono, qualitativamente, in quel senso. E ricorderò che il Lorentz (') ne diede una interpretazione che conduce appunto, per uno spessore sufficiente della fiamma, al risultato del Laue, poichè sotto un grande spessore l'assorbimento tende a divenire eguale per tutte le componenti del doublet e del #rziplet; e quindi, ammet- tendo la legge di Kirchoff, dovrà essere anche eguale l'emissione. Ma è evidente che simili argomentazioni non possono sostituire l'espe- rienza, quando è in giuoco il secondo principio, poichè si fondano anch'esse più o meno esplicitamente sul principio medesimo. Ho creduto quindi opportuno riprendere, coi mezzi dell'Istituto Fisico di Palermo, le prove da me fatte a Messina sull'esistenza del fenomeno a), che va considerato come il fenomeno di compenso richiesto dal 2° principio. L'esperienza ha avuto questa volta un esito positivo, e il risultato è, in condizioni opportune, dell'ordine di grandezza ch'era da aspettarsi, data l’imperfezione con cui vengono realizzate le condizioni teoriche. (*) H. A. Lorentz, Rapports près. au Congres international de Physique, t. III, pa- gina 29; 1900. — 472 — È da notare, invero, che il Gouy (*), studiando fotometricamente le fiamme colorate, non le trovò mai, per qualsiasi ricchezza di vapori metal- lici, perfettamente assorbenti; e che perciò una seconda fiamma, disposta dietro un'altra eguale, accresce l'emissione totale in misura variabile, ma che non scende al disotto del valore 1,4 anche con le fiamme di forte potere luminoso. È facile d'altra parte riconoscere che per effetto del campo, e supposto che questo separi interamente le componenti di Zeeman, l’ emissione avrà luogo come se si avessero due fiamme disposte l’una dietro l’altra, per la componente centrale del #riplet, e una sola per le laterali ; mentre nel senso longitudinale ciascuna delle componenti del doud/et avrà l'intensità della centrale del %r/plet. Noi dovremo dunque aspettarci che le emissioni totali nel senso iongitudinale e nel senso trasversale siano come i numeri 2,8 e 3,4 all'incirca, e che l'eccesso nella luce trasversale (21°/,) sia da attri- buire alle vibrazioni normali al campo, cosicchè essa dovrà presentare una polarizzazione parziale in misura di 0,6 su 3,4, cioè del 17 per cento. Questi valori dovranno considerarsi come valori limiti, poichè per una intensità luminosa molto piccola della fiamma essa è troppo poco assorbente, e il coefficiente K di Gouy si avvicina a 2; invece, se la fiamma è molto ricca in vapori, i fenomeni previsti si attenueranno per la insufficiente se- parazione delle componenti prodotta dal campo. Converrà perciò, che il campo abbia un'intensità elevata quanto più è possibile, e che la fiamma abbia un'intensità luminosa nè troppo grande nè troppo piccola. Fu appunto per non esser riuscito a trovare le condizioni più favorevoli della fiamma, ma più specialmente per la piccola intensità del campo uti- lizzato nelle prime prove a Messina, che mi sfuggì il ricercato fenomeno. Nelle nuove esperienze fu adoperata una elettrocalamita Weiss eccitata dalla corrente stradale attraverso a un reostato, in modo da ottenere la mas- sima corrente per cui l'apparecchio è costruito. Tra i poli forati, distanti cm. 1,5, fu disposta una fiamma Bunsen colorata con vapori di sodio. Mi son servito d'un tubo d'amianto inumidito con acqua salata e circondante il becco Bunsen, ovvero di alquante perline di cloruro di sodio disposte in giro alla base della fiamma, in modo che questa presenti una colorazione piuttosto tenue e sensibilmente uniforme. La luce emessa longitudinalmente, lungo il canale dell'elettrocalamita, traversava due nicol, di cui uno mobile su di un cerchio graduato, e cadeva infine sulla metà inferiore della fenditura, assai larga, d'uno spettroscopio. La luce emessa nel senso normale alle lince di forza, traversava invece un diaframma circolare situato all'altezza del foro dell’elettrocalamita, e (') Gouy; Annal. de Chimie et de Physique, serie 5%, t. XVIII, p. 5; 1879. — 473 — quindi, per mezzo d’una serie di prismi a riflessione totale, dopo aver traver- sato un nicol, cadeva sulla metà superiore della fenditura spettroscopica. Si aveva così, nel campo di visione dello spettroscopio, l’immagine larga della fenditura spezzata in due parti, sovrapposte l'una sul prolungamento dell’altra. Le due metà della immagine potevano rendersi egualmente lu- minose variando l'angolo dei due nicol interposti sul fascio longitudinale. Rese eguali le due metà della immagine ed eccitando il campo, sì con- statò nettamente, per condizioni opportune della fiamma. che la metà e/lu- minata dalla luce trasversale diveniva più brillante dell'altra. Questo però avveniva solo quando l'unico nicol interposto sul cammino della luce trasversale lasciava passare le vibrazioni verticali (cioè normali al campo); invece l’effetto era impercettibile quando il nicol veniva rotato di 90°. Questo prova, come avevamo previsto, che sotto l’azione del campo la luce trasversale è più intensa della longitudinale, e che l'eccesso è dovuto alle vibrazioni normali al campo. Potei anche accertare, com’ era da aspettarsi, che il fenomeno acquista particolare evidenza quando la fiamma è tale da rendere nettamente visibile il fenomeno d'Egoroff e Georgiewski, di cui l'os- servazione è ben facile con un polariscopio di Savart. Variando l'angolo dei due nicol interposti sul cammino della luce lon- gitudinale, si potevano, dopo la chiusura del campo, rendere nuovamente eguali le due metà dell'immagine spettroscopica. E la lettura sul cerchio graduato permetteva di calcolare la variazione d’intensità. Si ottenne così, in taluni casi extra -favorevoli, un'alterazione del 40°/, nell’intensità della luce trasversale vibrante in direzione normale al campo, rispetto alla luce lon- gitudinale; il che importa un accrescimento del 20°/, sulla luce totale emessa nel piano equatoriale e coincide col valore sopra previsto in base alle ricerche del Gouy. Concludendo possiamo dire che una sorgente in un campo magnetico emette luce più intensa nella direzione normale al campo, e che l'eccedenza spetta alle vibrazioni normali al campo, nella misura prevedibile, dando ra- gione del fenomeno Egoroff e Georgiewski. I due fenomeni sono appunto quelli da me ritenuti indispensabili per ristabilire l'impero del secondo principio. E così l’applicazione di questo ha avuto il successo di condurre alla previsione di due fenomeni intimamente connessi, dei quali solo il secondo era noto. — 474 — Chimica. — Swi composti del piombo con l'acido nitroso (). Nota di ALBERTO CHILESOTTI, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. VI. — NITRATI-NITRITI DI PIOMBO (°). È noto che facendo agire il piombo, in quantità non troppo forti, sulle soluzioni del nitrato di piombo, si ottengono delle sostanze cristalline, che, per la loro composizione e per il modo di scomporsi, sì possono considerare risultanti dalla unione di nitriti e nitrati basici. Come si disse già, è assai ‘ probabile che di questi numerosi composti, ai quali furono attribuite formole determinate, pochi siano combinazioni definite e che per lo più si tratti di miscugli, come ha cercato di mostrare il Peters (*). Il problema di stabilire con certezza quali delle formole proposte cor- rispondano a combinazioni vere e proprie, si presenta assai difficile e non è accessibile al metodo già tentato per i nitriti. Qui sono riportate soltanto alcune esperienze preliminari intorno alla costituzione di questi composti sin- golari, che si riscontrano solo tra i sali del piombo e del mercurio; se come nitrati-nitriti si vogliono considerare i composti che da Ray (‘) furono con- siderati nitriti mercuroso mercurici, come ad es. Hgs0 , 2Hg0 . N;0; 2H;0 =Hg,(N0;),.2H;0 (iponitrito mercuroso) e Hg.0.2Hg0.N,0;= 2Hg»(N0,) (*). Tra i varii nitrati-nitriti del piombo presenta speciale interesse il sale Pb(N0;):. Pb(NO»): . 2Pb(0H),.2H:0 la cui individualità non pare si possa mettere in dubbio, poichè fu ottenuto, a quanto pare, già da Proust e da Berzelius, poscia da Peligot (°) che per primo ne determinò esattamente la composizione, e quindi da quanti altri studiarono la riduzione delle soluzioni di Pb(NO:) col piombo (Gerhardt, Bromeis, v. Lorenz e Peters). Quest'ul- timo poi lo preparò anche per azione del KNO; sul Pb(NO:).. Anche la sua proprietà di ricristallizzare inalterato, conferma trattarsi di un composto definito. Sarebbe questo ancora l’unico sale, oltre forse quello di mercurio più sopra citato, che si potrebbe considerare come sale neutro dell’ipotetico acido iponitrico H,NO;. Infatti 4PbO.N,0;.N,0; + 3H.0 = 4Pb NO; + 8H;0. Lo stesso Peligot, dopo avere descritto i due nitrati-nitriti di piombo (*) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Elettrochimica del R. Politecnico di Torino. (8) V. questi Rendiconti [5] XVII, 1° sem., 1908, pag. 825; ibid. 2° sem., pagg. 173, 288 e 377. (*) Zft. f. anorg. Chem., 77, pag. 148, (1896.) (4) Jahresber. der Chem., 1897, pag. 975 e Journ. Chem. Soc., 71. 337. (5) Gerhardt, Lieb. Ann., 72, 74 (1849); Brooks, Pogg. Ann., 66, 63. (5) Ann. de Chimie et de Phys. [3], 2, 87. — 475 — da lui ottenuti, tra i quali il sale in questione, discute se questi sali si deb- bano considerare come derivati dell'acido iponitrico, combinato integralmente alla base, o come risultanti dalla combinazione di nitrati e nitriti basici di piombo, e conclude che quest'ultima opinione sembra la più probabile. Egli aggiunge in fine che l'acido iponitrico pare sia un acido doppio, simile all’iposolforoso, ma assai più labile di questo. Per risolvere la questione assai interessante della esistenza di ioni ipo- nitrici, era anzitutto necessario stabilire se in questi nitrati-nitriti l'azoto nitroso-nitrico faccia parte di un anione complesso, poichè si poteva anche du- bitare che 1’ NO', formasse col piombo un catione complesso. Essendo il sale poco solubile nell'acqua fredda (secondo Gerhardt se ne scioglie 1 parte in 80 parti di acqua a 23°), ed essendo noto che si scioglie molto meglio nell'acido acetico, sia diluito che concentrato, senza scomporsi (Pe- ligot), si cercò di studiarlo in soluzione leggermente acetica. Prima conveniva però vedere come l'acido acetico agiva da dissolvente. Allo scopo sì agitò un eccesso del sale con acido acetico di varia concentrazione fino a saturazione alla temperatura costante di 13°,2-13°,4 e si determinò nella soluzione l’os- sido di piombo. Riportiamo qui sotto i risultati: Normalità del’ acido (Hs0 distill.) Ponto 0 0,05 0,100 025 0,5 0,75 E Da in 20 em? 0,1202 0,2646 0,487 1,090 1988? 31748 Lo sasso veleno cal: a 0,2088 04166 1,042 2,088 3,125 colato Il sale sperimentato era un prodotto fornitoci da Merck per nitrito di piombo e che invece all'analisi mostrò contenere 72,91 °/, Pb, 7,58°/ NOs e 4,61°/, N totale, ossia Pb:NO,=1:0,467 Pb:(NO;+NO;) = 1:0,93. Era quindi il sale da noi studiato con un piccolo eccesso di PbO e di ni- trato. Tenendo conto di questi dati analitici, e supponendo che l'acido ace- tico agisca da dissolvente trasformando il sale secondo l'equazione: 4PbO . N30;. N;0;.3H:0 -- 4H0;C. CH, — — 2Pb(C,H30:) + Ph(NO:): + Ph(NO:): + 5H;0, si calcolarono i valori della terza serie. Non potendosi calcolare quanto sale basico indecomposto andasse in soluzione, indipendentemente dall'azione del- l'acido acetico, l'accordo è sufficiente per dimostrare che nella soluzione non si ha il sale basico inalterato, ma un miscuglio di 2 mol. di acetato, 1 di nitrato ed 1 di nitrito di piombo. Anche lo studio di una soluzione conte- nente nitrato e nitrito neutro di piombo nei rapporti molecolari era. però interessante in quanto poteva mostrare se e quali complessi si formano tra il nitrato ed il nitrito. Conveniva però anzi tutto procurarsi il sale — 476 — Pb(NO;): Pb(NO:). 2Pb(OH)..2H:0 puro, ciò che ci riuscì facilmente ri- cristallizzando dall'acqua calda il sale di Merck precedentemente ricordato. Il sale cristallizzato in grandi scaglie cristalline, di colore giallo-solfo, aveva la seguente composizione: °/o PbO °/o NO, °/o N totale Trovato. .. LR 80 8,10 4,90 Calcolatoto «1005 ibis 8,02 4,89 Se ne fece una soluzione saturandone a 12-18° l'acido acetico 0,25 n. La soluzione gialla così ottenuta fu analizzata. A questo proposito notiamo che essendosi osservato non potersi usare il solito metodo di Raschig, in presenza dell’acido acetico, per dosare il residuo nitroso NO3, si applicò invece con buon risultato il metodo Lunge, lasciando cadere il nitrito (dopo eliminato il piombo) nel permanganato 1/1 n. scaldato verso 50° ed acidificato con H,S0,; 20 cm? di soluzione contenevano gr. 1,0935 di PbO, 0,1086 di NO; e 0,0698 di azoto totale, ossia Pb:NO;=1:0,481 Pb:N=1:1,013. Questa soluzione servì per determinare le variazioni di concentrazione del piombo, di NO} ed NO; al catodo ed all'anodo durante l'elettrolisi. È noto in fatti che queste determinazioni forniscono indizi preziosi intorno alla co- stituzione dei sali. L'apparecchio usato era lo stesso già descritto dal dott. Borelli nel suo interessante lavoro sulla costituzione di alcuni composti mercurici (’) e rap- presentato schematicamente nella tig. 1. Era costituito cioè da quattro tubi di vetro tenuti insieme per mezzo di armature metalliche, e costituenti quattro scompartimenti, separati da diaframmi di carta pergamenata, compressa tra i dischi metallici delle armature. La soluzione da studiare riempiva gli scom- partimenti mediani II e ITI, mentre gli estremi I e IV, aperti superiormente, (*) R. Accademia delle Scienze di Torino, Memorie, Serie II°, 4°. 58, (1906-07) pagg. 48-56, fig. 6. — 477 — e separati il I dal II ed il IV dal III mediante i diaframmi, contenevano gli elet- trodi di platino liscio in una soluzione di acetato di zinco, della stessa densità della soluzione studiata (1,057). Questa disposizione è necessaria per evitare che la soluzione di nitrito e nitrato venga a contatto degli elettrodi, dove gli ioni NOZ ed NO; subirebbero alterazioni tali da non permettere alcuna conclusione dalla variazione delle loro concentrazioni. Questa esperienza pre- liminare si fece elettrolizzando la soluzione per un'ora e 10’ con un'intensità di circa 0,100 Amp.; nel voltametro ad argento intercalato si depositarono gr. 0,4722 di Az. corrispondenti a 7,040 Amp. minuti. Terminata l’elettrolisi, furono raccolti separatamente i liquidi dei quattro scompartimenti, ne furono misurati i volumi, e dalle analisi di diverse por- zioni si dedussero i seguenti valori: — gr. PbO gr.NO’s |gr.Ntotale| Pb:NO', Pb: N N:N0/ Nello spazio I anodico | 0,0279 | 0,0303 | 0,0353.| 1:5,206 | 1:20,09 | 1:0,261 ” » II ” 3,778 0,3929 | 0,2653. | 1:0,5042 | 1:1,12 1:0,4504 ” » I4II O) 3,8009 | 0,4232 | 0,3006 | 1:0,5379| 1:1,2627| 1:0,4294 ” ” III catodico | 3,715 0,8456 | 0,2014 | 1:0,450 | 1:0,861 | 1:0,5233 ” ” IV ” 0,2521 | 0,0012 | 0,0007&)| 1:0,0230| 1:0,046?| 1:0,5 ? » » IIH+IV » 3,967] | 0,8468 | 0,2021 | 1:0,4233| 1:0,809 | 1:0,5234 Nella soluzione positiva .. . — —_ — 1:0,481 | 1:1,013 | 1:0,4748 (*) L’azoto totale non si potè determinare, perchè troppo poco; si ammise quindi che fosse passato solo per diffusione ed in quantità tale che N: NO'2=1:0,5. Questa 1 esperienza orientativa mostrava già che l’ione NO;, o le mo- lecole neutre Pb(NO»),, non formano cationi complessi col piombo, poichè nella soluzione di acetato di zinco dello spazio IV catodico era passato tanto poco NO; rispetto al piombo immigrato da doversi ammettere che al passaggio di NO; avesse contribuito solo la diffusione. L'analisi della soluzione di acetato di zinco dello spazio anodico I dimostra che vi sono immigrati più ioni NO; che NO;, come risulta dal rapporto N:N0;, e che quindi questi due ioni si muovono, per lo meno nella massima parte, indipendentemente uno dall'altro, ed in modo corrispondente alla più forte dissociazione del Pb(NO;), ed alla maggiore mobilità dell’ione NOs. La quantità di piombo trasportata nello spazio I, se non esclude che il piombo faccia parte di anioni complessi, mostra tuttavia che la corrente deve venire trasportata solo in piccola proporzione da tali ioni. Le variazioni di concentrazione degli spazî II e III confermano le pre- cedenti deduzioni, mostrando che gli ioni NO; ed NO; si muovono verso l'anodo e che gli NO; migrano dallo spazio catodico in quantità maggiore degli NO;, come si vede dal confronto dei rapporti N: NO, nelle soluzioni I +II, Renpiconti. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 61 — 478 — III +IV e nella primitiva. Nelle soluzioni II e III questo rapporto s'è pure spostato nello stesso senso, ed i rapporti Pb:NO, e Pb:N hanno nella soluzione anodica un valore minore, nelle catodiche maggiore che nella primitiva, poichè dall’anodo emigra il piombo verso il catodo ed in- sieme con questo anche dello zinco, che entra dallo spazio I nel II. Nello stesso tempo migrano gli ioni NO; ed NO; dallo spazio III nel II ed in quantità maggiore del piombo che esce. Quindi anche restando neutra la so- luzione II, vi si trova più NO; ed NO; che non corrisponda al sale neutro Pb, poichè il rimanente dei cationi è dato dallo zinco. Analogamente si può dire dello spazio III catodico dove sono immigrati dallo spazio IV degli anioni acetici, in quantità maggiore degli ioni acetici usciti, poichè nella soluzione III gli ioni acetici non contribuiscono che in piccola parte al tras- porto della corrente positiva. La presenza di acetato di piombo nella solu- zione di nitrato e nitrito, rende meno chiari i risultati delle esperienze, poichè non è esclusa la possibilità che si formino ioni complessi per azione dell’acetato sul nitrato e sul nitrito, e poichè anche l’acetato prende parte al trasporto della corrente. Perciò nella seguente esperienza si adoperò una soluzione ottenuta mescolando due soluzioni di Ph(NO:): e di Pb(NO:). puro in rapporti tali che la soluzione risultante fosse 0,1 tanto rispetto a Pia Pb(NO:): 2 che rispetto a . Essa fu analizzata, e si trovò che conteneva 0,2232 gr. PbO in 10 cm’, 0,08989 NO; in 20 cm? e 0,0568 gr. di azoto totale in 20 cm3. Nella soluzione si avevano quindi i rapporti Pb:NO; = 1:0,975; Phb:N = 1:2,02. Il nitrito aveva subìto una leggera ossidazione, ma il rap- porto N:NO,=1:0,483 era sufficientemente vicino ad 1:0,5, come si ri- chiederebbe per la formazione dell'iponitrito o di un anione complesso [NO,.NO;]". La densità della soluzione era 1,0265 a 17°. Fu elettroliz- zata nello stesso apparecchio usato precedentemente. Lo spazio I e IV con- tenevano al principio dell'elettrolisi 100 cm? di una soluzione di acetato di zinco della stessa densità della soluzione di piombo. Di quest’ ultima solu- zione si introdussero 73 cm? nello spazio II e cm? 72 nello spazio IIT. Gli elettrodi erano di platino, e l’anodo era immerso nella soluzione I, il ca- todo nella IV. Dopo l’elettrolisi si fecero uscire i liquidi più completamente che fosse possibile, e si ottenne dallo spazio I cm? 100, dal II 72, dal III 71,8 e dal IV 98 cm?. Da questi dati sembra anzi tutto che non abbia avuto luogo elettrostenolisi, poichè in questo caso avrebbe dovuto aumentare il volume della soluzione catodica. L'analisi delle singole soluzioni diede i seguenti risultati: — 479 — gr. BDO gr. NO" | gr. N | Pb: NO” | Pb:N N: NO” Nello spazio I anodico 0,0187 0,0375 0,0351 | 1:9,65 1:29,80 | 1:0,3809 ” ” II D) 1,4470 0,3120 0,2032 | 1:1,045 | 1:2,280 | 1:0,468 » » I+I » 1,4657 0,3493 0,2383 | 1:1,155 | 1:2,581 | 1:0,447 prima della elettrolisi . . . 1,6293 0,3281 0,2074 | 1:0,975 | 1:2,02 1:0,483 DittencnzA ORTO — 0,1636 |4+- 0.0212 |4- 0,0309 Nello spazio III catodico 1,5060 0,3024 0,1775 | 1:0,972 | 1:1,871 | 1:0,519 ” ” IV ” 0,2574 0,0015 0,001 2| 1:0,028 | 1:0,06 ? — » » II+IV » 1,7634 0,3039 0,1776 | 1:0,835 | 1:1,607 | 1:0,5197 prima della elettrolisi . . . 1,607 0,3236 0,2045 | 1:0,975 | 1:2,02 1:0,483 IDTIOROIZA d o ao 0 e dio + 0,1564 |— 0,0197 |— 0,0269 — o => , | gr. PbO | gr. NO, gr. N totaie In tutta la soluzione ( prima dell'esperienza 3,236 0,6517 0,4119 erano contenuti dopo l’esperienza 3,229 0,6532 0,4120 Questi ultimi dati mostrano anzi tutto che i risultati delle esperienze sono attendibili. Il disaccordo osservato deriva oltre che dagli errori anali- tici, dalle piccole quantità di liquido rimaste aderenti alle pareti ed ai diaframmi. La più forte discordanza del piombo devesi attribuire al fatto che una piccola parte di esso si sarà depositata al catodo insieme allo zinco. In fatti anche l’anodo era coperto d'un sottilissimo strato di PbO., ciò che dimostrava che il piombo c'era arrivato, almeno prevalentemente, per diffusione. L'esame degli altri dati conferma le deduzioni dell'altra esperienza. Risulta cioè che cationi complessi contenenti NO; non prendono parte al trasporto della cor- rente, e che quindi il nitrato e nitrito di piombo non formano un sale com- plesso (Pb NO): NO; o [Pb(NO:): Pb]: (NO:): come si sarebbe potuto dubitare. In fatti nello spazio catodico IV non si trova che quel po' di NO; che può esservi passato per diffusione. Il rapporto N:NO, nelle diverse soluzioni, mostra che gli ioni NO; prendono parte molto più forte che gli ioni NO, al trasporto della corrente negativa, e che quindi queste due specie di ioni possono coesistere una in presenza dell'altra senza dare anioni complessi come [NO; . NO;]" o dell’acido iponitrico (NO;)" o [N:0;]" ecc. Non è escluso però che pochi anioni di questo genere stiano in equilibrio con una forte quantità di ionì liberi NO3 e NOs. — 180 — Per quanto la quantità di piombo passata nello spazio anodico fosse relativamente piccola rispetto a quella degli anioni, non si può tuttavia escludere che, oltre la diffusione, abbiano contribuito anche anioni complessi contenenti piombo, a trasportare questo metallo dallo spazio II al I. Per vedere se effettivamente il nitrato si combina al nitrito, sia pure in piccola proporzione, per dare anioni complessi, ciò che non si poteva esclu- dere dalle precedenti esperienze, si ricorse ad un ingegnoso metodo usato con successo da Miolati (*) nello studio degli acidi complessi. Esso consiste nel determinare le variazioni della conducibilità elettrica specifica della soluzione di un sale, quando l’acqua di detta soluzione venga sostituita con quantità crescenti della soluzione, di determinata concentrazione, di un altro sale. Se i due sali sì combinano per dare una combinazione complessa, la conduci- bilità specifica varierà secondo una certa funzione della quantità della solu- zione aggiunta. Quando però si sarà aggiunto tanto del secondo sale, quanto corrisponde alla formazione del sale complesso, per ulteriore aggiunta del secondo sale la conducibilità aumenterà, ma secondo un'altra funzione, diversa dalla prima, poichè sarà diversa la natura e la quantità degli ioni formati per ogni volume della soluzione aggiunta. La curva che rappresenta la va- riazione della conducibilità, col variare della quantità del sale II aggiunto alla soluzione di una determinata quantità del sale I, presenterà quindi una variazione di direzione nel punto in cui nella soluzione si hanno quantità dei due sali che stanno tra loro nello stesso rapporto che nel sale complesso formato. Il flesso indica dunque, non solo la formazione del sale complesso, ma, essendo note le concentrazioni ed i volumi delle soluzioni adoperate, anche il rapporto in cui ha luogo la combinazione dei singoli sali. È evi- dente che questo metodo, che è sostanzialmente lo stesso, usato già da Koblrausch, Whithney, Miolati ecc., come indicatore per determinare la ba- sicità degli acidi, non darà risultati netti che quando non abbia luogo con- temporaneamente più d'un processo di combinazione tra i componenti, e quando il composto formato non sia labile. Nel nostro caso fu preparata una serie di soluzioni, ottenute mescolando Pb(N0.): 10 cm3 di una soluzione di 3 0,113 n. con volumi crescenti da . Pb(N03)» 2 0, 1, 2,8, ecc. a 14 cm? di una soluzione 0,151) n. di , e diluendo tutti i diversi miscugli a 25 cm?. La conducibilità di queste soluzioni fu misurata circa 12 giorni dopo la preparazione, poichè altrimenti, come fu dimostrato dal Miolati, le determinazioni possono dare risultati erronei, in causa della lentezza con cui si formano certe combinazioni complesse. Nella tabella seguente sono riportati i risultati delle misure eseguite. Nella prima (*) J. f. pr. Chem. N. F. 77, pag. 417 (1908). — 481 — serie sono riferiti i cm? della soluzione di Ph(NO:):;» 0,15 n. contenuti in 25 em? di ogni soluzione. E trovandosi costantemente in questo volume di soluzione 10 cm* di soluzione 0,113 n. di Pb(NO»):,2, così per ogni solu- zione, contenente x cm? di Ph(NO;): si calcola quante mol. 2 di Pb(NO;). n 000015 0,0011353 I valori di questo rapporto sono dati nella terza serie; # sono le con- ducibilità specifiche in Ohm. rec. intern. a 25°. si trovano per 1 mol. di Ph(NO»),, secondo l’espressione 4 = Cm? Pb(NO;)? 0,152 0 1 2 3 4 5 6 7 2.108 2,9061 3,3435 3,7716 4,1947 4,6577 5,0831 5.5129 5,3982 Mol. Pb(NO,), per 1 mol. Pb(NO),), (0) 0,1327. 0,2555 0,3982 0,5309 0,6637 0,7964 0,9292 Cm? Pb(NO,)? 0,15% 8 9 10 11 12 13 14 2.108 6,484 6,846 7,240 7,650 8,066 8,497 8,902 Mol. Pb(NO,), per 1 mol. Pb(NO,), MOLO A 9A 7169274 6020005 92088817256, 1,8934 La curva della fig. 2 ha per ascisse il numero dei cm? di Pb(NO:):, per ordinate le conducibilità specifiche. La linea punteggiata incontra ad an- golo retto l'asse delle ascisse nel punto in cui la composizione della solu- zione corrisponde al rapporto Ph(NO;): : Pb(NO-), = 1:1. E la stessa linea incontra la curva quasi nello stesso punto in cui essa presenta una varia- zione nell’andamento. La curva però, nell’andamento generale, si scosta assai poco da una retta, quale dovrebbe essere se i due sali non agissero uno sul- l’altro. Quindi si può dedurre che per la maggior parte il nitrato ed il ni- trito sono liberi nella soluzione, come viene confermato dalle precedenti esperienze. Di più la curva non ha l'andamento tipico del caso in cui si formi un solo composto complesso, poichè in tal caso essa sarebbe costituita da due tratti di retta che formano un angolo più o meno ottuso nel punto corrispondente alla composizione del sale complesso. Qui invece pare si ab- biano due tratti di curva che si incontrano nel punto considerato, ciò che lascerebbe supporre che non fosse un singolo fenomeno che influenza la con- ducibilità, ma che avesse luogo una reazione più complicata. Ad ogni modo, coincidendo la variazione d’andamento della curva col rapporto Pb(N0O;).: Pb(NO;),=1:1, è probabile che, quantunque in piccola proporzione, si formi un sale complesso con tali proporzioni di componenti. Ed essendosi reso poco probabile con le precedenti esperienze che si formino cationi complessi, si dovrebbe dedurre che esiste un anione complesso contenente NO; ed NO; nel rapporto 1:1, e quindi la possibilità che l’ione formato sia uno di quelli del- l'acido iponitrico (NO:)”,(NO,)”" o (N:0;)" 0 (N40) o simili. Non si può — 482 — da un semplice indizio abbastanza vago venire a deduzioni concrete, ma ri- tengo che valga la spesa di cercare con ulteriori studî la conferma. della possibilità ora intravvista. Se in fatti si potesse con certezza dimostrare la esistenza di un anione risultante dalla combinazione degli ioni NOS ed NO{ È i du [o (0 (RE iis Hi (D A —> x.103 ——>» cm.3 Ph(N03)2 nel rapporto 1:1, si presenterebbe un altro problema molto interessante, e non ancora risolto, se cioè sia possibile che nello stesso ione possa coesistere l'azoto tri- e pentavalente, come per es. (NO, . NO;)”, o se questo non si debba trasformare tosto nel suo isomero (N»0;)" dell'azoto tetravalente od in un altro ione dell’acido iponitrico. E perciò ho appunto intenzione di prose- — 433 — guire queste ricerche. Ora, prima di finire, ricorderò che ho anche tentato di ottenere allo stato solido il nitrato-nitrito neutro da soluzioni contenenti Ph(NO:); e Pb(NO:), nel rapporto molecolare. Le soluzioni furono ottenute facendo agire i vapori nitrosi (sviluppati da HNO; d. 1,3 con As,0;), che secondo Lunge devono contenere NO ed N:0;, ossia poco NO, con un eccesso di NO, sull'idrato di piombo in so- spensione nell'acqua raffreddata con ghiaccio. In questa reazione, già speri- mentata da Fritzsche (*), l’idrato di piombo si scioglie facilmente, dando una soluzione gialla, che si scompone facilmente sviluppando NO. Per limi- tare la scomposizione, si arrestò l’azione dei vapori nitrosi quando ancora si aveva un residuo di ossido di piombo indisciolto. In una di tali soluzioni si trovò che Pb: NO, = 1:1,1135 e Pb:N=1:1,972; in un'altra Pb:NO,=1:1,194 e Pb:N= 1:1,992. Per evaporazione sull’acido sol- forico a — 10° + 6° si separarono grossi cristalli di colore giallo-ambra, trasparenti, apparentemente ottaedrici. Contenevano 68,06 LO ZIONO RIA NO;, ossia Pb: NO;= 1:0,1285. Da un’altra soluzione evaporata allo stesso modo, ma a 15°-20°, si se- pararono diverse frazioni di cristalli simili ai precedenti; la seconda frazione conteneva 69,67 °/0 PbO e 4,90 °/, NO, Pb:NO=1:0,341. Anche l’analisi di altri cristalli ottenuti da una soluzione contenente un eccesso di Pb(NO:). non diede migliori risultati. Non si ottenne cioè alcun composto definito, ma dei miscugli di nitrato e nitrito neutro in pro- porzioni diverse, e con meno nitrito di quanto corrisponderebbe al composto Pb(NO;), . Pb(NO:): cercato. Da queste esperienze sembra quindi che anche il composto, al quale secondo Gomès e Gerhardt (*) spetterebbe la formola 3Pb N;0, . Pb N;0; .4H;0, non sia che un miscuglio, come già aveva am- messo Peligot. Resterebbe ora a spiegare come, contrariamente al comportamento dei sali neutri, si formino così facilmente i nitrati-nitriti basici in presenza di un eccesso di ossido di piombo. Si potrebbe pensare che solo in presenza ' di ioni OH' sia stabile l’anione dell'acido iponitrico, per es. NOY o N:04”, il quale anche per effetto di una piccola concentrazione di ioni H' si scom- porrebbe nel senso 2N04 + 2H' — NO; + NO; + H,0. Ma per verificare questa supposizione si richiedono altre esperienze, che intendo appunto di eseguire. (1) J. pr. Chem., 79, 179. (3) C. R. 34, 187. J. B. 1852, pag. 396. — 484 — Chimica — £Equlbri negli stereoisomeri della santonina (*). Nota di Mario Levi-MALVANO e Antonio MANNINO, presentata dal Socio PATERNÒ. Nella ricca serie dei derivati della santonina studiati dal Cannizzaro e dai suoi allievi, s'incontrano fra altri due gruppi interessanti di stereo- isomeri: gli acidi santonosi e le desmotroposantonine. L'acido santonoso contiene due atomi di carbonio asimmetrici, non simili; teoricamente dovreh- bero dunque esistere i quattro isomeri ea lo CAPI due a due antipodi, e i due inattivi (d, da aloe (Ad; 22,0 db) Inoltre potrebbero esistere le quattro forme parzialmente attive (di do ’ d, la) = 79 di (d, da sli ds) = Ada (Zi la, dh 9) = 7, lb (4 la; li de) — MM La desmotroposantonina contiene, secondo la formola più probabile, tre atomi di carbonio asimmetrici dissimili: dovrebbero dunque esistere otto forme attive e quattro inattive, e potrebbero esistere ventiquattro forme par- zialmente attive. Alla possibile esistenza di questi cosiddetti « racemi parziali » accennò pel primo E. Fischer (?), il quale però da esperienze fatte con acidi man- nonico e gluconico ottenne risultati negativi. Invece il Ladenburg (*) ed i suoi collaboratori ottennero: 7-pirotartrato di chinina, racemato di stricnina, 7-bitartrato di f-pipecolina. Oltre questi tre composti che, come sali, si possono considerare come un caso speciale nella categoria dei racemi parziali, il solo A. Andreocci (*), per quanto ne sappiamo noi, ottenne un racemo parziale per fusione e suc- cessiva cristallizzazione dall'alcool, o per semplice cristallizzazione della mi- scela di due acetildesmotroposantonine stereoisomere, una destrogira fusibile (*) Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico della R. Università di Roma. (*) Ber. chem. Ges. 27, 3225, 1894. (8) Ber. Chem. Ges. 31, 927, 1898; 32, 50, 1899. (4) Gazz. chim. it. 29, a. 513, 1899. Mii — 485 — a 156°, l’altra levogira fusibile a 154°, però non appartenenti alla medesima coppia di antipodi. F. Millosevich (') dice che ottenne da questo racemo bei cristalli con faccie che si prestano a discrete misure: sono emimorfi e appartengono al sistema monoclino; invece delle due forme attive, che generano il racemo parziale, una sola, trimetrica, si mostrò adatta a misure cristallografiche: dall'altra, malgrado ripetuti tentativi con diversi solventi, non fu possibile ottenere che aghi sottili non terminati all'estremità. Gli altri racemi ottenuti nel gruppo della desmotroposantonina sono: la desmotroposantonina e l'acetildesmotroposantonina inattive, che si ottennero in cristalli piccolissimi inadatti a misure goniometriche; l'etildesmotroposantonina racemica, pure non studiata cristallografica- mente; una sola delle due forme attive, la etilisodesmotropo fu ottenuta in tavole monocline emimorfe. In conclusione ritroviamo qui il caso, molto frequente in chimica orga- nica, della difficoltà di sapere con certezza se le combinazioni inattive sono veri racemi o conglomerati o pseudoracemi. Questa difficoltà ha provocato appunto alcuni anni or sono una discussione (°) sui criterî più adatti alla diagnosi degli inattivi, e se ne concluse che i migliori metodi siano le mi- sure cristallografiche e le determinazioni di peso specifico, ma che, sia per l'uno che per l’altro, nella grandissima maggioranza dei casi manca il mate- riale adatto ad ottenere risultati netti. In seguito a ciò, il Roozeboom mostrò come la determinazione delle curve di solubilità e delle curve di fusione delle miscele dei due enantiomorfi per- metta di stabilire rigorosamente l’esistenza di un racemo nei limiti di tem- peratura, che comprendono quelle curve. Dopo di lui G. Bruni (*) indicò nella determinazione delle curve crioidratiche di miscele di racemi e dei loro componenti, un altro metodo adatto alla diagnosi deglilinattivi nei limiti delle temperature crioitratiche. Adriani (4) poi mostrò come lo stesso metodo usato con solventi fusibili a temperature diverse permetta di stabilire entro limiti abbastanza ristretti di temperatura il punto di transizione di un racemo. Questi metodi, pur così sicuri e fecondi, non hanno finora provocato molti lavori sperimentali: noi ne conosciamo soltanto uno di Centnerswer (5), due di Adriani (°), uno di Smits (Lieb. Ann. 325. 344 (1902)) e uno di Bruni (Gazz. Chim. 35. B. 111). Tutti studiano casi di stereomeri a uno e a due atomi (1) Rend. Acc. Lincei, 17; 17 gennaio 1904. (3) v. Ladenburg, Ber. chem. Ges. 32, 864. (3) Rend. Acc. Lincei, 1899, 332, 4 aprile. (4) Z. phys. 36, 168, 1901. (5) Z. phys. ch. 29, 715, 1892. (5) Z. phys. ch. 33, 415, 1900 e 36, 168, 1901. RenpiIconTI. 1908, Vol. XVI, 2° Sem. 62 — 486 — di carbonio asimmetrici. Nell'intento di aumentare il materiale sperimentale intorno a quest'argomento, noi abbiamo studiato alcuni casi nel gruppo della desmotroposantonina a tre atomi di carbonio e dell'acido desmotroposanto- noso a due atomi di carbonio asimmetrici. In questa prima Nota comunichiamo i risultati ottenuti colle miscele degli stereomeri seguenti: i 1. Iso- e levoacetildesmotroposantonina. 2. Acetildesmotroposantonina e acetillevodesmotroposantonina. 8. Acetildesmotroposantonina e acetilisodesmotroposantonina. 4. Acido desmotroposantonoso e acido levodesmotroposantonoso. 5. Acido desmotroposantonoso e acido isodesmotroposantonoso. Il caso dell'acido desmotroposantonoso è particolarmente interessante per le seguenti ragioni. L. Francesconi nella sua bella monografia sulla santo- nina dice che dell'acido desmotroposantonoso si conoscono tre isomeri ottica- mente attivi: IAcllisosantonosot tit sREMane N Nile LA —N700 Ac. levosantonoso . . .. . . an=— 74.p.f.=179° Ac. desmotroposantonoso . . . ap=— 59.p.f.= 179° Supponendo ora d, > ds e che gli acidi destro e levo formino la coppia d'antipodi (dda), (la la), l'acido desmotropo corrisponderebbe a /, d:; mancherebbe perciò solo d, la. Però A. Andreocci, per una serie di buone ragioni, di cui ci limitiamo a ricordare questa, che i cristalli del derivato etilico dell'acido presentano uno sviluppo di forme perfettamente oloedrico, propendeva a credere che l'acido desmotroposantonoso fosse un racemo parziale; e in questo caso potrebbe rappresentarsi col seguente schema a l+dle= Uso La costruzione di un diagramma di stato non può qui risolvere rigoro- samente la questione, perchè manca una delle due forme attive: può però aiutare a risolverla. L'apparecchio adoperato per la determinazione del punto di fusione delle miscele era costituito da una provetta immersa in un bagno d'olio di vase- lina; tanto la provetta quanto il bagno muniti di agitatore e di termometro. Il termometro, immerso nella provetta, era diviso in quinti di grado. Le miscele eran fatte partendo da una quantità pesata di una delle due forme e aggiungendo ogni volta una quantità pesata dell'altra forma, fondendo il tutto ed eseguendo la determinazione sul miscuglio risolidificato. — 487 — Noi intendiamo per punto di fusione la temperatura in cui spariscono gli ultimi cristalli del solvente. Nei casi da noi studiati questo punto si poteva osservare molto bene procedendo con precauzione, arrestando per qualche minuto la temperatura un grado circa sotto il punto di fusione osservato una prima volta con approssimazione, e aumentando poi la temperatura molto lenta- mente di quinto in di quinto grado, col tenere il termometro esterno un paio di gradi solo al disopra del termometro interno. Ogni determinazione, del resto, era ripetuta due volte. Nel raffreddamento si osservò in genere una surfusione di quattro a cinque gradi, la quale cessava però solo agitando il liquido continuamente; lasciando il liquido in riposo, la surfusione durava fino a temperatura ordi- naria non solo, ma si otteneva una gelatina limpida, trasparente, uguale in apparenza al liquido. Iso- e levoacetildesmotroposantonina. Furono preparate secondo Andreocci (!), e purificate per ripetute cri- stallizzazioni dall'alcool; si ottennero in cristallini bianchi prismatici, lu- centi. Gn Do ERI nOA | (E 154° [loggia D 154° 152 to VO 150 Fa BEDnZz 7 150 148 DR ARE Sim SA 148 ERA 146 I le LL 1 LI 144 142 142 140 140 138 VAT 138 Bate TNCORS ARRE Fa AIUIIUIIIIIIII 0 25. 100 Diagramma I. I dati e i risultati ottenuti sono raccolti nella tabella seguente e ripor- tati nel diagramma I; nella seconda colonna della tabella ci sono le quan- tità adoperate delle due forme attive 4 ed / in grammi, nella terza le stesse quantità in percentuali nella quarta le temperature di fusione /° osservate. (*) Gazz. chim. it. 28, t. 529, 1898. — 488 — ——________——A@hk& E i=-__ _# ——=="="=**#*}+*+*}}+*} QUANTITÀ ADOPERATE PERCENTUALE 0 i su — 100 0 (153,6 ea: _ 100 0 l 158,8 2 1,4508 0,2445 86 14 146,6 3 1,3142 0,2602 83,5 16,5 Le 4 1,3142 0,4024 77 23 53 5 1,3142 0,6586 67 38 11005 6 1,3142 0,9320 58,5 41,5 14404 7 1,3142 2,0795 39 61 oe 8 0,3450 1,4976 18,5 81,5 ni 9 0,1450 1,4976 9 91 Lo n ni 2g VENI 10 | e. Come punto di fusione del racemo è stato ammesso 145°, valore dato da Andreocci. I due punti eutectici furono osservati un paio di volte, disponendo le cose in modo che la temperatura nel bagno di olio di vaselina discendesse regolarmente di un grado al minuto, e badando che la cristallizzazione della miscela cominciasse presto e procedesse regolarmente: tutte e due le volte il termometro immerso nella miscela, disceso già fino a 137°, risalì fino a 138°, e vi si mantenne costante per qualche minuto riprendendo poi 2 discendere regolarmente. Come si vede dal diagramma, la reciproca solubilità del racemo con ciascuna delle due forme attive è quasi uguale. Teoricamente dovrebbe il corpo con punto di fusione più basso, in questo caso il racemo, essere più solubile. Questo, che è un fenomeno generale in un sistema di due corpi, è stato verificato da Centnerswer e da Adriani nei casi da loro studiati, con differenze però di punto di fusione più forti assai che non quella presente. Acetildesmotroposantonina e acetillevodesmotroposantonina. A. Andreocci (1. c.) ottenne da questi due stereomeri il racemo parziale studiato da F. Millosevich. I dati da noi ottenuti, riportati nel diagramma II, dimostrano che nei limiti delle curve di fusibilità i due stereomeri non dànno altro che miscugli. — 489 — Nel diagramma II e nella tabella, / rappresenta l’ acetillevodesmotropo, e l' l’acetildesmotroposantonina. CO0”dic BI i 4888000558 “ee ae Te eZ 154 sa veste dee LZ. E 150 bra lata ANA 44 150 148 TRI |A 148 CA EN SSODONI:NIIRZIZINII, 1 m DI AI LEAL I 144 o ELL ENCE LGS SS. 808 fn LEE EINTEDBOIIZO 506546 188 SN | 138 136 IDEE NE EN cea 136 cr LOBSSS o SSN”. 0A CECI EgENA /&£0 005 = LEE O LOL INEINE[ Ce IL 180 128 EEN NO AES {) Bc 128 LDL G OE siEENVBIL Loss GENESI BED EEN EMNO nanna 70! RAI IA DI BARS 70 «Las Za È CO Bea eee 66 Ea ]e9e5E0]7] 0 25 50 100 Diagramma II. QUANTITÀ ADOPERATE PERCENTUALE —€@€©—€@—=È—=—=©=@—__—_—________—t1lk111111___—————m6 te l V l y 1 de a 100 0 1549,6 2 12366 | 0,8356 67,6 324 i eo 3 1,6138 1,1440 58,5 41,5 15102 4 1,2366 0,9888 56,9 43,1 15192 5 1,1518 1,1440 49,9 50,1 3 Lo 6 0,8752 1,1440 438 56,7 0, P 7 0,6214 1,1440 35,2 64,8 Lc 8 0,1838 1,0422 14,9 85,1 15192 9 0,1838 1,1440 13,8 86,2 151°,6 10 ui pi 0 100 156,6 — 490 — Il diagramma mostra come i due stereomeri considerati non diano altro che miscugli. La curva di solubilità dell’acetildesmotroposantonina si com- pone di due rami, il primo dei quali ha l'andamento di una curva di solu- zioni solide. Poichè le indicazioni di un diagramma di stato non sono va- lide che per i limiti di temperatura compresi nelle curve di fusibilità, po- teva darsi che il racemo parziale di Andreocci fusibile a 142° esistesse a temperature inferiori. Per continuare la nostra ricerca abbiamo dunque applicato il sopra ri- cordato metodo di Bruni, scegliendo come solvente la naftalina. Abbiamo anzitutto esaminato la curva di fusibilità dell’acetillevodesmotroposantonina colla naftalina e determinato il punto e la concentrazione eutectica di questa curva. Preparata poi una soluzione eutectica corrispondente, abbiamo aggiunto della acetildesmotroposantonina. Poi abbiamo preparato una soluzione eute- ctica di naftalina e di miscuglio inattivo, e abbiamo a questa aggiunto del- l’acetillevodesmotroposantonina. Trattandosi di un racemo parziale si sarebbe dovuto determinare la curva intieramente. Ci si contentò della metà, perchè il punto eutectico del miscuglio acetildesmotroposantonina +- naftalina risultò vicinissimo a quello del miscuglio acetillevo + naftalina. I risultati ottenuti sono raccolti nella seguente tabella, in cui, senza tener conto della quantità di solvente adoperata, sono riportate solo le proporzioni reciproche delle due forme attive. QUANTITÀ ADOPERATE PERCENTUALE i to I l l V 1 — — 100 0 709,6 2 0,2806 0,0394 87,7 12,3 699,6 3 0,2806 0,0980 75 25 689,6 4 0,3893 0,2569 60,2 39,8 689,6 5 0,2569 0,2569 50 50 71° I dati sono riportati nella curva INI del diagramma II, che mostra net- tamente l’esistenza di un racemo, il cui punto eutectico è 71°, poco supe- riore quindi al punto eutectico della forma attiva; è un caso simile a quello delle soluzioni di canforossima in fenantrene studiato da Adriani. Il racemo parziale di Andreocci, fusibile a 142°, esiste dunque intorno ai 70°, e prima di 142° o intorno a 142° si trasforma in miscuglio; a 144°,6 certamente non esiste più altro che il miscuglio delle due forme attive. Il caso di passaggio da racemo a conglomerato era stato descritto teoricamente da Roozeboom, ma non ancora studiato sperimentalmente. — 491 — Acetildesmotroposantonina e acetilisodesmotroposantonina. Furono preparate secondo Andreocci. L'acetilisodesmotroposantonina, pre- parata trattando con anidride acetica e acetato di sodio la isodesmotropo- santonina trattiene volontieri un poco di questa sostanza, sicchè, mentre nel solito tubicino per punti di fusione pare una sostanza pura nel nostro appa- recchio sì comportava come un miscuglio, con punto di fusione di parecchi gradi più basso del normale. Noi l'abbiamo sempre accuratamente purificata, trattandola a freddo con soluzione di soda al 3-4 °/o, che scioglie la levo- desmotroposantonina e lascia l’acetilderivato, e cristallizzando questo tre 0 quattro volte dall'alcool. La stessa cosa si dica dell’acetillevoderivato; anzi per questo è neces- sario assolutamente far bollire la miscela di levodesmotropo con anidride acetica e acetato di sodio non solo mezz'ora, come prescrive Andreocci, ma due o tre ore, finchè il liquido non si sia colorato fortemente in bruno; se no si ha sempre un prodotto molto impuro, I risultati ottenuti sono raccolti nella seguente tabella e nella curva II del diagramma II, la quale dimostra che nei limiti delle curve di fusibilità non esistono che miscugli. =<><*=>=>=—=—>*""==“=-=“== = ==——————————————____—-; QUANTITÀ ADUPERATE PERCENTUALE 3 d v d v ce e 1 L 2 100 0 1530,6 2 | 1,3052 0,1208 91,6 8,4 0 ail Mi 07e0 0,3680 74,6 254 a) 4 | 0,8680 0,3680 70,8 29,7 i o 5 | 1,0760 0,5780 641 34,9 o 6 | 1,0760 0,7738 582 ani 7. | 10760 0,8900 54,8 45,2 i, 8 | 1,0760 1,0844 49,8 se 9 | 1,0760 1,2148 47 53 RA lo. | 1,0760 14472 12,7 58 11 | 03612 0,7888 81,4 68,6 I Dot 12 | 0,1540 0,7888 16,8 di na 13 DE Lo 0 100 | 15696 Diagramma III. Acido desmotroposantonoso e acido levodesmotroposantonoso. j) 180° 162 I risultati sono riportati nel diagramma II. QUANTITÀ ADOPERATE PERCENTUALE t° | l l l 1 li i 100 0 175° 2 0,9160 0,1970 89,4 17,6 167° 164° 3 0,9160 0,2906 76 24 1 [e] 4 0,9160 0,3906 70,2 29,8 10, 5 0,9160 0,4950 ‘65 35 1569,6 (e) 6 0,9226 0,8426 52,3 47,1 vu 7 0,6000 0,6000 50 50 151° 8 0,7420 0,7404 49,8 50,2 151° 9 0,7420 0,8426 46,9 53,1 1539,6 155° 10 0,6000 0,7404 448 552 O, 11 1,0044 0,3032 23,1 76,9 16794 12 Do Do. 0 100 180° — 493 — L'acido desmotroposantonoso è il preteso racemo parziale; l'acido levo- desmotroposantonoso dovrebbe essere uno dei suoi componenti. Se il diagramma avesse rivelato l’esistenza di un composto equimole- colare, si sarebbe avuta la dimostrazione che l’acido desmotroposantonoso non è un racemo parziale, entrando esso stesso 2 costituirne uno. Il dia- gramma invece non mostra che miscugli. Il racemo può però esistere a temperature inferiori, e noi ci riserviamo di estendere la ricerca in questo senso. La linea punteggiata nel diagramma indica l'andamento della curva calcolato coll’ipotesi che l’acido desmotroposantonoso sia veramente un ra- cemo parziale. Acido desmotroposantonoso e acido isodesmotroposantonoso. Anche qui i due stereomeri non dànno che miscugli, come si vede dal diagramma IV. Diagramma IV. | QUANTITÀ ADOPERATE PERCENTUALE È O Psi MST Hi d 1 —_ — 100 0 175° 2 1,0592 0,5523 65,8 34,2 156°,4 3 0,7150 0,6000 544 45,6 152° 4 0,6000 0,6000 50 50 154° 5 0,7150 0,8540 45,6 54,4 1569,4 6 0,7150 1,9440 26,8 73,2 167° 7 2 pers 0 100 180° RenpIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 63 — 494 — I risultati ottenuti si possono così riassumere: 1. Resta stabilita l'esistenza dell’acetildesmotroposantonina racemica. Ci proponiamo di esaminare ancora l’esistenza della desmotroposantonina inattiva, la quale sarebbe generata dall'unione della isodesmotroposantonina che fonde a 188° e ha potere rotatorio = + 129,7, e della levodesmotropo- santonina, che fonde a 194° ed ha potere rotatorio = — 139,4. I due costituenti non appartengono quindi alla stessa coppia di anti- podi, e il prodotto della loro combinazione molecolare dovrebbe essere un racemo parziale. Andreocci ne parla invece come di un racemo normale, e colloca i due componenti nella stessa coppia perchè tutti i loro derivati si comportano come antipodi. 2. È stata stabilita l'esistenza del racemo parziale di Andreocci in- torno ai 70° e il suo passaggio a conglomerato a temperature superiori. 3. Sono stati studiati altri tre sistemi di conglomerati. Chimica. — 7 cieloesano come solvente crioscopico (1). Nota di Luici MASCARELLI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota fa seguito a quella dallo stesso titolo già pubblicata in questi Rendiconti (?). Il cicloesano impiegato venne acquistato dalla ditta Poulenc Frères di Parigi: esso fu purificato secondo le indicazioni di Sabatier, cioè dibattendolo convenientemente con un miscuglio di acido solforico e di acido nitrico della densità voluta. Si usò come solvente la parte bollente a 81°-81°,5, che so- lidificava a + 69,2. Le ricerche ora compiute, sebbene non siano ancora state estese a tutte quelle classi di sostanze, che ho intenzione di esaminare, permettono già di trarre alcune conclusioni notevoli. Riassumerò qui brevemente i risultati prin- cipali senza riportare i dati sperimentali relativi, i quali richiederebbero uno spazio troppo grande: mi riservo quindi di pubblicare altrove per esteso i particolari. La costante di depressione molecolare del cicloesano (X = 208) era già stata stabilita nella 1 Nota (loc. cit.); ora posso aggiungere altre determi- nazioni, che la riconfermano; infatti : Corpi sciolti Media del valore di % Naftalina 1.3. e 0 o 09 EterefmetilnonilicorRe ee e ENO 00 tere kmetileaprili come e RO (09 Here metileptilico RAMI 6 Etere metilcapronico 0 EMMI Determinazioni fatte nella 18 Nota . . . . 208 Mediajgenerale . . . 200 (‘) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica Generale della R. Università di Bologna. (*) 16, I, 942. — 495 — Rimane per tal modo confermato che il valore della costante d'abbas- samento molecolare del cicloesano è assai elevata, e viene stabilita essere = 200. Dopo ciò venne presa in esame una serie di sostanze appartenenti alle varie classi seguenti: 1) derivati alogenati; 2) alcoli; 3) ossime; 4) fenoli; 5) chetoni; 6) acidi carbossilici; 7) amidi e amilidi; 8) nitroderivati. Naturalmente questa scelta venne fatta per mettere meglio in evidenza il comportamento del cicloesano come solvente crioscopico. Tutte le sostanze qui usate furono acquistate dalla fabbrica Kahlbaum di Berlino e vennero convenientemente purificate. I. Derivati alogenati. — Sperimentai per ora solo con p-diclorobenzolo e con tribromofenolo simmetrico. Appare però dai risultati avuti che i de- rivati alogenati hanno comportamento normale, cosa che era previdibile. È da notarsi che il tribromofenolo ha comportamento normale sebbene contenga un ossidrile nella molecola, e per questo è in contradizione col comporta- mento di tutte le altre sostanze ossidrilate finora studiate (vedi in seguito). Occorrono altre ricerche per interpretare questo comportamento, ed al riguardo è bene osservare che il prof. Paternò (') ebbe valori quasi normali per la stessa sostanza sciolta in benzolo. II. Alcoli. — Vennero usati l'alcool amilico terziario, l’alcool amilico di fermentazione, l’alcool butilico secondario, l’alcool isobutilico, il mentolo ed il borneolo. Tutti quanti, quando vengono sciolti in cicloesano, presentano quella stessa anomalia crioscopica, che mostrano quando vengono sciolti in benzolo o in altri idrocarburi (vedi i celebri lavori di Raoult, Paternò, Beckmann ed altri). Già a concentrazioni assai piccole (inferiori a 1°/o) si hanno valori pei pesi molecolari quasi doppî del teorico, e tali valori cre- scono assai rapidamente colla concentrazione. Il fenomeno di associazione (poichè questa è la spiegazione che si suole ammettere per tali anomalie) è quindi molto manifesto: anche qui valgono in buona parte le osservazioni già fatte da Biltz per sostanze analoghe sciolte in benzolo. Secondo Biltz (*), (!) Gazz. Chim. It., 1889, 640. (®) Zeit. f. phys. Ch., 29, 249 (1899). — 496 — la capacità degli alcoli a dare, in soluzione concentrata, pesi molecolari più grandi, dipende dalla loro grandezza molecolare; inoltre su ciò pare che influisca anche la posizione dell'ossidrile. Egli dimostra questo graficamente in modo assai chiaro con un sistema di rappresentazione già proposto da Auwers. Il numero di alcoli ora adoprati non è sufficiente per risolvere tale questione, e però mi riservo di continuare lo studio in proposito. III. Ossime. — In generale le ossime non sono solubili in cicloesano, o lo sono troppo poco, perchè sia permesso di compiere tal genere di ri- cerche. Difatti la piperonaldossima, la metanitrobenzaldossima e l’isonitroso- canfora si mostrarono praticamente insolubili nel cicloesano al suo punto di solidificazione. Potei invece eseguire determinazioni colla canforossima, colla carvonossima, coll’acetofenonossima. In tutti i casi ebbi valori anormalmente elevati pei pesi molecolari, e ciò fin dalle più piccole concentrazioni. Queste sostanze quindi presentano in modo spiccato anche nel cicloesano il fenomeno di associazione. IV. Fenolî. — Dopo i risultati precedenti, che dimostrano come il ci- cloesano si comporti analogamente al benzolo, era facile prevedere che i fe- noli dovevano anch'essi dare valori pei pesi molecolari superiori al teorico. E per vero l'o-cresolo, il m2-cresolo, il p-cresolo, il timolo [e il fenolo: vedi Nota 12] mi diedero valori tutti anormalmente grandi. Insolubili si trova- rono: l’a- e 8-naftolo, la floroglucina, la pirocatechina, l’idrochinone, l’eu- genolo. Finora i varî sperimentatori trovarono sempre che i corpi di natura fenolica sono associati se sciolti in idrocarburi: però è da notare che l’asso- ciazione in benzolo od in naftalina non presenta valori così elevati come nel cicloesano. Giacchè, mentre il prof. Paternò (!) trovò che il timolo sciolto in benzolo si mostra lievemente associato, nel caso mio l'associazione è ben spiccata. Anche il fatto riscontrato da Auwers (*), che il valore della ano- malia cambia colla diversa posizione dell’ossidrile, perchè i derivati orto sono pressochè normali, mentre i para fortemente anomali ed i meta lo son meno dei para, ha qui una certa conferma: le tre serie di derivati mostrano anomalie che stanno fra loro in quel rapporto voluto da Auwers. V. Chetoni. — Sino ad ora le sostanze contenenti il gruppo chetonico sì mostrarono, nella maggior parte dei casi, normali, se sciolte in idrocar- buri; solo talvolta si ebbero anomalie, le quali vennero spiegate ammettendo l’esistenza di forme enoliche accanto a quelle chetoniche propriamente dette. Nel caso del cicloesano invece, osserviamo una anomalia spiccata e costante già fin dalle piccole concentrazioni, anomalia che potrebbe essere attribuita alla presenza di forme enoliche, se tale fenomeno non si verificasse anche in (*) Gazz. Chim. It., 1889, 640. (*) Ber. d. deut. ch. Ges., 28, 2878. — 497 — quei casi in cui la forma enolica mal si concilia colla costituzione della so- stanza. È questo il caso del benzofenone. Evidentemente qui, oltrechè l'associazione prodotta dalla presenza del- l’ossidrile enolico, deve intervenire una associazione delle molecole chetoniche ; ed io non sono alieno dal pensare che nello stesso modo che si ammette possa avvenire l'associazione delle molecole degli acidi carbossilici (che sono sempre associati in idrocarburi) secondo lo schema: R È 0H CORNA COOH Nod R È \OH anche pei chetoni possa ammettersi l'accoppiamento secondo uno schema analogo: R_R Ro È (OMO (si RO È È I chetoni con cui sperimentai sono: l’acetone, il metiletilchetone, l'ace- tilacetone, l'etere acetacetico, l’acetofenone, il benzofenone, l’o-metilcicloesa- none, il p-metilcicloesanone. Il fenantrenchinone ed il benzoino sono inso- lubili in cicloesano. i Un tale comportamento per i chetoni, fa supporre che anche le aldeidi saranno in grado di fare altrettanto. È quanto sto cercando ora. VI. Acidi carbossilici. — Anche nel cicloesano gli acidi carbossilici si comportano come in tutti gli altri idrocarburi usati finora in crioscopia: sono cioè associati fin dalle più piccole concentrazioni. Ciò si riconobbe stu- diandovi il comportamento dell’acido acetico e dell'acido benzoico. L'acido salicilico non è solubile. VII. Amidi e anilidi. — Purtroppo le amidi sono sostanze quasi in- solubili in cicloesano, ciò che non permette di far le misure; così l'aceta- mide, la propionamide ecc. non si sciolgono. Neppure le anilidi vi sono fa- cilmente solubili. Potei fare letture colla sola metilacetanilide, la quale si mostrò normale (concentrazioni inferiori a 1°/). VIII. Nitroderivati. — Dagli studî precedenti risulta che i nitroderi- vati, sia aromatici, sia grassi, hanno comportamento normale se sciolti in idrocarburi; almeno se si opera a piccole concentrazioni. Nel cicloesano in- vece sono tutti più o meno associati, e questa associazione cresce abbastanza rapidamente colla concentrazione. Così si comportarono il nitrobenzolo, l’o-nitrotoluolo, il m-nitrotoluolo, il p-nitrotoluolo, il nitrometano, il nitro- etano, — 498 — In generale i nitroderivati non sono molto solubili in cicloesano; i po- linitroderivati poi lo sono meno ancora: così l'acido picrico, il cloruro di pi- crile sono insolubili. Come appendice faccio qui seguire alcune ricerche da me fatte sull’uso del cicloesano in ebullioscopia. Queste misure, unitamente ad altre in corso, fanno parte di un gruppo di determinazioni rivolte a stabilire se i valori anormalmente alti ottenuti pel peso molecolare del cicloesanoue sciolto in cicloesano (*) siano da attri- buirsi a formazione di soluzione solida, oppure alla presenza di ossidrile (che sì originerebbe per tautomeria dal cicloesano), oppure a polimerizzazione do- vuta al gruppo chetonico. Nella determinazione della costante di innalzamento molecolare vennero impiegati i seguenti composti: Corpo sciolto Media del valore di % Naftalina.. tr... 0. Benzile. i. (ile 200 Difenile ,.., 33. i 0 RR 2/80 BenzoatoNfenilico MAE 27000 Media generale . . . 27,58 Le misure ebullioscopiche compiute riguardano per la maggior parte sostanze chetoniche; ma non essendo tale ricerca così avanzata da permet- tere considerazioni generali, mi riserbo di ritornare quanto prima su questo argomento. CONCLUSIONE. Il numero di corpi studiati e specie quello delle varie classi non è an- cora sufficiente, perchè si possano trarre quelle conclusioni a cui intendo giungere col proseguimento di tale studio. Ad ogni modo quello che per ora con certezza appare è che il cicloesano non è un buon solvente crioscopico, cioè tale da poter servire per determinare i pesi molecolari di sostanze ignote, e questo perchè, oltre a non eliminare i fenomeni di associazione pre- sentati dalle sostanze ossidrilate e dalle carbossilate, presenta ancora feno- meni di associazioni per altre e sopra tutto pei nitroderivati e per i chetoni. Il cicloesano quindi è da ritenersi fin d'ora come un solvente associante in modo anche maggiore di quanto si avvera pel benzolo e la naftalina, tale cioè che non riesce a scindere completamente, neppure a diluizioni assai grandi, quei complessi molecolari che invece si trovano scissi negli altri sol- venti finora ritenuti associanti. (') Mascarelli e Benati, Gazz. Ch. It., 37, II, 527. — 499 — Fisica. — Intorno all’azione della luce ultravioletta su d’uno spinterometro. Nota di R. MARZETTI, presentata dal Corrispon- dente A. BATTELLI. Questa Nota sarà pubblicata in un prossimo fascicolo. Ghimica — ZVettrolisi della santonina e dei suoi derivati. Nota di ERNESTO PANNAIN, presentata dal Socio S. CANNIZZARO. In una serie di ricerche, eseguite per studiare l’azione della corrente elettrica sopra alcune sostanze organiche in diversi solventi, ho voluto vedere quali trasformazioni potessero subire la santonina e i suoi derivati. Una soluzione di 10 gr. di santonina in 150-180 cc. di acido acetico, diluita con 100-120 cc. di acqua, fu sottoposta all’azione della corrente ge- nerata da quattro accumulatori in serie; servirono da elettrodi un cono di platino per analisi elettrolitiche come catodo e un cilindro ugualmente di platino di cm. 3,5 di diametro e 4 di altezza come anodo. La tensione agli elettrodi era di 7-8 volt e la intensità di corrente di 0,2-0,3 amp. Al passaggio della corrente si notava un lento sviluppo di gas ad en- trambi gli elettrodi; il liquido leggermente ingialliva, anche evitando l’azione della luce, e, dopo 4-5 ore, una sostanza bianca depositavasi sul cono, an- dando poi a cadere sul fondo del recipiente. Dopo 20-30 ore si raccolse sopra un filtro la sostanza (oltre 5 gr.), si lavò con acido acetico diluito e poi con acqua, e si seccò nel vuoto. Era una polvere leggermente gialliccia, molto solubile in benzolo e poco in alcool e in etere, dai quali solventi fu purificata, per successive cristal- lizzazioni. Il punto di fusione e l'analisi elementare dimostrarono che era Santonone. L'azione della corrente elettrica sulla soluzione di santonina in acido acetico diluito determina la riduzione del gruppo CO e la condensazione di due molecole con eliminazione di acqua. — I Questo risultato mi indusse ad estendere l’esperienza ad altre sostanze organiche nelle medesime condizioni. Eseguii l’elettrolisi del benzofenone, sciogliendone 2 grammi in 20 ce. di acido acetico e diluendo con 10 cc. di acqua. Ne ottenni il Benzo- pinacone. Allo scopo di completare lo studio dell’elettrolisi delle soluzioni di sostanze organiche in acido acetico, sia con elettrodi di platino che di altro metallo, ho in corso esperienze sopra derivati della santonina e sopra altre sostanze (acido santonico, artemisina, canfora, derivati della purina, ecc.). A lavoro compiuto ne farò noto il risultato, insieme a quello delle elet- trolisi delle soluzioni alcaline della santonina e dei suoi derivati, non avendo ancora identificati i prodotti ottenuti. Chimica. — Sui prodotti di ossidazione dell’artemisina. Nota di EnRICO RIMINI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. Questa Nota sarà pubblicata in un prossimo fascicolo. Geologia. — Nummwuliti oligoceniche di Laverda nel Vicen- tino. Nota di Maria RavaGLI, presentata dal Socio CaRrLO DE STEFANI. Il materiale in istudio, appartenente alla collezione del fu senatore Andrea Secco, collezione che ora si trova nel Museo di geologia di Firenze, mi fu consegnato dal dott. Canestrelli, che si occupò della fauna di Val di Laverda (Canestrelli, Revisione della fauna oligocenica di Laverda. Atti dell’Ac- cademia dei Lincei, vol. XVI, ser. 52, fasc. 8°, Roma 1907). Le nummuliti, in parte isolate, sono in ottimo stato di conservazione; anche i caratteri esterni si possono studiare benissimo. La serie ascendente degli strati in Laverda sarebbe, secondo Oppenheim (Die Priabonaschichten und ihre Fauna, pag. 13, Paleontographica, 1900- 1901): . Mame con Nummulites laevigatus Lam. Spilecco. Eocene inferiore. . Banchi a Pachiperna Suessi Oppenh. . Calcari a Mummulites intermedius d'Arch. . Conglomerati di Laverda . Calcare ad Zchine Marne di Laverda Tufi di Gnata e Sangonini Tufi superiori di Sangonini con Trochus Lucasianus Brogn. Oligo- cene medio. Priaboniano. Oligocene. — 501 — Oppenheim ritiene dunque che il calcare contenente le nummuliti ap- partenga all’Eocene superiore o Priaboniano; si vedrà invece come esso rap- presenti il vero Oligocene, che perciò a Laverda, anche secondo le. osserva- zioni del prof. De Stefani, riposerebbe direttamente e con discordanza sul- l’Eocene inferiore, rappresentato dalle marne di Spilecco a N. laevigatus Lam., le quali sono talora verticali e in parte rovesciate sopra l’Oligocene. Le specie nummulitiche trovate sono in numero di otto con qualche va- rietà. Già Oppenheim ( Veber die venetianischen Nummuliten Tertiàrs, 1894, Berlin) ne cita tre, cioè: Bruguieria intermedia d'Arch. ” Fichteli Mich. Paronea vasca Joly et Leym. Aggiungo la: P. Boucheri de la H. ” ” var. variabilis Parisch. » Bouillei de la H. » Laverdae n. sp. » Fichteli var. Vialei Pariscn. » Fabiani Prever. ” ” VAADATONE » sub Fabiani. ” ” var. B. n. Le specie indicate sono generalmente associate tra di loro in tutte le località oligoceniche del Piemonte e dei Colli Berici; l'habitat di alcune di esse è assai esteso; per es. la N. Bowcheri var. va dall'Eocere superiore allo Stampiano. Le B. intermedia e Fichteli, eccettuate poche varietà indeterminate di quest’ultima, cominciano dal Tongriano e risalgono allo Stampiano; si trovano tutte in molte località del Piemonte e del Veneto. La P. vasca si ritrova nel Piemonte, a S. Croce, Monte Rivarossa e Giara (Tongriano inferiore): nel Veneto, a Monte Grumi presso Castel Gom- berto, Mossano, ecc. La P. Boucheri nel Piemonte a Gassino, nel Veneto a Mossano, San- gonini, Crosara, Porto S. Felice presso Verona. Anche la P. Boucheri var. variabilis è comune a Grognardo, Ponzone, Lerma nel Tongriano medio e superiore. Le B. Fichteli e intermedia si trovano nelle località Oligoceniche pie- montesi di Sassello, Carcare, Dego Cassinelle, Costalupara (Tongriano e Stampiano), si ritrovano anche a Gassino in un piccolo banco sabbioso- arenaceo alla Costa Battaina nella strada di Tondenito, immediatamente sotto un conglomerato tongriano, al quale piano, secondo alcuni autori, dovrebbe RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. i 64 — 502 — appartenere anche il calcare a dette nummuliti. La 28. Fichteli var. Vialei Parisch è comunissima a Cassinelle con le specie accennate. La sub Fabiani, che quasi certamente non è altro che la N. proble- matica Tellini, fu, da questi, trovata a Gassino alla Costa Battaina, proba- bilmente nel Tongriano: ma essa si trova anche nell’Eocene superiore a Pria- bona e nel Bartoniano a Biarritz; è accompagnata a Laverda dalle specie citate del Tongriano, P. vasca, Boucheri, B. intermedia, Fichteli. La P. Bouillei si trova predominante nei terreni oligocenici. Il piano dunque che racchiude queste nummuliti è in Piemonte e nel Veneto il 7ox- griano; in base a questi dati concludo essere anche gli strati nummulitici di Laverda appartenenti al Tongriano. Tra i fossili raccolti non ritrovai alcun individuo di Orbditoides. Paronea Boucheri (de la Harpe) 1879. (Tav. I, fig. 1). 1853. Mumm. vasca (pars) d’Arch. — Monogr. d. Numm., pag. 145, tav. IX, fig. 12. 1880. ”» Boucheri de la Harpe. — Htude des Numm. de la Suisse, pag. 179, tav. VII, fig. 35-39. 1888. ” » ” — Tellini, Numm. dell'A. It. Occ., pag. 208. 1906. ” ” ” — Parisch, Di alcune Numm. e Orb., pag. 81 fig. 33-35. Diam. 3-3,5 mm.; spessore 1-1,8 mm. Giri 4-5. Setti 5-6 in !/, del secondo giro. » 7-8 » dell'ultimo giro. Piccola nummulite lenticolare, rigonfia, con superficie coperta di strie nettamente visibili, diritte o poco ricurve. Nella sezione orizzontale la spira sì presenta regolare o sub-regolare, a passo ampio, crescente come 1 a 1/3. Lamina sottile, che cresce poco durante tutto il corso; camera centrale cir- colare; le due prime camere seriali semilunari addossate alla centrale. Setti sottili, alti, poco inclinati, generalmente molto ricurvi nella metà superiore; sono anche leggermente flessuosi. Camere alte, falciformi: gli esemplari di Laverda corrispondono a quelli descritti dal de la Harpe e differiscono da quelli di Gassino, descritti dal Tellini, per la lamina, che nei miei esemplari è molto sottile, e che invece in quelli raggiunge quasi per lo spessore l’al- tezza delle camere. Si trova comune presso Possagno, a Mossano, Sangonini, Crosara, Brendola ecc. P. Boucheri var. variabilis Tell. (MavAK fio 2): 1877. Numm. striata var. alpestris de la Harpe. — Note sur les Numm. des Alpes Oce. Soc. Helv. S. Nat. Lausanne. 1888. D) variabilis Telll Numm. terz. Al. It. Occ., pag. 88, tav. VIII, fig. 7 a,c. 1906. Paronea Boucheri var. variabilis Tell. — Parisch., Di alcune Numm. e Orb. ecc., pag. 81, tav. I, figg. 36-40. Diametro 1,8-2,5 mm., spessore 0, 7-0,9 mm. Giri 4-5. Setti in numero di 3-4 in !/, del secondo giro. ” ” ” 5 ” n terzo » — 503 — Superficie ornata di strie nettamente visibili, raggianti dal centro. Nella sezione orizzontale si vedono 4 o 5 giri a passo crescente in piccolo rapporto. Lamina a spessore regolarmente crescente dal centro al margine; in media è uguale a metà o un terzo dell'altezza delle camere. Setti inclinati, quasi diritti, a foglietti settali,. per lo più distinti, che divaricano un po' all’in- contro col soffitto, e formano nell'insieme un piccolo triangolo. Camera cen- trale circolare, prima camera seriale caratteristica, soemilunare; le altre ca- mere regolari. Comune a Laverda. P. vasca Joly et Leym. 1848. (Tav. I, fig. VII). 1853. Numm. vasca J. et Leym. — d'Arch. et H., Monogr., pag. 145, tav. IX, fig. 11 a, d,d, n. llc. 1883. » » ”» ” — de la Harpe, ftude Numm. Suiss., pnr. III, pag. 177, tav. VII, fig. 24-32. 1788. D) D) D) ” — Tellini, Numm. dell’A. It. Occ., pag. 193. 1956. ”» » ” » — Parisch, Di alcune Numm. Orb., pag. 80, tav. I, fig. 28-32. Dimensioni 8 mm. Giri 7-8 Setti in num. di 8 in !/, del quarto giro. ” ” O UIala » settimo » Conchiglia lenticolare, rigonfia, con strie talvolta diritte, talvolta forte- mente contorte verso il centro. Spira regolare crescente come nella forma a megasfera. La lamina, di spessore circa 1/3 o ’/ dell'altezza delle Joggie, cresce, ma molto lentamente. I setti sottili sub-regolari si allontanano man mano che si va verso la periferia ; sono poco inclinati, ricurvi nella parte superiore, un poco flessuosi. Si presenta molto simile alla compagna a megasfera. Si trova a Monte Grumi presso Castel Gomberto, Mossano, Laverda, Monte Rivarossa, ecc. P. Laverdae n. sp. (Tav. I, fig. 9). Diam. 4 mm., spessore 1,8 mm. Giri 6-7. Setti in num. di 3 in !/, del terzo giro. ” ” » 5°» » quarto » ” ” » 9-6 » » quinto » Nummulite lenticolare, leggermente rigonfia al centro. Giri 7, con passo crescente nei primi giri come 1 a 1,5, nel sesto giro con rapporto minore; l'ultimo giro è doppio del precedente. Setti un po’ inclinati alla base, ricurvi molto nella parte superiore in modo da formare un semicerchio. La loro — 504 — estremità superiore affilata tappezza la volta delle camere. La lamina spirale ha spessore eguale ad '/3 dell'altezza delle loggie, che cresce dal centro al margine. Manca la camera centrale, ed altre sono alte, falciformi. La super- ficie è liscia, con strie poco visibili. Questa specie è molto vicina alla Mumm. Bowillei de la Harpe (Etudes des Numm. suisses ecc.), ma presenta la lamina più spessa, i setti meno nu- merosi e inclinati alla base. Il numero dei giri è inoltre maggiore. Si potrebbe riavvicinare alla ZMantX. Crispa Ficht et Moll. figurata dal Prever (Ze Numm. della Forca di Presta e dei dintorni di Potenza, tav. IV, figg. 28-31); ma i setti sono meno numerosi e inclinati, mentre in quella sono diritti, perpendicolari alla loro lamina e più numerosi. Rara a Laverda. P. Bouillei de la Harpe 1879. 1879. Numm. Bouillei de la Harpe, Mumm. Falaises de Biarritz. Bull. S. de Borda. a Dax, pag. 142, tav..1, fig. 1-3. 1906. Paronea » » » Parisch, Di alcune Numm. e Orb. ecc., pag. 78, tav. I fig. 25-26. 1908. Numm. ” » » Fabiani, Paleont. Colli Berici, pag. 52. Dimensione 3,7-4 mm. Giri 5-6. Setti in num. di 4 in !/, del terzo giro. ” ” » 6-7 » » quinto » Nummulite di forma lenticolare, pochissimo rigonfia verso il centro; sulla superficie scorrono leggerissime strie. La spira è sub-regolare, a svolgimento rapido, poichè il passo cresce nel rapporto di 1 a 1/, nei giri centrali, nel quinto giro in rapporto mag- giore, circa 1 a 2. La lamina spirale ha spessore crescente dal centro con regolarità; nel quinto giro lo spessore è massimo. Devo notare che esso è maggiore negli esemplari di Laverda che în quelli descritti dal de la Harpe. I setti sono alti, sottili, perpendicolari, diritti alla base; circa a metà della loro altezza si incurvano molto e tappezzano visibilmente le camere, che sono alte e falciformi. Rara a Laverda. Bruguieria Fichteli Mich. 1841. (Tav. I, figg. 3, 6). 1841. Numm. Fichteli Mich., Saggio stor. Rizop. Caratt., pag. 44, tav. III, fig. 7. 1853. ” ” » D’Arch. et H., Monogr. ecc., pag. 100, tav. III, fig. 5. 1853. » garansensis Leym. D’Arch et H. Monogr., tav. II, fig. 7-9, non 6a. 1888. » Fichteli Mich. Tellini, Numm. dell'Al. It. Occ., pag. 220. 1906. Br. ” »Parisch. Di alcune numm, e Orb. ecc., pag. 87, tav. II, fig. 17-23. Diametro 4-4,5 mm., spessore 0,9 mm. Giri 7. Setti in num. di 5 in ?/, del quarto giro. L) L) » 7-3 n » settimo » — 509 — Nummulite piana, ricoperta alla superficie da un reticolo molto evidente. Le maglie sono talvolta regolari, spesso invece formano una rete irregolare. La specie tipica mostra sette giri, con andamento un po’ flessuoso e sub- regolare; il passo è già grande alla camera centrale e aumenta poco in seguito; molto spesso è costante. La lamina è di spessore pochissimo crescente, sottile o discretamente ingrossata, uguale circa alla metà dell'altezza delle loggie; nel punto d'at- tacco dei setti mostra un piccolo ispessimento. I setti sono sottili, poco in- clinati, quasi diritti 0 leggermente flessuosi, rari; formano camere basse e larghe; è visibile il rivestimento dei setti sulla volta della camera. Camera centrale sub-circolare grande, prima e seconda camera seriale semilunare. Molto comune a Laverda. B. Fichteli var. Vialei Parisch 1906. 1906. Brug. Fichteli var. Vialei. Parisch, Di alcune Numm. e Orb. ecc, pag. 87, tav. II, fig. 20-23. Dimensione, numero di giri e setti come la precedente. Presenta per altro una maggiore regolarità nella spira, la camera centrale più piccola, inoltre il passo aumenta dal centro alla periferia lentamente, ma in rapporto maggiore che nella specie tipica, dove il passo è quasi costante. Lo spessore della lamina è inoltre molto più forte. B. intermedia d'Archiac. 1846. 1858. Numm. intermedia d'Archiac et H., Monogr. ecc., pag. 99, tav. III, fig. 1906. ” O) ” Parisch, Di alcune Numm. e Orb., pag. Dimensione 9 mm. Giri 12-16. Setti 9 in ‘/, della spira a '/, del raggio. » 9-11 alla periferia. Superficie ornata di reticolo ben manifesto a maglie sottili, piccole, irregolari, allungate nella direzione del raggio. Spira regolare a passo cre- scente regolare, costante per gli ultimi tre o quattro giri. Lamina sottile al centro; lo spessore cresce debolmente ed è massimo negli ultimi tre 0 quattro giri. Setti diritti e quasi perpendicolari alla lamina nel centro, un poco inclinati e un poco ricurvi alla periferia. Le camere isodiametriche al centro sono in generale più larghe che alte negli ultimi giri. Questa specie, trovata nei calcari marnosi di Biarritz, nel Nizzardo, nel Piemonte, nel Vicentino è rappresentato anche a Laverda da numerosi indi- vidui. Devo però notare che sono molto diversi da quelli descritti dal Tellini e dalla Parisch, per il passo più ampio, i setti più alti, diritti, inclinati. — 506 — Numm. Fichieli Mich. var. problematica Tellini 1888. B. sub-Fabiani Prever 1904-1905. (Tav. I. figg. IV, V, VIII. 1853. Mumm. Fichteli Mich. de la Harpe, Monogr. der Aegypt. Numm. ecc., pag. 37, tav. VI, figg. 23-28. 1888 ” var. problematica Tellini. — Numm. ters. dell’Al. It. Occ., pag. 222. 1904-1905. 5. sud Fabiani Prever. — Fabiani, Studio geopaleont. Colli Berici, pag. 15. 1906. B. sud Fabiani Boussac. — Developp. et morpholog. de quelques Foram. de Pria- bona, pag. 87, tav. IV, fig. 7. Bull. Soc. Geol. Fr., ser. 4, tomo VI. Diam. 3-4 mm., spessore 0,9-1 mm. Giri 5. Setti in num. di 5 in !/, del terzo giro. ” ” » 6-7 » » quinto » Nummulite lenticolare, con superficie ornata di reticolo a maglie grandi rettangolari, disposte in serie circolari con i lati maggiori nella direzione del raggio. Si osserva lo stato di reticolo a maglie rettangolari date dall’inter- sezione della linea rilevata, che parte dal centro della conchiglia e descrive una spirale simile all’interna, con la lamina calcarea, che Boussac chiama la- mina transversa. Nella sezione orizzontale si vedono cinque o sei giri a passo crescente; anche la lamina sottile al centro cresce con regolarità. I setti sono sottili, poco ricurvi e poco inclinati; all'incontro di essi con la lamina a spirale si vede un ispessimento, cosicchè le camere isodiametriche, o un poco più larghe che alte, hanno il soffitto a vòlta. Corrisponde bene alla N. Fichteli Mich. descritta dal De la Harpe (op. cit) che sono di parere di riunire con la sub-Fabiani Prever, come la forma corrispondente a microsfera descritta dallo stesso De la Harpe fu riunita alla Yabiani Prever. Difatti tanto l'una che l’altra differiscono per gli stessi caratteri dalle Wichteli, intermedia tipiche del Piemonte e del Veneto. Si trova a Priabona ed è comune a Laverda. La N. problematica, che Tellini considera come varietà della Yichéeli, credo non sia che la N. sub- Fabiani Prever, nel qual caso il nome del Tellini dovrebbe essere preferito ; il numero dei giri, il passo ampio, i setti alti, la distinguono dalla Yiehteli tipica e la avvicinano alla suò-Fabiani. Unica differenza sta nella mancanza in questa di reticolo, che invece si vede benissimo ed è caratteristico nel- l'altra. Il Tellini dice come essa si riavvicini molto alla figura della Wichreli descritta dal De la Harpe, che, come dissi, non deve essere che la sub- Fabiani. VaxWB. n. Dimensioni 2,5-3 mm., spessore 0,6 mm. Giri 5. Alcuni esemplari della sub-Fabiani presentano un numero minore di giri, spirale a passo più ampio, setti più spessi e lamina a spirale anche a — 5907 — spessore maggiore. Per la costanza di questi caratteri in molti esemplari, credo poterli separare dalla sub-Fubiani tipica. B. Fabiani Prever 1905. (Tav. I, fig, 10). 