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Full text of "Archivio storico per le province napoletane"

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ARCHIVIO  STORICO 


PER  LE 


PROVINCE   NAPOLETANE 


PUBBLICATO 


A   CURA  DELLA   SOCIETÀ   DI   STORIA    PATRIA 


NUOVA  SERIE  -  ANNO  VI. 
XLV  dell'  intera  collezione 
FASC.  I-II-30NOVEMBRE 1920 


NAPOLI 
LUIGI   LUBRANO 
192( 


SOMMARIO 

DEL  FASCICOLO  MI  DEL  1920 


Memorie  : 

I  Curiali    napoletani  {contiti.) — A.    Gallo   ....     pag.       5 

Firf  7'.  la  Chiesa,  e  T  avvento  di  Ladislao  di  Du- 
r:    7    a1  trono   di  Napoli  (cont.)  —  A.  Mancarella        »       28 

Gli  b  t:ituti  dell'Arte  della  seta  in  Napoli  in  rapporto  al 

privilegio  di  giurisdizione  (fine).  —  R.  Pescione   .        »       61 

U  esercito   Napoletano    dalla    Minorità  di  Ferdinando 

alla  Repubblica  del  1799  (contin.) — A.  SiiviioNi  .     ,        »       88 

Cause  e  importanza  della    Rivoluzione  Napoletana  del 

1820— M.  Schifa »     110 

Da  archivi  e  biblioteche  : 

Per  la  storia  della  Congiura  dei  Baroni.  Documenti 
inediti  dell' Archivio  Estense  (1485-1487)  (cont.). — 
G.  Paladino »     128 

Gli  a  Avvertimenti  ai  nipoti  »  di  Francesco  d'Andrea 

(contin.)  —  N.  Cortese 152 

Documenti  inediti  di  artisti  napoletani  dei  secoli  XVI 
e  XVII.  Dalle  polizze  dei  Banchi  (contin.) — G.  B. 
d'Addosio »     179 

Varietà  : 

II  diritto  ad  Amalfi  nell'alto  Medio  Evo  —  G.  Sal violi.        »     191 
Assemblea  Generale  dei  Soci »     199 


ARCHIVIO     STORICO 
PER  LE  PROVINCE  NAPOLETANE 

NUOVA  SERIE  -  VOL.   VI. 


NAPOLI  —  Stab.   Tip.  Luigi  Pierro  e  Figlio  —  Via  Roma,  402. 


ARCHIVIO  STORICO 


PER  LE 


PROVINCE   NAPOLETANE 


PUBBLICATO 


A  CURA  DELLA   SOCIETÀ  DI   STORIA   PATRIA 


NUOVA  SERIE  -  ANNO  VI. 

XLV    dell' INTE3RA    COLLTOZIONB 


NAPOLI 

LUIGI  LUBHANO,   Editore 

1920 


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I  CURIALI  NAPOLETANI   DEL    MEDIOEVO 


(Cont.:  V.  voi.  prec,  pp.  5-47) 


SCRINIARII. 

Sulla  funzione  di  una  tale  categoria  di  persone  si  hanno  tre 
tesi  prevalenti,  che  nascono  o  dall'esame  molto  sommario  degU 
atti  napoletani  o  da  confronti  con  quelli  del  territorio  romano- 
pontifìcio  : 

a)  La  prima  rimonta  al  Bethmann-Hollweg,  il  quale,  rial- 
lacciando gli  uffici  di  questi  membri  del  corpo  notarile  alle  se- 
greterie (scrinia)  degl'  impiegati  governativi,  li  classifica  per 
scrivani  della  curia  municipale,  ponendoli  allo  stesso  grado  dei 
subalterni  della  città,  e  perciò  ad  un  livello  più  basso  del  ta- 
bularlo. Non  riconosce  loro  l'esercizio  pubblico,  e  li  distingue 
dai  notai  (tabelliones),  che  trova  nella  stessa  sede  (palatium)  nebe- 
neinander  :  nella  corporazione  vede  perciò  da  una  parte  «  i  cu- 
riali col  loro  primario»  e  da  un'altra  «gli  scriniarii  col  tabu- 
lano )>i. 

b)  Alcuni  escludono  una  tale  origine  remota,  ed  attribui- 
scono agli  scriniarii  napoletani  la  qualità  di  custodi  di  archivio 
(scrinium),  una  specie  di  conservatori  di  atti  pubbhci  e  privati, 
i  quali,  pur  non  avendo  la  stessa  autorità  degli  altri  loro  col- 
leghi di  grado  superiore,  potevano  stipulare  e  rendere  validi  i 
contratti.  Ponendo  a  base  di  una  tale  opinione  l'etimologia  della 
parola,  e  forse  anche  qualche  analogia  con  gli  omonimi  uffiziali 
che  vivono  nella  sfera  d'influenza  della  Chiesa  romana,  ove  un 
tale  fenomeno  persiste  più  a  lungo,  perdono  di  vista  le  notizie 
provenienti  dalla  documentazione  locale  2. 


^  Bethmann-Hollweg,  173;  Hegel,  I,  84;  Hartmann,  Untersuchun- 
gen,    141,  173;  Mayer,  I,  72. 

*  Gap.,  Mon.,  H»,  114:  «Scriniarii,  ut  ex  ipsa  nominis  signiflca- 
tione  argui  potest,  scriniorum  sive  archarum,  in  quibus  acta  public» 
atque  scriplurae  privatorum  reponebantur,  curiam  agebant  ». 


—  6 


e)  Ma,  pel  Bressiau,  lo  scrinium  è  invece:  «  un  ufficio  soprav- 
vissuto airantichità  romana  »,  da  identificarsi  col  collegio  stesso 
dei  curiali  «  i  cui  membri,  detti  scriniarii  »  sarebbero  in  tutto 
simili  ai  tabellioni,  salvo  che,  non  avendo  la  capacità  giuri- 
dica di  convalidare  le  stipule  («ein  zur  Completion  nicht  ermà- 
chtiger  Schreiber  »),  debbono  ricorrere  di  continuo  all'  altrui 
absolutio.  Non  rifiuta  le  precedenti  ipotesi,  bensì  mostra  di 
accettarle  entrambe  in  certi  determinati  limiti.  E  cosi  pone 
questi  notai  accanto  all'archivista  di  curia,  le  cui  funzioni  «  era- 
no dirette  dal  tabularlo  »,  ed  attribuisce  loro  l'ufficio  di  scri- 
vani, addetti  alla  stesura  quotidiana  dei  contratti  i. 

/  periodo  (912-1030).  Una  volta  ammessa  la  fusione  del  no- 
tariato laico  con  quello  ecclesiastico  durante  il  IX  secolo,  re- 
stano chiarite  l'origine  dell'instituto  napoletano  ed  i  suoi  rap- 
porti con  l'antichità  classica,  attraverso  gì'  influssi  delle  scholae 
pontifìcie  ^  Lo  scriniario  resta  quel  che  era  nella  curia  vesco- 
vile, un  notaio  della  città  che  agisce  per  mandato  di  un'auto- 
rità superiore  a  lui,  adstans  alle  scritture  contrattuali  ^.  Quando 


*  Bresslau,  440,  il  quale  li  ritiene  quindi  «  gewòhnlich  »  discepoli  dei 
curiali  («  Schuler  der  curiales  »),  e  perciò  di  eguale  grado  con  gli  scriptores; 
Redlich,  16. 

*  Mayer,  I,  114  ;  BouARD,  291.  Possono  considerarsi  come  una  prova 
dell'avvenuta  fusione  gli  «  exemplaria  »  dì  documenti  eseguiti  da  notai 
ecclesiastici  e  ricopiati,  con  valore  legale,  dai  tabularli  e  primari!  della 
curia  civica,  NisM.,  f.  210;  Chioccarelli,  77;  Gap.  I,  62. 

'  Mon.  sopp.,  I.  4,  A  Roma  si  dissero  scriniarii,  fin  dal  nono  secolo, 
sia  gli  scrittori  di  documenti  pontifici  (notarli  S.R. E.)  che  gli  scrittori  di 
documenti  privati  (tabelliones),  Hartmann,  XIV;  Redlich,  16;  Kehr, 
Scrinium  und  palatium,  78,  il  quale  mostra  quale  fu  in  seguito  lo  sviluppo 
dello  scriniariato  romano  e  quali  le  cause  che  determinarono  la  sua  scom- 
parsa e  la  formazione  di  un  notariato  del  S.  Palazzo  Lateranense;  Me- 
ROREs,  14  e  segg.  Anche  a  Ravenna  si  conserva  integra,  durante  questo 
periodo,  la  cancelleria  ecclesiastica,  con  notai  che  non  assunsero  mai  però 
il  titolo  di  scriniarii,  bensì  di  tabellioni  e  curiali;  e  si  mantenne  la  con- 
suetudine di  sceglierli  quasi  sempre  dal  clero  cittadino;  Savigny,  I,  366; 
Mayer,  I,  117.  Essi  stipulavano  determinate  forme  di  contratti  e  segui- 
vano l'arcivescovo  nell'  agro  della  città,  come  notai,  o  più  lontano  come 
semplici  testimoni  e  rappresentanti  della  loro  Chiesa  nelle  allegationes; 
Buzzi,  34.  I  curiales  scriniarii  di  Gaeta  rassomigliavano  agli  omonimi 
uffiziali  napoletani,  ma  rappresentano  il  trionfo  della  cancelleria   eccle- 


apparteneva  al  clero  cittadino,  ed  egli  stesso  era  diacono,  i 
documenti  non  sempre  recano  il  nome  del  presule  napoletano  ^. 
Se  nella  sua  speciale  condizione  di  impiegato  locale  rasso- 
miglia al  notarius  regionarius  della  curia  romana,  non 
rimane  al  livello  di  uno  scriba ,  incaricato  della  sola  ste- 
sura di  atti  privati,  ma  conserva  la  capacità  giuridica  di 
chiuderli  con  la  formula  completiva^.  Va  considerato  quindi 
il  titolo  che  lo  distingue  in  un'accezione  assai  vasta,  compren- 
dente il  numeroso  gruppo  di  scriniarii  discipuli  ed  il  corpo  di 
coloro  che  stipulavano  col  titolo  di  curiali  scriniariU  equiparati 
in  tutto  agli  altri  membri  del  collegio  per  gli  effetti  legali 
attribuiti  ai  loro  atti,  o  comunque  nascenti  da  essi,  e  per  la 
facoltà  di  tenere  anche  scuola  ^  La  doppia  nomenclatura   che 


siastica  su  quella  municipale,  ad  onta  che  non  sempre  appartengano  al 
clero  della  città,  Cod.  dipi,  cajet.,  I,  23,  53;  Mayer,  I,  116.  Così  avviene 
anche  a  Sorrento,  dove  sopravvive  il  presbiter  notarius,  Mon.  sopp.,  I,  30; 
NisS.,  n.  291,  789;  RNAM.,  1. 106;  Gap.,  II  \  43.  Nessuna  traccia  di  uffiziali 
ecclesiastici  avanza  invece  ad  Amalfi,  Mayer,  I,  116  e  segg.,  il  quale  os- 
serva che  anche  al  notariato  veneziano  più  a  lungo  «  die  Kleriker  teil- 
nehmen  ». 

^  Muratori,  RIS,  P,  414;  Gap.,  I,  266,  i  quali  riportano  un  atto  di  as- 
sai dubbia  autenticità,  contenente  la  sottoscrizione  del  vescovo  Attanasio, 
mentre  nel  precedente  atto  (763)  dei  NisM.,  210,  pubblicato  prima  dal 
Chioccarelli,  Antistitum,  77,  e  poi  dal  Gap.,  I,  266,  non  appare  l'inter- 
vento dell'autorità  ecclesiastica.  Qualche  differenza  nell'ordine  rogatorio 
notasi  a  Ravenna,  ove  il  notaio  della  Ghiesa  poteva  stipulare  solo  certe 
speciali  forme  di  contratti  riguardanti  affari  dell'arcivescovo;  Buzzi,  23  e  sg. 

^  Rivestiti  di  tale  pubblica  autorità  si  chiamano  nel  primo  periodo 
sempre  curiali-scrinarii  ;  Mon.  sopp.,  I,  10  ;  NisS.,  n.  538  ;  RNAM.,  I, 
35;  Gap.,  II 2,  23.  Gade  perciò  la  tesi  del  Bethmann-Hollweg,  1,84,  il 
quale  non  riconosce  mai  agli  scriniarii  una  funzione  superiore  a  quella  di 
scrivani  di  segreteria,  e  cioè  di  bassi  impiegati.  Pei  confronti  col  nota- 
riato pontifìcio,  KBun,Scrinium  und  palatiumJS;  Bouard,  292,  e  con  quel- 
lo ecclesiastico  degli  altri  paesi  bizantini,  Mayer,  I,  116  e  segg.;  Redlich, 
16  ;   Buzzi,    23. 

»  Mon.  sopp.,  I,  11  ;  NisS.,  n.  19,  1114;  RNAM.,  I,  38,  IV,  31;  Gap., 
I  S  25  202,  ricordano  lo  scriniario,  discepolo  di  curiali-scriniarii  e  di  primari. 
Per  la  loro  qualità  di  testimoni,  Mon.  sopp.,  II,  121;  NisS-,  n.  374, 
RNAM.,  II S  158  ;  Gap.  II,  107.  Anche  i  curiali-scriniarii  fanno  queste 
attestazioni  di  intervento,  NisS.,  n.  994;  RNAM.,  IV,  9;  Gap.,  IP., 
195,    come   tutti  gli  altri    loro    colleghi,  ai  quali    sono    equiparati  pel 


—  8 


si  adopera  per  le  corporazioni  riunite  (curiali  e  curiali  scriniarii) 
non  indica  una  differenza  di  grado  nella  carriera  notarile,  ma 
serba  viva  nella  tradizione  la  diversa  origine  di  due  scholae 
equiparate  completamente  in  tutto  ciò  che  rappresentava  pra- 
tica professionale.  Trovansi  così  da  una  parte  gli  scrittori  di- 
scepoli che  divenivano  curiaU  e  da  un'altra  gli  scriniarii  di- 
scepoli che  divenivano  curiali  scriniarii. 

Solo  pei  notori  esiste  un  impiego  multiforme  di  attività.  Essi 
pare  che  sostituissero  tutti  gli  altri  ufficiali  appartenenti  al 
corpo  municipale,  e  specialmente  gli  scriniarii^.  Vi  sono  anzi 
documenti  in  tutto  il  primo  periodo  che  agevolano  addirittura  la 
identificazione  dei  due  termini:  rievocandosi  r«  antiquata  con- 
suetudo  »  e  le  varie  categorie  di  funzionari  del  collegio,  al  posto 
dello  scriniario  è  segnata  esplicitamente  la  voce  notariusK  Nei 
paesi  tirrenici  che  si  distaccarono  da  Napoli  l'instituto  con- 
serva integre  le  sue  qualità  di  origine,  mentre  qui  si  deforma 
nella  fusione,  specie  pel  sopravvento  che  il  corpo  civico  pigliò 
su  quello  ecclesiastico^.  Anche  nelle  zone  vicine,  e  un  tempo 
soggette  al  Ducato,  esiste  uno  scriniario  o  notaio  chierico,  nella 


diritto  che  avevano  di  compiere  et  absolvere,  Mon.  sopp.,  II,  67;  NisS., 
n.  554;  RNAM.,  II,  39;  Gap.,  II S  69,  II M14,  il  quale,  non  sapendo  spiegar- 
si la  inferiorità  di  grado  degli  scriniarii,  discute  sulle  interpretazioni  cui 
si  prestano  le  firme  di  questi  scrittori  di  documenti  :  «  At  ex  membranarum 
ipsarum  accurata  observatione  et  ex  locorum  controversorum  collatione, 
satis  patet  utrorumque  nominum  diversitas,  et  alteros  fere  semper  bre- 
viatos,  alteros  totis  litteris  ac  absque  uUo  scripturae  compendio  a  curiali- 
bus  semper  designatos  fuisse  protinus  evincitur  ».  In  tal  modo  si  correg- 
gono i  seguenti  atti:  NisS,  n,  1209,  1316;  RNAM.,  V,  55,  VI,  46;  Gap., 
II S  303,381,  dove  appunto  bisogna  leggere  scriptor  in  luogo  di  scriniarius. 

^  infra,  §  Discipuli;  Pfaff,  5;  Ferrari,  9. 

*  Il  primo  gruppo  costituito  da  diplomi  in  cui  si  consolida  una  formola 
indicante  quali  categorie  della  corporazione  potevano  stipulare  gli  atti 
sovrani,  cioè  «  curialis  vel  tabularius,  aut  notarius  et  primarius  »;  ms. 
TuTiNi,  f.  15,22;  Muratori,  AIME.,  I,  198;  JRiVAM.,  V,  26;  Gap.,  US 
277,  II  *,  20,21,  45  ;  il  secondo  invece  è  fatto  da  due  cariale  offertionis 
del  1003  e  1027,  nelle  quali  si  attribuisce  Vannotatio  al  «curialis  aut  no- 
tarius, vel  tabularius  sibe  primarius  »,  Mon.  sopp.,  VI,  7,  VII,  15;  NitS., 
n.  274  ;  RNAM.,  IV,  16,  189;  Gap.,  II  \  196,  258. 

^  Bresslau,  440;  Mayer,  I,  114;  Ferrari,  10. 


« 


—  9 


condizione  pupillare  di  puro  e  semplice  scriba,  alla  dipendenza 
di  un  «  prototabellio  »  o  «  pronotarius  »,  che  a  Gaeta  è  diverso 
dal  curiale  e  in  tutto  eguale  invece  al  curiale  scriniario^. 

È  del  resto  assai  discutibile  la  stessa  prevalenza  esercitata 
dai  notai  municipali,  poiché  essi,  nell'assimilarsi  i  loro  colleghi 
ecclesiastici  e  nel  laicizzarli,  fraternizzano  nell'esercizio  profes- 
sionale e  per  un  certo  tempo  eseguono  il  minor  numero  di 
stipule^.  La  difTerenza  di  titolo  sta  ad  indicare  la  loro  dupHce 
provenienza,  e  fors'anco  il  diritto  che  alcune  famiglie  avevano 
di  trasmettersi  ereditariamente  le  cariche.  Nelle  scuole  i  disce- 
poli seguono  qualunque  maestro,  senza  mostrare  di  tener  conto 
della  speciale  nomenclatura  che  lo  distingue,  né  della  qualifica 
assunta  all'atto  di  ammissione  nel  collegio^.  E  cosi  i  curiali- 
scriniarii,  come  pubbUci  uffiziali,  eseguono  ogni  sorta  di  instru- 
menti, non  esclusi  quelli  tra  la  casa  del  duca  ed  i  privati*. 

Per  l'assenza  di  cognomi  e  di  altri  elementi  discriminativi, 
e  per  le  continue  omonimie,  non  é  possibile  seguire  la  carriera 
di  questa  categoria  di  notai,  i  quali,  continuando  l'ascensione 
per  gradus  et  ordines,   dovevano   rinunziare   alla   qualifica    che 


*  I  notai  presbiteri  di  Sorrento,  Mon.  sopp.,  I,  30;  NisS.,  n.  789;  RNAM., 
I,  106  ;  Gap,  IP,  43,  rassomigliano  più  ai  curiali  scrinii.rii  di  Gaeta  e  di 
Napoli,  Cod.  dipi,  cajet.,  I.  53;  Mon.  sopp.,  I,  1;  NisS.,  n.  538;  RNAM., 
I,  35;  Gap.,  II*  23,  che  ai  tabellioni  ecclesiastici  di  Ravenna,  Mayer, 
I,  117;  Buzzi,  23  e  sg. 

*  Pel  numero  dei  rogiti  i  curiali  stanno  in  equa  proporzione  coi  cu- 
riali-seri niarji,  specie  nel  primo  periodo.  Dal  912  al  922  si  hanno  per  esem- 
pio, quattro  notai  delia  curia  municipale:  Gregorio,  Leone,  Giov.  nni  e  Ste- 
fano, Mon.  sopp.,  I,  5,  6,  8,  9;  NisS.,  nn.  744,  781,  881;  NisG.,  n.  396; 
RNAM.,  J,  19  24,  31,  33;  Gap,  US  19,  22,  23,  24,  e  due  provenienti  dalla 
antica  classe  degli  ecclesiastici,  Gregorio  e  Giovanni,  Mon.  sopp.,  I,  4, 
1C,  XII,  585;  NisS.,  n.  538;  RNAM.,  1,  14,  35,VI,  77;  Gap.,  US  17,  18,  23. 

'  Vi  sono  scriniarii,  discepoli  di  curiali-scriniarii  e  di  primarii,  Mon.sopp., 

I,  n,  VI,  14,  VII,  16;  NisS.,  190,  880,  1114;  RNAM.,  I,  38,  IV,  31,  191; 
Gap.,  IP,  25,  202,  259,  e  curiali-scriniarii,  maestri  di  semplici  scriptores, 
Mon.  sopp.,  II,  94,  RNAM.,  II.  94,  Gap.,  II  S  38.  Da  scolari  maggiorenni 
intervengono  agli  atti  come  testimoni,  ma  di  rado,  Mon.  sopp..  Ili,  121: 
NisS.,  n.  374;  RNAM.,  US  158;  Gap.,  ll\  107. 

*  Le  chartule  commutationis  di  Giovanni  console  e  duca,  stipulate 
nel  949  e  951,  furono  condotte  da  Gregorio  curiale-scriniario,  Mon.  sopp., 

II,  59;  Prol.  di  S.  Severino,  f.  14,   28;  RNAM.»   II,  21;  Gap..  II»,  11. 


—  10  — 

aggiungevano  alla  voce  curialis.  Dai  documenti  napoletani  in- 
fatti non  risulta  confermata  l'esistenza  di  un  primario-seri niario, 
che  stipula  alcuni  diplomi,  fra  il  944  ed  il  948,  la  cui  auten- 
ticità è   per  tanti  riguardi  insostenibile  i. 

Gli  auihentica,  relebata  tardivamente  dalle  schede  e  dalle  note 
del  protocollo  municipale,  non  furono  mai  condotti  dagli  scri- 
niarii,  e  dimostrano  che  essi  non  ebbero  rapporti  con  Varchivium 
civitatis,  affidato  alle  cure  del  tabulano  ed  alla  direzione  del 
primario  ^ 

//  periodo  (1031-1298).  Durante  il  quarto  decennio  del  sec. 
XI  il  vetusto  instituto  appare  modificato  nelle  sue  funzioni  e 
nei  suoi  rapporti  col  resto  del  collegio  ;  incomincia  a  scom- 
parire il  titolo  «  curialis  scriniarius  »  e  a  consohdarsi  quello  più 
semplice  di  «  scriniarius  »  ^.  Non  è  che  l'antico  notaio  discepolo, 
contrassegnato  con  questo  nome,  venga  a  mancare  o  ad  eman- 
ciparsi da  ogni  tutela  e  dagli  antichi  vincoli  scolastici,  per  sop- 
piantare nella  pratica  i  gruppi  superiori  della  corporazione;  ma 
è  invece  l'antico  pubblico  uffiziale,  proveniente  dalla  sua  ca- 
tegoria, il  curiale-scriniario,  che  muta  nome*.  Esistono  anche 
allora  infatti  i  due  antichi  gradi,  con  le  stesse  Umitazioni  di 
diritti  e  di  garenzie  che  avevano  prima  ;  solo  il  curiale  scriniario 
si  sottoscrive  come  scriniario^. 

>■  Muratori,  RIS.,  ì\  432,  466;  Gap.,  IP,  5,  107,  pubblicano  due  di- 
plomi ducali  napoletani  dal  Chronicon  Vulturnense,  che  sono  pieni  di 
inesattezze  diplomatiche. 

*  Mon.  sopp.,  I,  37,  VII,  16;  NisS.,  n.  292,  875  ;  NisG.,  f.  31;  RNAM., 
131,  142;  Gap,  II  S  48,  191. 

^  Il  primo  documento  in  cui  appare  lo  scriniario,  con  funzione  di  notaio 
stipulante,  è  una  e.  venditionis  del  1036,  Mon.  sopp.,  Vili,  lOJ;  RNAM., 
IV,  65;  Gap.,  IP,  281.  Ma  dopo  ritorna  ancora  negli  escatocolli  il  curiale- 
scriniario,  fino  alla  metà  del  sec.  XII,  MS.,  I,  27  (21  quater),  fino  cioè 
al  1154,  NisG.,   f.  13. 

<  NisS.,  n.  658;  RNAM.,  V,  84;  Gap.,  US  320,  in  cui  può  vedersi 
identificata  la  nomenclatura  cariale  e  curiale  scriniario.  Basta  confron- 
tare una  e.  promissionis  del  1104  con  un  diploma  del  1107,  in  cui  inter- 
viene come  amanuense  Gregorio,  disc,  di  Bernardo  primario,  una  volta 
con  la  qualifica  di  scriniario  e  una  volta  con  quella  di  scrittore,  per  iden- 
tificare i  due  termini,  Mon.  sopp.,  II,  64;  Arch.  di  Gava,  XXVIII,  8; 
NisS.,  n.  1063;  RNAM.,  V,  292;  Gap.,  II  ^;  164,  355. 

*  Per  la  identificazione  dello  scriniario  discepolo,  nella  qualità  di  scrit- 


11 


Mentre  questa  unificazione  di  termini,  usata  per  la  categoria 
dei  notai  provenienti  dalla  curia  ecclesiastica,  continua  a  man- 
tenere viva  nel  corpo  dei  curiali  una  difTerenza  di  nomi  che 
non  corrisponde  a  una  varietà  di  funzioni,  si  afferma  il  prin- 
cipio di  trasmissione  ereditaria,  come  privilegio  di  una  famiglia 
napoletana^.  Il  titolo  scriniario  finisce  così  per  diventare  co- 
gnome, e  spiega  perchè  fu  conservato  dopo  che  aveva  perduto 
ogni  valore  diflerenziativo,  e,  quanto  a  funzione,  si  era  perfetta- 
mente identificato  col  curialato  e  con  la  sua  scuola*.  Tolto  il 
principio  di  successione  ereditaria  alla  carica  scriniariale,  non 
vi  è  altra  causa  valevole  a  spiegare  l'uso  dei  due  termini,  che, 
se  distinguono  due  gruppi  di  persone,  servono  a  indicare  lo 
stesso  ufììcio.  Quando  per  scriniario  stipulante  s'intendeva  il 
curiale,  il  curiale-scriniario,  gli  si  riconobbe  il  diritto  di  tenere 
presso  di  sé,  come  discepoli,  scrittori,  notai  e  scriniarii,  gio- 
vanetti cioè  appartenenti  a  tre  categorie  che  si  equivalevano 
perfettamente  ^. 

La  presenza  di  notai  anche  in  questo  secondo  periodo,  tenuti 
nettamente  distinti  dagli  scriniarii,  spiega  il  valore  del  termine 
curialis  et  protonotarius  che  compare  in  un  documento  del  1113*. 

Il  loro  numero,  che,  nel  primo  periodo,  oscilla  intorno  ai  tre, 
si  va  sempre  più    rarefacendo  a  misura  che   trionfa  la  succes- 


tore,  e,  come  tale,  se  maggiorenne,  anche  di  testimone,  NisS.,  n.  1210; 
RNAM.,  V,  49;  Gap.,   US  303,305. 

1  MS.,  I,  57,  (50):  reca  una  inerissi  del  1149,  in  cui  non  è  ben  chiaro  se 
il  titolo  conservi  ancora  l'antico  valore,  o  sia  agnome.  Già  un  secolo  avan- 
ti si  è  trovato  praticamente  attuata  la  successione  ereditaria.  Stefano 
scriniario  è  nello  stesso  tempo  figlio  e  discepolo  di  Giovanni  scriniario, 
NisS.,  n.  1210;  RNAM.,  V,  49;  Gap-,    ll\  305. 

■'  Ms.,  XXIX,  2416,  2439;  NisM.,  t  156,  378,  429,  in  cui  vari  rap- 
presentanti della  famiglia  Scriniario  figurano  come  curiali.  L'esistenza 
di  uno  scriniario  avente  per  cognome  «  de  donno  Manso,  »  conferma  il 
dubbio  che  anche  a  qualche  altra  famiglia  fosse  conservato  un  tale  pri- 
vilegio, MS.,  XIII,  1148,  XVII,  1434,  XXVI,  2190. 

=•  NisS.,  n.30Q,  884;  Minieri  Riccio,  App.,  n.  3;  RNAM.,  VI,  111, 
n.   3;  Gap.,  Il»,  395,  406;  MS.,  III,  250. 

*NisS.,  n.  1207;  RNAM.,  V,  370;  Gap.,  U\  368,  in  cui  Gregorio 
«  curialis  et  protonotarius  »  stipula  una  carta    livellatica  del   monastero 


—  12  — 

sione  ereditaria^.  Appena  la  famiglia,  che  ne  ha  assunto  il 
cognome,  è  investita  di  altre  cariche  del  collegio,  il  titolo  perde 
ogni  valore  distintivo,  e  l'ufficio  scompare  lentamente  2.  Napoli 
che  salvò  dalla  eversione  fridericiana  gran  parte  dei  suoi  diritti 
e  tutto  intero  il  corpo  notarile,  colpito  direttamente  dalle 
nuove  norme  costituzionali  non  mostra  nessuno  interesse  di 
salvare  lo  scriniarato,  per  fare  gì*  interessi  di  poche  famiglie  ^. 
Gli  scriniarii  uscirono  ridotti  nel  numero,  e  rappresentati  fra 
il  1256  ed  il  1279  da  un  solo  individuo,  che  fu  l'ultimo  a  por- 
tare il  titolo  tradizionale*. 

Come  avanzo  della  curia  del  vescovo,  urtava  il  vetusto  insti- 
tuto  contro  lo  spirito  dei  tempi,  in  cui  il  ghibellino  impe- 
ratore aveva  limitate  le  autonomie  ecclesiastiche,  e  non  avrebbe 
permesso  al  presule  napoletano  di  esercitare  qualche  influenza 
sul  municipio,  divenuto  universitas,  o  per  lo  meno  non  avrebbe 
permesso  agli  scriniarii  di  rappresentare  un  principio  di  diritto 
particolaristico  ed  a  lui  contrario  ^  Ma  Federico  II  mostra  di 
ignorare  questa  categoria  di  notai,  che  sono  cosi  unificati  ed 
immedesimati  coi  curiali  da  non  meritare  la  considerazione  di 
un  disposto  di  legge.  Nei  riguardi  dello  scriniariato,   fu  vano 


dei  SS.  Sergio  e  Bacco,  occupando  il  posto  del  curiale  scriniario,  col 
quale  riuscirà  facile  identificarlo  solo  che  si  ricordi  il  valore  del  notarius 
equiparato  allo  scrittore. 

^  Arch.  di  Cava,  XX,  155  bis;  Gap.,  II  S  389,  in  cui  figurano  tre  scri- 
niarii, che  si  riducono  a  uno  solo  negli  ultimi  tempi,  MS.,  XVIII,  1434. 

'  D'ordinario  i  discendenti  degli  scriniarii  figurano  come  curiali,  MS., 
XXIX,  2416,  2439,  che  iniziano  la  loro  carriera  da  scrittori,  MS.,  XXXI, 
2619,  ove  c'è  «  Landò Ifus  Scriniarius  scriptor  ». 

3  Infra,  §  Curiali. 

*  MS.,  XIII,  1148  ;  NisG.,  t,  82,  in  cui  compare  appunto  Giovanni 
de  domno  Manso. 

*  Su  i  divieti  fatti  agli  ecclesiastici  di  esercitare  il  notariato,  Zachariae, 
Beiiràge,  181;  Ferrari,  /  documerdi,  80.  Per  l'abolizione  dei  notai  e  giu- 
dici ecclesiastici  a  tempo  di  Federico  II,  ConstiL  LXXXII:  «  Contra  pre- 
dictam  autem  formam  instrumenta  confecta  in  posterum  nuUam  habeant 
firmitatem;  ilio  tenaciter  observando  ut  in  aliquo  locorum  nostri  demanii 
clerici  cuiuscumque  sint  ordinis  in  iudices  et  notarios  nuUatenus  assu- 
mantur  ». 


13  — 


il  ritorno  del  popolo  alle  «rationabiles  consuetudines  appro- 
batas^».  Innocenzo  IV  che  le  ristabiliva,  creando  nuovi  insti- 
tuti,  ad  immagine  e  somiglianza  di  quelli  adottati  nelle  città 
«  de  patrimonio  Beati  Petri  »,  aveva  visto  tramontare  sotto  i 
suoi  occhi  lo  stesso  instituto  nella  curia  romana,  e  poco  valore 
dovè  attribuire  alla  scomparsa  degli  scriniarii,  le  cui  funzioni 
si  erano  già  da  un  pezzo   completamente  obliterate  ^ 

Restò  al  vescovo,  che  pur  avendo  dei  notai  propri  e  ri- 
correva pei  suoi  affari  all'opera  dei  curiali,  il  diritto  di  pre- 
senziare gli  atti  degli  ecclesiastici  e  di  concedere  alla  elezione 
dei  nuovi  uffiziah  il  suo  assenso,  una  specie  di  TP^T^  èviaXxT^pto; 
dei  secoli  precedenti  2. 

Curiali. 

Il  carattere  locale  dell'instituto  napoletano,  cosi  diverso  da 
quello  omonimo  dei  paesi  vicini,  è  in  rapporto  con  le  vicende 
politiche  della  regione,  ma  sopratutto  con  la  impenetrabilità 
dell'  organismo  di  curia  alle  invadenze  barbariche,  o  comun- 
que straniere^.  Anche  quando  la  curia  ecclesiastica,  recante 
tradizioni  di  romanità,  attraverso  gl'influssi  della  schola  pon- 
tificia, fu  unificata  con  quella  laica,  restò  sempre  distinta  da 
essa,  se  non  per  usi    di  pratica  professionale,   almeno  per  la 


»  Gli  scriniari  insieme  coi  discepoli,  scrittori,  tabularii  e  primari!  vanno 
compresi  sotto  la  denominazione  generica  di  curiali,  Consist.,  LXXX. 

-  Kehr,  78  ;  Hartmann-Merores,  p.  XXIV  ;  Bouard,  292,  segna- 
lano la  scomparsa  degli  scriniarii  pontifìcii  durante  il  secolo  XII. 

»  Bethman-Hollweg,  173,  205  ;  Hegel,  I,  84  ;  Gap.,  Il*,  115  ;  Bres- 
SLAU,  440  ;  Cod.  dipi,  cajet,  I,  288,  in  cui  compare  appunto  un  curiale  a 
Gaeta;  Camera,  I,  223,  II,  425,  reca  i  nomi  degli  omonimi  notai  amalfi- 
tani, con  funzione  di  iudices;  Mansi,  XVIII,  col.  472  ricorda  il  protoscri- 
nario  romano  Leone  come  curiale  ;  Marini,  68,  conserva  il  ricordo  di  cu- 
riali pontifici,  ma  di  natura  diversa  e  come  scrittori  della  Chiesa  ;  Fan- 
Tuzzi,  III,  2  ;  Buzzi,  23,  mostrano  quali  erano  gli  ufflcii  dei  tabellioni 
curiali  nel  municipio  ravennate,  dipendente  dall'arcivescovo  della  città. 
Manca,  per  esempio,  a  Napoli  il  controllo  giudiziario  nei  rogiti,  così  dif- 
fuso nelle  vicine  terre  longobarde,  RNAM.,  IV,  267,  311,  322;  Schupfer, 
//  diritto  privato  dei  popoli  germaniciy  III,  77  e  seg.;  Mayer,  Bemerkiingen, 
45;  Genuardi  ,  62,  e  segg. 


14  — 


sopravvivenza  estrinseca  di  due  gruppi  di  notai  i.  Quel  non 
avere  accettata  nella  sostanza  e  nella  forma  la  Novella  impe- 
riale, quello  sforzo  diuturno  a  consolidare  l'autonomia  del  mu- 
nicipio, quel  tenace  attaccamento  a  un  mos  et  consuetudo  di 
origine  classica,  sono  elementi  bastevoli  a  spiegare  come  e  per- 
chè la  compagine  del  loro  corpo  riuscisse  a  superare  l'urto  di 
norme  legislative,  affermanti  i  diritti  accentratori  dell'Impero 
su  gli  abusi  delle  comunità  civiche  2.  Essendo  rimasto  il  ducato 
napoletano  chiuso  alle  correnti  nuove  della  cultura  romanistica, 
ed  avendo  mostrato  di  accedere  a  un  istituto  ecclesiastico, 
senza  fondersi  e  confondersi  con  esso,  solo  perchè  s'imponevano 
la  volontà  di  un  signore  e  le  esigenze  politiche,  i  documenti 
curialeschi  mostrano  nel  suo  vigore  una  tradizione  classica  che 
sì  conserva,  quasi  intatta,  fino  all'ultimo  Medio  Evo^. 

Si  mantiene  integra  la  territoriaUtà  della  loro  giurisdizione, 
vale  a  dire  l'obbligo  di  esercitare  l'arte  £V  z'q  To:aun(]  x^pa  1-5 
Selva  xal  xoX<;  yuptoO-ev  xal  Trép:^,  e  cioè  nei  confini  della  regio 
romana,    coincidenti  coi    Umiti   dei  centri  urbani  del  ducato*. 


^  Infra  §  Scriniari.  Esiste  il  discipulus  scriptoFf  che  diveniva  curialis 
ed  il  discipulus  scriniarius,  che  diveniva  scriniarius. 

^  Nov.  Leon.,  XLVI,  molto  importante  là  dove  parla  delle  curie. 
Fin  d'allora  si  era  dunque  generalizzato  l'uso  della  norma  consuetudi- 
naria (vó^iiiAos  iSatpog)  che  esautorava  il  potere  centrale ,  rafforzando  le 
autorità  locali.  Per  la  sopravvivenza  della  curia  e  dei  curiali,  come  af- 
fermazione di  un  principio  particolaristico,  Gap.,  II*,  112  :  Schifa,  // 
ducato  26,  seg.  ;  Heinemann,  Stadtverfassung,  39  ;  Redlich,  18.  Anche 
a  Sorrento  e  ad  Amalfi  si  seguivano  consuetudini  proprie,  Volpicella, 
Le  consuetudini  di  Sorrento,  1  e  segg.;  id.  Le  consuetudini  di  Amalfi,  1 
e  seg.  L'antiqua  consuetudo  napoletana  è  spesso  ricordata  nei  documenti, 
Mon.  sopp.,  VI,  7,  VII,  15;  NisS.,  n.  274;  RNAM.,  IV,  16,  189:  Gap.,  US 
196,  258. 

»  Infra  §  Scriniari. 

*  Ferrari,  Formularii,  44  ;  id.,  /  documenti,  10;  Kehr,  Scrinium  und 
palatium,  77,  il  quale  stabilisce  il  rapporto  che  i  notai  regionari  romani 
avevano  con  l'autorità  pontificia  e  con  la  zona  in  cui  si  svolgeva  la  loro 
attività.  E  mentre  essi  non  uscivano  da  Roma,  i  notai  palatini  seguivano  il 
papa  dovunque  si  recava.  Anche  a  Ravenna  i  notai  laici  potevano  se- 
guire l'arcivescovo  nell'ager  della  città,  dov'egli  si  recava  per  affari  e 
dove  i  notai  della  curia  ecclesiastica  non  erano  autorizzati  ad  intervenire  ; 


15 


Considerando  Gaeta  ed  Amalfi  nella  zona  originaria  di  questo 
dominio  bizantino,  si  può  con  sicurezza  affermare  che  a  Na- 
poli, come  a  Venezia,  si  cercasse  di  salvare  anche  la  nomen- 
clatura antichissima  della  curia  ^.  Ed  il  suo  notariato  civico 
continuava  ininterrotto  sulla  sponda  tirrenica  e  su  quella  adria- 
tica, mentre  altrove  aveva  subita  per  lo  meno  l'influenza  di 
scuole  nordiche  o  ecclesiastiche  2.  Ma,  più  tardi,  quando  su  i 
territori  della  laguna  incomincia  ad  affermarsi  Vinvestiiio  ed  il 
curiale  diviene  un  judex,  il  ducato  di  Napoli  resta  solo  a  per- 
petuare il  principio  classico^.  Allora  si  erano  già  affrancati 
dalla  sua  soggezione  i  gaetani,  gli  amalfitani  ed  i  sorrentini,  e 
i  confini  politici  del  dominio  si  erano  ridotti  a  poco  più  della 
capitale  e  dei  dintorni;  ma  presso  le  nuove  formazioni  politiche, 
si  conservava  l'i nstituto  dei  curiali,  modificato  da  esigenze  nuove 
che  si  andavano  creando  fra  i  loro  governi  e  quelli  dei  popoli 
finitimi  *.  Mentre  quivi  si  fanno  sentire  gl'influssi  papali  o  bar- 
barici, Napoli,  conserva  integra  una  corporazione  formatasi  nel 
periodo  del  basso  Impero,  e,  rimasta  attraverso  epoche  turbinose 


Buzzi,  24.  E  così  la  curia  Amalfitana  non  giunge  con  la  sua  giurisdizione 
fino  a  Ravello,  e  quella  gaetana  fino  a  Terracina;  Merores,  62,  e  segg. 
I  limiti  di  Napoli  arrivano  fino  a  Pozzuoli,  Ischia ,  Somma,  Mon.  sopp., 
IV,  11,  VII,  39;  NisS,,  443,371;  Prot.  S.  Sev.y  f.  57;  RNAM.,  II,  273, 
IV,  241;  Gap.,  US  138,  274,   380  ;  Mayer,  I,  117. 

^  Il  titolo  curialis  era  comune  a  Venezia,  Gaeta  ed  Amalfi,  per  quanto 
con  funzioni  diverse,  Baracchi,  VI,  312,  VII,  80;  Camera,  I,  223;  Mayer, 
I,  117. 

"  Quando  in  Roma  si  ebbero  influenze  di  uomini  nuovi  «  Nichtromer  », 
il  notariato  antico  subì  profonde  modificazioni  ed  assistette  all'istallarsi 
del  minuscolo  che  veniva  a  soppiantare  la  curiale;  Kehr  ,  Scrinium  und 
palatium,  71.  Nel  territorio  ravennate  e  gaetano  si  risente  l'influenza  pon- 
tificia. Buzzi,   21   e  seg.   Influenze    barbariche    mutarono    gl'istituti    ad 

lalfi,  ove,  per  esempio,  il  curiale  assunse,  come   nei  paesi  longobardi, 

titolo  di  iudex,  Camera,  II,  425;  Schifa,  //  ducato,  258;  Mayer,  1,  116, 
Jenuardi,  62  e  seg. 

'  Roberti,  Le  magistraturey  169  ;  Besta,  in  Nuovo  arch.  ven.  I,  52. 

*  Cod.  dipi  cajtt.y  I,  10,  11-19;  Cap.,  I,  78;  Schipa,  //  ducalo,  281.    Pei 

[rapporti  di  Gaeta  ed  Amalfi  coi  longobardi  e  coi  pontefici,  Cod.  dipi,  cajet., 

I,  358;  Schifa,  //  ducalo,  322,    335;    Merores,  11,  19-20,  24,  26  e  seg. 

ìorrento  restò  invece  sotto  una  più  diretta  influenza  del  ducato  napole- 

Ita  no  ;  Schifa,  0.  e,  314  . 


16  — 


per  la  storia  del  notariato  civico,  la  più  cospicua  isola  di  clas- 
sicismo del  Medio  Evo  italiano^. 

Contrariamente  a  quanto  si  ritiene  dalla  generalità  degli  scrit- 
tori, non  coincidevano  i  confini  giurisdizionali  del  collegio  con 
quello  della  civitas,  ma  con  quello  deìVager,  e  poi  dei  terriioria 
vicini,  escluso  Sorrento,  in  cui  funziona  un  collegio  di  presbiteri 
notai  ^.  Per  una  così  ampia  accezione  della  X^P^'  bizantina,  com- 
prendente diversi  municipii,  anzi  tutti  i  paesi  del  ducato  dei  tempi 
posteriori,  i  curiali  prevaricano  e  fanno  quasi  coincidere  la  loro 
circoscrizione,  in  quanto  sono  anche  notai  del  duca  e  della  sua 
famiglia,  coi  limiti  del  potere  politico  2.  Avviene  in  altri  ter- 


»  Hegel,  I,  84  ;  Mayer,  I,  72,  il  quale  a  proposito  della  nomencla- 
tura che  adoperavano  dice  che  «  si  conserva  perfino  la  terminologia 
dell'antichità  romana  ».  Pei  rapporti  dell'istituto  con  l' autorità  roma- 
na, Bethmann-Hollweg,  205;  Ciccaglione  Delle  istituzioni,  101;  Brun- 
ner,  Rechtsgeschichte,  50;  Mitteis,  290;  Genuardi,  24.  Anche  il  Redlich, 
17,  riconosce  nella  scuola  e  nella  pratica  napoletana  una  «  unleugbare 
romische  Tradition  ». 

*  Ferrari,  44  ;  Mon.  sopp.,  IV,  11;  NisS.,  n.  443,  371;  Prot.  S.  Sev., 
t  57;  RNAM.,  II,  273,  IV,  241;  Gap.,  Il»,  138,  274,  380,  donde  risulta 
la  presenza  dei  curiali  nelle  varie  terre  del  Ducato,  contrariamente  alla 
tesi  del  Gap.,  11%  119,  Il  padum,  543,  che  attribuisce  loro  l'esercizio  pro- 
fessionale nella  città  ed  in  via  eccezionale  nella  campagna,  seguendo  un 
principio  del  Ghiarito,  9,  accettato  anche  nei  tempi  posteriori,  Mayer, 
1,117,  il  quale,  a  proposito  della  curia  e  dei  curiali  di  Ravello,  sostiene 
che  anche  ad  Amalfi  la  curia  «non  esorbitava  dai  confini  della  città». 
Pei  notai  presbiteri  di  Sorrento,  Mon.  sopp.,  I,  30;  NisS.,  n.  789;  RNAM., 
I,  106;  Gap.,  II  »,  43.  Gli  abitanti  dell'agro  nolano  rimasero  sotto  la  giu- 
risdizione dei  curiali  napoletani,  NisS.,  n.  27;  RNAM.,  Ili,  176,  Gap., 
II S  187,  in  cui  un  presbitero,  «  abitator  in  loco  qui  vocatur  Palma,  et 
nominatur  Liciniana  »  fa  scrivere  a  Napoli  una  carta  promissionis  in 
favore  del  monastero,  dei  SS.  Sergio  e  Bacco,  Mon.  sopp.,  V,  190;  NisS., 
n.  803;  RNAM.,  Ili,  170;  Gap.,  ll\  184,  ove  compare  un  abitante  di  Vil- 
lanova. 

«  Mon.  sopp.,  VI,  41,  Vili,  43;  Muratori,  AI  ME.,  I,  198;  RNAM., 
IV,  103,  V,  26,  Gap.,  II  *,  24,  45,  dove  si  trovano  appunto  documenti  du- 
cali. Avanza  anche  qualche  ricordo  di  un  curiale  Stefano,  «  qui  nominatur 
primarius  »,  come  distintivo  agnominale,  non  perchè  fosse  investito  di 
tale  carica,  RNAM.,Y1,  135,  Gap.,  II S  79.  Nel  territorio  di  Gaeta,  a  Suio, 
Uri,  Maranola,  si  ha  un  fenomeno  analogo  solo  durante  il  periodo  più  an- 
tico. Ma  un  centro  di  affari  come  Traetto   (Mittelpunk)  quasi  eguale  alla 


—  17  — 

mini  uno  sconfinamento  territoriale  in  corrispondenza  di  un 
altro  di  natura  giuridica  :  per  un  lungo  periodo  il  notarius  civi- 
taiis  diviene  notarius  ducatuSy  il  quale  stipula  rogiti  per  uomi- 
ni di  Pozzuoli,  Ischia  e  Somma,  o  chiama  nella  sede  della 
corporazione  a  documentare  i  rustici  dell'agro  di  Nola^.  Tale 
ampliamento  nella  sfera  della  loro  attività  trova  qualche  spie- 
gazione nel  succedersi  dei  figli  dei  duchi  alle  contee  vacanti, 
ove  forse  si  trasferivano  coi  pubblici  ufìiziali  che  esercitavano 
l'arte  nella  metropoli,  o  li  facevano  rogare  per  gli  affari  riguar- 
danti i  loro  sudditi  2. 

Curiale  si  diceva  il  au[ipoXaioYp^'^o?,  colui  che  poteva  auten- 
ticare un  atto  ed  intervenire  come  testimone  a  qualunque 
negozio  giuridico  :  in  qualità  di  notaio  corroborava  la  scrit- 
tura con  la  completio  et  absoluiio,  in  qualità  di  adstans  si  sot- 
toscriveva come  un  qualunque  altro  cittadino  maggiorenne'. 
Negli  ascendenti  di  famiglia  trovava  tradizioni  di  questa  pub- 
blica autorità,  che  vincolavano  alla  curia  sé  stesso  e  la  prole, 


capitale  del  ducato,  non  esiste  fra  le  contee  soggette  a  Napoli,  dove  Nola 
e  Sorrento,  se  hanno    proprii  notai,  godono  solo  una  relativa   autonomia. 

1  Mon.  sopp.,  IV,  11,  V,  43,  VII,  39;  NisS,  n.  272,  371,  443;  ProL, 
S,  Sev.,  f.  57;  RNAM.,  II,  273,  III,  175,  IV,  241;  Gap.,  II»,  138,  187, 
274,  380;  Mayer,  I,  127.  Nella  documentazione  bizantina  non  mancano 
notai  di  nomina  comitale,  Syll.  gr.  m.,  n.  83;  Bethmann-Hollweq,  Der 
Civilprozess,  240;  Bresslau,  471;   Posse,  Die   Lehre,   168. 

2  Per  la  successione  dei  figli  del  duca  alle  contee  vacanti,  RNAM.,  I, 
193;  Schifa,  //  ducato,  99  e  sg. 

3  Tardy,  149;  Ferrari,  I  documenti,  79.  Il  più  antico  documento  na- 
poletano che  reca  la  completio  di  un  curiale  è  del  916,  Mon.  sopp.,  1,  5; 
NisS,  n.  781;  RNAM.,  1,  19;  Gap,,  US  19.  Si  trovano  curiali  testimoni 
in  tutti  i  tempi,  Mon.  sopp.,  I,  9;  NisS.,  n.  881;  RNAM.,  I,  33;  Gap.,  II  S 
23,  II',  115;  Bresslau,  440.  Secondo  Mayer,  I,  114,  poiché  «durante 
l'indipendenza  di  Napoli  è  intervenuto  alla  redazione  di  un  documento  un 
curiale  »,  mancherebbe  in  questo  primo  periodo  il  carattere  giudizia- 
rio della  carica,  che  egli  sostiene  invece  per  l'ultimo  secolo  di  vita  dell'in- 
stituto,  iD.,  Bemerk.,  44,  in  cui,  contrapponendosi  alle  giuste  obbiezioni 
mossegli  dal  Niese  ,  ree.  alla  Verfassungsgeschichte ,  in  Zeitsch.  fùr 
Sav.,  379,  insiste  sulla  costituzione  napoletana  del  «  Viermànnerkolleg  t 
curiale.  Il  Redlich,  17,  invece  dice  che  «  i  curiali  potevano  compilare  tutti 
i  documenti  pubblici  e  privati,  e  farne  scrivere  il  contesto,  di  loro  auto- 
rità, ai  figli  ed  ai  discepoli  »;  Genuardi,  44. 

Anno  XLV.  ,  2 


18 


per  cui  egli  ben  presto,  pure  mostrandosi  eguale,  nell'uso  dei 
diritti  garentiti  dal  potere  e  dalla  consuetudine,  a  tutti  gli 
altri  sudditi  del  ducato,  sceglieva  ben  presto  tra  i  figli  o  tra  i 
congiunti  la  persona  che  doveva  succedergli  nella  carica  ^.  Auten- 
ticare un  contratto  non  significava  scriverlo  dalla  prima  all'ul- 
tima parola,  ma  semplicemente  concedergli  validità  giuridica 
mercè  la  formola  completiva^.  Rende  con  esattezza  un  tale 
concetto  la  voce  absolutio,  che  si  adoperava,  con  lo  stesso 
significato,  per  indicare  l'autorizzazione  che  i  collegi  tutorii  di 
nobili  concedevano  ai  contratti  dei  minori  ^.  Si  è  già  visto  come 
provvedessero  al  lavoro  materiale  di  scrittura,  utilizzando  l'opera 
dei  discepoli,  provenienti  da  diverse  categorie  *. 

Da  tutto  il  complesso  dei  loro  usi  emerge  il  principio  che  i 
singoli  individui  agivano  in  nome  dell'intero  collegio  (aóXXoyo;) 
il  quale  dava  loro  il  vantaggio  di  rendere  validi  gli  atti  con  la 
semplice  compleiio^.  Restano  simboli  della  tradizione  le  sacra- 
mentalità    che  li  vincolavano  all'  Impero  ^.   Anche    quando    il 

^  La  costituzione  di  una  famiglia  di  curiali  risulta  da  molti  documenti, 
Mon.  sopp.,  IV,  21;  NisS.,  n.  85,  RNAM.,  Ili,  15;  Gap.,  US  15,  dove  si  ha 
notizia  di  due  figli  di  un  curiale  morto  e  di  un  altro  curiale  vivente  che 
appaiono  come  possessori  di  fondi  rustici.  Non  più  di  un  figlio  destinavano 
d'ordinario  alla  schola,  Mon.  sopp.,  IX,  151;  NisS.,  n.  601;  ms.  Tutini, 
f.  45;  RNAM.,  V,  47;  Gap.,  IP,  87,  304,  che  ricordano  appunto  i  figli  di 
curiali  estranei  al  corpo  notarile.  I  membri  del  collegio  contrattano  come 
tutti  i  cittadini,  senza  nessuna  speciale  prerogativa,  Mon.  sopp.,  I, 
29;  NisS.,  n.     324;  RNAM.,  I,  101;  Gap.,  II  S  4  . 

2  Bresslau,  440,  già  pone  la  differenza  fra  lo  «  schreiben  »  ed  il  «  voll- 
ziehen  »,  che  si  trova  più  tardi  anche  nel  Redlich,  6.  Il  Mayer,  I,  114, 
ribadendo  un  principio  esposto  dal  Gap.,  II  *,  1 16,  a  proposito  dei  documenti 
imperfetti,  afferma  che  i  curiali  «  redigono  la  completio,  mentre  gli  scri- 
ptores  eseguono  il  testo  ». 

2  Tutini,  Orìgine,  68;  Gap.,  I,  142,  U\  431:  Schipa,  Contese,  7,  spie- 
ga il  significato  di  ahsolutio  col  termine  autorizzazione. 

*  infra,  §  Discipuli.  Il  Redlich,  17,  vede  anche  qui  «  unleugbare  romi- 
sche  Tradition  »;  Ferrari,  /  documenti,  11. 

'  Gap.  II,  *,  117  ;  Mayer,  I,  114  ;  Redlich,  17,  il  quale  vede  ricom- 
parire una  curia  formale  della  città  «  che  partecipa  al  collegio  di  scrit- 
tori col  diritto  esclusivo  di  compilare  gli  atti  ».  Tale  partecipazione  si 
compendia  nella  formola  «  probante  curia  »,  spesso  adoperata ,  MS., 
XXXIII,  2786. 

•  Nov.  Leon.,  LXXII,  per  la  invocazione  divina.  I  protocolli  e  le  penali 


19 


governo  locale  andò  affrancandosi  da  ogni  soggezione  e  divenne 
del  tutto  indipendente,  i  curiali  continuarono  a  intestare  i  loro 
atti  agli  Augusti,  dai  quali  storicamente  proveniva  il  giuridico 
riconoscimento  della  civitas  e  della  sua  curia.  Che  le  intitola- 
zioni di  tal  fatta  non  fossero  un  mero  atto  di  ossequio,  sugge- 
rito da  un  formalismo  vuoto  di  senso,  ma  l'affermazione  di  un 
principio  tradizionale,  che  poneva  il  corpo  notarile,  come  organo 
del  municipio,  fuori  di  ogni  arbitrio  dei  duchi  e  sotto  la  diretta 
autorità  di  Costantinopoli,  bastano  a  provarlo  i  documenti 
del  955^.  Nonostante  che  Giovanni  III  avesse  suscitata  una  ri- 
beUione  contro  l'Impero  e  che  i  bizantini  avessero  perfino  stretta 
Napoli  di  assedio,  gì'  instrumenti  furono  anche  allora  intestati 
col  nome  di  Costantino  VII  Porfìrogenito  e  di  suo  figlio  Ro- 
mano. Analogamente  avveniva  quando,  dopo  la  morte  di  Ba- 
silio II,  i  duchi  orientarono  la  loro  politica  verso  il  partito  te- 
desco, accogliendo  nelle  mura  della  città  Ottone  II  (981),  ac- 
clamando Ottone  III  (999),  e  più  tardi  facendo  atto  di  obbe- 
dienza ad  Enrico  11^.  Dai  curiali  il  governo  locale  fu  sempre 
considerato  in  teoria  come  un'emanazione  dell'autorità  suprema 
dello  Stato,  dalla  quale  dipendeva  anche  contemporaneamente 
l'assemblea  civica'.  Le  trasformazioni  politiche  successive  non 
mutarono  affatto  il  concetto  della  curia:  il  re  di  Sicilia  che 
veniva  ad  occupare  il  territorio  dell'Impero,  si  sostituiva  giu- 
ridicamente al  sovrano  bizantino  nei  suoi  rapporti  con  notai*. 


I 


serbano  consuetudini  di  rispetto  alla  Corte  bizantina.  Da  alcuni  si  rial- 
laccia per  tal  ragione  \a  schola  ai  tempi  di  Giustiniano,  Heinemann, 
Stadtverfassung,  39  ;  Redlich,  18. 

^  Gap.,  I,  112,  nota  1  ;  Schifa,  Il  ducato,  239.  Documenti  con  tale 
intestazione  pel  955  si  trovano  in  Mon.  sopp.,  II,  66,  67,  68;  NisS.,  n.  471, 
554,  1214;  RNAM.,  II.  36,  39,  41;  Gap.,  Il»,  68-71. 

''  Gap.,  IP,  191;  Schifa,  //  ducato,  254,  262,  268;  Mon.  sopp.,  IV,  18, 
V,  49,  VI,  7;  NisS.,  n.  488;  RNAM.,  III,  6  193,  IV,  170;  Gap.,  II,  142 
191,    247. 

3  A  Napoli  l'imperatore  è  il  «  dominus  noster  »,  rispetto  al  quale  il  duca 
stesso  rimane  quel  che  era  in  origine  un  «  Magister  militum  ». 

*  MS.,  l,  25  (21bis),  in  cui  si  vede  che  il  nome  di  Ruggiero  prende  il 
posto  di  quello  degl'imperatori.  Non  esistono  neanche  documenti  inte- 
stati ad  Anfuso,  figlio  del  re,  che  appare  nei  documenti  dei  territori 
vicini  come  dux  Neapolitanorum,  Gallo,  La  carta  aversana,  14. 


20 


E  perciò  il  duca  era  spodestato,  ma  il  municipio  sopravviveva 
nella  sua  integrità,  per  quanto  il  territorio  della  sua  azione  si 
fosse  ridotto  nuovamente  nei  confini  della  metropoli,  e  la  com- 
parsa del  notariato  regio  si  presentasse  minaccioso  per  le  sorti 
dell'instituto  ^. 

In  qualità  di  notaio  il  curiale  si  esimeva  dalla  rigida  osser- 
vanza della  legge  vigente,  che  obligava  il  TapouXXàpio?  bizantino 
a  conoscere  i  quaranta  libri  dcìV Enchiridion  e  i  sessanta  dei 
Basilici;  e  li  trascurava  sia  nei  limiti  della  sua  eleggibilità,  sia 
nell'applicazione  delle  norme  in  esse  statuite.  E  per  quanto 
riuscisse  a  stipulare  bene,  secondo  usi  locali  banditi  dalla  No- 
vella leonina  2  a  leggere  chiaro  ed  a  scrivere  rapidamente,  man- 
teneva in  vita  un  collegio  di  notai  che  l' imperatore  cercava 
di  sopprimere,  senza  avere  la  forza  di  sostituirlo  con  propri 
rappresentanti  *. 

La  sua  permanenza  nella  curia,  sotto  la  guida  di  un  rappre- 
sentante della  schola  ricorda  il  tirocinio  dei  notai  imperiaU,  e 
l'uso  che  essi  avevano  di  intestare  all'imperatore  i  contratti*. 
Nessuna  traccia  avanza,  durante  il  Ducato,  della  cerimonia 
sacramentale  prestata  da  questi  uffiziaU,  né  dell'  autorità  che 
li  accogUeva  per  un  tale  rito*^.  Come  emanazione  di  un  prin- 
cipio particolaristico,  non  si  può  ammettere  che  si  costituissero 
ai  diretti  rappresentanti  dell'  Imperatore  ma  al  duca  stesso  «. 
Questa  ambiguità  nel  rispetto  all'Impero  rispecchia  con  la  mag- 
giore precisione  uno  dei  lati  della  politica  napoletana:  non  rico- 
nosciuti dall'autorità  e  contravventori  delle  norme  emanate  da 
essa,  i  curiali  mostravano  di  riconoscere  gli  Augusti,  i  quali 
alla  loro  volta  vantavano  solo  teoricamente  diritti  dominicali  sul 
territorio  del  ducato. 


*  Non  s'incontrano  più  dopo  di  allora  documenti  stipulati  fuori  di 
Napoli,  ma  viene  spesso  ricordato  invece  il  mos  et  consuetudo  huius  ci- 
vitatis,  MS.,  XX,  1639,  XXX,  2547.  Prima  del  periodo  svevo  pare  che 
il  notariato  regio  sia  stato  mantenuto  lontano  dalla  città,  Chiarito,  118. 

=  Nov.  Leon.,  CXV. 

'  Nov.  Leon.,  XLVI,  XLVII. 

'  Nov.  Leon.,  XLVI,  XLVII,  XCXV. 

'  Nov.   Leon.,   CXV. 

*  Una  tale  politica  rimonta  anch'essa   ad  epoca    remota,  Schifa,  60. 


! 


—  21  — 

A  tanti  pericoli  nuovi,  insorgenti  per  la  politica  dei  tempi 
mutati,  essi  opponevano  la  vetusta  tradizione  che  trovavano 
concretata  nelle  principali  loro  prerogative,  documentando  di- 
versamente da  come  facevano  i  pubblici  uffiziali  delle  altre  città 
dell'  Impero  ^. 

a)  Potevano  dopo  un  lungo  tempo  dare  validità  agli  atti 
imperfetti,  per  la  mancanza  della  formola  completiva,  dovuta 
0  a  oscitanza  di  un  curiale  morto  o  a  negligenza  delle  parti  *. 
Tali  atti,  benché  privi  di  un  elemento  indispensabile  al  ricono- 
scimento giuridico  dell'  affare  in  essi  trattato,  conservavano 
autorità  probatoria  e  dispositiva,  per  cui  l'intervento  di  un 
secondo  curiale,  a  rivestire  di  legalità  un  tale  stato  di  fatto  con 
la  tardiva  absolutio,  «partibus  petentibus  et  volentibus  »,  era  una 
garanzia  cui  non  tutti  ricorrevano^. 

■  Gap.,  US  112  ;  Nov.  Leon.,  CXV. 

2  Mon.  sopp.,  II,  106;  NisS.,  n.  294;  RNAM.,  II,  125;  Gap.,  IP,  98, 
dove  Leone  curiale,  «  dudum  scriptor  »,  compie  nel  970  una  carta  vendi- 
tioniSf  che  aveva  fatto  cinque  anni  innanzi  per  conto  del  suo  maestro 
Giovanni  tabularlo.  A  proposito  delle  cause  che  produssero  queste  lacune 
si  ricorda  la  renovatio  di  una  permuta,  che  «  secundum  humanam  negli- 
gentiam  minime  Inter  partes  exinde  tacere  curaverant  »,  cinque  anni  prima, 
quando  cioè  fu  concluso  il  contratto,  Mon.  sopp.,  II,  126,  IV,  18,  22; 
NiìS.,  n.  452,  488;  RNAM.,  II,  168,  III,  6,  19;  Gap.,  ll\  110,  142,  146; 
iD.,  Il  padum,  543.  Questa  perogativa  è  di  carattere  esclusivamente  lo- 
cale, Bresslau,  439  ;  Redlich,  17,  il  quale  sostiene  che  «  gli  atti 
rimasti  incompleti  per  la  morte  di  un  curiale  divenissero  validi  soId 
quando  erano  autenticati  dal  primpjio  »,  poiché  tale  diritto  spetta  in- 
distintamente, come  risulta  dagli  atti  citati,  anche  ai  semplici  curiali.  Tale 
questa  ipotesi  è  basata  sulla  Consuetudo,  IV,  formatasi  posteriormente.  A- 
vanzano  molti  atti  incompleti,  Ms.,  XXVI,  2203. 

»  Man.,  sopp.,  VI,  46,  VII,  44;  NìsS.,  n.  703;  RNAM.,  IV,  117,  251; 
Gap.,  US  232,  278,  contenente  una  e.  promissioni^  del  1034,  nella  quale 
il  venditore  di  una  terra  tradii  al  compratore,  per  garenzia,  una  securitas 
del  1017,  ad  onta  che  manchi  della  formola  completiva,  lasciando  evi- 
dentemente comprendere  che  si  attribuisce  ad  essa  validità  probatoria 
e  dispositiva,  Bresslau,  439.  Tale  consuetudine  è  giustificata  dalla  fa- 
"^ilità  con  cui  si  poteva  riscontrare  la  corrispondente  schedala  nell'archi- 
io,  specialmente  se  conteneva  note  testate,  Gap.,  Il»,  117;  Schupfer, 
A  proposito  della  carta  mater  e  della  carta  filia,  5  e  sgg.  In  Mon.  sopp., 
V,  45;  RNAM.,  III,  140;  Gap.,  US  177,  potrà  vedersi  uno  dei  tanti  atti, 
cui  manca  la  completio. 


—  22  — 

b)  Erano  autorizzati  a  compiere  un  documento  dopo  la 
morte  di  uno  o  di  due  testimoni,  assenti  prò  occupaiione  mortis, 
bastando  a  convalidare  il  negozio  l'attestazione  del  curiale,  la 
cui  fides  et  audoritas  proveniva  dall'implicito  suo  riferimento 
alle  note  o  schede  di  archivio^.  Queste  deficienze  dimostrano 
che  fra  l' inizio  e  la  chiusura  di  un  contratto  passava  molto 
tempo  2. 

e)  Nelle  convenzioni  potevano,  per  la  morte  di  una  o  di 
ambo  le  parti,  compiere  egualmente  ed  apporre  anche  i  signum 
manus^.  Lo  stesso  si  dica  dei  disposila  in  cui  lo  stipulante, 
sulla  fede  di  quanto  asserivano  coloro  che  avevano  udita  la 
espressa  ultima  volontà  di  un  defunto,  eseguiva  il  documento 
del  testatore  morto,  apponendovi  anche  il  suo  segno  di  mano  *. 

»  Mon.  sopp.,  II,  69;  NisS.,  n.  340;  RNAM.,  II,  43;  Gap.,  U\  71  : 
«  Ego  lohannes  curialis,  post  subscriptionem  duorum  testium  et  post 
defunctionem  quondam  domni  Leoni,  qui  in  anc  annotatione  scriptum 
fuit  et  in  anc  chedula  minime  scribere  concurrit,  compievi  et  absolvi, 
per  memorata  indictione  »  ;  Mon.y  sopp.,  II,  103;  NisS.,  n.  4660;  RNAM., 
II,  116  ;  Gap.,  II  \  96.  «  Ego  Gregorius  curialis,  dudum  scriptor,  post  sub- 
scriptionem unum  testium  et  post  defunctionem  Sergii,  filio  Petri,  et 
Stefano,  filio  Marini,  qui  in  schedula  huius  dispositi  scripti  sunt,  compievi 
et  absolvi  ». 

2  Mon.,  sopp.,  II,  103  VI,  7,  VII,  15;  NisS.,  n.  466;  RNAM.,  II,  116,  IV, 
16,  189;  Gap.,  US  96,  258,  dai  quali  risulta  che  dalla  compilazione  delle 
note  alla  chiusura  dell'istrumento  potevano  passare  anche  diversi  anni, 
contrariamente  a  quel  che  dice  il  Trifone,  Su//a  redazione  del  documento, 
5,  il  quale,  riferendosi  al  periodo  postfridericiano,  assicura  che  «  il  tempo 
assegnato  per  il  completamento  dell'atto,  è  secondo  la  pratica  napoletana, 
più  breve  di  quello  fissato  negli  altri   territori  d'Italia». 

2  Mon.,  sopp.,  II,  68,  115;  NisS.,  n.  474,  1214;  RNAM.,  II,  41,  141, 
Gap.,  US   41,  101. 

*  Mon.,  sopp.,  1,  11;  NisS.,  n.  643;  RNAM.,  1,  60,  V,  225;  Gap., 
II*,  30,  247.  Il  disposiium  si  poteva  ricavare  dai  gesta  depositati  in  archi- 
vio e  citati  spesso  «  in  defectu  testamenti  »,  Soc.  stor.,  9aa,  III,  1; 
Indice  delle  perg.  dei  mon.  dei  SS.  Severino  e  Sossio,  f.,  90;  Gap.,  II,  192; 
Ghiarito,  5;  Giccaglione,  Delle  istituzioni,  77;  Genuardi,  La  presenza 
del  giudice,  50;  Tirifone,  39.  Nei  documenti  curialeschi  di  epoca  tarda  si 
conserva  qualcuno  di  questi  gesta  redatti  ex  testificatione  et  dictis  di  per- 
sone fedegne,  «  in  archivio  curie  civitatis  Neapolis,  proposita  sacrosancta 
evangelia,  se  sedentibus  NN.  primario  et  NN.  tabularlo  ipsius,  a  dee 
probante  curia  »  e  in  presenza  di  alcuni  sacerdoti  della  chiesa  di  Napoli. 
Si  presentano  numerosi  «  homines  et  mulieres  »,  dicendo  che  non  vengono 


—  23  — 

A  tali  atti  dunque  non  presenziava  il  pubblico  uffiziale,  ma 
erano  indispensabili  le  attestationes  che  si  facevano  nella  sede 
dell'ufficio!. 

d)  Bastava  che  il  curiale  avesse  menzionato  un  atto  pre- 
cedente 0  lo  avesse  redatto  «  de  verbo  ad  verbum  »  per  attri- 
buire ad  esso  la  «  fides  piena  »,  come  «  si  instrumentum,  de 
quo  fit  mentio,  apparerete». 

Nell'archivio  allora  si  conservava  un  protocollo  in  forma  di 
cartelle  separate,  dette  schedae,  schedulae,  chedulae,  su  cui  si  re- 
gistravano le  notae  di  quello  che  si  era  stabilito  dai  contraenti 
in  presenza  dei  curiali,  brevi  forma,  senza  cioè  tutte  le  garenzie 
adoperate  nella  istrumentazione  ^.  Esse  potevano  essere  testate, 
se  sottoscritte  dagl'  intervenuti,  e  alve  se  prive  di  tale  elemento, 
e  talvolta  del  nome  del  curiale  che  la  esegui  o  del  rogatario  che 
dette   il  mandato  della    stipula*.  Anche   note  così    incomplete 


in  curia  per  «im  plorare  »  qualche  cosa  dall'ufflcio  «  et  ex  antiquata  con- 
suetudine »,  ma  per  denunziare  che  un  signore  della  città  infermo,  «  in 
suo  lectulo,  licet  egens  consensu,  compos  sane  mentis,  et  recta  locutio, 
et  sistens  invalidam  suam  infirmitatem,  unde  ipse  mortus  est  »,  li  fece 
invitare  e  «  convocare  »  nella  propria  casa,  perchè  raccogliessero  dalla  sua 
bocca  le  espressioni  di  ultima  volontà.  Ed  essi  rendono  «  prò  futuris  tem- 
poribus, ad  cautelam  »,  la  doverosa  iestificatio,  MS.,  XXXIII,  2786. 
'i  MS.,    XXXIII,    2786. 

*  Consuetudo,  V  :  «  Si  quilibet  curialis,  in  instrumento  quod  confìcit, 
alterius  instrumenti  confecti  per  curialem  faciat  mentionem,  et  de  verbo 
ad  verbum  alterius  de  quo  fìt  mentio  tenorem  redigat,  fides  piena  datur 
instrumento  in  quo  redigitur,  perinde  ac  si  instrumentum,  de  quo  fìt 
mentio,  appareret.  Ita  tamen  si  trium  est  curialium  subscriptionibus 
instrumentum  roboratum,  in  quo  alterius  fìt  mentio,  sicut  communiter 
fit  in  aliis  instrumentis,  quae  per  curiales  fiunt  et  subscribuntur  ». 

»  C'è  il  ricordo  della  scheda  nei  documenti  del  956  e  del  964,  Mon.  sopp., 
II,  69,  103;  NisS.,  n.  340,  466;  RNAM.,  US  43,  116;  Gap.,  II  i,  71,  96,  e 
quello  delle  note,  e  dell'adno/a/io  in  NisS.,  n.  274;  RNAM.,  IV,  16,  189; 
Gap.,  IIS  196,  258,  donde  risulta  che  la  registrazione  era  fatta  da  uno 
qualunque  dei  notai  ;  mentre  in  MS.,  XXXIII,  2786,  si  trovano  custodi 
dell'archivio  pubblico  il  primario  e  il  tabulario.  Per  le  analogie  con  Ro- 
ma, ScHiAPARELLi,  Cartario,  457;  con  Ravenna,  Federici,  Regesto  di 
S.  Apollinare,    n.  4;  con  Venezia,  Baracchi,  Le  carte,  VI,  312,  VII,  80. 

*  NisS.,  274;  RNAM.,  IV,  16,  contiene  la  renovatio  di  una  e.  offertionis 
più  antica,  con  la  quale  Giovanni,  f.  del  q.  Karemanno,  dona  alcune  terre 
al  monastero  dei  SS.  Sergio  e  Bacco,  per  mezzo  del  suo  igumeno  Sergio.  Il 


—  24  — 
avevano  valore  non  in  se  stesse,  ma  per  la  fede  che  acquista- 


primario  Mastalo  premette  al  documento  originale,  che  il  Gap.,  II*,  119, 
rimanda  giustamente  al  953  o  al  967,  la  seguente  nota  :  «  Antiqua  con- 
suetudo  huius  civitatis  est  ut  qualecunque  chartula  aut  dispositum  vel 
testamentum  annotaberint  quaecunque  curialis  aut  notarius  vel  tabu- 
larius  sibe  primarius,  qui  huius  civitatis  prefuerid,  illa  vel  illud  ster- 
nere  et  atimpleret,  ut  prò  occasionem  neminem  periret.  Nunc  autem 
mihi  Mastalo  primario  note  tesiatem  de  chartula  offertionis  quem  scripsit 
quondam  lohannes  curialis,  qui  cognominatur  Billusi,  set  prò  divina  vo- 
cationem  minime  illud  concurrid  ;  proinde  et  ego  memoratus  Mastalus 
primarius,  secundum  consuetudinem  in  anc  pagina  scripto  et  atfìrmo 
illa  ud  de  omnia  et  in  omnibus  que  continet  firma  et  stayilis  perma- 
nead,  quibus  ipse  note  continet  ita  ».  Segue  la  nota,  la  cui  scheda 
originale  esiste  ancora  e  conserva  le  tracce  del  filo  con  cui  fu  cucita  alla 
membrana  più  grande,  che  contiene  V  atto  del  1003.  In  un'altra  pa- 
gina della  pergamena  si  legge  una  nota  alba  del  18  maggio,  XII  indizio- 
ne, riprodotta  per  intero  dal  Gap.,  II  ^  119.  Oltre  qualche  variante 
questa  nota  trovasi  tutta  intera  nell'istrumento  trascritto  da  Mastalo 
primario.  Lo  stesso  preambolo,  con  notevoli  varianti  trovasi  in  un  istru- 
mento  del  1027  in  cui  è  riprodotto  una  nota  del  1007,  Man.,  sopp.,  VII, 
66;  RNAM.,  IV,  189;  Gap.,  US  258,  II*,  119:  «  Antiqua  consuetudo 
huius  civitatis  est  ut  qualecunque  chartula  aut  dispositum  vel  testa- 
mentum annotaberit  aut  notarius  vel  tabularius  sive  primarius,  et  prò 
sua.. .vel  illud  sternere  et  compiere  non  concurrerit,  postea  primarius 
qui  huius  civitatis  prefuerit  illa  vel  illud  sternere  et  compiere  et  firmum 
vel  firma  esset  et  permaneret,  ut  prò  occansionem  neminem  periret. 
Nunc  autem  benerunt  mihi,  Petro  primario,  note  alve  de  chartula  offer- 
tionis, quam  scripsit  Leo  curialis,  set  prò  dibina  bocationem  minime  illa 
sternere  concorrit,  proinde  ego  memoratus  Petrus  primarius  illa  scribo 
et  firmo  in  hanc  paginam,  ud  de  omnia,  qualiter  continet,  firma  et  stabi- 
lis  permaneat,  et  ipse  note  continent  ita  ».  Ghiarito,  102  e  sg.  erronea- 
mente ritiene  che  «  non  prima  dei  re  angiuoini  »  «  i  curiali  costumassero 
i  protocolli,  chiamati  scede  e  sede  »,  e  ricorda  due  diplomi  di  Roberto  in 
cui  si  fa  parola  del  «  prothocoUum  seu  sceda  notarli  curialis  conficientis 
olim  instrumentum  »  e  di  alcuni  istrumenti  «  in  curìalisca  scriptura  »,  che 
Nicola  Gannuto  «  in  suo  redegit  et  scripsit,  ut  asseritur  prothocollo  »,  Reg. 
ang.,  276,  f.  571,  1336,  F  (perduto),  f.  186t  ;  e  di  certe  suppliche  a 
Giovanna  II  «  prout  haec  et  alia  in  protocollo  seu  seda  inde  assumpta  et 
rogata  dicuntur  plenius  et  copiosius  contineri  »,  Reg.  ang.,  357,  f.  86.  L'e- 
spressione notare  trovasi  in  Reg.  ang.,  320  ,f.  89:  «  illud  in  suo  prothocollo 
notavit  et  scripsit  »  ;  in  Reg.  ang.,  (perduto)  1342-44  G,  f.,  90t,  per  una 
«  querela  di  falsità»  contro  Giovanni  Gannuto  :  il  detto  curiale  «  deposuit 
quietationem  factam  fuisse  per  eum,  ut  curialem,  prout  in  prothocollo 
suo,  in  quo  notata  quietati©  ipsa  reperitur.  Et  demum,   post  aliquot  dies 


25  — 


vano,  quando,  anche  dopo  molti  anni,  un  primario  della  curia  le 
convalidava  col  suo  intervento,  o  quando  mancava  l'originale  ^. 

Tali  stipule,  come  gì'  inventarli  e  le  completiones  di  atti  la- 
cunosi continuarono  indisturbati  fmchè  il  popolo  mediano  osò  ri- 
bellarsi a  Guglielmo  I  (1156),  mentre  i  nobili,  mantenendogli 
fede,  sedarono  i  tumulti  2.  Si  distrussero  in  quella  occasione  il 
patto  ducale  del  1129  ed  «altre  carte  d'incognito,  ma  probabil- 
mente analogo  contenuto^».  Le  provvisioni  adottate  dall'indulto 
sovrano,  col  quale  si  «  prescrisse  che  le  carte  fatte  rompere  dai 
mediani»,  fossero  restaurate  nel  loro  stato  antico,  furono  ese- 
^  guite  due  anni  più  tardi  (1 158)  dal  tabularlo  Cesario,  «  per  pre- 
ceptu  comestabiUum  et  iudicum  istius  civitatis  »  *. 

Un  tardivo  riconoscimento  della  consuetudine  antiqua  si  deve 
a  Tancredi  (1190),  il  quale  restaurò  «quicquid  statuit  populus 
Neapolitanus,  et  qui  cum  eo  tenuerunt  dare  olim  vel  facere 
dominio  condam  de  patrueli  nostro  felicis  memorie  et  curialibus 
condicionaiis^yi.    Che    valore    deve   attribuirsi    a    quest'ultima 


vocatus  dictus  exponens  coram  capitaneo  huius  civitatis,  ut  prothocoUum 
in  iudicio  produceret  et  producto  ilio  per  eum  examinatus  extitit,  si  di- 
ctam  notam  quietationis  eiusdem  in  dicto  prothocollo  manu  sua  scripsis- 
set  ».  Il  Cannuto  si  giustifica,  attribuendola,  a  un  suo  discepolo.  Analoga- 
mente si  trova  in  Reo.  ang.,  357,  f.  90t,  per  un  testamento  attaccato 
di  falso  «  ex  cuiusdam  erroris,  seu  oblivionis  eventu  ».  Compariva  anche 
spesso  in  curia  il  «  prothocoUum  seu  sceda  notarli  curialis  conficientis 
olim  instrumentum  »  «  in  defectu  originalis  »,  perchè  ne  fosse  convalidata 
la  «  fides  plenaria  »  ed  il  «robur  plenarium  »,  Reg.  ang.,  276,  f.  57t. 

1  Mon.,  sopp.,  VII,  66;  RNAM.,  IV,  189;  Gap.,  II  «,  258;  Reo.  ano., 
276,  f.  57  t.,  in  Chiarito,  103.  Avanza  qualche  brano  di  dottrina  curiale- 
sca in  cui  si  sostiene  la  necessità  di  convalidare,  mercè  le  sottoscrizioni 
dei  testimoni,  i  contratti,  «  tantummodo  verbis  firmati  ». 

-  Soc.  STOR.,  9aa,  I,  1,  contiene  l'inventario  di  S.  Severo,  attribuito 
dal  Gap.,  II  S  178,  al  996,  appunto  perchè  sembra  scritto  dalla  stessa 
mano  che  redasse  i  documenti  di  queir  anno,  e  perchè  una  nota  dorsale 
reca  la  stessa  data  ;,  id.,  7/  pactum,  714,  Schifa,  Contese,  21. 

'  ScHiPA,  Contese,  21. 

'  Gap.,  7/  padum,  715,  riporta  la  clausola  al  patto  ducale,  in  cui  11 
re  ordina  «  cartas  quas  mediani  rump ere  fecerunt...  restaurarentur  ut  a* 
vetere  tempore  fuerunt  ». 

'  Gap.,  7/  padum,  735,  in  cui  si  trova  il  «  privilegium  concessum  civi- 
bus  Neapolltanis  per...Tancredum  regem  »,  Hartmann,  Stadtverfassung,  36. 


—  26  — 

espressione  ?  Il  re  alludeva,  secondo  lo  Schipa,  al  «  generale 
privilegium  Neapolis,  quod  est  inter  nobiles  et  populum  eiusdem 
civitatis^».  Si  ritorna  quindi  all'antico  significato  di  decurione, 
da  non  confondere  col  notaio  municipale;  se  no  rimarrebbe 
inesplicabile  l'espressione  condicionatus,  che  si  riferisce  precisa- 
mente a  coloro  che  per  condizione  sociale  amministravano  la 
città.  Già  le  Assise  dimostrano  l'uso  incerto  del  termine  cmialis, 
che  valeva  anche  ad  indicare  gl'impiegati  della  Corte  regia *. 
Tranne  la  rigorosa  osservanza  dei  limiti  giurisdizionali  ed  una 
più  larga  partecipazione  dei  notai  civici  agli  attestati  di  inter- 
vento, non  si  può  dire  che  il  loro  instituto  abbia  subito  fino 
al  sec.  XIII  degli  urti  coi  poteri  supremi  dello  Stato,  poiché 
appaiono  invece  cresciute  di  molto  le  prerogative  durante  il 
periodo  normanno^. 

Se  la  Novella  di  Leone  il  filosofo  era  rimasta  inascoltata 
perchè  i  rapporti  semplicemente  formali  del  Ducato  con  la  corte 
d'Oriente  avevano   contribuito  a  rendere  inefficace  l'eversione 


*  Schifa,  Contese,  33;  Merkel,  30,  35,  in  cui  è  riportato  il  capitolo  delle 
Assse  «  de  iniuris  personanim  illatis  curialibus  »  con  Vadnotatio  relativa,  As- 
sise, XIII,  §  XXXV:  «De  iniuris  curialium — Observent  judices  diligentissi- 
me  ut  in  actione  iniuriarum  curialium  personanim  dignitatem  et  qualita- 
tem  eorum,  quibus  illatae  sunt,  et  eorum  qui  faciunt,  et  quando  et  ubi 
huiusmodi  temeritates  presumuntur:  et  sic  ferant  sententiam,  quia  non 
ad  ipsos  dumtaxat,  set  ad  regie  dignitatis  spectat  offensam  ».  Questo 
capitolo  spiega  la  molteplicità  dei  significati  del  termine  curialis  :  qui  si 
tratta  di  uomini  di  corte,  Brandileone,  Il  diritto  romano,  24.  Con  eguale 
significato  il  termine  curialis  si  trova  anche  posteriormente. 

2  Non  avanza  nessun  documento  curialesco  del  periodo  normanno  re- 
datto fuori  della  città,  a  Pozzuoli  o  ad  Ischia,  come  nel  periodo  anteriore. 
Per  le  condizioni  favorevoli  alle  antiche  prerogative,  cf .  Schifa,  Contese,  46 
e  sg.,  il  quale  sostiene  che,  a  tempo  di  Tancredi,  Napoli,  «  indipendente- 
mente dall'autorità  regia,  anzi  quasi  a  dispetto  di  essa,  decreta  a  favore 
di  una  coloni?  straniera,  in  perpetuo  una  pienezza  di  autonomia  ammini- 
strativa, giudiziaria,  legislativa  con  una  totale  esenzione  tributaria, vie- 
tando a  se  stessa  e  ad  ogni  altro  l'infrazione  di  quel  decreto  ». 

3  Constitutiones,  LXXIX,  LXXX,.  LXXXI  ;  Chiarito,  1  e  segg.; 
Cap.,  II  «,  112;  Mayer,  I,  114;  Redlich,  15  e  segg.  Avanza  il  privilegio 
concesso  dai  Napoletani  agli  Amalfitani  nel  1190,  Schifa,  Contese^  47, 
per  quanto  il  territorio  giiurisdizionale  di  Napoli  si  fosse  ridotto  alla  sola 
città,  IVI,  5. 


1 


—  27  — 

della  curia,  nei  tempi  nuovi  si  delineava  una  norma  legislativa 
che  colpiva  in  pieno  il  corpo  degli  scrittori  civici,  limitando  il 
loro  esercizio  di  antiche  prerogative  e  subordinandoli  alle  leggi 
dello  Stato  ^.  Per  quanto  viva  e  tenace  fosse  la  resistenza  del- 
l'organismo municipale  ai  divieti  imposti  dalla  norma  costitu- 
zionale, inevitabile  era  il  trionfo  dell'  imperatore  svevo,  che 
direttamente  provvedeva  all'osservanza  di  un  principio  unitario 
nell'organismo  notarile  del  Regno  2. 

continua 

Alfonso  Gallo 


*  Constitutiones,  LXXIX,  in  cui  è  detto  :  «  Examinatìonem  autem 
litterature  et  etiam  juris  scripti  examini  nostre  curie  reservamus  ».  Per  la 
efficacia  della  norma  imperiale,  cf.  Trifone,  Sulla  redazione  del  docu- 
mento, 1  e  segg. 

*  Constitutiones,  LXXX,  da  cui  risulta  che  1'  imperatore  legifera 
contro  gli  antichi  usi  della  città  :  «  Consuetudinem  quam  olim  in  ali- 
quibus  regni  partibus  audivimus  obtinere  dilucida  constitutione  cas- 
sanfes,  decerminus  instrumenta  publica  et  quaslibet  cautiones  per  litte- 
raturam  communem  et  legibìlem,  per  statutos  a  nobis  notarios  scribi 
debere,  scribendi  modo  qui  in  civitate  Neapolis,  ducatu  Amalfìe  ac  Sur- 
renti  (atque  per  eorum  pertinentias)  omnino  sublato  »  Questa  costitu- 
zione, rimonta  al  1220,  Chiarito,  117;  Huillard-Bréholles,  Historia 
diplomatica,  IV,  p.  56.  Per  la  revoca  di  prerogative  speciali  vigenti  a 
Napoli,  e  per  l'affermazione  esplìcita  del  principio  di  accentramento, 
Constitutiones,  LXXXI. 


FIRENZE,  LA  CHIESA 

E 

L'  AVVENTO  DI  LADISLAO  DI  DURAZZO 

AL  TRONO  DI  NAPOLI 


(cont.:  V.  voi.  prec,  pp.  93-150) 


CAPITOLO  III. 

La  lega  franco-fiorentina  e  la  vittoria 
DI  Re  Ladislao. 

Incertezze  ed  esitazioni  che  precedettero  le  pratiche  dell'alleanza  franco- 
fiorentina. -  Le  gravose  condizioni  richieste  da  Carlo  VI  e  il  contegno 
del  Comune  fiorentino.  -  Conclusione  e  scioglimento  dell'alleanza  franco- 
viscontea. -  Primi  progressi  di  Ladislao  nel  Regno.  -  Nuove  esitazioni 
precedenti  alla  stipulazione  dell'alleanza  franco-fiorentina.  -  La  vittoria 
di  Ladislao  e  il  capitolo  della  suddetta  alleanza  riflettente  il  conflitto 
napoletano. 

L'alleanza  che  i  fiorentini  nel  settembre  del  1396  strinsero 
col  re  di  Francia  è  il  termine  d'  una  lunga  alternativa  tra  la 
speranza  di  provvedere  agli  urgenti  bisogni  con  una  lega  tra 
gli  stati  varii  d'Italia  e  il  timore  (che  alla  fine  si  tradusse  in 
ineluttabile  realtà)  di  non  potere,  se  non  ricorrendo  allo  stra- 
niero, salvaguardare  i  proprii  interessi. 

Abbiamo  altrove  accennato  all'  avversione  che  i  fiorentini 
avevano  concepito  per  ogni  traccia  di  dominazione,  non  solo 
avignonese,  ma  anche  francese  in  Italia  ;  e  gli  avvenimenti,  i 
sospetti,  le  tergiversazioni,  che  precedettero  il  trattato  di  Pa- 
rigi, non  servono  che  a  confermare  maggiormente  questo  stato 
di  cose. 


—  29  — 

Sin  da  quando  il  Visconti,  molestando  le  piccole  signorie 
lombarde,  evitando  di  legarsi  le  mani  con  accordi  preventivi, 
aveva  chiaramente  dimostrato  quali  erano  le  sue  aspirazioni,  i 
fiorentini,  temendo  per  sé  e  per  i  loro  alleati,  avevano  atteso  ad 
armarsi  e  ad  assoldare  quante  più  genti  avevan  potuto. 

Ma  questi  armamenti,  sebbene  effettuati  con  grande  cautela, 
non  poterono  sfuggire  alle  rimostranze  di  colui  che  li  aveva 
provocati.  Il  Visconti  divulgò  infatti  quelle  voci  che  trovarono 
eco  nei  medesimi  stati  toscani,  secondo  le  quali  Firenze,  man- 
tenendo a  sue  spese  le  genti  straniere,  rendeva  sempre  più 
tristi  le  condizioni  d'Italia^.  Da  ciò  Toccasione  più  che  le  cause 
vere  dell'attrito,  mentre  sia  l'uno  che  1'  altro  dei  competitori, 
si  diedero  da  fare  sia  in  ItaUa  che  fuori  d'  ItaUa  per  accapar- 
rarsi l'amicizia  di  principi  e  di  avventurieri  2. 

Il  nome  del  re  di  Francia,  sebbene  ancora  siamo  molto  lon- 
tani dalla  stipulazione  della  lega,  fu  solo  allora  pronunziato  in 
tono  amichevole,  nei  consigli  del  Comune.  Allo  scopo  d'evitare 
una  coalizzazione  franco- viscontea,  e  di  spazzare  certa  ruggine 
esistente  nei  rapporti  franco -fiorentini,  fu  proposto  d'inviare  in 
Francia  un  oratore  «  ad  tentandum  ^  ».  Si  sperava  a  Firenze 
che  persistessero  ancora  taluni  di  quei  rancori  che  avevano  due 
anni  prima  interrotto  le  pratiche  del  matrimonio  di  Valentina 
con  Luigi  di  Turaine,  e  che  avevano  per  un  momento  illuso  il 
Comune  di  potere  imparentare  con  Ladislao  la  figlia  di  Gian 
Galeazzo. 

Ma  in  quei  due  anni  ch'eran  trascorsi  i  rapporti  franco -vi- 
scontei si  erano  interamente  riconciliati:  lo  dimostrava  il  fatto 
medesimo  che  il  Visconti,  chiedendo  al  Comune  di  rientrare  in 
trattative  di  lega,  offriva  la  mediazione  di   Carlo  VI*.  Andrea 


*  P.  Silva,  7/  governo  di  Pietro  Gambacorta  in  Pisa  e  le  sue  relazioni 
col  resto  della  Toscana  e  coi  Visconti,  Pisa,  Nistri,  1911,  pag,  229  sgg. 
e  CoLLiNO,  La  preparazione  della  guerra  viscontea  contro  i  Carraresi,  Milano, 
1907,  pg.  30-31. 

*  Intorno  al  conflitto  tra  G.  Galeazzo  Visconti  e  i  Fiorentini  ved. 
Cipolla,  op.  cit.,  pg.  204  sgg.;  Silva,  op.  cit.,  cap.  VI  e  opere  ivi 
citate. 

=»  A.   S.    F.,   Consulte,   reg.   XXVI,  e.   221, 

*  A.   S.   F.,   ivi,   reg.   XXVII,  e.   30. 


—  30  — 

degli  Albizà,  inviato  in  Francia  per  assumere  più  precise  in- 
formazioni, tornò  quindi  portando  notizie  poco  soddisfacenti. 
Solo  per  ciò  che  riguardava  le  relazioni  passanti  tra  il  Vi- 
sconti e  la  corte  avignonese,  egli  potè  riferire  «  che  il  papa  di 
Vignone  è  male  col  conte  di  Virtù  i». 

Ben  poca  cosa  però  se  si  tien  conto  del  limitato  prestigio 
di  cui  Clemente  poteva  godere  sull'animo  del  re. 

In  considerazione  di  ciò  Firenze  non  tardò  ad  accettare  la 
proposta  che  lo  stesso  Visconti  le  aveva  fatta  di  rinnovare  le 
trattative  per  l'alleanza.  Ma  la  solita  diffidenza  rese  vani  an- 
cora una  volta  i  negoziati.  Il  conte  non  voleva  disinteressarsi 
«  dalla  Serchia  in  qua»  e  pretendeva  tra  l'altro,  che  ognuno  de- 
gli alleati  non  dovesse  rigettare  i  fuorusciti  degli  altri,  ciò  che 
non  pareva  giusto  al  Comune,  potendo  riuscire  «  più  di  scan- 
dalo che  di  concordia^».  I  fiorentini,  persuasi  che  l'insuccesso 
dei  negoziati  altro  non  significava  che  l'inizio  delle  ostilità,  si 
proposero  allora  di  inviare  nuovi  oratori  in  Francia,  in  Pie- 
monte «  et  ad  omnia  alia  loca,  ita  quod  excitentur  malivoli 
comitis^».  Impedire  che  1* amicizia  franco-viscontea  si  risolvesse 
in  maggior  danno  e  pericolo  del  Comune,  si  manifestò  subito 
come  il  più  urgente  dei  fini  politici  da  conseguire.  E  a  rag- 
giungere, senza  perdere  tempo,  lo  scopo,  altro  mezzo  più  effi- 
cace non  vi  era  che  offrire  a  Carlo  VI  l'alleanza  fiorentina. 