1905. Brug. Fabiani Prever (in litt.) Fabiani. Colli derici. Nota Prev., pag. 1824. 1906. ” » Prever, / terr. numm. di Gassino e Biarritz, Nota 2°, pag. 13. 1906. Numm D) Boussac, Foram. de Priabona. Bull. S. G. Fr., ser. 4, vol. 6, pag. 88, tavv. I, III, fig. 6. 1908. ” ”» Prev.. — Fabiani, Paleont. Colli Berici, pag. 40. Dimensione 7-8 mm. Giri 9-13. Nummulite piana, con superficie ornata di reticolo a maglie disposte regolarmente come nella forma a megasfera, oppure irregolarmente. Si osser- vano anche numerose piccole granulazioni. Nella sezione orizzontale si vedono da 9 a 12 giri per lo più regolari; il passo è crescente costantemente dal centro. I setti sono sottili, poco spessi, diritti, perpendicolari o quasi alla lamina e formano camere più alte che larghe, qualche volta isodiametriche e raramente più larghe che alte. Comune a Laverda. Devo alla gentilezza del dott. Fabiani alcuni esemplari di MVumm. Fabiani di Priabona, che mi servirono per confronto. I miei esemplari diffe- riscono da quelli, specialmente per la spira a svolgimento leggermente più rapido e per i setti più numerosi e diritti. MardeA-m. (Tav. I, fig. 11). Diametro 5-7 mm. Gini: Riunisco in questa varietà diversi esemplari a foglietti settali reticolati, di forma lenticolare pianeggiante, che presentano 9 giri con caratteri uguali a quelli della specie tipica. Hanno per altro dimensioni minori (5-7 mm.), passo crescente più rapidamente in rapporto di 1 a 1/,: di conseguenza le camere sono più alte. Rappresenta la forma a microsfera della varietà B della sud-Fubians. Comune a Laverda. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE (V. tav. seguente). I. Paronea Boucheri De la Harpe . . . Laverda Ingrandim. 10 II. ” ” var. variabilis Tell . ” ” III Brugnieria Fichteli Mic... .. . ” ” IV. ” sub-Fabiani Prever . . . ” ” Wo » » (superficie) . . » ” VI. » chicMich e e. D) D) VII. ” vasca Joly et Leym. . . . ” D) VIII. Brugnieria sub-Fabiani Prever . . . ” ” IX. Paronea Laverdae n... °°... ” ” X Brugnieria Fabiani Prever . . . . . ” ” Di ” ” MBIRVATIGATNI — 509 — Petrografia. — Ricerche su rocce eruttive basiche della Sar- degna settentrionale. Nota del dott. AURELIO SERRA, presentata dal Socio G. STRUEVER. Geologia — Nuove ricerche geologiche sul nucleo centrale delle Alpi carniche. Nota di P. Vinassa pe ReGny e M. Gor- TANI, presentata dal Socio T. TARAMELLI. Geologia. — Zenomeni di erosione accellerata nel pliocene di val Tronto. Nota del prof. R. ALMAGIA, presentata dal Socio G. DALLA VEDOVA. Fisiologia. — Sulla sopravvivenza alla doppia vagotomia e sulla rigenerazione del N. Vago. Nota del dott. MARIO Camrs, presentata dal Socio LUCIANI. Fisiologia. — Sulle alterazioni del miocardio in seguito alla vagotomia. Osservazioni di segmentatio cordis speri- mentale. Nota del dott. Mario Cams, presentata dal Socio L. Lu- CIANI. Queste Note saranno. pubblicate in un prossimo fascicolo. Patologia vegetale. — Sulla propagazione della Selerospora macrospora Sace. per mezzo della sementa di frumento. Nota: del dott. VirroRIO PEGLION, presentata dal Socio G. CuBONI. Le grandi infezioni di peronospora del frumento, manifestatesi nei semi- nati della Campagna romana negli anni 1900, 1901-02-04; nel territorio di Este nel 1904-06, ed in diverse località della provincia di Rovigo nella scorsa primavera, stanno ad indicare che realmente l'infezione stessa accade allor- quando il frumento resta sommerso per un tempo più o meno lungo durante la sua vegetazione. Si potrebbe forse anche precisare nel senso che le infe- zioni diffuse e disastrose accadono allorquando il frumento stesso resta som- merso prima della tallitura. Su questa condizione indispensabile io ebbi a richiamare l’attenzione degli agricoltori sino dai miei primi studî su questa dannosissima infezione e, riferendomi alle condizioni agrologiche delle te- RenpicontI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 65 — 510 — nute della Campagna romana ove quella fu scoperta per la prima volta, in- dicai la cannuccia da padule — crescente sulle scarpate — ed altre grami- nacee spontanee, come perenne focolaio d'infezione per i circostanti terreni, nei quali i germi di Sclerospora macrospora verrebbero ad essere trascinati durante le piene del fiume od il semplice rigurgito dei fossi. Ma nelle altre località ove sono avvenute estese infezioni peronosporiche dei seminati, manca la cannuccia oppure essa non presenta i caratteristici scopazzi, così diffusi invece nelle pianure a valle di Roma. Era logico supporre che in tali condizioni la sorgente dei germi del parassita sì dovesse ricercare nella eventuale immissione ‘nel terreno di paglia, strame pula, od avanzi di cespi peronosporati rimasti a marcire sul terreno stesso. Per quanto questa ipotesi non abbia ancora ricevuto la sanzione dell’espe- rimento, pur tuttavia essa rimane plausibile. Tuttavia le osservazioni che ho compiute nei frumenti peronosporati, raccolti nella scorsa estate nelle campagne polesane, mi pongono in grado di additare un altro modo di propagarsi del- l'infezione peronosporica; esso è collegato alla presenza di micelio di .Scle- rospora macrospora in seno ai tegumenti delle cariossidi, originatesi in spiche peronosporate ma che hanno subìto solo parziale castrazione parassitaria. È noto infatti che i cespi infetti assai precocemente — prima dell’in- verno — di solito si esauriscono colla emissione di innumerevoli getti che rapidamente si clorotizzano e disseccano. Se l'infezione è più tardiva, se cioè essa accade quando già è iniziata la tallitura normale, un numero va- riabile di culmi si svolge malgrado l'infezione e dà origine a spiche terato- logiche. La maggior parte delle spichette è soggetta a virescenza ovvero a castrazione in seguito ad atrofia degli organi riproduttori. Tuttavia non mancano spichette nelle quali le parti accessorie del fiore, pur essendo infarcite di micelio e di oospore del parassita, sono fornite di stami e carpello normali. Avvenuta la fecondazione, l'evoluzione della ca- riosside procede regolarmente: tutt'al più, in qualche caso, le deviazioni mor- fologiche delle glume e delle glumelle, plasmandosi sul seme in via di sviluppo, ne inducono più o meno profonde distorsioni. La maturazione subisce un ritardo abbastanza pronunciato, correlativo al prolungamento vegetativo dei cespi peronosporati. Gli esemplari fornitimi dagli egregi colleghi prof. Mune- rati e prof. Lusiani di Adria, raccolti venti giorni dopo che era stata ese- guita la mietitura degli appezzamenti immuni, presentavano ancora centri di attività vegetativa nelle parti virescenti, in seno alle quali il voluminoso mi- celio di Selerospora continuava tuttora a differenziarsi in ammassi di oospore. L'esame microscopico dei semi incompletamente maturi rivela la presenza di micelio del parassita negli avanzi della parete ovarica. L'aspetto del mi- celio stesso è lungi dall'essere così rigoglioso come nelle altre parti infette della pianta. Ponendo questi semi immaturi in germinatoio, si mantengono per un certo tempo vitali, ma di solito essi soggiacciono a decomposizione — bll — che non consente di seguire le vicende del micelio stesso in rapporto all’em- brione: questo è costantemente immune, come sono immuni i tessuti che costituiscono il seme p. d. Nelle cariossidi fisiologicamente mature e secche, l'embrione, l'albume ed il tegumento seminale non mostrano tracce di infezione: nello spessore del pericarpio si osservano invece tratti di micelio rattrappito, forniti di rigon- fiamenti intercalari od apicali che ho segnalato in una precedente Nota, in- terpretandoli come formazioni clamidosporiche od espressione palese di arresto di sviluppo del micelio. Ponendo detti semi in germinatoio ed assoggettandone i tegumenti a periodiche osservazioni, si rileva che queste formazioni miceliali passano sollecitamente dallo stato quiescente allo stato di vita attiva: esse diventano turgescenti così che le clamidospore arrivano in breve a misurare 35-40 « di diametro, e dànno origine a nuovi filamenti ialini, a contenuto finemente granuloso. L'insieme di questi filamenti colle dilatazioni globulari, apicali od intercalate sul percorso, ha molta analogia collo stato conidiale del Py- thium De Baryannm. Per definire se questo micelio latente nel seme fosse capace di propagare l'infezione alla piantina, ho seminato il 26 luglio u. s. 30 cariossidi di fru- mento provenienti da spiche peronosporate senza assoggettarle ad alcun trattamento anticrittogamico. Non tutte le cariossidi sono germinate, il che accade sempre che si costringano a schiudere semi di frumento appena rac- colti. A tutt'oggi (22 settembre) nei due vasi in cui furono effettuate le semine, si contano dodici piantine, che al semplice esame microscopico rivelano caratteri anormali; quasi tutte presentano una tallitura intempestiva, disor- dinata: un cespo è formato da 14 getti a sviluppo irregolare e colle foglie irregolarmente disposte ed in via di clorotizzarsi. L'esame microscopico ha rivelato la presenza del micelio di Sclerospora diffuso in tutte le parti più giovani dei singoli cespi, quasi che esso tenda a localizzarsi in prossimità dei centri vegetativi, seguendoli man mano nel loro sviluppo. Di fronte a questi risultati, che dimostrano che l'infezione peronosporica del frumento può propagarsi a mezzo di micelio, albergato dagli avanzi peri- carpici, ho ritenuto opportuno di iniziare tosto altre esperienze, destinate a dimostrare se i mezzi di difesa usati contro altri parassiti critogamici, aventi un ciclo analogo, possano valere anche a prevenire l'infezione pero- nosporica. Su queste esperienze riferirò a tempo opportuno, poichè esse ver- ranno in parte eseguite anche nelle condizioni di tempo e di ambiente della normale coltivazione del frumento. Patologia vegetale — Intorno all’oidio della quercia. Nota del dott. VirttoRIO PEGLION, presentata dal Socio G. CUBONI. Questa Nota sarà pubblicata in un prossimo fascicolo. — 512 — Chimica. — Ricerche sul sistema: solfo-iodio (*). Nota di F. OLI- VARI, presentata dal Socio G. CIAMICIAN. | Ir Un esame delle nostre cognizioni intorno alla chimica dei derivati alo- genati dello zolfo mostra subito che, mentre per alcuni di essi è ancora problematica l'esistenza, per altri, la cui individualità sarebbe stabilita, non si accordano i valori dati per le costanti fisiche e si descrivono talvolta pro- prietà che si contraddicono a vicenda. La maggiore indecisione regna fra i composti iodurati, perchè in questi ultimi tempi i cloruri e bromuri di zolfo vennero più a fondo studiati, fra gli altri, da Ruff e Fischer (*), Ruff e Win- terfeld (3), e da A. H. W. Aten (*). L’attitudine dello zolfo a combinarsi cogli alogeni decresce rapidamente dal fluoro all’iodio. Infatti, mentre il fluoro forma il composto a valenza massima SFI;, il quale è di una stabilità paragonabile all’azoto (?), l'iodio non sembra fornire che leghe o miscugli dissociabili nei componenti per semplice soluzione (°). Tuttavia vennero descritti da varî autori i seguenti composti: S;I,, S,I,, SI; e SI,. Gli studî eseguiti per stabilirne l’individualità (") non hanno sempre condotto a conclusioni sicure: così degli ioduri S;I, e S,I, è dato lo stesso punto di fusione (circa 66°) che coincide col punto eutectico dei mi- scugli dei due componenti; inoltre la curva di congelamento è una semplice curva crioidratica. Gli ioduri SI, e ST, che secondo alcuni autori (Line- barger, Rath) cristallizzerebbero indecomposti dalle soluzioni solfocarboniche di iodio e zolfo nei rapporti voluti, devono secondo altri (Mac Léod, Mac Jvor) considerarsi quali miscugli meccanici. Infine si è supposto che gli ioduri di zolfo siano o leghe (Sestini), qualifica che lascia affatto indeterminata la (®) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica generale della R. Università di Parma, diretto da G. Plancher. (8) Ber. d. deutsch. Chem. Gesell. 36 p. 418 (1903). (3) Ber. d. deutsch. Chem. Gesell. 36 p. 2437. (*) Zeit. f. physik. Chem. 54 p. 55 (1906). (5) An. Ph. Ca. (7), 21, p. 205 (1900). (6) Moissan, Zraité de Chimie Min., 1, p. 847. (*) Rath, An. Ph. Chem. 110, p. 116 (1860); Sestini, Rep. de Chim. Appl., p. 481 (1863); Linebarger, Am. Chem. Journ. 17, p. 33 (1895); Mac Jvor, Chem. N. 86, p. 5, (1902); Boulouch, C. R., t. 137, p. 1577 (1903); Smith e Carson, Z. f. physik. Chem. 61, p. 200 (1907). — 513 — natura dei prodotti in questione, o miscugli isomorfi (Linebarger), ipotesi senza alcuna base sperimentale. Nella presente Nota si riferiscono i risultati di alcune ricerche istituite per chiarire la esistenza e il contegno dei così detti ioduri di zolfo. II. Fenomeni di congelamento nelle miscele binarie. — Boulouch, e più re- centemente Smith e Carson, hanno determinato con tutta esattezza la curva di congelamento delle miscele S—I, dimostrando che i due elementi fusi insieme non dànno luogo nè a composti definiti nè a soluzioni solide. Tali esperienze sarebbero definitive se non presentassero una lacuna: come Tam- mann (!) ha insegnato, parallelamente alle determinazioni del punto di con- gelamento è conveniente eseguire la così detta analisi termica dei miscugli, che si basa sulla durata della cristallizzazione eutectica. Il vantaggio del- l’analisi termica si manifesta principalmente nel caso in cui i due com- ponenti siano parzialmente isomorfi o diano composti che si dissociano prima del loro punto di fusione. Infatti, se essi sono parzialmente isomorfi, mentre la curva di congela- mento nulla rivela perchè del tipo delle curve crioidratiche, la mancanza di arresto eutectico per soluzioni diluite di un componente nell'altro sarà invece una buona prova della loro parziale miscibilità allo stato solido: se poi dànno composti il cui campo di esistenza è limitato, la curva di congelamento pre- senta soltanto dei punti di discontinuità che non sono sempre facilmente apprezzabili e non dimostrano la composizione stechiometrica dei composti stessi. Invece. eseguendo l’analisi termica, s'incontra un arresto eutectico anche alla temperatura di scomposizione, arresto la cui durata è massima in cor- rispondenza della composizione del composto. Ho quindi creduto conveniente ripetere le esperienze crioscopiche com- pletandole coll’analisi termica. I punti di congelamento vennero eseguiti in una provetta senza tubu- latura laterale, munita di un manicotto e di un termometro in decimi; i valori ottenuti, che si accordano assai bene con quelli degli sperimentatori precedenti, sono riassunti nella tabella 1. (1) Z. f. anorg. Chem. 37, p. 303; 45, p. 24; 47, p. 298. — dl4 — TABELLA I. Iodio | Iodio | ; 1 100 1113959 0 17 42,80 DIA — 2 89,25 110,7 0 18 40,50 89,2 — 3 84,76 109,6 0 19 37,32 87,1 —_ 4 82,33 109,0 4 20 33,65 83,9 — 5) 80,02 108,4 —_ 21 29,82 78,8 43 00 6 72,76 106,2 8,15 DI 23,10 70,6 _ 1 69,07 104,9 — 23 18,89 66,8 57,30 8 65,45 103,7 _ 24 13,83 74,2 47,00 9 60,59 101,9 — 25 11,26 81,0 — 10 57,39 100,4 13,80 26 8,50 88,0 —_ 11 54,13 98,6 — 27 7,16 91,0 25,00 12 51,20 96,9 — 28 5,92 96,4 —_ 13 49,42 96,0 — 29 3,66 102,5 10,00 14 48,50 94,9 =: 30 2,75 105,0 —_ 15 46,72 93,9 — 31 1,28 112,2 3,00 16 45,07. 92,6 27,00 32 0 119,0 0 Portando i dati nel solito diagramma t,c (atomi di I °/ di miscela) e rappresentando i temvi @ di cristallizzazione eutectica con segmenti pro- porzionali ai tempi stessi, perpendicolari all’ orizzontale che passa per il punto eutectico e diretti verso l'asse delle ascisse, si ottiene la fig. 1. La curva di congelamento, del tipo delle curve crioidratiche, ha il punto eutectico a 65°,7 (80,8 atomi di S °/,) in corrispondenza del quale la du- rata della cristallizzazione eutectica è massima. È esclusa quindi la formazione di composti per fusione reciproca degli elementi, e confermato che il presunto punto di fusione dei due ioduri S3I, e Ssl, è il punto crioidratico. Queste costanti debbono essere definitivamente tolte dalla letteratura. La durata della cristallizzazione eutectica, determinata curando che il raffreddamento delle miscele proceda lentamente e sperimentando su notevoli quantità di solvente (40-50 gr.), sarebbe nulla in un piccolo intervallo (da 0 a 3-4 °/) della conc. dello zolfo in iodio. Tale fatto che non appare evi- dente ponendo i valori di @ in curva rientra piuttosto nei limiti di sensi- bilità del metodo: in ogni modo non può senz'altro autorizzarci ad affermare l’esistenza di un parziale isomorfismo fra i due componenti. Io ho cre- SRI enuo — 515 — duto necessario determinare il peso molecolare dello zolfo in soluzione di iodio. L'iodio, è secondo Timmermanns ('), un solvente che si presta bene 2 misure crioscopiche e che possiede una costante elevata (k = 253,5): quello Atomi °/o di lodio. Fic. 1. da me adoperato fondeva a 113°.9. L'ispezione della tabella II mostra che i pesi molecolari vanno rapidamente crescendo colla concentrazione: questo fenomeno si osserva ogni volta si sperimentano solventi molto densi con corpi che ne differiscono assai per densità, e dipende dal riferire le concen- trazioni a 100 parti in peso del solvente (Raoult) anzichè a un litro di s0- luzione (van t' Hoff). (®) Journ: de Chim. Phys. 4, p. 170 (1906). — 516 — TaBeLLa II Solvente Sostanza cone. °Lo i PM gr. 38,60 0,1603 0,4153 0,41 256,8 0,3466 0,8979 0,85 267,7 0,5100 1,321 1,13 283,8 0,8732 2,261 1,96 292,6 1,2210 3,163 2,70 297,0 1,5228 3,945 3,31 302,0 gr. 38,50 0,0944 0,2452 0,215 253,7 0,2070 0,5377 0,53 257,2 0,3300 0,8571 0,82 271,2 0,5680 1,475 1,30 287,7 0,8224 2,136 1,85 297,7 1,8158 4,716 3,94 303,4 gr. 43,60 0,1082 0,2842 0,25 251,7 0,2122 0,4935 0,475 263,3 gr. 45,00 0,2060 0,4578 0,45 257,9 Ma le misure a bassa concentrazione a cui corrispondono valori normali Ss = 256 dimostrano in modo indubbio la non esistenza di isomorfismo fra i due elementi. III. Volume specifico delle miscele I—S. — Il volume specifico V di una miscela, calcolato dai volumi v; e v, dei componenti e dal loro peso pi, e pa, ) Ve do, ponendo 9,4 p»= 100, siha V=p1 Sa -+vs, equa- zione lineare in p, rappresentante una retta che unisce i due punti di coor- dinate x=0 y=v,, ax=100y=v; (fig. 2). Se i due componenti for- mano un composto, che avrà in generale un volume specifico suo proprio v3, la curva dei volumi specifici è una spezzata v203v, che giace al disopra o al disotto della retta vv, secondo che il composto sì. forma con dilatazione o con contrazione di volume. Esempî di tali curve si sono realizzati studiando il volume specifico delle leghe ('). In casi in cui i componenti sono completamente isomorfi, la curva non differisce dalla, retta v301 (2). La misura del volume specifico delle miscele di due componenti può dunque servire a stabilire se essi formano combinazioni stabili al disopra del loro punto eutectico, ed è utile complemento alle determinazioni di congelamento. (1) Maey, Zeit. f. physik. Chem. 29, p. 119; 38, p. 292: 50, p. 200. (*) Retgers, Z. f. physik. Chem. 3, p. 497; Day e Allen, Z. f. physik. Chem. 54, p. 50. — 017 — Io presento nella tabella III i dati relativi al volume specifico di mi- scele di I e S determinato a 24° col metodo della boccetta. Per evitare una ben nota complicazione, ho sperimentato soltanto su miscele il cui punto di congelamento è inferiore a 92°. La curva dei volumi specifici (fig. 3) è una retta il cui prolungamento passa per il volume specifico dello iodio e per quello dello zolfo rombico; risulta confermata dunque la non esistenza di composti fra S e I. TaBELLA III 19 Volume a 24° È 78,49 0,2610 5 74,26 0,2722 È 70,64 0,2840 E 67,70 0,2900 65,70 0,2964 58,52 0,3173 D 55,32 0,3268 49,78 0,3400 40,42 0,8630 28,50 0,4015 Volume specifico. conc. °[o di Iodio. Fis. 3. ReENDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 66 — 518 — IV. Equilibri di saturazione nelle miscele ternarie. — Che le esperienze di fusione abbiano risultato positivo è condizione soltanto sufficiente, non necessaria, per la esistenza di un composto: quindi, l'avere nelle parti pre- cedenti dimostrato che non si formano per via diretta ioduri di zolfo, non esclude che questi possano ottenersi con speciali procedimenti chimici e si dissocino col riscaldamento nei loro componenti. Linebarger osservò che per evaporazione di una soluzione solfocarbonica di I e S nei rapporti atomici si ottengono tavole rombiche di color violetto scuro rispondenti alla formola (ST),, e suppose che si trattasse del composto Ss1:: tale composto si dissocia completamente per soluzione, come risulta dalle determinazioni del peso mo- lecolare. L’ioduro SI, si formerebbe anche per azione del S3C1, sull’ioduro di etile ('); ma Emerson Mac Jvor ha dimostrato che la reazione conduce a miscugli di iodio e zolfo. Invece si può, secondo lo stesso autore, prepa- rare l'ioduro S3I, di Grosourdy (*) sotto forma di polvere rossastra facendo passare una corrente di H,S in una soluzione acquosa di tricloruro di iodio e cloruro potassico, avendo cura di arrestare l’azione del gas prima che l’io- duro stesso venga ridotto ad HI e S.I solventi neutri (?) dell’iodio e dello zolfo non lo dissociano. La mia attenzione si è allora rivolta allo studio di questi processi. Il composto SsI, che si dissocia nelle sue soluzioni e da queste cristal- lizza inalterato (Linebarger), avrebbe un comportamento analogo alle forme racemiche, ai picrati e a molti sali doppî e sali con acqua di cristalliz- zazione. Per gli studi di Behrend (*) e di Kuriloff (‘) è noto che questo caso di dissociazione in soluzione obbedisce alle stesse leggi dell'equilibrio nella dissociazione di un solido in uno o più componenti gassosi, cioè al principio dell’azione di massa (?). Si supponga che due componenti A e B formino il composto AB com- pletamente dissociato nel solvente S; la relazione: AU B — AB Ci Ca viene numericamente rappresentata dall’equazione c,. c° = K dell’isoterma di dissociazione, che in questo caso è una iperbole equilatera riferita agli asintoti. (1) Guthrie J. Chem. Soc., 14, p. 57. (2) J. Chim. Méd.. 9, p. 429. (*) Z. f. physik. Chem., 15, p. 183 (1894). (4) Z. f. physik. Chem., 24, p. 697 (1897). (5) Nernst, Theoretical Chemistry, p. 477. — 519 — Se la dissociazione è polimolecolare, l'equazione c.”. cx" = K rappresenta una iperbole d’ordine superiore. Dunque, per verificare se dalle soluzioni comuni dei componenti: iodio e zolfo si separa un composto 4TL, + Ss = 48.1», basta esaminare come varia (a/= cost) la solubilità di un componente per aggiunta dell'altro; la cristallizzazione frazionata conduce al medesimo scopo, ma presenta l’incon- veniente della separazione (per l’analisi) della fase solida. Nel nostro caso il prodotto ct. cs dovrebbe rimanere costante. Riporto (Tabella IV) una serie di esperienze riguardanti la solubilità dell’iodio nelle soluzioni di zolfo in una miscela di CHCl; e CS,(3: ID L'aggiunta di solfuro di carbonio ha per iscopo di aumentare la solubilità dei componenti senza oltrepassare il limite oltre il quale non valgono i con- fronti teorici precedenti. TABELLA IV. in 10 cc. di soluzione gr. 0,0000 gr. 0,7390 » 0,0817 » 0,7379 » 0,1015 » 0,7392 » 0,1428 “» 0,7401 » 0,2010 » 0,7388 » 0,2518 » 0,7397 » 0,3072 » 0,7395 » 0,3854 » 0,7386 » 0,4366 » 0,7398 » 0,4508 (satura) » 0,7404 Come si vede, la concentrazione dello iodio non muta per aggiunta di quantità crescenti di zolfo: le fasi solide ottenute per cristallizzazione non sono dunque che semplici miscugli meccanici. Allo stesso risultato si giunge anche studiando i fenomeni di congela- mento completi nelle miscele ternarie. Per le ricerche sperimentali, come per le considerazioni teoriche di G. Bruni (!), è risultato che gli equilibrî in sistemi di due componenti valgono altresì per quelli in sistemi di tre com- ponenti, uno dei quali sia (in quantità costante) il solvente degli altri due. Partendo da soluzioni sature di un componente, per aggiunta dell’ altro si può descrivere tutta la curva di congelamento la quale presenta un punto eutectico, uno o più punti di massimo, un andamento continuo secondo che i due componenti non diano alcun composto, formino uno o più composti, o siano completamente isomorfi fra loro. (*) Gazz. Chim. It., 1898, 2, p. 508. — 520 — Per considerare solo il caso che c’interessa, anche se il composto AB è più 0 meno dissociato in soluzione, risulta dalla regola delle fasi, che la curva deve presentare un punto di massimo in corrispondenza del quale il soluto e la fase solida hanno la composizione del composto stesso. Il principio di massa conduce allo stesso risultato: infatti un punto di massimo significa qui un minimo nella somma €, + 6» delle molecole dei componenti in solu- zione. Posto ci | ca = $, l'equazione cr. c= K diviene c° — Scc+-K=0, equazione iperbolica in cui S è minimo per c, =VK, cioè per ci = e. Questa eguaglianza esprime appunto la composizione di AB: il calcolo può estendersi ai casi più complessi (!). I risultati delle determinazioni crioscopiche da me eseguite in bromuro di etilene (Tabella V), dimostrano che, tanto partendo da soluzioni sature di iodio e aggiungendo zolfo, quanto procedendo in senso inverso, si raggiunge lo stesso punto crioidratico doppio: la concentrazione della soluzione crio- idratica doppia dedotta coll’analisi è nel primo casoI1= 5,926 °/,,S=1,563%; nel secondo, I= 5,919°/,,$= 1,570°/, cioè praticamente la stessa. Dunque dalle soluzioni dei due componenti non cristallizza alcun composto. TABELLA V. Solvente I S IT gr. gr. gr. 50,00 —_ — 99,56 ” 0,7964 _ 8,82 ” 1,7800 — 7,91 ” soluz. satura — 6,81 ” — 0,2084 6,61 ” — 0,5641 6,31 D) — soluz. satura 6,09 ” = ca 9,56 ” _ 0,4410 9,16 ” —_ soluz. satura 8,83 ” 0,8615 Id 8,01 ” 2,2340 sio 6,76 ” soluz. satura O) 6,09 Ho fatto inoltre alcuni tentativi per confermare l'esistenza dell’ioduro S3I;, ma con risultato negativo. Precipitando frazionatamente con idrogeno solforato una soluzione acquosa di ICl; e KC1, ho bensì ottenuto una porzione con l'aspetto (*) Si noti però che l'applicazione ai fenomeni di congelamento non è rigorosa pel fatto che la temperatura non rimane costante. — 521 — descritto (rossastro) e con una composizione assai prossima a quella richiesta da S3I,: ma essa non resiste ai solventi (CS,,C0:H,Br....) liberando una buona parte dello zolfo che contiene (modificazione insolubile in CS.). Il fatto poi che nella massa si osservano distintamente per ingrandimento cri- stallini di iodio, convalida l'ipotesi che si tratti di miscele. Altrettanto di- casi per il così detto ioduro di zolfo di Prunier che ho preparato seguendo le norme date da questo autore (!). Conclusioni. — 1. È esclusa la formazione di composti fra zolfo e iodio per fusione reciproca; non esiste isomorfismo nè totale nè parziale fra i due componenti. 2. La curva dei volumi specifici delle miscele è una retta che con- giunge il volume specifico dei componenti. 3. Gli ioduri S.I, ed SI, ottenuti per cristallizzazione dalle soluzioni, sono miscugli meccanici di zolfo e iodio: un miscuglio è forse anche l io- duro S;I.. Appendice. — Il presente lavoro era già completato quando comparve sulla Zeit. fi anorg. Chem. (B. 58, p. 338, [ 1898 ]) una Memoria di F. Ephraim sullo stesso argomento: « Ueber die Existenz von Verbindungen des Schwe- fels mit Iod ». Anche l'autore eseguisce l'analisi termica, dai cui risultati conclude: « Iod vermag etwa 7-8 °/, Schwefel aufzunehmen, indem sich Misch- krystalle bilden, Schwefel dagegen scheint auch mit sehr geringer Mengen Tod keine Mischkrystalle zu bilden ». Le mie esperienze escludono invece in modo evidente che possa par- larsi di parziale isomorfismo. Inoltre ripete con risultati negativi le determinazioni ebullioscopiche di Linebarger (solvente CS:), che per le ragioni addotte non hanno alcun valore per decidere sull'esistenza di ioduri allo stato solido. () Journ. de Chim. Ph. [6] 2, p. 505; 9, p. 421. — 5922 — PERSONALE ACCADEMICO Il Presidente BLaseRNA dà comunicazione dei ringraziamenti, per le loro recente nomine, dei Soci nazionali: SomiGLIANA, MARCHIAFAVA, PARONA; dei Corrispondenti: ARTINI, CARDANI, SILVESTRI; dei Soci stranieri: CROOKES, Hrim, LacRoIx, LIAPOUNOFF, SEELIGER, € STERNECK. Lo stesso Presidente dà poscia il triste annuncio delle perdite fatte dalla Classe nelle persone dei Soci stranieri H. BecqueREL e E. MAscaRT, e ne tesse gli elogi seguenti. Antonio Enrico BecquereL nacque a Parigi il 15 dicembre 1852 nella stessa casa ove suo nonno Antonio e suo padre Edmondo avevano tanto lavorato. Studiò all'École Polytechnique; fu nel 1875 proclamato ingegnere des Ponts et Chaussées e divenne, nell’anno successivo, ripetitore alla mede- sima scuola. Nel 1878 fu nominato assistente al Museo di Storia Naturale, e nel 1888 proclamato dottore in scienze. Già a 37 anni, e cioè nel 1889, fu eletto membro dell'Istituto al. posto di Berthélot, nominato Segretario perpetuo; nel 1892 fu professore di Fisica applicata al Museo di Storia Na- turale e nel 1895 anche professore alla Scuola Politecnica. Becquerel fu iniziato negli studî di fisica da suo padre Edmondo, col quale collaborò in parecchi lavori relativi alla temperatura del suolo e allo scambio di calore fra questo e l’atmosfera. Nel 1883 egli fece lavori indipendenti, servendosi della fosforescenza per iniziare lo studio della re- gione ultrarossa dello spettro solare. Collo stesso metodo studiò la regione ultrarossa dello spettro di emissione di una serie di vapori metallici, come pure dello spettro d’assorbimento dell’acqua e di diverse altre sostanze. Nel 1883 iniziò i suoi studî sul potere rotatorio magnetico, in misura as- soluta. del solfuro di carbonio e di parecchie altre sostanze; studiò la ro- tazione magnetica del piano di polarizzazione della luce nei gas, la magne- tizzazione temporanea del nickel e del cobalto confrontandola con quella del ferro; come pure l'assorbimento della luce nei cristalli, nonchè altre que- stioni consimili. Nel 1898 studiò separatamente per le linee di Fraunhofer segnate colle lettere D, e D, la dispersione anomala nella fiamma a sodio, lavoro molto importante e assai bene condotto. Ma il suo nome verrà sempre ricordato per la sua ultima serie di la- vori che lo condussero alla scoperta delle radiazioni che portano il suo nome. Il nostro Socio cercava se le sostanze luminescenti erano capaci di emettere raggi analoghi ai raggi Rontgen, e riconobbe che i sali di Uranio emettevano delle radiazioni spontaneamente e indefinitamente. Dapprima credette fossero radiazioni rifrangibili e polarizzabili, ma presto conobbe trattarsi di radia- zioni dotate di proprietà affatto nuove, incapaci cioè di rifiettersi, di rifran- — 523 — gersi e di polarizzarsi, e dotate della facoltà di caricare a distanza i corpi elettrizzati. Con ciò egli aprì un campo nuovo alla Scienza, campo che fu mietuto da molti e che oramai può dirsi in massima parte esaurito. Bisogna però ricordare, in questo mirabile svolgimento avvenuto in pochi anni, la parte avuta da Becquerel. Egli stabilì la complessità delle radiazioni, isolando fe tre specie di raggi, segnate con a, #, y; e studiò il loro potere penetrante, le azioni chimiche, le azioni elettriche, la deviabilità magnetica e tutte le altre loro proprietà. Questi lavori, di prim'ordine, gli valsero nel 1903 il premio Nobel, che divise coi coniugi Curie. Morì il 25 agosto 1908 nella sua campagna di Croissie, all'improvviso, nell'età ancor verde di 56 anni, in piena attività scientifica, dalla quale potevano ripromettersi ancora grandi successi. Nell'anno decorso 1907, in conformità della Convenzione dell’Associa- zione internazionale del Metro, la quale stabilisce che le sessennali confe- renze generali di Pesi e Misure devono essere presiedute dal Presidente pro tempore dell’Accademia delle Scienze, Egli presiedette con molta auto- rità e con molto garbo la IV Conferenza generale, e fu poco tempo dopo eletto Segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze. Egli apparteneva alla nostra Accademia, nella qualità di Socio stra- niero, dal 1908. Lascia un figlio, Jean, che è il quarto della dinastia scien- tifica dei Becquerel e che promette di continuare brillantemente le tradi- zioni gloriose della famiglia. Quasi nello stesso momento, e cioè con un solo giorno di ritardo, mo- riva a Poissy, il 26 agosto 1908, ELra ELEUTERIO NicoLa MascaRrT. Nacque il 20 febbraio 1837 a Quarouble (Nord). Per poter studiare al Liceo di Lilla, dovette accettare il posto pesante di ripetitore; nel 1858 fu scolaro alla Scuola normale superiore di Parigi; nel 1864 vi prese la laurea in scienze, e fu dal 1864 al 1870 successivamente professore al liceo di Metz, di Pa- rigi e di Versailles. Durante la guerra del 1870-71 diresse una fabbrica di capsule; divenne nel 1871 supplente di Regnault al College de France e gli successe nel 1872. Nel 1878 fu nominato Direttore dell'Ufficio Centrale di Meteorologia, che diresse fino al 1907; nel 1884 divenne membro dell'Acca- demia di Parigi. Mascart non fu inventore il cui nome s'imponga d'un tratto a tutta la moltitudine, ma bensì un lavoratore serio, persistente, preciso, un teorico ri- goroso, che s'impose lentamente, ma sicuramente, alla stima di tutto il mondo scientifico. I suoi lavori sono numerosissimi e tutti importanti e maestrevol- mente condotti: essi riguardano varî campi della Fisica, e in modo più spe- ciale l'Ottica e l'Elettricità. Nel 1864 egli inizia col metodo fotografico lo studio della regione ultravioletta dello spettro solare, rilevandovi 700 righe. — 524 — Stabilisce la coincidenza fra alcune di queste e quelle date dai metalli nella scintilla elettrica, e segnala per primo la relazione fra i diversi gruppi di strie di uno stesso metallo. Nel 1869 fa una ricerca sulla sensibilità del- l'occhio per le radiazioni ultraviolette e nel 1871 dà la teoria dei feno- meni d'interferenza di Haidinger nelle lamine a facce piane e parallele. Con un lavoro magistrale determina, nel 1877-78, l'indice di rifrazione dei gas, dimostrando che questo varia proporzionalmente alla densità. Nel 1887 egli modifica, semplificandola, l’esperienza coi tre specchi di Fresnel, come pure il refrattometro interferenziale di Jamin, e studia le proprietà focali dei reticoli. Dà la teoria delle frange acromatiche che si ottengono nella luce polarizzata convergente. Modifica in modo ingegnoso la esperienza classica di Fresnel coi due specchi, concentrando i raggi riflessi con una lente, ed ottiene così che ciascun fascio venga nei fuochi reali se- parato dall'altro e ridotto in uno spazio minimo: disposizione che rende pos- sibile tutta una serie di esperienze. Notevoli sono pure i suoi lavori sull’indice di rifrazione delle diverse sorti di vetro, sulla riflessione metallica, sull’indice di rifrazione dell'acqua compressa e su quello della calcite; infine la sua teoria dell'arcobaleno. Nel campo dell'elettricità egli ha molto e fecondamente lavorato. Nel 1878 eseguì, assieme col suo assistente Angot, una importante serie di mi- sure sulle macchine dinamo-elettriche; nel 1882 egli fa costruire una serie di registratori delle variazioni del magnetismo terrestre per dotarne l’Osser- vatorio di Parc S. Maur e la spedizione francese al Capo Horn. Egli prese una parte notevole nella definizione delle Unità elettriche al Congresso del 1881; ne fece costruire i campioni, e procedette alla determinazione dell’e- quivalente elettrochimico dell'argento. Determinò assieme a Nerville e Be- noît il valore dell’ohm, prima col metodo di Weber fondato sull’ induzione terrestre, e poi col metodo dello smorzamento. Egli costruì una bilancia elet- trodinamica che segna un notevole progresso sulle precedenti; modificò, sem- plificandolo notevolmente, l’elettrometro a quadranti di lord Kelvin, espo- nendo i varî modi di usarlo. Immaginò gli isolatori elettrostatici che por- tano il suo nome, e costruì infine un apparecchio completo per la registra- zione fotografica delle variazioni dell’ elettricità atmosferica. Sono a notarsi ancora i suoi lavori concernenti la distribuzione dell'elettricità sui condut- tori nell'azione tra sfere elettrizzate, l'influenza dell'elettrizzazione nella eva- porazione, la resistenza dei conduttori per le correnti alternanti e la deter- minazione della posizione dei poli nei magneti. Nel 1874 Mascart fece una notevole esperienza per dimostrare che in un ambiente soprasaturo di vapore acqueo l’aria ozonizzata può provocare la condensazione del vapore come la polvere. L'importanza di questa esperienza si rilevò soltanto trent'anni più tardi, quando cioè le ricerche sulla ioniz- zazione ne diedero la spiegazione corrispondente. — 525 — Mi sono limitato a segnare soltanto i lavori più importanti; ma la serie dei lavori di Mascart è lunghissima: sulle anomalie, sulle perturbazioni e sulla distribuzione del magnetismo terrestre, sui fenomeni dell'elettricità at- mosferica, sui temporali, e molti altri. Eleuterio Mascart fu inoltre un insegnante di primo ordine, e ne fanno fede i trattati da lui pubblicati, che rappresentano il sunto delle sue lezioni. È classico il suo trattato di Elettricità statica, pubblicato nel 1876. Si può dire che fu il primo trattato ove questa parte tanto importante della Fisica sia svolta con rigore conveniente ad una scienza originata e imperniata nel- l’esperienza, e giunta a uno sviluppo considerevole. Da questo punto di vista il Mascart deve essere considerato come il vero introduttore in Francia delle dottrine di W. Thomson, di Clausius e di Kirchhoff, dottrine che egli seppe fondere insieme in una teoria unica. Negli anni 1882 e 1896 egli pubblicò dapprima con Joubert, e poi solo in nuova edizione, il famoso trattato di Elettricità e Magnetismo. Questo trattato segna veramente una data importante nella teoria dell'elettricità per tutti i paesi. Noi l'abbiamo tutti studiato, come quello che rese chiara ed accessibile l'opera di Maxwell; e si può dire senza esagerazione, che non vi sia stato cultore delle scienze elettriche il quale non si sia giovato di questo celebre libro. Lo stesso dicasi del suo grande trattato di Ottica, che è un vero repertorio di Ottica fisica, e dell'importante suo trattato sul Magnetismo terrestre, che ne espone in modo sottile e particolareggiato la teoria e i mo- todi di misura. Mascart ebbe due premî da parte dell’Accademia di Parigi, nel 1873 e 1875 per le sue esperienze relative al trascinamento dell’ etere luminoso e alle modificazioni che subisce la luce in seguito al moto della sorgente e dell'osservatore, nonchè per i suoi lavori di Ottica fisica. Egli fu Presidente della Società internazionale degli Elettricisti, della Società d’incoraggiamento per l'industria nazionale, della Società francese di Fisica, della Società Meteorologica di Francia, del Comitato Meteorologico internazionale, del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, della Com- missione d'esame delle invenzioni relative alla Difesa Nazionale, e negli ul- timi anni della sua vita fu membro del Comitato internazionale di Pesi e Misure. Anche i suoi talenti di amministratore furono altamente apprezzati dagli uomini d'affari, che lo elessero a presidente di varie compagnie e so- cietà industriali. Egli contribuì a stringere i legami fra scienziati puri e tecnici pratici: la Società internazionale degli Elettricisti, il Laboratorio Centrale di Elet- tricità e la Scuola Superiore di elettricità debbono a lui il progresso compiuto e la prosperità ora raggiunta. I suoi lavori di elettricità e la parte eminente che egli prese nel Congresso degli Elettricisti del 1881, gli valsero l’inaltera- bile amicizia che lo unì a Lord Kelvin e che durò fino al giorno della morte! RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem, 67 Me Mascart appartenne alla nostra Accademia, quale Socio straniero, dal 1889. Cosa strana e dolorosa: la Francia ha perduto in pochi anni quattro fisici di primo ordine, e sono: A. Cornu, Curie, Becquerel e Mascart. È una perdita gravissima per la scienza di tutti i paesi. A nome della nostra Accademia, che ebbe tre di questi a Soci stranieri, esprimo all'Istituto di Francia la parte vivissima che noi prendiamo al suo lutto. I Presidente BLASERNA, aggiunge alcune parole per ricordare il nome del colonnello ReNARD, morto anch'egli prematuramente, in un momento in cui avrebbe potuto vedere realizzate le sue idee relative alla direzione dei palloni. Il colonnello Renard è stato veramente il precursore che pose la que- stione sopra una base stabile e sicura; in questi giorni in cui Francia, Ger- mania e Italia dimostrano un vivo interessamento per le esperienze sui diri- gibili, il nome del Renard non può e non deve essere dimenticato. Il Presidente BLASERNA comunica di essersi recato a Faenza per rap- presentare l'Accademia dei Lincei alle feste Torricelliane. In quella occas- rione egli ebbe il grazioso incarico da parte dell’Università di Bonn, di pre- sentare un indirizzo in latino dell’Università stessa. In pari tempo l'Istituto di Francia gli rivolse l'onorifico invito di rappresentarlo nella sua qualità di Presidente dei Lincei. È questa una forma nuova di accomunare le due grandi Istituzioni scientifiche nel tributo di ammirazione reso all’illustre fisico italiano. Informa inoltre la Classe dell’invito rivolto all'Accademia di far parte, nel suo complesso, del Comitato franco-italiano per l'erezione in Parigi di un monumento a Giosuè Carducci; invito che egli si è affrettato ad accet- tare in nome dell’Accademia. Il PresipenTE dà parte anche dell'invito trasmesso all'Accademia per il Congresso internazionale di chimica applicata, che si terrà a Londra dal 27 maggio al 2 giugno 1909. Altro invito è pervenuto all'Accademia dall’Uni- versità di Cambridge, per la Commemorazione del centenario della nascita di CarLo DARWIN, Commemorazione che avrà luogo in Cambridge alla fine di giugno del venturo anno. PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Presidente BLasernA offre, a nome di GugLieLMo MARCONI, una Conferenza da quest'ultimo tenuta alla Royal Institution di Londra, in cui l'illustre inventore fa la storia di tutte le sue ricerche e dei perfezionamenti arrecati ai suoi sistemi di telegrafia senza filo. È un opuscolo che tutti gli ammiratori di Marconi leggeranno con grande interesse e profitto, e dalla — 527 — lettura di esso apparirà ad ognuno manifesto il continuo progresso conse- guito da Marconi nel perfezionamento del sistema. Il Segretario MiLLosevica. presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle inviate dai Soci: BeRTINI, NAccaRI, BeRLESE, FISCHER, GiLL, HAECKEL, LockYER, PFLUEGER; e dai signori: Loria Gino, vAN LAAR, EcinITIS. Fa inoltre particolare menzione delle pubblicazioni seguenti: #2 del sesto Congresso Geografico italiano (1907); Onoranze al prof. Alfonso Sella; volume XI delle Opere complete di Christian Huyghens; vol. II delle Opere del defunto accademico P. L. TcHEBYCHEF. Il Socio CapELLINI offre due sue Memorie sui Mastodonti del Museo geologico di Bologna, e un volume contenente il resoconto delle onoranze tributate in Bologna a ULIsse ALDROVANDI nel terzo centenario della sua morte. Il Corrispondente Grassi G. fa omaggio del I volume, 2* edizione, del suo Corso di elettrotecnica. CORRISPONDENZA Il PRESIDENTE annuncia che il sig. Au6usto Laici e il prof. CARLO MiLtENI, hanno inviato dei pieghi suggellati perchè siano conservati negli archivî accademici. Il Segretario MriLLosevica dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. Ringraziano per le pubblicazioni ricevute: La R. Accademia danese delle scienze di Stoccolma; la R. Accademia prussiana delle scienze di Berlino; la R. Accademia delle scienze di Upsala; la R. Società geologica di Amsterdam; la Società di scienze naturali di Lisbona; la Società geologica di Manchester; la Società fisico-medica di Erlangen; la Società geologica di Tokyo; il Museo britannico; il Museo nazionale di Mexico; la Biblioteca comunale di Bologna; l'Osservatorio di marina di San Fernando. E. M. ui nio === = SETTI e _r__——————_—nztît@@@—————m_@____@——_—_@@——_m—@ _——_E|-WÉy;::' i = = Camis. Sulla sopravvivenza alla doppia vagotomia e sulla rigenerazione del N. Vago (pres. ZO | Rae 509 Id. Sulle alterazioni del miocardio in seguito alla vagotomia. Osservazioni di segmentatio cordis sperimentale (pres. /d.) (*) . Roo na AR RE e e Peglion. Sulla propagazione della Scler ospora macrospora Sacc. per mezzo della se- menta di frumento (pres. dal Socio Cubozi) LL 0.0.0, AC NVONO Id. Intorno all’oidio della quercia (pres. IO) AR, 511 Olivari. Ricerche sul sistema: solfo-iodio (pres. dal Socio @amician), < . . °°... » 512 PERSONALE ACCADEMICO Blaserna (Presidente). Aununcia che inviarono ringraziamenti per la loro recente elezione, i Soci nazionali: Somigliana, Marchiafava, Parona; i Corrispondenti: Artini, Cardani, Silvestri; i Soci stranieri: Crookes, Heim, Lacroix, Liapounoff, Seeliger e Sterneck » 522 Id. Dà annuncio della morte dei Soci stranieri 7. Becquerel e E. Mascart e legge una Com- uenorazione disenteaibit A nia Id. Aggiunge alcune parole in ricordo del colonnello Renard e de’suoi lavori sui dirigibili » 526 Id. Riferisce sulle feste Torricelliane e sulla parte che vi presero la Università di Bonn e l’Istituto di Francia, che gli affidarono l’incarico di rappresentarle alle feste stesse. » » Id. Comunica gl’ inviti pervenuti all'Accademia di far parte dell Comitato per un monumento a G. Corducci in Parigi; per il Congresso internazionale di Chimica a Londra; per la Commemorazione di C. Darwin a Cambridge: 5 PRESENTAZIONE DI LIBRI Blaserna (Presidente). Offre una pubblicazione a nome di G. Marconi e ne segnala la im- RO e Maillosevich (Segretario). Presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci Bertini, Naccari, Berlese, Fischer, Gi, Haeckel, Sockyer e Plueger; del defunto acca- demico Zchebychef e dei signori Loria, van Laar e Eginitis DL TATA Capellini. Fa omaggio di varie sue pubblicazioni. . ././. 0. RR A e Grassi G. Offre un suo lavoro e ne-parla . ././...0.0. AA I CORRISPONDENZA Blaserna (Presidente). Annuncia l’invio di pieghi suggellati dal sig. Zaici e dal prof. Carlo Milteni, perchè siano conservati negli Archivi accademici . . . O O EM ORAANI Maillosevich (Segretario). Dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. . » » (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. RENDICONTI + Novembre 1908. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta dell’ 8 novembre 1908. MEMORIE E NOTE DI SOCI 0 PRESENTARE DA SOCI Segre. Complementi alla teoria delle tangenti coniugate di una superficie. . . . . Pag. Levi-Civita. Sull’attrazione newtoniana di un tubo sottile. .... . . a An Millosevich. Osservazioni della cometa 1908 c Morehouse fatte al R. da al: \Col legio Romano . ... Po, IRC LET Era) Riccò. Lo spettreliografo del R. Dcrratoi di Catania ©. REO 7) Paternò e Mazzucchelli. Sopra gli spettri d'emissione di alcuni elementi ad SR e. DD Nasini e Levi. Radioattività di rocce e altri materiali dell’isola d'Ischia... . 0.2 Id. Id. Comparsa della radioattività in materiali inattivi vulcanici dell’ultima grande eruzione vesuviana (aprile 1906). . . . ARR PRA o Viola. Sopra un esemplare di ematite con E. di provenienza So RR Eat Ia. Sull’associazione del rutilo con l’ematite (#) . . - SERI oo Bottazzi e Scalinci. Ricerche chimico-fisiche sulla, lente dial a Ù Boggio. Sopra alcune formole fondamentali relative alle equazioni integrali i dal doni Tevr- Oto pio) » Picone. Del lesame fra i di Fredlholi e le equazioni ‘differenziali inca acini (pres. dal Socio Bianchi). . . ... dia 0) Quintili. Sulla continuità di un integrale rieti. ad un ia i dal su dom) 0) ” Severi. Sulla regolarità del sistema aggiunto ad un sistema lineare di curve appartenente ad una superficie algebrica (pres. dal Socio Segre) PACO SO A Corbino. L'emissione luminosa nei vari azimut da parte d’un vapore cadano in un campo magnetico (pres. dal Corrisp. Cantone) . ; SR Re) Chilesotti. Sui composti del piombo con J'acido fio di dal Socio Cn . n Levi-Malvano e Mannino. Equilibrî negli stereoisomeri della santonina (pres. dal Socio Patern0)» Mascarelli. Il cicloesano come solvente crioscopico (pres. dal Socio Ciamician) . . . » Marzetti. Intorno all’azione della luce ultravioletta su d'uno spinterometro (pres. dal CE Pie AE o EA : n Pannain. Blettrolisi della canfonina e dai sti i rea: dal vuo o... SR) Rimini. Sui prodotti di ossidazione dell’artemisina (pres. dal Socio Ciamician) (8). . . » Ravagli. Nummuliti oligoceniche di Laverda pel Vicentino (pres. dal Socio De Stefani) . » Serra. Ricerche su rocce eruttive basiche della Sardegna settentrionale (pres. dal Socio INARIRIZA N SONE ; ERRE Risi Vinassa de Regny e Liu Nic “teglia soin sigle sa oi centrale Halle tpi car- niche (pres. dal Socio Zaramelli) (*). +, . +.» St) Almagià. Fenomeni di erosione accelerata nel pliocene di cal oto i dal ‘Soto Dalla Wii A A »” Segue în terza pagina. (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. °K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Roma 22 novembre 1908. N. 10. Pubblicazione bimensile. (AE | DELLA REALB ACCADEMIA DEI LINCEI ANNO GCGV. 1908 SAREI QUEEN .I A RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 22 novembre 41908. Volume XVII. — Fascicolo 10° 920 SEMESTRE. 1908 ; 18 DI Î 9 L. i È ROMA Î i | TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINGEI i | PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI di î ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serie quinta delle pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciasenna delle due Classi. Per i Rendiconti dell Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti ; 1.1 Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico, 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II. 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro» priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci 0 da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - 2) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell'art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro: posta dell’invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 9. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è messa a carico degli autori. » RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCEI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. \AANNANNN_--T--- Seduta del 22 novembre 1908. F. D' Ovipio Vicepresidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Astronomia. — Lo spettreliografo del R. Osservatorio di Catania. Nota del Corrispondente A. Riccò. Essendo questo il primo spettreliografo che funziona stabilmente in Italia, stimo mio dovere di informarne codesta R. Accademia, dandone una breve descrizione. Storia. — Nel 1894 ebbi la fortunata occasione di adoprare questo mirabile strumento insieme con l'inventore del medesimo il prof. G. E. Hale, ed ammirandone l’ingegnoso funzionamento, vagheggiai l’idea di procurarlo all’Os- servatorio di Catania. Però la cosa non era facile per il costo elevato dello strumento e perchè, non possedendo noi un grande eliostata o celostata, avremmo dovuto attaccare il nuovo apparato al tubo di legno del nostro re- frattore di 30 cm. d'apertura, e quindi lo spettreliografo avrebbe dovuto essere non molto pesante per non cimentare troppo la resistenza del detto cannochiale. Nel 1903, l'Osservatorio di Catania fu invitato dal prof. Hale (allora direttore dell’Osservatorio di Chicago, ora direttore di quello di Monte Wilson in California) a far parte della Unione internazionale per le ricerche solari, nel programma della quale vi è pure l'esecuzione quotidiana di fotografie della fotosfera solare e della cromosfera, insieme alle protuberanze, mediante RenpICONT-. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 68 — 530 — lo spettreliografo, che dà immagini in luce monocromatica, cioè di una riga dello spettro solare: ordinariamente la H o la K del calcio. Accettando il lusinghiero invito, diveniva necessario provvedere lo spet- treliografo. Ne feci proposta al ministro dell'istruzione del tempo, S. E. Or- lando e domandai la somma minima che io credevo necessaria: la quale fu benevolmente accordata. Dopo prese informazioni ed avuti consigli dagli astronomi Hale, Newall e Kempf, dopo avere discussa la costruzione dello spettreliografo dal punto di vista tecnico e finanziario con parecchi dei principali costruttori di Europa ed America, l'esecuzione dello strumento fn affidata alla rinomata ditta O. Toepfer und Sohn di Potsdam, la quale aveva già costruito lo spettro- eliografo da me adoprato insieme al prof. Hale e quello dell’Osservatorio di Potsdam, entrambi fatti per attaccarsi a cannocchiali, eome quello che ci occorreva. Costruzione. — Lo strumento doveva essere non molto pesante, nè molto costoso, e quindi non avrebbe potuto comprendere tutta l’immagine focale del sole data dall’obbiettivo Merz, la quale ha il diametro di 52 mm. circa. Bisognò contentarsi di uno spettreliografo colle fessure di solo 37 mm. ed assoggettarsi alla necessità. di fotografare il disco solare in due volte; con tutto ciò lo strumento venne a costare una volta e mezza la somma con- cessa. Il prof. Hale, conosciuto l'imbarazzo in cui io mi trovavo per il paga- mento, spontaneamente offerse di farmi accordare i fondi mancanti dalla Isti- tuzione William E. Hale di Chicago; non solo, ma affinchè il nostro spet- treliografo potesse avere la grande dispersione necessaria per agire anche colle righe dell'idrogeno, ci fece dono di un magnifico reticolo di diffrazione, inciso in bronzo dal rinomato ottico americano Brashear con la macchina di Rowland. Lo spettreliografo fu compiuto soltanto sul finire del 1906; è di bella ed esatta esecuzione, corrispondente alla meritata fama del costruttore: è fatto principalmente di alluminio e di lega leggera di alluminio e nickel, per esser meno pesante. È poi costruito in modo da poter funzionare con tre gradi di dispersione, cioè I, due prismi soli; II, reticolo di diffrazione solo; III, prismi e reticolo. Lo strumento (*) si compone di una intelaiatura rettangolare fissa A, che si attacca al refrattore, e di una intelaiatura B mobile su 12 rotelle, che porta i principali pezzi ottici, cioè il collimatore C colla prima fessura ed il suo ob- biettivo, l'altro tubo parallelo D, colla seconda fessura e coll'obbiettivo della camera fotografica, l'apparato dispersivo, composto dei due prismi E, e lo specchio F, oppure il reticolo. Alla parte fissa è attaccata la camera G col (*) Vedasi la figura 1, che rappresenta lo spettreliografo in forma puramente sche- matica e colle sole parti essenziali. — 591 — telaio per la lastra sensibile; una carrucola H, su cui passa la corda, che per mezzo di un peso mette in movimento la parte mobile; una clessidra I, la quale regola il movimento colla resistenza uniforme che presenta l’acqua (con 20 °/ di glicerina) nel passaggio dalla camera anteriore alla poste- riore o viceversa, attraverso al rubinetto L più o meno aperto. Fic. 1. — Schema dello spettreliografo dell’ Osservatorio di Catania. L'obbiettivo del collimatore e quello della camera sono doppî, da ritratti. I prismi sono di vetro di Jena O 102, che è molto dispersivo e molto trasparente per i raggi bleu e violetti: hanno l'angolo rifrangente di 66°, e producono una deviazione totale di circa 120°. Il reticolo di diffrazione ha la superficie rigata 46 X 83 mm., e contiene 600 linee per millimetro. Lo — 532 — specchio è di vetro argentato anteriormente. Nella seconda combinazione viene surrogato dal reticolo; nella terza il reticolo si mette nel posto dei prismi. Il tubo D porta al di sopra della seconda fessura, lateralmente e per- pendicolarmente al suo asse ottico, un cannocchialino o microscopio (non indicato nello schema), il quale, mediante un prisma a riflessione totale, fa vedere la faccia anteriore della seconda fessura, e quindi può servire a re- golarne la larghezza e la posizione, in modo da comprendere una data riga spettrale, e può servire a mettere nel piano focale dell’obbiettivo della camera la fessura stessa e la lastra sensibile, come si vedrà dopo. Lo spettreliografo pesa circa 45 kg. Per non aggiungere tutto questo peso alla estremità oculare del cannocchiale, in questo abbiamo da prima tolti tutti i contrappesi che vi erano e tutto ciò che non era strettamente necessario per l’uso dello spettreliografo; e così si è potuto alleggerire il il rifrattore di quasi quanto è il peso dello spettreliografo. Attacco. — Per unire lo spettreliografo al cannocchiale, abbiamo co- struito una piattaforma M anulare, di ghisa, che si unisce alla intelaiatura esterna fissa A dello spettroliografo mediante otto viti che penetrano nella detta intelaiatura, passando per otto spacchi circolari della piattaforma: così sì possono dare diversi orientamenti allo spettreliografo rispetto al cannoc- chiale e si può rettificarne la posizione con spostamenti, scorrendo entro gli spacchi, prima di stringere le otto viti. Dalla piattaforma sorgono quattro tubi d'acciaio N colle estremità fatte a vite, le quali penetrano in quattro occhi O praticati in quattro forti pezzi d'acciaio a squadra P, che col braccio più lungo sono imbollonati lungo il tubo del cannocchiale Q e su di un anello di ferro che lo abbratcia a 40 cm. dall’estremità. Con dadi e contro- dadi i quattro tubi si possono tissare per modo che l'asse ottico del colli- matore sia parallelo a quello del cannocchiale, e la prima fessura sia pros- simamente nel piano focale dell’obbiettivo del rifrattore. Quest'attacco è riuscito ben rigido ed abbastanza leggero (pesa 10 kg.). Per equilibrare questo nuovo peso e tutto l'apparato in declinazione, abbiamo dovuto applicare all'altra parte del tubo una fascia di piombo; per equili- brare poi il refrattore in ascensione retta, è bastato spostare alquanto in fuori i grandi contrappesi, posti all'estremità dell'asse di declinazione. Rettifiche. — 1) Per centrare il collimatore col cannocchiale si è posto sulla prima fessura allargata una lamina con un foro corrispondente al centro della fessura medesima, poi si è adattato all'obbiettivo del collimatore una specie di cappuccio, portante un vetro smerigliato, su cui sono segnati dei circoli concentrici all'obbiettivo stesso; quindi si sono allungate od accorciate le colonne opposte dell'attacco, finchè, fatta cadere l’immagine focale del sole formata dal refrattore sul detto foro, si vedesse sul vetro smerigliato un dischetto luminoso ben concentrico ai detti circoli. — 533 — 2) Per mettere in prima approssimazione la prima fessura nel piano focale dell’obbiettivo del refrattore per ì raggi violetti, si è determinata la posizione di questo fuoco rispetto al porta-oculare, mediante lo spettroscopio ; poi si è perfezionata questa determinazione facendo collo spettreliografo delle serie di fotografie dello stesso gruppo di macchie e facole solari, mentre sì [avvicinava 0 si allontanava la prima fessura dalla posizione prima trovata. 8) Per mettere la prima fessura nel fuoco del collimatore, sì è posto davanti ad essa un filo finissimo, e posto lo specchio dello spettreliografo in posizione perpendicolare all'asse del collimatore stesso, si è variata la di- stanza della fessura dall’obbiettivo, fino a vedere ugualmente ben distinto il filo e la sua immagine riflessa. 4) Per mettere la pellicola della lastra sensibile nel piano focale dell’obbiettivo della camera, si è posta nel telarino di questo una lamina di vetro comune, su di una faccia del quale si sono fatti tratti finissimi col diamante; 6 poi si è spostata la camera, finchè nel cannocchialino adiacente si vedessero nettamente insieme i detti tratti e le righe dello spettro. Si ammette per ora che i prismi siano nella posizione della minima deviazione per i raggi violetti, e che non vi sia altra rettifica da fare, ciò che per la nota grande abilità del costruttore dev’ essere molto prossima- mente vero. Prove. — Eseguite le rettifiche e posto al luogo della seconda fessura una camera oscura, si sono fatte delle fotografie dell'intero spettro, che sono riuscite finissime, ma colle righe fortemente curvate (raggio di curva- tura circa cm. 41/3), per il noto effetto della incidenza obliqua dei raggi che provengono dalle estremità della fessura (rettilinea) e vanno ai prismi, e la con- seguente più forte rifrazione di essi raggi. Rimessa la seconda fessura, che ha curvatura uguale a quella della riga K del calcio, e fatte delle fotografie del disco solare, facendo funzionare regolarmente lo spettreliografo, cioè scorrere la prima fessura sotto l'immagine focale del sole, formata dal refrattore e man- tenuta immobile dal suo motore, la fotografia del sole è riuscita molto sen- sibilmente ovale. La ragione di questa deformazione è, che per ogni elemento rettilineo del disco solare, lasciato passare dalla prima fessura, se ne produce nella seconda fessura un'immagine curvilinea avente per corda la lunghezza della prima fessura, con gli estremi spostati verso il violetto, per modo da uscire dal contorno dell'immagine ideale circolare. Wadsworth ha dimostrato che quando nello spettreliografo vi è un numero dispari di riflessioni, la predetta deformazione si può eliminare, fa- cendo entrambe le fessure curve e con raggio di curvatura metà di quello delle righe, e la curvatura rivolta alla stessa parte: e ciò per la inversione simmetrica che l’immagine subisce nella riflessione. Ho provato prima questo — 984 — espediente, applicando sulla fessura. prima e seconda, allargate al massimo, due fessure provvisorie tagliate in lamina metallica sottile: e l’immagine del sole data dallo spettreliografo è riuscita ben rotonda. Allora mi son deciso a fare eseguire da Toepfer altre due fessure di platino-iridio, come le prime, ma entrambe curve e col raggio di ‘curvatura di 88 mm.; che è il ‘doppio del raggio di curvatura della riga H, esattamente misurata sulla fotografia ottenuta colla prima fessura dritta. Ricevute le nuove fessure, messe a posto, e rifatti i necessarî saggi e le necessarie rettifiche, si ebbero alfine buone fotografie con contorno perfettamente circolare, nelle quali le macchie, le facole ed i floccoli sono rappresentati esattamente e finamente. Orientamento. — Dopo aver provato diversi orientamenti dello spettro- eliografo rispetto al refrattore, si è visto che il più ‘conveniente per noi è quello in cui la parte mobile dello spettreliografo si muove da Ovest verso Est, cosicchè di primo mattino, epoca in cui noi dobbiamo lavorare per l’ Unione internazionale, lo spettreliografo scende per il proprio peso e quindi si risparmia di fare uso del peso motore; il che costituisce una semplificazione che giova al buon funzionamento dello strumento. Tale orientamento l'abbiamo dato allo spettreliografo con grande ap- prossimazione: però: di tempo in'tempo si fa la fotografia dell'orlo nord e sud col refrattore immobile, portando la prima fessura, molto allargata, da una all'altra estremità della corsa. del carrello dello spettroliografo e lasciando passare dall'una all’altra posizione il sole col suo moto diurno. Si verifica poi se la congiungente o la tangente comune delle due fotogratie dell'orlo è parallela alla traccia lasciata dalla estremità della fessura nel fare la foto- grafia ordinaria del disco solare. Esecuzione delle fotografie. — Quando si fotografa la cromosfera e le protuberanze, affinchè la viva luce .del disco solare. durante la lunga espo- sizione necessaria, non ‘alteri l'immagine, si attacca alla parte fissa dello spettreliografo un dischetto 0’ schermo nero che intercetta quasi tutta l’im- magine focale del sole, eccetto l'estremo orlo. La riga K si vede coll’apposito cannocchialino con estrema difficoltà, anche facendo uso di un vetro violetto, applicato all'oculare; perciò si è stabilito di servirei della riga H, che si vede con minor difficoltà. Per ora abbiamo applicato allo spettreliografo soltanto i due prismi, che dànno dispersione sufficiente per le fotografie fatte colle righe H e K del calcio: adopreremo poi per altri studî la altre due combinazioni dispersive, che per altro abbiamo già provate. Finora nelle fotografie in discorso ci siamo sempre valsi della parte lucida, od invertita, della riga H, che 'si ritiene: spettare ad uno strato di media altezza. Perciò alla seconda fessura diamo la larghezza intorno a mm. 0,07 per la fotosfera, e intorno a mm. 0,15 per le protuberanze, se- condo lo stato del cielo. otografia del Sole ottenuta collo spettreliografo dell’Osservatorio di Catania nella riga H del Calcio il 4 settembre 1908. 3 sett. 1908. Fis. Fig. 5, 16 sett. 1908. Fotografie di protuberanze notevoli ottenute collo spettreliografo dell’Osservatorio di Catania. | | | — 539 — Il tempo dell’esposizione, ossia il tempo della corsa della fessura attra- verso il disco solare, è fra sei e dieci secondi per la fotosfera, e circa due minuti per le protuberanze. Per la fotosfera adopriamo lastre Zumzère comuni (etichetta bleu); per la cromosfera e protuberanze, lastre Zumzère extra-rapide (etichetta violetta). Rettificato lo strumento, fatti i saggi necessarî ed organizzato il rela- tivo servizio, ho affidato l'esecuzione quotidiana delle fotografie collo spet- treliografo al sig. L. Taffara, assistente, il quale mi aveva aiutato assidua- mente nelle ultime operazioni, ed aveva appreso bene il maneggio non facile, nè semplice dello strumento. Non comprendendo (come si disse) il nostro spettreliografo tutta la im- magine solare, ogni giorno si fa una fotografia comprendente più del semi- disco settentrionale, una fotografia comprendente più del semi-disco meri- dionale, una fotografia comprendente la zona centrale. Così colle due prime fotografie si ha il disco più che completo, e colla terza si ha la ripetizione della zona centrale, che per esser estesa circa 90°, contiene sempre le zone di maggior frequenza delle macchie, delle facole e delle protuberanze erut- tive, e quindi è la più importante. Colle due prime fotografie, troncandole secondo il diametro Est-Ovest, e col controllo della terza, è facile comporre l'immagine dell'intero disco. Tutto ciò vale tanto per la fotosfera, come per la cromosfera colle protuberanze. La figura 2 è un saggio di tale composizione per la fotosfera, e le figure 3, 4, 5 sono riproduzioni parziali di fotografie di protuberanze notevoli. Nella figura 2 l'ingrandimento rispetto alle fotografie originali è 1, 7: quello delle altre figure è 2 volte. Gli angoli di posizione, scritti in bianco sul disco solare occultato, sono contati da Nord per Ovest. Dai primi di giugno 1908 si fanno regolari e quotidiane fotografie della fotosfera e della cromosfera colle protuberanze. Meccanica. — Su/lattrazione newtoniana di un tubo sottile (1). Nota del Corrispondente Levi-CIviTA. o. Scomposizione dî V. — Prendiamo a considerare la sezione trasver- sale del tubo T praticata colla superficie w = cost, che passa per il punto potenziato Q; sia O il punto in cui essa taglia la linea L' passante per un generico punto potenziante Q”. Riattaccandoci alle notazioni del n. 2, diciamo o questa sezione ; #03 Y01£0 le coordinate cartesiane di 0;%o.v, le sue coordinate curvilinee sopra o. Appartenendo, per definizione, O e Q' ad una medesima linea L, sarà Wes; ©3006 (1) Cfr. Nota I, a pag. 413 (seduta dell’ 8 novembre corrente). — 586 — mentre, trovandosi O e Q sulla medesima sezione trasversale, wo coincide con w. Se P designa l'intersezione di o colla direttrice C, saranno (n. 1) u=v=0, e sempre la stessa w, le coordinate curvilinee di questo punto. Introduciamo ancora due punti R ed S di o, caratterizzando cogli indici R ed S rispettivamente quanto ad essi si riferisce. Così in particolare os designerà il valore della densità o in S;cx la curvatura della linea L passante per R;@x,fr,Yr i coseni direttori della tangente alla L nello stesso punto. Indicheremo inoltre con in = @x(x — to) + Bay — Yo) + rale — 80) la componente di 0Q secondo la detta tangente, e con 7 la componente secondo la normale principale. Anzitutto, per l'osservazione finale del n. 2, 2), il rapporto ® (coseno dell'angolo compreso fra la corda 0Q e la tangente alla L in R) non supera mai, in valore assoluto, un numero fisso, minore dell'unità. Ne consegue che la funzione log (1 -t) = log}1— (are + fa 8° + Ya 83)" | degli argomenti I) A) &— 80 €, paese g peg ’ e dei parametri @r,8r,Yr, cioè, possiamo dire, del punto parametrico KR, è finita e dotata di derivate d'ordine primo e secondo (?) rispetto alle « e alle coordinate del punto parametrico R. Nelle stesse condizioni si trovano manifestamente fx ed x, salvo la sostituzione degli argomenti x — %0,Y — Yo, 6 — 2o al tre rapporti £,, 82, 83. Dopo ciò, è subito visto che, ponendo [con notazione già usata al n. 2, d)] no g(R,9=— al eloe(1-5), g:(B,S)= — in 0s(2-4 cara) — 2 - “la SEA le funzioni 9, e 9: godono delle proprietà contemplate al n. 2, 9). (*) Date le ipotesi fatte originariamente sulle (1), si potrebbe anzi affermare l’esi- stenza delle derivate fino al terz’ordine. Ci limitiamo al secondo per enunciare una pro- prietà comune anche ad 7%. — 537 — D'altra parte si verifica immediatamente, in base alle (12) e (12°), che il valore di V°®, definito dalla (15), non è altro che ciò che diventa (17) g(R, S)=g:(R,8)+9(R,9)log 7. quando i due punti parametrici R,S vengono entrambi a coincidere con O (con che Ax si riduce ad o, Dor al valore di D in O, ecc.). Si può dunque scrivere VAC?) — g(0 } 0) 5 od anche, aggiungendo e togliendo 9g(P,$) (in cui al primo punto parame- trico R è attribuita, come si vede, la speciale posizione P, mentre il secondo punto parametrico rimane indeterminato), (15) V@=g9(P,8)4+}9(0,0)— g(P, 9). Ove si ponga (18) Vs=g(0,0)— g(P, 5), =, si ha subito dalle (16) e (17) g(P,S)= Vit Vi, quindi, per la (15'), VO Vi VA Vai e infine, risalendo alla (14), (14) VaeVk+Vt Vik WV.. 6. Contributo recato da V, al potenziale U. Ordine di grandezza. — Nella (11’) l'integrazione si riferisce alle coordinate curvilinee vv", del punto potenziante Q'. Siccome queste coincidono colle x, v, del punto O, si può risguardare O come punto corrente di integrazione, e scrivere in con- formità (11°) v= f duodv, V ° roi ; RenpIcONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 69 — 9398 — Rappresentando con U; il contributo recato ad U da V;, si ha mani- festamente (19) Ui= f dudo,Vi (=1,2,8,0) x Occupiamoci in particolare di U,. Mentre (%, vo) descrive @, il punto O descrive la sezione 0; d’altra parte, in virtù della (8), l'elemento di su- perficie do), circostante ad O, vale do, = Ho duo dvo , dove si intende manifestamente con H il valore di H in 0. Mettendo in evidenza il campo di integrazione o, sostituendo per Vi il suo valore (18), e notando [n. 3, 2)] che | Doe] Ho hp rappresenta il coseno dell'angolo (acuto) w formato dalla direttrice C (cioè dalla tangente a C in P) colla normale a o in O, la espressione (13) di U, diviene e È U, = f d0, cos w log E os figura fuori del segno di integrazione: ciò implica che il punto pa- rametrico S sia scelto senza alcun legame colle variabili uo, vo di integra- zione (cioè colla posizione di O sulla sezione 0). D'ora innanzi riterremo S indipendente, non soltanto da %0, v0, ma anche dalle coordinate ,v del punto potenziato Q: precisamente come accade per il punto P . Giova attribuire ad U, una forma più espressiva, facendo intervenire il piano normale alla direttrice C nel punto P. Sia © la proiezione ortogonale della sezione o sul detto piano; siano O, e Qo quei due punti di 7, in cui si proiettano rispettivamente 0 e Q; dea la proiezione di do, . Dacchè l’angolo diedro, formato dai piani dei due elementi do e dr, è misurato da quello delle rispettive normali, sarà ovviamente dat, = do, c08w . D'altra parte, essendo |{| e 00Q=4 — 539 — le proiezioni del segmento 0Q secondo la tangente e secondo il piano nor- male a C in P, si ha ancora Ne consegue (20) U, = os | de, log Facciamo qualche considerazione sull'ordine di grandezza della fun- zione U,. All’uopo, riprendiamo la espressione di U,, che risulta dalle due prime formule (18) e (19). Badando all'identità e f? (a 8° (È log Tr = log (1 — li) +1og5 — logi ; e ponendo = i=ef duo dvo su log ©, È "I Dop È i SE | perl tlog (1-S)+log S}. avremo anzitutto (21) U=U +07. Ora, intendendo x definito dalla (7), il termine U7 è di secondo ordine in d [ossia, n. 2, c), verifica una disuguaglianza tipo (10) ], e ciò perchè 2 2 [n. prec. e n. 2, a)] log ( n) e log 3; sono funzioni finite, ed è pur finito CI come è stato osservato in principio del n. 2. Sarà dunque, per ho un’opportuna costante M (indipendente dalle dimensioni trasversali del tubo) (22) |urjd. Con questo — si noti bene — scelto, per un caso concreto, un determinato valore numerico di /, si può star certi che la di- suguaglianza seguita a sussistere, anche se si passa a tubi più sottili, si fa cioè rimpicciolire w e con esso la massima corda d'. Ciò posto, designiamo con d il limite inferiore di |Dor|, al variare di — 540 — PsuC e di O sulla corrispondente sezione o (!), e notiamo che x non può mai superare d'. 2 2 Dacchè log n = log È >0, sussiste la disuguaglianza , d (E (23) U1> Je) È ologh. Immaginiamo ora che w converga a zero uniformemente, cioè in modo . . SR w ASSE che resti compreso entro limiti finiti il rapporto 3? (come avviene in par- ticolare quando il campo si restringe conservandosi simile alla sua configu- razione iniziale). Sotto tale ipotesi si può dedurre dalla (23) n, (23') | Ux] > Mi Jos] d° log > essendo M, una quantità positiva (indipendente dalle dimensioni del campo ©). Allora, supposto che non si annulli gs, il rapporto 10} M | U I fe E M, | gs| log 0? converge a zero con d; converge quindi a 1 il rapporto lo mrTI un] Scende di qua, in virtù della (23’), che, scelto a piacimento un m m.]es| dt log 5, per ogni d abbastanza piccolo. La (24) ci mostra che U, è di un ordine di grandezza superiore a quello d'ogni quantità 2, che soddisfaccia ad una limitazione del tipo (10). Segue infatti, da 19) < Md (1) Questo limite inferiore è certo diverso da zero [cfr. n. 2, d)]. — 541 — e dalla (24), (Ola 2 [Ual m | gs] log Ù 9 donde apparisce che (ove si supponga diverso da zero il limite inferiore |] Wa] cioè quanto più va assottigliandosi il tubo T. 7. Riferimento a speciali coordinate. Componenti trasversali dell'at- trazione. — Per rendere più spedito il calcolo delle derivate del poten- ziale U, è conveniente particolarizzare come segue il significato dei para- metri «,V,w: Designando con s l'arco della direttrice C (contato a partire da un'ori- gine arbitraria), assumeremo come superficie w = cost i varî piani normali a C, il valore di w per un piano determinato essendo la s del punto P, in cuì esso piano incontra la curva. Fissato poi uno (a priori qnalunque) di questi piani normali, assumeremo come parametri «,v le relative coordinate cartesiane riferite alla coppia normale principale e binormale. Il piano rappresentativo ZZ, l’intorno +, i piedi delle L, ecc. vengono così ad assumere un significato concreto nel detto piano normale. Supponiamo, per fissar le idee, che esso corrisponda al valore zero di w, e rileviamo alcune conseguenze delle (1), dovute alla speciale scelta dei pa rametri. Introduciamo all’uopo, accanto agli assi di riferimenti x, y,, una terna cartesiana ausiliaria é,7,î (congruente alla prima), costituita dalla tangente (nel senso in cui si contano gli archi), normale principale (nel senso della concavità) e binormale (in tal senso da rendere le due terne congruenti) alla curva C nel punto P del detto piano normale w= 0. Per un punto qualunque di questo piano, si ha, in base alla definizione di u,v, e della terna ausiliaria, tende a divenire infinitamente piccolo assieme a d, di |os|) il rapporto E=) 99 , D'altra parte, fra i due sistemi di assi x,y,z e É,7,6, intercedono le formule di trasformazione er=x | oé + anta, y= Yo + BE + Bnk+- Bb, a=4+y5 +ntr, in cul %r,Y»;4» rappresentano le coordinate di P; a= — ,f=—-> — 542 — d STR ; È = i coseni direttori della tangente a C in P (rispetto alla terna ge- nerica x,Y,2); &,f1,71 ® @,f2,y» gli analoghi coseni direttori della normale principale e della binormale. Nelle formule di trasformazione, per i punti del piano w=0, va posto =0,g=%,î=0; risulta quindi c= Xe + uk 220, (25) ‘ Yy=Yt+Put Bo, <= + puHk yo . Queste espressioni devono naturalmente coincidere con quelle che si traggono dalle formule generali (1), quando (dopo aver scelto i parametri nel modo indicato) vi si faccia w = 0. Possiamo pertanto ravvisare nelle (25) la speciale forma che compete nel caso nostro alle (1), per il valore w= 0. Ciò posto, torniamo al nostro potenziale U. Essendo Q il generico punto potenziato, consideriamo il piano normale a C, che lo contiene, e sceglia- molo (per semplificare le formule) come sostegno dei parametri %,v, con- tando l'arco s di C, e quindi w, a partire da esso. Le derivate di U, rapporto alle coordinate «,v di Q, porgono (coi loro valori relativi al punto Q, e quindi in particolare a w= 0) le componenti A, e A, dell'attrazione (subìta da Q) secondo le due direzioni della normale principale e della binormale alla direttrice (nella sua intersezione col piano normale passante per Q): com'è naturale, chiameremo complessivamente dU dU du’ do Riportiamoci alle notazioni dei nn. precedenti, osservando in primo luogo che o e T sono ora la stessa cosa, e che il segmento 0Q=:=4, le componenti trasversali dell'attrazione. appartenendo al piano ©, riesce perpendicolare alla tangente a C in P., sicchè #= 0; inoltre, ove si ritenga w=0, si ha, per la definizione dei parametri u e v, dA°=(u—w)+(0— vo), Up = — U - Nel punto P si ha in particolare da Illy da pr i it sicchè — 548 — le (25) porgono poi (per qualunque «, v) da dy da du ; n» e dx d de n ll Se ne trae a, Pi Vi op= | © f2 y:|=1. CNY Con ciò, la seconda delle (18), diviene, per wv=0, Va= osco(u—u i SUP 0 i , e si ha per conseguenza dalla seconda delle (19) (tenendo conto che si può identificare 7 con w, dr, con durdvo) (26) U, == Os Cp f (u fa Uo) log È ò dti 0 Quando si deriva U, rispetto ad x (dacchè os e c» ne sono indipendenti), nascono due termini: il primo, proveniente dalla derivazione del fattore “u—U,, non è altro che 1 g%U ’ come apparisce dalla (20); l'altro è (u — uo)? Os ce f "7 dry 6 A noi basta rilevare che la funzione sotto il segno si conserva ovunque finita, sicchè l'integrale riesce di second'ordine (almeno) rispetto a d, esiste cioè una costante M (indipendente da d), tale che il valore assoluto dell’in- tegrale non supera Md?. Lo stesso può dirsi per E , nonchè per una derivata qualsiasi di U; dv e di U,. Quest'ultima affermazione si giustifica subito, badando alle espressioni (18) delle rispettive funzioni sotto il segno: Vs=g(0,0)— g(P,$), Wa = WE — 544 — di queste, la prima possiede [n. 2, lemma g)] derivate semi-finite, mentre la seconda si mantiene senz'altro finita (e integrabile) assieme alle sue de- rivate. Da tutto ciò si raccoglie che ( aU è GY GORI (27) |a i DE dU _<é dU; _dU, |a = Ya ; gli addendi omessi essendo entrambi di secondo ordine almeno rispetto a d. 8. Componente longitudinale. — Per quanto abbiamo osservato nel n. precedente, di : ta riescono senz'altro di second'ordine in d ; va notato che anche ds gode della stessa proprietà: resta infatti finita la funzione i; V e. : sotto il segno Na come si riconosce badando alla sua espressione (18) e dw usufruendo delle considerazioni sub d) (n. 2). Si ha quindi (28) ny, DIO la parte omessa essendo di second’ordine almeno, rispetto a d. Se si osserva che l'elemento di linea L(x= cost.,v= cost.), passante per il punto potenziato Q, è dato da #xdw, si vede che misura la componente dell’attrazione nel senso della tangente alla linea L passante per Q . Possiamo facilmente desumere la componente longitudinale A. cioè se- condo la tangente alla direttrice C in P.. All’uopo, si nota anzi tutto che i coseni direttori «, , fe; Ye della linea L nel punto Q, possono porsi sotto la forma a+ PQ a*,8 + PQ 8*,y+PQ7", a,B,y riferendosi al punto P (e quindi alla direttrice C) ee, de signando funzioni finite. Del pari è a ritenersi Ta O PA h* mu — 545 — con h* finita, ossia, per essere X2p=1, 1 mene —=1+PQh°. ha Ciò posto, badiamo all'identità dU do) = each + BoAn + Yohb ’ 1 ha e facciamo per un momento coincidere gli assi generici x,y, colla terna principale £, 7,6 di C in P, con che a=1,f=0,y=0. Potremo scrivere dU lips GIO UT — (o*A4- P*AnH4-y*Av){. 