Bisognava  però  che  tale  offerta  non  pregiudicasse  la  libertà  e 
l'indipendenza  del  Comune.  Alla  ricerca  di  una  formula  adatta 
i  fiorentini  attesero  insieme  ai  loro  alleati:  i  bolognesi.  Ma  que- 
sti erano  molto  più  solleciti  di  quelli  a  contrarre  presto  la  lega, 
e,  pur  di  fiaccare  la  potenza  viscontea,  erano  persino  disposti 
a  offrire  al  re  di  Francia  le  insegne  imperiali  :  offerta  che 
avrebbe  potuto  costituire  una  minaccia  continua  per  l'indipen- 
denza dei  Comuni.  I  fiorentini  si  opposero  energicamente.  A  che 
prò  infatti,  mentre  si  cercava    di   sfuggire  un  pericolo,  andare 


^  A.   S.   F.,  X  di  Balia,  Commissioni  etc.  ;   reg.    I,   e.    154. 

2  A.  S.  F„  ivi,  reg.  cit.,  e.  167  (lettera  a  Luigi  Guicciardini  e  a 
Giovanni  de'  Ricci). 

»  A.  S.  F.,  Consulte,  reg.  XXVII,  e.  90.  Intorno  alle  vicende  di  que- 
ste trattative  e   all'esito   loro  cfr.   P.  Silva,   op.  cit.    pgg.    243-47. 


31 


incontro  ad  un  altro,  non  meno  grave  e  insidioso  ?  E  quali 
proteste,  quali  minacele  sarebbero  provenute  dalla  Germania, 
ove  i  sovrani,  si  consideravano  sempre  i  soli  legittimi  depositari 
di  quelle  insegne  !  Le  ambizioni  imperiali  che  si  aveva  pur  ra- 
gione di  credere  assopite,  si  sarebbero  risvegliate,  e  alla  coaliz- 
zazione  franco -vis  contea  si  sarebbe  potuta  sostituire  quella  del 
Visconti  coi  tedeschi,  non  meno  gravida  di  minacele  e  di  pericoli  i. 

L'ora  però  che  i  fiorentini  attraversavano  non  permetteva 
dilazioni;  trattative  d'alleanza  intavolate  col  conte  di  Savoia 
erano  anch'  esse  fallite  ^  ;  sebbene  a  malincuore  i  X  di  Balia 
formularono  allora  l' informazione  per  Alemanno  Adimari,  de- 
stinato oratore  al  re   di  Francia. 

Nessuna  proposta  però,  nessuna  concessione  noi  troviamo  in 
essa  che  si  avvicinasse  anche  lontanamente  a  ciò  che  i  bolo- 
gnesi erano  disposti  a  concedere. 

L'unico  compito,  affidato  all' Adimari,  fu  il  seguente:  invitare 
con  sollecitudine  il  re  di  Francia  ad  allearsi  con  Firenze,  offrir- 
gli in  caso  di  guerra  il  comando  delle  forze  alleate,  ottenere  dal 
medesimo,  qualora  non  aderisse  all'invito,  la  libertà  di  praticare 
coi  suoi  baroni  e  condottieri,  e  la  ferma  promessa  che  non  si 
irebbe  ingerito  nei  fatti  d'arme  che  la  Repubblica  avrebbe 
|per  conto   suo   potuto  iniziare. 

Quanto  alle  relazioni  che  passavano  tra  il  Comune,  il  papa 

Ladislao,  l'oratore  doveva  assicurare  la   corte    parigina  che 

la  lega,   di  cui  si  era  parlato,  tra  i  fiorentini  e  Urbano,  non 

bra  stata  conchiusa,  che  scopo  delle  trattative  era  stato  quello 

[di  staccare  il  papa  dal   conte  di  Virtù,  che  dei  fatti  del  Regno 

Repubbhca  non  si  sarebbe  più  oltre  impacciata  «  perchè 
[la  contesa  è  pur  tra  queUi  della  casa  di  Francia,  i  quali  tutti 
[abbiamo  in  riverentia  ^  )>. 

Ma  non  era  ancora  avvenuta  la  partenza  dell'oratore,  che 
m  tenue  raggio  di   luce,  apparso  improvvisamente   sul   cielo 

A.   S.   F.,   X  di  Balia,   Commissioni  etc.   reg.  I,  e,   191   (lettera   ai 
[x  di  balìa   del  comune   di  Bologna).   Romano,   Niccolò  Spinelli  etc,  loc. 
voi.  cit.,   pag.  444  e  nota   1. 

*  Clemente  Lupi,  Delle  relazioni  della  Repubblica  di  Firenze  coi    conti 
duchi  di  Savoia,  Firenze,   1863,   pag,   102-3. 

*  Ved.  Appendice   dei   Doc,  n.   22. 


32 


torbido  d'Italia,  fece  sperare  ai  fiorentini  di  potere  ancora, 
senza  ricorrere  al  re  di  Francia,  salvaguardare  i  propri  inte- 
ressi. Questa  speranza  venne  ispirata  loro  da  P.  Gambacorta, 
signore  di  Pisa,  che,  animato  dalle  più  leali  intenzioni,  sia 
verso  Firenze  che  verso  il  Visconti,  attese  dal  Luglio  all'Otto- 
bre a  cercare  di  comporre  i  loro  dissidii  ^.  Si  parlò  allora  nei 
consigli  di  sospendere  ogni  iniziativa  coi  francesi  «  nisi  prius 
videatur  qualiter  remanetur  cum  vicinis  nostris  et  cum  co- 
mite,  prius  enim  non  esset  aliquo  modo  (sic),  nec  posset  con- 
suli  per  eos^». 

Ma  le  diffidenze,  lungi  dall'  attenuarsi,  si  inasprirono  mag- 
giormente nel  corso  delle  trattative;  la  pace,  anche  se  si  fosse 
raggiunta,  pareva  sin  d'  allora  destinata  ad  essere  presto  o 
tardi  violata;  in  tali  condizioni  di  cose  parve  ai  più  esperti 
consiglieri  del  Comune  di  non  abbandonare  il  primitivo  dise- 
gno, di  guadagnarsi  cioè  1'  alleanza  o  1'  amicizia  del  re  di 
Francia  ^. 

Le  preoccupazioni  erano  accresciute  dalle  proteste  che  il  re 
di  Francia  aveva  fatte  presso  il  Comune  per  l'invio  dell'Acuto 
nel  Regno  e  per  gli  sforzi  con  cui  il  condottiero  si  era  ado- 
perato per  togliere  le  milizie  all'angioino. 

Carlo  VI  aveva  senza  dubbio  avuto  intorno  a  ciò  impor- 
tanti rivelazioni  da  parte  del  sire  di  Mongiò,  ma  non  era  in- 
fondato il  sospetto,  nudrito  dai  fiorentini,  che  a  confermare  le 
accuse  erano  intervenuti  i  nemici  del  Comune,  e  tra  questi  in 
ispecial  modo  il  Visconti,  il  quale  aveva  tanto  da  guadagnare, 
mettendo  sotto  cattiva  luce  presso  il  re  francese  i  suoi  più 
accaniti  avversarli. 

Affine  di  mitigare  lo  sdegno  di  Carlo,  e  di  preparare  quel 
re  ad  accogliere  benignamente  gli  oratori  fiorentini,  i  Signori 
non  seppero  trovare  altro  mezzo  che  quello  di  rigettare  le  ac- 
cuse e  di  smentire  quegli  aiuti  che  pur  avevano  prestato  alla 
fazione  durazzese.  Scrissero  perciò  due  lettere,  l'una  al  gover- 

1  Silva,  op.  cit.,  pag.   248-57. 

2  A.  S.   F.  Consulte,   reg,  XXVII,  e.    132. 

3  A,  S,  F.,  ivi,  reg.  cit.  ce.  145,  154,  166.  — Rajnerius  Lojsìi  dixit  : 
quod  ei  videtur  coronam  France  esse  ultimum  et  oportunum  axilium 
{Consulta  del  15  settembre  1389). 


\ 


—  33  — 

natore  di  Napoli,  Taltra  allo  stesso  re.  Nella  prima  cercarono 
di  persuadere  il  Mongiò,  come  le  voci  circolanti  intorno  alla 
loro  partecipazione  nelle  vicende  del  Regno,  erano  inverosi- 
mili, non  essendo  a  loro  possibile  impegnare  altrove  il  danaro, 
quando  per  provvedere  alle  proprie  necessità  «nulla  detur  in 
gravandis  nostris  civibus  respirandi  facultas,  sed  sine  intermis- 
sione tributo  tributum  et  subventioni  subventio  cumuletur  ». 

Nell'altra,  dando  alle  accuse  il  valore  di  maligne  insinuazioni 
facevano,  per  ciò  che  riguardava  1'  avvenire,  solenne  promessa 
di  non  compier  mai  nulla  «  aut  in  regni  negociis  aut  aliis 
quibuscumque  quod  vestram  clementiam  perturbaret^». 

Sebbene  con  minore  chiarezza,  tali  promesse  erano  state  fatte 
altre  volte  al  re  di  Francia  ^  ;  ma  se  negli  anni  precedenti  alle 
parole  non  erano  corrisposti  i  fatti,  a  cominciare  da  questo 
momento,  il  Comune  fiorentino  si  seppe  ben  guardare  dal  con- 
travvenire minimamente  agli  impegni  che  per  ineluttabile  ne- 
cessità era  costretto  ad  assumersi. 

Un  altro  fatto  però  avvenne,  non  appena  che  la  pace  di  Pisa, 
fattasi  sotto  gli  auspicii  del  Gambacorta,  ebbe  mostrato  chia- 
ramente la  sua  effìmera  consistenza,  che  contribuì  a  differire 
ancora  1*  invio  dell'Adimari  a  Parigi.  Il  15  Ottobre  1389,  dopo 
11  anni  di  torbido  pontifìcato,  moriva  a  Roma  Urbano  VI. 
L'esaltazione  di  un  nuovo  papa  fece  palpitare  di  gioia  i  fio- 
rentini, anelanti  di  trovare  in  Italia,  colla  mediazione  del  pon- 
tefice, la  forza  sufficiente  per  arrestare  i  progressi  viscontei. 
La  speranza  che  arrideva  loro  era  di  poter  vedere  sul  seggio 
pontificio  un  loro  concittadino  e  amico:  Angelo  Acciaioli,  noto 
sotto  il  nome  di  cardinal  fiorentino,  legato  coi  vincoli  dell'  a- 
micizia  e  dell'interesse  coi  durazzesi  di  Napoli.  A  questo  scopo 

*   Ved.  Appendice  di  docc.  n.i  23   e  24. 

«  II  20  settembre  1387  (A.  S.  F.,  Consulte,  reg.  XXVI  e.  109)  il 
re  di  Francia  aveva  infatti  scritto  al  Comune,  esortandolo  a  prestare  1 
suoi  soccorsi  a  Luigi  d'Anglò.  Il  comune  rispose  «  quod  stabit  medius 
et  quot  cavebit  displicere  altemtri  partium  ».  Nel  gennaio  dell'anno 
seguente  il  medesimo  re  inviò  a  Firenze  oratori  per  lo  stessa  scopo. 
I  signori  risposero,  promettendo  la  più  scrupolosa  neutralità  (Diario 
d'Anonimo,  p.  476;  P.  Boninseoni,  op.  cit„  pag.  686-87  ;  Minerbetti, 
op.   e  loc.  cit.,   col.    146. 

AnnoXLV.  3 


—  34  — 

si  adoperarono,  inviando  a  Roma  segreti  emissarii,  raccoman- 
dando l'esito  della  delicata  impresa  al  sacro  collegio  i. 

La  pace  del  pontefice  coi  signori  e  Comuni  della  Romagna, 
affettanti  la  più  assoluta  indipendenza,  l'accordo  del  papa  con 
Ladislao,  al  quale  1  fiorentini,  sebbene  ormai  con  le  mani  le- 
gate, guardavano  sempre  con  occhio  trepido  e  benevolo;  la  for- 
mazione della  solita  grande  lega,  per  cui  avevan  tanto  lavorato, 
tutto  si  sarebbe  facilmente  ottenuto  qualora  l'Acciaioli  avesse 
avuto  la  tiara.  Ma  gli  sforzi  del  Comune  si  infransero  contro 
la  resistenza  dei  cardinali  romani  che  i  loro  voti  avevano  rac- 
colto sul  nome   di  PonceUo  Orsini  del  titolo  di  S.  Clemente  ^. 

Il  conclave  si  protrasse  dal  27  Ottobre  al  2  Novembre,  giorno 
in  cui  le  due  opposte  tendenze,  rinunziando  ai  loro  candidati, 
si  accordarono  sull'elezione  di  un  terzo  :  Pietro  Tomacelli  del 
titolo  di  S.  Anastasia,  che  assunse  il  nome  di  Bonifacio  IX. 
Firenze,  fortemente  delusa  nelle  sue  aspettative,  dovette  su- 
bire anche  la  taccia  di  simoniaca,  per  aver  tentato  col  mezzo 
dei  suoi  mercanti  di  comprare  i  voti  del  conclave  ^.  Non  sap- 
piamo quanto  di  vero  ci  sia  in  simile  taccia;  tenuto  però 
conto  dell'ora  torbida  che  il  Comune  attraversava  e  delle  spe- 
ranze, che,  come  abbiamo  visto,  aveva  riposto  nel  prestigio  che 
il  nuovo  papa  avrebbe  potuto  esercitare,  non  è  impossibile 
ch'essa  avesse  un  fondamento  di  verità. 

Il  nuovo  eletto  non  dispiacque  tuttavia  ai  fiorentini,  essendo 
conosciuto  per  uomo  «  di  singulare  saggezza  e  prudenza  for- 
nito »  e  soprattutto  perchè  durante  il  suo  canonicato  nella  me- 
tropolitana di  Napoli  aveva  manifestato  sentimenti  favorevoli 
alla  fazione  durazzese. 


1  Ved.  Appendice  di  docc.  n.  25.  V  Ammirato  {Storia  di  Firenze 
III,  115)  afferma  cbe  i  fiorentini  si  adoperarono  per  l'elezione  del  car- 
dinale Corsini.  Egli  però,  sebbene  come  nota,  abbia  letto  il  documento 
citato,  è  evidentemente  incorso  in  un   equivoco. 

'  Intorno  al  Conclave  tenutosi  per  la  morte  di  Urbano  VI,  ved.  L. 
Zanutto  ,    Il   Pontefice  Bonifazio    IX,   Udine,   1904,  pgg.   18-24. 

3  Ved.  Appendice  di  docc,  n,  25  ;  e  A.  S.  F.,  X  di  Balia,  Commis- 
sioni etc,  reg.  cit.,  e.  22  (lettera  al  collegio  del  cardinali  del  6  No- 
vembre 1389). 


—  35  — 

Taluni  dei  consiglieri  proposero  per  ciò  di  sospendere  la  par- 
tenza degli  ambasciatori  presso  Carlo  VI,  fino  a  che  non  si 
fosse  consultato  il  parere  di  Bonifazio,  proposta  che  non  in- 
contrò del  resto  l'approvazione  della  maggioranza,  la  quale, 
pur  desiderosa  di  tenersi  in  buoni  rapporti  colla  corte  romana 
era  però  d'opinione  d'inviare  senz 'altra  dilazione  gli  oratori  in 
Francia  «  quia  Commune  indiget  favore  temporali  ^  ». 

Fu  per  questo  stabilito  d'inviare  contemporaneamente  ora- 
tori così  a  Parigi  come  a  Roma,  coH'incarico,  affidato  a  questi 
ultimi,  di  non  far  cenno  a  Bonifazio  dei  fatti  del  Regno  «  ne 
provocetur  rex  Francie  contra  Commune  2.  La  certezza  che  Bo- 
nifazio avrebbe,  senza  pressioni  esterne,  agevolato  il  trionfo  di 
Ladislao,  metteva  i  fiorentini  al  sicuro  per  ciò  che  riguardava 
uno  dei  principali  obbiettivi  della  loro  politica. 

Il  13  Dicembre  Filippo  Corsini,  Cristofano  Spini,  Filippo  A- 
dimari  e  Matteo  di  Iacopo  Arrighi  erano  già  sul  punto  di  re- 
carsi a  Parigi  con  l'istruzione  compilata  fin  dal  Giugno  tra- 
scorso, e  verso  la  fine  del  mese  erano  già  partiti,  mentre  giun- 
gevano a  Firenze  oratori  di  Bonifacio,  i  quali,  prima  ancora 
che  partissero  per  Roma  gli  inviati  del  Comune,  potettero  ri- 

*  Alexander  Nicholai  dixit:  mictattur  subito  ambasciata  ad  papam  et 
sint  homines  nobiles  et  prudentes  et  graves  ;  et  subito  etìam  mictatur 
arabaxiata  ad  regem  France,  habito  ab  orato ribus  nostris  aliquid  de 
intentione  pape  et  dispotitionne  eius  —  Alexander  de  Nobilibus  dixit;  quod 
ambaxiata  honorabilium  et  pradentium  hominum  mictatur  ad  papam 
et  ambaxiata  ad  regem  France  mictatur  habita  et  visa  intentione  pape. 
—  D.  Fillipiis  de  Corsinis  dixit  :  mictatur  ambaxata  ad  visitandum  pa- 
pam, sed  sit  ad  visitandum,  congratulandum,  offerendum,  recommen- 
dandum  Commune.  De  ambasxiatorlbus  Francie  dixit  quod  Commune 
indiget  favore  temporali  et  ideo  sine  expectando  aliquid  de  papa,  mic- 
tantur  (A.    S.    F.,   Consulte,   reg.  XVIII,  e.  3). 

»  Antonius  Santi  prò  gonf.  dixit  :  quod  de  factis  filli  regis  Karoli 
nihil  in  singulari  committatur  oratoribus  ituris  Romam,  sed  si  papa  ali- 
quid  a  se  movet,  tnne  exhortetur  —  Philippua  Johaneis  dixit:  quod  in- 
formatio  facta  oratoribus  ituris  ad  papam  ut  ordinata  est  (remaneat) 
salvo  quod  de  factis  filii  regis,  ne  provocetur  rex  Francie  contra  Com- 
mune —  Nicholaus  de  Giugnis  dixit  :  quod  commune  se  non  gravet  nec 
ponat  in  aliquo  periculo  et  de  factis  Regni  Co  ni  nume  se  non  delegai 
(sic)  sed  in  generale  recommendetur  sibi  Italia  et  ulterius  non  procedere 
(sic)  (A.   S.   F.,    Consulte,   reg.  XXVIII  e.  11). 


—  36  — 

ferire  come  fosse  intenzione  del  papa  entrare  mediatore  nel- 
l'attrito fiorentino-visconteo^.  La  proposta  in  sulle  prime  in- 
contrò la  piena  approvazione  dei  consiglieri,  ma  non  era  stata 
ancora  ufficialmente  accettata  che  si  seppe  a  Firenze  come 
due  degli  oratori  spediti  in  Francia,  l'Adimari  e  l'Arrighi,  es- 
sendo partiti  per  terra  a  differenza  dei  loro  compagni,  erano 
stati  arrestati  in  quel  di  Genova  dal  marchese  di  Finale,  amico 
intimo  del  Visconti  2.  Trattati  segreti  erano  stati  anche  sco- 
perti a  S.  Miniato  al  Tedesco  e  a  Montepulciano,  mentre  in 
Pisa  il  partito  di  Pietro  Gambacorta,  amico  dei  fiorentini, 
perdeva  sempre  più  terreno  ^.  La  mediazione  di  Bonifacio  non 
poteva  in  tal  modo  riuscire  proficua,  e  il  Comune,  spinto  or- 
mai dall'urgente  necessità,  ordinava  a  due  altri  oratori  che  fu- 
rono nominati  in  sostituzione  di  quelli  catturati,  d'  informare 
delle  insidie  viscontee  e  guadagnare  alla  causa  fiorentina  anche 
il  papa  avignonese*. 

La  mediazione  offerta  dai  veneziani  andò  anch'essa  delusa, 
mentre  il  Visconti,  ritenendo  per  sé  opportuno  troncare  ogni 
ulteriore  dilazione,  il  25  Aprile  1390,  dichiarava  guerra  al 
Comune  ^ 

Il  periodo  che  segue,  fino  al  trattato  di  Parigi,  è  un  pe- 
riodo di  lotta  continua,  interrotto  da  brevi  tregue,  durante  il 
quale  i  fatti  del  Regno  hanno  ormai  un'eco  molto  flebile  nei 
consigli  fiorentini. 

La  guerra  col  Visconti  assorbe  ormai  tutte  le  energie  del 
Comune,  e  noi,  trovandoci  davanti  a  due  campi,  in  cui  si 
la  Repubblica  che  Ladislao  combattono  per  interessi  affatto 


1  Sulla  partenza  di  questi  oratori  da  Firenze  ved  :  Ser  Naddo,  op. 
e  loc.  cìt.,  pag.  103  ;  Minerbetti,  op.  e  loc.  cit.,  col.  191  —  Intorno 
all'arrivo  degli  oratori  di  Bonifacio  e  al  contenuto  della  loro  relazione 
ved.  A.  S.   F.,   Consulte,   reg.  cit.,   e.  27. 

*  BuoNiNSEGNi,  op.  cit.,  pgg.  693  sgg.;  Minerbetti;  op.  e  loc.  cit., 
col,  194. 

^  Silva,   Il  governo  di  Pietro  Gambacorta,   etc,   pgg.   267  sgg. 

*  A.  S.   F„   Consulte,  reg.  XXVIII  e.   31  v.   e  41  v. 

»  Ved.  Cipolla,  op.  cit.,  pag.  205  ;  L.  Frati,  La  lega  dei  bolognesi 
e  dei  fiorentini  contro  G.  G.  Visconti  in  Arch,  Stor.  Lomb.,  Serie  II,  voi.  VI, 
1889,   pg.   5-21. 


ì 


37 


indipendenti,  possiamo  sugli  eventi  che  raccompagnarono  sor- 
volare. 


* 
*  * 


Gli  oratori  fiorentini  che  si  trovavano  in  Francia,  nell'Aprile 
successivo  alla  loro  partenza,  informarono  i  Signori  suU'  esito 
della  loro  ambasciata.  Il  re  aveva  promesso  di  aderire  alle 
proposte,  ma  a  patto  che  il  Comune  avesse  abbracciato  l'ubbi- 
dienza avignonese  e  offerto  a  lui  in  segno  di  devozione  un 
dono  e  un  annuo  tributo  ^  Quanto  al  Regno  non  abbiamo 
nessun  accenno:  ma  è  evidente  che  nell'obbligo  d'aderire  alla 
causa  del  papa  avignonese,  era  compreso  anche  quello  di  so- 
stenere la  causa  angioina. 

Le  pretensioni  erano  gravi  e  contenevano,  com'è  facile  accor- 
gersi, un  attentato  all'indipendenza  del  Comune.  Quale  sarebbe 
stato  infatti  l'avvenire  di  Firenze,  se  in  un  momento  in  cui  il 
re  di  Francia  aveva  la  mente  e  l'animo  rivolti  a  costituire  uno 
stato  francese  nell'Italia  centrale,  si  fosse  a  lui  spontaneamente 
legata  con  un  annuo  tributo  ^  ?  La  città  di  Genova,  in  procin- 
to di  perdere  l'indipendenza,  era  li  ad  attestare  quanto  terribili 
fossero  le  conseguenze  di  un  incauto  passo. 

Taluni  dei  consiglieri,  illudendosi  ancora  di  trovare  il  bandolo 
dell'  arruffata  matassa,  senza  umiliarsi  dinanzi  allo  straniero,  pro- 


1  Filippus  ser  lohannis  dixit  :  quod  omnia  que  petuntur  per  regem 
Francie  fiant,  salvo  que  in  mutando  fidem  papatus  —  D.  Loltus  de  Ca- 
siellanis  dixit  :  quod  de  pecunia  consentiatur;  de  facto  autem  fidei  ni- 
chil  plus  dicatui  quam  quod  dictum  sit  et  responsum,  videlicet  quod 
Commune  stabit  concilio  —  Filippus  Cionetti  dixit  :  quod  differatur  con- 
sultatio  et  quod  omnes  cogitent  rationes  prò  et  centra  primo  enim  dare 
donum  et  accipere  signa  et  gentes  regis  Francie  est  species  summis- 
sionis  et  dare  titulum  regi;  et  si  non  fiat  est  periculum  ne  turbetur 
rex;  credere  in  papam  avinionensem  est  centra  fidem  et  ideo  fiat  sicut 
dixit   dominus  Lottus  (A.  S.  F.,   Consulte,  reg.   cit.,  e.   11). 

*  Intorno  ai  disegni  che  il  re  di  Francia  intendeva  effettuare  in  Ita- 
lia durante  questo  periodo,  cfr,  Valois,  op.  cit.,  I,  167  e  passim  ; 
DuRRiEux:  Le  royaume,  d'Adria,  Paris  1880;  G.  Romano,  Niccolò  Spinelliy 
etc.  512  sgg.. 


—  38  — 

posero  di  rinnovare  i  colloqui  col  Visconti  i.  Ma  i  Signori,  di  nan- 
zi  al  bivio  che  veniva  ad  aprirsi  :  o  cedere  alle  pretese  fran- 
cesi e  mettere  in  pericolo  la  propria  indipendenza,  o  lasciare  cam- 
po libero  al  Visconti  di  macchinare  coi  francesi  contro  il  Comune, 
diedero  ai  Savi  facoltà  di  cercare  al  più  presto  una  via  d'uscita. 

Quel  che  i  Savi  stabilirono  possiamo  ricavarlo  da  una  Consulta 
del  30  Maggio.  In  essa  si  parla  d'inviare,  secondo  il  responso  dei 
requisiti,  un  altro  oratore  in  Francia  per  tentare  di  indurre  il  re 
a  modificare  le  sue  pretese  e  per  dirgli  che  il  dono  e  il  tributo  sa- 
rebbe stato  a  lui  concessso  solo  nel  caso  e  per  il  tempo  in  cui  i  fio- 
rentini lo  avessero  richiesto  di  genti  e  di  capitani.  Quanto  al- 
l'ubbidienza, si  accettò  con  molta  probabilità  la  proposta  pre- 
ponderante nei  vari  consigli  tenutisi  in  quei  giorni  :  non  avrebbe 
il  Comune,  senza  venir  meno  ai  dettami  della  propria  coscienza, 
potuto  pubblicamente  accettare  l'ubbidienza  avignonese,  ma  si 
sarebbe  con  impegno  adoperato  per  la  convocazione  immediata 
del  concilio  2. 

Con  ciò  i  fiorentini  speravano  d'aver  trovato  ilmezzo  migliore 
per  rimanere  «  in  gratia  regis,  in  libertate,  et  fide  ». 

Ma  il  re  non  volle  cedere  di  un  passo  sulle  intenzioni  manife- 
state. A  Firenze,  essendosi  nel  l.''  Luglio  bandita  ogni  speranza 
di  venire  a  un  accomodamento,  fu  proposto  di  avvertire  gli  ora- 
tori a  non  firmare  il  trattato  «  non  indignando  tamen  commisarios 
regis  Francie  et  non  rumpendo  propterea  colloquia,  sed  parum 
dilatando  ».  Le  pratiche  furono  cosi  prolungate,  ma  coli'  unico 
scopo  di  tenere  a  bada  il  re  e  di  paralizzare  l'azione  che  presso  il 
medesimo  svolgevano  gli  agenti  viscontei.  Contemporaneamente 

*  Filippus  Cionetti  dlxit  :  quod  in  fide  non  bidetur  ei  quod  rationa- 
bìliter  Commune  se  debeat  mutare  ad  petitionem  alicuius  principis  nisi 
aliud  declaretur  ;  et  dare  pecunia  est  species  servitutis,  et  est  jam  visa 
una  civitas...  ;  sed  fiat  ita  quod  non  remaneatur  in  discordia  cum  rege 
Francie,  et  fiat  donum  non  annuale  sed  simul,  in  pecunia  vel  jocalibus,  et 
quod  omnia  praticentur  in  parvo  numero  civium  ita  quod  in  gratia  re- 
gis remaneatur,  in  nostra  libertate  et  fide.  (A.  S.  F.,  ivi,  reg.  cit.,  e.  61). 
Evidentemente  il  consigliere  fiorentino,  colla  reticenza  surriferita,  voleva 
accennare  a  Genova,  il  cui  annuale  tributo  al  re  di  Francia  gli  costò  la  per- 
dita della  liberià  (Ved.  Jarry,  Les  orìgenes  etc,   pagg.  12  sgg. 

»  A.  S.  F.  Consulte,  reg.  cit.,  e.  75  —  Cfr.  anche  nel  medesimo  re- 
gistro le  consulte  dell'Aprile  e  del  Maggio  1390. 


—  39-. 

infatti  furono  da  Firenze  intavolate  trattative  col  duca  di  Ba- 
viera, coH'imperatore  e  con  Giacomo  III  d'Armagnac.  Ma  il  pri- 
mo di  costoro  aveva  anche  lui  pretese  eccessive  e  il  secondo  non 
garantiva  di  svolgere  contro  il  Visconti  un'azione  energica^. 
Unico  rifugio  restava  in  tal  modo  il  condottiero  francese,  perso- 
nalmente ostile  a  G.  Galeazzo  e  in  ottima  relazione  con  Carlo  VI 
non  ostante  gli  intrighi  dei  conti  e  dei  baroni  francesi ,  che  cerca- 
rono di  dissuaderlo,  l'Armagnac  stipulò  coi  fiorentini  un  trat- 
tato d'alleanza  il  6  ottobre  1390  e  combattè  sempre  al  fianco 
degli  alleati  2. 

Ma  nei  piani  d'Alessandria,  il  25  Luglio  1391,  egli  trovò  la 
morte.  La  perdita  grave  e  inaspettata  insieme  alla  solita  ritrosia 
di  aderire  alle  eccessive  pretese  del  re  di  Francia,  indussero  i  fio- 
rentini ad  accettare  la  mediazione  di  Antoniotto  Adorno,  doge 
di  Genova.  Il  20  Gennaio  1392  fu  firmata  una  nuova  pace,  ma 
con  grande  vantaggio  del  Visconti  :  cosi  che  tutti  coloro  i  quali 
della  potenza  viscontea  si  sentivano  minacciati,  videro  accre- 
sciuti i  pericoli  ^.  Il  re  di  Francia,  offeso  della  mal  celata  baldan- 
za con  cui  erano  state  respinte  dai  fiorentini  le  sue  richieste,  in 
procinto  di  compiere  la  già  preparata  impresa  d'Adria,  ribadi 
la  sua  nota  amicizia  con  G.  Gaeleazzo  ;  Niccolò  Spinelli,  l'acuto 
e  perspicace  diplomatico,  nemico  dei  fiorentini,  non  tralasciava 
nessun  mezzo,  nessun  tentativo  per  trasformare  quest'  amicizia 
;in  alleanza  ed  inasprire  i  rancori  che  Carlo  VI  nutriva  contro 
rFirenze  *. 

Le  minacele  insomma,  i  pericoli  si  andavano  complicando  ;  e 
gli  oligarchi  fiorentini,  perduta  ogni  fiducia  nel  vigore  dell'  ulti- 
10  trattato,  segnarono  una  lega  con  Padova,  Ferrara,  Faenza, 
Pavenna  ed  Imola.  Più  tardi,  dopo  un  lungo  periodo  di  incertez- 
ze, fu   ammesso  nella  lega  anche  il   signore  di  Mantova  ^   Que- 

»  A.  S.  F.,  Consulte  del  10,  24,  25  Agosto  e  del  3,  10  settembre   1390. 
*  A.   S.  F.,  Consulte  cit.,  e  Valois,  op.  cit.,   II,  174;  Romano,  Niccolò 
\Spinelli  etc,  voi.   cit.,  pg.   450   sgg. 

»  DuRRiEux,  Le  royaume  d'Adria,  pag.  47  ;  G.  Romano,  Niccolò  Spi- 
[nelli  etc,  pg.  457-61. 

*  G.  Romano,   Niccolò  Spinelli  etc,  pg.  472  sgg. 

'  Intorno  a  questa  lega  Cfr.  G.  Romano,  Gian  Galeazzo  Visconti  e  gli 
ìeredi  di  Bernabò  in  Archivio  storico  lombardo,  Serie  III,  fase  I,  pg.  49- 
|60,    oltre  all'opera  precedentemente  citata,   pg.  445  sgg. 


—  40  — 

sta  unione,  che  inutilmente  si  era  cercato  di  tener  segreta,  fu  il 
segnale  della  nuova  guerra.  Tutti  gli  alleati  erano  invisi  al  Vi- 
sconti. Bonifacio  IX,  che,  di  fronte  alle  minaccio  provenienti 
d'oltralpe,  si  adoperava  attivamente  di  unire  contro  lo  straniero 
le  forze  italiche,  aveva  con  entusiasmo  favorito  l'esito  delle  trat- 
tative ed  egli  stesso  insieme  con  Ladislao  aveva  cercato  d'en- 
trare. I  fiorentini  però,  sempre  per  un  riguardo  verso  il  re  di  Fran- 
cia, si  erano  affrettati  a  respingere  le  sue  preghiere^.  Questo  tut- 
tavia non  impedì  a  G.  Galeazzo  di  attribuire  agli  alleati  inten- 
dimenti ostili  non  solo  contro  il  re  di  Francia  e  il  papa  avigno- 
nese,  ma  anche  contro  l'angioino.  Per  mezzo  di  Niccolò  Spinelli, 
egli  insinuò  astutamente  che  nella  lega  italica  erano  stati  riser- 
bati dei  posti  principali  a  Bonifacio  e  a  Ladislao  ^.  Il  re  di  Fran- 
cia e  l'angioino  insorsero  protestando.  Nella  speranza  di  spegnere 
lo  sdegno  di  Carlo  VI,  i  fiorentini  gli  risposero,  ribattendo  sulla 
più  volte  promessa  neutralità,  invitandolo  a  tenersi  bene  in  guar- 
dia contro  le  maligne  insinuazioni  dei  loro  nemici;  ed  aggiungen- 
do che  nella  lega  «  contratta  per  la  difesa  degli  stati  tanto  »  non 
si  era  creduto  d'invitare  il  Visconti  «  perchè  non  era  parso  con- 
veniente consentire  a  lui,  quello  che  a  Bonifacio  e  a  Ladislao  era 
stato  negato  ^  ». 

Tali  affermazioni  furono  rinnovate  anche  agli  oratori  francesi, 
venuti  in  Firenze  nell'Aprile  del  1393  per  ricordare  al  Comune 
l'osservanza  delle  promesse*.  I  disegni  francesi,  appoggiati  dal 
consenso  visconteo,  parevano  alla  vigilia  della  loro  esplicazione. 
Notizie  allarmanti,  inviate  al  loro  governo  dai  mercanti  fioren- 
tini, trafficanti  nelle  parti  di  Francia  e  confermate  da  speciali 
emissari,  mandati  «  ad  sciendum  nova  »  giustificavano  le  appren- 
sioni che  in  questo  momento  torbido  della  storia  d' Italia  turba- 
vano gli  animi  ^.  Il  duca  di  Borgogna  e  il  duca  d'Orleans  a\ evano 


»  A.  S.  F.,   Consulte,  reg.   XIX,  e.  50. 

2  I  fiorentini  erano  stati  informati  «  de  infamia  quam  dominus  Ni- 
chela de  Neapoli  dedisse  dicitur  centra  Communè  in  Francia  »  sin  dal 
Febbraio  1393  {Consulta  del  5  febbraio,  reg.  XXIX  e.  169,  parole  di  Fi- 
lippo Corsini). 

«  A.  S.  F.,   Signori  Carteggio  Missive,  reg.   XXIII,    ce.  128  e  143. 

«  A.  S.  F.,   Consulte,  reg.  XXX,  e.  17. 

5  A.  S.  F.,  Signori,  Carteggio,    Missive,  reg,   XXIII,    e.  88.   Erano    i 


—  41  — 

infatti  apparecchiato  i  loro  eserciti  e  si  erano  concentrati  in  Pro- 
venza, allo  scopo  di  varcar  subito  le  Alpi  e  di  piombare  minac- 
ciosi sullo  stato  pontifìcio  ;  il  re  d'Aragona,  suocero  di  Luigi  II 
d'Angiò,  preparato  anche  lui  un  esercito  e  allestita  una  flotta, 
avvisava  il  comune  di  non  frapporre  ostacoli  all'azione  che  gli 
alleati  avrebbero  svolta  contro  il  papa  e  i  durazzesi;  Tommaso 
Sanseverino,  anche  lui  alla  testa  di  forze  avignonesi,  era  in  pro- 
cinto secondo  le  voci  correnti,  di  recarsi  in  Lombardia,  e  di  là 
nella  Venezia,  per  salpare  col  consenso  del  doge,  verso  i  porti  del 
Regno  1.  A  fugare  ogni  speranza  che  1  fiorentini  avevano  sino  a 
quel  momento  nudrita  contro  la  coalizzazione  delle  forze  franco- 
viscontee, si  divulgò  ben  presto  la  voce  che  il  re  di  Francia  aveva 
stipulato  con  Gian  Galeazzo  un  patto  d'alleanza.  Né  erano  igno- 
ti gli  intenti  cui  i  due  alleati  tendevano  ;  il  Visconti  avrebbe  la- 
sciato ai  francesi  libero  campo  nello  stato  pontificio  e  nel  Regno 
di  Napoli,  e  i  francesi  avrebbero  appoggiato  l'azione  ch'egli  in- 
tendeva svolgere  in  Toscana  e  specialmente  contro  Firenze  2. 
L'ora  insomma  che  i  fiorentini  attraversavano  era  delle  più  diffi- 
cili e  imbarazzanti.  Tuttavia  la  loro  sagace  politica  non  fu  meno 
forte  degli  eventi.  Essi,  come  vedremo,  seppero  trovare  in  se  stes- 
si la  forza  sufficiente  per  paralizzare,  nel  momento  stesso  in  cui 
si  stringevano,  le  forze  dei  due  potenti  alleati. 

* 

Non  essendo  riuscita  a  impedire  Tunione  delle  forze  franco-vi- 
scontee, la  diplomazia  fiorentina,  senza  lasciarsi  avvilire  dal  si- 
nistro successo,  si  propose  di  gettare  tra  gli  alleati  la  gelosia  e  la 
discordia. 

La  repubblica  ligure,  su  cui  avevano  delle  aspirazioni  così  l'uno 


preparativi  per  la  costituzione  del  famoso  stato  italico,  tributario  del  re  di 
Francia,  cui  Carlo  VI  rivolse  negli  anni  1393-4  gli  ultimi  suoi  sforzi.  In- 
torno alle  cause  che  guastarono  quest'impresa,  cfr.  Romano,  Niccolò  Spi- 
nelli etc.   pg.   517-19  e    DunmEux,  Le  Royaiune  d'Adria,  pgg.  cit. 

1  A.  S.  F.,  Signori,  Carteggio  etc.  reg.  XXIII,  ce.  88,  131,  133  (let- 
tere al  cardinal  di  Nono  poli  del  21  febbraio  e  al  re  d'Aragona  del  28 
luglio  1393). 

-  G.  Romano,  op.  e  voi.   cit.,  pgg.  508-10. 


42  — 


come  l'altro  degli  alleati,  poteva  benissimo  prestarsi  al  gioco.  Lu- 
singare le  ambizioni  francesi  su  quella  città  ;  provocare  contro  i 
francesi  la  gelosia  viscontea,  avrebbe  senza  dubbio  avuto  per  ef- 
fetto lo  scioglimento  della  lega.  I  fiorentini,  bandito  ogni  scrupo- 
lo intorno  alla  necessità  di  dovere  immolare  ai  propri  interessi  la 
libertà  genovese,  attesero  con  grande  attività  al  conseguimento 
dello  scopo. 

Incominciarono  col  rimuovere  ogni  occasione  che  potesse  for- 
nire a  Carlo  VI  materia  di  rimostranze.  Agli  oratori  fiorentini,  de- 
stinati a  Roma  nel  Luglio  1394,  per  indurre  il  papa  a  cedere  al- 
cuni castelli  delle  Romagne,  fu  per  questo  ordinato  di  non  visi- 
tare Ladislao,  il  quale  si  era  recato  nella  sacra  città,  in  difesa  del 
papa,  minacciato  dagli  insorti  i.  Allo  scopo  poi  di  preparare  in 
Francia  il  terreno  all'esplicazione  dei  disegni  concepiti,  e  d'acqui- 
starsi a  questo  medesimo  fine  il  favore  avignonese,  fu  scritto  nel 
medesimo  Luglio  a  Clemente  VII,  intercedendo  la  revoca  dei 
processi  emanati  contro  Firenze  da  papa  Gregorio  XI  e  attestan- 
do il  desiderio  e  la  speranza  del  Comune  di  vedere  Clemente  ve- 
nerato universalmente  solo  e  legittimo  pontefice  2.  Per  riguardo 
al  re  di  Francia  furono  anche  respinte  le  proposte  d'alleanza  che  il 
doge  Adorno,  cui  faceva  capo  il  partito  avverso  ai  francesi,  ave- 
va fatte  al  Comune^.  In  seguito,  nell'  ottobre,  fu  nuovamente 
scritto  a  Carlo  VI,  annunziandogli  il  prossimo  arrivo  nella  sua 
corte  di  oratori  fiorentini,  e  augurandogli  la  grandezza  dello  stato 
e  il  felice  successo  dei  suoi  disegni  e  il  prossimo  possesso  di  Ge- 
nova, che  sarebbe  stato  apportatore  di  pace  e  di  tranquillità  a 
tutti  i  genovesi  *. 

La  partecipazione  dei  fiorentini  nei  fatti  del  Regno,  che  nel 
frattempo,  avevano  assunto  una  piega  risolutiva,  era  del  tutto 
cessata,  mentre  intanto  assumeva  proporzioni  sempre  maggiori 
l'attività  dei  medesimi  per  meritare  il  favore  e  la  fiducia  del  re  di 
Francia.  L'oratore  a  cui  fu  affidato  il  compito  di  praticare  nella 
corte  parigina  fu  Bonaccorso  Pitti,  l'abile  e  ameno  mercante  che 


1  A.  S.  F.,  Consulte,  reg.  XXX,  e.   138. 

*  A.  S.  F.,  Signori  Carteggio  Missive,   reg.   XXIV,  e.  57. 

*  Consulta  del  4  aprile  e  del  9  Giugno  1394. 

*  A.  S.  F.  Signori,  Carteggio,  Missive,  reg.  XXIV,  e.  93. 


—  43  — 

in  Francia  vantava  numerose  amicizie  i.  Ad  Avignone  fu  in- 
vece inviato  Ser  Piero  da  S.  Miniato,  coU'incarico  d'intendersela 
innanzi  tutto  col  cardinal  Corsini,  e  d'operare  poi  insieme  con  lui 
e  con  gli  altri  principi  e  cardinali,  contro  le  mali  arti  di  G.  Galeazzo 
il  quale  «  con  danari  e  con  promesse,  ha  ordinato  e  fatto  che  Ge- 
nova non  è  venuta  nelle  mani  del  re  di  Francia,  perchè  la  vuole 
per  sé  ^  ». 

Non  è  nostro  intento  seguire  in  tutto  il  loro  svolgimento  le 
pratiche  dei  due  esperti  diplomatici,  bastandoci  solo  accennare 
all'esito  fortunoso  da  esse  raggiunto. 

Nel  Marzo  1395,  i  baroni  francesi  erano  già  divisi  in  due  parti  : 
amici  e  nemici  del  Visconti,  mentre  Isabella,  moglie  di  Carlo  VI 
e  nipote  di  Bernabò,  nella  quale  il  Pitti  aveva  trovato  un  appog- 
gio facile  ed  efficace,  si  adoperava  attivamente  per  staccare  il 
marito  dall'alleanza  viscontea.  Poco  dopo  il  sire  de  Coucy,  in- 
vestito del  supremo  comando  dell'esercito,  già  accampato  nei 
pressi  di  Genova,  ebbe  l'ordine,  di  non  più  abbandonare  l'Italia 
settentrionale.  L'audace  impresa  per  la  laicizzazione  dello  stato 
pontificio,  venne  cosi  quasi  inaspettatamente  a  fallire. 


* 
*  * 


Coloro  ai  quali  l'insuccesso  dei  disegni  francesi  tornò  di  spe- 
ciale vantaggio  furono,  com'è  facile  suppore,  non  solo  i  fioren- 
tini, ma  anche  Bonifazio  e  Ladislao.  Il  quale  ultimo  del  resto,  sin 
dall'epoca  della  morte  d'Urbano,  aveva  fatto  dei  rapidi  progres- 
si sulla  via  del  trionfo.  Bonifacio  aveva  ben  presto  compreso  che 
le  forze  del  Regno  e  quelle  della  Chiesa,  piuttosto  che  combat- 
tersi, com'era  avvenuto  al  tempo  del  suo  predecessore,  dovevano 
tenersi  intimamente  collegate  e  rivolte  contro  il  comune  pericolo. 
Prosciolse  perciò  Ladislao  dalla  scomunica,  lo  fece  solennemente 
incoronare  re  in  Gaeta  il  29  maggio  1390,  gli  assegnò  qual  balio 

*  Cfr.  BoNAccoRso  Pitti,  Cronica,  Bologna,   1906,  pag.   81-2. 

*  A.  S.  F.  X  di  balia.  Commissioni  etc,  reg.  II,  e.  3.  Per  ampie  no- 
tizie in  tomo  all'azione  che  esplicarono  in  Francia  gli  oratori  fiorentini, 
vedi:  Jarry,  Les  origines  etc,  loc.  cit.,  pg.  126;  Romano,  Niccolò  Spi- 
nelli etc.   voi.   e  loc.   cit.,   pg.  251. 


—  44  — 

e  tutore  Angelo  Acciaioli,  il  concittadino  e  amico  dei  fiorentini^. 
Questi  atti  insieme  al  prestigio  di  cui  godette  nel  Regno,  duran- 
te la  minorità  di  Ladislao,  il  cardinal  fiorentino,  ci  ricordano  i  ca- 
pitoli che  sin  dal  1387  Firenze  aveva  proposto  ad  Urbano  per  l'ac- 
cordo tanto  desiderato  ;  e  forse  non  erano  stati  dal  papa  sanzio- 
nati senza  l'abile,  per  quanto  cauto  e  segreto,  intervento  del  Co- 
mune. In  seguito  Ladislao  fu  anche  dispensato  dal  censo  che  i  re 
di  Napoli  dovevano  alla  Chiesa,  ed  ebbe  ai  suoi  ordini,  oltre  alle 
genti  di  Ottone  e  di  Alberico,  anche  quelle  di  Giovanni  Tomacello, 
fratello  del  papa. 

Per  sopperire  alle  ingenti  spese  che  dinanzi  alle  minacele  fran- 
cesi, il  nuovo  pontefice  dovette  sopportare,  furono  date  a  censo 
città,  cariche,  onori,  furono  conchiusi  trattati  cogli  usurpatori 
dello  Stato  pontificio  e  ii^pegnati  i  tesori  stessi  delle  Chiese  2. 
Bonifacio  fu  per  questo  accusato  di  simonia  ;  ma  le  condizioni 
economiche,  politiche,  religiose,  della  Chiesa  eran  tali  da  richie- 
dere i  più  grandi  sacrifizi  e  da  giustificare  qualsiasi  mezzo  adot- 
tato per  la  loro  restaurazione. 

Col  pontificato  di  Bonifacio  IX  gli  angioini  perdettero  quindi 
quel  che  era  stato  fino  a  quel  momento  il  principale  coefficiente 
della  loro  fortuna,  la  discordia  cioè  dei  loro  avversari.  Agli  urba- 
nisti e  ai  durazzesì  si  sostituì  un  unico  partito  :  quello  che,  se- 

»  La  data  dell'  incoronazione  di  Ladislao  in  Gaeta  ci  è  stata  tra- 
mandata dai  cronisti  in  modo  inesatto.  L'  autore  del  Cronicon  Siculum 
infatti  (pg.  93)  afferma  che  Ladislao  fu  incoronato  il  1»  Giugno  1390;  | 
il  MiNERBETTi  (col.  206-7)  fa  risalire  questa  cerimonia  al  24  aprile;  l'au- 
tore dei  Diurnali  (pag.  38)  e  I'Ammirato  {Vita  di  re  Ladislao,  pg.  110) 
airil  Maggio  del  medesimo  anno.  La  lettera  però  con  cui  Ladislao  ebbe 
a  partecipare  il  fausto  avvenimento  ai  capitani  di  Parte  Guelfa  del 
Comune  Fiorentino  {Diplomatico,  Riformazioni,  Atti  Pubblici,  30  Maggio 
1390)  e  la  risposta  colla  quale  i  Signori  si  compiacquero  della  solenne 
cerimonia  «  die  vigesima  nona  mensis  mai  proxime  preteriti  celebrata  » 
pubblicata  dalla  Valente  in  appendice  al  suo  lavoro  sopprimono  ogni  con- 
tradizione in   proposito. 

2  Intorno  alle  relazioni  tra  Bonifazio  e  Ladislao,  subito  dopo  l'ele- 
zione pontifìcia,  vedi  Rainaldi,   Annales  etc,  1390,  n.  11,   12,   13,   18. 

Per  i  sacrifizi  cui  Bonifazio  si  dovette  sobbarcare  per  favorire  La- 
dislao, vedi  THEODomco  de  Niem,  De  scismale,  lib.  II,  ca.  VII  ;  S. 
Antonino,  Chronicorum  opus  etc,  pag.  413-14.  Cfr.  anche  A.  Valente, 
op.  cit.,  cap.   III,   pag.  32  sgg. 


—  45  — 

guace  dell'ubbidienza  romana,  non  aveva  alcun  interesse  a  fa- 
vorire una  dinastia  scismatica. 

Fautori  impenitenti  della  causa  di  Ladislao  furono  i  mercan- 
ti fiorentini  ;  giacché  non  bisogna  pensare  che  la  neutralità  cui 
Firenze  fu  costretta  a  sottoporsi,  avesse  determinato  un  eguale 
atteggiamento  da  parte  dei  banchieri,  trafficanti  nel  Regno.  Co- 
loro che  in  quest'attiva  fedeltà  si  distinsero  in  ispecial  mod">  fu- 
rono i  consanguinei  del  cardinal  tutore,  che,  in  considerazione 
dei  servizi  prestati,  ebbero  da  Ladislao  cariche,  feudi  ed  onori  ^. 

^  Il  14  settembre  1390,  Ladislao,  «  actendentes  merita  sincere  devo- 
tionis  et  fìdei,  grataque,  grandia,  utilia  et  accepta  servicia...  nullis  suae 
persone  parcendo  periculis,  laboribus  vel  expensis  »  dona  a  Benedetto  Ac- 
ciaioli l'annua  rendita  di  500  once  su  alcuni  beni  feudali,  e  un  giorno  dopo 
gli  concede  alcune  terre  tolte  ai  ribelli  (Barone,  Notizie  storiche  tratte  dalla 
cancelleria  di  Ladislao  di  Durazzo,  in  Archivio  storico  per  le  provincie  napo- 
letane, XII,  pag.  501).  Altre  donazioni  fatte  da  Ladislao  allo  stesso  Benedetto 
sono  del  2  2  ottobre  1390  (Barone,  op.  cit.,  pg.  502)  e  del  21  No- 
vembre 1392  (Arch.  di  Stato  di  Napoli,  Reg.  Ang.,  363,  e.  220  r.o). 
Ladislao  oltre  che  verso  Bendetto  Acciaioli,  fu  grato  anche  verso  tutti 
quei  fiorentini  che  nel  Regno  avessego  in  un  modo  qualsiasi  contribuito  a 
rendere  migliori  le  sue  condizioni.  Perciò  nell'ottobre  1387  investì  della  ba- 
ronìa del  Cilento  Niccolò  degli  Adimari,  conferendogli  anche  il  diritto  di 
trasmetterla  ai  suoi  figli  ed  eredi  (Arch.  di  Stato  di  Napoli,  Fase. 
Ang.  ;  93  P  II«,  e.  225)  ;  nel  Novembre  1390  conferma  a  Nicola  dei  Buon- 
delmonti  l'annua  rendita  di  30  oncie  (Barone,  op..  cit.,  pg.  503)  ;  nel 
Febbraio  dell'anno  successivo  elegge  Andrea  Gargiolli  di  Firenze  grande  giu- 
stiziere dello  studio  napoletano  (Barone,  op.  cit.,  pag.  506)  ;  Anr 
drea  Cargiolli  ebbe  a  più  riprese  a  godere  della  gratitudine  che  il  re  gli 
serbava.  Il  6  giugno  1391  egli  era  stato  già  nominato  ciambellano,  fami- 
liare e  amico  fedele  del  re,  e  veniva  autorizzato  a  recarsi  in  Gaeta  o  in 
altra  parte  del  Regno,  scortato  da  una  o  da  più  navi,  tutte  le  volte  che 
a  lui  piacesse  ;  più  tardi,  nel  18  Ottobre,  gli  veniva  assegnato  l'annuo 
compenso  di  oncie  132,  per  i  ineriti  che  si  era  acquistati,  togliendo 
ai  nemici  del  re  il  castello  di  Vico  (Archivio  di  stato  napoletano, 
Reg.  Ang.,  n.  361,  e.  60  ,  61,  65).  Altri  fiorentini  che  ebbero  cari- 
che e  stipèndi  da  re  Ladislao  furono  :  Neri  Acciaioli,  eletto  nel  21  mag- 
gio 1391  milite  balio  è  vicario  regio  nel  principato  di  Acaia  e  nella 
città  di  Metaponto  (Barone,  op.  cit.  pg.  507)  ;  Alessio  degli  Al- 
bizzi  (Arch.  di  Stato  di  Napoli,  Reg.  Ang.,  n.  363,  e.  66  e  67)  ; 
Antonio  di  Giovanni  de'  Medici  (A.  S.  F.,  Diplomatico  16  agosto  1388); 
Averardo  dei  Torncquinct,  Gabriele  de'  Brunelleschi,  Luca  Pecchia,  ecc.  (Ar- 
chivio di  stato  napoletano,  Reg.  Ang.,  n.  364  ce.  90  e  104;  n.  366 
e.   125). 


46 


Ma  a  rendere  sempre  migliore  la  condizione  di  Ladislao,  contri- 
buirono, oltre  a  questi  e  ad  altri  coefficienti  esterni  che  verremo 
via  via  notando,  anche  una  ragione  inerente  allo  stato  interno 
del  Regno:  il  cattivo  governo  cioè  degli  angioini.  Il  popolo  napo- 
letano aveva  sin  da  Luglio  dell'S?  sperato  invano  la  pace,  e  i  nuo- 
vi dominatori  più  che  mitigare  i  metodi  vessatori  con  cui  si  so- 
levano riscuotere  le  gabelle,  li  avevano  inaspriti,  e  si  erano  per 
sopraggiunta  immischiati  in  tutto  ciò  che  nel  governo  della  città 
era  di  competenza  speciale  dei  Seggi  e  dell'Università  napole- 
tana i.  Molte  speranze  si  erano  fondate  sulla  venuta  del  re  Luigi, 
invano  sollecitata  fino  all'Agosto  del  1390  ;  ma  anche  questa  non 
fu  causa  che  di  molto  scarsi  risultati  2.  Il  sire  di  Mongiò,  privato 
del  suo  ufficio  di  governatore,  fu  infatti  elevato  ad  una  carica 
non  meno  ambita  ed  efficace  :  a  quella  di  gran  giustiziere.  I  ma- 
lumori in  tal  modo,  lungi  dall' attenuarsi,  ebbero  materia  di  nuo- 
vo inasprimento.  Le  genti  d'arme,  che  non  avevano  ancora  tra- 
dito la  parte,  continuarono  a  restare  inoperose  e,  per  procacciarsi 
1  viveri,  erano  costrette  a  ricorrere  al  saccheggio  e  alla  rapina. 
Le  condizioni  del  Regno  durante  questo  sciagurato  periodo  ci  ven- 
gono giustamente  descritte  dagli  storici  coi  colori  più  tetri  2. 
Era  dovunque  sentito  il  bisogno  di  una  mano  energica  e  di  una 
mente  pronta  e  sagace  per  rimediare  a  tanti  mali.  Luigi  II,  de- 
bole e  inetto,  che,  come  dice  Angelo  Di  Costanzo,  sembrava  più 
adatto  a  coltivare  gli  studi  che  a  cingere  la  spada,  non  era  teni- 
pra  adatta  per  ciò  *.  Timido,  privo  d' iniziativa,  egli  volle  tener 

^  Vedi  Chronicom  siculum,  pag.  99,  ove  son  ricordate  le  proteste 
sollevate   dall'università  napoletana   contro   il  cattivo   governo   angioino. 

*  Per  costringere  Luigi  a  non  dilazionare  più  oltre  la  sua  partenza 
d'Avignone,  ov'era  stato  incoronato  sin  dall'Ottobre  1389,  furono  dai 
napoletani  inviate  numerose  ambasciate,  coll'ultima  delle  quali  fu  ad- 
dirittura imposto  un  termine,  oltre  il  quale  i  baroni  di  parte  angioina 
non  si  sentivano  in  grado  di  garentire  la  propria  fedeltà  (Chronicum  Si- 
culum, pg.  87).  Finalmenie  il  13  Agosto  dell'anno  successivo  ,  scortato 
da  14  galee,  11  navi  e  12  brigantini,  Luigi  giunse  in  Napoli.  Per  gli 
onori  con  cui  fu  ricevuto,  cfr  :  Chronicon  Siculum,  pg.  95  ;  Diurnali, 
pg.  39. 

»  Cfr.  Bianchini,  Storia  delle  finanze  di  Napoli,  Napoli,  1834,  voi.  I. 
pg.   328-9. 

*  Angelo  di  Costanzo,  op.  cit.,  voi  III,  pg.   6. 


—  47  — 

lontana  da  sé  l'avversa  fortuna  toccata  al  padre,  e,  rinchiusosi  in 
Gastelnuovo,  riserbandosi  la  difesa  della  capitale,  lasciò  che  i  con- 
ti ei  baroni,  nel  resto  del  Regno,  operassero  invece  sua.  Più  che 
contro  un  centro  di  forze  coordinate  e  tendenti  a  un  unico  fine, 
Ladislao  si  trovava  quindi  di  fronte  ad  altrettanti  nuclei  di  ri- 
belli, comandati  da  taluni  dei  ricchi  feudatari,  di  fede  molto  dub- 
bia e  pronti  a  sacrificare  al  proprio  l'interesse  del  loro  signore. 
Questa  speciale  situazione  fu  da  Ladislao  opportunamente  sfrut- 
_     tata  ;  e  dove  la  forza  delle  armi  non  era  sufficiente,  contribuì  a 
B:  far  raggiungere  senza  grandi  difficoltà  insperati  vantaggi. 
B,        Una  spedizione  che  avrebbe  potuto  risolversi  in  una  grave 
Hjksconfitta  per  Ladislao  e  che  invece  terminò  senza  suo  grande  dan- 
^Bbo,  fu  quella  compiutasi  nell'aprile  del  1392  contro  i  Sanseverino. 
^H)opo  aver  combattuto  felicemente  a  Montecorvino,  i  durazzesi, 
assaliti  improvvisamente  presso  Ascoli,  mentre  s'inoltravano  nella 
Puglia,  furono  dispersi  e  i  loro  condottieri.  Ottone  ed  Alberico, 
fatti  prigionieri  1.  La  sorte  avversa  toccata  ai  due  valorosi  capi- 
tani fece  palpitare  di  gioia  l'angioino;   ma    per   breve  durata, 
giacché  i  baroni  nelle  cui  mani  erano  caduti  i  due  condottieri, 
senza  punto  preoccuparsi  di  Luigi,  vendettero  ai  prigionieri  la 
libertà,  mentre  Benedetto  Acciaioli,  a  capo  di  nuove  bande  du- 
razzesi, vendicava  nella  stessa  Puglia  la  patita  sconfitta  ^. 


*  Annales  foroliv.  in  R.  I.  S.  XXII,  e.  198;  Chronicon  Siculiun,  pg.  105; 
Diunarli,  pg.  42-3.  Alberico  di  Barbiano  dal  maggio  1386,  nel  qual 
tempo  era  tornato  dall'Ungheria,  aveva  continuato  a  combattere  sotto 
le  insegne  di  Ladislao   (Chronicon  Siculum,   pg.   58,  62,  67  e   passim.). 

*  Secondo  l' autore  del  Chronicon  Siculum,  Alberico  fu  catturato  su- 
bito dopo  il  fatto  di  Montecorvino,  cioè  nell'Aprile  o  nel  Maggio  del 
1392.  Sembra  però  che  la  sua  cattura  fu  compiuta  verso  la  fine  dell'anno. 
Ricavo  ciò  da  una  lettera  colla  quale  Ladislao,  l'S  gennaio  del  1401, 
concede  a  Benedetto  Acciaioli  la  terra  di  Cerignola,  per  i  meriti  che 
si  era  acquistati,  liberando  la  Puglia  «  ab  hostibus  nostris  »,  «  olim  jam 
sunt  anni  elapsi  octo  vel  circa,  tempore  scilicet  quo  vir  magniflcus  Al- 
bericus  de  Barbiano,  comes  Cunii,  magnus  conestabilis  regni  Sicilie,  in 
partibus  Apulee,  una  cum  certis  aliis  nostri  fidelibus  et  gentibus  armi- 
geris,  captus  fuit  per  certos  nostros  emulos  et  rebelles  (Archivio  di 
stato  Napoletano,  reg.  ang.,  n.  364,  e.  185).  La  libertà  fu  venduta  ad 
Ottone  mediante  la  cessione  del  territorio  di  Acerra  a  Raimondo  Or- 
sini conte  di  Lecce  e  il   pagamento   di  28.000  fiorini.   Ad  Alberico   me- 


—  48  — 

Ladislao  del  resto  con  gesto  ben  atto  a  rilevare  di  fronte  all'av- 
versario  la  sua  superiorità  e  a  conciliarsi  la  simpatia  dei  sudditi, 
si  ripromise  nel  Novembre  del  1392  di  mettersi  personalmente  a 
capo  dei  suoi  eserciti  i. 

Nel  marzo  seguente  i  baroni,  i  conti  a  lui  fedeli,  si  raccolsero 
perciò  a  Capua,  con  tutte  le  loro  genti,  per  farne  mostra  e  conse- 
gna al  giovane  re  ^.  Esempio  unico  per  quei  tempi,  Ladislao  riu- 
sci in  tal  modo  a  formare  un  grande  esercito  nazionale.  Tutti  gli 
uomini  atti  alle  armi,  dimoranti  nei  paesi  ch'egli  via  via  si  as- 
soggettava, venivano  da  lui  arruolati  e  condotti  a  nuove  con- 
quiste^. Questo  fatto  insieme  al  valore  ch'egli  seppe  spiegare 
nei  campi  di  battaglia  valsero  a  procurargli  non  solo  la  devozio- 


diante  il  pagamento  di  30,000  fiorini  e  la  promessa  di  non  impugnare 
le  armi  per  il  tempo  di  10  anni  contro  i  Sanseverino.  (Cfr.  Ricotti, 
Storia  delle  compagnie  di  ventura  tn  Italia,  Torino,  1845,  voi.  II,  pg.  204; 
nota  n.  1). 

1  Ne  fìdeles  nostri — scrisse  LadzsZao  il  30  novembre  1392  ad  Anselmo 
Bergec,  suo  viceregente,  a  Giovanni  Acitillo,  uomo  d'armi  e  a  Baldassarre 
Caprese,  maestro  ostiario  —  graviora  dapna  defleant  et  turbo  vehemens 
ipsos  asperius  conquassent,  dlsposuimus,  deo  previo,  sub  cuius  favorem 
justam  causam  prosequamur,  persone  nostre,  quam  plusquam  singula 
cara  liceant,  quoquomodo  non  parcere  ac  estim  sudores  et  jemalis  algores 
aut  quorumcumque  laborum  sponte  ferendo  pondera,  ipsos  fideles  nostros, 
ab  omnis  pertubacionis  tedio,  relevare.  E  li  invita  a  raccogliere  quante  più 
genti  d'arme  fosse  possibile  e  di  condurle  poscia  nei  piani  di  Capua  ove 
sarebbero  state  sottoposte  a  rassegna  {Registri  Angioini,  n.  363,  e.  76). 

2  Ladislao  parti  da  Gaeta  e  si  recò  a  Capua  per  assumere  il  comando 
dell'esercito,  nel  Luglio  1393,  quando  avea  poco  più  di  16  anni.  L'autore 
dei  Diurnali  racconta  che  la  madre,  affidando  ai  capitani  il  giovane  re, 
disse  ;  «  signori  sappiate  che  ve  assigno  e  donove  in  mano  ad  vostra  peti-J 
clone  l'alma,  lo  spirito  et  la  speranza  et  tucto  lo  tesoro  palese  e  segreto 
mio  (pag.  44)  ». 

a  Re  Lansalao,  dice  l'autore  dei  Diurnali  (pg.  46),  mandò  coman- 
damento ad  Sexa,  a  la  Rocca,  ad  Tiano,  ad  Capua,  ad  Aversc  et  ad 
tucte  le  terre  de  sua  majesta,  che  ogni  homo  che  fosse  de  Napole,  che, 
dovesse  seguitare  in  campo  loro  signore  re  Lansalao  et  chi  non  ce  an»j 
dava  era  in  pena  de  tucto  lo  suo.  La  circolare  cui  accenna  il  cronista 
è  quella  forse  pubblicala  dal  Barone  (op.  cit.  pg.  730)  sotto  forma j 
di  regesto. 


—  49    — 

ne  dei  sudditi  ma  anche  1'  ammirazione  degli  altri  principi  d'  I- 
taliai. 

Lasciato  alla  madre  il  vicariato  di  Gaeta  ^  egli  si  recò  dappri- 
ma ad  Aversa,  che  riuscì  a  prendere  dopo  disperato  combatti- 
mento^, e  poi  a  Nocera  e  a  Salerno,  fugando  anche  da  questa 
città  i  fautori  dell'  avversario  *.  Nel  1394,  dopo  un  vano  tenta- 
tivo contro  la  capitale  si  recò  a  Roma,  per  liberare  il  papa  dalla 
sommossa  dei  Banderesi.  Raccontano  i  cronisti  che  se  Bonifacio 
fu  salvo,  ciò  avvenne  per  il  timore  che  nell'animo  dei  ribelli  pro- 
dusse la  presenza  in  Roma  di  Ladislao^.  Questo  rapido  ed  effi- 
cace intervento  fruttò  al  giovane  re  altri  sussidi  sia  in  armi  che 
in  danaro,  coi  quali,  tornato  nel  Regno,  potette  infliggere  al  du- 
ca di  Venosa,  che  spadroneggiava  in  Basilicata,  una  seria  scon- 
fìtta, e  dirigersi  contro  Aquila,  la  città  che,  dopo  Napoli,  era  il 
principale  baluardo  della  resistenza  angioina.  Ma  l'imponente 
esercito  di  cui  ormai  Ladislao  disponeva,  la  mancanza  di  soccorsi 
da  parte  di  Luigi,  indussero  gli  aquilani  ad  aprire  le  porte  della 
città,  ed  inalberare  sul  castello  la  bandiera  durazzese  ^. 


1  Dice  Angelo  di  Costanzo  (op.  cit.,  voi.  II,  pag.  155)  che  Ladi- 
slao «  con  la  fama  del  valor  della  persona  cominciò  a  ponere  più  spa- 
vento a'  nemici,  che  con  le  forze  dello  stato  ».  Vedi  anche  Ammirato, 
Vita  di  re  Ladislao,   pg.   115-16. 

*  Archivio   di   Stato   Napolatano,    Registri  angioini,  n.   363,  e.   173. 
3   Chronicon  Siculum,   pg.   113  ;  Diurnali,   pg.  45-6. 

*  Chronicon  Siculum,   pg.  114. 

*  «  Et  infra  questo  mese,  dice  V  autore  dei  Diurnali  (pg.  45-6),  re 
Lansalao  si  fa  forte  per  mare  e  per  terra  »  Da  Roma  egli  tornò,  se- 
condo la  testimonianza  del  medesimo  autore,  con  ricchi  doni,  fattigli 
dal  papa  e  dai  cardinali  e  specialmente  dal  cardinal  di  Firenze.  Ved. 
anche  :  Sozomeno,  op.  e  loc.  cit.,  1157  —  S.  Antonino,  op.  cit  III,  22 
cap.   3. 

"  A.  S.  F.  Signori,  Carteggio,  Missive,  reg.  XXIV,  e.  154  (Lettera  con- 
gratulatoria dei  fiorentini  del  3  settembre  1395).  La  presa  di  Aquila 
non  fu  però  definitiva.  Non  andò  guari  che  gli  aquilani,  ribellatisi  nuo- 
vamente, mentre  Ladislao  attendeva  alla  conquista  della  Calabria,  fe- 
cero strage  dei  durazzesi.  Aquila  rimase  l'ultimo  baluardo  angioino  nel 
Regno,  essendo  stata  definitivamente  sottomessa  solo  nell'  aprile  1401 
(ved.  nuova  lettera  congratulatoria  dei  fiorentini  a  Ladislao  del  6  mag- 
gio 1401,  in  Signori,  Carteggio,  Missive,  reg.  XXV,  e.  39).  Ladislao, 
pochi  mesi  dopo  la  definitiva  conquista,  investì  del  capitanato  di  Aquila, 
Anno  XLV.  4 


50  — 


Lo  scioglimento  della  lega  franco-viscontea  fu  una  vittoria 
indiscutibile  della  diplomazia  fiorentina.  Ma  al  Visconti  non  erano 
sfuggite  le  arti  sagaci  con  cui  i  fiorentini  erano  riusciti  ad  attra- 
versargli il  cammino.  Era  perciò  necessario  che  Firenze  si  tenesse 
bene  in  guardia  e  si  procacciasse  alleati  (ed  alleati  potenti)  per 
controbilanciare  le  forze,  contro  le  quali  presto  o  tardi  avrebbe 
dovuto  impugnare  le  armi.  Il  nome  del  re  di  Francia  tornò  allora 
con  maggiore  insistenza  ad  esser  pronunziato  nei  consigli  del  Co- 
mune. Ripugnava  però  sempre,  non  meno  che  negli  anni  prece- 
denti agli  oligarchi  fiorentini,  il  pensiero  di  dover  sottostare  alle 
eccessive  pretese  di  Francia.  Perciò  come  anche  per  evitare  ri- 
mostranze da  parte  di  Bonifacio  e  di  Ladislao,  pensarono  d'inta- 
volare trattative  d'alleanza  con  Sigismondo  d'Ungheria.  Il  ten- 
tativo fu  sollecitato  da  alcuni  oratori  inviati  a  Firenze  dai  ba- 
roni ungheresi,  i  quali,  dietro  la  morte  della  regina  Maria,  ave- 
vano affacciato  l'idea  d'offrire  a  Sigismondo  la  mano  di  Giovan- 
na, sorella  di  La  dislao.  Laproposta  fu  accolta  con  entusiasmo,  e 
con  speranza  di  poterla  mettere  in  esecuzione  senza  urtare  per- 
ciò il  re  di  Francia,  che  con  Sigismondo  era  in  relazione  d'amici- 
zia i.  Palmieri  Altoviti  e  Onofrio  Arnolfi  furono  per  questo  in- 
viati a  Roma.  Oltre  ad  esortare  il  papa  a  tenere  nel  Patrimonio  nel 
ducato  e  nella  Marca  un  cardinale  energico  ed  attivo,  per  evitare 
che  i  suoi  sudditi  passassero  ad  altri  signori,  essi  ebbero  per  com- 
pito di  ricordare  al  medesimo  «  che  una  di  quelle  cose  che  darebbe 
grandezza  e  stato  alla  Chiesa  e  alla  sua  Santità,  sarebbe  che  il 
Regno  di  Sicilia  avesse  riposo  e  venisse  nelle  mani  e  obbedientia 
del  re  Ladislao,  suo  figliuolo,  et  uno  dei  modi  a  fare  questo  sareb- 
be che  madama  Giovanna  sirocchia  del  detto  re  si  desse  per  sposa 
al  re  d'Ungheria,  di  che  seguirebbe  che  il  regno  d'Ungheria  rimar- 
rebbe pure  nella  reale  schiatta  di  Puglia  ;  et  il  re  Ladislao  collo 
aiuto  e  forza  degli  Ungheri,  riacquisterebbe  il  Regno  di  Sicilia,  e 


un  fiorentino  :  Andrea  dei   Vettori  (Signori,  Carteggio  etc,  reg.   cit.   e.  35, 
lettera   dell'S  settembre). 

^  A.  S.   F.,    Consulte  (10  settembre   1395). 


] 


—  51 


ridurrebbelo  alla  sua  obendientia  ^  ».  Era  la  solita  speranza  di 
veder  uniti  in  un  comune  accordo,  e  magari  sotto  un  unico  scet- 
tro i  regni  di  Napoli  e  d'Ungheria,  unione  alla  quale,  come  sap- 
piamo, i  fiorentini  avevano  altra  volta  indirizzato  la  loro  attività. 

Quasi  contemporaneamente  partirono  anche  ambasciatori  a 
Sigismondo  per  chiederlo  d'alleanza  ed  esortarlo  a  contrarre  il 
matrimonio  colla  figlia  di  Carlo  «  donna  bellissima  et  gratiosa 
et  nata  per  padre  et  per  madre  di  reale  schiatta  n^. 

Un'altra  ragione  che  stimolava  i  fiorentini  a  combinare  que- 
sto matrimonio  dipendeva  dalle  voci  correnti,  secondo  le  quali 
Ladislao  era  in  procinto  d'allearsi  col  duca  di  Baviera.  Questa 
alleanza  non  avrebbe  incontrato  la  loro  simpatia,  essendo  noto 
che  la  rivalità,  dapprima  esistente  tra  il  duca  di  Baviera  e  il  Vi- 
sconti, s'era  mutata  in  intima  amicizia^. 

Gli  oratori,  cosi  da  Roma  come  dall'  oriente,  ritornarono  però 
senza  aver  nulla  conchiuso.  Sembra  che  l'ostacolo  principale  si 
fosse  incontrato  in  Sigismondo,  il  quale  più  che  contro  il  Vi- 
sconti, era  acceso  d'inestinguibile  sdegno  contro  i  durazzesi. 

La  corte  francese  rimaneva  ancora  1'  unico,  inevitabile  rifu- 
gio *. 

Tuttavia  il  18  Maggio  1396  fu  stipulato  in  Firenze  un  accordo 
tra  il  Comune  e  ilVisconti,  nel  quale,  dopo  le  reciproche  promesse 
di  lealtà,  veniva  contemplato  il  caso  in  cui  un  principe  straniero 
fosse  sceso  in  Italia  contro  una  delle  parti.  Il  compromesso  sta- 
biliva in  tal  caso  che  tutti  gli  alleati  dovessero  correre  in 
aiuto  del  minacciato^. 

Tutto  ciò  serve  sempre  più  a  dimostrarci  lo  scarso  entusiasmo 
che  i  fiorentini  nutrivano  per  1'  alleanza  col  re  di  Francia  ;  e  la 
dura  necessità  che  li  costringeva,  loro  malgrado,  a  cercare  al  di- 
fuori d' Italia,  l'aiuto  necessario.  L'  esito  però  dei  negoziati  pre- 


'   Ved.   Appendice  di   docc.  n.   28. 

-  A.  S.  F.,  X  di  Balia,  Commissioni  etc,  reg.   2,  e.  23. 

'  G.  Romano,  G.  Galeazzo  Visconti  e  gli  eredi  di  Benabò,  Ice.  cit.,  pgg. 
291  sgg. 

*  D.  Filippus  Corsinis  dixit  :  et  quod  cum  diligentia  manuteneaUir 
benivolentia  regis  Francie  per  omnem  modum  (Consulta  del  26  novem- 
bre 1395) 

*   Intorno  a  questo  trattato  cfr  :  Jarry,  Les  origines  etc,  pg.  29C-7 


—  52  — 

cedenti  faceva  nutrire  poche  speranze  anche  per  quest'  ultimo 
patto.  I  fiorentini  l'avevano  concluso  senza  farsi  troppe  illusioni 
e  senza  richiamare  perciò  i  loro  oratori  da  Parigi.  Da  parte  sua  il 
Visconti,  come  chiaramente  dimostra  il  suo  successivo  contegno, 
aveva  avuto  di  mira  più  che  la  pace,  il  tentativo  d'intorbidare  le 
relazioni,  divenute  amichevoli,  di  Firenze  col  re  di  Francia.  Egli 
infatti  continuò    a  prestare  il  suo  appoggio,  anche  armato,  ai 
fuorusciti    fiorentini  che  tramavano  contro  il  governo   dell'oli- 
garchia ;  non  si  preoccupò  della  promessa  fatta  di  cedere  i  ca- 
stelli che  aveva  occupato  in  Toscana  e  nella  Romagna  ;  e,  lungii 
dal  decimare,  accrebbe  il  numero  degli  armati  che  aveva  ai  suo^ 
stipendi  ^.  Pur  tuttavia,  persino  nel  Luglio,  l'intenzione  dei  fio- 
rentini era  d'evitare  laguerra,  e  dirichiamare  il  Visconti  all'osser- 
vanza dei  patti.  A  questo  scopo  cercarono  di  persuadere  ilucchesi,i 
il  cui  territorio  era  continuamente  molestato  dalle  genti  viscon-| 
tee,  a  pazientare,  fino  a  che  ogni  speranza  nel  vigore  dei  patti,  noni 
fosse  del  tutto  svanita  2.  Ma  quando  l' Appaiono,  amico  del) 
Visconti  e  da  lui  sobillato,  manifestò  apertamente  la  sua   inten-j 
zione  di  volere  invadere  il  territorio  del  Comune,  quando  Gian] 
Galeazzo,valendosi  appunto  del  compromesso  firmato  nel  Maggio,| 
cercava  di  far  insinuare  nell'animo  del  re  di  Francia  la  diffìdenzì 
contro  l'odiata  Firenze,  ogni  riluttanza  fu  bandita,  gli  oratori  fio- 
rentini, dimoranti  a  Parigi,  ebbero  subito  il  mandato  di  affrettare 
col  re  di  Francia  le  trattative  e  stabilire  con  lui  i  patti  dell'allean- 
za ^.  Invano  il  Visconti,  valendosi  delle  sue  alte  aderenze  nelh 
corte  parigina  tornò  nuovamente  a  divulgare  false  notizie  circi 
l'azione  degli  oligarchi  nel  Regno  di  Napoli  *;  le  sue  mene  que-j 
sta  volta  trovarono  un  insormontabile  ostacolo  nella  rete  di  lu- 
singhe e  di  accordi  ordita  dagli  oratori  fiorentini. 

L'opera  loro  era  stata  facilitata  dalla  regina  Elisabetta,  il  cui 
odio  contro  il  signore  di  Milano  era  sempre  vivo. 


»  Consulte  del  Giugno  e  Luglio   1396.    X  di  Balia,  Commissioni,  reg.j 
2,  e.  23. 

*  Ivi,    Consulta   del   21   luglio. 
'   Ivi,   Consulte   del  2  e  del  5  Agosto;    X  di   Balia,    Commissioni  etc, 

reg.  2,  ce.  48,  49,  50,  52. 

*  Ved:   Append.  di  docc.  n.    30. 


53  — 


A  differenza  di  quanto  era  successo  negli  anni  precedenti  ave- 
vano per  questo  avviato  le  pratiche  verso  una  conclusione  ra- 
pida e  dignitosa.  Le  prime  condizioni,  proposte  da  re  Carlo,  non 
furono  più  oltre  ri  presentate.  Il  29  settembre  1396  tutto  era  com- 
piuto. Firenze  con  grande  entusiasmo  e  soddisfazione  riuscì  a  fir- 
mare i  capitoli  dell'alleanza  anche  a  nome  dei  suoi  alleati  i. 

La  notizia  dell'alleanza  franco-fiorentina,  divenuta  presto  di 
pubblico  dominio,  destò  dovunque  e  specialmente  a  Roma,  a 
Gaeta  e  a  Venezia  grandi  preoccupazioni.  I  veneziani,  rimasti 
fedeli  alla  curia  romana,  temevano  che  i  francesi  avessero  tro- 
vato nell'oligarchia  fiorentina  il  consenso  e  l'appoggio  per  attua- 
re la  loro  impresa  in  Italia.  Questi  sospetti,  comuni  in  tutti  i  se- 
guaci di  Bonifacio,  tennero  per  un  momento  gli  animi  sospesi  ed 
agitati.  Ma  Firenze  si  afi"rettò  a  giustificare  in  quasi  tutte  le  corti 
d'Italia  la  sua  condotta,  e  ad  annunziare  «  nella  detta  lega  espres- 
samente si  contiene  non  essere  né  volere  essere  i  fiorentini  obbli- 
gati a  fare  alcuna  cosa  contro  alla  sancta  Chiesa,  ne  contro  al  pa- 
pa, né  contro  ad  alcuno  disceso  di  Carlo  conte  d'Angiò  e  poi  re  di 
Sicilia  che  é  il  re  Ladislao,  si  che  è  tutto  il  contrario  di  quello  che 
per  gli  malivoli  si  va  seminando  ».  Se  colpa  si  volesse  riscontrare 
in  quest'aver  cercato  oltr*alpi  la  forza  necessaria  pel  salvaguar- 
dare i  proprii  interessi,  questa  doversi  tutta  riversare  sul  duca  di 
Milano,  il  quale  aveva  con  ogni  mezzo  cercato  e  cercava  tuttavia 
d'inimicare  ai  fiorentini  i  reali  di  Francia  2.  Noi  —  dicono  i 
Signori  a  uno  dei  numerosi  oratori  inviati,  a  più  riprese,  presso 
Bonifacio — abbiamo  avuto  cara  la  lega  più  per  apparenza  che  per 
cxistentia  ^.  E  più  tardi,  quando  fu  manifesto  come  il  re  di 
Francia  cercava  d'eludere  quella  parte  del  trattato  che  l'obbli- 
gava a  scendere  in  campo  contro  il  Visconti,  i  medesimi  oligarchi 


^  Per  più  ampie  notizie  intomo  a  quest'alleanza,  ved.  l'opera  ci- 
tata  del  Jarry,  Les  origines  etc,    pg«   191   sgg. 

'  Ved.  informazione  agli  oratori  inviati  a  Venezia  :  Niccolò  da  liz- 
zano e  Antonio  da  Lapaccio  (A.  S.  F.,  X  di  Balia,  Commissioni  etc, 
reg.  2,  e.   82   r). 

^  Ved.  Informazione  a  Leonardo  Frescobaldi  (Ivi,  reg.  cit.,  e.  70). 
Sempre  per  l'identico  scopo  Firenze  inviò  oratori  al  papa  anche  il  13 
luglio  1397  (Ivi,  Signori,  Legazioni,  Conunissioni  e  lettere  d'oratori,  reg.  I, 
e.  89  r.). 


—  54  — 

incaricarono  gli  oratori,  residenti  a  Roma,  a  ricordare  al  papa  e  a 
Ladislao  «  dalla  detta  lega  di  Francia,  non  bisogna  ne  faccino  sti- 
ma, sì  perchè  tosto  finisce,  si  perchè,  noi  per  quella  lega  non  ab- 
biamo a  fare  né  contro  al  papa  né  contro  al  re,  si  perchè  siamo  di- 
sposti vivere  e  morire  taliani  et  lasciare  andare  Francia  et  ogni 
altro  per  conservatione  di  questo  i». 

Ladislao  del  resto  non  ebbe  che  a  giovarsi  del  nuovo  orienta- 
mento della  politica  viscontea,  seguito  al  trattato  di  Parigi  2. 
Gian  Galeazzo  che,  come  sappiamo,  era  sempre  stato  francesiz- 
zante in  politica  e  fautore  nel  Regno  della  causa  angioina,  trovò 
da  allora  in  poi  il  suo  tornaconto  a  rivolgersi  verso  quel  gruppo 
di  forze  che  faceva  capo  a  Bonifacio  e  che  mirava  a  neutralizzare 
le  ambizioni  dei  francesi  in  Italia^.  Sin  da  quando  si  erano  ma- 
nifestate le  prime  gelosie,  così  abilmente  fomentate  dai  fiorentini  e 
che  avevano  avuto  per  effetto  lo  scioglimento  della  sua  lega  col 
re  di  Francia,  egli  aveva  cominciato  a  dar  segni  manifesti  del  nuo- 
vo orientamento.  Nell'ottobre  1394,  quando  le  prime  vittorie  di 
Ladislao  gli  avevano  fatto  chiaramente  intravedere  lo  stato 
vero  degli  avvenimenti  napoletani,  egli,  pieno  d'ammirazione, 
non  meno  che  gli  altri  principi  e  popoli  d'Italia,  per  la  giovanile 
audacia  di  cui  il  figlio  di  Carlo  dava  visibile  prova,  gli  aveva  in- 
viati doni  ricchi  ed  augurali  *.  Di  poi,  alla  vigilia  possiamo  dire 
del  trattato  franco-fiorentino,  promise  al  giovine  re  di  aiutarlo 
nella  conquista  del  Regno,  in  cambio  di  una  benevola  accondi- 
scendenza verso  l'impresa  ch'egli  intendeva  compiere  contro  gli 
aragonesi  di  Sicilia  ^Nessun  documento  ci  attesta  se  G.  Gaelazzo 

»  Ivi,  Signori,  Legazioni,  etc,  reg.  Ili,  e.  17  v.o  (lettera  agli  ora- 
tori fiorentini  dimoranti  a  Roma) 

2  Filippo  Corsini  nella  consulta  del  19  gennaio  1397  aveva  perciò 
insistito  «  quod  pape  et  Ladislao  responsio  fiat  declarando  ecxeptio- 
nes  lige.» 

3  G.   Romano,    /  Visconti  e  la  Sicilia,    pg.   33-4. 

*  «  E  in  questo  dì  (26  dicembre  1394),  dice  l' autore  dei  Diurnali 
«  (pag.  45)  lo  duca  di  Milano  manda  a  re  Lansalao  uno  bello  presente 
«  d'arme  per  una  persona  et  per  altri  ;  per  lui  manda  una  bella  co- 
«  racza  coperta  di  panno  d'oro  et  una  altra  scoperta  ;  panzere  d'azaro, 
«  una  dozana  di  chianetti  et  dui  quarnimenti  d'argento  molto  reale,  et 
«  vennero  a  lo  bisogno.  » 

*  G.  Romano,  /  Visconti  e  la  Sicilia,   pg.  35-6. 


—  55  — 

abbia  oppur  no  mantenuta  la  promessa,  ma  il  solo  fatto  dell'aver 
egli  rotto  ogni  relazione  amichevole  coll'angioino,  legato  agli 
aragonesi  di  Sicilia  di  vincoli  sia  di  sangue  che  d'interesse,  era 
già  un  aiuto  di  non  lieve  portata.  E  cosi,  mentre  i  legami  dell'al- 
leanza franco-viscontea  si  rallentavano  e  si  gettavano  le  basi 
di  quella  franco-fiorentina,  G.  Galeazzo,  senza  contrarre  alcuna 
alleanza,  era  costretto  dalla  forza  stessa  degli  eventi  a  schie- 
rarsi palesemente  contro  i  suoi  vecchi  alleati. 

I  fiorentini  però,  sebbene  soddisfatti  della  piega  che  avevano 
assunta  gli  avvenimenti  del  Regno,  non  potevano  tuttavia  guar- 
dare con  occhio  tranquillo  alle  nuove  relazioni  di  Ladislao.  Nel 
giro  di  pochi  anni  le  cose  erano  radicalmente  cambiate  e  ciò  che 
precedentemente  avevano  con  ardore  patrocinato,  cercano  ora 
con  eguale  impegno  d'impedire.  Avvertiti  perciò  eh'  erano  in  vi- 
sta delle  pratiche  di  matrimonio  tra  la  sorella  di  Ladislao  e  Gio  van 
Maria  Visconti,  si  adoperarono  presso  il  papa  in  senso  ostile  ^  ; 
e,  conosciuti  gli  accordi  stabilitisi  tra  Ladislao  e  G.  Galeazzo  in- 
torno all'asilo  nei  porti  del  Regno  alle  navi  viscontee,  dirette  ver- 
so la  Sicilia,  si  proposero  di  far  comprendere  al  giovane  re  quan- 
to fosse  imprudente  contrarre  degli  impegni  con  chi  ambiva  di- 
venire padrone  d' Italia  tutta  2.  Desiderosi  di  raggiungere  l' in- 
tento, non  rifuggirono  da  una  specie  di  ricatto  :  siccome  infatti 
Ladislao  aveva  di  recente  chiesto  loro  un  mutuo,  promisero  pur 
nelle  disagiate  condizioni  finanziarie  in  cui  versavano  e  senza  far- 
si scrupolo  della  neutralità  più  volte  giurata,  di  insinuare  nell'ani- 
mo del  re  «quod  cum  papa  fiet  ita  quod  habebit  intentionem 
suam  »,  se  egli  però  non  si  fosse  prestato  a  concedere  asilo  alle 
navi  viscontea 

Se  a  questa  promessa  fossero  corrisposti  i  fatti,  si  sarebbe  ri- 
petuto ciò  che  era  avvenuto  durante  la  lotta  tra  Luigi  I  d'Angiò 
e  Carlo  III  di  Durazzo,  quando  l'Acuto,  a  nome  del  papa,  ma  al 
soldo  dei  fiorentini,  aveva  contribuito  alla  consolidazione  dei 
durazzesi  *.  L'ora  però  che  Firenze  attraversava  non  era  para- 

^  A.  S.  F.,   Signori    Legazioni,   Commissarie  ctc,    reg.    I,   e.    160. 
lettera  agli  oratori  dimoranti  a  Roma). 
-   Ivi,    Consulta  del  9   maggio   1396. 
»   Ivi,   Consulta  del    10  maggio  1306. 
*   Temple-Leader-Marcotti,  op.  cit.  pg.    141-3. 


—  56  — 

gonabile  a  quella  della  prima  discesa  angioina;  e  ogni  passo  inav- 
veduto, ogni  atto  che  avesse  potuto  far  nascere  dei  sospetti,  po- 
teva avere  le  più  gravi  conseguenze.  Ladislao  inoltre,  come  di- 
mostra il  suo  crescente  attaccamento  alla  corte  pavese,  non  si 
curò  delle  pressioni  fiorentine,  e  permise  alle  navi  viscontee  di 
molestare  la  Sicilia  dai  porti  occidentali  del  Regno.  Abbiamo 
quindi  ogni  ragione  di  credere  che  il  mutuo  non  fu  mai  effet- 
tuato. 

Ai  fatti  del  Regno  i  fiorentini  avevano  del  resto  provve- 
duto, e  non  senza  premeditato  consenso,  negli  stessi  capitoli  del 
trattato  di  Parigi.  CoH'escludere  infatti  dal  numero  dei  comuni 
nemici,  contro  i  quali  era  stata  stipulata  l'alleanza,  qualsiasi  di- 
scendente di  Carlo  I  d'  Angiò,  gli  alleati  s'impegnavano  a  non 
impacciarsi  più  oltre  della  contesa  esistente  tra  durazzeschi  e  an- 
gioini ^.  Sia  Luigi  che  Ladislao  rimanevano  così  privati  di  ogni 
soccorso  che  poteva  loro  pervenire  dalla  Francia  o  dai  fiorentini; 
ma,  mentre  per  il  primo  questo  fatto  costituiva  la  remozione  della 
sorgente  di  rifornimento  che  sino  a  quel  momento  era  stata  una 
delle  principali,  per  non  dir  l'unica  delle  sue  risorse,  per  l'altro 
invece  non  rappresentava  che  la  continuazione  di  una  politica 
neutrale  che  da  più  di  un  lustro  Firenze  aveva  dovuto  adotta- 
re 2.  Né  i  contraenti  ebbero  in  seguito  occasione  di  farsi  la 

1  I  capitoli  della  lega  franco-fiorentina  sono  pubblicati  dal  Lunig, 
Codex  dìplomatieus  Italiae,  Francoforte,  1725,   t.    I,  col.   1103-1112. 

2  Osserva  il  Collino,  La  preparazione  della  guerra  veneto -viscontea  con- 
tro i  Carraresi,  pg.  30,  etc,  che  Carlo  VI  di  Francia  ebbe  poco  entu- 
siasmo per  l'impresa  di  Luigi  II  d'Angiò  nel  Regno.  L'osservazione  non 
mi  sembra  però  confermata  dai  documenti.  Luigi  II  infatti,  date  le  sue 
tristi  condizioni  finanziarie,  non  potette  recarsi  in  Italia,  né  spedire  le 
sue  truppe,  se  non  dopo  aver  ricevuto  dal  re  di  Francia  300.000  fio- 
rini, che  uniti  al  denaro  che  aveva  ricavato  dall'università  de'  proven- 
zali, dal  ducato  d'Angiò  e  dal  re  d'Aragona,  gli  procurarono  quei  pochi 
successi  che  seguirono  alla  sua  entrata  nel  regno.  Noti  sono  anche  i 
tentativi  fatti  da  Carlo  VI  per  acquistare  a  Luigi  l'appoggio  dei  ba- 
roni napoleiani,  del  conte  di  Virtù,  del  Comune  di  Genova  e  di  Pisa 
(Cronicon  Siculum,  pg.  85-6),  per  impedire  il  matrimonio  di  Costanza 
Chiaramonte  con  Ladislao  {Diurnali,  pg.  37;  Cronicon  Siculum,  pg.  87  e 
note  del  De  Blasiis)  e  per  impedire,  come  abbiamo  visto,  che  Firenze 
uscisse  dalla  promessa  neutralità.  E'  vero  peraltro  che  negli  anni  corsi 
tra  il  1390  e  la  stipulazione  della  lega  franco-fiorentina,  il  re  di  Fran_ 


I 


—  57  — 

minima  rimostranza  sulla  violazione  di  questa  parte  del  com- 
promesso. Solo  nel  Gennaio  dell'anno  seguente,  Carlo  VI,  aven- 
do ormai  abbandonata  ogni  speranza  nell'impresa  angioina,  pro- 
pose agli  alleati  di  accordare  i  competitori  mediante  l'assegna- 
zione a  ciascuno  di  loro  di  una  parte  del  Regno  ^.  Ma  a  Fi- 
renze il  cui  scopo  era  sempre  stato  di  evitare  ogni  frazionamento 
di  potere  nelle  provincie  napoletane,  si  oppose  energicamente, 
adducendo  l'obbligo  del  completo  disinteresse. 

La  situazione  dell'angioino  si  andò  in  tal  modo  aggravando  ; 
la  morte  di  Clemente  VII  (Settembre  1397)  cui  successe  quella  di 
Maria  di  Blois  (Luglio  1398)  la  resero  insosl  enibile,  mentre  Carlo 
VI,    fedele  ai  patti,  non  osò  più  oltre   rialzarla. 