10) = ( dusdu,V, (o) e le derivate di V divengono infinite di prim'ordine al più (nel punto Q), si potrà assegnare [cfr. n. 2, c)] una costante M (indipendente da d) tale che nessuna derivata di U superi Md. Ad analoga limitazione soddisfano allora le componenti dell’attrazione, e per conseguenza il coefficiente di PQ. Ma quest’ultimo non supera d, sicchè si ha col consueto comportamento della parte omessa dU “Tn 0 donde, ricordando la (28), ì _ 40, (28') Ang= DI sla Data la convenzione fatta al n. precedente, la w del punto potenziato Q è nulla; a derivazione eseguita, andrà quindi posto w= 0. 9. Risultante delle attrazioni subìte da una fetta infinitesima di tubo. — Consideriamo, accanto alla sezione generica 7 di T, una sezione parallela 7’, distante ds. Essendo dudv= dr l'elemento di sezione circostante al punto poten- ziato Q, co dudvds rappresenterà la massa della fetta infinitesima di tubo, compresa fra 7 e 7". RENDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 70 — 546 — L'attrazione complessiva F ds, subìta dalla fetta, ove si ometta il ds (ove cioè la si riporti all'unità di lunghezza) avrà per componenti Pi= f cu Axdudo 9 T ( P,= f nd, dudo, F,= f eaAdudo 9 secondo la tangente, normale principale e binormale alla direttrice C in P.. Ricorriamo all'identità Q0A= 05 A + (00 — 05) Au e alle due analoghe concernenti A,, e Az, osservando che il secondo addendo, in causa del fattore 0, — os, è di second’ordine almeno rispetto a d'. Il corrispondente integrale, esteso a 7, risulta pertanto di quart’ordine (almeno), si mantiene cioè, all’assottigliarsi del tubo, costantemente inferiore in valore assoluto a Md‘ (con M costante positiva, indipendente da d). Ba- dando alle (27) e (28), potremo dedurne n os [ Ma (17 DO ORA Pu=e [Di dudv + 3 030 | Ur dudo +. dhe } Pi=es (dude. ? termini omessi essendo di quart'ordine almeno rispetto a è . Per attribuire ai termini scritti una forma più espressiva, conviene porre 1 l (29) =—zfJafa log 7 e osservare che, una volta fissato P e con esso la sezione normale 7 del tubo, 4 è una costante numerica ben determinata, mentre, se si risguarda P come un punto scorrente lungo la direttrice C, la stessa % è (al pari di 7) funzione dell'argomento s(=%w, arco della curva C). Formiamo ds (E k) e mostriamo che, a meno di termini di quart’or- dine in d, questa derivata coincide con F,. Va da sè che, trattandosi di derivare rispetto ad s, 0, ciò che è lo stesso, rispetto a w, non è lecito porre preventivamente, nell'espressione (29) di k,w=0 (e identificare senz'altro 4° = 0Q? con (u—%)? +(v— vo), de con dudv, ecc.). lie — 547 — Giova invece attribuire a 0ì7°% una forma, in cui apparisca esplicita la dipendenza da w, e sia fisso il campo di integrazione. Ciò si ottiene facilmente, eseguendo a ritroso (così per l'integrazione, relativa al punto 0, come per quella relativa a Q) la trasformazione indi- cata al n. 6. La corrispondente espressione di ot k= é { di { de log 5 può essere scritta Ta St dudo { 0s Do du, dv : : (0) per w=0 — quasi è superfluo il notarlo — i fattori ducono all'unità. Il coefficiente di du dodusdv, si presenta quale prodotto dei tre fattori | Dar CMS l pa » Ga 0s E ,g=log 7. La derivata del prodotto può scriversi d d ) d ai D- e, siccome APRIRE RIA — | Cone: ini si conserva finita [n. 2, lemma d)], mentre g, e > si ricavano l’uno dal- l’altro per scambio materiale dei due punti Q ed 0, così risulta ds È (Re ct k)= Ie PUdo Tr [o 2po pduo dv, + © è 5 il termine omesso essendo almeno di quart'ordine in d'. Riponendo per le i loro valori e tornando a mettere in evidenza la sezione 7 come campo di integrazione, risulta i e. ds s È Ss dw SI È A? 0 b) che, confrontata colla (20), porge appunto l'annunciata relazione d F, Fn (ot, k) . — 548 — Più semplice riesce la riduzione di F,, e di F,, potendosi porre nei secondi membri w=0, anche prima di eseguire le derivazioni rapporto aduea ov. Per wv=0, si ha infatti e (© MP POI e le derivate mutano segno, quando si scambiano fra loro i punti O e Q. Ne viene Saf de È log = f de f ant log-=0, che, in virtù della (20), equivalgono a A ig fado gi |_CICSE 7, =0. Con ciò, ove si osservi che, per le (20) e (29), 5 ef dudvU, non è altro che oî7°%, le espressioni di F, e di F, assumono la forma F,=o0:tkec,k--., li, = () SORA i termini omessi essendo di quart'ordine almeno rispetto a 0 (massima di- stanza fra due punti della sezione 7). RIASSUNTO — CONSIDERAZIONI QUALITATIVE. Riassumendo, si ha che le componenti (unitarie) F,,F,,F dell’attra- sione complessiva, esercitantesi sulla fetta considerata, hanno per espres- sioni asintotiche (30) rod gen) , FO = eleke, ,FO=0, essendo % definita dalla (29), c° la ‘curvatura della direttrice C del tubo nel punto P, e os il valore della densità in un punto S, che può essere scelto con criterio arbitrario entro alla sezione 7 del tubo, praticata col piano nor- male a C in P. — 549 — La giustificazione della qualifica « espressioni asintotiche » risiede nel fatto che, dei due vettori F@ di componenti (a) (a) (a) IRE o tl Dig e G di componenti (4) (a) (4) TO n 0 i quali insieme costituiscono l'attrazione risultante F', il secondo è infinite- con- simo rispetto al primo, è tale cioè che il rapporto delle lunghezze Fi. verge a zero assieme a d. Per rendersene conto in modo preciso, conviene osservare: 1°. I termini omessi nelle espressioni di F,, F,,F,, cioè le diffe- renze F, — F?, F, — FO, F,.—F?, sono di quart'ordine rispetto a d, talchè la stessa proprietà compete alla lunghezza cl RT eg aan Si può quindi ritenere, col solito significato di M, G< Md. 2°. A norma della (20), U, conserva sempre il medesimo segno, quello di os. Perciò o3U, è essenzialmente positivo (in quanto si esclude che 08 . si annulli), e, avendosi dalla disuguaglianza (24) 1? les Ui] > me, d*log 5» sì può sopprimere nel primo membro il segno di valore assoluto. Così dal- l'identità ek=30s | dudv USA ATTO si ricava ot k> mod? log5 ( dudo Se quindi si suppone che la sezione vada assottigliandosi uniformemente (nel senso dichiarato al n. 6), si potrà affermare l’esistenza di una costante positiva #m, (indipendente da d), tale che olek>m d' log + 3 — 990 — Questa disuguaglianza, assieme alla G d) in modo da rendere minima la frazione suddetta. Nella maggior parte dei casi basterà tuttavia un apprezzamento grossolano per un determinato valore di /. Questo valore si sceglierà col criterio seguente: Per l’attrazione di un (sottile) toro omogeneo, avente per direttrice una circonferenza di raggio a, gli sviluppi, forniti dalla teoria degli integrali ellittici, mostrano (*) che il valore più conveniente di / è 8 a. Per una direttice qualunque L, assimilandola, nell'intorno di un punto È i, 5 8 È , generico, P, al suo cerchio osculatore, si prenderà 7 = —. Ove si voglia una stessa / per tutta la linea L, si potrà prendere otto volte il raggio medio di curvatura. (1) Cfr. per es. Tisserand, Zraité de mécanique céleste. T. II, pag. 137-154. — 561 — FORME PARTICOLARI DELLE ESPRESSIONI ASINTOTICHE. Meritano ancora esplicita menzione due aspetti particolari delle for- mule (30). Essi si ottengono disponendo in modo opportuno del punto parametrico S. In primo luogo, si può far coincidere S con P, dando così rilievo al comportamento della densità (cubica) e lungo la direttrice. Ma più interessante è un secondo criterio, con cui si mette in evidenza la densità lineare del nostro tubo T. Ecco in qual modo. La massa della fetta, cui si riferisce l'attrazione risultante testè cal- colata, vale ds dh od, talchè 81) = fed sarà a dirsi la densità lineare del tubo T (in P). Ora, applicando all’integrale del secondo membro il primo teorema della media, si può scrivere, in sua vece, il prodotto della sezione 7 per il valore (medio) assunto da o in un certo punto interno alla sezione. Noi assumeremo per S un tale punto, e avremo così (32) VΗiG0z. Portando nelle (30) questo speciale valore di os si ottengono le formule (83) pot (y°4%) PO s°k,, POLO d) già riferite nell’introduzione (v. Nota I) come mèta della presente ricerca. Ghimica. — PRadivattività di alcune emanazioni gassose ita- liane (*). Nota del Socio R. NasInI e di M. G. Levi. In questa Nota riportiamo alcune misure da noi fatte sulla radioattività di gas in località italiane. A parte sarà riferito sulle numerose esperienze da noi istituite sopra i gas dei soffioni boraciferi toscani. Fra i prodotti da noi esaminati, i più attivi (eccetto quelli di Bad Gastein) si sono manifestati i gas delle terme di Abano, così bene studiati dal prof. Vicentini. È nostra intenzione di esaminare il maggior numero possibile di gas naturali în regioni italiane, e saremmo grati a chiunque volesse () Lavoro eseguito negli Istituti chimici delle Università di Padova e di Pisa. aos farcene invio, accompagnandolo con indicazioni esatte della località da cui i gas provengono, del modo in cui escono dal terreno o dall'acqua, del metodo seguìto nella raccolta e del giorno e dell'ora in cui furono prelevati. Alcuni dei gas qui studiati erano già stati oggetto di esame per parte nostra in relazione al loro contenuto in argo e in elio e al loro comportamento allo spettroscopio. La radioattività dei gas studiati fu misurata sempre col solito elettro- scopio a grande campana di Elster e Geitel oppure, quando era piccola la quantità di gas disponibile o molto forte la sua radioattività, con un elet- troscopio espressamente costruito con campane di capacità diverse e che era campionato col primo elettroscopio; oppure ancora diluendo il gas con quan: tità note d’aria a volume noto. I numeri dati però sono tutti calcolati in modo da corrispondere a misure fatte con l'elettroscopio classico di Elster e Geitel; lo strumento nostro ha una campana di cm. 18 X 34, cioè della capacità di ca. 8,5 litri, ed ha una capacità elettrica di 14 cm. Soltanto per i gas di Salsomaggiore ci fu possibile eseguire anche misure diretta- mente sul posto: tutti gli altri gas ci furono spediti direttamente dalle sor- genti o in damigiane o in palloni di vetro chiusi a perfetta tenuta da tappi di gomma masticati e già provvisti per lo più dei tubi di vetro per lo spostamento del gas stesso. Di ciascun gas si tenne il più esattamente pos- sibile conto del giorno ed ora della raccolta in modo da conoscere, diremo così, l'età del gas chiuso nei recipienti e poterne calcolare almeno approssi- mativamente la perdita, nella più semplice ipotesi che i gas contenessero tutti emanazione di solo radio, ipotesi che è del resto anche la più logica. Di quasi tutti i gas esaminati si determinò anche il contenuto in anidride carbonica (*) ed in ossigeno, sia per avere un'idea della composizione, sia per assicurarci che insieme coi gas non era stata raccolta dell’aria. Prima di essere introdotti nell’elettroscopio, i gas venivano depurati dell'idrogeno solforato, là dove ce n'era bisogno, facendoli passare attraverso torri contenenti un miscuglio di cloruro e carbonato di piombo, e venivano poi in ogni caso seccati attraverso cloruro di calcio. Dai recipienti, i gas venivano spostati con acqua per lo più satura di anidride carbonica, e nell'elettroscopio veni- vano introdotti per lo più spostandone l'aria con la massima rapidità pos- sibile per rendere minimi i fenomeni di induzione della radioattività: soltanto in un caso (gas di Bad Gastein) si fece il vuoto nella campana dell’elet- troscopio, avendo poco gas a disposizione. Nella tabella che segue diamo in prima colonna tutte le indicazioni generali inerenti al gas esaminato; nella seconda, l’età del gas dal giorno della raccolta: nella terza, i dati analitici riguardanti l'anidride carbonica ed eventualmente l'ossigeno; nella quarta, la dispersione espressa in Volt per (£) Ed eventualmente di idrogeno solforato insieme, venendo la determinazione ese- cuita per assorbimento con idrato potassico in soluzione, to) “ — 553 — ora prodotta dal gas nell’elettroscopio di misura a campana piena; nella quinta, la dispersione stessa calcolata per il gas esaminato subito alla sorgente nel- l'ipotesi già esposta che si tratti sempre di emanazioni di radio; nella sesta, l'intensità di corrente di saturazione prodotta dal gas nell’elettroscopio, cal- colata in base ai valori della colonna quinta e alla capacità elettrica dell’ap- parecchio ed espressa in Ampères. ° Non ci fu possibile di sapere l’età del gas di Gastein; ma certo doveva essere stato raccolto da circa una settimana. 10 11 12 13 INDICAZIONI I gas delle sorgenti termali di A- bano (Padova) contenente Ha S gas della Grotta del Cane DE Napoli 5 gas delle sorgenti di Pergine compresso in bombola (por- zione sfuggita alla condensa zione di C0x) . gas delle acque Albule di Tivoli (Lago maggiore della solfatara) gas di Bad Gastein — Ca bàckerquelle). . Sr gas dei soffioni di Trequanda (Siena) — tenuta Carraresi gas dalle acque acidule dm dei Bagni di Casciana . . gas delle terme — RR di Ca- sciana i gas di Salsomaggiore — pozzo delle Saline — inviato. id. id. esaminato sul posto — pozzo Dalla Rosa profondo m. 350 5 jo IRSA id. id. pozzo delle Saline puis fondo m. 117 . . 3 gas della sorgente « La Perla » presso Castelnuovo (Val di Ce- cina) . pai co è gas estratto per ebollizione dal- l’acqua della. sorgente « La Perla» Haden o Età GAIA Dati ‘analitici in giorni I III Disper- | Disper- sione sione Intensità trovata | calcolata Woltiora |iVolliora di corrente amperes IV V IV 3 |CO+-H,S=229/|47000|82400 | 368.7 Xx 10-13 4 CO. = 55 °/o 9 COs = 85 °/o 3 CO.4-HsS$=383.5/ 4 CO. = 98.5 °/o 6 CO, = 16.7 °/o CO: — 0.8 °/’ 4 (07° = 0.2 b2) 0 Ls 0 A 4 CO,= 55 °/o COa = 56 °/o 2 o= 8» RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 2500| 5400 | 24.2 x 10=° 75| 415 1.8X 10-12 314| 550 2.5 X 10-12 70000) — LS 1800 | 2200 9.8 X 10-12 100] 220 | 0,98 x 10—: 188| 570 2.6 X 10—2 181| 400 1.8 X 10-12 BERO 300 1.3. X 10-12 DR 1400 1.8 X 10—°° 360| 800 3.6 X 1012 236 | 340 1.5 X 10-12 71 — 954 — Cristallografia. — Sull’associazione del rutilo con a Nota del Corrispondente 0. VioLa. To posso limitarmi a fare poche citazioni relativamente alla storia di quest’associazione, avendola Baumhauer (*) riassunta e illuminata. È È noto che giusta le prime osservazioni dovute a Breithaupt (2) la faccia (100) ovvero (010) del rutilo è parallela alla base (777) dell’ematite, e la zona principale [001] di quello dovrebbe essere sempre parallela a una delle tre direzioni principali di questa [277], [27], [112]. I diversi cri- stalli di rutilo appoggiati sulla base (///7) dell'ematite sarebbero dunque, secondo Breithaupt, orientati in tre direzioni principali dell’ematite facenti 120° risp. 60° fra di loro. Se la regola di questa associazione fosse così, una faccia }101} del rutilo riuscirebbe vicinissima a una delle faccie }700{ dell'ematite, poichè l'angolo polare di queste rispetto a (777) dell’ematite è di 57°,30' secondo Striver (*) e di 57°,37 secondo Koksharow e Dana (*), dove che l'angolo polare della faccia (111) del rutilo rispetto a (100) di questo è di 57°,12’,44" secondo Miller e Dana (°), e di 57°,13/,25” secondo Baumbhauer (°). Haidinger ("), G. vom Rath (8), Kenngott (°), Pelikan (!°), Schrauf (1), Biicking (*°) e altri confermarono la legge di associazione annunciata da Breithaupt. Nuova luce su questo importante argomento, nonchè ricco contributo, viene gettata da una Memoria di Baumchauer (**), dove è dimostrato che la (1) H. Baumhauer, Veber die regelmissige Verwachsung von Rutil und Eisenglanz. Sitzb. d. k. preuss. Akad. der Wissenschaften, Berlin, 1906, 322. (*) A. Breithaupt, Min. 1836, /, 309, fig. 159; 1847, 3, 794. (3) G. Striiver, Studi cristallografici intorno all’ematite di Traversella. Atti della R. Accad. di Torino, 1872, VII, 377. (4) Dana, Man. of Mineral. 1892, 214. (5) Dana, Man. of Mineral. 189, 237. (5) H. Baumhauer, Veder den Rutil des Binnentals im Canton Wallis. Comptes rendus d. 4° Congrès scientif. intern. d. Cathol. 1897. Fribourg 1898. Zeitsch. f. Krystall. 32, 653. (*) W. Haidinger, Handb. d. bestimm. Mineral. 1845, 281, fig. 457. (8) G. vom Rath. Zeitsch. d. geol. Gesellsch. 1862, 74, 414, 415; Miner. Mitt. Pog- gendorf Annalen, /52 (228), 21. (9) Kenngott, Mineral. Schweiz, 1866, 27. (19) Pelikan, Tschermak’sche Mineral. Mitteil. N. F. 16, 58. (1!) Schrauf, Wien. Sitzb. Akad. d. Wiss. 1869, 27, 214; Neues Jahrb. f. Min. 1870, 355. Zeitsch. f. Krystall. 9, 470. ('*) H. Bicking, Zeitsch. f. Krystall. I, 562, II, 416. (18) H. Baumhauer, Veder die regelmissige Verwachsung von Rutil und Eisenglanz. Sitzb. d. k. preuss. Akad. d. Wiss. Berlin, 1906, 322. — 559 — legge di Breithaupt non è verificata pienamente dal rutilo in associazione con l’ematite. Baumhauer pervenne a questo risultato casualmente, come egli stesso asserisce, osservando due individui di rutilo appoggiati con la loro faccia (100) sulla base (777) dell’ematite; i quali due individui, invece di essere fra di loro paralleli, come vorrebbe la legge di Breithaupt, fanno fra loro, rispetto alla loro zona principale [001], un angolo di 4°,20', e con una delle tre zone principali dell’ematite }[2/7]} un angolo di 2°,10" ciascuno. Posteriori osservazioni di Baumhauer (') confermarono questa deviazione di = 2°,10': cosicchè i cristalli di rutilo invece di essere distribuiti in tre direzioni principali di 120°, si trovano in 6 direzioni secondarie, due a due delle quali fanno 2°,10' rispettivamente con le tre zone principali [217], [121], e [112] dell’ematite. Avendo avuto a mia disposizione il bel campione di ematite con sopra numerosi cristallini di rutilo della collezione Guidotti appartenente al Museo della R. Università di Parma, mi sono proposto di intraprendere alcune mi- sure per verificare o confermare il risultato di Baumhauer, misure delle quali darò subito comunicazione. i Ma prima devo dire che visitai varie collezioni svizzere contenenti bellissimi esemplari del Tavetsch e di Cavradi (Caveradi), quali la collezione esistente nel convento di Disentis, la collezione privata e ricca di Pally pure a Disentis e il negozio di minerali di Tschamut. Osservando i numerosi esemplari di ematite con cristalli di rutilo di queste collezioni, si rimane grandemente sorpresi come gli osservatori e naturalisti eminenti, prima di Baumhauer, non abbiano riconosciuto che la legge di Breithaupt non è quasi mai verificata; che anzi, in quella vece, si nota di- stintamente non solo con la lente, ma persino a occhio nudo, la divergenza fra due e due cristallini di rutilo vicini fra loro. Ed ora esponiamo i risultati dell’osservazione. I cristallini di rutilo che ho sottoposto a misura, si trovano segnati con i Ni. 1, 2, 3, 4,5 e 6 nella fig. 1, la quale dà, come si è veduto (*), l’immagine abbastanza fedele del cristallo di ematite della collezione Guidotti. i Il goniometro essendo a due cerchî (goniometro Goldschmidt), fu disposto il cristallo di ematite in guisa che la base di esso (777), ovvero la faccia (100) dei cristalli di rutilo, fosse faccia polare dell'istrumento. Così facendo, si ottiene che gli angoli orari dànno direttamente la posizione dei cristalli di rutilo per rispetto alle zone principali dell’ematite, essendo (100) di quello sovrapposte a (771) di questo, come osservò già Breithaupt e ha confermato (*) H. Baumhauer, Weber das. Geseta der regelmissigen Verwachsung von Rutil und Eisenglanz. Zeitsch. f. Krystall., 43, 61. @) C. Viola, Sopra un campione di ematite con rutilo di provenienza dubbia. R. Accad. dei Lincei, Rendiconti 1908, II, pag. 437. — 596 — di recente Baumhauer. Ecco ora le misure ordinate secondo la posizione delle faccie dell’isosceloedro (132). Cristallo di rutilo N° 1. angolo orario differenza | Ematite (431); 5 : 360900) - | Ratilo (Ai) 0... o 360996 09,36/= a, niWi(A11)f sl. de 2950107 64°,53 = so + 60° ZA Mie ik Cristallo di tutilo N°, | Ematite (134)... . (00 13009,0' — Butilo (IMM), }. ;: -MMMN2090.36 09,24 = &) I a (Ill) RM BOA0,52 649,52" = e, + 60° | Cristallo di rutilo N° 3, Ematite!(113) | 0. ©. (ORMBNI 240%/0 na Rutilo (110) "US. (MAM o 390138 00,22 = e) 3 ii) *) SISI 40778 64°,48' = e, + 60° Cristallo di rutilo N° 4. Ematite (133). . . . . 86090 —_ Butilo (111)... 360220) 0°,20 = | n (ALI). 00. 2959103, 649,57! — en d- 60° | — 557 — Cristallo di rutilo N° 5. Ematite (3/1). . . . . 60° — —_ Ratto SANE N590:30 00,80"= a, mig (IA) eb a agoiv 124°,36 649,86 = e, + 60° Cristallo di rutilo N° 6. Eimatitek (0 Re 2400/07 — Rutilo (101) (Rene 0178545 Mollo, <60° (1) RA ANDATA 4045 —83 Riassumendo, si ha il seguente quadro : & e e=i(c— 8) Cristallo di rutilo N°1 . . . . . 036 458. 2,082 i AR > A) OLI : 5 0,22 448. 2,26 È a RO ONION ’ SR 0,80 4,86 2,03 ) 3 UE e VIS RO Le medie degli angoli fra i primi cinque cristalli sono: ei= 00.26 È e, = 49,492 ge DOSI e tenendo conto di tutti e sei i cristalli: e = 09,943 , e, = 49,48% e= 29,04 È. Le osservazioni dànno dunque una deviazione media «, la quale varia da 2°,14' a 2°,04' 1, secondo che si prendano in considerazione 5 ovvero 6 cristalli. Questa è una deviazione che si avvicina a quella data da Baum- hauer. Bisogna notare che Baumhauer usò nelle misure una singolare pre- cisione, poichè disponeva di un materiale che ad essa si prestava più di quanto si può prestare l'esemplare del museo di Parma. E io per questo voglio concedere che, calcolando in qualche esemplare la media sopra un nu- mero maggiore di cristalli, la deviazione risulti di 2°,10', come concluse Baumhauer. Ma io devo qui inserire una considerazione. Calcolando la media arit- metica da più osservazioni, si suppone naturalmente che le singole posizioni dei cristalli di rutilo siano affette da errori imprevedibili, che portano fuori — 598 — i cristalli da una posizione costante, ora più ora meno, ora positivamente e ora negativamente. Noi esamineremo in seguito se convenga ammettere che esista questa posizione costante fra ematite e rutilo, seguendo una. determinata legge, come è opinione di Baumhauer. Questi calcolò quale sarebbe la deviazione e del rutilo pel caso che una faccia della sua bipiramide tetragonale inversa j041{ coincidesse con una faccia del prisma disagonale } 253 dell’ematite, e trovò che la detta deviazione importa 2°,11°,36"; infatti gli angoli citati da Baumhauer sono i seguenti: Ematite (253) :(017) = 23°,24',48” Rutilo (041) :(010) = 21°,13/,12” Differenza = 29,11’,86" Si presentava perciò ovvia l'ipotesi di Baumhauer che l'associazione del rutilo con l'ematite segua una legge costante, data dalla sovrapposizione della faccia (041) del rutilo con la faccia (253) dell’ematite. Ma le obbiezioni da sollevarsi a questo riguardo possono essere diverse e di qualche peso. In primo luogo, la deviazione e del rutilo rispetto alla posizione regolare supposta da Breithaupt non è costante, ma è spesso mi- nore di 2°,11',86”, e talvolta è anche maggiore. In secondo luogo si può osservare che la forma }041{ del rutilo è rarissima, come è ancora rarissima la forma }2534 dell’ematite; si può poi altresì osservare che se nell’associa- zione dei due cristalli le faccie delle due forme poco probabili }041{ e 3253} vengono a sovrapporsi, in tutto o in parte, questo deve essere un fenomeno possibile certamente, ma raro e perciò di poca importanza. Guidato da queste considerazioni, mi sono proposto di esaminare se la deviazione e che presentano i cristalli di rutilo rispetto alle zone principali dell’ematite non possa trovare un’altra spiegazione e più plausibile di quella data da Baumbhauer. A questo fine, consideriamo i seguenti tre angoli tra le faccie più pro- babili dell'ematite e del rutilo: (101) :(100)= @, (DEC) = (111): (311) = gr; i quali angoli sono piccoli e press'a poco dello stesso ordine degli angoli €, 8. e della deviazione e (vedi fig. 2). I detti tre angoli sono conosciuti, quando siano dati la deviazione « e le costanti (101) :(100)=%@,(111):(100)o' del rutilo; (100): (142)= 01, (311): (412) = oi dell’ematite. Infatti si ha: cos g = cos o cos 0; + sen o sen og; cos 8. (1) cos g, = cos g' cos 01 +- sen g' sen gi COS #13 COS ga = cos o' cos 01 + sen o' sen gi COS 8». im 66 — 559 — Il problema che ora ci proponiamo di risolvere, è il seguente: quale deve essere la deviazione e affinchè la somma g+ g; sia minima? Esso si riduce a grande semplicità calcolando le derivate di 4 e di ; rispetto alla variabile =, osservando che de= — de. Applicando questo calcolo, le due prime equazioni (1) dànno: { d \ Seng: 77 = Seng. seno, .sene, (2) { Pi | Sen @i sa = — seno .seng;.sene. La somma g+ 9; è minima quando è d isa 09 O (3) Te Arr 9):=0 ossa ds ro de,’ il che porta alla seguente condizione del minimo: seno sens sengi Seng 4 = : (4) seno, Sens, seno, Sen Pi La risoluzione per via diretta di questa equazione è oltremodo labo- riosa; essa è invece rapidissima per via indiretta; scegliendo la quale, portiamo le due prime equazioni (1), a scopo della maggiore esattezza dei piccoli angoli, sotto la forma: SONE one (È us a + sen o seno, sen? È, 1, > i i 1) QQ È Sen? di — sen? a + sen o' sen o sen? ©, e calcoliamo @ e @; per varî valori di s di 5 in 5 minuti primi. — 560 — Ma prima d'ogni cosa, dobbiamo metterci d’accordo circa le costanti da assegnarsi al rutilo e all’ematite. Perl'ematite, la costante cristallografica è stata riferita così: o,= (111): (100) = 57,30 secondo Miller e Striiver, 57,98 ” Haidinger, 57,97 ” Koksharow, 57,29,40 » Dufrenoy; per il rutilo: g=(100):(101)= 57,12/44" secondo Miller, 07,92 ” Haidinger, 57,13 ” Koksharow, 57,13,25 ” Baumhauer. Si potrebbe eseguire il suddetto calcolo, combinando a due queste co- stanti; ma data la piccola differenza di essi, il risultato riesce press’a poco lo stesso, sia che si prendano gli uni o gli altri valori delle costanti del rutilo o dell’ematite. Assumiamo ad esempio le costanti comunemente accettate : 0,=" 579,87" per l’ematite o= 57°,13' per il rulilo, con le quali si calcola facilmente: oi = 619,31',21" per l’ematite o' = 61°,33,58” per il rutilo. E ora esponiamo qui appresso i valori di pg, g, e p+ , per i diversi valori di « calcolati con la formola (12). e | 81 | P Pi | Pg: | 89+9@: 0. CNIT, o, ONG ONTANI O 1,30 1,17 1,19,34 1,10,40 2,30,14 21,12,92 1,39 1,12 1,23,34 1,06,28 2,30,02 21,06,44 1,40 1,07 1,27,36 1,02,20 2,29,56 21,01,48 1,45 1,02 1,31,40 0,58,13 2,29,59 20,57,17 1,50 0,57 1,39,44 0,54,08 229,52 20,53,04 1,55 0,52 1,89,50 0,50,06 2,29,56 20,49,34 2,00 0,47 1,43,56 0,46,08 2,30,04 20,46;40 2,05 0,42 1,48,02 0,42,14 230,16 20,44,22 2,10 0,37 1,52,08 0,38,28 2,30,36 20,43,16 2,15 0,32 1,56,16 0,34,50 2,31,06 20,34,38 2,20 0,27 2,00,22 0,31,24 2,31;46 20,44,22 — 501 — La conclusione che si può tirare da questi risultati, è che esiste un minimo di g + ,, che esso è di 2°,29,52” ed avviene per una deviazione « del rutilo rispetto a una direzione principale dell’ematite, che importa 1e:50% Ed in conseguenza, se la deviazione principale dei cristalli di rutilo e le direzioni principali dell’ematite fosse effettivamente di 1°,50', si potrebbe fondare l'ipotesi che l'associazione regolare fra rutilo ed ematite avviene în guisa che la somma degli angoli tra faccie più sviluppate e più pro- babili dell'uno e dell'altro cristallo è minima. L'osservazione dimostra infatti che la deviazione avviene dalla parte ove le faccie corrispondenti di }111{ del rutilo sono più sviluppate. A questo proposito Fic. 3. serva la fig. 3, ove sono effigiati due cristalli di rutilo deviati di 2°,10, l'uno a destra, l’altro a sinistra dalla direzione principale dell’ematite. In quello a destra figurano sviluppate due sole faccie della bipiramide unitaria }111{, cioè (111) e (111); in quello a sinistra, all’opposto, figurano sviluppate le faccie (111) e (111). Ambidue i cristalli hanno oltre di ciò la forma 3101. Se la deviazione dei cristalli di rutilo dalla loro posizione regolare dovesse avere luogo seguendo la legge del minimo della somma degli angoli tra faccie più sviluppate, la deviazione stessa sarebbe o dovrebbe essere di 20,47" (90 — 579,13), ove mancassero le faccie }101{ e fosse sviluppata unicamente la metà di }111{, poichè il minimo riguarderebbe solamente l'an- golo p,. Se all'incontro fossero sviluppate uniformemente tutte le faccie della bipiramide }111{, il minimo riguarderebbe la somma + 9, + g» di tre angoli, già sopra considerati, cioè tra (101) del rutilo e (700) dell’ema- tite e i due angoli 4, e gs fra (111) e (111) del rutilo, e rispettivamente (317) e (321) dell'ematite (vedi fig. 2), e questo minimo avrebbe luogo natu- ralmente per una deviazione di «e = 0°. Se poi la faccia (111) del rutilo RenpICONTI. 1908, Vol. XVI, 2° Sem. 72 — 562 — fosse soppressa, e l’estensione della faccia (101) stesse all’estensione della faccia (111) del rutilo come 8:9, il minimo della somma 8g + 9g; avrebbe luogo per una deviazione e = 29,15’ (vedi quadro a pag. 000). In conclusione dunque, tutte le deviazioni fra 0° e 2°,47" dovrebbero essere possibili, ove effettivamente l'associazione avvenisse seguendo il prin- cipio della minima somma degli angoli, poichè tutti gli sviluppi delle faccie nelle forme suddette, possono presentarsi entro certi limiti. Le osservazioni ci diranno se la deviazione « è costante o variabile nei limiti su riferiti, e quindi se la supposta ipotesi sia ammissibile e, rispetti- vamente, che probabilità essa abbia. A tal fine serve ancora molto bene-l'esem- plare di ematite del museo di Parma, sulla cui base (777) sono impiantati centinaia di cristallini di rutilo. Si tratta qui soltanto di assumerli possi- bilmente tutti nell’osservazione. Ma intanto si vede già nei sei cristalli misurati, e di cui si è parlato sopra, che essi presentano una deviazione, la quale oscilla fra 1°,15' e 29,26”. Noi possiamo seguire un metodo di misura di esattezza sufficiente, che ci dia le posizioni medie di tutti i cristallini di rutilo appoggiati su (777) dell’ema- tite. Questo metodo consiste nell’ illuminare contemporaneamente tutti i cri- stalli di rutilo, raccogliere da tutti la luce riflessa, e riunire i riflessi vicini in un'unica figura luminosa, come si suol procedere nello studio delle figure di corrosione di una faccia, mediante la riflessione della luce. Se le faccie riflettenti sono parallele, esse dànno una figura luminosa che si avvicina a un punto, un punto luminoso essendo il segnale; se all'incontro esse fanno fra di loro un piccolo angolo, la figura luminosa riunita apparisce allungata, e il suo centro può dare la deviazione media di un certo numero di faccie. Avendo in questo modo operato, nel quadro seguente sono esposti gli angoli orarî dei riflessi prodotti dalla faccie }111{ dei cristallini di rutilo, le quali capitano in vicinanza delle rispettive faccie appartenenti all’ isosceloedro }311{ dell’ematite. Fatte le debite compensazioni, eccone i risultati : angoli orarî differenza Eimatite (1/9) 0 See 6030! _ Rutilio. Le vane 1 3559, 11' 49,49 = 8, O 2 3580,49' TO 5) 364°,14' 49,14 = 8, EmatiteN(/19) . MEO 60°,0' _ Rutilo (III). . “GRIN 549,20" 5°,40' = e» o 2 60°,41' 0°,41'= &, 5) 64°,17' 4° 179 — tes Ematite (214); 200507 — Rutilo(d01): e e {1 115°,16' 49,44 = &y (2 119°,027 09,58" = 81 | — 563 — Fim abito (GANN 11300;04 — anto (00) RR Del0sI=lo, 179°,05' 005 SE 183°,48' 39,48 =, Ei atte (3 E 2400.0) — Roio e A TO 40941 49,24 = e» lo 239,40 09,20 = 8, ii a bitot (107) Se 3000/01 — Race ERE AN (RI 3040,34 49,34 = 8, (229801500) [oo Per avere da questi angoli orarî le posizioni medie dei cristalli di rutilo per rispetto alle direzioni principali dell’ematite, dovremo combinare fra di loro i riflessi che si trovano in vicinanza delle direzioni principali dell’ematite a distanza angolare di 60°. Le combinazioni possono essere le seguenti: & ED a+ eo e=!/s (e 81) (113) è (113); 0.41 4.49 5,30" 204 (113) e (113); 00. 4,17 5,28 1,32 (113) è (31): 0,58 5,40 6,38 221 (311) e (131); 0,55 494 5,19 1,441), (131) e (13); 0,20 4,34 4,54 2,07 (137) e (113); 1,10 414 5,24 1,32 Il metodo di osservazione qui adottato e reso indispensabile per tenere conto, in uno, di tutti i cristallini di rutilo disseminati sull’ematite, è fonte di errori; ma ciò malgrado, salta all’occhio che la deviazione s non è co- stante. Essa è varie volte minore, ed è talvolta maggiore di 29,10"; oscilla fra 19,37 e 29,21’, anzi fra 1°,15' e 2°,26' secondo le precedenti misure. L'ipotesi che l'associazione fra rutilo ed ematite avvenga seguendo il minimo della somma degli angoli tra faccie più probabili e sviluppate dei due cristalli, prende effettivamente valore da questi dati di osservazione, poichè il luogo del minimo varia secondo varia lo sviluppo delle faccie dei due cristalli, tra le quali si misurano gli angoli 4, ;,g». Ed io credo che con una considerazione teorica, il fenomeno possa riuscire più evidente messo in confronto con l'ipotesi fatta. Si consideri dapprima per semplicità una sola coppia di faccie /,/, (fig. 4), di due cristalli dati, facenti un piccolo angole g. Le due faccie sono bagnate da una soluzione. Il menisco che si formerà all'orlo delle due faccie — 564 — dipende dalla costante di capillarità, dall'angolo 4 e dalle dimensioni delle faccie che chiameremo con S. Volendo aumentare la pellicola superficiale del menisco, bisognerà spendere un lavoro di capillarità per vincere la tensione superficiale; e questo lavoro è proporzionale al prodotto Sdg, essendo dg l'aumento elementare che subisce l'angolo g, ed essendo questo piccolo. Supposti i due cristalli in perfetta mobilità, e dato che fra essi esista la sola tensione superficiale, essi raggiungeranno la stato di equilibrio quando il detto lavoro elementare è nullo. Ciò vuol dire che la condizione di equi- librio è Upi— 0% ossia g — min. In questo semplice caso il minimo di g è zero. I due cri- «V////]] ( yo n \Ùù: \\ NoN | \ | NN I \ \ Ì # ax!» Ù Fic. 4. stalli, fra i quali esiste solamente la tensione superficiale, si trovano in equilibrio quando le due faccie f e /, si sovrappongono. Analogo risultato si ottiene quando più coppie di faccie di due cristalli sono sottoposte alle forze capillari. Siano 7 le coppie di faccie di dimensioni Sì, 92, ..+Sn, fra le quali esistano piccoli angoli che chiameremo con Pr, Pr... Pn. Un movimento elementare ds di un cristallo rispetto all’altro farà aumentare o rispettivamente diminuire di quantità infinitesime, quali dp. dpr. ...dpn, gli angoli dati. Supposto i due cristalli siano in perfetta mobilità, e che tra essi non si abbiano altre forze che capillari, il lavoro superficiale necessario per pro- durre il movimento de sarà proporzionale alla somma: dL= SS; dg, + Se dp + DIO Sa d@n ss — 565 — salvo una costante. E questo lavoro elementare è nullo pel caso di equilibrio fra le forze capillari : dL=0. La condizione dell'equilibrio fra i due cristalli è dunque : Sì + Ss Pr + DICO + S, n= Min. Questa considerazione è applicabile al caso concreto fra rutilo ed ema- tite con (100) dell'uno sovrapposta a (2/77) dell'altra. Siano S,, $:,S le dimensioni rispettive delle faccie (111), (111) e (101) del cristallo di rutilo. le quali si trovino in vicinanza delle rispettive faccie (311), (311) e (200) dell’ematite. I due cristalli, fra le cui faccie si sup- pone esistano solamente forze capillari, ammetteranno una posizione relativa tale, che ci sia lo stato di equilibrio fra Je dette tensioni superficiali, e questa condizione di equilibrio è appunto Sp + Sg, + Sg, = Min. Si potrebbero ora considerare i diversi casi possibili. Mancandovi la faccia (111) del rutilo, ossia S$=0, la condizione d’equilibrio si riduce a Sp + Sg, = Min. Per See Mn Meieso. per SESSI pp; — Mime 20150: e così via. Riassumendo le considerazioni teoriche fatte e i dati di osservazione, potremo così concludere : La deviazione fra direzione principale del rutilo e direzione principale dell’ematite non è costante, ma varia in limiti larghi secondo lo sviluppo delle faccie 5111} del rutilo; la condizione di equilibrio tra le forze capil- lari varia anch'essa in limiti larghi secondo lo sviluppo di }111{ del rutilo, e ha luogo per una deviazione che può essere da 0° a 20,47". Le osservazioni e la ipotesi sono quindi abbastanza concordanti; in ogni modo, quelle sono tutte comprese in questa. Una sola obbiezione è lecita, che i cristalli di rutilo appoggiati sull’ematite presentano talvolta deviazioni poco diverse, e, nel caso osservato da Baumhauer, di 2°,10'. Ma questa obbie- zione non è molto seria, poichè è noto che l'abito dei cristalli formatisi in eguali condizioni si mantiene quasi sempre costante; costante può quindi essere la deviazione =. | — 566 — Chimica-fisica. — icerche chimico-fisiche sulla lente cristal lina. Nota del Corrisp. Filippo Bortazzi e di Noè ScaLIncI. | IV. — DISIMBIBIZIONE DELLA LENTE IN ARIA SECCA I E RIIMBIBIZIONE DI ESSA IN ACQUA E IN VAPOR D'ACQUA. i Per disseccare le lenti all'aria, le abbiamo tenute sospese in un minu- o scolo piattello di bilancia dorato sotto il coperchio di un comune essiccatore, sul cui fondo trovavasi cloruro di calcio puro. A intervalli determinati, le i lenti erano pesate. Per lo più, disseccammo insieme le due lenti dello stesso animale e poi, interrotto a un certo punto l’essiccamento, sperimentammo la riimbibizione di esse, immergendone una in acqua distillata e l’altra sospen- dendola in uno spazio chiuso soprastante all'acqua distillata, e perciò saturo di vapor d'acqua. Siccome generalmente le due lenti d’uno stesso animale hanno approssimativamente lo stesso peso, il peso iniziale di ciascuna lente | d'ogni coppia può esser considerato come eguale alla metà del peso di cia- scuna coppia di lenti. Tutti questi esperimenti furono fatti alla temperatura costante di 27° C. Dall'esame della tabella IV e delle curve della fig. 4 risulta che il pro- cesso di disimbibizione nell’aria secca decorre approssimativamente nello stesso modo, sia che si tratti di lente di coniglio, sia che si tratti di lente di cane, e qualunque sia il peso iniziale della lente. Considerata la disimbibizione nelle | prime quattro ore, la discesa delle curve apparisce egualmente rapida per le lenti I, II, III e V; solo la lente IV presentò una curva di forma al- quanto differente; ma l'andamento abnorme di questa curva può esser dipeso da qualche ragione a noi rimasta ignota. ) TaB. IV. — Disimbibizione della lente in aria secca. | ANIMALI È I. II. II. IV. V. Cane Cane Coniglio Coniglio Cane gr. gr. gr. gr. gr. Peso delle lenti normali . (101.)0,386 (21.)1,030 (21.)0,712 (2L.)0,662 (2L.)1,075 Peso delle lenti dopo 1 ora 0,329 0,956 0,640 0,587 0,919 ” 2 ore 0,291 0,881 0,570 0,380 0,863 ” 3» 0,263 0,812 0,491 0,346 0,799 ” 4 » 0,249 0,759 0,447 0,336 0,748 ”» Do — 0,712 0,426 — 0,707 i » 6» > 0,675 0,400 — — i D) Tp — 0,641 0,384 — — | ”» 8» = — 0,371 “i = D) 9» —_ — — 7 20 » 1 0,468 DS Gi di D) 2180 0,141 = = = ai ”» 23.» —_ — 0,313 — —_ Perdita di acqua . . 0,245 0,562:2=0,281 0,399:2—0,1995 0,326:2—=0,163 0,368:2—=0,184 Diminuzione percentuale del peso delle lenti . . . . 63,47 94,56 56,17 49,25 34,23 Diminuz. di peso dopo 4 ore 0, 137 0,371:2=0,185 0,265: 2—0, 132 0,326: 2—0, 163 0,327:2=0,163 ”» percentuale del peso do PON: GOLE MN SO 35,36 36,02 37,22 49,25 30,42 — 5607 — È chiaro che nelle prime 4-6 ore avviene la massima perdita di acqua da parte delle lenti. Durante questo periodo di tempo, non ostante la grande perdita di acqua, la lente non si opaca; essa si raggrinza, senza intorbidarsi; solo più tardi incomincia l’opacamento, quando cioè gli strati superficiali, divenuti friabili, incominciano a sfaldarsi. È, dunque, un errore il dire che il semplice disseccamento sia causa di intorbidamento della lente. 0,600 0,500 0,400 0,300 -j 0,200 Disimbibizione della lente in aria secca. IRIIGRA Le lenti così disseccate sono state poi alcune immerse in acqua distil- lata, altre sospese sull'acqua distillata, allo scopo di vedere come procede la riimbibizione della lente in acqua e in vapor d'acqua. La tabella V contiene i risultati numerici di queste nostre ricerche di riimbibizione; e nella fig. 5 abbiamo riprodotto le curve di riimbibizione nelle prime quattro ore. — 568 — Tap. V. — Adimbibizione della lente in acqua e in vapor d’acqua. ANIMALI | Tì €ÈÈ.È...**TttT_—————r _ __________—+—_m_-..’’©—9F_Cert__ CANE CANE CONIGLIO CONIGLIO CANE | Acqua GuEro Acqua a Acqua |, si ch Vap. d’acqua | Acqua n iva I GRAMMI Peso della lente all’inizio della '| riimbibizione . . . | 0,142] — | 0,287] 0,231] 0,152| 0,158 |(2L)0,336 | 0,396 | 0,351 Î Peso della lente dopo lilora 0,275| — = — | 0,252] — = 0,477 | 0,351 il ” 2 ore 0,286| — | 0,426] 0,246| — — — 0,483 | 0,351 ” 9 n 0,295] — — —_ — “= —_ 0,494 | 0,351 | » 4 n 0,284| — | 0,477] 0,248] 0,289| 0,172 — 0,506 | 0,350 | | ” 5» — = — — — _ = 0,515 | 0,350 I ” 6 » = — | 0,488] 0,255| 0,280| 0,174 —_ —_ = | ”» 7» —_ —_ — — — — — — — ” 8» _ — | 0,528| 0,257| 0,267| 0,176 —_ — _ | ” 14 » —_ = — —_ — —_ 0,366 — _ | ” 17 » — = — _ =" _ 0,369 — Î ” 19 » —_ pe —_ — —_ — — 0,573 | 0,354 | | ” 20» = = — — — —_ —_ 0,580 | 0,355 Il » 21 » 22 —_ — —_ 0,375. |0,5750)| 0,355 o ; 22 27 ti 0,573 | 0,257 | | ” 23 » => — | 0,517] 0,277] — — — 0,562 | 0,356 | ” 24 _ = — — 0,189 0,377 — | ” 25» — = —_ — _ 0,549 | 0,355 I ” 26 » = e — —_ = 0,190 —_ — — » 27 —_ a —_ — _ — —_ _ D) 28 » _ — |0,6550%)| 0,279] — — — — | 5) 30» —_ = — 0,280| — 0,192 — _ — | D) 32 » S — 0,277| — = = = ” 33 n _ — —_ — 0,194 = — = | ” 40 » _ = — — — —- 0,387 — — Il ” 41 » —_ —_ = — — 0,382 Ci | È) 42 » _ = —_ —_ _ 0,382 — 0,361 i » 43 » = Ss — _ —_ — 0. 1,977 — | D) 44 » — c° — — —_ 0, 3377 — — i D) 45 » _ —_ — — — = 0,373 == > il ” 47 » — — = —_ — —_ 0,371 = = il ” 48 » 2 sc = 0,286] — 0,198 — — — Ì| | ” 49 » da (| cc e a IO ii = | | ” 50 » _ = — — — | 0,194 — — — | » 51 » -- — — 0,290] — 0,192 —- = — | ” 59 » pal a Tn set i 0,191 fra LL nat | | ” 58» _ = 0292 dl —_ — = = (I ” 54 » - O — = — | 0,189 — — = Li ” 55 » = peù, = 0,295 Mec: SE Ra RES de Ì ” 57 » e i NOCE _ HMI —_ RI D) 59 » = Si = 0295 = = n Dee Ì »” 61» pe DE = — = = — — |Ammuf, I} ” 63 » _ Ze _ — Pa _ 0,368 — — | ” 72 » pets 19 i 0,313 133, par Fase SS pa Il ” 73 » = Sl =. Oslo = = —_ = | D) 74 » sea pes _ Oslo Li > = = | ” 75 » De di — (|0,310|— —_ = ES = | ” 76 » ne: Pos 0908 —_ — — — il ” 78 » —_ = — | 0,907] — Da RA, ara = ” 80 » = Ri — 0,303| — = I = = ” 82 » das, SS — == = Ta Ammuffita == ag 2) 96 > — —_ — |Ammuf.| — = = = = (1)(Putr.) (1)\(Putr.) Peso della lente normale . . | 0,386| — |0,517|0,517| 0,356| 0,356| 0,662 | 0,537| 0,537 Aumento di peso dopo 4 ore . | 0,142| — 0,240 0,017 | 0,037| 0,114| 0,032 | 0,110) — i Aumento percentuale del Leo dopo 4 ore . . . . . |100,00|] — |101,22| 7,85 |90,13 | 8,85 9,52 |27,77 - — 569 — Da queste ricerche risulta che il processo di riimbibizione in vapore d'acqua della lente disseccata in aria secca decorre così lentamente che nemmeno dopo molte ore la lente raggiunge il suo peso iniziale: la lente ammuffisce (dopo 80-90 ore di sospensione nel vapor d’acqua), essendo ancora assai lontana dal suo peso iniziale. In certi casi, nelle prime ore, la lente, non che aumentare di peso, continua ancora un poco a disseccarsi. Peso in gr. 0,500 — de e V 0,409 — 0,300 - 0,200 — i A È 0,100 ——___—___—_————_—————__— 7 ] Ore 1 2 3 4 Imbibizione della lente in acqua ” n» n vapor d'acqua +=-—=-——- Fis. 5. Immersa in acqua, invece, la lente presenta un notevole aumento di peso solo nelle prime 2 ore; ma nelle ore successive, il processo di riimbi- bizione decorre assai lentamente. I due processi, dunque, di disimbibizione in aria secca, e di riimbibi- zione in acqua e in vapor d'acqua non decorrono in maniera omodroma. Si noti che, la disimbibizione essendo avvenuta in aria secca, il confronto più legittimo del decorso della disimbibizione sarebbe quello col decorso della riimbibizione in vapor d'acqua. Ora, sono per l'appunto questi due decorsi che appariscono estremamente eterodromi. Invece, il processo di riimbibizione in acqua, nel primo periodo, può dirsi che ricordi, a rovescio, quello opposto di disimbibizione, in quanto che anch'esso decorre con una RenpIconTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 73 — 570 — certa velocità. È però anch'esso eterodromo, perchè la riimbibizione anche nell'acqua avviene assai più lentamente della disimbibizione in aria secca. Con queste ricerche viene, quindi, essenzialmente confermato quanto è stato osservato negli idrogeli anorganici e nella gelatina (*). L'imbibizione e la disimbibizione in vapor d'acqua avvengono in modo estremamente ete- rodromo nella lente cristallina; e anche in modo eterodromo decorrono la disimbibizione in vapor d'acqua e la riimbibizione in acqua. In modo omodromo dovrebbero, invece, decorrere i due processi di disim- bibizione e di imbibizione nella fase liquida. Noi abbiamo fatto, però, a questo proposito, pochissimi esperimenti. Abbiamo fatto disimbevere la lente in soluzione 10 °/, (1,709 n) di NaCl, e poi l'abbiamo immersa in acqua o sospesa nel vapor d'acqua (tabb. VI e VII, curve della fig. 6). La disimbibi- zione in soluzione concentrata di NaCl non può essere però protratta oltre 2 ore o poco più, perchè, come risulta da altri nostri esperimenti, nelle solu- zioni saline molto concentrate, al processo di disimbibizione segue in breve tempo il processo opposto di imbibizione (aumento in peso della lente). Tap. VI. — Disimbibizione della lente in soluz. 1,709 n di NaCl (a 27° C). I. II Peso della lente normale in. . . . . gr. 0,502 0,501 ResogdopolniWfora, CSM 0,489 0,490 ” Drone” me RAME 0,484 0,485 Diminuzione di peso della lente in. . gr. 0,018 0,016 Diminuzione percentuale del peso . . . » 3,58 R7, Tap. VII. — Reiimbibizione della stessa lente (27° C). I. II. in acqua in vapor d’acqua Peso della lente all’inizio della riimbibi- zionegin i. Lu SM e o 0A 0,486 Peso della lente dopo 1 ora. . . . » 0,523 0,477 ” ” QUOTE O 0,538 0,472 ” ” On 0,551 0,468 ” » DTM ei 0,642 0,458 Aumento di peso della lente in. . . gr. 0,158 Aumento percentuale del peso . . . . » 830,36 Da queste ricerche risulta che nemmeno nella fase liquida i due pro- cessi di disimbibizione e d’imbibizione decorrono in modo omodromo. Le (*) Ved. W. Pauli, Ergebn. d. Physiol., III. Jahrg. 1. Abt. S. 159, 1904. — 571 — curve della disimbibizione s'abbassano piuttosto lentamente, pur essendo pa- rallele; la curva di riimbibizione (di una delle lenti) monta invece rapida- mente, come quelle della lente normale immersa in acqua distillata. (Sospen- 0,530 0,520 0,480 Fis. 6. demmo l’altra lente nello spazio chiuso, saturo di vapor d'acqua: strano a dirsi, essa continuò a diminuire di peso, cioè a cedere acqua all'ambiente !). In questi esperimenti, però, processi di osmosi si svolgono insieme coi processi di imbibizione e disimbibizione, e quindi l'effetto che si ottiene è complesso. Ma di ciò tratteremo diffusamente più tardi. Matematica. — Sulla continuità di un integrale rispetto ad un parametro. Nota della dott. P. QuINTILI, presentata dal Socio V. CERRUTI. Il sig. Pringsheim, in una Nota sulla formula integrale di Fourier ('), osserva che le condizioni per la validità di questa formula, poste nell'opera di Riemann-Weber (?) sulle equazioni alle derivate parziali della fisica ma- tematica, sono insufficienti, se stiamo alla dimostrazione contenuta in tale libro; ma contemporaneamente egli afferma che esse sono sufficientissime quando la dimostrazione si conduca in altro modo. (1) Veber das Fouriersche Integraltheorem. Jahreshericht der deutschen Math-Ve- reinigung. Bd. XVI, H. 1 (gennaio 1907). (*?) Die partiellen Diff-gleichungen der mathem. Physik. Bd. I, $ 17. — 572 — In una recente Nota di L. Orlando (*) sono, infatti, stabilite le basi della formula integrale di Fourier, con condizioni meno restrittive di quelle imposte nell'opera su citata. La dimostrazione si fonda essenzialmente sull'osservazione che l’inte- grale O = J{ "'p(2) cos ad dA (e>0) per ogni valore di « >0 è una funzione continua, quando (4) tenda a a zero per À infinito, e sia monotòna per Z = c. Questa continuità non potrebbe essere dedotta dai teoremi generali con- tenuti nell’ottimo libro del Riemann-Weber, perchè ivi, sulla continuità di un integrale rispetto ad un parametro, sono dimostrati soltanto i tre teoremi che ora enunceremo : 1°) quando /(x,y) è una funzione continua di «,y, allora l' inte- b grale il f(2,y) dx è una funzione continua di y; a 2°) quando l' integrale Su dx converge assolutamente, e quando (x,y) è una funzione contenti limiti fissi, e tale che, per ogni valore finito di x, sia una funzione continua di x,y, allora l’ integrale {© (e, y) de è una funzione continua di Y; 3°) quando f "9(2) dx converge, ed è w(x) una funzione che tende a zero per x infinito ed è monotòna per x =c, allora, se @ tende a zero per valori positivi, sarà lim f SOY = (0) f gdr. Nessuno di questi teoremi può permetterci di decidere se /(@) sia o no una funzione continua, per ogni valore di a >0. Per questa considerazione, non crediamo che sia inopportuno aggiungere, come complemento a questi tre teoremi dimostrati nel Riemann-Weber, la soguente proposizione : A) Supponiamo che (x) sia una funzione limitata, monotòna per ogni valore di x = e, e che essa tenda a zero per x infinito; supponiamo inoltre che, per ogni valore di % abbastanza vicino a zero, si possa scrivere |K@,9+M)+K@,y]<, (*) Sulla formula integrale di Fourier. Rend. della R. Accademia dei Lincei. Vol. XVII, fasc. 6° e 8° (2° sem. 1908). -(3) — 573 — dove w è un numero positivo, indipendente da x e da y, fissato ad arbi- trio; sia inoltre, per ogni coppia di valori p e g, non inferiori a €, l’inte- q grale 1) K(x,y)dx contenuto in limiti fissi, indipendenti da x e da y, © p anche da p,g. Con queste ipotesi, noi dimostreremo che l'integrale P)= f 9,9) de è una funzione continua di y. Incominciamo a spezzare l'integrale F(y) nel seguente modo: 00 Y 0 1) E(4)= K(x,y)dex = )K(e,y)d e) K(xe,y)dx (1) F)=f sE) de fdt | SME ed osserviamo che, per il secondo teorema della media, possiamo scrivere: v E y A fsOKE Md =) f EM d+ 90) f Kde dove £ è un valor medio fra y e ». Se facciamo tendere » all’ infinito, allora g(v) tende a zero; ma abbiamo n q anche detto che il K(x,y)dx è contenuto in limiti fissi: dunque è chiaro p che esiste un numero positivo fisso M, maggiore del valore assoluto di questo integrale. Queste osservazioni ci permettono di stabilire la formula: SOLE) 0,1555 ” n» 0,3632 di C0? » 0,1008 di H0. IDR » 0,1782 ” » ce. 17,8 di azoto misurati a 14° e 749 mm. di pressione. In cento parti : Trovato Me] II C =- 63,68 63,70 = Hi=Sma7e © mozilla N. ME Lala D2: Queste analisi conducono ad un biidrazone della formola Cis Hog Os(Ne E, Cs H;): per la quale si calcolano le seguenti percentuali : C = 63,47 Er 0x1 INERME 02 e che corrisponde ad un acido chetonico C,s Has 0s, la formazione del quale si potrà esprimere per mezzo dell'eguaglianza : Cis Hoo 0; + H.0 + 0. = Cis RESOR acido artemisinico acido chetonico — 595 — Ciò dimostra che, rispetto al permanganato, santonina ed artemisina si comportano in modo alquanto diverso: infatti la prima, a parità di tratta- mento, assume nettamente 3 atomi di ossigeno. Mediante un'ossidazione più profonda si riesce invece ad ottenere da una molecola di artemisina, una molecola di acido ossalico, in modo perfet- tamente identico a quanto si verifica per la santonina. All'uopo, gr. 1,9956 di artemisina, sciolti in 8 cc. di soda al 15 °/, e mescolati con 200 gr. di ghiaccio, vengono trattati nel modo già descritto, con gr. 9,6 di perman- ganato sciolti in 180 cc. di acqua. Allorchè si è aggiunto tutto il permanganato, il liquido presenta ancora colorazione violetta; ma lasciato a sè una notte, si scolora. Allora, dopo aver filtrato e lavato accuratamente con acqua calda il biossido di manganese, si concentra a b. m. sino a 100 ce. circa, si filtra di nuovo, si acidifica con acido acetico e si precipita con acetato di calcio. Il precipitato, raccolto su filtro, tarato e disseccato a costanza di peso, diede i seguenti numeri: Trovato Calcolato 00. | >Ca+2H0 = 1,1960 1,2218 00 4 Grammi 2,0088 di artemisina, sottoposti ad identico trattamento, diedero: Trovato Calcolato CN | PASO = 1,2668 1,2580 COO Cao — MRO 0,4302 Mi riservo di continuare lo studio dei prodotti che si ottengono per os- sidazione dell’artemisina. In una comunicazione preliminare alla Società chimica di Roma ('), esposi di aver ottenuto, fra i prodotti di ossidazione dell’artemisina, un com- posto capace di dare un idrazone, i cui caratteri e la percentuale di azoto facevano supporre con tutta probabilità identico a quello ottenuto da Angeli e Marino per ossidazione della santonina. Ammessa tale identità, che io non asserii in modo assoluto non avendone sufficienti prove, era logico supporre che nell'artemisina l'ossigeno in più si trovasse sotto forma ossidrilica nella posizione da me indicata. Tale conclusione che, come risulta dai rendiconti della Società chimica, io pubblicai con tutta riserva, ha determinato il Bertolo ad esporre nella sua (!) Rend. Soc. chim. di Roma, 1908, pag. 82. logo — Nota ('): « Sopra nuovi prodotti di riduzione dell’artemisina » alcune con- siderazioni alle quali credo opportuno contrapporre quanto segue: I. Egli asserisce che sin dal principio delle sue ricerche si era pro- posto di studiare l'azione degli ossidanti sull’artemisina. Ora, ciò non ri- sulta da nessuno dei suoi lavori, l'indirizzo dei quali è anzi del tutto di- verso. È poi strano che egli non abbia fatto tale dichiarazione nel 1902, quando comparve la pubblicazione di Horst, a meno che questa non gli sia sfuggita come, a suo tempo, gli sfuggì quella di Freund e Mai. II. L'ottenere acido propionico e p-dimetilnaftolo per fusione con po- tassa del prodotto di riduzione dell'artemisina con cloruro stannoso, se vale a dimostrare l'analogia di comportamento di detto prodotto colle desmotro- posantonine, non serve a dimostrare in modo sufficiente ed inconfutabile che nell’artemisina sia contenuto lo stesso nucleo fondamentale della santonina. Il nucleo naftalinico cui si perviene per lo stesso trattamento dei due di- versi prodotti, potrebbe spiegarsi ammettendo che esso rappresenti l'assetto più stabile al quale si perviene dalla demolizione della molecola in quelle condizioni, e non l'analogia delle sostanze di partenza, senza però escluderla. Infatti, mentre ad esempio la canfora ed il fencone, i cui nuclei sono senza dubbio diversi, per azione dello stesso disidratante dànno rispettivamente para- e metacimene, i loro pernitrosoderivati, trattati con acido solforico a freddo, cioè in modo ben più blando che non sia la fusione con potassa a 380°, per- dono protossido di azoto, per dare entrambi una identica sostanza, l’isocan- fora, che deve considerarsi come un derivato del metacimene. A cio si aggiunga che mal si concilia l'identità dei due nuclei della santonina e dell’artemisina col fatto che per distillazione con polvere di zinco la prima dà p-dimetilnaftalina, mentre la seconda, come Freund e Mai hanno dimostrato ed io stesso ho potuto controllare, una dimetilnaftalina, che al punto di ebollizione ed a quello di fusione del suo picrato sembrerebbe identica alla #-dimetilnaftalina di Emmerst e Reingriber. III. Perchè escludere l’esistenza dell’ossidrile nell’artemisina pel solo fatto ch'egli non è riuscito ad avere un derivato acetilico o benzoilico, mentre è noto che numerose sostanze, pur contenendo senz' alcun dubbio ossidrili, non reagiscono con cloruro di acetile o di benzoile nè con isocianato di fe- nile, ecc.? Se la formazione di un acetilderivato è indizio della presenza dell'ossi- drile, non per questo il risultato negativo della reazione autorizza ad esclu- derlo. IV. Per ciò che concerne l’artemisone, per la quale egli ammette una formula di costituzione simile a quella data da Grassi-Cristaldi pel santonone, mi limiterò a far rilevare come per quest’ultima sostanza la struttura sia (*) Rend. Soc. chim. di Roma, 1908, pag. 59. — 597 — stata fissata in via ipotetica e non in seguito ad una dimostrazione rigorosa, e sia poco accettabile, in ispecie dopo le ricerche di Angeli e Marino, per le quali non si può ammettere nella santonina l’esistenza dell'aggruppamento CO—CH;. Ad escludere questo aggruppamento, è arrivato anche recentemente il Francesconi, basandosi sul fatto che non gli è stato in nessun modo possi- bile ottenere prodotti di condensazione delle aldeidi colla santonina, confor- memente a quanto fanno le sostanze che nella loro molecola contengono real- mente il gruppo CO—CH,. La formazione di questi polimeri della santonina e dell’artemisina si potrebbe invece spiegare ammettendo che segua un processo analogo a quelli studiati da Harries, sottoponendo all’azione degli agenti riduttori composti chetonici, che nella loro molecola contengono doppî legami. Petrografia. — icerche su rocce eruttive basiche della Sar- degna settentrionale ('). Nota del dott. AURELIO SERRA, presentata dal Socio G. STRUEVER. Distinguo questo studio in tre capitoli, ciascuno rispondente, come ve- dremo, ad un determinato tipo di roccia. I I monti di San Matteo e di Massa, da me ultimamente studiati (?), sono i focolai vulcanici recenti più estremi della Sardegna settentrionale. Al nord ed al nord-est di essi riscontrasi una serie molto vasta di rocce, per le quali ho creduto opportuno formarmi un concetto dei rapporti che le intercedono, e delle cause complesse alle quali possono attribuirsi. I campioni da me raccolti provengono dalle contrade Fenosu e S'Adde de S'Ulmu; la prima a 7 Km. circa al nord di Ploaghe, la seconda a 5 Km. al nord-est dello stesso villaggio. Contrada Fenosu. Roccia di colore grigio scuro, dura, tenace, per alte- razione di minerali ferriferi talora è colorata in rossastro. La massa fonda- mentale risulta quasi esclusivamente di listarelle feldspatiche: in essa si 0s- servano molti interclusi di /e/spato, inoltre augiîte ed iperstene; accessoria- mente magnetite, biotite ed apatite. Gli interclusi felspaticî sono idiomorfi; mostrano geminazione polisintetica; si estinguono attorno a 37°. L'augite è in cristalli tozzi, spesso rotti e corrosi: l'angolo d'estinzione c= 38°: sol- (*) Lavoro eseguito nell’Istituto di Mineralogia della R. Università di Sassari. (?) Serra, Ricerche su rocce eruttive della Sardegna settentrionale. R. Accademia dei Lincei, 1° sem. 1908, pag. 129. — 598 — cata spesso da due sistemi di linee di sfaldatura (110) quasi rettangolari; le sezioni normali a c sono ottagonali. L’iperstene ha colore bruno di vario tono con notevole pleocroismo; si ha in cristalli prismatici di medie di- mensioni che talora si mostrano decomposti in un aggregato fibroso seguendo le fenditure ed in particolar modo le normali a c. La magnetite è scarsa come intercluso. L' i/menite si presenta in tavolette esagonali. L'analisi chi- mica fornirà un criterio esatto per la sua classificazione: Si 0», e... 43.72 AI, 0; eee n. 22:00 Fe, 0; ei. 1.08 FeO Seen... i Mn0 +... 10.40 Ti 0... 0550 P. 0: ee. 0. 050 Cao neo. ig sa10;00. Mg0. el ni 2,68 K,0. ce... 2.05 Na;0. a... 4:00 H-0. a Blel0g i 0:8£ H,0 perd. per arrov.. . 1,88 99,87 Riporto nella colonna I la composizione della roccia, tenendo conto della quantità di Si0, corrispondente a TiO, e deducendo P,0; ed H;0. Nella II gli stessi risultati sono riferiti a 100: — 599 — Nella III colonna risultano i rapporti molecolari; nella IV i valori percentuali : III IV Soste ne 84,68 56,42 AO e 122,89 15,25 Besos 0:70 — Ref e eiia 5,34 3,98 Moore eee, 1,18 0,75 Cone 18,48 12,81 MeV aaa 16,92 4,61 RO, o ah. 2,26 1,51 NA GONE nn, 7,70 5,17 (0) Z= 150 100,00 Nella V colonna risultano gli atomi metallici; nella VI gli stessi va- lori ridotti a 100: V VI SII N .84.68 46,07 NOR 45.78 24,91 EER e 677 3,68 Mage 11,18 0,61 CORSI N o 18:48 10,06 Mg N 6,90 3,77 age e 4 52 2,46 VAR ee go VE -15,52 8,44 M.A.Z. = 184 100,00 AZ. = 466 Calcolo, seguendo il metodo di Loewinson Lessing (°), il rapporto fra il numero degli atomi di ossigeno contenuti nella silice e quello contenuto negli altri ossidi, il numero delle molecole. basiche. che si hanno per 100 molecole di silice e la formola magmatica : a= IA 3 IMI 1,6 RO. R:0;.3,7 Sio, RESO rRO== 132 (1) Le notazioni Z, M.A.Z., A.Z. sono secondo la classificazione di Rosenbusch. Vedi A. Rosenbusch, UVeder die chemischen Beziehungen der Eruptivgesteine. Tschemak’s Min. und Petr. Mittheil., 1890, XI, 171. (2) Loewinson-Lessing F., Studien ber die Ernptivgesteine. Congrès géologique in- ternational, VII sessione, S. Petersbourg, 1899 (193-464). nn Col metodo dell’Osann (*) si ottiene la seguente formola: Contrada s'Adde de s'Ulmu. Roccia di colore grigio scuro, dura, te- nace. Nella pasta omogenea presenta grandi cristalli porfirici di /elspato, cri- — 600. — Sse4a dar Co. fo Min stalli più piccoli di augite, accessoriamente magnetite, biotite ed apattte. La massa fondamentale è costituita da esili liste fe/spatiche con evi- dente disposizione fluidale: sono di colore bruno e mostrano una distinta struttura feltrata. Il fe/spato degli interclusi estingue attorno a 38°; è da riferirsi quindi a /abradorite (Abz An,). I cristalli porfirici degli elementi colorati sono pochi e solo di augite e di sperstene. L'augite in cristalli di media grandezza, di colore verde chiaro, con angolo d'estinzione c = 38°; spesso si distinguono dei geminati polisintetici secondo (100). L’iperstene in cristalli prismatici spesso alterato in un aggregato fibroso. Riporto i ri- sultati dell'analisi chimica: Sì0;., cen 52018 Al, 0; Cee . . 2055 Fe: 0; ele ‘0. 5 Fe” enne a 1086 Mn0} eee 0 Ti 05 ee 040 P.,0; Cami — 0027 Cao. e 929 Mp0 ee... 2.07 K.,0: ee... 2:00 Na; 9895 H,0'a M00gheee o. 00040 H.0 perd. per arrov. . . 1,22 100,21 Trascurando l’ H,0 e calcolando Ti0, come Si0, si ha: Si0; NLOSE Fe. 0; . Fe Mn0 Ca 0 Mg0 K.0 Na; 0 (1) Osann A., Versuch chemischen Classification der Eruptivgesteine. I 52,48 20,55 9,13 1,86 0,71 9,22 2,07 2,90 3,95 98,22 Miner. und Petr. Mittheil., XIX, XX, 1900-901. 100,00 Tschermk's — 601 — Deducendone le quantità molecolari dei componenti si ottiene: III IV SLOT n 88,97 60,63 AL'ORIZIR TE20,51 13,98 Roi LO = RO e. 2 GO 09 Mr0 ge eee 1,01 0,69 CAO 16 77 11,43 MEO 507 3,59 TORO RENE 2,14 NGRISI Rea. » 52 3,75 Z= 147 100,00 Infine per le quantità degli atomi metallici: V VI Si GRB IAA pane IPER 38.07 49,57 e On Cal SS, 11 09 22,85 Re SRO e) O.IÀ 5,09 RENE e RR > Lo) 0,56 CASE ri CAMAERLE 16.77 9,34 MEO ROME 07 2,94 te te Veglie deo. 6.58 3,50 Na e Ra IO (11.04 6,15 M.A.Z. = 180 100,00 AZ. = 464 Seguendo Loewinson-Lessing si deduce la seguente notazione: a= 1,68 ; 8=65 1,82 RO. R.0,. 4,34 Si 0, R.0:RO= 1:3,3 Seguendo Osann, la seguente formola: Sco,e daje Ce,4 8,9 Ne è Entrambe queste rocce per i caratteri osservati sono da ritenersi come appartenenti allo stesso magma eruttivo. È grande l'analogia con quelle di Val Barca (') studiate dal prof. Millosevich e classificate come andesite (*) F. Millosevich, Studi sulle rocce vulcaniche di Sardegna. I. Le rocce di Sas- sari e di Porto Torres. Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, R. Accademia dei Lincei, 1908. RenpIcoNTI, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 77 — 602 — iperstenico-augitica piuttosto basica, volgente al basalto. Ciò si rileva he- nissimo dai seguenti specchietti: Formola magmatica | Lo B | R,0 : RO Va lE arca Re e EROARIO ENO RICA MI 867 1:4,5 FENOSUO 0. 1,8 RO.R20,.3,7 Si 0, 1,52 71 1rt322 S'Adde de s'Ulmu . . | 1,8 RO.R,0;.4,8 Si0, 1,68 | 65 1:13,3 8 | a | c | Vi | n Vel Parona o 6 e ds 09,8 539 6,7 9,4 6,8 (Meno sura gene o 06,4 4,7 6,1 9,2 TATA S'Adde de s'Ulmu . . 60,3 4,7 5,5 9,8 (35 La roccia Fenosu si scosta alquanto nel rapporto K.0:Na;0; si ha infatti per ValBarca ee ee e KCOFINa,01— 0746561 Renosu = See K0ENa50 = 022954 S#Adde: de s Ulma. K50:Na:0 ='0,571 La loro composizione dimostra chiaramente non potersi stabilire alcuna relazione con i vulcani dei dintorni; conviene quindi ammettere che esse sieno state emesse lungo grandi linee di frattura. Come quella di Val Barca l'età di queste roccie è da ritenersi, per le osservazioni da me compiute, preelveziana. Trovo opportuno ricordare che nel Sassarese il prof. Millosevich ha potuto dimostrare che roccie a queste simili non solo sono preelveziane, ma anche sono da considerarsi fra i più antichi prodotti di eruzione. Ò — 603 — Geologia — Nuove ricerche geologiche sul nucleo centrale delle Alpi Carniche. Nota di P. Vinassa DE REGNY e M. Gor- TANI, presentata dal Socio T. TARAMELLI. La campagna geologica di quest'anno (*) è stata ostacolata dal continuo maltempo. Avemmo quindi per forza ridotto il campo delle ricerche, diminuita la possibilità di lavoro, reso lo studio più lungo e difficile. Dovemmo limi- tarci alla revisione dei gruppi dei monti Pizzùl e Germùla, Lodìn e Costa alta, e ad uno studio più esteso della regione costituente l'alto bacino della Bùt. Le condizioni geologiche di questa regione, dopo le nostre ultime ri- cerche, erano abbastanza note per i primi due gruppi, e la revisione ci con- fermò nelle idee che ci eravamo formati sulla natura e struttura di essi. Vennero bensì in luce nuovi fatti, che ci sembrano importanti anche per la geologia italiana in generale: ma essi appoggiano e documentano i nostri precedenti rilievi, le cui linee generali permangono intatte. Ottimi risultati ci diede lo studio più esteso dei monti di Timàu e della porzione più orien- tale della giogaia del Cogliàns. Tali risultati ci sembrano tanto più notevoli, in quanto non solo modificano profondamente la conoscenza stratigrafica e tettonica della regione, come erano intese sino ad oggi, ma completano altresì la serie dei terreni paleozoici delle Alpi. Terreni siluriani. La revisione del gruppo del Germùla ci condusse ad una importante scoperta, che completa quella già da uno di noi accennata (?) relativamente alla presenza del Siluriano medio nelle nostre Alpi carniche. Sul fianco orientale del Palon di Pizzùl, fra i grossi banchi di calcari mandorlati rossi, giallastri, nerastri e grigi con coralli ed Orzhoceras, che dalla parte più alta del Palòn di Pizzùl (monte Pizzùl delle carte) scen- dono ad immergersi sotto le masse devoniche del Zuc della Guardia e dello Zuc di Malesèit (cima 1822 della tavoletta italiana), è intercalata una lente scistosa di scarsa potenza. I fossili sono limitati ad un piccolo tratto, ed è (') Le nostre ricerche poterono però quest'anno svolgersi con molto maggiore am- piezza, grazie al sussidio della Fondazione Santoro, accordatoci dalla Presidenza della R. Accademia dei Lincei, alla quale teniamo a rinnovare pubblicamente l’espressione della nostra gratitudine. (?) P. Vinassa de Regny, Muove osservazioni geologiche sul nucleo centrale delle Alpi carniche. Proc. verb. Soc. tosc. Sc. Nat., Ad. 3 maggio 1908, pag. 4. — 604 — perciò forse che essi sfuggirono sino ad ora alle ricerche altrui e nostre. Gli scisti inferiori sono grafitici, e contengono tracce di graptoliti; superiormente seguono, separati da uno strato di calcare scuro ad Or/hoceras, scisti bruni, verdastri è giallastri argillosi ed ocracei per lo più, ma anche talvolta cal- carei, zeppi, specialmente dove sono più calcarei, di Monticuliporidi e Favo- sitidi dendroidi, e ricchi anche di brachiopodi (Orthis Acfoniae, 0. calli- gramma, O. patera, O. vespertilio ecc.), i quali dimostrano la pertinenza di tali scisti al Mesosilurico (Caradoc). In tal maniera questo orizzonte, sino ad ora noto delle Alpi solo nell’Uggwatal ed a Meledis, si estende abbastanza e con fauna assai ricca ed interessante. Difatti, alle raccolte eseguite al Palon, si sono aggiunte anche quelle ripetute sopra alla casera Meledis bassa. Abbiamo già iniziato e condotto a buon punto lo studio dei fossili di entrambe le loca- lità, e specialmente di quella di cas. Meledis, le cui prime raccolte risal- gono all'anno decorso, e i risultati di esso saranno resi pubblici al più presto. La serie che si ha a Meledis è identica a quella del Goòman, descritta dal Frech (Die Karnischen Alpen, pag. 19). I calcoscisti bruni, nerastri o verdo- gnoli, limonitici, con Monticulipore dendroidi, Orhis Actonzae ecc., sono com- presi tra calcari grigi con Orthoceras inferiormente e scisti neri grafitici con Rastrites del Gotlandiano inferiore. La serie del Palon è più complessa, e si estende molto più inferiormente, di modo che per adesso, basandoci solo su criterî tettonici, si può asserire che la grande massa di scisti inferiori al Mesosilurico fossilifero appartenga per lo meno al Mesosilurico inferiore, e forse abbia a riportarsi anche più al basso. Avremmo così anche sul ver- sante italiano terreni assai più antichi di quanto non si credesse, e ciò po- trebbe esser di non piccolo interesse per taluni problemi, ancora insoluti, rispetto alla tettonica delle Alpi Carniche. Accurate ricerche nel Gotlandiano graptolitifero di cas. Meledis hanno aumentato sensibilmente il numero degli esemplari, ma non quello delle forme: di modo che la fauna si può quindi ormai ritenere come compiuta- mente studiata ('). La facies scistosa del Siluriano si presenta quasi dovunque profonda- mente curvata e contorta; e questo carattere, in mancanza di meglio, può non di rado servire per distinguerla dagli scisti più recenti, come già avemmo occasione di dire ripetutamente. Molto varie di aspetto e di estensione sono le faczes calcaree del Neosi- lurico, la cui distribuzione in lenti, spesso sviluppatissime, sì manifesta senza eccezione. In pochi punti la serie che si può rilevare è identica a serie rile- vate in punti anche vicini, e le differenze si estendono non soltanto al nu- mero di membri ed alla loro potenza, ma anche alla loro posizione reciproca. (1) P. Vinassa, Graptoliti Carniche. Atti Congr. naturalisti, Milano, 1906. TR — 605 — I caratteri litologici dei singoli tipi di calcare ad Or/koceras non hanno quindi alcun valore cronologico nelle eventuali suddivisioni del Neosilurico; talvolta, per esempio, ai calcari neri inferiori seguono i grigi venati di giallo, e da ultimo i rossi mandorlati; talaltra l'ordine è inverso, e spesso i varî tipi si alternano ripetutamente. In linea molto generale si può dire, tutt'al più, che i calcari rossi, quando esistono, predominano nella porzione termi- nale della serie. Tra le serie neosiluriche interessanti citiamo quella fra il Palon di Pizzul e lo Zuc di Maleseit, e quella sopra la cas. Germula, che si collega all'altra già da noi accennata al Clap di Milie, sul versante meridionale della stessa montagna. Il Neosilurico compare anche, riccamente fossilifero, nel gruppo del Pal e del Pizzo Timàu. Sulla presenza di esso nell’interno dell’ellissoide devo- niana insistemmo, basandoci su caratteri litologici, fino dal 1905 (*) ed anche recentemente (?), in quanto che si rendeva in tal modo logica la nostra inter- pretazione tettonica del gruppo, con riduzione notevolissima del Devoniano inferiore e medio. Alla base meridionale del Freikofel, presso la cas. Pal piccolo di sotto, abbiamo potuto scoprire numerosi fossili e rilevare tutta una serie silurico-devonica, la cui base è formata da calcari bruni, zeppi di Orthoceras, intercalati superiormente ai calcari grigi con coralli e stroma- toporidi silicizzati. Di qui il nucleo siluriano si continua poi in direzione W-E nell'alta valle del Rio Gaier, corrispondente al nucleo spezzato della piega. Tanto di fronte alla Cas. Pal grande di sotto, quanto di fronte a quella di sopra, ritrovammo, alla base della Pradersachia e sulla costa di Pront, tutti i tipi litologici del Neosilurico a /aczes calcarea, e qui, per la prima volta nel versante italiano, con fossili abbastanza ben conservati. Ancora più ad oriente, dall'altro lato della montagna di Timau, nei cal- cari della Raiber Stel, strapiombanti sulla destra del rio Selleit di fronte a Cas. Primosio, raccogliemmo in posto stromatoporidi siluriane, fra cui Actinostroma interterxtum Nich. Questa forma, che è prevalente nel Neosi- lurico, potrebbe tutt'al più appartenere agli strati più antichi dell’Eodeyo- nico, come risulta del resto dall'analisi della fauna recentemente illustrata dei dintorni di Lodìn (*). Crediamo inutile di riportare quanto sui coralli e stromatoporidi silicizzati è stato detto in quella Memoria, e ci limi- tiamo ad insistere sul fatto che esistono almeno due livelli fossiliferi con tipi simili di fossili, di cui l’inferiore è presso la base, il superiore alla som- mità dei calcari neosilurici reticolati. Il superiore può quindi considerarsi come un passaggio agli strati più antichi dell’Eodevonico. (*) P. Vinassa e M. Gortani, Nuove ricerche geologiche sui terreni compresi nella Tavoletta Paluzza. Boll. Soc. geol. it., XXXIV, 2. pag. 720. (2) P. Vinassa, Muove ‘osservazioni ecc. loc. cit., pag. 4. (3) P. Vinassa, Fossili dei Monti di Lodin. Paleont. italica, 1908, — 606 — Terreni devoniani. Ripetute ricerche nella pila degli strati compresi fra i calcari neosilu- rici e quelli mesodevonici da noi scoperti nell’aspra parete meridionale del Germula, non ci hanno dato fossili del Devoniano inferiore; e nemmeno nel Pizzo di Timau e nel Freikofel, ove il Devoniano inferiore è ridottissimo, potemmo rinvenire (all'infuori della solita /aczes a coralli silicizzati inferio- rissima) fossili sicuramente riferibili a questo orizzonte, che resta così, per ora, tipicamente rappresentato solo nella giogaia del Cogliàns. Il Mesodevonico è invece fossilifero in molti punti. Gli strati con Striz- gocephalus del Germula si continuano nel versante settentrionale della mon- tagna, e coralli e brachiopodi mal conservati, appartenenti a questo orizzonte, si possono raccogliere presso alla cas. Val Bertàt. Nella Creta di Timau rin- venimmo coralli di questo periodo, tanto nei calcari a W del Fontanone, quanto in quelli di Pront e della Pradersachia, a SW della cima più alta, e nelle pareti della Raiber Stel, sulla destra del Rio Selleit. Gli stessi co- ralli abbiamo pure trovato attorno e di fronte alle casere Pal grande, nel versante italiano del Freikofel e sopra la cas. Pal piccolo di sotto: tutte località in cui il Mesodevonico era ignoto. La /acses corallina, identica sempre a quella che si ha tra le cas. Monumenz e Val di Collina, è svilup- pata anche nelle masse calcaree a Sud della cas. Collinetta di sotto, in cui sino ad ora non si erano rinvenuti fossili; insieme coi coralli rinvenimmo pure esemplari di ,S7rzngocephalus Burtini fra le cas. Collinetta di sotto e Val di Collina. Raccolte espressamente istituite fra le casere Val di Collina e Monu- menz, ci diedero modo di portare ai nostri laboratorî parecchi quintali di calcari fossiliferi mesodevonici, sia della facies corallina sia di quella a brachiopodi, destinati ad un particolareggiato studio paleontologico. Se i risultati fin qui esposti ci sembrano di qualche interesse, maggior valore attribuiamo alla scoperta in posto del Neodevonico inferiore ed alla riconosciuta estensione, relativamente grande, del calcare con Climenie del Neodevonico superiore. È noto che sin dal 1887 il Frech (*) citava la presenza dell’ « Tberger Kalk » nell’ « Ostabhang des Kollinkofels » in base a blocchi isolati di pro- venienza ignota. Blocchi dello stesso tipo ha certo trovato il Geyer, dacchè dalla sua Nota (*?) non risulta che egli abbia raccolto in posto il calcare con RA. pugnus. (1) F. Frech, Veber das Devon der Ostalpen, I, Zeits. d. deut. geol. Gesell., XXXIX, pag. 699. (*) G. Geyer, Zur Stratigraphie der paldozoischen Schichtserie in den Karnischen Alpen. Verh. d. k. k. geol. R.