Senza  troppo  preoccuparsi  di  Luigi  e  delle  sue  forze,  Ladislao 
continuò  ora  a  trattare  ora  a  combattere  coi  feudatari.  Nel  Giu- 
gno del  '96,  assoggettò  i  contadi  e  i  baronati  del  Molise  e  del 
Principato  ;  nell'Ottobre  seguente  inflisse  una  decisiva  sconfitta 
al  conte  di  Tricarico,  principale  signore  di  Basilicata,  che,  colto 
il  momento  in  cui  Ladislao  era  nelle  parti  d'Abruzzo,  era  pene- 
trato nel  Principato,  al  di  qua  di  Sorrento  e  aveva  assediato  Sa- 
lerno 2.  Più  lunga  e  accanita  fu  la  lotta  che  dovette  sostenere 
contro  il  conte  di  Caserta;  Iniziata  sui  primi  anni  del  '97,  essa  fu 
troncata  da  una  tregua  nell'Aprile  dell'anno  successivo,  tregua 
cui  fece  seguito  a  pochi  giorni  di  distanza  la  pace  definitiva  ^ 

Con  queste  vittorie,  annunziate  una  per  una  alla  Repubblica 
fiorentina,  come  a  colei,  che,  pur  essendo  alleata  del  re  di  Francia, 
non  poteva  non  provarne  un  intimo  compiacimento,  Ladislao  riu- 


cia  non  ebbe  agio  apparentemente  di  occuparsi  del  Regno,  compreso 
com'era  dei  disegni  ch'aveva  in  animo  di  presto  effettuare  nello  stato 
pontifìcio  ;  ma  non  era  dubbio  che  dall'effettuazione  di  questi  disegni 
sarebbe  necessariamente  derivata  la  disfatta  di  Ladislao,  e  questo  era 
sufficiente  per  tener  desta  la  speranza  di  Luigi  nell'  opera  del  re  di 
Francia.  Se  quindi  si  può  parlare  di  poco  entusiasmo  francese  nella 
seconda  lotta  tra  durazzeschi  e  angioini  ,  questo  non  si  deve  dire  che 
del  tempo  seguito  alla  lega  franco- fiorentina. 

'   A.  S.  F.,   Consulta  del  9  gennaio   1387  (parole   di  Filippo  Corsini). 

2  Ved.   Appendice  di  docc,  n.  29,  e  31. 

'  Archivio  di  stato  napoletano,  Reg.  Ang.,  d.  363,  e.  5;  e  Rainaldi, 
op.  cit.,   1   giugno   1398. 


—  58  — 

sci  ad  afTermare  il  suo  incontrastato  dominio  sulla  parte  più  ricca 
del  Regno. 

Restava   la    capitale,    ove   a   incoraggiare   la   resistenza  si 
era  recato  dalla  Provenza  Carlo  d'Angiò,  fratello  di  Luigi.  Ma  le 
vittorie  di  Ladislao  avevano  ormai  scossa  la  fiducia  e  la  speran- 
za che  la  fazione  angioina  aveva  riposto  nel  suo  signore.  La  pre- 
senza in  Napoli  del  sire    di  Mongiò,  il  quale,  come  sappiamo, 
era  stato   insignito  della  carica  di  gran   giustiziere,  continuava] 
ad  esser  mal  tollerata  dai  baroni  e  specialmente  dai  Sanseverino.< 
Re  Luigi  cercò  di  rimediare  a  questo  malcontento  spogliando  il| 
Mongiò  delle  sue  alte  mansioni  e  dandogli  lo  sfratto  dal  Regno  ^. 
Ma  era  ormai  tardi.  I  baroni  con  a  capo  i  Sanseverino,  desiderosij 
di  por  fine  alle  continue  guerre,  decisero  di  prestare  al  più  forte] 
il  loro  omaggio,  e,  indotto  Luigi  a  recarsi  a  Taranto  con  una  par- 
te delle  sue  milizie,  aprirono  a  Ladislao  le  porte  di  Napoli 
La  notizia  fu  accolta  in  Firenze  con  quel  vivo  entusiasmo  che  suc-| 
cede  a  un'alterna  vicenda  tra  la  speranza  e  il  timore  ^  Nessuno^ 


^  Racconta  l'autore  dei  Diurnali,  pg.  48  che  il  sire  di  Mongiò,  la-1 
sciata  Napoli,  si  recò  a  Gaeta  ove  fu  onorato  da  Ladislao,  e  di  là  passò| 
poi  ai  servizi  del  duca  di  Milano. 

»  A.  S.  F.,  Consulta  del  19  luglio  1399  (reg.  XXXIV,  e.  2).  Intorno| 
al  tradimento  dei  Sanseverino  vedi  Delello,  op.  cit.,  pg.  385  ;  Bonin-| 
CONTRO,  Historia  (ms.  cit.)  e  Diurnali  pg.  49-50.  Angelo  di  Costanzo,! 
sulla  scorta  della  cronaca  di  Pietro  Umile  di  Gaeta,  ora  smarrita,  nonj 
crede  al  tradimento  dei  Sanseverino,  e  afferma  invece,  che  la  guarni- 
gione angioina,  rimasta  a  Napoli,  fu  costretta  a  cedere  perchè  Albericc 
di  Barbiano  la  teneva  cinta  di  strettissimo  assedio  (op.  cit.,  voi.  Ili, 
pgg.  22-3.  In  quel  tempo  però  Alberico  di  Barbiano  era  ai  servizi  delj 
Visconti  (F.  Giorgi,  op.  cit.,  pg.  120-21).  Oltre  a  ciò  che  la  città! 
di  Napoli  abbia  fatto  atto  volontario  di  sottomissione  a  Ladislao  senza! 
essere  ridotta  ancora  in  condizioni  disperate,  risulta  dalla  lettera  conj 
cui  Margherita  informava  i  fiorentini  del  lieto  avvenimento.  (Ved.  Ap- 
pendice di  docc.  n.  32). 

'  Ved.   Consulta  cit.   del   19  luglio  e  Guasti,   Commissioni  di  Rinaldo 
degli  Albizzi,  in  Docc.  di  storia  italiana,  voi.  I,  pg.  5.   Portatore   della  no-^ 
tizia  fu  Giovanni  Orsini,  il  quale  era  già  a  Firenze  il  19  Luglio.  I  Si- 
gnori gli  donarono  un  cavallo,  argenterie  e  drappi  fini,  per  cui  fu  im-j 
posto  ai  camerlenghi  della  Camera  di  pagare  730  fiorini  d'oro,  9  lire 
e  16  soldi  {Provvisione  del    19  settembre  1399).   Per  l'alloggio   e  il  vitt( 
che  gli   furono    offerti  il    Comune  spese  la  somma  di  lire  910  e  soldi  111 
(Provvisione  del  27  novembre). 


—  59  — 

scrupolo  si  fecero  i  Signori  della  lega  col  re  di  Francia,  ancora  in 
vigore,  ma,  come  fosse  stata  una  loro  vittoria,  ordinarono  solen- 
ni funzioni  religiose  e  imposero  nuove  prestanze  «  in  subsidium 
regis  »  ;  e  stabilirono  di  inviare  a  Napoli  una  solenne  ambascia- 
ta, composta  d'  uomini  «  ad  gradum  militie  assumendi  ^  »  Luigi 
II,  accortosi  del  tradimento,  si  vide  perduto  e  non  ebbe  neppure 
il  coraggio  di  tentare  la  rivincita.  Invano  i  suoi  amici  cercarono 
di  accendere  in  lui  l'ardore  della  difesa,  affacciandogli  nella  men- 
te le  sofferenze  e  la  costanza  di  Margherita  e  di  Ladislao.  Egli, 
che  temeva  di  cader  vittima,  come  il  padre,  di  quel  fatale  desti- 
no, che  aveva  fatto  credere  a  molli  come  la  Puglia  fosse  desti- 
nata a  esser  tomba  degli  angioini,  partì  da  Taranto,  dirigendosi 
per  mare  verso  la  Provenza. 

Presso  Ischia  trattò  con  Ladislao  per  la  cessione  di  Castelnuo- 
vo  e  la  liberazione  di  Carlo.  Sembra  però  che  i  primi  negoziati 
fossero  falliti.  A  differenza  di  Luigi,  Carlo  si  mantenne  ancora 
sulla  breccia  e  non  cedette,  sebbene  poca  speranza  di  vittoria  gli 
arridesse,  se  non  nel  Marzo  dell'  anno  successivo  ^. 

Ladislao  potè  cosi  ora  colle  armi,  ora  colle  trattative  diplo- 
matiche, guadagnarsi  l'ubbidienza  di  tutti  i  sudditi  ;  e,  quando 
le  condizioni  interne  dello  stato  glielo  permisero,  spingere  lo 
sguardo  anche  al  di  fuori  dei  confini  che  gli  erano  comunemente 
riconosciuti. 


1  Ved.  Provvisione  del  26  Agosto  1399;  Bonaccorso  Pitti,  op.  cit., 
pg.  Ili  ;  P.  BoNiNSEGNi,  op.  cit.,  pg.  751  ;  Minerbetti,  op.  cit., 
col.   406. 

»  Angelo  di  Costanzo  non  accenna  a  questa  eroica  resistenza  di  Carlo; 
anzi,  dopo  aver  parlato  della  fuga  di  Luigi  da  Taranto,  aggiunge  che 
Carlo,  comprata  la  libertà  per  consiglio  del  fratello  colla  cessione  di 
Castel  Nuovo,  ritornò  anche  lui  in  Provenza  (op.  cit.,  voi.  Ili,  pg.  26).  Che 
però  Luigi  avesse  abbandonato  il  Regno  sin  dal  Luglio  del  1399,  mentre 
Carlo  continuava  ancora  a  resistere,  risulta  dalla  lettera,  riportata  in 
appendice  (n.  32)  di  Margherita  ai  capitani  di  Parte.  La  pertinace  re- 
sistenza di  Carlo  è  attestata  anche  in  una  lettera  di  Ladislao  ai  Signori 
del  21  marzo  1401  (appendice  di  docc.  n.  33)  ;  e  dalla  risposta  dei  Si- 
gnori, seguita  il  6  del  mese  successivo.  A.  S.  F.  Signori,  Carteggio,  Mis- 
sive, reg.  XXVIII,  e.  34  v.o),  nella  quale  ultima  è  detto  che  i  Fiorentini 
non  avevan  creduto  compiacersi  prima  della  definitiva  vittoria  «quoniam 
remanserat  non  parvus  continue  scrupulus  suspicionis,  Castrum  Novum, 


—  60  — 

Oggetto  sino  a  questo  momento  di  tutte  le  cupidigie,  di  tutte 
le  ambizioni  straniere,  il  mezzogiorno  d'Italia,  diventa  con  lui 
un  centro  d'espansione,  il  punto  di  partenza  non  il  termine  delle 
avidità  dinastiche.  Firenze,  che  sino  alla  fuga  precipitosa  dell'an- 
gioino aveva  guardato  a  Ladislao  come  all'oggetto  delle  sue  cure 
e  della  sua  tutela,  vede  ora  che  è  giunto  il  momento  di  richiedere 
da  lui,  in  segno  di  gratitudine,  il  valido  concorso  nella  vicende 
che  travagliavano  l'Italia  settentrionale^.  Ma  due  e  più  anni  di 
trattative  non  valsero  a  farle  conseguire  l'intento  desiderato. 
Essa  che  non  ignorava  i  buoni  rapporti  esistenti  tra  Ladislao  e 
la  biscia  viscontea,  se  ne  insospettì,  e  i  sospetti  si  tramutarono 
in  vivi  timori,  quando,  morto  Gian  Galeazzo,  sorse  inaspettata  e 
minacciosa  per  i  Comuni  d'Italia  la  potenza  di  Ladislao. 


continua 


A.  Mancarella 


quod  adhuc  valido  presidio  per  adversarium  tenebatur  »  e  che  sino  a 
quel  momento  erano  stati  in  continua  apprensione  «  quiduam  esset  illius 
resistertie  pertinacia  paritura  ». 

^  A.  S.  F.  Signori,  Legazioni  e  Commissarie,  reg.    II,  ce.  13,  16  (Istru- 
zione agli  Oratori  fiorentini  destinati  a  Bologna)  ;  reg-  III,  ce.  13, 17  etc. 


GLI    STATUTI 
DELL^ARTE  DELLA  SETA  IN  NAPOLI 

IN  RAPPORTO   AL    PRIVILEGIO    DI   GIURISDIZIONE 


(da  documenti   inediti) 
(contin.  e  fine:  v.  voL  prec.  pp.  157-190) 


Pochi  anni  dopo,  il  6  gennaio  1483,  il  re  ordinò  la  pubblicazione 
per  mezzo  dei  trombetti  e  dei  banditori  di  un  altro  bando  in  cui 
si  ripetevano  molte  cose  già  dette  nei  precedenti,  specialmente 
circa  quanto  riguardava  la  immunità  e  le  franchigie  concedute  ^. 

Si  parla  in  esso  di  altri  capitoli  pubblicati  di  recente,  dei  quali 
non  mi  è  riuscito,  però,  di  trovar  traccia.  Ma,  con  qualche  fon- 
datezza, si  può  argomentare  che  si  alluda  ai  capitoli  dati  il  28 
dicembre  dello  stesso  anno  1483,  che  esporrò  tra  poco. 

Questo  bando  pare  sia  stato  pubblicato,  più  che  altro,  per  esten- 
dere le  impunità  e  i  privilegi  anche  ai  tintori  che  fino  a  quest'epoca 
non  costituivano  una  vera  e  propria  classe  tra  gli  operai,  secondo 
se  costuma  fare  in  tucte  le  cita  et  lochi  in  li  quali  se  opera,  et  fa  dieta 
Arte. 

Certo,  però,  il  provvedimento  dovette  esser  dettato  dal  bisogno 
di  buoni  maestri  tintori  in  numero  sufficiente  a  rispondere  alle 
esigenze  della  produzione  di  tessuti  di  seta  che  già  cominciava 
ad  esser  grande.  Così,  oltre  le  franchigie  doganali,  si  ripete  nel 
bando  la  impunità  conceduta  non  solo  per  tutti  i  delitti  commessi 
fuori  dal  regno,  ma  anche  per  quelli  commessi  nelFinterno,  insieme 
al  diritto  di  farsi  giudicare  dal  tribunale  deir  Arte  e  non  da  altro. 

Dello  stesso  tenore,  per  quanto  più  estesi  e  di  indole  più  generale, 
sono  i  capitoli  che  portano  la  data  del  28  dicembre  1483  ^. 

^  «  Danno  et  comandamento  per  parte  del  Serenìssimo    et  Illustrissimo 

«  Sig.re  Rè  D.  Ferrando  per  la  Divina  Gratia  Rè  di  Sicilia  etc 

«  Datum  in  Castello  Novo  Givitatis  Neapolis  die  VI  Januarii  anno 
«  MCGCGLXXXIII  ». 

^  «  Capituli  Acti,  et  conventione  inìti,  et  firmati  tra  la  Majestà  delo 
«  Sig.re  Rè  ex  una,  et  li  Maestri  et  Mercatanti,  quali  sanno  fare  seta  et  oro 

«in  la  Gita  de  Napoli Expedita  fuerunt  praesentia  Capitula  in  Castello 

•  Novo  Neapolis  die  XXVIII  Decembris  Anno  D.ni  MCCCCLXXXIII  ». 


—  62  — - 

Per  essi,  alle  franchigie  già  concedute,  s'aggiunse  il  diritto  di 
non  pagar  nessuna  gabella  per  la  tintura  dei  drappi,  per  la  loro 
vendita  o  esportazione  e  per  Tintroduzione  nella  città  di  tutte  le 
cose  necessarie  al  buon  andamento  delFArte,  come  colori,  attrezzi 
etc,  che  fosse  necessario  far  venire  dalla  Calabria  o  da  altri  paesi 
del  regno,  o  dall'estero.  E  si  estesero  la  impunità  e  i  diritti  di 
giurisdizione  privilegiata  anche  ai  maestri  tintori. 

Di  questo  documento,  che  non  contiene  se  non  la  ripetizione 
di  quanto  si  era  già  detto,  possiamo  spiegarci  l'esistenza  con  l'ipo- 
tesi che  i  maestri  dell'Arte  ne  avessero  preteso  la  redazione  per 
richiamare  in  vigore  qualcuno  dei  privilegi  o  delle  concessioni 
ottenute,  e,  di  più,  per  estendere  ?nche  ai  tintori  i  benefici  con- 
tenuti nei  precedenti  capitoli. 

In  tal  caso  mi  par  logico  pensare  che  la  data  apposta  in  calce 
non  sia  esatta,  o  che,  almeno,  non  sia  esatta  quella  del  bando 
innanzi  esaminato  (6  gennaio  1483)  che  dovette  forse  essere  po- 
steriore a  questo  e  portar  la  data  del  6  gennaio  1484. 


.*♦ 


Di  genere  affatto  diverso  è  un  documento  che  contiene  un  or- 
dine del  re  ai  Consoli  dell'Arte  della  Seta,  Giacomo  Siaca,  Giovan 
Martino  de  Gruttis  e  Gregorio  Ratto  ^ 

Il  genovese  Giacomo  Palumbo,  stando  al  servizio  di  quel  Gabrie- 
le Brancati  di  cui  più  volte  abbiamo  trovato  menzione,  rubò  in 
varie  volte  al  padrone  una  quantità  di  seta  lavorata  pel  valore  di 
trenta  ducati.  Condannato  per  questo  furto  dal  tribunale  della 
Arte,  indennizzò  il  Brancati  del  danno  che  gli  aveva  arrecato. 
Ottenuto  quindi  in  tal  modo  il  consenso  della  parte  lesa,  ricorse  al 
re  per  ottenere  che,  anzi  che  lasciarlo  languire  in  prigione,  lo  si 
ammettesse  dai  Consoli  dell'Arte  alla  composizione  quale,  per  le 
leggi  del  tempo,  era  consentita  pei  furti  detti  domestici. 

Questo,  e  forse  l'interessamento  di  qualche  persona  influente, 
provocò  la  detta  lettera  in  cui  il  re,  sotto  pena  di  una  multa  di 
cento  once  e  di  incorrere  nella  sua  ira,  imponeva  ai  Consoli  della 
Arte  di  ammettere  il  Palumbo  ad  equa  composizione ,  tenendo 
conto  delle  sue  condizioni  finanziarie  non  molto  floride. 


1  ...  «  Datum    in    Castello    Novo    Neapolis    die    XV    mensis    Junii 
«  MCCCCLXXXIV  ».    Ha  forma  di  lettera. 


—  63  — 

Questa  lettera,  secondo  la  pratica  del  tempo,  venne  notificata 
curia  prò  tribunali  sedente  ai  Consoli  che  subito,  secondo  le  for- 
mule di  rito,  dovettero  dichiarare  di  essere  disposti  ad  obbedire 
alla  volontà  del  re. 

Ho  voluto  riferire  anche  di  questo  documento,  come  di  uno  dei 
più  interessanti  per  lo  studio  della  procedura  di  quegli  anni:  esso 
può  dare  un'idea  del  funzionamento  del  tribunale  delFArte  e  delle 
forme  di  rito  per  la  trattazione  delle  cause  e  notifica  degli  atti. 


♦** 


Dello  stesso  anno  è  una  supplica  rivolta  dai  Consoli  al  re  per 
chiedere  un  emendamento  al  bando  del  5  ottobre  1477. 

In  quel  bando  s'era  ordinato  che  la  multa  di  un'oncia,  in  cui 
incorrevano  i  mercanti  che  dessero  comunque  a  lavorar  seta  a 
tessitori  forestieri  o  a  gente  non  iscritta  nel  libro  di  matricola,  e 
l'altra  di  quattro  once,  comminata  a  quelli  che  pegnorassero  o 
vendessero  drappi  di  seta  senza  il  permesso  dei  Consoli,  spettasse 
per  metà  al  fisco  e  per  metà  all'Arte. 

Contro  tali  disposizioni  si  mosse  protesta,  adducendo  che  la 
carica  di  Console  dell'Arte  della  Seta  era  divenuta  più  onerosa 
che  onorifica,  e  che  l'Arte  stessa  versava  in  tali  condizioni  da  far 
temere  che  presto  non  si  sarebbe  più  trovato  chi  di  essa  volesse 
occuparsi.  Si  chiese  quindi  al  re  che  rinunciasse  in  favore  della 
Arte  e  dei  Consoli  a  quella  metà  degli  introiti  che  era  stata  devo- 
luta al  fisco. 

Questa  nuova  pretesa  venne  favorevolmente  accolta,  ed  il  regio 
placet  fu  accordato  il  7  settembre  1484. 

Così  Ferdinando  compiva  ancora  qualche  sacrificio  per  veder 
prosperare  1'  Arte  che  con  tanta  buona  volontà  era  riuscito  a 
costituire. 


Malgrado  tutti  i  bandi  e  richiami  all'ordine  che  abbiamo  os- 
osservati,  la  Corte  della  Vicaria  continuava  però  qualche  volta 
ad  ingerirsi  delle  cause  in  cui  entravano  gh  uomini  dell'Arte  della 
Seta. 

A  questo  riguardo  troviamo  una  lettera  del  conte  di  Policastro, 
in  data  22  febbraio  1486  indirizzata  al  Reggente  della  Vicaria, 
nella  quale,  forse  come  delegato  dal  conte    di    Maddaloni,  egli  si 


—  64  — 

lagnava  che  ì  capitoli  e  i  privilegi  non  venivano  rispettati  e  che 
spesso  si  detenevano  uomini  appartenenti  alla  giurisdizione  dei 
tre  Consoli.  Così,  nella  specie,  tra  gli  uomini  dell'Arte  era  vivo  mal- 
contento perchè  due  dei  loro  erano  stati  arbitrariamente  rinchiusi 
nelle  carceri  della  Vicaria,  contro  ogni  disposizione  di  legge ,  e 
specialmente  contro  la  espressa  volontà  del  re  che  la  dieta  Arte  sia 
acearezzata,  et  tenuta  contenta,  et  che  non  li  sia  mancato  uno  pilo 
de  quanto  per  sua  Majestà  li  è  stato  concesso.  Conclude  quindi 
prospettando  il  male  che  potrebbe  venire  al  buon  andamento 
deirArte  se  un  simile  abuso  continuasse  ad  avverarsi,  e  dichiara 
che,  per  ogni  evento,  ne  sarà  attribuita  piena  responsabilità  al 
Reggente. 

Ed  anche  questa  volta  i  giudici  della  Vicaria  dovettero  pie- 
gare il  capo  a  rimetter  senz'altro  i  detenuti  al  tribunale  deirArte. 


*** 


Ma  altre  più  gravi  preoccupazioni  sorsero  pochi  anni  appressi 

Alcuni  malcontenti,   d'accordo  con  i  maggiorenti   di  qualch^ 
altra  città,  avevan  cominciato  a  distogliere  gli  operai  tessitori 
tintori  dal  lavoro,  per  condurli  ad  impiantare  l'Arte  in  una  nuovi 
sede. 

Di  ciò  si  lagnarono  i  Consoli  e  provocarono  un  bando  abbastanza 
vibrato  che,  se  è  esatto  quanto  appare,  venne  redattto,  per  ordinj 
del  re,  da  Gioviano  Fontano. 

La  data  del  documento  è  del  5  maggio  1488 1,  ma  la  pubbli 
cazione  a  mezzo  dei  banditori  e  trombetti  non  avvenne  se  non 
5  luglio  dello  stesso  anno. 

Ferdinando  ricordò  in  quel  bando  tutto  1'  interesse  messo  da  li 
per  là  buona  riuscita  dell'Arte  e  tutti  i  privilegi  e  grazie  concedut 
per  favorirne  lo  sviluppo,  e  si  dolse  che,  per  il  malvolere  di  pocl 
si  tentasse  di  diminuire  il  prestigio  del  Consolato.  Per  impedi] 
quindi  che  altrove  si  fondassero  altre  sedi  a  detrimento  di  quellj 
di  Napoli,  vietò  assolutamente,  sotto  pena    della  perdita  dell| 
merce  e  di  una  multa  di  mille    ducati,  che  si  portassero  altroi 
attrezzi,  colori,  sete  o  altro  occorrente  all'  industria,  e  che  si  di 


^   «  Banno,  et    Comandamento    da   parte    delo    Ill.mo,  et  Serenissir 
«  Sig.  Rè  D.  Ferrando  per  la  Divina  Gratia,  Rè  di  Sicilia,  Hierusalem  etcì 
«  Datum  in  Castello  Novo  Neapolìs  die  V  mensis  Maii  MCGGGLXXXVIIl 
«  Dominus  Rex  mandavit  mihi  Jov.  Fontano  » 


—  65  — 

stogliessero  gli  operai  dal  lavoro.  E  poiché,  naturalmente,  quelli 
che  avevano  interesse  alla  costituzione  delle  nuove  sedi  usavano 
tutti  i  mezzi  per  tener  nascosto  il  loro  operato,  il  re  ordinò  che  la 
multa  dei  mille  ducati  fosse  devoluta  per  tre  quarti  air  Arte  e  per 
un  quarto  a  vantaggio  di  chi  denunciasse  tentativi  di  questo  genere, 
con  ogni  garanzia  di  segretezza  per  l'avvenuta  delazione. 

*     * 

Con  questo  bando  si  chiude  la  serie  dei  documenti  redatti  du- 
rante il  regno  di  Ferdinando  I  d'Aragona. 

Il  re  cinque  anni  appresso  moriva,  dopo  aver  finalmente  messo 
sulla  via  della  maggiore  prosperità  TArte  della  Seta  che  era  desti- 
nata a  rimanere  ancora  per  tre  secoli  a  ricordo  dell'opera  da  lui 
svolta. 

Tuttavia  non  bisogna  dimenticare  chi,  insieme  e  forse  più  del 
re,  ebbe  il  merito  di  favorire  la  fondazione  dell'Arte  nei  primi- 
tempi,  Antonello  Petrucci,  lo  sventurato  segretario,  cui,  sulla  fede 
di  Camillo  Porzio ,  debbono  attribuirsi  molte  tra  le  maggiori 
opere  che  resero  illustri  i  primi  due  re  Aragonesi.  Qualche  docu- 
mento di  quelli  da  me  pubblicati  porta  la  sua  firma  come  delegato 
dal  re  a  questi  affari,  e  non  è  affatto  improbabile  che  tutto  il  me- 
rito di  questa  iniziativa  spetti  a  lui. 

Con  la  morte  di  Ferdinando,  però,  non  si  chiudeva  il  periodo 
ascensionale  dell'Arte.  Per  fortuna  il  più  era  fatto,  ed  essa  rimaneva 
ormai  saldamente  costituita  malgrado  la  noncuranza  e  l'abban- 
dono in  cui  spesso  la  lasciarono  i  governi  successivi. 

Il  suo  ordinamento  rimaneva  quale  Ferdinando  l'aveva  voluto, 
e  le  garanzie  accordate  ai  suoi  uomini  davano  affidamento  che 
l'industria  non  sarebbe  finita  con  la  morte  del  re. 

Certo  una  critica  accurata  potrebbe  trovar  qualche  cosa  a  ridire 
sull'opera  di  Ferdinando,  ma,  prima  di  giudicare,  è  necessario  do- 
mandarsi se  era  possibile,  dati  i  tempi  e  il  luogo,  fare  di  meglio  e 
di  diverso  per  raggiunger  lo  scopo,  o  se  piuttosto  l'opera  di  quel 
re  non  debba  considerarsi  abbastanza  illuminata,  specialmente 
in  vantaggio  dello  sviluppo  economico  ed  industriale  del  Regno. 

♦♦♦ 

Interessante  per  la  conoscenza  della  pratica  giudiziaria  è  una  pro- 
visione della  Sommaria  1,  intesa  a  far  rispettare  ancora  una  volta 

'  «  Provisio  facta    in    Regia    Camera  Summariae...     Datum    Neapoli 
Armo  LXV.  5 


—  66  — 

il  privilegio  del  mero  e  misto  imperio  cum  gladii  potestate  et  super 
cognitione  quarumvis  causarum  ,  in  forza  della  quale,  accoglien- 
dosi un  ricorso  dei  Consoli,  si  accordava  agli  uomini  deirArte  della 
Seta  una  facilitazione  di  non  poca  importanza. 

Accadeva  spesso,  come  ho  già  rilevato,  che  uomini  cui  spettasse 
di  venir  giudicati  dal  tribunale  speciale  deirArte,  per  isbaglio,  o 
perchè  colti  in  flagrante  quando  si  trattasse  di  cause  penali,  o 
perchè  convenuti  da  altre  persone  cui  non  interessava  rispettare 
i  privilegi  di  giurisdizione  quando  invece  si  trattasse  di  cause  ci- 
vili, venissero  chiamati  a  rispondere  innanzi  ai  tribunali  ordinari  e 
magari  innanzi  ad  altri  tribunali  speciali. 

Quando  poi  gFinteressati,  o  la  stessa  Arte,  facendo  valere  i  pro- 
pri diritti,  chiedevano  V  avocazione  della  causa  al  consolato,  il 
tribunale  che  doveva  riconoscere  la  propria  incompetenza  faceva 
carico  all'imputato  o  al  convenuto,  prima  di  rimetterlo  ai  suoi  giu- 
dici, delle  spese  della  procedura  di  rinvio,  che  spesso  erano  tali 
da  non  poter  venir  pagate  da  chi  non  fosse  in  condizione  di  agia- 
tezza. 

Per  eliminare  questo  inconveniente ,  la  provvisione  della  Som- 
maria dispose  che,  per  il  trasferimento,  fosse  sufficiente  la  presen- 
tazione di  un  semplice  bolletino  deir  Arte  della  Seta  con  Tannota- 
zione  delle  generalità  dell'  interessato,  invece  delle  lettere  signi- 
ficatoriali,  e  di  tutte  le  altre  formalità  procedurali  che  prima  in- 
tralciavano la  pratica  1. 

In  calce  a  questo  documento  trovo  segnata  la  data  e  la  relata 
delle  varie  notifiche,  fatte  tutte  un  anno  dopo,  cioè  TU  aprile - 
1495,  alla  Camera  della  Sommaria,  alla  Regia  Dogana  e  alla  Corte 
della  Vicaria. 


«die  III  mensis  Martii  Anno  D.ni  MCCCCXCIV   Regnorum   nostrorum: 
«  scilicet  Frane,  duodeeimo  Hierusalem,  et  Siciliae  vero  primo  ». 

*  ...  «  Quadere  dieta  Camera  et  Commissarius  annuentes  petitioni 
<i  {dell' Arte) y  hujusmodi  intimetur  idcirco  Magn.  Regenti,  et  Judicibus 
«  Magnae  Curiae  Vicariae  quatenus  placeat  ut  velint  de  caetero  cum 
«  contingerit  aliquem  ex  exercentibus  Artem  eandem  Civitati,  seu  con- 
«veniri  prò  quavis  causa  civili,  vel  criminali  in  eadem  Magna  Curia  ad 
«instantiam  quorumcumque  remittere  ad  Judicem,  et  Consules  dictac; 
«  Artis  solum  ad  signum  bolectini  fide  ferentis  cum  annotatione  nominisi 
«  illius  Civitatis,  et  remittendì  prout  alia  fieri  consuevit,  ut  exponentes 
«nostris  praesentibus  litteris  sigillum  nostrum  iussimus ,  et  fecimus^ 
«  apponi  in  omnibus  tamen  nostro,  et  alieno  iuribus  semper  salvis  ». 


—  67  — 

Non  c'è  la  firma  del  re,  ma  la  redazione  è  fatta  in  suo  nome,  ed 
è  l'unico  atto  che  resti  all'Arte  degli  anni  di  Alfonso  II. 
Nessuno  se  ne  ha  del  breve  regno  di  Ferdinando  II. 

♦*♦ 

Di  Federico  invece  ho  trovato  tre  documenti  che  per  se  stessi 
potrebbero  parere  di  poca  importanza  ma  che  tuttavia  riuscirono 
di  grandissimo  interesse  per  il  tribunale  dell'Arte. 

Il  primo  di  essi  è  una  copia  del  paragrafo  riguardante  gli  uomini 
dell'Arte  della  Seta  e  della  ^Lana,  contenuto  nelle  grazie  chieste 
dalla  città  di  Napoli  al  re.  Vi  si  invoca  la  riconferma  di  tutti  i  pri- 
vilegi conceduti  per  il  passato  i. 

Accordato  il  regio  placet,  e  sebbene  queste  grazie  si  richiedes- 
sero ormai  per  consuetudine  a  tutti  i  re,  risultò  presto  chiaro  tutto 
il  dietroscena  che  a  prima  vista  non  era  possibile  rilevare.  Ne  danno 
esatta  notizia  le  annotazioni  che  ho  trovate  in  calce. 

Dalla  prima  di  esse  risulta  come  il  documento  sia  stato  presen- 
tato il  6  marzo  1497  innanzi  alla  Regia  Camera  in  occasione  di  una 
lite  vertente  tra  i  Consoli  de  l'Arte  e  il  fisco  perchè  quest'ultimo, 
profittando  del  passaggio  di  governo,  aveva  cercato  di  contrav- 
venire alle  grazie  ed  ai  privilegi  accordati.  E  come  il  fisco,  anche 
gli  organi  della  giurisdizione  ordinaria  tentavano  ogni  mezzo  per 
surrogarsi  al  tribunale  dell'Arte,  rendendo,  così,  necessaria  la  ri- 
chiesta fatta  della  conferma  dei  privilegi. 

Questa  necessità  di  stare  continuamente  in  guardia  per  salvare  i 
propri  diritti,  contribuì  certo  a  dare  alla  linea  di  condotta  dell'Arte 
una  impronta  di  servilismo  verso  tutti  i  governi,  che  a  prima  vi- 
sta sembra  poco  dignitosa.  Ad  ogni  mutamento  infatti,  1'  Arte  si 
affrettò  sempre  a  render  omaggio  al  nuovo  padrone,  protestando 
fedeltà  incondizionata  e  chiedendo  la  riconferma  delle  grazie.  Così, 
nei  rapidi  rivolgimenti  che  subiron  le  cose  del  regno  in  quegli 
anni,  fu  necessario  chiedere  il  placet  per  evitare  che  il  fisco  da  una 

*  ...«  Item  supplicano  si  degni  Vra  Maestà  conflrmare,  et  qnus  opus  est 
«  de  novo  concedere  alli  exercitanti  l'Arte  dela  Seta,  et  Lana  in  la  cita  di 
«  Napoli  li  capituli,  immunità,  et  gratie  à  quilli  concesse  per  li  retro  prin- 
«  cipi  dela  felice  casa  de  Aragonia  etiam  de  quilli  quali  non  fussero  in  pos- 
«  sessione. 

«  Placet  Regiae  Maj esiati,  prout  hactenus  in  possessione  fuerunt,  quo 
«  vero  ad  ea  quae  in  possessione  non  reperiuntur  Regia  Camera  Summariae 
«  se  informet,  ut  Regiae   Majestati  referat,  et  providebit  opportune  ». 


68 


parte  e  i  tribunali  ordinari  dall'altra  raggiungessero  lo  scopo  di 
esautorarla  che  valeva  quanto  dire  provocarne  la  rovina. 

Trovo,  infatti,  in  un'altra  annotazione  del  documento  descritto, 
essere  stato  necessario  provocare  dal  re  un  nuovo  ordine  espresso 
per  ottenere  il  rinvio  al  tribunale  dell'Arte  di  un  tal  Giuliano  del- 
l' Isola,  arrestato  per  frode,  furti  ed  altri  delitti. 

Del  resto,  in  questo  periodo,  le  controversie  per  la  giurisdi- 
zione furon  continue  e  vive,  ed  occorse  grande  attività  per  riuscire 
a  far  rispettare  i  privilegi. 

Secondo  risulta,  infatti,  da  una  lettera  di  Federico,  data  da 
Pozzuoli  il  21  gennaio  1501  e  diretta  al  Luogotenente  generale, 
i  giudici  della  Vicaria  continuavano  a  seguire  il  vecchio  sistema  di 
ritenere  quelli  che  capitassero  loro  tra  mani  e  di  giudicarli  senza 
preoccuparsi  delle  proteste  dei  Consoli  e  degli  interessati. 

Anche  questa  volta  l'Arte  dovette  ricorrere  direttamente  al  re 
e  far  richiamare  all'  ordine  il  Luogotenente  e  i  giudici  che  dete- 
nevano illecitamente  un  operaio  della  Seta. 

Tuttavia  il  tenore  di  questa  lettera  è  meno  reciso  di  quello  delle 
altre  ordinate  in  simili  casi  da  Ferdinando  L  Vi  si  invita  il  Luo- 
tenente  stesso  a  fare  una  breve  inchiesta  e  a  provocare  il  rilascio 
del  detenuto  qualora  il  Reggente  non  abbia  in  contrario  potis- 
sima causa. 

Anche  questo  documento  venne  presentato  1'  11  febbraio  nella 
causa  tra  il  fìsco  e  l'Arte  della  Seta  circa  la  competenza  del  tri- 
bunale speciale  che,  come  ho  detto,  si  tentava  di  ridurre  e  magari 
di  annullare.  Ma  questa  volta  la  vertenza  non  finì  bonariamente 
come  in  passato,  ai  tempi  del  re  Ferdinando,  e  fu  trascinata,  in- 
vece, persino  innanzi  al  Sacro  Regio  Consiglio. 

Di  quest'ultimo,  infatti,  ho  trovato  una  deliberazione,  data  il 
16  febbraio  1501,  che  riconosce  la  competenza  del  tribunale  della 
Arte  in  tutte  le  cause  civili,  e  la  limita,  in  quelle  penali,  alle  impu- 
tazioni per  le  quali  non  sia  comminata  la  pena  di  morte  naturale  ^. 

^  ...«Auditis  in  S.  R.  C.  Magn.  Reg.  M.  C.  Vie.  et  Berardino  de  Mar- 
ce chisiis  Judice  dictae  curiae  Artis  Serici,  ac  visis  Regiis  litteris  decretum 
«  est  per  dictum  S.  R.  C.  quod  omnes  causas  criminales,  de  quibus  venit 
«imponenda  aliqua  poena  praeter  mortem  naturalem,  remittantur  ad 
a  dictam  Curiam  Artià  Serici,  ubi  vero  venit  imponenda  poena  mortis  na- 
«  turalis  consultetur  Regia  Majestatis  (sic),  ut  inde  provideri  possit...  » 


—  69  — 

Così,  finalmente,  le  attribuzioni  venivano  assegnate  con  chia- 
rezza, e  si  poteva  sperare  che  in  avvenire  non  dovessero  più  veri- 
ficarsi quei  conflitti  di  competenza  a  far  sorgere  i  quali  non  sempre 
era  stato  estraneo  il  malvolere  dei  giudici  ordinari. 

Tuttavia  questi  ultimi  non  avevano  tutti  i  torti  :  il  funziona- 
mento del  tribunale  dell'Arte  della  Seta,  come  quello  di  tutti  i  tri- 
bunali privilegiati  in  genere,  non  poteva  naturalmente  rispondere 
ai  bisogni  della  più  retta  amministrazione  della  giustizia  poiché 
molti  inconvenienti  dovevano  verificarsi  per  la  imperizia  e  per 
rinteresse  dei  giudici  improvvisati. 


*% 


A  chi  conosce  bene  le  condizioni  dell' amministrazione  giudi- 
ziaria in  quegli  anni  tali  cinconvenienti  non  faran  certo  mara- 
viglia. 

Né,  d'altra  parte,  di  tutto  il  male  che  poteva  derivarne  si  deve 
far  carico  al  governo  dei  re  Aragonesi.  Alfonso  d'Aragona,  al 
momento  della  sua  incoronazione,  aveva  commesso  un  grave  er- 
rore concedendo  a  tutti  i  baroni  il  mero  e  misto  imperio.  Per  questo 
il  governo  Aragonese  non  ha  fama  di  esser  quello  sotto  il  quale 
la  giustizia  versò  nelle  più  favorevoli  condizioni.  Tuttavia  biso- 
gna pensare  che  quella  concessione,  indubbiamente  disastrosa, 
segnava  la  necessità  estrema  che  aveva  il  re,  dopo  tante  avver- 
sità e  guerre,  di  propiziarsi  l'animo  dei  baroni  per  ottenerne  l'ap- 
poggio. E  quella  necessità  era  ancora  un  triste  retaggio  del  go- 
verno angioino  :  quando  Alfonso  era  salito  al  trono,  il  mero  e  mi- 
sto imperio  era  già  stato  accordato  a  tanti  feudatari  che  il  suo 
atto,  più  che  una  concessione,  costituì  una  riconferma  di  privi- 
legio. 

L'opera  successiva  dei  re  Aragonesi  fu  tutta  intesa  a  paraliz- 
zare i  dannosi  effetti  di  quell'errore  e  a  cercar  di  ravviare,  se- 
condo criteri  più  sani,  la  giustizia  che  tanto  aveva  sofferto  (e  sof- 
friva ancora  per  le  conseguenze)  durante  il  periodo  Angioino. 
Cosi  la  costituzione  dei  tribunali  privilegiati,  per  tutte  le  ragioni 
che  ho  dette  in  principio  di  queste  note,  era  necessaria  perché 
rappresentava  1'  unica  via  per  raggiungere  lo  scopo  di  far  prospe- 
rare le  industrie  che  si  volevano  favorire. 

Dal  breve  quadro  che  risulta  dalla  lettura  dei  documenti  da  me 
studiati  é  facile  riconoscere  tale  necessità  ;  poiché,  malgrado  tutti 
i  privilegi  e  concessioni,  1'  Arte  della  Seta  ebbe  molte  difficoltà  da 


—  70  — 

superare,  e  senza  Y  assidua  assistenza  di  Ferdinando  I  forse  non 
sarebbe  riuscita  a  costituirsi  su  solida  base  ed  a  portare  tanti 
vantaggi  alla  città  di  Napoli  ed  al  regno. 

Con  la  fine  del  periodo  Aragonese  essa  s*era  ormai  validamente 
consolidata  e  poteva  affrontare  tutti  gli  eventi  senza  temere  la 
rovina.  Tuttavia,  per  la  conservazione  di  tutti  i  suoi  privilegi,  essa 
tenne  nel  periodo  delle  guerre  una  linea  di  condotta  per  nulla  in- 
formata aUa  riconoscenza  verso  la  dinastia  aragonese  che  ?aveva 
creata  ed  aiutata  con  ogni  mezzo.  Tutti  i  rivolgimenti  che  segui- 
rono poi  la  trovarono  completamente  passiva  ;  così  che,  appena 
partito  Federico  d'Aragona,  troviamo  le  sue  proteste  di  fedeltà 
prima  al  duca  di  Nemours  e  d'Armagnac,  capo  dell'esercito  fran- 
cese e  vicario  generale  di  Luigi  XII,  e  poco  appresso  a  Ferdinando 
il  Cattolico. 

Del  resto,  anche  per  ben  giudicare  di  questa  condotta  più  o 
meno  leale,  occorre  tener  conto  delle  esigenze  dei  tempi  e  dell'aspra 
lotta  che  l'Arte  sosteneva  per  la  conservazione  dei  suoi  privilegi. 

VI. 

Negli  ultimi  anni  del  .periodo  Aragonese,  come  s'è  visto,  il  con- 
flitto di  competenza  culminò  nel  giudizio  del  Sacro  Regio  Consi- 
glio che  ho  esposto  innanzi  ;  ma  non  si  arrestò  a  questo.  Ne  è  prova 
un  documento  del  duca  Lodovico  di  Nemours  e  d'Armagnac^. 

I  Consoli  dell'Arte  della  Seta  ricorsero  a  lui  perchè,  evidente- 
mente, neanche  il  disposto  del  Sacro  Regio  Consiglio  era  riuscito 
a  far  cessare  le  ostilità,  e  ne  ottennero  una  lettera  modellata  su 
quella  di  Ferdinando  I  del  6  luglio  1478. 

Essa  era  indirizzata  al  Reggente  e  ai  giudici  della  Vicaria, 
al  Doganiere,  ai  Credenzieri  del  Maggior  Fondaco  e  della  Dogana 
ed  agli  altri  ufficiali  regi. 

Vi  si  diceva  esser  pervenuto  al  Luogotenente  un  ricorso  dei 
Consoli  dell'Arte  della  Seta  e  della  Lana  in  cui  si  lagnavano  del 
poco  rispetto  che  i  sunnominati  ufficiali  avevano  per  i  privilegi  con- 
ceduti in  passato.  E  si  ordinava  perciò  a  tutti  di  compiere  stret- 
tamente il  proprio  dovere,  rispettando  i  diritti  sotto  pena  di  in- 


1  «  Ludovicus  Dux  Nemesi  Armaniatii,  Giulieque  comes,  Chrìstianis- 
«  simi  Domini  Regis  Francorum  Neap.  et  Hierusalem,  ac  Ducis  Mediolani 

«  in  eodem  Regno  Neapolitano  locumtenens  generalis Datum  in  ca* 

«  stello  Capuano  Neapolis  ultimo  mensis  Jannarii  MDII  ». 


71 


correre  nell'ira  e  nella  indignazione  del  duca  oltre  che  nella  multa 
di  mille  ducati,  quale  era  stata,  come  abbiamo  visto,  comminata 
pure  da  Ferdinando  I. 

La  lettera  è  redatta  in  latino  e  porta  in  calce  la  relata  e  la  data 
delle  notifiche  fatte  a  chi  di  ragione. 

Ma  essa,  oltre  airinteresse  che  può  destare  per  il  nostro  studio, 
ha  anche  un  certo  valore  storico,  poiché  infatti  potrebbe  valere 
a  dimostrare  una,  sia  pur  breve,  permanenza  in  Napoli  del  duca  di 
Nemours  che,  per  comune  opinione,  com'  è  noto,  si  ritiene  non 
esser  mai  venuto  in  questa  città. 

Né,  d'altra  parte,  é  possibile  dubitare  della  autenticità  del  do- 
cumento che  si  trovava  riportato  anche  nel  primo  registro  della 
Regia  Dogana  e  che  è  dato  in  Castello  Capuano  Neapolis  ultimo 
mensis  Januarii  millesimo  quingentesimo  secundo.  Vi  sono  indi- 
cati tutti  i  titoli  del  duca,  e  si  dà  al  re  di  Francia  anche  quello  di 
duca  di  Milano. 

♦♦* 

Dopo  questa  lettera,  unica  del  breve  periodo  della  dominazione 
francese,  trovo  un  paragrafo  delle  grazie  richieste  dalla  cittadi- 
nanza al  Gran  Capitano  Consalvo  in  cui,  come  in  quello  redatto  in 
occasione  dell'avvento  al  trono  del  re  Federico  d'  Aragona,  si  chiede 
la  riconferma  di  tutti  i  precedenti  privilegi  i. 

Un  altro  documento  dello  stesso  tenore,  in  data  5  ottobre  1505, 
segue  a  questo  ;  ma  le  grazie,  invece  che  al  Gran  Capitano,  sono 
chieste  direttamente  a  Ferdinando  il  Cattolico.  Anch'esso  è  estratto 
ex  plurimis  capitulis  et  gratiis  concessis  Universitati ,  Civibus ,  et 
habitantibus  Neapolis  per  Catholicam  Majestatem  Serenissimam 
Domini  Ferdinanda  Dei  Gratta  Aragonum  Siciliaeque  utriusquCy 
et  Hierusalem  reig. 

Intanto  però  non  erano  finite  le  contese  col  fìsco  e  specialmente 
con  la  Corte  della  Vicaria. 

Il  disposto  del  Sacro  Regio  Consiglio  dell'll  febbraio  1501,che 
avrebbe  dovuto  esser  definitivo,  non  riuscì  a  por  termine  a  tutte 
le  controversie. 

La  Corte  della  Vicaria  sperava  forse  nei  rivolgimenti  e  muta- 
menti di  governo  per  far  cadere  in  desuetudine  o  far  abrogare  i 
privilegi  e  le  concessioni  di  che  l'Arte  godeva. 

*  Cfr.  Schifa  M.,  Contese  Sociali  Napoletane  nel  M.  E.,  in  Arch.  stor. 
nap.  XXXIII  (1908)  e  cfr.  pure  le  edizioni  delle  grazie  concedute  alla 
Città  di  Napoli. 


72 


Così  la  contesa  circa  la  competenza  durava  ancora  :  ne  è  prova 
un  documento  del  26  settembre  1507  dal  quale  risulta  che  la  ver- 
tenza era  finita  di  nuovo  innanzi  al  Regio  Consiglio  che,  in  causa 
dominorum  Consulum  Artis  Serici  Civitatis  Neapolis  cum  Regio 
Fisco,  et  M.  C.  Vicariae  super  petita  remissione  causarum  crimi- 
nalium,  rifiutandosi  di  discutere  nuovamente  una  causa  già  decisa, 
si  riportò  a  quanto  aveva  disposto  ai  tempi  di  Federico  d'  Ara- 
gona. Nel  documento,  infatti,  si  fa  menzione  di  quella  decisione 
e  se  ne  torna  a  pubblicare  il  testo  per  tutti  gli  effetti  di  legge. 

E  da  queir  epoca  il  Sacro  Regio  Consiglio  dovette  occuparsi 
assai  spesso  di  questioni  di  questo  genere,  perchè  la  Gran  Corte 
della  Vicaria,  se  dobbiamo  prestar  fede  ai  documenti,  non  si  dava 
per  intesa  delle  disposizioni  precedenti. 

Il  6  febbraio  1511  dovette  infatti  ancora  decidere  per  la  escar- 
cerazione di  un  tal  Desiderio  Januncolo,  detenuto  anche  lui  dalla 
Vicaria. 

Ma  uno  dei  documenti  più  importanti  per  la  procedura  di  quei 
ricorsi  innanzi  al  S.  Regio  Consiglio  è  quello  del  1515,  nella  causa 
mossa  nell^interesse  di  un  tal  Simone  De  Rosa  che  era  stato  ar- 
restato a  Carinola  sotto  l'imputazione  di  un  furto  commesso  a 
Roma  prima  di  venire  ad  iscriversi  al  libro  dell'Arte  della  Seta. 

Preso  il  ricorso  in  esame,  il  S.  Consiglio  dispose  il  7  novembre 
1515  che  il  De  Rosa,  a  norma  dei  Capitoli  delV Arie,  dovesse  venir 
rilasciato  a  consegnato  ai  Consoli. 

Di  questo  documento,  redatto  naturalmente  in  latino,  venne 
poi,  nel  1539,  fatta  estrarre  copia  dal  Consolato  dell'Arte  per  la 
esibizione  in  altro  giudizio. 


A  prima  vista  può  sembrare  strano  che  i  ricorsi  dell'Arte  della 
Seta  venissero  presentati  al  Sacro  Regio  Consiglio,  mentre  innanzi, 
e  specialmente  nei  capitoli  accordati  a  Francesco  di  Nerone,  si 
era  detto  che  in  grado  di  appello  non  si  poteva  ricorrere  se  non 
alla  Camera  della  Sommaria. 

Tuttavia  in  pratica,  per  le  cause  penali  riguardanti  uomini 
dell'Arte ,  questa  procedura  non  venne  mai  seguita ,  poiché  fin 
dai  tempi  di  Alfonso  I  la  competenza  della  Sommaria  era  rimasta 
limitata  poco  più  che  al  solo  contenzioso  amministrativo  per  la 
creazione  del  S.  Regio  Consiglio. 

Quest'ultimo  infatti,  all'epoca  di  cui  ci  occupiamo,  decideva 


73 


con  giudizio  inappellabile  tutte  le  più  gravi  cause  riguardanti  le 
persone,  mentre  alla  Sommaria  rimanevano  le  cause  più  lievi  e 
quelle  concernenti  questioni  del  mestiere. 

Ma  questa  procedura,  in  seguito,  come  si  vedrà,  dovette  anco- 
ra mutare  quando  la  competenza  per  la  revisione  di  tutte  le  de- 
cisioni del  Consolato  finì  per  spettare  solamente  al  Sacro  Regio 
Consiglio,  sebbene  questa  attribuzione  discordasse,  oltre  che  da- 
gli Statuti  dell'Arte  della  Seta,  anche  dalla  prammatica  14  de 
officio  procuratoris  Caesaris^,  secondo  la  quale  avrebbe  dovuto 
prender  visione  delle  cause  penali  anche  la  Gran  Corte  della  Vi- 
caria e  di  quelle  di  affari  d'amministrazione  la  Sommaria. 

Questa  confusione  di  competenze,  accresciutasi,  come  ho  detto, 
nei  tempi  più  inoltrati,  e  specialmente  al  finire  del  XVII  e  nel 
XVIII  secolo,  che  metteva  la  pratica  forense  in  aperta  contrad- 
dizione col  testo  delle  leggi  e  persino  con  le  attribuzioni  che  al- 
cuni organi  deir amministrazione  della  giustizia  avevano  avuto  fin 
dair origine,  del  resto  non  maraviglierà  affatto  chi  abbia  seguito 
to  in  qualche  modo  le  vicende  del  diritto  di  questi  secoli  nelle  pro- 
vince   napolitane. 

Così,  riassumendo  quanto  ho  detto,  la  giurisdizione  privilegiata 
accordata  air  Arte  della  Seta,  che  avrebbe  dovuto  riconoscere,  in 
grado  di  appello  e  per  ciò  che  riguardava  i  Consoli,  la  sola  Camera 
della  Sommaria,  riconosceva  in  quest'epoca  anche  il  Sacro  Regio 
Consiglio,  al  quale  ultimo,  sul  finire  del  secolo  XVIII,  rimase  poi 
il  diritto  di  rivedere  tutte  le  cause,  di  qualunque  materia,  esclu- 
dendo definitivamente  la  Sommaria. 


Durante  il  secolo  XVI,  dunque,  la  competenza  rimaneva  an- 
cora divisa  tra  queste  due  corti  supreme,  e  mentre  il  Sacro  Con- 
siglio si  occupava  di  regolare  i  conflitti  di  competenza,la  Sommaria 
rivedeva  i  regolamenti  interni  e  le  questioni  amministrative,  ol- 
tre le  cause  del  mestiere. 

L'ultimo  documento,  tra  quelli  da  me  studiati,  in  cui  si  parli 
dell'ordinamento  del  Tribunale  dell'Arte  della  Seta  è  infatti  costi- 
tuito da  una  nuova  serie  di  Ordini  et  provisioni  della  Sommaria  2, 

^  Prammatica  a  firma  di  don  Fedro  de  Toledo,  del  27  febbraio  1547. 

^  '<  Ordini  et  provisioni  fatte  per  la  Regia   Camera  dela  Summaria  da 

«  osservarse  per  li  Mercanti  Napolitani,  et  forastieri,  et  Textori  dela  Arte 


—  74   — 

da  cui  scaturisce  specialmente  chiara  la  procedura  da  osservarsi 
nei  giudizi  di  composizione. 

Vi  si  ordina  che  i  Consoli  debbano  trattare  le  composizioni  come 
tutte  le  altre  cause,  curia  prò  tribunali  sedente,  cioè  con  tutte  le 
forme  di  rito,  e  non  con  quella  specie  di  giudizio  in  famiglia  con 
cui  spesso  regolavano  le  cause  di  minore  importanza.  Debbono 
intervenire  tutti  e  tre  ì  Consoli,  o  almeno  due  di  essi  purché  l*as- 
sente  non  sia  quello  napolitano,  nel  qual  caso  è  necessario  avvertire 
la   Sommaria. 

Quanto  alla  sentenza,  nei  casi  in  cui  due  dei  Consoli  siano  di 
un  parere,  in  discordanza  dall'  altro,  essa  dovrà  sempre  essere 
espressione  della  maggioranza.  E  questa  disposizione,  che  potrebbe 
sembrar  superflua,  trovava  la  sua  ragion  d'essere  nella  consuetu- 
dine invalsa  di  far  prevalere  il  parere  del  Console  Napolitano  su 
quello  degli  altri  due. 

In  questi  casi,  come  s'è  detto,  la  competenza  degli  appelli,  an- 
che se  promossi  da  qualcuno  dei  giudici,  spettò  alla  Sommaria 
che,  indipendentemente  da  quanto  si  fosse  deciso  innanzi ,  emet- 
teva nuovo  giudicato. 

Insieme  ai  Consoli,  ogni  volta  che  si  riuniva  il  tribunale,  doveva 
esser  presente  il  Mastro  d'Atti  del  Consolato,  cui  era  fatto  obbligo 
di  tenere  un  registro  delle  composizioni,  col  nome  delle  persone, 
la  somma  pagata  e  il  reato  commesso,  e  un  altro  per  le  querele 
mosse  dalle  parti  lese. 

Per  evitar  poi  che  il  danaro  delle  multe,  tasse  di  matricola  ed 
altro,  pagato  dagli  operai,  andasse  disperso,  come  qualche  volta  era 
accaduto,  si  ordinò  che  le  riscossioni  d'ogni  genere  dovessero 
farsi,  oltre  che  alla  presenza  di  almeno  due  dei  consoli,  con  l'in- 
tervento di  un  credenziere  eletto  ogni  anno  dai  mercanti  e  tessitori 
dell'Arte.  E  questo  nuovo  ufficiale  ebbe  appunto  tra  i  suoi  inca- 
richi quello  di  tenere  un  registro  per  suo  conto  di  tutti  gli  introiti, 
e  di  firmare  insieme  al  Console  Napolitano  e  al  Mastro  d'Atti  tutte 
le  composizioni,  ricevute  o  altro  che  riguardasse  le  esazioni. 

Eira  espressamente  vietato  ai  Consoli,  anche  se  fossero  tutti 
presenti,  di  far  grazia  delle  composizioni,  multe  etc,  e  solamente 


«  dela  seta  per  buon  reggimento,  manutentione,  et  governatione  de  dieta 
«  Arte....  Expeditae  fuerunt  praesentes  Ordinationes  et  provisiones  per 
«  dictam  Regiam  Cameram  auditis  partibus  die  XVIII  mensis  novem- 
«bris    MDXXIII». 


—  75  — 

si  concedeva  loro,  nelle  forme  già  dette  Innanzi,  di  poter  condo- 
nare una  parte  della  somma. 

La  stessa  iscrizione  nel  libro  matricolare  si  doveva  compiere 
curia  prò  tribunali  sedente,  dopo  che  i  Consoli  avessero  assunto  in- 
formazioi  i  sul  conto  di  chi  moveva  istanza.  E,  per  evitare  Tin- 
conveniente  verificatosi  assai  spesse  di  trovare  iscritte  persone  che 
non  avevano  mai  appartenuto  all'Arte  unicamente  per  sfuggire 
alla  giurisdizione  dei  tribunali  ordinari,  si  ordinò  pure  che  ogni 
qual  volta  si  iscrivesse  qualcuno  all'albo,  i  Consoli  che  lo  avevano 
accolto  dovessero  farne  dichiarazione  e  apporre  la  propria  firma 
nel  libro  matricolare. 

Si  chiude  così  la  parte  di  questo  interessante  documento  che 
riguarda  il  funzionamento  del  tribunale  dell'Arte. 


*% 


Gli  altri  paragrafi  concernono  il  riordinamento  interno. 

Ogni  anno,  in  casa  di  tutti  i  maestri  e  lavoranti  deF  Arte,  si 
procedeva  ad  una  ispezione  dei  telai.  Per  evitare  le  frodi,  anche  in 
questo  caso  la  Sommaria  ordinò  che  al  giro  di  ispezione  parteci- 
passero tutti  tre  i  Consoli,  o  almeno  due,  secondo  le  norme  già 
enunciate  nei  precedenti  paragrafi. 

Tutti  gli  introiti,  per  multe,  tasse  d'iscrizione  e  altro,  venivano 
affidati  al  Console  Napolitano,  ma  erano  sotto  il  controllo  diretto 
dell'altro  forestiero  che  doveva  tenere  un  registro  delle  entrate  e 
degli  esiti  da  consegnare  a  fin  d'anno,  per  la  revisione,  ai  Razio- 
nali eletti  dagli  uomini  dell'Arte.  E  se  per  caso,  fatto  il  bilancio, 
superasse  qualche  somma  di  denaro,  essa  doveva  venir  chiusa, 
insieme  ai  registri,  alle  carte  importanti,  ai  sigilli  e  alle  misure 
originali  dei  pettini,  in  una  cassa  speciale,  di  cui  la  Sommaria 
aveva  ordinata  la  costruzione,  chiusa  con  tre  diverse  chiavi  affi- 
date rispettivamente  ai  tre  Consoli. 

I  capitoli,  i  libri,  i  contratti  ed  altri  documenti  dell'Arte  erano 
affidati  anch'  essi  al  Console  Napolitano  che  ,  però ,  all'  atto  di 
lasciar  la  carica,  doveva  darne  la  consegna,  con  un  completo  inven- 
tario, al  suo  successore. 

Seguono  quindi  altre  disposizioni  di  minore  importanza  come 
quella  per  cui  il  Console  forestiero  doveva  tenere  il  registro  dei 
drappi  confezionati  e  venduti  e  delle  sete  ritirate  dalla  Dogana. 
E  finalmente,  con  due  paragrafi  intesi,  l'uno  ad  evitare  ogni  con- 
tesa tra  i  Consoli,  imponendo  che  ogni  anno,  all'uscita  dalla  carica, 


—  76  — 

rendessero  conto  della  gestione,  e  Taltro  ad  assicurare  l'osservanza 
delle  disposizioni,  comminando  una  pena  di  venticinque  once  ai 
contravventori,  si  chiude  questo  documento. 

Chiaro  e  completo  com'è,  vai  bene  a  dare  un'idea  esatta  del 
funzionamento  del  Consolato  nel  secolo  XVI. 


Dal  1539  fino  al  1553  segue  una  breve  serie  di  documenti  non 
troppo  importanti  che  contengono  provvedimenti  resi  necessari 
dalle  difficoltà  e  dai  piccoli  inconvenienti  che  volta  a  volta  si 
manifestavano. 

La  prima  di  queste  carte  consiste  in  un  ordine  dei  Consoli  che 
regola  le  dimensioni  e  la  qualità  dei  tessuti,  e  specialmente  di 
quelli  di  nuovo  genere,  pei  quali  è  fatto  obbligo  ai  lavoranti  e  ai 
maestri  di  venire  a  mettersi  d'accordo  sotto  pena  della  perdita 
del  drappo  e  del  pagamento  di  un'oncia  di  trenta  carlini  i. 

Segue  un'altra  dello  stesso  tenore  sulle  misure  dei  tessuti  nuovi, 
in  cui  si  impone  che,  nel  termine  di  dieci  giorni,  debbano  esser 
finiti  tutti  i  lavori  fuori  misura  che  fossero  già  messi  a  telaio  2. 

E  infine,  tre  anni  dopo,  un  altro  documento  regolava  i  rapporti 
tra  maestri  e  garzoni.  Questi  ultimi,  come  è  detto  esplicitamente, 
desiderando  di  apprendere  il  mestiere,  si  impegnavano  a  rimanere, 
non  retribuiti,  per  un  determinato  numero  di  anni,  al  servizio 
dei  maestri.  Ma,  appena  trascorso  qualche  tempo,  credendo  di 
essere  al  caso  di  far  da  sé,  li  piantavano  in  asso  e  andavano  a  la_ 
vorare  presso  altri  che  li  retribuivano. 

Da  questo  originavano  spesso  questioni  e  risse  che  i  Consoli 
volevano    evitare. 

Si  ordinò  quindi  che  ogni  garzone  o  lavorante  che  agisse  in  tal 
modo,  insieme  ai  maestri  che  lo  ammettessero  al  loro  servizio 
senza  essersi  prima  informati  intorno  alla  sua  condizione,  incor- 
resse nella  multa  di  un'  oncia  ;  a  meno  che  non  avesse  qualche 
giusto  motivo  di  lagnanza,  nel  qual  caso  aveva  il  diritto  di  ricor 
rere  al  Consolato  dell'Arte. 


i 


^  Il  documento,  omologato  dalla  Sommarla,  venne  pubblicato  il  4  ago 
sto  1539.  Erano  Consoli  :  Ferrante  de  Isapo,  Majes  Majorino  e  Ambrogio 
Pesce  ;  Mastro  d'Atti  Andrea  Cacciottolo. 

2  Di  carattere  privato,  e  in  relazione  del  precedente,  quest'altro  docu- 
mento venne  pubblicato  il  18  dello  stesso  mese,  quando,  fatte  le  nuove 
elezioni,  erano  stati  eletti  i  Consoli  Colangelo  Cartone,  Giovan  Batt.  Sta- 
gnaro e  Joannetto  dell'Isola. 


1 


77  — 


Ma  un'ultima  disposizione,  che  riguarda  più  specialmente  lo 
ordinamento  giudiziario,  venne  pubblicata  dalla  Sommaria  il 
19  aprile  1553. 

Dietro  richiesta  dei  Consoli,  infatti,  gli  Statuti  del? Arte  vennero 
integrati  con  la  disposizione  che  anche  il  Mastro  d'Atti  e  il  giudice 
delegato  ad  assistere  i  Consoli  nei  giudizi  si  rinnovassero  ogni 
anno  e  fossero  obbligati  a  render  conto  dell'opera  loro. 

È  facile  argomentare  come  avesse  dato  occasione  a  questa  istan- 
za dei  Consoli  la  condotta  del  Mastro  d'  Atti  e  forse  anche  dello 
stesso  giudice  che,  sapendosi  insindacabili  ed  insostituibili,  si 
abbandonavano  ad  atti  indelicati  e  speculavano  sulle  contese  e 
sul  disbrigo  delle  pratiche  dei  maestri  e  degli  operai. 

Così  il  Consolato  raggiunse  finalmente  un  assetto  presso  che 
definitivo  e  poteva  svolgere  tutta  la  sua  attività  nelF  industria 
divenuta  ormai  fiorente. 


Ma  lo  sviluppo  dell'Arte  in  questi  anni  è  meglio  descritto  in 
un  bando  assai  più  lungo  e  completo  dei  precedenti  i. 

Per  l'accuratezza  della  lavorazione  e  la  migliore  qualità  della 
seta,  i  drappi  napolitani  avevano  presto  acquistato  così  buona 
fama  che  la  produzione  bastava  appena  alle  richieste  dell'  espor- 
tazione. Da  questo,  naturalmente,  come  si  rileva  dal  bando  stesso, 
un  grandissimo  numero  di  cittadini  traeva  vantaggio,  trovando 
modo  di  occuparsi  e  di  guadagnar  di  che  vivere. 

Ma  negli  ultimi  tempi  alcuni  lavoranti  e  mercanti  di  poca  fede 
avevano  cominciato  a  frodare  i  compratori  fingendo  di  mettere  in 
commercio  tessuti  di  nuovo  tipo,  nei  quali  entrasse  più  cotone  che 
seta,  o  adulterando  i  drappi  di  antico  modello. 

Da  ciò,  a  lungo  andare,  sarebbe  venuto  il  discredito,  con  grave 
danno  di  quanti  di  quel  lavoro  vivevano  e  della  stessa  Dogana 
che  avrebbe  visto  diminuir  le  sue  entrate  per  la  minore  esporta- 
zione, se  la  Regia  Camera  non  avesse  creduto  opportuno  porvi 
riparo  a  tempo  con  la  pubblicazione  del  bando  provocato  dalle 
lagnanze  degli  stessi  Consoli  dell'  Arte. 

Il  contenuto  di  questo  documento,  perciò,  è  formato  da  una 


^  Bando  da  parte  di  sua  Cattolica,  et  Reale  Maestà,  et  dela  sua  Regia 
Camera  dela  Summaria...  Datum  Napoli  in  eadem  Regia  Camera  die 
XXI   niensis   Januarii   MDLXXIII. 


78 


lunga  serie  di  norme  tassative  per  la  buona  lavorazione  e  per  il 
maggior  controllo  del  commercio. 

Si  vietò,  quindi,  per  esempio,  per  evitar  frodi  nel  peso,  sotto 
pena  della  perdita  della  merce,  che  la  seta  non  ancora  lavorata  si 
legasse  con  altro  che  con  matasse  della  stessa  seta.  E  quando  una 
frode  di  questo  genere  venisse  perpetrata,  si  promise  la  quarta 
parte  del  valore  della  merce  confiscata,  insieme  alla  garanzia  del 
segreto,  al  delatore.  E  si  minacciò  la  multa  d'un' oncia  ai  filatori 
che,  per  darle  lucido  e  peso,  ungessero  la  seta  con  olio  o  con  mi- 
sture speciali,  e  a  tutti  coloro  che  la  comperassero  al  minuto  da 
garzoni  o  da  servi  di  uomini  dell'Arte. 

Quanto  alla  cottura  ed  alla  tintura,  esse  dovevano  venir  ese- 
guite secondo  le  buone  norme,  sotto  pena  della  confisca  e  del  rim- 
borso, da  parte  dei  tintori,  del  valore  della  seta  e  dei  danni  a  chi 
gliel' avesse  affidata  in  buona  fede  per  farla  cuocere  o  tingere.  E 
la  multa  raggiunse  perciò  le  venticinque  once  per  chi  non  si  at- 
tenesse alle  limitazioni  imposte  circa  la  seta  biscotta  o  cruda,  di 
cui  era  severamente  vietata,  oltre  che  lo  smercio,  persino  la  de- 
tenzione, consentendosene  l'uso  solamente  per  alcuni  determinati 
generi  di  drappi. 

Segue  quindi  nel  documento  una  lunghissima  serie  di  norme  pre- 
cise sulla  lavorazione  per  ottenere  stoffe  di  buon  qualità. 

Perchè  poi  non  si  frodassero  i  compratori  col  pretesto  che  ab- 
biamo già  osservato  innanzi,  di  vender  cioè  loro  drappi  di  nuovo 
tipo,  si  ordinò  che  delle  stoffe  nuove  dovesse  venir  autorizzata  lì 
fabbricazione  dalla  Regia  Camera,  sentito  il  parere  dei  Consol 
dell'Arte. 

La   multa  d'un'oncia  e  il  sequestro  della  merce  vennero  pur< 
comminati  a  coloro  che  dessero  il  bagno  d'amido  o  d'acqua  e  gom- 
ma di  pruno  a  certo  genere  di  drappi,  o  che,  usando  pettini  di- 
versi per  dimensioni  da  quello  conservato  nella  cassa  a  tre  chia^ 
del  consolato,  non  rispettassero  le  misure  ordinate  con  precedenl 
bandi. 

Si  vietò  la  fabbricazione  e  la  detenzione  di  stoffe  miste  di  setj 
cotone,  o  con  trama  di  cotone,  a  meno  che  non  se  ne  avesse  aut( 
rizzazione  dalla  Regia  Camera  che  l'accordava  talvolta  ai  nobil 
perchè  potessero  farne  qualdrappe  per  cavalli  o  livree  per  la  ser^ 
vitù.  Ma,  in  questi  casi,  le  stoffe  dovevano  esser  controllate  e  bolj 
late  dai  Consoli.  Seguono,  quindi ,  alcune  osservazioni  circa  h 
opportunità  e  l'utiUtà  di  continuare  a  rispettare  il  bando  di  Fer-I 
dinando  I  d'Aragona,  nel  quale  si  vietava  alla  lavorazione  d< 


—  79  — 

seta  in  altre  città  del  regno,  adducendo  a  miglior  ragione  la  possi- 
bilità che  s'ha  di  esercitar  più  attivo  controllo  su  tutti  i  lavoranti 
quando  essi  lavorino  nella  città  in  cui  ha  sede  il  Consolato  deirArte. 
Si  fa  eccezione,  però,  per  la  città  di  Catanzaro  che,  come  s'  è  già 
detto,  era  stata  la  prima  in  Italia  a  conoscer  Tindustria  della  seta 
ed  aveva  perciò  ottenuto  speciali  privilegi  per  poter  continuare 
anche  quando  a  Napoli  s'era  costituito  il  Consolato. 

Si  permise  tuttavia  ai  lavoranti  di  impiantare  telai  nei  borghi 
vicini  alla  città,  purché  però  ne  dessero  prima  avviso  ai  Consoli 
per  render  possibili  le  visite  di  controllo  che  si  prescrisse  doves- 
sero farsi  ogni  anno  presso  tutti  i  tessitori  e  in  tutte  le  botteghe. 

Queste  visite  avevano  per  iscopo  di  permettere  ai  Consoli  di  sco- 
prir tessuti  e  sete  in  contravvenzione  alle  norme  bandite,  e  seque- 
strarli senza  ammetter  proteste  di  proprietà  e  senza  usar  riguardo 
ad  alcuno.  La  roba  sequestrata  doveva  venir  apprezzata  e  giudi- 
cata da  tre  periti  nominati  dal  Consolato  ;  e  quel  che  da  questi 
venisse  deciso  doveva  notificarsi  agli  interessati  che  potevano,  a 
loro  volta,  chiedere  un  nuovo  esame  della  roba.  Se  l'ultima  com- 
missione giudicava  in  conformità  della  prima,  la  decisione  si  aveva 
per  definitiva  ;  salvo,  s'intende,  il  diritto  delle  parti  di  ricorrere 
alla  Regia  Camera  della  Sommaria.  Ma  se  ì  vari  periti  fossero  di 
parere  discorde ,  rimaneva  in  facoltà  del  Coadiutore  della  Corte 
e  del  Credenziere  di  far  apprezzare  una  terza  volta  la  merce  se- 
questrata e  decidere  poi  d'accordo  coi  Consoli.  A  condizione,  però, 
che  tutto  questo  procedimento  non  portasse  le  cose  in  lungo  e 
fosse  espletato  nei  quindici  giorni,  poiché,  in  caso  contrario,  la 
causa  veniva  avocata  alla  Regia  Camera. 

Ai  Consoli,  ancora,  si  fece  obbligo  di  notificare  in  tempo  utile  al 
Credenziere  il  giorno  fissato  per  la  visita,  affinché  potesse  a  sua 
volta  avvertirne  V  Avvocato  fiscale  del  Regio  Patrimonio  che 
aveva  diritto  di  intervenirvi  o  di  delegar  persona  di  sua  fiducia.  E 
la  notifica  doveva  compiersi  rigorosamente  con  tutte  le  forme  di 
rito,  sotto  pena  della  sospensione  dalla  carica  e  di  cento  ducati  di 
multa,  perchè  il  Credenziere,  per  suo  conto,  aveva  anche  l'altro 
obbligo  di  avvertire  la  R.  Camera  ogni  volta  che  si  sequestrasse 
seta  in  contravvenzione  ai  bandi. 

Ed  infine  il  bando  si  chiudeva  con  l'ordine  dato  a  tutti  i  mercan- 
ti di  avvertire  i  compratori,  quando  si  trattasse  di  roba  seque- 
strata che  si  vendeva  a  beneficio  dell' Arte,  delle  qualità  e  dei  di- 
letti della  seta  venduta,  e  di  dichiarare  se  le  stoffe  fossero  state 
confezionate  a  Napoli  o  a  Catanzaro. 


80 


Questo,  per  sommi  capi,  il  contenuto  dei  più  interessanti  tra  i 
paragrafi  del  documento  che  dava  un  nuovo  e  definitivo  ordina- 
mento all'Arte  e  ne  regolava  il  funzionamento. 

La  ragione  addotta  per  la  sua  pubblicazione,  quale  ho  già  rife- 
rita, lascia  adito  a  far  pensare  che  ormai  il  governo  viceregnale 
avesse  compreso  tutto  il  vantaggio  che  gli  veniva  dal  fiorire  della 
industria  nella  città  e  nel  regno,  e  che  le  tasse  che  il  fìsco  riscoteva 
dessero  un  utile  tanto  rilevante  da  indurlo  a  sentirsi  quasi  coin- 
teressato al  buon  andamento  delFArte.  Da  ciò,  naturalmente,  sor- 
geva l'interesse  a  che  le  stoffe  si  conservassero  tali  da  tenere  ono- 
revolmente la  piazza  anche  all'estero. 

Per  raggiunger  questo  scopo  si  cercava,  come  abbiamo  visto  spe- 
cialmente nel  bando  del  18  novembre  1523,  di  imporre  il  più  ac- 
curato controllo,  non  solo  all'opera  dei  maestri,  lavoranti,  tin- 
tori e  mercanti,  ma  agli  stessi  Consoli.  E  quando  il  controllo  non 
bastava  si  prometteva  un  compenso,  oltre  la  grazia  in  caso  di  com- 
plicità, ai  delatori  delle  frodi,  e  si  garantiva  il  segreto  per  evitare 
vendette. 

Ad  onor  del  vero,  questo  sistema,  usato  su  vasta  scala  dai  re 
Angioini  anche  per  la  persecuzione  dei  reati,  non  fu  impiegato 
che  in  piccola  proporzione  dagli  Aragonesi,  almeno  per  il  buon 
funzionamento  dell'Arte  della  Seta,  e  tornò  in  onore  al  tempo  dei 
viceré  ^ . 

Tuttavia,  malgrado  ciò,  e  forse  appunto  per  l'uso  dì  questi  mezzi, 
l'Arte  continuò  a  prosperare,  raggiungendo  quel  benessere  e  quello 
sviluppo  che  gli  storici,  dal  Summonte  al  Giannone,  hanno  con 
tanto  entusiasmo  ammirato  e  descritto,  e  che  meglio  traspare 
dalle  prammatiche  e  dai  bandi,  anche  negli  anni  del  governo  vi- 
ceregnale. 

VII. 

Ma  l'opera  dei  viceré  si  dimostrò  meno  accurata  pel  buon  an- 
damento dell'Arte  e  assai  più  interessata  per  i  vantaggi  derivanti 

1  Del  resto,  un  tal  metodo  non  costituisce,  come  è  noto,  una  preroga- 
tiva del  regno  di  Napoli,  anche  per  quanto  riguarda  gli  statuti  dell'Arte  j 
della  seta  ;  qualche  cosa  di  simile  si  trova  in  quelli  dell'Arte  fiorentina,  e 
specialmente  in  quelli  lucchesi  (Cfr.  Stai,  lucchese  del  1308,  Rubrica  CVIII). 


—  81  — 

al  Fisco.  Essi  si  preoccuparono  non  del  benessere  degli  operai  e 
della  prosperità  dell'in dustria,  ma  del  regolare  pagamento  delle 
gabelle  e  della  persecuzione  del  contrabbando.  Cominciò  quindi, 
tra  gli  altri  privilegi,  a  cadere  in  desuetudine  quello  già  conceduto 
da  Ferdinando  d'Aragona,  e  riconfermato  negli  ultimi  tempi  dagli 
stessi  Re  spagnuoli,  che  concerneva  il  divieto  di  esercitar  l'indu- 
stria della  seta  fuori  dalla  città  di  Napoli  e  dai  suoi  casali.  E  questa 
desuetudine  ebbe  anzi  la  sua  sanzione  quando  si  ordinò  la  pubbli- 
cazione e  l'applicazione  delle  prammatiche  in  favore  degli  Arren- 
datori  in  tutte  le  terre  di  Calabria  e  in  quelle  di  Sanseverino,  di 
Cava,  di  Amalfi,  di  Castellammare,  di  Ischia,  di  Capri  etc,  e  in 
generale  in  tutte  le  province  del  regno  i. 

I  Capitoli  de  l'Arte  rimasero  sempre  quali  erano  stati,  ma  al 
Consolato  venne  a  mancare  ogni  forza  per  farli  rispettare,  poiché 
erano  venuti  meno  la  tutela  e  l' interessamento  dei  governanti. 

La  costituzione  dell'Arte,  tuttavia ,  aveva  portato  il  massimo 
giovamento  allo  sviluppo  economico  della  Città  ed  anche  a  quello 
di  tutto  il  regno.  Molte  cose,  nel  suo  organismo,  relativamente  ai 
tempi,  meritano  ancor   oggi  la  lode. 

Così,  oltre  l'apposito  fondo  per  l'assistenza  degli  operai  infermi  e 
bisognosi,  e  l'obbligo  delle  onoranze  ai  defunti,  di  cui  ho  dato  no- 
tizia, era  stata  ordinata  un'altra  fondazione  per  dotare  (maritaggi 
di  5  ducati  l'uno)  le  figlie  degli  operai  poveri  e  di  quelli  morti.  E 
poiché  molte  di  queste  fanciulle,  ricevuta  la  dote,  non  trovavan 
subito  marito,  l'Arte,  perché  potessero  attendere  lontano  dai  pe- 
ricoli l'ora  del  matrimonio,  edificò  nel  1582  un  Conservatorio  di 
cento  posti,  annesso  alla  Chiesa  dei  Santi  Filippo  e  Giacomo  che 
già  possedeva  in  via  dei  Berrettari^. 

Presto  però  il  numero  di  queste  fanciulle  crebbe,  e  fu  necessario 
ingrandire  l'edifìcio.  A  tale  scopo  l'Arte  comprò,  nel  1593,  l'at- 
tiguo palazzo  del  Principe  di  Caserta,  ricostruendo  la  Chiesa  e 
portando  il  numero  delle  ricoverate  a  trecento. 

Questo  conservatorio,  rimasto  ancora  in  vita  fino  a  tempi  più 
recenti,  contava  nel  1845  cinquantuno  ricoverate  e  nel  1857  meno 
che  quarantacinque^. 


^  Cfr.  Prammatiche  del  duca  d'Alva,  del  duca  di  Medina  e  dell'Almirante. 

2  Sigismondo  Giuseppe,  Descrizione  della  città  di  Napoli  e  suoi  borghi, 
Nap.  1788,  II,  SS.  Filippo  e  Giacomo. 

*  Celano,    Notizie  del  bello,   dell'antico   ec,  edizione    Chiarini  voi.  3.*' 
pag.  701. 

Anno  XLV.  6 


82  — 


Tornando,  dunque,  agli  ordini  e  ai  bandi  del  XVII  secolo,  si 
è  subito  costretti  a  notare  che  essi  non  vengono  più  pubblicati 
neir interesse  del  Consolato  dell'Arte,  ma  ódV Arredamento  e  degli 
Arrendatori.  Ed  infatti  la  prima  tra  le  prammatiche  di  questo  secolo 
concernenti  questa  industria  può  ben  valere  a  darci  un  concetto 
abbastanza  esatto  dei  mutati  spiriti  da  parte  del  governo.  Essa 
porta  la  data  del  20  giugno  1628  e  la  firma  del  viceré  duca  d'Alba 
oltre  quella  dello  stesso  Carlo  di  Tappia^. 

Più  che  altro,  questa  lunghissima  pramatica  riguarda  la  Calabria, 
e  fu  redatta  per  porre  un  freno  al  contrabbando  che  colà  si  eser- 
citava su  vastissima  scala  e  che  aveva  anzi  costretto  il  fìsco  a 
stipulare  FafFitto  deW Arrendamento  per  un  prezzo  inferiore  a  quel- 
io  degli  anni  precedenti.  Vero  è  che  la  data  della  prammatica  cor- 
risponde a  quella  della  nuova  gestione  dell'  Arrendamento,  così  che 
la  sua  redazione,  richiesta  forse  in  garanzia  dall' Arrendatore,  do- 
vette più  che  altro  servire  a  mantener  alto  il  prezzo  del  fìtto,  salvo 
poi  a  tenersi  di  essa  quel  poco  o  nessun  conto  che  si  teneva  abi- 
tualmente di  tutte  le  altre. 

Quanto  al  suo  contenuto,  la  pena  per  i  contravventori  agli  or- 
dini di  denunziare  e  di  pagare  la  tassa  di  manifattura  e  d'espor- 
tazione non  era  lieve  :  poteva  variare  da  quella  pecuniaria  di 
dieci  ducati  per  ogni  libra  di  seta  detenuta  per  cui  non  si  fossero 
pagati  i  tre  carlini  della  gabella,  fino  a  quella  di  dieci  anni  di  ga- 
lera per  gli  ignobili  e  della  sospensione  dall'esercizio  della  giurisdi- 
zione e  della  relegazione  pei  baroni.  E  si  comminava  addirittura  la 
pena  di  morte  ai  padroni  di  barche  che  accettassero  merce  in 
frode. 

Naturalmente,  per  facilitare  la  persecuzione  dei  rei,  si  promet- 
teva il  quarto  del  valore  della  merce  sequestrata,  o  della  pena 
pecuniaria  inflitta ,  a  chi  avesse  denunciato  la  frode ,  secondo 
il  sistema  ormai  invalso  e  tenuto  in  onore  dai  viceré. 

Né  vi  deroga  il  duca  di  Medina  de  la  Torres  y  Sabioneta  in 
un'altra  prammatica  dello  stesso  tenore  pubblicata  il  22  ottobre 
1641  2  dove  si  ripete  ai  sensali,  padroni  di  barche  e  compratori 
in  genere  l'ordine  di    pretendere  dai  venditori  1'  esibizione  della 

1  Altimari,  Pramm.  XXV.  De  Extractione,  seu  Exportatione  etc. 
Tit.  LV. 

2  Altim.,  Pramm.  XXXII  De  Extractione  seu  Exportat.  etc.  Tit.  LV. 


83 


spedizione.  E  le  spedizioni  consistevano  in  una  specie  di  ricevuta  o 
dì  bolletta  rilasciata  da  VArrendatore,  in  cui  veniva  dichiarata 
la  qualità,  quantità  etc.  delle  sete  su  cui  s'  era  pagata  la  gabella 
e  che  potevano  perciò  venir  messe  liberamente  in  commercio. 

Questa  prammatica,  più  dettagliata  per  quanto  meno  lunga, 
e  più  draconiana  nelle  sue  disposizioni,  destò  vive  proteste  da 
parte  dei  Consoli  dell'Arte  e  di  alcuni  tra  gli  stessi  baroni,  che  si 
recarono  in  commissione  dal  duca  di  Medina  a  fargli  constatare 
Finopportunità  del  bando.  E  il  duca,  che  certo  non  aveva  troppa 
fede  nel  proprio  operato,  ne  sospese  Tesecuzione. 

Senonchè  questa  sospensione  non  poteva,  per  suo  conto,  non  de- 
stare le  proteste  degli  Arrendatori  ai  quali  forse  si  deve  una  nuova 
determinazione  da  parte  dello  stesso  duca  e  quindi  una  nuova 
prammatica,  del  22  dicembre  1643 1,  in  cui  si  fa  ammenda  del 
provvedimento  di  sospensione,  ordinando  e  comandando  che  la 
prammatica  precedente  si  osservi  iuxta  contienentiam  et  tenorem 
con  estremo  rigore. 

Bisogna  dire,  però,  che  quella  del  duca  di  Medina  rimase  fatica 
persa,  perchè  i  suoi  bandi  furono  così  poco  rispettati,  e  i  fìdelissimi 
sudditi  continuarono  con  tanto  poco  timore  ad  offendere  nostro 
Signore  Dio  frodando  il  Fisco,  che  1'  anno  seguente  (1644)  ai  30 
di  giugno,  in  una  nuova  prammatica  2,  TAlmirante  dovette  ripe- 
tere testualmente  quanto  s'era  ordinato,  aggiungendo  di  suo  una 
abbastanza  lunga  querimonia  negli  interessi  delV Arrendamento 
e  del  Regio  Patrimonio. 

Né  questa  nuova  pubblicazione  ebbe  miglior  fortuna,  poiché, 
verso  la  fine  dello  stesso  anno,  lo  stesso  Almirante  fu  costretto  a 
ripetere  3  tutte  le  disposizioni  date  dai  suoi  predecessori  fin  dai 
tempi  del  duca  d'Alba. 

Non  so  tuttavia  quale  sorte  seguisse  quest'ultima  prammatica 
ma  non  affermerei  certo  ch'essa  venisse  osservata  meglio  delle  pre- 
cedenti ;  il  fatto  che  con  essa  si  pon  termine  ai  bandi  di  questo 
genere  che  non  si  trovan  più  ripetuti  per  l'avvenire,  sta,  forse,  a 
dimostrare  lo  scoraggiamento  e  l'abbandono  completo  di  ogni 
fiducia  da  parte  degli  Arrendatori  che  finalmente  dovevano  aver 
compreso  come  fosse  inutile  sollecitare  dai  viceré  disposizioni 
destinate  a  lasciare  il  tempo  che  trovavano. 


1  Altim.,  Pramm.  XXXIII.  De  Extractione  seu  Export,  etc.  Tit.  LV. 

2  Altim.,  Pramm.  XXXIV.  De  Extractione  seu  Exportat.  etc.  Tit.  LV. 
•''  Altim.,  Pramm.  XXXVII.  De  Extractione  seu  Exportat.  etc.  Tit.  LV. 


—  84  — 


Di  tenore  diverso,  per  ragioni  che  più  chiare  appariscono  in 
seguito,  diventarono  le  prammatiche  pochi  anni  appresso. 

Per  qualche  tempo  parve  infatti  che  i  governatori  si  preoccupas- 
sero anche  un  poco  degli  interessi  del  Consolato  del? Arte  e  si  tro- 
vassero nella  stessa  disposizione  di  spirito  che  aveva  mosso  i  re 
Aragonesi  e  forse  anche  Ferdinando  il  Cattolico  e  Carlo  V  in  favor 
dell'Arte.  E  parve  anzi  che  questa  tendenza  a  ravvicinarsi  allo 
antico  indirizzo  spingesse  il  duca  D'Arcos  a  concedere  una  serie 
di  nuovi  interessantissimi  Capitoli  che  il  marchese  Angelo  Gra- 
nito, neir  appendice  alla  prima  parte  deir edizione  da  lui  curata 
del  «  Diario  di  Francesco  Capecelatro  »,  riporta  come  omologati  il 
13  agosto  1647. 

Fu  questa  Tultima  raccolta  di  privilegi  più  o  meno  completa 
dell'Arte,  compilata  da  una  commissione  di  trenta  deputati  presie- 
duta dal  sacerdote  Giacomo  Gallo. 

Oltre  le  solite  concessioni  per  la  fabbricazione  e  l'esportazione 
delle  sete  e  le  norme  per  una  specie  di  regolamento  interno,  son 
degne  di  nota  le  disposizioni  circa  il  privilegio  di  giurisdizione, 
in  cui  si  protestò  ancora  una  volta  contro  la  G.  Corte  della  Vi- 
caria e  si  ottenne  di  poter  avocar  le  cause  degli  uomini  dell'Arte 
al  tribunale  del  Consolato  con  la  più  rapida  procedura  cui  ho  già 
accennato  (in  Granito,  §§  4  e  14). 

Si  riconfermò  intanto  l'obbligo  pietoso  di  mutuo  soccorso  e  di 
sepoltura  dei  moribondi,  (§  7)  mentre  si  comminava  la  multa  di 
cento  ducati  contro  quei  Consoli  che  disponessero  il  ricovero  nel 
Conservatorio  di  fanciulle  non  appartenenti  a  famiglie  di  uomini 
dell'Arte  (§  12). 

Altri  cento  ducati,  devoluti  come  i  precedenti  a  benefìcio  del 
Conservatorio,  oltre  l'espulsione  definitiva  dalla  Corporazione,  si 
minacciarono  ai  colpevoli  di  broglio  per  le  elezioni  alla  carica  dij 
Console   (§  13). 

E  pur  nuova  fu  la  disposizione  che  nessun'altra  corporazione] 
potesse  elegger  Consoli,  eccetto  le  arti  della  Lana  e  degli  Orefici, 
sui  quali  ultimi  l'Arte  della  Seta  chiese  ed  ottenne  la  precedenza 
nella  processione  del  Sacramento,  in  risoluzione    di  una  annosaj 
contesa  vertente  su  tale  argomento  (§§  17  e  18). 

Seguivano  ancora  alcuni  paragrafi  che  facevano  obbligo  di  noni 
assumere  alle  varie  cariche  ed  uffici  presso  il  Consolato,  il  Con- 


—  85 


servatorio,  le  chiese  etc.  della  corporazione,  altri  che  i  figli  di  per- 
sone regolarmente  iscritte  al  libro  di  matricola  (§§  19  a  22). 

Ma  quel  che  meglio  vale  a  dichiararci  gli  avvenimenti  politici 
che  spinsero  il  duca  D'Arcos  a  mostrarsi  tanto  favorevole  ai  desi- 
deri degli  uomini  dell'Arte  è  Testensione  dell'indulto  pubblicato 
pei  tumulti  di  quell'anno  anche  a  benefìcio  di  quei  lavoranti  che 
avessero  preso  le  armi  durante  la  rivolta  capitanata  da  Masa- 
niello (§  26). 

Lo  stesso  D.  Giulio  Genoino,  creato  in  quei  giorni  presidente 
della  R.  Camera,  lesse  ai  deputati  dell'Arte  della  Seta  questi  capi- 
toli accordati  dal  viceré,  nei  quali,  oltre  al  resto,  si  permetteva 
a  tutti  i  lavoranti  di  portar  persino  spada  e  pugnale  come  a  gente 
di  nobile  rango. 


Questa  condiscendenza,  cui  il  duca  D'Arcos  si  vedeva  costretto 
dal  timore  di  nuovi  disordini  e  dal  desiderio  di  placar  l'ira  po- 
polare ^  gli  dettò  ancora  altre  prammatiche  in  favore  dell'Arte. 

Infatti  una  di  esse,  in  data  del  20  settembre  1647  ^  comminò 
la  pena  di  due  once  d'oro  e  della  perdita  degli  utensili  e  merci  a 
chi  non  denunziasse  entro  quindici  giorni,  secondo  era  già  stato 
ordinato  nei  documenti  manoscritti  che  abbiamo  visti  innanzi, 
il  numero  dei  telai  tenuti  in  casa. 

E,  seguendo  questo  sistema,  con  una  prammatica  del  28  settem- 
bre di  quell'anno  ^  richiamò  persino  in  vigore  l'antico  privilegio 
accordato  da  Ferdinando  d'Aragona  e  ormai  già  caduto  in  desue- 
tudine, ordinando  la  pena  pecuniaria  di  cinquanta, once  oltre  la 
confisca  dei  telai  e  di  tutto  l'occorrente  contro  coloro  che  lavoras- 
sero la  seta  fuori  dalla   città  di  Napoli. 

Ma  anche  questa  prammatica  sembra  sia  rimasta  inosservata 
poiché,  due  anni  dopo,  in  data  24  ottobre  1649,  il  conte  di  Ognat- 


Circa  questo  periodo,  oltre  il  Granito  in  Capecelatro  e  tutti  gli  altri 
lumerosi  autori,  cfr.  specialmente  M.  Schifa,  «  La  così  detta  rivoluzisne  di 
lasanìello  e  La  mente  di  Masaniello,  in  Arch.  stor.  nap.  (1916-1917). 

2  Altim.,  Pramm.  IX.  De  Magistris  Artìum  etc.  Tit.  LXXXII.  Ripor- 
ita  pure  da  Angelo  Granito  in  appendice  alla  prima  parte  della  edizione 
da  lui  curata  del  Diario  di  Francesco  Capecelatro. 

^  Altim.,  Pramm.  X.  De  Magistris  Artium  etc.  Tit.  LXXXII  riportata 
pure  dal  Granito  ncH'appendice  al  diario  del  Capecelatro. 


—  86  — 

te^,  tornato  ai  vecchi  metodi  e  preoccupandosi  del  più  utile  fun- 
zionamento degli  Arrendamentif  tollerava  e  riconosceva  di  nuovo 
rindustria  in  tutte  le  terre  del  regno,  e  dava  alcune  disposizioni 
circa  il  numero  dei  governatori  nelle  varie  province.  Da  questa 
epoca  rindustria  della  seta  divenne  libera  nel  regno,  mantenendosi 
tuttavia  al  Consolato  di  Napoli  il  privilegio  di  giurisdizione  insieme 
ad  altri  tra  i  più  importanti. 

Presto,  anzi,  per  ordine  espresso  del  re,  oltre  che  delle  sete  mani- 
fatturate  nelle  altre  città,  si  volle  la  libera  circolazione  di  quelle  che 
venivano  dalla  Spagna  e  s^impose,  in  una  lunga  prammatica  di 
Don  Gaspar  de  Haro  y  Guzmann  del  18  maggio  1684  2,  anche  il 
sistema  da  seguir  nella  lavorazione  per  far  che  i  drappi  lavorati 
nel  regno  risultassero  uguali  e  non  superiori  a  quelli  di  Spagna. 

Edi  questo  stesso  don  Gaspar  de  Haro  è  un'altra  prammatica 
del  28  novembre  1685  ^  circa  i  prezzi  dei  drappi,  che  in  quei  tempi 
s'erano  di  molto  elevati ,  contenente  il  divieto,  sotto  pena  di  una 
multa  di  mille  ducati,  di  vendere  i  tessuti  a  prezzo  superiore  a 
cinque  ducati  per  canna. 