-Anst., 1894, pag. 118. — 607 — A questa scoperta, interessante per la geologia delle nostre Alpi, siamo giunti con un lavoro di induzione e di metodica ricerca. Dopo aver difatti delimitato con cura la estensione del calcare a Climenie, di cui par- leremo subito, resi certi che tale estensione modificava essenzialmente la tettonica dei Pizzi di Collina e di Collinetta, arguimmo la inevita- bile presenza dell’orizzonte immediatamente inferiore, e cercammo di de- terminarne la probabile posizione. E poichè il calcare con Climenie era di notabile ricchezza fossilifera, credemmo di poter sperare in eguale ricchezza nell'orizzonte sottostante. Iniziammo così una serie di ricerche metodiche, pazienti e minute, le quali ebbero, con nostra grande soddisfazione, pieno successo. Una prima località fossilifera in posto si trova alla base del Pizzo Col- linetta (Zellonkofel della carta), lungo la mulattiera che conduce dal passo di monte Croce alla cas. Collinetta di sotto, a pochi metri di distanza dal pale indicatore della Società alpina friulana ed un centinaio di metri prima di giungere alla casera. Il Neodevonico inferiore si presenta qui sotto forma di calcari grigi venati di bianco e di roseo, bruni o grigi, con macchie e re- ticolature paonazze. I fossili, abbondantissimi, sono riuniti a nidi, special- mente negli straterelli sottili interstratificati alla massa maggiore del cal care. In tali nidi predomina quella forma che il Frech dapprima credè poter riferire alla R1. (2) contraria nel Roemer, e che molto probabilmente è nuova. Questi strati sono ricoperti regolarmente dai calcari a Climenie, che lasciano solo apparire una minima parte della località fossilifera. Per questa regione forse l'orizzonte non venne finora scoperto, non ostante si tratti di località centralissima e di continuo passaggio per geologi ed alpinisti. L'estensione maggiore del Neodevonico inferiore si ha però attorno alla cas. Collinetta di sopra. Tanto il dossone a sud della casera, quanto le falde, ad essa immediatamente sovrastanti, dei Pizzi di Collina e di Collinetta, hanno dato fossili di questo orizzonte, da noi raccolti in posto. E precisa- mente nella massa di calcare grigio reticolato di bianco e di bruno di fronte alla casera, poi in un calcare nerastro ed in un calcare rosato a venuzze oscure, affioranti nei due piccoli rivi che, riuniti, scendono alla casera ad occi- dente di essa e precisamente verso la quota di circa 1650. Il medesimo orizzonte si trova anche nella pendice meridionale del Pizzo di Collinetta in un calcare grigio più chiaro. Resta così assodata la presenza non solo, ma anche la relativa estensione di questo piano, che non è noto di alcun altro punto delle Alpi. La scoperta di questa fauna ci diede inoltre modo di riconoscere i tipi litologici che principalmente costituiscono l’orizzonte inferiore del Neodevo- nico carnico, tanto che iu parecchie località, come per esempio nel versante meridionale della Creta di Timau, al Freikofel e nell’altipiano tipicamente carsico del Pal piccolo, potemmo delimitare, al di sotto del calcare a Cli- — 608 — menie, strati riferibili a questa età, e nei quali, massime al Pal piccolo, abbiamo in animo di continuare per l'avvenire ricerche metodiche, persuasi che anche qui si dovranno trovare località fossilifere. Il Neodevonico superiore si presenta sempre colla facies di calcare a Climenie, alla quale se ne associano quasi ovunque altre, ora per la prima volta da noi riconosciute. Il Frech, che fu il primo a scoprire quest'orizzonte nelle nostre Alpi, gli diede nella sua carta un'estensione notabile, che il Geyer però ridusse grandemente nella sua revisione (*). Ma il Geyer qui ha errato; anzi, secondo le nostre ricerche, il Neodevonico superiore occupa un’area molto maggiore di quella segnata dallo stesso Frech. Esso infatti non costituisce soltanto la cintura settentrionale ed orientale dell’ellissoide dei Pal e di Timau e la cresta del Pizzo medesimo (ove le Climenie abbondano), ma altresì le cime ed il versante meridionale della Pradersachia e della Gam- spitze, e tutto l'orlo meridionale ed occidentale del Pal piccolo, sino al passo di M. Croce. Più ad occidente i calcari con Climenie entrano anche nella costituzione del gruppo del Coglians, formando enormi lastroni, quasi rad- drizzati. che dalla sommità della cresta del Pizzo Collinetta strapiombano, malagevole arrampicata, a sud, e che il Frech aveva riportato senza ragione al Devoniano inferiore ed il Geyer al Neosilurico, forse tratto in inganno dal colore rosso di essi. La correzione in questo punto ha particolare interesse per l'interpretazione tettonica della montagna, che dai rilievi precedenti sem- brava molto complicata da pieghe e da faglie, le quali non hanno invece alcuna ragione di esistere. Con la scoperta di questi nuovi orizzonti e località fossilifere, e con la estensione di quelli già noti, l’intiera serie neosilurico-devoniana è completa in taluni punti delle ellissoidi di Timau, dei Pal e del Pizzo Collinetta. Citiamo ad esempio la serie che si può rilevare da cas. Pal piccolo di sotto al Freikofel, dove ai calcari scuri con Orthoceras ed ai calcari a coralli e stromatoporidi silicizzati del Neosilurico superiore, fanno seguito calcari neri a vene gialle e calcari grigi a fossili silicizzati dell’Eodevonico inferiore, poi calcari dolomitici dell’Eodevonico superiore, calcari a coralli mesodevonici ed infine calcari del Devoniano superiore. È da notare il fatto che le facies litologiche del Neodevonico riprodu- cono quasi esattamente le faczes del Neosilurico. Sono calcari neri a vene bianche; calcari grigi e grigio-scuri con venature avana; calcari rosati simili al persichino e con vene scure e caffè-latte, solo un poco più pallidi dei siluriani; calcari grigi compatti con vene e fossili silicizzati sporgenti, molto mal conservati, ma arieggianti a quelli con Stromatoporidi siluriche, ecc. A questa somiglianza, come già abbiamo accennato, è forse da attribuire la con- fusione avvenuta da parte dei nostri predecessori fra i terreni neosilurici e (‘) G. Geyer, Geologische Spezialkarte « Oberdrauburg und Mauthen ». Wien, 1901. — 1609 — neodevonici, ed essa consiglia di andare guardinghi nell'ascrivere piuttosto all'uno che all’altro periodo certi tipi di calcari (massime se rosati), dove manchino fossili, o le condizioni tettoniche non siano chiarissime. Intercalati tra i calcari a Climenie si hanno scisti di tipo identico, anche essi, a quelli siluriani, concordanti coi calcari, e che evidentemente non possono essere che neodevonici. È questa la prima volta che si può dimo- strare, con sicurezza, la presenza della /uczes scistosa nel Devoniano carnico. Una delle località più caratteristiche per constatare questa intercalazione, è la costa fra la forcella Avostana (m. 2059) e la vetta della Creta di Timau (m. 2221). La intercalazione è pure evidente lungo il Rio Selleit ed anche, benchè meno chiara, salendo da Timau al passo di monte Croce. Terreni carboniferi. Sono limitati ai terreni trasgressivi del Neocarbonifero. La loro posi- zione trasgressiva è in molti punti chiarissima, come alla cima di Radis, sul passo Pecòl di Chiàula ed al Rio Tamai, dove si ripete il motivo del Rio Malinfièr. Possiamo accennare la presenza di una nuova località fillitifera con Pecopteris arborescens v. Sohlth., Linopteris Brongniarti v. Gutb., Lepido- phyllum caricinum Heer ecc., presso le sorgenti del Rio Lanza, donde finora eran noti soltanto fossili animali ('). E interessante il fatto che presso la casera Pizzul bassa si hanno, al termine della serie carbonifera, sottili lenti di un calcare rosato con Fusuline e di una tipica breccia di Ugowitz, che rappresentano anche qui il Permo- carbonifero. Terreni permiani. L'opinione già da noi ripetutamente espressa, che nella Carnia le are- narie di Val Gardena si appoggino regolarmente concordanti sugli strati carboniferi e non si abbia perciò la trasgressione e la discordanza fra Car- bonifero e Permiano che gli autori tedeschi sostengono, ha trovato una nuova conferma nelle escursioni di quest'anno. Infatti, sotto alla cas. Pizzul bassa si ha dall'uno all’altro terreno, oltre ad una perfetta concordanza, anche un graduale passaggio; tanto che potemmo raccogliere impronte di Zoophycos carbonifer Bozzi, Orthothetes crenistria Phill., Produetus Cora d'Orb. in arenarie scistose rossastre, che già avevano l'aspetto delle arenarie di Val Gardena. Basandoci su considerazioni tettoniche trovammo pure nuovo appoggio al concetto, sostenuto sempre dal Taramelli, che la maggior parte delle rocce (®) P. Vinassa e M. Gortani, Fossili carboniferi del m. Pizzul e del Piano di Lanza nelle Alpi carniche. Boll. Soc. geol. it., XXIV, 2. RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 78 — 610 — eruttive della Carnia orientale debbano riportarsi ai tempi più recenti del Carbonifero ed al Permiano più antico. Due colate di porfirite quarzitera erano ignote sino a oggi: una è al M. Avostana; l'altra, sulla destra del Rio Selleit, parte da Timau e va a collegarsi con quella del Rio Bagnadòries, da noi già segnalata. Nel Permiano superiore è notevole la varietà delle facies e della loro relativa estensione e distribuzione. Così le marne gessifere, che si presentano spesso alla base della serie in contatto colle arenarie di Val Gardena, sono talvolta assai alte, intercalate o superiori alla dolomia cariata e brecciata. Sul fianco occidentale del M. Cuc questa formazione termina con strati cal- carei bituminosi ed arricciati, dove, quasi a contatto con le arenarie eotrias- siche, trovammo esemplari tipici di Bellerophon. Terreni triassici. Abbiamo quest'anno voluto iniziare lo studio del Secondario nella Carnia orientale, e non lo potevamo meglio che col gruppo dei monti Cuc e Tersadia, noto sino ad ora nella scienza pei pochi molluschi descritti dal Mojsisovics ed i brachiopodi raccolti in blocchi isolati e descritti dal Bittner. Lo studio, non ancora compiuto, non ci consente per adesso una espo- sizione particolareggiata dei fatti osservati; possiamo però dire fin da ora che abbiamo trovato varie località fossilifere, tanto del Trias inferiore quanto del Trias medio, sia della /uczes a brachiopodi, sia di quella a gasteropodi, sia di quella a cefalopodi. Avendo raccolto sempre in posto questi fossili dei varî orizzonti, il loro studio ci servirà per le deduzioni cronologiche, che dovranno esser di base nell’ulteriore rilievo del gruppo. Terreni quaternarî. Limitandoci al solo Glaciale, accenniamo che esso è molto più esteso di quanto non risulti dalle carte pubblicate finora. Così ad esempio abbiamo potuto trovare depositi morenici tipici o rimaneggiati: nella pendice occiden- del M. Pizzul e del Palon di Pizzul, sotto e presso la cas. Germula, sotto la cas. Ruvîs, presso e sopra la cas. Pecòl di Chiàula alta, lungo la valle del Cercevesa dalla base settentrionale del M. Dimòn fino alla cas. Fon- tana fredda, sotto la cas. Laversària e presso la cas. Val di Collina e Col- lina grande. Tettonica. Quanto alla tettonica generale, nulla abbiamo da aggiungere a quanto già pubblicammo e che confermiamo pienamente (1). In linea di dettaglio notiamo nel gruppo di Lodin la forte pieghet- tatura del Neosilurico, anche a /uczes calcarea, spiegabile col fatto che si (*) P. Vinassa, Nuove osservazioni ecc., loc. cit., pag. 9. — 611 —. | tratta di un complesso poco potente di strati sottili. Oltre alla pieghettatura già accennata della Stua di Ramàz, è notabile quella ad essa corrispondente del Malpasso sotto a cas. Culèt, e più che altro la Creta rossa e la Cima Costa alta, dove si susseguono almeno tre pieghe, anticlinali e sinclinali, complete e molto compresse. L'ellissoide del Pizzo di Timau è completa per la presenza del Silu- riano nel suo centro e del calcare a Climenie sulla sua véòlta e lungo tutto il suo contorno. Si tratta di un’ellissoide allungata nel senso E-W e molto compressa, tanto che è rotta in alcuni punti e gli strati sono spesso quasi verticali. È da notare che il calcare a Climenie si dispone in leggere ondu- lazioni ai margini della piega, aumentando cosi apparentemente la sua reale | potenza. Annessa all’ellissoide principale del Pizzo Timau, e da essa dipendente, è anche l’ellissoide del Pal, che ha il suo nucleo siluriano corrispondente alla depressione tra la base del Freikofel e la cas. Pal piccolo di sotto. Questa ellissoide si connette a quella del Pizzo di Timau con una leggera sinclinale, fortemente compressa, corrispondente all'incavo del Rio Gaier a monte della cas. Pal grande di sopra. La caratteristica della ellissoide dei Pal è di essere più larga e depressa di quella del Pizzo Timau, e di pre- sentare una serie di ondulazioni secondarie di grande regolarità. In rispondenza del passo di monte Croce, là dove dovrebbe trovarsi l’im- maginaria faglia di Plocken del Frech, viene invece a contatto con la ellis- soide dei Pal un’altra ellissoide, con fortissima costipazione e leggera curvatura nella direzione degli strati. A questa nuova ellissoide apparten- gono i Pizzi di Collinetta e di Collina, i quali sono evidentemente pieghe anticlinali, incomplete nel versante settentrionale, mentre comprendono fino al calcare a Climenie nel meridionale. Vengono in tal guisa modificate profon - damente le idee che si avevano sulla tettonica di queste cime che rientrano così, salvo localissimi disturbi, nel solito tipo delle regolari montagne a pieghe, predominanti nel nucleo centrale carnico. Caratteristica della piegatura di queste montagne è la presenza, abba- stanza diffusa, di curve dolci e regolari, che si potrebbero rassomigliare a pieghe della catena del Giura ('), insieme con piegature violente e raddriz- zamenti di strati. Parrebbe che tale fatto potesse riportarsi al fenomeno della doppia piegatura, ormai dimostrato nelle nostre Alpi. Le curve più leggere, più | dolci e più regolari corrisponderebbero alla piegatura eocarbonifera; le altre, alla mesozoica. Se ulteriori osservazioni lo confermeranno, questo fatto sarebbe di grande interesse per contribuire a fissare l'età delle eruzioni paleozoiche car- (*) Adoperiamo espressamente questa comparazione a risposta della sconveniente forma usata dal Frech nel giudicare i lavori del Taramelli. (Vedi Frech, Veber das Devon der Ostalpen I, Zeits. Deut. geol. Ges., 1888, pag. 681-82). | — 612 — niche, e soprattutto delle porfiriti quarzifere, per le quali sole si può ancora avere incertezza. Infatti, se alla piegatura eocarbonifera debbono riportarsi le curve più regolari, data la vicinanza grandissima dell’ellissoide di Timau a tali rocce eruttive che vengono anzi a contatto con esso, se ne potrebbe de- durre, come logica conseguenza, che le eruzioni devono essere state posteriori all’Eocarbonifero. Conclusioni. Riassumendo, i risultati principali delle nostre ricerche di quest'anno sono ì seguenti: Nel gruppo dei monti Pizzul e Germula: la scoperta di una fauna mesosilurica, le serie neosiluriche fossilifere del Palon di Pizzul e Zuc di Maleseit e di cas. Germula, i nuovi giacimenti con coralli e Stromatoporidi silicizzati, piante neocarbonifere e rocce permocarbonifere, e la conferma della mancanza di lacuna tra il Neocarbonifero e l’Eopermico. Nel gruppo dei monti di Lodìn: il rinvenimento di altre forme della fauna mesosilurica e il rilevamento esatto delle curve ripetute e compresse nella cresta e nel versante settentrionale della Cima Costa alta. Nel gruppo del Pizzo di Timau e dei Pal: la scoperta del Neosilurico riccamente fossilifero e del Devoniano inferiore, e l'estensione del Devoniano medio e del Devoniano superiore, completandosi così e regolarizzandosi tanto l’ellissoide principale, quanto la secondaria dei Pal, ora per la prima volta rilevata. Nel gruppo del Pizzo di Collina: la scoperta del Neodevonico inferiore in posto ed in più punti, e del Neodevonico superiore, entrambi con ricca fauna; modificazioni fondamentali anche nella conoscenza tettonica del gruppo stesso, dal quale scompariscono tutte le faglie e le dislocazioni che era indi- spensabile ammettere con i rilievi inesatti finora noti, e che si riduce ad una regolare porzione di ellissoide. Morfologicamente, è interessante notare che in tutti questi gruppi, ad eccezione del Germula, molte linee di vetta corrispondono a vòlte di anti- clinali, e parecchie valli corrispondono a sinclinali. — 613 — Chimica. — Sopra alcuni borati elettrolitici (). Nota di M. G. Levi e S. CASTELLANI, presentata dal Socio R. NASINI. Del metodo elettrolitico per la preparazione del borace fu già diffusa- mente parlato da uno di noi in un lavoro precedente (?). In questa breve Nota rendiamo conto di una serie di esperienze eseguite allo scopo di precisare l’ap- plicabilità del metodo elettrolitico stesso alla preparazione di altri borati metallici diversi dal sodico e da tutti i borati alcalini in generale pei quali è facilmente prevedibile che il metodo condurrebbe sicuramente a risultati positivi come quelli ottenuti per il sale sodico. Il metodo elettrolitico consiste, com'è noto, nel provocare una reazione tra acido borico disciolto nel liquido catodico di una cella elettrolitica e gli ioni metallici che migrano con la corrente al catodo, abbandonando un li- quido anodico che fa parte della stessa cella e che contiene in soluzione un sale degli ioni metallici considerati. Il sistema elettrolitico dunque è sempre il seguente: anodo | soluzione sale || diaframma || soluzione Hz BO; | catodo. È prevedibile che, se con un dispositivo simile si cimentano all'elettro- lisi nello spazio anodico sali di metalli gradatamente diversi, dagli alcalini agli alcalino-terrosi e ai metalli pesanti, si dovranno verificare reazioni e fatti diversi in relazione con le proprietà dei borati metallici relativi ai ca- tioni considerati. È noto che, con l'attenuarsi del carattere elettropositivo dei metalli, i borati relativi (per lo meno le forme più comuni) assumono sempre più notevoli le caratteristiche della poca solubilità e, limitatamente alla so- lubilità stessa, dell'idrolisi in soluzione; ne viene di conseguenza che all'in- contrarsi, per effetto di elettrolisi, in una stessa soluzione, di acido borico con ioni metallici, si potranno verificare diversi casì, e precisamente : 1) Precipitazione di un borato insolubile o in seno alla soluzione 0, trattandosi del dispositivo elettrolitico sopra ricordato, sull’elettrodo negativo. 2) Equilibrio tra ioni metallici, ioni e molecole di acido borico e mo- lecole di un borato avente un prodotto di solubilità sufficientemente elevato e la cui precipitazione totale non sarà possibile se non diminuendo con qualche mezzo il prodotto stesso. 3) Detto equilibrio potrà esser complicato da fenomeni di idrolisi delle molecole di borato presenti, con comparsa quindi anche di ioni OH', oppure con precipitazione di ossidi o idrati metallici durante l’elettrolisi. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Chimica generale della R. Università di Pisa. (®) M. G. Levi, La preparazione tecnica del borace. Gazz. chim. It., 37, II, pag. 562, 1907. inzio eene— _°__ o - et ici ao lì __L — 614 — 4) Si potrà infine avere deposizione del metallo all'elettrodo, quando la natura del metallo stesso lo permetta. È evidente che questi non rappresentano che casi tipici limite; ma che nella maggioranza dei casi, essi si confonderanno e si complicheranno uno con l'altro. Le nostre esperienze ebbero soltanto lo scopo di vedere fino a qual limite, dato dalla natura del metallo, il fenomeno fondamentale della formazione di un borato potesse aver luogo. Le esperienze furono eseguite prima di tutto con sali di calcio, di stronzio e di bario; e per tutti e tre questi elementi si poterono ottenere borati in quan- tità apprezzabile. L'elettrolisi veniva eseguita col solito dispositivo: un bic- chiere di vetro contiene la soluzione di acido borico e due elettrodi di platino (superficie di ciascuno 18 cmq.) che riuniti assieme costituiscono il catodo. Nella soluzione borica e in mezzo agli elettrodi di platino sta immerso un diaframma che contiene il liquido anodico (in generale soluzione di un cloruro) e un anodo di carbone. La soluzione borica fu sempre adoperata sa- tura, a freddo. L'analisi dei prodotti ottenuti veniva eseguita volumetricamente sia per l’acido borico che per la base, modificando un poco il solito metodo di ana- lisi dei borati alcalini. Il prodotto raccolto su filtro e lavato con acqua e poi con alcool veniva qualitativamente analizzato per l'acido borico e, una volta accertatane la presenza, veniva seccato a 100°. Un determinato peso del pro- dotto secco veniva disciolto in un volume noto di acido cloridrico titolato e nella soluzione così ottenuta contenente acido cloridrico e acido borico liberi si titolava l'eccesso di acido cloridrico adoperando come indicatore il meti- larancio ; in tal modo si determinava indirettamente la base presente. Un altro peso di sostanza sciolto poi in acido in modo da non avere in soluzione l'acido cloridrico ma soltanto l'acido borico libero, serviva per la titolazione di quest'ultimo operando come al solito in presenza di fenolftaleina e glicerina. Dedotte così le percentuali di acido borico e di base, la differenza da 100 ve- niva attribuita ad acqua. Il metodo non è evidentemente scevro da errori ed a questi certamente sono in parte attribuili certe differenze trovate, ma, dato lo scopo delle esperienze, l'esattezza raggiungibile era sufficiente, perchè in fondo lo scopo dell'analisi era per noi solo quello di determinare con approssimazione sufficiente a qual tipo di borati potessero ascriversi i pro- dotti ottenuti. Così pure anche l’essiccamento a 100° porta naturalmente a percentuali in acqua variabili a seconda della natura dei borati; ma è anche evidente che il percento d’acqua non presentava interesse nel caso nostro ed era preferibile partire da prodotti certamente asciutti e determinarvi con B» (07 maggiore esattezza il rapporto piuttostochè complicare inutilmente base l'analisi per determinare l’acqua con esattezza. I valori, quindi, trovati per l’acqua, non costituiscono che delle differenze, e senza importanza. — 615 — Per i borati di calcio, stronzio e bario i risultati furono, almeno in parte, positivi ed abbastanza chiari. ln generale si adoperarono sempre soluzioni dei cloruri al 10°/, e si elettrolizzò a temperatura ordinaria con l'intensità di 1 o di 0,5 Amp. Nel primo periodo dell’elettrolisi, per circa un'ora, si deposi- tano al catodo delle croste bianche cristalline che vennero sempre separate e analizzate a parte; dopo questo primo periodo cominciarono in generale a preci- pitare nello spazio catodico dei fiocchi bianchi che venivano pure separati; finita l'elettrolisi, dal liquido catodico filtrato si separava per aggiunta d'alcool un precipitato bianco che veniva pure analizzato. Soltanto i primi prodotti, e cioè quelli depositati al catodo manifestarono sempre una composizione abba- stanza costante e corrispondente a quella generale dei metaborati. Riportiamo alcuni dati analitici tra i molti ottenuti, a titolo di esempio: °/o trovato °/o calcolato per Ca0. B,03. 4H,0 Calcio : Cao 29,12 28,32 B:0, 35,05 35,93 H,0 35,83 36.35 100,00 100,00 °lo trovato . °/o calcolato per SrO. B,0,. 4H,0. Stronzio : SrO 41,72 42,18 B:0; 29,02 28,50 H,0 29.26 29,32 100,00 100,00 °/, trovato °/o calcolato per Ba0. B:0,. 4H:0. Bario : Ba0 51,50 51,93 B.0; 23,19 23,69 H,0 25,81 24,38 100,00 100,00 Come si vede, il prodotto ottenuto corrisponde sempre abbastanza bene, prescindendo dall'acqua, alla formola generale RO. B,03 dei metaborati che sono realmente per questi elementi, borati ben conosciuti e che si ottengono in generale per via chimica precipitando le soluzioni dei sali con metaborati, alcalini ('). La corrispondenza analitica non è perfetta: ma questo era anche preve- dibile, dati i metodi volumetrici d'analisi e data la difficoltà di depurazione dei prodotti ottenuti. (*) Vedi per quanto riguarda la letteratura su questi borati alcalino-terrosi i trattati di: Moissan, Chimic minérale, vol. III, pagg. 575, 619, 677; Abegg, Handl. d. anorg. Ch. 9 vol. II, 2, pagg. 160, 231, 286; Dammer, Mandb. d. anorg. Ch. vol. INI, pag. 75 e IV, pag. 667. — 616 — Circa alle altre sostanze precipitate o spontanemente, o per aggiunta di alcool in seno al liquido catodico, esse non rappresentarono quasi mai dei tipi di borati ben definiti; in generale, sempre dei borati molto acidi. Sol- tanto per il calcio il prodotto precipitato spontaneamente nel liquido cato- dico dimostrò evidente la composizione di un piroborato Ca0. 2B,0; sale che si può ottenere per via chimica tanto per precipitazione che per fu- sione. Alcune prove eseguite con sali di magnesio dimostrarono subito che a partire da questo metallo e procedendo verso gli altri più pesanti, lo cose va- riavano notevolmente. Per il magnesio si ottenne bensì al catodo un de- posito bianco analogo a quello degli alcalino-terrosi ; ma detto deposito sì ma- nifestò all'analisi di composizione affatto anormale contenendo esso un enorme eccesso di ossido di magnesio rispetto all’anidride borica. Evidentemente si trattava bensì di un borato e probabilmente di composizione analoga agli altri alcalino-terrosi Mg O. B,0;, ma mescolato con forti quantità di ossido di magnesio: il che si può facilmente capire se si tien conto da un lato del comportamento degli ioni di magnesio al catodo e dall’ altro della in- solubilità dell’idrato di magnesio. Precipitando invece con alcool il liquido catodico dopo l’elettrolisi, si ottenne una sostanza di composizione vicina al composto 3Mg0. 4B.0; che rappresenterebbe un borato di composizione già nota descritto da Ditte e ottenuto per fusione. Per le sostanze però ottenute da questo metallo come da tutti in genere gli alcalino-terrosi, per precipitazione con alcool, bisogna osservare che cer- tamente si tratta sempre di composti assai poco definiti o addirittura non di composti. Forse è più probabile che sia un vero composto quello di magnesio che quelli degli altri alcalino-terrosi. Il magnesio ha un idrato insolubile mentre gli altri idrati alcalino-terrosi sono tutti più o meno solubili: ne viene di conseguenza che per essi dopo un certo tempo di elettrolisi avremo nel li- quido catodico oltre ad un equilibrio relativo a borati anche quello relativo ad idrati tra ione metallico M”, ioni OH' e molecole M(OH),. Questo equi- librio, come quello dei borati, è facilmente spostabile per aggiunta d'alcool in cui idrati e borati sono insolubili e si può avere con questo mezzo as- sieme a precipitazione di borato anche precipitazione di idrato. Se ciò av: venga ed in che misura avvenga dipenderà dalla concentrazione delle so- stanze che determinavano l’ equilibrio in soluzione e quindi dalla quantità di elettricità passata: ma in ogni modo è certo che la possibilità della pre- cipitazione di miscugli, esiste. D'altra parte però è anche sicuro che, se si regola la quantità d' elet- tricità in modo che non possano sussistere ioni OH' al catodo per la pre- senza di una piccola quantità di ioni H' sempre in eccesso, sì potrà arrivare alla precipitazione con alcool di un vero borato, o per lo meno di un mi- scuglio di veri borati. Indipendentemente quindi dalla composizione delle — 617 — sostanze ottenute da noi con questo metodo, è certo che il metodo stesso può, quando si osservino le condizioni volute, condurre allo scopo. Un altro fatto da considerarsi e ne abbiamo già fatto cenno in prin- cipio di questa Nota, è l’idrolisi dei borati di cui si deve tenere tanto più conto quanto più il borato è solubile e che certamente può portare delle variazioni sensibili nella composizione dei prodotti che sì ottengono. Oltre al magnesio sottoponemmo anche ad esperienza altri metalli : rame, cadmio, mercurio, piombo, ferro, nikel. Per tutti questi sì verificarono com- plicati uno con l'altro i casi previsti in principio: e precisamente si poterono verificare quasi contemporaneamente la deposizione di metalli al catodo, la precipitazione di ossidi, e la precipitazione ancora in qualche caso di minime tracce impossibili a separarsi di sostanze che dovevano essere borati per il fatto che dopo lavaggio, davano la reazione qualitativa dell'acido borico. La presenza di borati è facilmente spiegabile per la reazione. (1) ione borico + ione metallico == borato, reazione che può facilmente verificarsi verso destra per il piccolo prodotto di solubilità dei borati in questione. Contemporaneamente, per la reazione. (2) ione metallico + © = metallo molec. si può avere deposizione del metallo al catodo ; infine al catodo stesso, nell'atto della scarica dei metallo-ioni, si può avere formazione intermedia di borato ed immediata idrolisi del borato stesso con precipitazione dell’ossido o dell’idrato metallico. (3) borato metall. + H,0 = ac. borico 4- idrato metall. Dipende evidentemente dalla velocità di queste tre singole reazioni, e dal potenziale all'elettrodo se ed in che grado una reazione potrà predomi- nare sull'altra; certo, data la natura delle reazioni stesse, è difficile scinderle completamente, ed è prevedibile che per metalli che non sieno alcalini o al- calino-terrosi, non si possano per via elettrolitica ottenere borati a compo- sizione ben definita in quantità apprezzabile. 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Zxun K. — Constructive Bestimmung der Hauptaxen und der Umrisse einer Flé- che zweiten Grades, die durch einen Kreis und vier Punkte des Raumes bestimmt ist. Strassburg, 1906. 8°. E. M. ———— ‘E Dolhhre-È-T-E-EÈ--EÈÉÉ[I —— —T r_———_—_—_———_—_————_—_—___te e; co — Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontiticia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1* TRANSUNTI; 2* MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 33 MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI VII. VIII. Serie 83* — TransuNTI. Vol. I-VIII. (1376-84). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturale. Vol. I. (1, 2). — II. (1, 2). — NI-XIX. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche filologiche. Vol. I-XIMN. Serie 4* — RenDpICONTI Vol. I-VII. (1884-91). MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908).- 2° Sem. Fase. 10°. ReNDICONTI della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1908). Fase. 3°, MemoRIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. Fase. 4°. MemoRIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XIT. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte at mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l'Italia di L. £®; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LorscHeR & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrico HorpLi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI — Novembre 1908. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 22 novembre 1908. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Riccò. Lo spettreliografo del R. Osservatorio di Catania . . . . 0... 0. . Pag 529 Levi-Civita. Rull’attrazione newtoniana di un'tubo sottile. . 0... 0.0.0» 989 Nasini e Lovi. Radioattività di alcune emanazioni gassose italiane . \././. +... +» 551 Viola. Sull’associazione del rutilo con l'ematite . . . . I ie ED Bottazzi e Scalinci. Ricerche chimico-fisiche sulla lente (pitti SEE Li n80, Quintili. Sulla continuità di un integrale rispetto ad un paramztro (pres. dal o. dadi » 571 Del Re. Sulla Astatica nello spazio a 4 dimensioni (pres. Id.) ®©)... n Db Id. Il più generale metodo di rappresentazione che serve di base alla Geometria desi ordinaria (Pres Md) FEE So Emoto) Accolla. Nuove ricerche sull’azione del campo bi dtico sui ai nedialici uni per ionoplastica (pres. dal Socio Blaserna) () . . - . LOI Tenani. Il fenomeno di Zeeman e il secondo principio della dini ae ) Corrisp. Bale RR Rolla. Contributo alla Ln dell e cl una e ‘dal Socio Righa o) Ro) La Rosa. Alcuni nuovi fatti sulla visione degli occhi astismatici e normali e loro interpre- tazione (pres. dal.Corrisp. Iacaluso) (*) . . È e o, Angelico. Trasformazioni dei diazopirroli (pres. dal Gorriem Autori ©. E N) Marzetti. Intorno all’azione della luce ultravioletta su d’uno spinterometro. (pres. dal Corrisp. Baka : £ oo Mascarelli. Sulle proprietà ‘dellridrato Pa ddl iodonio e di aloni suoi detivali pieni dal Socio Ciamician) . . RR i A A e) Olivari. Sui poliioduri (pres. Id) o. ERRORE, Rimini. Sui prodotti di ossidazione ble ua Li Sadia a E) Serra. Ricerche su rocce eruttive basiche della Sardegna settentrionale (pres. dal Socio SUOI SCA Tn OT Vinassa de Regny e Goncani. Ni ricor logiche Si nd diva ee ‘Alpi Car- niche (pres. dal Socio Z'aramelli). . ++ een 005. Levi e Castellani. Sopra alcuni borati elettrolitici te dal sa Nasini). e DIL MEMORIE DA SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DI COMMISSIONI Ena. Intorno alla rotazione dei corpi muniti di movimenti ciclici stazionari (pres. dal Socio Vollenna): ce ARM BULLRITINOBIELIOGRAPICO è. + (0 (ciale 0 . n 618 (*) Questa Nota verrà }inbblicata in umo dei prossimi fascicoli. KE. Mancini Secretario d'ufficio, responsabile. Pubblicazione bimensile. Roma 6 dembre 1908. ; REALE ACCADEMIA 1 ANNO EGG. 1908: I LINCHI Poe QUTNIA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e iaturali. Seduta del 6 dicembre 1908. Volume XVII. — Fascicolo v 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI | | 1908 ESTRATT( DAL REGOLAMENTO INTERNO PER Li PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata 1; Serre quinta delle pubblicazioni della R. Academia dei Lincei, Inoltre i Rendiconti dellanuova serie formano una pubblicazione distinta»er ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti lla Classe di scienze tisiche, matematiche e naturali valgono le norme seguenti : 1.1 Rendiconti dela Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte el mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l'Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli rompongono un volume, due volumi formano un’annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. lie Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3. L'Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei - qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus: sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essì sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II l. Le Note che oltrepassino i limiti indi- cati al paragrafo precedente, e le Memorie proe priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci 0 da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com- missione la quale esamina il lavoro e ne rife: risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se: guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell’Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 2) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all’ autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 3. Nei primi tre casi, previsti dall" art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in ‘seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è date. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall’art. 26 dello Statuto. 5. L'Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è massa 2 carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCK] Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. NAM FT Seduta del 6 dicembre 1908. P. BLASERNA, Presidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Chimica. — / polisolfuri di idrogeno e la crioscopia. Nota del Socio E. PATERNÒ. Bruni e Borgo (') hanno recentemente tentato di stabilire la formula dei polisolfuri d’idrogeno determinando il p. m. in bromomorfio di miscugli, di composizione empirica nota, di zolfo e polisolfuri, e deducendo col calcolo il p. m. e però la composizione del polisolfuro. In una lettura fatta nelle riu- nioni di Firenze della Società pel progresso delle Scienze, ho manifestato il dubbio che il metodo, per le sue indeterminatezze, non conducesse a risultati attendibili, perchè anche nel caso più semplice in cui si fosse trattato delle soluzioni dello zolfo in un solo polisolfuro d’idrogeno, il risultato dipendeva dalla costante di abbassamento nel bromoformio, e dal peso molecolare dello zolfo. Ora la costante nel bromoformio (K = 144) non è un numero sicuro, ed il p. m. dello zolfo non ha mai dato numeri corrispondenti con preci- sione al Ss. Per la costante K = 144 basta leggere la Memoria di Am- pola e Manuelli, che la determinarono, per persuadersi che essa è la media di numeri abbastanza diversi, ed ha solo valore per le ordinarie determina- zioni di peso molecolare. In quanto al p. m. dello zolfo gli studî importantis- (*) Gazz. chim., t. XXXVIII, I, pag. 287. RenpICcONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 81 — 623 — simi e rigorosi che sono stati fatti, sia col metodo della densità di vapore, sia con quelli ebullioscopico e crioscopico, se hanno permesso di concludere che l'ipotesi più attendibile è quella di ammettere la molecola Sz non hanno mai dato numeri precisi. i Ed anzi dopo i lavori di Herz, di Garelli e Borsani, di Orndorff e Terrase, bisogna non dimenticare che gli studî di Orloff (') hanno provato che tutte le varietà di zolfo (amorfo, prismatico, ottaedrico) si comportano egualmente crioscopicamente, e che in soluzione nella benzina e nella dime- tilanilina portano a complessità molecolari variabilissime. Che se i dati degli autori che conducono a calcolare in soluzione la molecola dello zolfo formata da 1 a 7,4 atomi possono essere discussi, essi però provano che la molecola Ss non può considerarsi come dato crioscopico indiscutibile. Il Bruni, nella discussione che seguì alla mia lettura ed alla quale per l’ora tarda non mi fu consentito prender parte, affermava che egli e Borgo non avevano fatto altro che applicare un metodo che era stato per la prima volta applicato da me e Peratoner (*), e quasi contemporaneamente da Noyes e Leblanc (8) nello studio del comportamento dell’iodio nella soluzione in ioduro potassico, ed anche più recentemente da me e Oliveri (4) nello studio delle soluzioni di cloro in acido cloridrico. La risposta forse destinata a produrre una certa impressione, è tutt'altro che esatta. Nelle ricerche che egli ha rammentato si trattava di conoscere se l'iodio ed il cloro si combinavano in soluzione all'ioduro di potassio ed all’acido cloridrico, nel quale caso, aggiungendo iodio e cloro alle accennate soluzioni, sino a quando tali elementi entravano in combinazione, non doveva aversi mutazione nel numero delle molecole, e però non doveva mutare la temperatura di congela- mento della soluzione primitiva. La conclusione quindi era dipendente da un solo dato, cioè dalla determinazione della temperatura di congelamento. Nel caso invece di Bruni e Borgo, oltre che dalla temperatura di congelamento, il risultato dipende dal valore della costante K e dalla complessività della mole- cola dello zolfo. La differenza è così evidente che ogni insistenza sarebbe oziosa. Ma poichè il Bruni non ha creduto che le mie osservazioni fossero fon- date, e poichè si tratta di argomento di una certa importanza, ho voluto sottoporre a controllo il metodo di Bruni e Borgo, studiando il comporta- mento in cloroformio di una soluzione di zolfo in solfuro di carbonio. Le condizioni sono qui analoghe a quelle di Bruni "e Borgo, con la differenza che il polisolfuro di idrogeno, di composizione ignota, è sostituito dal CS» e che la quantità totale di zolfo, che nel caso di Bruni e Borgo, è divisa (4) Giornale della Società fisico-chimica russa, 1903, pag. 642. (3) Gazz. chim. ital. t. XXI, I, p. 110. (3) Zeitschrift f. Phys-Chemie, 1890. () Rendiconti della Società Chimica, V, 211. — 629 — in modo indeterminato, parte allo stato libero e parte allo stato di combi- nazione con l'idrogeno, nel caso mio si sa con precisione come è ripartita; e però si può dedurre quanto sia attendibile, o meno, il processo. Ma prima di esporre il risultato delle mie esperienze, è bene fermarsi ancora un momento sul lavoro di Bruni e Borgo. Essi (loc. cit., pag. 188) dicono che col loro metodo è facile calcolare quale peso molecolare appa- rente dovrebbe aversi se in soluzione esistessero molecole di H,S;, HsS ed H,S; 0 un ,miscuglio di queste. Ora ciò è tutt'altro che esatto; nel caso del miscuglio il calcolo è indeterminato, ed i miscugli più varî possono dare gli stessi risultati quando il rapporto fra il numero degli atomi d’idrogeno e di solfo sia costante, e quando non muti il numero totale delle molecole. Così, passando anche alle osservazioni contenute nella tavola riassuntiva (p. 290) è chiaro che il calcolato per il miscuglio H,Ss + 4H, S,, resta lo stesso per tutti i miscugli di 5 mol. nelle quali i 34 atomi di zolfo siano distribuiti in un modo qualunque nelle cinque coppie di H,. Nè queste osservazioni diminuiscono di valore per la dichiarazione degli autori che in base alle loro esperienze non sarebbe possibile dedurre se ad es. si abbiano molecole HyS; o miscele in proporzioni eguali di H,S; ed H;S,, perchè la loro conclusione principale e definitiva è questa: Ze nostre esperienze condu- cono alla conclusione che in soluzione possono esistere, secondo la compo- sizione del liquido da cui si parte, differenti molecole e così H2Sz, Hs Sx ed H,S,. Ed è questo che, per le ragioni su esposte, a me sembra che sia tutt'altro che provato, in base ai risultati crioscopici, nei quali non è inoltre escluso che possa influire la facilità con la quale i polisolfuri d’ idrogeno si scindono in solfo ed H,S. Queste considerazioni mostrano all'evidenza che anche quando potesse provarsi che il metodo indiretto seguìto dal Bruni e Borgo, per determinare crioscopicamente il peso molecole di una sostanza mischiata con un’altra di peso molecolare noto, potesse ricevere delle pratiche applicazioni, resterebbe sempre provato che le conclusioni di Bruni e Borgo sono arbitrarie e non potevano dedursi dalle loro esperienze. Ma ritornando al problema nella sua generalità, rammenterò che nel 1895 (*) Tanatar, Choina e Kozineff studiarono la depressione di alcuni corpi nel miscuglio di acqua ed alcooli e sono venuti al risultato che aggiungendo all'acqua il 10 o il 20°/, di alcooli etilico e metilico, le depressioni che si ottengono con varie sostanze non mutano sensibilmente da quelle ottenute nell'acqua sola, ma ciò per i corpi organici non elettroliti (*); mentre i sali in generale dànno una depressione molto più grande che nell'acqua sola. Ciò serva a confermare quanto ho detto sulle incertezze che presenta il metodo () Gli a. affermano che anche lo zucchero, come gli elettroliti, dà una depressione doppia, ma le loro esperienze non sono confermate. (3) Zeitschr. f. Phy. Chemie, t. XV, pag. 124. — 680 — di Bruni e Borgo, e serva pure a mostrare che il caso del miscuglio di solfuro di carbonio e zolfo è più adatto a favorire risultati ‘attendibili, di quello dello zolfo e di un polisolfuro d'idrogeno. Prima di esperimentare col miscuglio di solfuro di carbonio e zolfo, ho voluto esaminare il comportamento del solfuro di carbonio nel bromoformio. Ecco i risultati ottenuti: I. Bromoformio gr. 31,4024. Sostanza °/o abbass. peso molecolare LI calcolato con K = 144 0,0454 0,1444 0,28 74 147,36 0,1372 0,4368 0,82 76 142,77 0,2244 0,7241 1,99 77 139,59 0,3072 0,9782 1,86 75 144,51 0,4833 1,5404 2,82 78 139,11 0,5894 1,8768 3,29 80 131,00 0,7188 2,2889 3,89 84 129,66 0,9368 2,9832 4,99 86 124,58 1,9443 4,2803 7,01 87 124,45 II. Bromoformio gr. 37,316. 0,5904 1,58 2,78 81 133,72 0,7151 1,93 3,94 80 131,51 0,38852 2,37 4,02 84 128,91 1,0342 2,77 4,62 86 126,75 ILS IRSA 3,15 0,92 85 128,35 1,3236 3,94 6,02 84 129,27 Il p. m. teorico del CS, è 76. Questi risultati mostrano che il solfuro di carbonio nel bromoformio non ha comportamento anormale, mà che per avere risultati buoni bisogna espe- rimentare con soluzioni di concentrazione non superiore a 0,5 °/o. Ecco ora i risultati ottenuti con miscugli di zolfo e solfuro di carbonio: Je Bromoformio gr. 20,3619. Composizione del miscuglio: solfo gr. 0,3132 4 CS» gr. 1,2578 °/o 19,94 80,05 sostanza sostanza per:100. abbassamento coefficiente p. m. appareute 1. 0,2945 1,4463 2,17 1,5000 96,0 2. 0,4558 2,2385 3,29 1,4648 98,0 0,8040 3,9484 9,61 1,4209 101,3 Bromoformio gr. 28,3977. Composizione del miscuglio: solfo gr. 0,7881 + CS. gr. 3,0460 °/, 19,50 80,50 4. 0,1899 0,6686 1,22 1,823 98,9 o. 0,2884 1,0148 1,73 1,704 84,5 6. 0,4299 1,4914 2,48 1,596 90,2 7. 0,6517 2,2948 3,49 1,525 94,4 8. 0,9448 3,3974 4,93 1,451 99,2 III. Bromoformio gr. 30,3683. Composizione del miscuglio: solfo gr. 0,7986 + CS. gr. 3,6289 °/, 18,03 81,96 9. 0,2602 0,837 1,33 1,589 90,6 10. 0,4261 1,403 2,18 1,558 92,7 11. 0,5975 1,967 2,94 1,484 97,0 12. 0,9365 3,082 4,51 1,463 98,4 13. 1,2994 4,278 6,17 1,442 99,8 14. 1,4191 4,643 6,59 1,419 101,4 Se in base a questi dati si calcola l'abbassamento termometrico che avrebbero dovuto dare teoricamente i miscugli sopraccennati di zolfo e solfuro di carbonio, ammesso le formole CS; , Ss e la costante K = 144 si hanno i seguenti numeri: abbiamo trovato abbiamo calcolato differenza IL 2,17 2,35 Liga 2. 3,29 3,64 — 0,37 9. 5,61 6,42 — 0,74 4. 1,22 1,09 + 0,13 Ò. 1,73 2,08 — 0,35 6. 2,48 2,40 + 0,08 Ti 3,49 8,75 — 0,26 8. 4,93 5,55 — 0,62 9. 1,88 1,98 — 0,05 10. 2,18 2,32 — 0,14 11. 2,94 3,25 — 0,81 12. 4,51 5,09 — 0,58 13. 6,17 7,06 — 0,89 14. 6,59 7,07 — 1,08 — 632 — Eliminando i dati delle esperienze n. 3, n. 8, n. 12, 13 e 14, perchè essendo relativi a concentrazioni molto elevate, si allontanano troppo dalla media, e prendendo la media degli altri soltanto si trova che fra i dati sperimentali e quelli calcolati vi è una differenza del 6,8°/,. Però bisogna riflettere che questo errore, nel caso ipotetico nel quale si cerca il p. m. del solfuro di carbonio, si cumula tutto sopra di esso, e perciò essendo nei miscugli sperimen- tati la proporzione fra Ss e CS» di 1 a 4 all'incirca, l'errore medio sull’ab- bassamento termometrico si può stabilire ad 8,5 °/0. Naturalmente in questo calcolo potrebbero introdursi delle correzioni, in base ai dati di fatto forniti dal solfuro di carbonio e dallo zolfo sciolti se- paratamente in bromoformio, qualora volesse studiarsi l'andamento del feno- meno in generale; ma allora ci allontaneremmo dalle condizioni in cui la questione è posta dal lavoro di Bruni e Borgo. Ora osservando che nel caso di Bruni e Borgo si trattava di decidersi tra formole quali H,S;, H3Ss , H29;, H,Ss ed anche Hs Sy e che fra i pesi molecolari di due successive di queste formole vi è una differenza che varia da 16,2°/ (H3S; e H,S) ad 11,0(H.S ed H,$s) si scorge che, nelle con- dizioni più favorevoli, l'errore sperimentale può essere di più di mezzo atomo di zolfo per molecola di polisolfuro. Ma senza bisogno di ulteriore discussione o di nuove esperienze, che il metodo indiretto di Bruni e Borgo, non era tale da condurre a risultati sicuri è stato provato in modo inconfutabile dalle recenti e molto belle ricerche di J. Bloch e I. Hohn ('), i quali hanno dimostrato che il polisolfuro d'idrogeno grezzo, non è già un miscuglio di HS; ,H,Ss, HsS; e forse anche H,Ss, ma contiene invece i due solfuri H,S, ed HyS; che gli autori hanno separato allo stato di purezza, determinandone le principali costanti fisiche. E questi risultati, in antitesi (Gegensatz) a quelli di Bruni e Borgo, sono stati confermati da R. Schenck e V. Falcke (?). Le mie osservazioni non avevano dunque altro scopo, se non quello di far vedere che dalla crioscopia non deve pretendersi più di quanto essa possa dare; e che un indirizzo diverso non sia scevro di pericolo è confermato da due comunicazioni fatte alla nostra Accademia nel luglio e nell’ottobre ultimi. Nella prima Pellini e Pedrina determinando le curve di fusione e di solidificazione delle miscele di selenio e di iodio, hanno conchiuso che %/ selenio e l’iodio non formano nessun composto fra loro, mentre che dal diagramma da essi ottenuto risulta soltanto provato che il composto sì de- compone anche prima di raggiungere la temperatura dell’eutectico. Nella seconda l’ Olivari da talune determinazioni crioscopiche del selenio in soluzione nel iodio conclude: Mor vi ha dunque alcun dubbio che il peso ('*) Berichte, t. XLI, pag. 1961, 13 giugno 1908. (2) Berichte, t. XLI, pag. 2600, 25 luglio 1908. — 633 — molecolare del selenio sciolto in iodio corrisponda alla molecola Se, = 158,4. Ora non soltanto il dubbio sussiste, ma può anche affermarsi che la conclu- sione dell’Olivari sia molto affrettata. Risulta infatti dalle ricerche di Bekmann (!) che il selenio in soluzione nel fosforo e nell'ioduro di metilene ha la molecola assai prossima ad Ses. Ora quando è noto che lo zolfo nei varî solventi ha, tranne che in so- luzioni diluitissime, la molecola egualmente complessa Ss, e che perchè essa si dissoci in molecole S, è necessario portarne il vapore ad altissima tem- peratura, non è presumibile che ciò faccia il selenio alla temperatura di 113°, tanto inferiore a quella del suo punto di fusione. Una simile ipotesi per essere creduta deve essere altrimenti provata. Se non fosse per le espe- rienze di Pellini e Pedrina, i risultati dell’ Olivari troverebbero facile spie- gazione ammettendo la formazione del composto Se» Is. Matematica. — Za massima deviazione accidentale e le 0s- servazioni del tenente Mazzuoli sui risultati dei tiri. Nota del Corrispondente P. PizzetTI. 1. Il compianto tenente di vascello Alberto Mazzuoli, rimasto vittima, il dì 24 ottobre u. s., dello scoppio accidentale di una granata al Balipedio di Viareggio, mi aveva, nello scorso aprile, comunicati i risultati di nume- rose ricerche statistiche da lui eseguite sulle deviazioni accidentali nei tiri al cannone (?). L'argomento di tali statistiche è il seguente: Sia X, la deviazione massima (in una determinata direzione e in un dato piano verticale) di un tiro, rispetto alla media, in una serie di x tiri, e sia R,, il rapporto fra X, e la così detta deviazione probabile (la cui definizione corrisponde a quella dell'errore probabile di Gauss). Il Mazzuoli osservava come dalle sue ri- cerche numeriche risultasse che questo R, può considerarsi come una quan- tità statistica fissa per ogni dato valore di n. Inutile dire che colla locu- zione quantità statistica fissa non s'intende significare che quel rapporto abbia ugual valore nelle differenti serie; vogliamo dire che, facendo la media dei valori di R, per un certo numero m di serie, ciascuna composta di % tiri, si arriva ben presto a un numero fisso, al quale i risultati di quante si vogliano nuove serie analoghe non portano modificazione sensibile. Ma di (!) Zeits. f. Phy. Chemie, t. XXII, p. 614, e t. XLYI, p. 853. (*) Rendo grazie al Ministero della Marina che mi ha gentilmente concesso di esa- minare i registri originali delle statistiche del Mazzuoli, e ai sigg. tenenti di vascello Bettioli e Bertagna, il primo comandante attuale del Balipedio, il secondo collaboratore del Mazzuoli nelle ricerche di cui qui si tratta, i quali, con somma cortesia, mi hanno fornito le spiegazioni di cui abbisognavo. — 634 — più questo rapporto R, si manifesta, secondo le osservazioni del Mazzuoli, variabile in modo molto regolare col variare del numero n dei tiri com- ponenti la serie. Di un tale fenomeno regolare il Mazzuoli desiderava che io gli dessi una rappresentazione analitica, in base alla ordinaria teoria degli errori accidentali, che, come di solito, si ritiene potersi applicare ai risultati dei tiri. Di questa rappresentazione analitica è oggetto le seguente Nota, nella quale, com'è naturale, il problema trattato è la ricerca del valor medio del rapporto fra il massimo errore e l'errore probabile in una serie di n osservazioni. Ma con questo scritto, non tanto m' interessa il presentare una nuova formola, quanto offrire un esempio, che ritengo veramente notevole, di verificazione sperimentale della legge di probabilità degli errori, e con questo rendere un, per quanto lieve, tributo d'onore alla memoria del com- pianto ufficiale. Il quale, benchè giovane assai, aveva già resi eminenti servigi alla R. Marina, sia come insegnante nell'Accademia Navale, sia come direttore del Balipedio di Viareggio, sia nella Navigazione e nelle delicate funzioni amministrative. Aggiungerò che lo stesso tenente Mazzuoli aveva, nella Ri- vista Marittima del gennaio del corrente anno, data una interpretazione ap- prossimata di altri risultati statistici, analoghi a quelli di cui qui sì tratta, ma dedotti con principio un poco differente. 2. Sia x l'errore massimo (in valore assoluto) in una serie di x osser- vazioni di egual precisione, sia P,4x la probabilità che esso sia compreso fra x e x + dx. Rappresenterà (1) K= | xP, de il valore medio di x, ossia la media aritmetica dei valori che x assume- rebbe in infinite serie, ciascuna di n osservazioni. Se o è l'errore probabile, il rapporto Xn:0 è il valore teorico del numero R, dianzi considerato. Ora è facile vedere che, assunta la solita legge esponenziale per gli errori acci- dentali, e detta % la misura di precisione, la P, è proporzionale a ci (eat. 0 poichè, se x è l'errore massimo in una serie di % osservazioni, ve ne sa- ranno x — 1 inferiori ad x. Posto potremo dunque scrivere ©) P,— He? gi (e=feca) (1) — 635 — dove H è indipendente da z ed è determinata dalla condizione Il Rage =1 (6) Con queste posizioni la (1) dà 00 ii ge. po. de 0 1 £ f Gaza, pride 0 Per avere R, basterà poi dividere questo risultato per o ed osservare che eh=0,4769... (8) Zar 8. La integrazione indicata nel numeratore della formola (3) non ho saputo ottenere in termini finiti se non pel caso n=. Il risultato esatto, per questo caso, è dato nel paragrafo ultimo della presente Nota. Per un qualunque valore di , ho ricorso al metodo tenuto da Laplace in casi simili, dello sviluppare in serie di Taylor il logaritmo della funzione integranda, assumendo come valore iniziale quello che rende massima la probabilità. Osservando che dalla (2) deduciamo Il valore d di < che rende massima la P, è dunque fornito dall'equa- zione (4) 20 e. gp(d)=n—1. Si hanno, com'è noto, delle tabelle numeriche pel calcolo dell'espressione 9 Z (2 i [ RIA o dele Introducendo questa nella (4), l'equazione diventa (4) de O(d) = ra b dalla quale non è difficile ricavare, coll’interpolazione, il valore di d cor- RENDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 82 — 636 — rispondente a un dato valore di n. Per comodità degli eventuali riscontri, do qui i valori del prodotto D=d.e?. O(d) , per differenti valori di d RENI i ORO TT | 0 0 1,05 2,7273 1,36 8,1752 0,5 0,3341 1,10 3,2469 1,37 8,4789 0,6 0,5193 1,15 3,8674 1,38 8,7947 - 0,7 0,7745 1,20 4,6105 1,39 9,1230 0,8 1,1259 1,25 9,9036 1,40 9,4648 0,9 1,6122 1,80 6,5804 1,41 9,8202 1,0 2,2907 1,35 7,8830 1,42 10,1902 Pongasi ora «“=0 4% vale a dire n=944 e si sviluppi in serie log P, per le potenze intere positive di . Si otterrà, con calcoli che non presentano alcuna difficoltà, e nei quali naturalmente bisogna tener conto che d soddisfà alla (4), P,= Pi eTAU+BUI+"* Po(1 + Ba + E .) eusui dove P, è il valore di P, corrispondente a 2 = 0, e dove n ae? __ 201) ql = Sepel Sostituendo questa espressione di P, nella (1), gli integrali dovrebbero: essere estesi da —d a + 0. Ma seguendo anche in ciò l'esempio dato da Laplace per simili casi, osserveremo che le funzioni integrande assumono valori estremamente piccoli per valori di % alquanto differenti da zero, ep- però senza errore sensibile estenderemo le integrazioni da — 0 a -+ co. Avremo così (6) Mr 2 p + w)(1+4 Bu?) e du dove P, è determinata dalla condizione Lf Ped 1 — 637 — ossia IRE } 22 ( (14 Bu?) e* du=1 donde ) r=bj/3. Si ha poi fa ue du= 0, DI ute TA du = 3/7 = 4A°/ i Con queste avvertenze si ha senza difficoltà dalla (6) GU 35 o AZ Introducendo le espressioni sopra indicate per A e B, dividendo per Q ed osservando che 0% =0,4769 abbiamo finalmente il rapporto cercato nin DA d (a— DE (7) R=csel+ e _ 0,4769 (1 _ ar) n_ 1 Il valore di d, lo ricordiamo, deve dedursi della formula (4). 4. Ecco i valori di R, trovati per mezzo delle formule (4) e (7) per varî valori di x. Sono scritti di fronte i valori medî dello stesso R, quali risultano dalle statistiche del tenente Mazzuoli, e, in un'ultima colonna, i numeri di serie dalle quali quei valori medî furono dedotti: === = = = <= = >_+=+=—=—==----—>==-+EÉE?—————==>: Numero R, osservato A delle serie n | R, teorico 3 1,95 1,78 116 4 2,17 2,12 65 5 9,31 2,24 116 6 2,46 2,44 99 8 2,64 2,57 54 9 2,72 2,72 97 10 2,79 2,75 68 12 2,90 2,92 70 16 3,08 3,02 44 18 3,15 3,18 42 —. (ia ; La concordanza è assai buona: tendono generalmente ad essere alquanto maggiori i valori teorici; nè deve ciò far meraviglia poichè il nostro calcolo si riferisce ai veri errori, mentre l'osservazione riguarda gli scostamenti dalla media. 5. Nel caso di #=3, la formula (3) può calcolarsi esattamente. Si ha infatti, colla integrazione per parti, osservando che Se = GP, (8) f sr gde= f TI Dec 0 0 E col solito sviluppo in serie esponenziale g3r+1 SS de dra MAN pet, r g=f de (1) rI(@r +1)" Sostituendo in (8) ed osservando che 222 2r+1 Ji ew. 041 den — TRE si ha ; e VE Li 1 1 1 = gp? aree PSE E fra Ha > &+i)as "= til assai 7a = 3 arc tang 272 Si ha poi evidentemente ; La, ten de fe dia Quindi poichè g(0)= 0, g(0)= Si sa 1 22 ep? OVE ca 3a ii € g°da =, Il valor medio di X, dato dalla (2) è dunque nel caso x =3, Xy= Me — arc tang da —_O:5220 : ha {/2r y2 h Quindi Rs = SE 1,96 Q valore pochissimo differente da quello (1,95) trovato col calcolo approssimato per mezzo della (7). La quale formula (7) dà poi tanto maggiore approssi- mazione, quanto più grande è 2. — 639 — Zoologia. — Zrtorno ad un nuovo Flebotomo. Nota del Socio B. Grassi. Zoologia. — Sulla classificazione delle Fillossere. Nota del Socio B. Grassi e di A. Foà. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Matematica. — 7 più generale metodo di rappresentazione che serve di base alla Geometria descrittiva ordinaria. Nota del prof. A. DeL RE, presentata dal Socio V. CERRUTI. Il modo più generale di fare della Geometria descrittiva comune, con- siste nel rappresentare lo spazio punteggiato sulle coppie di punti di un piano allineate con un fisso, in guisa che i piani vengano rappresentati da omologie; 0v- vero, ciò che vale la stessa cosa, nel rappresentare lo spazio di piani per mezzo delle omologie dotate di un centro fisso, in guisa che il punto d'’ intersezione di tre piani venga rappresentato dalla coppia comune alle tre omologie rappre- sentatrici di quei piani. Siffatte rappresentazioni sono possibili, poichè il gruppo delle omologie di un piano dotate di un centro fisso, quando vi si considerino pure le degeneri, costituisce una varietà entro la quale sono ve- rificate proposizioni analoghe a quelle (postulati) sulle quali riposa la così detta linearità dello spazio punteggiato, e dello spazio dei piani. Si può a tale riguardo confrontare la mia Memoria: Intorno ai metodi di rappresentazione della Geometria descrittiva, pubblicata negli Atti dell’Accademia Ponta- niana per gli anni 1904, M?. n. 10, 1905 M?. n. 5, 1906 M2. n. 6. In questa Memoria io ho mostrato altresì come tutti gli usuali metodi di rappresen- tazione di cui si occupa la Geometria descrittiva suddetta possono essere de- rivati dall’unico metodo per immagini stereoscopiche (M?. cit. del 1906), del quale si presentano puramente e semplicemente come casi particolarizzati (« metodo di Cousinery, metodo dei piani quotati »), o come casi particola- rizzati ai quali faccia seguito l'intervento di ulteriori operazioni per proie- zioni (« metodo di Monge, metodo delle proiezioni assonometriche »). Ora, io mi propongo in questo scritto di mostrare che, a mero di una trasfor- mazione omografica, il modo più generale di rappresentazione di cui in- nanzi si parla, è un metodo per immagini stereoscopiche. — 640 — Tanto la via analitica che la sintetica conducono rapidamente allo scopo. Preferisco seguire la via analitica e usare coordinate proiettive generali, perchè queste conferiscono alla trattazione un'andatura più uniforme e più sbrigativa. 1. Assumiamo come piano di rappresentazione (quadro) il piano o dei tre punti Xn) ’ Mot. -..,4) ’ AGO sicchè un punto qualunque di questo piano venga rappresentato da un’equa- zione della forma (1) Axue + Agun + dsug=0, 4 ove u,= > wxi,x=È,,5,0d w,...,u, sono le coordinate omogenee 4 di un piano. Un'omologia qualunque in e potrà allora essere rappresentata con equa- zioni della forma TÀ, = (o 4 uz) Ad + un. As + ue 43 th, = uz . An 4 (uo + un) Ai + ue. ds TÀ, = ug .Ay 4 un -Ag + (uo + ur) Ag é dove, come sopra, è vg = Div 6;, ed è, inoltre, (£760) + 0; perchè: 1°) le 1 (2), per (3) we dh, 4 un Ao 4 ug. dg =0 dànno 74; = vs. A; (É=1,2,8) sicchè la (3) è, nel piano 0, l'equazione di una retta di punti uniti per l’omografia £ dalle (2): l’asse di 9; 2°) per A,=4,=43...(4), le stesse (2) dànno (5) tà; = (uz |-un + u + wo)A; ((=1,2,8) sicchè il punto (4), cioè il punto di coordinate vi =glaniaz age pt) è, per la £, un punto unito generalmente fuori della (3): 22 centro di £. L'essere sulla (3) un tal punto implica, per le (4), che le siano scelte in guisa da aversi, circostanza importante, (6) ur +undu=0, equazione del punto (4). — 641 — 2. Il determinante delle (2) è d=|u+uounu|= up (ue +4un4+u +0), (7) uz Un + a ug uz Un ut + vo e l'equazione caratteristica per gli elementi uniti è, invece, 4d(c)=|u+u —0 un w|= (uv — 0) (u+un+u+w—0)=0. Uz Unt+ uo —0 wu Uz Un ut + un — @ Da ciò si vede di nuovo, dopo aver constatato che o — vo, annulla i minori del 2° ordine di 4(0), che le (2) rappresentano un’omologia. 3. Le omologie £ dipendono linearmente dai parametri uz, un, uz ;%9, e sono tutte le omologie del piano o = XYZ che hanno in comune il centro nel punto (6). Alla omologia £ data dai parametri uz, un, u, 0, facciamo corrispon- dere il piano u1,%2, 3, dato dalle formole: ALL ta 14 r SJ} (8) CU =U ,0U,=U,0U=U3, 0% = U; avremo una omografia nella quale il piano corrispondente di una data omo- logia contiene l’asse di questa; poichè, come si deduce da (3), le coordinate di un punto di tal asse sono, per 7==1,...,4: s= A; + VIE + Agi; ’ e si ha: us = Axur + Agun + Asug = 0. 4. In grazia di (7) le omologie degeneri del gruppo si hanno allorchè u=0, 0 ut+unt+u4+u=0; i piani corrispondenti formano due stelle coi centri nei punti di coordinate 0, eE&+n+G+0,=v+0;, ((=1,...,4), cioè in due punti T,V allineati col centro U, comune alle omologie del gruppo. I piani comuni alle due stelle rappresentano le omologie doppia- mente degenerate del gruppo stesso, cioè le omologie in cui ogni punto del- l’asse (il quale ora passa per U) forma coppia con un punto qualunque dell’asse stesso, in cui ogni punto del piano forma coppia con U, ed in cui U forma coppia con un punto qualunque del piano. — 642 — 5. Le formule della omologia inversa di una data sono: tha, =|M Un w|=(w0+un+u)M— und — ur.4 As und un ug À; Un U8 + Un th, = — us dh 4 (us Luz + ue) A — ur. 43 th, = — ue dA — un 45 + (uo +ur + un) 45. Per la coincidenza con le date occorre che si abbia vdue=— (un + ur + vo) utun=— (wu + u + wo) utbu=— (uz + un + us); wuduntbu + 2u=0. I piani corrispondenti formano una stella col centro nel punto W, alli- neato coi punti U=u+u+uw=0 , T=+e4+uw+w=0, V=w=0 OVVEro : e separante, insieme ad U, armonicamente T e V, come si vede chiarissi- mamente dall'essere (simbolicamente) U=TAR00 w=tT-/vi Ciò concorda con quanto venne detto alla citata M?. del 1904 sulla rap- presentazione delle omologie armoniche del gruppo. 6. Le omologie corrispondenti ai piani della stella (T), cioè ai piani pei quali è 1 =0, degenerano in guisa che mentre in ognuna U corrisponde ad un punto qualunque, ad un punto situato sull'asse corrisponde un punto qualungue del raggio che lo proietta da U. Le omologie corrispondenti ai piani della stella (V), cioè ai piani pei quali uz: +un+ += 0, de- generano, invece, in guisa che in ognuna U ha per corrispondente un punto qualunque, ed un punto dell'asse è il corrispondente di un punto qualunque del raggio che lo proietta da U . Combinando questi due fatti con quanto venne già rilevato in fine del n° 4, e che, del resto, è conseguenza dei fatti stessi riuniti insieme, si ha che, preso ad arbitrio un punto A nello spazio, e tracciati per A i piani ATV=@, ATB=£8, AVB=y, dove B è un punto qualunque fuori di @, se si pone c(a,f,y) =a.8,e" a(d', di AI A” È sarà (A', A") la coppia comune alle tre omologie rappresentatrici dei ‘piani — 643 — a, ,y; epperò, per le (8), la coppia comune alle omologie rappresentatrici dei piani della stella (A): cioè la coppia rappresentatrice (vedi le parole di pref.) di A. Ma è, evidentemente, A' = ca8, A"= cy; dunque, per essere A=@8y, sarà pure TA.o =A', VA.o=A”. Vale a dire, nel metodo di rappresentazione istituito dalle (8), un punto qualunque dello spazio viene rappresentato dalle sue proiezioni, sul piano 0, fatte rispettivamente dai punti T ed V; o in altri termini, il metodo in esame è un metodo per immagini stereoscopiche con i centri in T,V, e col quadro in o. Così, osservando che per costituire una relazione di omografia generale fra le omologie del gruppo che consideriamo ed i piani dello spazio occorre al posto delle (8) porre le ‘ dove U, => wu(x=@,8,y,9) e (aBy0)+0, si conclude immediata- 1 mente la verità dell'affermazione che forma l'oggetto principale di questo scritto. Meccanica. — Sul moto di un corpo pesante intorno a un punto fisso. Nota del prof. R. MaRcoLONGO, presentata dal Socio V. CERRUTI. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Fisica. — Muove ricerche sull'azione del campo magnetico sui depositi metallici ottenuti per ionoplastica (*). Nota del dottor G. AccoLLa, presentata dal Socio P. BLASERNA. I Nell'eseguire le ricerche che sono oggetto della presente Nota, ho preso le mosse dalle esperienze i cui risultati in parte riferii in una mia pubbli- cazione (?), che riuscì incompleta perchè nel corso del mio lavoro, ad espe- rienze quasi ultimate, venne a mia conoscenza una Nota, allora recentissima, di Maurir (*), il quale, quantunque con disposizioni sperimentali ben diverse (!) Lavoro eseguito nell'Istituto di Fisica della R. Università di Catania. (#) Boll. Acc. Gioenia, fasc. LXXXVITI (1906), e Riv. Scient. Ind, anno XXXVIII, pag. 33. (®) Compt. rend., (1905), t. CXLI, pag. 1223. ReEnpICONTI, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 89 — 644 — dalle mie, s'era pure occupato dell’azione del magnetismo sulla polverizza- zione catodica. Epperò sospesi il proseguimento delle. ricerche intraprese, tanto più che gli insufficienti mezzi dei quali allora disponevo mi a vano le esperienze molto laboriose. UL Nei tubi a gas rarefatti lungamente usati, ordinariamente la regione che sta di fronte al catodo si trova più o meno offuscata da un deposito metallico proveniente dalla disgregazione del metallo costituente l'elettrodo negativo operata dalla scarica; tutti i metalli subiscono la polverizzazione catodica e l'alluminio che ne sembra esente, a lungo andare viene anche esso corroso. E questo fenomeno, oggi di modesta importanza, era, in tempi relativamente non lontani, la base di una opinione (seguìta da molti quando ancora le classiche esperienze di Lenard, di Perrin e di J.J. Thomson non avevano condotto alla moderna concezione dei raggi catodici) secondo la quale questi raggi non sarebbero altro che particelle staccate dal catodo e proiettate con grande velocità normalmente alla sua superficie. La tecnica per ottenere su lastre di vetro delle lamine metalliche sot- tilissime per disgregazione catodica sino a pochi anni fa era incerta e con- fusa; fu Houllevigue (*) per il primo a defimrla e a proporre, per qualche analogia con i depositi galvanoplastici, il nome di ionoplastica ai procedi- menti mediante cui tali lamine si ottengono agevolmente. Riferisco succintamente la descrizione della disposizione . sperimentale usata, rimandando per maggiori dettagli alla mia Nota già citata. Il recipiente ionoplastico è una campana, alta cm. 8,6 e avente em. 8,8 di diametro, ottenuta tagliando nel mezzo una bottiglia di vetro; l'orlo infe- riore spianato con sabbia fine è masticiato su una piattaforma di zinco a perfetta tenuta. Il catodo è un disco. metallico del diametro di cm. 6,0, sostenuto da un tubo di ottone passante attraverso un tappo di sughero in- cassato e ben masticiato nel collo della campana. Superiormente il catodo ‘è protetto da un disco di mica e il tubo d'ottone da un tubetto di vetro per impedire l’offuscamento della parte superiore della campana. La piattaforma di zinco che fa da anodo è messa in ogni esperienza in comunicazione col suolo; su di essa sì pone la lastrina di vetro da metalliz- zare e nella sua parte centrale trovasi un cilindretto di ferro dolce; del dia- metro di circa 7 mm., la cui base superiore coincide con il piano dell'anodo e la cui faccia inferiore concava si adatta perfettamente sulla espansione polare emisferica di una delle bobine di una elettrocalamita di Faraday, in maniera da divenirne un prolungamento. La distanza tra i due elettrodi è di cm. 2,5. (‘) Journ. de Phys. (1905), t. IV, pag. 396. — 645 — Il vuoto nel recipiente ionoplastico vien fatto per mezzo d'una pompa Gaede, azionata da un motore elettrico e aiutata all'inizio d'ogni esperienza da una macchina pneumatica Bianchi; la pressione viene misurata mercè un provino di Mac Leod, e il suo valore si è aggirato, nelle diverse esperienze, intorno ai 0,02 mm. di mercurio. Le scariche sono fornite ‘da un rocchetto d'induzione da 15 cm. di scintilla e munito di un buon interruttore a martello. Il polo negativo del secondario (si utilizzano le scariche di apertura) comunica col disco del re- cipiente ionoplastico, il positivo col suolo. L'ambiente è poi tenuto secco per mezzo di. anidride fosforo pura che sì pone nel serbatoio apposito della pompa di Gaede. Tad Appena il vuoto ha raggiunto il valore su indicato, s'incomincia a far passare la scarica nel recipiente ionoplastico; in sulle prime i gas che si sprigionano dagli elettrodi sono in tale quantità da far subire un piccolo aumento alla pressione: ma la pompa si tiene continuamente in azione, di modo che i gas vengono mano mano espulsi. Lo sprigionamento va gradata- mente indebolendosi sino al punto che, regolando debitamente la velocità di rotazione del tamburo della pompa, la pressione si mantiene quasi costante e intorno a 0,02 mm. In certi casi, quando gli stessi elettrodi sono usati a lungo e quindi si sono spogliati, o quasi, dei gas aderenti alla loro super- ficie, la pompa, anche funzionando a moderata velocità, sì è mostrata troppo rapida e l’ho dovuta fermare allo scopo di far riprendere alla pressione il valore suddetto, al quale corrisponde il maggior rendimento. Ad una pressione minore di 0,01 mm., la scarica incontra una certa resistenza nel suo pas- saggio, ad una pressione maggiore di 0,03 mm., il recipiente ionoplastico diventa dolce e la disgregazione del catodo si verifica con grande lentezza. A seconda della natura del metallo costituente l'elettrodo negativo, la metallizzazione della lastrina di vetro si forma entro un tempo più o meno lungo; in capo a 30 minuti circa la superficie di essa comincia, guardata obliquamente, a mostrare una specie di splendore con tono metallico; giunte le cose a questo punto, l'esperienza procede piuttosto rapidamente e dopo un 20 minuti il deposito è bello e formato. Prima di aprire la campana per prendere la lamina ottenuta, è bene aspettare una mezz'ora per fare raffreddare l'apparecchio. Durante questo tempo ho spesso esaminato quale sia l'andamento della pressione, giacchè i gas, anche dopo soppressa la scarica, cessano di sprigionarsi dagli elettrodi dopo un tempo piuttosto lungo. Ciò si vede dai numeri appresso riportati : tempo in minuti 0 10 20 30 40 50 60 70 press. in mm. 0,017 0,043 0,070 0,096 0,118 0,138 0,154 0,168 (il tempo 0 corrisponde all'istante in cui si sospende la scarica). — 646 — In tali condizioni il deposito metallico è uniforme, ciò che è accerta- bile ponendo su un foglio di carta bianca e liscia la lastrina di vetro. Questa è di forma quadrata, col lato lungo cm. 4,5 e questa dimensione risponde al requisito (la lastrina dev'essere minore del catodo) per avere dei depositi di spessore nettamente costante. Affinchè il deposito non venga distrutto quasi integralmente, non appena si forma è indispensabile porre la lastrina da metallizzare non molto vicina al catodo, in ogni caso al di là dello spazio oscuro di Hittorf, perchè in questa regione, essendo la caduta di potenziale abbastanza brusca, si stabi- liscono tra i diversi punti della lastra delle differenze di potenziale che dànno luoge a delle scintilline superficiali, le quali conducono alla quasi completa distruzione della lamina ionoplastica. Una causa d'insuccesso spesso occorsami, e per la quale si verifica pure l'inconveniente accennato per ra- gioni del tutto identiche, consiste nel situare la lastra di vetro sull’anodo in modo da scostarsi abbastanza dalle condizioni di parallelismo con la su- perficie del catodo, richieste per ottenere dei depositi omogenei ed esenti delle più piccole tracce di discontinuità. TV: I metalli dei quali ho studiato il comportamento sono il bismuto, il rame e il nickel, il primo e il terzo forniti da Kahlbaum. Una serie di esperienze le ho eseguite senza campo magnetico, altre tre serie col campo non uniforme dovuto all'unico polo messo in contatto coll’anodo e creato eccitando la bobina dell’ettromagnete di Faraday con correnti di 3, 6 e 9 ampères rispettivamente. La intensità media di questi campi misurata con la spirale di bismuto, in immediata vicinanza della superficie dell'anodo e del catodo, è mostrata dalle cifre seguenti: corrente eccitatrice ampères. . . . . 3 6 9 intensità del campo sull’anodo unità. . 300 725 1275 ” ’ sul'fcatodo > .. 43 95 129 Come si vede, i campi con i quali ho sperimentato non sono molto intensi, nè ho potuto spingere il valore della corrente eccitatrice al di là di 9 ampères, perchè il suo effetto termico, in un tempo che va da 40 a 60 minuti, sarebbe eccessivo. La distribuzione del campo è simmetrica rispetto all'asse della campana, asse che passa pel centro della lastrina e pel centro del catodo e coincide sensibilmente con quello della bobina. Per ogni valore del campo e per ciascun metallo ho fatto sempre delle esperienze multiple, di modo che i risultati che adesso riporto rappresen- tano il comportamento effettivo delle polverizzazioni catodiche dei tre me- talli suddetti, fuori e nel campo magnetico, nelle condizioni sperimentali da me adottate. — 647 — DEPOSITI DI BISMUTO. — Zastrina 1. Deposito ottenuto senza campo magnetico, spessore uniforme, colore giallo-bruniccio per trasparenza. Lastrina 2. Deposito ottenuto con campo creato con corrente eccitatrice di 3 ampères; nella regione centrale il deposito è abbondante, ha forma circolare, con diametro di mm. 37 e sfuma rapidamente verso la regione periferica, dove la lamina ionoplastica è di spessore sensibilmente uniforme. Lastrina 3. Deposito ottenuto con campo destato con corrente di 6 am- pères; la lamina è del tutto simile alla precedente, con la sola differenza che in questa il deposito circolare più abbondante ha il diametro di 35 mm. Lastrina 4. Deposito formato con campo magnetico ottenuto con cor- rente di 9 ampères; la lamina ionoplastica è perfettamente analoga alla 2* e alla 38, il deposito centrale più abbondante ha il diametro di 32 mm. Dalle varie esperienze eseguite sul bismuto, ho potuto desumere che questo metallo subisce facilmente la disgregazione catodica, che questa è, nei limiti di pressione entro i quali ho sperimentato, tanto più accentuata per quanto il vuoto è più spinto e che il campo magnetico, astrazion fatta dalla forma dei depositi, non ha influenza sensibile sulla sua entità. DEPOSITI DI RAME. — Lastrina 5. Deposito ottenuto senza campo ma- gnetico, spessore uniforme, colore verdastro per trasparenza. Lastrina 6. Deposito formato nel campo magnetico creato con corrente di 3 ampères; la regione centrale dove il deposito è più abbondante, ha forma circolare, con diametro di mm. 37 e sfuma rapidamente verso la re- gione periferica di spessore minore e d'aspetto uniforme. Lastrina ?. Deposito ottenuto nel campo creato con corrente di 6 am- pères; questa lamina ionoplastica è affatto simile alla precedente, il diametro della regione circolare centrale è però di mm. 35. Lastrina 8. Deposito ottenuto con campo magnetico destato con cor- rente di 9 ampères; la lamina è analoga alla 6* e alla 7, solo che il diametro della regione centrale è di 32 mm. I depositi 6, 7 e 8, per la loro forma sono pochissimo ditferenti da quelli ottenuti in condizioni identiche nel 1906; la lieve discordanza è facilmente spiegabile perchè allora usai un catodo di rame del commercio, mentre che ora ho sperimentato su rame elettrolitico. Nella lunga serie di esperienze eseguite sul rame ho pure constatato quanto dissi innanzi sulla disgregabilità del bismuto; però il rame è un po' meno disgregabile di questo metallo. DEPOSITI DI NICKEL. — Zastrina 9. Deposito ottenuto senza campo, spessore uniforme, grigio per trasparenza. Lastrina 10. Deposito formato nel campo ottenuto con corrente di 3 ampères; regione centrale più spessa di forma circolare, del diametro di 42 mm., rapidamente sfumante verso la regione periferica di spessore minore e d'aspetto uniforme. — 643 — Lastrina 11. Deposito ottenuto nel campo destato con corrente di 6 am- pères; perfettamente simile al precedente, però il diametro della regione centrale è di 38 mm. Lastrina 12. Deposito ottenuto nel campo creato con corrente di 9 am- pères; completa simiglianza con le lamine 10 e 11, ma il diametro della regione centrale è di 34 mm. I depositi di nickel senza campo magnetico sono debolissimi; al contrario col campo magnetico sono relativamente intensi. Sulla disgregabilità di questo metallo c'è da osservare inoltre che in una prima fase dell'esperienza per circa mezz'ora, durante il passaggio della scarica, il catodo si disgrega sten- tatamente:; in seguito, quando la disgregazione è bene iniziata, il deposito si forma bene alacremente. Il nickel è molto meno disgregabile del rame e del bismuto; ma i suoi depositi si formano, come al solito, tanto più facil- mente per quanto più piccolo è il valore della pressione. L'aspetto che la scarica presenta, nei quattro casi in cui ogni metallo è stato cimentato, è molto interessante perchè ha grande relazione con la forma del rispettivo deposito, ed io ho voluto eseguire delle fotografie dalle quali si rileva chiaramente che la luce negativa, nel caso che il campo non è eccitato, è distribuita quasi uniformemente, negli altri casi invece la lumi- nosità negativa assume la forma del tubo di forza avente per sezione il catodo, e tale forma è tanto più profilata e tanto più ristretta in prossimità dell'anodo, per quanto più intenso è il campo magnetico. V. La forma che i depositi di bismuto e di rame assumono quando la disgregazione catodica si opera mentre agisce il campo magnetico, forma che è in strettissima dipendenza da quella che assume la luminosità negativa, si può facilmente spiegare supponendo col Maurin (*), che le particelle me- talliche, le quali si staccano dal catodo, siano cariche di elettricità e perciò siano obbligate a descrivere intorno alle linee di forza delle traiettorie, che più o meno debbono rassomigliare a delle eliche, giacenti su superficie pres- sochè cilindriche a sezione circolare, con diametro tanto più piccolo per quanto più intenso è il campo. Quindi, quantunque trattandosi di due metalli diamagnetici il campo dovrebbe avere l'effetto di diradare il deposito nella regione centrale della lastrina, ammessa la validità della suddetta supposi- zione, il concentrarsi delle particelle disgregate, quale risulta dall'esperienza, là dove il campo è più intenso, non sarebbe altro che l’effetto della forza magnetoelettrica del campo su tali particelle. Intanto la regione centrale dei depositi di nickel nel campo magnetico è in tutti i casi più vasta di quella dei corrispondenti depositi di bismuto (!) Loc. cit. — 649 — e di rame. Ora, se possiamo ritenere trascurabile l’azione ponderomotrice del campo sulle particelle di questi metalli, non si può ritenere inefficace quella che il campo esercita sulle particelle di nickel; e siccome in questo caso l’azione ponderomotrice del campo e l'azione magnetoelettrica sarebbero con- cordanti, dovrebbe risultare sulla lamina ionoplastica un impicciolimento della regione centrale dove il deposito è più spesso. Questa deduzione però è solo apparentemente in discordanza con i risul- tati dell'esperienza: nel caso del bismuto e del rame, di tutte le particelle che si staccano dal catodo, soltanto quelle le cui traiettorie non si allonta- nano notevolmente dalle direzioni delle diverse linee di forza risentiranno l'azione del campo; nel caso del nickel invece, quasi la totalità delle parti- celle, che partono in tutte le direzioni da ogni punto del catodo, subisce l'azione concentratrice del campo magnetico. A conferma di queste idee sta il fatto che la regione cilindrica della campana ionoplastica compresa tra i due elettrodi, si offusca notevolmente nel caso del bismuto e del rame, mentre che non si offusca in modo sensibile quando il nickel subisce la disgregazione catodica nel campo magnetico. All’azione ponderomotrice del campo sulle particelle di nickel è altresì da ascrivere il fatto che la disgre- gabilità di tale metallo, esigua senza SAIRPO, sembra abbastanza accentuata quando questo è eccitato. Quantunque sinora, per non essere riuscito ad isolare un fascetto di raggi costituiti dalle particelle metalliche proiettate dal catodo, non abbia potuto eseguire la esperienza capitale che dimostri il trasporto di cariclie elettriche da esse operato e così fornire la prova indiscutibile della loro elet- trizzazione, l'ipotesi ammessa mi sembra molto probabile. Il rapporto n sarà senza dubbio variabile e assai piccolo, perciò soltanto le particelle la cui traiettoria si avvicina alla direzione delle linee di forza subiranno l’azione magnetoelettrica del campo. Niente può dirsi relativamente al segno della carica trasportata, ed è inoltre da escludere completamente l’idea, che m'era sorta, di identificarli in parte dei raggi magnetici del prof. Righi, perchè, com'egli ha fatto notare recentemente (*), il sistema ione-elettrone, la cui stabilità viene rafforzata dal campo magnetico, deve spostarsi verso le regioni dove il campo magnetico è meno intenso, comportandosi in tal modo come una particella d'un corpo diamagnetico, mentre che per le par- ticelle metalliche provenienti dalla disgregazione catodica, l’esperienza prova il contrario. (') Journ. de Phys., t. VII, sér. 40, pag. 589; aoùt, 1908. — 650 — Fisica-chimica — Contributo alla teoria delle soluzioni collo dali ('). Nota di Lurci RoLLa, presentata dal Socio A. RIGHI. 1. In un calcolo che Jean Perrin ha fatto recentemente (*) per fornire nuovi argomenti alla teoria cinetica delle soluzioni colloidali, studiando la legge di ripartizione dei granuli in una sospensione, egli ha utilizzato la formula di Stokes, la quale esprime la legge della caduta di una sfera in un liquido viscoso. Ciò diede luogo ad una critica di Duclaux (*), al quale sembra che l'esistenza del moto browniano menomi la legittimità del ragionamento di Perrin. E difatti, le condizioni di continuità ammesse da Stokes sono ben lontane dall'essere verificate, sebbene per i diametri dei granuli, che sono enormi per rapporto a quelli delle molecole, si possano applicare le formole della viscosità. Ma la prova sperimentale che ha dato il Perrin (‘), rispondendo alle obbiezioni di Duclaux, mostra legittimo l’uso della formula di Stokes. Del resto, l’utilizzò già Bloch (*) per trovare il diametro degli ioni di piccola mobilità ottenuti nell'’emanazione del fosforo e in certi gas recentemente pre- parati. 2. Io ho istituito una serie di esperienze sui colloidi metallici, a fine di determinare la carica dei granuli e il rapporto tra la carica e la massa, valendomi appunto della formula di Stokes. E mi sono servito perciò dell'oro e del platino di Bredig e delle varie specie di oro preparato col metodo di Zsigmondy. Il problema di determinare con una buona approssimazione le dimensioni dei granuli colloidali non può essere risoluto allo stato attuale dei nostri mezzi. Quando coi metodi diretti proposti da Siedentopf e Zsigmondy (°) si deter- mina la grandezza di un granulo, non si ha che un limite superiore. Infatti, una parte del colloide si trova allo stato di amzicrone, benchè, ad una suf- ficiente diluizione, il numero dei sudmicroni debba diventar massimo, ed è grande l'influenza dell’intensità della luce colla quale si osservano le solu- zioni, in modo che il numero osservabile delle particelle è ad essa addirittura (!) Lavoro eseguito nell'Istituto fisico della R. Università di Genova. (2) Comptes rendus (1908), pag. 967 (1° sem.). (3) Comptes rendus (1908), pag. 131 (2° sem.). (4) Comptes rendus (1908), pag. 475 (2° sem.). (5) Ann. de Chimie et de Phys. (1905), pag. 142. (6) Annalen der Physik (1903), X, 16. — 651 — proporzionale (1). E poi si può ammettere soltanto in via di approssima- zione che il peso specifico dell'oro allo stato colloidale sia eguale a quello dell'oro comune, nè si può escludere l'esistenza di specie chimiche com- plesse nei granuli (*). D'altra parte, tutti gli altri metodi adoperati e pro- posti arrivano soltanto a stabilire l'ordine di grandezza pressochè costante, dei granuli metallici colloidali. Così il procedimento di Ehrenhaft (8), fon- dato sull'osservazione dell’assorbimento elettivo degli idrosoli metallici. Se dunque la velocità che acquistano in un campo elettrico ì granuli di un dato metallo, i quali, secondo i risultati di Zsigmondy, hanno dia- metri diversi, sì conserva sensibilmente costante, ciò dipende forse dal fatto che noi possiamo solo decidere sull'ordine di grandezza e non già fare delle misure rigorose. 3. Le esperienze furono eseguite adoperando un microscopio Leitz, grande modello, a cui adattai un condensatore a specchio per osservazioni in campo scuro, fornitomi dalla stessa ditta. Ottenevo l'illuminazione con una lam- pada ad arco i cui raggi passavano attraverso ad una boccia di cristallo piena di acqua. Preparai dapprima i liquidi colloidali di platino e di oro col metodo di Bredig. Nell'’acqua distillata purissima facevo brillare l’arco fra due fili (di un millimetro di diametro), del metallo di cui volevo ottenere l’idrosolo. La corrente era quella stradale continua a 110, e l’intensità era ridotta a 3-10 ampères. Le soluzioni ottenute, filtrate su carta, contengono dei gra- nuli agitati da un vivo movimento. Il raggio di questi granuli è, com'è noto, di circa 15 wu, tanto nel caso dell'oro che nel caso del platino. Determinavo la loro velocità ponendoli in campo elettrico, secondo il metodo descritto da Cotton e Mouton. Facevo dunque una preparazione di notevole spessore, per modo che potessero rimanervi immersi due elettrodi di platino costituiti da sottilissime laminette. Lo spazio percorso da una particella sotto l'influenza del campo elettrico veniva misurato col micro- metro oculare diviso in decimi di millimetro, e il tempo contato con un contasecondi di Perrelet. Determinato, una volta per tutte, l'ingrandimento del sistema ottico adoperato, notavo il tempo che impiegavano a percorrere le 50 divisioni del micrometro le particelle animate dalla velocità massima, in regime costante. Infatti, per le osservazioni di Cotton e Mouton (*), si sa che quando si misura il trasporto elettrico dei granuli, si distinguono tre strati nella preparazione ultramicroscopica, nei quali il movimento avviene alternativamente in senso opposto. Osservando la preparazione, di mano in mano, in tutto il suo spessore, si notano due minimi della velocità nei (*) Ann. der Physik (1908), XXVII, 195. (*) Hanriot, Bull. soc. chim. de Paris, (3), (1904), XXXI, 573. (*) Ann. der Phksik (1908), XI, 489. (4) Zes ultramicroscopes. Paris, Masson, 1906, pag. 147 e seg. RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 84 — 652 — due strati in cui la direzione dei granuli cambia senso. Nello strato di mezzo, non influenzato dalla vicinanza delle pareti, i granuli si dirigono soltanto in forza della loro carica elettrica. Qui si ha il massimo della velocità. Le misure fatte sui colloidi di Bredig dimostrano la bontà e la sicu- rezza del metodo, perchè dànno dei risultati pienamente concordanti con quelli che Burton (') ottenne per altra via. Difatti con una differenza di potenziale di 13 volts, essendo gli elettrodi alla distanza di un centimetro, per percorrere di moto uniforme 0,125 millimetri, i granuli d'oro ìÌmpiegano circa 4", e quelli di platino, in media, 4,3. Ciò corrisponde a una mobilità, ossia a una velocità per un campo di un volt per centimetro, espressa in centimetri per secondo, di 26,0 X 1075 per l'oro 24,0 X 1075 per il platino. Le misure di Burton davano: 21,6 X 107° per l'oro, 20,3 X 1075 per il platino. Estesi allora le ricerche all’oro colloidale preparato col metodo di Zsig- mondy (*), ossia riducendo il cloruro d’oro in soluzione diluitissima colla for- maldeide. Ottenni delle soluzioni rosse, violette e bleu, che furono sotto- poste alla dialisi. Per le esperienze, queste soluzioni venivano ancora grandemente diluite. Prima di eseguirne il trasporto elettrico, misuravo l’or- dine di grandezza dei granuli, adoperando un ematometro e contandone così il numero in un millimetro cubo di soluzione, di cui conoscevo il contenuto ponderale di oro. Ebbi i seguenti valori del raggio dei granuli supposti sferici: oro rosso: x = 1,2 X 107° cm. oro violetto: € = 1,7 X 107° cm. oro bleu: x = 2,0 X 107 cm. Le esperienze di trasporto elettrico fatte sopra queste soluzioni dettero i seguenti risultati; per una differenza di potenziale di 12 volts, essendo gli elettrodi a una distanza di 0,8 centimetri, le tre specie di oro, che si muovono sensi- bilmente colla stessa velocità, per percorrere 0,125 millimetri impiegano un tempo compreso tra 27,9 e 3,2; (') Phil. Urag. (1906), pag. 439 (1° sem.). (?) Liebig's Annalen, 301 (1898), pag. 29; Z. f. analyt. Ch., XXXX, (1901), pag. 697. — 653 — per una differenza di potenziale di 10 volts, cogli elettrodi alla di- stanza di 0,5 centimetri, impiegano da 2""3 a 27,5; e, infine, riportando la differenza di potenziale a 12 volts ed au- mentando la distanza degli elettrodi fino a 1 centimetro, impiegano in media 4”. La temperatura variò sempre fre 19° e 21°. La mobilità dunque si mantiene assai vicina a 26 X 10-5 cm. per se- condo, e, precisamente, nel primo caso essa è 25,6 X 1075 cm.; nel secondo, 26,1 X 107 cm.; e nel terzo, 26,04 X 1075. La concordanza non potrebbe essere migliore. Dunque il metodo di preparazione non influisce sulla natura della so- luzione colloidale metallica che si ottiene, e la carica dei granuli si man- tiene costante, o, per lo meno, dello stesso ordine di grandezza. Non ho osservato alcuna variazione sensibile nella velocità dei granuli di oro colloidale aggiungendovi, secondo le prescrizioni di Zsigmondy ('), una certa quantità di gelatina al 0,01°/ e al 0,001°/, sufficiente per stabi- lizzarlo. Preparando, anzichè in acqua distillata, in soluzioni di gelatina dia- lizzata al 0,01°% e al 0,001°/, l'oro rosso, si ottengono delle soluzioni quasi omogenee. A parità d’intensità luminosa, circa un decimo delle parti- celle sono visibili all’ultramicroscopio. Però, in un campo elettrico, queste particelle corrono colla stessa velocità che anima quelle di oro non stabi- lizzato. Diminuendo la concentrazione della gelatina, l'omogeneità va dimi- nuendo e torna di mano in mano quella specie di fluorescenza caratteristica dell'oro colloidale rosso. La difesa dunque del colloide metallico per parte di quello organico non è legata alla variazione della carica dei granuli. Queste osservazioni suggeriscono uno studio ottico sistematico dei col- loidi sistematici stabilizzati. 4. Se i granuli si muovono in un campo elettrico d’intensità g, per il fatto che portano una carica e, essi vengono ad essere sottoposti a una forza elettrica ey, e la loro velocità è data da #, essendo £ la loro mo- bilità. Questa dipende solo dagli attriti, e, nel nostro caso, tenendo conto e della dialisi, e della grandissima diluizione (gr. 0,00006 di oro per ogni cm.*), l'attrito è sensibilmente quello che i granuli proverebbero se il liquido (1) Zur Erkenntnis der kolloide. Jena, Fischer, 1905, pag. 118. — 654 — in cui sono immersi fosse acqua pura. Allora, ammettendo la loro forma sferica, noi potremo senz’altro applicare la formula di Stokes. Potremo dunque dire che la velocità che prende la nostra sferetta. di raggio 7, che si sposta nel mezzo il cui attrito interno è », sotto l'influenza di una forza f=" e, è espressa dalla relazione : i ° Gene | ossia, essendo v =, e= 6rankr. Le determinazioni sperimentali dànno __ 0,01782 (0 bat e, ricordando l'ordine di grandezza della particella di oro di Bredig, si ha dunque = TUO SO [unità elettrostatiche]. Per l'oro rosso di Zsigmondy, MOMO NAI MIE per il violetto, CIMINO JO e per il bleu, CIRO XI Per il platino colloidale di Bredig, e==11,32 X 10-10. La carica dei granuli è dunque dello stesso ordine della carica elemen- tare di un jone. Viene così ad avere un appoggio sperimentale l'ipotesi enunciata, con geniale intuizione, dal Righi, secondo la quale i granuli colloidali sem- brano offrire « delle grossolane imitazioni » dei grossi ioni di Langevin e di Bloch. Nel caso dei colloidi metallici, noi possiamo determinare l'ordine di grandezza del rapporto fra la carica e la massa dei granuli potendo rite- nersi nota la loro composizione chimica. Per i colloidi miorganici, preparati per doppia decomposizione o con altri processi, la costituzione chimica dei granuli, non del tutto chiarita, ci impedisce di applicare un metodo semplice e diretto. Il metodo approssimato di Duclaux (*) e la relazione teorica rica- vata da Cotton e Mouton in seguito alle loro esperienze sul trasporto elet- trico dei granuli in campi alternativi (*), possono dare un'idea della gran- dezza del rapporto da determinare. (*) Comptes rendus (1905), pag. 1468 (1° sem.); Comptes rendus (1908), pag. 131, (2° sem.). (3) Les ultramicroscopes, pag. 156. o — Fisica. — Sul comportamento singolare di un rocchetto di Ruhmkorjf usato con un interruttore elettrolitico. Nota di Lavoro AMADUZZI, presentata dal Socio A. RicuHI. Fisica -— Sulla dispersione per evaporazione nei liquidi elet- trizati. Nota ‘del dott. A. GALLAROTTI, presentata dal Corrisp. A. BATTELLI. Le Note precedenti saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. Chimica. — 7rasformazioni di diazopirroli. (1). Nota di F ANGELICO, presentata dal Corrispondente A. ANGELI. Alcuni anni, or sono, studiando l’azione dell'acido nitroso sui 8-ammino- pirroli (?), analogamente a quanto era stato fatto da Angeli e D'Angelo sul 8-amminofenilindolo (*), pervenni alla preparazione del diazodifenil e del dia- zotrifenilpirrolo, per i quali ammisi le strutture già proposte pel diazofenil- indolo (*). ed ai quali può spettare anche il nuovo schema recentemente dato da Angeli e Marchetti (5). SS Queste sostanze si differenziano notevolmente dai diazocomposti della serie alifatica per la grande stabilità di fronte ai reattivi più energici: basti il ri- (1) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Farmaceutica della R. Università di Palermo. (3) Questi Rendiconti, vol. XIV, 2° semestre, 167. (*) Questi Rendiconti, vol. XIII, 1° semestre, 258. (4) Questi Rendiconti, vol. XIII, 1° semestre, 258. (5) Questi Rendiconti, vol. XVI, 2° semestre, 790. — 656 — cordare che Castellana e D'Angelo (') per trattamento del diazofenilindolo con acido solforico, nitrico, cromico concentrati ed a caldo ottennero i sali dai quali per azione degli alcali riprecipitavano il diazocomposto inalterato ; solo l'azione prolungata dell'acido solforico diluito e bollente li condusse, nel caso del fenilindolo, alla trasformazione del diazocomposto nell’azoderivato. ani NI n / 1) ì 1) XI Allo scopo di vedere se i diazopirroli si comportassero in maniera ana- loga ho cominciato dallo studiare l’azione dall’acido solforico diluito a caldo, e come termine di ricerca ho scelto il diazotrifenilpirrolo. Anche in questo caso sembrava probabile che si dovesse arrivare all'azo- composto corrispondente; pur tuttavia non poteva escludersi la possibilità che, perdendo il diazotrifenilpirrolo tutto l’azoto diazoico si fosse arrivato ad un f-ossitrifenilpirrolo, o che invece, data la sua grande stabilità, potesse il diazotrifenilpirrolo stesso rimanere intatto. L'esperienza non ha corrisposto a nessuna di queste previsioni, giacchè per prolungata ebullizione con acido solforico diluito, in un primo tempo si forma il solfato del diazocomposto, ma, insistendo, si arriva al sale di una nuova base, isomera al prodotto di partenza. Questo sale, per ebullizione con acqua, si idrolizza facilmente. dando la base libera intensamente colorata in rosso cinabro. Nelle acque madri si riscontrano piccole quantità di acido hen- zoico e di ammoniaca, provenienti, senza dubbio, da decomposizione profonda del prodotto. Il nuovo corpo mostra la doppia funzione di acido e di base, giacchè dà sali colorati violetti o azzurri con gli acidi concentrati, e passa facilmente in soluzione con potassa alcoolica con bella colorazione violetta; da questa so- luzione, per trattamento con ioduro d'etile, si ottiene un bellissimo etere, co- lorato fortemente in azzurro indaco. Non fonde nemmeno a 300°; a temperatura più elevata sublima con parziale decomposizione, che può evitarsi, qualora si operi nel vuoto. È fa- cilmente solubile in fenolo. L'analisi dimostrò trattarsi di un isomero del diazocomposto: epperò la facilità con la quale si salifica con potassa alcoolica ed il fatto di fornire un etere, non lascia alcun dubbio che nella sua molecola debba esservi conte- nuto un idrogeno imminico >NH (1) Questi Rendiconti, vol. XV, 2° semestre, 145. — 657 — per la formazione del quale avrà dovuto necessariamente concorrere un idro- geno di un radicale fenilico. La formazione del nuovo composto potrebbe spiegarsi ammettendo che esso prenda origine in seguito ad un processo di idrolisi e susseguente di- sidratazione, cioè che in un primo tempo il diazo addizioni una molecola di acqua Cell C XA Cs (07° H; 10. CCsHs N N col H.0 CHsC—---N=NOH 2 = costituendo in tal modo il gruppo = NH, e che poi la molecola di acqua si elimini tra l’ossidrile attaccato al gruppo diazoico ed uu idrogeno di un fe- nile vicino. Seguendo tale interpretazione, siccome nella eliminazione della elimi- nazione dell'acqua può concorrervi tanto nn idrogeno del fenile posto in a' quanto uno del fenile posto in #, ne seguirebbero le due strutture seguenti, nelle quali resterebbe ancora da fissarsi in modo definitivo la posizione dei doppî legami : N sol NO N omo7 Ns TI baci SOR Ao LA NANA i | NH i (E RIA N NH CH I II Se però si tien conto della facilità con cui i diazocomposti della serie grassa sì addizionano ai corpi contenenti doppio o triplo legame fra carbonio e carbonio, ed anche fra carbonio ed azoto, dando origine rispettivamente a de- rivati del pirrazzolo o dell’osotriazolo, come ha trovato Eduard Buchner con le sue fondamentali ricerche (') e poi anche Pechmann (?), Azzarello (3), Pera- toner e suoi allievi (‘), io ritengo con molta probabilità che la formazione del nuovo composto debba considerarsi come una reazione avvenuta tra il residuo diazoico ed un doppio legame di un residuo fenilico. (') Buchner, Annalen (273), 214 — (358), 1 (*) Pechmann, Berichte (27), 1890; (33), 3590, 3594. (3) Azzarello, questi Rendiconti, vol. XIV, 285. (4) Peratoner, questi Rendiconti, vol. XVI, 2° semestre, 237. Vedasi anche la monografia del Prof. Balbiano nel dizionario di Ladenburg, Han- dwéorterbuch der Chemie, anno 1892, vol. X°, pp. 53-70. — 658 — Degno di nota è che, nei casi studiati dai suddetti sperimentatori, si arriva sempre a derivati pentanucleari, mentre nel caso mio deve formarsi un nuovo nucleo esatomico. Naturalmente, seguendo questa interpretazione, le strutture possibili pos- sono essere diverse; ma, per quello che dirò in seguito, io credo che solo quelle sopracennate siano da prendersi in discussione. Infatti, se noi paragoniamo le due formule del diazofenilindolo e del diazotrifenilpirrolo Cl P VANI ( TE DE N CCsHs E 7 CC4Hs si vede subito che la parte della molecola che porta il gruppo diazoico è identica. Però, siccome nell'azione dell'acido solforico sul diazofenilindolo, Castel- lana e D'Angelo ottennero l’azoderivato, è chiaro che il gruppo diazoico non reagisce col fenile posto in @. Ne segue perciò che nel caso del diazotrife- nilpirrolo la reazione deve compiersi fra gruppo diazoico ed il fenile posto in 8; e quindi delle due formule solamente la prima si presenta come la più probabile : CH CH no gn" S suol. VI dl CAGATE NH Questa sostanza è capace di subire altre trasformazioni. Se si scioglie in acido acetico glaciale e poscia sì tratta a freddo con qualche goccia di acido nitrico, dapprima il colore violetto della soluzione diventa più intenso, ma subito dopo si ha sviluppo di vapori rossi, ed il liquido si scolora. Si arriva così ad un prodotto di color giallo cedrino, che si ottiene anche trat- tando la sostanza solida con poco acido nitrico D. 1.40, ovvero per azione del nitrito sodico sul prodotto sciolto in acido acetico. Le analisi ed il comportamento di fronte alla fenilidrazina ed all’ idra- zina dimostrarono trattarsi di un dichetone formatosi in seguito ad apertura ed ossidazione del nucleo pirrolico, e la sua struttura può essere rappresen- tata dalla formula: CH .CH podi? N DI 4 Òw CH _C\ » Ò C C:H;-|co ci CH; — 659 — Questa sostanza a sua volta è capace di trasformarsi. Se la sua solu- zione acetica si tratta con polvere di zinco, il colore giallo di essa passa im- mediatamente al rosso; e se la soluzione non è abbastanza diluita, si separa un prodotto in aghetti rossi. Il nuovo composto deriva dal dichetone per eli- minazione di un atomo di ossigeno; l’altro atomo residuale lega i due atomi di carbonio, costituendo un nuovo nucleo che, senza dubbio, ha struttura ana- loga a quella del prodotto rosso primitivo: la sola differenza risiede nella sostituzione di un atomo di ossigeno, al gruppo imminico, e la sostanza sa- rebbe il furano corrispondente al pirrolo, da cui si è partito. Notevole è il fatto che il nuovo corpo, assumendo una struttura ana- loga a quella della sostanza originaria, riacquista quasi le proprietà della stessa. Ed infatti: si presenta colorato in rosso, fonde e poi sublima, è so- lubilissimo in fenolo, cogli acidi forti dà sali colorati intensamente in azzurro, e per trattamento con acido nitrico rigenera il dichetone. La sua struttura può rappresentarsi con lo schema seguente: CcH_ CH pod N VUE: CHITONI (LL Cole /C Ol Parte sperimentale Azione dell'acido solforico diluito sul diazotrifenilpirrolo. Si sospende il diazotrifenilpirrolo in acido solforico diluito al 25°/, (per gr. 10 di sostanza circa gr. 100 di acido), e si riscalda con refrigerante a ricadere. Dapprima il diazocomposto di colore rosso bruno passa al giallo, trasformandosi nel sale corrispondente: ma insistendo nel riscaldamento, la massa diventa molle, assume aspetto pecioso, e tale si mantiene per molte ore, fino a che ritorna solida sotco forma di scagliette di color verde cupo con riflessi violetti, impartendo al liquido una colorazione verde per piccole quan- tità di prodotto che passa in soluzione. La reazione si compie lentamente; occorre perciò riscaldare per molte ore, circa 36, qualora si voglia arrivare ad un discreto rendimento. Dopo si lascia raffreddare; si filtra ed il residuo si lava con acqua, fino a che le acque di lavaggio passino lievemente co- lorate. In tal modo si ha un prodotto costituito dal miscuglio dei sali, cioè solfato del diazocomposto assieme col solfato della nuova base. La separazione diretta di essi non può effettuarsi, essendo insolubili in tutti i solventi; però, bolliti con acqua, questi sali si idrolizzano, e si ottiene un prodotto di color rosso bruno che venne depurato nel seguente modo: ReENDICONTI. 1908. Vol. XVII, 1° Sem. 85 — 660 — Anzitutto si bolle con alcool ordinario, nel quale solvente passa in so- luzione il diazocorpo, mentre l'altro rimane indisciolto ; poscia questo si cri- stallizza un paio di volte dall'alcool amilico bollente, e così si separa in belle. scagliette, splendenti intensamente colorate in rosso. Però questo metodo non è consigliabile, giacchè, essendo il prodotto poco solubile anche a caldo, è necessario insistere nel riscaldamento, ciò che conduce ad una parziale resi- nificazione. Per tal ragione ho trovato più comodo sciogliere il prodotto in potassa alcoolica, dove passa facilmente in soluzione con intensa colorazione violetta ; si diluisce con alcool assoluto, e si filtra. Per azione di anidride carbonica, dal filtrato si separa il prodotto assieme a carbonato potassico; si raccoglie su filtro, si lava con alcool fino a che questo passi quasi incolore, indi si lava con acqua e si completa il lavaggio con nuovo alcool. Rimane cosi indietro la sostanza, che, sottoposta una seconda volta allo stesso trattamento, si ha pura. Anche il fenolo si presta allo scopo. Il prodotto si scioglie in fenolo fuso, si filtra a caldo, ed il filtrato si alcalinizza con soluzione acquosa di potassa caustica e poscia si diluisce con acqua. In tal modo il fenolo passa in soluzione sotto forma di fenato potassico, e il corpo rimasto indisciolto, si raccoglie su filtro, si lava con acqua e poscia con alcool. Qualora non si sia arrivati a prodotto perfettamente puro, si può ricor- rere alla sublimazione nel vuoto. Qualunque sia il processo seguito, la sostanza si presenta sempre in sca- gliette di color rosso cinabro, più o meno sviluppate. Trattato con acidi forti, dà sali insolubili colorati in azzurro; con potassa alcoolica si scioglie con bella colorazione violetta: però tanto nell’ uno che nell'altro caso il semplice contatto dell’acqua idrolizza questi sali rigenerando il prodotto. Scaldato a 100° con acido solforico concentrato, dà un prodotto solubile in acqua, che in soluzione acida è violetto, in soluzione alcalina di- viene rosso; le soluzioni neutre sono gialle. Le analisi eseguite sulla sostanza purificata in diverse maniere, diedero numeri concordanti con la formula C,, His N3. Trovato Calcolato CS 20187 81,93 82,24 H 5,08 5,05 4,64 INISEZZO 12,71 13,08 Etere etilico. Del prodotto precedente preparai il corrispondente etere. A tale scopo alla soluzione alcoolica di un atomo di sodio aggiunsi una molecola di so- stanza rossa, e nella soluzione versai una molecola (in leggero eccesso) di ioduro di etile. Riscaldai quindi a. b. m. percirca un'ora; il colore dal vio- — 661 — letto passò all'azzurro ed al fondo del recipiente si separò una sostanza bruna. Lasciai raffreddare e filtrai, ottenendo così l’etere, che, cristallizzato dall’al- cool assoluto, si ebbe in bellissimi aghetti splendenti, colorati fortemente in azzurro indaco. Fonde a 181°, ed all'analisi fornì numeri concordanti con la formula C,, Hi, N3 (CH). Trovato Calcolato CU 82,69 82,52 H 5,56 5,44 N 11,90 12,03 Azione dell'acido nitrico sul prodotto rosso. Dichetone. Il prodotto sì scioglie in acido acetico glaciale, nel qual solvente passa in soluzione colorando il liquido in violetto. Per aggiunta di poche gocce di acido nitrico, il colore diviene più intenso: ma dopo pochi minuti si ha svi- luppo di vapori nitrosi ed il liquido si scolora. Per aggiunta di acqua, si separa un prodotto di color giallo bruno che, cristallizzato un paio di volte dall’alcool etilico, si ottiene in cristalli ben sviluppati che fondono a 163°. All'analisi si ebbero numeri fo odanti con la formula C.3.H,jN;0. Trovato Calcolato C1A82 77,90 78,10 H 4,38 4,45 4,14 N 8,38 8,36 8,28 Il prodotto con acido solforico concentrato si scioglie con colorazione azzurra. Azione dell’idrazina sul dichetone. Allo scopo di identificarlo meglio, lo trasformai nella corrispondente azina. Il prodotto venne sciolto a caldo in alcool, e poscia diluito con acqua sino a lieve intorbidamento; aggiunsi quindi una soluzione di solfato d’idrazina resa alcalina con potassa ed agitai fortemente. Si separò subito una polvere cristallina gialla, che, raccolta su filtro e lavata con acqua, per cristallizza- zione dall'alcool. si ebbe in aghetti di color giallo d’oro che fondono a 240°. L'azina sublima indecomposta, e con acido solforico concentrato dà un sale colorato in rosso, che per aggiunta di acqua si idrolizza facilmente. L'analisi fornì numeri concordanti con la formula C,,H,,N,. Trovato Calcolato N 16,76 16,66 — 662 — Riduzione del dichetone. La sostanza venne sciolta in acido acetico glaciale, nel qual solvente passò con colorazione gialla; poscia vi aggiunsi a piccole porzioni polvere di zinco. Immediatamente il colore della soluzione divenne rosso e quando la colorazione non si intensificò ulteriormente si filtrò. Per aggiunta di acqua il liquido lasciò separare un prodotto rosso che raccolto su filtro e lavato con acqua, dopo averlo seccato all'aria, venne cristallizzato o dal benzolo o dal- l'acido acetico. Si ebbe così in aghetti rossi splendenti, che fondono a 195°, e che per lieve aumento di temperatura sublimano inalterati; sono solubilissimi in fe- nolo, e con acido cloridrico o solforico concentrato dànno sali intensamente colorati in azzurro. Impiegando però acido nitrico dapprima sì forma il sale; ma ‘subito si ha sviluppo di vapori nitrosi, e si rigenera il dichetone. All’analisi si ebbero numeri concordanti con la formula C, His N50. Trovato Calcolato C 81,90 81,98 H 4,51 4,35 N 8,70 8,64 Continuerò lo studio di queste trasformazioni. Chimica. — Sulla fabbricazione della ghisa malleabile (1). Nota di F. GioLITTI, F. CARNEVALI e G. GHERARDI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. In un interessante lavoro sul processo di affinazione della ghisa solida, pubblicato alcuni mesi or sono (?), il prof. Wiist di Aachen osserva giusta- mente come ben poco sia noto finora intorno all'importante processo largamente applicato nell'industria per la fabbricazione della così detta ghisa malleabile. Ora, avendo avuto occasione negli ultimi due anni di studiare con cura tale processo appunto nelle condizioni nelle quali è applicato nell'industria, nè parendoci del tutto giustificate alcune delle deduzioni e delle ipotesi del Wiist, crediamo opportuno far conoscere i risultati delle nostre osservazioni. A tale scopo — a fine di evitare inutili ripetizioni — citiamo soltanto al- cuni esempî, scegliendo, fra i numerosissimi casi studiati, quelli che si riferiscono ad esperienze eseguite in condizioni meglio definite di quanto non avvenga abitualmente nella pratica. (1) Ricerche eseguite nell’Officina Delta della Soc. Gio. Ansaldo Armstrong e C., e nell’Istituto Chimico della R. Università di Roma. (®) F. Wiist, Veber die Theorie des Glihfrischens. Metallurgie. V (1908), pp. 7-12. — 663 — La ghisa adoperata nelle esperienze che qui riferiamo era una ghisa bianca Lorn, in pani delle solite dimensioni: il fotogramma 6 (al quale ci dovremo in seguito riferire) rappresenta, ai ; della grandezza naturale, la sezione, normale all'asse, di uno di tali pani. La composizione della ghisa variava, da pane a pane, entro i limiti qui sotto indicati: Carbonio combinato . . . . fra 2,92% e 3,64% Grafite. praga ca0s tomamilliar = 0080500 e 0,10 Silicio: Rea 6: ON e 0,23 Manganeseane ee RI i RIO0S e 0,18 ROsforo see nego n tb; e 0,05 IKONO e e tr. e 0,01 Indicheremo l’analisi precisa nei casi in cui essa presenti interesse. Eseguimmo l'affinazione operando direttamente sui pani di ghisa, dopo averne accuratamente ripulita la superficie. I pezzi di ghisa erano immersi in una miscela, a parti eguali, di ossido delle battiture e di ossido ferrico staccato da tornitura di acciaio esposta a lungo alle intemperie. Gli ossidi polverizzati, mescolati intimamente e compressi con cura attorno ai pani di ghisa, erano contenuti in cassette di lamiera d'acciaio in forma di paralle- lepipedi, di em. 40 X 30 X 50 di lato. Nelle esperienze che qui riferiamo, scaldammo le cassette nella camera inferiore di un forno a carbone a ritorno di fiamma, esistente a Cornegliano Ligure nelle officine Delta della Soc. Gio. Ansaldo Armstrong e C. Mentre nelle camere superiori di quel forno (adoperate per la ricottura delle lamiere di ottone) la temperatura non su- pera i 700°, nella camera inferiore essa raggiunge normalmente i 1000°. Ci proponemmo, prima di tutto, di determinare in qual modo vavii la concentrazione del carbonio nelle ghise affinate, a mano a mano che si pro- cede verso l'interno della massa metallica. A tal fine tagliammo, secondo due piani paralleli, normali all'asse dei piani di ghisa affinata, dei pezzi dei pani stessi, dello spessore di circa 12 mm. Avendo avuto cura di scegliere dei pani aventi una faccia ben piana, ottenemmo in tal modo delle « formelle » piatte con orlo rettilineo, così che ne fu facile piallare quest'orlo in modo da asportarne strati successivi dello spessore voluto. Nel materiale dei varî strati, così ottenuto, determinammo il carbonio totale per pesata, col metodo di Sarnstròm. Da un primo pane, affinato nel modo sopra descritto durante 24 ore, asportammo un primo strato di circa mezzo millimetro, e poi quattro = 664 — strati successivi dello spessore di vu millimetro, nei quali trovammo le se- guenti quantità di carbonio: to: istraton r(estetbio). Siano: ae (a iCOso n 05 22 a il Re oo be. (CEE i 4° n i e 15106 nel centro del pane VB... i RAC Da un secondo pane, affinato nello stesso modo durante 72 ore, asportammo (dopo un primo strato di mezzo millimetro) ove strati successivi, dello spessore di u2 millimetro: eccettuato il settimo che tagliammo dello spes- sore di */, di millimetro. La seguente tabella contiene i risultati di otto determinazioni di carbonio totale per questo secondo caso: 1° strato (esterno) (spesso 1 mm.) . . . C°5 0,23% RARA) LE) Ao) 0,46 8° ” b) TRO, RITI du 0,84 4° n Mt 0 nali 0,95 50 D) ” TEITÀ di stilagi 1,36 6°» mi > « Haga 1,50 (490) 0:75) ciclo dI 1,65 Sena ml. > sdisingiai? = 90% un midi cio n° 2,06 neticentro del 0OnCS MM. 2,42 °/, I dati delle due tabelle precedenti sono rappresentati graficamente dalle curve della fig. 1, nelle quali i numeri corrispondenti alle ascisse rappre- sentano, in millimetri, la profondità degli strati analizzati, mentre le ordi- nate sono proporzionali alle corrispondenti concentrazioni del carbonio (*). Come già facemmo altra volta (*), consideriamo il valore trovato per la con- centrazione del carbonio in ciascuno degli strati analizzati, come valore medio della concentrazione stessa nello strato: riferiamo quindi tal valore alla pro- fondità corrispondente alla superficie mediana dello strato stesso. È eviden- temente questo il mezzo per ottenere i risultati più prossimi al vero, poichè (come risulta anche in modo evidente dall'esame di tutti i fotogrammi qui (*) Le deformazioni di queste curve potrebbero far nascere dei dubbî sull'esattezza delle determinazioni di carbonio. Ma gli errori di analisi sono da escludersi, poichè molte delle determinazioni, ripetute più volte, diedero sempre gli stessi risultati. Del resto vedremo più avanti che l’esame microscopico conferma completamente i nostri risultati analitici. : Infine, un analogo andamento delle curve di concentrazione del carbonio si ritrova negli acciai cementati. (V. più avanti). (*) Gazz. Chim. It., XXXVIII, II, pag. 328. — 0665 — uniti), la variazione di concentrazione del carbonio nei varî strati è — in generale — graduale ed uniforme. La curva A — corrispondente alla ghisa affinata durante 24 ore — deve cominciare nel punto 0, poichè l’esame microscopico dimostra che, in questo caso, la perlite si estende — sebbene in piccolissima quantità — fino al- l'estremo orlo della sezione del pane, e che, perciò, anche l'ultimo strato superficiale contiene piccole quantità di carbonio. La curva B (ghisa affinata durante 72 ore) deve invece cominciare sol- tanto in P, all'ascissa corrispondente a circa 0,3 mm. di profondità. Infatti Rei VE BE Pe dpi Tar ISEE mim File. l. l'esame microscopico della sezione di un pane di questa ghisa (fotogr. 1, tav. I, ingrand. 80 diam.) mostra chiaramente la presenza di uno strato esterno dello spessore di circa 0,3 mm., costituito da ferrite pura; e, quindi, privo di carbonio. Ciò posto, si nota subito il fatto che, per le concentrazioni prossime a 0,9°/, di carbonio — corrispondenti rispettivamente alle profondità di mm. 1,5 e 3,5 — le due curve A e B ascendono meno rapidamente che non per le concentrazioni precedenti o seguenti tale valore. In altre parole: la variazione della concentrazione del carbonio col variare della profondità, di- minuisce pei valori di tale concentrazione prossimi immediatamente a quello corrispondente alla perlite. L'esame microscopico conferma e definisce meglio questo fatto, che — come fra breve vedremo — è del tutto generale. — 666 — Basta, infatti, esaminare il fotogramma 8 (tav. II, ingrand. 20 diam. attaccato colla soluzione amilica di acido nitrico al 4°/:) rappresentante la zona esterna di una ghisa affinata durante 48 ore. Si vede ben chiaramente come alla zona esterna di acciaio ipoeutectico — nella quale la concentra- zione del carbonio cresce gradualmente col crescere della profondità — segua una zona di perlite pura. In questa zona, dello spessore di circa 1,5 mm., la concentrazione del carbonio deve dunque essere costante e uguale a 0,9°/c. Alla zona di perlite segue poi la zona contenente — accanto alla perlite stessa — quantità di cementite (e, quindi, di carbonio) crescenti col crescere della profondità. Orbene, mentre il prof. Wist (!) — avendo notata la pre- senza di questa zona perlitica in un solo caso — considera il fenomeno come accidentale, noi crediamo di poter affermare che la presenza della zona eutec- tica sia un fenomeno del tutto generale che si presenta ogni qualvolta una lega di ferro e carbonio — nella quale la concentrazione del carbonio varia nei diversi punti di uno stesso pezzo, da valori inferiori al 0,9°/, a valori superiori a questo — sia lasciata raffreddare lentamente fino al di sotto di 700° C. Così, ad esempio, il fenomeno si presenta anche costantemente negli acciai cementati. Crediamo, poi, che del fenomeno si possa dare una spiegazione assai semplice — della quale fra breve parleremo — senza ricorrere all'ipotesi, tutt'altro che soddisfacente, proposta dal prof. Wiist. Il Wiist studia, fra le altre cose, le variazioni di composizione della miscela di ossido di carbonio e anidride carbonica che si forma per azione dell'ossigeno dell'ossido ferrico (agente affinatore) sul carbonio della ghisa da affinarsi, quando ossido e ghisa vengono riscaldati l'uno accanto all'altra ad alta temperatura (800°-1000°) nello stesso spazio chiuso, privato di aria. In generale egli osserva che, col procedere dell’affinazione, la proporzione dell'anidride carbonica diminuisce costantemente: ciò che del resto è ben naturale, poichè l’affinazione è do- vuta in questo caso appunto all'azione ossidante dell'anidride carbonica sul carbonio della ghisa. Ma avendo osservato, in un'esperienza, della durata complessiva di 110 ore, che ad un certo punto la. proporzione dell'anidride carbonica. invece di abbassarsi continuamente, sì era elevata per alcune ore, per tornare ad abbassarsi poi regolarmente, egli ne conchiude senz'altro che a questo punto il processo dell’affinazione deve essersi invertito, diventando una vera cementazione: l’ossido di carbonio deve aver agito da carburante (secondo la nota reazione) sul ferro decarburato durante la fase precedente. A conferma di questa ipotesi, il prof. Wiist riproduce la fotografia della se- zione di uno dei cilindretti di ghisa affinata in questa esperienza, e nella quale appare evidente un anello perlitico scuro compreso fra un orlo esterno ‘for- mato di ferrite e perlite, e la zona interna contenente carbonio di ricottura’ (1) Loc. cit. Ì | — 667 — e ferite: anello che egli ammette essere più carburato che non le due zone contigue, e che sarebbe dovuto appunto alla temporanea azione cementante dell’ossido carbonio, per « inversione » del processo di affinazione. Non insistiamo sulla evidente improbabilità dell’inversione di un processo che si compie necessariamente per la graduale modificazione delle condizioni di equilibrio fra l’ossido di ferro, la miscela gassosa ed il carbonio della ghisa. Infatti, tale modificazione è dovuta alla diffusione dei due gas nella ghisa, e alla migrazione, nella ghisa stessa, della porzione del carbonio che vi è contenuta allo stato di soluzione: nè i due fenomeni — che sì compiono solo per differenza di concentrazione — .sono suscettibili di inversione, non potendo procedere se non dai punti di maggior concentrazione a quelli di concentrazione minore: e, cioè, dall'interno all'esterno per carbonio disciolto, e dall'esterno all’interno pei gas. Non ci pare quindi attendibile l'ipotesi del Wiist che « la proporzione dell'ossido di carbonio si sia tanto elevata nella « miscela gassosa, che questa non possa più agire come ossidante sulla ghisa, « nè mantenersi neutra rispetto ad essa, ma debba esercitarvi un'azione car- « burante, dovuta al carbonio che si libera per la decomposizione dell’ossido « di carbonio, secondo l'equazione... ecc. ». Come si potrebbe esser giunti ad una vera soprassaturazione, corrispon- dente ad un equilibrio metastabile, per mezzo di una serie di stati di equi- librio stabile, completo, quali sono quelli che si verificano nel sistema gassoso considerato? Inoltre, poi, ci pare che questa carburazione — qualora avesse potuto aver luogo — avrebbe dovuto verificarsi all'estremo orlo della sezione della ghisa, e non ad una certa profondità, come mostra la fotografia ripro- dotta dal prof. Wilst, secondo l'interpretazione da lui datane. Avremo fra breve occasione di esporre un modo di interpretare questi fenomeni. che a nostro parere deve sostituirsi all'ipotesi del Wiist. Alcuni fotogrammi della Tav. I e II si riferiscono alla seconda parte della presente Nota, parte che verrà pubblicata nel prossimo fascicolo dei Rendiconti. RENDICONTI, 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 86 Chimica — Sulle variazioni della struttura dei bronzi mo- netari durante la lavorazione (?). Nota di F. GIOLITTI e E. PAN- NAIN, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Il processo di lavorazione dei bronzi monetari presenta uno dei casi più completi di una lega sottoposta sistematicamente a successive azioni meccaniche e termiche. A noi parve quindi interessante eseguire lo studio della variazione della struttura per etfetto delle laminazioni a freddo, alter- nate con ricotture, e della compressione dovuta alla laminazione. Nella Zecca di Roma la massa fusa viene colata in lingottiere di ghisa, riscaldate a circa 100°, ottenendosi delle verghe a sezione rettangolare della lunghezza di circa 40 cm. e dello spessore di 7-8 mm., la cui larghezza varia da cm. 3,5 a cm. 5,5, a seconda del diametro della moneta che si vuol fabbricare. Le verghe così ottenute vengono ricotte al rosso scuro o al rosso ciliegia in un forno a suola girevole, quindi raffreddate rapidamente per immersione in acqua corrente, e sottoposte ad una prima serie di lamina- zioni, facendole passare 8-10 volte attraverso i cilindri del laminatoio e por- tandole in tal modo ad uno spessore di mm. 2,5 a 3. A questa serie di laminazioni si fa seguire una ricottura al rosso inci- piente, e poi una successiva laminazione, passandole altre 5-6 volte attra- verso i cilindri, e riducendole allo spessore di circa 1 mm.; quindi una nuova ricottura al rosso incipiente e una nuova laminazione, passandole altre due o tre volte attraverso i cilindri, fino a raggiungere lo spessore di 0,6- 0,7 mm. Dopo ogni ricottura, le lastre vengono raffreddate in acqua corrente. Lo spessore di circa 0,7 mm. corrisponde alla moneta di due centesimi ; per le monete di cinque e dieci centesimi, che corrispondono presso a poco allo spessore di mm. 1 e 1,5, il numero delle laminazioni ricotture è quindi minore. Dalle lastre ridotte allo spessore necessario, in dipendenza del peso della moneta, si staccano i dischi del diametro voluto; questi vengono « or- lettati » mediante compressione nel verso del loro diametro, quindi ricotti e raffreddati lentamente e poi « bianchiti », tenendoli a bagno in acido sol- forico diluito (circa 2° Bè), per sciogliere lo strato superficiale di ossido, e poscia in acqua, in cui è sospeso del cremore di tartaro finemente polve- rizzato, contenuto in un tamburo cilindrico, disposto con l’asse orizzontale intorno al quale ruota lentamente. (*) Lavoro eseguito nell'Istituto Chimico della R. Università di Roma e nel Labo- ratorio Chimico della R. Zecca di Roma. — 669 — I tondelli bianchiti vengono asciugati con segatura di legno, e infine sottoposti alla coniazione. I campioni che hanno formato oggetto del nostro studio appartengono ad una medesima fusione di bronzo, proveniente da residui di precedenti lavorazioni, e corrispondono al pezzo da due centesimi. Le analisi, eseguite determinando il rame elettroliticamente e lo stagno come ossido, hanno dato i seguenti risultati : Stagno °/o Rame °/o Impurezze °/o 1) 3,85 95,76 0,39 2) 3,78 95,83 0,39 3) 3,83 95,80 0,37 Media 3,92 95,80 0,38 (1). I campioni, per l'esame metallografico, furono dapprima lavorati alla lima, poi levigati alle carte di smeriglio, allo smeriglio 100 minuti e al- l'ossido di cromo. La superficie levigata fu attaccata ripetute volte a caldo con acido nitrico al 0,24 °/, facendo seguire ciascun attacco da una leggera levigazione con l’ossido di cromo. Le fotografie furono fatte alla lampada Nernst, con posa da 5 a 6 secondi, mediante l'apparecchio del Martens costruito dalla ditta Zeiss. Il fotogramma n. 1, tav. I (ingrandimento 50 diam.), corrisponde al lingotto raffreddato nella lingottiera di ghisa, e non sottoposto ad alcun trat- tamento; e al medesimo corrisponde il fotogramma n. 2, tav. I, eseguito con maggiore ingrandimente (200 diam.) — ingrandimento che abbiamo conser- vato per tutti i successivi. Come appare da questi due fotogrammi il bronzo, ratfreddato in quelle condizioni, è costituito da lobi di soluzione solida @ di concentrazione ete- rogenea, tra i quali sono sparsi cristalli della soluzione solida f. Il bronzo monetario è circa al 4 °/ di stagno, quindi dovrebbe essere costituito unicamente di cristalli misti @, conformemente al diagramma di equilibrio delle leghe di rame e stagno, e la sua struttura dovrebbe corri- spondere a quella rappresentata dal fotogramma n. 2 del lavoro di Giolitti e Tavanti (Gazz. Chim. Ital., XXXVIII, vol. II, pag. 209). Essa invece si avvicina più a quella di una lega contenente oltre l'8 °/, di stagno, rappre- sentata dal fotogramma n. 3 dei predetti AA. Entrambi questi fotogrammi sono riprodotti nella nostra tav. I, ai nn. 3 e 4. La presenza della soluzione solida # trova la sua spiegazione nella ve- locità con la quale si è raffreddata la lega. Tale velocità non è stata suffi- cientemente lenta da permettere che i primi cristalli @ ricchi in rame aves- (1) Il piombo vi è contenuto per circa 0,2 °/o. Cd — 670 — sero potuto reagire col liquido, a mano a mano mero ricco, che ‘si trova in equilibrio coi cristalli separatisi successivamente a temperatura più: bassa, per dare cristalli misti omogenei; nè tanto rapida da ‘impedire che a 790° si compia la reazione fra gli orli ricchi in stagno dei cristalli misti, col liquido residuo, per formare i cristalli misti ft. | i Per una media velocità di raffreddamento — corrispondente a quella della lega fusa e raffreddata in lingottiere di ferro, riscaldate a 100° circa — i primi cristalli a, poveri in stagno, non hanno tempo di reagire col liquido, in equilibrio con quelli meno poveri che si separano successivamente per ulteriore abbassamento di temperatura, per modo che la fase liquida diventa sempre più ricca in stagno, fino a raggiungere una percentuale superiore al limite dei cristalli @ saturi, e da essa si separano cristalli #. Il fotogramma n. 5, tav. I, corrisponde alla precedente lega, ricotta du- rante mezz'ora a circa 800° e temprata da questa temperatura nell'acqua fredda. I lobi di cristalli @ eterogenei si sono trasformati in cristalli omo- genei a struttura lamellare, tra i quali si veggono sempre i cristalli misti f.. Il fotogramma n. 6, tav. I, corrisponde alla lega sottoposta alla prima serie di laminazioni a freddo, e mostra come, per effetto di questa azione meccanica, tanto i cristalli @ quanto i cristalli 8 si sono deformati, allun- gandosi nel ‘senso della laminazione. | L'azione della ricottura e tempra, sul bronzo già sottoposto alla prima lami- nazione, fa appariré nella sezione della lega cristalli @ a contorni rettilinei, come nel fotogramma n..7, tav. II, tra i quali compaiono ancora i cristalli 8; la successiva laminazione li deforma allungandoli considerevolmente (fotogramma n.8, tav. II), e la successiva ricottura e tempra ripristina la precedente struttura cristallina (fotogramma n. 9, tav. II), che viene di poco deformata nell'ultima laminazione, cosicchè nel fotogramma n. 10, tav. II, che corrisponde appunto alla lega a laminazione compiuta, si distinguono nettamente, sebbene un poco deformati i cristalli a contorni rettilinei, ai quali la successiva ricottura re- stituisce la forma regolare (fotogramma n. 11, tav. II) mentre infine la com- pressione, dovuta alla coniazione, li spezza, rendendo la struttura finemente cristallina (fotogramma n. 12, tav. II). Vogliamo far notare che i cristalli 8, formatisi nella solidificazione della lega, sì conservano anche dopo tutti i trattamenti meccanici e le ricot- ture a cui è stato ‘sottoposto il lingotto. Ciò che dimostra come gli effetti delle condizioni nelle quali è stata eseguita la colata si facciano sentire du- rante tutti i successivi trattamenti e come da tali condizioni dipenda in gran parte il buon andamento della lavorazione. Ci proponiamo perciò di studiare con precisione le variazioni di strut- tura ‘dei bronzi, dovute alle diverse velocità con le quali essi si sono solidifi- cati; soprattutto perchè appunto a tali variazioni pare siano dovuti vari casi di fragilità, che abbiamo avuto occasione di osservare in bronzi di varia composizione. Ù ti Tav. II. — 671 — Mineralogia. — Rosasite, nuovo minerale della miniera di Rosas (Sulcis, Sardegna). Nota di DomeNIco LovisATO, pre- sentata dal Socio L. STRUVvER. Mineralogia. — Stud: intorno a minerali sardi: Mimetite del giacimento cuprifero Bena (d)e Padru! (Ozieri). Nota del dott. AuRELIO SERRA, presentata dal Socio G. STRUEVER. Queste Note saranno pubblicate nel prossimo fascicolo. PERSONALE ACCADEMICO Il Presidente BLaserNA dà il triste annuncio della morte del Socio straniero ALBERTO GAUDRY, mancato ai vivi il 27 novembre 1908; appar- teneva il defunto all'Accademia, per la Geologia e Paleontologia, sino dal 23 agosto 1897. ; PRESENTAZIONE DI LIBRI Il Segretario MiLLosevicH presenta le pubblicazioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci stranieri ALBRECHT, HELMERT, Sir GEORGE DarWIN; fa inoltre particolare menzione dell'opera: IZ Auverzori dono di S. A. R. il Principe Lurei AMEDEO DI SAVOIA, Socio dell'Accademia. Se- snala poi le pubblicazioni seguenti: lustrazione del 3° volume dell’Er- bario di Ulisse Aldrovandi del prof. De Toni, Annuario meteorologico della Finlandia, vol. 1°, 1901; Risultati delle campagne scientifiche del Principe di Monaco, fasc. 33; Risultati scientifici del viaggio della Bel- gica, 1897-98-99. Il Socio De SrEFANI fa omaggio delle sue pubblicazioni: Géoteclonique des deux versants de l’ Adriatique. — Die Phlegroischen Felder bei Neapel. CORRISPONDENZA Il Presidente BLasERNA comunica che è stato eretto in Ente morale il « Premio Stanislao Cannizzaro » dovuto alla liberalità del Socio dott. Lupw1e Monp; aggiunge di esser lieto di partecipare ai Colleghi che lo stesso Socio — 672 — Monp, su proposta del Ministro degli Affari Esteri e in seguito all’inizia- tiva del Ministro della Pubblica Istruzione, venne insignito del Gran Cor- done della Corona d’Italia. Questo annuncio è accolto dall’ unanime applauso dell'assemblea. Il PRESIDENTE informa poi la Classe che tra l'Accademia, l’Istituto Lombardo e il Ministero della Pubblica Istruzione, sono stati presi gli accordi definitivi perchè fra poco s'inizi la pubblicazione delle Opere di Alessandro Volta. i Finalmente lo stesso PRESIDENTE dà comunicazione di un’invito per- venuto all'Accademia dalla Società geologica di Glasgow, per prender parte alle feste giubilari della Società stessa, che avranno luogo nel gennaio del venturo anno. Il Segretario MiLLosevicH dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. Ringraziano per le pubblicazioni ricevute: La R. Società zoologica di Amsterdam; l'Accademia delle scienze di New York; la Società Reale di Londra; la Società Reale di Vittoria; la Società geologica di Manchester; la Società di scienze naturali di Buffalo; la Società zoologica di Tokyo; l'Osservatorio del Collegio Harvard, di Cam- bridge Mass. es — 673 — OPERE PERVENUTE IN DONO ALL’ACCADEMIA presentate nella seduta del 6 dicembre 1908. ALBRECHT Ta. — Formeln und Hilfsta- feln fir geographische Ortsbestim- mungen. Vierte Auflage. Leipzig, 1908. So BoLpi M. A. — Il piano regolatore di Roma nella relazione Sanjust. Lettera aperta ai Romani. Roma, 1908. 5°. BoLpi M. A. — Sistema pratico per la mi- gliore distribuzione dell'Acqua Marcia, nell’interno dei fabbricati a più inqui- lini, in Roma. Roma, 1908. 8°. Bouvier E. L. — Crustacés décapodes (Pé- néidés) provenant des campagnes de l’Hirondelle et dela Princesse Alice (1886-1907). (Résultats des campagnes scientifiques accomplies sur son yacht par Albert Ie”, fasc. XXXIII). Monaco, 1908. 4°. Darwin G. H. — Scientific Papers. Vol. II. Tidal friction and Cosmogony. Cam- bridge, 1908. 8°. De STEFANI C. -- Die Phlegràischen Fe der bei Neapel. Gotha, 1907. 8°. DE Ton: G. B. — Illustrazione del terzo volume dell’Erbario di Ulisse Aldro- vandi. Genova, 1908. 80, De Toni G. B. — Matteo Lanzi. (Dal « Malpighia », vol. XXI). Genova, 1907. 80. Forti A. e TROTTER A. — Materiali per una monografia limnologica dei laghi eraterici del M. Vulture. (Dal suppl. al vol. VII degli Annali di Botanica). Roma, 1908. 8°, HeLMERT F. R. — Unvollkommenheiten im Gleichgewichtszustande der Erdkruste. (Sitzungsb. der k. preuss. Akad. der Wissensch. XLIV, 1908). Berlin, 1908. 80 MayrHoFeR B. — Ueber die Aufgaben der zahnarztlichen Institute und die Not- wendigkeitihres Ausbaues zu Kliniken. (Separatabd. aus der Wiener klin. Wo- chenschrift, 1907, n. 47). Wien, 1907. 89 Savora, L. AMEDEO DI — Il Ruvenzori. Viaggio di esplorazione e prime ascen- sioni delle più alte vette nella catena nevosa situata fra i grandi laghi equa- toriali dell’Africa centrale. Relazione del dott. Filippo De Filippi, illustrata da V. Sella. Milano, 1908. VeLICS A. (v.) — Onomatopéie und Alge- bra. Budapest, 1909. 8°. E. M. de È St Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIIl. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo XXIV-XXVI. Serie 2> — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). Vol. III. (1875-76). Parte 1% TRANSUNTI. 2% MEMORIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IV. V. VI. VII VII. Serie 3* — TransuntI. Vol. I-VIII. (1876-84). Memorie della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturale. Vol. I. (1, 2). — IL (4, 2). — II-XIX. Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. Serie 4° — RenpiconTI Vol. I-VII. (1884-91). MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. MemorIE della Classe. di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-X. Serie 5* — RENDICONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fasc. 11°. ReNDICONTI della Classe di sciense morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1908). Fasc. 3°. Memorie della Classe di sciense fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. Fasc. 4°. MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. I-XII. CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all’anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. £®; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno Loescner & C.° — Roma, Torino e Firenze. ULrico HoepLi. — Milano, Pisa e Napoli. RENDICONTI +— Dicembre 1908. INDICE Classe di scienze fisighie, matematiche e naturali. Seduta del @ dicembre 1908. MEMORIE E NOTE DI 8DCI O PRESENTATE DA SOCI Paternò. I polisolfuri di idrogeno e la criosgghia SE ERRO PVI CAlei Pizzetti. La massima deviazione accidentale è le osservazioni 1. Hdi Mazzuoli sui ri- Sua RNA ti NERI e RIPON O OPE CORE e) Grasst. Intorno ad un nuovo Hic hcioma è. OP RAISAT ae o) Id. e Foà. Sulla classificazione delle Fillossqpo (*) . . . SARI Del Re. Il più generale metodo di rappresentazione che serve di ba Hi Gioni descrit- tiva ordinaria (pres. dal Socio Cerruti) e. COOL Marcolongo. Sul moto di un corpo pesante intofno a un punto fisso a Id. O) VARA TA ALLT Accolla. Nuove ricerche sull’azione del campp magnetico sui depositi cali ottenuti per ionoplastica (pres. dal Socio Blaserna) . P ORARIO Polla. Contributo alla teoria delle soluzioni \Mpidali (pres na) Socio i, RO) Amaduzzi. Sul comportamento singolare di ua rocchetto di Ruhmkorff usato con un interrut. tore elettrolitico (pres. dal Socio ghi) (I ASSE : ) Gallarotti. Sulla dispersione per evaporaziong nei i [iquidi Agia IR: dal o) Bat- ANDA (I SRO n io) Angelico. Trasformazioni dei RO mo dal io Di REI ” Giolitti, Carnevali e Gherardi. Sulla di della ghisa malleabile dn Do Sui Paternò) . . ; È ” Giolitti e Pannain. Sulle variazioni ‘del aiar ii i Lt dale Li tag razione! (presss/g e . ; 0) Lovisato. R'osasite, nuovo siiicralo della miniera di BI (Sulcis, Signa rea dal SOCIO SiEUpe n) ER È ; ao Serra. Studi intorno a minerali 3 alimyfite del SA SO, ol @ e Padru (Ozieri) (pres Vie AO O AIA e PERSONALE ACCADEMICO Blaserna (Presidente). Dà annuncio della mogte del Socio straniero Alberto Gaudry . +. © PRESENTAZIONE DI LIBRI Millosevich (Segretario). Presenta le pubblicagioni giunte in dono, segnalando quelle dei Soci stranieri Albrecht, Helmert, Sir George Darwin, di S. A. R. il Principe Luigi Amedeo di Savoia e del prof. De Toni . . + Siae auipalieMenineni mo ciro lea al iti De Stefani. Fa omaggio di due sue poli RETEERE A ERE co ROERO Ra LA) CORRISPONDENZA Blaserna (Presidente). Informa la Classe della erezione in Ente morale del «Premio Sta- nislao Cannizzaro », e della onorificenza di cui venne È il Socio dott. ZL. Iond, fondatore del premio . . . ei, 3 ER IR) Ia. Comunica che sono stati presi di ‘acco 1ofnitivi per Î pabbiiaiare o Opere di Alessandro Volta . > *. al ARRIOO Id. Dà partecipazione di un invito dui giubilgo della Società siva di Glsgii. TC) Millosevich (Segretario). Dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. . » BULLETTINO IBIBIIOGRABICONE, (LL =» RON SARA = O e SE A CS ———__— (*) Questa Nota verrà pubblicata in uno dei prossimi fascicoli. K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. Pubblicazione bimensile. Roma 20 dicembre 1908. N. 12. CR DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCRI | ANNO CCCVv. 1908 SHETH QUINTA RENDICONTI Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 20 dicembre 1908. Volume X VII. — Fascicolo 12° 2° SEMESTRE. ROMA TIPOGRAFIA DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI PROPRIETÀ DEL CAV. V. SALVIUCCI 1908 _—-_i-<—T_ r .[1r________t1 ESTRATTO DAL REGOLAMENTO INTERNO PER LE PUBBLICAZIONI ACCADEMICHE Col 1892 si è iniziata la Serte quinta dello pubblicazioni della R. Accademia dei Lincei. Inoltre i Rendiconti della nuova serie formano una pubblicazione distinta per ciascuna delle due Classi. Per i Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche enatuvali valgono le norme seguenti : 1. I Rendiconti della Classe di scienze fi- siche matematiche e naturali si pubblicano re- golarmente due volte al mese; essi contengono le Note ed i titoli delle Memorie presentate da Soci e estranei, nelle due sedute mensili del- l’Accademia, nonchè il bollettino bibliografico. Dodici fascicoli compongono un volume, due volumi formano un'annata. 2. Le Note presentate da Soci o Corrispon- denti non possono oltrepassare le 12 pagine di stampa. Le Note di estranei presentate da Soci, che ne assumono la responsabilità, sono portate a 8 pagine. 3.L’Accademia dà per queste comunicazioni 75 estratti gratis ai Soci e Corrispondenti, e 50 agli estranei: qualora l’autore ne desideri un numero maggiore, il sovrappiù della spesa è posta a suo carico. 4.1 Rendiconti non riproducono le discus- sioni verbali che si fanno nel seno dell’Acca- demia; tuttavia se i Soci, che vi hanno preso parte, desiderano ne sia fatta menzione, essi sono tenuti a consegnare al Segretario, seduta stante, una Nota per iscritto. II 1. Le Note che oltrepassino i limiti indi= cati al paragrafo precedente, e le Memorie pro» priamente dette, sono senz’ altro inserite nei Volumi accademici se provengono da Soci e da Corrispondenti. Per le Memorie presentate da estranei, la Presidenza nomina una Com. missione la quale esamina il lavoro e ne rife- risce in una prossima tornata della Classe. 2. La relazione conclude con una delle se- guenti risoluzioni. - a) Con una proposta di stampa della Memoria negli Atti dell'Accade- mia o in sunto o in esteso, senza pregiudizio dell’ art. 26 dello Statuto. - 3) Col desiderio di far conoscere taluni fatti o ragionamenti contenuti nella Memoria. - c) Con un ringra- ziamento all'autore. - d) Colla semplice pro- posta dell'invio della Memoria agli Archivi dell’ Accademia. 8. Nei primi tre casi, previsti dall’ art. pre- cedente, la relazione è letta in seduta pubblica, nell’ ultimo in seduta segreta. 4. A chi presenti una Memoria per esame è data. ricevuta con lettera, nella quale si avverte che i manoscritti non vengono restituiti agli autori, fuorchè nel caso contemplato dall'art. 26 dello Statuto. 5.L’Accademia dà gratis 75 estratti agli au- tori di Memorie, se Soci o Corrispondenti, 50 se estranei. La spesa di un numero di copie in più che fosse richiesto. è mersa a carico degli autori. RENDICONTI DELLE SEDUTE DELLA REALE ACCADEMIA DEI LINCKì Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. DAD Seduta del 20 dicembre 1908. F. p'Ovipio Vicepresidente. MEMORIE E NOTE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Fisica. — Sul moto di un elettrone intorno ad un ione nel campo magnetico. Nota del Socio A. RicHI. 1. L'ipotesi dei raggi magnetici ('), da me proposta per render conto di certi fenomeni conosciuti da tempo, e di altri ottenuti nel corso delle mie ricerche sperimentali intorno a questo soggetto, i quali tutti si manifestano per mezzo delle scariche elettriche in un gas rarefatto posto in un campo magnetico, renderebbe necessaria la completa conoscenza del moto assunto in tale campo da un sistema costituito da un ione positivo e da un elettrone negativo, che si muovano l'uno attorno all'altro ‘eome i due astri di una stella doppia. Ma tale ricerca, qualora si volesse istituire attenendosi alla massima generalità, presenterebbe difficoltà grandissime, anzi, a mio avviso, praticamente insuperabili. Introducendo però, come ho cercato di fare nella presente Nota, alcune restrizioni semplificative, la ricerca stessa diviene fa- cile, e tuttavia tale da fornire utili indicazioni per la teoria dei raggi ma- gnetici. Una prima semplificazione, suggerita dalla circostanza che la massa dell'elettrone è piccolissima di fronte a quella del ione, consiste nel consi- derare quest'ultimo come immobile, e cioè dotato solo d'un eventuale movi- mento traslatorio in comune coll’elettrone. Un'altra consiste nell’ammettere che il movimento dell'elettrone si compia in un piano perpendicolare al campo magnetico, che si supporrà uniforme e costante. Questa restrizione è () Rend. della R. Acc. dei Trincei, 2 febbraio 1908; Memorie della R. Acc. di Bo- logna, 17 maggio 1908. RenpIcONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 87 — 676 — giustificata dalla circostanza, che è sopra tutto dal moto traslatorio di si- stemi, i quali, se non soddisfano pienamente almeno sono assai prossimi a soddisfare a tale condizione, che, secondo la mia ipotesi, sarebbero costituiti i raggi magnetici. Un moto del sistema ione-elettrone secondo la direzione del campo non modificherà poi evidentemente i risultati. | Siano — e la carica dell'elettrone, 7 la sua massa, +e la carica del ione, 7 la loro distanza all'istante #; <,y, le coordinate dell'elettrone al medesimo istante (per cui si ha 7° — x° + y°) rispetto a due assi ortogo- || nali aventi l'origine nel punto occupato dal ione; v, infine, la velocità del- l’elettrone all'istante £. 2 Sull’elettrone agiscono due forze: la forza elettrica - diretta secondo 7, e la forza elettromagnetica Mve, ove M è l'intensità del campo magnetico, | diretta perpendicolarmente alla velocità dell'elettrone. Ponendo per sempli- | cità di scrittura mh= e? mk= Me, | le equazioni del moto dell'elettrone intorno al ione saranno | VA (1) ae n IO de vi | È facile effettuare su di esse una integrazione. Infatti, sommandole membro . . . | a membro dopo aver moltiplicato la prima per —y e la seconda per «, il si ottiene RO — 2 wr a creta, dove 4 è una costante, che si può determinare quando siano dati la posi- zione occupata dall’elettrone e la sua velocità per l'istante #= 0. Od anche, Î introducendo le coordinate polari 7,0, definite da Xi RICOSIOIE ci il d_ (2) 3 +4 no ; d, Se invece si sommano le (1) dopo avere moltiplicato la prima per n: | e la seconda per du, sì trova da)? | (da) _ 2h File ossia dol 2 (3) (E) +() essendo — è una nuova costante, che resta, come la @, determinata coi dati iniziali, cioè ili 0 — 677 — Ha qualche interesse anche la relazione seguente, che si ricava som- dy mando le (1) dopo avere moltiplicato la prima per nio; e la seconda per dea. È ; di Si ha infatti CPI CRT GEGDOI, h colla quale si può scrivere subito l’espressione del raggio di curvatura Q della traiettoria, e cioè: - 3 v 2hr — br9)? Ci = (£ RL o) + 40° ah +3 Mer® — blr 2. È necessario, prima di proseguire, esaminare il caso particolare di k=0. Se non esiste campo magnetico le (2) e (3) possono ulteriormente integrarsi in una maniera ben nota, perchè il caso stesso non differisce da quello del moto di un pianeta intorno al sole. Anzi per X= 0 la (2) esprime il teorema delle aree, e la (3) quello delle forze vive. Introducendo infatti la nuova variabile g definita da h = (g_-csen g) be ove si è posto c°h° = 4° — a°5, si riconosce che le due equazioni h cos f — € == — 0—- ———————— % pie ccOs p) , cos( a) Tate gi dalle quali si ottiene per eliminazione di 4 l'equazione della traiettoria 2 (5) al CI 0 SIAE - h4Yh — ab cos(0— @) soddisfano alle (2) e (3). La costante @ si determina coi dati iniziali. L'equazione (5) rappresenta una curva di secondo grado avente un fuoco nell'origine, e della quale c è l’eccentricità. Essa è ellisse, parabola 0 iper- bole, secondo che % è positivo, nullo o negativo. In quanto segue si supporrà generalmente che d sia >0, giacchè al- trimenti il sistema ione-elettrone non avrebbe che una effimera esistenza. Infatti, l’elettrone sarebbe ben presto attratto da altri ioni o da atomi ece. È facile poi riconoscere, che il semiasse maggiore dell’ellisse è uguale i : È DI : gi. : 7 a 7, il semiasse minore ad va e che il periodo di rivoluzione dell’elet- 27th n VE] 3. Senza neppure tentare l'integrazione delle (2) e (3) pel caso di £ differente da zero, si possono ricavare da quelle equazioni e dalla (4) alcune utili conseguenze. trone è — 678 — La (3) mostra intanto il fatto noto, che il campo magnetico, per una posizione data dell'elettrone, non infiuisce sulla grandezza della sua velocità. La (4) fa vedere, che il campo magnetico, a parità di luogo occupato dall’elettrone, rende minore il raggio di curvatura della traiettoria, e tanto più quanto più è intenso. L'ultimo termine del denominatore è bensì nega- tivo (se, come si è supposto, d è positivo), ma esso è in valore assoluto minore del termine positivo, che lo precede. Infatti, essendo per la (3) 2 n >b, e quindi 3 hkr® > bkr?. Inoltre, dalle (2) e (3) si ricava: >b, sarà a maggior ragione, Questa espressione, eguagliata allo zero, e cioè l'equazione: 2 ‘704 (0+ al) r® —2lr+a'=0, servirà a determinare i valori massimi e minimi di 7. Dei quattro valori che se ne ricavano, due sono certamente imaginarî, in virtù della circostanza che nella precedente equazione è nullo il coeffi- ciente di 7° e positivo quello di 7°. E perciò, poichè la traiettoria dell’elet- trone non è generalmente circolare, il raggio vettore 7 avrà un massimo ed un minimo soltanto, precisamente come nel caso in cui, essendo 4=0, la traiettoria non è altro che l’ellisse planetaria. ù Senza addivenire all’indaginosa risoluzione della precedente equazione, si può dimostrare, pel caso in cui il campo magnetico non sia molto intenso, e si possa così trascurare %* di fronte a X, che il valore massimo di 7 è minore del massimo che raggiungerebbe per 4="0, mentre il valore mi- nimo di r è maggiore del minimo che si avrebbe per 4 =0. Ciò equivale a dire che, sotto l’azione del campo magnetico, la traiettoria differisce meno da una circonferenza, che non ne differisca l’elisse percorsa quando il campo è nullo. Infatti, trascurando il primo termine dell'equazione, si ricavano da essa i seguenti due valori di 7: ( a i VS (64 06) (6) I P fish: POI | h+yYR— a° (64 ak) Il primo, che è il massimo di 7, è evidentemente minore, ed il secondo, che è il minimo, maggiore, dei rispettivi valori di 7 per 4= 0. 2679 — 4. Una soluzione particolare delle equazioni (1) si ottiene, ponendo xe =? 6080, y=7 sent con 7 costante, purchè w soddisfi alla relazione : La traiettoria è in tal caso una circonferenza, della quale il ione positivo occupa il centro. L'elettrone la percorre con la velocità costante data da da dy\? prece OL — RP n 4 -(7) +(%) “7g ed il periodo è T= sun Per un dato valore di 7 si hanno due velocità possibili, cioè E SERE o=-(sy/erd4t tte) la seconda delle quali è in valore assoluto minore della prima, ma di con- trario segno. Del pari, per un valore dato della velocità v possono aversi due traiet- tovie circolari, i cui raggi sono: ione) = i rg fede) - e Tui Il secondo resta finito anche per X=0, ed assume il valore È maggiore che per X# non nullo. Cioè a parità di velocità dell'elettrone, se la sua traiet- toria è circolare tanto col campo che senza, nel primo caso essa ha un raggio minore che nel secondo. 