Intanto  la  qualità  delle  sete  manif atturate ,  tra  il  disordine  e 
l'abbandono  e  sotto  le  continue  vessazioni  del  fìsco,  diveniva 
sempre  peggiore,  fino  a  costringere  la  Camera  della  Sommaria  a 
tentar  qualche  mezzo  per  porvi  riparo. 

Si  nominò  quindi  una  commissione  di  tecnici  che  studiasse 
bene  le  cause  e  proponesse  le  opportune  provvidenze,  special- 
mente per  quel  che  riguardava  la  tinta  dei  drappi  di  seta  nera,  dei 
quali  addirittura  non  venivano  più  richieste  dall'estero.  E  in  base 
alle  conclusioni  di  questa  commissione ,  in  un  bando  del  5  no- 
vembre 1703*,  si  ordinò  un  aumento  (da  16  a  18  grana)  del 
compenso  da  corrispondersi  ai  tintori  per  ogni  libra  di  seta,  e 
s'imposero  i  metodi  e  la  tecnica  che  dovevano  seguirsi  per  la  tin- 
tura, sotto  pena  di  tre  anni  di  galera  e  di  venticinque  once  d'oro. 

E  con  un  altro  bando  del  22  gennaio  1704  5,  su  conforme  ordine 
del  viceré,  la  Sommaria  dispose  l'assoluto  divieto  di  esportazione 
della  galla  crespa,  necessaria  alle  tinte  nere,  per  evitare  che  ne  di- 
minuisse la  quantità  e  ne  aumentasse  il  prezzo.  JHj 

1  Altim.,  Pramm.  XXII.  De  Vectigalibus  et  Gabellis  etc.  Tit.  CLXVII. 
N.  13  e  14. 

*  Altim.,  Pramm.  XIII  De  Magistris  Artium  etc.  Tit.  LXXXII. 

3  Altim.,  Pramm.  XIV.  De  Magistris   Artium  etc.  Tit.  LXXXII. 

*  Altim.,  Pramm.  XVII  De  Magistris  Artium  etc.  Tit.  LXXXII. 

6  Altim.,  Pramm.  XVIII.  De  Magistris  Artium,  etc.  Tit.  LXXXII. 


87 


Così ,  con  quest'  ultimo  documento ,  possiamo  dire  si  chiuda 
anche  tra  le  prammatiche  la  serie  delle  disposizioni  attinenti  all'in- 
dustria deUa  seta  in  Napoli. 


Quanto  al  tribunale  del  Consolato,  sebbene  ormai,  come  s'è  detto, 
l'industria  fosse  stata  permessa  in  tutto  il  r  gno,  rimase  in  vita 
fino  a  quando,  per  i  moti  liberali  del  1799^,  venne  abolito  insieme 
alla  massima  parte  delle  istituzioni  che  avevano  troppo  spiccata 
impronta  medievale. 

Del  resto  ormai  esso  era  srpravvissuto  allo  scopo  cui  doveva  la 
sua  fondazione  ;  e  con  esso  finiva,  in  tutte  le  sue  manifestazioni,  a 
vita  stessa  dell' A  We  della  Seta. 

Rimaneva  invece  un'altra  fondazione  sorta  dall'utopia  plato- 
nica d'un  altro  principe  :  la  colonia  del  vicino  colle  di  San  Leucio, 
cui  forse  l'avvenire  non  avrebbe  negato  incremento  e  floridezza. 

Già  da  un  decennio  Y  industria  vi  si  esercitava  con  prospera 
fortuna  dagli  abitanti  serenamente  felici,  quasi  a  rinnovare  e  su- 
perare V  ormai  decrepita  istituzione  di  Ferdinando  I  d'Aragna. 
E  la  sua  costituzione,  ispirata  dal  Filangieri,  glorificata  dal  Colletta 
ed  ammirata  dal  Dumas ,  sembrò  così  fatalmente  conchiudere, 
con  un'altra  iniziativa  forse  geniale,  la  vita  di  più  che  tre  secoli 
dei  privilegi  dell' Ar/e  della  Seta. 

fine 

Raffaele  Pescioi^e 


'  Celano  Carlo,  Notizie  del  bello,  dell'antico  e  del  curioso  della  città  di 
Sapoli,  ediz.  del  Chiarini,  Napoli,  1858,  III,  pag.  698. 


L'ESERCITO     NAPOLETANO 

DALLA 

MINORITÀ    DI    FERDINANDO 

ALLA 

REPUBBLICA   DEL   1799 


L    ORGANIZZAZIONE 
(1759-1790) 

SOMMARIO 

L'esercito  durante  la  minorità  di  Ferdinando  —  Il  Palmieri  e  la  riforma 
del  1765  —  G.  Acton  Direttore  di  guerra  (1779-1780)  :  primo  rinnova- 
mento della  fanteria  (1786)  —  La  «  Reale  Accademia  Militare  »  (1786) — 
Gl'istruttori  stranieri  :  il  Salis  e  il  Pommereul  —  Trasformazione  radi- 
cale delle  tre  armi  fondamentali  (1787-88)  —  Intrighi  di  M.  Carolina  e 
fallimento  del  piano  di  Salis:  sua  partenza  (1790) — Critica  degl'istituti 
militari  napoletani  alla  vigilia  della  Rivoluzione  Francese. 

Il  maggiore  T.  Battaglini  ha  ricercato  nella  catastrofe  del  *60 
la  «  fine  »  dell'esercito  meridionale^:  non  sarà  inutile  studiare 
su  nuove  fonti  ^  le  «  origini  »  dello  stesso  esercito  ,  che  accanto 
ad  imprese  ingloriose,  ad  episodi  oscuri  e  disonorevoli,  ebbe  ful- 

^  La  fine  di  un  esercito,  Roma,  Voghera,  1913. 

2  II  presente  articolo  si  basa  principalmente  sulle  seguenti  fonti  mano- 
scritte : 

1°  LoGERoT,  Memoria  storica  scientifico-politico-militare  del  Regno  delle 
Due  Sicilie  dal  1734  al  1815  (Ms.  XXVI,  C,  6  della  Soc.  Nap.  di  Storia 
Patria). 

2°  Arch.  di  Stato  di  Napoli:  Aff.  Esteri,  Scritture  raccolte  dalle 
Segreterie  di  Stato  di  G.  Acton,  volumi  XLII  (nn.  12,  13,  14),  XLIII(n.  28) 
XLVI  (nn.  2,    11),  XLVII  (nn.  2,  8). 

3°   Id.,   Segr.  di  Guerra,   Beali  Orrfmi  (1767-1789). 

4°  Arch.  di  Stato  di  Venezia:  Dispacci  del  Residente  Veneto  a  Na- 
poli -  Filze  1%  2»,  3»  (1787-1790)  -  voli.  165-167. 


—  89  — 

gide  pagine  di  perizia  e  di  valore,  e  sui  campi  di  Lombardia 
nella  prima  campagna  d'Italia,  in  Ispagna,  in  Germania  e  in 
Russia  durante  le  guerre  napoleoniche,  tenne  alto  nel  mondo  il 
nome  del  soldato  italiano. 

È  ben  conosciuto  il  motto  attribuito  al  Tanucci  : 

•"    Principini,  ville  e  casini, 

principoni,  armate  e  cannoni  ; 

ed  è  da  tutti  i  vecchi  storici  ripetuta  l'accusa,  probabilmente 
uscita  dalla  Corte  stessa,  che  il  celebre  ministro  toscano  abbia 
trascurato  vergognosamente  la  difesa  del  regno. 

Certo,  anche  nel  periodo  della  minorità  di  Ferdinando  (1759- 
1767)  poco  fu  fatto  per  l'esercito,  minore  d'un  terzo  della  pianta 
fissata,  affidato  nel  consiglio  di  reggenza  aD.  Domenico  di  San- 
gro  capitan  generale,  «in  tutt'altre  faccende  affaccendato  ì)K 

Bisogna  tuttavia  convenire  che  la  lunga  pace,  (è  noto  che 
a  malgrado  del  «  patto  di  famiglia  »  il  regno  di  Napoli  col 
tacito  consenso  di  Carlo  III  si  era  mantenuto  neutrale  nella 
guerra  per  l' indipendenza  degli  Stati  Uniti  d'America)  e  la 
mollezza  dei  costumi,  triste  retaggio  della  dominazione  spa- 
gnuola,  avevano  sviato  dalla  milizia  l'opera  del  governo  e  im- 

»  Quali  fossero  le  condizioni  dell'esercito  napcletano  all'inizio  del  regno 
di  Carlo  è  stato  narrato  ampiamente  dallo  Schifa,  Il  regno  di  Napoli  al 
tempo  di  Cado  di  Borbone,  Napoli,  Pierro,  1904,  p.  22  sgg.  -  Cfr.  R.  Pa- 
risi, in  Lega  del  Bene,  a.  VI  (1891),  nn.  37-39.  Anche  la  «  gloria  di  Vel- 
letri  »  è  da  relegarsi  tra  le  pietose  menzogne  :  mons.  Celestino  Galiani, 
«  cappellano  maggiore  del  regno  e  superiore  spirituale  dell'esercito  »  ci 
espone  nel  suo  Diario  lo  stato  miserando  dei  reggimenti  napoletani,  ri- 
dotti dalle  diserzioni,  indisciplinati,  turbolenti,  saccheggiatori  (Diario  della 
guerra  di  Velletri  scritto  da  mons.  Celestino  Galiani,  in  questo  Archivio, 
XXX  (1905)  p.  339  sgg.).  E  più  tardi  Ferdinando  Galiani,  reduce  da 
una  gita  ad  Orbetello,  ricordava  al  Tanucci  argutamente  il  reggimento  di 
Hainaut  «  lacero,  povero,  ma  contento  »,  e  le  «  usu-consumptae  uniformi  dei 
soldati  di  Portolongone  »  !  (Nicolini,  Lettere  di  B.  Tanucci  a  F.  Galiani, 
in  questo  Archivio,  XXX  (1905)  p.  218,  n.  3).  Nessuna  notizia  militare 
è  tanto  nella  monografia  di  C.  Losurdo,  Tanucci  e  la  Reggenza  al  tempo 
di  Ferdinando  IV  {ottobre  1769-1765),  Bari,  Trizio,  1911,  quanto  nella 
più  recente  di  M.  Vinciguerra,  La  reggenza  borbonica  nella  minorità  di 
Ferdinando  IV,  in  questo  Archivio,  n.  s.  I  (1915),  p.  576  sgg. 


-  90  — 

pedito   il  formarsi  di  quello  spirito    militare,  senza    del  quale 
ogni  esercito  non  è  che  un'informe  accozzaglia  di  uomini. 

Ma  nel  1761  vedevano  la  luce,  meritamente  lodate  da  Fede- 
rico il  Grande,  quelle  Riflessioni  critiche  sulV  arte  della  guerra 
del  marchese  Giuseppe  Palmieri  i,  che  segnano  davvero  il  punto 
di  partezna  delle  prime  riforme  degl'istituti  militari.  Agi'  in- 
segnamento dell'insigne  pugliese,  il  quale  primo,  a  giudizio  del 
Blanc,  «  diede  forma  scientifica  alla  serie  delle  pratiche  che  co- 
stituivano l'arte  della  guerra  »,  s'  ispirano  infatti  quelle  parziali 
riforme  del  1765  che  tendevano  a  semplificare  i  pesanti  ordi- 
namenti spagnuoli.  Stabiliva  infatti  il  re,  per  mezzo  del  Dipar- 
timento di  Guerra,  allora  diretto  dal  ten.  gen.  Antonio  del  Rio, 
la  riduzione  allo  stesso  piede  di  tutti  i  reggimenti  di  fanteria 
(veterani,  provinciali,  valloni  e  siciliani),  la  soppressione  del 
reggimento  dei  Corsi  e  la  riforma  dei  12  reggimenti  provin- 
ciali, che  venivano  ridotti  a  6  con  opportune  fusioni  e  con  più 
larghi  criteri  di   circoscrizione   territoriale. 

1  reggimenti  svizzeri,  che  avevano  le  loro  particolari  capito- 
lazioni, e  la  cavalleria,  che  già  aveva  visto  aumentati  da  cinque 
ad  otto  i  suoi  reggimenti  con  la  formazione  di  Napoli  e  Sicilia, 
dovuta  ai  principi  di  Cutò  e  di  Campofranco,  e  dei  dragoni  di 
Principe,  rimanevano  immutati  2.  Sicché  con  la  riforma  del  1765 

^  Cfr.  G.  Ferrarelli,  Il  marchese  Palmieri  e  le  sue  riflessioni  critiche 
sull'arte  della  guerra,  in  Memorie  militari  del  Mezzogiorno  d'Italia,  Bari,  La- 
terza, 1911,  p.  99  sgg.  -  Il  Palmieri,  nato  a  Martignano  (Lecce)  il  5  mag- 
gio 1721,  era  stato,  da  giovinetto,  alfiere  nel  regg.  di  fanteria  Real  Bor- 
bone, poi  successivamente  aiutante  maggiore  nelle  Guardie  Italiane  (1744, 
quando  combattè  a  Velletri)  e  tenente  colonnello  di  Calabria  (1752).  Dieci 
anni  dopo,  pL'bblicato  il  suo  maggior  lavoro  militare,  si  ritirava  dall'eser- 
cito, dandosi,  com'è  noto,  agli  studi  d'economia.  Cfr.  B.  De  Rinaldis, 
Sulla  vita  e  le  opere  del  marchese  Palmieri,  Lecce,  1850. 

2  I  due  reggimenti  di  Abruzzo  Citra  ed  Ultra  furono  riuniti  con  quello 
di  Molise,  formando  il  regg.  Sannio  ;  i  due  di  Principato  Citra  ed  Ultra 
con  quello  di  Terra  di  Lavoro  costituirono  il  regg.  Campagna,  con  l'appel- 
lativo di  Reale  per  la  bella  condotta  tenuta  a  Velletri,  quelli  di  Calabria 
atra  ed  Ultra  il  regg.  Calabria,  quelli  di  Capitanata  e  Terra  di  Bari  il 
regg.  di  Puglia.  I  due  di  Basilicata  e  di  Terra  d'Otranto  assunsero  i  nomi 
di  Lucania  e  di  Messapia.  I  reggimenti  siciliani  R.  Palermo,  Agrigento  e 
Siracusa  erano  stati  formati  rispettivamente  dai  principi  di  Villafranca 
di  Calvaruso  e  di  Pietrapersia. 


I 


91 


l'esercito  napoletano  aveva  nominalmente  una  forza  di  35,011 
uomini,  cosi  distribuiti: 


Guardia  Reale 
Fanteria 


Cavalleria 


—  (Reali  Guardie  Italiane  e  Svizzere)      2581 

—  7  Reggimenti  Veterani  (Re,  Regina, 

R.  Borbone,  R.  Farnese,  R.  Na- 
poli, R.  Palermo,  R.  Italiano) 

—  1  Reggimento   Estero    (R.  Macedo- 

nia) 

—  8  Reggimenti  Nazionali  (Real  Cam- 

pania, Puglia,  Lucania,  Sannio, 
Messapia,  Calabria,  Agrigento,  Si- 
racusa) 16,000 

—  3  svizzeri  (Tschoudy,  Wirtz  e  Jau- 

ch) 1  6250 

—  4  valloni  (Hainaut,  Namur,  Borgo- 
gna, Anversa)  4000  -  26,250 

—  4  Cavalleria  leggera  (Re,  Rossiglio- 

ne, Napoli,  Sicilia) 

—  4  dragoni    (Regina ,    Tarragona  , 
Borbone,  Principe) 


Artiglieria 
Truppe  leggere 


(Micheletti) 


^  5140 
744 
300 

Totale—  35,011 


Era  quello  il  tempo  in  cui  il  giovane  principe  si  divertiva 
a  far  manovrare  i  suoi  corpi  scelti  nel  boschetto  di  Portici  o 
intorno  alla  piazza  di  Gaeta,  e  a  racoglier  le  lodi,  per  T  ele- 
gante tenuta,  di  generali  tedeschi  come  il  duca  di  Brunswick 
e  il  principe  di  Mechlemburgo-Strelitz;  ma  la  lunga  pace  che 
•  seguì  ai  trattati  d'Aquisgrana  toglieva  ogni  occasione  di  speri- 
mentare quelle  truppe  sui  campi  di  battaglia  ;  che  l'occupazione 
di  Benevento,  avvenuta  il  4  giugno  1768  da  parte  del  briga- 
diere Finocchietti  —  poco  dopo  l'uscita   di  minorità  di  Ferdi- 


II  regg.  svizzero  BaisUr  non  faceva  più  parte  deiresercito. 


—  92  — 

nando  —  e  di  Pcntecorvo  (cap.  Longo,  6-7  giugno)  per  le  note 
vertenze  con  Roma^  non  fu  che  una  passeggiata  militare. 

Né,  in  attesa  di  più  radicali  riforme,  si  trascuravano  gl'isti- 
tuti di  educazione  militare. 

Con  ordinanza  26  dicembre  1769  l'antica  Reale  Accademia 
d* Artiglieria  (1744)  e  quella  del  Corpo  degV Ingegneri  (1754)  ven- 
nero fuse  col  nome  «  non  bene  appropriato  »  di  Reale  Accade- 
mia Militare,  primo  germe  di  quel  glorioso  istituto  che  diede 
all'esercito  napoletano  tanti  valorosi  ufficiali  2,  e  mentre  veniva 
istituito  un  corpo  scelto  di  cadetti,  prima  detto  della  Real  Bri- 
gata, poi  Battaglione  Real  Ferdinando,  di  cui  il  re  stesso  era 
colonnello,  il  quale,  secondo  l'ordinanza,  avrebbe  dovuto  servire 
«  di  vivissima  forza  tattica  ne'  rincontri  più  difficili  della  guerra  »  \ 
si  gettavano  le  basi  di  quell'  Ufficio  topografico  militare,  fondato 
nel  1780  dal  geografo  padovano  Antonio  Rizzi-Zannoni,  poi  reso 
celebre  nei  primi  decenni  del  secolo  XIX  dall'opera  del  gene- 
rale Ferdinando  Visconti  (1772-1845)4. 


*  Cfr.  Del  Pozzo,  Cronaca  civile  e  militare  delle  Due  Sicilie  sotto  la  di- 
nastia borbonica  dall'anno  17  34  in  poi,  Napoli,  1857,  ad  annum. 

2  Ferrarelli,  IZ  Collegio  Militare  di  Napoli,  in  Memorie  militari  cit., 
p.  12  sgg.  -  La  sede  di  questo  istituto  era  originariamente  nel  locale  di 
S.  Lucia  a  Mare,  detto  la  Panatica  ;  ne  fu  per  qualche  tempo  ispettore  i] 
ten.  col.  Matteo  Scalfati,  uomo  di  grande  merito,  autore,  fra  altro,  d'una 
opera  intitolata  :  Progetto  d'una  scienza  militare.  Per  gli  allievi  di  questa 
scuola  furono  pubblicati  (eccellente  metodo)  libri  per  quei  tempi  famosi  : 
Giuseppe  Poli  scrisse  il  suo  Corso  di  Geografia  e  Storia  Militare;  Vito  Cara- 
velli,  che  vi  fu  «  Direttore  delle  Scienze  »,  un  Corso  di  Matematica  (Cfr. 
Amodeo,  Dai  fratelli  Di  Martino  a  Vito  CaravelU,  in  Atti  Acc.  Pont.,  1902) 
e  gli  Elementi  di  Astronomia  ;  Giuseppe  Parisi  (1750-1831),  che  fu  quartier- 
mastro generale  nella  guerra  del  1798,  i  suoi  celebrati  Elementi  di  archi- 
tettura militare. 

3  II  battaglione,  sciolto  con  dispaccio  27  ottobre  1786,  ebbe  sede  dapprima 
nell'edificio  della  Croce  di   Palazzo  (quest'edifìcio  coi  giardini  occupava  lo 
spazio  dove  sorsero  poi  i  palazzi  dei  principi  di  Salerno  e  di  Capua),  indi 
dopo  il  1774,  separati  gli  allievi  di  minore  età,  che  furono  inviati  a  com 
piere  i  loro  studi  nel  Collegio  Militare,  in  Castel  S    Elmo.  Cfr.  D'Ayala 
Napoli  Militare,  Napoli,  Stamp.  dell'Iride,  1847,  p.  93  ;  Florio,  Annali,  i 
questo  Archivio,  XXXI  (1907),  p.  46;    Nap.  nobilissima,  VII  (1898),  p.  79. 

*  Ferrarelli,  Intorno  all'ufficio  topografico  e  al  gen.  Ferdinando  Visconti 
in  Memorie  militari  cit.,  p.  90  sgg. 


i 

;)." 


~  93  — 

Ma  r  esercito  napoletano  aveva  assoluto  bisogno  di  ben  più 
ardite  riforme,  di  svecchiamenti  fondamentali  :  le  grandi  guerre 
che  avevano  aperto  il  secolo  e  rivelato  al  mondo  il  genio  mi- 
litare di  Federico  di  Prussia,  avevano  sconvolto  la  tattica  e  la 
strategia  nazionale,  dato  importanza  capitale  alle  armi  a  lunga 
portata  e  specialmente  all'  artiglieria  leggera,  mentre  a  capo 
dell'esercito  rimanevano  sempre  vecchie  cariatidi  del  passato, 
ricche  d'anni  e  di  decorazioni,  ma  non  di  studi  e  d'ingegno, 
quali  il  gen.  Antonio  Ottero,  ministro  della  guerra,  buono  ma 
incapace,  e  il  capitan  generale  Reggio  principe  di  Campofiorito 
Jaci,  cadente  per  età,  dopo  lunghi  anni  d'ambascerie  all'estero. 

Codesta  necessaria  riforma  degli  ordini  militari  coincide  con 
due  fatti  politici  di  grande  importanza  pel  regno  :  la  venuta 
di  Giovanni  Acton,  l'emancipazione  dalla  Spagna.  Togliersi  dalla 
sudditanza  spagnuola  voleva  dire  trasformare  radicalmente  l'eser- 
cito, mutarne  gl'ingranaggi  e  le  ruote  arruginite  dal  tempo; 
affidarne  il  carico  all'Acton  significava  non  soltanto  accentuare 
questo  distacco,  ma  orientare  la  riforma  verso  modelli  ben  defi- 
niti, dare  ad  essa,  d'altronde,  un'impronta  personale. 

Così  si  ebbe  per  1'  esercito,  dato  il  predominio  della  regina, 
il  trionfo  dell'ordinamento  tedesco,  come  per  la  marina  un  piano 
originale  voluto  ed  attuato  dall'antico  ufficiale  al  servizio  to- 
scano. 

Già  nei  primi  mesi  del  1779  Giovanni  Acton  era  segretario 
di  stato  pel  ripartimento  della  Marina,  e  l'anno  dopo,  nel  giu- 
gno, accentrava  per  volontà  regia  le  due  segreterie  di  Guerra 
e  Marina. 

Non  è,  credo,  ancor  noto  che  Carlo  III,  avversario  tenace 
di  ogni  riforma  dell'Acton,  mandò  a  Napoli  per  modificare  e 
sospendere  le  divisate  innovazioni,  i  generali  spagnuoli  Gioa- 
chino Fons  de  Viela  e  Giuseppe  Roca,  inutilmente  ;  che  anzi 
la  caduta  del  marchese  della  Sambuca,  cioè  la  definitiva  scon- 
fitta del  partito  spagnuolo,  coincide  con  la  grande  riforma  mi- 
litare del  1786. 

La  quale  venne  tuttavia  preparata  lentamente  con  nume- 
rose disposizioni  :  furono,  ad  esempio,  aboliti  i  reggimenti  val- 
loni di  Namur  ed  Anversa  e  con  essi  completati  gli  altri  due 
di  Hainaut  e  di  Borgogna,  regolata  la  distribuzione  omogenea 


—  94  — - 

degli  ufficiali  e  dei  sottufficiali  nei  vari  reggimenti  e  i  loro  sti- 
pendi, riuniti  sotto  un'unica  Intendenza  generale  delVesercito 
tutti  i  servizi  amministrativi,  assegnato  al  «  ramo  militare  » 
uno  stanziamento  permanente  di  ducati  2,700,000,  aumentabile 
in  via  straordinaria  di  altri  300,000  ^  migliorati  i  corsi  di 
studio  dell'Accademia,  specialmente  quelli  scientifici. 

Contemporaneamente,  mentre  scelti  ufficiali  d'artiglieria,  fra 
cui  Tommaso  Susanna  e  Filippo  Castellano,  venivano  inviati  a 
perfezionarsi  a  Bologna  alla  scuola  del  celebre  matematico  Giro- 
lamo Saladini,  altri,  come  Macry,  Pignatelli  di  Cerchiara,  Bruni, 
del  Re,  Genzano,  Roxas,  Serrano,  erano  nel  1782  incaricati  di 
recarsi  in  Francia  e  in  Germania  allo  scopo  di  studiare  i  nuovi 
regolamenti  sull'amministrazione  delle  truppe,  gristituti  di  e- 
ducazione  militare,  le  recenti  scoperte  nei  servizi  del  genio  e 
dell' artiglieria  2.  Li  comandava,  Giuseppe  Parisi,  il  cui  nome 
è  legato  alla  grande  riforma  dell'Accademia,  qualche  anno  dopo 
compiuta. 

Notevoli  sono,  sopratutto,  le  opere  militari  e  civili  dovute^ 
in  questo  tempo    al   Corpo    degl'Ingegneri,    alcune  delle  qual^ 
ancora  oggi  sussistono,  altre  furono  poi  interrotte  dall'incalzare 
degli  avvenimenti  politici. 

Mentre  il  Dipartimento  di  Guerra  e  Marina  affidava  al  Rizzij 
Zannoni  lavori  cartografici  di  grande  importanza ^  ring.  Ai 


^  Il  bilancio  della  guerra  assorbiva  per  il  servizio  ordinario  quasi 
^Ig  delle  rendite  dello  stato,  e  la  metà  nel  caso  dell'aumento  straorc 
nario. 

2  D'Ayala,  Le  vite  dei  più  celebri  capitani  e  soldati  napoletani,  Napoli 
St.  dell'Iride,   1843,  pp.  7,  39,  372. 

»  Già  fin  dal  1769,  com'  è  noto,  lo  Zannoni  per  incarico  del  Tanucc 
aveva  disegnato  a  Parigi,  sotto  la  direzione  di  F.  Galiani,  allora  segr€ 
tario  di  legazione,  una  carta  in  quattro  fogli  del  regno  di  Napoli,  la  qualt 
sebben  fatta  su  vecchi  materiali  e  lontano  dai  luoghi,  era  riuscita  di  grai 
lunga  superiore  a  quelle  del  Petrini,  del  Bulifon,  del  Pacichelli,  del  M£ 
gini.  Cfr.  A.  Blessich,  L'abate  Galiani  geografo,  in  Napoli  nobilissima, 
(1896),  145;  id..  Un  geografo  italiano  del  sec.  XVIII:  Giovanni  Antoni 
Rizzi-Zannoni  (1736-1814),  in  Boll.  d.  Soc.  Geogr.,  s.  Ili,  1898,p.  11.— V< 
nuto  a  Napoli,  oltre  a  vari  lavori  geodetici,  lo  Zannoni  attese  alla  compi 
lazione  d'un  atlante  marittimo,  ad  una  carta  generale  del  regno  di  Napol 


—  95  — 

drea  Pìgonati  era  inviato  a  restaurare  l'antico  porto  militare 
di  Brindisi,  si  affidava  a  Francesco  Securo  il  riattamento  del 
porto  di  Baia  e  la  riedificazione  del  porto  di  Miseno  con 
la  riapertura  del  Mar  Morto,  la  bonifica  dei  terreni  incolti  di 
Baia,  Miseno ,  Bacoli ,  Miniscola  e  Cuma,  lo  scolo  delle  acque 
del  Fusaro,  e  l'apertura  d'una  nuova  comunicazione  fra  il  lago 
d'Averno  e  il  Lucrino.  Al  genio  militare  si  deve  la  rico- 
struzione di  Messina,  distrutta  dal  terremoto  del  1783  ;  ad  un 
altro  ingegnere,  Giuseppe  Capri,  che  assieme  ad  Antonio  Win- 
speare  e  all'architetto  civile  Lorenzo  Jaccarinc  faceva  parte  della 
Giunta  delle  Strade,  la  costruzione  della  nuova  via  d'Abruzzo  ; 
mentre  nella  capitale,  per  ricordare  soltanto  le  cpere  pubbliche 
di  maggior  mole,  il  marchese  di  Montemayor  dirigeva  nel  1780 
il  lavoro  della  scarpata  di  Pizzofalcone  verso  il  Chiatamone, 
e  sorgeva  l'edificio  dei  Granili,  dovuto  all'  opera  dell'Ascione  e 
dell'ingegnere  camerale  Francesco  Viti^. 

*  * 

Il  piano  di  trasformazione  della  fanteria  di  linea  secondo  i 
criteri  dell' Acton,  a  cui  non  furono  estranei  i  suggerimenti  e 
gli  studi  del  Parisi  ritornato  di  Germania  nel  novembre  1785, 
porta  la  data  del  1786. 

La  fanteria  veniva  distribuita  in  23  reggimenti:  1  di  Reali 
Guardie  Italiane,  17  fra  veterani,  nazionali  e  valloni,  4  sviz- 
zeri, fra  cui  uno  di  Guardie  Reali,  1  di  Macedoni,  oltre  al 
corpo  d'Artiglieria.  E  mentre  quest'  ultimo  si  portava  ad  una 
forza  quasi  tripla  della  precedente,  e  al  doppio  quella  del 
Regg.to  R.  Macedone,  si  riduceva  d'un  terzo  la  forza  degli 
Svizzeri,  di  cui  si  divisava  in  tempo  non  lontano  l'abolizione. 
Nello  stesso  tempo  si  stabiliva  che  in  caso  di  guerra  tutti  i  reg- 


divisa  in  più  fogli,  ad  un'altra  militare,  e  ad  una  carta  geografica  dei  con- 
fini settentrionali  del  regno  per  le  eterne  vertenze  con  Roma. 

^  Per  più  ampi  particolari  vedi  Logerot,  ms.  cit.,  cap.  V,  §  3»  -  Sui 
Granili,  iniziati  alla  fine  del  1778,  cfr.  Florio,  Annali  cit.,  XXXI,  42) 
LuD.  DE  LA  Ville-sur-Yllon,  Dal  Carmine  a  Revigliano,  in  Nap.  nob., 
Vili  (1899),  p.  4. 


96 


gimenti  di  fanteria,  eccettuate  le  Guardie  Italiane,  si  accresces- 
sero d'un  battaglione  di  milizie  provinciali.  Si  aveva  così  in 
pace  una  forza  di  fanteria  di  31,462  uomini,  in  guerra  di 
46,643,  compreso  il  Corpo  Reale  d'Artiglieria  : 

1  Guardia  Reale  (Reali  Guardie  Italiane)  1417 

7  Veterani  {Re,   Regina,    R.  Borbone,    R. 

Farnese,   R.  Napoli,  R.  Palermo,  R.  I- 
taliano) 

8  Nazionali   {Campania,   Puglia,  Lucania,  {  20213 

Sannio,  Messapia,  Calabria,  Agrigento, 
Siracusa) 

2  Valloni  {Borgogna,  Hainauf) 
1   Estero   {Real  Macedonia)  2012 
4  Svizzeri  {Reali  Guardie  Svizzere,    Wirtz, 

Tschoudy,   Jauch)  5800 

Provinciali  (in  tempo  di  guerra)  8500; 

Artiglieria  2020; 

Ognuno   dei   reggimenti  di    fanteria   era    composto  di  ducj 
battaglioni  di  fucilieri   e  di  due  compagnie    di  granatieri,   sa 
eccezione   delle  Reali  Guardie  Italiane,  che  avevano  quattro! 
compagnie  di  granatieri.  Nessun  mutamento  nelle  altre  armi:] 
la  cavalleria  continuava  ad  esser  composta  di  otto  reggimenti 
(dei  quali  4  di  dragoni)  agli  ordini  dell'ispettor  generale  ma- 
resciallo Filippo    Spinelli  ;  l' artiglieria  e  il  corpo   degl'  inge- 
gneri conservavano  il  loro  stato  maggiore  ;  la  fanteria  dipendevi 
da  due  ispettori,  i  marescialli  Sanchez  de    Luna    e    Michele 

Ódeai. 

Ma  l'anno    stesso,  aboliti  il  battaglione  Real  Ferdinando,  il 
Collegio  Militare  d'antica  fondazione  e  la  Reale  Paggeria,   ri-j 

*  Veniva  contemporaneamente  arredato  con  le  più  moderne  esigenze] 
della  scienza  l'ospedale  militare  di  S.  Giacomo  degli  ^Spagnoli,  sotto  il 
governo  della  Real  Casa  dello  Spedale,  presieduto  prima  dal  march. 
Ferdinando  Corradini,  poi  dal  caporuota  Basilio  Palmieri  ;  ne  fu  primo 
direttore  generale  il  cav.  Ferdinando  Logerot,  incaricato  anche  delle  fun- 
zioni d' intendente  dell'esercito. 


97 


ceveva  stabile  assetto,  eccellenti  norme  e,  qualche  mese  dopo, 
sede  decorosa  nel  bello  e  vasto  edifìcio  della  Nunziatella  a 
Pizzofalcone  (un  tempo  noviziato  dei  Gesuiti,  poi  sede  del  Real 
Collegio  Ferdinando  per  giovinetti  nobili,  trasferito  con  dispaccio 
18  maggio  1787  nell'Università)  la  Reale  Accademia  Militare. 

Accoglieva  essa,  nel  suo  prime  anno  di  vita,  240  allievi  fra 
cui  16  paggi,  divisi  in  quattro  brigate.  Primo  comandante  ne 
fu  il  maresciallo  Domenico  La  Leonessa  di  Supino  ;  coman- 
dante in  seconda  e  ispettore  degli  studi  il  ten.  col.  Parisi,  a 
cui  si  deve  il  piano  generale  dell'istituto;  governatore  il  ten. 
gen.  Francesco  Pignatelli-Strongoli,  comandanti  di  brigata  i 
capitani  Vincenzo  Perez-Conde,  Stanislao  Espin,  Roberto  Mira- 
belli  e  Tommaso  Susanna.  E  professori  fra  i  più  noti,  come  An- 
nibale Giordano,  Saverio  Macry,  Pasquale  Baffi  furono  chiamati 
ad  insegnarvi,  fornita  la  biblioteca  delle  migliori  opere  d'arte 
militare,  dotati  i  gabinetti  dei  più  moderni  strumenti,  stabilita 
la  costruzione  d'una  specola  astronomica,  destinato  il  forte  di 
Vigliena  e  il  terreno  adiacente  agli  esercizi  degli  allievi. 

Questo  glorioso  istituto,  che  superò  immutato  tutte  le  crisi 
della  monarchia  borbonica,  divenne  fonte  inesauribile  di  uffi- 
ciali valorosi  e  colti,  da  A.  Begani  ai  d'Ambrosio,  dai  Pepe  al 
Colletta,  da  Luigi  Arcovito  al  d'Aquino,  per  ricordare  soltanto 
i  migliori  tra  quelli  che  operarono  durante  il  burrascoso  pe- 
riodo delle  guerre  napoleoniche  i. 

1 

*% 

Subito  dopo,  mentre  ufficiali  sopratutto  delle  armi  speciali 
venivano  inviati  a  perfezionare  la  loro  coltura  tecnica  in  Fran- 
cia   e   in   Germania  ^  G.    Acton   persuadeva    il  re  a  chiamar 

*  Cfr.  FERRA.RELLI,  Il  Collegio  Militare  di  Napoli,  in  Memorie  militari, 
cit.  p  5  sgg.  -  Parecchie  altre  notizie  sull'ordinamento  della  Nunziatella 
e  sui  primi  direttori  ed  insegnanti  sono  in  Logerot,  ms.  cit.,  cap.  V,  §  5.» 

'  Vi  andavano  scelti  ufficiali  d'artiglieria,  Luigi  Parisi,  Oronzo  Massa, 
Gavino  Mena,  Pietro  Duchéne,  Emanuele  Ribas,  sotto  la  guida  del  capi- 
tano Giov.  Antonio  di  Torrebruna,  a  visitare  in  Francia  le  più  famose  of- 
ficine dell'arma,  come  la  celebre  fonderia  di  cannoni  del  Moncenisio  e  le 
fabbriche  tedesche  di  Strasburgo. 

Anno  XLV.  7 


a  Napoli  direttori  ed  istruttori  stranieri  che,  trasformando  ra- 
dicalmente l'esercito,  traducessero  in  atto  le  conoscenze  e  le 
esperienze  della  guerra  dei  Sette  Anni  e  di  quella  per  l'indi- 
pendenza degli  Stati  Uniti  d'America  :  per  la  fanteria  il  ge- 
nerale Rodolfo  de  Salis-Marchlins,  svizzero  del  Canton  dei  Gri- 
g,ioni,  il  brigadiere  Daniele  de  Gambs,  gli  ufficiali  superiori 
De  Burckhardt,  di  Basilea,  e  de  Rosenheim;  per  la  cavalleria  il 
brigadiere  Oreille  e  l'ufficiale  superiore  de  Bock;  per  l'artiglieria 
e  il  genio  il  brigadiere  Renato  de  Pommereul  e  gli  ufficiali  su- 
periori Rugìs  e  Lamartinière.  E  dalla  Francia  venivano  fra  gli 
altri  istruttori,  Eblé,  Devaux,  Lahalle,  Augereau:  i  due  primi 
divenuti  più  tardi  generali  di  divisione  sotto  la  Repubblica,  il 
terzo  morto  colonnello  d'artiglieria  a  Napoli,  il  quarto  —  allora 
sergente  —  divenuto  sotto  l' impero  maresciallo  di  Francia  e 
duca  di  Castiglione.  A  questi  uomini,  e  specialmente  al  Salis, 
che  un  dispaccio  della  fine  di  novembre  del  1787  dichiarava 
«  ispettore  generale  di  tutta  la  truppa  »,  all'Oreille  e  al  Pom- 
mereul, allievo  del  celebre  Gribeauval,  fu  affidato  il  diffìcile 
incarico  di  riorganizzare  l'esercito  napoletano  nelle  sue  tre  armi 
fondamentali^. 


1  II  Salis  (1732-1807),  che  dal  1780  aveva  titolo  di  maresciallo  di 
campo  dell'esercito  francese,  giunse  a  Napoli  nella  seconda  metà  di  no- 
vembre del  1787.  Secondo  il  Gorani  (Mémoires  secrets  et  critiques  des 
couts,  des  gouvernemens  et  des  moeiirs  dcs  principaux  états  de  l'Italie,  Paris, 
Buisson  ,  1793,  I.  200)  e  il  Dumas  (I  Borboni  di  Napoli ,  Napoli,  Iride, 
1861,  I,  254)  il  suo  nome  era  stato  fatto  alla  Corte  da  un  fratello  del- 
l'Acton,  anche  lui  maresciallo  d'armata  in  Francia,  che  ne  aveva  magni- 
ficato i  talenti  militari.  M.  Carolina  aveva  insistito  presso  la  sorella  per 
averlo  a  Napoli.  Il  Residente  Veneto  informava  il  2  ottobre  il  Senato  ch'era 
partita  la  fregata  Santa  Dorotea  con  due  corvette  per  Marsiglia,  avendo 
a  bordo  gli  ufficiali  napoletani  inviati  in  Francia  per  istruirsi  nel  ma- 
neggio delle  artiglierie  ;  sugli  stessi  legni  avrebbero  dovuto  imbarcarsi  al 
ritorno  gl'istruttori  francesi.  Alcuni  di  essi  il  20  novembre  erano  già  ar- 
rivati ;  altri,  ed    insieme  con  loro  il  bar.  de  Salis,   giunsero  poco  dopo. 

Gli  fu  dato  un  annuo  assegno  dì  10800  ducati  ;  in  tutto  gl'istruttori 
stranieri  costarono  all'erario  37,000  ducati.  (Arch.  di  Stato  di  Venezia, 
Disp.  del  Resid.  Veneto  a  Napoli:  filza  1».  n.  165,  disp.  2  ottobre,  20  e 
27  novembre,  4  dicembre  1787). 


99  — 


* 


Il  Salis  si  mise  all'opera  con  grande  energia,  urtando  subito 
contro  ostacoli  im preveduti,  specialmente  contro  la  resistenza 
degli  ufficiali  dei  corpi  privilegiati  che  vedevano  in  pericolo 
le  loro  grasse  sinecure  e  che  trovavano  —  come  vedremo  —  nella 
regina,  leggera  ed  intrigante,  protezione  e  favore. 

Fu  decisa  la  soppressione  dei  due  reggimenti  delle  Reali  Guar- 
die Italiane  e  Svizzere,  del  reggimento  vallone  di  Hainaut  (re- 
stando soltanto  quello  di  Borgogna ,  ma  dichiarato  nazionale) 
e  dei  tre  svizzeri  di  Wirtz,  Tschoudy,  Jauch  :  questi  ultimi  quat- 
tro reggimenti  sostituiti  da  due  alemanni  (1°  e  2°  Estero)  e  da 
due  macedoni  (1°  e  2°  Real  Macedonia). 

Tutta  la  fanteria,  regolata  da  speciale  organico  sui  piedi  di 
pace  e  di  guerra,  e  la  cavalleria,  aboliti  i  dragoni,  furono  di- 
stribuite in  14  brigate  formanti  7  divisioni  :  ogni  divisione,  su 
due  brigate,  al  comando  di  un  maresciallo  di  campo,  ogni  bri- 
gata, su  due  reggimenti,  al  comando  d'un  brigadiere i.  —  La 
fanteria  fu  tutta  vestita  e  in  parte  armata  secondo  i  modelli 
e  coi  fucili  di  Germania  ;  la  cavalleria  posta  press'  a  poco  sul 
piede  prussiano.  Con  questo  piano  l'esercito  napoletano  avrebbe 
dovuto  raggiungere  un  effettivo  di  57.580  uomini  in  pace  , 
61,543  in  guerra ,  compresi  15.000  uomini  di  milizie  provin- 
ciali, secondo  il  prospetto  seguente  : 


^  Ogni  reggimento  di  fanteria  comprendeva   3  battaglioni  di  fucilieri  e 
2  compagnie  di  granatieri,  oltre  alla  piana  maggiore  e  minore  (22  teste). 
I  due  primi  battaglioni  erano  costituiti  su  quattro    compagnie,  il   terzo 
su  due.  Ciascuna  compagnia   di  granatieri  aveva  122  uomini,  di  fucilieri 
144  uomini  in  pace,  164  in  guerra  ;  1'  aumento  riguardava  però    soltanto 
i  due  primi  battaglioni.  Ogni  reggimento  di  cavalleria  era  costituito  da  4 
squadroni  attivi  e   mezzo  di  riserva,  più  lo  stato  maggiore  e   minore  (21 
uomini)  ;  ciascun  squadrone  comprendeva    142  uomini,    di  cui  120   mon- 
tati. Ogni  reggimento  d'artiglieria,  costituito  su  due  battaglioni,  si  divi- 
jdeva  in  4   brigate  e  mezza  ;  ogni   brigata   comprendeva  4  compagnie  di 
►1  uomini  in  pace,  72  in  guerra.  Le  due  mezze  brigate  formavano  una  bri- 
gata di  minatori. 


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—  101  — 

Venivano  parimenti  stabiliti  due  campi  di  esercitazioni:  per 
la  fanteria  Capua,  per  la  cavalleria  Aversa,  dov'era  acquar- 
tierata la  brigata  modello  (Re  e  Regina)^. 

Efficacia  più  duratura  e  profonda  ebbe  il  nuovo  ordinamento 
delle  artiglierie,  secondo  i  modelli  di  Francia,  dovuto  all'ispet- 
tore Pommereul.  Un'ordinanza  del  1788  approvava  la  costitu- 
zione del  Corpo  Reale  in  due  reggimenti.  Re  e  Regina,  ciascuno 
su  16  compagnie  in  tempo  di  pace,  18  in  tempo  di  guerra,  più 
due  di  minatori  e  zappatori. 

Ottima  l'istruzione  degli  ufficiali,  eccellente  1'  Arsenale ,  co- 
struito su  piani  e  disegni  del  Securo  con  le  norme  stabilite  dal 
Pommereul,  dove  per  merito  napoletano  venivano  modificate  e 
migliorate  la  fusione  dei  pezzi  e  la  tecnica  degli  affusti;  buone 
le  officine  statali,  sia  le  antiche,  come  la  celebre  fabbrica 
d'armi  di  Torre  Annunziata  (1774)  e  le  ferriere  di  Stilo,  Atri- 
palda.  Piano  d'Ardine  e  Scrino,  sia  le  recenti  e  più  importanti 
di  Acerno,  Canneto,  Poggioreale  e  Torre  Annunziata  2. 

La  stessa  ordinanza  dell'  11  dicembre  1788  provvedeva  alla 
soppressione  del  Corpo  degl'Ingegneri,  che  veniva  riunito  alFAr- 
tiglieria,  provvedimento  assai  discutibile  che  durò  fino  al  1799; 
mentre  in  quegli  anni  si  organizzava,  sotto  la  guida    del  bri- 

*  Altri  campi  minori  erano  Gaeta  per  la  fanteria,  Nocera  per  la  caval- 
leria. Non  vi  era  campo  di  manovre  a  Napoli  (il  Campo  di  Marte  non  fu 
costruito  che  nel  1810)  :  le  truppe  si  esercitavano  nei  piani  di  Bagnoli,  di 
Ghiaia  e  dei  Granili. 

*  Cfr.  D'Ayala,  Napoli  militare  cit.,  p.  156  sgg.  La  sede  del  Corpo  era 
il  Castel  Nuovo.  Per  ordine  del  Pommereul  furono  istituite  scuole  metodiche 
di  fuochisti,  di  forze  e  manovre,  di  disegno,  e  per  gli  ufficiali  corsi  supe- 
riori di  chimica  e  di  mineralogia  svolti  da  Gaetano  la  Pira  e  dal  celebre 
abate  Breislak.  Dovevano,  in  seguito,  essere  stabilite  altre  tre  scuole  di  ma- 
tematica (fìsica,  architettura  militare  ed  idraulica),  una  grande  scuola  pra- 
tica a  Napoli  e  due  minori  in  Sicilia  e  sul  litorale  adriatico. 

La  fusione  dei  pezzi  era  affidata  al  capitano  austriaco  Thiasky,  ma  la 
costruzione  dei  nuovi  affusti  era  diretta  da  abili  ufficiali  napoletani  :  Cim- 
mlno,  Blengini,  Giulietti,  de  Cosiron,  Dupuy  e  Montegaudier.  Per  quel  che 
riguarda  le  ferriere,  è  bene  notare  che  se  fin  dal  1791  fu  stabilita  ura  Fon- 
deria reale  e  una  Fabbrica  d'armi  presso  la  Mongiana,  nella  Calabria  Ul- 
tra II,  dove  esisteva  una  miniera  di  ferro  e  di  grafite  (cfr.  Del  Pozzo, 
Cronaca  cit.,  ad  a.)  essa  coi  boscosi  terreni  adiacenti  non  fu  messa  al 
servizio  dell'artiglieria  che  verso  la  fine  del  1807. 


102 


gadiere  Bompiede  e  poi  di  Enrico  Sanchez  de  Luna,  il  genio 
idraulico^  i  cui  primi  ufficiali  venivano  inviati,  al  comando  del 
Dillon  ad  istruirsi  presso  le  scuole  di  Metz  e  di  Mézières  e 
presso  i  porti  di  Brest  e  di  Cherbourg.  Per  merito  del  corpo 
degr  ingegneri,  oltre  ad  opere  pubbliche  di  abbellimento  cit- 
tadino come  il  teatro  del  Fondo  allora  compiuto,  s' iniziava, 
mettendo  a  profìtto  le  nuove  applicazioni  dell'ingegneria  mili- 
tare, queir  armamento  razionale  del  Cratere  con  batterie  di 
grosso  calibro,  che  l'incalzare  degli  avvenimenti  doveva  far 
completare  alla  meglio  alla  vigilia  della  dimostrazione  navale 
francese  nel  dicembre  del  1792 1. 

Tali  i  criteri  di  rinnovamento  dell'esercito  secondo  i  pro- 
positi degl'  ispettori  chiamati  dall'Acton,  rinnovamento  che 
avrebbe  importato  una  spesa  annua,  secondo  le  cifre  ufficiali, 
di  oltre  tre  milioni  di  ducati  pel  solo  continente  2.  Ma  interes- 
sate resistenze,  intrighi  di  corte,  errori  fondamentali,  organica 
impossibilità  di  rinnovamento  impedirono  —  come  vedremo  — 
ogni  seria  trasformazione  delle  istituzioni  militari,  preparando 
di  lunga  mano  la  catastrofe  del  1798. 

*  * 

Il  Residente  veneto    a  Napoli,  scrivendo  al  Senato  intorno 
ai  principali  avvenimenti  politici  del  regno  ,  si   dilunga  spesso 

*  Logerot,  ms.  cit.,  cap.  VI,  §  2°  ;  D'  Ayala,  Napoli  militare  cit.,  pa- 
gina 183  sgg. 

2  Fino  al  1786  la  spesa  totale  dell'  esercito  fu  di  3  milioni  di  ducati, 
dei  quali  2.100,000  a  carico  del  continente,  900,000  della  Sicilia.  La  riforma 
del  1787-88  portò  l'assegnamento  a  3,180,000  ;  indi  cominciate  ad  adden- 
sarsi suir  orizzonte  politico  le  prime  nubi,  il  bilancio  della  guerra  fu 
successivamente  accresciuto  :  nel  novembre  del  1790,  secondo  il  piano  del 
Residente  Veneto,  era  salito  con  le  spese  ordinarie  e  straordinarie  a  du- 
cati 3,327.039  (Galanti,  Descrizione  geografica  e  politica  delle  Sicilie,  Na- 
poli, I793,  III,  80  ;  Bianchini,  Storia  delle  finanze  del  regno  di  Napoli,  Na- 
poli, 1835,  III,  244  ;  R.  Arch.  di  St.  di  Venezia:  Dispacci  al  Senato, 
filza  I»,  n.  156-Relaz.  24  novembre  1790).  Anche  l'amministrazione  mi-^ 
li  tare  e  la  giurisdizione  penale  dell'esercito  furono  radicalmente  trasfor-i 
mate,  quest'ultima  con  reali  dispacci  del  1789.  Cfr.  Logerot,  ms- cit., 
cap.  VI,  §§  4-5.  pei  tribunali  militari  vedi  anche  il  Galanti,  o.  c,  I,  366. 


—  103  — 

da  mezzo  il  1787  a  tutto  l'anno  seguente,  a  parlare  della  ri- 
forn^a  dell'esercito,  insistendo  con  critica  misurata  e  serena 
sugli  ostacoli  frapposti  dagli  stessi  ufficiali  superiori,  in  gran 
parte  nobili,  all'attuazione  dei  piani  del  Salis,  e  sull'incapacità 
dell'esercito  stesso  a  trasformarsi. 

Non  era  ancora  giunto  a  Napoli  il  Salis  che  già,  nel  novembre 
1787,  cominciavano  i  malumori  :  «  Non  lascia  intanto  la  di  lui 
venuta  —  scriveva  il  Residente  —  di  produrre  una  somma  sensa- 
zione in  questi  Uffiziali  spezialmente  dello  Stato  Maggiore,  non 
tanto  per  la  circostanza  per  loro  umiliante  di  dovere  assoggettarsi 
in  ora  a  nuovi  metodi  di  disciplina  per  il  governo  dei  rispettivi 
loro  reggimenti,  quanto  per  il  timore  di  vederne  alcuno  o  rifor- 
mato o  destinato  a  servire  in  giro  per  le  Provincie  del  regno  ». 
In  seguito  i  malumori  si  tradussero  in  lotta  aperta  ed  accanita, 
quando  (si  disse  anche  per  desiderio  della  regina)  furono  abo- 
liti i  Liparoti  i  «  a  malgrado  dei  maneggi  degli  ufficiali  per  la 
maggior  parte  primogeniti  delle  più  ragguardévoli  famiglie», 
quando  furono  sciolti  i  reggimenti  svizzeri,  e  specialmente  al- 
lorché si  seppe  che  il  re  aveva  ordinato  lo  scioglimento  dei  due 
corpi  privilegiati,  le  Reali  Guardie  Svizzere  ed  Italiane  2.  Al- 
lora scoppiò  il  grave  incidente  tra  il  Salis  e  la  regina,  che  pa- 
ralizzò per  sempre  l'opera  dell'ispettore  generale^. 


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*  n  corpo  dei  Liparoti,  stabilito  con  r.  dispaccio  16  ottobre  1774, 
mposto  dapprima  di  soldati  nativi  delle  isole  Lipari ,  destinati  a  far 
sbucare  la  selvaggina  a  pelo  nelle  regie  cacce  di  Capodimonte,  Bovino, 
Persano,  era  divenuto  a  poco  a  poco  una  specie  di  guardia  del  corpo  so- 
pratutto negli  ufficiali.  Cfr.  Florio,  Annali,  cit.,  in  questo  Archivio,  XXXI 
(1906),  pp.   28,  36. 

=  R.  Arch.  di  Stato  di  Venezia  :  Dispacci  cit.,  20  e  27  novembre, 
4  e   18  dicembre  1787,  1°  e   8  gennaio  1788. 

»  L' aneddoto  è  variamente  raccontato  dal  Gorani,  0.  e,  I,  200  sgg. 
(copiato,  come  sempre,  dal  Dumas,  I  Borboni  di  MapoU  cit.,  I,  258  sgg.)  e 
dal  Rinieri  (Della  rovina  di  una  monarchia.  Relazioni  storiche  tra  Pio  VI 
e  la  Corte  di  Napoli  negli  anni  1776-1799,  Torino,  U.  T.  E.,  1901,  pa- 
gine 529-30)  sulla  scorta  d'un 'importante  lettera  dell'ab.  Servanzi  al  Bon- 
compagni  dei  22-29  febbraio  1788.  Vi  accenna  sommariamente  anche  I'Or- 
LOFF,  Mémoires  historiques,  politiques  et  littéraires  sur  le  royaume  de  Naples, 
Paris,  1825,  II,  171.  Mi  attengo  alla  narrazione  del  Residente  veneto  a 
Napoli,    la  quale,    anche  per  la   fonte  da  cui  deriva  e  per  la  proverbiale 


104 


Quado  si  giunse  alla  riforma  delle  Reali  Guardie  Italiane,  i 
cui  ufficiali  appartenevano  alle  più  illustri  famiglie  della  capi- 
tale fu  tale  e  tanta  l'opposizione  incontrata  dal  Salis,  che  que- 
sti —  sembra  —  ritenne  opportuno  sparger  la  voce  di  non  es- 
ser che  l'esecutore  materiale  di  ordini  venutigli  direttamente 
da  M.  Carolina.  Giunta  la  notizia  agli  orecchi  della  regina  (si 
noti  ch'essa  probabilmente  aveva  desiderato  soltanto  l' aboli- 
zione dei  Liparoti  per  la  soverchia  ed  indecente  confidenza 
degli  ufficiali  col  re),  questa  in  una  festa  di  corte,  la  sera  del 
4  febbraio  1788,  circondata  dall'ufficialità  delle  Guardie  Italiane, 
trovò  modo  di  rimproverare  il  Salis  della  voce  attribuitale  e  di 
fargli,  a  torto  o  a  ragione,  ammettere  esser  lui  soltanto  l'au- 
tore della   divisata  abolizione. 

Il  Salis  cavallerescamente  s'inchinò,  ma  il  giorno  dopo  in- 
viava all'Acton  le  dimissioni  sue  e  degli  altri  istruttori.  Fu  ne- 
cessario correre  ai  ripari ,  poiché  la  sua  presenza  era  ancora 
giudicata  indispensabile  ;  il  14  febbraio  l' Acton  gì'  indirizzava 
una  lettera  di  elogio,  resa  pubblica  da  tutte  le  gazzette,  in  cui 
si  ammetteva  che  M.  Carolina  era  stata  ingannata  da  «  strani 
rapporti  pervenutile  »,  e  nello  stesso  tempo  lo  si  assicurava  «  che 
sarebbero  stati  esattamente  e  prontamente  puniti  gli  autori 
delle  sparse  voci  ed  imputazioni  che  a  tanto  disgusto  ed  inquie- 
tudini hanno  dato  motivo  ».  Le  file  di  tutto  l'intrigo  par  certo, 
secondo  l'Alberti,  che  fossero  nelle  mani  di  un  avventuriere 
senza  scrupoli,  di  quel  cavaliere  di  Brissac,  antico  gentiluomo  di 
Borgogna  che,  venuto  a  Napoli  nel  1775  povero  e  malfamato, 
era  riuscito  a  diventare  a  poco  a  poco  il  favorito  e  il  confidente 
di  M.  Carolina;  e  forse  non  erano  estranei  il  Talleyrand,  am- 
basciatore di  Francia,  e  sua  moglie,  nemici  del  Salis.  Certo  è 
che  alcuni  giorno  dopo  il  Brissac  veniva  rinchiuso  in  Castel 
dell'Ovo,  e  poco  appresso  fatto  partire  per  la  Borgogna,  ma 
con  una  lauta  pensione  da  parte  della  regina,  che  era  stata  co- 
stretta ad  approvare  la  lettera  di  scusa  (nota  il  Residente  ve- 
neto) «  non  senza  un  vivo  dispiacere  di  vedere  in  questa  occa- 


pnidenza  degli  ambasciatori  della  Serenissima,  ha,  senza  dubbio,  maggior 
sapore  d'autenticità    {Dispacci  cit,  12,  19,  26  ;  febbraio  1788). 


—  105  — 

sione  compromessa  la  propria  dignità  e  la  naturale  sua  superiorità 
ed  influenza  »*. 

Ma  da  questo  episodio  la  sorte  delle  riforme  del  Salis  fu  se- 
gnata. Con  real  dispaccio  in  data  31  ottobre  1790  si  accettavano 
le  sue  «  ricercate  dimissioni  »,  concedendogli  oltre  una  pensione 
vitalizia,  il  soldo  di  generale  in  quartiere.  Certo  avevano  con- 
tribuito al  congedo  le  vicende  di  Francia,  ma  la  partenza  del 
Salis  rappresentava  il  trionfo  di  quanti,  in  buona  o  in  mala  fede, 
avevano  combattuto  questa  invasione  straniera  nella  direzione 
dell'esercito  napoletano. 

Quali  le  conseguenze  delle  tanto  decantate  riforme  ?  Dopo 
due  anni  di  tentativi  e  quattro  grossi  volumi  di  ordinanze, 
tutto  era  ancora  «  somma  confusione  »  ;  soltanto  la  prima  bri- 
gata di  fanteria  e  di  cavalleria,  col  nome  pomposo  di  «  brigate 
modello  »  erano  istruite  secondo  il  nuovo  sistema  ;  all'aumento 
di  200.000  ducati  annui  del  bilancio  militare  corrispondeva  la 
diminuzione  di  un  terzo  negli  effettivi  I  Solo  nell'artiglieria,  a 
malgrado  anche  qui  di  non  infrequenti  conflitti  tra  il  direttore 
di  essa,ten.  gen.  Pietra  e  l'ispettore  Pommereul,  le  riforme,  frutto 
d'una  mente  più  organica,  applicate  d'altronde  ad  un  corpo 
scelto  e  ristretto,  ebbero  esito  miigliore  e  più  duraturo  ;  cosic- 
ché quando  nel  settembre  1793,  in  seguito  alle  vicende  della 
Rivoluzione  e  della  guerra  con  la  Francia,  vennero  accettate  le 
dimissioni  del  Pommereul,  il  Corpo  reale  era  un  organismo  so- 

I 

H  *  n  cav.  di  Brissac,  che  il  Borico mpagni  in  una  lettera  a  mons.  Caleppi 
^  (in  RiNiENi,  o.  e,  p.  529)  dice  di  pessima  riputazione,  «  gira-mondo  »  e  peg- 
gio, era  cugino  del  conte  di  Saint-Priest.  Entrato  nelle  buone  grazie  dell'am- 
basciatore di  Francia  a  Napoli  bar.  di  Breteuil  e  poi  della  duchessa  di 
Chartres,  la  futura  «cittadina  Egalité  »,  era  stato  presentato  a  Corte  ed 
accolto  nel  battaglione  dei  Cadetti.  A  lui,  quando  scoppiarono  più  acri  i 
dissapori  tra  la  Spagna  e  Napoli  e  vi  fu  mischiata  la  corte  di  Versailles,  fu 
dato  l'incarico  d'una  missione  particolare  a  Parigi,  missione  che  fallì  del 
tutto.  Tuttavia  essa  gli  valse  il  grado  di  colonnello,  il  titolo  di  gentiluomo 
di  Camera  d'entrata  e  una  pensione  di  1200  ducati,  riversibile  dopo  morte 
alla  moglie  e  ai  figli  1  E  la  pensione,  naturalmente,  conservò  anche  dopo 
lo  sfratto  del  1788,  né  M.  Carolina  si  dimenticò  più  tardi  del  suo  favorito 
in  altre  delicate  incombenze.  —  Importanti  documenti  sulla  sua  tentata 
opera  di  conciliazione  fra  le  Corti  borboniche  sono  nel  R.  Arch.  di  Stato 
DI  Napoli  :   Affari  Esteri,  f.»  4356  (Francia.   Commissione  Brissac,   1785). 


106 


lido  e  ben  ordinato,  che  non  sminuirà  la  sua  fama  negli  avve- 
nimenti posteriori. 

Di  tutti  gr istruttori  venuti  nel  1787  il  Burckhardt  e  il  de 
Gambs,  rimasti  a  Napoli,  raggiunsero  i  più  alti  gradi  dell'eser- 
cito, il  primo  che  amò  gallicizzarsi  il  nome  in  De  Bourcard,  morì 
capitan  generale  a  Palermo  nel  1820,  il  secondo,  dopo  aver 
serviti  i  Napoleonidi,  fini  tenente  generale  a  Napoli  nel  1823  ^. 

* 

Nel  novembre  del  1790 ,  inviando  al  Senato  un'  abbastanza 
esatta  relazione  intorno  all'esercito  napoletano,  il  Residente  ve- 
neto accennava  sommariamente  alle  cause  della  sua  scarsa  ef- 
ficienza 2.  Le  cifre,  notava,  si  leggono  soltanto  nel  Piano,  ma 
era  opinione  comune  che  le  forze  di  terra  in  tempo  di  pace  non 
superassero  i  16,000  uomini. 

Cagioni  prime  di  questa  grave  situazione  le  difficoltà  del  re- 
clutamento straniero,  il  naturale  aborrimento  del  soldato  per 
la  nuova  disciplina  instaurata  coi  regolamenti  del  1786,  i  modi 
imperiosi  degl'  istruttori  stranieri  che  provocavano  numerosis- 
sime diserzioni,  la  deficienza  di  ufficiali,  specie  quando  —  abo- 
liti i  corpi  privilegiati —  i  nobili  avevano  abbandonato  l'esercito, 
accontentandosi  del  privilegio  concesso  dal  re  di  portare  l'uni- 
forme senza  direttamente  servire. 

Ma  queste  non  erano  in  fondo  che  piccole  cause:  ben  più 
grave  e  profonda  era  la  cancrena  degl'istituti  militari  alla  vigi- 
lia della  Rivoluzione  francese. 

È  senza  dubbio  esagerata  l'accusa  dei  patrioti  e  degli  scrit- 
tori giacobini  alla  regina  eh'  ella  intascasse  pe'  propri  capricci 
una  parte  delle  somnae  assegnate  ai  bisogni  dell'esercito^;  è 

1  Su  Emanuele  Burckhardt  (1744-1820),  cfr.,  oltre  al  d'Ayala  {Le  vite 
dei  più  celebri  capitani  e  soldati  napoletani,  cit.,  p.  27  sgg.),  la  vita  scritta 
da  Th.  Burckhardt-Bidermann,  in  Basler  Jahrbuch,  1883  ;  su  Giovanni 
Daniele  de  Gambs  di  Strasburgo  (1744-1823),  vedi  un  cenno  biografico  in 
Damas,   Mémoiresy  Paris,   Plon,  1912,   I,  302  n.  1. 

*  Dispacci  cit.  Relazione  20  novembre  1790. 

3  Cfr.  DE  Fabriciis,  Compendio  storico  della  Rivoluzione  e  Controrivo- 
luzione di   Napoli.    Ms.   XXVI,  B,  19  della  Bibl.  della  Soc.   Nap.  di  St. 


—  107  — 

più  probabile  che  il  denaro  finisse  per  disperdersi  nei  rivoli  cie- 
chi della  burocrazia  militare. 

Ma  la  riforma  del  Salis  fallì  non  soltanto  per  mancanza  di 
mezzi  :  falli  per  insufficienza  e  per  mala  volontà  di  uomini,  per 
la  decadenza  dello  spirito  militare,  per  la  corruzione  morale, 
da  cui   erano  affetti  tutti  gl'istituti  governativi: 

Il  barone  de  Salis  —  nota  il  generale  Damas  nelle  sue  pre- 
ziose Memorie  —  uomo  d'onore  e  di  merito,  ma  piccolo  di  mente, 
si  accontentò  dei  particolari,  cercò  di  foggiare  null'altro  che  dei 
campioni  perfetti,  a  tale  scopo  adoperando  il  tempo  che  il  ca- 
rattere ombroso  e  invidioso  di  Acton  poteva  accordare  alla  sua 
precaria  preponderanza.  Quando  questi  volle  disfarsi  del  Salis, 
gli  fu  facile  comprometterlo  dinanzi  al  re,  alla  regina,  alla  pub- 
blica opinione,  l'obbligò  a  furia  di  disgusti  e  di  contrarietà  a 
dimettersi  nel  momento  più  delicato  della  crisi  militare.  Il  Salis 
partiva  lasciando  la  nobiltà  malcontenta,  i  reggimenti  stranieri 
soppressi  o  riformati  prima  che  i  nazionali  fossero  in  condizione 
di  servire,  «  et  le  militaire  tomba  dans  une  nullité  morale  qui 
n'existait  pas  à  un  degré  aussi  fàcheux  avant  qu'on  eùt  entre- 
pis  de  l'en  tirer  »  ^, 

Ma  la  critica  più  efficace  e  più  convincente  degli  ordinamenti 
militari  del  regno  in  questo  periodo  e  l'esposizione  più  precisa 
delle  cause  della  loro  debolezza,  è  in  un'opera,  tuttavia  inedita, 
di  un  ufficiale  napoletano,  lontano  da  ogni  simpatia  giacobina, 
Carlo  Afan  de  Rivera  che  segui  nel  Decennio  i  reali  in  Sicilia, 
e  vi  fu  anche,  dopo  il  1815  ,  sotto  direttore  dell'  Ufficio  topo- 
grafico 2. 


Patria  ,  e.  29t  e  sgg.  ;  Notes  sur  la  Cour  de  l^aples  et  sur  la  Revolu- 
tion et  les  causes  qui  l'ont  amenée ,  in  Documenti.  Fondo  Paribelli  (17  99- 
1806)  Ms.  id.,  XXVI,  A,  9,  e.  141  sgg. —  Di  queste  accuse  che  s'iniziano 
col  GoRANi  (I,  426)  sono  pieni,  si  può  dire,  tutti  gli  opuscoli,  i  pamphlets, 
i  fogli  volanti  pubblicati  durante  la  Repubblica  del  1799. 

^  Mémoires  cit.,  I,  270. 

2  Memorie  militari  sul  regno  delle  Due  Sicilie  di  Carlo  Afan  de  Ri- 
VERA,  Maggiore  dello  Stato  Maggiore  dell'esercito  etc.  in  Palermo  nell'anno 
1817  (Ms.  XXX,  D,  8  della  B  ibi.  della  Soc.  Nap.  di  Storia  Patria). 
L'opera  che  l'Afan  de  Ri  vera  stese  per  incarico  del  Consiglio  di  Guerra, 
riguarda  specialmente  le  fortificazioni  del  Regno  «  in  rapporto  al  sistema 


—  108  — 

Egli  risale,  anzitutto,  a  giudicare  spassionatamente  l'Acton 
come  Direttore  di  guerra  :  «  dotato  di  un  ingegno  pronto  e  fe- 
condo »,  le  sue  qualità  illudevano,  avendo  egli  «  più  l'apparenza 
che  il  dono  del  genio  »  e  «  l'abilità  di  annunziare  maggiori  ta- 
lenti di  quelli  che  possedeva  ».  Come  in  ogni  ramo  della  sua 
amministrazione  alle  grandiose  vedute  mal  corrispondeva  l'ap- 
plicazione, pratica,  cosi  sotto  di  lui  le  istituzioni  militari  furono 
più  appariscenti  che  solide. 

Ed  il  Salis  in  fondo  non  seguì  nelle  sue  riforme  che  il  pen- 
siero dell' Acton.  Gettò  certamente  le  basi  d'una  buona  organiz- 
zazione, ma  gli  ufficiali  venuti  con  lui  non  curarono  che  la  tat- 
tica elementare  e  l'esatta  osservanza  dei  particolari,  e  i  napole- 
tani furono  inviati  in  Francia  e  in  Germania  a  esercitarvi  «  il  ta- 
lento d'imitazione  »,  a  copiarvi  le  apparenze  degli  eserciti  stra- 
nieri, trapiantate  nel  regno  senza  tener  conto  delle  circostanze 
e  dei  caratteri  peculiari  della  nazione. 

«  Noi  eravamo  Spagnuoli;  quindi  fummo  trasformati  in  Fran- 
cesi, in  Austriaci,  in  Prussiani,  e  finalmente  in  Russi  ed  Inglesi)); 
badando  alFesteriorità  della  parata,  fu  perduto  di  vista  lo  scopo 
principale  dell'esercito,  vale  a  dire  le   operazioni  di  guerra. 

Ed  altri  pericolosi  veleni  s'erano  a  poco  a  poco  infiltrati  in 
quell'organismo  non  sano:  la  migliore  organizzazione  era  an- 
data a  scapito  della  forza  morale.  Si  affievolirono  maggiormente 
il  punto  d'onore  e  lo  spirito  di  corpo;  la  precipitata  abolizione 
dei  corpi  privilegiati,  lodevole  da  un  lato,  ebbe  troppo  aperta- 
mente carattere  di  persecuzione  nobiliare  :  il  primo  ceto,  indi- 
spettito, si  ritirò  dal  servizio  e  disprezzò  la  professione  delle 
armi. 

Si  volle  tutto  instaurare  dalle  fondamenta,  le  persone,  la 
morale,  le  opinioni.  Gli  ufficiali  che  mostrarono  speciali  atti- 
tudini a  tradurre  in  atto  le  inutili  burocrazie  dei  regolameati, 
raggiunsero  gli  alti  gradi  dell'esercito  ;   esclusi  come  vieti  pre- 


generale di  difesa  »,  ma  vanno  innanzi  una  densa  introduzione  intorno  alle 
condizioni  geografiche,  fisiche,  morali  e  militari  e  un  breve  saggio  sulla  sto- 
ria militare  antica  e  moderna  delle  Due  Sicilie,  tanto  più  importante,  in 
quanto  l'autore  fu  presente  a  molti  dei  fatti  che  narra  e  discute  con  cri- 
tica minuziosa  e  serena. 


109 


giudizi  l'onore,  il  decoro,  il  buon  costume,  parve  suprema  qua- 
lità del  soldato  la  lindura  delle   armi  e  del  vestiario. 

Trascurata  la  scelta  rigorosa  nella  reclutazione,  l'esercito  di- 
venne spesso  ricettacolo  d'indegni,  di  turbolenti,  di  facino- 
rosi ;  fu  concesso  di  scontare  col  servizio  militare  pene  anche 
d'omicidio  ;  talvolta  si  giunse  persino  a  vuotar  le  galere  per 
fare  soldati  I  ^ 

Non  ci  meraviglieremo  quindi  se  nell'ora  del  pericolo  questo 
esercito  ,  róso  da  crisi  interne ,  peggiorato  da  provvedimenti 
improvvisati  in  mezzo  all'anarchia  governativa,  minato  dalla 
propaganda  rivoluzionaria,  si  sfascierà  quasi  senza  combattere 
innanzi  all'impeto  dei  soldati  francesi,  più  rozzamente  vestiti 
ed  armati,  ma  condotti  al  cimento  dalla  virtù  militare,  dallo 
spirito   di  sacrifìcio,  da  un  elevato  ideale  di  patria  e  d'umanità. 

continua 

Attilio  Simioni 


»  Cfr.  E.  Gentile,  //  Tribunale  dell'  Anuniragliato  e  Consolato  {17  83- 
1808),  Napoli,    Jovene,  1909,  pp.   35-36. 


CAUSE  E  IMPORTANZA 

DELLA 

RIVOLUZIONE  NAPOLETANA  DEL   1820 


In  un  recente  libro  sul  nostro  Risorgimento,  dettato  da  un 
compianto  scrittore  italiano,  che  fu  critico  geniale  non  meno  che 
elegante  espositore,  si  legge  quanto  segue  : 

«  Come  quasi  sempre  è  accaduto  in  Italia,  il  moto  napoletano 
del  1820  fu  una  ripercussione  del  moto  spagnuolo,  cominciato 
con  un  pronunciamento  militare  a  Cadice  per  riavere  la  costi- 
tuzione del  1812. 

«  La  sera  del  2  luglio  1820,  due  luogotenenti  di  cavalleria, 
il  Morelli  e  il  Silvati ,  che  stanziavano  a  Nola ,  disertano  e 
s'avviano  ad  Avellino  con  127  soldati,  secondati  da  un  prete 
Menichini  e  da  non  più  di  venti  settari.  Con  gli  altri  che  s'uni- 
rono ad  essi,  saranno  stati  un  150.  Poco  o  nulla  ci  voleva  a 
disperderli.  Ma  invece  i  Carbonari  di  Napoli,  alle  prime  notizie, 
si  agitano;  il  re  s'impaurisce;  di  tre  generali,  mandati  ad  af- 
frontare i  ribelli,  uno  si. ritira;  all'altro,  scappano  i  soldati; 
il  terzo  si  unisce  agli  insorti  e  ne  prende  il  comando. 

a  Quest'ultimo  era  Guglielmo  Pepe. 

«  Nella  notte  del  5  luglio  alcuni  congiurati  si  presentano  alla] 
reggia  in  Napoli  e  chiedono  senz'altro  la  costituzione.  Il  6  lu- 
glio, era  concessa:  quella  di  Spagna  del  12.  Ma  in  pari  tempc 
il  Re  nominava  suo  vicario  il  Principe  ereditario  ;  disse  poi  sn-J 


»  Conferenza  tenuta  ai  13  giugno  1920  nella  sala    della    «  Unione    dei 
giornalisti  di  Napoli  »  per  loro  invito. 


I 


Ili 


bito  che  aveva  bisogno  di  riposo.  Cosi  Napoli  fu  costituzionale: 
una  commedia,  che  durò  dal  6  luglio  20  al  23  marzo  21.  Tutto 
quanto  fu  fatto  in  questo  tempo,  non  fu  che  rettorica  e  tea- 
tralità... ;  un  sogno,  un  triste  sogno,  da  cui  molti  si  svegliarono 
in  esilio  ;  altri,  nelle  carceri  ;  il  Morelli  e  il  Silvati,  i  due  ini- 
ziatori del  moto,  sul  patibolo...  ». 

È,  come  avete  visto,  una  sfilata  di  stranezze,  di  maraviglie, 
di  sorprese  :  in  due  tenenti,  la  folle  idea  di  porre  in  rivoluzione 
un  regno  intero,  e  la  non  meno  folle  attuazione  di  sera  :  quando 
la  gente  va  a  letto;  di  tre  generali,  l'impotenza  di  due  e  il 
colpo  di  testa  del  terzo  ;  alla  corte  e  nel  re  non  altro  che  paura; 
tutto  il  resto  risolversi  in  commedia,  in  rettorica,  in  sogno... 

Tanto  più  folle  quella  prima  idea,  se  si  ripensa  al  bene  o- 
perato  dal  governo  dal  1815  al  1820. 

Ognun  di  voi  ha  letto  la  storia  del  Colletta,  che  deirevento 
d'un  secolo  fa  ci  lasciò  la  narrazione  più  ricca,  più  meditata  e 
più  bella  ;  e  che,  pur  giudicando  severamente  le  persone  dei  mi- 
nistri di  Ferdinando  I,  ne  descrisse  con  lode  i  buoni  provve- 
dimenti, in  ogni  ramo  d'amministrazione,  conchiudendo  che  si 
ebbe  allora  governo  benigno,  monarchia  moderata,  stato  pro- 
spero ;  dove,  più  che  in  ogni  altro  d'Europa,  si  custodiva  quel 
patrimonio  di  nuove  idee,  per  cui  s'era  sparso  tanto  sangue 
nel  mondo. 

E,  allora,  come  mai,  in  uno  Stato  cosif atto,  potè  fermentare 
lo  spirito  di  rivoluzione  ? 

Ma  consentite  che  alla  risposta  io  premetta  una  breve  di- 
gressione, per  colmare  una  lacuna  del  nostro  insigne  storio- 
grafo. Tra  le  egregie  opere  del  quinquennio  anteriore  alla  Ri- 
voluzione, il  Colletta  tacque  la  prima  navigazione  a  vapore 
nel  Mediterraneo,  che  fu  opera  e  gloria  napoletana  ;  per  la  quale 
Luigi  de'  Medici  fu  celebrato  fuori  del  Regno  come  propulsore 
d'  ogni  progresso,  e  «  benemerito  dell'Italia  ». 

Questo  titolo  lusinghiero  gli  dette ,  più  autorevolmente  che 
altri,  sul  «  Conciliatore  »  —  il  famoso  organo  del  liberalismo  lom- 
bardo —  il  conte  Luigi  Porro  Lambertenghi,  che  dal  nostro 
«  Ferdinando  I  »  a  Genova  trasse  l'inspirazione  alla  costruzione 
dell'  «  Eridano  »  per  la  navigazione  Padana.  Ma  1'  «  Eridano  » 
fatto  costruire  dal   conte  Porro   in  società  col  conte  Federico 


—  112  — 

Gonfalonieri  e  col  marchese  Alessandro  Visconti  d'Aragona  e 
con  r  aiuto  di  Silvio  Pellico,  suo  segretario,  se  in  apparenza 
doveva  accelerare  i  traffici  tra  Milano  e  Venezia,  in  realtà  fu 
destinato  ad  accostare  e  fondere  veneti  e  lombardi  in  servizio 
della  causa  liberale,  per  la  «  preparazione  di  tempi  migliori  ». 

E  rispondo  ora  alla  dimanda  fatta. 

Scoppiata  la  rivoluzione  a  Napoli,  il  principe  Jablonowski, 
ministro  plenipotenziario  austriaco  presso  Ferdinando  I,  ebbe 
ad  esclamare  che  si  sarebbe  aspettata  una  rivoluzione  nella  luna 
prima  che  qui. 

La  sua  meraviglia,  come  la  meraviglia  che  potesse  averne 
ogni  altro,  va  attribuita  a  superficialità  di  spirito  e  ad  unila- 
teralità d'osservazione.  Come  tutti  i  governi,  anche  quello  del 
Quinquennio  presenta  una  doppia  faccia;  e  occorre  pesare  se  la 
somma  delle  sue  opere  buone  generasse  fiducia,  pace  e  felicità 
più  0  meno  di  quanto  le  sue  colpe  e  i  suoi  errori  seminassero 
diffidenza,  malessere  e  malcontento.  Messe  nella  bilancia  le  due 
somme,  si  riconosce  di  maggior  peso  il  male. 

Lo  stato  di  spirito  dell'esercito  fu  ritratto  con  special  compe- 
tenza e  magistralmente  dal  Colletta,  e  non  occorre  tornarci  su. 
Ma,  fuori  delle  sfere  militari,  anche  nella  società  rimanente  il 
governo  non  seppe  né  tener  paghi  abbastanza  i  borbonici  né 
convertire  in  tutto  e  cattivarsi  i  murattiani. 

Tra  le  sue  misure  più  odiose  e  più  largamente  biasimate  fu 
la  forzosa  restituzione  dei  beni  e  pensioni  concesse  dal  governo 
passato  a  compenso  di  servigi  resi  o  a  risarcimento  di  danni 
patiti. 

La  maggioranza  della  Consulta  votò  contro  quella  restituzione, 
giustamente  considerandola  violatrice  del  trattato  di  Casalanza 
e  delle  solenni  promesse  del  re  ;  e  propose  che,  come  in  Fran- 
cia, i  danneggiati  dai  Napoleonidi  fossero  risarciti  in  altro  modo. 
Ma  il  Medici  la  volle,  e  la  restituzione  fu  decretata  (14  ago- 
sto 1815).  Agli  efletti,  udite  due  casi  personali. 

Una  signora  Ernandez,  privata  d'una  pensione,  trovò  modo 
di  presentarsi  al  re,  ed  ebbe  il  coraggio  di  dirgli  che  era  per- 
niciosa a  lui  la  condotta  dei  suoi  ministri.  «  Ebbimo  (così  fu 
detto  che  si  esprimesse)  la  repubblica  ed  aveva  un  partito  ;  vi 
sono  stati  Giuseppe  Bonaparte  e  Murat  ed  avevano  un  partito; 


—  113  — 

V.  M.  non  lo  ha  affatto.  Questa  è  una  verità,  che  solo  da  me 
che  son  donna  V.  M.  puoi  sentire  ». 

Si  afferma  che  il  re  ne  arrossisse  e  segnasse  lì  per  li  l'ordine 
che  la  pensione  fosse  conservata.  Ma  quanti  ebbero  V  audacia 
e  la  fortuna  di  quella  signora  ? 

L'altro  caso  riguarda  un  personaggio  di  gran  lunga  più  illustre, 
il  famoso  duca  di  Gallo,  che,  avendo  come  diplomatico  di  Fer- 
dinando IV  cooperato  alla  pace  di  Gampoformio,  aveva  da  Fran- 
cesco d'Austria  ricevuto  in  premio  la  promessa  di  una  villa  in 
Ungheria.  Ministro  poi  nel  Decennio  e  dei  nuovi  servigi  com- 
pensato con  poderi,  migliorati  da  lui  con  gran  dispendio,  venne 
ora,  pur  essendo  consigliere  di  Stato,  costretto  a  restituirli  o  a 
versarne  il  valore. 

Tra  i  due  mali,  scelto  il  minore,  dovè  sborsare  62  mila  ducati; 
per  raccogliere  la  qual  somma,  ebbe  a  vendere  le  gioie,  le  ar- 
genterie e  le  suppellettili  più  preziose  della  casa.  Ma  quanti  altri 
possedevano  questo  ben  di  Dio,  per  conservare  una  proprietà 
che  avean  ragione  di  ritenere  legittima  ?  E,  in  parentesi,  ag- 
giungo che,  quando  poi  —  come  dirò  tra  poco  —  venne  a  Na- 
poli l'Imperatore  Austriaco  e  ricordò  la  promessa  del  1797  non 
ancora  attenuta,  si  sdebitò  verso  il  duca  di  Gallo  col  dono  li- 
quido di  centomila  fiorini  :  manna,  che  certamente  a  nessun 
altro  potè  piovere  dal   cielo. 

.** 

Come  la  privata,  cosi  la  pubblica  economia  venne  lesa  da 
provvedimenti  insani,  quale  la  restituzione  a  pastura  di  gran 
parte  del  Tavoliere.  Altre  ordinanze  offesero  l'intelletto,  come 
la  soggezione  a  censura  dei  libri  provenienti  dall'estero.  La  li- 
bertà di  pensiero  fu  punita  anche  retroattivamente,  come,  con 
scandalo  e  disgusto  generale,  nel  giudice  d'  appello  Pasquale 
Borrelli,  destituito  per  avere  nel  Decennio  patrocinato  e  perso- 
nalmente messo  in  atto  il  divorzio. 

Più  larga  e  profonda  fu  la  riprovazione  riscossa  dal  Concor- 
dato del  1818.  Curioso  il  ministero  di  conoscere  ciò  che  se  ne 
pensasse  nelle  province,  ne  officiò  i  vari  intendenti.  E  posse- 
diamo manoscritta,  presso  la  Società  napoletana  di  Storia  Patria, 
Anno  XLV.  8 


—  114  — 

una  delle  risposte  :  il  «  Rapporto  »  dell'intendente  Acclavio  di 
Lecce  ;  il  quale,  dietro  informazioni  dei  suoi  subalterni  e  di 
«  molte  intelligenti  e  probe  persone  »,  non  esitò  di  riferire  il 
«  generale  disgusto  »  di  quella  remota  e  civile  regione  per  ru- 
minazione inflitta  all'onore  e  agl'interessi  del  Regno  sacrificati 
alle  pretese  di  Roma. 

Anche  un  aulico  capriccio  puerile  ebbe  il  suo  peso.  E  quale 
peso  1  Tutta  1* enorme  e  autorevole  massa  della  magistratura 
insorse  contro  la  sua  esclusione  dalla  processione  del  Corpus 
Domini.  Noi  possiamo  ora  sorridere  della  cosa;  ma  a  quel 
tempo  era  cosa  assai  grave. 

Ma  queste  ed  altre  particolarità,  che  ometto,  restano  tutte 
al  di  sotto  di  una  causa  superiore,  nella  quale  si  riassume  il 
crescente  dissidio  tra  governo  e  governati.  Gl'ideali  di  libertà 
e  di  eguaglianza,  germogliati  dalla  letteratura  politico-giuridica 
del  settecento,  messi  in  atto  dal  contatto  con  la  rivoluzione  fran- 
cese, diffusi  poi  e  modificati  con  la  trasformazione  sociale  pro- 
dotta dalla  eversione  della  feudalità,  s'erano  oramai  fìssati  nella 
monarchia  costituzionale.  Questa  s*era  reclamata  sotto  il  Murat 
in  Calabria  (12)  e  in  Abruzzo  (13)  e  più  solennemente  poi  dalla 
nobiltà,  dalla  magistratura  e  dall'esercito  tutti  insieme  (14). 
Questa  era  stata  in  ultimo  pomposamente  concessa  dall'infelice 
re  ;  ma  sull'orlo  del  precipizio.  Questa  inoltre  era  stata  data  ai 
siciliani  dal  re  Ferdinando  :  e  per  lui,  re  costituzionale,  avean 
cospirato  contro  Gioacchino  i  Carbonari  di  qua  dal  Faro.  Que- 
sta dalla  Sicilia  era  stata  promessa  solennemente  dallo  stesso 
Ferdinando  ai  napoletani  a  procaccio  di  adesioni.  Ma,  assicurato 
che  si  fu  sul  trono  di  Napoli,  tra  i  suoi  primi  atti  colpi  nelle 
sette  il  liberalismo.  E,  prima,  nello  stesso  anno  15,  decretò  che 
ogni  pubblico  ufficiale  dovesse  prestare  il  seguente  giuramento: 

«  Prometto  e  giuro  di  non  appartenere  a  nessuna  società  se- 
greta di  qualsivoglia  titolo,  oggetto  e  denominazione.  E,  nel 
caso  che  io  appartenessi  a  qualcuna  di  tali  società,  prometto 
e  giuro  di  rinunciarvi  da  questo  momento  ».  Poi,  un  anno  dopo, 
proscrisse  per  legge  tutte  le  società  segrete. 

Che  ne  accadde  ? 

Da  un  lato,  se  ne  acuì  nel  pubblico  la  curiosità  di  vedere 
ciò  che  sarebbe  successo,  sapendosi  che  quanti  erano  a  capo 


115 


de'  principali  uffici,  tutti  erano  carbonari  o  massoni  ;  dall'altro, 
se  ne  allargò  la  convinzione  che  la  monarchia  oramai  era  ferma 
a  mantenersi  assoluta.  Convinzione  tanto  più  esasperante,  in 
quanto  sempre  più  venne  diffondendosi  la  certezza  che  l'assolu- 
tismo era  esercitato  non  dai  re,  ma  dai  suoi  ministri,  anzi  da 
un  sol  ministro,  il  Medici.  Al  qual  proposito,  piacciavi  udire 
qualche  particolare  curioso. 

Discorrendo  della  riforma  giudiziaria  del  17,  un  diarista  na- 
poletano del  tempo  notò  :  «  S.  M.  avrebbe  voluto  1'  antico  ; 
ma  i  ministri  sono  pel  nuovo,  e  S.  M.  deve  cedere  ai  ministri. 
Sarà  una  facezia,  ma  si  è  detto  che  S.  M.,  nell'  espansione  del 
suo  antico  cuore^  avesse  detto  che  niente  gli  avean  fatto  spun- 
tare i  ministri  di  quanto  egli  voleva...  Solo  il  codino  mi  è  ri- 
masio,  si  vuole  abbia  detto,  ed  anco  a  questo  fanno  guerra,  e 
dovrò  levarmelo  !  » 

Un  altro  cronista,  ma  lontano  da  Napoli,  c'informa  del  me- 
todo usato  dal  Medici  per  indurre  il  re  al  partito  voluto.  Ne 
preavvertiva  la  Migliaccio  ;  e  si  recava  al  Consiglio.  Qui  propo- 
neva l'affare;  ma,  prospettandolo  molto  scabroso,  lo  lasciava 
sospeso.  Dopo  il  consiglio,  il  re,  di  solito,  visitava  la  consorte;  e, 
comunicandole  le  deliberazioni  prese,  accennava  all'arduo  punto 
lasciato  indeciso.  La  duchessa  con  disinvoltura  scioglieva  i 
nodi  della  questione,  suggerendo  la  soluzione  che  dovrebbe  dar- 
lesi.  Nel  prossimo  consiglio  il  re  richiamava  il  Medici  su  quel- 
l'affare; e,  riudendo  le  difficoltà  già  accampate,  spiattellava 
l'avviso  suo.  I  ministri  si  mostravano  abbagliati  da  tanta  luce 
di  sapienza,  e  il  decreto  era  bell'e  fatto. 

E  ancora  un'altra  curiosità. 

Quando  il  teatro  S.  Carlo  fu  distrutto  da  un  incendio  (1816) 
vi  si  rinvenne  un  dipinto  che  rappresentava  il  re  incoronato 
in  trono  ;  avanti  a  lui  la  consorte  col  ministro  Tommasi,  intesi 
a  distrarlo  con  moine  ed  ossequi;  dietro,  il  Medici  in  atto  di 
carpirgli  il  diadema. 

•** 

Così,  dunque,  disposta  la  pubblica  opinione,  alle  leggi  con- 
tro le  sette  si  rispose  con  un  fìtto  fuoco  di  fila,  che  il  governo 


—  116  — 

non  potè  più  domare.  H  governatore  di  Napoli  —  D.  Troiano 
Marnili  duca  d'Ascoli  —  stando,  con  la  polizia,  tutt'occhi  e  o- 
recchi  a  difesa  del  padrone,  scoprì  che  per  la  notte  del  12 
aprile  16  si  doveva  dar  fuoco  alla  reggia.  Un  mese  dopo  si  tramò 
di  sorprendere  al  campo  di  Marte  l'artiglieria  austriaca  e  pian- 
tarvi l'alberò  della  libertà.  Dopo  qualche  altro  mese  —  22  ago- 
sto 16  —  si  vide  di  mattina  affisso  per  molti  punti  della  città 
un  «  Avviso  patriottico  »  oltraggioso  pel  re  e  la  Migliaccio  ;  in- 
citante i  vari  partiti  liberali  ad  unirsi  e  ad  insorgere.  Dalle 
province  fioccavano  nella  capitale  avvisi,  manifesti,  proclami 
d'ogni  sorta  ;  stampati  e  manoscritti,  annunzianti  esortato  il  re 
«  da  tutti  gli  angoli  del  Regno  »  a  dare  una  costituzione  libe- 
rale, che  a  lui  assicurasse  il  trono  e  al  paese  la  felicità.  Non 
concedendosi,  difendessero  tutti  il  proprio  diritto,  cominciando 
dal  negare  le  imposte,  non  dovute  ad  un  governo  che  discono- 
sceva i  diritti  della  nazione,  e  continuando,  sino  allo  spar- 
gimento di  sangue. 

E  sangue  se  ne  sparse,  dove  scesero  a  vie  di  fatto  le  parti 
avverse;  come,  con  gran  rumore  per  tutto  il  Regno,  accadde  a 
Lecce  nel  1818  tra  Carbonari  e  Calderari. 

In  qualche  provincia  il  contrasto  tra  i  partiti  assunse  formi 
di  conflitto  di  poteri  tra  le  maggiori  autorità.  Così  a  Salerm 
tra  il  generale  Colletta  e  l'intendente  Ferrante  :  l'uno  aperto 
prepotente  protettore  dei  Carbonari,  l'altro  pavido  e  debole  fau- 
tore dei  Calderari. 

Contemporaneamente  agli  attentati,  alle  trame,  alle  minacce 
accennate,  la  setta  dei  carbonari  si  riorganizzò  più  saldamente 
mirò  a  sbarazzarsi  degli  elementi  più  impuri,  intensificando  la| 
propaganda.  Ora  (si  badi)  nel  più  ardente  tra  i   suoi  focolari] 
si  trovava  appunto  quel  reggimento  Borbone,  in  cui  militavan( 
da  sottotenenti   Michele  Morelli  calabrese  di  Monteleone   e  il 
napoletano  Giuseppe  Salvati  i.  Tale  particolare   ci  resti  nelh 
memoria,  perchè  esso   ci  condurrà    a  spiegare  ciò   che  a  primi 
vista  ci  parve  inesplicabile.  Quivi    al  comando   della  3^  Divi- 

*  In  questa  forma  è  dato  il  cognome  eccezionalmente  da  qualcuno  ;  mi 
in  questa  forma  —  e  non  in  quella  dì  Silvati  — il  cognome  è  assai  comun 
da  noi. 


—  117  — 

sione  stava  il  generale  carbonaro  Guglielmo  Pepe,  calabrese,  già 
nel  1799  giacobino  o  repubblicano,  salito  sui  campi  di  battaglia 
per  tutti  i  gradi  militari.  Suo  capo  di  stato  maggiore  era  il 
colonnello  carbonaro  Lorenzo  de  Concilj ,  avellinese,  pur  lui 
repubblicano  del  99.  Alla  dipendenza  del  generale  Pepe  coman- 
dava a  Foggia  il  reggimento  Re  cavalleria  il  colonnello  carbonaro 
Giovanni  Russo,  che  poi,  maresciallo,  fu  l'unico  eroe  —  ed  e- 
roe  vero  —  della  battaglia  di  Rieti. 

'  Nella  stessa  circoscrizione  territoriale  sottoposta  al  Pepe,  il 
calabrese  Gaetano  Rodino  carbonaro,  già  repubblicano  del  99, 
compagno  del  Pepe  nelle  cospirazioni  della  Calabria  e  nell'  er- 
gastolo della  Favignana,  era  sottintendente  a  Bovino,  poi  a 
Sansevero.  Due  preti  erano  Maestri  in  due  vendite  :  D.  Luigi 
Minichini  a  Nola,  D.  Paolo  Venusi  nella  stessa  Sansevero.  Tac- 
cio di  altri. 

Ora — nel  marzo  18 — il  colonnello  De  Concilj,  d'accordo  col 
Pepe,  convocò  in  alta  Vendita  ad  Avellino  i  deputati  delle 
Vendite  della  Puglia,  della  Campania  e  della  Calabria.  E  in 
quell'adunanza,  deplorando  per  la  Carboneria  perduto  il  bell'o- 
nore di  esser  convegno  delle  virtù  e  del  patriottismo,  fece  de- 
liberare che  si  attirassero  alla  setta  tutti  i  possidenti  onesti  e 
che  le  Vendite  fossero  riorganizzate  militarmente. 

Senonchè  l'ormai  non  più  occulto  dissidio,  tra  sudditi  e  go- 
verno, d'un  tratto,  al  termine  di  quell'anno  18,  parve  sopito. 
Causa  di  ciò  fu  un  avvenimento  inaspettato,  straordinario,  che 
aprì  a  grande  speranza  l'anima  dei  liberali:  il  codino  del  re, 
quel  codino  che  vedemmo  a  lui  tanto  caro,  ch'egli  solo,  tra  i 
sovrani  europei,  custodiva  ancora  come  onor  della  nuca,  cadde 
reciso  da  un  colpo  di  forbici. 

Come  già  i  giacobini  nel  99,  cosi  apparvero  ora  al  pubblico 
scodinati  tutti  i  cavalieri  della  Corte.  Sconcertato  il  prefetto  di 
polizia  Giampietro  corse  dal  ministro,  per  chiedergli  se  dovesse 
pur  lui  sottomettersi  a  quell'operazione.  Dava  una  straordinaria 
importanza  alla  cosa  la  voce  sparsa  in  un  attimo  che  ciò  a- 
vesse  fatto  il  re  «  per  dar  segno  di  compiacenza  »  ai  liberali  o, 
come  si  diceva,  ai  «  Murattisti  »  ;  perchè  questi,  più  che  altri, 
avean  dato  prova  di  afflizione,  in  una  recente  mortale  infer- 
mità del  sovrano,  paventando  la  successione  del  figlio,  risaputo 


—  118  — 

malvagio,  dispotico  ed  intimo  del  principe  di  Canosa.  Anche 
il  Colletta  narra  che  gli  stessi  ministri  divulgarono  allora  esser 
prossimo  il  re  a  far  cosa  grata  ai  liberali  ;  e  che  questi,  tra  mille 
felicità  possibili,  fermarono  il  pensiero  nella  costituzione. 

Però  si  disse  anche  altro  :  si  disse  pure  che,  nel  corso  del 
male,  quell'appendice  pelosa  avea  dato  fastidio  al  vecchio  re  ; 
sicché  questi,  dolendosene  coi  medici,  fu  consigliato  a  sbaraz- 
zarsene una  buona  volta.  E  tale  versione,  più  pedestre,  è  vero, 
e  più  prosaica,  ma  più  semplice,  appunto  perchè  più  semplice,, 
appare  più  credibile. 

Ad  ogni  modo,  un  nuovo  fuoco  di  speranze  ne  venne  acceso; 
ma  non  arse  che  per  pochi  giorni.  L'annunzio  di  una  prossimaj 
visita  degli  imperiali  austriaci  vi  cadde  su  come  una  grandinata. 
Da  allora,  dal    principio   del  19,   non  si   pensò  che  a  quella] 
visita  :  nei  circoli  liberali  non  si  parlò  che  di  Francesco  d'Au- 
stria e  di  Clemente  di  Metternich. 

*  * 

L'imperatore  e  l'imperatrice  viaggiavano  per  l'Italia  in  inco- 
gnito, come  duca  e   duchessa   di  Mantova,  con  la  figliuola  Ca- 
rolina. Li  precedette  a  Napoli  il  primo  ministro,  già  dal  nostro] 
re  creato  principe  di  Portella,  che  giunse  il  20  aprile.  Gran  di 
fare,  dunque,  grandi  preparativi  a  Corte. 

La  reggia  fu  sgombrata  e  allestita  per  gli  ospiti  ;  la  famiglis 
reale  passò  alla  villa  del  Chiatamone.  Il  re  col  principe  di  Sa- 
lerno e  la  costui  consorte,  altra  figliuola  dell'  imperatore,  usc| 
ad  incontrare  verso  Fondi  o  Mola  gli  augusti  personaggi.  Ri- 
mase nella  reggia  a  riceverli  il  duca  con  la  duchessa  di  Calabria^ 
La  città,  questa  nostra  cara  Napoli  ostinatamente  fida  alle  sue 
tradizioni,  anche  per  quell'ingresso  solenne  preparò  la  soliti 
pioggia  torrenziale,  spazzando  via  ogni  solennità.  Sicché,  versoj 
l'una  pomeridiana  del  27  aprile,  fu  vista  passare  per  le  vie  di' 
tutta  corsa  sotto  il  rovescio  scrosciante  dell'acqua  una  «  carret- 
tella »,  che  infilò  il  portone  di  Palazzo.  Ne  smontarono  l' im- 
peratore col  re.  Mezz'ora  dopo,  li  raggiunsero  le  rispettive 
famiglie.  E  dall'indomani  fino  all'  ultimo  giorno  di  maggio, 
dalla  visita  al  Real  Museo,  installato  di  recente  nell'attuale  sede 


—  119  — 

degli  Studi,  alla  festa  di  S.  Ferdinando,  fu  tutta  una  successione 
di  visite,  di  escursioni,  di  spettacoli,  di  solennità  a  svago  e 
sollazzo  degli   augusti  stranieri. 

Memorabile  rimase  un  convito  fantastico  offerto  di  notte  a 
Capodimonte  (l'il  maggio)  ad  oltre  mille  persone,  che  a  giu- 
dizio dei  competenti  superò,  nonché  ogni  magnificenza  murat- 
tiana,  ogni  magnificenza  napoleonica.  Vi  fu  poi,  tra  altre  ma- 
raviglie, anche  un'ascensione  in  pallone:  di  una  fanciulla  quat- 
tordicenne, madamigella  Cecilia,  alunna  dell'aeronauta  Garnerin 
(20  maggio).  In  quel  volò  ella  per  la  prima  volta  sperimentò, 
su  non  so  che  quadrupede,  il  paracadute  ;  e  s'impegnò  a  di- 
scendere al  punto  di  partenza.  Viceversa,  cadde  in  alto,  tra 
l'Arenella  e  Antignano,  e  si  riseppe  che  per  poco  non  era  rima- 
sta soffocata  dal  fumo  della  valvola.  Tanto  bastò  perchè  si  be- 
stemmiasse alla  pericolosa  e  inutile  invenzione:  inutile,  si  di- 
ceva, dacché  non  c'era  modo  di  dar  direzione  a  quei  globi. 
Ahimè,  tali  salvatori  dell'umanità  ci  sono  stati  in  ogni  tempo  : 
ma,  ad  onta  de'  loro  scalpori  e  delle  loro  maledizioni,  il  mondo 
cammina  sempre  :  considerazione  questa  non  in  tutto  estranea 
al  tema  che  trattiamo. 

Gran  fervore,  dunque,  di  feste  e  godimenti,  da  un  lato  ;  ma 
fremito  di  preoccupazioni  e  di  sospetti,  e  cupi  propositi,  dal- 
l'altro. Il  dì  seguente  alla  venuta  di  Metternich,  parti  .infatti 
da  Napoli  per  Avellino  il  generale  Pepe;  e,  facendo  mostra  di 
voler  rassegnare  i  suoi  soldati,  girò  per  le  due  province  di  Avel- 
lino e  Foggia  in  compagnia  del  sottintendente  Rodino.  Ma  un 
assai  strano  scopo  aveva  quel  viaggio:  alla  notizia  che  si  sarebbe 
offerto  all'imperatore  anche  lo  spettacolo  di  una  solenne  rivista 
appunto  ad  Avellino,  l'audace  generale  s'era  proposto  né  più  né 
meno  che  di  arrestare  colà,  in  quella  occasione,  il  re  con  l'im- 
peratore e  col  cancelliere  austriaco,  e  far  proclamare  la  costitu- 
zione. Trapelato  il  disegno  al  generale  Colletta,  questi — per 
invidia  (come  asserì  lo  stesso  Pepe)  o  piuttosto  per  prudenza  — 
lo  sventò,  descrivendo  in  tale  stato  la  via  tra  Napoli  ed  Avel- 
lino da  non  potervi  avventurare  l'imperatore. 

A  quel  disegno  del  Pepe  fecero  rincontro  la  sfavorevole  im- 
pressione fatta  dalla  brutta  meschinità  fisica  di  Francesco 
d'Austria  e  le  sinistre  voci  che  serpeggiarono  sul  suo  conto. 


—  120  — 

Perchè  si  disse  stretto  allora  un  patto,  per  cui  il  re  gli  avrebbe 
non  solo  sborsati  4  milioni  di  ducati  nostri,  ma  anche  promessi 
15  mila  soldati  in  pieno  assetto.  E  si  susurrò  di  peggio,  di  as- 
sai peggio  ;  ma  più  tardi  :  d'una  trama  diabolica  ordita  allora 
tra  Metternich  e  Medici.  Contrariato  cioè  il  ministro  austriaco 
dal  veder  qui  mantenuta  tanta  parte  di  novità  francesi  —  ban- 
dite in  tutto  dal  resto  d'Italia — avrebbe  insinuato  nel  ministro 
napoletano  la  convinzione  che  occorreva  far  nascere  tal  tram- 
busto da  fornir  pretesto  all'Austria  d'intervenire  e  restaurare  in 
tutta  la  sua  pienezza  i  vecchi  sistemi.  A  questo  fine,  il  Me- 
dici avrebbe  lasciato  campo  libero  ai  Carbonari.  E,  in  verità, 
il  contegno  governativo,  di  fronte  all'agitazione  liberale  in  ge- 
nere e  all'opera  della  setta  in  ispecie,  varrebbe  a  dar  credito 
alla  diceria.  Eccovi  qualche  esempio. 

Monsignor  Lupoli,  arcivescovo  di  Campagna,  con  quel  sottin- 
tendente Cipriani  vennero  apposta  a  Napoli,  per  informare  il 
ministro  del  movimento  liberale  o  settario  in  quel  distretto;  ma 
non  potettero  ottenere  un'udienza.  Il  principe  di  Sant'  Aga- 
pito, intendente  d'  Avellino,  mandò  per  la  sua  provincia  av- 
visi della  stessa  natura  ;  non  ricevette  risposta. 

Avvenne  anche  altro.  Il  prefetto  Patrizi  rivelò  personalmente 
al  re  l'imminenza  d'un  rivolgimento,  della  presentazione  da 
parte  dei  generali  di  una  carta,  che  il  re  avrebbe  dovuto  firmare, 
se  intendeva  mantenersi  sul  trono  ;  gli  esibì  i  nomi  dei  capi 
della  congiura.  Il  re  ne  parlò  a  Medici  e  a  Tommasi  :  si  seppe 
che  avesse  detto  che  quel  Patrizi  lo  faceva  «  morir  di  spavento  ». 
I  ministri  ne  montarono  in  furore  contro  il  Patrizi:  lo  chiama- 
rono pazzo  e  gli  tolsero  l'impiego. 

Era  indolenza  nirvanica  o  folle  spensieratezza  o  supina  im- 
becillità ?  Così  ritennero  molti  ;  tanto  più  impressionatamente 
in  quanto  tutto  intorno,  da  presso  e  da  lungi,  avrebbe  dovuto 
forzare  i  reggitori  a  vigilare  e  a  prevenire.  Il  Giornale  infatti 
del  2  dicembre  19  annunziava  invitate  dal  Gabinetto  Prus- 
siano tutte  le  Corti  europee  ad  una  comune  azione  contro  i 
perturbatori  dell'  ordine  pubblico,  che  avean  conquistato  gli 
animi  specie  della  gioventù  e  scisso  in  sette  l'Europa. 


121 


Lo  stesso  giornale,  qualche  mese  dopo,  riferiva,  dai  fogli  stra- 
nieri, lo  sconvolgimento  generale  dell'Europa:  forzato  nella  Spa- 
gna il  re,  da  una  rivolta  militare,  ad  accordare  la  costituzione; 
assassinato  in  Francia  l'erede  presuntivo  duca  di  Berry  (genero 
del  nostro  duca  di  Calabria)  ;  progettata  dai  radicali  in  Ger- 
mania una  costituzione  in  Repubblica  di  tutti  i  paesi  tedeschi; 
scoperta  a  Londra  una  congiura  per  trucidare  tutti  i  ministri. 
Ed  anche  pel  nostro  Regno  dava  1'  allarme,  asserendovi  mi- 
nacciata la  pubblica  tranquillità. 

Di  fronte  e  in  mezzo  a  questo  gran  movimento,  che  cosa 
fecero  i  ministri  di  Ferdinando  I  ?  La  polizia  scopri  nientemeno 
che  a  Viesti  c'era  un  capitano  carbonaro,  e  invitò  il  colonnello 
Russo  a  mandarlo  qui  a  scolparsi.  Il  capitano  venne  a  Napoli; 
ma,  anziché  dal  prefetto  di  polizia,  si  recò  dal  generale  Pepe. 
E  il  generale  si  ritenne  in  diritto  di  querelarsene  direttamente 
col  ministro  Medici,  dichiarando  senz'ambagi  che,  se  fossero 
chiamati  a  Napoli  i  militari  carbonari,  egli  avrebbe  dovuto  spe- 
dire tutta  la  sua  Divisione.  Né  si  sa  che  il  governo  facesse 
altro. 

Ora,  é  arduo  per  noi  attribuire  tal  contegno  a  indolenza  o 
ad  imbecillità;  ma  non  riesce  neppur  facile  prestar  fede  intera 
all'accennato  accordo  mediceo-metternichiano,  proprio  nel  senso 
che  s'è  detto:  sarebbe  stato  suscitare  un  incendio,  che  poteva 
bensì  esser  domato  una  volta  e  due  ;  ma  che  in  ultimo  poteva 
anche  ridurre  in  cenere  il  domatore.  E,  dacché  ex  nihilo  nihil 
fit  ed  anche  nihil  dicitur ,  in  fondo  a  quella  voce  si  potrebbe, 
con  più  verosimiglianza,  discernere  un'assicurazione,  da  parte 
del  Metternich,  che  contro  ogni  evenienza  la  monarchia  di  Na- 
poli avrebbe  sempre  avuto  l'Austria  alle  spalle. 

Giungiamo  così  alla  crisi,  che  culmina  bensì  nella  diserzione 
di  Nola  ;  ma  non  si  apre  con  quella.  La  crisi  si  apre  con 
l'agitazione  liberale  cresciuta  dopo  la  partenza  dei  non  gra- 
diti ospiti;  con  la  dilatazione  e  l'intensificazione  dell'attività 
carbonara  :  quando  dalle  Magistrature  provinciali  si  ordinò  ai 
Dicasteri  distrettuali  d' inviare  visitatori  a  tutte  le  rispettive 
Vendite  per  riceverne  giuramento  che  a  un  dato  segno  tutti 
sarebbero  accorsi  in  armi  a  un  punto  dato.  La  crisi  si  sviluppa 
con  le  grandi  manovre  di  Sessa  (nella  terza  settimana  di  mag- 


—  122  — 

gio  20)    che   servirono  a  moltiplicare  e  a  meglio    affiatare  i 
settari  e  a  registrare  più  concreti  accordi. 

Sciolto  infatti  che  fu  il  campo  di  Sessa  (24  maggio),  si  de- 
cise lo  scoppio  simultaneo  in  tutto  il  Regno  pel  giorno  ono- 
mastico del  re.  Per  nuovi  ordini  delle  Magistrature  provin- 
ciali e  poi  per  emissari  espressi  dei  Dicasteri,  ogni  Vendita  si 
preparò,  per  quel  giorno,  a  marciare  in  armi  sul  capoluogo  del 
distretto,  occuparne  la  ricevitoria  e  passare  al  capoluogo  della 
provincia.  Ma  subiti  contrordini  fecero  richiamare  gli  emissari 
già  messi  in  moto;  e  il  solo  De  Concilj,  per  richiamare  i  suoi, 
ebbe  a  spendere  non  meno  di  millecinquecento  ducati.  Passò  cosi 
un  altro  mese,  quantunque,  tornato  Pepe  ad  Avellino,  udisse 
dal  colonnello  Russo  che  il  suo  reggimento   era  bell'e  pronto. 

Col  Russo  il  generale  passò  in  Capitanata:  s'abboccò  a  Sanse- 
vero  col  prete  D.  Paolo  Venusi  (maestro  di  quella  Vendita).  A 
Foggia  fu  raggiunto  da  De  Concilj.  Dispose  quindi  tutto,  per- 
chè l'insurrezione  avesse  luogo  nell'ultimo  giorno  di  quel  mese 
di  giugno. 

Ma  venne  fuori  alla  fine  un  provvedimento  di  governo  d'unai 
certa  gravità  :  nelle  province  più  sospette  furon  mutate  le  au- 
torità militari  e  civili.  A  Salerno,  messo  a  riposo  l'inetto  Fer-; 
rante,  andò   come    intendente   il    principe  Zurlo  ;    il  generale] 
Nunziante  soppiantò  Colletta  in  quella   provincia  e  fu  seguito] 
dal  maresciallo  Campana,  Pepe  fu  da  Avellino  trasferito  in  Ca- 
labria e  in  Avellino  fu  sostituito  dal  generale  Colonna  ;   alla] 
dipendenza  del  quale  il  colonnello  Vincenzo  d'Anna,  duca  di] 
Laviano,  fu  incaricato  di  ricostituire  e  organizzare  quel  mutilo] 
e  lacunoso  reggimento  Borbone  che  già  ho  nominato  di  stanza 
a  Nola  con  un  distaccamento  ad  Avella.  Credo  che  tali  traslo-j 
chi  avessero  cagionato  quell'ultimo  indugio,  che  Pepe  in  seguito] 
deplorò,  all'esatta  esecuzione  degli  ordini  da  lui  impartiti. 

Ninna  fretta  intanto  egli  si  dette  di  raggiungere  la  nuova  re-| 
sidenza. 

Rimasto  a  Napoli,  in  quel  volgere  di  giugno,  mantenne  sem- 
pre nelle  sue  mani  le  fila  dell'ampia  trama. 

Raggiunto  qui  dal  colonnello  Vallante,  lo  rinviò  subito  inj 
Capitanata,  perchè  adunasse  una  vendita  a  Lesina,  dove,  chia-j 
mato  Don  Minichini,  strinse  con  lui  gli  ultimi  accordi. 


—  123  — 

Al  colonnello  Russo,  venuto  pur  lui  a  trovarlo,  assicurò  tutto 
esser  pronto  ;  non  mancare  che  una  risposta  del  Carascosa. 
Il  non  lieve  compito  di  scandagliare  l'animo  dell'illustre  gene- 
rale siciliano  (comandante  la  I  divisione)  fu  dal  Pepe  affidato 
al  De  Concilj,  che,  giovane  nel  1794-97  aveva  militato  agli  or- 
dini del  Carascosa  (allora  secondo  tenente  nel  Reggimento  Prin- 
cipe) in  guerra  contro  i  francesi. 

Lo  stesso  Carascosa  c'informa  di  quel  colloquio  nelle  sue 
Memorie. 

Il  colonnello  si  recò  da  lui  come  per  pura  visita,  ed  entrò  a 
parlare,  sulle  generali,  delle  novità  del  giorno.  Disse  che  un  fo- 
glio francese  aveva  annunziato  la  decisione  delle  grandi  Potenze, 
auspice  la  Russia,  di  non  intervenire  negli  affari  interni  di  un 
popolo.  Sicché,  conchiuse  De  Concilj,  sempre  in  linea  generica, 
un  popolo,  che  insorgesse  per  mutare  il  suo  sistema  politico, 
non  si  troverebbe  di  fronte  che  unicamente  il  proprio  governo. 
Lo  interruppe  il  Carascosa,  obiettando  che  in  un  paese  a  li- 
bertà di  stampa,  come  la  Francia,  era  facile  abbandonarsi  alla 
fantasia;  ma  che  per  la  verità  quella  notizia  francese  era  smen- 
tita dall'annunzio,  pubblicato  nel  Giornale  delle  due  Sicilie,  che 
tra  breve  un  congresso  delle  grandi  Potenze  avrebbe  deciso  circa 
la  rivoluzione  spagnuola. 

Quell'annunzio  ebbe  a  colpire  nel  cuore  il  colonnello  avelli- 
nese, che  ansioso  dimandò  in  grazia  quel  giornale  e  1'  ebbe  ; 
e  sicuramente  si  affrettò  a  recarlo  al  generale  Pepe.  Davanti 
alla  nuova  minaccia  urgeva  ora  rompere  ogni  altro  indugio. 
De  Concilj  ritornò  ad  Avellino,  convocò  i  partigiani  maggiori, 
inviò  a  Nola  un  tenente  Fresenga  ;  al  quale  i  sottotenenti  Mo- 
relli e  Salvati  con  un  sergente  Altomare  dichiararono  d'  essere 
pronti. 

Era  il  30  giugno  (di  venerdì).  All'alba  seguente  in  Avella  fu 
destato  il  sottotenente  Nicola  Luciano,  carbonaro  pur  lui,  da  un 
ordine  di  recarsi  incontanente  a  Nola.  Quivi  seppe  decisa  la 
mossa  per  la  notte  ;  ebbe  dai  compagni  nolani  incarico  di  di- 
sporre i  suoi  dipendenti,  e  quanti  altri  potesse  del  circondario 
d'Avella,  a  ben  accogliere  gl'insorgenti  verso  le  5  e  mezzo  della 
notte,  e  di  spiccarne  rapidamente  avviso  al  Del  Concilj. 

Dopo  tutto  ciò,  dunque  —  e  sicuramente  molti  altri  partico- 


124 


lari  da  me  non  indagati  —  a  notte  inoltrata,  quando  tutto  il 
quartiere  era  immerso  nel  sonno,  sparso  sul  terreno  strame  e 
letame,  che  attutisse  il  calpestio  dei  cavalli,  Morelli  e  Salvati 
ne  trassero  fuori  un  120  tra  graduati  e  militi;  trovarono  il  Mi- 
nichini con  una  ventina  di  settari  borghesi  ;  e  usciti  dalla  città 
sulla  via  di  Avellino  spiegarono  il  vessillo  tricolore  della  Car- 
boneria al  grido  di  «  viva  Dio,  Viva  il  re,  Vivala  costituzione  ». 

Qualcuno  però  aveva  avvertita  la  strana  sortita,  ed  era  corso 
ad  informarne  il  colonnello.  Il  buon  duca  di  Laviano,  nuovo  al 
reggimento,  ignaro  di  tutto,  destato  di  soprassalto,  verificata 
che  ebbe  la  diserzione,  non  seppe  far  di  meglio  che  denunciarla 
a  quel  vescovo  Monsignor  Torrusio,  per  averne  consiglio.  Primo 
avviso  fu  ch'egli  montasse  a  cavallo,  raggiungesse  i  ribelli,  li 
esortasse  con  le  buone  al  ritorno,  assicurando  che  il  fallo  sarebbe 
rimasto  sepolto  nelle  tenebre  di  quella  notte. 

Poi  si  pensò  al  rischio  che  il  colonnello  potesse  restar  prigio- 
niero, esser  forzato  a  marciare  co'  ribelli,  apparirne  condot- 
tiero ;  e  l'avviso  fu  scartato.  Infine  si  risolse  di  comunicare  su- 
bito a  Napoli  ciò  ch'era  avvenuto. 

Ma  intanto  la  breve  notte  estiva  era  trascorsa,  e  in  quell'alba 
domenicale  le  popolazioni,  già  deste  ed  in  festa,  accoglievano 
giubilanti  il  drappello  ribelle,  ripetendone  il  grido  di  «  Viva 
Dio,  Viva  il  re.  Viva  la    costituzione  I  » 

Il  dado  era  tratto...  ;  ma  qui  m'arresto.  Solo  accennando, 
aggiungo  che,  grazie  all'abile  tatto  di  Lorenzo  de  Goncilj,  l'in- 
tera provincia  del  principato  Ultra,  con  tutte  le  sue  autorità 
civili,  militari  ed  ecclesiastiche,  venne  pacificamente  avvolta 
nella  rivoluzione,  assicurando  allo  sviluppo  di  essa  la  più  ri- 
gida e  più  pura  legalità. 

Un  momento  però  di  trepidazione  v'  infuse  l'indugiata  pre- 
senza del  Pepe,  che  De  Goncilj  s'era  affrettato  a  chiamare,  man- 
dando apposta  a  Napoli  un  capitano  Cirillo.  E  in  quel  punto 
Garascosa,  Nunziante  e  Campana  avrebbero  potuto  facilmente 
punire  i  ribelli.  Ma,  non  fidando  nei  soldati,  non  vollero  com- 
battere. Il  Garascosa  fece  offerte  di  pace,  e  si  disse  anzi  che  re- 
casse con  sé,  datigli  dal  re,  ottomila  ducati  con  dieci  passa- 
porti, per  indurre  i  capi  alla  ritirata. 

Quanto  al  Pepe — messo  in  così  falsa  luce  nella  pagina  che 


—  125  — 

vi  ho  letto  in  principio — il  Colletta  lascia  intendere  che  a  torto 
supponesse  di  dover  esser  arrestato.  Ma  sta  in  fatto  che,  la 
notte  del  5  luglio,  chiamato  dal  duca  d'Ascoli  a  render  conto 
di  un  proclama  emanato  con  la  sua  firma  da  Avellino,  il  gene- 
rale negò  d'averlo  scritto,  e  andò  via.  Il  duca  ripensò  che  me- 
glio avrebbe  fatto  ad  arrestarlo,  e  ne  die  l'ordine  ;  ma  era  tardi. 
Pepe,  corso  a  casa,  e  a  quell'ora  non  trovato  il  cocchiere,  al- 
lestì da  sé  una  «  canestra  »  ;  tolse  a  compagno  il  colonnello  Tup- 
puti  e,  superato  un  unico  inciampo  al  ponte  della  Maddalena, 
volò  ad  Avellino,  dissipò  ogni  timore  e  incertezza,  e  assicurò  il 
trionfo  della  rivoluzione,  salutata  rapidamente  da  tutto  il  Regno. 

Non  rimaneva  che  il  re.  Opinione  comune  —  derivata  dal  Col- 
letta, dal  Carascosa,  da  altri  — è  che,  nel  Consiglio  dei  ministri, 
il  re  cedesse  al  supplice  cordoglio  del  marchese  di  Circello,  che 
lo  avrebbe  esortato  a  trangugiare  V  amaro  calice,  concedendo 
la  costituzione.  Un  diarista  napoletano,  all'opposto,  informa  che 
in  quel  consiglio  solo  a  voler  la  resistenza  fu  Circello  :  infor- 
mazione più  credibile  come  più  consona  all'  indurita,  ma  one- 
sta mentalità  del  vecchio  ministro  assolutista  ;  laddove  la 
concessione  sarebbe  stata  suggerita  e  sollecitata  da  Medici,  da 
Tommasi  e  dal  duca  di  Calabria.  E  questo  loro  liberalismo 
dell'ultima  ora  non  può  meglio  spiegarsi  se  non  con  la  loro 
fiducia  nell'Austria  e  con  la  certezza  che  la  libertà  con  si  rara 
facilità  sbocciata  sarebbe  stata  strozzata  sul  nascere. 

E  conchiudo,  senza  più  tener  dietro  alle  vicende  ulteriori. 

Accodare  la  nostra  rivoluzione,  preparata  da  si  lunga  mano, 
al  pronunciamento  spagnolo  o,  peggio  ancora,  presentarla  come 
un'a  avventura  »  —  la  si  battezza  proprio  così  in  un  libro  del- 
l'anno scorso  —  è  semplicemente  ignorarla  o  non  capirla.  De- 
finirla una  violenza,  imposta  dalla  Carboneria  al  re  e  al  paese, 
è  ripetere  una  calunnia  di  cento  anni  fa,  spiegabile  nelle  Po- 
tenze reazionarie,  che  dovettero  giustificare  il  mandato  d'inter- 
vento all'Austria  ;  ma  inammissibile  tra  i  giudizi  della  storia. 
Rilevar,  di  quei  nove  mesi  di  vita  costituzionale,  solamente 
il  lato  comico  e  teatrale  —  riscontrabile  in  tanti  altri  eventi 
grandiosi  e  in  tante  altre  azioni  magnanime  —  rappresentare 
quel  parlamento  come  un'accozzaglia  di  retori  esaltati,  di  de- 
clamatori codardi,  servi  di  una  setta,  stolti  nella  fiducia  verso 


—  126  -- 

il  re  e  verso  il  principe  ereditario,  più  stolidamente  ostinati  nel 
feticismo  per  lo  statuto  di  Cadice,  è  infermità  di  monocolo.  Chi 
vede  meglio  trova  pur  da  ammirare  quanto  di  serio  e  di  buono 
si  operò  in  quei  nove  mesi  ;  si  consideri  soprattutto  1*  enorme 
progresso  che  la  novità  della  discussione  parlamentare  rappre- 
sentava rispetto  alFumile  e  di  solito  inane  supplica  che  dall'imo 
fondo  del  suddito  s'innalzava  al  culmine  della  Sacra  Maestà 
del  Re  Padrone. 

Di  fronte  ai  parolai  e  ai  settari,  non  mancati  mai  in  ogni 
adunanza  politica,  bene  s'elevarono  in  quel  parlamento  del  20-21 
alte  e  pure  personalità,  figure  da  ogai  lato  luminosissime,  affatto 
estranee  alla  setta,  che  spiegarono  tesori  di  dottrina  nel  recinte 
di  quell'assemblea. 

Accostare  in  fine  —  come  si  è  fatto  in  tempo  lontano  e  vi- 
cino—  la  rivoluzione  del  20  a  quella  del  99,  per  dimostrarla, 
al  confronto,  tanto  meno  importante,  tanto  men  gloriosa,  men 
profìcua  e  n^en  bella,  è  ignorare  o  dimenticare  o  non  intendere 
la  nostra  storia. 

Per  assegnare  all'evento  che  qui  oggi  rievochiamo  il  suo  giu- 
sto valore  e  la  sua  vera  importanza,  occorre  concatenarlo  con 
tutto  il  passato  del  nostro  patriottismo,  delle  nostre  aspirazioni 
politiche,  nate  a  un  punto  con  la  perdita  dell'indipendenza,  al- 
l'inizio del  cinquecento  :  lunga  e  dolorante  catena,  aspra  via 
crucis,  sulla  quale  ciascuna  generazione  —  variamente  atteggiata 
e  orientata,  secondo  la  diversità  dei  tempi  e  delle  contingenze 
—  impresse  un'orma  e  segnò  una  tappa,  sempre  andando  a- 
vanti. 

Tra  il  brancolìo  nel  buio  del  cinque  e  seicento  —  quando  s'im- 
petrò un  re  dalla  Spagna,  dalla  Francia,  dalla  Savoia,  da 
Roma  —  si  mantenne  vivo  il  sentimento  dell'indipendenza.  Da 
un  aborto  di  repubblica  secentesca  (1647-48)  scaturita  l'idea 
d'una  monarchia  indipendente,  questa  fu  vanamente  chiesta 
prima  ad  un  bastardo  spagnuolo,  poi  ad  un  cadetto  austriaco, 
e  finalmente  ottenuta  con  la  casa  Borbone.  Ma,  conseguita  che 
fu  l'indipendenza,  non  bastò  più  sotto  l'influsso  del  nuovo  se- 
colo. Si  aspirò  alla  libertà  e  all'eguaglianza;  e  l'una  e  l'altra  ci 
portarono  per  pochi  mesi  le  soldatesche  del  Direttorio,  affian- 
cate dai  nostri  patrioti,  con  la  repubblica  del  99.  Ma,  rispetto 


—  127  — 

a  questa,  il  rivolgimento  del  1820  fu  sul  serio  uu  regresso? 
Ma  si  pensi  che  questo  rivolgimento  fu  voluto  e  operato  da 
molti,  che  avevan  preso  parte  strenua,  eroica,  gloriosa  a  quello 
di  ventun  anni  prima.  Non  depressi,  non  pentiti,  in  queir  in- 
tervallo di  tempo  e  tanto  meno  involuti  o  rammolliti ,  accesi 
sempre  della  stessa  fiamma,  avean  meditato  nei  lunghi  ozi  degli 
ergastoli,  sviluppato  il  pensiero  e  slargata  la  cultuia  al  con- 
tatto di  altra  gente  nelle  peregrinazioni  dell'esilio.  Da  tale  svi- 
luppo era  scaturito  un  dubbio  fecondo:  se  cioè  nel  99  errato 
avesse  il  popolo,  difendendo  con  sfrenatezza  eroica  il  suo  re,  o 
non  piuttosto  essi,  i  patrioti,  introducendo  nel  proprio  paese  lo 
straniero,  tanto  ben  predicante  quanto  mal  razzolante.  Quindi 
la  visione  della  necessità  della  cooperazione  del  popolo,  ricco 
d'energia  e  d'avvenire  e  avviato  nel  Decennio  ad  elevarsi  ma- 
terialmente e  moralmente  ;  quindi  l'evoluzione  del  giacobinismo 
in  monarchismo  liberale  con  le  replicate  istanze  al  Murat;  quindi, 
in  fine,  dopo  svanita  la  speranza  in  Ferdinando  I,  la  rivolu- 
zione che  oggi  celebriamo.  La  quale  —  se  altro  non  fece  — 
dette  all'Italia  il  primo  esempio  di  una  monarchia  costituzio- 
nale. Questa  monarchia  perì,  è  vero,  troppo  presto,  perchè  at- 
tossicata nella  culla  dall'insidia  sovrana.  Ma  era  un  ammae- 
stramento anche  questo:  e  quale  e  quanto  complesso  ammae- 
stramento I  Ma  le  sopravvissero  1'  esempio,  la  tradizione,  Te- 
sperimento,  la  fiaccola,  che  gli  uomini  del  20  consegnarono  ai 
loro  figliuoli,  mettendoli  sull'avviso.  «  Non  mai  una  nazione  per 
il  suo  nobile  contegno  acquistò  diritti  maggiori  alla  stima  dei 
contemporanei  ed  all'ammirazione  dei  posteri  ».  Cosi  disse  uno 
dei  deputati  del  20  nella  seduta  parlamentare  dell'S  decembre, 
riassumendo  in  quel  giudizio  1'  opera  propria  e  degli  altri  au- 
tori della  rivoluzione  compiuta.  Poi,  cadendo  con  essa,  consegnò 
la  sua  fiaccola  nelle  mani  dei  suoi  figliuoli,  che  erano  Alessan- 
dro e  Carlo  Poerio. 

Michelangelo   Schifa 


DA    ARCHIVII     E    BIBLIOTECHE 


PER  LA 

STORIA  DELLA  CONGIURA  DEI  BARONI 

DOCUMENTI     INEDITI 

DELL'ARCHIVIO  ESTENSE 
1485-1487 


(Contin.  V.  voi.  prec,  pp.  336-367) 


XIV.  Id.,  28  agosto  1485. 

...Questa  sera  sono  venute  lettere  da  Milano  de  XXI  in  le  quali, 
parlando  el  S.  duca  de  Milano  pur  de  queste  cosse  de  baroni,  et 
che  fusseno  in  boni  termini  per  quello  li  havea  scripto  el  suo 
oratore,  tamen  li  cometteva  che  offerisse  de  novo  tucto  quello 
Stato  ad  omni  bisogno  de  Sua  M.ta.  Unde  andassemo  tuti  a  ca- 
stello, dove  li  retrovassemo  solum  el  S.  duca  de  Calabria  per  essere  : 
occupato  el  S.  Re  in  altro,  et  lecta  quella  lettera  ducale,  fu 
gratissima  a  Sua  Ex.tia,  e  volse  gli  la  lassasse  per  mostrarla 
al   Re. 

(Cifrato)  Dapoi  se  restrinse  el  duca  de  Calabria  cum  lo  am- 
bassatore  de  Milano  et  del  Re^,  cum  il  Secretarlo  del  Re  et  conte 
de  Matalone  per  certo  spacio  de  tempo  et  parlorno  insieme  ; 
et,  presa  licentia,  ne  partissimo  tuti,  et  lo  ambassatore  de  Mi- 
lano mi  dixe:  —  Messer  Baptista,  li  è  da  fare  assay  et  habiamo  da 
rodere  Tosso  —  quasi  su  spirando,  et  dicendome  :  —  Scies  autem 
postea  —  .  Più  ultra  non  scio  ;  staro  atento,  ma  dubito  che  quel- 
lo si  è  scripto  per  la  relatione  deli  baroni,  secundo  dixe  M.  Impou, 

^  Trattasi  dell'  ambasciatore  del  Re  di  Castiglia  e  d'  Aragona. 


—  129  — 

non  sii  per  contrario.  Queste  cose  le  hano  mandate  multo  se- 
crete  da  beri  in  qua,  et  se  hanno  guardato  assay  da  m.  Chri- 
stofaro  e  da  me,  e  non  solo  questa  sera,  ma  etiam  heri  sera,  quan- 
do mandorno  per  li  altri  et  non  per  nuy... 

P.S.  El  ragionamento  del  duca  de  Calabria  facto  cum  lo  am- 
bassatore  de  Milano  ho  veduto  ;  ni  fano  una  comune  tra  loro, 
et  questa  cavalchata  mandano  cum  la  celerità  de  la  stafeta. 
XV.  Id.,  29  agosto   1485. 

(Cifrato).  Per  quello  posso  intendere,  monstra  che  le  cose  de 
qua  non  passino  sine  maxima  suspicione  per  molti  baroni,  che 
pareno  siano  simul  coniurati,  fra  li  quali  è  lo  principe  de  Salerno, 
de  bisignano,  de  altamura,  el  grande  Sinischalcho,  lo  duca  de 
Melfi ^  et  questo  quasi  latenter,  et  il  marchese  di  Bitonto,  et 
pare  se  intenda  che  pure  habiano  facto  coadunatione  de  armi, 
et  che  havessero  intelligentia  cum  San  Pietro  in  Vinculis  et  per 
consequens  cum  el  papa^,  et  cum  lo  prefecto,  cognato  del  prin- 


*  In  occasione  delle  feste  per  le  nozze  di  Ippolita  Sanseverino  con  Troiano 
Caracciolo  figlio  del  duca  di  Melfi,  i  baroni  convennero  in  quella  città  per 
stringere  le  fila  della  congiura.  Circa  la  data  dell'  avvenimento  accolgo 
quanto  dice  il  Vecoli,  p.  35,  n.  4,  che  con  buone  ragioni  la  pone  tra  quel- 
la dell'arresto  dei  figli  del  duca  d'Ascoli  (20  maggio)  e  quella  della  cattura 
del  conte  di  Montorio  (28  giugno),  e  più  vicina  alla  seconda  che  alla  prima. 

*  Ecco  quel  che  ho  potuto  raccogliere  dai  Processi  intorno  alle  prime 
relazioni  tra  i  baroni  congiurati  ed  il  pontefice.  Dalle  deposizioni  di  Benti- 
voglio  de'  Bentivogli,  di  Gregorio  di  Samito  e  di  Giovanni  da  Mignano 
(ivi,  pp.  LII-III,  LIX-LXII,  XCII-III)  risulta  che  il  Conte  di  Sarno  e  il 
Gran  Siniscalco  si  dettero  convegno  a  Mater  Domini  presso  Nocera  per 
la  notte  successiva  al  giorno  del  battesimo  del  piccolo  Roberto  Sanseve- 
rino (29  maggio).  Non  essendosi  trovato  il  Gran  Siniscalco  al  luogo  stabi- 
lito, il  Coppola  se  ne  tornò  la  notte  stessa  al  suo  castello  di  Sarno.  Il  gior- 
no dopo  (30  maggio)il  Gran  Siniscalco  lo  raggiunse  colà  ed  ebbe  con  lui 
un  colloquio,  nel  quale  si  decise  di  inviare  al  papa  il  Bentivogli,  perchè 
lo  informasse  del  proposito  che  i  baroni  nutrivano  di  ribellarsi  al  Re  le- 
vando le  bandiere  della  Chiesa.  Andato  il  Bentivogli  a  Roma  e  tornatone 
con  la  richiesta  da  parte  del  pontefice  di  alcune  cose  che  i  baroni  avreb- 
bero dovuto  adempiere,  il  principe  di  Salerno,  il  Gran  Siniscalco  ed  il 
Conte  di  Sarno  (quest'ultimo  anche  a  nome  del  Segretario  Antonello  Pe- 
trucci)  convennero  segretamente  di  nuovo  a  Mater  domini,  dove  «  fo  facta 
una  sciita  per  li  baroni  rebelli  de  la  Sacra  maiesta  dello  s.  re,  dove  se 
soctoscrisse  de  mano  propria  lo  dicto  conte  de  Sarno,  et  siginola  con  una 
sua  corniola,  quale  donava  ipso  conte  de  Sarno  plenaria  potestà  allo  gran 
senescalco  potere  obbligare  la  vita  et  lo  stato  ala  rebellione  contra  la  Sa- 

Anno  XLV.  9 


—  130  — 

cipe  de  Salerno^,   et  similiter  Thavessero  etiam  col  S.   Rober- 

cra  Maiesta  dello  s.  re  ».  Tale  convegno  ebbe  luogo  in  un  giorno  impre- 
cisato del  giugno  (Processi,  p.  LXVIII).  Il  terzo  giorno  del  mese  succes- 
sivo, trovandosi  a  Napoli  il  principe  di  Bisignano  che  abitava  nel  palazzo 
del  principe  di  Salerno,  dopo  viva  discussione  provocata  dal  conte  di 
Sarno,  che  voleva  farsi  mandare  a  Roma  come  rappresentante  dei  ba- 
roni presso  il  papa,  si  deliberò  di  affidare  tale  incarico  al  Gran  Siniscal- 
co, e  ciò  per  esaudire  il  desiderio  di  Innocenzo  Vili,  che  voleva  presso  di 
sé  «  uno  delli  baroni  antiqui  ».  Di  tale  risoluzione  si  fecero  scripiure  tra  il 
Bisignano,  il  Coppola  ed  il  Segretario,  che  furono  consegnate  a  Gregorio 
di  Samito,  cancelliere  del  Gran  Siniscalco  con  l'incarico  di  portarle  al  suo 
padrone  (Processi,  pp.  LXXXV-VIII).  Ma  il  Gran  Siniscalco,  contraria- 
mente a  quanto  asserisce  rALBiNo,  p.  38,  non  andò  dal  papa,  perchè  a 
Isola  del  Liri  trovò  un  cognato  del  prefetto  Giovanni  Della  Rovere,  che 
gli  fece  intendere  «  che  le  cose  de  Roma  non  erano  in  ordine  ».  Decise 
perciò  di  tornarsene  nel  suo  castello  del  Vasto,  non  senza  averne  dato 
prima  avviso  al  principe  di  Salerno,  con  la  raccomandazione  di  scrivere 
al  conte  di  Sarno  che,  qualora  il  re  venisse  a  sapere  della  sua  partenza, 
lo  convincessero,  egli  ed  il  Segretario,  della  falsità  della  notizia.  Dalla 
deposizione  di  Gregorio  di  Samito  sì  rileva  pure  l'intenzione  del  Coppola 
e  del  Petrucci  di  lasciar  Napoli,  appena  il  Gran  Siniscalco  arrivasse  a 
Roma.  Ma,  in  seguito  al  ritorno  del  Guevara,  non  si  mossero,  e  quando  il 
principe  di  Salerno  e  suo  fratello  il  conte  di  Tursi,  che  in  un  nuovo  con- 
vegno tenuto  a  Diano  col  Bisignano  ed  altri  baroni  avevano  riaffermato 
il  proposito  di  rivolgersi  per  aiuto  al  papa  (Processi,  pp.  CXGV-VI),  man- 
darono a  Napoli  Antonio  Calciano  a  sollecitare  il  Segretario  ed  il  Cop- 
pola a  lasciare  la  città  «  per  che  era  tempo  de  fare  demonstratione  de  la 
rebellione  »  contro  il  re  {Processi,  pp.  LXXV-VI);  —  il  conte  rispose 
che  il  momento  dell'aperta  rivolta  non  era  ancor  giunto,  e  che  Anto- 
nello Sanseverino  avrebbe  fatto  bene  ad  inviare  una  seconda  volta  a 
Roma  il  Bentivogli  «  ad  sollecitare  lo  Papa  havesse  acellerato  ad  fare 
novità  ad  Aquila  contra  la  sacra  maiesta  del  s.  Re  ».  Della  seconda  gita 
del  Bentivogli  a  Roma  nell'agosto  si  parlerà  fra  breve  (v.  doc.  XVI). 
Per  ora  basta  dire  che  le  pratiche  dell'accordo  fra  i  congiurati  ed  il 
papa,  dalla  fine  di  maggio  all'epoca  a  cui  siamo  arrivati,  ebbero  lo  svol- 
gimento qui  accennato,  almeno  da  quel  che  risulta  dai  Processi.  Fran- 
cesco Marchisio  nella  sua  deposizione  (pp.  LVI-VII)  asserì  che  la  scritta, 
con  cui  il  Coppola  impegnò  i  suoi  beni  e  la  sua  vita,  fu  fatta  a  Sarno, 
ma  cadde  in  errore,  come  si  può  vedere  facilmente  mettendo  a  confronto 
la  deposizione  sua  con  quella  del  Bentivogli,  dal  quale  egli  disse  di  aver 
appresa  la  notizia,  e  che  invece  affermò  che  la  famosa  dichiarazione  fu 
fatta  a  Mater  Domini  dopo  il  suo  ritorno  da  Roma. 

^  Giovanni  della  Rovere,  prefetto  di  Roma,  aveva  sposata  Giovanna 
figlia  del  duca  di  Urbino  :  il  principe  dì  Salerno,  marito  dell'altra  sorella 
Costanza,  era  quindi  suo  cognato. 


—  131  — 

to^  et  Genovesi.  Et  pero  queste  tre  navi  grosse,  le  quali  già  più  dì 
fumo  in  porto  pisano  et  hora  sono  in  lo  canale  de  Piombino, 
sono  per  questa  causa  armate  de  homini  et  de  artiglierie  2.  Et 
come  quisti  baroni  haveano  dicto  a  M.  Impou  de  venire  a  Napoli 
ali  XV  del  futuro,  pare  che  fusseno  parole  et  zanze,  et  che  ha- 
vessero  ordinato,  che  in  quello  tempo  se  scoprissero  quelle  no- 
vità erano  fra  loro  deliberate  fare  in  questo  Regno,  et  ita  etiam 
le  navi  predicte  facessero  quello  gli  era  sta  imposto  a  quello  ef- 
fecto.  Hor  questo  intendo  fu  il  ragionamento  hebe  il  duca  de 
Calabria  cum  lo  ambassatore  de  Milano  et  del  Re  separata- 
mente da  M.  Cristophoro  e  da  me,  et  che  li  dicesse  che  tutto  que- 
sto gli  ha  revelato  un  altro  barone,  quale  non  volse  nominare  ^ 
et  cussi  rhano  scripto  ali  signori  suoi  per  la  stafetta.  Nondi- 
mancho  lo  conte  Brochardo  me  ha  dicto  che  ha  dicto  al  re,  per 
infinite  ragioni  et  in  scriptis,  che  mai  se  vedera,  praesertim  hoc 
tempore,  che  li  prenominati  baroni  macolino  la  fidelità  loro  con- 

^  È  questo  il  noto  condottiero  Roberto  Sanseverino  d'Aragona  Vi- 
sconti, conte  di  Cajazzo,  sul  quale  puoi  vedere  la  biografia  del  Volpi  cella, 
pp.   433-36. 

2  Per  altre  notizie  di  preparativi  dei  Genovesi  a  favore  dei  baroni  v. 
doc.   XXXIV. 

3  È  del  più  alto  interesse  conoscere  il  nome  del  barone,  che  teneva  in- 
formato il  re  dei  veri  intenti  dei  congiurati  nell'atto  in  cui  fìngevano  di 
voler  accordarsi  con    luì.    E  dagli  scarsi  accenni  che  ricorrono  nei  Pro- 
cessi sembra  che  questa  colpa  debba  gravare  o  sul  principe  di  Bisignano 
o  sul  duca  di  Nardo.  Don  Paolo  Ferrella  depose  infatti  (pp.  LXXXIX- 
XCI)  che  il  Bisignano  e  sua  moglie  gli  avevano  più  volte  dato  incarico  di 
avvisare  il  re  e  il  conte  di  Maddaloni,  che  non  si  fidassero  del  segretario  e 
del  conte  di  Sarno  «  che  erano  i  malori  traditori  dello  mundo  ».  Senonchè 
non  pare  che  il  Ferrella  riuscisse  mai  a  compiere  la  sua  missione,  senza  dire 
che  nel  caso  presente  non  era  il  principe  di  Bisignano,  assente  da  Venosa, 
dove  si  erano  svolte  le  trattative,  quello  che  poteva  conoscere  meglio  il 
vero  animo  dei  congiurati,  né  si  poteva,  almeno  allora,  accusare  il  Coppola 
ed  il  Petrucci  di  tradimento.  Eliminata  quindi  la  possibilità  che  il  Bisi- 
gnano rivelasse  al  re  la  malafede. dei  baroni,   rimane   che  tale  atto  fu 
compiuto  dal  duca  di  Nardo,  il  quale,  com'egli  stesso  ebbe  a  deporre, 
«  in  quello  che  per  lo  secretarlo,  Francisco  Coppola  et  misser  Pou  se  tra- 
ctava  lo  accordo tanto  in   Venosa  quanto  in  Meglionico  »  venne  a  co- 
noscenza che  essi  insieme  coi    baroni   «ingannavano   lo  signore  re  in  lo 
tractamento  de  la  pace  e  fecende  avisata  Sua  Malesia  »  (pp.  CCXX-XXI). 
E  forse  ad  Angliberto    del   Balzo  volle  accennare  anche  I'Albino   quando 
scrisse  (p.  38)  che  il  re  apprese  le  mene  dei  congiurati  da  un  ceHus  auclor 


~  132  — 

tra  Sua  M.ta,  et  pero  non  credere  sii  vera  questa  revelatione  facta 
al  duca  de  Calabria,  et  che  più  presto  la  sia  una  arte  de  li  baroni 
per  farsi  magiore  favore  et  reputatione,  et  che  più  presto  il  Re 
condescenda  a  le  sue  domande.  Et  parla  molto  gagliardamente, 
ut  etiam  audivi  ipsum  coram  rege,  quando  M.  Impoufecela  re- 
latione  sua,  dicendo  ch'el  se  ne  ralegrava,  si  per  il  publico,  come 
etiam  per  lo  suo  privato,  per  che  essa  relatione  concorda  cum 
quello  già  più  giorni  havea  {)raedicto  a  Sua  M.ta  del  iuditio  suo 
su  quisti  baroni. 

Il  secretarlo  non  andò  al  principe  de  Altamura,  come  scripsi. 
Et  questo  per  che,  dubitandosi  non  si  concludesse  quello  che 
haveano  promesso  a  M.  Impou,  pareva  tropo  deminutione  de 
reputatione  al  Re  che  li  fusse  andato  il  secretarlo,  qui  est  quo- 
dammodo  alter  Rex,  si  l'andata  sua  fosse  sta  vacua  et  invano; 
quello  che  havea  facto  le  cose  de  pegiore  condictione.  Però  li  hano 
mandato  epso  M.  Impou  cum  quello  modo  li  dovea  ire  el  secre- 
tarlo, et  cum  quella  espeditione  ristorno  dacordo ^,  quantunque 
se  creda  non  ne  habii  ad  seguire  altro  che  parole  per  quello  ho 
scripto  de  supra.  Ma  non  voleno  monstrare  de  intenderlo. 
XVI.  Id.,  30  agosto  1485. 

Ill.me  princeps... Questa,  sera,  essendo  tuti  nui  oraturi  cum  la 
M.ta  del  S.  Re,  el  magnifico  Oratore  fiorentino  dixe  bavere 
havuto  littere  dali  Signori  diece  de  24  del  passato,  et  cussi  li 
fece  legere,  le  quale  primum  conteneano  la  iustificatione  de  cin- 
quanta ducati  haveano  dato  al del  S.  Ruberto,  che  era  stato 

per  conto  del  servitio  vecchio,  havendo  demonstrato  epso.. .non 
bavere  uno  dinaro  2;  secundario  conteneano  che  haveano  inteso 
dal  magnifico  M.  Marino  regio  oratore^,  che  pur  el  se  erano  de- 
monstrati  alcuni  de  li  baroni  de  Sua  M.ta  non  esser  in  qualche 
parte  obedienti  a  quella  come  solcano  etc.  Del  che,  quantunque 
credesseno  per  la  sua  prudencia  et  potencia  facilmente  li  farla 
obedienti,  non  di  mancho  bisognando  si  offeriano  per  deffesa 
sua,  de  li  figlioli  et  del  regno  suo  fare  come  farianoper  lo  proprio 
loro  stato,  reputando  ogni  sua  bona  et  mala  f ussero  comuni 
et  come  sua. 

*  Il  Pou  parti  per  Venosa  in  uno  degli  ultimi  giorni  d'agosto.  Il  3  set- 
tembre era  già  in  Puglia  (v.  doc.  XIX). 

2  Roberto  Sanseverino  era  stato  al  servizio  dei  Fiorentini  nella  guerra 
contro  Bartolomeo  Colleoni  e  i  fuorusciti  (1467). 

3  Marino  Tomacello,  oratore  degli  Aragonesi  a  Firenze.  V.  su  lui  le 
notizie  raccolte  dal  Volpicella,  pp.  451-52. 


133 


Et  cortamente  molte  larghe  offerte  et  cum  parole  molto  effi- 
caci al  proposito,  che  furon  gratissime  a  Sua  M.ta  et  alo  ill.mo  S. 
Duca  de  Calabria  che  era  presente.  Et  dixe  che  non  ni  aspectava 
altro,  et  che  sempre  havea  indicato  chel  Stato  de  Milano,  de 
fiorenzà  et  de  li  altri  soi  colligati  fusseno  una  medesima  cosa, 
et,  essendo  cussi,  che  se  havesse  affare  per  lo  bene  et  comodo 
de  ciascuno  quanto  per  lo  proprio,  et  ita  sperava  indubitan- 
ter  se  farla.  Maisi  che  confortava  epsi  oraturi  de  Milano  et  de 
fiorentini  a  scrivere  in  bona  forma,  perche  se  facesse  subito 
quanto  era  stato  dicto  de  la  gente  darme.  Impero  che,  se  qui- 
sti  baroni  barano  bono  amore  de  adaptarse  cum  Sua  M.ta, 
come  sperava,  lo  farano  presto  ;  se  havessero  altra  volunta, 
quando  vedano  che  lo  Stato  de  Milano  et  de  fiorenzà  faccia  viva 
demonstratione,  starano  più  al  signo  ;  et  quelle  forze,  che  li  dano 
qualche  conforto,  che  non  è  da  credere  altro  o  sii  il  papa  o  chi  li  è 
appresso,  non  considerando  più  ultra,  barano  cagione  de  ritirarse 
et  non  dare  più  vento  alla  velia. 

Resposero  epsi  oraturi  che  già  haveano  scripto  et  per  staf- 
fetta.... Dopoi  el  S.  Re  fece  legere  uno  capitolo  de  una  lettera 
del  M.co  M.  Anello^  de  XXVIII  ex  urbe  che  contenea  come, 
essendo  ito  a  Roma  uno  M.  bentivoglio,  che  fu  nipote  de  M. 
Ioanne  baptista  regio  consiliario,  et  che  sta  cum  il  principe  de 
Salerno  2,  et  che  quello  è  de  che  se  dubita  sii  stato  la  causa  de 
tuti  quisti  mali  (et  cussi  crede  la  Sua  M.ta  dicendo  chel  principe 
prefato  de  sua  natura  è  bono)  ;  monstra  che  epso  M.  Anello, 
havendo  inteso  de  la  venuta  sua,  dixe  a  la  Santità  de  N.  S.  et 
dimandola  che  havea  portato  ;  et  quel  dicea  rispose  che  quisti 
baroni  monstravano  voler  esser  sicuri  del  S.  Re,  et  la  malore 


*  Anello  Arcamone,  ambasciatore  napoletano  a  Roma.  Anche  per  lui 
è  da  vedere  quello  che  scrive  il  Volpicella,  pp.     65-66. 

*  Si  tratta  della  seconda  missione  del  Bentivogli  a  Roma,  che  ebbe  luo- 
go in  seguito  alle  insistenze  del  conte  di  Sarno  e  del  Segretario,  e  che  era 
diretta  a  sollecitare  i  preparativi  del  pontefice  contro  gli  Aragonesi.  Processi 
pp.  LXXV-VI.  Gregorio  di  Samito  depose  infatti  che  «  de  pò  fo  inco- 
menzata  ad  seguire  dieta  pratica  (dell'accordo)  per  li  dicti  baruni  rebelli... 
con  lo  conte  de  Sarno  et  secretarlo,  et  cussi  delloro  volunta  conclusero 
se  devesse  seguire  dieta  pratica,  et  cussi  con  volunta  del  secretarlo  et 
conte  de  Sarno  continuandola,  fo  appuntato  se  devesse  mandare  una 
altra  volta  allo  Papa,  et  cussi  mandaro  M.  Bentivoglia  da  parte  dello 
principe  de  Salerno  al  Papa  et  M.  Francisco  Marchese  da  parte  dell!  ba- 
runi rebelii  ».  Processi,  pp.  LXII-III. 


—  134  — 

difficulta  che  li  vedesse  monstrava  fusse  per  non  vederse  quale 
sicurtà  et  come  se  li  havesse  a  dare  ;  et  subiunxe  che  la  M.ta 
sua  era  prudentissima,  pero  li  pensasse  quello  li  paresse  de  fare, 
perche  era  paratissima  la  Sua  Santità  de  advitare  questa  ma- 
teria più  che  le  era  possibile,  offerendo  etiam  mandare  qua  uno 
legato  che  fusse  al  proposito  per  componere  et  assetare  questa 
differentia. 

Sua  M.ta  dixe,  che  per  questi  mezi  che  nunc  erano  interposti, 
mai  haveano  facto  mencione  alcuna  de  questa  securta  ;  quello 
che  li  ha  despiaciuto,  che  a  lei  habiano  parlato  tanto  largamente 
quanto  dire  se  possa,  imo  de  recusarla,  et  che  non  voglino  al- 
tra securta  che  la  parola  de  Sua  M.ta,  et  poi  ad  altri  habiano 
facto  intendere  de  volere  sicurtà  ;  che  quando  gli  V  havessero 
richiesto,  non  li  saria  sta  molesto,  et  saria  sta  contento  farli 
quella  securta  havessero  voluto.  Et  dixe  Sua  M.ta  che,  per  farli 
bene  sicuri,  sarà  necessario  che  N.  S.,  il  duca  de  Milano  et  Si- 
gnori fiorentini  siano  quilli  faciano  questa  securta. 

El  conte  Brochardo,  che  era  etiam  presente  a  questi  ragiona- 
menti, infine  dixe  a  Sua  M.ta  che  cum  sua  bona  gratia  domane 
gli  dirla  voluntieri  certe  parole,  per  le  quali  non  dubitava  lo 
faria  chiarissimo  cum  le  ragioni  in  mano,  et  secundo  che  etiam 
in  scriptis  li  havea  mandato,  che  ne  venetiani  se  intremetteria 
in  queste  cosse  palam,  nec  scerete,  et  item  quod  minus  li  baroni 
de  quisto  regno,  et  presertim  quilli  de  li  quali  se  suspecta,  non 
tarlano  più  di  quello  hano  facto  signo  alcuno  de  rebellione,  ne 
infedelita  verso  Sua  M.ta,  et  li  porteria  ogni  gran  pegno.  Sua 
M.ta  li  dixe  che  lo  au dirla  voluntieri. 

Ultra  scripta  :  intenda  la  V.  Ex.tia  che  già  più  dì  in  Abruzo  se 
dete  a  la  gente  d'arme  tre  page.,  ed  bora  se  gè  ne  da  unaltra. 
Serano  in  ordine  da  1200  infino  1500  homini  darme^,  et  tutavolta 
fasse  grande  provisione  de  armature,  se  ne  pigliano  quante  ne 
hano  li  armaroli  sono  in  Napoli,  et  similiter  se  provede  per  arme 
de  altre  sorte.  Et  intendese  che  a  Salerno  etiam  se  fa  prepara- 
tione,  quasi  come  ad  campo  li  havesse  ad  andare. 

Per  non  obmettere,  el  conte  brochardo  etiam  dixe  che  era  de 
iuditio  che  per  niente  la  Signoria  darla  licentia  al   S.  Roberto. 

»  Notar  Giacomo,  parlando  della  rivolta  dell'Aquila,  p.  156,  riferisce 
che  si  trovavano  colà  per  parte  del  re  1500  fanti.  La  notizia  va  rettificata 
nel  senso  che  quelle  forze  erano  distribuite  in  varii  luoghi  dell'  Abruzzo. 
Ad  Aquila  non  stanziavano  più  di  400  fanti.  V.  doc.  XXXVII  in  fine. 


135 


Item  che  quisti  baroni  non  havesseno  intelligentia  alcuna  cum 
N.  S.,  ne  che  loro  se  movessero  per  quella,  quando  etiam  la  po- 
tessero havere;  imo,  quando  anche  la  volesseno,  Sua  Santità  non 
li  aconsenteria,  et  tuto  dixe  offeriva  de  monstrare  cum  ragione 
efficace  et  viva. 

XVII.  Id.,  4  settembre  1485. 
IlLme  princeps... la.  duchesa  de  Calabria,  essendo  hogi  venuta 
a  Castelnuovo  cum  lo  ducale  oratore,  se  presentorno  al  conspecto 
del  S.  Re  et  de  la  Regina,  et  dove  era  etiam  el  duca  de  Calabria 
et  el  secretarlo  ,  et  quivi  exposeno  quanto  haveano  in  commis- 
sione, sed  presertim  epsa  duchessa,  a  la  quale  era  data  questa 
provintia,  per  quello  li  scrivea  el  duca  de  Milano  per  le  sue  de 
XXVII  del  passato;  quo  facto,  el  S.  Re  ne  fece  chiamare  lo 
fiorentino,  me  et  il  conte  Brochardo,  et  cussi  fece  iterum  rele- 
gere  le  litere  tute  in  absentia  tamen  del  prefato  oratore  del  duca 
de  Milano,  el  quale  paulo  ante  se  era  partuto  et  ito  a  Castello 
Capuano,  et  in  paucis  queste  lictere  conteniano  che,  dubitando 
pur  de  quisti  baroni  non  potessero  fare  qualche  novità  et  tur- 
batione,  senza  essere  rechiesto,  reputando  el  bene  et  el  male 
de  questo  Stato  come  proprio,  dal  canto  suo  havea  proveduto 
in  questo  modo  :  de  scrivere  a  Vinezia  al  oratore  suo,  adciò 
intendesse  da  quella  Signoria,  quando  altro  non  potesse  sentire, 
qui  animus  queve  mens  eius  esset  circa  ista,  et  maxime  per  al- 
cuni stradioti  se  sentivano  essere  innavati  a  sua  posta;  haven- 
do  similiter  scripto  al  R.mo  Monsign.  de  Visconti^,  che  nehavesse 
ad  essere  cum  N.  S.,  insimul  et  separatim  cum  lo  R.mo  de  Ara- 
gonia,  a  pregarlo  et  confortarlo  quando  fusse  a  bisogno,  quando 
advenisse  alcuna  novitate,  et  in  optima  forma,  secundo  vi  eran 
etiam  le  copie  de  epse  lictere  al  prefato  Monsignore  et  M.  Sci- 
pione Barbavarra^;  et,  per  intendere  se  quisti  baroni  potessero 
havere  qualche  intelligentia  in  Francia,  presertim  cum  el  duca  de 
Loreno,  havea  spazato  uno  suo  cancelliero  la  oltre;  successive 
offeriva  di  mandare  oratori  et  a  Roma  et  qua,  se  paresse  cussi 
expediente  a  Sua  M.ta,  et  insuper  oltra  le  gente  darme,  le  quali 
sempre  serian  parate  fare  questo  et  ogni  altra  cossa  fusse  al  pro- 
posito de  Sua  M.ta  necessaria. 

*  Ascanio  Sforza  che,  contrariamente  al  card.  Giuliano  della  Rovere, 
parteggiava  per  gli  Aragonesi;  v.  su  lui  le  notizie  raccolte  dal  Volpicella, 
pp.   442-43. 

2  Scipione  Barbavara  oratore  milanese  a  Venezia.  V  era  ancora  il  2 
dicembre  1486.  Liber  Instructionum,  p.  66  e  n.. 


—  136  — 

XVIII.  Id.,  5  settembre  1485. 

Ill.medux...  tornati  noi  oratori  hogi  ala  M.ta  del  Re,  dove  etiam 
era  lo  duca  de  Calabria  cum  el  conte  Brochardo,  sua  M.ta  fece 
legere  alcune  lettere  da  Roma  dal  R.mo  Cardinale  et  m.  Anello 
del  ragionamento  haveano  havuto  più  volte  cum  la  S.ta  de  N.  S. 
sopra  la  sublevatione  de  alcuni  de  quisti  baroni,  et  presertim 
che  la  Sua  Beatitudine  dechiarasse  de  volere  deffendere  la  Sua 
M.ta  da  ogni  novatione  et  turbatione  gli  volessino  fare  epsi  ba- 
roni, contra  etiam  ciascuno  potentato  che  li  volesse  prestare 
aiuto  et  favore,  et  maxime  contra  el  S.  Ruberto,  che  se  dicea 
volea  venire  ali  danni  soi,  si  come  rechiedea  el  debito  de  Tobll- 
gatione  havea  Sua  S.ta  per  la  concessione  ha  da  la  Santa  Chiesa 
epso  re;  havendo  etiam  facto  instancia  dicto  cardinale  et  M.  Anello 
che  la  Sua  Beatitudine  volesse  darne  adviso  a  tutti  li  potentati  di 
Italia  de  questa  sua  insta  et  honestissima  volunta  et  delibera- 
tione.  Et  lecte  ancora  alcune  altre  lictere  de  diversi  advisi,  se 
concluse,  dopo  lungo  parlare  che  hebbeno,  come  Sua  S.ta  per 
niente  ha  buono  animo  ne  buoni  pensieri,  et  non  vole  assecurare 
el  Re  da  la  venuta  del  S.  Ruberto  adducendo  molte  scuse,  et  di- 
mostrando la  importantia  grande  de  la  cossa.  Et  tutavia,  come 
intendono.  Sua  S.ta  prepara  tute  le  zente  de  la  Marcha  et 
de  Romagna.  Et  havea  parlato  cum  il  S.  Virginio  Ursino^,  il 
quale  havea  facto  intendere  a  M.  Anello  che  havea  usato  rulR- 
cio  del  buon  servitore  et  vasallo  verso  el  Re,  et  havea  certificato 
che  le  cosse  non  erano  sincere  ne  integre.  Et  non  se  volse  exten- 
dere  più  oltra,che  dovea  essere  cum  il  R.mo  Monsign.  de  Arago- 
nìa,  a  chi  torsi  bara  aperto  più  inante.  Ulterius  se  intende  pur  per 
Sua  M.ta  qualche  intelligentia  ha  N.  S.  cum  Venetiani,  et  da 
molte  bande  è  scripto  del  certo  chel  S.  Ruberto  se  levava  cum 
la  zente;  et,  per  una  dele  littere  de  sopra  lecte,  monstra  che  cum 
questa  deliberatione  et  intelligentia  se  discenda  cum  una  gran- 
dissima facilita  al  conquisto  de  questo  Regno  per  la  subleva- 
tione de  quisti  baroni,  consentendo  ai  Venetiani  per  una  parte 
le  marine,  come  saria  Trani,  Barleta  et  Manfredonia,  et  per 
unaltra,  dicexe,  l'isola  de  Sicilia  a  Venetiani  et  Sardegna  a  Ze- 
noesi,  che  barano  ad  essere  cum  loro. 

Quantunque  la  M.ta  del  Re  non  resti  per  tuti  li  mezi  et  modi 
possibili  pigliare  adaptamenti  cum  li  nominati  baroni,  et  habia 
undique  da  li  soi  bona  speranza  et  conforto,  et  nil  obmittatur 

^  Rimando  per  Virginio  Orsini  a  quel  che  dice  il  Volpicella,  pp.  389-91. 


—  137  — 

per  ipsam,  quin  res  optimum  sortìatur  exitum,  nìhilominus,  ve- 
dendo quisti  tali  preparativi  et  advisi,  et  subsequenter  le  ri- 
poste del  papa  et  quello  intende  de  Venetiani,  se  diffida  che  habii 
a  seguire  bona- conclusione;  et  teme  sia  differito  et  tenuto  in  tempo 
per  condurlo  a  tale  che  epsi  baroni  habino  stabilito  et  segurato 
el  facto  loro^.  Et  pur  hoggi  hebbe  littere  Sua  M.ta  da  Salerno  de 
questo  dì,  dove  sun  dui  capitoli  bariti  inserta  la  copia  di  quello 
cancelliero  de  Venetiani,  al  quale  per  niente  prestano  fede,  ma 
f  ano  iuditio  siano  parole  artificiose  et  simulate,  perche  più  non  se 
intese  de  tal  cancellerò. 

Dopoi  che  fumo  lecte  et  partecipate  le  predicte  cosse,  de  le 
quali  forsi  la  V.  Ex.tia  ne  bara  havuto  adviso  da  Roma  et  da 
Milano  da  li  oratori  suoi  pur  ad  pieno,  el  S.  duca,  lassato  el  S.  Re, 
se  restrense  cum  noi  oratori  et  cum  alcuni  del  Regio  consiglio  et 
el  S.  Secretarlo  per  consultare  et  deliberare  quello  fusse  da  fare 
sopra  le  predicte  cosse.  Unde,  dopo  molta  discussione,  forno  facte 
concorditer  le  conclusioni  infrascripte  : 

Primum  che  el  S.  duca  de  Milano  et  excelsa  Signoria  de  Fiorenza 
cum  quella  mazor  cellerita  fusse  possibile  dovesseno  mandar  novi 
oratori  de  auctorita  et  prudentia  al  N.  S.,  li  quali  li  facesseno 
intendere  la  incredibile  molestia  prendeano  li  signori  loro  di 
questa  nova  machinatione  facta  contro  la  R.a  M.ta,  larga  et 
apertamente,  la  deliberatione  de  li  loro  ill.mi  et  excelsi  Signori  de 
fare  ogni  sforzo  possibile  in  favore  et  ad  defensione  di  questo  Re- 
gno, operando  qualuncha  cossa  et  cum  lo  Stato  et  cum  la  potentia 
contra  ciaschedun  offendesse  Sua  Serenità,  monstrando  insuper 
il  manifestissimo  periculo  de  la  subiugatione  de  la  liberta  de  li 
Stati  d'Italia,  et  non  mancho  di  questo  de  Sancta  Chiesa,  et 
subsequenter  la  mina  et  consumptione  de  la  fede  Christiana,  et 
come  più  et  meglio  per  sapientia  de  li  prefati  Ex.mi  Sig.ri  et  deli 
oratori  electi  saperano  ordinare  et  commettere  et  epsi  eseguire. 

Secundo  chel  prefato  S.  duca  de  Milano  et  Signoria  de  Fiorenza 
subito  mandasseno  qua  a  li  oratori  soi,  in  autenticha  et  suffi- 
ciente forma,  a  promettere  per  parte  de  loro  Sig.ri  idonea  se- 

*  Che  i  baroni  trattassero  la  pace  col  re,  non  con  l'intenzione  di  conclu- 
derla veramente,  ma  per  guadagnar  tempo  e  dare  agio  al  papa  di  pre- 
parare la  guerra  contro  gli  Aragonesi,  risulta  dall'  Albino,  pp.  38-40, 
e  da  molti  luoghi  dei  Processi.  Questi  documenti  aggiungono  prove  so- 
lidissime a  quelle  che  già  si  avevano  intorno  alla  malafede  dei  baroni. 
Cfr.  il  mio  studio  Un  episodio  della  Congiura  dei  baroni,  in  questo  Ar- 
chivio,  N.  S.,  IV  (1919). 


—  138  —     ' 

gurta,  quando  volesseno  dessendere  a  qualche  buono  et  pacifico 
adaptamento  et  cuncordia  cum  il  S.  Re. 

Tertio  chel  se  scriva  all'ili. mo  S.  Ludovico  et  Mag.co  Lorenzo 
che,  parendoli,  attento  che  quisti  baroni  non  fano  fundamento  in 
altro  che  in  lo  S.  Ruberto,  se  fosse  bene  a  tenire  alcuna  via  et  pra- 
ticha  cum  epso  S.  Roberto  per  desviarlo,  cum  offerirli  etiam  del 
stato  de  quelli  che  volesseno  offendere  questo  S.  Re  adiutando  li 
baroni,  et  similiter  de  darli  el  bastone  del  capitaniato  de  Italia, 
o  sia  de  la  lega. 

Quarto  chel  Stato  de  Milano  mandi  un  altro  oratore  a  Vine- 
zia,  pur  homo  de  auctoritate  et  experientia,  et  cussi  farà  la  excelsa 
republica  de  Firenze,  insieme  cum  quello,  quando  cussi  piaza  alo 
ill.mo  S.  Ludovico,  perche,  piazendo  a  Sua  Ex.tia,  etiam  tunc  pia- 
cera  al  S.  Re,  i  quali  ambassatori  cum  quelle  accomodate  pa- 
role et  secundo  le  commissioni  loro  dechiarasseno  a  quella  Si- 
gnoria de  Vinetia,  che  ogni  inquietudine  et  turbatione  facta  al 
S.  Re  reputarasse  et  extimarasse  non  altramente  che  se  fusse 
commessa  particularmente  a  ciascuno  de  li  loro  Stati,  et  ma- 
giormente  quando  che,  non  se  movendo  el  S.  Ruberto,  se  vede 
Italia  esser  pacifica  et  tranquilla,  et,  lassandolo  partir,  tribulata, 
affanata  et  piena  de  pericoli,  contra  la  forma  de  li  capitoli  de  la 
pace  mo  fa  Tanno  celebrata  et  cum  periculo  de  la  sub  versione  de  la 
republica  Christiana,  et  cum  più  et  mancho  parole,  che  sarà  de- 
clarato  et  commisso  dali  Stati  predicti  de  Milano  et  de  Fiorenza, 
et  in  quel  modo  et  forma  che  comprehendano  et  vedano  el  periculo 
et  li  travagli  ne  li  quali  intravano,  et  le  sue  Ex.me  Signorie  ne 
remangano  iustificate. 

Quinto  se  havesse  a  scrivere  ala  V.  Ex.tia  et  al  S.  Marchese 
de  Mantova  che  havesseno  a  prohibire  el  passo  al  prefato  S.  Ro- 
berto, et  che,  quando  volesse  passare  per  le  terre  loro,  li  ill.mi 
Signori  duca  de  Milano  et  de  Bari  mandino  la  zente  che  fusseno 
bisogno  per  obstarli,  et  chel  se  scrivesse  per  il  S.  Re  e  S.ri  fioren- 
tini a  l'oratori  soi  de  Milano,  ad  ciò  confortasseno  la  Extia  del  S. 
Ludovico  a  tener  contento  et  ben  disposto  el  prefato  S.  Mar- 
chese. Peroche  pur  se  intende  qualche  sua  mala  contenteza. 

El  fu  vero,  Ex.mo  mio  S.re,  quando  se  parlo  che  la  V.  S.  havesse 
ad  obstare  al  passo  del  S.  Ruberto,  el  se  intese  et  fu  dechiarito 
che  questo  se  dicea  quando  el  venisse  come  capitanio  de  ventura, 
et  non  quando  la  Signoria  de  Vinetia  se  descoprisse  che  lei  lo 
mandasse,  quello  che  non  se  crede. 

Ulterius  lo  ill.mo  S.r  Duca  me  dixe  che  da  parte  del  S.  Re  et 


—  139  — 

sua  volesse  scrivere  a  V.  Ex.tia  che  tenesse  ben  confortato  et 
disposto  el  prefato  S.  Marchese  a  benefìcio  de  la  lega,  et  se  in- 
tendesse bene  cum  Milano.  Li  resposi  lo  farla  voluntieri,  ma  ben 
credea  non  fusse  necessario  dal  canto  de  la  V.  Celsitudine,  ne  da 
la  Sua  Ex.tia,  peroche  incontinente  chel  sentì  la  machinatione 
del  S.  Ruberto,  che  li  volesse  dare  le  stantie  cum  il  passo  per 
cinquecento,  per  quello  scripse  misser  Prato  i,  subito  mando 
uno  suo  a  Milano  a  condolerse  del  caso,  et  offerirseli  cum  la  per- 
sona et  stato  suo  ;  imo  etiam  che,  richiesto  dal  S.  Ruberto  ut 
supra,  li  dete  repulsa  et  cussi  sperava  perseverarla  et  magior- 
mente  per  beneffìcio  del  S.  Re  et  Sua  Ex.tia,  ala  quale  intendea 
portare  singulare  reverentia  et  affectione. 

Similiter  fu  deliberato  chel  S.  duca  de  Milano  se  vogli  assi- 
curare chel  conte  hieronimo  non  presti  el  transito  al  S.  Ruberto, 
ne  a  qualunque  altro  volesse  venire  ad  offendere  questo  Regno^. 

Sexto  chel  se  scriva,  per  la  M.ta  del  Re  et  per  lo  duca  de  Mi- 
lano, per  la  affinità  noviter  contrahacta,  al  Ser.mo  Re  de  Un- 
garia,  confortando  et  pregando  la  sua  Ser.ta  vogli  mandare  sci 
oratori  a  Roma  et  a  Venezia  cum  la  medesma  commissione  et 
secundo  sera  conveniente  in  la  persona  de  Sua  M.ta,  perche, 
essendo  attinente  a  questo  S.  Re  et  Stato  de  Milano,  potentis- 
simo et  hogi  di  molto  appropinquatosse  a  Venetiani  per  l'acquisto 
di  Viena,  dove  anchora  debbe  essere,  sarà  tanto  più  presto  a 
questa  provvisione  et  reputato  et  temuto^. 

Septimo  che,  tractandosi  de  la  Sicilia  et  de  la  Sardegna,  fusse 
bene  et  condegna  cossa  farlo  assapere  al  Re  de  Castella  per  lo 
interesse  suo,  excitando  a  le  medesme  provisioni  et  al  prepararsi 
cum  le  forze  ad  obstare  et  interrompere  tanti  ambitiosi  et  abo- 
minevoli desiderii,  et  impero  el  S.  Re  expedisse  al  presente  una 
galea  cum  uno  oratore  a  Sua  M.ta  per  notificare  el  tuto;  et  sarà 
forsi  el  S.  Bartholamio  Veri*. 

*  Simonetto  Belprato,  oratore  aragonese  a  Milano.  V.  su  lui  Volpicella, 
pp.  280-81. 

2  Delle  relazioni  che  correvano  fra  gli  Aragonesi  e  Girolamo  Riario, 
signore  di  Imola  e  di  Forlì,  discorre  brevemente  il  Volpicella,  p.  409. 

'  Dell'azione  diplomatica  e  militare  spiegata  da  Beatrice  d'  Aragona 
e  dal  marito  di  lei  Mattia  Corvino,  re  d'Ungheria,  a  favore  degli  Arago- 
nesi in  occasione  della  Congiura  parla  il  Berzeviczy  nel  suo  libro  su 
Beatrice  d'Aragon,  Paris,  1912;  2°  voi.,  p.  36  e  segg. 

*  Non  sono  riuscito  finora  a  trovar  notizie  di  questo  personaggio, 
il  cui  nome  s' incontra  altre  volte    nel  dispacci  del  B.  —  Forse  all'  am- 


140 


Octavo  fu  etiam  concluso  chel  Stato  de  Milano  et  Signori 
fiorentini  elligesseno,  insieme  cum  questo  S.  Re,  oraturi  al 
Turcho,  et  mandassenli  a  questa  via,  per  dire  et  fare  tute  quelle 
cose  recercasse  el  bisogno  de  li  comuni  Stati,  et  ad  eradicatione 
de  li  cattivi  penseri  di  qualunche  altro,  per  non  omettere  cosa  al- 
cuna che  possi  exprimere  et  fare  demonstratione  effectuale  a 
quilli  che  intravano,  non  havendosi  alcun  riguardo  per  salvarsi; 
et,  secundo  sarano  li  processi  di  queste  machinationi,  allargare  et 
restrengere  le  commissioni  de  li  prefati  oratori  nel  tempo  con- 
sumarano  ne  l'andare i. 

Preterea  fu  concluso  chel  se  confortasse  postremo  la  Signoria 
de  Fiorenza  a  dare  la  medesima  commissione  a  Milano,  che  havea 
data  a  Roma,  per  la  compositione  de  le  diflerentie  tra  loro  et 
zenoesi,  monstrandosi  con  questo  mezo  et  con  qualche  spesa 
(come  bisognerà  fare  cum  loro)  seria  molto  utile  et  a  proposito 
poterli  tirare  a  la  parte  de  la  liga,  et  molto  efficacemente  ne  prego 
et  gravo  la  M.ta  del  Re  et  del  duca  lo  oratore  fiorentino  a  pregare 
epsa  sua  Signoria. 

Et  perche  queste  sono  tute  parole,  le  qual  senza  effectuale  de- 
monstratione de  l'armi  picolo  o  nullo  fructo  tarlano,  fu  concluso 
che  11  Stati  de  Milano  et  de  Fiorenza  dovesseno  fare  ogni  sforzo 
per  prohibire  el  transito  del  S.    Roberto,    et,  essendo  el  conte 
hieronimo  dal  lato  del  papa,  come  se  dubita,  pare  sii  necessario! 
che  essi  Stati  de  Milano  et  de  Fiorenza  f acino  rompere  cum  doi- 
millia  homini  darme  a  la  via  de  perosa.  Ma,  quando  el  conte  hie- 
ronimo fusse  cum  el  Stato  de  Milano,  se  habii  a  rompere  in  Ro-- 
magna  prohibendo  il  passo  al  S.  Ruberto.   Questo  è  quanto  éi 
sta  concluso,  maxime  circha  lo  venire  et  transito  del  S.  Ruberto, 
che  sia  opportuno  et  necessario  per  lo  obstaculo  suo.  Quo  veroj 
ale  cosse  del  papa    et  di  baroni  provederasse  di  qua,  accertando] 
chel  duca  de  Calabria  sera  ala  campagna  cum    59   squadre   etj 
900  fanti  fra  sei  zorni^. 

XIX.  Id.,  6  settembre  1485. 

Ill.me  princeps...  La  M.ta  del  S.  Re,  havendoni  hogi  facto  con-! 
vocare  noi  oratori,  dove   etiam  era  el  duca  de  Calabria  et  alcuni 


basceria  inviata  allora  dal  re  in  Ispagna  rispose  il  Cattolico  con    la  let- 
tera 18  novembre  1485,  pubbl.  dal  Calmette,  La  poUtique  espagnole  ecc. 
loc.  cit.,  pp.  239-40. 

1  V  doc.  XXXVI,  dove  è  riferita  la  risposta  del  d.  di  Milano. 

"  Il  d.  di  Calabria  partì  il  21  settembre   «  ad   reperienda  regia  castra^ 
versus  Aprutium  »  secondo  sì  esprime  il  Leo  stello,  p.  72. 


—  141  — 

del  suo  consiglio,  fece  legere  per  il  S.  Secretarlo  quanto  havea 
scripto  lo  Rev.mo  de  Aragonia  et  M.  Anello  da  Roma  per  le  sue 
de  3  del  presente,  che  conteneano  come  loro  cum  lo  R.mo  Card, 
de  Vesconti  erano  andati  a  la  S.ta  de  N.  S.  per  sapere  postremo 
la  sua  ultima  volunta  circha  quisti  baroni  ;  unde  che  post  multa 
Vi  concluse  non  li  haveva  facto  altro  penserò,  ne  volea  farne  altro, 
se  non  consultare  el  sacro  collegio  de  li  soi  fratelli  cardinali  ;  et 
non  se  volse  mutare  de  sententia  per  replicatione  li  fusse  facta, 
et  che  la  dimanda  fusse  honestissima  et  iustissima,  et  non  avesse 
bisogno  de  consulta  d'  alcuno,  consistendo  ne  la  sua  simplice  vo- 
lunta, ne  per  periculo  che  fusse  per  seguire  per  la  tardità  et  mora 
che  succederria  in  expectar  de  far  collegio,  del  che  se  ha  facto  mal 
concepto  de  la  mente  et  dispositione  de  Sua  S.ta.  Pero  essere  ne- 
cessario attendere  ad  altre  provisioni  et  remedii,  et  maxime  a 
quilli  de  quibus  supra. 

Sua  M.ta  ulterius  fece  legere  una  littera  de  M.  Joanne  Impou 
data  in  Venosa  a  di  3  de  questo,  in  la  quale,  post  multa  demon- 
strativa  de  bona  volunta  et  dispositione  di  quilli  baroni  verso  la 
M.ta  del  S.  Re,  conclude  che,  quando  loro  parlasseno  cum  la  Sua 
M.ta,  non  dubita  che  restarian  d acordo  ;  et  pero  son  resta  con- 
tenti, quando  Sua  M.ta  andasse  in  Puglia  et  in  le  terre  de  Sua  M.ta, 
che  V  andarian  a  retrovare  cum  speranza  che  restarian  dacordo 
cum  quella.  Unde  che  epso  M.  Joa.  Impou  ha  confortato  Sua  M.ta 
a  doverli  andare,  sperandone  bene  per  le  parole  loro,  non  li  ve- 
dendo nel  core,  et  remettendose  pero  a  la  M.ta  del  Re.  Unde  che 
Sua  M.ta  pose  questo  caso  in  consulta  infra  tuti  nui  quello  che 
fusse  a  fare,  et  tandem  fo  concluso  per  la  magior  parte,  perche, 
vel  che  restarla  dacordo  cum  epsi  baroni,  et  nihil  esset  optabi- 
lius  per  le  ragioni  che  sono  manifeste,  nec  in  hoc  li  seria  diminu- 
tione  de  reputatione,  quia  non  curamus  de  modo  dummodo  ha- 
beamus  effectum,  et  in  questo  fu  recordato  quello  fece  quasi  in 
simil  caso  el  Re  de  Pranza  passato;  et  non  di  mancho,  dum  ista 
sic  tractarentur,  non  se  restasse  per  niente  da  la  executione  de  le 
provisioni  ordinate,  le  qual  facendosi  tutavia,  più  presto  opera- 
riano  che  li  baroni  se  adaptasseno. 

Vel,  non  seguendo  lacordo,  la  M.ta  Sua  seria  sempre  excusata 
de  bavere  facto  tuto  quello  li  fusse  stato  possibile  per  mezi  secu- 
lari  et  religiosi,  et  tandem  non  se  bavere  sdegnata  di  andare  verso 
loro  pure  per  adaptarse  et  componerse  cum  essi  per  li  modi  ara- 
gionati et  scripti;  et  quando  che  dopoi  la  procedesse  contra  loro 
a  punitione,  et  cussi  ne  restarla  iustificatissima,  et  dall'altro  canto 


142 


li  soi  colligati  veneriano  qui  prontamente  a  la  defesa  de  SuaM.ta, 
vedendo  che  per  quella  non  jusse  restato  de  fare  ogni  cossa  per 
componerse  cum  loro. 

Post  haec  Sua  M.ta  fece  dire  per  el  Secretarlo  quello  era  stato 
racordato  fra  loro,  videlicet  che,  dovendo  andare  Sua  M.ta,  seria 
bene  che  la  S.ra  regina  andasse  a  Venosa  a  visitare  la  sposa  del 
S.  don  Francesco,  havendo  Sua  M.ta  grande  familiarità  cum  el 
principe;  et  cussi  la  duchessa  de  Calabria  havesse  ad  andare  a 
Salerno,  la  quale  pariter  ha  grande  domesticheza  cum  la  princi- 
pessa et  principe.  Et  questo  non  solum  perche  luna  et  Taltra,  che 
hano  pur  grande  auctorita  et  intelligentia,  potessero  persuadere  ali 
prefati  Signori  quando  fu  sseno  bisogno,  ma  etiam  perche  più  fa- 
cilmente et  più  sicuri  potessero  dicti  principi  andare  a  trovare  el 
S.  Re,  essendo  in  le  loro  habitationi  le  prefate  S.ra  Regina  et 
duchessa.  Quello  che  fu  da  tuti  laudato  et  commendato. 
XX.  Id.,  8  settembre  1485. 

Ill.me  dux...  {Il  B.  riferisce  il  contenuto  di  due  lettere  giunte 
da  Firenze,  in  una  delle  quali  Lorenzo  de*  Medici  sosteneva  esser 
necessario  collegarsi  contro  Venezia,  che  minacciava  di  stringersi 
col  papa;  nell'altra  i  Dieci  assicuravano  di  aver  dato  incarico  al 
loro  rappresentante  a  Roma  di  agire  dì  pieno  accordo  con  gli  am- 
basciatori del  re  e  del  duca  di  Milano^  e  di  aver  ordinato  V  alle- 
stimènto di  cinque  squadre). 

Il  Re  subiunxe  chel  principe  de  Salerno,  havendoli  scripto  Sua 
M.ta  de  mano  propria,  che  misser  Impou  li  havea  facto  intendere 
che  lui  non  havea    andare   a  certa  congregatione   de  baroni  sera 
ordinata,  etiam    de    consensu    suo,  ali  XII  di    questo  primum 
Miglionico,  loco  del  principe  de  Bisignano,  et  poi  a  Venosa;  et  che 
la  M.ta  de  la  Regina,  che  vole  andare  cum  la  duchessa    de   Ca^ 
labria,  tarlano  quella  via  de  Salerno,  per  vedere  etiam  la  Sua  S.rij 
et  la  principessa;  —  epso  principe  li  havea  mandato  uno  suo  cui 
littere  di  credencia  in  rengraciare  la  Sua    M.ta  de  lo  adviso,  ch( 
per  niente  volesse  mandare   la  M.ta  dela  Regina  et  la  duchessa 
casa  sua,  perche,  oltra  che  non  fusse  parato  a  farli    queUo  honoi 
meritavano  et  saria  suo  debito,  se  reputarla  tropo  graveza  et  ca- 
rico che  tante  madame  andasseno   a   casa  de  un   loro  vasallo  et] 
servo  1:  et  che  lui  se  trovarla  ad  ogni  modo,  quello  che  non  haveì 

^  Don  Paolo  Ferrella  depose  che  «  lo  secretarlo  et  conte  de  Sarno  di-j 
storbaro  la  andata  della  Regina  in  Salerno  accio  non  fosse  venuta  ai 
effecto  la  pace,  et   loro  fossero  stati   discoperti.  »  Processi,  p-  LXXXVIIIj 


—  143  — 

prius  deliberato,  essere  cum  gli  altri  baroni  a  Venosa  per  fare 
quello  farian  loro,  et  sempre  in  satisfatione  de  Sua  M.ta,  quando 
etiamli  fusse  la  securta  sua,  come  non  dubitava.  Et  dice  Sua  M.ta 
che  li  ha  usato  li  più  dolci  et  meglior  parole  del  mondo,  ma  che 
era  vero  che  era  el  più  suspectoso  homo  de  la  terra,  et  racordo 
che,  ala  morte  del  patre,  come  hebbe  suspecto  de  tuti  li  soi  et  de 
una  sua  avia  dignissima  dona,  et  senza  el  consiglio  de  la  quale 
non  fa  covelle^.  Et  cussi  ha  deliberato  che  la  Regina  non  facia 
più  la  via  de  Salerno,  ma  vadino  per  la  drita  a  Venosa. 

Lo  duca  de  Calabria  dixe  al  oratore  ducale  che  volesse  scrivere 
al  S.r  Ludovico,  che  per  dio  volesse  bavere  buono  reguardo  chel 
poterla  essere  chel  S.  Ruberto  facesse  voce  de  venire  in  lo  Reame, 
et  forsi  volesse  venire  in  Lombardia,  et  havea  pensato  che  questo 
passar  del  pò  lo  potria  fare  in  più  lochi,  o  in  Mantuana,  quando 
quel  Signore  gel  volesse  dare,  o  non  li  potesse  obstare;  et  similiter 
la  V.  Ex.tia  che  seria  da  Ficarolo,  o  per  Ferrarla  ala  marina 
verso  Ravena,  che  saria  più  lungo;  et  in  quale  de  quisti  passasse, 
come  fusse  dal  canto  de  qua,  non  havendo  obstaculo,  se  ne  veni- 
rla a  sua  posta  insino  a  Roma  che  ninno  li  dirla  niente,  et,  quando 
havesse  il  passo  per  Mantuana,  gii  seria  anco  più  presto;  et  pre- 
supone  la  Sua  S.ria  che  apresso  li  600  homini  darne  che  potesse 
bavere  cum  lui,  quando  non  ne  havesse  più,  bari  a  la  Mirandola 
cum  li  soi;  dubita  de  Carpi  cum  li  soi,  del  conte  Antonio  de  la 
Mirandola  per  esser  tuto  suo,  et  de  quilli  di  Corregio  per  esserli 
parenti,  et  teme  etiam  de  M.  Nicolo  per  essere  malcontento  del 
S.  Ludovico,  havendolo  presertim  levato  da  Castelazo;  poi  dice 
troveria  Montechio  et  Cavriago  che  sono  neli  mani  deli  Torelli,  et 
questi  etiam  haria  per  la  gente  sua  et  loci  al  favor  suo,  et  haria 
apresso  quasi  tutto  el  parmesano  per  Tamicitia  li  ha,  et  in  pia- 
sentino  non  li  manchariano  li  Scotti,  pero  che  dubita  assai  che 
quello  paese,  et  cum  li  amici  de  Rossi,  non  fusse  in  manifestissimo 
periculo,  et  fa  conto  che,  oltra  quilli  che  lo  poteriano  seguire  de 
qua  et  de  la  et  deli  malicontenti,  che  haria  cum  li  soi  presso  dia 
1500  homini  darme,  che  saria  una  gran  compagnia  da  fare  del 
male  assai.  Pero  dixe  a  M.  Branda   volesse  scrivere   a  Milano   in 


Antonello  Sanseverino  avrebbe  quindi  obbedito  ai  suggerimenti  del  Pe- 
trucci  e  del  Coppola  nello  scrivere  al  re,  che  non  facesse  andare  la  regina 
e  la  duchessa  di  Calabria  a  Salerno. 

^  L'ava  del  principe  di  Salerno,    a  cui  qui   si  accenna,  era  Giovanna 
Sanseverino,  sulla  quale  v.  le  notizie  raccolte  dal  Volpicella,  pp.  428-29. 


—  144  — 

bona  forma,  che  stesse  in  ordine  cum  tte  le  sue  gnemte  darne, 
et  mandasse  verso  Bologna,  et  dove  bisognasse,  che  costui  non 
facesse  questo  designo. 

Poi  dixe  a  me  che  volessi  scrivere  el  medesmo  ala  V.  Ex.tia, 
perche  la  stesse  cum  gli  ochi  aperti,  et  che  la  volesse  etiam  scri- 
verlo al  S.  Ludovico. 

XXI.  Id.,  9  settembre  1485. 

Ill.me  dux....  Sua  M.ta  fece  legere  un'altra  de  M.  Impou,  la 
quale  replicava  quello  havea  scripto  per  due  altre,  et  che  non  se 
poterla  dire  cum  quanto  desider  o  aspectano  Sua  M.ta  cum  pro- 
posito et  ferma  intentione  de  fare  tuto  quello  vora  Sua  M.ta  quelli 
che  sono  in  Venosa;  et  tutavolta  expectavano  el  principe  de  Bisi- 
gnano  et  de  Salerno,  li  quali  s ariano  in  quello  loco  ali  XV  vel 
circa  del  mese;  et  scrive  che  Sua  M.ta  stii  de  bona  voglia  che, 
per  le  parole  et  quello  comprehende,  non  poteriano  esser  meglio 
disposti,  et  pero  lo  conforta  a  partir  presto. 