5. Il sistema costituito dal ione e dall’etettrone che circola intorno ad esso avrà una durata assai breve in causa delle collisioni che subisce per parte di ioni, elettroni, atomi o molecole. Evidentemente la separazione del- l’elettrone dal ione deve essere infatti assai più facile della separazione di un elettrone da un atomo neutro, ossia della ionizzazione dell’atomo stesso. La presenza di un campo magnetico di opportuna direzione tenderà però a prolungare l'esistenza del sistema. Per quanto ciò sia intuitivo sarebbe utile il darne una completa dimostrazione, ma ciò non mi sembra possibile. L'ef- fetto di una collisione, ammessi i moderni concetti sulla struttura atomica, — 680 — consiste in ciò, che quando al sistema ione-elettrone giunge abbastanza vi- cino un ione, un elettrone, ecc., le forze che da questo provengono entrano in giuoco, e possono allontanare talmente l’elettrone dal ione intorno al quale si muove, da far sì che esso divenga satellite d’altro ione positivo, 0 comunque si allontani tanto da quello, che prima lo tratteneva, da sottrarsi alla sua azione. È un fatto analogo a quello di una cometa, che dopo aver gravitato intorno ad un sole, è più tardi, in seguito ad una attrazione per- turbatrice, da esso allontanata tanto, da potere essere facilmente catturata da un altro sole. Per esaminare dunque il quesito dell'influenza del campo magnetico sulla stabilità del sistema ione-elettrone, sarebbe necessario cono- scere il movimento dell'elettrone tenendo conto almeno anche delle forze pro- venienti da una particella estranea che si avvicini al sistema: ciò che mi sembra offrire difficoltà grandissime. Però le seguenti considerazioni, tratte dalle precedenti formole, servono ad avvalorare l’idea, che il campo ma- gnetico può contribuire alla stabilità del sistema ione-elettrone. a) Se ad un dato istante una particella arriva presso il sistema in modo da generare una forza agente sull’elettrone eguale e contraria a quella dovuta al ione, l’elettrone tende a muoversi in linea retta allontanandosi di più in più dal ione, se non esiste il campo. In presenza di questo l’elet- trone tende invece a seguire una traiettoria circolare. Perciò, una volta al- lontanatasi di nuovo la particella perturbatrice, esso si troverà meno lontano dal ione, e con maggiore probabilità ancora in esclusivo dominio dell’attra- zione di questo. Infatti, per f1=0,X=0, la (4) dà @= co (traiettoria rettilinea), mentre se è soltanto X = 0, o ha un valore finito da tanto più piccolo quanto più grande è %. 5) Come si è visto ($ 3), la massima distanza dal ione, alla quale giunge l’elettrone nel suo moto attorno a questo, è più piccola allorchè esiste il campo magnetico, di quello che sia per X==0. Se dunque la per- turbazione prodotta da una particella (ione, elettrone, ecc.), che si è avvici- nata al sistema, è stata tale, da allontanare l’elettrone, questo potrà dopo allontanarsi ulteriormente dal ione, ma sino ad una massima distanza tanto più piccola quanto più il campo è intenso. Resta quindi, per opera del campo magnetico, diminuita la probabilità, che l’elettrone si sottragga all'azione del ione positivo. Evidentemente cambiando segno a %, cioè invertendo il campo, si hanno conseguenze opposte. Nelle formole (1) si è opportunamente scelto il segno dell'ultimo termine, affinchè per X > 0 .si avesse appunto aumento e non diminuzione di stabilità per opera del campo. c) Se, prima che il campo agisca, si ha 8 = 0, l'elettrone percorre attorno al ione una parabola, ed ilflmassimo di 7, dato dalla prima delle (6), diviene infinito. Oltrepassato il perielio, l’elettrone si allontana dunque di | il i — 6381 — più in più dal ione e si sottrae ben presto all’azione esclusiva del mede- simo per entrare nella sfera d'azione di altra particella. Me se, prima che ciò accada, si crea il campo magnetico nell’opportuna direzione, il massimo di 7 diviene finito, e la traiettoria diventa una linea chiusa, di modo che, se %X ha un sufficiente valore, l’elettrone rimane in balìa della forza attrat- tiva del ione. d) Se &£ è abbastanza grande questo effetto si produrrà anche nel caso di 0<0, cioè nel caso in cui, prima che il campo agisca, l'orbita dell'elettrone è iperbolica. Le due ultime considerazioni valgono a persuadere che, oltre al con- tribuire alla maggiore stabilità dei sistemi ione-elettrone gia costituiti, il campo magnetico aumenta la probabilità della formazione di nuovi analoghi sistemi. Naturalmente un campo magnetico di direzione opposta a quella opportuna per favorire la formazione dei detti sistemi, costituirà invece un impedimento, mentre sarebbe favorita la formazione di coppie di opposto senso di rotazione. Zoologia. — Intorno ad un nuovo Flebotomo. Nota del Socio B. Grassi. Mentre stavo per licenziare per la stampa le mie Ricerche sui Flebotomi (Memorie della Società Italiana delle Scienze serie III, vol. XIV, 1907), mi sì sviluppava in una capsula di Petri un maschio avente le gonapofisi con caratteri molto differenti da quelle della specie PAlebotomus papatasit da me studiata. Ciò mi faceva nascere anche dei dubbî intorno all’identificazione delle larve da me fatta, perchè, come risultava dallo studio della spoglia, la larva della nuova specie non differiva da quelle da me riferite al 2%. pa- patasti. Per togliere di mezzo queste incertezze ho fatto molte pazienti ri- cerche, che qui riassumo brevemente. Confermo, come si legge in un’aggiunta fatta alla Memoria sopra citata, che veramente a Roma si trovano due specie di flebotomi: una, il P7%. pa- patasit Scopoli, è quella che si riscontra comunemente nelle camere delle abitazioni ; l’altra, relativamente molto meno frequente, si trova nelle can- tine, da sola o insieme col Ph. papatastii. To la denominerò Ph. Mascittii. Essa è caratterizzata dalla presenza nel maschio, all'articolo distale delle go- napofisi dorsali, invece che di corte palette, di lunghe e robuste setole falci- formi. Due di queste setole, lunghe quasi come l’articolo distale della go- napofisi, corrispondono appunto all’estremità libera di esso; le altre tre, di poco più piccole delle due precedenti e presso a poco eguali tra loro, sono inserite quasi allo stesso livello, circa a metà dell'articolo distale della gona- — 682 — pofisi, e precisamente due da un lato, e la terza dall'altro, un po' più prossi- malmente (!). Alle appendici laterali della lamina subgenitale mancano le duo palette. Invece delle tre gonapofisi intermedie, ne rilevo una sola, che veduta di lato si presenta allargata nella parte prossimale, ristretta nel terzo distale e fornita, dal lato ventrale, prima che cominci il restringimento, di due brevissime sporgenze. Io non son riuscito a riscontrare alcumn’altra distinzione tra la specie în discorso e il Ph. papatasii, fuorchè nelle ali. Quivi nel Ph. Mascdtiti, sia di sesso maschile che di sesso femminile, sì nota il seguente carattere : la lun- ghezza dello scapo della forchetta sezionale (3,3) è presso a poco eguale alla distanza che corre dall'estremità distale del radio (2) al punto dove lo scapo della forchetta si biforca, mentre questa distanza nel Ph. papatasti è molto più breve. Tale carattere costante permette di distinguere senza difficoltà le due specie allo stato adulto. Tra le larve e le ninfe delle due specie invece, io non ho potuto riscon- trare alcuna differenza. Aggiungerò che le larve e le ninfe raccolte in una piccola cantina di via Panisperna, dove ho potuto fare ricerche metodiche, appartenevano tutte alla specie nuova. Con molta fatica sono riuscito ad alle- vare artificialmente il Ph. papatasti, e soltanto così ho potuto avere il materiale per i confronti. Anche la nuova specie punge; punge specialmente le persone che stanno nei cortili, donde ricevono luce le cantine. Confermo quanto ho pubblicato nella Memoria estesa: che, cioè, l’ambiente ottimo per la prole del Phlebotomus papatasti, è costituito dalle piccole an- frattuosità lungo le fogne, benchè esso possa svilupparsi anche nelle cantine oscure ove si trovano accumulate, insieme con spazzature, pietre, mattoni e più specialmente pezzi del cosiddetto cretone. In un palazzo di Roma che era infe- statissimo da questi insetti, con opportuni sistemi di sifoni lungo i condotti di fognatura e colla pulizia delle cantine si è riusciti a liberarsene quasi inte- vamente. Resta così confermato quanto ho esposto nella Memoria estesa. Sarebbe ora molto interessante accertare se anche da noi sia endemica la così detta febbre di tre giorni della Dalmazia e dell’ Erzegovina, che sarebbe prodotta da un virus invisibile trasportato dal flebotomo (Doerr, 1908). Come ho accennato nella Memoria in esteso, anche a Roma si ritiene che le punture del flebotomo possano produrre un accesso febbrile. (®) Questa descrizione chiarisce le incertezze lasciate nel sopracitato brevecenno re- lativo a questa specie, aggiunto alla Memoria in esteso in seguito all'esame di un solo esemplare di sesso maschile, che volevo conservare intatto. — 683 — Zoologia. — Sulla classificazione delle Fillossere. Nota del Socio B. GRassI e di A. Foà. Nell'ultima Nota pubblicata da uno di noi (Foà) dicevamo che in tutta la sistematica delle fillossere regna molta incertezza e prima di pronunziarci sulle specie da noi trovate, volevamo metterle a confronto con esemplari di quelle descritte da varî autori forestieri. Ci limitavamo perciò ad accennare a nove forme da noi studiate, all'infuori della Ph. vastatrix, colle seguenti parole: « Noi in Italia abbiamo trovato I) la fillossera descritta come Ph. quercus dal Lichtenstein, dal Buckton ecc.; II) una fillossera, la cui neonata è caratterizzata da tubercoli con peli biforcati alla punta (!) e che forse deve denominarsi P%. corticalis Kal- tenbach; III) una fillossera, che sembra corrispondere alla PW. punctata Lich- tenstein (non ancora segnalata in Italia); IV) una che non sembra del tutto eguale a quella che il Lichten- stein ed il Buckton denominano P%. coccinea (se queste due ultime — III e IV — siano o no specie buone resta da determinarsi); V) la Ph. Danesti Grassi e Foà sulle radici della quercia; VI) la Ph. salicis Lichtenstein (non ancora segnalata in Italia); VII) una fillossera del gattice, che per ora non abbiamo distinto da quella del salice; VIII) una fillossera, che sembra sia la Ph. acanthochermes Kollar; XI) la Ph. spinulosa Targioni, del cerro ». Una recente interessante pubblicazione del Bòrner, al quale avevamo mostrato gran parte delle forme sopraccitate in una visita da lui fattaci al- l'Osservatorio di Fauglia, ci permette di classificare definitivamente una parte delle nostre forme. Ciò facciamo nella presente Nota, e, approfittando del- l'occasione, accenniamo anche a due fillossere parassite delle Carya, porta- teci dall'America dal prof. Silvestri; ci permettiamo inoltre di fare qualche osservazione intorno alla classificazione del Borner che, a vero dire. non ci sembra che possa essere definitiva. Secondo il Bòrner, la prima forma sopraccennata non sarebbe la Ph. quercus Boyer de Fonscolombe (?), ma una forma ad essa similissima, la (*) Dicevamo da tubercoli e non dai tubercoli, perchè negli ultimi tergiti addominali, a partire dal terzo, la biforcazione del pelo terminale è meno distinta o scompare affatto. (*) Borner scrive Ph. quercus Fonsc. RenpIconTI. 1908, Vol. XVII. 2° Sem. 88 — 684 — Ph. fiorentina Targioni-Tozzetti (!); egli vorrebbe quindi ristabilire quelle due specie (quercus e /lorentina), che il Targioni aveva separate e teneva separate ancora nel 1878 (?), e che il Del Guercio invece aveva più tardi (1900) fuse insieme. Le ragioni, su cui si basa il Bérner per scindere le due specie, sono la differente lunghezza del rostro delle neonate, e il differente rapporto tra il terzo articolo dell'antenna e il tubercolo marginale posteriore del mesotorace nelle vergini adulte. Però il Bòrner non dice se ha fatto le sue misurazioni, raccogliendo gli individui sui lecci oppure sulle quercie. Or- bene, come fa notare la signorina Bonfigli, nelle varie forme da noi consi- derate come appartenenti al ciclo della Ph. quercus, i caratteri presi in esame dal Boòrner variano a seconda che si considerano individui della serie ospitata dall'una o dall'altra pianta, e precisamente per gli individui rac- colti sulla Quercus ilex tali caratteri corrispondono a quelli che il Bòrner assegna alla specie Ph. fiorentina, mentre per gli individui presi sulla Quercus robur corrispondono a quelli che dovrebbero distinguere la Ph. quercus. Sembra dunque evidente che non si possa fare una separazione tra la Ph. quercus e la fiorentina, in base alle differenze morfologiche date dal Borner; restano le differenze biologiche, intorno alle quali non crediamo di pronunciarci senza ulteriori ricerche. La Danesti si è confermata una specie buona e indipendente, essa però, contrariamente a quanto suppone il Bòrner, non rientra nel gen. Mordteiella: presenta infatti gli stigmi e i tubercoli a questa mancanti. La serie delle forme attere virginopare, o sessupare e le ninfe vengono caratterizzate dalla presenza di tubercoli al settimo tergite, più o meno completamente svilup- pati nei varî individui e nei varî stadii. Di solito nelle ninfe, al settimo ter- gite sono ben evidenti i due tubercoli spinali, mentre i marginali possono essere ridottissimi, o anche rappresentati da semplici peli; nelle madri possono presentarsi varî gradi di riduzione, cioè, due tubercoli spinali e due peli, quattro peli di cui i due spinali più corti, quattro peli presso a poco uguali; in uno stadio precedente (premadre?) abbiamo visto quattro tubercoli ben sviluppati. Un’anomalia frequente nella Pl. Danesti è la presenza di un tubercolo pleurale da un lato del secondo tergite addominale. Le alate differiscono da quelle delle altre fillossere delle quercie per avere il sensillo placoideo distale dell'antenna di forma tondeggiante, in- vece che ellittica; esso è inoltre notevolmente piccolo. Il suo diametro è circa !/,; della lunghezza totale del terzo articolo dell'antenna, mentre, nelle alate della fillossera del cerro, l'asse maggiore (lunghezza) del sensillo pla- coideo distale è '/,, e in alcuni individui !/;, della lunghezza totale dell’ar- (*) Borner scrive PR. florentina Sign. (2) 'argioni ammetteva che la fillossera da lui determinata come Ph. quercus della Quercus coccifera e della Q. robur corrispondesse solo in parte a quella del Boyer. — 6399 — ticolo, e in tutte le altre fillossere delle quercie, a noi note, è circa la metà. ’ È pure circa la metà in una delle due fillossere delle Carya da noi esaminate. Nella fillossera della vite la lunghezza del sensillo placoideo distale in discorso appare circa doppia di quella della Ph. Danesii e corrisponde ad 1/, circa della lunghezza totale dell'articolo. Noi crediamo che convenga separare la Dames: e ascriverla a un nuovo genere, che diremo Bòorneria (). Siamo lieti che il Bòrner abbia ripreso in esame per suo conto la Ph. corticalis Kaltenbach e che questa fillossera si sia potuta identificare con quella che noi precedentemente gli avevamo mostrata, designandola ap- punto come tale. Possiamo pertanto confermare con tutta certezza che anche nell'Italia media e meridionale, nelle screpolature della corteccia della Quercus robur e forme affini, vive la Ph. corticalis Kaltenbach. Accettiamo di ascriverla, come ha fatto il Bòrner, ad un nuovo genere — Moriiziella — dedicato al benemerito Moritz, e confermiamo i caratteri assegnati dal Borner a questo genere. Recentemente il Del Guercio ha descritto, come appartenente ad una nuova serie partenogenetica estiva-autunnale della P%. acanthochermes, una forma la quale, come tutto fa credere, deve essere la nostra PA. corticalis. Egli non dice le ragioni su cui basa le sue induzioni; certamente le forme alate della Ph. acanthochermes e della Ph. corticalis hanno a primo aspetto molta somiglianza, ma il confronto dei rostri sembra già sufficiente per distinguerle. È molto più importante osservare che tra la P%. acanthochermes e la Ph. cor- ticalis esistono profonde differenze riguardanti il numero degli stigmi e dei tubercoli. Per queste ragioni la Ph. acanthochermes rientra nel genere Phyl- loxera, come è stato definito dal Bérner, e non già nel genere Morztziella, a cui appartiene, come si è detto, la corticalis (?). Anche la nostra determinazione di Ph. salicis Lichtenstein ha trovato conferma nel Bòrner. Ben a ragione egli la eleva a nuovo genere, ma su ciò torneremo più avanti. Buona si è confermata anche la specie PX. spinulosa Targioni. Nel 1878 il Targioni stesso aveva dubitato che questa sua fillossera dovesse ascriversi alla Ph. corticalis Kaltenbach e successivamente il Del Guercio aveva de- finitivamente stabilita questa identificazione. Certamente i due autori italiani avranno avuto dei motivi per formulare il loro giudizio, ma dopo le nostre (‘) L'uovo d’inverno della Ph. Danesii si trova sulle radici di quercia, in una posi- zione analoga a quella dell’uovo invernale della fillossera della vite sul ceppo e sui tralci. Crediamo che manchino le ibernanti, ma in proposito ci riserbiamo di fare ulteriori ri- cerche, che troveranno posto nel lavoro in esteso. (°) Le fillossere, di cui si va occupando il Del Guercio presenterebbero, secondo le figure e le descrizioni dell’A., tali caratteri da farle ascrivere a generi del tutto nuovi (tre serie di tubercoli per parte dal secondo anello addominale in poi, alcuni anelli del- l’addome in più): evidentemente si tratta di inesattezze. — 686 — osservazioni sulla Ph. corticalis e quelle successive del Bòrner, riteniamo che questi motivi siano infondati. Restano incertezze sulle altre quattro forme da noi segnalate. Noi cre- diamo che la fillossera del gattice non sia differente da quella del salice, ma prima di pronunziarci definitivamente vogliamo fare altri confronti l’anno venturo, essendo insufficiente il materiale di cui ora disponiamo. Alla Ph. punctata Lichtenstein, abbiamo dubitativamente riferito forme attere sessupare e forme sessuate da noi rinvenute in svariate parti dell'Italia media e meridionale durante l'autunno. La Bonfigli ha intrapreso un con- fronto tra questa forma e la PA. quercus ed è venuta alla conclusione (') che fra di esse si notano grandi somiglianze, se della Ph. quercus si pren- dono a considerare le generazioni sulle querce e in modo speciale le madri attere virginopare della penultima e le preninfe dell'ultima generazione (*). In questi casi la forma dei tubercoli e il pelo terminale trovano buona corri- spondenza nell’attera sessupara della supposta P7. punctata, quando essa pre- senta tubercoli ben sviluppati. Accade però spesse volte di trovare in questa fillossera i tubercoli assai più piccoli che nella Ph. quercus, e allora varia molto anche la forma dei peli terminali. Quando nella supposta Ph. punetata i tubercoli della testa sono già molto piccoli, nel torace e nell'addome vanno diminuendo rapidamente e può darsi anche il caso che fin dal secondo ter- gite addominale scompaia il tubercolo e rimanga soltanto il pelo (5). La lunghezza del terzo articolo delle antenne è presso a poco eguale nella Ph. punctata e nella penultima generazione della Ph. gquercus. La lunghezza del rostro corrisponde abbastanza bene ancora nella penul- tima generazione di Ph. quercus e nelle attere sessupare di Ph. punctata. L'addome termina nettamente trilobo tanto nella Ph. quercus quanto nella Ph. punctata (ciò è evidentissimo nelle forme non troppo giovani delle serie non sessuate). Vi è pure corrispondenza nel colore, prevalendo in certe località forme di Ph. punctata giallastre o un po' macchiate di rosso, e in altre invece forme addirittura rosse. L'ornamentazione della cuticola trova riscontro nelle due forme. Anche i sessuati appariscono identici. Da quanto si è fin qui esposto, risultano tra le forme comparate grandi somiglianze, non potendosi dar troppo valore alle differenze dei tubercoli anche per la loro variabilità nelle diverse generazioni della Ph. quereus. Non mancano tuttavia altre circostanze, che rendono incerta l’identificazione delle due specie; precisamente esse sono le seguenti: (®) La riportiamo in esteso nei seguenti periodi, colle parole stesse della Bonfigli. (&) Ultima e penultima a Roma nei nostri vasi, ma non sempre dovunque. () Variazioni simili si trovano anche nelle virginopare attere della 2. corticalis. — 687 — 1. Le forme da noi riferite alla Ph. punctata non sono state rinvenute in nessuna delle numerose località dove avevamo raccolta abbondantissima la Ph. quercus sulle quercie; bisogna però confessare che là dove in autunno abbiamo trovata la Ph. punetata, non avevamo cercato prima nessuna fil- lossera. 2. Le forme di Ph. punetata e di Ph. quercus, messe qui sopra a confronto, non si corrispondono, essendo le prime attere sessupare e le seconde per una generazione attere virginopare, per l’altra preninfe di alate sessupare. Si deve qui tener presente che alcuni esemplari di Ph. punctata pre- sentano occhi ninfali. In ogni caso è lecito il dubbio che la supposta Ph. punctata (!) debba riferirsi alla PR. quercus. Un'altra questione sorge a proposito della fillossera che abbiamo dubi- tativamente definita coccenea, ma che non sembra corrispondere a quella forma, la quale fu oggetto delle classiche ricerche del Balbiani. Essa è stata da noi trovata soltanto di primavera, perciò appunto l’anno scorso ci era sfuggita. Ne conosciamo con tutta sicurezza soltanto la serie attera. In essa, il numero e la disposizione dei tubercoli corrispondono a quelli della Ph. quercus, ma la forma ne è differente: semplice tronco di cono nella coccinea, tronco di cono rigonfiato alla parte distale nella quercus. Il pelo terminale è lungo nella coccinea, corto nella quercus. È un fatto però che le alate di PH. quercus sviluppatesi sulla quercia, possono ovificare su di essa, dando quivi vita a sessuate che producono l'uovo d'inverno; d'altra parte è del pari certo che sulle quercie, in primavera, prima che vi comparissero le generazioni migranti dal leccio, noi non abbiamo tro- vato altra fillossera che si potesse supporre derivata dallo stesso uovo di inverno, all'infuori della Ph. coccinea; quindi è tuttora lecito sospettare che anche questa forma rientri nel ciclo della Ph. quercus. Noi abbiamo riferito dubitativamente alla Ph. acanthochermes (v. più sopra) una forma, le cui madri hanno tubercoli marginali più o meno corti (li abbiamo veduti diminuire da una generazione all'altra), di forma quasi emi- sferica, con pelo terminale piuttosto corto e allargato all'estremità. Invece degli altri tubercoli, si trovano solo peli cogli stessi caratteri. Crediamo siano queste le fillossere che il Del Guercio riferisce alla Ph. acanthochermes. Se veramente la fondatrice di queste fillossere è la forma descritta dal Del Guercio, non v'ha dubbio che siamo davanti alla Ph. acanthochermes Kollar; ma crediamo che l’asserzione del Del Guercio debba essere prima controllata, molto più che nel tubercolo della fondatrice da lui figurato manca, a quanto sembra, il pelo terminale. (*) Intendiamo sempre parlare della forma da noi supposta Ph. punctata, senza escludere che possa esistere altrove come buona specie, la forma definita da altri come Ph. punctata. — 688 — Abbiamo così passate in rassegna tutte le fillossere italiane da noi rin- venute. Speriamo che l’anno venturo potremo togliere di mezzo le incertezze in cui ci siamo imbattuti. Il prof. Silvestri ci ha portato due forme degli Stati Uniti d'America, che non ci sentiamo in grado di classificare. Consultando il Pergande, pos- siamo soltanto dire che rassomigliano l’una alla P%. caryaefoliae Ficht, e l’altra alla P%. e-scissa Riley. Della prima abbiamo sott'occhio sessuati e madri sessupare; della se- conda ninfe e alate (*). Purtroppo il materiale non è in buone condizioni ; pos- siamo però dire che in tutte e due le forme mancano i tubercoli e s'incon- trano solo i peli terminali. Nella prima forma manca il pelo pleurale nella serie posteriore del pronoto e nel primo tergite addominale. Per quanto ab- biamo cercato, non abbiamo potuto veder traccia di stigmi addominali. Per tali caratteri riteniamo che questa forma abbia rapporto col genere Mo- ritziella. Come i peli siano disposti nella seconda forma non abbiamo potuto precisare. Nelle forme americane si rilevano con tutta facilità alla parte distale dell'antenna, oltre al sensillo placoideo, quattro sensilli del tipo celoconico, come nei Chermesini. Questo fatto ci ha portato ad osservare di nuovo le an- tenne delle varie fillossere da noi studiate; ed abbiamo così rilevata l’esi- stenza di questi sensilli celoconici, più o meno maldistinti dal sensillo pla- coideo, in tutte le fillossere da noi rinvenute in Italia. In certi individui della fillossera della vite, almeno tre di questi sensilli celoconici sono inte- ramente separati dal sensillo placoideo; nella Ph. salicis tutt'e quattro sono ben separati, come nelle fillossere americane. La disposizione dei peli dorsali nelle sessuate, in tutti i casi da noi presi in esame, trova riscontro con quella della serie attera virginopara e della serie che conduce alle alate. Notiamo però : 1°) che mentre in tutte queste forme l'ottavo tergite nella parte di mezzo all'indietro termina con due peli (uno per parte), nelle sessuate tali peli stanno sopra un tergite speciale (nono), ben separato sì anteriormente che posteriormente (una traccia di questo tergite è evidente del resto anche nelle neonate delle serie non sessuate); 2°) che nei maschi l'ottavo tergite presenta due soli peli, come nelle neonate; nelle femmine ne presenta quattro, mentre nelle altre forme se ne trova un numero maggiore (per es. nella madre attera della fillossera della vite sono otto, nove o dieci). Aggiungasi che in alcune specie (le americane) sul nono tergite, oltre ai due peli (pari) se ne riscontra un altro (impari) (?). (®) Ci mancano le virginopare e le neonate rostrate. (%) All’ottavo tergite anteriormente esiste nelle serie non sessuate di varie specie uo pelo impari, che non abbiamo finora riscontrato nei sessuati. Esso manca in tutte le varie forme della fillossera della vite. Di | -— 6389 — La parte che per la posizione giudichiamo ultimo sternite, senza voler stabilire con questi termini alcuna omologia, anche nei sessuati, presenta gli otto peli caratteristici (quattro laterali più lunghi e quattro mediali più corti). Si dànno però delle anomalie, sulle quali non crediamo d'insistere. Se ora vogliamo dare uno sguardo ai principali fulcri, su cui si basa la sistematica del Borner, dobbiamo dire che troviamo giusto di attribuire molto valore ai peli del dorso, ma vogliamo tuttavia osservare che la loro forma non è così costante come ammette il Bérner e varia alquanto nella stessa fillossera della vite; non si deve quindi trascurare il tubercolo, il quale benchè, entro certi limiti, variabile, può tuttavia fornire caratteri preziosi (?). Il Borner, a quanto sembra, dà molta importanza al fatto che mentre nella fillosserina del salice le ghiandole ceripare arrivano fino al settimo segmento, nel gen. PhyMloxera s. st. i tubercoli, o i peli ad esso equiva- lenti, arrivano solo al sesto tergite. Noi osserviamo che nella supposta Ph. acanthochermes peli equivalenti ai tubercoli arrivano anche al settimo tergite, in conformità a quanto si verifica pure nella Danesi, nella spinulosa (talvolta) e nella fillossera della vite, nella quale (forma radicicola) si trovano quattro tubercoli anche al settimo tergite, come aveva già notato il Cornu. Nel sistema del Borner ha grande importanza il numero degli stigmi; noi non ne disconosciamo il valore, ma vorremmo lasciarlo da parte, trat- tandosi di un carattere che in molti casi, se il materiale non è in buone condizioni, riesce molto difficile a determinarsi. Riguardo alla classificazione della famiglia delle fillosserine, ci limitiamo ad osservare che il sistema proposto dal Bérner, a nostro avviso, si mostra già fin d'ora alquanto difettoso, perchè non v'ha dubbio che la PhyMoxerina salicis è molto lontana dalle altre fillossere, le quali tutte si somigliauo molto tra di loro, e si avvicina ai Chermesini, oltre che per la presenza delle ghiandole ceripare e per il numero degli stigmi addominali, anche per l'estremità distale dell'antenna, specialmente delle neonato. La mancanza di alate, ci priva di un carattere — quello delle antenne di tali forme — che forse sarebbe stato decisivo per la sua posizione sistematica. In complesso, è notevole per questa PhyMoxerina la piccolezza degli arti nelle forme vir- ginopare adulte, ancora più spiccata nei sessuati. Nelle neonate il rapporto tra la lunghezza degli arti e le dimensioni dell'individuo è presso a poco eguale nella Phylloxerina e nelle altre fil- lossere: però mentre in queste ultime le zampe si allungano col crescere del- l'individuo, nella Phy/lowerina si conservano presso a poco eguali, così che (*) Nella 8. Danesti i peli terminali (ossia dei tubercoli) rassomigliano a quelli della fillossera della vite. Nella forma d'America da noi accennata come prima, essi sono lunghi, a punta ottusa, quasi non dilatata nelle madri attere sessupare, dilatata a botton- cino nei sessuati. Nell’altra forma d'America (ninfe) essi sono molto simili a quelli della vite. — 690 — le madri, pure essendo di dimensioni tanto maggiori, hanno le zampe corte come quelle delle neonate. Mentre poi nelle altre fillossere le zampe dei ses- suati sono lunghe quasi come quelle delle neonate, nei sessuati di PAy/loxerna sono molto più piccole, cioè quasi la metà. Anche il terzo articolo dell'an- tenna è molto ridotto negli adulti e ancor più nei sessuati. Il labbro supe- riore è relativamente lungo (*) (2). Tutto sommato, noi riteniamo che sia op- portuno elevare le PhyZZoxerinae a sotto-famiglia, da mettersi alla pari colle Chermisinae e colle Phylloxerinae, e da denominarsi Phylloxerininae. Nella sottofamiglia Phyllowerinae preferiamo lasciare in disparte le tribù del Borner e limitarci, per le forme a noi ben note, ai generi Moret- ziella, Peritymbia, Phylloxera e Bòrneria. AI genere Moritziella ascriviamo la Ph. corticalis, e avviciniamo, come si disse indietro, una delle suddette forme americane, che preferiamo lasciare innominate. Alla Peritymbia ascriviamo la vastatrix, dolenti però di dover mutare un nome omai universalmente diffuso. Alla Phylloxera ascriviamo, per ora, l’acanthochermes, la quercus, la florentina (?), la coccinea (?), la punctata (?). Quanto al genere Bòrneria, ci riferiamo a quanto abbiamo detto più sopra. Per la spinulosa il Borner fa un sottogenere del genere Phylloxera (Hystrichiella), basandosi sul carattere della limitazione dei tubercoli ai primi quattro tergiti addominali. Questo carattere non ci sembrerebbe suffi- ciente per una tale separazione, in quanto che non è raro trovare nella specie in discorso traccia di tubercoli anche al quinto segmento, e d'altra parte in altre fillossere, in circostanze non determinate, possono mancare i tubercoli al di là del quarto segmento (£). Senonchè nella spinulosa è stato ritrovato da uno di noi (Foà) un altro carattere distintivo. Esso consiste nella pre- senza di due grossi tubercoli spinali sul mesonoto e di due più piccoli sul metanoto delle alate, tubercoli che mancano nelle alate di tutte le fillossere da noi osservate. Forse perciò il sottogenere Zystrichiella dovrà elevarsi a genere. Il Borner si trattiene anche sulla filogenesi e distingue forme primitive, forme ridotte, ecc., ma noi preferiamo astenerci da tali questioni. (*) Il labbro superiore è pure abbastanza lungo nelle due forme americane, e anche nella Moritziella corticalis, nella Borneria Danesii e nella Hystrichiella spinulosa. () L'uovo d'inverno di questa forma si trova in mezzo alla sostanza bianca cerosa. (®) Peli non acuminati, perciò somiglianti a quelli dei tubercoli, possono trovarsi fino al settimo tergite; daremo i particolari nel lavoro in esteso. — 691 — Matematica. — Sulla Astatica nello spazio a 4 dimensioni. Nota del prof. A. DeL RE, presentata dal Socio V. CERRUTI. Se in uno spazio ad x dimensioni S,, ai punti M,,M;,..., My di un corpo rigido Y sono rispettivamente applicate le forze F,, F.,...,Fu,@sì fa subire ai punti all'infinito delle linee d'azione di queste forze una tra- sformazione omografica equivalente ad una sostituzione lineare destrorsa che conservi l'assoluto, il problema di cercare in quale posizione le forze si fanno equilibrio sul corpo, allorchè quella trasformazione omografica si fa variare con continuità, può essere considerato come il problema generale della Asta- tica in # dimensioni. Come in S3, così in $, per 2 > 3, si può supporre che il corpo Y} sia dotato di un punto fisso O, e come in S3, così in S,, invece di far subire ai punti all'infinito delle linee d'azione delle forze, la trasformazione omo- grafica £ con le qualità suddette, si possono tener ferme le singole direzioni delle forze e far subire al corpo supposto rappresentato da una % — pla O(x1,%2,...,%n) di assi due a due ortogonali lo spostamento attorno ad 0 equivalente a quella trasformazione omografica che risulta dal proiettare da O la inversa della trasformazione £. Se sopra una direzione fissa 4, invariabilmente legata alle varie dire- zioni delle forze si proiettano queste in H, , Ha,...,Hn, si avrà un sistema di forze parallele, il quale, qualunque sia la £, sarà sostituibile con una forza unica H=YS F,.cos(F;, A), applicata in un punto H (centro del sistema). Così, ad ogni punto all'infinito corrisponde un punto unico e ben determinato che si chiamerà la sua immagine astatica, ovvero immagine astatica della direzione h che definisce quel punto. Col teorema dei momenti si dimostra che se un punto all'infinito descrive una retta (una direzione varia appartenendo sempre ad una data giacitura) l’immagine astatica corri- spondente descrive a sua volta una retta in dipendenza proiettiva con quella. E da ciò segue, senz'altro, che le immagini astatiche di tutte le direzioni coprono, in generale, un S,-,,0, omograficamente riferito all’ S,-, , 0°, all’ in- finito. Si chiamerà o / S,-; centrale del corpo; ed è, evidentemente, o fisso nel corpo stesso. La omografia I fra o e o' si chiamerà omografia dî posi- zione del sistema delle forze rispetto al corpo, e si considererà come passaggio dai punti di o' ai punti di o. Per mezzo di 7, all'assoluto corrisponde in o una quadrica immaginaria ad n—2 dimensioni, in generale, Q,-., e ad una piramide auto-polare rispetto a quella una piramide auto-polare rispetto a questa; epperò, decom- ponendo il dato sistema di forze secondo x direzioni due a due ortogonali RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 89 — 692 — fra loro, e facendo variar queste col tenerle invariabilmente legato alle dire- zioni delle forze, le componenti gireranno intorno alle corrispondenti imma- gini astatiche senza cambiare di intensità; e così, chiamando, come fece Darboux in S3, la Q,-s quadrica centrale, si ha il teorema: , Le forze del dato sistema sono sostituibili con un gruppo di n forze applicate nei vertici di una piramide autopolare rispetto alla quadrica centrale, e dirette secondo n direzioni due a due ortogonali fra loro. Cambiando di posizione il sistema delle forze rispetto al corpo, cioè facendo subire ai loro punti all'infinito una trasformazione 2, cambia la 7, e la nuova omografia di posizione I può considerarsi come risultante dal prodotto di 2! per TY, in modo da potersi scrivere Z7 = I. In grazia del teorema precedente, Z° rappresenterà una posizione del sistema delle forze in equilibrio sul corpo col punto O tenuto fisso, se una piramide auto- polare rispetto all’assoluto e la sua corrispondente in I° sono prospettive col centro in O. Il problema, quindi, di condurre le forze da una posizione gene- rica data 1 ad una posizione di equilibrio, si riduce a quello di costruire una £ che dia una 7, con la qualità ora indicata. Per fare ciò, e supponendo per fissare le idee n= 4, si istituisca un metodo di proiezione centrale in S, col prendere quale centro il punto O e quale quadro lo spazio a 3 dimensioni o; allora, per ogni direzione /, oltre la immagine astatica H, vi sarà una immagine prospettica H', ogni omo- grafia I° potrà considerarsi come passaggio dai punti H' ai punti H, ed ogni omografia come omografia trasformante in sè il sistema anti-polare IZ ri- spetto alla sfera di distanza (sfera di centro, il piede della perpendicolare condotta da 0 a 0; di raggio, la lunghezza di questa perpendicolare). Così pensate le T° e le 2, ogni Y la quale risponde al nostro problema mentre trasformerà Z in Q, (indicheremo pure con Q» il sistema polare rispetto alla quadrica centrale) avrà per piramide di elementi uniti la pira- mide auto-polare comune a 7 e Q.. Ne segue che data, o trovata, la T. si cercherà la piramide A{ A; A5 Ai (auto-polare rispetto a ZZ) che ha per corri- spondente in 7 la piramide A, Ax As A, auto-polare comune rispetto a Z7 e Qs; indi si costruiranno le omografie , che, mentre trasformano Z7 in sè, fanno corrispondere A, ... A, ad Ai... [: allora le T;= @? T rappresenteranno altrettante posizioni di equilibrio del sistema delle forze col punto O te- nuto fisso. Non occorre che le 2; corrispondano strettamente parlando a movi- menti; basta che esse trasformino // in sè; però, quando le £, rispec- chiano movimenti, le N, corrispondenti risolvono il problema di condurre dl corpo solido Y dalla posizione attuale ad una posizione di equilibrio quando le forze siano tenute ferme in direzione ed in intensità. Alla domanda: Esistono punti intorno a ciascuno dei quali, tenuto fisso nel corpo, siano possibili infinite posizioni di equilibrio?, i risultati prece- — 693 — denti permettono rispondere che, se un punto O con tale qualità esiste, il sistema polare Z7 ha infiniti tetraedri auto-polari comuni con la quadrica Qe; epperò l’omografia risultante dalla composizione di Z7 con Q: sarà biassale (con due assi di punti e piani uniti) od omologica. Questo secondo caso può presentarsi solo quando Q» sia di rotazione; il primo, invece, può aver luogo sempre, e si ha precisamente allorchè Q. è quadri-toccata dalla sfera centrale di 27 (in coppie di punti di due sezioni principali). Ora, si supponga @; riferita ai suoi assi, e che siano @, 8, y le coordinate del centro di ZZ ed 4 (= VEST) il raggio della sfera corrispondente; saranno (1) SE 4 4 E 410 (È (@=9E=04 = DIRE EEN dove (2,y,),(x%, 4) sono coordinate di punti coniugati, le equazioni dei sistemi polari Qs,ZZ; sicchè, posto (3) n= a +- 8° +-y 4 d°, l'omografia risultante dal prodotto di tali sistemi polari sarà rappresentata (in coordinate planari) dalle equazioni — n — Ruta “E Na .ut u?B.v+v°y.w — h° da — uîv + B (4) OT Rautu8.v+y.w — N° , mia — Ra.utuB.v+vy.w_-h° e l'equazione caratteristica corrispondente sarà (in 6): Segr Aagli o 0 a |=(4+0)(u°+0)(2+0)(12+0)+ Ole ne 7 AL — Ra (+6) 02 +0) + 0 Oi 3 mp (0-0) A°-09) | Re 0 0 dy —-0| — 0898(42-+ 0) (+0) =0. Supponendo, ciò che è il caso generale, Q» non di rotazione, supporremo 2. > pu >; e da quanto si è detto risulta che la omografia (4) sarà della specie richiesta se due radici della (5) annullano tutti i minori del 3° ordine del determinante (5) senza annullare quelli del 2° ordine; e che ciò può avvenire in ciascuno dei tre casi seguenti: co == 320 RR 0 ele — 694 — Fermandoci al 1° caso ed introducendo nella (5) le condizioni #= y= 0, questa diventa, dopo qualche riduzione, (6) (u°-+0) (02+0) 3024 (a? +d + 2)0+2 d{=0, mentre il determinante corrispondente assume la forma, —_ 2° — 0 0 0 2 0 —u—0 0 0 (7) i 0 O — 0 —0 0 | 7° a 0 Ù d'a —0 Fra le radici della (6) rispondono al nostro scopo 9=—pu?, e 0=—?. Per ciascuno di questi valori di 6 sono nulli tutti i determinanti del 3° ordine di (7) eecetto uno; esprimendo perciò che, in entrambi i casi, anche questo deve essere nullo, si avranno due relazioni fra d ed @, le quali diranno come deve essese scelto ZZ e conseguentemente il corrispondente punto O perchè, intorno ad O, siano possibili infinite posizioni di equilibrio. Per 9= — pè, e per 9=— v?, i determinanti del 3° ordine di (7) da annullarsi dànno rispettivamente le condizioni uî— 430 x =0, PESA x == 0 u—+v 0 0 r— wu? 0 2a 0 u—a'—d? Ra 0 vrT_-a —d? che possono mettersi sotto la forma (u? — 2°) (u? — 1°) (u® — a? — d°) — 2°a? (u? — 2) =0 (»? Puri 22) (02 rt ur) (»? STAR d?) IE (v? Ln u?) = 0; ovvero, per essere v°? — u? + 0, sotto l’altra: (u°—22) (u?— e%— d2) — 42020 ; (0-22) Ca —_e-—d)—Wa—0; o ancora: — u?a°+(4°— u°)d°— u?(A2— p°)=0;— va + (4A°— v°)d'—v?(4?—»°)=0. Se nello spazio S, nel quale consideriamo il corpo Y}, scegliamo quali assi cartesiani ortogonali i tre assi della quadrica centrale e la perpendico- lare nel suo centro C all’ Ss che la contiene, e chiamiamo ? questo quarto asse, le 4 coordinate x,y, del punto O, corrispondentemente ai casì precedenti sono — 695 — d'onde segue che le due coniche 2 (8) ne Dea + A —1=0 iperb. d’asse reale £ x? i? (9) adige rl 0 L] b) DI) È nel piano coordinato £x, rappresentano ciascuna un luogo cui deve apparte- nere un punto O. Evidentemente nessun punto reale risponde al quesito. Se nella (5) introduciamo le condizioni y=@=0, un analogo ragio- namento ci porterà a concludere che nel piano coordinato #y troviamo, come luogo cui devono appartenere i punti O, ciascuna delle due coniche, Vi di 3 (10) Mie o 1-0 iperb. d’asse reale #, Yy? (E 3 (11) Oi tig ini gii) 0 ellisse. Queste hanno 4 punti reali in comune; dunque quattro punti rispondono al quesito. Introducendo, invece, nella (5) ie condizioni a =S=0, troviamo nel piano coordinato #7, come luogo cui devono appartenere i punti O, le due coniche 7 4° da (12)

u?), o schiac- ciata (42 < u?). Per 6=— u? si annullano tutti i minori del 2° ordine del determi- nante (16), eccetto quello formato dalle 1° e 4* orizzontali e dalle 1° e 4% verticali. Se dunque scriviamo la equazione | ue — 4° a (19) | LE n Mo: =0, avremo la relazione che deve correre fra @ e 4 perchè il prodotto ZZQ; sia un'omologia (ZZ e Q. si tocchino lungo una comune sezione). Le coordinate del punto O corrispondente di un 7 siffatto, sono, nel caso presente, — 697 — dunque, svolgendo la (19) col tener conto che 12 = a® + d?, si deduce che 0 appartiene al luogo rappresentato dall’equazione (u° — 4°) (u? — 2° — 0°) — 42x°= 0; ovvero alla conica (del piano #2): Voi 1* (20) e VPISSNE) + Win OE | che è un'iperbole se Q> è allungata, ed un’e/lisse se Qs è schiacciata. La iperbole (8) e la ellisse (11), la iperbole (10) e la ellisse (13), la iperbole (9) e la ellisse (12) sono ordinatamente nelle tre coppie di piani ta ,ty;ty,tz;tz,tx ortogonali due a due, focali luna dell'altra e focali alla sezione principale della quadrica centrale i cui assi sono in quei piani. Tali coniche, individualmente prese, sono ciascuna il luogo di un punto intorno al quale sono possibili infinite posizioni nelle quali le forze sono sostituibili con una coppia. L'ellissoide, o l’iperboloide (18), e la iperbole, o l’ellisse (20), stanno rispettivamente in uno spazio ed in un piano perpendicolari fra loro; l’asse maggiore dell’ellissoide, o reale dell’iperboloide, è l’asse reale dell’ iper- bole, o il maggiore dell’ellisse; i fuochi -dell’ellissoide, o iperboloide, sono sull’iperbole, o sull’ellisse, ed inversamente; la quadrica e la conica sono cioè come diremo, focali l'una dell'altra. La quadrica è luogo di un punto tale che tenendolo fermo si possono dare alle forze infinite posizioni in ciascuna delle quali le forze stesse sono sostituibili con una coppia; la conica è invece luogo di un punto intorno al quale sono possibili infinite posizioni di equilibrio. Riassumendo abbiamo, dunque, l’enunciato seguente : 1° Sono possibili co? posizioni d’equilibrio, nel caso generale, sol- tanto intorno a 4 punti del piano condotto per l’asse medio della quadrica centrale normalmente allo spazio che contiene tale quadrica; e nel caso în cui questa è di rotazione sono possibili co8 posizioni di equilibrio in- torno a ciascuno dei punti di una conica giacente nel piano normale a quello spazio condotto per l’asse di rotazione, conica che è ellisse, 0 iper bole, secondochè la quadrica è schiacciata, 0 allungata. 2° Esiste un luogo di punti tale che, fissando il corpo intorno ad uno di essi sono possibili per le forze co! posizioni, în ciascuna delle quali le forze stesse si lasciano ulteriormente equilibrare da una coppia; e questo luogo è composto: a) nel caso generale, da sei coniche appartenenti per coppie at tre piani normali allo spazio centrale, condotti rispettivamente per gli assi della quadrica centrale, delle quali quelle giacenti nel piano per l’asse maggiore sono iperboli, quelle nel piano per l’asse medio sono l'una iper- — 698 — bole l’altra ellisse, quelle nel piano per l’asse minore sono ellissi(*); e di- stribuibili altresì in coppie formate ciascuna di una ellisse e di un'iper- bole focali l'una dell’altra, e focali con una sezione principale della qua- drica centrale. B) nel caso in cui la quadrica centrale è di rotazione, da una qua- drica concentrica pure di rotazione che ha con quella in comune il piano equatoriale, che giace nello spazio condotto per questo piano normalmente allo spazio centrale, e che è un ellissoide, o un iperboloide, secondochè la quadrica centrale è schiacciata, 0 allungata. Restano a considerarsi il caso in cui la Q, è una sfera, nel qual caso tutte le posizioni intorno al centro sono posizioni di equilibrio, e quelli nei quali la Q. degenera. In questi ultimi casi le forze del sistema sono paral- lele ad uno stesso spazio senza essere parallele ad un medesimo piano, 0 sono parallele ad uno stesso piano senza essere parallele ad una medesima retta. Non è difficile modellare la loro trattazione su quanto venne prece- dentemente detto, nè è difficile, seguendo la via indicata, trattare il problema analogo in S, pern>4. Stretto legame esiste fra il presente lavoro ed i seguenti: 1° Del Re. — Sulle quattro rotazioni che sovrappongono un triedro trirettangolo sopra un triedro trirettangolo ete. Rend. Ace., Napoli, anno 1904. 2° Del Re. — Sulle focali di Minding. Rend. Acc. dei Lincei, 1905. 3° Del Re. — La Astatica e le sue rappresentazioni prospettiche. Rend. Acc. Napoli, 1906. Meccanica. — Sul moto di un corpo pesante intorno a un punto fisso. Nota del prof. R. MARcoLONGO, presentata dal Socio V. CERRUTI. Il sig. Stackel ha recentemente (*) richiamata l’attenzione dei matema- tici su di un notevole contributo arrecato nel 1903 dal matematico russo sig. P. A. Schiff, allo studio del moto del giroscopio pesante (*). Il signor Schiff ha considerato quei movimenti nei quali resta costante la grandezza del vettore momento dell'impulso e che possono essere studiati col sussidio (i) È superfluo avvertire che qui con le parole asse maggiore, medio, minore in- tendiamo riferirci rispettivamente agli assi pei quali 4° >? >». (*) Ausgezeichnete Bewegungen des schweren unsymmetrischen Kreisels. [Mathema- tische Ann. Bd. 65, pp. 538-555 (1908)]. (®) Sulle equazioni differenziali del movimento di un corpo pesante intorno a un punto fisso. [Raccolta matematica di Mosca, v. 24, pp. 169-177 (1903)]. — 699 — delle funzioni abeliane; ed ha, assai felicemente, sostituito alle equazioni euleriane, usualmente poste a base di ogni studio sul giroscopio, tre sole equazioni differenziali del primo ordine, assumendo come incognite da de- terminarsi: l’energia cinetica, la grandezza del vettore momento dell'impulso, e la componente di questo secondo la congiungente il punto fisso col centro di massa del corpo. Una sostituzione analoga era stata. da tempo, eseguita da W. Hess ('), ed ha condotto, com'è noto, alla scoperta di quel caso interessante di mo- vimento, detto appunto di Hess e studiato poscia così profondamente dal sig. Nekrassoff (*). Il sig. Stàckel ha sviluppate le ricerche dello Schiff servendosi, in parte, dei metodi del calcolo vettoriale e supponendo sempre riferito il corpo agli assi principali d'inerzia relativi al punto fisso. L' uso costante dei metodi vettoriali permette invece di sviluppare le ricerche dello Schiff e dello Stàckel, senza fare nessuna speciale ipotesi relativamente agli assi di riferimento, in modo assai più spedito e diretto, e inoltre permette ancora di trattare con grande semplicità alcuni casi particolari che si incontrano in queste ricerche. Ed è appunto ciò che vogliamo mostrare nella breve Nota seguente. 1. Diremo: O il punto fisso; G il centro di massa del corpo; Di il vettore momento dell'impulso relativo ad 0; T l'energia cinetica; £ il vet- tore della velocità istantanea di rotazione del corpo; k un vettore unità parallelo alla verticale del punto O, positiva verso l’alto (*). Ricordiamo inoltre che (1) 2INRYX OE e che l'incremento 4T d'energia cinetica può esprimersi in doppio modo così: @) dI = QX do — Do X dA. Se rappresentiamo con l’unità positiva il peso del corpo, l'equazione del mo- (1) Weber die Euler'schen Bewegungsgleichungen und diber eine neue particulàre Lòsung des Problems der Bewegung eines starren Kòrpers um cinen festen Punkt.[Ma- them. Ann., Bd. 37, pp. 153-181 (1890)]. (®) Recherches analytiques sur un cas de rotation d'un solide pesant autour d’un point fixe. [Mathem. Ann., Bd. 47, pp. 445-530 (1896)]. (®) Mi valgo delle notazioni del mio libro: Meccanica Razionale, vol. II, cap. V, Milano, Hoepli, 1905; per le notazioni del calcolo vettoriale mi valgo di quelle proposte dal prof. Burali-Forti e da me in varii articoli dei Rendiconti del Circolo matem. di Palermo, voll. XXIII e XXIV (1907); e voll. XXV e XXVI (1908). RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 90 — 700 — vimento assume la forma (teorema dell'impulso) ION (3) wr = lio Opereremo sulla (3) moltiplicando scalarmente per £ e tenendo presente la (2) e la (4) i QN(G—0); otterremo di ox(G—0)1K=—81(G-0)Xk=—{(G—0)xk|, e quindi (5) T=—(GT— 0)Xk+% che è l'integrale delle forze vive. Moltiplicando scalarmente per k la (3), si ottiene subito dl cioè (6) Do Xk=m= cost; la quale dice che è costante la proiezione verticale del vettore momento dell'impulso; od anche: la prima curva d'impulso è contenuta in un piano orizzontale. Successivamente troveremo 2 ( ox _ (G— 0) |M Xk= pl, D (CI ox 2 _ 0; e però d ( dG i © | (6-0) XI=(G- 0x8. Se dunque poniamo a=@G—0 , b=9D©6 , c=anb (9) 2U=90 =D, S=(G—0)X Do =aXb, le (5), (6), (7), (8) diventano rispettivamente: 10) aXk=%—-T SbXk=m,, Rn ( di dS (11) cxQ=7. — 701 — 2. Dal sistema (10) possiamo agevolmente ricavare k e si trova (com'è del resto facile verificare) dU (12) ride: anto k= a\bXe 3 purchè il denominatore, cioè (a \ b)?, sia diverso da zero. Escludiamo, per ora, questo caso. Quadrando la (12) ed osservando che si ha identicamente (') (b\c)}} = be? ; (ena)=c’a? ; (be) X(cla)=—aXb.e?, si trova subito: dU (13) ai =(G—0)(2U—m°)+2mS(h—T)—S—2U(f—T), la quale esprime cu q prim di durante il movimento. Sostituiamo il valore (12) nella di = (6-0) 19 XK: mediante T,U,S e grandezze che restano costanti ed osserviamo ancora che si ha identicamente : (G-0)1Xb10)=S9, XGE—0)1e|x(ena)=—(a—0p%; ((G_-0)N1Q{X(a\b)=2(G— 0) T_-LQX(GT_ 0).$; otterremo (19) 3(G_O}U—S7=|S0—M-mG—07% +326—0)T_2x(G—0).84; che è una relazione lineare ed omogenea fra le derivate prime di T,U,S. Il sistema delle (13), (14) e della (11), la quale ultima può scriversi È _(G—0)\90X8, è precisamente il sistema stabilito dal sig. Schiff, purchè si riesca ad espri- (') Basta ricordare che (a\b)X (e\d=(aXebxd—(axd)bxo). BET go 0 mere CX, (G— 0)X£ in funzione di T, U , $. E che questo sia in ge- nerale possibile, risulta dal fatto che, qualunque ipotesi si faccia sugli assì di riferimento connessi col corpo, T è una funzione quadratica ed omogenea a coefficionti costanti (momenti e prodotti d'inerzia) delle componenti di £ secondo gli assi stessi, e le componenti di Ol sono le derivate dell’energia cinetica rispetto alle componenti di 2. Le equazioni S=(G—0)X DO , 291=2X9 , ZU di cui la prima è lineare, le altre due quadratiche nelle componenti di 9, bastano allo scopo. Dopo tale preliminare ricerca, poichè nel sistema considerato # non figura esplicitamente, possiamo ricavare di dalla (13); allora il sistema si riduce ad uno di primo ordine rispetto a È e ii con coefficienti alge- brici; e però la determinazione di S e T mediante U dipende da una equa- zione differenziale ordinaria del 2° ordine con coefficienti algebrici; £# verrà poi determinato con una quadratura e la (12) ci darà la posizione di uno degli assi di riferimento rispetto alla verticale. A parte dunque la non lieve complicazione dei calcoli, si può dire che la determinazione del moto del giroscopio pesante dipende dalla integra- zione di una equazione differenziale del secondo ordine a coefficienti al- gebrici ; ed il metodo di Schiff dà, almeno teoricamente, il mezzo di for- mare una tale equazione. D'altra parte la riduzione accennata è conseguenza di un noto teorema della teoria delle equazioni canoniche del moto: cioè che se di un sistema hamiltoniano di ordine 2n si conoscono % integrali in involuzione, la în- tegrazione si potrà far dipendere da quella d: un sistema hamiltoniano di ordine 2(n—k) e da k quadrature. Nel caso del giroscopio pesante, n=3 , k=2;e quindi possiamo ridurci a un sistema hamiltoniano di 2° ordine, oppure ad una equazione differenziale del secondo ordine ('). Tro- vata, in forma esplicita, questa equazione, il problema del moto potrebbe studiarsi allo stesso modo con cui il sig. Nekrassoft, considerando un'equa- zione differenziale di 2° ordine a coefficienti uniformi doppiamente periodici, ha condotto quello del caso di Hess. 3. Il coefficiente di È nella (14) è precisamente (a \}b)?, che è stato supposto diverso da zero. Se supponiamo parimenti diverso da zero il coef- ficiente di si , sarà pure i una funzione lineare ed omogenea delle derivate (1) Questa osservazione era stata già fatta dal prof. Cerruti nel suo corso di Mec- canica Superiore del 1894-95. 08 — dt ds gna S,T,U sono costanti, è costante pure la terza. Di qui risulta subito chiaro che: se due delle tre quantità Il caso in cui, S e T essendo costanti, è nullo il coefficiente va du CGA considerato a parte. Sia adunque: 2(G— 0)?T — 2X(G—0).S=0, cioè QX(G—- 0) = cost; la (11) poi ci dà CXQ=0, quindi £ complanare con a e con b; potremo dunque porre Q= «No + £(G — 0), e da questa, successivamente, trarremo QX(GT— 0)==a8 + (G— 0) = cost. QX = «MN + 9= 29 = così. dunque «,£, e quindi Oo? = 2U, sono costanti; la proprietà sèguita a sus- sistere. È assai agevole investigare le proprietà del moto quando S,T,U siano costanti. Queste costanti non sono arbitrarie, dovendo verificare la (13) il cui primo membro è nullo. La grandezza del vettore momento dell'impulso è costante; dunque /a prima curva d’impulso è un cerchio contenuto inun piano orizzontale, col centro sulla verticale. La terza delle (10) ci dice inoltre che: la verticale, Mo e GT— 0 sono complanari; e la (5) che (G— 0) x K'= cost; cioè Za curva descritta dal centro di massa è un cerchio contenuto in un piano orizzontale e col centro sulla verticale; e la (3) mostra che tanto il primo che il secondo cerchio sono descritti dai rispettivi punti con moto uniforme; finalmente dalla (11), come precedentemente, si deduce chè £ e complanare con DN e con G— 0; e quindi l’erpoloide è un cerchio analogo ai precedenti. Si ha invece una serie assai importante di movimenti considerando il caso che solamente U sia costante; cioè il caso in cui Mo? = cost., e in cui sempre la prima curva d’impulso è un cerchio contenuto in un piano — 704 — orizzontale e col centro sulla verticale, e i vettori k, Do e G—0 sono complanari. La (18), il cui primo membro è nullo, permette di esprimere, risolvendo un'equazione di secondo grado, S mediante T e quantità note; tale espressione, come si vede subito, si fa per grandezze reali; mediante la (14) e (11) si esprimerà poscia £ mediante un integrale abeliano in T. Sarebbe anche facile vedere che 4 —T viene espresso mediante S ed U con grandezze reali. Resta finalmente da considerare il caso, finora escluso, in cui (a\b)}:=0. Dovrà essere (a\b)=0;e quindi: a=G--0=0; siamo nel caso del moto alla Poinsot: oppure b= 0, cioè Do =0 e per la (3) risulta (G— 0) \k=0, cioè G—0= ak; il centro di gravità sta sull'asse ver- ticale condotto pel punto fisso, e l'energia cinetica è nulla: il corpo sta in riposo. Finalmente può essere a = ah, cioè G_-0 = ad; il vettore momento dell’impulso ha la stessa direzione del vettore G — O. Ma la terza delle (10) ci dà i = 0, e quindi 2U = Mo? = cost; e però, come nel caso precedente, la prima curva d’impulso e quella del centro di massa sono cerchî contenuti in piani orizzontali e coi centri sulla verticale di O e descritti con moto uniforme: e le stesse conseguenze si traggono per l’asse istantaneo di rotazione e per la erpoloide. 4. Vogliamo da ultimo osservare che l’equazione (3), che compendia le leggi del moto, conduce a stabilire in generale alcune proprietà della prima curva d'impulso; cioè della curva piana descritta da un punto P tale che P_0=9%. Si ha infatti successivamente Pi—ia\i(G =/0)} P=-Kk\G=kN)L2\(G_-0)}=KX(G—0).£—KXQ.(G—0); cioè: la velocità con cui P descrive la prima curva d’ impulso è normale al piano dik e G—0 ed è proporzionale al seno dell'angolo che G — 0 forma con la verticale; l'accelerazione è complanare con Dig 0, Dalla (1) poi risulta che mod. ON si manterrà sempre inferiore, al più eguale ad una quantità finita; e, se C è il punto in cui il piano della curva taglia la verticale, lo stesso avverrà per mod. (P — C); dunque: la prima curva d’ impulso é tutta interna ad un cerchio di centro C e di raggio finito ed esterna ad un cerchio analogo, il cui raggio può anche essere nullo. — 105 — Se poi il punto P raggiunge in A uno dei cerchi, il mod. (A — C), e quindi quello di OT©6?, diventa massimo 0 minimo, dalla (7) si deduce che G—O0, © e k sono complanari e quindi: la curva d'impulso tocca i due cerchi limiti. Un'altra conseguenza semplice si può dedurre dalla (5). Considero la sfera di centro O su cui giace, durante il moto, il centro di massa G; e suppongo che le condizioni iniziali di moto diano al mod. % un valore minore del raggio della sfera suddetta. Descriviamo intorno alla verticale il cono dei raggi uscenti da O e che hanno per proiezione sulla verticale appunto il mod. #. Secondo che % è positivo o negativo tale cono sarà descritto intorno alla normale positiva o negativa. Ciò posto, dalla (5) si deduce subito che il cono descritto da G —O sarà sempre es/erzo al primo cono nel primo caso; interno al secondo nel secondo caso. Se poi durante il movimento accade che tale cono è sempre compreso tra due coni rotondi intorno alla verticale, negli istanti in cui G — 0 giace su uno di tali coni, l'energia cinetica diventa massima (minima); i tre vet- tori 2,G —0,k sono complanari ed è! cono descritto da G — 0 tocca è due coni limiti. Queste proprietà sono confermate nel caso del giroscopio simmetrico pe- sante in cui la curva d’impulso è una erpoloide; e una determinata proie- zione stereografica della cnrva del vertice è quella curva che ho studiato col nome di erpoloide generalizzata ('). Fisica. — Sul comportamento singolare di un rocchetto di kuhmkorff usato con un interruttore elettrolitico. Nota di Lavoro AMADUZZI, presentata dal Socio A. RIGHI. 1. Alcuni anni or sono (*) ebbi occasione di occuparmi del comporta- mento di un rocchetto di Ruhmkorff e di mettere în rilievo un fatto alquanto strano, consistente sostanzialmente in ciò, che colla diminuzione graduale della resistenza ohmica o della autoinduzione esistenti nel circuito primario del rocchetto, si raggiungeva un momento di pausa nel processo di scarica per scintilla fra gli estremi del secondario. Col progredire nella diminuzione, la scarica riappariva ben manifesta e ben nutrita. Il fatto fu da me rilevato dapprima coll’uso di una corrente continua, interrotta da un interruttore di Wehnelt, ma vidi poi come esso si rendesse ben manifesto anche alimentando il primario del rocchetto, nel quale era inserito un Wehnelt, colla corrente alternata stradale. E quelle poche osser- (*) Annali di Mat. s. III, t. VII, pp. 99-128 (1902). (?) Nuovo Cimento, serie 5%, vol. VIII, dicembre 1904 ; serie 5°, vol. X, agosto 1905. — 706 — vazioni che potei raccogliere le dovetti appunto all'uso di questo ultimo tipo di corrente per me di più comodo uso. La spiegazione della pausa osservata non poteva naturalmente essere facile, data la conoscenza oltremodo incerta del funzionamento del roc- chetto di Ruhmkorfî; tuttavia gettai innanzi vagamente l'ipotesi che nel funzionamento del rocchetto potesse intervenire una risonanza fra primario e secondario, per modo che venendo a mancare le buone condizioni per tale risonanza, la scarica dovesse cessare. La pausa avrebbe corrisposto a questo ultimo stato di cose. Altri aveva parlato di risonanza nella spiegazione del funzionamento del rocchetto di Ruhmkorff, ma aveva incontrato opposizioni da teorie ma- tematiche manifestamente poco soddisfacenti. Questo per il rocchetto dotato di condensatore. Le mie osservazioni riguardavano il rocchetto usato col- l'interruttore elettrolitico e senza condensatore, perciò a più forte ragione non trovai in tali teorie una seria opposizione all'idea della risonanza, che oggi credo di dover sostituire colle considerazioni che formano l'oggetto della presente Nota. 9. Prima però di esporre tali considerazioni, voglio far seguire ai risul- tati sperimentali, che già indicai nella Nota citata, un altro di recente ottenuto. Esso nulla aggiunge ai primi; solo li completa in quanto toglie un caso di apparente eccezione che dalle vecchie osservazioni era risultato. Dopo aver accertato il fenomeno di pausa nella scarica attraverso all'aria sotto l'ordinaria pressione, tentai di verificarlo in gas a bassa pressione valendomi di tubi a vuoto. Ma all'infuori di certi fatti descritti poi in un'altra Nota, nessun effetto di pausa riuscii a mettere in rilievo. Un più maturo esame della questione mi fece apparire opportuno di abbandonare la ricerca o di un vero e proprio effetto di pausa nella scarica attraverso il gas rarefatto, oppure di una variazione nell'aspetto della scarica come surrogato della pausa. Invece di adoperare un qualunque tubo a vuoto, mi parve conveniente usare un tubo di Roentgen, e misurare il potere scaricatore dei raggi X da questo emessi, in corrispondenza di diversi valori della resistenza inserita nel primario. Su questa via difatti raggiunsi un risultato soddisfacente, perchè, colla diminuzione graduale della resistenza primaria potei apprezzare un minimo di potere scaricatore. 3. Mi è parso che qualche conclusione utile alla desiderata spiegazione si potesse raggiungere facendo intervenire la nozione della capacità secon- daria del rocchetto insieme con dati sperimentali sull'infiuenza esercitata da variazioni di resistenza o di autoinduzione del primario sulla frequenza di interruzione del Wehnelt. Questi dati sperimentali si riducono sostanzial- mente ai seguenti, che desumo da un pregevole lavoro dell’Armagnat (O) (1) La bobine d'induction. Gauthier Villars. Paris, 1905. — 707 — Per una medesima superficie d’anodo, l’introduzione di una resistenza nel circuito diminuisce la frequenza, ma non cambia il valore della inten- sità massima I,, purchè la resistenza totale sia inferiore a 7. (1) L'introduzione di una autoinduzione nel circuito agisce presso a poco come l'aumento della resistenza; essa diminuisce la frequenza. Il tempo perduto fra una rottura di corrente e la chiusura seguente è tanto corto, che la corrente secondaria quando scocca la scintilla facilita lo stabilirsi della corrente primaria. Senza scintilla al secondario la intensità della corrente cresce in proporzione del tempo quasi uniformemente; con scintille bianche, vale a dire con una intensità secondaria abbastanza debole, la corrente primaria aumenta dapprima abbastanza rapidamente, poi più len- tamente; infine, se le scintille sono caldissime, o se il secondario è chiuso in corto circuito, la corrente primaria si stabilisce così rapidamente che l’in- tensità massima è raggiunta rapidissimamente e la frequenza delle interruzioni aumenta. Altro date del quale conviene tener conto è quello di un aumento del potenziale secondario coll’aumento della frequenza della interruzione. Tale aumento, come è noto, venne messo in rilievo da varî sperimentatori (2). Sul conto della capacità secondaria, come si sa, regna molta incertezza non soltanto per il modo di valutarla, ma anche per il modo di considerarla. Gli uni trascurano la distribuzione di questa capacità lungo il filo secon- dario e la suppongono riunita ai due estremi; altri la considerano ripartita come è in una maniera più o meno regolare in tutto il circuito, facendo opportunamente distinzione fra i due tipi più comuni di avvolgimento, quello per strati e quello per sezioni; altri infine si curano soltanto della capacità fra primario e secondario, senza curarsi della capacità propria dell’avvolgi- mento. Considerarla in modo completo, tenendo conto simultaneamente di tutti gli elementi che la costituiscono, non sembra nel momento presente possibile. Senza disconoscere l'opportunità di considerare quella parte dovuta alla influenza reciproca dei varî strati, date le condizioni difficili del pro- blema e dato il valore certamente piccolo di tale parte, ci si può limitare a tener conto di quella proveniente dai potenziali positivo e negativo agli estremi del secondario, per opposizione col potenziale zero del filo primario. Così fa lord Rayleigh e giunge col calcolo alla conclusione che essa abbia un valore non trascurabile, per quanto assai piccolo (in un rocchetto lungo 13 cm., sarebbe, valutata in unità elettrostatiche, dell'ordine del centimetro) Oberbeck (*) per un rocchetto medio valuterebbe la capacità secondaria in (*) Trowbridge, Phil. Mag.,, 1902; E. Bloch, Ann. de Chim. et de Phys., serie 72, T. XXIV, pag. 206, 1902; Beattie, Phil. Mag., t. L, pag. 139, 1900. (*) Wied., Ann., t. LXII, 1897, pag. 109, e t. LXIV, 1898, pag. 193. RenDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 91 — 708 — 450.10 microfaraday, vale a dire le assegnerebbe un valore dell'ordine della capacità di una piccola bottiglia di Leida. Walter (*) invece l'avrebbe misurata in 1,1.10-9 microfaraday. Comunque, lord Rayleigh, nell’ipotesi di una interruzione assolutamente brusca, trova che il limite della differenza di potenziale massimo V agli estremi del secondario dipende quasi esclusivamente dalla capacità secon- daria g, variando V in proporzione diretta con gi. È un caso teorico questo che non risulterà verificato mai, ma che sì avvicinerà tanto più ad esserlo quanto più brusche sieno le interruzioni nel primario. Tenuto conto di questo, è chiaro che quanto più grande sarà la fre- quenza di interruzione, tanto più piccolo diverrà il periodo di variazione della corrente nella interruzione, perciò l’influenza della capacità del secondario prepondererà tanto più quanto più numerose saranno le interruzioni nell'unità di tempo. Ciò premesso, e adottando l'ipotesi che l'influenza della frequenza, pur aumentando di più in più, finisca col divenire insensibile, ecco come spie- gherei il fenomeno di pausa da me constatato nella scarica del rocchetto. Si parte da un valore della resistenza, per cui non funziona il Wehnelt e fra gli estremi del secondario non si ha scintilla. Diminuendo la resì- stenza comincia a funzionare l'interruttore e finalmente si hanno scintille fra gli estremi del secondario. Diminuendo ancora gradatamente la resistenza, si aumenta la frequenza delle interruzioni del Wehnelt; questo aumento da un lato porta ad un aumento del potenziale secondario, ma dall'altro rende di più in più sentita l'influenza della capacità secondaria, che tende invece a diminuire il potenziale secondario. Potrà accadere che arrivi il momento in cui questa ultima influenza soverchi la prima, e il risultato finale sia quello di una tale diminuzione di potenziale per cui scompaiano le scintille. Ma poichè l’accentuarsi dell'effetto di capacità al crescere della fre- quenza ha un limite, accadrà che con un'ulteriore graduale diminuzione di resistenza possa riprendere il sopravvento l'aumento di potenziale per au- mento di frequenza nel processo di interruzione. Arriverà quindi il momento in cui riappariranno le scintille e queste diverranno di più in più nutrite colla diminuzione sempre crescente della resistenza. Se invece di considerare la variazione della resistenza, si considera la variazione dell’autoinduzione, poichè anche la diminuzione dell’autoinduzione porta ad un aumento della frequenza di interruzione nel primario, sì può ripetere un ragionamento analogo al precedente per dare ragione del fenomeno di pausa. Fra le osservazioni raccolte nella Nota citata, si ha anche la seguente, riguardante una distanza esplosiva relativamente piccola: col diminuire gra- (®) Wied., Ann., t. LXII, 1897, pag. 300, e t. LXIV, 1898, pag. 623. — 709 — duale della resistenza primaria, si passa dalla scarica a scintille bianche successivamente alla pausa, a scariche rosse, a scintille bianche, a scariche rosse intensissime. Ebbene, coi fatti sperimentali ricordati, e colle idee più sopra indicate, ci si rende abbastanza bene conto anche di queste successive modalità, in modo che ometto di riferire per amore di brevità. Nelle linee generali pare che anche nel caso dell'uso di una corrente alternata, possano valere i ragionamenti che qui ho fatto per il caso della corrente continua ed ai quali tuttavia non intendo di annettere grande valore. Fisica -— Sulla dispersione per evaporazione nei liquidi elet- trizzati (1). Nota del dott. A. GALLAROTTI, presentata dal Corrisp. A. BATTELLI. 1. Per ispiegare le forze elettriche che han sede nell'atmosfera, sono state proposte parecchie teorie, delle quali un gruppo parte dall'ipotesi che la ca- rica totale distribuita sulla superficie della terra non sia nulla. Dalla dire- zione delle linee di forza del campo elettrico terrestre risulterebbe allora che essa è negativa. Son Per rendersi ragione del modo di variare del potenziale nel campo bi- sogna, in questa ipotesi, ammettere che una parte della carica terrestre passi nell'aria, ed Exner suppone che ciò avvenga per effetto dell’evaporazione delle acque. Parecchie esperienze (*) furono fatte per stabilire se effettivamente i va- pori che si sollevano da un liquido carico trasportino elettricità. Una prova indiretta affermativa si credette trovarla nel fenomeno Ma- scart, nel fatto, cioè, che un liquido evapora più rapidamente quando pos- siede una carica elettrica: ma in questo caso il fenomeno è complicato dal- l'influenza della carica sulla tensione superficiale: quindi una risposta decisiva alla questione si può avere solo da esperienze dirette, misurando cioè la dif: ferenza tra la dispersione di un recipiente metallico isolato quando è vuoto e quando contiene un liquido. I risultati ottenuti dai varî sperimentatori non concordano fra loro. (*) Lavoro eseguito nell’Istituto di Fisica della R. Università di Pisa, diretto dal prof. A. Battelli. (°) Peltier, Ann. de Ch. e Ph. (2), 36, 1836; (3), 4, 885, 1842; Exner, Wien Sitz Ber., 93, 222, 1886; Black, Journ. de Phys. (2), 2, 476, 1883; Lecher, Wien Ber., 97, 103, 1888; Schwalbe, W. Ann., 58, 500, 1896; Ann. der Phys. /, 294, 1900; Pellat, Journ. de Phys. (3), 8, 253, 1899; Henderson, Phil. Mag., 50, 489, 1900; Beggeron, Ann. der Phys., 7, 494, 1902. — 710 — Solo Exner e Pellat trovarono che un liquido elettrizzato perde parte della sua carica per l’evaporazione; Lecher ottenne il medesimo risultato uni- camente per altissimi potenziali, quando cioè ha luogo la polverizzazione del liquido. Se però si considerano in particolar modo le accuratissime ricerche di Henderson e di Beggerow, sembra si debba senz'altro arrivare a conclu- sioni opposte a quelle di Exner e di Pellat, e si debba perciò rigettare, come priva di base sperimentale, la teoria di Exner. Come ben osserva il Beggerow, le condizioni d'esperienza cui si deve soddisfare per avere risultati attendibili sono le seguenti: via CIMA mes i a) rendere le esperienze il più che sia possibile indipendenti dalle condizioni dell'ambiente, e in particolar modo dallo stato igrometrico del- l'aria, che influisce notevolmente sull'isolamento; 3) prolungare per quanto si può la durata di ogni esperienza; c) render minima la capacità dell'apparecchio di misura di fronte a quella del recipiente contenente il liquido. A queste condizioni, ma solo in parte, soddisfano le ricerche dell’Hen- derson e del Beggerow stesso, e, benchè in minor grado, quelle del Pellat. 2. Perciò ritenni non inopportuno riprendere la ricerca con un metodo che soddisfacesse interamente alle tre condizioni sopra enunciate. Cominciai intanto coll’eliminare l'elettrometro a quadranti usato da quasi tutti gli altri sperimentatori, come avente una capacità eccessiva, ed adottai in sua vece un elettroscopio a foglia d'oro. Esso era chiuso (v. fig. 1) in una cassa metallica A, in comunica- zione col suolo, e si poteva caricare dall'esterno senza aprire la cassa. — 711. — All’elettroscopio era unita un'asta metallica che, attraverso un cilindro d'ebanite, lungo 20 cm. e avvitato verso la sua metà al coperchio di A, penetrava in una seconda cassa metallica B, sovrapposta alla prima, si pie- gava due volte ad angolo retto, e al suo estremo portava una scatola S, di cm. 4'/, di diametro e di 1 cm. di profondità. Un tubo metallico T univa le due casse A e B e proteggeva nello stesso tempo l’ebanite nel suo pas- saggio dall'una all'altra. Di fianco alla scatola S, ne era collocata un'altra Ss, ad essa identica, sorretta da un'asta saldata alla parete della cassa B; e quindi in comunicazione col suolo. Alla parte inferiore del tubo T, e ad un lato della cassa B, in posi- zione simmetrica rispetto alle scatole S,, S» e sopra esse, eran saldati due tubi 4, e £,, di cui uno comunicava con una conduttura d’aria compressa, e l’altro coll’esterno (v. figg. 1 e 2). Frs. 2. Una corrente continua d’aria ben secca poteva così circolare nella cassa B; essa avvolgeva il cilindro d’ebanite, passava sopra le scatole S; e S., e usciva dal tubo #,, e, siccome la cassa A non comunicava colla cassa B, questa corrente non faceva in alcun modo oscillare la foglia dell’elettroscopio. Si otteneva così un triplice scopo: evitare la condensazione del vapore sull’ebanite e assicurare quindi un buon isolamento, necessario per soddisfare alla condizione 5); accelerare notevolmente l’evaporazione del liquido in $,, e quindi aumentare l'eventuale causa di dispersione, e infine mantenere l’ap- parecchio in condizioni sempre identiche e affatto indipendenti da quelle del- l'ambiente. L'aria proveniva da un serbatoio di circa m.* 2 di capacità, dove era compressa a 50 atmosfere, dopo esser passata attraverso un essiccatore e un purificatore per aria liquida. Essa era perciò ben secca e priva di polvere. Ad ogni modo, l'aria, prima di entrare nella cassa B, era fatta gorgogliare attraverso l'acido solforico, e quindi, per privarla dei ioni eventualmente in essa esistenti, era filtrata attraverso un tubo ripieno di cotone. Parimenti prima di uscire all'esterno, passava dal tubo 7, ancora attra- verso il cotone e l'acido solforico. Si evitava in tal modo che, durante gli in- tervalli nei quali la corrente non circolava, entrasse nella cassa B aria ioniz= zata o non secca. — 712 - Il coperchio della cassa B era stato ad essa masticiato in maniera da avere perfetta tenuta: in esso, sopra ciascuna delle scatole S, e Ss eran pra- ticati due fori di 1 mm. che potevano esser chiusi ermeticamente mediante due viti. Si poteva così metter l’acqua nelle scatole S, e Ss, mediante un contagocce a tubo molto affilato, e, per la ristrettezza dei fori, si poteva ritenere che in quest'operazione l’aria esterna non penetrasse nella cassa B. L'isolamento era tale che, caricando l'apparecchio a 140 Volta (il che corrispondeva a una deviazione della foglia d'oro di 45°), esso impiegava circa 40 ore a scaricarsi interamente. La foglia d’oro era osservata con un viseur munito di reticolo e di mi- crometro oculare con 50 divisioni di ‘/,, di mm. L'ingrandimento dell'oculare era circa 8. Potevo perciò apprezzare il passaggio della foglia per l'intersezione delle divisioni del micrometro col filo orizzontale del reticolo a meno di !/,, di divisione. Un manometro a glicerina, in derivazione sulla presa dell'aria com- pressa, mi permetteva di giudicare se la pressione e quindi la velocità della corrente d’aria e l'evaporazione del liquido, restavan costanti. * ANDAMENTO DELLE ESPERIENZE. 