Sua  M.ta  monstro  li  piacesse  assai  questo  scrivere,  et  dixe  om- 
nino  se  partirla  domane,  non  havendo  voluto  partirse  hogi  per  la 
combustione  de  la  luna,  che  ora  sta  ale  octo  bore  la  nocte  pre- 
cedente, et  dicono  alcuni  che  si  sole  differire  XXIV  bore,  perche 
tanto  dura  la  sua  mala  influentia;  et  ben  pero  dice  che  M.  Salve- 
stro  li  havea  dicto  che  potea  partirse  el  dopo  desinare  et  cum 
bono  ascendente  1.  Et  subiunxe  che  non  li  parca  che  la  M.ta  della 
Regina  se  havesse  a  muovere  insino  non  se  havesse  il  parere  loro, 
adcio,  se  non  li  paresse,  come  non  e  aparso  al  principe  de  Salerno, 
la  non  havesse  questo  disturbo,  et  etiam  per  più  riputatione.  Delo 
andare  et  seguire  de  nui  oraturi  potevamo  differire  insino  a  lunedi, 
perche  lei  andava  per  una  via  più  longata,  per  modo  che  seriamo 
quasi  ad  uno  tempo  tuti;  et  diceasse  che  del  loco,  dove  se  havea 
andare,  non  essere  anchora  deliberato,  ma  se  potria  andare  o  a 
Troia  o  a  Barleta. 

XXII.  Id.,  10  settembre  1485. 

Ill.me  princeps...  La  M.ta  del  Re  hogi  circa  le  XXI  et  meza 
se  posta  a  camino  per  andare  in  Puglia,  et  noi  oratori  gli  habia- 
mo  facto  compagnia  uno  pezo  2.  Fara  la  via  de  Gapua  et  andara 

^  Messer  Silvestro  Galeota,  protomedico  di  Corte.  Trovo  notizia  nelle 
Cedole  di  Tesoreria  (1485,  voi.  114)  di  due  pagamenti  fatti  a  lui.  Il  suo 
nome  ricorre  anche  nel  doc.  CI. 

'  Il  duca  di  Calabria  accompagnò  il  re  fino  a  Capua.  Leostello, 
p.  70.  Ed  ivi  si  spinsero  anche  gli  ambasciatori,  v.  doc.  XXIII.  Secondo 


—  145  — 

sempre  per  le  terre  sue  insino  a  Fogia,  et  li  determinerassi  dove 
li  baroni  barano  a  venire  al  conspecto  suo.  Et  prius  che  se  par- 
tisse, sua  M.ta  hebbe  lictere  da  frate  Francesco  da  Ragona  da 
Venosa  1  che  Sua  M.ta  andasse  liberamente,  presto  et  alegramente, 
chel  principe  d'Altamura  et  il  gran  Sinischalcho  se  voleano  libera- 
mente remettere  in  Sua  M.ta  et  cum  molte  altre  parole  de  la  loro 
bona  dispositione.  Anchora  e  venuto  Jacobozo  da  Salerno,  el  qual 
monstra  habii  portato  bone  nove  de  quello  principe.  El  ducha  de 
Melphi  ha  scripto  a  Sua  M.ta  che  li  voi  mandare  suo  figlio  qui  in 
Napoli,  perche  la  intendi  che  lui  li  voi  esserli  quel  fedelissimo  servo 
et  vassallo,  che  sempre  li  e  stato,  parato  ad  essere  cum  Sua  M.ta 
come  vora  et  contra  qualunche.  Et  molto  largamente,  per  modo 
che  Sua  M.ta  se  ne  va  alegra  asai,  havendone  dicto  a  noi  oratori, 
che  pur  spera  le  cosse  se  adaptarano,  dato,  quod  absit,  etiam  se- 
guisse el  contrario,  et  similiter  a  me  ha  dicto  el  duca  de  Ca- 
labria. 

XXIII.  Id.,  Capua,  11  settembre  1485. 

(Cifrato).  Ill.mo  principe,  beri,  inante  se  partisse  il  S.  Re,  uno 
amicissimo  de  la  V.  Ex.tia  me  dixe  che  la  nocte  precedente  il  Re 
Ferdinando  havea  havuto  lectere  chel  principe  d'altamura  havea 
fornita  la  Cera,  castello  suo  qui  vicino  ad  octo  miglia,  et  che  erano 
sta  intercepte  lectere  de  quisti  baroni  al  papa  che  presto ,  et 
inanti  ali  XV  de  questo  mese,  volesse  mandare  le  sue  genti  al 
confine  del  reame. 

XXIV.  Minute  ducali  a  Battista  Bendedei.  Bagnacavallo,  11 
settembre  1485. 

M.  Baptista,  per  fare  el  debito  nostro  et  quello  richede  la  ser- 
vitù et  filiale  affectione  nostra  verso  il  Re,  volemo  che  ve  presen- 
tiate subito  ad  quella,  et  che  gli  faciate  intendere  per  parte  no- 
stra, et  cussi  al  duca  de  Calabria,  secretamente  et  remotis  arbitris, 
quanto  diremo  qui  appresso  de  le  cose  eh  intendemo  da  Venetia, 
pregando  Sua  M.ta  et  Sua  Ex.tia,  che  per  dio  ce  ne  vogliano  es- 
sere bon  secretarli,  perche,  quando  se  intendesseno  queste  cosse, 
se  metterla  el  nostro  ambassatore  a  manifesto  periculo,  come  el 
fu  altre  volte,  ultra  che  ce  saria  levata  la  faculta  et  commodita 
de  intendere  cosa  alcuna  de  quel  luoco. 


i  Raimo,  ap.  Muratori,  XXXIII,  235,  Ferdinando  mosse  da  Napoli  con 
400  cavalli  leggieri. 

*  Fra  Francesco  d'Aragona  era  andato  a  Salerno  (v.  doc.  XI),    e  di  là 
evidentemente  era  passato  a  Venosa. 

Anno  XLV.  10 


—  146  — 

Prima  gli  farete  intendere  come  e  stato  a  quella  Signoria  uno 
messo  de  li  baroni,  il  nome  di  quali  ne  del  messo  non  habiamo 
altramente  potuto  sapere,  el  quale  ha  domandato  soccorso  contro 
el  Re,  offrendogli  molte  terre  maritime  de  quelle  de  la  predicta 
M.ta,  et  che  tandem  gli  e  stato  resposto  in  questa  sustantia,  che 
siano  pur  valenthomini,  che  a  loro  non  mancharano  favori,  et  cum 
molte  bone  parole  hano  spazato  dicto  messo  facendoli  bona  ciera 
et  certi  presenti^.  Ma  notate  che  non  se  hano  voluto  discoprire 
in  dire  che  gli  vogliono  dare  favore,  ma  hano  parlato  più  coper- 
tamente in  dire  che  non  gli  mancharano  favori. 

Item  che  etiam  gli  e  stato  uno  ambassatore  o  messo  del  papa 
chiamato  M.  Rainero  dei  Raineri  a  queDa  Signoria  per  parte  de 
Sua  S.ta  et  del  card.  San  Petio  ad  Vincula,  che  bora  e  il  tempo 
che  queUo  Ex.mo  Dominio  può  fare  parte  de  le  sue  vendete  con- 
tra  el  Re,  poiché  quisti  baroni  se  sono  sublevati,  et  che,  se  epsa 
Signoria  vuole  concedere  a  Sua  S.ta  el  S.  Ruberto  et  il  S.r  de  Ca- 
merino 2,  che  Sua  S.ta  torà  V  impresa  de  favorire  li  baroni;  et  a 
questo  si  e  sforzato  dicto  messo  de  indurre  quello  dominio,  el 
quale  finalmente  ha  resposto  non  li  parere  de  intrare  in  questa 
cosa  e  dargli  queste  genti.  Et  cum  questo  pare  se  sia  partito  dicto 
messo,  et  la  ragione  per  cui  essa  Signoria  ha  facto  tal  resposta 
pare  sia  stata  perche  il  papa  domandava  la  gente  et  non  diceva 
de  pagarla,  ma  la  spesa  fuse  pur  de  la  Signoria;  et  molto  più  li 
ha  facto  soprastare,  perche  pare  che  dubitano  che  questa  non  sia 
una  cosa  facta  a  mane,  dicendo  non  sapere  ragion  alcuna  de 
tanta  inimicitia  fra  la  S.ta  del  papa  et  S.  Petro  ad  Vincula  et 
Sua  M.ta,  che  loro  debano  voler  pigliare  questa  impresa  contra 
Sua  M.ta.  Et  tanto  più  se  sono  confìrmati  in  questo  dubio,  quanto 
che,  havendo  loro  domandato  a  dicto  ambassatore  per  quale  ra- 
gione e  venula  tanta  inimicitia  fra  el  papa  et  San  Petro  ad  Vin- 
cula et  Sua  M.ta,  lui  non  ha  saputo  dire  altro  se  non  chel  duca 
de  Calabria  ha  domandato  certe  tere  a  Sua  S.ta,  il  che  non  ha 
consonato  ala  brigata. 


^  Delle  relazioni  tra  i  baroni  e  i  Veneziani  e  delle  promesse  fatte  a 
questi  il  re  aveva  già  avuto  qualche  sentore  (V.  doc.  XVIII).  Chi  si  recò 
a  Venezia  da  parte  dei  congiurati  fu  il  conte  di  Tursi,  Giovanni  Sanseve- 
rino  (v.  doc.  XXX). 

2  Giulio  Cesare  Varano,  al  cui  contegno  nella  guerra  tra  Ferdinando 
d'Aragona  e  il  papa  accenna  il  Volpicplla,  pp.  455-56.  V.  anche 
doc.  XXIX. 


—  147  — 

Item  che  Zacharia  Barbaro,  el  quale  e  a  Milano,  ha  scripto  ala 
Signoria  che  lui  comprende  che  fra  la  M.ta  del  Re  et  il  S.  Ludo- 
vico sia  più  presto  unione  et  bona  inteUigentia  che  disunione  et 
discordia,  et  che  dubita  che,  quando  monstrano  el  contrario,  siano 
simulationi  ;  per  la  quale  lictera  pare  che  la  brigata  sia  sta  molto 
sospesa,  et  siano  molto  dubiosi,  essendo  alcuni  di  loro  de  parere 
che  tute  queste  mosse  siano  cum  qualche  artifìcio  per  metterli  in 
qualche  ballo,  et  cussi  se  ne  soprastano. 

Questo  e  quanto  habiamo  sino  a  quest'hora,  se  ben  tutavia  po- 
tria  esser  che  loro  simulassino,  et  che  havesseno  altra  intentione 
de  quella  monstrano  ;  però  non  ni  pare  che  su  queste  cose  sia  da 
fare  più  fondamento  come  se  convenga  ;  ma  per  ogni  respecto  ni 
e  parso  darne  ad  viso. 

XXV.  Battista  Bendedei.  Napoli,  12  settembre  1485. 

Ill.me  dux...  la  M.ta  del  Reparti  alli  X  et  andò  aCapua,  et  de 
li  andò  subito  el  secretarlo  a  Venosa,  richiesto  etiam  da  quiUi  ba- 
roni, per  desgrossare  la  materia  et  per  ordinare  de  loco,  et  come 
se  havessero  da  redure  quisti  baroni  al  regio  conspecto  \  Et  beri, 
essendo  el  S.  duca  ito  cum  Sua  M.ta  insino  a  Capua,  retorno  beri 
qua,  et  questa  mane  per  tempo  etiam  retorno  a  Capua,  et  ne  dixe 
a  noi  che,  giunto  fusse  a  Capua,  come  sperava  hogi  circa  XIV  bore, 
chel  Re  subito  andarla  a  la  via  de  Puglia,  et  dice  che  mercuri 
o  zobidi  ala  più  lunga  se  adrizaria  in  Abruzo,  dove  sono  le  gente 
d^arme  ^. 

La  duchessa  de  Calabria  stara  qua  cum  el  conte  de  Magdalone 
et  quilli  del  Consiglio  per  lo  mancamento  del  Re. 

La  regina  and  ara  verso  Abruzo  ale  tere  sue  per  recreatione  in 
questo  tempo  stara  fore  el  Re^. 

XXVL  Id...,  (?)  settembre  1485  4. 

...El  non  fu  vero  quello  scripsi  in  ziffara  da  Capua  a  la  V.  Ex.tia, 

*  Risulta  dalla  deposizione  del  conte  di  Carinola  (Processi,  pp.  viii-ix) 
che  i  congiurati  erano  soddisfatti  dell'andata  del  Segretario  a  Venosa,  per- 
chè in  tal  modo  si  sarebbero  meglio  assicurata  la  sUa  cooperazione.  Si 
ventilò  anche  l'idea  di  farlo  prigioniero  «  con  sua  volontà  »  fin  d'allora,  come 
più  tardi  si  fece    a  Salerno. 

^  Si  metta  in  relazione  tutto  ciò  con  quanto  dice  il  Leostbllo,  p.  71, 
ricordando  che  Alfonso  si  mosse  definitivamente  da  Napoli  alla  volta  degli 
Abruzzi  il  21   settembre  ;  ivi,  p.   72. 

3  La  regina  lasciò  Napoli  per  gli  Abruzzi  il  12  settembre  ;  ivi,  p.  71. 

*  Questo  brano  di  lettera,  interessante  perchè  ci  aiuta  a  meglio  inten- 
dere il  dispaccio  dell'I  1  settembre  (doc.  xxiii),  trovasi  in  modo  slnmo  con- 


148 


chel  fussero  sta  intercepte  littere  de  baroni,  le  quali  soUicitasseno 
el  papa  a  mandare  la  sua  gente  al  confine.  Fu  ben  vero  chel  prin- 
cipe d'Altamura  quella  nocte  forni  la  cera,  et  lo  S.  duca  de  Ca- 
labria cella  dicto  che  la  causa  fu,  questa  che  uno  amico  del  S.  don 
Francesco  suo  fratello  li  scripse  che  saria  bene,  havendo  le  intrati 
dela  Cera,  havesse  etiam  el  castello  o  la  rocha,  e  poi  in  ziffara  li 
scrivea  che  seria  ben  vedesse  congiungerse  cum  la  sposa  sua,  ad 
ciò  non  possa  poi  revocarse.  Unde  che,  essendo  sta  intercepta  que- 
sta littera  per  quelli  del  principe  suo  suocero,  et  vedendo  in  pri- 
mis quello  non  era  scripto  in  zifra  de  la  natura  era,  suspecto  che 
la  zifra  fusse  poi  qualche  cosa  de  pegio  contra  la  sua  persona,  et 
subito  subito  fece  fornire  dicto  suo  loco  de  la  cerra,  mandandoli 
12  o  15  fanti  ;  et  non  Fhavendo  mai  potuto  decifrare,  et  parlatone 
cum  M.  Impou,  se  li  e  mandato  Toriginale  de  colui  che  scripse  et 
la  contrazifra,  et  cussi  se  retrovato,  et  per  modo  che  epso  principe 
e  resta  satisfacto,  dubitando  prima  fusse  qualche  cosa  contra  la  sua 
persona. 

XXVII.  Id.  Troia,  16  settembre  1485. 

Ill.me  princeps,  el  mag.co  orator  fiorentino  et  io  giunsemo  beri 
matina  qui  sani  et  salvi  e  la  M.ta  del  Re  li  giunse  alle  XX  bore, 
al  quali,  essendoli  ito  incontro,  ce  dixe  come  le  cosse  de  quisti  ba- 
roni passavano  insin  qua  de  bene  in  meglio  per  quanto  li  bave  a 
replicato  frate  Francesco  et  M.  Impou  ;  et  prima  che  andassemo 
a  lecto,  ce  mando  una  lettera  ha  scripto  el  Secretarlo  da  Venosa, 
ne  la  quale  scrive  che  non  poterla  essere  meglio  veduto  et  racolto 
dal  principe  d'Altamura  et  dal  Gran  Siniscalcho,  et  come  non  pò- 
teriano  essere  meglio  disposti  a  fare  tutto  quello  sarà  de  mente  de 
Sua  M.sta.  Domane  li  andara. 

El  duca  de  Melphi  hogi  debbe  venire  a  la  Sua  M.tà^. 

La  M.ta  del  Re  fu  vero  che  ce  dixe  chel  papa  havea  mandato 
circa  trecento  fanti  al  Guasto  2,  che  e  terra  del  Gran   Siniscalcho, 


fuso  col  dispaccio  del  9  settembre  (doc.  xxi).  La  cosa  può  spiegarsi,  credo, 
con  un  errore  del  copista,  di  cui  il  Bendedei  si  serviva  per  trascrivere  i 
dispacci.  L'ho  stralciato  dalla  lettera  ricordata,  e  lo  riporto  qui  perchè  mi 
sembra  che  possa  cronologicamente  assegnarsi  fra  il  12  settembre,  data  del- 
l'ultimo dispaccio  che  il  Bendedei  inviò  da  Napoli  prima  di  recarsi  in  Pu- 
glia, ed  il  15  settembre,   giornp  in  cui  egli  era  già  a  Troia. 

1  II  duca  di  Melfi  si  recò  a  fare  omaggio  al  re  il  20  settembre.  V.  doc. 
XXX  in  fine. 

*  Da  una  lettera  di  Aldobrandino  Guidoni,  oratore  estense  a  Firenze,  del 
21  settembre  1485  risulta  che  «  300  provvisionati  del  pontefice  imbarcatisi  a 


—  149  — 

in  la  quale  pero  non  se  hano  acceptati,  ma  sono  stati  posti  in  una 
altra  pur  di  esso  Siniscalcho  ;  del  che  Sua  M.tà  non  se  ne  guasta, 
ne  se  dà  molestia,  purché  non  abbia  a  seguire  quanto  disopra  e 
scritto  delo  effecto  che  aspecta  cum  lui  et  cum  gli  altri. 

Dopoi  circa  le  4  bore  de  nocte  Sua  M.ta  ce  mando  littere  li 
havea  scripto  el  Secretarlo  da  Ascoli,  ne  le  quali  li  significava  quanto 
havea  concluso  et  affìrmato  cum  loro  baroni,  secondo  havean  fir- 
mato cum  frate  Francesco  da  Ragonia,  et  cussi  se  ne  venia  a  Sua 
M.ta  a  Fogia  o  dove  fusse.  Unde  che  Sua  M.tà  ha  deliberato  non 
muoversi  di  qua  prima  che  intenda  quello  bara  facto,  et  cussi  lo 
aspecta  cum  piacere. 

XXVIII.  Minute  ducali  a  Battista  Benedei.  Argenta,  16  set- 
tembre 1485. 

..,  Nui  semo  sta  richesti  dal  duca  de  Milano  che  vogliamo  farvi 
uno  mandato  ad  instrumentum  nomine  nostro  per  fare  quanto  ri- 
cercha  el  bisogno  de  la  reconciliatione  tra  el  Re  et  li  baroni,  come 
dice  bavere  facto  el  medesmo  al  suo  ambassatore;  cusi  de  bona 
voglia  rhabiamo  facto  et  ve  lo  ùiandamo. 

Doppo  che  scrivessemo  l'altra  nostra  in  zifra,  non  havemo  altro 
da  Venetia,  se  non  che  Tambassatore  venetiano  a  Roma  ha  scripto 
quanto  caldamente  el  papa  et  S.  Petro  ad  Vincula  gli  hano  com- 
messo scriva  a  quella  Signoria,  che  voglia  esser  contenta  de  dargli 
il  S.  Ruberto  per  questa  impresa  de  quisti  baroni,  dicendo  que- 
sto esser  il  facto  de  la  religione  Christiana.  Impero  che  essi  baroni 
sono  in  tal  dispositione  et  tanto  malcontenti  del  S.  Re,  che  dicono 
che,  non  se  potendo  loro  aiutare  per  altra  via,  se  darano  al  Turco  ^, 
de  che  pare  Sua  S.ta  dubiti  grandemente,  maxime  perche  quasi 
tuti  loro  hano  le  tere  sue  ala  marina;  ma  non  se  intende  che  essa 
Signoria  habia  facto  sopra  ciò  ae  iloederitbnalcuna. 

XXIX.  Battista  Bendedei,  Foggia,  19  settembre  1485. 
Ill.me  princeps...  il  S.  don  Federico  giunse  in  Troia  ali  16;  giunse 

etiam  el  Segretario  el  17,  e  la  M.ta  del  Re  per  sua  S.ria  ne  fece 
intendere  quanto  havea  operato  cum  quiUi  baroni  a  Venosa,  che 


Recanati  »  erano  andati  al  Vasto.  Costretti  a  riprender  terra  da  una  tem- 
pesta, ripartirono  quando  il  mare  divenne  tranquillo.  A.  Cappelli,  Lettere 
di  Lorenzo  de'  Medici  detto  il  Magnifico  conservate  nell' Archivio  Palatino 
di  Modena  con  notizie  tratte  dai  carteggi  diplomatici  degli  oratori  estensi  a 
Firenze,  in  «  Atti  e  Mem.  delle  RR.  Deput.  di  St.  pat.  per  le  prov.  mo- 
denesi e  parmensi  »,  I  (1863),  p.  272. 

'   Alle  relazioni  fra  i  baroni  e  i  Turchi  si  accenna  in  più  luoghi  del  Lì- 
ber  Instructionum,  passim.  V.   anche  Processi,  p.  CCLV. 


150 


fu  in  paucis,  che,  quanto  ale  parole  et  dimonstratione  extrinsece, 
non  poteriano  essere  meglio  disposti  a  concordare  cum  el  Re,  et 
pur  per  quello  modo  havean  concluso  cum  frate  Francesco,  et  cum 
quelle  conditioni  le  quali  erano  molto  honeste,  iuste  et  ragionevoli, 
et  per  le  quali  la  M.ta  del  Re  sperava  tanto  più  che  sequisse  la 
compositione  ;  per  il  che  Sua  M.ta  delibero  che  esso  Secretarlo  quel 
giorno  se  ne  retornasse  et  andasse  a  Fogia  et  ad  Ascoli,  dove  era 
uno  vescovo  che  etiam  facea  per  essi  baroni,  pur  per  restringere 
ben  la  cosa,  ita  che  ala  venuta  del  Re  a  Fogia  poco  restasse  a 
fare.  Et  Sua  M.ta  delibero  de  venirli  el  di  seguente  che  fu  beri, 
et  cussi  noi  oratori  Thabiamo  seguito. 

Questa  mane  autem  don  Federico  ni  fece  chiamare,  et  prius  ni 
partecipo  alcune  littere  nuper  ricevute  da  Roma  dal  card,  de  Ara- 
gona et  de  M.  Anello  del  XVI  del  presente,  in  le  quali  significa- 
vano la  perseverantia  del  mal  animo  de  N.  S.  verso  el  Re  et  etiam 
fare  demonstratione  pegior  de  Tusato,  maxime  in  cerchare  scrip- 
ture  vechie  de  privationi  alias  facte  contro  alcuni  Ri  de  questo 
regno,  et  per  querelle  de  baroni  ;  et  etiam  che  Sua  S.ta  havea  facto 
instantia  chel  S.r  da  Gamarino  lo  servisse,  et  lui  respose  non  lo  fa- 
ria  senza  licentia  de  la  Signoria  ;  et  cum  quella  Thabii  recercato 
per  haverlo  et  el  S.  Ruberto,  et  insin  qui  non  Fhabino  voluto  fare, 
ma  se  dubita  del  futuro. 

Ni  fece  etiam  intendere  quanto  scriveva  el  M.co  Antonio  Cici- 
nello^  da  TAquilla  pur  perdubio  et  suspecto  di  qualche  tractato  et 
per  fare  provisione  di  circha  400  fanti.  Perche  uno  de  la  casa  del 
conte  di  Montorio  avea  richiesto  uno  altro  de  la  terra  a  darli 
una  porta,  perche  harian  in  favore  subito  squadre  25  del  S.  de 
Camerino  2.  Ulterius  ce  dixe  che,  per  adviso    hano  havuto    que- 

1  Su  Antonio  Cicinello  v.  la  biografia  di  Vespasiano  da  Bisticci,  Vite, 
di  uomini   illustri   del  sec.  XV,  Firenze,  Barbèra,  1859  ;   pp.   407    e  segg., 

2  II  congiunto  del  conte  di  Montorio,    a   cui  qui    si    accenna,   non  può 
essere  altri  che  Antonuccio    di    Ercole  Camponeschi  scacciato  dall'Aquila, 
ma  non  catturato  insieme  agli  altri  di  sua  famiglia.  V.  Raccolta  di  memorie' 
istoriche  delle  tre  provincie  degli  Abruzzi  di  A.  L.  Antinori,  tom.  IV,  Na-i 
poli,  1783,    p.  24.   E  cfr.  E  Carusi,  Alcuni  documenti  per  la   congiura  dei 
baroni  negli  Abruzzi,  in  Bollett.  della  R.  Deputaz.  Abruzzese  di  Stor,  pair. 
S.   Ili,  an.  I  (1910),  p.  12.  Si  opporrebbe  all'identificazione  il  fatto  che  An 
tonuccio,  dopo  la  sua  espulsione  dall'Aquila,  fu  chiamato  al  servizio  dei  Ve-, 
neziani,  i  quali  gli  dettero  in  conto  del  soldo  12000  ducati  aurei   con  ga- 
ranzia di  quella  comunità,  se  dall' Antinori  stesso  (op.  e  voi.  cit.,  p.  33)  non 
apprendessimo   che    in  realtà  il  Camponeschi  non  si  mosse  dagli  Abruzzi. 


k 


—  151  — 

sta  nocte,  monstra  che  al  Guasto  siano  giunte  nova  quantità  de 
fanti  de  quilli  del  papa  et  circha  150  cavalli,  li  quali  fanti  et  ca- 
valli, pare,  epsi  del  Guasto,  come  devoti  del  re  et  malcontenti  del 
Gran  Siniscalcho,  per  niente  li  hano  voluti  acceptare.  Per  il  che 
dixe  Sua  Ex.tia  che  el  Re  assai  dubita  che  questi  baroni  dano  pa- 
role et  dicano  una  cosa  et  ne  faciano  un'altra,  et  menino  la  cosa 
in  lungo  per  adromentare  Sua  M.ta,  e  loro  provedere  a  quanto 
hanno  designato  et  ordinato,  et  presertim  che  etiam  e  passato  uno 
priete  del  principe  d'Altamura  che  viene  da  Roma,  el  quale  cre- 
deno  habii  portato  la  instructione  habino  ad  usare.  Ulterius  non 
e  venuto  qua  ni  a  Troia  el  duca  de  Melfi,  come  havea  scripto  et 
se  expectava. 

Quanto  alo  acordo  de  quisti  baroni  non  Vha  per  desperato,  se 
ben  ne  dubita  assai  et,  vedendo  pur  quisti  movimenti,  non  li  e 
parso  remandarli  più  el  secretarlo,  parendoli  homo  de  tropo  impor- 
tantia,  quando  perseverasseno  in  malignare  ;  et  bali  remandato  M. 
Impou,  che  se  e  partito  questa  mane  pur  per  vedere  quello  vo- 
gliono fare,  et,  se  perseverano  in  volerse  componere,  come  hano 
mostrato  a  lui,  a  frate  Francesco  et  al  Segretario,  per  esserne  etiam 
più  chiaro,  li  mandara  Bartholamio  Veri,  oratore  del  Re  de  Ca- 
stella, et  Antonio  de  Alexandro  Regio  Gonsiliario  i. 

Continua 

G.  Paladino 


'  Su  Antonio  d'Alessandro  v.  le  notizie  del  Volpicella,  pp.  220-221,  al 
quale  è  sfuggita  la  circostanza,  risultante  dai  Processi  (p.  LXXX),  che  il 
D'Alessandro  fu  incaricato  dal  re  di  giustificare  la  cattura  dei  figli  del  duca 
d'Ascoli  presso  il  principe  di  Bisignano,  quando  questi  si  recò  a  Napoli  tra 
la  fine  di  giugno  e   i  primi  di  luglio   del  1485. 


GLI  AVVERTIMENTI  AI  NIPOTI 

DI 

FRANCESCO    D'ANDREA 


(contin.  :  v.  voi.  prec,  pp.  227-289) 


§  2.  —  Gli  avvocati    napoletani  sono  stati  sempre  famosi  non   men 
per  l'eloquenza^  che  per  la  dottrina. 

Per  mezzo  del?awocazione  in  Napoli  si  ha  modo  di  far  pompa 
del  proprio  talento  così  nella  dottrina,  come  nell'eloquenza. 

Come  nella  dottrina  lo  dimostrano  molti  libri  de'  nostri  giure- 
consulti celebri  per  tutta  V  Europa,  che  tutti  furono  avvocati  e 
diedero  alle  stampe  i  loro  consulti  con  altre  opere  legali  :  il  reg- 
gente Loffredo,  il  reggente  Villano,  il  reggente  Da  Ponte,  il  reg- 
gente Lanario,  il  consigliere  De  Giorgio,  i  due  Anna,  i  consiglieri 
Grammatico  e  Paschale,  il  reggente  Rovito,  il  reggente  Galeota, 
il  consigliere  Teodoro,  lacovo  Gallo,  Marcello  de  Mauro,  Orazio 
Montano,  Francesco  de  Petris,  il  reggente  Capecelatro,  i  tre  Mar- 
ciani,  i  tre  Staibani,  li  consiglieri  De  Rosa,  Odierna,  Prato,  Rocco, 
e  tanti  altri  che  se  ne  potrebbe  formare  una  mezza  libreria,  oltre 
moltissimi  che,  non  inferiori  di  dottrina,  anzi  a  molti  de'  suddetti 
superiori,  non  hanno  però  stimato  dover  esponere  alla  luce  del 
mondo  le  loro  fatiche. 

E  dell'eloquenza  può  dirsi  che,  decaduta  totalmente  dall'antico 
splendore,  quando  fioriva  ne'  tempi  deUa  Romana  Repubblica, 
solo  ne'  nostri  avvocati  si  sia  veduta  sino  a'  dì  nostri  risplendere 
come  necessaria  alla  Repubblica,  e  non  per  semplice  esercitazione, 
come  nelle  accademie,  e  per  farne  pompa,  come  nei  pulpiti. 

Poiché  da  che  si  lasciò  d'orare  nelle  cause,  tutto  il  pregio  della 
eloquenza  par  che  si  sia  ristretta  nelle  sacre  concioni  che  fansi  dai 
predicatori  sui  pergami,  dove,  non  essendovi  l'avversario  che  con- 
traddica, né  i  giudici  che  determinano,  par  che  si  sia  ridotta  piut- 


—  153  — 

tosto  ad  una  vana  ossen^azione  e  per  dar  piacere  agli  ascoltanti, 
per  alcuna  utilità  o  giovamento  della  Repubblica,  e  per  conseguen- 
za che  sia  priva  totalmente  del  suo  fine  ch'era  di  mover  gli  animi 
de'  giudici  e  del  popolo  alle  deliberazioni  che  si  avean  da  prendere 
nelli  casi  occorrenti.  E  se  pure  alcuna  volta  si  son  veduti  de'  pre- 
dicatori strascinarsi  lor  dietro  le  turbe  e  ridurle  agli  atti  della  pe- 
nitenza, ciò  è  stato  per  la  fama  della  santità  della  loro  vita  e  per  la 
forza  della  religione,  non  per  l'eloquenza. 

Onde  solo  appresso  gli  avvocati  può  dirsi  che  risiede  e  dimora 
il  pregio  della  vera  eloquenza,  i  quali  non  colle  barzellette  e  colli 
scherzi,  o  con  una  stentata  ed  assettata  dicitura,  come  con  non 
poco  discapito  di  quel  sacro  ministero  si  usa  dalla  più  parte  dei 
predicatori,  ma  con  una  eloquenza  massiccia  e  con  argomenti  ga- 
gliardi ed  efficaci  han  da  rappresentare  le  ragioni  de'  loro  clienti, 
non  per  dar  diletto  o  far  pompa  del  lor  ingegno,  come  facevasi 
anticamente  nelle  scuole  de'  retori,  e  come  si  fa  oggi  nelle  accademie, 
ma  per  convincere  l'avversario  con  pruove  ed  argomenti  reali, 
ed  in  maniera  che  sia  atta  a  riportar  da'  giudici  favorevole  la  sen- 
tenza .  Cosa  che  in  nessun'altra  parte  almeno  della  nostra  Italia 
si  esercita  così  bene  da'  nostri  avvocati,  i  quali,  oltre  le  cause  che 
difendono  continuamente  nei  nostri  Tribunali,  dove  spesso  chia- 
mati improvvisamente  ragionano  per  le  giornate  intiere,  hanno 
spesso  da  orare  avanti  il  principe  nel  Supremo  Collaterale  nelle 
cause  così  civili,  come  criminali,  dove  le  vite  e  le  sostanze  degli 
uomini  dipendono  dalla  vigorosa  eloquenza    degli  avvocati  i. 

>  Si  legga  ciò  che  scriveva  il  Capaccio,  //  forastiero,  Napoli,  1630, 
pp.  604-05  :  «  Resta  solo  non  vi  rincresca,  quando  intenderete  che  là  [nel 
Foro]  si  trattano  cause  gravi,  andar  a  sentir  tanti  supremi  avvocati,  dici- 
tori che  stimarete  divini.  Sentirete  Andrea  Marchese  che  prese  l'oracolo  da 
quel  gran  padre  suo  Fabio,  che  fu  meraviglia  della  giurisprudenza,  e  porta 
seco  il  simbolo  della  grandezza  di  quelle  ;  Antonio  Caracciolo  nel  quale  non 
è  tanto  il  dire  che  sopravanza  gli  altri,  quanto  la  maestà  delle  leggi  che  pro- 
duce, e  la  speranza  che  orando  apporta  della  vittoria  ;  Giovan  Camillo 
Cacace  che  potrebbe  rifare  il  corpo  del  juò  civile  se  si  perdesse  ;  un  Ottavip 
Vitagliano  dicitor  così  famoso.  Havrete  alle  volte  Carlo  Brancaccio  et 
Rettore  Capecelatro  che  ragionando  scrivendo  consultando  persuadono  , 
insegnano,  e  tutti  i  negozi  riducono  alla  sincera  verità  che  si  va  cercando. 
Vorrei  dire  di  un  Hortensio  del  Pezzo  gran  giureconsulto  et  orator  grande, 
così  d'un  Giovan  Tomaso  di  Rogiero  germe  nobilissimo  di  quel  Giovan 
Lorenzo  lume  dell'interpetrare,  e  le  voci  del  quale  ogni  bora  con  grandis- 
sima sua  lode  risona  per  gli  studi  napolitani,  come  lodatissimo  si  fa  sentire 


154 


E  benché  in  Venezia  si  faccia  particola!  professione  di  orare, 
nelle  cause,  non  parlando  già  delle  orazioni  che  si  fanno  in  Senato, 
che  stanno  perpetuamente  coverte  dal  loro  impenetrabil  segreto, 
non  ho  veduto  che  gli  avvocati  veneziani  portino  alcun  vantaggio 
sopra  ai  nostri,  i  quali  anticamente  facevano  particolare  studio 
nell'  arte  oratoria  i.  E  per  avvezzarsi  a  parlar  bene  era  costume 
ai  nostri  avvocati  studiar  le  orazioni  del  Cieco  di  Adria  2,  co- 
stume oggi  dissuaso  per  non  esservene  più  di  bisogno  :  poiché 
da  che  sMntrodussero  le  accademie,  che  fu  nel  principio  di  questo 
secolo,  e  propriamente  nel  1611,  quando  si  aprì  T Accademia  degli 
Oziosi^,  la  nostra  lingua  natia  si  è  andata  sempre  spurgando 
dell'antica  rozzezza,  onde  non  vi  è  più  bisogno  del  Cieco  d'Adria 
per  assuefarsi  al  ben  parlare. 

Né  perciò  sono  mai  mancati  tra  i  nostri  avvocati  dei  celeberrimi 
oratori  ;  e  dura  ancora  oggi  la  memoria  di  tre  famosi  avvocati,  che 
a  tempo  de'  nostri  padri  furono  insigni  per  la  fama  dell'eloquenza 
Antonio  Caracciolo,  Gio.  Camillo  Cacace  ed  Ottavio  Vitagliano,  1 


il  figlio  in  quelle  Ruote.  Havrei  molto  che  dire  di  un  Alessandro  Palmiero, 
erario  dei  più  occulti  segreti  degli  studi  legali,  di  un  Francesco  Marciano 
che  bevuto  il  latte  della  facondia  del  padre  è  divenuto  miracolo,  e  di  tanti 
altri  dei  quali  chi  ragiona  e  non  erra,  chi  difende  e  salva,  chi  è  valoroso 
e  vince  ». 

^  I  Veneziani  difendevano  le  cause  in  dialetto:  il  calore  della  improvvi- 
sazione li  infiammava  e  faceva  loro  alzare  la  voce,  sì  che,  racconta  il  Ge' 
MELLi  Carreri,  I,  37,  «  uou  parlavano  ma  fortemente  gridavano,  non  di- 
sputavano  ma  tenzonavano,  e  poi  con  quella  loro  favella  da  fare  ismascel- 
lar  dalle  rìsa  anche  le  statue  ».  Cfr.  Zanardelli,  p.  41  ;  Molmenti,  III, 
499-500. 

2  Luigi  Grotto  cieco  di  Hadrìa,  Orazzoni  volgari  e  Zai me,  Trevigi,  1609. 

3  Le  Accademie  napoletane  furono  chiuse  da  D.  Pietro  di  Toledo  per 
tema  di  disordini  ;  mutate  le  condizioni  politiche,  il  conte  di  Lemos  nel 
1611  permise  si  aprisse  quella  degli  Oziosi,  che  ebbe  stanza  dapprima  nei 
Chiostri  di  S.  Maria  delle  Grazie  e  S.  Agnello,  e  poi  in  quelli  di  S.  Domenico 
Maggiore.  Sorse  per  opera  del  card.  Brancaccio,  e  fu  diretta  in  prosieguo 
dal  Manso.  Le  sue  Leggi,  redatte  si  crede  dal  De  Petris,  sono  ora  ed.  dal 
Padiglione.  Di  questa  Accademia  così  parlava  il  Voss  all'Einsio:  «Neapoliro 
si  excurras,  multos  ibi  invenies  vìros  mediocriter  eruditos.  Id  ferme  stu- 
dium  est  Academicorum  ea  in  urbe,  qui  se  Otiosos  vocant,  et  re  vera  sunt 
(ed.  BuRMANN,  Syllog.  Episi.  ili.  virorum.,  III,  567  ».  Ma  d'  altra  parte 
il  Capaccio,  Episi.,  I,  105,  scriveva  al  Manso:  «  Vitam  Neapolitanae  Urbi 
dedisti  ».  Cfr. ,  oltre  i  noti  studi  del  Giustiniani  e  del  Minieri-Riccio  sulle 
Accademie  napolitane  ,  Borzelli,  G.  B.  Manso,  Napoli,  1916. 


—  155  — 

quali  due  primi  a  mio  tempo  furono  reggenti,  ed  il  terzo,  che  io 
non  conobbi,  dopo  di  aver  fondata  la  casa  deirOratino  co'  danari 
guadagnati  dalFawocazione,  non  volle  che  vi  entrasse  a  parte 
Tautorità  del  ministero.  Ma  il  primo,  per  quel  che  mi  diceva  la 
buon'anima  di  nostro  padre,  era  chiamato  un  fiume  deireloquenza, 
perchè  era  dotato  di  una  vena  naturale  ed  abbondante  che,  accom- 
pagnata da  un'affettata  modestia  e  da  una  gratissima  maniera 
di  rappresentare,  rapiva  gli  animi  di  quei  che  l'ascoltavano.  Il 
secondo,  all'incontro,  non  doveva  niente  alla  natura,  ma  tutto 
all'arte,  e,  per  quel  che  io  intesi  da  lui  medesimo,  quando  già  era 
presidente  di  Camera  e  mi  portava  molto  affetto,  essendo  per  na- 
tura timido,  prese  animo  di  darsi  all'avvocazione  da  due  orazioni 
che  fece  nell'Accademia  degli  Oziosi  con  molto  applauso:  onde  poi 
anche  nelle  cause  si  premeditava  il  discorso  a  mente  con  eloquenza 
più  regolata  che  abbondante,  ma  con  maggior  dottrina  ed  argo- 
menti più  efficaci  del  primo.  Il  terzo  fu  come  un  mezzo  fra  questi 
due  con  discorso  vigoroso  e  naturale,  ma  non  avea  la  dolcezza  del 
primo,  né  tutta  la  dottrina  del  secondo. 

A'  miei  tempi,  essendo  io  giovane,  non  ebbi  motivo  di  ammirare 
altri  che  il  sig.  D.  Diego  Moles,  padre  dell'odierno  duca  di  Parete  i; 
avea  nobil  aspetto,  gratissima  voce,  e  si  spiegava  nobilis- 
simamente senza  affettazione,  ardeva  dove  bisognava,  le  parole 
erano  anche  scelte  e  proprie,  accompagnate  dal  gesto  :  insomma 
non  avrei  saputo  che  desiderarvi  ;  e  Pietro  Caravita  ch'era  suo 
emulo  e  lo  superava  in  dottrina,  ma  di  più  lunga  inferiore  nell'arte 
del  dire,  non  di  altro  il  censurava,  solo  che  diceva  che  imparava 
la  lezione  a  mente  :  il  che  s'era  vero,  tanto  maggiore  era  il  suo  arti- 
ficio, poiché  non  se  li  conosceva,  e  le  parole  pareva  che  se  li  sug- 
gerissero nel  medesimo  tempo  che  le  diceva. 

Comunemente  però  era  stimato  più  facondo  Girolamo  de  Fi- 
lippo, il  quale  aveva  un'affluenza  naturale  accompagnata  ancora 
dall'arte,  ed  una  maniera  più  dolce  ed  affabile;  ma  poco  s'ingeriva, 
ed  in  tutto  privo  di  quel  che  é  tanto  necessario  ad  un  perfetto 
oratore  :  il  discorso  però  era  più  pieno  di  parole  che  di  cose,  e  come 
di  lui  disse  il  sig.  conte  di  Pefiorada,  mentre  fu  avvocato  fiscale 
in  Camera,  muchas  vignas  y  pocas  ubas  :  onde  di  forza  ed  efficacia 
nel  dire  non  poteva  paragonarsi  coll'altro. 

Il  sig.  Giulio  Caracciolo  avea  un  discorso  aggiustato,  sicché  pare- 


'  Francesco  Moles  ;  su  cui  cfr.  Avvertimenti,  §  31. 


—  156  — 

va  premeditato:  non  aveva  però  molta  facondia,  ma  suppliva  col 
decoro  e  concetto  condegno  di  cavaliere;  e  per  le  qualità  della  na- 
tura prese  gran  nome  tra  la  nobiltà,  ma,  morto  quasi  nel  prin- 
cipio della  sua  carriera,  fu  più  famoso  per  quel  che  si  stimava  che 
avrebbe  fatto,  che  per  quello  che  fece. 

Francesco  Maria  Prato  credeva  d'essere  grande  oratore,  ma  a 
mio  giudizio  e  di  tutti  gli  altri  non  poteva  riporsi  neanco  tra  i  me- 
diocri; aveva  una  maniera  affettata  ed  un  accento  leccese  che  piut- 
tosto lo  rendeva  ridicolo,  benché  non  li  mancasse  dottrina,  per 
quanto  era  necessaria  nell'uso  dell'orare.  Si  pregiava  di  parlare 
spagnuolo,  onde  due  cause  celebri  in  Collaterale,  alla  presenza  del 
sig.  duca  d'Arcos  i,  le  parlò  in  lingua  spagnuola,  ciò  che  non  si  era 
fatto  da  nessuno  altro  prima,  com'egli  se  ne  pregiò  in  uno  de'  suo 
volumacci  dato  alle  stampe  ^  ;  ma  le  perde  tutte  e  due,  e  una  fu 
quella  della  Congregazione  di  s.  Ivone,  che  solo  guadagnai  con- 
tro i  Padri  Gesuiti  che  volevan  far  l'altra  del  medesimo  istituto 
nella  Casa  Professa,  benché  la  parlassi  improvviso  ed  in  età  di  22 
anni  ^  :  per  la  quale  il  sig.  Viceré  si  mosse  ad  inviarmi  avvocato 
fiscale  in  Abruzzo.  Ne  fa  la  decisione  il  sig.  reggente  Capecelatro 
nel  secondo  tomo  *.  L'altra  causa  fu  in  difesa  di  un  cavalier  spa- 
gnuolo, dove  ebbe  contrario  il  suddetto  Giulio  Caracciolo. 

Bartolomeo  de  Franco  fu  grand' avvocato,  ma  solo  nelle  cause 
de'  rei.  Aveva  una  maniera  sua  propria,  quale  non  saprei  a  chi  as- 
somigliarla, colla  quale  però  parlava  le  tre  e  le  quattro  ore,  e  non 
dispiaceva.  Era  però  più  famoso  per  le  minuzie  che  osservava  nei 
processi  e  per  gli  difetti  che  apparivano  circa  l'ordine  giudiziario, 
che  per  rappresentare  bene  la  giustizia,  quale  più  delle  volte  non 
aveva.   Talmente  che  il  sig.   consigliere  Arias  de  Mesa^  soleva 


^  Il  duca  d'Arcos  fu  viceré  in  Napoli  dal  1646  al  1648. 
»  Prato,  Discept.  Forens.,  Napoli,  1648,  II,  30. 

*  Della  causa  per  S.  Ivone  il  D'Andrea  parla  a  lungo  nel  §  19  di  questi 
Avvertimenti.  Cfr.  su  di  essa  Cortese,  La  Congregazione  di  5.  Ivone  ed  il 
patrocinio  dei  poveri  in  Napoli,  (secc.  XVI-XVII),  in  Napoli  nobilissima, 
n.  s.,  1920,   I,  3,  33-35. 

*  Capecelatro,  DecfsiOTies  noviss.  S.  R.  C.,Neapoli,  1652,  II,  deqis.  169. 
5  Ferdinando  Arias  de  Mesa  (m.  1646),  lusitano,  cattedratico  di  diritto 

pontif.  vesp.  a  Salamanca,  e  poi  di  civile  della  sera  a  Napoli,  ove  fu  cappel- 
lano magg.,  dal  1638  cons.  Scrisse  :  Variarum  resolut.  et  interpret.  juris 
libri  III,  Napoli,  1643.  Cfr.  Toppi,  De  origine  omnium  Tribunalium,  Napoli, 
1655-66,  II,  83,  369  ;  Kònigius,  Bibl.  vetus  et  nova,  Altdorfì,  1678,  p.  478; 
Antonio,  Bibl.  hispana,  Roma,  1672,  I,  281;  De  Fortis,  Del  governo  pò- 


—  157  — 

dire  che  avrebbe  voluto  fargli  dare  una  cattedra  primaiùa  :  De 
ordine  iudiciorum,  con  duemila  ducati  di  salario  Fanno,  para 
extruccion  de  los  avogados  j  procuradores,  ma  impedirgli  Fuso  del- 
Favvocazione. 

Sorse  dopo  tutti  questi  Giuseppe  de  Rosa,  di  chi  non  poteva 
dirsi  che  non  parlasse  assai  bene  e  che  alla  molta  dottrina  non  ac- 
compagnasse anco  il  pregio  di  esplicare  ottimamente  i  suoi  sensi  : 
ma  F esplicava  in  maniera  che  pareva  che  piuttosto  insegnasse  che 
orasse  :  onde  comunemente  fu  stimato  più  dotto  che  eloquente. 

Al  contrario  di  Paolo  Malangone,  che  con  un  suo  discorsetto  po- 
ntino, nudo  di  ogni  dottrina,  anche  della  più  comunale,  ma  con  voce 
assai  grata  e  piacevole,  acquistò  presso  il  volgo  fama  di  bel  dicitore, 
talmente  che  in  una  commedia  che  si  rappresentò  in  Napoli  in  un 
carnevale  da  quel  che  faceva  il  Pulcinella  li  fu  dato  il  secondo  luogo 
dopo  un  altro  che  senza  contraddizione  era  stimato  il  primo  nella 
lode  delF eloquenza  :  giudizio  veramente  da  Policinella,  perchè  nel 
Malangone  io  non  ravvisai  mai  cosa  che  non  fosse  sotto  la  medio- 
crità assai,  e  vi  erano  molti  che  parlavano,  se  non  così  pulito,  assai 
però  più  efficace  e  più  conchiudente  di  lui,  non  consistendo  F  elo- 
quenza nelle  sole  parole  ,  ma  assai  più  nel  vigore  e  nella  robustezza 
delle  ragioni. 

Anche  Fabio  Crivelli,  che  venne  dopo  di  lui,  aveva  una  vena 
abbondantissima,  sicché  parlava  tre  e  quattr'ore  continue  senza 
stracccarsi,  come  se  avesse  narrato  un  conto  ;  anzi  per  aprirsi 
campo  di  parlare  assai,  o  pure  per  far  pompa  della  sua  abilità, 
soleva  ripetere  tutto  ciò  che  si  era  detto  dalF avversario  e  spesso  con 
maggior  giro  di  parole  che  non  avea  fatto  Favversario  medesimo, 
per  poi  poterle  confutare:  ma  questa  era  loquacità,  e  non  eloquenza. 

Il  sig.  Vincenzo  Vidman,  d'origine  calabrese  per  ragion  del 
padre,  —  benché  egli  abbia  avuto  una  somma  avversione  con  una 
tal  nazione,  e  forse  per  lo  genio  contrario  che  aveva  avuto  col  sig. 
Serafino  Biscardi,  —  egli  é  stato  buon  oratore,  parlando  con  ef- 
ficacia e  con  fondamento;  però  si  é  fatto  conoscere  sempre  troppo 
aspro.  Questo  è  stato  buon  avvocato  così  nella  professione  crimi- 
nale, come  poi  nella  civile  ;  e  se  in  lui  non  avesse  molto  predomi- 
nato, come  domina,  Firascibile,  avrebbe  potuto  far  fortuna  mag- 
giore così  in  acquisto  di  facoltà,  come  di  cariche  :  benché  oggi 
si  trova  da  consigUere  di  S.  Chiara  passato  presidente  di  Camera, 


litico,  Napoli,  1755,  p.  82;  Origlia,  Ist.  dello    Studio   di    Napoli,    Napoli» 
1754,  II,   95. 


158 


ma  non  molto  ben  visto  dalla  generalità  per  la  sua  asprezza  e  per 
liberi  sermoni. 

li  sig.  Serafino  Biscardi,  ancor  calabrese, — sendo  egli  d'un  pic- 
ciolo castello  di  Calabria  Gitra  quaFè  Altomonte,  terra  del  sig. 
principe  di  Bisignano,  di  dove  è  originario, — benché  poi  si  fusse  cre- 
sciuto in  altro  castello  delli  Carolei,  che  è  del  sig.  marchese  della 
Valle,  —  ove  passò  suo  padre,  uomo  per  altro  di  bassi  natali  e  del 
mestier  di  tinger  cappelli,  col  quale  viveva,  ritiratosi  nella  città 
di  Cosenza  colla  bottega  della  sua  arte,  per  mezzo  della  quale  so- 
stenne tanto  il  sig.  Serafino  quanto  il  sig.  Giacinto  alla  scuola, — spas- 
sato in  Napoli,  per  mezzo  dell'  avvocazione  ha  fatto  quella  fortuna 
che  di  presente  sta  agli  occhi  di  tutti,  essendo  egli  Avvocato  fi- 
scale di  Camera.  Parlava  bene  ed  al  proposito,  e  sapeva  Tarte  della 
vera  eloquenza,  benché  coiraccento  della  sua  nazione;  ma  parve  che 
disprezzasse  Teloquenza,  conoscendo  forse  che  le  cause  al  dì  di 
oggi  si  guadagnano  più  col  maneggiare  che  col  parlare,e  più  col  go- 
verno (termine  però  nuovo,  non  men  che  scelerato,  e  da  me  sempre 
abborrito),  che  non  per  la  strada  vera;  ed  anco  perché  si  è  introdotto 
lo  stile  che  una  causa,  dopo  parlata  otto  o  dieci  giornate,  quando 
si  arriva  a  doversi  votare,  se  pur  a  votar  si  arriva,  si  appunta  più 
mesi  dopo  parlata,  sicché  i  ministri  se  ne  sono  scordati.  Il  parlar 
bene,  tolto  il  plauso  che  se  n'acquista  mentre  si  parla,  si  stima 
inutile  ;  ma  non  é  così,  perché  quando  i  giudici  non  ài  movono  per 
passione  o  per  altro  maneggio  importa  assai  il  concetto  che  abbiano 
formato  della  causa,  quando  l'hanno  intesa  parlare,  perché  quando 
poi  si  mettono  a  ristudiarla  abbiano  inclinazione  verso  quella 
parte  a  favore  della  quale  abbiano  formato  il  concetto  che  tenga 
giustizia  ^. 

Ma  il  sig.  Serafino  intanto  ne  avea  acquistato  fama,  onore  e  te- 
sori, poscìacché,  oltre  del  degnissimo  posto  di  Avvocato  fiscale, 
ed  oltre  delle  facoltà  accumulate,  caso  il  sig.  Giacinto  suo  fratello 
colla  figlia  di  Paolo  Anastasio,  e  quello,  sebbene  persona  molto  or- 
dinaria, n'ebbe  in  dote  la  somma  di  ducati  50  mila,  —  facendo 
col  suo  modo  comparire  come  avvocato  ancora  il  sig.  Giacinto, 
ch'egli  diceva  essere  un  Papiniano  nello  scrivere,  benché  infelice 
nel  parlare  :  però  tutto  faceva  il  sig.  Serafino,da  me  ben  conosciuto 

1  Cfr.  Cortese,  S.  Biscardi,  Laureana  di  Borrello,  1918  (estr.  dal 
Boll,  della  Soc.  Calabrese  di  Storia  patria,  II,  1-2),  e  il  documento  ivi  pub- 
blicato sulla  viva  lotta  sostenuta  dal  Biscardi  per  essere  ammesso  al  Se- 
dile dei  Nobili  di  Cosenza. 


—  159  - 

fin  dai  suoi  principi  che  accudì  meco.  Ed  oltre  di  ciò  si  è  fatto 
ultimamente,  dopo  asceso  al  posto  di  Avvocato  fiscale  del  Real  Pa- 
trimonio, aggregare  (col  favore  però  del  sig.  Viceré)  alla  nobiltà 
di  Gosenza,con  tutto  che  egli  non  fusse  stato  neppure  dell'ordine  dei 
cittadini  di  quella  città,  ma  solo  della  provincia,  eh'  è  stato  il  mag- 
gior colpo  da  lui  bramato  e  stimato,  per  essere  quel  seggio  stimato 
chiuso  :  benché  sessanta  anni  addietro  incirca  era  aperto,  e  vi  en- 
travano varie  sorte  di  persone,  ed  in  particolare  lettori  di  legge, 
benché  fossero  stati  figli  di  artisti,  e  sino  a'  medici,  fisici  e  cerusici, 
come  si  legge  da'  processi  che  in  tempo  mio  ne  stavano  nel  Sacro 
Consiglio.  Ed  ebbi  l'occasione  di  riconoscerli  quando  alcuni  dot- 
tori pretendevano  entrare  come  prima,  e  vidi  il  modo  come  fu  ser- 
rata la  Piazza  suddetta  con  conclusione  di  quelle  famiglie  che  si  tro- 
varono quando  entrò  il  Merenda  di  Paterno,  casal  della  città,  come 
dottore  ;  ed  in  detti  processi  esservi  l'origine  di  molte  famiglie  ag- 
gregate come  dottori,  a'  quali  era  lecito  l'entrarvi,  ed  altri  benché 
figli  d'artisti,  ed  in  particolare  aggregato  un  musico  :  onde  la  vir- 
tuosa canagUa  ancor  possa  godere  gli  onori  della  Piazza,  benché 
nei  processi  medesimi  osservasi  ancora  esservi  in  quella  città  e 
casali  nella  Piazza  medesima  molte  famiglie  assai  antiche  e  nobili. 

Non  ci  avrebbe  mala  attitudine  il  sig.  D.  Cesare  Natale,  poi  pre- 
sidente di  Camera,  ed  oggi  consigliere,  di  che  il  sig.  Serafino,  che  era 
suo  emolo,  diceva  che  si  portava  scritto  in  carta  il  suo  discorso, 
e,  facendo  mostra  di  leggere  i  punti  che  si  avea  notati,  recitava  ad 
verbum  come  l'aveva  scritti  ;  ma  l'avere  procurato  d'essere  mi- 
nistro quando  già  incominciava  ad  aver  numero  di  negozi  non  li 
die  tempo  di  perfezionarsi,  e  se  questo  suggello  fosse  stato  più 
forte  e  più  veritiero  avrebbe  potuto  o  potrebbe  far  fortune  mag- 
giori 1. 

Molti  altri  ve  ne  sono  che,  se  non  hanno  uguagliata  la  gloria 
degli  antichi,  non  però  lasciano  di  parlare  bene  assai  :  de'  quali 
sarebbe  troppo  noioso  il  tener  catalogo.  Né  perciò  può  dirsi  di- 
minuita nel  nostro  Sacro  Cosiglio  la  gloria  dell'eloquenza,  per  quanto 
non  sia  stata  mai  celebre  ne'  tempi  andati.  E  tal  vi  é  stato  a'  di 
nostri,  che  ha  meritato  il  titolo  di  Cicerone  napolitano  2,  come  il 


^  Il  brano  manca  in  quasi  tutti  i  mss.  degli  Avvertimenti;  forse  sarà 
una  posteriore  interpolazione.  Il  Natale  fu  molto  amico  del  D'Andrea, 
e  scrisse  la  lettera  proemiale  alla  sua  Disputazione  feudale. 

'  Il  D'Andrea  allude  a  se  stesso. 


160 


consigliere  Ciavari  spagnuolo  nella  sua  Didascalia  i,  il  Redi  fioren- 
tino nel  suo  Ditirambo  ^,  li  Fasano  napoletano  nella  Gerusalemme  3, 
il  padre  Mabillon  ^  francese  ed  il  sig.  Burnet  ^  inglese  ne'  loro  viaggi 
nella  relazione  di  Napoli,  ed  altri  ne  fanno  amplissima  testimo- 
nianza ^. 

»  Ciavari,  Didascalia  muUiplex  veteris,  mediae  et  novae  jurispruden- 
tiae,  Napoli,  presso  gli  eredi  di  M.  A.  Ferri,  s.  a. 

*  Redi,  Bacco  in  Toscana,  vv.  105-114  ;  e  sono  versi  notissimi  : 

E  se  ben  Ciccio  d'Andrea 

con  amabile  fierezza 

con  terribile  dolcezza 

tra  gran  tuoni  d'eloquenza 

nella  propria    mia  presenza 

innalzare  un    di    volea 

quel  d'Aversa  acido  asprino 

ch'è  non  so  se    agreste  o  vino, 

così  a  Napoli    solca 

del  superbo  Fasano    in  compagnia 

E  annotava  il  Redi  stesso  :  «  Questi  si  è  il  sig.  Don  F.  d'Andrea  nobilis- 
simo avvocato  napoletano,  anch'esso  mio  riveritissimo  amico,  che  alta- 
mente possiede  tutte  le  belle  arti  e  tutte  le  belle  scienze  che  in  un  animo 
nobile  possono  allignare  »,  riferendogli  il  noto  verso  d'  Aristofane,  così  da 
lui  stesso  tradotto  :  Tonabat,  fulgurabat,  permiscebat  Graeciam.  Tra  il 
Redi  e  il  D'Andrea  corse  certamente  attivo  carteggio  ;  alcune  delle  lettere 
del  primo  furono  pubbl.  in  Lettere  di  F.  Redi,   Milano,   1811,  voi.  IV. 

3  Lo  Tasso  napoletano,  zoè  la  Gierosalemme  libberata  de  lo  sio  Torquato] 
Tasso,  votata  a  Ilengua  nosta  da  Gabriele  Fasano,  Napole,  J.  Rail- 
lardo,  1689,  pp.  5  e  359  ;  I,  30  ;  XIX,  29. 

*  Mabillon,  Iter  italicum  litterarium,  Parigi,  1687,  p.  105  :  «  F.  An- 
drea, patronus  causarum  emeritus,  quem  in  causa  principis  Satriani  ma- 
gno cum  eloquentiae  flumine  et  fulmine  perorantem  non  semel  auscul-l 
tavimus  ». 

5  GiLB.  Burnet,  Voyage  de  Suisse,  d'Italie  et  de  quelques  endroUs 
d'Allemagne  et  de  France,  faites  es-annèes  1685-86  avec  des  lemarques^ 
d'une  personne  de  qualité  touchant  la  Suisse  et  l'Italie,  Rotterdam,  Acher, 
1687,  p.  293  :  nella  biblioteca  del  Valletta  a  Napoli  aveva  conosciuto! 
«un  savant  jurisconsulte,  nommé  Francois  Andrea,  lequel  est  regardé^ 
comme  un  des  plus  curieux  de  tonte  l'assemblée  ». 

«  Lungo  ed  inutile  sarebbe  l'elenco  di  coloro   che  lodarono  1' eloquenza  j 
ed  il  sapere  giuridico  del  D'Andrea.  B.  Ma joli  d'AviTABiLE  nella  sua  Vita 
di  F.  D'Andrea,  in  Le  vite  degli  Arcadi  Illustri,  ed.  G.  M.  Crescimbeni, 
Roma,  1708,  I,  29  sgg.,  cita  una  serie  di  opere  e  di  autori.  Ricorderò  solo 
che  il  FuiDORO  ci  dipinge  il  nostro  «  di  color  bruno,  ma  acceso  di  fuoco. 


161 


g  3.  —  Uavvocazione  in  Napoli  è  stata   sempre  la  strada  più  facile 
per  ascendere  a*  magistrati  supremi. 

Ma  tutto  ciò  che  si  è  detto  del  pregio  dell'  avvocazione  in  Napoli 
è  poco,  anzi  nulla,  rispetto  alFessere  stata  l'unica  strada  di  ascen- 
dere alle  supreme  dignità  del  magistrato.  E  se  V  autorità  che  ten- 
gono gli  avvocati  sopra  i  primi  signori  del  regno  è  grande  solo 
perchè  difendono  le  loro  cause  ne'  supremi  tribunali,  qual  crederò 
essere  l'autorità  dei  ministri  i  sopra  li  medesimi,  che  tengono  la 
potestà  di  giudicarle  ?  Non  vi  è  parte  del  mondo  dove  i  ministri 
engano  maggiore   autorità  che  in  Napoli  :  poiché,  come  non  ten- 


caldo  di  cervello,  fervoroso  nel  parlare,  in  modo  tale  che  il  suono  sembrava 
iracondia  ».  Il  Giannelli,  Educazione  al  figlio,  arricchita  di  note  istorico- 
critiche  dell'avv.  Basilio  Giannelli  7un.,  Napoli,  1781,  ne  dà  un  giudizio 
che  sarà  opportuno  qui  riportare  :  «  Egli  era  ottimo  giureconsulto,  ed  a 
lui  si  deve  la  lode  d'aver  introdotto  nel  nostro  Foro  l'uso  di  disputare,  ed 
interpretar  le  leggi  de'  suoi  principi:  egli  cominciò  a  dar  notizia,  ed  a  porre 
innanzi  i  più  culti  scrittori,  come  Cujacio,  Duareno,  Fabro,  l'Ottomano, 
etc,  in  quel  tempo  o  non  conosciuti  o  riputati  poco.  Era  oltre  a  ciò  dili- 
gentissimo  nell'esame  de'  fatti,  laonde  in  ciò  poco  si  affidava  a'  procura- 
tori, leggendo  «sso  e  rileggendo  minutamente  i  processi  :  per  la  qual  cosa 
per  concessione  delli  stessi  avvocati  suoi  emuli  era  formidabile  nel  difen- 
der le  cause  e  nell'orare  ;  e  siccome  quello  che  avea  già  letti  i  poeti,  l'isto- 
rici e  gli  oratori,  così  latini  come  italiani,  era  felice  nella  copia  e  prontezza 
delle  parole,  e  ne'  varj  lumi  delle  lingue.  Accoppiava  a  tutte  queste  virtù 
un'audacia  grande,  veemente  nel  dire,  di  rado  si  stancava  per  molto  che 
avesse  orato.  Si  lasciava  nondimeno  assai  trarre  nelle  digressioni,  sicché 
spesso  parlava  fuori  della  casa,  e  la  voce,  oltre  che  sonora  e  piena,  era 
nondimeno  aspra  e  feroce.  Le  sue  orazioni  furon  da  lui  dettate  nell'una 
e  nell'altra  lingua,  anzi  io  credo  ch'egli  incominciasse  il  primo  a  scriverle 
in  italiano.  Le  latine  o  niente  o  poco  sono  migliori  della  lingua  di  quegli 
avvocati  suoi  coetanei  scritte  in  latino  rozzo  e  barbaro.  La  locuzione  delle 
sue  orazioni  italiane  è  propria,  non  affettata  né  oscura  :  potrebbe  essere 
bensì  più  pura,  anche  per  quello  che  si  conviene  all'uso  del  Foro.  Ma  gli 
si  può  condonare  per  avventura  questo  difetto,  essendo  stato  egli  il  primo 
a  scriverle  nella  nostra  lingua  nativa.  L'orazione  da  lui  scritta  a  difesa 
dell'arte  chimica  [è  la  Difesa  del  Di  Capua]  è  più  eulta  nello  stile  ,  e  ba- 
stantemente pura  è  quella  che  fece  pel  Re  di  Spagna  nella  successione 
del  Brabante,  in  cui,  oltre  alla  dottrina,  ci  ravvisi  de'  più  bei  lumi 
dell'eloquenza». 

*  Ministro-magistrato. 
Anno  XLV.  11 


—  162  — 

gono  obbligazione  di  render  conto  delle  loro  azioni  che  al  re  nostro 
signore,  il  quale  è  lontano,  né  i  sig.ri  viceré  tengono  sopra  loro 
alcuna  giurisdizione,  la  loro  potestà  si  riconosce  tanto  maggiore 
quanto  é  più  indipendente,  talmente  che  nei  tempi  addietro  erano 
comunemente  chiamati  dii  terreni,  né  vi  mancavano  di  quei  che, 
men  superbi  che  sciocchi,  tal  titolo  se  l'arrogavano  come  dovuto, 
onde  nacque  il  ditterio  presso  le  male  lingue  che  erano  dii  terreni, 
cioè  diavoli,  perché  non  altri  che  i  diavoli  erano  dii  della  terra. 

E  se  è  grande  l'autorità  che  nella  nostra  città  attribuiscono  alli 
cavalieri  delle  Piazze,  perché  essi  soli  tengono  Tamministrazione 
delle  cose  pubbliche,  qual  diremo  esser  quella  de'  ministri,  che 
tengono  in  mano  il  governo  di  tutto  il  regno  e  che  esercitano  giu- 
risdizione sopra  le  medesime  Piazze  ? 

Autorità  sì  grande  é  particolarmente  quella  dei  reggenti,  che  in- 
tesi una  volta  dire  da  un  uomo  pratico  della  Corte  di  Roma  che, 
tolta  la  facoltà  di  eleggere  il  papa,  la  stimava  meglio  di  quella  dei 
cardinali,  i  quali  non  sono  niente,  se  non  quando  vuole  il  papa  o  i 
nipoti  del  papa;  ciò  che  non  andava  così  de'  nostri  reggenti,  i  quali 
avevano  autorità  propria,  ed  i  medesimi  signori  viceré  avevano 
bisogno  di  loro^. 

E  benché  oggi  quest'autorità  sia  assai  diminuita,  perché  dopo 
le  rivoluzioni  del  1647  é  andata  sempre  crescendo  l'autorità  del 
viceré,  e  per  conseguenza  han  fatto  mancare  quella  dei  reggenti  2, 
non  é  perciò  che  non  1'  abbian  fatta  crescere  per  un'  altra  via, 
poiché  per  fare  quello  che  vogliono,  e  per  giustificarlo  in  Spagna, 
si  servono  della  loro  consulta  :  onde  se  é  mancata  in  universale, 
è  cresciuta  in  particolare. 

Per  la  qual  ragione  essendo  che  ordinariamente  dall' avvocazione 
si  passa  al  ministero,  e  da  quello  poi  per  gradi  si  ascende  al  reg- 
gentato,  non  è  maraviglia  che  i  cavalieri    delle   Piazze  non  altra 

'  A  questo  proposito  basterà  citare  per  tutti  la  testimonianza  di  G.  B. 
Vico,  Scienza  nuova,  ed.  F.  Nicolini,  Bari,  1916,  III,  1011  sg.  :  «  Dei 
...parlamenti  eroici  serba  un  gran  vestigio  il  Sagro  Consiglio  napoletano,  al 
cui  presidente  si  dà  titolo  di  '  Sagra  Regal  Maestà  ',  i  consiglieri  s'appellano 
milites  [in  realtà  si  chiamavano,  come  a  ragione  osserva  il  Nicolini,  sena- 
tores],  e  vi  tengono  luogo  di  commessali...  e  dalle  di  lui  sentenze  non  v'è 
appellazione  ad  altro  giudice,  ma  solamente  il  richiamo  al  medesimo  tribu- 
nale ».  Notissimo  era  il  detto  :  «  Auctoritas  S.  R.  Consilii  me  terret  ».  Cfr. 
Cenni,  Napoli  e  l'Italia,  considerazioni,  Napoli,  1861,  pp.  19-20. 

2  Per  la  storia  di  questo  periodo  cfr.  Schifa,  La  cosi  detta  rivoluzionei 
di  Masaniello,  Napoli,  1918,  estr.  Arch.  stor.  Nap.,  n.  s.,    II-III. 


163 


cosa  invidiano  che  questa  facilità  di  potere  dall'awocazione  ar- 
rivare al  ministero.  Onde  il  sig.  D.  Diego  Capecelatroi,  figliuolo 
del  reggente  2,  che  era  mio  grande  amico,  ed  eravamo  contrari 
neir Accademia  3,  quando  io  fui  fatto  fiscale  di  Chieti  mi  disse 
che  se  ne  rallegrava,  perchè  tra  poco  tempo  non  sarebbe  stato  cosi 
facile  a  quei  che  non  erano  di  Piazza  ascendere  al  ministero,  per- 
chè correva  un  arcano  tra  la  nobiltà  di  applicarsi  tutti  alla  profes- 
sione legale  per  metter  tutti  in  mano  loro  i  posti  di  toga  :  sicché  tra 
pochi  anni  tutti  i  ministri  sarebbero  stati  cavalieri,  intendendo  per 
cavalieri  i  soli  nobili  delle  Piazze,  per  lo  bisogno  che  diceva  avean 
di  loro  i  Spagnuoli.  Ed  in  effetto  in  quel  tempo  si  ritrovarono 
quattro  reggenti  italiani  tutti  di  Piazza  :  il  reggente  Sanf elice  della 
Piazza  di  Montagna,  ed  i  reggenti  Galeota,  Caracciolo  e  Capece- 
latro,  tutti  di  Capuana,  oltre  il  segretario  del  regno,  il  duca  di 
Caivano,  della  medesima  Piazza,  che  valeva  più  egli  solo  che  tutto 
il  Collaterale  unito. 

Ed  è  stata  grazia  di  Dio  che  questo  pensiero  la  nobiltà  delle 
Piazze,  dopo  le  rivoluzioni,  non  l'abbiano  posto  in  esecuzione,  e 
per  difetto  di  abilità,  e  per  abborrimento  dalla  fatica,  o  perchè, 
cessata  Toccasione  di  concorrere  air  imposiz.'one  delle  gabelle,  si 
videro  chiusa  quella  strada  per  la  quale  stimavano  che  gli  Spa- 
gnuoli avessero  di  bisogno  di  loro;  con  che  si  è  mantenuto  aperto 
Tadito  come  prima  a  tutti  gli  ordini  delle  persone  di  Piazza,  fuori 
di  Piazza  del  popolo,  ed  anco  del  regno,  di  giungere  alla  supre- 
ma dignità,  così  del  reggentato,  come  di  tutti  gli  altri  posti  supre- 
mi, e  nel  Sacro  Consiglio,  e  nella  Regia  Camera.  Onde  di  tanti  posti 
vacanti  dopo  la  rivoluzione,  che  sono  stati  moltissimi,  come  non 
poteva  esser  di  meno  tra  lo  spazio  di  quarantotto  anni,  veggiamo 
non  esserne  stati  occupati  più  che  cinque  soli  da'  cavalieri  di  Piazza: 
il  sig.  D.  Trojano  Miroballo  oggi  reggente,  i  consiglieri  Scondito, 
Caracciolo,  Muscettola,  Brancaccio  ;  e  tutti  gli  altri  li  troveremo 
o  nobili  fuori  di  Piazza  o  del   popolo. 

E  se  ci  restringeremo  ai  soli  reggenti,  vedremo  che,  di  ventidue 
che  sono  stati  creati  da  detto  tempo  delle  rivoluzioni  sin  oggi, 
non  vi  sono  stati  più  di  quattro  di  Piazza,  tre  dei  quali  erano  già 
ministri  prima  delle  dette  rivoluzioni:  il  reggente  Galeota  figliuolo 

^  Diego  Capecelatro,  «  di  grandissime  speranze  »,  avviato  all'  avvoca- 
zione,  ma  morto  giovanissimo. 

=  Ettore  Capecelatro,  per  il  quale  cfr.  Avvertimenti,  §  12. 
'  L'accademia  degli   Oziosi. 


—  164  — 

del  primo,  il  reggente  Muscettola  che  era  decano  del  Sacro  Consiglio, 
ed  i  due  Miroballo  zio  e  nipote  ;  e  gli  altri  diciotto  tutti  fuori  di 
Piazza  :  Cacace,  Brandolino,  Marciano,  Aquino,  De  Marinis,  Capo- 
bianco,  Cala  e  Taltro  Marciano,  De  Philippis,  Gaeta,  Fiorillo,  Pe- 
trone,  Moles,  Provensale,  Raetano,  De  Risi,  il  nostro  reggente  ^  ed 
ultimamente  Andreasso  ;  poiché  due,  Gaeta  e  Moles,  erano  stati 
creati  reggenti  pria  che  fusse  uno  reintegrato  al  Sedil  di  Porto,  l'a- 
tro aggregato  a  quello  di  Portauova  ;  e  tutti  erano  stati  avvocati 
e  figli  di  avvocati,  e  tra  loro  alcuno  datosi  air av vocazione  da  stato 
poverissimo,  e  taluni  da  vilissima  nascita  :  che  V  awocazione  le 
persone  vili  rinnalza,  le  mediocri  illustra,  ed  anco  quelle  che  sono 
della  prima  nobiltà. 

Ma  perchè  gli  esempi,  quando  non  sono  descritti  con  tutte  le 
loro  circostanze,f anno  negli  animi  di  chi  legge  picciola  impressione, 
questa  scrittura  io  la  fo  perché  abbia  da  conservarsi  segreta  tra  le 
pareti  private  dei  nostri  posteri,  a'  quali  gioverà  sapere  molte  no- 
tizie che  al  presente  si  sanno  da  pochi,  e  tra  pochi  anni  non  si  sa- 
pranno da  nessuno,  —  ed  essendo  la  nostra  casa  arrivata  al  su- 
premo onore  del  reggentato,  par  bene  che  non  solamente  sappiano 
per  quali  vie  ci  é  pervenuta,  ma  assieme  per  quali  vie  ci  sono  per- 
venuti tutti  gli  altri  reggenti  italiani  che  sono  stati  a  mio  tempo. 
Ho  stimato  perciò  descrivere  puntualmente  le  loro  qualità  ed  il 
loro  stato,  così  per  quello  ch'erano  prima  che  ascendessero  al  mi- 
nistero, come  per  quello  nel  quale  lasciarono  dopo  la  morte  le 
case  de'  loro  successori:  dal  vero  stato  di  ciascheduna  delle  quali 
potranno  i  nostri  figli  ricevere  ottimi  documenti  come  debbano 
guidarsi  nella  condotta  della  loro  vita.  Non  lasciando  di  andar  anco 
ricordando  di  passo  in  passo  il  sito  nel  quale  era  la  nostra  casa,  da 
che  io  cominciai  ad  aver  l'uso  della  ragione,  e  come,  dalla  depressione 
nella  quale  allora  si  ritrovava,  si  è  andata  a  poco  a  poco  continua- 
mente sollevando,  finché  é  arrivata  allo  stato  nel  quale  al  presente 
si  ritrova,  perché  tal  notizia  serva  a  loro  come  di  specchio  per  rav- 
visarsi l'uno  e  l'altro  stato  della  prospera  e  dell'avversa  fortuna, 
e  sappino  che  se  continueranno  la  medesima  strada  che  abbiamo  te- 
nuta noi, —  ciò  che  a  loro  sarà  più  facile  perché  avranno  maggior 
comodità, —  le  cose  non  potranno  non  andare  continuamente  bene; 
ed  all'incontro  se  vorranno  abbandonarla,  tutto  quel  che  si  è  fatto 
non  servirà  per  niente,  e  si  esporranno  a'  medesimi  rischi  ne'  quali 
vedranno  esser  cadute  altre  case  di  reggenti  assai  migliori  di  ric- 

*  Allude  a  suo  fratello. 


—  165  — 

chezza  che  non  è  la  nostra.  E  la  qualità  della  nascita  senza  le  ric- 
chezze non  servirà  a  loro  che  per  maggior  pena,  quando  non  la  po- 
tranno sostenere  con  il  dovuto  decoro. 

§  4.  —  La  casa  del  sig.r  reggente  Scipione  Rovito. 

Comincio  pertanto  in  primo  luogo  dalla  casa  del  sig.  reggente 
Rovito  perchè,  ancorché  lui  fosse  morto  alcuni  anni  prima  che  io  mi 
addottorassi  i,  non  lasciai  però  di  conoscerlo  negli  anni  della  prima 
mia  puerizia.  Anzi  diluirne  ne  stanno  sì  vivamente  impresse  nella 
memoria  le  specie,  che  non  ho  possuto  mai  scordarmene,  perchè 
continuamente  passava  sotto  le  finestre  della  nostra  casa,  quando 
scendeva  dalla  sua  villa  di  Capodimonte,  e  continuamente  mi  era 
proposto  per  idea  dal  nostro  buon  padre,  perchè  avessi  dovuto  imi- 
tarlo nello  studio  e  nella  gravità  de'  costumi,  per  poter  ascendere 
alla  medesima  dignità. 

Mi  aveva  in  quel  tempo  nostro  padre  dalla  città  di  Ravello,dove 
io  nacqui  e  dove  mi  aveva  allevato  in  casa  della  nostra  sig.ra  madre 
sin  air  età  di  otto  anni,  condotto  seco  in  Napoli  per  farmi  attendere 
ad  imparar  la  grammatica,  edavea  preso  casa  nel  Borgo  delle  Vergi- 
ni nella  strada  maestra,  per  la  quale  si  sale  a  Capodimonte;  appunto 
quella  casa  che  fu  pochi  anni  dopo  comprata  dal  sig.  D.  Giuseppe 
Caracciolo,  ed  abbiamo  veduta  a'  nostri  tempi  abitata  dal  sig.  con- 
sigliere Caracciolo  di  lui  figlio  :  e  fu  appunto  nel  tempo  che  venne 
l'avviso  della  morte  del  re  di  Svezia,  Gustavo  Adolfo  2.  E  per  sotto 
le  nostre  finestre  passava  continuamente,  come  ho  detto,  il  sig. 
reggente  Rovito,  quando  scendeva  dal  suo  Capimonzio  ^  onde  ave- 
va spesso  occasione  di  osservarlo:  uomo  veramente  degno  di  am- 
mirazione, e  che  può  servire  per  esempio  di  quello  che  può  dare  la 
professione  di  avvocato  senz'altra  prerogativa,  che  del  proprio- 
merito,  così  nella  buona,  come  nella  cattiva  fortuna. 

Venne  egli  in  Napoli  da  Tortorella  sua  patria,  piccola  terric- 
ciola nella  provincia  di  Basihcata*,  e  visse  molti  anni  in  vilis- 
simo  stato,   esercitandosi  nella  procura  ;  ma  essendo  uomo  di  molta 

'  Il  Rovito  morì  nel  1636  ;  il  D'Andrea  si  addottorò  nel   1642. 

*  Gustavo  Adolfo  il  Grande  fu  ucciso  nella  battaglia  di  Lutzen  il 
16  novembre  1632. 

'  Ai  tempi  del  D'Andrea  si  andava  a  Capodimonte  per  la  strada  dei 
Vergini,  che  la  grande  via  pel  ponte  della  Sanità  è  del  tempo  murattiano. 

*  Più  propriamente  in  prov.  di  Salerno,  ciré,  di   Sala    Consilina. 


—  166  — 

fatica  nello  studio,  e  di  gran  puntualità  ed  integrità  di  vita,  comin- 
ciò a  poco  a  poco  a  difendere  qualche  causa,  e  die  in  luce  i  suoi  primi 
Commentar]  sulle  prammatiche'^^  ne*  quali  non  sdegnò  in  quei 
principi  di  ponere  il  nome  della  sua  patria,  come  che  poi  nella  se- 
conda edizione  si  chiamasse  napolitano.  Prese  con  ciò  qualche 
nome,  si  pose  in  posto  di  avvocato,  patrocinò  molte  cause  dei 
primi  signori  del  regno,  come  da*  suoi  volumi  de*  Consigli^,  e 
fé*  per  conseguenza  nobil  acquisto  di  fama  e  di  ricchezza. 

Difendendo  la  causa  della  successione  dello  stato  di  Bisignano  in 
Collaterale,  a  favore  del  conte  della  Saponara  alla  presenza  del  sig. 
conte  di  Benavente  3,  nella  quale  si  supponeva  fattosi  un  decreto 
a  suo  favore,  di  cui  fosse  stata  dal  viceré  impedita  la  pubblicazione, 
ardì  di  dire,  che  se  quelle  mura  avessero  potuto  parlare,  avreb- 
bero attestata  la  verità  di  quel  che  diceva:  del  che  sdegnato  fie- 
ramente il  viceré  sonò  il  campanello  e  pretese  che  si  dovesse  tagliarli 
la  testa,  o  come  ad  impostore,  se  il  fatto  non  era  vero,  o  come  avesse 
ardito  di  pubblicare  un  decreto,  che  il  viceré  ed  il  Collaterale  avea 
stimato  doversi  tener  occulto  *.  Onde  il  Collaterale,  per  dar  tempo 
che  lo  sdegno  sfogasse,  consultò  che  dovesse  mandarsi  addirittura 
in  galera,  e  così  fu  eseguito,  mentre  egli  con  tempestiva  costanza, 
consultato  dagli  amici  a  porsi  in  salvo,  non  volle  partirsi  dalFan. 
ticamera,  ditendo  di  non  aver  fallato,  e  che  dovevano  aspettare  la 
risoluzione  del  Collaterale;  della  quale  dolutosi  egli  poi,  come  vi  fus- 

*  RoviTi,    Pragmaticarum  regni  Neapolis  commentaria,    Venetiis,  1590. 
^  RoviTi,  Consilia  seu  juris  responso,  Neapoli,  1622,   n.  XI. 
'  Il  conte  D.  Giov.  Alfonso  Pimendel  d'  Errerà  conte  di  Benavente  fu 

viceré  in  Napoli  dal  1603  al   1610. 

*  Lo  Schifa,  Da  povertà  plebea  ad  una  corona   ducale,   Venezia,    1914,. 
(estr.  dalla  raccolta  :  In  memoria  di  Giov.  Monticolo),  pubblica   una  bio- 
grafia del  Rovito,  estratta  dal  ms.  XXII.  C.  6.  della  S.S.N.,  che  ha  molti; 
punti  di  rassomiglianza  con  il  presente  paragrafo  degli  Avvertimenti.  L'ano- 
nimo scrittore  narra  con  maggiori  particolari  questo  episodio.  Il  Rovito' 
difendeva  il  conte  della  Saponara  Sanseverino  che  pretendeva  la  succes- 1 
sione  dello  stato  di  Bisignano  ;  il  Benavente,  data  l'importanza  della  cau- 
sa,  dispose  che  il  Sacro  Consiglio  avesse  riferito  il  suo  parere  in  Colla-' 
terale;  quello  e  questo  diedero  ragione  al  Rovito.  Ma  il  viceré  ordinò  che 
il  decreto  non  fosse  pubblicato,  in  attesa  della  risposta  del  re  di   Spagna 
cui  aveva  scritto.    Il  Rovito,   allora,   discutendosi  in  Collaterale  un'altra; 
causa,  rivolse  amare  parole  al  viceré,  e  indicando  gli  arazzi  che  adorna- 
vano le  pareti  soggiunse  che  se  avessero   potuto  parlare  avrebbero  ri-j 
velato  la  verità.   Sembra  che  gli  arazzi  fossero  stati  comprati  con  denaroj 
avuto  dalla  parte   soccombente. 


—  167  — 

sere  concorsi  alcuni  reggenti  amici  suoi,  li  si  fu  fatto  intendere, 
ch'egli  non  sapeva  il  pericolo  che  avea  passato  i.  Fu  visitate  nella 
galera  da  tutta  la  sua  clientela,  facendo  tutti  a  gara  in  quella  di- 
sgrazia di  maggiormente  onorarlo  2,  e,  benché  se  li  ponesse  il  ferro 
al  piede,  mi  diceva  nostro  padre  che  non  fu  raso  come  gli  altri  : 
onde  liberato,  dopo  placato  il  viceré,  di  là  a  pochi  giorni  3,  seguitò 
la  sua  avvocazione  con  maggior  fama,  e,  per  ostentazione  di  costan- 
za, quando  stampò  i  Consigli,  i  primi  in  ordine  di  tempo  pose  quei 
che  aveva  scritti  nella  detta  causa.  E  dopo  fatto  consigliere,  essen- 
do andato  in  casa  del  già  reggente  Costanzo  *  marchese  di  Corleto, 
per  eseguire  una  risulta  della  visita  incaricatali  dalla  Corte,  ed  es- 
sendoseli rinfacciato  dalla  vedova,  marchesa  di  Corleto^,  come 
avesse  tanto  ardire  in  casa  sua  un  galeotto,  rispose  non  ver- 
gognarsi di  esser  andato  in  galera  per  sdegno  di  principe,  ma 
che  si  sarebbe  ben  vergognato  se  ne  fusse  stimato  degno  per 
mariolo. 

Fu  fatto  consigliere  del  sig.  conte  di  Lemos^  successore  del 
Benavente  con  altri  tre  celebri  avvocati,  a'  quali  fé*  venire  i  privi- 
legi, senza  che  ne  avessero  alcuna  antecedente  notizia,  Gio.  Batta 
Megliore,  Ferrante  Branda  e  Camillo  Villano;  e  di  là  alcuni  anni 
passò  in  Camera,  fu  promosso  alla  suprema  dignità  di  reggente, 
esercitata  da  lui  con  fama  forse  di  soverchia  autorità,  poiché  nella 


*  Fu  condannato  a  tre  mesi  «  di  galera  a  disposizione  di  S.  E.  ».  «  Intese  la 
ria  novella  di  sua  condanna,  immediatamente  con  intrepidezza  d'animo 
grande  calò  dalle  scale  e  con  proprii  piedi  pertossi  nel  molo,  senza  però  guar- 
dia di  sbirri,  ma  col  solo  accompagnamento  di  un  capitano  spagnolo,  che  tro- 
vavasi  con  altri  ufficiali  a  passeggiare  avanti  a  la  Real  Casa,  e  fu  posto  alla 
poppa  di  una  galea  con  picciol  ferro  al  piede,  senza  catena  e  senza  che  li 
fusse  raso  il  capo  ».  Così  I'Anonimo,  ed.  Schifa,  p.  162. 

2  Narra  1'  Anonimo,  ed.  Schifa,  p.  162,  che  in  quei  giorni  tennero  con 
lui  carteggio  «  i  primi  signori  e  le  dame  clienti  di  sì  grande  avvocato  »,  e  spesso 
gl'inviavano  regali  di  viveri  e  di  vini  scelti,  di  cui  sapevano  ben  ghiotto  il 
Rovito. 

'  Venti  giorni  secondo  I'Anonimo,  ivi. 

*  Fulvio  di  Costanzo,  marchese  di  Corleto. 

^  Lucrezia  Carafa  de'  principi  della  Roccella,  già  vedova  d' Ippolito 
Sanseverino,  signore  di  S.  Donato  :  cfr.  Capecelatro,  Annali,  Napoh, 
1849,  pp.  64  segg.,  che  la  disse  «  donna  superba  e  di  ritrosi  costumi  »,  e 
Schifa  cit.,  p.  162. 

"  Il  conte  di  Lemos  succedette  al  Benavente  nel  1610  e  rimase  a 
Napoli  sino  al  1616. 


168 


morale  affettava  essere  seguace  della  dottrina  delli  Stoici,  come 
Pietro  Lasena  i,  eh'  era  suo  amico,  attestò  al  sig.  Camillo  Pelle- 
grino 2,  da  chi  io  poi  Tintesi. 

Ma  il  vigore  che  usava  con  altri  non  seppe  osservar  nella  sua  casa, 
poiché,  benché  avesse  più  figlioli,  non  ebbe  per  la  loro  troppo  in- 
dulgente educazione  di  molto  rallegrarsi  d'  averli  avuti  tra  di 
essi,  divenuti  più  famosi  per  gli  proprj  vizi  che  per  le  paterne 
virtù.  Talmente  che,  venuti  tra  di  loro  a  contesa  per  causa  poco 
onesta,  uno  si  rese  omicida  delT altro,  sì  che  il  Rovito  per  dolore 
e  vergogna  ne  cadde  in  terra  tramortito,  ben  che  per  affettar  il  stoi- 
cismo non  lasciasse  il  medesimo  giorno  di  negoziare  3.  Ed  a  que§to 
proposito  mi  ricordo  una  strofa  che  il  sig.  D.  Camillo  Colonna,  che 
fu  mio  gran  signore,  e  sotto  i  suoi  auspicj  ebbi  Tonore  nella  mia 
adolescenza  di  apprendere  i  primi  lumi  della  vera  letteratura,  fé' 
in  una  sua  satira  che  per  ischerzo  compose  contro  un  suo  parente 
cavaliere,  moteggiandolo  per  certo  giovane  a  lui  grato  che  dal  reg- 
gente Rovito  come  delegato  de*  vagabondi  era  stato  impiccato  in 
galera  : 


^  Su  Pietro  Lasena  cfr.  la  vita  che  ne  scrisse  J.  J.  Bouchard,  Roma, 
1637  ;  per  la  quale  vedi  L.  Marcheix,  Un  parisien  à  Rome  et  à  Naples  en 
1632  d'après  un  manuscrit  inedit  de  J.  J.  Bouchard,  Paris,  E.Leroux, 
s.  a-,  p.  95.  D'origine  francese,  (il  padre,  Lésin,  era  stato  un  orologiaio 
di  Longjumeau),  godè  gran  nome  in  Napoli  sino  al  1636,  nel  quale  anno  morì 
in  Roma.  Giureconsulto  e  filologo,  riceveva  la  miglior  parte  della  nostra 
città  nella  sua  casa  di  Napoli  e  nella  sua  villa  di  Sorrento,  e  poneva  a  loro 
disposizione  «une  petite  bibliothèque  aussi  complete  et  aussi  remplie  de 
bons  rares  livres  qu'  aucune  autre  à  Naples  ni  à  Rome  »,  come  riferisce 
il  Bouchard,  che  gli  fu  molto  amico  (Marcheix  cit.,  p.  95;  cfr.  L.  Cambini, 
in  Arch.  stor.  Nap.,  XXXII,  1907,  pp.  842  sgg.).  Il  Bouchard  stesso,  op. 
cit.,  p.  97,  accenna  alla  profonda  amicizia  che  legava  il  Lasena  con  il  Pel- 
legrino. Per  alcune  lettere  del  Lasena  cfr.  S.  S.  N.,  ms.  XXI.  A.  9. 

2  Per  Camillo  Pellegrini  cfr.  il  cit.  ms.  della  S.  S.  N.,  ove  conservansi 
i  numerosi  documenti  raccolti  da  F.  Daniele  per  una  sua  biografia,  che  non 
vide  mai  la  luce.  Anche  egli  fu  amico  del  Bouchard,  e  cfr.  la  nota  del 
Marcheix  a  p.  97. 

3  Narra  I'Anonimo  cit.,  p.  164,  che  il  fratricidio  fu  commesso  alla  pre- 
senza del  padre,  il  quale  cadde  svenuto.  Riavutosi,  fece  fuggire  l'omicida 
verso  Roma  per  salvarlo,  e  posto  il  morto  in  altra  stanza  diedesi  secondo  il 
solito  a  negoziare,  «  dicendo  agli  amici  che  lo  dissuadevano  di  ciò,  che  pas- 
sandogli il  re  suo  padrone  il  soldo  in  quella  giornata   dovea   egli  servirlo  ». 


—  169  — 

Scipion  Rovito,  che  d'un  vizio  tale 
Era  a  ragion  nemico,  poiché  a  scorno 
Due   figli  insanì,  ed  il  terzo  micidalc 
Fatto  gli  avea,  padre  infelice  al  mondo  ! 

A  Ferrante,  il  primogenito,  aveva  comprato  Tofficio  di  segre- 
tario del  regno,  che  sarebbe  stato  un  ottimo  mezzo  per  perpetuare 
la  sua  casa,  se  ne  avesse  pagato  il  prezzo,  e  non  fusse  stato  però 
obbligato  a  cederlo  al  duca  di  Galvano  ^  allora  avvocato,  che  sep- 
pe imbrogliarlo  di  maniera  che  non  solo  non  potè  ricuperare  la 
parte  del  prezzo  da  lui  sborsato,  ma  non  potè  nemmeno  arrivare  a 
liquidargli  Tistrumento,  benché  si  dicesse  che  a  questo  effetto  fa- 
cesse fare  quella  prammatica  cosi  rigorosa  dal  Collaterale  circa  la 
liquidazione.  Invece  del  segretariato  comprò  per  lo  suo  figliuolo 
la  terra  di  Castelsaracino,  e  fattosi  vincere  dall'ambizione,  malgrado 
il  suo  stoicismo,  volle  mettere  la  casa  in  signoria,  ottenuto  il  ti- 
tolo di  duca  sopra  di  essa;  onde  sopra  la  porta  della  sua  casa,  nella 
strada  di  S.  Maria  Maggiore,  non  senza  nota  di  molta  vanità,  per- 
mise si  mettesse  la  corona,  che  ancora  oggi  si  vede,  con  derisione 
di  tutti  quei  che  si  ricordavano  della  tenuità  del  suoi  principi  2. 

Solo  in  pregiudizio  della  sua  casa  ostentò  la  stoica  costanza, 
quando  divenne  già  vecchio  travagliato  da  molte  infermità,  sic- 
ché malamente  poteva  adempire  l'obbligazione  del  suo  posto. 
Avendoli  il  sig.  conte  di  Monterey  ^  fatto  offrire  una  piazza  di 
presidente  di  Camera  per  Alessandro  altro  suo  figlio,  ch'era  fiscale 
di  provincia,  quando  si  fosse  disposto  ad  accettare  la  giubilazione 
sua  di  reggente,  perchè  desiderava  di  sostituire  in  di  lui  luogo  il 
consigliere  Andrea  de  Gennaro,  non  volle  accettarla,  risponden- 
do :  «  E  la  perdita  fia  morte  e  non  scorno  ». 

Con  che  morto  di  là  a  non  molto  di  ottant'  anni  *,  lasciò  la  sua 
casa  senz'  appoggio  ed  in  stato  miserabile,  non  avendoli  la  corona 
sopra  1'  arma  servito  che  per  maggior  vergogna,  avendo  io  cono- 
sciuto il  suo  non  so  se   figliuolo  o  nipote  dopo  le  rivoluzioni,  che 

l'Giov.  Angelo  Barile,  duca  di   Galvano. 

*  Il  Rovito  comprò  il  palazzo  d'  Arpaja,  (di  fronte  al  campanile  della 
Pietrasanta  o  S.  Maria  Maggiore),  che  era  stato  già  del  Fontano:  oggi  è 
interamente  rovinato.  Cfr.  Beltrano,  Descrizione  del  regno  di  Napoli, 
Napoli,  1640,  p.  206  ;  e  Capasso,  in  Strenna  Giannini,  Napoli,  1892, 
pp.   97-104. 

=*  Il  conte  di  Monterey  fu  viceré  in  Napoli  dal  1631  al  1637. 

«  Mori  ni  luglio  1636;  era  nato  nel  1556. 


170 


veniva  alla  conversazione  in  casa  del  sig.  Mario  Rota^  in  abbiet- 
tissima fortuna,  e  col  volto  tutto  macchiato  da  una  scoppettata 
di  pallini,  che  li  fu  tirata  dentro  la  propria  casa,  per  occasione 
della  moglie,  che  fu  una  signora  spagnola,  che  rapportò  più  in- 
famia colla  sua  impudicizia,  che  onore  colla  nobiltà  della  famiglia. 
Sicché  di  tanti  figliuoli  del  reggente  non  vi  è  rimasta  oggi  alcuna 
memoria,  ciò  che  non  sarebbe  accaduto  se, in  cambio  di  titoli  ed  al- 
tre vanità,  avesse  procurato  che  ,vivendo  i  figliuoli  con  modestia  ed 
istradandosi  per  la  via  della  virtù,  avessero  seguitate  le  sue  mede- 
sime pedate,  e  continuando  la  via  dell' avvocazione  e  della  toga 
avessero  atteso  ad  aumentare,  non  a  distruggere,  il  di  loro  patri- 
monio, non  bastando  una  vita  sola  a  poter  fondare  una  casa,  che 
abbia  ad  aver  durazione^. 

§  5.  —  Stato  della  nostra  casa  dopo  che  dal  borgo  delle  Vergini 
passammo  ad  abitar  dentro  Napoli ,  e  male  indirizzo  che  ebbi 
nelle  vie   delle  scienze  sino  al  mio  dottorato. 

Morì  il  reggente  Rovito  nel  1636,  e  quasi  nel  medesimo  tempo 
che  ci  eravamo  partiti  dal  Borgo  delle  Vergini  per  venire  ad  abi- 
tare dentro  Napoli,  mossosi  a  ciò  fare  nostro  padre  per  trovarsi 
più  vicino  ai  Tribunali,  avendo  già  cominciato  ad  acquistare  al- 
cuni pochi  negozi,  e  per  provvedermi  di  miglior  maestro  nella  gram- 
matica. Ci  presimo  casa  nella  calata  di  s.  Giovanni  a  Carbonara  3, 
nella  casa  ancor  oggi  detta  della  joiemaf  per  un  arbore  di  joiema  * 

*  Per  Mario  Rota,  dì  antica  famiglia  sorrentina,  amioo  del  Lasena,  del 
Pellegrino,  frequentatore  della  Libreria  della  Junta,  «  autrefois  très  beau 
garfon  et  qui  avait  un  très  gentil  esprit,  »  presidente  deirAccademia  degli 
Incauti^  come  racconta  il  Bouchard  ,   cfr.  Marcheix  cit.,  p.  100. 

*  Sui  figli  di  Rovito  cfr.  Capaccio,  //  forastiero,  pp.  614-15.  Ne  ebbe 
16,  ma  ne  sopravvissero  6  :  Alessandro  fiscale  di  Calabria  «  con  fama  che 
si  accosta  a  quella  del  padre  »  ;  Ferrante,  padrone  del  Capaccio,  grande 
avvocato,  giudice  criminale,  segretario  del  regno,  duca  di  Castelsa- 
raceno  ;  Fabrizio  capitano,  che  fece  la  campagna  di  Valtellina;  Annibale 
gesuita,  «  chiaro  per  lettere,  integrità  e  ogni  altra  virtù»  ;  Orazio  Cap- 
pellano Regio  e  poi  abbate  Concistoriale  dell'  abbadia  di  S.  Angelo  a 
Raparo.  Ma,  evidentemente,  ii  Capaccio  era  troppo  interessato  per  dire 
la  verità. 

2  La  via  S.  Giovanni  a  Carbonara  è  vicinissima  a  Castel  Capuano,  sede 
dei    Tribunali. 

*  In  dialetto  napoletano  joicma= giuggiola. 


I 


171 


assai  antico  che  stava  al  principio  d'un  cortile  assai  lungo  con 
altri  arbori  ed  impergolata  che  rendeva  assai  vaga  l'entrata  ;  tal- 
mente che  il  marchese  di  Villa,  principe  allora  degli  Oziosi,  es- 
sendo venuto  a  visitarci  per  ragione  di  nostro  zio  ^,  che  era  della 
sua  Accademia,  la  rassomigliò  alla  casa  di  Evandro  presso  Virgilio, 
alla  quale  si  entrava  per  un  lungo  viale  di  arbori  ;  come  che  oggi, 
per  essersi  fabbricate  alcune  altre  stanze,  il  cortile  si  sia  assai  ri- 
stretto. 

Passati  in  detta  casa,  essendo  io  in  età  di  dieci  anni,  nostro  padre 
mi  fece  entrare  nella  Congregazione  dei  PP.  Gerolomini,  dove  in 
breve  tempo  acquistai  nome  di  maestro  di  memoria,  poiché,  coli'  oc- 
casione di  dover  dire  attorno  quel  che  ciascheduno  di  noi  avea 
notato  nel  sermone  del  padre  della  Congregazione,  io,  quando 
toccò  a  me,  lo  ripetei  tutto  intero,  cosa  che  data  occasione  di  gran 
maraviglia  e  sparsane  la  fama  mi  facevano  spesse  volte  la  festa 
far  ripetere  il  sermone  che  il  P.  Antonio  Glielmi  faceva  nella 
Chiesa  le  domeniche  alla  presenza  di  molti  cavalieri  e  persone  par- 
ticolari, che  avean  gusto  di  sentirmi  ^.  Ciò  che  mi  pregiudicò  assais- 
simo per  l'acquisto  delle  scienze,  poiché  non  avendo  ancor  com- 
pito il  corso  della  grammatica,  mentre  si  stava  in  pensiero  di  man- 
darmi alla  scuola  de'  PP.  Gesuiti,  per  ivi  esercitarmi  nelli  studi 
dell'umanità  e  poi  avanzarmi  alla  logica  ed  alla  filosofìa,  nella 
quale  si  stimava  che  consistesse  a  quei  tempi  tutto  il  sapere,  ne 
fu  dissuaso  nostro  padre  dagli  amici,  per  tema  dicevano  che  i  PP. 
Gesuiti  conoscendomi  di  qualche  ingegno  avrebbero  procurato  di 
farmi  entrare  nella  loro  compagnia,  e  con  ciò  si  sarebbe  privata  la 
casa  dell'avanzamento  che  avrebbe  potuto  sperare  dalla  mia  riu- 
scita. E,  quel  che  fu  peggio,  ingannatosi  nostro  padre  da  quel  co- 
mune concetto  di  volgo,  che  per  riuscire  gran  legista  non  si  ricer- 
chi altro  che  memoria,  si  figurò  che  essendo  io  di  gran  memoria 
avrei  potuto,  se  mi  fussi  dato  subito  alla  legge,  guadagnare  danari 
fra  poco  tempo,  desiderio  di  quello  di  che  avea  maggior  bisogno. 
Onde,  fattomi  appena  finire  la  grammatica  e  malamente  in  una 
scuola,  che  i  PP.  Gerolomini  aveano  fatta  aprire  vicino  alla  loro 
casa  per  tutti  li  figliuoli  della  Congregazione,  mi  mandò  appena 
compito  l'undecimo  anno,nudo  d'ogni  disciplina  e  senza  cognizione 

*  Onofrio  d'  Andrea,  cui  abbiamo  accennato  parlando   della  famiglia 
lei  nostro. 

*  P.  Antonio  Glielmi  fu  fatto  dipoi  cardinale  :  Majou,  Vita  di  F  d  'An- 
irea,    p.    31. 


--  172  — 

di  lettere  umane,  allo  studio  della  legge;  ciò  che  cagionò  in  me  una 
tal  diffidenza  che,  tenendomi  meno  di  tutti  gli  altri,  non  mi  confidai 
mai  fare  alcun'azione  pubblica  in  tutti  quei  cinque  anni  che  mi 
fecero  perdere  inutilmente  in  scrivere  e  sottoscrivere  le  lezioni  della 
legge,non  considerando  che  la  legge  ricerca  un  giudizio  maturo,  e 
che  quell'età,  anco  per  insegnamento  di  Aristotile,  non  era  età  atta 
per  intendere  la  giustizia  ed  ingiustizia  dell'azioni  umane,  come 
sono  li  contratti,  le  doti,  i  testamenti  e  tutte  le  altre  cose,  attorno 
le  quali  si  raggira  tutta  la  nostra  giurisprudenza.  Onde  Tetà  di 
cominciare  ad  apprenderla  avrebbe  dovuto  essere  quella  appunto 
quando  io  la  finii,  poiché  allora  e  non  prima  cominciai  a  formarne 
qualche  concetto  ;  ed  intanto  tutti  quelli  anni,  se  avessi  avuto 
migliore  indirizzo,  avrei  potuto  impiegarli  a  perfezionarmi  nella 
lingua  latina,  nella  prosodia,  nella  rettorica  e  neiraltre  discipline 
che  sono  proprie  di  quella  età,  come  sono  anche  la  geometria, 
Taritmetica,  sebbene  ciò  non  sarebbe  stato  sperabile  in  quei  tempi 
ne' quali  la  loro  utilità  non  si  conosceva,  e  pur  necessarissima  tanto 
per  l'uso  della  vita  che  per  la  perfetta  cognizione  delle  altre  scienze, 
del  quale  mancamento  de'  miei  direttori  ebbi  poi  occasione  di  do- 
lermene per  tutta  la  mia  vita. 

Una  sola  cosa  fecero  di  buono,  nella  quale  però  ebbe  più  possa  il 
caso  che  il  consiglio,  che  essendo  stato  nostro  padre  discepolo  nella 
legge  di  Gio.  Domenico  Coscia,  detto  Coscietta,  calabrese,  che 
avea  un  infinito  numero  di  scolari,  ma  goffo  al  maggior  segno  e 
privo  di  ogni  sorta  di  erudizione,  mi  avrebbe  volentieri  mandato  da 
lui,  se  la  nostra  lontananza  di  casa,perchè  abitava  alla  Pignasecca, 
non  l'avesse  persuaso  a  mandarmi  da  Gio.  Andrea  di  Paolo,  che 
abitava  al  vico  de'  Giganti,  uomo  eruditissimo,  oratore  eccellente, 
e  con  chi,  dopo  Alessandro  Turamino,  di  chi  fu  discepolo,  può  dirsi 
ne'  nostri  studi  visse  e  morì  il  vero  modo  d'insegnare  ad  interpre- 
tare le  leggi;  dalla  cui  viva  voce,  dopo  che  fui  dottorato,  per  la  fa- 
miliarità che  con  lui  continuai,  appresi  la  vera  maniera  d'intendere 
le  leggi  per  i  loro  principj  e  di  sapere  distinguere  le  vere  opinioni 
de'  nostri  dottori  dalle  false,  studio  che  non,  come  il  volgo  crede, 
ricerca  solo  memoria,  o,  come  altri  dicono,  solamente  leggere,  ma 
assai  più  ricerca  ingegno  ed  un  giudizio  sopraffino. 

Stando  nella  detta  casa  della  joiema,  si  portò  in  Napoli  con 
tutta  la  casa  la  sig.ra  madre.  Onde  per  avere  casa  più  vicina  alla 
chiesa,  non  tenendosi  da  noi  in  quel  tempo  carrozza,  passammo  ad 
abitare  nella  casa  ultima  della  strada  di  S.  Gaudioso  incontro 
S.  Maria  delle  Grazie,  nella  quale  nacque  il  sig.  reggente,  che  solo 


—  173  — 

di  tutti  noi  altri  nacque  in  Napoli.  Ed  ivi  stemmo  tre  anni,  e  poi 
per  prendere  casa  più  grande  andammo  ad  abitare  a  Seggio  di 
Nido  nella  casa  di  Landulfl,  incontro  la  chiesa  di  D.  Romita.  Ivi 
compiti  già  cinque  anni  dello  studio  ed  i  diciassette  della  mia  età 
risolse  nostro  padre  di  farmi  dottorare.  Onde  il  primo  ministro 
che  io  conobbi  fu  il  reggente  Carlo  di  Tapia  marchese  di  Bei- 
monte,  decano  in  quel  tempo  del  Collaterale,  avanti  di  chi  fui  me- 
nato dal  duca  di  Caivano,  come  segretario  del  Regno,  per  ottenere 
la  dispensa  delFetà;  che,  interrogatomi  quanti  anni  io  teneva  e 
dettoglieli,  disse  che  ancor  egli  si  era  dottorato  della  medesima  età. 
E,  poi,  rivoltosi  al  duca  disse  :  Quantum  juniores,  tantum  perspi- 
caciores  i. 

Che  perciò,  dopo  aver  parlato  della  casa  del  reggente  Rovito, 
sarà  anche  bene  parlar  di  quella  del  reggente  Tapia,  e  di  altri  stati 
dopo  di  lui. 

§  6.  Della   casa    del  sig.   reggente    Carlo  di    Tapia    marchese   di 
Belmonte, 

Il  reggente  Carlo  di  Tapia  fu  forse  Tultimo  in  quei  tempi  dei 
Ministri  italiani,  che  arrivasse  a'  posti  grandi  senza  essere  pas- 
sato prima  per  Tavvocazione.  La  ragione  fu  perchè  egli,  benché 
nato  in  Lanciano,  —  onde  da  Lanciano  si  vien  vantato  come  lor 
cittadino,  e  nato,  come  essi  dicono,  da  una  signora  di  casa  Ric- 
cia nobile  della  medesima  città,  e  per  tal  ragione  fu  creato  con- 
sigliere in  piazza  italiana,  e  poi  reggente  in  piazza  sopranume- 
raria pure  italiana,  —  fu  così  per  padre  come  per  madre  spa- 
gnolo, come  nato  dal  presidente  di  Camera  Egidio   Tapia  ^   spa- 

*  Quale  età  occorresse  per  divenire  dottore  ce  lo  dice  il  Borzelli,  // 
cau.  G.B.  Marino,  Napoli,  1898,  p.  4.  Sino  al  1591  erano  obbligatori  17  anni, 
ma  dal  settembre  di  quell'anno,  «  per  levar  l'occasione  di  molti  abusi  »,  per 
ordine  del  viceré  conte  di  Miranda  ne  occorsero  21:  l'età  doveva  risultare 
da  regolare  fede  autentica  estratta  dai  libri  parrocchiali  ;  di  più  era  neces- 
sario dimostrare  di  essere  stato  «  immatricolato  veridicamente  e  di  aver  stu- 
diato per  ^nque  anni  ».  Da  ciò  che  dice  il  D'Andrea  appare  evidente  che 
era  ammessa  «  la  dispensa  dell'età  ».  Egli  si  addottorò  nel  1642. 

«  Egidio  Tapia,  giudice  di  Vicaria  Criminale  nel  1566,  della  Civile  nel 
1574,  dipoi  presidente  della  Sommaria;  cfr.:  Toppi,  De  origine,  ITI,  21,  48, 
113,  494,  e  in  genere  chi  scrisse  del  Aglio.  Fu  seppellito  nella  Chiesa  di 
S.  Giacomo,  e  Carlo  vi  pose  un  ricordo:  Croce,  Memorie  degli  Spagnuoli 
nella  città  di  Napoli,  in  Napoli  Nobilissima,  III,  11,  pag.  173. 


—  174  — 

gnolo,  padrone  delle  case  a  Toledo  dove  ancor  oggi  si  dice  il 
ponte  di  Tapia^,  il  quale  si  caso  in  Lanciano  con  Isabella  pur 
Tapia,  e  non  altrimenti  Riccia,  come  malamente  scrisse  il  Toppi 
nella  sua  seconda  parte  2,  seguitato  col  medesimo  errore  da 
D.  Niccola  Antonio  nella  sua  Biblioteca  Ispana^.  La  quale 
Isabella  fu  figliola  del  capitano  Francesco  Tapia  spagnolo,  che 
si  caso  in  Lanciano  con  Violante  Riccia,  famiglia  assai  nobile  in 
quella  città,  e  che  ebbe  due  figliole:  la  prima  maritata  con  il 
presidente  Tapia,  del  medesimo  casato  benché  di  altra  famiglia, 
e  la  seconda  con  il  marchese  di  Paglieta  Pignatelli,  terra  vicino 
a  Lanciano,  come  il  tutto  consta  dalla  decisione  261  del  presi- 
dente De  Franchis  *,  dove  Isabella  madre  del  reggente  vien  chia- 
mata Tapia  e  non  Riccia,  e  l'arbore  presentato  in  consiglio  nella 
lite  della  successione  al  maj orato  istituito  dal  reggente  tra  il 
duca  di  Diano  D.  Carlo  Cala  di  lui  pronipote,  e  de'  PP.  Teatini 
della  Casa  di  Loreto  5. 

Morì  il  presidente  Eggidio  lasciando  il  figliolo  assai  piccolo 
sotto  l'educazione  del  reggente  Ribera^  pure  spagnolo,  il  quale, 

^  Nel  1566-67  Egidio  Tapia  si  fece  costruire  una  casa  in  via  Toledo, 
all'angolo  della  strada  Baglivo  Uries.  Dipoi  nel  1574  acquistò  le  case  di 
A.  Genoino  e  di  F.  Mola:  ed  ivi  elevò  il  suo  palazzo.  E  poiché  una  via 
trasversale  lo  divideva  dalla  casa  edificata  precedentemente,  li  unì  col 
ponte  che  ancor  oggi  si  chiama  di  Tapia.  Cfr.  B.  Croce,  art.  cit.,  in 
Napoli  Nobilissima,  III,  7,  1894,  p.  110;  ed  A.  Colombo,  La  strada  di 
Toledo,  ivi,   IV,  7,  1895,  pp.  105-06. 

*  Toppi,  De  origine,  II,  59-60,  326-30. 

*  Antonio,  Bibl.  hispana,  1,   181-82. 

*  V.  DE  Franchis,  Decisiones,  Venezia,  1580,  n.  261. 

*  Appresso  dirà  il  D'Andrea  per  quali  motivi  spettasse  al  Cala  l'eredità 
del  Tapia.  La  nipote  di  questo,  D.  Marianna  de  Vargas  e  Tapia  marchesa 
di  S.  Vincenzo  e  Belmonte,  lasciò  i  suoi  beni  ai  PP.  Teatini  della  Chiesa 
di  S.  Maria  di  Loreto.  Contro  il  testamento  insorse  il  Cala  che  scrisse  due 
allegazioni  in  proposito,  cui  il  fratello,  Girolamo,  ne  aggiunse  una  terza, 
quando  i  Teatini  li  attaccarono  con  un'anonima  dissertazione.  Cfr.  Giu- 
stiniani, Scrittori  legali,  1,  155,  157.  Ne  riparleremo  quando  tratteremo 
più  particolarmente  del  Cala,  che  vinse  la  lite  nel  dicembre  1682. 

^  Francesco  Alvarez  Ribera,  n.  nel  1530,  prese  parte  alla  guerra  di 
Siena;  dopo  una  lunga  permanenza  in  Toscana  ritornò  in  Spagna,  e  di 
qui  fu  inviato  a  Napoli  come  presidente  di  R.  Camera,  e  dipoi  come  reg- 
gente. Cfr.  Toppi,  De  origine.  III,  112,  113  sgg.,  e  specialmente  202-13, 
ove  ne  tesse  lungo  elogio.  Una  vera  e  propria  biografia,  divenuta  ormai 
rarissima,  [il  Giustiniani  non  la  conosce],  e  che,  scritta  in  latino,  dovette 


—  175  — 

fattolo  studiare,  dopo  aver  dato  in  luce  in  età  assai  giovane  la 
sua  celebre  ripetizione  sulla  Rubrica  «  et  legem  finalem  de  con- 
stituctionibus  principum  »  \  l'avviò  secondo  l'uso  de'spagnoli  per 
la  via  degli  officj.  Onde  fu  due  volte  uditore  di  Provincia,  poi 
giudice  di  Vicaria,  e  indi  nell'anno  1612,  come  si  ha  dalla  de- 
cisione 65  del  reggente  Rovito  2,  reggente,  essendo  poi  morto  de- 
cano di  Collaterale  nel  principio  del  1643. 

Piima  di  essere  consigliere  si  caso  con  una  nobilissima  signora  i 

di  casa  Leiva,  nipote  del  principe  di  Ascoli,  ed  ottenne  anche 
il  titolo  di  marchese  di  Castelnuovo  in  Abruzzo,  pervenutoli  dal- 
l'eredità di  Violante  Riccia  sua  ava,  che  poi  permutò  con  quello 
di  marchese  di  Belmonte.  Comprò  la  terra  di  Villamajna  e  pos- 
sedè molti  altri  beni  descritti  particolarmente  nel  suo  majorato. 
Dalla  moglie  di  casa  Leiva  non  ebbe  che  un  figliolo,  per  chi  ot- 
tenne il  titolo  di  conte  del  Vasto  Aimone,  ed  il  quale,  casatolo 
in  Spagna  con  una  signora  di  casa  Vargas,  che  poi  fu  marchese 
di  s.  Vincenzo,  non  ebbe  che  un'unica  nipote  morta  a'  di  nostri 
senza  discendenti  con  titolo  di  contessa  del  Vasto.  E  nel  di  lei 
majorato  è  succeduto  il  duca  di  Diano  come  figliolo  d'una  sorella  del 
reggente  Merlino,  poi  presidente  del  S.  C,  che  discendeva  da 
D.  Beatrice  Tapia,  marchesa  di  Paglieta,  sorella  dell'Isabella  che 
fu  madre  del  reggente'.  Sicché,  sebbene  la  sua  discendenza  si 
estinse,  non  potè  però  dirsi  estinta  la  casa,  che  prima  col  reggente 
Merlino,  poi  col  reggente  Cala  si  è  continuata  con  perpetuo  mini- 
stero, cominciando  dal  presidente  Egidio,  per  più  di  cento  anni. 

Fu  uomo  per  le  sue  canizie,  e  per  una  somma  gravità  che  af- 
fettò in  tutte  le  cose,  tenuto  in  gran  venerazione  dalli  sig.ri  vi- 
ceré e  da  tutto  l'ordine  del  regno.  Ma  per  una  straordinaria  lun- 


avere  una  traduzione  spagnuola,  citandola  in  questa  versione  I'Antonio 
nella  sua  Biblioteca,  fu  compilata  dal  Tapia  stesso.  Una  copia  è  in  B.  N., 
147,  F,  22,  ed  ha  il  seg.  titolo:  Francisci  Alvarez  Riberae  Regentis  in  Su- 
premo Italiae  Consilio  prò  Regno  Neapolitano  vita  a  Carolo  Tapia  in 
eod.  Consilio  Regenie  descripta,  di  ce.  24,  s.n.t. —  11  Tapia  inoltre  pub- 
blicò: Additiones  ad  responsum  F.  Alvarez  de  Ribera:  De  success.  Por- 
tugalliae,  Madrid,  1621. 

^  Commentarium  ad  rubricam:  et  legem  finalem  ff.  de  Constitutionibus 
principum,    Napoli,  1586. 

-  RoviTO,  Decisiones,   Napoli,  1696,  n.  LXV. 

^  La  nipote  (e  non  figlia,  come  crede  il  Colombo)  Marianna  morì  il 
9  marzo  1679,  a  53  anni  :  Colombo,  in  Napoli  Nobilissima,  IV,  7, 
pag.   105. 


—  176  — 

ghezza  colla  quale  stancava  i  negozianti,  benché  non  si  prendesse 
mai  un'ora  di  riposo,  e  per  certe  formalità,  delle  quali  era  rigido 
conservatore,  benché  in  cose  di  nessuna  importanza,  acquistossi 
nome  piuttosto  di  ministro  faticoso  che  grande;  onde  di  lui  solca 
dirsi:  o  magnum  virum  in  nihil  agendo  occupatum!  E  se  ne  rac- 
contavano graziosissime  novelle,  delle  quali  per  la  di  lui  morte  si 
estinse  la  memoria. 

§  7.  Casa  del  sig.  reggente  Ferrante  Branda  duca  di    Belvedere. 

Successore  del  reggente  Tapia  nel  decanato  fu  il  reggente  Bran- 
cia.  Questo  era  un  povero  gentiluomo,  che  così  chiamavasi  in 
quel  tempo,  della  città  di  Sorrento,  come  sono  quasi  tutti  di 
quella  nobiltà  quanto  antica  altrettanto  povera.  Venuto  in  Napoli 
a  studiare,  riuscì  uno  dei  più  dotti  avvocati  de'  suoi  tempi,  par- 
ticolarmente nella  materia  feudale,  come  attesta  il  reggente  De 
Marinis  nell'Epistola  delle  Opere  postume  di  Camerario.  Ed  avendo 
acquistate  molte  ricchezze,  fu  fatto  consigliere,  come  si  disse  ^, 
come  gli  altri  tre  dal  sig.  conte  di  Lemos;  passò  poi  in  Spagna 
reggente,  e  se  ne  ritornò  con  il  titolo  di  duca  ed  altre  mercedi. 
Ma  non  avendo  avuto  figlioli  maschi,  non  potè  perpetuare  la  sua 
casa,  benché  due  sue  figliole  le  collocasse  altamente:  la  prima  col 
principe  di  Pettorano  primogenito  del  duca  di  Popoli  2,  1'  altra  col 
principe  di  Montecorvino ',  fratello  del  duca  di  Monteleone. 

E  per  favor  speciale,  in  quei  tempi  che  così  l'aggregazione  co- 
me Tintegrazione  alle  Piazze  di  Napoli  si  stimava  impossibile,  ot- 
tenne di  essere  reintegrato  agli  onori  di  quel  Seggio  Capuano*. 
Il  che  r  ottenne  da  quella  Piazza  Capuana  alla  quale  antica- 
mente la  sua  famiglia  avea  appartenuto,  come  hanno  apparte-j 
nuto  a  tutte  le  Piazze  di  Napoli  la  maggior  parte  delle  famiglie 
Sorrentine,  e  quasi  tutte  quelle  deUa  costa  d'Amalfi.  Onde,  men- 
tre visse,  stiede  nella  maggiore  riputazione  nella  quale    sia  stato  j 


*  Insieme  con  Camillo  Villano,  Gio.  Batta  Megliore  e  Scipione  Rovito: 
cfr.  Avvertimenti,  §  4. 

*  Sposò  nel  1640  Fabrizio  Cantelmo  duca  di  Popoli  e  principe  di  Pet- 
torano. Il  Capecelatro,  Diario,  ed.  A.  Granito,  Napoli,  1854,  III,  208, 
la  dice  «  donna  di  somma  estimazione  ». 

»  Aniello  Pignatelli  principe  di  Montecorvino. 

*  Sulla  nobiltà  del  Brancia  cfr.  [C.  Padiglione],  Tavole  genealogiche 
dei  Broncia,  Napoli,  1883,  tav.  IV,  e  n.  230. 


—  177  — 

altro  ministro.  E  potrebbe  servire  per  idea  di  quelli  che  da  po- 
verissimo stato  possono  in  Napoli  arrivare  per  mezzo  delFavvo- 
cazlone  a  tali  onori.  Ma  non  avendo  potuto  perpetuare  tanta 
grandezza  nella  sra  casa,  rimase  estinta  con  lui,  e  gli  altri  Bran- 
cia  in  Sorrento  non  sono  niente  più  degli  altri  nobili  di  quella 
città.  Onde  da  molti  fu  biasimato,  perchè,  mirando  solo  all'onore 
della  sua  per")na,  poco  si  fusse  curato  di  quello  della  sua  fa- 
miglia: quando  delle  figlie  se  n'avesse  maritata  una  con  uno  dei 
suoi  Branda,  e  Taltra  procurato  di  farla  monaca,  avrebbe  fon- 
dato una  casa  assai  più  ricca  ed  illustre,  e  il  cognome  di  Brancia 
non  si  sarebbe  seppellito  con  lui  medesimo. 

§  8.  Della   casa    del   sig.   reggente   Fabio   Capece    Galeota    duca 
della  Regina. 

Per  la  morte  seguita  in  Spagna  del  reggente  Andrea  di  Gen- 
naro duca  di  Gantalupo  i,  che  io  non  conobbi,  fu  fatto  reggente 
in  Spagna,  in  tempo  del  sig.  duca  di  Medina  de  las  Torres,  il 
presidente  Fabio  Galeota. 

Questi  era  cavaliere  del  seggio  Capuano,  ma  ne'  suoi  principj 
poco  accomodato  de'  beni  di  fortuna;  la  madre  era  De  Curtis, 
figliola  del  cons.  De  Curtis  nipote  del  reggente 2,  che  diede  alle 
stampe  il  suo  Diversorio  dei  Feudi,  che  da  Gio.  Andrea  di  Paolo, 
mio  maestro,  che  non  poteva  soffrire  le  barbarie  di  quei  tempi, 
era  chiamato:  la  taverna  dei  feudi. 

Applicatosi  all'avvocazione  riusci  celebre  per  la  dottrina  e  per 
l'efficacia  nel  rappresentare. 

Prese  in  moglie  l'erede  di  Camillo  de'  Medici s,  ch'era  di  Gra- 
gnano,  ma  celeberrimo  avvocato,  come  si  vede  dai  suoi  Consigli, 
sicché  meritò  dal  Granduca  di  Toscana  esser  dichiarato  della 
sua  famiglia  con  una  commenda  nella  sua  Religione  di  S.  Ste- 
fano. Colla  dote  della  moglie  e  con  quel  che  guadagnò  coli'  av- 
vocazione  fece  un  patrimonio  assai  opulento;  sicché  potè  soste- 
nere con  decoro  la  dignità  di  consigliere,  poi  di  fiscale  e  presi- 
dente della  Regia  Camera,  e  finalmente  reggente. 

*  Andrea  di  Gennaro  morì  nel  dicembre  1638  nel  borgo  di  Cadachee 
vicino  a  Barcellona  in  casa  di  un  pescatore. 

2  Camillo  de  Curtis,  regg.  dal  1608. 

^  Sposò  Anna,  una  delle  due  figlie  del  Medici  :  il  fratello  di  Fabio, 
Marcello,  sposò  l'altra,  Maria.  Il  Medici  le  aveva  avute  da  Laura  Orsini. 
Anno  XLV.  12 


178 


Fu  assai  dotto  nella  materia  legale,  come  sì  vede  dalle  sue 
Controversie  e  da'  suoi  Responsi  fiscali,  fu  di  animo  libero,  e  go- 
dea  di  essere  tenuto  per  pazzo,  accomodando  però  la  sua  pazzia 
a'  suoi  disegni.  Sene  ritornò  da  Spagna  con  titolo  di  duca  della 
Regina,  ch'era  una  sua  massaria  datagli  dalla  moglie  di  quella 
terra  di  Gragnano  ;  ed  avendo  destinato  per  suo  successore  il 
suo  primogenito,  padre  deirodierno  duca  della  Regina,  pensò 
però  con  un  prudentissimo  avviso  dì  non  lasciar  la  sua  casa  di- 
scomparata dalla  toga,  benché,  per  esser  la  sua  famiglia  delle 
prime  di  Capuana,  paresse  che  non  ne  tenesse  di  bisogno,  ba- 
stando in  Napoli  esser  di  Piazza  per  avere  tutti  gli  onori  e 
tutta  la  stima  che  può  desiderarsi.  Onde  Giacomo,  il  suo  secon- 
dogenito, lo  fece  per  tutta  la  sua  gioventù  stare  applicato  alli 
studj;  e,  andando  in  Spagna,  lo  fé  fare  giudice  di  Vicaria  per 
passarlo  immediatamente  al  posto  di  Presidente  di  Camera, 
qual  poi  fu  similmente  reggente  e  padre  deirodierno  D.  Giulio, 
giudice   di  Vicaria,  come  si  dirà  a  suo  tempo  i. 

continua 

Nino  Cortese 


Cfr.  Avvertimenti,  §  21. 


DOCUMENTI   INEDITI 

DI  ARTISTI  NAPOLETANI  DEI  SEGOLI  XVI  E  XVII 
DALLE  POLIZZE  DEI  BANCHI 

(Contin.:  v.  voi,  prec.  pp.  375-397) 


Maldacea  Gio.  Bbrardino.  —  Ecco  un  nuovo  nome  di  pit- 
tore, le  cui  opere  sono  ancora  da  identificare. 

A  23  novembre  1604.  Scipione  Magnacervo  paga  D.ti  12  a 
Berardino  Maldacea  pittore  a  comp.to  di  D.ti  15,  per  il  prezzo 
di  uno  quatro  di  S.  Nicola  Tolentino ,  tanto  comunemente  ap- 
prezzato  da  esperti  dell'arte,  et  resta  interamente  soddisfatto. 

A  3  aprile  1607.  Pompeo  Pantucci  paga  D.ti  20  a  Gio:  Berar- 
dino Maltacea  pittore  a  comp.to  di  D.ti  65,  et  in  conto  di  D.ti 
80  li  deve  per  lo  prezzo  di  una  cona  per  uso  della  sua  cappella 
costrutta  dentro  la  chiesa  di  S.  Francesco  di  Capodimonte  ^. 

Mauritio  Tommaso.  —  Se  i  documenti  già  pubblicati*  si 
riferivano  ad  una  pittura  del  Mauritio  oramai  perduta  per  sem- 
pre, i  nuovi  ne  indicano  un'altra,  a  S.  Maria  la  Nova,  per 
fortuna  ancora  esistente. 

A  5  marzo  1599.  Pompeo  Galvanico  paga  D.ti  10  a  Tomase 
Mauritio  a  comp.to  di  D.ti  25,  et  in  conto  delle  pitture  che  fa 
alli  quadri  della  intempiatura  del'  ecclesia  di  S.a  Maria  la 
Nova. 

A  4  marzo  1599.  Roberto  del  Pezo  paga  D.ti  12,33  a  Tomase 
Mauritii  in  conto  d' uno  quadro  che  depinge  de  suo  ordine  per 
mandarsi  in  Sulmona, 

^  D'Enqenio,  o.  c,  p.  637;  Catalogo  di  S.  Giorgio  ad  forum  in  Arch. 
stor.  nap.,  XIII,  294. 

«  Arch.  stor  nap.,  XXXVIII,  254. 


180 


A  18  maggio  1600.  Donato  Mottula  paga  D.ti  49,  a  Thomase 
Mauritii  per  parte  del  duca  di  Montelione,  a  comp.to  di  quanto 
se  li  deve  per  tutta  la  pittura  fatta  e  che  ha  fatto  fare  ne  la 
sua  casa  in  la  Barra  sendo  soddisfatto  di  tutto. 

Mauro  (di)  Marcello  i. 

A  27  agosto  1609.  Gio:  de  Rosa  paga  D.ti  7  a  Marcello  di 
Mauro  a  conto  di  un  quadro  di  pittura  fa  per  la  chiesa  del  car- 
dinale Paravicini  in   Taranto. 

A  9  agosto  1610.  F.co  Antonio  Ametrano  paga  D.ti  9  a  Mar- 
cello di  Mauro  a  comp.to  di  D.ti  25,  per  il  prezzo  di  un  quadro 
con  figura  di  Madalena;  che  l'altri  1'  have  ricevuti  la  bon'  anima 
di   Tomase  de  Rosa  suo  cognato. 

A  5  ottobre  1611.  D.  Giovanni  Delagone  paga  D.ti  10  a 
Marcello  de  Mauro  in  conto  di  D.ti  24,  che  sono  per  un  quadro 
li  ha  da  fare  de  la  Madonna  del  Carmine  e  quattro  figure  di 
palmi  7  alto ,  e  5  longo  conforme  ha  pattuito  il  marchese 
d'Arpaia. 

A  21  aprile  1612.  F.co  Antonio  Ametrano  paga  D.ti  7  a 
comp.to  di  D.ti  10,  a  Marcello  de  Mauro  per  un  quadro  di 
S.  Carlo  Borromeo  che  l'ha  pittato. 

A  22  febbraio  1616.  Ascentio  Pisano  paga  D.ti  30,  a  Marcello 
de  Mauro  a  comp.to  di  D.ti  50,  per  lo  prezzo  de  la  cona  de 
la  Madonna  della  Gratia  et  l'anime  del  Purgatorio  ad  esso  con- 
signata  mercè  ist.to  per  n.r  Gio:  Berardino  luliano. 

Mele  Marco  2, 

A  4  febbraio  1600.  Biagio  Ciminiello  paga  D.ti  10  a  Marco 
Mele  per  un  quadro  d'una  imagine  della  Madonna  et  del  Sal-| 
vatore  fattoli. 

A  26  giugno  1601.  Gio:  Salvo  e  Lorenzo  Vuolo  pagano  D.ti 
12  a  comp.to  di  D.ti  42  a  Marco  Mele  per  lo  prezzo  di  una 
pittura  che  fa  in  uno  loro  quadro  in  S.ta  Maria  la  Nova  li  ha  pin- 


1  Arch.  stor.  nap.,  XXXVIII,  255. 
«  Ivi. 


—  181  — 

tato  et  anco  per  la  pittura  di  uno  panno  et  della  tavola  di  d.ta 
cona,  dichiarandosi  fra  essi  saldi  ^. 

A  27  settembre  1614.  Li  mastri  consoli  della  cappella  di 
S.  Marco  delli  Magazzinieri  pagano  a  Marco  Mele  D.ti  15  ,  a 
comp.to  di  D.ti  20,  per  la  pittura  che  ha  fatto  del  quadro  di 
S.  Carlo,  con  haver  posto  esso  lo  telaro, 

MoLiNARo  Andrea.  —  La  prima  polizza  che  pubblichiamo 
su  questo  pittore  conferma  che  è  sua  la  pittura  del  quadro 
d'altare  della  cappella  De  Simone  nella  chiesa  del  Rosario 
di  Palazzo  ^.  L'altra  ci  indica  nuove  opere  nella  cappella  Sanchez 
in  S.  Domenico  Maggiore. 

A  18  novembre  1596.  Carmosina  de  Simone  paga  D.ti  25  ad 
Andrea  Molinaro  pittore  in  parte  di  D.ti  75  per  prezzo  di  una 
cona  nerecclesia  di  S.ta  Maria  del  Rosario  nella  cappella  novi- 
ter  facienda  per  adempimento  della  q.m  Diamante  de  Simone 
sua  sorella  giusta  ist.to  per  n.r  lovene. 

A  7  novembre  1601.  D.  Brianda  Sanchez  de  Luna  paga  D.ti 
12  ad  Andrea  Molinaro  per  final  pagamento  di  tutta  l'opera  che 
ha  fatto  a  rinovare  la  pittura  de  la  cappella  de  S.ta  Andrea  den- 
tro la  v.le  chiesa  di  S.  Domenico  et  se  l' è  fatto  anco  bono  l' oro 
posteci  et  ogni  altra  spesa. 

Montella  Gio.  Tomaso.  —  All'opera  già  accertata  da  noi  al 
Montella  nella  chiesa  di  S.  Maria  la  Nova  di  Aversa^,  possiamo 
aggiungere  quest'altra  nella  chiesa  della  Sapienza.  Per  fortuna 
tutte  e  due  le  pitture  si  conservano  tuttora. 

A  14  novembre  1607.  Il  Monistero  della  Sapienza  paga  D.ti 
5,  1,5  a  Gio.  Tomaso  Montella  in  conto  d'un  quadro  dell'Angeli 
che  li  bavera  da  fare  per  servitio  suo. 

MuGNOS  Francesco.  —  Non  è  conosciuto  per  altri  lavori. 

A  4  febbraio  1613.  Giuseppe  Ametrano  paga  D.ti  5  a  France- 

*  De  Lellis,  0.  e,  215. 

*  Filangieri,  Indice,  II,  177. 

»  Arch.  stor.  nap.,  XXXVII,  258. 


—  182  — 

SCO  Mugnos  a  comp.to  di  D.ti   15,  et  a  conto  del  prezzo  di  certi 
quadri  che  sa  lavorando. 

A  6  aprile  1613,  Francesco  Ametrano  paga  D.ti  2  a  comp.to  di 
D.ti  40.  a  Francesco  Mugnos  per  prezzo  di  certi  quadri  li  ha  ven- 
duti et  consignati. 

Nucci  Avanzino.  —  Abbiamo  già  indicati  i  lavori  che  que- 
sto pittore  eseguì  nel  1598  nell Annunziata  in  collaborazione  con 
B.  Corenzio,  e  nella  chiesa  dei  Gerolamini.  Di  altri  precedenti, 
in  S.  Maria  di  Costantinopoli,  e  in  S.  Martino,  ci  parlano  le 
polizze  che  ora  trascriviamo  \ 

A  30  agosto  1595.  Bartolomeo  di  Liguoro  paga  D.ti  4.3.10  al  m.ro 
Avanzino  Nucci  a  comp.to  di  D.ti  15  per  saldo  tra  loro  de  l'opra 
seu  pittura  fatta  per  esso  a  fresco  nella  sua  cappella  di  S.  Bar- 
tolomeo sita  nell'Ecclesia  di  S.  Maria  di  Costantinopoli. 

A  17  aprile  1596.  Il  Monistero  di  S.  Martino  per  mano  di  D.  Sa- 
verio Turbolo  suo  Priore  paga  D.ti  30  ad  Avanzino  Nucci  pittore 
a  conto  della  pittura  fa  in  d.to  Monistero. 

Papa  Simone.  —  Per  la  biografìa  di  questo  pittore,  ancora 
incerta  2,  riescono  utili  i  seguenti  documenti  che  fissano  il  tempo 
in  cui  egli  dipinse  alcuni  quadri  per  privati. 

A  2  agosto  1614.  Thomase  Aniello  de  Lione  paga  D.ti  8  a  Si- 
mone Papa  per  lo  prezzo  di  sei  quadri  della  Creatione  del  Mondo. 

A  21  agosto  1614.  Andrea  dello  Doce  paga  D.ti  5  a  Simone  Papa 
per  uno  ritratto  di  palmi  3,  et  2  ^4  di  larghezza,  quale  promette 
darcelo  per  martedì. 

A  11  settembre  1614.  Thomase  Aniello  de  Lione  paga  D.ti  2  a 
comp.to  di  D.ti  8  a  Simone  Papa  per  la  vendita  et  consignatione 
ad  esso  fatta  dei  sei  quadri  di  colore  ad  acqua  con  la  storia  da 
che  Nostro  Signore  creò  il  mundo  per  insino  la  morte  di  Adamo. 

Rao  (de)  Pier  Luise.  —  L'elenco  ancora  scarso  delle  pit- 
ture finora  note  del  De  Rao  si  accresce  di  un'altra  indicazione". 

^  Conf.  in  questo  Arch.,  XXXVII,  38,  e  XXXVIII,  484. 
'  Filangieri  Doc,  III,  511;  VI,  249. 
^  Arch.  stor.  nap.,  XXXVIII,  499. 


—  183  ~ 

A  13  gennaio  1598.  Anello  Pereda  paga  D.ti  4  ^  /j  a  Pi  Lois  re 
de  Rao  a  comp.to  di  D.ti  30  et  in  conto  della  pittura  et  indora- 
tura delle  armi  delli  Sig.ri  Ri  d'Aragona  dentro  la  sala  reale  di 
Castelnuovo. 

RoDRiGUES  Luigi.  —  Nuove  utili  indicazioni  perle  opere  ese- 
guite in  Napoli  da  questo  pittore  messinese  risultano  dalle  po- 
lizze seguenti  1. 

A  6  settembre  1594.  Li  Amministratori  de  la  Solidad  pagano 
D.ti  3  a  m.ro  Loise  Rodrigues  a  comp.to  di  D.ti  7  per  la  pittura 
di  S.  Pietro  e  S.  Paolo  che  ha  fatto  in  la  Custodia  de  V  Ecclesia 
di  d.ta  S.a  Casa. 

A  23  dicembre  1600.  Ottavio  Brancaccio  paga  D.ti  5  a  Loise  Ro- 
dèrico  pittore  per  final  pagamento  di  tutta  la  pittura  et  opera 
fatta  neUa  cappella  di  M.gnor  di  Taranto  nel  Vescovato. 

A  26  marzo  1602.  La  Congregatione  dell'Oratorio  paga  D.ti  10 
a  Loisio  Rodriguès  pittore  in  conto  di  una  cona  che  Tha  da  fare 
in  d.ta  chiesa,  cioè  la  madonna  con  una  Gloria  di  tutt'i  Santi 
di  palmi  13  di  altezza,  et  8  di  larghezza,  et  che  habbia  fare  il 
cartone  della  medesima  grandezza  della  cona  a  sue  spese,  et  d.ta 
cona  Tha  da  fare  a  soddisfatione  del  P.  Antonio  Talpa  Rettore 
della  d.ta  Congregatione  per  spazio  di  un  anno  e  mezo  dalli  22 
stante  et  questo  per  prezzo  di  D.ti  70  et  ci  debba  mettere  colori 
fini  di  tutta  perfettione. 

A  17  lugUo  1606.  D.  Francesco  Bernardo  d'Aquiros  come  tu- 
tore di  D.  Remando  de  Majorga  paga  D.ti  25  a  Loijsé  Rodriques 
in  conto  della  pittura  a  fresco  che  ha  fatto  et  ha  da  fare  in  la 
tribuna  della  cappella  del  q.m  Secretano  Majorca  ^ 

Rosa  de  Tommaso.  —  Scrivemmo  già  di  questo  artista 
dando  per  la  prima  volta  nenuotizia  di  una  conila  chiesa  della 
Stella. 

Altre  opere  sue  ci  rivelas        no  i  documentienti. 

A  25  marzo  1598.  Lucretia  Martirana  della  Quatra  paga  D.ti  9 
a  Tomase  de  Rosa  pittore  a  comp.to  di  D.ti  10  per  prezzo  d'un 
quatro  ha  fatto  per  la   principessa  di  SquiUace. 

'   Conf.  Arch.  slor.  nap.,  XXXIII,  495. 

»  D'Enqenio,  0.  e,  p.  542;  Arch.  stor.  nap.,  XXX Vili,   499. 


184 


A  1°  Giugno  1598.  Carlo  Tappia  paga  D.ti  8  a  Tomase  de  Rosa 
pittore  per  la  copia  de  un  quatro  di  Marta  et  Matalena  pintato 
per  servitio  suo. 

A  15  settembre  1600.  Antonio  Serubbo  paga  D.ti  35  a  Tomaso 
de  Rosa  et  se  li  pagano  cioè  D.ti  20  improntatili  li  mesi  passati, 
D.ti  10  prezzo  di  un  quatro  di  Marta  e  Matalena  et  D.ti  5  in 
conto  di  D.ti  10  che  ce  li  paga  di  suo  beneplacito  per  servitii 
fatti. 

A  6  febbraio  1601.  Thomas' Aniello  de  Lione  paga  D.ti  6  a  Tho- 
mase  de  Rosa  a  compito  di  D.ti  23  et  in  conto  di  D.ti  25,  per 
la  manifattura  di  uno  quadro  che  pinta  del  glorioso  S.  Erasmo  di 
palmi  9  alto  et  palmi  6  largo  per  d.to  prezzo  de  colore  ad  oglio 
sopra  di  tela,  con  il  Martirio  de  basso  che  se  li  cavano  le  stentine 
et  promette  darlo  finito  pel  10  stante  di  pittura  tantum  in  una 
cappella  nello  Spirito  Santo. 

A  23  febbraio  1602.  Clemente  Geronimo  paga  D.ti  20  a  Tomaso 
di  Rosa  per  caparra  di  un  quadro  in  tela  della  Natività  di  N.  S. 
con  Fimagine  di  S.  Gioseffo,  pastori  et  altro  conforme  il  disegno 
alto  palmi  10  largo  palmi  7  de  buoni  colori  fini  :  per  il  prezzo 
sarà  stimato  da  due  pittori  a  sua  scelta,  che  non  ecceda  la  somma 
di  D.ti  50  circa. 

A  24  aprile  1602.  Gio.  Battista  Bovio  de  Bitonto  paga  D.ti  10 
a  Tomase  Rosa  pittore  per  caparro  d'un  quadro  della  SS.  An- 
nuntiata  che  ha  da  fare  come  quello  che  sta  alla  sachristia  di 
S.  Martino  sopra  NapoU  per  prezzo  di  D.ti  30  et  è  per  gli  Sca- 
mardelli  di  Monte  Paone  di  Calabria. 

A  26  giugno  1602.  Geronima  Goscinà  paga  D.ti  15  a  Tomaso 
di  Rosa  in  conto  d'una  cona  Tha  da  fare  con  la  Madonna  in  mezzo 
con  S.  Francesco  d'Assisi  et  di  Paula  dalle  due  parti  :  di  colori 
fini  di  altezza  palmi  10  e  largo  7. 

A  23  dicembre  1602.  Geromina  Coscinà  paga  D.ti  14  a  Tomaso 
de  Rosa  e  disse  D.ti  10  a  saldo  del  quadro  li  ha  fatto  per  la 
cappella  del  q.m  Gio.  Alfonso  Morrone,  avendo  ricevuto  altri 
D.ti  30  a  comp.to  di  D.ti  40  ch'è  stato  apprezzato,  e  D.ti  4  per 
la  tela  di  un  quatrillo  di  de.ta  Geronima  del  ben  morire. 

Rubino  Gio  :  Angelo.  —  Il  nome  ed  alcune  opere  di  questo 
artista  risultano  dalle  polizze  seguenti. 

A  28  gennaio  1608.  L'abate  D.  lacovo  Sances  paga  D.ti  5  a  Gio: 
Angelo  Rubino  pittore  per  caparro  di  un  cona  li  bavera  da  fare 


—  185  ~ 

et  consignare  per  la  1»  di  Quadragesima  del  quadro  della  Ma- 
donna della  mano  di  Andrea  del  Sarto  dentro  la  chiesa  di  S.  la- 
covo  delli  Spagnuoli,  quale  li  bavera  da  pintare  di  colori  strafini 
et  acqua  oltramarina. 

A  20  marzo  1608.  L'abate  D.  lacovo  Sances  paga  D.ti  5  a  Gio. 
Angelo  Rubino  a  comp.to  di  D.ti  10  per  lo  prezzo  di  una  copia 
dello  quadro  li  ha  consignato  della  Madonna  di  Andrea  del  Sarto 
in  la  chiesa  di  S.   lacovo  delli  Spagnoli. 

A  8  lugUo  1608.  F.co  Graffoglietti  paga  D.ti  5  V2  a  Gio:  Angelo 
Rubino  a  comp.to  del  prezzo  di  un  quadro  di  S.  Gio:  Battista 
havuto  da  lui. 

A  12  ottobre  1610,  Gio:  Battista  Spinola  paga  D.ti  5  a  Gio:  An- 
gelo Rubino  in  conto  et  manifattura  d'un  quadro  che  l*ha  datare 
de  Timagine  di  S.  Domenico^. 

A  10  aprile  1612.  D.  Clemente  di  Napoli  paga  D.ti  10  al  P.re 
D.  Gregorio  di  Catania  Abate  di  Bari  e  per  esso  a  Gio.  Angelo 
Robino  a  conto  di  D.ti  30  per  il  prezzo  d'un  quadro  Thaverà  da 
fare  di  tutta  perfettione  di  palmi  11  di  altezza  e  8  di  larghezza, 
conforme  al  disegno  fatto,  quale  si  conserva  in  potere  del  P.re 
D.  Clemente  Priore  del  Monistero  di  S.  San  Severino. 

Santafede  Fabrizio.  —  Al  contributo  notevole,  che  per  la 
biografia  del  Santafede  portarono  le  polizze  già  da  noi  pubbli- 
cate 2,  aggiungiamo  questo  che  ci  consentono  i  nuovi  documenti. 
Pei  quali  restano  confermate  le  attribuzioni  dei  dipinti  in 
Monteoliveto  e  nello  Spirito  Santo  ^  e  si  fissa  l'anno  in  cui  fu- 
rono eseguiti.  Ricaviamo  inoltre  la  notizia  di  altre  opere  finora 
ignorate. 

A  23  gennaio  1601,  D.  Ottavio  Tuttavilla  paga  D.ti  a  Fabrizio 
Santafede  in  conto  di  talune  opere  che  li  fa  :  e  per  lui  ad  An- 
drea Genuino  suo  discepolo. 

A  18  dicembre  1606.  Il  Monistero  di  Monteoliveto  paga  D.ti  35 
a  comp.to  di  D.ti  100  a  Fabritio  Santefede  per  saldo  di  tutto  il 
prezzo  della  pittura  del  quadro  che  ha  fatto  nella  cappella  del 
Vasto  nella  loro  chiesa  :  per  esso  ad  Andrea  Genoino  suo  discepolo. 

1  De  Lellis,  0.  e,  p.  218. 
^  Conf.  in  questo  Archivio,  XXXVIII,  502. 

'  D'Engenio,  Napoli  Sacra,  p.  512,  520  ;  Celano,  ed.  Chiarini,  III, 
20,   320. 


186 


Ai  15  Giugno  1607.  Fabio  Riccardo  paga  D.ti  50  a  Fabritio 
Santafede  a  saldo  et  final  pagamento  della  pittura  d'una  icona 
con  Pimagine  de  la  Madonna  del  Soccorso,  che  li  ha  fatto  et  po- 
sta nella  sua  cappella  della  chiesa  dello  Spirito  Santo. 

A  12  dicembre  1609.  Il  Governo  dello  Spirito  Santo  paga  D.ti 
a  Fabritio  Santafèdè  in  conto  di  D.ti  208  promessoli  per  la  pit- 
tura della  cona  dell'altare  maggiore  di  loro  chiesa,  g.ta  ist.o  per 
n.r  Lorenzo  Biondo. 

A  7  aprile  1610.  Il  Governo  dello  Spirito  Santo  paga  D.ti  30  a 
comp.to  di  D.ti  200  a  Fabritio  Santafede  per  Tintiero  prezzo  della 
pittura  della  cona  delF altare  maggiore  di  questa  chiesa,  del  quale 
resta  interamente  soddisfatto. 

A  14  marzo  1611.  Fra  D.  Cesare  Falco  Bresegna  paga  D.ti  24 
a  Fabritio  Santefade  a  comp.to  di  D.ti  30  per  un  quadro  della 
Madonna  che  ha  fatto  da  mettersi  nella  Rota  Criminale  della 
Vicaria  per  ordine  del  Sig.  Reggente. 

A  19  novembre  1614.  Il  Monistero  di  Giesù  Maria  paga  D.ti  3  a 
Fabritio  Santafede  a  conto  del  prezzo  della  pittura  della  cona  di 
Nostro  Signore  che  ha  da  venire  nella  cappella  della  q,m  D.  Ma- 
ria Orsini,  sita  nella  loro  chiesa  di  Giesù  Maria  :  qual  prezzo  s'ha- 
verà  da  Uquidare  per  il  Sacro  Consiglio,  fatto  prima  l'apprezzo 
dalli  esperti. 

Sellitti  Carlo.  —  È  noto  principalmente  pei  quadri  che 
dipinse  per  la  chiesa  di  S.  Anna  dei  Lombardi  ^  che  ora  sono 
in  quella  di  Monteoliveto.  Con  la  conferma  di  questa  informa- 
zione le  polizze  seguenti  ci  parlano  di  altre  opere  e  assodano 
che  questo  pittore  morì  nel  1614. 

A  5  gennaio  1608.  D.  Honorio  de  Galatina  paga  D.ti  10  a  Carlo 
Sellitto  pittore  in  conto  di  D.ti  30  per  lo  integro  prezzo  di  un  qua- 
dro in  tela  li  bavera  da  pegnere  di  mano  sua  con  la  figura  di 
S.  Michele  Arcangelo  et  un'altra  figura  del  naturale  ingenocchiata: 
et  d.to  quadro  sarà  di  altezza  di  palmi  7  et  larghezza  palmi  4  ^^ 
da  finirlo  per  tutto  febbraro  venturo,  con  patto  che  debia  ponere 
azuro  oltramarino  et  farlo  di  tutta  perfettione. 

A  23  gennaio  1608.  Carlo  de  Sangro  paga  D.ti  10  a  Carlo  Sel- 
litto pittore  a  comp.to  di  D.ti  20  per  fattura  di  un  ritratto  del 

^  Celano,  ed  Chiarini,  III,  313,  314. 


—  187  — 

principe  di  Sansevero  suo  fratello,  d'  ordine  del  quale  paga  d.ti 
denari. 

A  28  luglio  1608.  Pietro  e  Gio:  Domenico  Coitone  pagano  D.ti 
15  a  comp,to  di  D.ti  50  a  Carlo  Séllitto  a  conto  di  un  quadro 
grande  che  deve  fare  per  la  loro  cappella  nella  chiesa  di  S.  Anna 
della  loro   nazione  lombarda. 

A  22  settembre  1610.  Fabritio  Albertino  paga  D.ti  10  a  Carlo 
Séllitto  pittore  in  conto  d'  uno  retratto  che  ha  da  fare  del  q.m 
Gio.  Vincenzo  Revertera  in  nome  di  D.  Francesco  Revertera  suo 
figlio. 

A  30  Giugno  1611.  Natale  Ranieri  paga  D.ti  10  a  Carlo  Séllitto 
a  comp.to  di  D.  45  et  in  conto  della  fattura  d'un  quadro  della 
SS.  Annuntiata. 

A  24  gennaio  1614.  Cesare  Gesualdo  paga  D.ti  15  a  Carlo  Sel- 
lato in   conto  d'un  ritratto  del  Arcivescovo  di  Bari  suo  fratello, 

A  27  settembre  1616.  Gio.  Matteo  Giannasio  paga  D.ti  68  a  Carlo 
Séllitto  in  nome  e  parte  di  D.  Cesare  Curti  Cantore  della  Terra 
di  Senise.  e  cioè  D.ti  45  a  comp.to  di  D.ti  90  per  integro  prezzo 
della  pittura  d'una  cona  della  SS.ma  Concettione,  e  li  restanti  D.ti 
33  a  comp.to  di  D.ti  113  per  il  prezzo  della  cornice  tanto  del  le- 
gname quanto  dell'indoratura  che  il  d.to  Carlo  bavera  da  pagare, 
atteso  la  d.ta  cona  l'ha  ricevuta  in  suo  potere  in  nome  di  d.to 
Cantore. 

A  15  ottobre  1614.  Francescantonio  Séllitto  paga  D.ti  50  a  Gio: 
Agostino  Séllitto,  e  ce  li  paga  come  herede  del  q.m  Carlo  Séllitto 
suo  fratello,  li  quale  ce  li  ha  lasciati  nel  testamento,  che  li  ser- 
ranno  per  mettere  poteche  della  sua  arte  di  pittore. 

Sollazzo  Simone.  —  Era  specialista  per  le  pitture  sul  rame. 

A  31  maggio  1613.  Horatio  Venturi  paga  D.ti  10  a  Simone  Sol- 
lazzo in  conto  del  prezzo  di  quattro  quadri  in  rame  che  l'haverà 
da  consignare  tra  un  mese,  dichiarando  che  ha  ricevuto  D.ti  6  per 
rame. 

A  25  giugno  1613.  Gio:  Vincenzo  Sebastiani  paga  D.ti  15  a  Si- 
mone Sollazzo  a  comp.to  di  D.ti  20  in  conto  del  prezzo  di  quat- 
tro quatri  piccoli  dipinti  in  rame,  due  dei  quali  l'ha  consignati, 
et  li  altri  due  alla  fine  del  presente. 

Soldi  ERI    o  Soldoveri   Lorenzo.  —  Che  il  Soldieri  era  un 


188 


pittore   mediocre  è  assodato   dai  quadri  rinvenuti  in  Pescopa- 
gano  sulla  indicazione  delle  polizze  che  seguono. 

A  5  giugno  1606.  Giustiniano  Amendola  paga  D.ti  18  a  Gio. 
Lorenzo  Soldieri  pittore  a  comp,to  di  D.ti  35  Yz,  cioè  D.ti  30  per 
la  pittura  dell'  icona  di  S.to  Rocco  della  chiesa  di  S.  Giovanni 
in  Pescopagano,  et  D.ti  5^  per  l'intaglio  della  cornice  di  d.ta 
icona. 

A  18  maggio  1607.  Alonzo  Vargas  paga  D.ti  3  a  Gio.  Lorenzo 
Sodoleri  a  comp.to  di  D.ti  19  per  lo  prezzo  di  quattro  quadri 
delle  quattro  parti  del  mondo  che  li  ha  venduti. 

A  18  aprile  1608.  Giustiniano  Amendola  paga  D.ti  8  ^  a  comp.to 
di  D.ti  a  Gio.  Lorenzo  Solderi  pittore,  et  sono  per  un  quadro 
dell'Annuntiata  dell'Oratorio  di  Pescopagano  vendutoli  et  consi- 
gnatoli  \ 

Torres  Pietro.  —  Ai  documenti  già  trascritti  ^  altri  si  ag- 
giungono su  questo  dimenticato  pittore  fiammingo. 

A  30  luglio  1597.  Cesare  d'  Afflitto  paga  D.ti  10  a  Pietro 
Torres  flamengo  pittore,  disse  a  comp.to  di  D.ti  25,  et  sono  per 
il  prezzo  d'una  cona  con  la  cornice  indorata  che  la  figura  è  di 
S.  Stefano  et  altre,  declarando  essere  stato  di  d.ta  cona  soddi- 
sfatto. 

A  2  marzo  1598.  Vincenzo  di  Leo  paga  D.ti  6  a  Pietro 
Torres  flamengo  pittore,  habitante  vicino  la  Carità  a  Strada  To- 
ledo, in  parte  di  D.ti  11,  per  l' integro  prezzo  di  una  cona  1'  ha 
da  fare  alla  sua  cappella  di  S.ta  Maria  della  Gratia  Maggiore  di 
Napoli  con  il  scandello  con  tre  figure  grandi  la  Madonna  de  lo 
Reto  et  due  S.  Francesco  intieri  con  gli  angioli  che  bisognano 
con  colori  finissimi,  conforme  la  cona  che  sta  entro  la  sacrestia 
di  d.ta  ecclesia,  con  il  friso  grande  d'oro  finissimo,  con  ponere  le 


*  Sulla  esistenza  di  questi  due  quadri  del  Solderi  in  Pescopagano  aven- 
done pregato  Tamico  e  pittore  di  colà  Sig.  Laviano,  a  cui  rendo  ora  le  do- 
vute grazie,  gentilmente  rispose  che  quello  di  S.  Rocco  su  tela  di  m.  1,90 
per  m.  1.50  è  discretamente  conservato,  mentre  l'altro  dell'Annunziata  pure 
su  tela  di  m.  1.80  per  1.48  è  stato  orribilmente  ritoccato,  screpolato,  e 
scrostato  ;  entrambi  i  dipinti  sono  di  poca  importanza  artistica. 

«  Conf.  in  questo  Archivio,  XXXVIII,    575. 


—  189  — 

tavole  et  ogni  altra  cosa  bisognerà  in  d.ta  cona,  larga  palmi  4,  e 
più,  et  alta  palmi  5  1/2. 

A  17  novembre  1598.  D.  Persio  de  Feuli  paga  D.ti  10,  a 
m.ro  Pietro  Torres  fìamengo  per  caparro  d'un  quadro  che  fa  fare 
per  l'Università  di  Mormanno  in  Calabria,  per  lo  prezzo  di  D.ti  30 
solo  lo  quadro,  et  D.ti  15,  le  cornice  larghe  però  a  proportione 
del  quadro  intagliate  et  bene  indorate.  Quale  quadro  habbia  da 
essere  di  palmi  11,  alto  et  9,  largho  con  la  Madonna  in  mezzo 
di  tutta  mostra  con  il  Ghristo  in  braccio  et  da  V  uno  canto  del 
quatro  S.  Caterina  apparente  con  li  Misterii,  similmente  di  colori 
fini  et  di  tutta  perfettione. 

A  26  maggio  1600.  Agostino  Bernalli  paga  D.ti  15  a  Pietro 
Torres  pittore  in  Napoli,  ce  li  pago  in  nome  et  parte  di  D.a  Lo- 
cretia  del  Tufo  Orsina  contessa  de  la  città  di  Muro,  et  di  soi 
propri  denari  lasciatoli  in  suo  nome  da  Antonio  dell' Abbadessa 
suo  creato  a  comp.to  di  D.ti  70,  per  1'  integro  prezzo  et  paga- 
mento di  una  cona  in  tela  con  la  figura  della  SS. a  Concettione 
della  Madre  di  Dio  nostro  Signore,  et  li  soi  Misterii  intorno,  et 
quadro  de  Iddio  Padre  in  cima  al  frontespizio,  siccome  appare 
da  ist.o  celebrato  tra  d.ti  Pietro  et  il  D.r  GiuUo  Capobianco  di 
Muro  in  curia  di  Notar  F.co  de  la  Calce. 

A  25  maggio  1601.  Trojano  de  Filippo  paga  D.ti  20,  a 
Pietro  Torres  pittore  per  ordine  del  duca  di  Popoli  in  conto 
dell'opera  e  guarnìmento  di  una  cona  della  Madonna  et  un  qua- 
tretto  che  fa  per  servitio  di  detto  duca,  per  li  quali  ha  avuto 
altri  D.ti  27. 

A  20  giugno  1602.  Dom.co  Spinello  Consolo  paga  D.ti  15 
a  Pietro  Torres  a  comp.to  di  quindici  quadri  di  apostoli  nella 
chiesa  di  S.  Gio.  dei  Fiorentini. 

A  28  giugno  1603.  Il  Marchese  di  erottola  paga  a  Pietro 
Torres  pittore  D.ti  10,  per  uno  quadro  dei  SS.ti  Pietro  e  Paolo 
l'ha  consignato. 

ViNS  0  ViNx  Abramo.  —  Questo  pittore  fiammingo  operava 
a  Napoli  nel  primo  ventennio  del  1600  nella  particolare  branca 
dei  ritratti,  come  risulta  dai  documenti  già  pubblicati^  e  dagli 
altri  più  numerosi  che  seguono. 


Conf.  in  questo  Archivio,   XXXVIII   (1913),    p.  520 


—  190  — 

A  18  luglio  1603.  Scipione  Magnacervo  paga  D.ti  3,  ad  A- 
braghamo  Vinchix  per  uno  retratto  che  li  ha  da  fare  et  consi- 
gnare. 

A  16  febbraio  1604.  D.a  Beatrice  de  Ghevara  paga  D.ti  11, 
3,10  ad  Abram  Vinchs  in  conto  de  doi  retratti  che  Tha  da  fare 
a  sua  electione. 

A  10  ottobre  1606.  Geronimo  Ladislao  de  Fundo  paga  D.ti 
70  ad  Abraam  Vinx  a  comp.to  di  D.ti  140,  per  final  pagamento 
di  tre  ritratti  che  Tha  fatto,  cioè  due  per  esso  et  uno  di  caccia 
et  un  altro  di  D.a  Beatrice  Moles  sua  moglie,  talché  resta  inte- 
ramente soddisfatto. 

A  15  marzo  1606.  D.  Rodrigo  de  Salazar  paga  D.ti  8  ad 
Abramo  Vinchs  pittore  a  comp.to  di  D.ti  12,  per  un  ritratto  fatto 
della  sua  effigie. 

A  7  febbraio  1607.  Gio.  F.co  Pignatiello  paga  D.ti  6,  ad 
Abramo  Vins  a  conto  di  D.ti  15,  convenuti  per  lo  prezzo  di  un 
ritratto  che  li  bavera  da  fare  della  b.  a.  del  marchese  di  Modu- 
gno  suo  cognato,  et  di  più  d.to  Abramo  li  doverà  consignare  l'al- 
tro retratto  che  ha  fatto  del  detto  marchese  a  tempo  che  passò 
a  miglior  vita  accomodato  et  aggiustato. 

A  7  maggio  1608.  Gio:  Aniello  Russo  paga  D.ti  15,  ad 
Abram  Vinches  a  comp.to  di  D.ti  35,  et  in  conto  di  D.ti  55,  per 
lo  prezzo  di  dui  quadri  seu  ritratti  de  li  sig.ri  Gio:  Geronimo 
Natale  et  Antonia  Barba  sua  moglie  integri,  quali  bavera  da 
consignare  per  tutto  maggio. 

A  24  maggio  1608.  Gio.  F.co  Vitale  paga  D.ti  25  ad  Abram 
Vinx  pittore  a  comp.to  di  D.ti  60,  per  li  retratti  del  principe 
et  p.pessa  di  Roccaromana  fatti  di  loro  ordine. 

A  18  giugno  1608.  Geronima  Goscinà  paga  D.ti  60,  ad  Abra- 
ham Vinchs  a  comp.to  di  D.ti  72,  per  li  tre  quadri  di  ritratti 
che  ha  fatti  nelle  persone  del  principe  e  principessa  di  Cariati  et 
per  donna  Zeza  figlia,  atteso  li  altri  D.ti  12,  li  ha  ricevuti  con- 
tanti. 

continua 

Giambattista  d'  Addosio 


VARIETÀ 


IL    DIRITTO    AD    AMALFI 

NELL'ALTO  MEDIO  EVO 


È  veramente  un  acquisto  prezioso  che  ha  ottenuto  la  storia 
si  politica  che  giuridica  dell'Italia  meridionale  colla  pubblicazione 
del  Codice  Diplomatico  Amalfitano,  curata  in  modo  egregio  dal 
dottor  Riccardo  Filangieri  di  Candida  (Napoli,  1918).  Trattasi 
di  documenti  che  vanno  dal  secolo  X  al  XII,  ossia  per  un  pe- 
riodo di  storia  scarso  di  notizie  eppure  importante  perchè  in 
esso  metton  le  radici  istituti  e  consuetudini  che  poi  si  presen- 
teranno già  formate  nelle  epoche  posteriori.  La  Campania  con  la 
penisola  Sorrentina  non  hanno  gran  dovizia  di  carte  medievali 
edite  :  non  poche  attendono  chi  le  tragga  alla  luce  :  al  che  i 
tempi  non  volgono  propizi  ;  motivo  maggiore  perchè  quest'ottima 
pubblicazione  del  Filangieri  venga  presa  in  esame  per  rilevare 
gli  elementi  che  queste  carte  amalfitane  offrono  a  una  migliore 
conoscenza  del  diritto  praticato  in  questo  lembo  d'Italia. 

La  raccolta  contiene  una  parte,  probabilmente  la  più  impor- 
tante e  la  più  antica  delle  carte  proveniente  dai  monasteri  amal- 
fitani, dai  quali  originano  altre  varie  carte  ancora  inedite,  come 
il  Codice  Perris.  Altri  documenti  ha  l'Archivio  di  Ravello  ;  poi 
vi  è  un  fondo  di  carte  del  Monastero  di  S.  Trinità  e  S.  Chiara 
pure  di  Ravello.  Questo  saggio  di  documenti  offre  già  di  per 
sé  larga  messe  di  studi  tanto  per  chiarire  alcuni  punti  della 
storia  politica  del  ducato  di  Amalfi  quanto  del  diritto  praticato 
nel  suo  territorio. 

11  ducato  di  Amalfi  fu  in  certo  senso  presto  politicamente 
segregato  dai  territori  finitimi  ;  fu  il  più  esposto  alle  frequenti 
incursioni  dei  Saraceni  che  ne  depredavano  i  beni,  e  ne  caccia. 


—  192  — 

vano  gli  abitanti  «  nudi  et  vacui  »  come  diceva  Sergio  dux  Amal- 
fitanorum  nel  1009.  Amalfi  cosi  restò  un'oasi  in  riguardo  alle 
popolazioni  circostanti  :  e  le  sue  relazioni  col  mondo  svolge vansi 
per  via  del  mare  che  le  si  apriva  dinanzi  :  i  suoi  figli,  intrepidi 
naviganti  correvano  i  mari,  trafficavano  colla  Sardegna,  le  coste 
di  Africa  e  T Oriente  ;  e  sbarcavano  i  carichi  a  Napoli,  il  mag- 
gior mercato  delle  importazioni  amalfitane. 

Ed  allora  in  questa  completa  autonomia,  in  questa  indipen- 
denza specialmente  da  Salerno,  Amalfi  conservò  il  diritto  suo 
antico,  consuetudinario  che  si  riallacciava  al  diritto  romano;  e 
cosi  vissero  le  sue  genti  nell'epoca  a  cui  si  riferiscono  i  docu- 
menti pubblicati  dal  Filangieri.  Questi  non  fanno  mai  alcuna 
allusione  al  diritto  barbarico,  né  vi  è  parola  che  ad  esso  si  ri- 
porti :  e  se  nella  raccolta  vi  è  una  carta  che  menziona  il  mor- 
gengab,  la  carta  è  di  Salerno,  qui  redatta  per  persone  del  Sa- 
lernitano (an.  997  n.  16)  ;  e  i  formulari  notarili  non  conobbero 
parola  o  formola  che  avesse  attinenza  a  pratiche  di  origine  fo- 
restiera. 

Amalfi  si  mantenne  fedele  al  diritto  romano,  non  conosciuto 
in  un  testo  qualsiasi,  ma  seguito  per  consuetudine  tradizionale: 
e  la  stessa  menzione  di  una  lex  et  consuetudo  Romanorum  av- 
viene in  epoca  quando  già  la  sua  conoscenza  erasi  altrove  af- 
fermata (an.  1176,  n.  192:  an.  1196  n.  236),  alle  consuetudini^ 
locali  alludono  chiaramente  le  parole  usus  civiiatis  Amalphie\ 
della  carta  192  (an.  1176). 

Non  è  possibile  dai  documenti  ora  pubblicati  ricostruire  molto  j 
di  queste  consuetudini  :    la  vita  di   quelle  genti  era  semplice  :| 
date  alla  cultura  dei  campi  e  alla  navigazione  non  avevano  bi-j 
sogno  di  molte  norme.   Le  carte  si  riassumono  in  pochi  negozi] 
e  1  più  usuali:  vendite,  donazioni,   testamenti,   successioni,  no- 
mina di  esecutori  testamentari.  Nemmeno  vi  è  accenno  a  con- 
tratti marittimi  e  sì  che  spesso  ricorre    il  ricordo  di  mariti  ej 
figli  e  fratelU,  lontani  ad  navigandum  (an.  1036  n.  45).  I  formu- 
lari notarih  sono  semplici,  sobri,  alieni   da  retorica  e  da  quelle 
clausole  che  con  tanta  abbondanza  inseriscono  i  notai   dei  ter- 
ritori longobardi. 

Fra  le  consuetudini  amalfitane  la  più  notevole  è  la  condizione 
che  è  fatta  alla  donna  sia  moglie,  sia  vedova  o  nubile,  in  quanto 


—  193  — 

le  è  riconosciuta  piena  capacità  giuridica,  cosi  che  stipula,  vende 
dona,  dà  in  affitto  senza  assistenza  di  alcuno,  non  sottoposta 
ad  alcuna  tutela  vera  domina  nella  sua  casa.  Nel  1036  le  so- 
relle Boccia  ed  Anna  assieme  alla  cognata  moglie  del  loro  fra- 
tello M.  quod  est  ad  navigandum  concedono  a  pastinato  alcune 
terre  (n.  45):  nel  1087  Aloara  filia  et  vera  germana  nostra  qui 
mortua  est,  dona  la  quota  dei  beni  pervenutile  per  testamento 
dal  padre  (n.  82)  :  nel  1190  Sardena  filia  naturalis  d.  P.  coi 
suoi  figli  naturali  et  prò  parte  de  Dulacesia  naturalis  filia  mea 
qui  est  sine  hetate  vende  terre,  ecc.  (n.  223).  Parimenti  agisce 
da  sola  la  vedova  rappresentando  i  figli  minori  e  all'occorrenza 
gli  assenti  :  investita  di  pieni  poteri,  coll'intera  gestione  di  af- 
fari, senza  intervento  di  parenti  o  di  tribunale:  A.  relieta  dà 
la  figlia  a  servire  (an.  1090  n.  85)  :  un'altra  vedova  vende  terre 
(an.  1036  n.  46)  :  un'altra  vende  anche  a  nome  dei  figli  qui 
sunt  fores  terram  et  ego  quindinio  (an.  1079  n.  74)  :  una  vedova 
prò  vice  de  loti  filii  et  filie  mee  et  ego  istud  quidenio  a  partibus 
eorum  e  poi  caduta  in  povertà  restituisce  un  castagneto  che 
non  può  coltivare  (an.  1112  n.  113)  e  gli  esempi  continuano  (an. 
1117  n.  119  :  an.  1134  n.  140  :  an.  1138  n.  142  :  an.  1157  n.  163, 
164:  an.  1159  n.  166:  an.  1193  n.  231:  an.  1194  n.  232: 
an.  1197  n.   235). 

Ora  questa  posizione  di  domna  et  domina  che  ha  la  vedova, 
possiede  anche  la  moglie  associata  ad  Amalfi  a  tutti  i  negozi  del 
marito.  Della  sua  origine  e  natura  parlò  già  il  Tamassia  e  non 
occorre  tornarvi  sopra.  I  do  e.  amalfitani  mostrano  che  dove  il 
marito  negozia  e  contratta  e  si  obbliga,  interviene  anche  la  mo- 
glie ;  e  non  vi  è  documento  ove  assieme  al  marito  non  parte- 
cipi anche  la  moglie.  Ne  ho  notato  24  esempi,  e  ne  riporto  i  più 
antichi  :  an.  931  Leo  seu  et  Maria  jugalis  vendidimus  atque  in 
presentis  cessimus  et  contradidimus  le  porzioni  che  a  Leone  per- 
vennero dall'eredità  patema  (n.  3)  :  an.  940  /.  et  Drosu  jugalia 
ecc.  (n.  6)  :  an.  984  Urso  eManso  coUe  rispettive  mogli  vendono 
(n.  11):  an.  984  all'an.  998  n.  12,  13,  14,  15,  17:  an.  1008, 
1018,  1044,  n.  25,  27,  35,  58  :  an.  1184,  1186,  1187,  1192,  n.  216, 
218,  220.  229.  L'assenso  della  moglie  è  anche  cosi  espresso  an. 
1066  X  per  consensum  et  absolutionem  A,'  uxofis  mee  dona  ecc. 
(n.  70)  an.    1086,  1090  n.  80,  84, 

Anno  XLV.  13 


—  194  — 

E  assieme  alla  moglie  intervengono  i  figli  :  an.  1082  il  prete 
S.  e  sua  moglie  e  i  figli  prò  vice  nostra  et  prò  vice  de  totis  ip- 
sis  filiis  et  germanis  et  nos  quindeniamus  a  parte  eorum  qui 
sunt  sine  hetate  vendono  terre  (n.  88):  an.  1093,  1133,  1142, 
n.  91,  136,  146  :  an.  1122  S.  con  moglie  e  figli  vende  Vheredi- 
tas  (n.  121):  1197  Leone  e  sua  moglie  col  figlio  e  a  nome  de- 
gli altri  figli  assenti  e  minorenni  vendono  (n.  239)  :  an.  1127, 
1157,    1139,   1197  n.  131,  141,  144,  238. 

Questi  documenti  fanno  supporre  una  perfetta  associazione 
sì  nel  possesso  che  nell'amministrazione  dei  beni  della  famiglia, 
sia  che  questi  beni  siano  di  patrimoni um  o  dì  matrimonium  come 
si  esprime  una  carta  del  1180  (n.  244),  cioè  beni  provenienti 
al  marito  o  dall'eredità  paterna  o  dal  suo  lavoro,  oppure  beni 
portati  dalla  moglie  in  occasione  del  matrimonio.  Qualunque 
sia  la  provenienza,  essi  costituiscono  una  sostanza  comune,  sulla 
quale  la  moglie  ha  diritti  e  della  quale  la  moglie  ha  l'ammini- 
strazione nella  assenza  del  marito  :  così  nel  1007  la  moglie  a 
nome  del  marito  qui  est  ad  nauigandum  procede  ad  accordi  col 
vescovo  intorno  a  certi  beni  (n.  21)  :  an.  1130  D.  uxor  anche 
a  nome  del  marito  assente  vende  ecc.  (n.  100,  101).  E  come 
il  padre  vende  a  nome  dei  figh  assenti  o  minorenni  (an.  1104 
n.  103  :  an.  1142  n.  146),  e  i  figli  contrattano  a  nome  della  ma- 
dre qui  est  infirma  et  non  potuit  venire  (an.  1184  n.  104),  così 
la  madre  vedova,  come  la  moglie,  compie  tutti  i  negozi  nell'in- 
teresse suo  e  dei  figli  senza  intervento  di  cognati  e  del  magi- 
strato. E  quando  il  marito  stipula  un  contratto,  la  moglie  in- 
terviene non  per  semplice  formalità,  ma  per  esprimere  il  suo 
assentimento  «  per  consensum  et  absolutionem  »  (an.  1066  n.  70: 
an.  1086  n.  80  :  an.  1090  n.  84). 

Da  questi  documenti  è  legittimo  trarre  la  conclusione  che 
tali  atti  compiuti  da  ambo  i  coniugi  in  comune  presuppongono 
quella  consuetudine  che  il  Roberti  ha  recentemente  illustrata 
a  proposito  della  comunione  dei  beni,  dei  quali  i  coniugi  erano 
proprietari.  Che  l'origine  di  essa  si  rannodi  a  pratiche  romane 
pare  doversi  ammettere  senz'altro  e  non  è  a  supporre  influenza 
di  elementi  estranei,  che  certo  non  penetrarono  ad  Amalfi  :  e 
non  sarebbe  spiegabile  come  il  territorio  amalfitano  avesse  con- 
servato in  tutto  le  sue  consuetudini,  fatta  eccezione  per  questa 


—  195  — 

materia.  Nelle  epoche  di  scarsa  civiltà,  dove  le  comunicazioni 
e  gli  scambi  fra  i  popoli  sono  pochi  e  lenti,  il  diritto  conserva 
un  carattere  locale  e  non  ha  quella  diffusibilità  che  del  resto 
nemmeno  si  riscontra  in  epoche  più  evolute.  Intanto  queste 
carte  accertano  che  Amalfi  fu  una  regione  immune  e  che  si 
mantenne  ligia  alla  tradizione  giuridica  romanica.  Per  ora  non 
si  può  concludere  diversamente. 

Restando  sempre  sulla  capacità  giuridica  della  donna,  giacché 
questo  è  il  punto  più  di  rilievo  che  si  presta  ad  essere  illustrato 
dalle  carte  amalfitane,  va  notato  come  di  frequente  essa  sia 
chiamata  ad  adempiere  le  funzioni  di  esecutrice  testamentaria: 
an;  1082  M.  relieta  et  ego  I.  qui  sumus  genitrix  et  filius  qui  su- 
mus  distributores  de  Aloara  filia  et  vera  germana  nostra  (n.  82): 
an.  1099  X.  distributrix  (n.  96):  an,  1125  X.  monaco  assieme 
ad  A,  distributrix  (n.  127)  :  an.  1127  la  suocera  col  genero  in- 
caricata dell'esecuzione  di  testamento  (n.  129)  :  an.  1094  n.  58: 
an.  1126  n.   150. 

Siffatta  posizione  in  cui  fu  posta  la  donna  amaKitana  trova 
riscontro  in  quello  che  io  notai  nel  1897  (Rivista  di  Storia  e  fi- 
losofia del  diritto,  Palermo,  an.  I  fase.  IV  pag.  198,  206)  per  la 
la  donna  genovese.  A  Genova,  città  dove  vari  elementi  etnici 
vivevano  gli  uni  accanto  agli  altri,  quali  secundum  usum  et 
consuetudinem  terrae  ed  erano  i  resti  di  origine  germanica,  quali 
secundum  legem  ed  erano  gli  indigeni,  nei  secoli  X  e  XI  le  donne 
donavano  e  vendevano  senza  intervento  dei  parenti  o  dell'au- 
torità pubblica,  del  judex  qui  in  loco  fuerit,  il  quale  invece  è 
menzionato  nei  documenti  di  Cava  {Codex  diplom.  cavensis  I  n. 
21,  22,  25,  66,  75,  97:  II  n.  241,  348:  III  n.  490:  IV  n. 
564,  648,  697  :  V  n.  732,  750),  per  nulla  dire  di  quelli  del- 
l'Italia Centrale,  come  Lucca  (Memorie  e  doc.  di  Lucca)  IV  parte 
II  n.  115  an.  1112  :  n.  127  an.  1153:  V  parte  III  n.  1389  an. 
961Ì,  come  Parma  (Affò  Storia  di  Parma  II  n.  66),  di  Modena 
(Tiraboschi,  Memorie  storiche  moden.,  I  n.  45  :  II  n.  88)  :  e 
basti  per  tutto  citare  il  Liber  papié nsis  {form.  adLiutpr.  22:  Expo- 
sitio  id.  e  ad  Roth  204,  Cartul.  long.  n.  3)  ove  è  palese  Vinter- 
rogatio  della  donna  da  parte  del  giudice. 

Nulla  di  tutto  ciò  ad  Amalfi  :  e  intanto  questa  coincidenza 
con  la  consuetudine  di  Genova  non  può  spiegarsi  altro  che  col 


—  196  — 

manifestarsi  nei  due  territori  condizioni  identiche  che  conferivano 
alla  donna  queir  indipendenza  necessaria  per  l'amministrazione 
del  patrimonio  familiare.  Entrambe  città  di  mare,  mentre  gli 
uomini  erano  ad  navigandum  avevano  riconosciuto  necessario 
conferire  alla  donne  la  facoltà  di  negoziare  e  stipulare  in  rap- 
presentanza dei  mariti  dei  fratelli  e  dei  figli  lontani.  Non  occorre 
quindi  ricercare  se  queste  facoltà  nascevano  da  questo  o  quel 
diritto  :  esistevano  e  si  erano  formate,  determinate  dalle  neces- 
sità della  vita  quotidiana. 

I  documenti  amalfitani  offrono  anche  qualche  particolarità 
sul  valore  della  carta:  an.  1018  chartula  exinde  si  inbenta  fuerit 
aliquando  apud  qualemcumque  persona  qui  sint  propria  de 
ista  hereditate  quam  vohis  vendidimus  et  non  eam  nos  et  nostri 
heredes  miserimus  ad  poiestatem  vestram  (a.  34)  :  an.  1024  n.  37: 
an.  1035  n.  42  :  colle  quali  parole  si  riconosce  che  la  carta  ha 
più  che  valore  probatorio,  quello  costituitivo  di  diritto,  e  la  legit- 
timazione della  proprietà  discende  dal  possesso  del  titolo,  cosi- 
chè  i  venditori  si  obbligano  ad  assicurare  che  questo  sia  sempre 
nelle  mani  dei  compratori.  Ancora  :  A.  relieta  dà  sua  figha  a 
famulato,  e  il  ricevente  poiestatem  habeatisvos  vel  vestri  missi  cum 
ano  cartulam  illam  comprehendere  (an.  1090  n.  85)  :  an.  1142 
Coniugi  vendono  una  terra  e  danno  i  titoli,  salvo  quelli  che  per- 
dettero quando  Ravello  fu  presa  dai  Pisani  sed  firmamus  vohis 
ut  si  aliquando  tempore  inbenta  dederit  ipsa  mittamus  (n.  146).  Il 
valore  degli  istrumenti  risulta  da  questo  doc.  del  1 150  col  quale 
i  debitori  dederunt  mihi  in  pignus  charte  15  ubi  continent  omnia 
illorum  causa  (n.  153).  E  nel  senso  delle  precedenti  spiegazioni 
cadono  ancora  le  espressioni  di  questi  doc.  :  an.  1157  consorte» 
et  partionarii  eccl.  vendono  terre,  ma  non  hanno  alcuna  cartam 
veterem,  sed  firmamus  vobis  ut  si  aliquando  tempore  aliqua  char- 
tula pervenerit  vel  inventa  dederit  nos  et  nostri  heredes  mittere 
ecc.  (n.  165):  an.  1007  è  venduto  un  fondo  senza  carta:  il  com- 
pratore rivende  e  stende  la  carta  et  si  aliquando  inventa  dede- 1 
rit,  ipse  chartula  offertionis  mittere  se  debeat  apud  ss.  monaste- 
rium  (n.   18  e  22). 

II  testamento  segreto  è  ricordato  (an.  1087  n.  82),  ed  è  am- 
messa la  sostituzione  :  an.    1125  un  prete  nomina  suo    erede  il 


—  197  — 

nipote,  e  questo  morto  dispose  che  l'eredità  perveniat  in  pò- 
testate  de  totis  propinquis  consanguineis  meis  (n.  126). 

Poche  altre  notizie  che  interessano  la  storia  del  diritto  ;  an. 
1150  un  prete  presta  a  interesse  su  pegno  di  15  documenti: 
non  soddisfatto  si  rivolge  allo  stratigoto  di  Ravello  che  emette 
epistolam  testatam  con  ingiunzione  di  pagare,  e  in  seguito  auto- 
rizza il  creditore  a  prender  possesso  dei  beni  del  debitore  e  a 
venderli  fino  alla  concorrenza   del  suo  credito  (n.  153). 

An.  939  X  dona  beni  a  suo  famulus  ac  libertus  :  questi  muore 
senza  eredi  :  i  beni  suoi  toccano  al  padrone  (n.  5). 

An.  1090  una  vedova  concede  sua  figlia  a  famulato  :  il  rice- 
vente si  obbliga  di  nutrirla,  vestirla,  calzare^  facere  ad  eam  bene 
ut  habeatis  de  illa  mercedem  et  nomea  bonum.  Se  fuggirà,  la 
madre  dovrà  restituirla.  Potestatem  habeatis  vos  et  vestri  missi 
cum  anc  cartulam    comprehendere  et    disciplinare  misericorditer. 

Alla  morte  del  padrone,  riceverà  un  letto,  abito  e  sarà  libera 
(n.  85):  anche  questi  segni  di  una  società  povera  (an.  1105  un 
letto,  un  lenzuolo,  un  mantello  n.  126:  an.  1180  piccola  dote 
data  dalla  sorella  nr.  214). 

Prima  di  chiudere  questi  brevi  cenni,  voglio  ricordare  la  carta 
del  1004,  1091,  1113  dove  parlasi  del  publicum  e  di  beni  de- 
maniali :  an.  1004  Manso  dux  et  Johannes  dux  dona  al  monast. 
omnia  quod  habuit  ipse  pubblicus  noster  (n.  18)  :  an.  1091.  Rug- 
giero duca  conferma  al  vescovo  plagiam  arena  maris  (n.  87: 
an.  1113  Gwjlielmus  dux  conferma  ad  abbate  plenariam  et  in- 
tegram  hereditatem  que  fuit  de  ipso  nostro  palacio  positam  iuxta 
plagia  arena  maris  (n.   114). 

Risulta  cosi  che  il  publicum  è  tenuto  distinto  dai  beni  patri- 
moniali del  duca  :  il  publicum  è  proprietà  dello  Stato,  di  cui 
il  duca  ha  il  possesso,  come  era  nel  ducato  di  Napoli.  Secondo 
il  diritto  romano  gli  arenili,  le  spiaggie  erano  pubblico  dema- 
nio, (come  di  recente  hanno  dimostrato  Costa  e  Maroi):  e 
come  i  duces  nelle  p'rovincie  originariamente  bizantine  acqui- 
starono poteri  di  sovrana  autonomia,  così  considerarono  come 
loro  proprietà  quel  demanio,  col  diritto  di  riscuoter  tasse, 
portuatica,  litoralica  che  prima  appartenevano  al  fìsco,  e  lo  alie- 
narono (cfr.  docum.  an.  1007  in  Camera,  Memorie  storiche  di 
Amalfi,  I,  221). 


—  198  — 

Da  questa  esposizione  emerge  come  la  popolazione  di  Amalfi 
non  modificò  il  suo  diritto  con  elementi  di  origine  germanica, 
visse  fedele  alle  sue  tradizionali  consuetudini  che  si  collegano 
alla  pratica  romana,  naturalmente  adattata  alle  condizioni  create 
dalla  semibarbarie  medievale. 


Giuseppe  Salvigli. 


ASSEMBLEA  GENERALE  DEI  SOCII 
DEL  28   Giugno  1920 


ORDINE  DELLA  DISCUSSIONE 

1)  Comunicazione  della  Presidenza. 

2)  Il  Prof.  M.  Schipa  darà  notizia  di  un  manoscritto  recente- 
mente donato  alla  Società. 

3)  Bilanci  consuntivi  del  1918-1919. 

4)  Relazione  dei  Revisori  dei  conti. 

5)  Proposta  di  Bilancio. 

6)  Elezione     del    Consiglio    Direttivo    e    dei    Revisori    dei 
conti. 

Presiede  il  prof.  M.  Schipa  e  intervengono  col  prof.  Teti,  che 
rappresenta  anche  il  Commissario  al  Comune,  comm.  Giuseppe 
Faggiolari,  quaranta  Soci. 

Alle  ore  21  si  inizia  la  discussione,  dopo  approvato  il  verbale 
dell'adunanza  del  18  maggio  1918. 

Il  Presidente  Schipa  saluta  e  ringrazia  gr  intervenuti,  scusa  il 
Consiglio  direttivo  del  non  avere  adunata  Tanno  scorso  V  assem- 
blea e  delT  aver  indugiato  la  pubblicazione  dello  "  Archivio  ,, ,  e 
crede  interpetrare  il  voto  dì  tutti  i  soci,  felicitandosi  con  Bene- 
detto Croce,  segretario  della  Società,  per  la  sua  assunzione  al  Mi- 
nistero dell'Istruzione. 

Passa  quindi  a  commemorare  i  soci  defunti  nel  1919-1920  : 
Ludovico  de  La  Ville,  bibliotecario.  Nunzio  Federico  Faraglia  e 
il  consigliere  avv.  Enrico  Riccio.  E  segnala  tra  gli  acquisti  fatti 
nel  biennio  dalla  Società  la  cronaca  autografa  di  Antonio  Stas- 
sano donatale  dal  dottore  Pietro  Stassano,  nipote  dell'  autore. 
Dando  un  largo  conto  di  questo  manoscritto,  lo  confronta  con 
una  copia  che  la  Società  precedentemente  possedeva  e  ne  rileva 
r  importanza.  La  sua  comunicazione  è  stata  pubblicata  nei  Ren- 
diconti della  R.  Accad.  dei  Lincei. 

De  Montemayor  riferisce  sui  conti  del  1918-1919.  Il  primo  si 
chiuse  con  un  introito  di  Lire  15793.36,  e  con  un  esito  di 
L.  13673.21,  e  perciò  con  un  supero  di  L.  2120.15. 

n  secondo  si  chiuse  con  un  introito  di  L.  14.469.35  e  con  un 
esito  di   L.  12.649.37  e  col  supero  di  L.  1819.98. 


—  200  — 

Il  socio  duca  Enrico  Catemario  di  Quadri,  anche  a  nome  del- 
Taltro  revisore  conte  Vincenzo  del  Balzo,  legge  la  relazione  sui 
conti  del  1918  e  1919  proponendone  T approvazione  con  un  voto 
di  plauso  al  Consiglio  Direttivo. 

L'assemblea  ad  unanimità  approva  i  conti  del  1918  e  1919. 

De  Montemayor  espone  il  bilancio  preventivo  pel  1920  che  pa- 
reggia nella  somma  di  L.  22396.05  compreso  lo  stanziamento  alle 
eventuali  di  L.  2137.38  Fa  rilevare  che  il  notevole  aumento 
nelle  somme  previste  airintroito  ha  origine  in  parte  dai  residui 
attivi  degli  esercizi  scorsi,  in  parte  dall'  aumentato  numero  dei 
socii  e  dalla  vendita  anch'essa  aumentata  dello  «  Archivio  storico  », 
e  delle  altre  pubblicazioni  della  Società. 