3. Cominciai a studiare il fenomeno nel caso dell’acqua, che poi è il caso più importante per l’applicazione alla teoria di Exner. In una serie di esperienze preliminari misurai la dispersione 1°) senza corrente d'aria e senz'acqua in Si e Se; 2°) con corrente d'aria e senz'acqua in S, e in S»; 3°) con corrente d'aria e con acqua in S, (scatola a terra). Potei così eonstatare 1°) che gli errori di osservazione eran minori del 3 °/5; 2°) che la dispersione non variava per effetto della corrente d’aria, e perciò l’aria adoperata era asciutta e priva di ioni; 3°) che la presenza di un liquido dentro la cassa B non influiva sul- l'isolamento, purchè la velocità della corrente fosse superiore a un certo limite, corrispondente a una pressione nel manometro a glicerina di 20 cm. La pressione perciò fu mantenuta in seguito sempre superiore a questo valore. I valore della dispersione si otteneva misurando il tempo necessario a che la foglia dell'elettroscopio passasse dalla divisione 0 del micrometro, cor- rispondente a un potenziale di 140 Volta, alla divisione 42, corrispondente a un potenziale di 65 Volta. Questo tempo era di circa 24 ore, e poteva essere sempre apprezzato con un errore non superiore ai 5 minuti. - Allo stesso modo, mantenendo sempre costante la velocità della cor- rente d'aria, si misurava la dispersione alternativamente con e senz'acqua — 713 — nella scatola isolata S,: e, per esser sicuro che lo stato igrometrico del- l’aria contenuta nella cassa B fosse sempre lo stesso, quando nella scatola S, non c'era acqua, c'era in Ss, e inversamente. Questa precauzione non era veramente necessaria, poichè, come ho detto, esperienze precedenti mi ave- vano permesso di eliminare ogni influenza che la presenza di vapore nella cassa B potesse avere sulla dispersione. L'elettroscopio era caricato con una pila a secco a un potenziale un po' superiore ai 140 Volta, in modo che fra l'istante della carica e la prima lettura passasse almeno mezz'ora: e ciò sia per evitare gli errori provenienti dalla penetrazione di carica nell’isolante, sia per dar tempo di ricombinarsi ai ioni che eventualmente fossero penetrati in B, mentre mettevo l’acqua nelle scatole. Che questa precauzione fosse necessaria mi risultò dal fatto che appunto nella prima mezz'ora avevo una dispersione leggermente superiore alla normale. La quantità d'acqua che mettevo in S, era di circa 10 cm.5, di cui in 24 ore evaporavano i due terzi. Dopo una serie di due o tre misure con acqua in Si, toglievo col con- tagocce l’acqua rimasta; lasciavo passare circa 6 ore perchè S, sì asciugasse completamente; mettevo l’acqua in S, e facevo due o tre misure nelle nuove condizioni. La corrente d’aria non veniva mai interrotta. I risultati ottenuti sono dati dalla seguente tabella: Con acqua | Senz'acqua ini Sh dins, 335/10 34 83" 7/10 847/10 347/10 34/10 Tempo impiegato in 34 344/10 media dalla foglia 342/10 848/10 a percorrere una di- 347/10 34 visione del micro- ® 7 metro de de 6 844/10 88° 5/10 844/10 33° 9/10 34 ?/10 35/10 Media si Lie GSS] te 94’ 1/10 34 3/10 CONCLUSIONI. o. Dai numeri sopra riportati risulta che, entro i limiti degli errori di osservazione, l’evaporazione, almeno nel caso dell’acqua, non influisce sulla dispersione. — 714 — Coll’etere solforico ottenni lo stesso risvltato; però, a causa dell'evapo- razione più rapida, dovetti ridurre di molto la durata di ogni esperienza, a scapito della precisione delle misure. Gli errori di osservazione essendo inferiori al 3 °/,, potevo apprezzare differenze di dispersione corrispondenti a una differenza nel tempo di scarica dio X 24 X 60 = 42’ su 24 ore, cioè a un abbassamento di potenziale i iena X n = 2,2 Volta. La capacità dell'apparecchio era di 30 cm.: una diminuzione nel potenziale di 2,2 Volta corrispondeva perciò alla perdita in 24 ore di una carica d a=ix22 Ue sist e quindi alla perdita in 1 secondo e per cm.* di superficie liquida di una carica 2,2 1 1T7310X 60 X 60 X 24 X 77 X 2,25? < 5000000 cioè minore di i) = DIV GRISO Henderson, le cui esperienze erano le più precise in proposito, poteva col suo metodo apprezzare differenze di dispersione corrispondenti alla mag- giore perdita di una carica dj = IO VRIRO Data quindi la sensibilità del metodo e i risultati ottenuti, è lecito conchiudere che non si può accettare la teoria di Exner per spiegare la di- stribuzione del potenziale nell'atmosfera. Fisica. — // fenomeno di Zeeman e il secondo principio della termodinamica('). Nota di MARIO TENANI, presentata dal Cor- rispondente BATTELLI. In una recente pubblicazione il prof. M. O. Corbino (*) ha fatto notare come due sorgenti identiche, emettenti uno spettro a righe che presenti il fenomeno di Zeeman, poste in campi magnetici uguali ad angolo retto, si scambino quantità diverse di calore, ciò che è in contradizione col se- condo prinicipio della termodinamica: egli ne ha tratto come conclusione che i vapori che presentano il fenomeno di Zeeman non possono emettere per semplice temperatura. A fondamento della disposizione indicata è ammesso () Dall’Istituto di Fisica dell’ Università di Pisa, diretto dal prof. A. Battelli. (2) M. O. Corbino. Questi Rendiconti, 17, pagg. 593-597, 1908. — 715 — che le vibrazioni circolari inverse, che si propagano longitudinalmente al campo, abbiano periodi di tanto differenti da quello della vibrazione emessa in assenza del campo magnetico, di quanto ne differiscono i periodi delle vibrazioni emesse in senso equatoriale e polarizzate perpendicolarmente al campo. È questo il risultato cui conduce la teoria elementare di Lorentz, la quale considera la vibrazione d'un elettrone isolato, nel campo magnetico. Ma la disposizione indicata richiede di considerare non un siffatto sistema, ma bensì un corpo di dimensioni sufficienti da intercettare realmente tutte le radiazioni che esso essorbe; e in tal caso si deve modificare il ragiona- mento in modo da tener conto dell'influenza reciproca che gli elettroni eserci- tano. Non è da meravigliarsi quindi se, così facendo, si giunge a un risultato diverso da quello che la teoria elementare lascia prevedere. È infatti interessante notare (se non si vuol escludere senz'altro l’ap- plicabilità al nostro caso del secondo principio) che la teoria magnetoottica del Voigt ('), la quale tali relazioni reciproche prende in considerazione, conduce alle seguenti formule: per le onde =, polarizzate circolarmente in senso inverso che si propagano longitudinalmente, l'indice di refra- zione n e îl coefficiente di assorbimento na, in vicinanza della frequenza vo, son dati dalla formula i 2 SP dress: © “— deb (1) n.(1—- 1) =n—- o) IL dove u determina la differenza tra la frequenza nel punto osservato dalla frequenza vo, n, contiene l'influenza degli elettroni che non prendono parte all’assorbimento della riga vo,0 e »' sono costanti appartenenti alla riga in discorso e w, è una quantità proporzionale al campo magnetico R. Il massimo di #x che, come è noto, determina il posto « occupato dalle due righe del doublet, si ha per u= wo. Per le onde s polarizzate linearmente perpendicolarmente al campo, si ha invece la formula [ posto nx = n1(1 — dx2)] TRAINO 1 a) atslato) Se si fanno in tale formula le opportune sostituzioni si ottiene, come precedentemente, che le righe polarizzate perpendicolarmente al campo hanno (nella scala delle frequenze) una distanza dalla riga primitiva diversa da quella delle righe del doublet longitudinale: e solo per R= co si ha a rigore la coincidenza delle righe. Le formule precedenti eliminano intanto, nella disposizione indicata dal prof. Corbino, la contradizione nel caso di linee infinitamente sottili; ma (!) W. Voigt, Magneto und elektro-optik. Leipzig-Teubner 1908, pag. 170. ReNDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 92 — 716 — esse ci dicono di più che l'intensità delle componenti del doublet longitudinale è diversa da quella delle componenti trasversali perpendicolari al campo: sicchè, anche se le righe hanno una certa larghezza, rimane àdito a un com- penso tra le intensità delle righe che ristabilisca l'equilibrio voluto dalla seconda legge della termodinamica. Queste considerazioni inducono quindi a pensare, che le cose si presen- tino nella realtà molto diverse da quanto è necessario ammettere, perchè sussista, nella disposizione sopra indicata, una contraddizione col secondo principio della termodinamica (!). Aggiunta. — Le considerazioni precedenti, se bastano ad eliminare la contradizione nella disposizione indicata dal prof. Corbino, non dimostrano l’impossibilità di ristabilirla modificando la disposizione: non è escluso infatti che, con l’opportuna scelta di uno dei campi, non si possa condurre una delle righe, ad esempio del doublet longitudinale, ad avere la stessa frequenza di una delle righe laterali del triplet; e inoltre assai poco fino ad ora è a nostra conoscenza sulle costanti della teoria, per poter valutare l'ordine di grandezza del fenomeno sopra invocato. Per ciò a buon punto giunse, durante la stampa della Nota presente, una pubblicazione del prof. Laue (*), nelia quale egli trova una condizione cui devono soddisfare le intensità specifiche delle varie componenti perchè l'equi- librio non venga a mancare, e dimostra, in base alla teoria della radiazione, che l'intensità delle componenti del triplet normale, essendo diverse da quelle ammesse dal prof. Corbino, sono appunto tali da soddisfare la condizione trovata e da ristabilire l'equilibrio voluto dalla seconda legge della termo- dinamica. Le ragioni addotte nella mia precedente Nota possono tuttavia invocarsi per eliminare il dubbio che l'equilibrio possa essere così ristabilito anche in quei casi in cui, pur avendosi completa separazione del triplet, si hanno le ben note asimmetrie di intensità. Se non si vuol infatti ritenere senz'altro che le asimmetrie di intensità del triplet, così frequentemente osservate, siano da attribuirsi a casi anomali di fenomeno di Zeeman, pei quali natu- ralmente le formule sopra citate perdono il loro valore, si può qui notare come queste non si debbano considerare come casi pei quali le condizioni del Laue non siano soddisfatte: poichè il calcolo della formula (2), in una approssimazione uguale a quella tenuta nella (1), ci conduce bensì ad am- mettere che il coefficiente di assorbimento nx sia in tal caso diverso da quello ammesso dal Laue: ma esso ci dice di più che in tal caso deve farsi sen- tire l’effetto della asimmetria di posizione, che può compensare l’effetto della diversa intensità delle righe. Ma, data la nostra dubbia conoscenza dei para- (1) Nota presentata all'Accademia il giorno 6 settembre 1908. (*) Phys. Zeitsch. 9, 617-620, 1 ottobre 1908. — 717 — metri della teoria, a me pare molto difficile il poter entrare per ora in più minuti dettagli nella discussione delle formule che la teoria ci fornisce. Qualche luce su tali parametri può gettare il confronto sperimentale tra la separazione delle linee del doublet longitudinale e quella delle linee la- terali del triplet. Il metodo da seguirsi in talì confronti, che spero di poter compiere coi mezzi dell'Istituto Fisico di questa Università, è imitato da quello usato dal prof. Corbino in una ricerca ultimamente pubblicata (’) sull’intensità della luce emessa nei varî azimut da una fiamma di sodio soggetta al campo magnetico, ricerca tendente a verificare sperimentalmente le conclusioni del Laue (*). Esso consiste nel far arrivare sulla fenditura di uu reticolo la luce emessa nelle direzioni longitudinale e trasversale, per mezzo di opportune riflessioni. Un nicol posto sul percorso della luce trasversale permette (*) di estinguere la componente mediana del triplet e di lavorare quindi anche con campi che non permetterebbero la completa separazione del triplet. Con tale mezzo ottenni già qualche fotografia utilizzabile allo scopo: ma la natura estremamente delicata di tali ricerche, richiede uno studio sufficientemente accurato che spero di poter continuare tra breve. Chimica. — Su politoduri (').. Nota di F. OLIVARI, presen- tata dal Socio G. CIAMICIAN. I Un gruppo assai esteso di ricerche sui poliioduri riguarda la loro esistenza allo stato solido: Johnson (*) per il primo tentò di isolare i composti KI; e NH,Jz svaporando in presenza di ac. solforico le soluzioni concentrate del- l’ioduro sature di iodio; in seguito Wells e Wheeler (°) descrissero RbI, CsI, e CsI;. I. Meyer (*) ottenne alcuni poliioduri dei metalli alcalino-terrosi per fusione dei miscugli dei componenti in rapporti molecolari: così preparò pes. il Cal,, massa cristallina deliquescente fusibile fra 70° e 80°, che anche a 100° non sviluppa vapori di iodio. Sono riferiti nei testi anche gli io- (') Phys. Zeitsch. 9, 669-671, 15 ottobre 1908. (3) Come è noto, le righe del Sodio si risolvono nel campo magnetico in modo molto complicato, e le verifiche valgono quindi finchè si ammette che le stesse leggi valgano pei triplets e per le separazioni più complicate. (5) W. Voigt, Drudes Ann. 1, pag. 380, 1900. (4) Lavoro eseguito nel Laboratorio di Chimica Generale della R. Università di Parma, diretto da G. Plancher. (5) Jour. Chem. Soc., 33, pag. 397; Chem., N. 34, pag. 222. (6) Z. anorg. Chem., 1, pp. 85-442; 2, pag. 220. (7) Z. anorg. Chem., 30, pag. 113. — 718 — duri Cal; +-15 acq. e Srl: +15 acq., di cui Mosnier (*) ammise l’esistenza senza farne l’analisi. Si conoscono i poliioduri di alcuni metalli pesanti: HgI, (?), HgI; (?) e AgI; (‘) ottenuti con reazioni secondarie. Moltissimi poliioduri di composti organici azotati (ammonî, aniline, alcaloidi, azocomposti, imidi, ecc.) e dei derivati di iodonio, furono preparati allo stato solido, in generale per cri- stallizazione dalle soluzioni dei componenti, da Weltzien (5), Muller (°), Dafert (7), Jorgensen (*), Geuther (°), Hantzsch (!°), Piutti (!), Willge- rodt (*?) e Stròmholm ('). Quest'ultimo autore propose inoltre un metodo di ricerca che venne utilmente applicato da Abegg e Hamburger (*4) allo studio dei limiti di esistenza e della stabilità a 25° dei poliioduri solidi dei me- talli alcalini. Si agita l’ioduro semplice con una soluzione di iodio in un solvente (benzolo) in cui praticamente siano insolubili l’ioduro semplice stesso e i poliioduri; quando l'equilibrio è raggiunto, parte dell’ioduro è trasformato in poliioduro, e la concentrazione dello iodio nel liquido (tensione di iodio) è diminuita. Il sistema Poliioduro = monoioduro +- iodio è comparabile ad una dissociazione eterogenea: è costituito da due compo- nenti (MI, I) e di tre fasi, due solide ed una gassosa se si considera l'iodio come gassificato nel volume costante del solvente. La monovarianza del si- stema richiede quindi che, fissata la temperatura, la tensione di iodio ri- manga costante qualunque sia l'eccesso di iodio introdotto, purchè siano presenti le due fasi solide: l’aggiunta di iodio non produrrà che una tra- sformazione del mono in poliioduro. Quando tutto l’ioduro è scomparso, il sistema diventa bivariante, e anche a temp. cost. sarà possibile aumentare la conc. dell'iodio sino a che non compaia un poliioduro superiore come fase (‘) Ann. Chim. Phys., 12, pag. 374. (©) Hunt. Journ. prakt. Chem., 14, pag. 120. (®) Jorgensen, Journ. prakt. Chem., 2, pag. 347. (4) Schmidt, Z. anorg. Chem., 9, pag. 418. (5) Lieb. Ann., 108, pag. 1. (9) Lieb. Ann., 108, pag. 5. (7) Monatsh., 4, pag. 496. (8) Journ. prakt. Chem., 2-3-14-15. (*) Journ. prakt. Chem., 240, pag. 63. ('°) Ber. d. deut. Chem. Gesell., 28, pag. 2754. (1) Gazz. Chim. Ital., 25, pag. 518. (2) Ber. d. deut. Chem. Gesell., 40, pag. 4066. (3) Journ. prakt. Chem., 67, pag. 345; Z. f. physik. Chem., 44, pag. 721. (14) Z. anorg. Chem., 50, pag. 403. — 719 — . solida. L'analisi delle fasi solide uniche esistenti fra variabili tensioni di iodio, dà la composizione dei poliioduri. Ecco i risultati ottenuti da Abegg e Hamburger: il Li efil Na non dànno poliioduri solidi a 25°, perchè la loro tensione di iodio è più grande di quella dell’iodio stesso; del K si forma solo KI, e dell'’ammonio NH,I;; il Rb e il Cs invece dànno varî poliioduri dal tipo MI; a quello MI, che, come è noto, è il tipo limite massimo. Ordinando i cationi secondo la ten- ' 140 130 120 i 110 TS i 100 90 80 70 0 10 20 5) 40 50 60. grmol. MJ 0/0 Fre. 1. denza alla formazione di poliioduri, si ottiene la serie: Cs, Rb :NH,, K, ne in cui gli elementi sono nell'ordine del sistema periodico. HE Io ho descritto le curve dei punti di fusione dei miscugli iodio-ioduro, le quali servono a decidere con esattezza sull'esistenza di poliioduri solidi e sulla loro stabilità colla temperatura. Le misure furono eseguite in una co- mune provetta crioscopica con tutulatura laterale e in corrente di aria secca. — 720 — L’ispezione delle figure 1° e 2* dimostra che si ottengono tre tipi di curve: 1°) Curve crioidratiche. Si riferiscono ad ioduri inorganici il cui catione è poco elettropositivo: p. es. all'ioduro HgI, (curva I). In questo caso alla temperatura di fusione non esistono poliioduri. Ù, 2°) Curve del tipo descritto da Kremann (*). Appartengono ad ioduri inorganici alcalini ed alcalino-terrosi, come gli ioduri KI (curva II) e Cal, (curva III): i poliioduri che si formano sono in grado rilevante dissociati. 3°) Curve a punti di massimo. Si ottengono cogli ioduri ammonici orga- nici, come (CH3), NI (curva IV) e C;H;(CH:); NI (curva V); i poliioduri relativi sono stabili al punto di fusione e si presentano successivamente da MI, ad MI,, vale a dire dalla forma minima alla forma limite. (1) Monatsch., 25, pag. 1215. — 7221 — Nelle tabelle seguenti riporto i dati che si riferiscono agli esempî ad- dotti e coi quali si sono descritte le curve. Sistema: IH4- Hg Is Sistema: I+ KI (1) Sistema: I+ Ca L grmol. T grmol. T grmol. T di HgIs di KI °/ di Ca Is °/ o [e] (0) 0 112 0 112 0 112 3.9 109.1 (59) 99 4.8 107.8 12.6 97 15.01 82.6 9.9 104 19.4 84 20.2 72.3 16.8 107 (101.4) 25 81.3 23.04 79.4 32.4 82.2 24.93 74.7 ci 35 22 27.34 74.85 392.5 134.5(101.4) 45.7 81.9 30.84 74.8 50 82 43.4 74.5 58 83.2 54.91 77.2 Le miscele di iodio e ioduro mercuriéo hanno il punto crioidratico a 101.4; le temperature di congelamento sul ramo della curva che va al punto di fusione del HgI, (250° circa) si determinano con qualche difficoltà, mentre sono ben netti i punti eutectici (numeri fra parentesi). È da notarsi che Timmermans (?), determinando il peso molecolare del Hg, in iodio, trovò valori superiori ai teorici, dovuti secondo l’autore a una parziale polimeriz- zazione del sale disciolto, o alla formazione di poliioduri. Quest'ultima ipotesi, a parte il risultato negativo delle mie misure, non è accettabile a priori: basta riflettere che una combinazione fra sostanza e solvente come quella invocata HgI,.nI, mentre lascia invariato il numero di molecole del soluto, fa diminuire le molecole del solvente e aumenta così la concentrazione. Ne risulta un abbassamento maggiore, e quindi un peso molecolare minore. Le esperienze con Cal» mostrano che la temperatura 70°-80° non è il vero punto di fusione dell’ioduro Cal,, come l'aveva supposto Meyer, perchè nella fase liquida l’ioduro Cal, (e probabilmente anche gli altri poliioduri superiori che contemporaneamente si formano) è in equilibrio coi suoi pro- dotti di scomposizione Ie Cal,. Le curve II e III non permettono di concludere sull’esistenza di spe- ciali poliioduri: in luogo dei tratti con punti di massimo, presentano quasi una retta che congiunge i due eutectici. (*) Questi valori sono tolti dal citato lavoro di Abegg e Hamburger. (*) Journ. Chim. Phys., 4, pag. 170. — 722 — Sistema: I-+ (CH3) NI === conc. | T | conc. | IT | conc. | DI | cone. | T TI IA a salate 0 112° 19.27 106.7 26.25 982 38.44 | 117° 7.167 | 101 20 106.4 27.08 | 105.5 40.16 | 110 12.9 93.8 20.73 105.5 29.8 124 48.14 | 1025 14.9 92 21 67 103.6 30.52 | 125.1 46.62 | 115.5 16 98 92.79 98.5 3189 | 126.1 4972 | 1185 16.86 103 23.82 98.4 s8.s1 | 125.85 | 5218 | 1175 18 106 24.93 98.3 35.08 | 1242 54.78 | 117.6 Sistema: T+ CsH;(CH,); NI conc. | ID | conc. | [TI conc. (Di | cone. | T 0 119° 20.41 55.2 29.39 78° 40.52 91.5 42 93.7 9121 | 55.15 31.76 82.7 43.3 101.2 8.25 75.6 22.06 | 582 38.15 83.4 46.7 110 112 58 23.5 62.15 34.07 83.3 48.9 112.4 13.31 46.4 p451 \NNGSSI 35.04 83 51.9 112 13.8 45.3 25.22 | 63.2 35.98 82.2 56.0 108 18.46 54 25.89 | 635 36.90 80.8 58.7 104.9 19.67 55.25 26.5 66 38.1 81.21 DO a I quattro punti di massimo della curva V corrispondono a tempera- ture 112°, 4-88°, 4-63°, 2-55°, 25 che vanno progressivamente diminuendo col- l'aumentare della complessità dei poliioduri R,NI;, Ri NI;, R,NI,, RNI.. Nel caso IV hanno invece un andamento irregolare, che mi propongo di confermare con una nuova serie di misure: può darsi che la grande igro- scopicità delle miscele abbia alterato specialmente gli ultimi valori (tratto punteggiato della curva); il politoduro (CH); NI, cristallizza in bellissimi aghi serici filamentosi. Queste esperienze verranno estese ad altri ioduri organici. Il confronto stabilito precedentemente fra le curve di fusione, conferma ed estende la regolarità dimostrata da Abegg e Hamburger che: la stabilità dei polioduri allo stato solido varia nello stesso senso del carattere elettro- positivo del metallo o del radicale cationico. — 723 — Mineralogia. — Rosas:te, nuovo minerale della miniera di Rosas (Sulcis, Sardegna). Nota di DomeNICo LovisaTo, pre- sentata dal Socio G. STRUVER. A mezzogiorno del contrafforte, separante l’avvallamento, che da Decimo conduce ad Iglesias, dal Sulcis, conosciuto col nome di Monti Ueni, giace l'importante concessione della miniera di Rosas, nota e lavorata per buona parte del secolo passato, senza dubbio con poca fortuna, non so, se per biz- zarria del caso o per inerzia od imperizia dell’uomo. La prima volta che visitai, molti anni or sono, quella veramente strana miniera, della quale conservo in questo Museo mineralogico molti interessanti campioni di minerali, particolarmente di rame, e di roccie, specialmente diabasiche con grossi frammenti di cristalli e lunghe massecole fibrose di augite e di amfibolo, ricordo che subito sono stato condotto nelle lavorazioni o tentativi di lavorazioni del cantiere Barisonis, che per riguardo ai cantieri esistenti nelle altre vallecole, appartenenti alla stessa concessione, passa in seconda linea oggi, dopo che il bravo direttore attuale di quella miniera, ing. Umberto Cappa, colla sua intelligente attività e colla sua ferrea volontà, compresa l’importanza industriale e scientifica di quella regione, fece risor- gere a novella vita l'industria mineraria di quell’interessante giacimento e mettere in evidenza tante bellezze mineralogiche, molte delle quali furono argomento di studio per vari distinti giovani mineralogisti nazionali e stranieri, Le forme litologiche predominanti nella miniera di Rosas sono schisti e calcari, attraversati, rotti, contorti, ecc. da una potente massa diabasica, intimamente connessa coi minerali metalliferi. Nessun fossile caratteristico permette di riferire quegli schisti e quei calcari ad un orizzonte geologico nettamente determinato: il Lamarmora li riferisce al siluriano, al quale piano vengono anche ascritti da tutti coloro, che più o meno malamente attinsero al classico lavoro del venerato uomo. Non posso a meno però di ricordare che da parecchi anni furono mandati a Roma all'Ufficio geologico del Corpo delle miniere, degli esemplari di schisto tenero, ricoprente in molti punti le masse del calcare dolomitico, con avanzi organici poco decifrabili, e giudicati dal dott. Di Stefano, al cui esame furono sotto- posti, come appartenenti ad Archacocyathus e Coscinocyathus del cambriano inferiore. Senza dubbio sono paleozoici, mentre assai più recente è il mas- siccio diabasico. Questa roccia eruttiva, che in generale fa da ganga ai minerali metal- liferi, mentre in taluni punti si conserva freschissima, è in taluni altri così Renpiconti. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 93 — 724 — alterata e decomposta da cancellare quasi interamente la sua composizione e la sua originaria struttura, come possiamo vedere benissimo in alcuni dei cantieri di attuale lavorazione e specialmente in quello di Prete Atzori, dove troviamo ancora strati mineralizzati, sostituiti da argille, talvolta però attra- versate in tutti i sensi da venuzze e filetti di minerali di rame e qua e là sparsi, raramente concentrati, dei prodotti secondari di decomposizione. I minerali metalliferi più comuni a Rosas sono la galena e la blenda, accompagnati da poca pirite e da minor quantità di calcopirite: costituiscono i cosiddetti minerali misti dei minatori. Sappiamo che questa galena è la più ricca fra tutti i minerali isolani in bismuto, contenendone 0,11 °/, (), e che una delle blende di Rosas, quella del giacimento di minerali misti del cantiere Asproni, contiene ben 0,23 °/, di cadmio (?). A questi minerali metalliferi dobbiamo aggiungere le terre calaminari, che da alcuni anni han cominciato a lavorarsi colla smithsonite, calamina ed idrozincite, che, mentre nella maggior parte dei giacimenti zinciferi del- l'Iglesiente stanno fra i calcari, a Rosas si trovano fra i calcari e gli schisti. Chi avesse vaghezza di avere dettagli su questa tanto interessante mi- niera, specialmente sulla formazione diabasica, sulla sua composizione, sulle specie minerali, che la impregnano o sono con essa concomitanti, legga le pagine stampate con scienza e coscienza dal compianto dott. Carlo Riva (?). Vedrà ancora ricordate e descritte le altre specie minerali riscontrate colà dal Riva, come linarite, jaloallofane, auricalcite, brochantite, malachite, az- zurrite, crisocolla, cuprite, ematite bruna, fluorite, quarzo, ecc. Devo confessare che di tutte queste specie non sono stato fortunato di trovare la cuprite, che rinvenni invece compatta a S'Acqua callente presso Nuxis, sempre nel Sulcis ed a non grande distanza da Rosas; nè vi ho tro- vato la fluorite: però il gentile ing. Cappa mi assicura che della cuprite si è rinvenuto qualche raro campione nel cantiere Boero, dove si sono anche avute delle laminette di rame nativo; quanto alla fluorite m’assicura che essa non è stata trovata a Rosas propriamente detta, ma nella miniera della Marchesa e nel cantiere Begatrota in piccoli cristalli incolori, insieme alla galena a Begatrota, ed insieme alla blenda alla Marchesa, blenda che fu rifiutata, perchè fluorifera. Aggiungerò per parte mia la Greenoc/ite, specie minerale, alla quale (1) Rimatori, Za galena bismutifera di Rosas (Sulcis) e blende di diverse località della Sardegna. Rend. R. Acc. dei Lincei, vol. XII, 1° sem., serie 5°, fasc. 7°, 1903. (2) Rimatori, Analisi ponderale e spettroscopica di nuove blende sarde. Rendiconti R. Ace. dei Lincei, vol. XIV, 1° sem. serie 5°, fasc. 12, 1905, pag. 692. (®) Sopra la formazione diabasica e sopra alcuni minerali di Rosas nel Sulcis (Sardegna). Estratto dai Rendiconti del R. Istituto Lomb. di scienze e lettere, serie 2*, vol. XXXII, 1899. i — 725 — forse dovremo riferire quella patina gialla, ricordata dal Riva come solfo ('), il quale si presenta in un minuto e compatto aggregato cristallino, che si incunea di preferenza nei piani di sfaldatura della galena. Non dimenticherò il ferro carbonato, che talora in larghe lamelle, dalla lucentezza metallico-sericeo-madreperlacea si presenta negli strati lamellari, e la pirolusite in discrete plaghe nere, abbastanza abbondante anche questa dove il calcare dei sottili straterelli è bene mineralizzato e coperto talvolta in larghe zone di cerussite, sì da avere delle croste cristalline di quel carbo- nato e cristalli più belli e più grossi di quelli ricordati e descritti dallo stesso Riva. Ma più di tutto m'interessa di aggiungere una parola sui minerali cupri- feri, come quelli, che mi hanno offerto qualche cosa di nuovo. Essi si annidano specialmente negli strati argillosi, ma sempre in vene limitatissime e senza che la loro posizione sia indicata da alcun segno. Fra i campioni gentilmente inviatimi nel passato anno scolastico, sempre dall'ing. Cappa, insieme colla brochantite cristallizzata od amorfa, ed alquanta malachite ed anche auricalcite, ho trovato in un esemplare una venuzza mam- mellonata, che per la sua colorazione speciale, rispetto agli altri minerali di rame che l’accompagnavano, attrasse la mia attenzione così da indurmi a cer- care minutamente, fra gli esemplari avuti, qualche altra di simili venuzze. Ma per quanta cura abbia messa in tale ricerca, rompendo addirittura tutti i campioni ricevuti, non sono riuscito a trovare in nessun altro pezzo neppure un frammento della sostanza della prima venuzza, che m’avea così singolar- mente colpito. Nè più fortunato sono stato con un'altra cassetta di nuovi cam- pioni, che richiesi all'ottimo direttore della miniera di Rosas, abusando forse soverchiamente della sua bontà. E son veramente riconoscente allo stesso ing. Cappa, che anche recentemente volle inviarmene una terza cassetta con esemplari di superba malachite, quale non vidi ancora mai di quella miniera; ma purtroppo anche fra questi ultimi ben poca cosa ho potuto osservare della sostanza desiderata, giacchè in un solo campione ho osservato una sottilissima venuzza rassomigliante assai a detta sostanza, che qui mi accingo a descrivere nei suoi principali caratteri fisici e chimici. La sostanza si presenta compatta, apparentemente fibrosa, di un verde chiaro tendente all’azzurrognolo e dalla lucentezza sericea nella frattura fresca, verde-cupo alla superficie, lievemente mammellonare, con bitorzoli qua e là più chiari e con piccole zone coperte da sostanza verde-intenso, una specie di pigmento, formante uno straterello sottilissimo, che colla semplice unghia si può levare, lasciando allora vedere sotto il verde-chiaro e talvolta quasi bianco. La prima impressione fu per: l’auricalcite ma per questa specie mine- raie si oppone la durezza, che n’è molto superiore, arrivando per la sostanza (*) Lavoro citato, pag. 19. — 726 — della venuzza a 4,5, scalfendo essa la fluorina ed essendo rigata abbastanza bene dall'apatite, quindi superiore anche a quella della malachite, per la quale farebbe difetto pure la colorazione; come vi si oppone anche il suo peso specifico, che dal dott. Rimatori alla temperatura di 24°,4 fu calcolato eguale a 4,07 e dal collega prof. Guglielmo alla temperatura di 25° fu calcolato eguale a 4,074. Un semplice esame chimico qualitativo avendomi mostrato per un fram- mento di questa sostanza la presenza del piombo, mi fece decidere all'analisi quantitativa che al dott. Rimatori avrebbe dato: CO. RR SON Gua: ica (1 La 036594 ZnON IRE 0 III Phi Se o itato H70 °° + in) o 7A 0,21 100,56 Anche la composizione chimica esclude assolutamente l'auricalcite e la malachite; nò credo, per l'omogeneità della venuzza, si possa pensare ad un’intima miscela di smithsonite e di malachite per tale sostanza, che nel tubo chiuso dà pochissima acqua ed annerisce, fonde alla fiamma riducente sul carbone, prima si annerisce e poi dà globuli rossi di rame e leggera au- reola bianca dello zinco: è solubile completamente negli acidi. Dalle percentuali trovate e date superiormente, si deducono i seguenti rapporti : Cu0 : C0, Cu: C03Zn = 1 : 1,57 : 2,38 abbiamo cioè l’unione in proporzioni quasi equimolecolari, di carbonato di zinco e carbonato basico di rame, nel quale ultimo componente a tre molecole di carbonato neutro sono unite due di ossido. Perciò la composizione della sostanza in esame si avvicina notevolmente alla formola: 2C0u0.300;Cu.5C0;Zn, formola e caratteri che non trovo spettare ad alcuna sostanza minerale cono- sciuta, e quindi propongo per questo doppio carbonato di rame e di zinco il nome di rosasîte per la località di sua provenienza, grato nell'animo al ca- rissimo ing. Umberto Cappa, che gentilmente me la fece avere. Per la piccolissima quantità a mia disposizione nulla posso dire del pigmento verde-cupo, che a chiazze copre qua e là la superficie mammello- nare della rosasite e che, come già dissi, si può levare coll’unghia; però mi piace ricordare un fatto, del quale mi rese edotto nella sua ultima lettera l’egregio ing. Cappa e che forse potrebbe illuminarci in proposito. Dopo di avermi detto d’aver raccolto per me nuovi campioni, fra i quali credeva in — 727 — maggior copia che nel precedente invio le croste della nuova sostanza, sog- giunge che, quando si scavano di quei minerali, si osservano delle goccie ver- dastre, che trasudano da essi e che presto si solidificano. Sarà il pigmento dovuto a tali goccie? Nulla ardisco qui affermare, solo dirò che le croste mammellonari verdi, anche dell'ultimo invio, per la maggior parte non ap- partengono alla nuova sostanza, della quale hanno durezza e peso specifico minori, nè possiamo dirle di malachite e tanto meno di auricalcite, per essere la durezza e il peso specifico alquanto maggiori di quelli di tali specie mine- rali: sono sostanze o miscugli di sostanze che vanno ancora studiati. Devo notare che, mentre la malachite fra i minerali cupriferi di Rosas è abbondantissima, l’azzurrite, della quale ho avuto qualche splendido cam- pione nell'ultima spedizione, è invece assolutamente eccezionale: taluni esem- plari dell'ultima malachite avuta superano certamente in bellezza i migliori campioni, che possedevo dell’isola bella, provenienti da Palmaveri presso Iglesias e da Mamone in quel di Bitti. Avrei voluto dire una parola sull'età di questa strana miniera, un vero museo di mineralogia, e sul modo come può essere avvenuta la mineralizza- zione, paragonandola con altri giacimenti analoghi, anche nazionali, ma piut- tosto che pentirmi domani, preferisco per ora un eloquente silenzio. che non posso dire quanto avrà a durare, perchè oggi, malgrado l’ammirabile attività del suo bravo direttore, i lavori di produzione della miniera non vanno tanto bene. Già fino dall'estate passato questi erano ridotti d’assai, perchè il basso prezzo dei metalli non permetteva una lavorazione proficua della stessa mi- niera, la quale offriva bensì dei minerali interessanti, ma difficili alla sepa- razione e quindi commercialmente di non molto valore. Rosas è un superbo centro mineralogico, che dovrebbe essere adibito a qualche scuola mineraria superiore, a qualche ricca università, potente cala- mita per gli studiosi, che troverebbero quivi svariati argomenti per nuovi ed importanti lavori scientifici; ma per gli azionisti, l'impareggiabile brochantite dai nitidi cristalli verde-smeraldo, le superbe linariti dal bel colore celeste, gli splendidi jaloallofani d'un bleu di cobalto, i non spregevoli carbonati verdi ed azzurri, la stessa rosasite, per quanto specie nuova, non hanno alcun valore per codesti signori, i quali avendo testè accettato i saggi consigli del- l'infaticabile e solerte direttore di procedere a nuove ricerche rimuneratrici, l’obbligano in certo modo ad abbandonare buona parte dei cantieri finora esplorati e che erano quelli che presentavano i minerali cupriferi, che tanto possono interessare lo studioso. In ogni modo, auguro al giovane e valente direttore della miniera di Rosas, che i suoi sforzi siano felicemente coronati dal ritrovamento di ricchi giacimenti zinciferi, non senza mettere in evi- denza novelle bellezze mineralogiche, rendendosi così sempre più benemerito anche della scienza. Chiuderò questi brevi cenni rammentando la descrizione della laveria di — 728 — Rosas, pubblicata nel n. 19 del gennaio 1908 dell'Engineering and Mining Journal, quale contributo allo studio sulle laverie di Sardegna e riportata dal bravo ing. Cappa anche in versione italiana nel n. 6 dei Resoconti delle riunioni dell’Associazione mineraria sarda del 21 giugno 1908. Petrografia. — Ricerche su rocce eruttive basiche della Sar- degna settentrionale (°). Nota del dr. AURELIO SERRA, presentata dal Socio G. STRUEVER. II. I monti Pubulema e Cuccuruddu. Nel presente capitolo mi occupo di questi due vulcani spenti, poichè lo credo importante per un opportuno raffronto con quelli di Massa e di San Matteo, come anche di qualche interesse per la geologia endogena che da siffatte analisi, ordinate in larga scala, potrà sempre ricavare criteri positivi intorno al vulcanismo ed agli oscuri fenomeni che continuamente si verifi- cano nell'interno della terra. Monte Pubulema. Ha l'altezza di 461 m. Trovasi a sud del S. Matteo. È costituito da scorie di colore grigio-scuro. La composizione minera- logica risulta come segue : Plagioclasio, augite, olivina, magnetite, ilmenite. Il feldspato listiforme costituisce in massima la massa fondamentale ; il valore massimo dell'angolo d’estinzione nella zona perpendicolare a (010) è di 28°. Talora si rivela una base vetrosa. Interclusi feldspatici sembra che manchino; si riscontrano però cristalli molto più grandi di quelli che for- mano la pasta: questi presentano un’estinzione massima intorno ai 36°: devono quindi riferirsi ad un termine piuttosto basico (Ab: An.). L'olivina appare distintamente in cristalli di prima generazione ; gene- ralmente questi sono alterati in aggregati fibrosi che fanno passaggio al ser- pentino. L'augite si ha spesso in granuli allotriomorfi fra le liste felsnastiche: non presenta un distinto pleocroismo. Raramente si ha in grandi cristalli, per i quali si ha estinzione con angoli da 38 a 42° con colori d'interferenza ab- bastanza vivi. L'ilmenite trovasi in tavolette cristalline. (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Mineralogia della R. Università di Sassari. | —: 709 — Espongo i risultati dell'analisi chimica: SHORE 0. ol AVORIO. .. ; (22587 Hesse 0 e NZ | Rooms. . . . . IV Mulan. . . . (0580 MIO... MOIO PrO... o 02 | Calo... MASS I MEO Eee e 802 (| Kee... LO. MON | Neg O o € O HS ORasbil0teeeioa OI H.0 alcalorrosso. . . 0.29 100,09 Da quest’analisi si deduce : I II StOzt eeadore Sd. 152,09) 52,83 A OSTIA A 0 22,8% 23,20 o Ho Og ar dr dv 4,14 4,20 | Re Oa aes 1,17 1,19 Mn Og] e esta) 07::/0;80 0,81 Ca Ol Rn n 7,98 8,09 ME ORI A RL 07008,02 3,06 Ko Ogile-aastati stat 4 12;74 2,78 NAOMI e. ‘3,49 3,84 100,00 IV 59,82 15,45 2,72 0,77 9,82 0,20 2,01 4,21 100,00 Li 790 — V VI Si 88,05 44,38 AI 45,50 25,00 Fe 6,89 3,79 Mn 1,14 0,63 Ca 14,45 7,94 Mg 7,65 4,21 K 5,92 3,25 Na 12,38 6,80 M.A.Z. = 182 100,00 AZ. = 466 a=1,68 ; £= 67 1,60 RO. R;0; .3,87 Si 0, R.0:RO0=1:2,9 $59,8 45,0 7,5 fa,5 Ne,8 è Monte Cuccuruddu — È, come riconobbe anche il La Marmora, (*) il più interessante cono di questa zona. Ha l'altezza di 676 m.; la base ne è assai estesa. Riposa sul calcare miocenico e su una piattaforma basaltica. L'apertura del cratere è volta verso est, precisamente dalla parte donde av- venne l'emissione del torrente di lava che caratterizzò la colata che si estende nella stessa direzione per oltre 4 km. Questa ha gli stessi caratteri mine- ralogici delle scorie. Differenza notevole invece si ha con la roccia sulla quale il monte venne a giorno; si è per tale ragione che di questa formerò particolare argomento di studio. Le scorie sono di colore bruno assai oscuro, facilmente sfaldabili. Al microscopio si scopre una pasta fondamentale ipocristallina, formata in grande prevalenza da cristalli listiformi di plagzoclasto, che nella zona perpendicolare a (010) si estinguono a 26°: sono quindi da ritenersi come appartenenti ad un termine acido (Ab, An) della labradorste. Raramente notansi grandi cristalli appartenenti ad un termine basico (Ab; An,) e che presentano un'estinzione massima verso i 38°. Della massa fondamentale fanno parte numerosi e piccoli granelli di magmnetite, spesso trasformati in limonite bruno-nerastra. Si notano cristalli porfirici di 0/2vina e di augite. Questa è relativamente poca ed in cristalli piuttosto piccoli idio- morfi, più spesso in granuli allotriomorfi facente ufficio da minerale rincal- zante, rendendo quindi evidente una struttura dnfersertale. L'olivina è più ab- @) Voyage en Sardaigne : Description géologique. Turin, 1857, vol. I, p. 677. — 7381 — bondante, e costituisce a prima vista il solo elemento di prima formazione ; | riscontrasi talora alterata in una sostanza verdastra serpentinosa. Accessoria- mente si hanno microliti di apazize e di i!menite. Riporto i risultati dell'analisi chimica : i SIOE... . ISO | IO MAMI 2308 I Res 0 SMZATIS MAO 527 Mu: 00 ra MONZA IMO o 0,71 EPSO 0,90 Cao . 6,70 Mg0 . 2,70 K.0 . 1,86 Na0 Negro]: ERO ORA ee 0,16 H;0 perd. per arrov. 0,27 100,32 da cui si ottiene: | I II | Sto; gen ee... 50,60 51,19 ISO See e. 23,78 24,26 Resana 218 2,21 Renee eno 5,20 5,33 MRO 0 0,74 0,75 Coorneeesonn 6,40 6,68 Me 0g gog 8 5) 2,70 2000, Kee een 1.86 1,88 | Noce sen 4,81 4,87 98,84 100,00 III IV SIOE. ‘8592 57,81 | AO RMS. 23.78 16,11 Bess 1.58 = Î He OM eee. 7,40 5,85 I MiO: Mia. (1.06 0,72 CIO e. 12.1 8,21 Mao. ‘(6,82 4,62 RON eee o. 2,00 1,36 INasOvi 6 26944200 007,85 5,92 Z.= 148 100,00 RENDICONTI. 1908, Vol. XVII, 1° Sem. 94 Spe Dl V VI Silio a GRAB dani: 0085392 46,69 Al.) «AROTA cAT:56 26,03 Bei... i MI 0.16 5,56 Ma... do 11/06 0,58 Cal. MB o) 6,63 Mei. tO. RS 6,82 3,73 KP 801 SN 4.00 2,19 Naft e 15.70 8,59 MsZ 188 100,00 A.Z. = 466 a=1,55; £=73 1,61 RO. R;0:. 3,58 Si0, R.0:RO = 1:2,9 8518 40 15 /15 W9- Risulta evidente la grande analogia delle scorie dei monti Pubulema e Cuccuruddu con quelle dei monti Massa e S. Matteo, come dimostrano i se- guenti dati ottenuti: Formola magmatica a | B | Ra0 : RO Massa fe Re 211 SIROBRE O A270S107 1,59 |. 75 1:3,6 S. Matteo . . . . . | 2,083 RO.Rs0,.4,66 Si0, 1,79 65 1;5,8 Pubulem ae 1,60 RO.R:0,.3,87 Si 0, 1,68 | 67 11239) Cuccurdd dure. 1,61 RO. Rs0:. 3,58 Si Os 155 73 1:2,9 s | a | c | f | n Massari o Bal co, 57,9 4,4 4,8 10,8 7,8 SAM atto RR 60,9 29 6,9 10,2 6,4 Pubulem ae 59,8 9,0 US 135) 6,8 (CUCCUTUA UAN 57,8 5,0 7,5 7,9 7,9 Le differenze che si notano devono attribuirsi alle diverse funzioni dei fenomeni che caratterizzarono la loro venuta a giorno. Riguardo al riferimento cronologico, sono da ritenersi postelveziane ed appartenenti allo stesso pe- — 733 — riodo eruttivo. Rimane quindi accertata la loro grande rassomiglianza di forma, di costituzione, di genesi. III. Piattaforma di Keremule. Al disotto del villaggio di Keremule si rinviene una piattaforma stretta ed allungata, nella cui parte orientale ergesi il monte Cuccuruddu. È costituito da una roccia quasi nera, alquanto bollosa, composta come segue : Labradorite, in due segregazioni: una in interelusi abbastanza grandi, l’altra in piccole liste che, disposte a mo’ di feltro, prevalentemente costi- tuiscono la massa fondamentale. La prima presenta l’estinzione simmetrica massima intorno a 36°; la seconda, invece, un massimo d’estinzione verso i 28°. Deve quindi riferirsi l’una ad un termine basico (Ab; An;), l’altra ad un termine acido (Ab, Am). Iperstene, in piccole colonnette con distinto pleocroismo. Augtîte, per lo più in microliti, rara in cristalli molto grandi. Magnetite, in forme quadratiche, spesso disseminate in vario modo nella massa. Espongo i risultati dell'analisi chimica : IO o A 0 ANCO Fece. 20.00 Res 0O- e ti li MRO ReOMSEnA i. 101-340 MiO... (Mono ING sio OG POR o e i MOIO Canino. 00882 Men: i (e SRI NESOrE e 07 KO 0. N HoOffaWil0ogsc.... -. MOI H;0 perd. per arrov.. . 1,83 99,75 da cui si ricava: I II PIO e 5206 54,36 AGOS. 20.09 20,89 He 0-0 Re 1:88 1,90 Kee 349 3,56 MOR. 0.52 0,54 CAO i 830 8,66 Meg. (0 391 8,44 KO 0215 2,24 NEO AE RO 4 OT 4,41 100,00 di Ferru Ezzu, non ‘solo per i caratteri mineralogici, ma anche per quelli chimici, come ben si rileva dai seguenti specchietti che dimostrano una certa uniformità di composizione : — 734 — II IV Sio, «MN 190,60 59,84 | AO, 0... 048 13,53 I Fe. 0, Sl alati è ce 0A IRE SR 1,19 => | Regi. CM T04 3,97 Mn O 076 0,50 | CAONNi 6 10,21 Mz... it 9,00 5,68 | KO MT A O 38 1,57 | Naoto oz DI 4,70 Z.= 152 100,00 V VI Sigiieett cre E 90:90 49,60 A. e 10,96 22,42 Re e 32 4,01 Mn dA) L00110 MANA DL DI0.76 0,42 Ca. . I. 1546 8,46 ! Menigiconi: «i GNEO 108:00 4,71 | Kool. 4706 2,60 Na fit lie 1122 7,78 M.A.Z. = 183 100,00 | AZ. = 468 | a= 1,78; P= 56 | 1,9 RO. R;0:.. 4,42 S10, I R.,0:RO=1:83,2 | 8598 dan C535 f9:8 Na35 » | Rimarchevole è la rassomiglianza di questa roccia con la manifestazione | I | Formola magmatica x | B |Rs0:RO Keremil eee 1,9 RO.R:0;.4,42 Si 0» 1,78 56 1132 RerruvEzzu Folco. 1,8RO.R20;.4,27 Si 0» 1,93 | 59 1598 s a | c | Ti | n DCOM i N AIR ZERO Keremulef@nr 59,8 4,7 | 5,5 9,8 7,5 Ferru Ezzu; ci... 63,0 6,2 | 4,9 8,9 7,8 È necessario notare che il giacimento di Ferru Ezzu, riguardo all’età, è piuttosto enigmatico. — 7395 — Come già accennai, notevoli sono le differenze fra la roccia della piat- taforma e quella del Cuccuruddu di Keremule: non si ha un graduale pas- saggio negli elementi costitutivi, ma un salto quasi netto e distinto, reso evidente dalla proporzione degli interclusi porfirici di /e/dspato, per i quali sì può dire che veri e proprî interclusi nella seconda manchino, esistendo bensì cristalli molto più grandi di quelli che prevalentemente costituiscono la massa fondamentale; dalla struttura dovuta alla costituzione della pasta, pilotassitica nell’ una, intersetale nell'altra; dalla mancanza assoluta, nella roccia costituente le scorie, dell’iperstene. Le differenze di composizione chimica si rendono abbastanza evidenti dal semplice raffronto dei risultati dell'analisi, che riporto : Formola magmatica | « | B i R,0 :RO rano sl gta 1,9 RO .R,0;. 4,42 Si 0, Jir/SA N56 1:3,2 CUccurud dure Ne 1,6 RO.R.0,.3,58 Si 03 1,55 73 1:2,9 s | a | c | f | n 7 Keremule ARRE 59,8 4,7 5,9 9,8 7,5 Cuccuruddussito Rete 57,8 5,0 7,5 105) 7,9 Si può quindi concludere, che sicuramente vi è differenza essenziale li- tologico-chimica, come del resto genetica. fra i coni S. Matteo, Pubulema, ecc. ed i basalti di piattaforme. Su questi mi propongo di continuare lo studio, poichè al presente è lecito d’'intravedere il risultato, ma non di confermarlo con molti dati di fatto. Gli studî da me sinora compiuti porterebbero all'esistenza di tre tipi di rocce basiche, diverse per costituzione, giacitura, età: Il 1° di Contrada Fenosu e d’Adde de s'Ulmu, di età preelveziana. Il 2° di basalto piattaforma di Keremule, forse Ferru Ezzu. Il 3° di manifestazioni dei coni recenti Massa, San Matteo, Pubu- lema, ecc. L'argomento delle manifestazioni basiche della Sardegna settentrionale è ancora ben lungi dall’essere risoluto, e solo si può dire appena sfiorato. Recentemente il Déprat (') le classificò in tre gruppi. A mio giudizio, nello stato attuale delle nostre cognizioni, tenuto conto di quelle nuove fornite (') Comptes Rendus de l’Académie des Sciences, anno 1907. — 736 — dall'autore, mancano i necessarî elementi per una tale sintesi e qualunque tentativo lo credo per il momento ardimentoso. Trattandosi d'indagini serie, del più alto interesse è necessario allearsi al più severo esame petrografico per arrivare a conclusiomi di genesi e di cronologia che non sieno fantastica- mente ipotetiche. Una classificazione completa sarà solo possibile dopo averne esaminato in tutti i particolari le numerose formazioni: tanto più dettagliato e preciso ne sarà lo studio, tanto più sicure saranno le deduzioni che su questo importante argomento potranno trarre i geologi. Fisiologia. — Sulle alterazioni del miocardio in seguito alla vagotomia. Osservazioni di « segmentatio cordis » sperimentale (*). Nota del dott. Mario CAMIS, presentata dal Socio L. LUucIAnI. Lo studio delle conseguenze, che la sezione dei vaghi ha sulla struttura del cuore, non è recente, poichè rimonta fino al 1878, quando l’Eichorst (?) pubblicò le sue esperienze sui piccioni, attribuendo la degenerazione grassa, ch'egli aveva osservata nel cuore di piccioni vagotomizzati, all'azione trofica esercitata sul miocardio dal nervo vago. Dopo d'allora le osservazioni sopra questo argomento furono abbastanza numerose, senza però che si raggiungesse l'accordo intorno ai risultati ed alla relativa interpretazione. La divergenza più essenziale era quella intorno alle cause delle altera- zioni riscontrate nel miocardio, che alcuni facevano consistere nei disturbi generali conseguenti alla vagotomia, ed altri alla mancata azione trofica del pneumogastrico. Fra i più recenti contributi alla soluzione di questo problema, sta- vano, quando io eseguii le esperienze di cui faccio ora parola, quello di Fan- tino (3) (1888) e quello di Hofmann (*) (1897). Il primo esaminò il miocardio di conigli ai quali aveva resecato uno dei nervi vaghi, accertandovi fatti degenerativi di varia specie, e cioè: 1) Rigonfiamento torbido; alterazione della striatura. 2) Infiltrazione parvicellulare, a cellule rotonde, estendentesi in nu- merosi focolai dagli spazî interfascicolari agli spazî interfibrillari. 3) Atrofia; scomparsa della striatura. 4) Degenerazione vitrea di Zenker, che attacca la sostanza contrattile. (1) Lavoro eseguito nell’Istituto di Fisiologia della R. Università di Roma. (3) Eichorst, Die trophischen Beziehungen der Nervi Vagi zum Herzmuskel. Berlin, Hirsechwald, 1879. (3) Fantino, Sur les altérations du myocarde après la section des nerfs extracar- diaques (Arch. Ital. de Biol., 1888). (4) Hofmann, Veber den Zusammenhang der Durchschneidung der Nervus Vagus mit Degenerationen und enteundlichen Verànderungen am Heremuskel (Virchow's Arch., 1897). — 7371 — Limitandosi alla vagotomia unilaterale, il Fantino non solo tendeva a conservare in vita per qualche tempo i conigli, che muoiono in seguito alla recisione bilaterale, ma portava una prova che le alterazioni riscontrate nel cuore dipendono da disturbi nel trofismo cardiaco, e non da disordini generali dell'organismo. Tali disordini infatti non hanno luogo in seguito alla recisione di un solo vago. Le conclusioni del Fantino però furono infirmate dall'Hofmann, il quale, mentre accertò metamorfosi grassa del miocardio e miocardite interstiziale nei conigli ai quali aveva praticata la recisione bilaterale dei vaghi, affermò che la sezione di un solo lato non porta conseguenze apprezzabili. Le mie osservazioni furono eseguite nel 1902, nell'Istituto di Fisiologia di Roma. Varie circostanze mi hanno impedito fin qui di renderle note, e nel frat- tempo vide la luce una Nota del Soprana (!), che esaminò il cuore di rane alle quali aveva praticato la vagotomia doppia, tenendole poi in ambiente a tem- peratura inferiore ai 12°. In queste condizioni, probabilmente per il ritardato metabolismo, le rane non presentano quei disturbi generali gravi, che seguono alla sezione dei vaghi se l’animale è tenuto a temperature superiori, e pos- sono sopravvivere a lungo. Le alterazioni del miocardio — degenerazione grassa — osservate in questo caso, sono dunque attribuibili soltanto alla mancanza dell’azione specifica (trofica) eseîcitata dal vago sulla fibra car- diaca. Le osservazioni, che io riferisco, furono eseguite invece sopra animali omeotermi — conigli e cani — ai quali avevo praticato sia la sezione di un solo vago sia quella d’ambedue i nervi; in quest’ultimo caso avevo sempre lasciato trascorrere un lasso di 45 giorni almeno tra i due atti operativi. L'esame del cuore fu praticato con diversi metodi di colorazione, ma prevalentemente con ematossilina ed eosina; o con acido osmico per la ricerca del grasso. Dividendo le mie esperienze in due categorie, quelle in cui fu eseguita la resezione di un solo vago e quelle in cui fu praticata la vago- tomia doppia, ne riferisco brevemente i risultati. A) Cane €. — Grosso cane bianco e nero, del peso di Kg. 12.800. Il 26 decembre l'animale è cloroformizzato, ed io pratico la resezione di un tratto del vago sinistro della lunghezza di sei centimetri sotto il laringeo superiore. L'operazione è sopportata benissimo, e l’animale si mantiene in buone condizioni, aumentando anche di peso fino a Kg. 13.500. Il 5 marzo viene sacrificato. All’esame istologico, il cuore presenta edema interstiziale non molto rilevante. Conservata la striatura delle fibrocellule; qua e là aree di rigonfiamento torbido. (*) F. Soprana, Degenerazione grassa del cuore delle rane in seguito al taglio di ambo i vaghi, in Rendic. della R. Accad. dei Lincei, Classe di Scienze fisiche etc. 1904, XII, 584-589. i — 738 — Cane E. — Cane barbone giovanissimo, del peso di Kg. 9.500. Il 3 marzo reseco un tratto del pneumogastrico sinistro della lunghezza di 5 cen- timetri. L'animale sopporta benissimo l'operazione, e sì mantiene in buone condizioni fino al giorno 26 marzo, nel qual giorno muore improvvisamente, per cause estranee all'atto operativo. All'esame istologico, il cuore presenta i medesimi fatti rilevati nel caso precedente. Cane G. — Cane adulto, del peso di Kg. 8.700. Operato di vagotomia a destra il giorno 21 marzo, muore l'8 aprile. La muscolatura degli atrii presenta endema interstiziale ed aree di rigonfiamento torbido; la striatura è conservata. Il ventricolo sinistro presenta, nelle parti superficiali, focolai di necrosi del miocardio e degenerazione grassa. Si nota anche un aumento del connettivo interstiziale. B) Cane B. — Lupetto adulto, del peso di Kg. 8.700. Il 14 decembre pratico la vagotomia sinistra, asportando un tratto di 4,5 centimetri; il 81 gen- naio reseco un tratto di 5 cm. dal vago destro. L'animale sopravvive 17 giorni, venendo a morire il 17 febbraio. All'esame istologico degli atrii si nota: ri- gonfiamento torbido, e, in alcuni punti, necrosi delle fibrocellule sottoepicar- diche. Il ventricolo sinistro presenta edema della muscolatura; in alcuni punti, rigonfiamento torbido con scomparsa del nucleo: in altri, zone di se- gmentazione della fibrocellula. Cane D. — Del peso di Kg. 12.700, adulto. Il giorno 25 febbraio subisce la resezione del vago-simpatico a destra; il giorno 28 aprile quella del vago-simpatico sinistro. Sopravvive a questa seconda operazione 28 giorni. Il cuore, all'esame istologico, presenta: rigonfiamento torbido sia negli atrii che nei ventricoli, e zone di segmentazione nel ventricolo sinistro ; degenerazione grassa. Cane F. — Subisce il 12 marzo la resezione a sinistra di un tratto di vago-simpatico della lunghezza di 4 centimetri; il 15 maggio reseco il nervo a destra. L'animale viene a morte il giorno seguente. All'esame istologico sì nota: negli atrii, edema interstiziale e qualche zona necrotica; nel ventricolo sinistro (il destro non fu esaminato) notevole dissociazione delle fibrocellule, degenerazione vacuolare, in qualche punto diminuzione della striatura, e qua e là focolai di segmentatio cordis (vedi figura), con qualche punto anche di frammentazione. Questi reperti confermano la presenza di lesioni miocardiche in seguito alla sezione di un solo vago anche nel cane, e mettono in evidenza la mag- giore gravità delle alterazioni quando sono tagliati tutti e duei nervi, fatto che si concilia bene con l'opinione che al X paio spetti una funzione trofica sul cuore. Ma ciò che costituisce a parer mio il particolare più interessante, è l'avere riscontrato, nei cani bivagotomizzati, zone di segmentatio cordis ('), (1) Per ciò che riguarda l'istologia di questa lesione cardiaca, la distinzione fra segmentazione e frammentazione del cuore, e via dicendo, cfr. J. Renant et J. Mollard, — 739 — non solo perchè non si era riusciti — per quanto io so — a riprodurre spe- rimentalmente questa lesione, ma perchè essa è in accordo con l'interpreta- zione già accennata. Secondo il Kaufmann (') infatti, la segmentazione della fibra cardiaca può dipendere da disturbi di nutrizione di varia natura, che La parte superiore della figura mostra fibre in sezione trasversale, che presentano numerosi vacuoli e degenerazione vacuolare. La parte inferiore mostra le fibre in sezione longitudinale spezzettate, per lo più in corrispondenza dei tratti intercalari (segmentatio), ma talvolta non in corrispondenza dei tratti stessi (fragmentatio). provochino nel muscolo una minorata solidità, così che possa prodursi la fram- mentazione per le ultime più o meno spasmodiche contrazioni. Yra le de- terminanti di tali disturbi di nutrizione il Kaufmann pone la sclerosi delle coronarie, e noi metteremo — nel campo sperimentale — la reci- stone dei vaghe. Le Myocarde (Revue générale d’histologie, 1905, t. I., pagg. 143-415) [Capitolo II $ 31]. A. Stamer, Untersuchungen iber die Fragmentation und Segmentation des Herzmuskels. (Ziegler’s Beitr. z. pathol. Anat. u. s. w. 1907 XLII, pagg. 310-358). (1) E. Kaufmann, Zrattato di anatomia patologica speciale; trad. italiana sulla 2% ed. tedesca, vol. I, pag. 38. RenpIcoNTI. 1908, Vol. XVI, 2° Sem. 95 — 740 — Fisiologia. — Sulla sopravvivenza alla doppia vagotomia, e sulla rigenerazione del N. Vago (!). Nota del dott. MARIO Cams, presentata dal Socio L. LUCcIANI. Le ricerche delle quali ora faccio parola, vennero compiute fin dal 1902 nell’Istituto di Fisiologia di Roma, e non furono mai pubblicate. Lo faccio ora perchè, da qualche lavoro comparso anche recentemente, mì sembra che le questioni alle quali avevo cercato di portare il mio contributo non siano ancora risolte. Che un animale possa sopravvivere alla recisione bilaterale dei vaghi nel collo era stato generalmente negato da tutti gli osservatori, e solo c'era divergenza sulle cause, che in seguito a quest’atto operativo determinano la morte. La opinione più diffusa è quella che alla sezione del X pajo seguano fatti polmonari, i quali sono stati anche integrati in una unità nosologica, la vaguspneumonie. Questi fatti furono spiegati in modo diverso, o per pa- ralisi glottidea (Mendelsohn) o per entrata nelle vie aeree di corpi estranei (sostanze alimentari), facendo dipendere questa polmonite ab ingestis sia dalla paralisi della glottide (Traube) sia da quella dell'esofago e da costri- zione del cardias (Schiff, Herzen). Pochi accennano all'importanza che nella morte da vagotomia può avere il turbamento portato da quest'operazione sulla funzione cardiaca. Il Bod- daert (?) non vi accenna che di sfuggita, ed il Vanlair (*) considera come un fatto accessorio le lesioni del cuore. Eppure non solo sono notissime le alterazioni funzionali, nella pressione sanguigna e nel ritmo cardiaco, pro- vocate dalla sezione anche di un solo vago, ma anche istologicamente fu- rono da molti osservate lesioni del miocardio dipendenti dalla resezione di questo nervo. Ma alcuni che, come il Knoll (*), avevano trovato in seguito alla vagotomia alterazioni del miocardio, si erano piuttosto accostati alla dottrina di Einbrodt (*) considerando queste alterazioni cardiache dipendenti (1) Lavoro eseguito nell'Istituto di Fisiologia della R. Università di Roma. (®) Boddaert, Recherches expérimentales sur les lésions pulmonaires consécutives à la section des nerfs pneumogastriques. Journ. de Physiol. de Brown-Séquard, 1862. (@®) Vanlair, Survie après la division successive des deux vagues. Bullet. de l’Acad. Royale de Belgique, 1893. 3° série, XXV, pag. 240. (4) Ph. Knoll, Veder Myocarditis und die ibrigen Folgen der Vagussection bei Tauben. Prager Vierteljahresschrift fiir praktische Heilkunde, 1880. Bd. 1. S. 255-312). (5) Einbrodt, Ueder den Einfluss der N. Vagi auf die Herzbewegung bei Voògeln. Miller's Arch. f. Physiologie, 1859. S. 439-459). — 741 — dall’inanizione, provocata da paralisi esofagea (!), cfr. anche Zander. Sola- mente l’Elias (?), che sotto la direzione del Winkler operò sopra piccioni, conigli, gatti e cani, si mostra propenso a credere che la causa della morte degli animali vagotomizzati sia da cercare nelle alterazioni del cuore. Altri osservatori hanno dato invece una particolare importanza alle conseguenze che la vagotomia esercita sopra l'apparato digerente. Questa opinione, che si collega in certo modo alla dottrina dell’Einbrodt, è accettata con qualche variante dal Krehl (*) e sostenuta più recentemente dal Pawlow (‘) e dal Katschkowski (*), ai quali pare si associ anche il Friedenthal (°). Il Katsch- kowschi, anzi, nel suo lavoro sulla sopravvivenza alla vagotomia contempo- ranea, dice che le esperienze del Pawlow dimostrano che il vago non ha alcuna azione trofica sul miocardio. Nel 1900 il Nicolaides (7) comunicò di aver tenuto in vita per un lasso di 92 e 22 giorni rispettivamente, due cani ai quali aveva resecato i due vaghi lasciando trascorrere 45 giorni fra l'una e l’altra operazione. Il Ni- colaides non dà una precisa interpretazione di questo fatto, se non ammet- tendo che l'intervallo trascorso abbia permesso lo stabilirsi di qualche mec- canismo di compenso e di adattamento. Le esperienze, che io feci, avevano lo scopo di conoscere un po’ più da vicino la natura di questi compensi e di questo adattamento, nonchè le cause della morte in seguito alla sezione del X pajo. Le mie osservazioni sul coniglio mi portarono senz'altro ad escludere questo animale, giacchè tutti i conigli operati, nonostante che io mi atte- nessi alle indicazioni del Nicolaides, lasciando passare 45-50 giorni fra la la prima e la seconda vagotomia, morirono nelle 24 ore successive all’ ul- timo atto operativo. I cani mostrarono una resistenza alquanto maggiore, ma non posso cer- (*) R. Zander, Nolgen der Vagusdurchschneidung bei Vògeln. Pfliiger's Arch. 1879, XIX, pp. 263-334. (?) I. Ph. Elias, Hartziekten afhankelyk van aandoeningen der Nervi vagi. Aca- demisch proefschrift. Utrecht 1894. (*) L. Krehl, Veber die Folgen der Vagusdurchschneidung. Du Bois Reymond's Arch. f. (Anat. u.) Physiol. 1892. Suppl. Bd. S. 278-290. (4) J. P. Pawlow, Veber das Ueberleben der Hunde nach der Durchschneidung der Vagi. Citato da Katschkowski. (°) P. Katschkowski, Das Ueberleben der Hunde nach einer gleichzeitigen doppelten Vagotomie am Halse. PAiùger's Arch., 1901, LXXXIV, pp. 6-56. (6) H. Friedenthal, Entfernung eatracardialer Herenerven. Engelmann's Arch. f. (Anat. u.) Physiol. 1902. S. 135-145. (*) R. Nicolaides, Veber den Erfolg der ungleichzeitigen Durchschneidung der Vagi bei Hunden. Centralbl. f. Physiol., 1900, XIV, pp. 197-201. Due cani così operati furono dal Nicolaides portati al Congresso Internazionale di Fisiologia di Torino (1901): essi sopravvivevano da 10 e 19 mesi rispettivamente. — 742 — tamente chiamare sopravvivenza il massimo di 17 e 28 giorni rispettiva mente durante i quali potei tenere in vita due cani — nei casi più for- tunati — nonostante le cure igieniche e dietetiche di cui li avevo cir- condati. i L'esame necroscopico degli animali venuti a morte, ha particolarmente richiamata la mia attenzione, ed ora farò rapido cenno di qualche caso. Cane B. — Cane adulto: peso Kg. 8,700. Resezione del tronco vago- simpatico sinistro il 31 gennaio; dopo 47 giorni resezione del vago-simpa- tico destro. Il tratto resecato fu ogni volta di 5 centimetri. L'animale muore in condizioni di denutrizione grave, 17 giorni dopo il secondo atto opera- tivo. All’autopsia i polmoni si mostrano normali; si retraggono all'apertura della cassa toracica, sono di colorito roseo chiaro, aereati equabilmente in tutta la loro massa. Crepitano alla pressione, galleggiano sull'acqua e non contengono nel lume dei bronchi sostanze eterogenee. L'esofago è disteso, ma di calibro uniforme, lo stomaco disteso e pieno. Il cuore presenta dila- tazione del ventricolo sinistro. Cane C. — Cane adulto: peso Kg. 12,800. Il 26 dicembre reseco un tratto di 5 cm. del vago-simpatico sinistro. L'animale si mantiene in ottime condizioni per 70 giorni. La frequenza del polso è però sempre elevata; in media 128 pulsazioni e 15 respirazioni al minuto. Il 5 marzo sagrifico l’ani- male per un’altra esperienza. All’autopsia i polmoni si dimostrano normali come nel caso precedente. Cane D. — Cane adulto: peso Kg. 12,700. Il vago-simpatico destro è resecato il 25 febbraio. Dopo 62 giorni durante i quali l'animale è stato in buone condizioni, ed è cresciuto di peso (Kg. 15,700), avendo in media 100 pulsazioni e 18 respirazioni al minuto, asporto un tratto del pneumo- gastrico dell’altro lato. Dopo 28 giorni l'animale muore, in istato di denu- trizione avanzata. All’autopsia i polmoni si retraggono normalmente all'aper- tura del torace; il sinistro è roseo, ben aereato, crepita alla pressione, gal- leggia sull’acqua; il destro è normale fuorchè nella parte superiore del lobo medio, e nell’inferiore del lobo superiore, che presentano qualche zona ipe- remica. Esofago ampio, pieno di sostanze alimentari liquide o poltacee; il cardias non è contratto; lo stomaco d'apparenza normale ha uno scarso con- tenuto simile a quello esofageo. Il cuore è flaccido, dilatato in tutte le sue cavità, particolarmente nel ventricolo sinistro. Cane FP. — Cane adulto: peso Kg. 10,500. Il 12 marzo asportazione di un tratto di 4 cm. del vago-simpatico sinistro. Dopo oltre 60 giorni reci- sione dell'omologo di destra. Il giorno seguente l’animale muore. All’autopsia i polmoni non presentano che un lieve edema circoscritto alla parte centrale di qualche lobo; nel resto sono normali. Apparato digerente normale. Ven- tricolo sinistro del cuore notevolmente dilatato. Queste osservazioni ed altre analoghe, che per brevità non riferisco, mi — 743 — avevano convinto: 1) che la causa della morte da vagotomia non va ri- cercata in fatti polmonari come ritenevano molti autori precedenti e, fra i più recenti, Herzen (*) e Nicolaides, e neanche in disturbi dell'apparato digerente come ritengono Pawlow e Katschkowski; 2) che la causa vera della morte è da cercarsi nelle gravi e costanti lesioni cardiache (*) de- terminate probabilmente per due ragioni dalla vagotomia: e cioè per la mancanza dell’azione trofica del vago, e per l’eccesso di lavoro cui è sot- toposto l'organo; 3) che un intervallo di 45-60 giorni fra le due va- gotomie non basta a salvare gli animali dalla morte. Io non avrei probabilmente pubblicati i risultati di queste osservazioni. sulle quali è ormai trascorso qualche anno, se non credessi di poter dare un contributo a questioni che furono ancora trattate in tempi assai recenti. Nel 1907 il Nicolaides pubblicò una Nota (*), nella quale riferisce di aver ottenuto la sopravvivenza di conigli, aì quali aveva estirpato in primo tempo il polmone destro, e resecato in secondo tempo il vago sinistro al collo. Dall'esposizione di questo fatto, potrebbe sembrare che la questione più generale della sopravvivenza alla doppia vagotomia, dovesse ritenersi risolta. Credo dunque di dover insistere sul fatto che la sopravvivenza degli animali in queste condizioni non è dimostrata, e che le prime osservazioni isolate del Nicolaides aspettano ancora una spiegazione e una conferma. Vi- ceversa, che la recisione dei vaghi polmonari, come l’ha fatta il Nicolaides, sia compatibile con la vita è in armonia con il concetto che la causa della morte nella bivagotomia al collo risieda nelle lesioni cardiache. Infatti l'asportazione del polmone, eseguita con le dovute cautele, non distrugge 1 rami cardiaci del vago, e l’animale, dopo la sezione dei vago all’altro lato, resta, sotto questo rapporto, nelle condizioni di un animale con un solo vago tagliato. Venendo poi a parlare di quei meccanismi di compenso, che secondo il Nicolaides si formerebbero durante l'intervallo fra la prima e la seconda vagotomia, ed ai quali sarebbe dovuta la sopravvivenza dell'animale, è natu- rale pensare prima di tutto alla rigenerazione del primo tronco nervoso re- secato. Ma è superfluo notare che, se veramente avesse luogo questa reinte- grazione, le condizioni essenziali del problema, e cioè la interruzione dei due vaghi, cesserebbero di esistere. All’autopsia degli animali operati, trovai sempre che, dopo 25 giorni dalla resezione di un tronco vago-simpatico, i due monconi, pur essendo lon- (1) Herzen, Les causes de la mort après la double vagotomie. Lausanne, 1897. (2) Per maggiori particolari intorno a coteste lesioni cardiache cfr. la mia Nota : Sulle alterazioni del miocardio in seguito alla vagotomia. Questi Rendiconti, pag. 736. (3) Nicolaides R., Das &Derleben von Kaninchen nach Ausschaltung beider Lungen- vagi. Centralbl. f. Physiol., 1907, XX, pp. 766-768. — 744 — Ù tani fra loro 4-6 cm., si erano riuniti per mezzo di un cordone biancastro, i che all'aspetto esterno poteva sembrare un nervo. Questo cordone, che all'esame | istologico si dimostrò esclusivamente costituito di tessuto fibroso, prende origine contemporaneamente dai due monconi, che presentano una forma cla- vata. Esaminando al microscopio la clava del moncone centrale, la troviamo | costituita da un tessuto fibroso fascicolato, e frammezzo ai fasci fibrosi — | specialmente a quelli centrali — si scorgono numerosi cilindrassi circondati Fic. 1. — Sezione longitudinale della clava terminale del moncone centrale di vago- simpatico resecato da 64 giorni. Fissazione in Flemming, senza colorazione. di mielina. Cotesta mielina offre l'aspetto di quella in rigenerazione (v. fig. 1). Cilindrassi e guaine mieliniche si arrestano però poco dopo il punto dove il moncone nervoso si ingrossa in forma di clava, ed il tessuto connettivo di cui questa è formata ne arresta l'accrescimento. Appare dunque manifesto che una rigenerazione di fibre nervose dal centro verso la periferia non è avvenuta affatto. Ma non dobbiamo dimen- ticare che secondo la dottrina autogenista o periferista, in questi ultimi anni vivamente sostenuta specialmente dal Bethe (!), è possibile la comparsa di (1) A. Bethe, Neue Versuche dber die Regeneration der Nervenfasern. Pfluger®s Arch., 1907, Bd. 116, 385-478. AS — fibre nervose rigenerate entro il moncone periferico, prima che fra l'uno e l’altro moncone vi sia un passaggio di fibre nervose. Se ciò fosse vero, il fatto, ora descritto, che i due monconi sono con- nessi da una bandelletta fibrosa, non basterebbe a risolvere il nostro quesito, giacchè il moncone periferico potrebbe, ciò nonostante, contenere fibre ner- vose ed essere eccitabile, pervenendogli gli stimoli dai centri per qualche via collaterale od anastomotica. ca Tg IL Foccal Fre. 2. — Sezione trasversale del moncone centrale dello stesso tronco vago-simpatico, un cm., sopra la clava terminale. Fissazione in liquido di Flemming senza colo- razione. L'esame istologico del moncone periferico ci dimostra però che in esso, quando l'accrescimento delle fibre nervose rigenerate si arresta al moncone centrale, e non attraversa la cicatrice, non si trovano fibre rigenerate,} chè anzi il moncone periferico è trasformato in un cordone fibroso; più che, le ] parole giova a questo riguardo il confronto fra la fig. 2 e la MEO &4 MAll’esame istologico del nervo resecato, ho unito anche il suo esame funzionale, per escludere l'esistenza di fibre che reintegrassero la via ner- | vosa artificialmente interrotta, sfuggendo all’osservazione microscopica. Sopra due cani, che avevano subìto la resezione del vago-simpatico sinistro rispet- tivamente da 64 e 67 giorni, ho fatto la seguente esperienza: Fissato e mor- } finizzato l’animale, introducevo nella carotide destra una cannula congiunta — 746 — a) il moncone ggio 1902. CA simpatico destro ed accertato che sti- riferico determinano notevole abbassamento dei rocchetti 16 cm. Cane F. 15 ma Sezione trasversale del moncone periferico, due cm., sotto la clava terminale; il resto come per la figura precedente. con un manometro scrivente a mercurio, prendendo il tracciato della pres- sione e del polso carotideo, ricercando se il vago-simpatico resecato fosse Fic. 3. Fia. 4. — Eccitazione del moncone periferico del vago-simpatico destro. Distanza pressione e del polso. Reciso il vago- moli leggeri del suo moncone pe della pressione arteriosa e pausa cardiaca (v. fig. 4), eccitavo = Pages | centrale del n. V. destro; 2) il n. V. sinistro al di sopra della cicatrice; e) la cicatrice; d) il n. V. sinistro al di sotto della cicatrice. Lo stimolo era dato da una corrente indotta (slitta di Du Bois-Reymond), e la distanza fra il primario ed il secondario variava progressivamente da 21 a 4 cm. Il risul- tato fu sempre negativo (v. fig. 5 e 6). | Fic. 5. — Eccitazione del moncone centrale del vago-simpatico sinistro. Distanza Ì dei rocchetti 4 cm. Cane F. 15 maggio 1902. Non solo dunque non c'era, dopo 64 giorni dal taglio, rigenerazione anatomica del tronco nervoso resecato, ma non si erano stabilite neanche Mi... I Fre. 6. — Eccitazione del moncone periferico del vago-simpatico sinistro. Distanza dei rocchetti 6 cm. Cane F. 15 maggio 1902. altre vie, per le quali le eccitazioni del nervo dell’altro lato potessero, at- traverso i centri e vie nervose del lato operato, giungere al cnore. Queste osservazioni che debbo esporre con la massima brevità, ma che mi sembrano condotte con quelle modalità tecniche, la cui necessità fu posta in rilievo dalle più recenti discussioni sulla rigenerazione dei nervi (1), (1) Per la letteratura risguardante la rigenerazione nervosa, oltre il già citato la- RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. 96 | | — 748 — credo parlino molto chiaramente in favore della dottrina centralista, dimo- strando che il moncone periferico di un vago resecato non contiene fibre nervose e non è eccitabile, finchè la rigenerazione degli elementi nervosi, che è in atto nel moncone centrale, non ha raggiunto e oltrepassato la cicatrice. Per il problema speciale poi, dal quale sono partito, aggiungo alle con- clusioni di pag. 739 che: l'intervallo di 45-60 giorni fra la vagotomia destra e la sinistra, non permette il ristabilirsi di vie nervose dal lato prima operato, che possano spiegare la sopravvivenza degli animali. Chimica — Sulla fabbricazione della ghisa malleabile (*). Nota di F. GioLiTTI, F. CARNEVALI e G. GHERARDI, presentata dal Socio E. PATERNÒ. Proseguendo l’interpretazione dei risultati delle nostre esperienze intorno al processo di fabbricazione della ghisa malleabile, esponiamo senz'altro le ipotesi che a noi paiono meglio fondate, per spiegare i fenomeni che il prof. Wiist attribuisce alla « inversione » del processo dell’affinazione (?). Prima di tutto ci pare che l'aumento temporaneo della proporzione del- l'anidride carbonica nell’esperienza X del prof. Wiist, debba attribuirsi esclu- sivamente a cause accidentali: ad esempio, ad un temporaneo abbassamento di temperatura, ecc. In secondo luogo crediamo di poter affermare che non esiste alcuna re- lazione fra questo fenomeno e la presenza della zona perlitica osservata dal Wiist. E ciò non solo perchè constatammo la presenza di questa zona in tutti i numerosissimi campioni di ghisa affinata (raffreddati lentamente) che ebbimo occasione di esaminare, e pei quali sarebbe difficile ammettere sia sempre avvenuto il fenomeno di « inversione » supposto dal Wiist, ma anche (e sopra tutto) perchè tale zona si presenta sempre anche in una classe di prodotti pei quali non è possibile ammettere l'inversione fra il processo di cementazione e quello di affinazione ossidante: vogliamo dire degli acciaj dolci cementati con idrocarburi gassosi puri, in presenza di un abbondante depo- sito di carbonio solido finemente diviso. voro del Bethe, vedi: A. Perroncito, La rigenerazione dei nervi. Memorie del R. Isti- tuto Lomb. di Scienze e Lettere, 1908, vol. XX, fascicolo 10. Questa Memoria contiene la letteratura precedente dell'argomento. Vedi inoltre: A. Bethe, Bemerkungen cur Arbeit von A. Perroncito. Ziegler®s Beitràge zur patholog. Anat. u. s. w. 1908, XLIII, pp. 233-237. (1) Ricerche eseguite nell’officina Delta della Soc. Gio. Ansaldo Armstrong e ©., e nell'Istituto Chimico della R. Università di Roma. (€) F. Wist, Veber die Theorie des Glihfrischens, Metallurgie, V (1908), pp. 7-12. — 749 — Il fotogramma 7 (tav. II, ingrand. 6 diam.) (!) rappresenta la sezione, levigata ed attaccata con soluzione amilica di acido nitrico, di un cilindretto di acciajo dolce (0,05 °/, C), cementato durante tre ore con metano puro a 1100°: in condizioni, dunque, nelle quali non si può supporre che il pro- fcesso di cementazione possa mai trasformarsi in un processo di ossidazione; come lo prova l'abbondante deposito di carbonio che ricopre i cilindretti d'acciajo alla fine dell'esperienza. Nel fotogramma si vede (se bene non così fortemente marcato come nella fotografia del prof. Wiist, eseguita con mezzi assai migliori dei nostri) l'anello scuro, compreso fra le due zone — esterna ed interna — più chiare. Il fotogramma 9 (tav. II) rappresenta con un maggiore ingrandimento (75 diam.) un tratto del lembo esterno della sezione dello stesso cilindretto. In essa si vede bene la zona esterna, contenente aghi di cementite lucidi che la fanno apparire più chiara sotto deboli ingrandi- menti; la zona intermedia di perlite pura, del tutto opaca; ed il principio della zona interna, chiara per i suoi lembi lucidi di ferrite. L'analisi, ese- (£) La figura 1 e i fotogrammi citati in questa Nota sono stati pubblicati nel prece- dente fascicolo di questi Rendiconti. — 750 — guita sul materiale degli strati successivi dello spessore di mezzo millimetro asportati al tornio dal cilindretto, diede i seguenti risultati : Profondità in mm. Carbonio °/o 0,25 1,28 0,75 1,30 1,25 1,02 1,75 0,82 2,25 0,58 2,79 0,21 rappresentati graficamente nel diagramma qui unito (figura 2). Questa curva ha un andamento analogo alla curva À della fig. 1, qua- lora si tenga conto del fatto che, trattandosi nei due casi dei due fenomeni inversi, dell'affinazione e della cementazione, le due curve devono essere — per così dire — « invertite » l'una rispetto all'altra. Del resto l'analogia di « distribuzione » del carbonio nelle zone esterne delle ghise affinate e degli acciaj cementati appare chiara anche dall'esame microscopico: è infatti evi- dente l'analogia fra la microfotografia che rappresenta la sezione dell'acciaio cementato nel fotogr. 9 (tav. II), e quella dell'orlo della sezione di una ghisa bianca (della composizione indicata più indietro) affinata con ossido di ferro per 48 ore, rappresentata nel fotogr. 8 (tav. IT, ingrand. 20 diam.). Anche qui compaiono le due zone chiare (ipo- e ipereutectica) separate dalla zona scura di perlite pura: ed anche qui, come per le curve, i rapporti sono in- vertiti: nella ghisa affinata la zona ipoeutectica è quella esterna, e quella ipereutectica (caratterizzata dagli aghi di cementite) è l'interna. Stabilito così che la zona perlitica non è dovuta all’ « inversione » del processo di affinazione, e prima di esporre le nostre ipotesi, dobbiamo far notare che tale zona non è più ricca in carbonio della zona interna contigua, come il Wiist pare supporre. Ciò è provato in modo ben chiaro dai risultati delle analisi, rappresentati graficamente dalle due curve A elB (fig I)ze dalla curva della fig. 2 ('). Da queste curve risulta evidente un semplice rallentamento della variazione della concentrazione del carbonio in corrispon- denza della zona di perlite (ciò che è ben naturale quando si pensi che la (1) L'affermazione del Wiist si fonda sulla supposizione che il sistema costituito da perlite e carbonio di ricottura debba necessariamente contenere sempre una quantità di carbonio totale superiore a quella contenuta nel sistema ferrite-carbonio di ricottura. Ora è evidente invece che si può soltanto affermare che il primo sistema contiene il 0,9 °/o di carbonio totale più di quanto non ne contenga uno formato da ferrite e da una uguale quantità di carbonio di ricottura; ed è superfluo ricordare come dall’esame microscopico (che permette di determinare con una certa approssimazione il carbonio totale nei sistemi ferrite-perlite) non possa trarsi alcuna indicazione, nemmeno grossolana, sulla proporzione del carbonio di ricottura contenuto in un acciajo od in una ghisa. — 751 — zona costituita di perlite pura deve avere composizione costante): rallenta- mento seguìto e preceduto da due tratti di curva più rapidamente ascen- denti, raccordati alla loro volta con tratti meno inclinati. Queste variazioni trovano il loro riscontro nella microstruttura delle zone affinate. Così, esami- nando l’orlo estremo della sezione di una ghisa affinata per 48 ore (v. foto- gramma 8, tav. II, ingrand. 20 diam.), vi troviamo procedendo dall'esterno all’interno, un primo strato costituito da perlite e ferrite, nel quale la pro- porzione della ferrite diminuisce da prima gradualmente (primo tratto len- tamente ascendente della curva B (fig. 1), per cessare poi quasi bruscamente cedendo il posto alla perlite pura (tratto rapidamente ascendente) (*). La seconda zona, formata da perlite quasi pura, e quindi necessariamente a com- posizione costante, corrisponde al tratto quasi orizzontale della curva (tratto che nei diagrammi non risulta netto come dalla linea punteggiata, a causa dell’impossibilità di analizzare strati abbastanza sottili e numerosi). Infine nella terza zona appare bruscamente una quantità notevole di cementite (tratto rapidamente ascendente della curva) che va poi lentamente aumen- tando (ultimo tratto della curva). Le stesse osservazioni — invertite — possono ripetersi per gli acciaj cementati con idrocarburi (v. fotogramma 9, tav. II). Ciò posto, non è difficile trovare una spiegazione semplice di questi fenomeni: basta, per ciò, riferirsi alle leggi ben note che regolano la sepa- razione primaria della ferrite e della cementite dalle leghe ferro-carbonio, in funzione della temperatura e della concentrazione del carbonio. Conside- riamo, per esempio, il caso della ghisa affinata durante 48 ore, al quale si riferisce il fotogramma 8 (tav. II). Quando il pezzo di ghisa si trova ad una temperatura elevata — supe- riore ai 900° — la concentrazione del carbonio varia uniformemente a mano a mano che dalla superficie esterna si procede verso l'interno. Lasciando raf- freddare la massa lentamente, i cristalli di ferrite e di cementite comin- ciano a separarsi dove la concentrazione del carbonio è rispettivamente mi- nima e massima: cioè la ferrite comincia a separarsi alla superficie del pezzo, e la cementite nel suo interno. Col procedere del raffreddamento, i cristalli di ferrite si vanno formando a poco a poco anche nelle zone a mano a mano più carburate, e quelli di cementite anche nelle zone meno carburate di quelle nelle quali hanno cominciato a formarsi. Ma i cristalli dei due costituenti si formano, naturalmente, in maggior quantità nei punti dove esistono già dei cristalli dei costituenti stessi, agenti come « germi » di cri- stallizzazione: e ciò entro i limiti posti dalla relativa lentezza colla quale hanno luogo gli uguagliamenti di concentrazione nelle soluzioni solide. (4) Questo fatto risulta più evidente nel fotogramma 2 (tav. I), che rappresenta un punto della zona affinata della stessa ghisa, ma con un ingrandimento maggiore (60 diam.). “E FF — 752 — Talchè si avrà un accumularsi della ferrite (mista a perlite) nella zona esteriore del pezzo metallico: ed un fenomeno simile si verificherà per la cementite nelle zone più profonde. In tal modo quella sottile zona inter- media, che sola in principio aveva la composizione della perlite (0,9 °/o C), andrà allargandosi, perchè all'esterno vi si aggiungeranno le zone che prima avevano composizione ipoeutectica, arricchite in carbonio per la separazione della ferrite depostasi attorno ai cristalli di essa già formatisi alla super- ficie esteriore della massa, e all’interno vi si aggiungeranno le zone con- tigue ipereutectiche, impoverite di carbonio per la separazione di cementite intorno ai « germi » di essa preformatisi nelle zone più profonde. Raggiunta la temperatura eutectica — 690° — la zona di perlite, così allargatasi, si solidificherà isotermicamente; e le due zone contigue ad essa conterranno nelle parti con essa confinanti delle quantità rispettivamente di ferrite e di cementite, maggiori di quelle che risulterebbero da una uni- forme variazione della concentrazione del carbonio. È questa appunto la struttura corrispondente ai varî diagrammi prece- denti e alle varie micrografie riprodotte prima. Su queste ipotesi torneremo fra breve, in altra occasione: poichè esse hanno spiegato chiaramente il fenomeno della sfaldatura profonda dei pezzi d'acciaio cementato (fenomeno che si manifesta soprattutto negli ingranaggi cementati un po’ profondamente), ed hanno indicata la via per evitarlo. Per ora ci basta aver mostrato come si possa spiegare con un semplice fenomeno di liquazione la formazione della zona perlitica, tanto pel caso delle ghise affinate, quanto per quello degli acciaj cementati, senza ricorrere all'ipotesi dell’inversione del processo di affinazione 0 di cementazione: ipotesi che nel primo caso è assai improbabile; nel secondo, inammissibile. Aggiungiamo alcune osservazioni che confermano le vedute del prof. Wiist su di un altro punto. Il prof. Wiist ha dimostrato chiaramente che l’affina- zione della ghisa si compie per azione dei gas ossidanti, scaldando nello stesso spazio chiuso la ghisa e l’ossido di ferro non in contatto l'una con l’altro. Ora, alcune nostre osservazioni mostrano che, anche quando la ghisa è scaldata én contatto coll'ossido di ferro, l'azione dei gas che si diffondono nella ghisa ha ancora una forte preponderanza sul fenomeno della diffusione del carbonio dall'interno all’esterno della massa metallica, per effetto della differenza di concentrazione creata dall’affinazione superficiale di contatto. Il fotogramma 6 (tav. I) rappresenta (all'incirca ai ?/; della grandezza na- turale) la sezione trasversale, levigata ed attaccata, di un pane della solita ghisa bianca, affinato durante 192 ore in contatto con ossido di ferro in gra- nuli. Sulla sezione risulta evidente la zona perlitica scura: e vi è anche evi- dente il passaggio brusco tra questa zona e quella interna, nella quale ap- pare la cementite (in questo caso divenuta granulare per lungo riscaldamento). — 758 — Il fotogramma 5 (tav. I) rappresenta con un po’ più forte ingrandimento (250 diam.) un punto della linea di separazione fra le due zone. Il pane di ghisa presentava due sottili screpolature longitudinali, delle quali si vedono sulla sezione le tracce, ingrossate dalla sfaldatura degli orli prodottasi du- rante la levigazione della sezione stessa: tali screpolature erano tanto sottili che non apparivano all'esterno del pane di ghisa. Ora, dalla fotografia ap- pare evidente (e l’analisi micrografica lo ha — come or ora vedremo — . confermato) che l'affinazione ha avuto luogo anche sulle superficie delle scre- polature, dove i granuli di ossido ferrico non potevano giungere, con intensità pari a quella con cui si è manifestata sulla superficie esterna del pezzo: ciò che prova come anche in questo caso l’azione affinatrice dei gas abbia una forte preponderanza su quella dell’ossido solido. Inoltre il Wiist aveva già osservato che alla superficie dei pezzi di ghisa affinata si forma sempre uno strato sottile di ferrite pura, che egli con- sidera come ferro proveniente dalla riduzione, per opera del carbonio della ghisa dell’ossido ferrico adoperato come agente affinatore: ferro che, a causa dell'elevata temperatura, sarebbe rimasto « saldato » sulla superficie della ghisa. Ora, le nostre esperienze non confermano tale ipotesi. Infatti, lo strato di ferrite aumenta gradualmente col prolungarsi del processo dell’affinazione, raggiungendo in molti punti — per la ghisa affinata durante 192 ore, rappresentata dal fotogramma 6 (tav. I) — lo spessore di 3-4 mm. (come appare nella parte superiore e sui due lati del suddetto fotogramma). Ora in questo caso, poichè l'orlo esterno della zona di ferrite coincide ancora coll'orlo della sezione primitiva del pane di ghisa, mentre l'orlo interno corrisponde in modo evidente ad un’area assai minore, è neces- sario conchiudere che lo strato di ferrite non è costituito da materiale estraneo « saldatosi » sulla superficie esterna della ghisa affinata, ma risulta dalla completa decarburazione dello strato esteriore della ghisa stessa. A conferma di ciò, riproduciamo nel fotogramma 3 (tav. I, ingrand. 50 diam.) la foto- grafia di un punto dell’angolo a sinistra (in alto) della sezione del foto- gramma 6: nella fotografia — presa in un punto della linea che separa nettamente la zona di ferrite pura da quella di ferrite e perlite — appare chiaramente che i grandi granuli di ferrite delle zona esterna non sono che la continuazione di quelli intercalati alla perlite della zona sottostante; nè possono, quindi, provenire da materiale estraneo saldatovi. E, infine, una prova decisiva di quanto, affermiamo risulta dal fatto che lo strato di ferrite pura si forma anche (ed in ugual misura) nelle zone adiacenti alle facce delle sottili screpolature, dove l’ossido di ferro (che dovrebbe fornire la fer- rite pura) non può giungere. Ciò appare già dal fotogramma 4 (tav. I), che riproduce una fotografia presa, con un ingrandimento di 100 diam., presso l'estremità interna della screpolatura che appare a sinistra del fotogr. 6. — 754 — Quanto al fenomeno della riduzione completa dell’ossido di ferro che è a contatto colla superficie della ghisa, con formazione di ferro puro che resta in parte aderente alla massa metallica, anch'esso sì verifica frequentemente : ma il ferro che così si forma, costituisce una massa spugnosa (quale è quella che aderisce all'orlo sinistro della piastrella di ghisa del fotogr. 6), ed è nettamente separato e distinto dalla zona esterna di ferrite pura compatta che si forma sempre su tutta la superficie dei pezzi di ghisa affinata. Questo strato esterno, completamente decarburato, fornisce una ulteriore prova dell’azione preponderante dei gas ossidanti che si diffondono nel me- tallo, su quella dovuta alla tendenza ad uguagliarsi della concentrazione del carbonio disciolto. Basta infatti pensare che — mentre i gas ossidanti che si diffondono nella ghisa bruciano prima del carbonio contenuto negli strati esterni, decarburandoli — il fenomeno dell'uguagliamento della concentra- zione del carbonio disciolto tenderebbe invece a portare il carbonio dagli strati interni, che ne sono più ricchi, agli esterni, che ne sono rimasti privi. È dunque evidente la preponderanza — o, più esattamente, la maggiore velocità — del primo processo. Matematica. — Alcune nuove espressioni assolute delle cur- vature în un punto di una superficie. Nota di C. BurALI-FORTI, presentata dal Corrispondente Levi-CIVvITA. Questa Nota sarà pubblicata nel prossimo fascicolo. Patologia vegetale. — apporto fra micotrofia e attività funzionale nell’Olivo ("). Nota di L. PETRI, presentata dal Socio G. CUBONI. Le ricerche sopra la diffusione delle micorize nei vegetali superiori sono state rivolte di preferenza alle essenze forestali o a piante viventi spon- taneamente, trascurando, forse un po’ troppo, le piante agrarie coltivate, come se la facoltà di formare micorize rappresentasse un carattere primor- diale, proprio delle piante selvatiche o inselvatichite, tendente a scomparire per la coltura continuata. Così fra le Oleaceae sono citate come piante mi- cotrofiche facoltative il Yraxinus excelsior, il F. Ornus, la Syringa vul- garis e il Ligustrum vulgare (2); ma, per quanto io sappia, intorno alla mi- cotrofia dell’ Olea europaea, sia selvatico che coltivato, nessuna ricerca è stata (!) Ricerche eseguite nell'Osservatorio per lo studio della biologia e patologia del- Olivo in Lecce. (® Cfr. Stahl E., Der Sinn der Mykorrhizenbildung, Jahrb. f. Wiss. Bot., Bd. XXXIV. iper] — 759 — fatta fino ad oggi, Credo quindi opportuno riferire brevemente in questa Nota alcuni fatti che, studiando la « Brusca» dell'Olivo (*), mi è stato dato di osservare sulle micorize di questa pianta, così importante nella nostra agri- coltura. Frequenza e diffusione della micoriza. — Le radici dell'Olivo presen- tano il tipo di micoriza endotrofica (Frank), con caratteri che più sotto de- scriverò sommariamente, ma che rientrano fra quelli già noti per le mico- rize di piante legnose. In un olivo normale, di 40 0 50 anni, in buone con- dizioni di vegetazione, il 40°/, circa delle radichette erbacee costituiscono micorize; questa percentuale sembra aumentare con l’età. Gli olivi più volte secolari della Terra d'Otranto mostrano infatti una maggior frequenza della micorizia. Le piante giovani di 4-10 anni, nate da seme, presentano il 10 o il 20 °/, circa di radichette micotrofiche. Il fittone della piantina germi- nante non ne presenta traccia alcuna; l'infezione per parte dell’endofita è assai tardiva in generale, direttamente dipendente dalle condizioni del suolo più o meno favorevoli al suo sviluppo. Ho potuto esaminare, per ora, ra- dici di olivo, tutte portanti in maggiore o minore quantità delle micorize, che provenivano dalle provincie di Novara (Intra), di Porto Maurizio, di Pisa (Cecina), di Roma (Tivoli), di Lecce, di Bari, di Reggio Calabria, di Sas- sari, di Palermo, di Siracusa (Noto). Da alcune di queste località ho rice- vuto radici di varietà coltivate diverse e di o/eastri. Questi ultimi presentano una frequenza notevolmente minore della mico- riza in confronto alle varietà gerzil;. Dai resultati di queste ricerche. pre- liminari mi credo autorizzato a ritenere che la presenza di micorize endo- trofiche sia costante nell’olivo, tanto allo stato coltivato che selvatico, in ter- reni e climi molto diversi fra loro; questa frequenza della micoriza si pre- senta in grado snperiore a quella notata in altre oleacee, (Yraxznus), nelle quali qualche volta è rarissima e può anche mancare. L'assenza di micoriza nelle piantine germinanti e anche dopo qualche mese dalla loro nascita pone l'olivo fra le piante micotrofiche facoltative, giacchè è molto probabile che l'associazione simbiotica tra l’endofita e le radici di questa pianta non sia una condizione necessaria al suo normale sviluppo, anzi sembra costituire un carattere secondario che si accentua con la coltura intensiva. Devo an- cora notare che la coesistenza di micorize ectotrofiche è assolutamente da escludersi per l’Olivo. Aspetto esterno della micoriza. — Nessuna modificazione importante di forma, di dimensione, di colore avviene nelle radichette abitate dal sim- bionte fungino. Si nota solamente un leggero aumento di spessore nella por- (') Per notizie intorno a questa malattia, cfr. Boll. Uff. Ministero di Agricoltura, anno II, vol. IV, pag. 469, 1508. Ibid., anno IV, voll. III e IV. Questi Rendiconti, vol. XIV. Per « brusca» intendo la malattia delle foglie dell'olivo caratterizzata dalla com- parsa su queste degli apoteci della Stictis Pamizzei De Not. RenpiconTI. 1908, Vol. XVII. 2° Sem. 97 — 756 — zione mediana e terminale in confronto a quella della parte più prossima alla radice madre che resta del diametro normale, cosicchè le radichette tra- sformate in micorize sono leggermente rigonfiate nella porzione mediana: sono dunque quasi fusiformi o claviformi (fig. 2). La loro superficie non è com- pletamente omogenea, qua e là sono piccole verruche che rendono queste ra- dichette come bitorzolute; il colore si fa di un giallo opaco, da translucido che è nellle radichette normali. Infine l'arresto di sviluppo dell’apice, e quindi la relativa brevità in confronto al loro diametro aumentato, caratte- rizza molte di queste radici abitate dall’endofita. Questo arresto dell’accrescimento degli apici, che avviene quando l’infe- zione è notevolmente intensa, determina l'emissione di numerose radichette secondarie, in modo che in breve tempo si ha una ripetuta ramificazione N9A,, ear 1. 2. Fig. 1. — Terminazione di una ‘radice di olivo con formazione normale di micorize. Fia. 2. — Id. con trasformazione completa di tutte le radichette in micorize. dell'estremità radicale, prendendo l'aspetto quasi coralloide, osservato già molte altre volte in casi consimili in altre piante (fig. 2). La formazione di peli assorbenti non è impedita nelle radici trasformate in micorize; ho notato però che essa è molto diminuita in confronto a quella delle radichette autotrofiche. Rapporto fra le condizioni di vegetazione dell’olivo e lo sviluppo delle micorize. — Gli olivi concimati con stallatico, con perfosfati minerali, con sovesci di leguminose, o comunque in altro modo, presentano una percentuale minore di micorize, e molto meno ne presentano quelle piante che sì trovano in terreni con un contenuto in acqua assai costante, sufficiente alla vegeta- zione degli olivi anche nei mesi di grande siccità. Gli olivi, per es., dei paduli di Maglie (Lecce) presentano una minima quantità di micorize in con- fronto a quelli posti nella zona più a Nord (Lizzanello, Martano) che, a causa della natura del sottosuolo, per molti mesi dell’anno sono sottoposti a una estrema deficienza d'acqua ('). Lo sviluppo della micoriza mostra di (*) Biisgen (Jahresber. d. Vereinigung d. Vertr. d. ang. Bot. 1904-05, pag. 65) stu- diando il comportarsi della ramificazione delle radici capillari negli alberi in rapporto — 757 — essere inversamente proporzionale all’attività vegetativa della pianta ospite; questo stesso rapporto però non si verifica per la fioritura, la quale è abbon- dantissima tanto nelle piante poste in terreni secchi, a micoriza abbondante, quanto in quelle in terreni con sufficiente acqua a scarsa formazione di mico- rize. Un tale rapporto però si conserva evidentissimo per ciò che riguarda la fruttificazione; giacchè la colatura, per aborto dell'ovario, nelle piante con assorbimento radicale limitato, per mancanza d'acqua, è notevolmente , superiore a quello delle piante con normale e sufficiente assorbimento. La differenza di comportamento nello sviluppo dell’ovario fra queste due cate- gorie di soggetti si verifica nel mese di maggio, soprattutto quando ancora il fiore è chiuso. Mentre infatti negli olivi di Maglie, posti in terreno ricco d'acqua, la percentuale degli ovarî abortiti si è mantenuto dal 80 al 50 °/ circa, a Lizzanello, in poco più di una settimana, è salita dal 30 al 98 °/,. Anche in questi casi dunque lo sviluppo della micoriza è indirettamente proporzionale all'andamento del processo normale dello sviluppo del fiore, e quindi anche ai processi nutritivi che lo determinano. Nel maggio del 1906 ho eseguito in provincia di Lecce numerose espe- rienze sulla traspirazione dell'olivo sano o colpito da &rusca (!). Devo notare che già in quell’anno la malattia era in forte decrescenza, e che poche erano le foglie attaccate dalla Stictis Panizzei De Not. Ma se questo micromicete tende a scomparire, gli olivi della zona cosiddetta bruscata mostrano tuttora condizioni di vegetazione assai inferiori a quelle presentate dagli olivi delle zone immuni. Questa diminuzione dell’attività funzionale è dimostrata in modo evidente dal diminuire della traspirazione nelle piante bruscate, in quelle che lo furono e in quelle predisposte a questa malattia perchè poste nella zona d'infezione. Queste esperienze furono eseguite su rametti tagliati sott'acqua, oppure in mezzo agli oliveti sui rametti uniti alle piante, usando un apparecchio sensibilissimo, costruito appositamente. I risultati ottenuti coi rametti separati dalle piante, sono assolutamente incomparabili fra loro, e in altra Nota dimostrerò in quale misura e con alla xerofilia e idrofilia, distingue due tipi di radici terminali, e cioè uno costituito da ra- dici assorbenti spesse, poco ramificate, proprie delle piante idroflle, e un altro tipo, costi- tuito da radici assorbenti sottili e riccamente ramificate (piante xerofile). L'A. pone il Fraxinus ed altre oleacee nel 1° tipo. Dalle mie ricerche risulta per l’Olivo che esso può presentare i due tipi di radichette in dipendenza non tanto dal terreno più o meno umido, ma anche dalla presenza o assenza di micorize. Nelle radici delle cupulifere e di altre piante che secondo Biisgen presentano il 2° tipo, cioè quello comune alle xerofile, la presenza di micorize lascia un po' dubbiosi sul valore della distinzione proposta dall’A. (*) L'esposizione completa e dettagliata di queste Ego verrà pubblicata nella Re- lazione sugli studî intorno a queste malattie. -— 798 — quale errore essi ci facciano conoscere l’attività traspiratoria considerata quale indice della capacità funzionale della pianta. | Riporto nella seguente tabella alcuni dati sulla quantità d'acqua traspi- rata nell’unità di tempo da rametti di olivo Celliza, varietà resistente alla brusca, e di olivo Ogliarola, varietà non resistente. Ce dd ——1[ E ——— rr r—_—r__à——t:i Acqua traspirata in 1 ora per gr. di peso fresco Durata DATA È 7 CELLINA OGLIAROLA dell’esperienzu urT _T_ 0 .-r—_ 1 __ _ —_rr_rr—r—_——‘-ooo@@;’;)n) gr. 0,0640 gr. 0,0325 5 maggio 1906) ore. 9-11 » 0,0486 » 0,0407 6 ” ” » 9-11 » 0,0581 » 0,0412 8 ” ” » 911 » 0,0620 » 0,0532 9 » D) » 10-12 » 0,0913 » 0,0785 10 ” » ». 11-13 Questi risultati coincidono con quelli già pubblicati (*) sul grado di ‘aci dità del succo cellulare nelle piante sane e in quelle bruscate. Esperienze eseguite in zone della provincia di Lecce non soggette a brusca, dove l’ogliarolo vegeta normalmente, hanno dimostrato che il valore dell'attività di traspirazione di questa pianta è pressochè eguale a quello della. yarietà Cellina, e talvolta può anche sorpassarlo. Non voglio discutere se questa diminuzione dell’ energia vitale negli olivi bruscati sia una conseguenza dell’adbruscamento delle foglie, oppure sia la causa predisponente a questa malattia, determinata a sua volta da condi- zioni sfavorevoli dell'ambiente; per ora mi limito ‘a far notare che lo svi- luppo della micoriza costituisce un altro indice delle diverse condizioni fi- siologiche nelle quali si trovano piante sane e piante soggette a 2rusca. Gli olivi rimasti sempre immuni da questa malattia, dei quali ho esaminato le radici, appartengono alle provincie di Lecce (Maglie, Carpignano, Monteroni, Manduria), col:30-45°/, di radichette micotrofiche; di Pisa (Cecina), col 89°/ circa; di Livorno (Elba), col 50°; di Roma (Tivoli), ‘col 35 °/; di Novara (Intra), col 40 °/; di Siracusa (Noto), col 40 °/,. Le radici di piante d'olivo bruscate delle provincie di Lecce (Lizzanello, Martano, Castrì) e di Sassari, presentano rispettivamente il 75, 81, 96, 98 e 100 °/, di radi- chette trasformate in micorize. Questa anormale infezione, da parte dell’endofita, di quasi tutto l’appa- rato assorbente, ha per effetto immediato una notevole diminuzione nella formazione dei peli assorbenti, una quasi completa assenza di radichette auto- trofiche per quella specie di cimatura parassitaria delle terminazioni radicali, a cui ho accennato; e quindi la difficoltà per la. pianta di, formare nuovi organi assorbenti in strati più profondi del terreno durante la siccità estiva. (*) Cfr. Boll. Uff. Minist. d’Agricoltura, Anno IV, vol. II. — 759 — Ora io credo che si debba escludere assolutamente che queste dannose conseguenze per la vita della pianta si debbano attribuire esclusivamente a un eventuale aumento di virulenza dell’endofita; piuttosto questa rottura del- l'equilibrio che normalmente sussiste fra i rapporti mutualistici dei due simbionti dovrà cercarsi in altri fattori dipendenti forse direttamente dal- l’ambiente. Ciò anzi sarà oggetto di ulteriori ricerche. A me certo interessa porre in relazione i fatti ora esposti con le cognizioni attuali intorno alle micorize per tentare di gettare qualche luce sul significato biologico di queste strane formazioni. I DI n DA, = FIG. 3. — Porzione di una sezione longitudinale di una micoriza d’olivo con formazione anormale di vescicole. Struttura interna della micoriza nelle piante sane e in quelle ma- late. — Anche per le micorize dell'olivo, come per quelle della vite (*), la penetrazione dell’endofita nel tessuto corticale è sempre esterna, non avviene mai cioè per il passaggio del miceliò dai tessuti della radice madre a' quelli neoformati. Il percorso del micelio è dapprima intercellulare; esso si apre il cammino attraverso la lamella mediana delle pareti radiali delle cellule dello strato pilifero, o più raramente ne perfora le pareti tangenziali. Il percorso intercellulare diventa presto intracellulare, nell’intercute e nei suoi due strati sottoposti di parenchima ‘si formano più o meno frequentemente delle grosse vescicole od anse rigonfiate. A questo proposito le micorize delle piante' bru- scate, in estate, presentano numerosissime vescicole di grandi dimensioni che occupano buona parte del parenchima corticale, in nessun'altra micoriza en- dotrofica ho mai osservato un fatto simile (cfr. fig. 3). Lo strato a sporangioli (*) Cfr. L. Petri, Studi ‘sul marciume delle radici nelle viti fillosserate. Roma, G. Bertero, 1907. i — 760 — o prosporoidi è localizzato nella zona interna del parenchima corticale co- stituita da grandi cellule, riunite lassamente fra loro e che sono ripiene di amido prima dell'infezione. L'endofita si diffonde attraverso il tessuto approfittando dei grandi meati intercellulari e penetra nell'interno delle cellule amilifere attraversando la pa- rete per le punteggiature. Dal momento della sua entrata nel parenchima corti- cale il micelio perde qualsiasi comunicazione con l'esterno giacchè le ife poste negli strati cellulari più esterni e che sono in unione diretta coi filamenti esterni, si disorganizzano molto presto. Questo fatto dimostra anche che lo sviluppo del micelio alla superficie della radice avviene a spese di sostanze nutritive che esso trova o nel terreno o sulla radice stessa. L'accrescimento del micelio esterno su radici conservate in camera umida per più mesi av- viene a spese di sostanze animali in decomposizione e solo quando gli strati corticali delle radici sono invasi da acari, anguillule, ciliati; esso allora pro- duce dei filamenti moniliformi simili a quelli già conosciuti per altre mi- corize endotrofiche (Cattleya, Vitis vinifera). L'opinione di Gallaud che gli endofiti delle micorize costituiscano un gruppo omogeneo e che egli basava sopra l'identità della natura chimica della loro parete cellulare e su altri caratteri morfologici dell'organo vege- tativo, resta così completamente confermata, poichè tre apparati radicali così diversi tra loro come sono quelli della Cazt/eya, della vite e dell'olivo pre- sentano evidentemente le loro micorize determinate da endofiti pressochè simili (1). Come in tutti i casi già studiati, si ripetono per le micorize dell'olivo i medesimi fenomeni ben noti a chi si è occupato di tali ricerche. È note- vole anche qui la formazione, nelle cellule amilifere, di uno sviluppatissimo austorio, derivato per replicate ramificazioni da un'unica ifa. Queste rami- ficazioni che Gallaud chiama arbuscules sono per questo autore des sugoîrs d'une nature tout à fait particulière (*). In realtà si tratta di formazioni perfettamente omologhe a quelle che si verificano in molte ife fungine sot- toposte alla necessità fisiologica di modificare chimicamente, con un'azione enzimatica, il materiale nutritivo; si tratta dunque di un accrescimento mas- simo della superficie di secrezione e di assorbimento, fenomeno paragonabile al differenziarsi morfologico e fisiologico di un epitelio ghiandolare e di as- sorbimento nei tessuti animali. Questo stesso fatto si verifica sempre in modo più o meno marcato per gli austorî dei funghi endoparassiti (peronosporacee) e Maire (*) recentemente ha descritto e disegnato per l'Asterina Usteri e (3) Gli articoli moniliformi delle micorize della vite misurano #=17 —22X77— Ubs quelli delle micorize dell'olivo u = 19 — 25 —8—12. (®) Études sur les mycorhizes endotrophes. Rev. Gén. Bot., vol. XVII, 1905. (9) Maire R., Les sugoirs des Meliola et des Asterina. Ann. Mye., vol, VI, 1908. — 761 — A. thyphospora degli austorî che sono completamente paragonabili a quelli delle micorize endotrofiche. La natura parassitaria degli endofiti radicali è palesata dunque dalla presenza di questi organi per la nutrizione così altamente differenziati. La differenza di comportamento di tali organi nei funghi parassiti e in quelli che vivono in simbiosi con le radici consiste essenzialmente in un processo degenerativo che essi subiscono nelle micorize. Durante il periodo della mas- sima attività anabolica dell’endofita ('), l'estremità sottilissime delle ramifi- cazioni dell’ifa primitiva, costituenti l’austorio, si caricano di sostanze grasse e proteiche mentre i grani d’amido che esse circondano sono stati sciolti e riassorbiti. Per un processo di digestione operato dalla cellula ospite od anche per una semplice autolisi, come si verifica, per un’ipernutrizione nelle colture su mezzi nutritivi artificiali (circenule di Gueguen (?)) si verifica una fuo- ruscita del citoplasma colle sostanze di riserva. Da prto momento la cel- lula ospite riacquista la sua autonomia. Nelle micorize delle piante bruscate ho ricercato ‘a lungo se questo pro- cesso degenerativo che segna la morte dell’endofita non fosse di soverchio ritar- dato per cause diverse, e la cellula ospite non dovesse soccombere per una prolungata azione del simbionte fungino sopra le sue parti costituenti. Ora io posso escludere che questo fatto si verifichi, piuttosto nelle micorize delle piante ammalate, la zona a sporangioli invece di arrestarsi a qualche distanza dall’apice, come avviene nelle radici di piante vegetanti normalmente, essa sì prolunga sino quasi all'apice e i tessuti meristemali si trovano completa- mente disorganizzati. L’accrescimento in lunghezza della radichetta è ormai cessato per sempre. Questo fatto spiega come avvenga quella specie di cimatura parassi- taria a cui ho sopra accennato. Non si deve ritenere però che l’endofita abbia invaso le cellule prossime all'apice non ancora ben separate dal ci- lindro centrale da un'endodermide ben differenziata, senza che una causa estrena o interna sia previamente intervenuta. Per ora ignoro completamente quale essa possa essere. Nel caso delle micorize della vite una lonaii0ne anormale dell’en- dofita è determinata dall'azione parassitaria della fillossera. Un altro fatto da notarsi e che si verifica nelle radichette delle piante ammalate è quello del formarsi di una zona continua di cellule a sporangioli, mentre nelle ra- dichette delle piante sane le cellule invase dall’endofita sono sparse a gruppi piuttosto piccoli nel parenchima radicale. I fatti che ho sommariamente esposti confermano l'opinione già espressa (') Durante questo periodo i nuclei accoppiati delle ife sono in stato di spirema. (2) Cfr. il mio lavoro sulle micorize del Podocarpus nel Nuovo Giorn. Bot. It., vol. X, 1903. — 762 — da qualche botanico ('), che il fungo formante la micoriza abbia una natura essenzialmente parassitaria; esso è sopportato dalla pianta ospite perchè la sua azione non sì esercita che su sostanze non viventi (amido) e perchè assai presto cade in degenerazione probabilmente per una reazione delle cellule ospiti. La pianta vascolare può trarre un debole vantaggio dalla mi- cotrofia e solo nelle condizioni normali di vegetazione, quando cioè l’auto- trofia possa compiersi in misura sufficiente. Quando questa o per povertà di acqua nel terreno, o per insufficienza di sali nutritizi o per altre cause pa- tologiche, viene quasi ad esser soppressa la diminuzione dell’attività fisio- logica che ne consegue viene a turbare l'equilibrio che sussiste nei rapporti simbiotici; la micoriza allora rappresenta una diminuzione dei mezzi che la pianta ha a sua disposizione per far fronte alle dannose conseguenze del suo insufficiente ricambio materiale. In quale relazione sta questa interpretazione col significato biologico che oggi si attribuisce alle micorize? Quando Stahl afferma che micotrofia, apparato assorbente poco svilup- pato e scarsa traspirazione sono in un rapporto diretto fra loro constata un fatto che, pur non essendo generale, si verifica assai spesso fra le piante superiori. E tutto quanto ho esposto più sopra sembra costituire un altro esempio del parallelismo osservato da Stahl. Infatti egli aggiunge anche che quasi tutte le piante che presentano produzioni pilifere nelle parti aeree per difendersi da una troppo attiva tra- spirazione hanno micorize. Ma questa concordanza del fatto reale con l’ ipotesi che il micelio del fango nella nutrizione della pianta vascolare ripari alla deficiente migrazione acquea di quest'ultima per la prensione dei sali dal terreno, non è che ap- parente. Per disporre di un maggior numero di osservazioni e di fatti che va- lessero a generalizzare un concetto che forse è vero per pochi casi isolati, Stahl ha raccolto, in un urica serie, piante a micorize ectotrofiche e endo- trofiche, non tenendo troppo conto della sostanziale differenza che sin dal principio Frank aveva riconosciuto fra i due tipi di micorize. Frank infatti aveva ammesso che, in cambio degli idrati di carbonio nel primo tipo, il micelio fungino nella nutrizione delle piante verdi assuma il trasporto dell’acqua e delle sostanze nutritive del terreno; mentre nel secondo tipo il fungo cede le sue sostanze albuminoidi alla pianta ospite. Ma un'altra differenza capitale divide le due categorie di micorize: mentre nelle prime i rapporti fra il micelio interno e quello esterno svilnppantesi largamente nel terreno si mantengono costanti ed attivi per tutta la vita della micoriza, (*) Cfr. fra gli altri Gallaud, l. c. — 763 — nelle seconde questi rapporti vengono sin dal principio completamente a ces- sare. Cosicchè se per le micorize ectotrofiche si può ammettere sino ad un certo punto l'ipotesi di Stahl, per quelle endotrofiche essa non è più rispon- dente allo verità. Per queste micorize anzi è ancora da dimostrare in qual rap- porto stia la formazione di sostanza proteica da parte del fungo nel bilancio gene- rale nutritivo dei due simbionti; probabilmente l'opinione di Nobbe e Hiltner (') sul potere di fissare l’azoto atmosferico da parte degli endofiti delle micorize endotrofiche (Podocarpus) andrà generalizzata a tutti i casi osservati. Pos- siamo convenire con Stahl che le piante fornite di micorize endotrofiche po- tendo ricavare dal simbionte fungino dei materiali azotati già elaborati, non sieno costrette ad assorbire forti quantità d’acqua dal terreno, ma esi- stono alcune altre sostanze minerali come il potassio, l'acido fosforico, il ma- gnesio, ecc., materiali tutti che nella maturazione del frutto l'ulivo per es. impiega in grandi quantità e che pure devono essere tolti del terreno, l’as- sorbimento dei quali però non può esser fornito dal micelio dell’endofita. La micotrofia non rappresenta quindi per la pianta vascolare un reale van- taggio nella lotta per l'esistenza, la perdita di una notevole parte dei peli assorbenti radicali, il ritardo o l'arresto dell’accrescimento degli apici non possono essere equilibrati dal risparmio di lavoro fisiologico che la pianta realizza col fare a meno dell’assorbimento dei nitrati. D'altra parte le pratiche agrarie dimostrano che tutte le piante, mico- trofiche o no, possono usufruire rapidamente e con benefici effetti dell'azoto minerale contenuto nel terreno. La formazione di micorize endotrofiche non rappresenta quindi nella maggior parte dei casi, che un'azione limitatrice allo sviluppo delle radici autotrofiche. Quando Stahl afferma che la differenza relativa nei bisogni di sostanze nutritive minerali, (che nelle diverse piante è determinata dalla micotrofia, dal parassitismo e dall'insettivoria), caratterizza il luogo di stazione delle piante micotrofiche, essendo rare le micorize là dove i sali nutritivi sono in maggior quantità, egli è solo apparentemente in accordo con la realtà dei fatti. E la sua interpretazione è forse da sostituirsi con l’altra: che le piante vascolari poste in condizioni favorevoli di nutrizione presentano un rapido aumento dei loro organi assorbenti i quali nel periodo massimo di vegeta- zione non offrono una sufficiente ricettività all’endofita e se ne rendono per buona parte indipendenti. In questo senso devono essere interpretate le oscillazioni sulla frequenza delle micorize nelle piante che come l’olivo non presentano micotrofia obbli- gata. Questa interpretazione è perfettamente logica quando si pongano in re- lazione i fatti esposti in questa Nota con quelli osservati da Sarauw, von Tubeuf, Mòller ed altri a questo riguardo. (') Landwirth. Versuchsstationen, Bd. LI, 1898. RenpICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° sem. 98 — 764 — DISSERTAZIONI ACCADEMICHE DELLE UNIVERSITÀ DI ERLANGEN, FREIBURG B., FREIBURG i. S., GIESSEN HeipELBERG E WURZBURG. I. — ERLANGEN. AcHTERFELDT F. — Stereoisomerie bei Hy- drazone.1 der Glyoxylsiure. Erlangen, 1908. 8° Basset R. — Ueber Hernien der Regio duodenojejunalis. Berlin, 1908. 8°. Bauer G. A. — Ueber die Konstitution der bei der Einwirkung von Schwefel- kohlenstoff und Aetzkali auf Ketone entstehenden Verbindungen. Erlangen, 1908. 8°: Becx T. — Erfahrungen aus der arztlichen Praxis mit Novocain-Lokalanaesthesie. Erlangen, 1908. 8°. Bever G. -- Die Fortleitungswege von Mittelohreiterungen in das Gehirn bei der Entstehung von Grosshirnabszes- sen. Erlangen, 1907. 8°. 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Stutt- gart, 1907. 8° Ruscne W. — Zur Casuistik der Blutge- fissgeschwilste der Augenlider und der Orbita. Miinster, 1907. 8°. ScueLLHASE W. — Ueber die Katalase der Milch. Giessen. 1908. 8°. ScHENcK l(. — Untersuchungen iber den Einfluss der kolloidalen Substanzen im Boden auf seine Permeabilitàt und Kapazitàt fr Wasser. Berlin, 1907. 8°. Scamitz R. — Die Behandlung grosser Abdominalhernien mit dem Pfannen- stiel’schen Fascienquerschnitt. Greifs- wald, 1907. 8°. ScHuni A. — Untersuchungen des Flei- sches an Backsteinblattern erkrankter Schweine auf das Vorhandensein viru- lenter Rotlaufbazillen. Giessen, 1908. 8°. ScHirmann F, — Zur Kasuistik der Son- dierungsverletzungen der Speiserohre. Giessen, 1907. 8°. Scawenk J. — Ueber Esterverseifung an der Kathode. Giessen, 1908. 8°. SeBAUER R. -- Ueber die Bedeutung der Kalksalze fir das wachsende Tier. Berlin, 1907. 8°. SonnenBRODT À. — Die Wachstumsperiode der Qocyte des Huhnes. Bonn, 1908. 8°. Spamer G. — Beitràge zur Entwicklung des Wiederkàuermagens. Giessen, 1907. 8°. Sprecker A. — Ueber den Nachweis der Blansàure in tierischen Organen. Gies- sen, 1907. 80. Sranpruss R. — Ueber die itiologische und diagnostische Bedentung der Ne- gri'schen Tollwutkérperchen. Berlin, 1908. 8°. StieteNROTH W. — Das Lenicet, ein neues Tonerdeacetat und seine Anwendung in der Tierheilkunde. Stuttgart, 1908. 30, Tenz 0. — Ueber singulire Asymptoten- kurven. Freiburg, 1908. 8°. Tornow M. — Die Geologie des Kleinen Thiringer Waldes. Berlin. 1908. 4°. Tsugivama K. — Zur Frage der Verhal- tens der Sangetiertuberkelbazillen im Katlblùter. Giessen, 1908. 8°. VoLtz E. — Beitrag zur Frage der chi- rurgischen Behandlung der Wander- niere. Giessen, 1908. 89. Vorgsronr F. — Zur Casuistik der Sar- kome des vorderen Nediastinums. Gies- sen, 1908. 8°. Wriss A. — Die Bedeutung der Probe- Abrasio des Uterus im klimakterischen Alter. Giessen, 1907. 8°. Weirzi6 F. — Untersuchungen iber die pathogenen und Coli-Bakterien beim Puerperal-Fieber des Rindes. Stutt- gart, 1908. 8°. Wotr E. H. — Ueber « Haematoma ova- rii ». Berlin, 1907. 8°. WoLrr A. — Vergleichende Untersuchun- gen iber die Wirkung einiger Digi- talisglykoside an Hunden mit Hilfe eines eigens hierzu konstruierten Sphygmographen. Gottingen, 1908. 89. ZòLrer H. — Die partielle elektrochemi- sche Reduktion des 2. 6- und 2. 4- Dinitrotoluols. Giessen, 1907. 8°. V. — HEIDELBERG. AseL-Muscrave C. — Zur Kenntnis der Styrole. Heidelberg, 1908. 8°. AcKERMANN F. — Zur Kenntnis der Pyri- midine und Chinazoline. Heidelberg, 1907. 8°. Apam B. — Ueber die elektrische Leitfà- higkeit des Schwefels. Halle, 1908. 8°. AnNTROPOFF. À. v. —- Die Pulsierende Queck- silber-Wasserstoffperoxydkatalyse. Leip- zig, 1908. 8°. BenpeER 0. — Die Schleimhautnerven des Facialis, Glossopharyngeus und Vagus. Studien zur Morphologie des Mi'telohres und der benachbarten Kopfregion der Wirbeltiere. Jena, 1907. £°. Baca H. — Das Kelima von Davos nach dem Beobachtungsmaterial der eidge- nòssischen meteorologischen Station in Davos. Zirich, 1907. f.° BernN J. — Ueber die in der Heidelberger Chirurgischen Klinick 1900-1905 bhe- — 773 — handelten Falle von Carcinoma penis. Heidelberg, 1907. 8°, CrorssanT K. — Zur Frage der Dauererfolge der Lungenheilstitten. Miinchen, 1908. 8°. DavIpson A. — Ueber die Nervenpfropfung im Gebiete des Nervus facialis. Ti- bingen, 1907. S°. ELoesser L. — Die in den letzten zehn Jahren an der Heidelberger Chirurgi- schen Klinik beobachteten Falle von Pankreaserkrankungen, nebst Beitràge zur Klinik der Pankreasaffektionen, und Bemerkungen iiber die « Cam- midge’sche » Urinprobe. Jena, 1907. 8°, EuLkR H. — Pulpentod natiirliche und syn- thetische Nebennierenpriparate. Eine kritische, experimentelle und Klinische Studie. Wien, 1907. 8°. FrenKEL J. — Ueber die Finwirkung von Hydrazinhydrat auf Bromacetophenon. Heidelberg, 1907. 8°. Frey R. — Zur Diagnose und Sympto- matik der Extrauteringraviditàt an der Hand von 30 Fallen. Heidelberg, 1907. 8°. FRIEDEMANN G. E. — Ueber die Reduktion partiell hydrierter Benzole. Heidelberg, 1907. 8°. HaEBERLE D. — Paliontologische Untersu- chung triadischer Gastropoden aus dem Gebiet von Predazzo. Heidelberg, 1908. 8°. HirscHeL G. — Der heutige Stand und operativen Ther pie der akuten diffusen eitrigen Peritonitis. Im Anschluss an 110 klinisch beobachtete Falle. Ti- bingen, 1907. 8°. Hopeson H. H. — Untersuchungen ueber Devivate des Triphenylmethans u. Tri- tolylmethans. Borna-Leipzig, 1908. 8°, June J. — Zur Kenntnis katalytischer Wirkungen bei der Acetylierung or- ganischer Verbindungen. Heidelberg, 1907. 8°. Jurasz A. — Beitrag zur Kenntnis der Dermoide und Teratome im kleinen Becken, besonders der retrorectal gele- genen. Heidelberg, 1907. 8°. Kaiser J. — Ueber die Einwirkung von Phosphorpentachlorid auf sekundare Saurehydrazide. Heidelberg, 1908. 8°. KLEInscAMITT A. — Hydrolyse des Hor- deins. Heidelberg, 1907. 8°. KLince H. E. — Ueber das Chorioepithe- lion nebst Mitteilungen eines neuen Falles. Berlin, 1906. 80, KonLeR F. — Isatosiureanhydrid und Anthranoylanthranilsiure. Heidelberg, 1907. 8°, KRALL A. — Die minnliche Beckenflosse von Hexanchus griseus M. u. H. Ein Beitrag zur Kenntnis der Copulations- organe der Selachier und deren Her- kunft. Leipzig, 1908. 8°. Kunze W. — Ueber Orcheobius herpobdellae Schuberg et Kunze, ein Coccidium aus Herpobdella atomaria Car. (Nephelis vulgaris Moq.-Tand). Heidelberg, 1907, 8°. Linn F. — Ueber die Wirkung lokaler Arsonvalisation. Leipzig, 1908. 4°. Maas H. — Die in der Heidelberger Klinik von 1992 bis 1906 beobachteten Fille von Amenorrhoe (nach atiologischen Gesichtspunkten zusammengestellt). Heidelberg. 1907. 80, Maass E. — Seltene Missbildungen im Bereiche des Stirnfortsatzes. Heidel- berg, 1907. 8°. Mack W. — Die Cholecystostomien der Heidelberger chirurgischen Klinik (1901 1906). Tiùbingen, 1908. 8°. Mayer O. (v. — Ueber Hydrazinverbin- dungen verschiedener Metallsalze. Hei- delberg, 1907. 8°. MevER F. — Ueber Diazoverbindungen der Pyrazol-und Diphenylreihe. Heidel- berg, 1908. 8°. MorawiTz P. — Klinische Untersuchungen fiber Blutverteilung und Blutmenge beim Gesunden und Kranken. Leipzig, 1907. 8°. MiLLerR E. — Das optische Verhalten der kolloidalen Metalle. Leipzig, 1907. 8°, MiLLER E. — Electrische Widerstinde aus Baumwollenband und deren Verwertung bei electrischen Messungen. Pforzheim, 1908. 8°. Neu M. — Untersuchungen iber die Be- — 74 deutung des Suprarenins fir die Ge- burtshilfe. Eine experimentelle und klinische Studie. Berlin, 1908. 8°. PoLac4 L. — Ueber die Anhydride aroma- tischer Sulfinsiuren. Heidelberg, 1907, 80. RankE 0. — Beitrige zur Lehre von der Meningitis tuberculosa. Gotha, 1908. 8°. Range 0. — Ueber Gehirnverinderungen bei der angeborenen Syphilis. Jena, 1908. 8°. Reiss F. E. — Ueber falsche Divertikel des Wurmfortsatzes. Heidelberg, 1907. 8°. saver 0. -- Pneumonie und Graviditàt. Heidelberg, 1908. 8°. ScuaaL R. — Ueber Nonadecylmethylen- dicarbonsiure COOH . C;9 Hzs . COOH und Homologe derselben aus Japan- wachs. Heidelberg, 1907. 8°. Scaneiner K. — Ein Fall von Pyometra senilis. Ein Beitrag zur Lehre von den Epithelmetaplasieen. Kénigsberg, 1907. 8°. Scport E. — Beitràge zur Kenntnis des Hydroxylamins und Hydrazins. Heidel- berg, 1908. 8°. ScawarzweLLeR K. — Statistik ber Wochenbettfieber in der Universitàts- frauenklinik in Heidelberg im Zeit- raum von Januar 1903 bis Marz 1907. Heidelberg, 1908. 8°. sieseck R. — Versuche uber den Kreislauf in der Peripherie. Freiburg, 1907. a STANTSCHINSKY W. — Zur Anatomie und Systematik der Gattung Oncidium.. Naumburg, 1907. 8°. stIELDORF P. — Beitrige zur Kenntnis des Natriumhydrosulfits. Heidelberg, 1907, 8°. srraus G. F. — Ueber einen Fall von Broncho-Oesophagealfistel, verursacht durch indirecten Druck eines Aorten- aneurysmas auf den linken Stammbron- chus. Edenkoben, 1903. 8°. srrica M. — Ueber analytische Zerlegung des Bienenwachses in seine Compo- nenten. Heidelberg, 1908. 8°. TuorspecKeN 0. — Zur Frage der idealen Cholecystektomie. Tibingen, 1906. 8°. TsLgen R. — Statistischer Beitrag zur Aetiologie der Chorea minor. Heidel- berg, 1906. 8°. TrANSIER J. — Ueber die Einwirkung von Essigsàure und Essigsaàureanydrid auf Cineol in Gegenwart von Kontaktsub- stanzen. Heidelberg, 1907. 8°. Tscunacnorin S. — Die Statocyste der He- teropoden. Leipzig. 1908. PI, Wipmann E. — Ueber den feineren Bau der Augen einiger Spinnen. Leipzig, 1908. 8°. VI. —- WirzBuRre. BaLrzer F. — Ueber mehrpolige Mitosen bei Seeigeleiern. Wirzburg, 1908. 8°. Decker F. — Beitrige zur Kenntnis des Crocetins. Wirzburg, 1908. 89. Frienp J. N. — Ueber die Cupro-Verbin- dungen des Kohlenoxyds und die Ferro- Verbindungen des Stickoxyds. Wiirz- burg, 1908. 8°. Gompr A. — Ueber Zitronensiure und ei- nige Methoden zum qualitativen Nach- weise und zur quantitativen Bestim- mung derselben. Wirzburg, 1908. © Gronmann A. — Beitrag zur Frage des Nachweises von Neutralisationsmitteln im Bier. Wirzburg, 1908. 8°. HerrneR B. — Ueber experimentell er- zeugte Mehrfachbildungen des Skelets bei Echiniden-Larven. Leipzig, 1908.8°. HiLpert H. — Die historische Entwike- lung der Frage nach dem Wesen des Karstphinomens. Wiirzburg, 1907. 80: Jircens W. — Ueber die elektrolytische Reduktion von Acetessigestern zu Koh- lenwasserstoffen. Wirzburg, 1908. 8°. KampscnuLtE W. — Beitrige zur Kenntnis des Ozons. Wirzburg, 1908. 8°. Kramer H. — Mikroskopisch-pharmaco- gnostische Beitràge zur Kenutnis von Blittern und Bliten. Berlin, 1907, 8°. KrieG A. — Beitrige zur Kenntnis der Kallus- und Wundholzbildung gerin- gelter Zweige. Wiirzburg, 1908, 8°. Mayer J.R. — Die Hydrolyse der Xanthine und Desoxyxanthine. Wirzburg, 1907, 80. Preirrer L. — Ucher qualitative Arbeits- — Mo — typen. Eine experimentelle Untersu- chung. Gottingen, 1908. 8°. Rucxes W. — Untersuchungen tber den Ausfluss komprimierter Luft aus Ka- pillaren und die dabei auftretenden T'ur- bulenzerscheinungen. Leipzig, 1908. 8°. ScHMITTHENNER F. — Ueber histologischen Vorginge beim Veredeln insbesondere bei Kopulationen und Geissfusspfrop- fungen. Geisenheim, 1907. 8°. Stéar P. — Die Beziehungen zwischen Universitàt und Julius-Spital. Wiirz- burg, 1908. 8°. Taompson H. B. — Ueber die elektroly- tische Reduktion der Aethylbarbitur- Siuren. Wirzburg, 1907. 8°. Weper J. — Beitràge zur Kenntnis einiger polymorpher Kéorper. Leipzig, 1908. 8°. KE. M. = = = = == zz = === =“ = = — 777 — INDICE DEL VOLUME XVII, SERIE 5°. — RENDICONTI 1908 — 2° SEMESTRE. INDICE PER AUTORI A AccoLLa. « Nuove ricerche sull’azione del campo magnetico sui depositi metal- lici ottenuti per ionoplastica ». 575; 643. AccazzottIi. « Contributo alla fisio-pato- logia del Mal di Montagna ». 89. AsELLO. « Sui criterii d’integrabilità finita di una equazione di Riccati n. 257: 371. ALessanDRI. « La radiazione solare al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla Capanna-Osservatorio Regina Marghe- rita negli anni 1905-1906 ». 58. — «La, radiazione attinica del sole al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla Capanna Regina Margherita coll’atti- nometro fotoelettrico di Elster e Gei- tel ». 113. — «La radiazione solare al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla Capanna: Osservatorio Regina Margherita nel- l’anno 1907 ». 191; 214. Armagrà. « Fenomeni di erosione accele- rata nel pliocene di Val Tronto ». 509. Amapuzzi. « Sul comportamento singolare di un rocchetto di Ruhmkorff usato con un interruttore elettrolitico n. 655; 705. AneeLi e MarcHETTI. « Ricerche sopra alcuni composti aldeidici n. 347; 860. RENDICONTI. 1908, Vol. XVII, 2° Sem. AncELIco. « Trasformazioni dei diazopir- roli ». 575; 655. ArtIni. È eletto Corrispondente. 98. — Ringrazia. 522. B Baccarini. È eletto Corrispondente. 98. BaLBrano. « Sull’aldeide p-ossimetilidro- cinnamica derivante dai 1l-ossimetil- p-fenil-1-2 propilenglicoli sterecisome- ri ». 190; 259. BarcELLINI e MeLACcINI. .« Sopra. alcuni omologhi della naftalina ». 26. — e MarantonIo. « Sul 2/-4-diossi-idro- calcone «. 119, BecqueREL. Annuncio della sua morte e sua commemorazione. 522. BLAsERNA (Presidente). Comunica. gli in- viti pervenuti all'Accademia, di far parte del Comitato per l’erezione di un mo- numento a G. Carducci in Parigi, per il Congresso internazionale di Chimica a Londra, per la Commemorazione di C. Darwin a Cambridge. 526; pel giu- bileo della Società geologica di Glasgow. 672. — Presenta una pubblicazione a nome di G. Marconi e ne parla. 526. — Pronuncia alcune parole in ricordo del colonnello Rerard. 526. — Riferisce sulle feste Torricelliane. 526. 100 — 778 — BLasERNA (Presidente). Notizie sulla pub- blicazione delle Opere Voltiane. 672. — Comunicazione relativa alla erezione in Ente morale del « Premio Stanislao Cannizzaro » e alla onorificenza di cui venne insignito il Socio Mond. 671. — «Commemorazione dei Soci stranieri Becquerel e Mascart ». 522. Boggio. « Sopra alcune formole fondamen- tali relative alle equazioni integrali n. 946; 454. BonrigLi. « Ancora sul ciclo della Phil- loxera quercus Boyer ». 191; 248. Bortazzi. « Ricerche chimico-fisiche sui liquidi animali: II. Il contenuto in azoto proteico del siero del sangue dei diversi animali ». 16. — Buetia e JAPPELLI. « Ricerche fisico- chimiche sui liquidi degli animali: III. Variazioni della conduttività elet- trica, viscosità e tensione superficiale del siero del sangue durante la dia- lisi ». 49. — e Scatinci. « Ricerche chimico-fisiche sulla lente cristallina ». 153; 305; 445; 566. Bruni e Arra. « Contributi allo studio dei fenomeni di salificazione dal punto di vista chimico-fisico ». 192; 295. BucLia. V. Bottazzi. BuraLi-FortI. « Alcune nuove espressioni assolute delle curvature in un punto di una superficie ». 754. C Camis. « Sulle alterazioni del miocardio in seguito alla vagotomia. Osservazioni di segmentatio cordis sperimen- tale». 509; 736. — «Sulla sopravvivenza alla doppia vago- tomia, e sulla rigenerazione del N. Vago ». 509; 740. CapeLLinI. Fa omaggio di varie sue pub- blicazioni. 527. CarpanI. È eletto Corrispondente. 98. — Ringrazia. 522. CarnevaLI. « Sopra alcuni composti di addizione dell'anidride seleniosa».'346; 385. CARNEVALI. V. Giolitti. CasteLLANI. V. Levi. CGiLEsoTTI. « Sui composti del piombo con l'acido nitroso ». 173; 288; 377; 474. CraLpea. V. ieri. CisortI. « Sopra la distribuzione locale di azioni tangenziali sulla superficie di un suolo elastico ». 191; 226. CoLomBa. « Aloisiite, nuovo idrosilicato dei tufi di Fort Portal (Uganda) ». 191; 233. Corsino. « L'emissione luminosa nei varî azimut da parte di un vapore incan- descente in un campo magnetico ». 257; 470. CroogEs. È eletto Socio straniero. 98. — Ringrazia. 522. D DaLL’Acqua. « Le varietà con tre dimen- sioni che ammettono per l'equazione del Laplacel’integrale F (21,2) f(%a)». 257; 269. D'AcbiarDI. « À proposito dell'origine del- l'acido borico nei soffioni boriferi della Toscana ». 191; 288. DeL Re. « Il più generale metodo di rap- presentazione che serve di base alla Geometria descrittiva ordinaria ». 575; 639. — «Sulla Astatica nello spazio a 4 di- mensioni ». 575; 691. DesLaNnDRES. È eletto Socio straniero. 98. De STEFANI. Fa omaggio di due sue pub- blicazioni. 671. F FagRISs. V. Padoa. FaLcroLa. « Nuove ricerche crioscopiche sopra soluzioni di gas in liquidi ». 192; 324. Foà A. « Intorno al ciclo evolutivo della fillossera del cerro n. 391. — V. Grassi. G GaLLaroTTI. « Sulla dispersione per eva- porazione nei liquidi elettrizzati n. 655; 709. — 19 — GaLto. « Radioattività di roccie della re- gione attraversata dalle linee di ac- cesso al Sempione ». 191; 209. — e Cenni. « La determinazione elettro- litica del Tallio, e la probabile esi- stenza di un nuovo ossido di questo metallo ». 192; 276. Gaupry. Annuncio della sua morte. 671. GuerarpDI. V. Giolitti. GroLITTI, CARNEvaLI e GHERARDI. « Sulla fabbricazione della ghisa malleabile ». 662; 748. — e PannaIn. « Sulle variazioni della strut- tura dei bronzi monetarî durante la lavorazione ». 668. Gortani. V. Vinassa de Regny. GranDORI. « Ulteriori ricerche sulla fillos- sera della vite ». 396. — V. Grassi. Grassi B. — « Intorno ad un nuovo Fle- botomo ». 639; 681. — e Foà. « Ulteriori ricerche sulla fillos- sera della vite (fino al 1° ottobre 1908). — I. Ancora a proposito delle galle prodotte dalle radicicole. — II. Lun- ghezza del rostro delle neonate. — III Le punture della fillossera. — IV. Ma- dri radicicole con caratteri ninfali. — V. Quattro sole mute per arrivare al- l’alata. — VI. Differenziazione delle madri attere e delle alate ». 349. — — «Sulla classificazione delle fillos- sere n. 639; 683. — e GraAnDORI. « Ulteriori ricerche sulla fillossera gallicola della vite (dalla fine Di maggio alla metà di luglio 1908) ». Grassi G. Offre un suo lavoro e ne parla. 527. H Hrim. È eletto Socio straniero. 98. — Rin- grazia. 522. I IncuiLLerI. V. Mazzuechelli. J JANICKI. « Contribuzione alla conoscenza di alcuni protozoi parassiti della Pe- riplaneta orientalis (Lophomonas blattarum Stein, L. striata Biùt- schli; Amoeba blattae Bitschli) ». 140. JapPELLI. V. Bottazzi. L Lacroix. È eletto Socio straniero. 98. — Ringrazia. 522. Larci. Invia un piego suggellato. 527. La Rosa. « Alcuni nuovi fatti sulla visione degli occhi astigmatici e normali, e loro interpretazione ». 575. LauRICELLA. « Sulle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate ». 190; 193. Levi-Crvita. « Sull’attrazione esercitata da una linea materiale in punti prossimi alla linea stessa ». 3. — « Sull’attrazione newtoniana d’un tubo sottile ». 413; 535. Levi M. G. e CAstELLANI. « Sopra alcuni borati elettrolitici ». 613. — V. Nasini. Levi-MaLvano e Mannino. « Equilibrî negli stereoisomeri della santonina ». 192; 484. Lispounorr. È eletto Socio straniero. 98. — Ringrazia. 522. LomBroso. « Sulla lipasi del secreto inte- stinale ». 136. Lovisato. « Rosasite, nuovo minerale della miniera di Rosas (Sulcis, Sar- degna) ». 671; 723. M Mannino. V. Zevi-Malvano. MarantonIo. V. Bargellini. MarcHIarava. È eletto Socio nazionale. 98. — Ringrazia. 522. MarcoLono. « Sul moto di un corpo pe- sante intorno a un punto fisso ». 643; 698. MarzeTTI. « Intorno all’azione della luce ultravioletta su d’uno spinterometro ». 499; 576. MascaRELLI. « Il cicloesano come solvente crioscopico n. 494. — «Sulle proprietà dell’idrato di difenil- ==“ === n e a — 780 — eniodonio e di alcuni suoi derivati ». 580. Mascart. Annuncio della sua morte e sua commemorazione. 522. MazzuccHeLLI e IncHILLERI. « Su alcuni ozosali complessi del tunsteno ». 30. MazzuccHELLI. V. Paternò. MeLacini. V. Bargellini. Mieti. V. Parravano. MitLosevicH (Segretario). Dà conto della corrispondenza relativa al cambio degli Atti. 527; 672. — Presenta le pubblicazioni dei Soci: Ber- tini, Naccari, Berlese, Fischer, Gall, Haeckel, Lockyer e Pflueger. 527; Al- brecht, Helmert, G. Darwin, S. A. R. il Duca degli Abbruzzi. 671; e dei signori: Zoria, van Laar, Eginitis. 527; De Toni. 671. — « Osservazioni sulla cometa 1908 e More- house fatte al R. Osservatorio del Col- legio Romano ». 427. Mirreni. Invia un piego suggellato. 527. MorELLI. « Saponificazione dei grassi per mezzo dell’idrossilamina ». 74. N Nasini. « Sull’origine dell'acido borico nei soffioni della Toscana ». 43. — e Levi. «Sopra l’ozonizzazione del- l’aria per azione dei sali e dell’ema- nazione di radio ». 46. — — « Radioattività di rocce e altri mate- riali dell’isola d’Ischia ». 257; 432. — — « Radioattività di alcune emana- zioni gassose italiane » 257; 551. — — « Comparsa della radioattività in materiali inattivi vulcanici dell’ul- tima grande eruzione vesuviana (aprile 1906) ». 257; 435. NazarI. « Influenza di alcune concimazioni sulla composizione immediata dei semi di granturco ». 82; 257. — «L'azione dei vini e degli alcoli stu- diata sulle rane » 166. — «Intorno ai vecchi ed ai nuovi concimi azotati: calciocianamide, nitrato di calcio, solfato ammonico, e nitrato sodico ». 257; 334. 0 OLivari. « Sul peso molecolare del sele- nio n. 304; 389. — « Ricerche sul sistema: solfo-iodio ». 304; 512. — «Sui poliioduri». 304; 584; 717. OrLanpo. « Sulla formula integrale di Fou- rier». 304; 367. P Papoa e FagrIs. «Sugli equilibri d’idro- genazione ». 125. PannaIn. « Elettrolisi della santonina e dei suoi derivati n. 499. — V. Giolitti. Parona. È eletto Socio nazionale. 98. — Ringrazia. 522. ParrAvano e MieLI. « Fosfati acidi» 33. PareERNÒ. «I polisolfuri di idrogeno e la crioscopia ». 627. — e MazzuccHELLI. «Sopra gli spettri d’emissione di alcuni elementi ad ele- vata temperatura ». 428. PeprIna. V. Pellini. PecLION. «Intorno alla Cuscuta Gronovii, Wild» 192; 343. — Sulla propagazione della Sclero- spora macrospora Sace. per mezzo della sementa di frumento ». 847; 509. — «Intorno all’oidio della quercia ». 511. PeLACANI. « Studio chimico delle zeoliti di Montresta (Sardegna)». 66. PeLLINI e PEDRINA. « Selenio e iodio ». 78. PeLLoux. « Contributi alla mineralogia della Sardegna ». 70. PerRI. « Rapporto fra micotrofia e atti- vità funzionale nell’olivo ». 754. Picone. « Del legame fra la equazione di Fredholm e le equazioni differenziali lineari ordinarie ». 304; 458. Pigorini L. «Sul comportamento del fe- nilglicosazone nell’organismo ». 132. ProLa. « L’interruttore di Wehnelt con cor- rente alternata» 191; 316. PizzeTTI. «La massima deviazione acci- dentale e le osservazioni del tenente Mazzuoli sui risultati dei tiri. 633. — 781 — Q QuintILI. « Sulla continuità di un integrale rispetto ad un parametro ». 1465; 571. R RavagLi. « Nummuliti oligoceniche di La- verda nel Vicentino ». 257; 500. Riccò. « Lo spettreliografo di Catania ». 428; 529. RicHI. « Sul moto d’un elettrone intorno ad un ione nel campo magnetico ». 675. Rimini. « Sui prodotti di ossidazione del- l’artemisina ». 500; 590. Rocca. « Contributo alla teoria delle solu- zioni colloidali ». 575; 650. Rosati. « Contributo allo studio petrogra- fico del Vulcano Laziale. Rocce erra- tiche del Colle di Fonte Molara, sulla via Monte Compatri-Zagarolo (Lave)». 183. «(Aggregati di cristalli e tufî) ». 190; 240. S ScaLinci. V. Bottazzi. SeeLIGER. È eletto Socio straniero. 98. — Ringrazia. 522. SeGrE. « Complementi alla teoria delle tangenti coniugate di una superficie ». 304; 405. SERRA. « Ricerche su rocce eruttive basiche della Sardegna settentrionale ». 509; 597; 728. — Studi intorno a minerali sardi: Mime- tite del giacimento cuprifero Bena (d)e Padru (Ozieri)». 671. SevERI. « Sulla regolarità del sistema ag- giunto ad un sistema lineare di curve appartenente ad una superficie alge- brica ». 257; 465. SEvERINI. « Condizioni necessarie e suffi- cienti perchè un insieme continuo cor di trasformazioni costituisca un gruppo». 159. Silvestri. È eletto Corrispondente. 98. — Ringrazia. 522. SinIGALLIA. « Sulle equazioni differenziali lineari ». 106. Somisciana. È eletto Socio nazionale. 98. — Ringrazia 522. StERNECK. È eletto Socio straniero. 98. — Ringrazia. 522. T TenaAnI. «Il fenomeno di Zeeman e il se- condo principio della termodinamica». 347; 714. TrerI. « Azione delle onde elettriche sul- l'allungamento per magnetostrizione di un filo di ferro magnetizzato lon- gitudinalmente ». 191; 204. — e Craupea. « Su un rivelatore di onde elettriche n. 192; 274. V VANZETTI. « Decomposizione elettrolitica di acidi organici bicarbossilici (acido pimelico)». 192; 331. — Reazioni catalitiche ed equilibrii foto- chimici ». 192; 285. Vinassa DE ReGny e GorTtANI. « Nuove ricerche geologiche sul nucleo centrale delle Alpi carniche ». 509; 603. VioLa. «Sopra un esemplare di ematite con rutilo di provenienza dubbia». 304; 437. — « Sull’associazione del rutilo con l’ema tite ». 445; 554. CAO e eee 1° — “ni —_———_rrr@_@rrt.#r10 first imme n <>: \mte o = a e I N E TI IC E IR AZ, a ggol — INDICE PER A Agronomia e Cuimica. « Intorno ai vecchi ed ai nuovi concimi azotati: calcio- cianamide, nitrato di calcio, solfato ammonico e nitrato sodico n. V. Na- zari. 257; 334. Astronomia. « Osservazioni sulla cometa 1908 e Morehouse fatte al R. Osser- vatorio del Collegio Romano ». £. Mil- losevich. 421. — «Lo spettroeliografo del R. Osserva- torio di Catania ». A. Riccò. 428; 529. B BroLogia. « Contribuzione alla conoscenza di alcuni protozoi parassiti della Pe- riplaneta orientalis (Lophomonas blattarum Stein, L. striata Bit- schli, Amoeba blattae Bitschli)». C. Janicki. 140. Boranica. « Infiuenza di alcune concima- zioni sulla composizione immediata dei semi di granturco ». V. Mazari. 82; 257. Bullettino bibliografico. 673; 764. C Cuimica. « Ricerche sopra alcuni composti aldeidici ». A. Angeli e G. Marchetti. 347; 360. — « Trasformazioni dei diazopirroli n. F. Angelico. 575; 655. — « Sull’aldeide p-ossimetilidrocinnamica derivante dai 1-ossimetil- p- fenil- 1-2 propilenglicoli stereoisomeri ». Z. Bal- biano. 190; 259. MATERIE Caimica. « Sopra alcuni omologhi della naftalina ». G. Bargellini e G. Me- lacini. 26. — « Sul 2"-4- diossi-idrocalcone». G. Bar- gellini e M. Marantonio. 119. — « Sopra alcuni composti di addizione dell’anidride seleniosa ». F. Carnevali. 346; 385. — « Sui composti del piombo con l'acido nitroso ». A. Chilesotti. 173; 288; 377; 474. — «Sulla fabbricazione della ghisa mal- leabile ». F. Giolitti, F. Carnevali e G. Gherardi. 662; 748. — «Sulle variazioni della struttura dei bronzi monetarî durante la lavora- zione ». NM. Giolitti e E. Pannain. 668. — « Sopra alcuni borati elettrolitici n. JI. G. Levi e S. Castellani. 613. — « Equilibrii negli stereoisomeri della santonina ». M. Levi-Malvano e A. Mannino. 192; 484. — «Il cicloesano come solvente criosco- pico ». L. Mascarelli. 494. — «Sulle proprietà dell’idrato di difenil- eniodonio e d’alcuni suoi derivati ». Id. 580. — «Su alcuni ozosali complessi del tun- steno ». A. Mazzucchelli e G. Inghil- leri. 30. — « Saponificazione dei grassi per mez- zo dell’ idrossilamina ». Z. Morelli. 74. — « Sull’origine dell'acido borico nei sof- fioni della Toscana ». R. Nasini. 43. — «Sopra l’ozonizzazione dell’aria per azione dei sali e dell'emanazione di radio ». Zd. e M. G. Levi. 46. — 7839 — Cuimica. « Radioattività di rocce e altri materiali dell’isola d'Ischia ». Id. /d. 257; 432. — «Radioattività di alcune emanazioni gassose italiane ». /d. /d. 257; 551. — «Comparsa della radioattività in ma- teriali inattivi vulcanici dell’ ultima grande eruzione vesuviana (apr. 1906)». Id. Id. 257; 485. — «L'azione dei vini e degli alcoli stu- diata sulle rane ». V. Mazari. 166. — «Sul peso molecolare del Selenio ». F. Olivari. 304; 389. — «Ricerche sul sistema: solfo-iodio ». Id. 304; 512. — «Sui poliioduri ». /d. 304; 584; 717. — «Sugli equilibrî d’idrogenazione ». M. Padoa e U. Fabris. 125. — « Elettrolisi della santonina e dei suoi derivati ». E. Pannain. 499. — « Fosfati acidi ». N. Parravano e A. Mieli. 33. — «I polisolfuri di idrogeno e la crio- scopia ». E. Paternò. 627. — « Sopra gli spettri d'emissione di alcuni elementi ad elevata temperatura ». /d. e A. Mazzucchelli. 428. — « Selenio e iodio ». G. Pellini e S. Pe- drina. 78. — «Sui prodotti di ossidazione dell’arte- misina ». Y. Rimini. 500; 590. — « Decomposizione elettrolitica di acidi organici bicarbossilici (acido pime- lico) ». B. £. Vanzetti. 192; 331. — « Reazioni catalitiche ed equilibrî foto- chimici ». /d. 192; 285. CHÙimica-FISICA. « Ricerche chimico-fisiche sui liquidi animali: JI. Il contenuto in azoto proteico del siero del sanguc dei diversi animali ». F. Bottazzi. 16. — « Ricerche fisico-chimiche sui liquidi degli animali: III. Variazioni della conduttività elettrica, viscosità e ten- sione superficiale del siero del sangue durante la dialisi». Y. Bottazzi, G. Buglia, A. Jappelli. 49. — « Ricerche chimico-fisiche sulla lente cristallina ». MY. Bottazzi e N. Sca- linci. 153; 305; 445; 566. — « Contributi allo studio dei fenomeni di salificazione dal punto di vista chi- mico-fisico ». G. Bruni e A. Aita. 192; 295. Cuimica-risica. « Nuove ricerche crio- scopiche sopra soluzioni di gas in liquidi » P. Falciola. 192; 324. Caimica risroLoeica. « Sul comportamento del fenilglicosazone nell’organismo ». L. Pigorini. 132. CHiMIcA AGRARIA. V. AGRONOMIA. CRISTALLOGRAFIA. « Sopra un esemplare di ematite con rutilo di provenienza dubbia ». C. Viola. 304; 437. — «Sull’associazione del rutilo coll’ema- tite ». /d. 445; 554. E Elezioni di Soci. 98; 522. F Fisica. « Nuove ricerche sull’azione del ‘campo magnetico .sui depositi metal- lici ottenuti per ionoplastica n. G. Ac- colla. 575; 643. — «Sul comportamento singolare di un rocchetto di Ruhmkorff usato con un interruttore elettrolitico ». £. Ama- duzzi. 655; 705. — «L'emissione luminosa nei varî azimut da parte di un vapore incandescente in un campo magnetico ». 0. M. Cor- bino. 257; 470. — « Sulla dispersione per evaporazione nei liquidi elettrizzati ». A. Galla- rotti. 655; 709. — « Radioattività di roccie della regione attraversata dalle linee di accesso al Sempione ». G. Gallo. 191; 209. — « La determinazione elettrolitica del Tallio, e la probabile esistenza di un nuovo ossido di questo metallo ». /d. e G. Cenni. 192; 276. — « Alcuni nuovi fatti sulla visione degli occhi astigmatici e normali e loro in- terpretazione ». M. Za Rosa. 575. — «Intorno all’azione della luce ultravio- letta su d'uno spinterometro ». 8. Mar- zetti. 499; 576. i er Sica «5 Ae, Sa a o cono nb i in mite RS Pi CI TILL On ce e nn enon rrrr_T111___—_ nn’ o<® = = x = Ise 1; — 184 — Fisica. « L'interruttore di Wehnelt con corrente alternata ». F. Piola. 191; 316. — «Sul moto d'un elettrone intorno ad un ione nel campo magnetico ». A. Righi. 675. — «Il fenomeno di Zeeman e il secondo principio della termodinamica ». M. Tenani. 347; 575; 714. — « Azione delle onde elettriche sull'al- lungamento per magnetostrizione di un filo di ferro magnetizzato longitu- dinalmente ». ZL. Tieri. 191; 204. — «Su un rivelatore d’onde elettriche ». Id. e U. Cialdea. 192; 274. Fisica cHIMmIca. « Contributo alla teoria delle soluzioni colloidali ». Z. Rolla. 975; 650. Fisica MATEMATICA. « Sulle vibrazioni delle piastre elastiche incastrate ». G. Lau- ricella. 190; 193. FisicA TERRESTRE. « La radiazione solare al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla Capanna-Osservatorio Regina Mar- gherita negli anni 1905-1906 ». C. A- lessandri. 58. — « La radiazione attinica del sole al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla capunna Regina Margherita coll’atti- nometro fotoelettrico di Elster e Gei- tel ». /d. 113. — «La radiazione solare al Monte Rosa. Osservazioni eseguite alla Capanna-Os- servatorio Regina Margherita nell’anno 1907 ». Id. 191; 214. FrsroLoGia. « Sulla lipasi del secreto in- testinale ». Zombroso. 136. G GroLogIA. « Fenomeni di erosione accele- rata nel pliocene di val Tronto ». R. Almagia. 509. — « Nummuliti oligoceniche di Laverda nel Vicentino ». M. Ravagli. 257; 500. — « Nuove ricerche geologiche sul nucleo centrale delle Alpi carniche ». P. Va- nassa de Regny e M. Gortani. 509; 603. M MarEMATICA. « Sui criterii d’integrabilità finita di una equazione di Riccati ». C. Ajello. 257; 371. — « Sopra alcune formole fondamentali relative alle equazioni integrali ». 7. Boggio. 346; 454. — «Le varietà con tre dimensioni che ammettono per l’equazione del Laplace l’integrale F(21,%2) (03) ». PF. A. Dal- l'Acqua. 257; 269. — «Il più generale metodo di rappresen- tazione che serve di base alla Geome- tria descrittiva ordinaria ». A. Del Re. 975; 639. — « Sulla Astatica nello spazio a 4 di- mensioni ». /d. 575; 691. — « Sulla formula integrale di Fourier ». L. Orlando. 304; 367. — «Del legame fra la equazione di Fre- dholm e le equazioni differenziali li- neari ordinarie ». I. Picone. 304; 458. — «La massima deviazione accidentale e le osservazioni del tenente Mazzuoli sui risultati dei tiri ». P. Poizzetti. 633. — « Sulla continuità di un integrale ri- spetto ad un parametro ». P. Quintili. 465; 571. — «Complementi alla teoria delle tan- genti coniugate di una superficie ». C. Segre. 304; 405. — «Sulla regolarità del sistema aggiunto ad un sistema lineare di curve appar tenente ad una superficie algebrica ». F. Severi. 257; 465. — « Condizioni necessarie e sufficienti perchè un insieme continuo cc di trasformazioni costituisca un gruppo ». C. Severini. 159. — « Sulle equazioni differenziali lineari ». L. Sinigallia. 106. Meccanica. « Sopra la distribuzione locale di azioni tangenziali sulla superficie di un suolo elastico n. N. Cisotti. 191; 226. — « Sull’attrazione esercitata da una linea materiale in punti prossimi alla linea stessa n. 7. Levi Civita. 3. — 785 — MATEMATICA. « Sull’attrazione newtoniana di un tubo sottile ». /d. 413; 585. — « Sul moto di un corpo pesante intorno a un punto fisso n. AR. Marcolongo. 643; 698. MineraLogIa. « Aloisiite, nuovo idrosili- cato dei tufi di Fort Portal (Uganda) ». L. Colomba. 191; 283. — « A proposito dell'origine dell’acido bo- rico nei soffioni boriferi della Tosca- na». G. D'Achiardi. 191; 288. -- « Rosasite, nuovo minerale della mi- niera di Rosas (Sulcis, Sardegna) ». D. Lovisato. 671; 723. — «Studio chimico delle zeoliti di Mon- tresta (Sardegna) ». Z. Pelacani. 66. — « Contributi alla mineralogia della Sar- degna ». A. Pelloux. 70. — «Studî intorno a minerali sardi: Mi- metite del giacimento cuprifero Bena (d)e Padru (Ozieri) ». A. Serra. 671. Necrologie e commemorazioni dei Soci: Becquerel, Mascart. 522; Gaudry. 671. P PATOLOGIA VEGETALE. « Intorno alla Cu- scuta Gronovii, Wild ». V. Peglion. 192; 343. — « Sulla propagazione della Sclerospora macrospora per mezzo della sementa di frumento ». Zad. 347; 509. — «Intorno all’oidio della quercia ». /d. 511. — « Rapporto fra micotrofia e attività funzionale nell’olivo ». ZL. Petri. 754. PeTROGRAFIA. « Contributo allo studio pe- trografico del Vulcano Laziale. Rocce erratiche del Colle di Fonte Mo- lara, sulla via Montecompatri-Zagarolo (Lave) ». A. Rosati. 183. «(Aggregati di cristalli e tufi) ». /d. 190; 240. PETROGRAFIA. « Ricerche su rocce erut- tive basiche della Sardegna settentrio- nale ». A. Serra. 509; 597; 728. Pieghi suggellati. 527. Premio «Stanislao Cannizzaro »; sua ere- zione in Ente morale. 671. Z ZooLogia. « Contributo alla fisio-patologia del Mal di Montagna ». A. Aggazzotti. 89. — « Ancora sul ciclo della Phillozera quercus (Boyer) ». B. Bonfigli. 191; 248. — « Intorno al ciclo evolutivo della fillos- sera del cerro ». A. Foà. 391. — « Ulteriori ricerche sulla fillossera della vite ». R. Grandori. 396. — « Intorno ad un nuovo Flebotomo ». B. Grassi. 689; 681. — « Ulteriori ricerche sulla fillossera della vite (fino al 1° ottobre 1808). — I. Ancora a proposito delle galle pro- dotte dalle radicicole. — II. Lunghez- za del rostro delle neonate. — III. Le punture della fillossera. — IV. Madri radicicole con caratteri ninfali. — V. Quattro sole mute per arrivare all’a- lata. — VI. Differenziazione delle madri attere e delle alate». /d. e A. Foà. 349. — «Sulla classificazione delle Fillossere ». Id. Id. 639; 683. — « Ulteriori ricerche sulla fillossera gal- licola della vite (dalla fine di maggio alla metà di luglio 1908) ». B. Grassi e R. Grandori. 99. ni VOTA Va Re 77 ll — ili 4 ER, PSE TT ———T——@P»P@@—@@ ZE = _ ri =" EEE _=+—=xT__=-=x=T;=1w _rr—r——r—._w=ex=.__«<«7W/<&Gai Maia 2 | Dà I e) A i a = Publicazioni della R. Accademia dei Lincei. by Serie 1* — Atti dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, Tomo I-XXIII. Atti della Reale Accademia dei Lincei. Tomo o XXVI. Serie 2* — Vol. I. (1873-74). Vol. II. (1874-75). A Vol. III GEE, -76). Parte 1% TRANSUNTI. ti 9» MekmoRrIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. 3* MEMORIE della Classe di scienze morali, ni i storiche e filologiche. MOLERIVI SV VISVILIRAVIELI. hi Serio 92 — TransunTI. Vol. I-VIII: (1876-84). NY MemorIE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturale, (NOVol.. 1. (15, 2). MUER(I,, 2). — IND, Memorie della Classe di scienze morali , storiche e filologiche. Vol. I-XIII. id | Serio 43 — RenpicontI Vol. I-VII. (1884-91). 1 | MkmorIE della Classe di scienze o. h Mz: e naturali. Vol. I-VII. i MemorIE della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Vol. IX. i | Serie 5* — RenpIcONTI della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-XVII. (1892-1908). 2° Sem. Fase. 12°. RenpicontI della Classe di sciense morali, storiche e filologiche. Vol. I-XVI. (1892-1908). Fasc. 3°. a) MremoriE della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Vol. I-VII. Fasc. 4°. ‘ MrmorIE della Classe di scienze morali, dariche e filologiche. Vol. I-XII. - CONDIZIONI DI ASSOCIAZIONE AI RENDICONTI DELLA CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI DELLA R. ACCADEMIA DEI LINCEI I Rendiconti della Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Accademia dei Lincei si pubblicano due volte al mese. Essi formano due volumi all'anno, corrispon- denti ognuno ad un semestre. q Il prezzo di associazione per ogni volume e per tutta l’Italia di L. 19; per gli altri paesi le spese di posta in più. Le associazioni si ricevono esclusivamente dai seguenti editori-librai : Ermanno LoEscHER & C.° o — Roma, Torino e Firenze. Urrico HoepLi. — Milano, Pisa e Napoh. RENDICONTI — Dicembre 1908. INDICE Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seduta del 20 dicembre 1908. MEMORIK E NONE DI SOCI O PRESENTATE DA SOCI Righi. Sul moto di un elettrone intorno ad un ione nel campo magnetico . . . . Pag. Grassi. Intorno ad nuovo Flebotomo . . + RENDE RO O Id. e Foà. Sulla classificazione delle Hob CARE AL ae Del Re. Sulla Astatica nello spazio a 4 dimensioni (pres. ‘dal Socio ui A Rn Marcolongo. Sul moto (di un corpo pesante intorno a un punto fisso (pres. LI Amaduzzi. Sul comportamento singolare di un rocchetto di Ruhmkorff usato con un interrut- tore elettrolitico (pres. dal Socio Righe). . . . . . . SOR 1 Gallarotti. Sulla dispersionè per evaporazione nei o, cletiniziti e dal Conigli Bat- COMA FI Tenani. Il fenomeno di Hostal e i sun principio i imvaichicà (i Hi 519) Olivari. Sui poliioduri (pres. dal Socio Ciamician) . . . ; n) Lovisato. Rosasite; nuovo minerale della miniera di de (Sua. Sio) pi dal Socio Stxdder) = i. 0 Salta Serra. Ricerche su rocce eruttive Hina della Sidia stia Ce Ta) i Camis. Sulle alterazioni del miocardio in seguito alla vagotomia. Osservazioni di segmen- tatio cordis sperimentale (pres. dal Socio Luciani) . . |. MESE Id. Sulla sopravvivenza alla doppia vagotomia, e sulla rigenerazione Gu N. ‘Varo i Td.) » Giolitti, Carnevali e Gherardi. Sulla fabbricazione della ghisa malleabile A dal Socio Paterno to a x 5 5 ” Burali-Forti. Alcune nuove espressioni ite da Si in un i di una ae (pres. dal Corrisp. Levi-Civita) (*). . . È RUNE) Petri. Rapporto fra micotrofia e attività dice Lai (e dal Lio i) RETI BULLETTINO BIBLIOGRABICO 10) e E) AA (*) Questa Nota verrà pubblicata in un prossimo fascicolo. K. Mancini Segretario d'ufficio, responsabile. (fo LI 3 9088 01356 88 2