Ma  se  questi  aumenti  agli  introiti  hanno  per  una  parte  carat- 
tere transitorio,  sono  purtroppo  definitivi  gli  aumenti  delle  spese 
e  specialmente  quelle  per  la  stampa  dell'  «  Archivio  storico  »,  che, 
per  le  difficili  condizioni  fatte  ora  all'industria  tipografica,  è  salita 
a  circa  8500  lire  e  avrà  altri  aumenti  in  seguito. 

Perchè  il  bilancio  del  1920  si  chiuda  non  soltanto  in  pareggio 
ma  con  un  fondo  di  cassa  tale,  che  come  pel  passato  assicuri 
una  prospera  vita  alla  nostra  Società,  occorre  provvedere  a  nuovi 
introiti  straordinari  per  i  quali  il  Consiglio  direttivo  assume  l'im- 
pegno di  spendere  ogni  cura. 

L'assemblea  approva  il  preventivo  pel  1920. 

Si  procede  in  fine  all'elezione  del  Consiglio  che  su  proposta  dei 
socii  G.  Sacchi  Lodispoto  e  Nino  Cortese  è  fatta  per  acclama- 
zione aggiungendosi  agli  uscenti  : 

Prof.  Michelangelo  Schipa,  prof.  Nicola  Barone,  marchese 
Giuseppe  De  Montemayor,  senatore  Benedetto  Croce,  prof.  Fran- 
cesco Torraca,  prof.  Giulio  de  Petra,  dott.  Giuseppe  Ceci,  cav. 
Tommaso  Persico,  il  socio  marchese  Emilio  Nunziante. 

n  Presidente  per  delegazione  dell'assemblea  conferma  revisori 
dei  conti  pel  1920  i  soci  Enrico  Catemario  e  conte  Vincenzo 
Del  Balzo. 

Alle  ore  23  essendosi  esaurito  l'ordine  del  giorno  il  Presidente 
dichiara  sciolta  l'adunanza. 


Direttore  prof.  Michelangelo  Schifa 


Gerente  responsabile  d.r  Fausto  Nicolini 


PUBBLICAZIONI 

SOCIETÀ   NAPOLETANA  DI  STORIA    PATRIA 
(Piazza  Dante,  93) 


Con  r  annata  XL  si  è  iniziata  la  seconda  serie  deìV Archivio 
storico  per  le  province  napoletane,  che  viene  inviato  gratuita- 
mente ai  soci.  Pei  non  soci  il  prezzo  di  un  fascicolo  separato 
della  seconda  serie  è  di  lire  7,50;  di  un'intera  annata,  di  lire  30,00. 
Per  l'Estero  il  pagamento  deve  esser  fatto  in  oro. 

Della  prima  serie,  le  annate  II,  IV,  V,  VI  sono  esaurite;  le  al- 
tre, fino  alla  XX,  si  vendono  a  lire  25,00  l'annata,  e  a  lire  20,00 
le  successive. 

I  fascicoli,  che  risultassero  disponibili  dall'elenco  conservato 
in  Segreteria,  si  vendono  separatamente  al  prezzo  di  hre  6,25 
ciascuno.  Ai  soli  soci  si  accorda  lo  sconto  del  25%. 

Altre  pubblicazioni  della  Società  Napoletana  di  Storia  Patria  : 

i.  Monumenti  storici  (in-quarto). 

e  APASSO    B.,  Monumenta  ad  NeapoUlani  Ducatus  Historiam  per- 

tinemia,  tomi  tre,  1881-5. L.  2O0,('O 

De  Blasiis  G.,  Chronicon  Siculum  incerti  authoris  ab  anno  3  40  ad 

an.  1396  ex  inedito  codice  Otioboniano  Vaticano,  ISf^l.     ...»     20,00 
(JfAUDENzi   A.,  Ignoti  Monachi  Cislcrciensis  S.  Marisa  de  Ferraria 

Chronica,  et  Riccardi  de  Sancto  Germano  Chionica  priora,  1888.    >-     20,00 
De    Montemayor    G.,  Diurnali  di  Scipione  Guerra,  1891.  »  <ì  ' 

Fahagi.ia    N.    F.,  Diurnali    detti  del  duca  di  Monteleone,,  18U5.         2U,0U 
Ani GN ENTE     G.  >    Domini  Blusii    de    Morcone  :    De    differentiis 
'rr   jiis  Loni/obardorn:  Romanorum  tractatus.   1012 

voLPicELLA  L.,  Ferdinandi  Pruni  Jnstructionun'  /  '1186-88), 

con  note  storiche  e  biografiche  .      . 


li.  Documenti  per  la  stdTfk,  le  arti  e  le  industrie   delle  province 

napoletane  (Nuova  Serie,  in-quarto): 
Bbrtaux  e.,  S.  Maria  di  Donna  Regina  e  l'arte  senese  a  Napoli  nel  secolo 

XIV,  con  figure  e  tavole,  1899 L.  35,00 

III.  Varia  (iu-ottavo). 

Capasso  B.,  Descrizione  di  Napoli  nei  principii  del  sec.  X.VII  di 

Giulio  Cesare  Capaccio,  1882 »    5,00 

Capasso  B.,  Masaniello  ed  alcuni  di  sua  famiglia  effigiati  nei  quadri, 

nelle  figure,  e  nelh  stampe  del  tempo,  1897 »    7,00 

Del  Giudice  G.,   Commemorazione  di  Barlolommeo  Capasso  1900.    »    2,00 
Croce  B.,  Relazioni  di  patrioti  napoletani  col  Direttorio  e  col  con- 
solato e  l'idea  della   Unità  Italiana,  1901 »    3,00 

Capasso  B.,  Napoli  greco-romana,  opera  postuma  edita  da  G.  de 
Petra,  1905.  Un  voi.  rilegato  in  tela  col  ritratto  dell'Autore, 
con  16  tavole    intercalate  nel  testo  e  con  la  pianta  della  città 

greco-romana "  30.00 

De  Nicola  Carlo,  Diario  napoletano  (1798-1825),  1905,  voi.  tre  .  »  50,00 
Egidi  P.,  La  colonia  saracena  di  Lucerà  e  la  sua  distruzione,  1915   .  »  15,00 

Egidi   P.,   Codice  Saraceno  di  Lucerà,  1917 »  30,00 

Schifa  M.,   La  così  detta  rivoluzione  di  Masaniello,  1919 «  10,00 

Sono  in  vendita  presso  Ja   Società  le   seguenti   altre  opere: 

1.  Filangieri  d1  Satriano  Gaetano,  Documenti  per  la  storia,  le  arti  e  le 
industrie  delle  Provincie  Napoletane,  voli,  cinque  (il  primo  è  esaurito); 
II,  1884  ,  pp.  XXVIII-494  ;  III  ,  1885  ,  pp.  XLIII-680  ;  IV,  1888  , 
pp.  XLVIII-548;  V,  1891,  pp.  XIX-627;  VI,  1891,  pp.  VIII-678  L.  187,50 

I  volumi  V  e  VI >'  "100,00 

IL  Biblioteca  Napoletana  di  storia  e  letteratura: 

Percopo  e..   Il  Chariteo,  1892,  Un  voi.  di  pp.  CCXCIX    .    .  »       6,50 
Croce  B.,  Lo  canto  de  li  cunti  (il  Pentamerone)  di  G.  B.  Basile, 

1891.    Un    voi.,    pp.    CLXXXIX-293. '    6,00 


AVVISO 


Lettere,  libri  e  manoscritti  debbono  inviarsi  alla  sede  della 
Società:  Piazza  Dante,  93. 

I  pagamenti  dei  soci  si  fanno  direttamente  o  per  mezzo  di 
vaglia  postale  al  signor  marchese  Giuseppe  de  Montemayor 
nella  predetta  sede. 

Per  l'abbonamento  e  la  vendita  dei  fascicoli  e  delle  altre 
pubblicazioni  •  rivolgersi  all'  editore  Luigi  Lubrano  presso  la 
sede  della   Società. 


11^ 


'<4.'':.-. 


ARCHIVIO  STORICO 


PER  LE 


PROVINCE   NAPOLETANE 


PUBBLICATO 


A   CURA  DELLA   SOCIETÀ  DI  STORIA   PATRIA 


NUOVA  SERIE  -  ANNO  VI. 
XLV  dell'intera  collkzionb 
FASC.   III-IV-15    DICEMBRE   1921 


NAPOLI 

LUIGI  LUBBANO,    Editork 

1920 


SOMMARIO 

DEL  FASCICOLO  IIl-lV  DEL  1920 


Memorie  : 

I  Curiali    napoletani  (contin.)  —  A.    Gallo  ....    pag.  201 

I  cartai  e  librai  a  Napoli  nel  Rinascimento  (coni.)  — 
M.  Fava-G.  Bresciani »     228 

La  congiura    del    Principe   di    Montesarchio    (fine)-'— 

M.  Schifa »     251 

La  prigionia   di    Malizia  Garafa  e   le  sue  suppliche  a 

Papa  Clemente  XI  —  M.  Martini »    280 

V  esercito  Napoletano  dalla  minorità  di  Ferdinando 
alla  Repubblica  del  1799  (contin.) — A.  Simioni  .     .        » 

Da  archivi  e  biblioteche  : 

Per  la  storia  della  Congiura  dei  Baroni.  Documenti 
inediti  dell'Archivio  Estense  (1485-1487)  (cont.),— 
G.  Paladino »     325j 

Gli  «Avvertimenti  ai  nipoti»  di  Francesco  d'Andrea 
(contin.)  —  N.  Cortese  ...:....■         »     352i 

Atti  della  Società  —  Nuovi  sodi      ...:..         »     3981 


I  CURIALI  NAPOLETANI    DEL    MEDIOEVO 

(Cont.:  V.    pp.  5-27) 

.    •>./ 

Federico  II  pel  primo  attentò  alle  franchigie  curiali,  statuèjttìo 
«instrumenta  publica  et  quaslibet  cautiones,  per  litteraturam 
communem  et  legibilem  scribere  debere  »,  e  che  fosse  riserba- 
to l'ius  stipulandi  unicamente  ai  «  nota,rii  statuti  »  dalla  sua 
cortei  II  motivo  sostanziale  che  giustifica  un  tale  provvedi- 
mento è  il  «modus  scribendi,  qui  in  ci  vitate  Neapoli,  ducatus 
Amalfie  ac  Surrenti  atque  per  eorum  pertinentias  hactenus 
servabatur  »  ;  donde  la  necessità  «  ut  predicta  instrumenta  et 
alie  cautiones  nonnisi  in  posterum  conscribantur  »  ^.  Questo 
enunciato,  notevole  per  l'accenno  alle  circoscrizioni  in  cui  si 
esercita  l'arte  curialesca,  è  generico  per  l'applicabilità  della  nor- 
ma stessa,  determinata  meglio  nella  seconda  parte,  in  quanto 
toglie  alla  eversione  dei  protocolli  il  carattere  retroattivo  : 
«  cum  eorum  (e  cioè  instrumentorum  et  aliarum  cautionum)  fi- 
des  multis  futuris  temporibus  duratura  speretur,  instrum    esse 

1  Constitutiones,  LXXX,  da  cui  risulta  che  1'  imperatore  legifera  con- 
tro gli  anlichi  usi  della  città  :  «  Consuetudinem  quam  olim  in  aliquibus 
regni  partibus  audivimus  obtinere  dilucida  contitutione  cassantes,  decer- 
nimus  instrumenta  publica  et  quaslibet  cautiones  per  litteratam  commu- 
nem et  legibilem,  per  statutos  a  nobis  notarios  scribi  debere,  scribenti 
modo  qui  in  civitate  Neapolis,  ducatu  Amalfìe  ac  Surrenti  [atque  per 
eorum  pertinentias]  omnino  sublato».  Questa  costituzione  rimonta  al  1220; 
Chiarito,  117:  Huillard-Breholles,  Historia  diplomatica,  IV,  p.  I,  56. 
Per  la  revoca  di  prerogative  speciali  vigenti  a  Napoli  e  per  l'affermazione 
esplicita  del  principio  di  accentramento,  Constitutiones,  LXXXI. 

*  Constitutiones,  LXXX  :  «  Volumus  etiam  et  sancimus  ut  predicta 
instrumenta  publica  et  alie  similes  cautiones  nonnisi  in  posterum  con- 
scribantur ». 

Anno  XLV.  14 


—  202  — 

decernimus  ut  ex  vetustate  forsitan  destructionis  periculo  non 
succumbat  »  ^.  Viene  cioè  riconosciuto  il  valore  della  prece- 
dente documentazione  pei  suoi  lunghi  effetti  nei  rapporti  dei 
privati  fra  loro,  e  garentita  dalla  norma  conservativa  della  leg- 
ge^. La  limitazione  probatoria  salva  le  apoche  e  le  antapoche, 
e  colpisce  indistintamente  «instrumenta  in  chartis  papyri  vel 
alio  modo  quam,  ut  predictum  est,  scripta  ^»,  in  linea  giudi- 
ziaria ed  estragiudiziaria,  ottenendo  un'  osservanza  così  piena 
nella  pratica  che  del  materiale  papiraceo  proprio  nulla  è  avan- 
zato. Non  si  vede  chiaro  intanto  quali  possano  essere  le  carte 
scritte  alio  modo,  poiché  mancano  elementi  dimostrativi  pel 
contenuto  di  questa  espressione  interpolata.  Il  termine  instru- 
menta  è  associato  altra  volta  ad  alie  cautiones  ;  ma  si  può  iden- 
tificare perciò  tale  dicitura  coi  documenti  scritti  in  altro  modo  ? 
Bisognerebbe  ritenere  che  le  cautiones  si  scrivessero  su  di  un 
materiale  diverso  dalla  carta  (charta  papyri),  tenendo  conto 
della  differenza  estrinseca  enunciata  dal  testo  e  rifiutando 
come  inammissibile  l' ipotesi  che  la  stessa  costituzione,  cosi 
provvida  per  la  fldes  dei  documenti  non  cartacei,  avrebbe  poi 
statuita  la  loro  nuUità  probatoria.  0  V  ut  predictum  est  si  ri- 
ferisce a  tali  cauzioni  scritte  alio  modo,  o  vi  si  parla  in  gene-j 
rale  delle  stipule  eseguite  su  materiale  diverso,  ad  onta  che  stai 
bilisca  poi  analogamente  :  «  que  tamen  in  predictis  chartis  borni 
bycinis  sunt  redacte  scripture  in  predictis  locis...,  infra  bien^ 
nium  a  die  edite  sanctionis  istius  ad  communem  litteraturai 
et  legibilem  redigantur  »  *.  Nulla  però  si  dice  delle  carte  memj 
branacee,  che  continuarono  a  redigersi  e  ad  affermare  le  antiche 

1  Ivi. 

*  Ivi  :  «  scripturis  preteritis  in  suo  robore  duraturis  ». 
8  Ivi  :  «  Ex  instrumentis   in   chartis   papyri   vel    alio    modo,    ut    prc 

dictum  est,  scriptis,  nisi  apoche  vel  antapoche,  in  iudiciis  vel  extra  iudi| 
eia  nulla  omnino  probatio  assumatur  ».  L'interpolazione  contenente  Tii 
ciso  controverso  potrebbe  anche  essere  una  glossa  introdotta  nel  teste 
Ma  tale  ipotesi  non  può  sostenersi  per  la  mancanza  di  materiale  dim< 
strativo.  Il  Tamassia,  L'ellenismo,  78,  sostiene  che  i  curiali  «  fedeli  ali 
tradizioni  elleniche  »  avrebbero  scritto,  fino  al  X  secolo,  «  gli  atti  su  papiro(?) 
che  non  resistettero  alle  ingiurie  del  tempo  e  degli  uomini,  come  le  cart| 
pergamenacee  »;  Chiarito,  13  e  sgg.;  Meister,  Grundriss,  I,  31  e  sg. 

*  Ivi. 


—  203  — 

prerogative  dei  curiali,  mentre  dei  documenti  scritti  su  qua- 
lunque altro  materiale  manca  ogni  notizia  dopo  di  allora^. 

La  norma  eversiva  più  che  raggiungere  direttamente  la  co- 
stituzione del  collegio,  colpiva  Tesercizio  di  una  tecnica,  che 
aveva  resi  arbitri  della  scrittura  e  della  lettura  degli  atti  i  suoi 
membri.  Avendo  già  creata  l'offìciatura  del  notariato  regio  e 
domato  il  disordine  preesistente  nella  regione,  prescriveva  la 
uniformità  grafica  anche  ai  napoletani  e  inviava  nella  loro  cit- 
tà, come  in  pochissime  altre,  «  quinque  iudices  et  notarli»^. 
Obbligati  a  trascurare  il  tradizionale  modus  scribendU  che  si 
era  serbato,  impenetrabile  agli  estranei,  quasi  un  monopolio 
della  loro  casta,  avrebbero  dovuto  seguire  gli  specimina  dei 
pubblici  notai,  e  cioè  da  maestri  dell'arte  divenire  discepoli, 
con  grande  discapito  della  stima  e  della  fiducia  che  godevano 
nella  città.  Una  temibile  concorrenza  facevano  loro  i  nuovi  in- 
viati della  Corte,  i  quali  offrivano  al  pubblico  un  maggiore 
credito,  una  grafia  leggibile,  che  rendeva  controllabile  ogni  atto, 
equiparando  la  validità  delle  contrattazioni  a  quelle  che  si 
facevano  in  tutti  i  paesi  del  Regno  ^.  Le  loro  nomine  non  pro- 
cedevano più  dai  giustizieri  o  dai  camerarii,  ma  direttamente 
dall'Imperatore,  il  quale  provvedeva  in  linea  definitiva  agli  a- 
busi  commessi  prima  di  lui  :  «Quos  homines  etiam  sub  tah  cau- 
tela decernimus  promoventes  ut  nullus  index  vel  notarius  pu- 
blicus,  nisi  sit  de  demanio  et  homo  demanii,  statuatur,  ita  quod 
nulli  sit  servitio  vel  conditioni  subiectus,  nec  aUcui  alii  persone 
ecclesiastice  vel  seculari,  sed  immediate  nobis  tantum   tenea- 

1  Avanza  memoria  di  documenti  scritti  prima  d'  allora  in  papiro  detta 
carta  de  tumbo  o  de  fummo,  Gap.,  II',  58,  98,  126. 

*  Conslilutiones,  LXXIX  :  «  In  locis  demanii  nostri  ubique  per  re- 
gnum  iudices  non  plures  tribus  et  notarios  sex  volumus  ordinari,  civita- 
tibus  Neapolis,  Salerni  et  Capue  tantum  exceptis,  in  quibus  quinque  iu- 
dices et  octo  notarios  esse  volumus  statuendos,  in  quibus  fere  contractus 
omnes  coram  iudicibus  et  notariis  celebrantur  ». 

»  I  primi  documenti  redatti  da  questi  regi  ufflziali  a  Napoli  rimonta- 
no al  1232  ed  al  1235,  Chiarito,  118,  e  confermano  l'ipotesi  che  rimanda 
l'applicazione  di  tali  norme  ad  un'epoca  posteriore  all'assemblea  di  Melfi 
(1231)  ;  Mayer,  Bemerkungen,  44;  Genuardi,  La  presenza  del  giudice,  53. 
Qualche  conferma  della  unificazione  del  notariato  in  tutti  i  paesi  del  Regno 
si  troverà  anche  in  Costiluliunes,  LXXXI. 


—  204-^ 

tur  ))^.  Per  tal  motivo  i  curiali,  in  quanto  erano  al  servizio  della 
municipalità  e  «  subiecti  »  a  consuetudini  locali,  venivano  a 
trovarsi  fuori  legge,  ed  a  sostenere  le  sorti  di  un  principio  che 
attingeva  le  fonti  della  sua  stessa  vita  al  diritto  classico.  Se  non 
tenebant  da  una  persona  ecclesiastica,  erano  per  loro  natura 
contro  il  nuovo  orientamento  del  demanio  e  contro  il  disposto 
costituzionale,  che  li  poneva  nella  dura  necessità  di  sospendere 
la  rimunerativa  pratica  quotidiana  delle  stipule^.  Diminuita 
in  tal  modo  la  loro  autorità  e  scossa  la  fiducia  del  pubblico  che 
in  questo  periodo  appunto  incominciava  a  roga,re  i  notai  regi, 
fino  allora  estranei  alla  documentazione  napoletana,  grave  si 
presentò  loro  la  forza  della  nuova  norma,  al  cui  primo  urto  il 


*  Constitutiones,  LXXIX,  statuisce  le  modalità  per   l'elezione    dei  giù- 
dici  e  dei  notai  «  quos  non  ut  olim  a  magistris  vel   camerariis,  sed  a  nobis 
tantummodo   ordinari  sancimus,    preter  indie em   et   actorum    notarium 
quos,   ut  prescriptum   est,   poterunt  magistri   camerarii  ordinari  ».   Tra, 
sforma  anche  altre  magistrature,  che  avevano  funzioni  delimitate  dal- 
le formule  elettive.  «  Cum  nova  nostri  nominis  statutum  sit  iudices  de  que- 
stionibus    cognoscentes    per    nostram    celsitudinem    debeant    promoveri- 
adiunctos  et  admezatores  qui  per  privatorum  consensus  ad  decidendas, 
questiones  in  predictis  locis  Neapolis,  Amalfie  et  Surrenti  (et  in  circum^ 
stantibus)  eligebantur  hucusque,  qui  nullam  aliam  iurisdictionem  habej 
bant  nisi  que  ab  eligentibus  conferebatur  eisdem,  in  posterum  eligi  pr( 
hibemus,  sed  per  iudices  tantum  a  nobis  statutos  coram  eorum  bajulis  e^ 
compalatiis  causas  omnes  examinari  volumus  et  per  sententiam  terminarl 
A  quorum  sententiis  appellationes  non  ad   compares    vel    adiunctos,    ut 
dictum  est,  sed  ad  celsitudinem  nostram  vel  ad  officiales  nostros,    carne 
rarios,  iusticiarios,  sicut  in  reliquis  regni  partibus,  deferantur  :    aibitrij 
super  rebus  de  quibus  potest  de  iure  in  arbitros  compromitti,    propterei 
non  negandis  »;  Constitutiones,  LXXXI.  Si  noti  in  quest'ultima  parte  comi 
l'imperatore  abbia  colpito  nel  vivo  una  delle  prerogative  speciali  dell'ori^ 
ginario  ducato  napoletano,  nel  cui  ambito  si  trovano  le  due  altre    citU 
ricordate  dal  testo,  affermando  il  principio  di  perequazione  («sicut  in  re 
liquibus  regni  partibus  »).  Sull'  orientamento  di    questi    uffizi,  Mayer, 
114,  Bemerkungen,  44;  Niese,  nella  recensione  alla    Verfassungsgeschicht 
del  Mayer,  in  Zeitsch.  fur.  Sav.  Stifi.,  XXXIT,  379;  Trifone,  Sulla  redi 
zione  del  documento,  1  e  sgg.,;  Genuardi,  18,  53. 

*  Nel  testo  greco  delle  costituzioni  la  frase  :  «  nisi  sit  de  demanio  et 
homo  demanio  »,  è  tradotta  :  sì  |iy)  lev  àvGpcoTtos  xoD  '/jiiYjtépoD  Sonav^ou;! 
Trifone,  //  testo  greco  delle  costituzioni,  12. 


205 


curialato  amalfitano  ancora  potente  era  scomparso  del  tutto  ^. 
Dal  canto  suo  l'Imperatore,  con  l'abolire  la  scrittura^  decretò 
la  lenta  scomparsa  di  questi  notai,  ma  non  ebbe  il  coraggio  di 
inimicarsi  la  fedeltà  dell'antico  Ducato  bizantino  e  di  rifiutare 
del  tutto  l'opera  di  un  instituto  che  aveva  nelle  mani  le  sorti 
di  tutti  gli  affari  civili  della  città,  arbitro  della  interpretato- 
ne dei  documenti  e  garante  di  tanti  impegni  contrattuali  2. 
Si  possono  ritenere  quindi  come  abrogate  solamente  in  teoria 
«  ad  tempus  quo  Fridericus  imperator  suas  constitutiones  in 
regno  edidit  »,  le  «  rationabiles  et  approbatae  consuetudines  », 
poiché  nella  pratica  curiale  continuarono  a  regolare  le  proce- 
dure e  acquistarono  un  cosi  rinnovato  vigore  da  sostenere  a 
lungo  le  sorti  della  scuola.  Finché  non  si  terrà  conto  della  li- 
mitazione enunciata  nella  seconda  parte  del  testo,  apparirà 
sempre  inconcihabile  il  dissidio  fra  un  tassativo  disposto  di  leg- 
ge e  la  resistenza  che  il  collegio  oppone  ad  esso,  specie  nei  pri- 
mi tempi  ^.  Mentre  infatti  si  cerca  di  colpire  in  pieno  la  scrit- 
tura, si  ammette  poi  la  necessità  di  redigere  «infra  biennium 
ad  letteraturam  legibilem  »  i  soli  documenti  in  bambagina, 
lasciando  impregiudicata  la  sopravvivenza  delle  pergamene  *. 
Ecco  perché  di  questo  materiale,  non  rinnovato,  né  abolito, 
avanza  tanta  copia  negli  archivi  della  regione.  Bisogna  rite- 
nere che  il  mantenimento  di  un  tale  instituto  non  dipenda  da 
tolleranza  dell'Imperatore  0  da  tacito  suo  permesso,  ma  dal- 
l'attaccamento dei  cittadini  alla  consuetudine,  per  cui  in  ogni 

^  Bresslau,  440  ;  Mayer,  I,  116;  Chiarito,  115,  riporta  un  docu- 
mento di  Ravello  (1220)  dal  quale  risulta  che  nel  territorio  del  ducato 
amalfitano  la  norma  fu  osservata  «  secundum  edictum  imperiale  »  e  le  carte 
curialesche  nel  biennio  furono  rinnovate  dai  pubblici  notai.  Constitutiones, 
LXXX,  LXXXI,  in  cui  mentre  abolisce  la  scrittura  antiquata  e  le  speciali 
magistrature  cittadine,  tace  sulla  sorte  dei  curiali. 

"  Innocentìi  IV  ep.  fin  Gap.,  Historia  diplomatica,  22,  datata  13  dicem- 
bre 1251  e  Indirizzata  «Communi  Neapolitano  »;  Schifa,  Contese,  58. 

■  Chiarito,  118  :  «A  noi  è  ignota  la  cagione  per  cui  dopo  1'  espresso 
divieto  dell'augusto  Federico  d'usaisi  il  carattere  dei  curiali  fosstsi  il  me- 
desimo continuato  »;  Cap.,  II,  112. 

*  Conslituliones,  LXXX  :  «  Que  tamen  in  predictis  chartis  bombyci- 
nis  sunt  redacte  scripture  in  predictis  locis...  infra  biennium  a  die  edite 
sanctionis  islius  ad  communcm  litteraturam  et  legibilem  redigantur  ». 


—  206  — 

tempo  «  ad  curiales  potius  et  confi dentius,  quam  ad  alios  no- 
tarios  recurratur  »  1.   Del  resto  gli  stessi  notai  regi  ammettono  ^ 
alle  prove,  come  persone  degne  di  fede,  i  membri  della  schola  e| 
riconoscono  loro  il  diritto  di  scrivere  documenti  destinati  adj 
avere  validità  probatoria  e  dispositiva^. 

Il  Mayer,  sulla  fede  di  un  passo  de  1  Napodano,  crede  che  i? 
curiali,  dopo  la  costituzione  sveva,  fossero  divenuti  degli  iudi- 
ces  e  avessero  partecipato  a  tutte  le  contrattazioni  fra  privati  ^. 


*  Reg.  ang.  (perduto),  1288,  f.  294,  in  Chiarito,  118,  il  quale  ricordi 
una  disposizione  eversiva  di  Roberto  per  la  scrittura  degli  Amalfltaai, 
Reg.  ang.  (perduto),  1313,  XII  indiz.,  f.  116  t. 

«  Chiarito,    116,    riporta  una  e.  securitatis,  ora  perduta,  conchiusa  fri 
il  monastero  «  de  Cappellis  »  e  quello  di  S.  Maria  di  Positano  il  12  nov^ 
1257,  e  stipulata  da  un  notaio  regio  della  città,  in  presenza  del  giudice^ 
V'intervengono   l'abate  del   mon».  di  S.    Gennaro  «  foris  de  Neapolis  »  Gi( 
vanni  Laczio  «  summiarca  »  della  Chiesa  maggiore  e  Pietro  Jeiuno,  curii 
le  e  primario,  in  qualità  di  «  arbitri,  arbitratores  et  amicabiles  composi| 
tores  »,  per  l'attribuzione  controversa  di  una  terra  a  Baia.  La  lite  si  com-^ 
pone,  ma  a  patto  che  «  ad  cautelam  utriusque  monasterii    predictorui 
confici  debeant  duo  securitatis  similia  instrumenta  Inter  monasteria  suij 
pradicta,  scripta  per  curiales  Neapolis  » 

»  Napodano,    in  ConsueL,  p.  146,  dice  :  1»  che  i  curiali  provenivano 
«de   genere  militum  »  e  che  occupavano  un  ufficio  vaissimo  ;  2°  che  intei 
devano  alla  cosa  pubblica  per  decidere  iurgìa  e  per  supplire  airautoritl 
del  magistrato  ;  3*>  che  essi  occupavano  la  curia  e  i  tabellioni  la  station 
per  cui  il  Mayer,  I,  115  ritiene  che  tutti  i  giudici  di  Napoli  eletti  e  aj 
provati   dalla  corte  rappresentino   gViudices   contraduum   delle   Constiti 
tìones,  LXXIX,  ricorrendo  anche  qui  al  Napodano,  in  Consuetudines,  28f 
il  quale  dice  che  «isti  plurimum  intendebant  reipublicae  circa  iurgia  deci 
denda  »,  riferendosi  alle  questiones  che  essi  presenziarono  in  tutti  i  temp^ 
non  già  alla  qualità  esplicita  di  Ricbter,  nata    dopo    l'eversione    svevi 
Manca  qualunque  conferma  nei  documenti  per  dimostrare    «  die    Beteili 
gung  an  den  beiden  Funktionen  »,  che  egli  pur  vede  «  offenbar  ».  Nelli 
recensione  alla   Verfassungsgeschichte,  il  Niese,  379,  obbiettava  che  noi 
si  può  sostenere  il  carattere  giudiziario    dell'instituto,    sopratutto    percW 
l'allegatio  stessa  nei  gesta  è  assolutamente  sfornita  di  tale  fisionomia.    M« 
il  Mayer,  Bemerkungen,  44,  rifiuta  l'ipotesi  che  esclude  1'  identificazior 
del  curiale  col  notaio,  e,  riferendosi  alla  giureprudenza  romana  e  bizantini 
ritorna  per  Napoli  sulle  stesse  fonti  citate,  che  cerca  di  sostenere  col   coi 
fronto  dei  documenti  veneziani.  Anche  ad  Amalfi  esiste  1'  «  iudex  curialis 
così  diverso  dal  notaio  napoletano.  Del  resto  la  coesistenza  deìViudex  e  di 
curialis   primarius   nello    stesso    documento  del  periodo  svevo,  ChiaritoJ 
116,  dimostra  come  siano  rimasti  profondamente  diversi  quei    due    pul 


—  207  — 

Erano  sorte  queste  magistrature  giudiziarie  quando  si  volle 
garentire  nei  negozi  la  piena  osservanza  delle  norme  legisla- 
tive, per  la  sopravvenuta  sfiducia  nell'opera  del  notaio  ;  e  rap- 
presentano l'intervento  del  potere  centrale,  specie .  nei  terri- 
torii  longobardi  del  Mezzogiorno  ^  Ma  i  curiali,  funzionarli 
di  un  municipio,  che  rifiutavano  di  accettare  la  legislazione 
nuova,  e,  chiusi  nell'antico  formahsmo,  trionfavano  sulla  nor- 
ma imperiale  per  volere  di  popolo,  non  esercitarono  mai  un 
tale  controllo  all'  opera  del  collega  rogato  2.  Come  testimoni 
essi  intervenivano  per  sostituire,  con  un  senso  di  maggiore  re- 
sponsabilità, i  semplici  cittadini,  senza  perciò  esercitare  una 
funzione  giudiziaria ^  Mentre  i  giudici  -emanavano  diretta- 
mente dall'autorità  del  sovrano  ed  agivano  in  suo  nome,  i  cu- 
riali restarono  membri  della  schola  civica,  e  per  rendere  validi 
i  loro  atti  dinanzi  alle  autorità  dello  stato,  si  facevano  ricono- 
scere dal  re*.  C  è  la  coesistenza  del  documento  notarile  e  di 
quello  curialesco,  come  osserva  giustamente  il  Niese,  ad  eli- 


blicl  ufflziali  ;  Genuardi,  53.  Lo  Heineman,  Stadtuerfassung,  12,  altri 
buisce  le  «  Urtheiler  »  all'opera  di  uno  0  più  impiegati  municipali,  i  qual 
non  sono  altro  che  i  curiali,  pigliando  come  punto  di  paragone  Gaeta,  ove, 
come  dice  la  Merores,  122,  durante  questo  primo  periodo,  le  attribuzioni 
pei  giudici  «  mehr  dcnen  unserer  Notare  entspreclien  ».  Anche  la  docu- 
mentazione bizantina  ci  mostra  esplicitamente  dei  notai  che  intervenivano 
ai  contratti  rivestiti  di  potere  giudiziario,  SglL  gr.  m.,  n.  273,  Ferrari, 
I  documenti,  16,  20. 

^  Mayer,  I,  104,  116,  Bemerkungen,  45;  Redlich,  19;  Genuardi,  62 
e  sgg.  Si  possono  trovare  curiali  investiti  di  funzioni  giudiziarie  special- 
mente a  Gaeta  ed  ad  Amalfi,  Camera,  Ann.,  II,  app.,  XXIII  e  sg., 
Heinemann,  13. 

«  Reg.  ang.  (perduto),  1288  C,  f.  294  t.  ;  Niese,  379  ;  Genuardi,  53 
Erroneamerte  I'Heinemann,  Sladiverfassung,  23,  parla  della  «  richterliche 
ThàtJgkeit  der  boni  homines  »,  riferendosi  alle  «  e.  combenientie  »,  In  cui 
crede  di  vedere  «  der  Klàger  »  e  «  der  Beklagte». 

•  L'  «  instrumentum  curialiscum  »  è  redatto,  come  dicono  1  testi  «  se- 
cundum  usum  Neapolis  »,  MS.,  XX,  1639,  NiSM.,  f.  591,  593,  «  secundum 
mores  et  consuetudines  civitatis  Neapolis  »,  Soc.  stor.,  9  AA,  I,  6  e  7, 
9  BB,  III,  16,  benché  ricorrano  spesso  ricordi  delle  «  constitutiones  Impe- 
riales,  regales  et  papales  »,  come  di  norme  estranee  alla  pratica  dei  cu- 
riales,  MS.,  XXIII,  1943,  XXIV,  1974,  XXXI,  2599,  2650;  Heinemann, 
Stadtuerfassung,  39. 

*  Reg.  ang.,  1271,  n.  12,  f.  25,  1294  A,  n.  72,  f.  58. 


—  208  — 

minare  qualunque  dubbio  sulla  diversa  natura  dei  due  ufficii  ^. 
Vennero  anche  ultimamente  identificati  i  curiali  coi  giurati 
(turati),  specie  di  agenti  di  polizia,  che  si  trovano  allora  in  tutti 
i  paesi  del  Mezzogiorno  ;  ma  si  attribuì  loro  il  solo  ufficio  della 
compilazione  dèi  contratti  2.  Una  tale  ipotesi  non  trova  riscon- 
tro alcuno  nella  documentazione,  e  porterebbe  assai  lontano 
l'instituto  dalla  sua  origine.  A  provare  che  essi  non  ebbero  liiai 
funzioni  giudiziarie,  e  cioè  facoltà  di  discriminare  la  veridicità 
di  quanto  forma  oggetto  dei  contratti,  basterà  ricordare  quel  che 
avveniva  dei  gesta,  ritenuti  privi  di  valore  quando  la  parte  in- 
teressata riusciva  ad  attaccare  la  fides  delle  persone  «  de  quorum 
dictis  et  testificatione  dieta  instrumenta  conf ecta  sunt  »  ^.  No- 
tevole è  un  gruppo  di  atti  nei  quali  si  dice  che  i  curiali  «  ncque 
iudices  ncque  notarli  non  sunt  »,  pur  considerandosi,  in  virtù 
della  consuetudine  «tàmquam  si  veri  iudices  et  notarli  fuis- 
sent  »  *.  Quando  si  sottoscrivevano  fra  i  testimoni  non  agi- 
vano in  qualità  di  personae  publicae,  ma  di  privati,  e  pigliava- 
no il  posto  tli  quei  cittadini  literati  0  illiterati  che  intervenivano 
nelle  carte  anteriori  alla    metà    del    sec.    XIIP.    Escludendo 

^  NiESE,  379  ;  Genuardi,  53. 

"  Genuardi,  10  e  sgg.  :  «  Il  fatto  che  non  troviamo  durante  il  sec. 
XIII  in  Napoli  quegli  «jurati»  che  si  vedono  stabiliti  da  Federico  II  ii 
tutte  le  città  ed  i  comuni  dell'Italia  meridionale,  mi  fa  sospettare  che 
curiali  nel  periodo  svevo  e  nel  seguente  avessero  avuto  quei  poteri  di  po- 
lizia che  altrove  ebbero  i  giurati,  pur  mantenendo  l'ufficio  di  redigere  gli 
atti,  abusivamente  conservando  fin  quasi  alla  fine  del  sec.  XVI  »  (per  er- 
rore tipografico  forse,  invece  di  XIV)  «  quelle  forme  grafiche  nella  scrit- 
tura dei  contratti,  che  Federico  II,  con  la  costituzione  Consuetudine! 
quam  olim,  voleva  abolite  ». 

"  Consuet,  I,  dopo  avere  determinata  la  procedura  del  dispositum, 
dice  :  «  Idem  in  ànstrumento  quod  Neapoli  dicitur  gesta  ;  salvo  tamei 
quod  liceat  volenti  opponere  contra  id,  quod  in  ipso  instrumento,  quo< 
dicitur  gesta,  continetur,  quod  potest  dici  contra  personas  testium  et 
dieta,  de  quorum  dictis  et  testifìcatione  dictum  instrumentum,  quod  di: 
citur  gesta,  confectum  est  ». 

*  MS.,  XV,  1286,  nel  cui  testo  leggesi  :     «vobis    obligavimus  corar 
illis  curialibus  subscriptis,  tamquam  si  veri  iudices  et  notarli  de  supra-^ 
scripto  loco  fuissent,  sciens  eos  quia  ncque  iudices  nec  notarli  non  sunt  ».\ 
Agiscono  però  sempre   «tamquam  persona  publica  »,  Soc.   stor.,   9  BB, 
IV,  6  e  9  BB,  III,  16, 

*  MS.,  XVII,  1383  bis  ;  NiSM.,  f.  151;  Niese,  379  ;  Genuardi,  53. 


—  209  — 

quindi  che  tali  testimoni  col  collega  rogato  rappresentino  un 
Viermannerkolleg,  rivestito  di  potere  giudiziario,  risulta  evi- 
dente che  la  garenzia  che  essi  offrivano  alle  parti  li  indusse  ad 
attestare  de  suo  proprio,  anche  quando  figurano,  tra  gli  ad- 
stantes,  maestri  razionah  della  r.  Corte  e  professori  di  diritto 
civile,  come  Andrea  d'Isernia  o  Bartolomeo  Brancaccio^. 

Molti  documenti  risentirono  gli  effetti  della  legislazione  fri- 
dericiana  e  furono  trascritti  «  in  letteraturam  legibilem  »,  per- 
chè gli  interessati  vollero  assicurarsene,  attraverso  la  rinno- 
vata veste  scrittoria  e  procedurale,  la  piena  validità  giuri- 
dica 2.  Altre  trascrizioi^i  si  ebbero,  sempre  in  virtù  della  sacrae 

*  So  e.  STOR.,  Perg.  di  S.  Domenico,  XI,  A,  I,  383.  A  una  permuta  del 
1291  intervengono  i  razionali  e  professori  «juris  civilis  »  Tommaso  Sti- 
lato e  Andrea  d'Isernia,  MS.,  XXIV,  2058,  e  ad  una  vendita  del  1324 
anche  come  testimone,  Bartolomeo  Brancaccio  «  iuris  civilis  professor  », 
XXXIV,  2859. 

*  Le  renovationes,  incominciano  fra  il  1234  e  il  1235,  MS,  X,  876,  NisG., 
f.  62  ;  ma  divengono  più  frequenti  nel  secolo  successivo,  Reg,  ang.,  1333- 
1334  D.,  n.  294,  f.  41,  in  cui  il  re  con  lettere  patenti  regola  una  copia  : 
«Antiquorum  gesta  in  autenticam  scripturam  prò  nostrorum  fidelium 
pieni  mque  cautela  producimus  et  persepe  ut  rei  geste  memoriam  tantum- 
modo  pateat  per  nostre  scriptionis  seriem  renovamus  ».  PieJLro  Crispano 
nel  1333  esibisce  un  «puplicum  instrumentum  seu  privilegium  de  curia- 
lisca  scriptuta  confectum  »  del  1067,  contenente  grazie  ed  Immunità  in  fa- 
vore del  suo  antenato  Sergio  Crispano.  «Et  quia  scriptura  ipsa  erat  com- 
muniter  sensibus  innota  legeniium,  idem  Petrus  nobis  supplicavit  attentius 
ut  transferri  ipsum  privilegium  sive  scriptum  in  latinam  linguam  siue 
scripturam  non  quod  probatìo  vel  cautela  aliqua  exinde  quomodolibet 
assumatur,  sed  tantummodo  ad  claram  et  distinctam  lecturam  illius,  ut 
ad  quandam  ostensionem  seu  demostrationem,  clarus  de  ipso  legentibus 
prodeat  intellectus,  mandare  benìgnius  dignaremur  »  Il  re  permette  che 
«predictum  privilegium  sive  scriptum  curialium  llcterarum  ...,  subscri- 
ptione  munitum,  per  dictum  Petrum.in  nostra  curia  presentatum,  tunc 
corrupta  gramatica  et  in  stilo  sive  forma  dicenti  per  certos  curiales  ci- 
vitates  NeapoHs  iuratos  ad  hoc,  qui  de  scripturis  ipsis  habent  in  legendo 
et  intelligendo  experientiam  satis  notam,  fìdeliter  de  scriptura  curia- 
lisca  in  latinam  transferri  et  prescntibus  annotare  mandavimus.  »  E,  nel- 
l'atto che  toglie  validità  probatoria  alla  copia  sia  giudiziariamente  che 
estragiudìziariamente,  aggiunge:  «set  illam  (scil.  translationis  paginam) 
et  has  nostras  licteras  valere  tantummodo  volumus,  ut  ex  Iraslatione  pre- 
senti legentium  singulorum  aspectibus  concessa  res  pateat,  et  de  gestis 
preteritis  illis  notitiam  presentis  translate  scripture  claram  et  apertam 


—  210  — 

imperiales  constitutiones  per  gli  atti  eseguiti  durante  il  periodo 
di  Ottone  IV,  i  quali,  recando  nella  formola  protocollare  il  no- 
me di  uno  degV invasores  reg'ni,  andarono  distrutti^.   Tali  copie 


representet  »  Analogamente  si  ha  per  una  renovatio  del  1394,  fatta  nella 
curia  baiulare,  di  un  istrumento  «  curialiscum  in  carta  de  coyro  litteris 
curialischis,  iuxta  morem  et  consuetudinem  curialium  Neapolis  scriptum  » 
autentico,  «ut  dicti  curiales  eorum  presenti  testificatione  iurata  et  re- 
cepta  dixerunt  »  La  loro  dichiarazione  era  fatta  «  coram  eis  (baglivo  e  giu- 
dici) et  testibus  de  verbo  ad  verbum  per  eosdem  curiales  expertos  in  ta- 
libus,  qui  prestito  prius  corporali  ad  sancta  Des  evangelia  debito  iura- 
mento  »  assicurano  che  può  «  autenticari,  exemplari,  insinuari  et  in  pu- 
blicam  formam  redigi,  nihil  in  eo,  mutato,  addito,  vel  subtracto,  per  quod 
facti  substantia  mutaretur,  sed  de  verbo  ad  verbum,  prout  in  eodem  ori- 
ginali instrumento  continetur  »,  Chiarito,  50,  51. 

^  Nel  1235,  per  esempio,  si  rinnova  una  e.  venditionis,  che  bisogna 
attribuire  al  1212,  per  la  concorrenza  della  XV  indizione  coi  nomi  di  Pie- 
tro e  Matteo  curiali  e  di  Giovanni  primario,  non  che  dell'uso  di  datare  col 
nome  di  Ottone  IV.  La  trascrizione  con  le  nuove  formole  croniche  si  fa- 
ceva nel  seguente  modo  :  «  Cum  sacris  imparialibus  constitucionibus  sit 
statutum  ut  instrumenta  tamen  facta  temporibus  invasorum  regni  de- 
beant  inno  vari,  et  eorum  rem  otis  nominibus,  titulo  imperialis  nominis 
presigniri,  coram  nobis  Stephano  curialis  curie  huius  civitatis  Neapolis 
et  domino  Gregorio  Cimista  curialis  curie  huius  civitatis  Neapolis  eiusdem 
presentibus  aliis  curialibus  testibus  infrascriptis  ad  oc  specialiter  convo- 
catis  et  rogatis,  videlicet  domino  lohanne  Modiosolido,  et  domino  lohanne 
Sariperto,  et  domino  Andrea  Pulderico  curialibus  civitatis  Neapoli,  ve- 
nientes  ecc.,  abbas  Cacapice  S.  Pantaleonis  ecc.,  rogavit  nos  ut  quoddam 
instrumentum  pertinens  de  ipsa  ecclesia  ecc.,  predicto  tempore  factum 
scriptum  per  manus  Ropertus  scriptor,  dischipulus  quondam  domini 
Petri  curialis  istius  civitatis  Neapolis,  sublato  nomine  invasorum  reten- 
tis  in  dicto  anni  et  tempore,  sibi  facere  innovar!.  Nos  vero  actendentes 
sacras  imperiales  constituciones,  et  in  istas  presentes  ipsi  vero  domino 
lohanni  Cacapice  ecc.,  vidimus  et  legimus  coram  infrascriptis  curialibus 
testibus,  quod  erat  ex  omni  sui  parti  perfectu[m]  et  fìrmum,  annos  vero 
ipsius  instrumenti  collegimus  a  tempore  confectionis  usque  in  die  duo- 
decima de  mensis  iunii  de  indictìone  septima,  quomodo  preterita,  anni 
viginti  unum,  cuius  instrumenti  tenor,  sublato  nomine  invasoris,  per 
omnia  talis  est  ».  Segue  la  copia  che  fu  eseguita  il  15  febbraio  dell'VIII 
indizione,  durante  il  15°  anno  di  Federico  II  imperatore,  il  38°  di  Sicilia, 
il  2°  di  Napoli,  il  10°  dì  Gerusalemme  ed  il  15°  di  suo  figlio  Enrico.  C'è 
un  errore  nel  calcolo  che  il  curiale  fa  degli  anni  trascorsi  a  tempore  con- 
fectionis :  sono  ventidue  e  non  ventuno,  come  egli  dice.  Conta  la  chiusura 
degli  anni  al  12  giugno,  e  rileva  che,  facendosi  la  copia  prima  di  tale  ri- 
correnza, non  è  ancora  compiuto  il  ciclo  solare  in    corso.    Dopo  aver  tra- 


—  211  — 

dovevano  essere  rifatte  e  «titulo  imperialis  nominis  (scil.  Fri- 
derici)  presigniri  ))^.  La  renovatio,  fatta  «  de  verbo  ad  verbum  » 
e  sottoscritta  dagl'intervenuti,  riportava  la  esplicita  denunzia 
del  possessore  dell'atto  a  due  curiali,  uno  fungente  da  giudice 
e  un  altro  da  notaio,  in  presenza  di  due  altri  che  figuravano 
«  testes  ad  hoc  convocati  et  rogati  »,  perchè  si  assicurassero  di- 
rettamente che  l'antico  rogito  «erat  ex  omni  sui  parte  perfec- 
tum  et  firmum  »  ^.  Ricorre  posteriormente  la  copia  «  in  pu- 
plica  forma  »  e  l'autentica,  «  nil  addendo  vel  minuendo  »  di 
«  instrumenta  »  redatti  «iuxta  usum  et  consuetudinem  Nea- 
polis,- in  lictera  curialisca  »,  presenti  il  giudice  e  i  testimoni  3. 
Era  la  parte  che  faceva  questa  presentatio  estr agiudiziaria,  ed 
il  magistrato  che  «  legi  faciebat  »  l'atto  pubbhco  *. 


scritto  Toriginale  integralmente,  vi  aggiunsero  :  «  Quod  instrumentum  de 
verbo  ad  verbum  renobatu[m],  sicut  superius  legitur,  et  firmum  scriptum 
per  manus  [me]i  Stephani  curialis  per  indictione  Vili  »  Si  sottoscrivono 
come  testimoni  i  suoi  colleghi  Andrea  e  due  Giovanni,  e  poi  i  due  che 
raccolsero  la  domanda  fatta  dal  Cacapice  :  «  Ego  qui  supra  Gregorius 
curialis,  curie  huius  civitatis  Neapolis  oc  instrumentum  coram  etc.  inno- 
vari,  ab  originali  relevatum  sicut  superius  legitur,  post  subscriptionis  su- 
prascriptorum  testium  et  prò  ampliore  eius  fìrmitate  manus  mea  propria 
subscripsi  per  indictione  memorata  octava.  Ego  Stefanus  ecc.  (come 
sopra)  compievi  et  absolvi  per  indictione  memorata  octava  ».  MS.,  X, 
876.  Solo  in  questo  caso  si  potrebbe  sostenere  con  vantaggio  la  tesi  che 
uno  dei  curiali,  Gregorio,  non  testimone  e  non  stipulante,  abbia  il  ca- 
rattere di  un  iudexy  tanto  più  che  tale  magistrato  è  espressamente  richiesto 
dalla  norma  legislativa  a  rendere  valida  la  renovatio.  Un  così  eccezionale 
impiego  non  si  può  confondere  con  la  regola  posta  dal  Mayer,  I,  115.  Vi 
è  un  altra  copia  analoga  in  NisG.,  62  fatta  il  2  febbraio  1234.  Riproduce 
un  atto  del  22  giugno  1212,  stipulato  da  Giovanni  curiale.  Intervengono 
come  testimoni  alla  renovatio  Gregorio  de  Cìmina,  Tommaso  Moccia  e 
Riccardo,  curiali  ;  fungono  rispettivamente  da  giudice  e  da  stipulante 
Andrea  Pulderico  e  Stefano  Manco,  curiali.  Notevole  la  variante  del  for- 
mulario «  Cum  vigore  constitutionum  sit  statutum  »  al  principio  del  do- 
cumento. Si  noti  che  tali  copie  non  si  facevano  «  in  litteraturam  legibilem  » 
ma  in   «  lictera  curialisca  ». 

•  MS.,  X,  876,   NisG.,  f.  62 
-   Ivi. 

'  MS.,  XX,  1601,  in  cui  la  parte  «  presentavit  et  legi  fecit  »  all'  «  index 
et  testes  »  un  atto  curialesco  che  fu  «  exemplatum  et  in  publicam  formam 
receptum,  nil  addendo  vel  minuendo  » 

•  Vanno    considerate    anche  tra    le   presentationes    estragiudiziarie    i 


—  212  — 

Tutto  ciò  dimostra  che  i  negozii  di  qualunque  specie  si  fa- 
cevano negli  ufficii  di  curia,  e  non  in  casa  degl'interessati,  e 
si  redigevano  prima  dal  notaio  «  brevi  forma  »  in  una  nota  o 
scheda  fornita  ordinariamente  delle  sottoscrizioni  dei  testimo- 
ni 1.  Lo  scriptor  ne  traeva  l'originale,  la  carta  consimile,  la  «  car- 
ta recapitulata  »,  la  «e.  recatati ba»  e  r«exemplar»  ^.  Pei  casi 
d'inadempienza  previsti  dai  contraenti,  i  curiali,  detti  anche  prò 
parte  curie  stipulantes,  sono  indicati  come  coloro  ai  quali  si  pa- 
gano le  penali  imposte  nelle  clausole  comminatorie,  perchè  le 
facciano  pervenire  alla  corte  regia  o  arcivescovile,  o  alla  parte 
designata  ^. 

Per  quanto  resistesse  tutto  intero  il  collegio  alle  vicende  dei 
tempi  nuovi,  sostenuto  dalla  fiducia  del  popolo,  non  potè  sal- 
vare intatta  la  somma  delle  sue  consuetudini,  che  vanno  len- 
tamente trasformandosi,  appena  a  Napoli  compaiono  i  primi 
regi  notai  a  scrivere  rogiti  pei  monasteri  della  città*.  Già  si  è  no- 
tata la  sostituzione  dei  curiaH  ai  testimoni  dei  secoli  anteriori, 


testimoniali  che  si  rendevano  in  curia,  MS.,  XXXIII,  2786,  che  contiene 
V  allcgatio  di  un  atto  di  ultima  volontà;  MS.,  XXXII,  2675,  in  cui  a  pie 
di  pagina  in  gotico  sono  ricordati  i  nomi  dei  curiali  che  intervennero  alla 
compilazione  di  una  nota  venditionis  :  «in  presencia  domini  Guindacii, 
et  domini  lohannis  Berrinis,  et  Nicolai  Scriniarii,  et  Francisci  Caradenti, 
et  Rogeris  Marce  ».  Le  presentazioni  giudiziarie  sono  segnate  anche  in 
gotico  a  pie  del  documento,  sia  che  il  procuratore  esibisca  gli  atti  alla  «  ma- 
gna curia  Vicarie  »,  MS.,  XI,  921,  XXXII,  2729,  2760,  XXXVII,  3141, 
Soc.  STOR.,  2AA,  III,  75,  sia  che  li  esibisca  alla  curia  arcivescovile,  MS., 
II,  36  (119  ter),  LIV,  4630.  Talvolta  il  procuratore  vi  aggiungeva  una 
nota  riassuntiva,  MS.,  XLIII,  3693,  ove,  sotto  la  formola  solita,  »  si  legge  : 
MS.,  XV,  1281  :  «  venumdedi  tibi  ecc.  ».  Queste  formole  esibitive  non 
sono  posteriori  al  sec.  XIV,  e  si  possono  considerare  quasi  sincrone  ai 
testi.  Mayer,  I,  72,  115  ;  Genuardi,  35 

»  Reg.  ang.,    276,  f.  57t.,    1336   F.    (perduto),  f.    186t.,    320,    f.  89t. 
342,  f.  9,  357,  f.  9  t..  Chiarito,  102;  cf.  Hirschfeld,  42  e  sg. 

*  Reg.  ang.  32,  f.  89   t.,  in   cui   il    curiale  Nicola  Mantella  confessa  che 
«pressus  pondere  senectutls  testamentum  ipsum  scribendum  seu    ingros- 
sandum  commisit,  ut  moris  est  in  dieta  civitate,  Francisco    Sarache  eius] 
discipulo  »,  il  quale  errò  nella  data  dell'anno  «  dum  illud  scriberet  in  formam 
publicam  ;  Gap.,  II»,  115. 

'  MS.,  XXVII,  2239,  XXIX,  245;  NiSM.,  f.  499. 

*  Chiarito,  118,  in  cui  sono  ricordati  i  primi  documenti  di  notai  regi 
fra  il  1232  ed  il  1235. 


—  213  — 

attribuita  da  alcuni  per  errore  ad  un  nuovo  ufficio  giudizia- 
rio che  si  esercitava  nella  capitale  dell'  antico  ducato  bizantino  ^. 
Qualche  elemento  nuovo  si  riscontra  negli  schermi  diploma- 
tici della  seconda  metà  del  sec.  XIII,  recanti  nel  protocollo 
oltre  le  antiche  note  cronologiche  di  governo,  Tuso  esphcito 
della  cifra  cristiana,  e,  nel  testo  dispositivo,  le  clausole  rinun- 
ziative,  assolutamente  insolite  prima  d'allora  2.  Il  Mayer,  uti- 
Uzzando  un  passo  del  Napodano,  che  ha  un  valore  puramente 
storico  per  le  origini  del  curialato  afferma  che  «  die  curiales 
werden  dabei  zu  Ende  des  13.  Jahrhunderts  aus  den  milites 
von  Neapel  genommen,  wàhrend  die  tabelhones  aus  den  nie- 
deren  Klasse  stammen  ^  )>.  Fin  dalla  legislazione  bizantina  del 
X  secolo  è  fatto  obhgo  al  curiale  di  indossare  l'abito  mihtare 
(ècp£oip(^),  donde  potè  nascere  l'equivoco  nel  glossatore;  ma  non 
risulta  da  altro  elemento  che  appartenesse  a  una  tale  classe  *. 

È  certo  solo  che  si  mantenne  in  vigore  la  consuetudine  della 
successione  ereditaria^.  Cresciuto  il  numero  delle  famighe  che 
godevano  la  prerogativa  di  partecipare  al  notariato  civico,  fino 
ad  un  centinaio,  raggiungono  le  promozioni  per  gradus  et  or- 
dines  individui   appartenenti    a    tutte   le   categorie   sociali  ®. 

^  Mayer,  I,  115,  Bemerkungeny  44;  Niese,  379;  Genuardi,  44,  53. 

«  Soc.  STOR.,  9BB,   III,  16;  MS.,  XXII,  188,  Trifone,  //  diritto,  60. 

"  Mayer,  I,  115;  Napodano,  in  Consuet.,  I,  p.  146:  «  sed  certe  illi  cu- 
riales non  sunt  proprii  tabelliones  :  primo,  quia  alia  flebant  de  genere  mi- 
litum;  sed  in  tabellione  secus,  cum  sit  vilissimum  cuius  officium  ». 

*  Nov.  Leon.,  CXV  :  Nel  1303  trovasi  ancora  1'  espressione  «  repudìatus 
est  habitus  a  quondam...  archiepiscopo  neapolitano  »  usata  per  un  discepolo 
che  non  era  stato  ammesso  alla  curia  «  propter  defectus  eius  aliquos  »;  Reg. 
ang.,  122,  t.  266. 

»  MS.,  XXIII,  1943,  XXXVI,  3029. 

"  Le  seguenti  famiglie  godevano  il  privilegio  di  partecipare  alle  ca- 
riche di  curia:  Aciapacia,  MS.,  XXIV,  2025  bis,  de  domno  Aczo,  XXXVII, 
3119,  Affasciagallo,  XXVI,  2195,  Apucefalo,  XX,  1601,  Arcamone,  XXV, 
2072,  Artusa,  XXIX,  2451,  Azzura,  NiSG.,  f.  213,  Barbozza,  MS.,  XX, 
1684,  Bario,  XLII,  3636,  de  Basento,  XXXII,  2708,  de  Besanzio,  XXVI, 
2136,  Bespulo  o  Vespulo,  XXXI,  2654,  Boccamusca,  XXXVI,  3029, 
Boffa,  XXIV,  2058,  Boniscolo,  XLVII,  41  1,  de  domno  Bono,  XX,  1684, 
Boccatorta,  Soc.  stor.,  2  AA,  III,  75,  Cacamodio,  MS.,  XXII  1799, 
Cagnabacciolo,  XIX,  1551,  CajctanO;  NiSM.,  f.  205,  Cannuto,  MS., 
XXXIV,  2859,  Capuano,  XXX,  2527,  Caputo,  Soc.    stor.,  9  BB,  IV,  20, 


—  214  — 

Vi  sono  molti  cittadini  iscritti  alla  nobiltà  napoletana  antica, 
come  gli  Arzura  e  gli  Orilia,  ricordati  anche  come  militi,  ed  a 
quella  degli  AientU  come  i  Guindazzo,  entrati  verso  la  fine  del 
sec.  XIII  nell'aristocrazia  di  Capuana^.  Uscirono  anche  dei 
militi  dalle  case  curiali  degli  Scriniario  e  dei  Guindazzo.  ^.  Non 
erano  escluse  famigUe  di  popolani  delle  Platee  (i  Pagniczato,  i 
Manco,  gli  Sparella  e  i  de  lacca)  dal  beneficio  della  carriera  no- 
tarile ^.  Partecipando  cosi  alla  «  schola  »  tutte  le  classi  della  cit- 


Garidente,  MS.,  XXIV,  1988,  Caritoso,  XXXVIII,  3211,  de  Cimina, 
XXVIII,  2369,  Girilone,  XXXIII,  2766,    Coco,  XXVIII,  2369,  Contento, 

XXXI,  2669,  de  Costanzo,  NiSM.,  f.  145,  Cozzalo,  MS.,  XXII,  1809bis, 
de  Crimina,  XXIX,  2416,  Cupiano,  NiSM.,  f.  158,  Curbi,  MS.,  XIX, 
1546,  Cutavino,  LUI,  4572,  de  Eusebio,  NiSM.,  f.  207,  Faglila,  NìSG., 
f.  8,  Fellapane,  MS.  XLII,  3576,  Ferula,  LUI,  4572,  de  Filippo,  XXVIII, 
2357,  Gado,  XXXII,  2708,  de  Gaudioso,  XXXI,  2670,  de  Goffredo,  XXX- 
VIII,  3258,  Grassullo  o  Graccullo,  XXXIII,  2786,  NiSG.,  f.  144,  Gruc- 
cialma,  MS.,  XXIV,  2031,  Guindazzo,  XXXII,  2675,  laiuno,  XIV,  1170, 
de  latta  o  de  lacca,  XLI,  3463,  XLIII,  3693,  de  donino  lohanne,  NiSM., 
f.  155,  luntulo,  MS.,  XXIX,  2451,  Laturre,  XXXVIII,  3231,  Lazaro  o 
Latro,  XLI,  3464,  XLV  II,    4101,   de  Leta,  XXXIII,   2826  bis,    Longo, 

XXXII,  2696,  Macedone,  XXXVII,  3132,  Magnozia,  XXVIII  2362, 
f.  30,  Malasorte,  Soc.  stor.,  Perg.  S.  Dom.,  XI,  A,  3,  83,  Mammulo,, iVzSG., 
f.  30,  Manco,  MS.,  XXIV,  2024,  de  domno  Manso,  XX,  1639,  Mantella, 

XXXIII,  2779,  Marca  o  Masca,  XXVII,  3111,  3114,  Marino,  XXXVII, 
3119,  Marogano,  XXV,  2088,  Maurella,  XXX,  2572,  de  domno  Mauro, 
Soc.  STOR.,  10  AA,  I,  2,  Medico,  MS,  XXII,  1809  bis,  Mincuccia,  XXV, 
2088,  Modiosolido,  XIII,  1098,  Mormile,  NiSM.,  f.  182,  Mota,  LV,  4818, 
de  Musca,  XIV,  1220,  Nubisca,  Reg.  ang.  ;  101,  180,  Oriczalma,  Scritt. 
dei  SS.  Pietro  e  Seb.,  f.  136,  Orilia,  MS.,  XVII,  1434,  Pagniczato,  NiSM. 
f.  181,  Pappacena,  MS.,  XXI,  2615,  Ponticarulo,  Reg.  ang.,  96,  f.  234, 
de  Porpora,  XVII,  138  bis,  Pulderico,  XXVI,  2173,  Purciano,  XXIII, 
1909,  Rasato,  XXXVI,  3029,  Roncella,  XXVI,  2173,  Rubeo,  Reg.  ang. 
10,  180,  Saiperto,  MS.,  XVIII,  1425  bis,  Saraca,  Reg.  ang.,  320,  f.  89  t. 
Scalense,  MS.,  LUI,  4532,  Scriniario,  XXVI,  3069  ter,  Sicenolfo,  NiSG., 
t  328,  Siliario,  MS.,  XVIII,  1447,  Spadaro,  XXVI,  2195,  Sparella  o  Spa- 
sella,  XXVI,  2163,  Spati,  NiSG.,  ì.  2,  Spizzicacasu,  MS.,  XIII,  1098, 
de  Tarento,  XXIX,  2441,  Zambictulla,  XXI,  1741  bis, 

1  Alicto,  f.  36  t.  38,  42,  45;  ms.  Bolvito,  I,  3,  V,  28;  ms.  Di  Sangro 
f.  3  e  sgg.;  Soc.  stor.,  XX,  C,  30,  f.  256  ;  Summonte,  III,  405  ;  Schifa, 
Contese,  28,  108,  159,  180 

2  Alicto,  f.  28;  Camera,  Annali,  II,  211;  Schifa,  Contese,  80,  92. 

3  Alicto,  f.  43,  Camera;  Annali,  II,  59  ;  Schifa,  Contese,  126.  Un 
de   lacca  «  sutor  caput  artis  »  è  ricordato  nel  Chronicon  suessanum,  72, 


—  215  — 

tà,  si  perde  quel  carattere  di  esclusivismo  connesso  al  posto 
di  pubblico  uifiziale,  e  riesce  possibile  ai  notai  di  raggiungere 
posti  elevati  nell'amministrazione  municipale  e  nel  governo 
cittadino  ^.  Gli  altri  membri  non  curiali  di  queste  famìglie 
sono  di  solito  investiti  di  cariche  giudiziarie  o  notarili,  e  sola- 
mente in  linea  eccezionale  si  trovano  alcuni  fra  essi  nominati 
collettori  e  sindici  ^. 

La  città  di  Napoli  che  aveva  concepito  il  disegno  di  sottrar- 
si al  dominio  svevo  «  etiam  ante  Fridericum  decessum  »,  riacqui- 
stò il  ripristino  delle  «  rationabiles  consuetudines  »,  quando 
Innocenzo  IV  la  chiamò  a  lottare  1'  erede  svevo  del  trono  '. 
Ritornavano  da  Roma  medievale  gli  ultimi  riflessi  di  una  tra- 
dizione classica  ad  influenzare  la  tardiva  rinascenza  della  scuola, 
contaminata  da  un  un  cinquantennio  di  adattamenti  agl'insti- 
tuti  nuovi  *.  Dalla  lunga  lotta  il  corpo  notarile  esce  scosso,  ma 


mentre  nel  Chronìcon  siculum,  11  vien  detto  «  aurifex  »,    Badley,  410; 
Schifa,  o.  c,  143. 

*  Alicto,  f.  28  e  sg.:  Gap.,  Il  pacium,  740  ;  Schifa,  Contese,  92,  e  sgg.. 
Nei  primi  anni  del  sec.  XIV,  si  trova  il  curiale  Paolo  Cozzulo  e  tre  altri 
appartenenti  a  famiglie  del  suo  rango  (Guindazzo,  Marogano  e  Cacamo- 
dio),  fra  i  «  Sei  probi  aventi  la  cura  speciale  e  la  direzione  del  Consiglio 
della  Città  »,  e  più  tardi  s'incontra  nella  stessa  magistratura  un  Cado  e 
un  Russo  (Rubeo  ?).  Bartolomeo  Guindazzo  nel  1257  «  tenet  »  una  terra 
dal  monastero  di  Positano,  Chiarito,  117. 

*  Reg.  ang.,  141,  f.  23  t.,  Nicola  Rubeo  notaio  ;  365,  f.  169,  Cubone 
Malasorte  giudice;  ms.  Soc.  stor.,  XX,  C,  30,  f.  11,  Angelo  Marogano 
giudice.  Schifa,  Contese,  127,  108,  120  136,  197;  Alicto,  f.  29,  36  t.,  42, 
45  ;  TuTiNi,  44,  ricordano  per  esempio  Cristofaro  Marogano  collettore 
e  un  tal  Leone  della  stessa  famiglia  investilo  (1306)  della  carica  sindacale. 
Quest'  ultimo  funziona  da  curiale  fin  dal  1253,  NiSG.,  f.  182,  e  nel  1307, 
viene  promosso  primario,  Reg.  ang.,  1306  T,  n.  160,  f.  202  t. 

*  Ep.  Innocentii  IV,  comuni  Neapolitano  (13  die.  1251),  in  Cap.,  Hi- 
storia,  22,  archiepiscopis,  ivi,  10.  Il  papa  dà  alla  città  «tutissimama  et  dele- 
ctabilem  libertatem  »  e  rievoca  le  ordinationes..  inter  milites  et  populares 
civitatis  seguite  alla  morte  dell'imperatore.  «Tra  quelle  probabilmente, 
dice  lo  Schifa,  Contese,  58,  ebbe  luogo  il  ripristinamento  delle  consue- 
tudini ».  Divenuto  sovrano  della  città,  il  Pontefice  dice  :  «  rationabiles,  con- 
suetudines, approbatas  dudum  in  civitate  ipsa  et  paciflce  observatas  us- 
que  ad  tempus,  quo  iamdictus  Fridericus  suas  constitutiones  in  regno 
edidit  ». 

*  Trifone,   Il  diritto  consuetudinario^  60  :   «  Ancora  una  volta  qualche 


—  216  — 

non  discreditato  ^.  Cresce  il  numero  degli  scolari  e  dei  praticanti, 
in  ragione  inversa  dei  documenti,  nei  quali  si  va  afferman- 
do sempre  più  l'offìciatura  regia,  non  tanto  «  quod  probatio  vel 
cautela  aliqua  exinde  quomodolibet  assumatur  »,  quanto  per  la 
«  Clara  et  distincta  lectura  »  e  per  giovare  «  de  ipso  legentibus  » 
r  intelligenza  dei  testi  («  clarus  intellectus  »)  2.  A  nulla  valse 
il  rispetto  che  ostentavano  i  curiali  alle  «  constitutiones  impe- 
riales  et  regales  »  ed  il  riconoscimento  del  loro  vigor  negli  affari 
e  nelle  procedure,  poiché  la  vita  stessa  della  scuola  emanava 
dalla  disconosciuta  ed  abolita  vis  consuetudinaria  ^.  Esiste- 
vano ancora  !'«  instrumentum  curialiscum  »  e  1'  «  i.  notariscum  » 
a  incarnare  la  coesistenza  di  principii  antitetici:  l'uno  che  affer- 
mava l'autonomia  municipale,  l'altro  che  l'abrogava,  senza  riu- 
scire effettivamente  a  distruggerla,  in  nome  dell'autorità  im- 
periale e  regia  alla  quale  era  informata  *. 

Si  deve  a  Carlo  II  il  riordinamento  delle  consuetudini  che  le 
generazioni  remote  avevano  trasmesse  solo  oralmente,  e   che 


cosa  delle  costumanze  longobarde  entrava  nelle  consuetudini  napoletane, 
attraverso  le  leggi  di  Federico  II  »:  Bouard,  291. 

*  Reg.  ang.,  (perduto)  1288  C,  f.  294,  in  Chiarito,  118  :  «  Cum  in  civi- 
tate  Neapolis  publici  notariatus  et  curialatus  offlcium  exercetur  ad  idj 
diverso  modo  scribendi  ;  et  ad    curiales  potius  et  confidentius,  quam  adj 
alios  notarios  recurratur  ecc.  » 

»  Reg.  ang.,  1333-1334    D.,  n.  294,  f.  41.    Si  faceva  «  fideliter  »  la  tran- 
slatio  «  de  scriptura  curialisca  in  latina  »,  perchè  quella  grafia   «  erat  com- 
muniter  sensibus  innota  legentium  »  e  non  poteva  prestarsi  :  ad  quandai 
ostensionem  seu  demonstrationem  ».  Pel  numero  dei  discepoli  e  dei  prati- 
canti, infra  §  Discepoli, 

»  MS.,  XXIII,  1943,  XXIV,  1974,  XXXI,  2599,  2650,  in  cui  sonj 
ricordate  anche  le  «constitutiones  papales  ».  Ma  !'« instrumentum  cu-l 
rialiscum  [est]  confectum  secundum  usum  Neapolis  »,  MS.,  XX,  1639, 
NiSM.,  f.  591,  593.  Frequente  è  il  ricordo  dei  «mores  et  consuetudinesj 
civitatis  Neapolis  »,  Soc.  stor.,  9  AA,  I,  6,7  ;  MS.,  XXX,  2547,  e  dello^ 
«  usus  civitatis  »,  MS.,  Vili,  669. 

*  Chiarito,  118  ;  Trifone,  //  diritto  ;  60,  ritiene  che  «  con  1'  aver  pa- 
rificato, secondo  speciali  criteri,  gli  atti  compiuti  dai  curiali  con  quelli 
scritti  dai  giudici,  a  ciò  delegati,  si  era  venuto  anche  a  riconoscere  quel  che! 
aveva  stabilito  lo  svevo,  ed  a  tracciare  una  via  di  mezzo  tra  ciò  che  era! 
stato  imposto  dalla  legislazione  di  costui  e  ciò  che  era  prima,  e,  in  parte] 
dopo  di  lui  ».  NiESE,  379. 


—  217  — 

fino  agl'inizi  del  sec.  XIV  si    prestarono  a  contradittorii  inter- 
minabili per  gli  abusi  e  gli  spergiuri   dei   Napoletani  ^.   Col  far- 

1  II  primo  mandato  di  porre  in  iscritto  le  consuetudini  è  dei  tempi 
del  principe  vicario  Carlo  Martello  (1293),  il  quale  scrive  «nobili  viro  Ro- 
stayno  Cantelmi,  militi,  capitanio  Neapolis  »,  che  a  lui  «  persepe  pulsavit 
auditum  »  la  domanda  degli  «  homines  Neapolis  regii  fideles,  devoti  nostri  » 
affinchè  «  consuetudines  civitatis  ipsius,  ad  cautelam  presentium  et  memo- 
riam  futurorum  in  scriptis,  sub  sigillo  nostro  redigi  mandaremus  ».  E,  vo- 
lendo «  de  consuetudinibus  ipsis  plenius  certificari  »  ordina  che  se  ne  affidi 
la  redazione  ai  Napoletani  («  in  numero  oportuno  »)  più  vecchi  e  più  attac- 
cati al  bene  della  città  e  alla  norma  consuetudinaria,  sotto  la  guida  del- 
l'arcivescovo. Reg.  ang.  1291  )J(  (perduto),  f.  165,  in  Chiarito,  11  ;  Reg. 
ang.,  101,  f.  174,  contiene  un  mandato  regio  del  14  luglio  1300  a  Porzio 
de  Montilio,  capitano  di  Napoli,  perchè  rendesse  pubblica  l'imposizione 
fatta  dalla  Corte  all'università  «ut  infra  quindenum  spacium  a  die  tue 
{scil.  capitanei)  jussionis  in  antea  computandum,  eligat  duodecim  vite  ac 
opiniones  electe  discretos  atque  instructos  in  talibus,  qui  una  cum  ve- 
nerabili ipsius  civitatis  antistite,  consiliario  et  familiari  nostro  dilecto, 
quem  salutis  et  status  prosperi  ipsius  civitatis  et  civium  novimus  ama- 
torem,  usque  per  totum  mensem  decembris  futurum  quartedecim  indic- 
tionis,  ad  tardius,  omnes  veras,  antiquas  et  approbatas  consuetudines 
universitatis  eiusdem,  quas,  ex  concordi  proborum  virorum  testimonio 
vel  alia  probacione  legitima,  reperiri  poterunt  ».  Il  3  dicembre  successivo 
il  re  informava  Guglielmo  de  Recuperanzia,  «  de  vicecomitibus  Pisanis  », 
milite  capitano  di  Napoli,  e  consigliero  «  quod  prefixum  terminum  per  nos 
datum  per  totum  mensem  decembrem  unius  quartedecime  indictionis, 
ad  tardius,  Neapolitanis  civibus  ad  conscribendas  in  designatis  volumi- 
nibus  consuetudines  approbatas,  antiquas  et  veras  universitatis  eiusdem  », 
rimaneva  prorogato  «usque  ad  proximum  futurum  festum  Resurrectionis 
Dominice  »,  Reg.  ang.  1300-1301  B.,  f.  151  t.  ;  Minieri  Riccio,  Studio, 
82.  Non  può  dirsi  se  tali  studi  preliminari  sulla  codificazione  delle  con- 
suetudini andassero  falliti  o  continuassero  ininterrottamente  fino  al 
1306,  quando  cioè  si  effettuava  il  regio  mandato  ;  Trifone,  //  diritto,  5. 
Vien  riprodotto  un  diploma  di  quell'epoca,  proemio  di  due  consuetu- 
dini, nel  quale  il  re  lamenta  l'abuso,  l'incertezza  e  la  varietà  di  queste 
norme  orali,  e  dice  che  «  dum  in  emergentibus  causis  allegatur  interdum 
consuetudinis  longaevique  usus  auctoritas,  ad  contrarium  obiicitur  alia, 
in  elisionem  primo  propositae  ».  Per  discriminare  gli  usi  veri  ed  antichi 
da  quelli  falsi  ed  arbitrarli  si  obbligavano  le  parti  ad  addurre  testimo- 
nianze ;  ma  «  dum  fit  plerumque  utriusque  probatio  et  consequentia  ne- 
cessitatis  implicitae,  tecta  veritate  sub  modio,  periurii  reatus  incurritur, 
et  veritatis  perplexitas  intricatur  ».  Chiarito,  10,  Pecchia,  III,  266, 
GiANNONE,  IV,  355,  Schifa,  Contese,  99;  il  quale  crede  che  le  querele 
alla  Corte  regia  siano  da  attribuirsi  alle  persone  maggiormente  danneggiate 
dall'abuso,   piuttosto   che    all'intera   università. 

Anno  XLV.  15 


—  218  — 

le  mettere  in  iscritto  le  sottraeva  alle  incertezze  di  arbitrarli 
enunciati,  sostenute  in  forme  diversissime  dai  causidici  e  dai 
litiganti,  eliminando  tanti  errori  quodidiani,  che  portavano 
differimenti  e  complicanze  giudiziarie,  non  che  difformità  ne* 
verdetti  \  Fece  raccogliere  «  consuetudines  omnes  et  singulae  » 
accettate  per  vere  con  testimonianze  «  de  civibus  antiquioribus, 
et  fidehoribus,  et  consuetudinibus  ipsis  magis  instructis  et  ip- 
sius  civitatis  statum  bonum  zelantibus  »  e  con  altre  prove  *. 
Affidò  taU  indagini  all'arcivescovo  FiUppo  Minutolo  e  a  dodici 
uomini  «  ab  universitate  eligendis  »,  i  quali  le  raccolsero  tutte 
«  in  uno  volumine  »  e  le  divulgarono  «  pubUce  »  (1306),  avendo 
il  re  attribuita  ad  esse  forza  di  legge  ^.   La   norma  scritta  sor- 

*  Nel  diploma  posto  avanti  alle  due  consuetudini,  Chiarito,  11,  si 
legge  ;  «  Ex  quibus  utique  quotidianis  enoribus,  differuntur  iudicia,  offen- 
ditur  veritas,  lites  crescunt,  et  oriuntur,  et  incidunt  animorum  et  corporum 
quotidiana  discrimina.  Pecchia,  III,  266,  Giannone,  IV,  355,  Schifa, 
Contese,  99. 

*  Reg.  ang.y  154,  f.  213  t.  e  sg,  1291  ^,    (perduto),   f.  165,  Proemio  alle^ 
Consuetudini,  in  cui  il  re,  nel  constatare  il  ristabilimento   della   verità 
della  giustizia  e  la  soppressione  dell'arbitrio   nel   citare   norme   contradit-| 
torie,  dice  che  ha  fatto  raccogliere  «in  seriosam  script uram...    infra  pre- 
fìxum  terminum...   omnes  veras,   antiquas  et  approbatas    consuetudines 
civitatis...  quas,  ex  concordi  proborum  virorum  testimonio  vel    alia   pro-J 
batione,  ipsi  reperir!  valerent  »,  Chiarito,  11;  Schifa,  Contese,  99;  Tri- 
fone, //  diritto,  5. 

"  La  compilazione  ebbe  luogo    «per   venerabilem    patrem...    antistite! 
civitatis    et    duodecim    viros    vite    ac    opinionis  electae  discretos  et  inH 
structos...  ab  universitate  eligendos  ».  Presentate  a    lui    le   consuetudii 
«  in  scripturam  redactis  »,  insieme  col   «  voto  et  communi  consensu  uni- 
versitatis  »,  perchè  le  giudicasse  e  le  ritenesse  «  per  authoritatem   appro- 
bationis...     obnixius    roboratae  »,     furono     esaminate   e   accolte  come  il 
prodotto  della  «  communis  concordia    civium    et    rationis    approbandac 
censura  ».  Nonostante  tale  dichiarazione   il    re,    toltene    alcune    e  «  qui-j 
busdam  declarationem  congruam  additis  »,  ne  affidò  la  redazione    ultimai 
al  protonotario   Bartolomeo   di   Capua   «in   stylo   dictaminis    eorumdemj 
civium  »,     raccomandandogli     di     conservare    «  magis    proprie...    usualia 
verba  »,  e  statuendo  :   «  auctoritatis  nostre  comprobate    iudicio,  in  dieta] 
civitate  Neapolis  eiusque  districtu,  in  iudiciis  et  extra  iudicia   vim  legunij 
obtineant,  et  robur  consuetudinum  approbatarum  ».  Ad    assicurarci  che! 
il  testo  delle  consuetudini  giunto  fino  a  noi  non  sia  l'originale  compilazionej 
dei  dodici  probi,  presieduti  da  Filippo  Minutolo,  ma  quella  rimaneggiati 
dal  protonotario,  basterà  ricordare   il    diploma  del  Reg.  ang.,  154,  f.  213  t. 


—  219  — 

prese  la  scuola  napoletana  nella  sua  ultima  fase,  e  segarentiva 
la  legalità  degli  atti  curiali,  lasciava  inalterati  gli  arcaici  sche- 
mi e  le  procedure  inadattabili  ai  nuovi  bisogni  del  pubblico  ^. 
Anche  per  la  nomina  di  coloro  che  erano  promossi  dai  gradi 
inferiori  a  queUi  superiori  del  corpo  notarile  interveniva  allora 
r  autorità  sovrana,  quasi  equiparandoli  ai  regi  uffiziali  ^.  Con- 
tinuava V universitas  civitatis  ad  eleggerh,  ma  il  suo  atto  rima- 
neva una  teorica  affermazione  di  ■  autonomia,  che  doveva  es- 


e  sg  :  «  Sane  consuetudines  civitatis  Neapolis  disgregatas  et  dubias,  sub 
nuUius  complicatione  congesta,  quibusdam  detractis,  aliquibus  additis 
per  declarationis  opportune  sufiragium,  in  uno  volumine  compilali  man- 
davimus  ».  Per  dare  pubblicità  alle  consuetudini  ne  inviava  copia  all'ar- 
chivio della  R.  Corte,  al  Capitano  della  città,  ai  baglivi  e  giudici,  all'ar- 
civescovo, perchè  l'avesse  custodita  «  perpetuo  in  Thesauro  Ecclesiae  », 
e  al  «  librorum  stationario  civitatis  »,  Reg.  ang.  154,  f.  e,  157,  f.  183  t., 
ove  si  legge:  «volumus  igitur...  quatenus,  congregata  universitate  Nea- 
polis, edictionem  dicti  voluminis  divulges  publice,  ac  ex  more  serves  te- 
naciter...  et  facias  per  alios  observare  »;  ivi,  f.  184,  in  cui  il  re  dice:  «ut 
earum  veritas,  cum  casus  exigit,  se  patenter  exhibet,  recensque  memoria 
per  excursum  revoluti  temporis  non  decrescat,  cuius  compilati  voluminis 
seriem  multiplicari  provise  fecimus  in  diversis  locis  diligentius  conser- 
vandum,  ut  eo  potius  eius  certitudo  permaneat,  quo  pluribus  locis  ipsa 
fuerit  patefacta  »,  Chiarito,  12  ;  Trifone,  //  diritto  7,  ritiene  che  nelle 
consuetudini  «  su  uno  strato  di  norme  romane  se  ne   trovi  uno  di  diritto 

.giustinianeo,  che  alle  volte  si  confonde  col  primo  »  e,  su  tutto  ciò  «  spunti 
qualche  germe  di  diritto  bizantino  e  qualche  germoglio  di  usanze  stra- 
niere, il  quale  riuscito  ad  infiltrarsi,  attraverso  la  legislazione  sveva,  più 
che  direttamente,  di  tratto  in  tratto  apparisce  e  si  assoda  »;  cf.  Pitzorno, 
//  diritto,  16. 

»  Chiarito,  10  e  sgg.  ;  Cap.,  II*  112;  Trifone,  //  diritto,  8,60:  «Per 
gli  atti  curiali  si  oscilla  fra  gli  antichi  privilegi  difesi  dagli  Angioini  e  le 
riforme  fridericiane  »;  da  un  pezzo  le  formole  si  sarebbero  ridotte  a 
ben  poche,  e  liberate  «  da  quei  vincoli  e  da  quelle  sacramentalità  proprie 

-  dell'antico  formalismo  romano  e  germanico  ».  Nella  parificazione  degli 
atti  curiali  a  quelli  dei  regi  notai  e  giudici,  per  quanto  la  diversità  di  for- 
mole sia  rimasta,  egli  vede  «  ancora  una  volta  qualche  cosa  delle  costu- 
manze longobarde  entrare  nelle  consuetudini  napoletane,  attraverso  le 
leggi  di  Federico  II  ». 

•  Questo  intervento  dell'  autorità  sovrana  si  trova  nei  documenti  fin 
dai  primi  anni  degli  angioini,  Reg.  ang.,  5,  f.  182  t.,  15,  f.  90;  Trifone, 
60  ;  ma  si  rìconnette  alla  legislazione  sveva,  Constitutiones,  LXXIX,  in 
cui  appunto  si  riverbera  la  equipollenza  dei  curiali  e  dei  notai. 


—  220  — 

sere  omologata  da  una  lettera  patente  per  divenire  esecutiva^. 
Il  curiale  si  sceglieva  fra  i  Napoletani  (concives)  devoti  alla 
Corte,  e  la  sua  idoneità  all'esercizio  professionale,  non  che  la 
«  fides,  legalitas  ac  sufFicientia  »,  dovevano  essere  garentite  da 
un  pubblico  testimoniale  scriptum  dell'assemblea  elettiva  in- 
viato al  re 2.  Prima  di  prestare  il  giuramento  il  candidato  so- 
steneva un  examen  per  essere  riconosciuto  «  ad  ipsum  officium 
suffìcientem  »  ^  Spettava  al  giustiziero  o  al  capitano  della  cit- 
tà indire  le  elezioni,  che  avevano  luogo  nel  palatium  presso 
S.  Paolo,  e  più  tardi  in  S.  Giovanni  maggiore,  presenziare  un 
cosi  importante  atto  deUberativo  ed  assicurarsi  della  perfetta 
osservanza  delle  procedure  vigenti  *.    Si   recava  quindi  il  can- 

^  Reg.  ang.,  46,  f.  109,  pare  che  1'  elezione  sia  affidata  ai  soli  curiali. 
Per  la  indispensabilità  dell'intervento  sovrano,  cf.  Reg.  ang.,  122,  f.  266, 
nel  quale  si  affermano  però  i  diritti  dell'  «  universitas  »  ed  il  valore  di  tale 
«disciimen»  sulla  decisione  delle  controversie,  che  potranno  eventual- 
mente sorgere  in  avvenire. 

'^  Reg.  ang.,   46,  f.  109,  in  cui  mercè  il  solito  formulario  viene  investito 
della  carica  Pietro  Pappacena,  con  lettera  patente  del  23  febbraio  1303  ; 
ma  verso  la  fine  di  aprile  dello  stesso  ann),  Reg.  ang.,  122,  f.  266,  essendosi 
alla  R.    Corte   «graviter...   oblata  petitio  »  ^  universorum   curialium   seu 
notariorum  curialis  ritus  civitatis  Neapolis  »  circa  la  illegale  sua  elezione, 
per  avere,  «  subreptitie  »,  ottenuto  il  pubblico  esercizio,  «  contra  modui 
et  formam  in  hoc  solitos  et  antiquos  »,  gli  fu  proibita  la  pratica  professi( 
naie  dal  capitano  della  città.  Questo  diploma  dimostra  anche  la  necessit 
per  il  neo  eletto  di  avere  1'  «  autoritatis  assensus  »  dell'arcivescovo  e  II 
parte  prevalente,  se  non  unica,  dei  curiali  alla  scelta  del  candidato  :  « 
ceteribus    curialibus    memoratis   temere   presumpsit,    diebus    proximis,.; 
se  in  cuiialem  publicum,  propter  obreptionem,  facere  eligi  ».  Nella  compi 
lazione  del  «  publicum  testimoniale  »  si  risente  la   diretta  influenza   dell^ 
legislazione  sveva,  in  cui  appunto,  per  la  elezione  dei  giudici  e  dei  noti 
si  richiedono  le  «  littere  testimoniales  hominum  ipsius  loci  »  nel  quale  de 
vono  esercitare  la  loro  carica,  Constitutiones,  LXXIX 

»  Reg.  ang.,  65,  f.  113,  f.  265  t.  Non  è  altro    che    1'  «  examinatio    ai 
tem  litterature  et  etiam  iuris  scripti  »,  che  l'imperatore  aveva  riservate 
«  examini  »  della  sua  Corte,  Constitutiones,  LXXIX. 

*  Reg.  ang.,  202,  f.  172  ;  Chiarito,  21  ;  del  Giudice,  Codice,  1,  150j 
Schifa,  Contese,  100,  stenta  a  credere  che  l'università  si  raccogliesse 
sedi  stabili.  Per  la  equiparazione  della  procedura  elettiva  di  questo  p< 
riodo  con  quella  della  legislazione  sveva,  cf.  Constitutiones,  LXXIX,  dovi 
è  tolta  la  facoltà  ai  giustizieri  di  «  ordinare  »  i   giudici   e   i  notai,  essend^ 
questo  diritto  riserbato  al  re. 


—  221  — 

didato  alla  Corte  regia  col  «laudabile  testimonium  »,  e  prestava 
«  corporaliter  »  il  giuramento  «  fidelitatis  et  de  officio  exer- 
cendo  »,  dopo  essere  stato  talvolta  «  examinatum  utique  ad 
ipsum  offìcium  et  sufficientem  inventum  »  ^.  Il  re  «  conce- 
debat  »,  con  lettera  patente  indirizzata  «  universis  hominibus 
civitatis  Neapolis,  fidelibus  regis,  devotis  suis  »,  di  fargli  indos- 
sare Vhabitus,  di  assumerlo  in  servizio  «  tamquam  curialem  no- 
strum »  ovvero  «  publicum  »  ^.   Questa  notifica    non    solo  è  in 

»  Reg.  ang.,  123,  f.  373  t. 

'  Si  conservano  oggi  molte  di  queste  lettere  patenti  :  Reg.  ang.,  10, 
f.  180,  «prò  Guillelmo  Ferula»,  «prò  lohanne  Ferula»,  «prò  Petro  Spada- 
io »,  «  prò  Lauro  Domnibono  »,  «  prò  Tomasìo  de  Saponto  »,  «  prò  Enrico 
Cagnabatiolo  »,  «  prò  Rogerio  Masca  »,  «  prò  Henrico  Nubisca  »,  «  prò 
Georgio  Rubeo  »  ;  15,  f.  90,  «  prò  Robbino  de  Musco  »  ;  26,  f.  CCIIt., 
«  prò  lohanne  Sparella  »  ;  12,  f.  25,  192,  «  prò  Raffaldo  Cado  ;  72,  f.  58, 
«  prò  lohanne  Lazaro  »,  «  prò  Thomasio  Boffa  »,  «  prò  Philippo  Coco  »  ; 
170,  ff.  80,  «prò  Pace  Magnolia»;  80,  f.  295  t.  «prò  Ansaldo  Spatario  »; 
96,  ff.  234,  240,  «  prò  lohanne  Ponticarulo  »,  «  prò  Matheo  Roncella  », 
II,  f.  88,  «prò  lohanne  Buccartortio  »;  101,  f.  386  t,  «prò  Philippo  Buc- 
catortio  »;  46,  ff.  109,  111,  «  prò  Antonio  Morimile  »,  «  prò  Petro  Papa- 
cena  »,  «  prò  Nicolao  Scriniario  de  Neapoli  »  ;  123,  f.  265  t.  373  t,  altre 
patenti  «  prò  Antonio  Morimili  »,  «  prò  Petro  Papacena  »,  «  prò  Nicolao 
Scriniario  de  Neapoli  »  ;  160,  f.  190  t.  «  prò  Matheo  de  Costantio  »  ;  164, 
f.  354  t.,  «prò  Nicolao  Gruccialma  »  ;  164,  f.  351,  «prò  Neapolitano  Ar- 
zura  »,  «  prò  Petro  Vespulo  »,  «  prò  Petro  Masca  »,  «  prò  Francisco  Pannic- 
zato  »,  «  prò  Francisco  Caridente  »,  «  prò  Martutio  Cimino  »  ;  202,  f.  172, 
«  prò  Nicolao  Cannuto  »,  «  prò  lohanne  Gruccialma  »,  «  prò  Marino  lun- 
tulo  »;  175,  f.  228,  «prò  Matheo  Buccamusto  »;  332,  f.  28  t.  «prò  Nico- 
lao Caputo  »  ;  200,  ff.  224,  225,  243,  «prò  Rogerio  Marca  »,  «prò  Stephano 
de  Constatio  »,  «  prò  lohanne  de  domno  Aczo  »,  «  prò  lohanne  luntula  », 
«  prò  lohanne  Coczulo  »,  «  prò  Petro  Fecula  »,  «  prò  Petro  de  Gaudioso  »; 
217,  f.  364  t.,  «prò  Nicolao  Mantella»;  247,  f.  288,»  «prò  Francisco  de 
Mantella»;  255,  f.  138  (CLXXVIII),  «prò  Thomasio  Gruccialma»;  259, 
f.  172  t,  «prò  Philippo  de  Leta  »  ;  275,  f.  85,  «prò  Andrea  de  Costantio  » 
t  prò  Landulfo  Scriniario  »,  «  prò  Petro  Macidono,  dicto  Murrono  »,  «  prò 
Leonardo  Lazaro  »  ;  297,  f.  45,  70,  «  prò  Francisco  de  Goffrldo  »,  «  prò 
Petro  Mascha  de  Neapoli»;  320,  f.  264  t.  266  t,  «prò  Petro  Grassullo  », 
«prò  lohanne  Cannuto»;  325,  f.  233,  «prò  Marino  lunlulo  ;  327,  f.  174 
t.,  «prò  Martuccio  Arsura»;  333,  f.  124,  «prò  lacobo  Bespulo  »,  «prò 
lacobo  Mascha  ».  La  enumerazione  di  questi  mandati  regi  è  stata  fatta 
secondo  il  loro  ordine  cronologico.  Sì  ripete  sempre  lo  stesso  formulario 
«  Karolus  (o  altro  successore)  Dei  gratia  Sicilie,  ducatus  Apulie  ecc.,  uni- 
versis hominibus  civitatis  Neapolis,  fidelibus  suis,  gratiam  suam  et  bo- 


—  222  — 


rapporto  con  l'assemblea  che  ha  designato  il  neo  eletto  alh 
Corte,  ma  determina  la  circoscrizione  nella  quale  il  novello  uf- 
fiziale  esercita  il  suo  mandato  i.  GH  è  concesso  di  provveder 
«  omnibus  quae  ad  curialatus  spectant  officium  »,  e  non  ad  al- 
tro («  ad  honorem  et  fidelitatem  nostram  et  heredum  nostro-' 
rum  de  cetero  recurratis  »)  2. 

Nel  1294  si  mette  per  la  prima  volta  in  evidenza  la  parte 
cipazione  di  due  curiali  alla  pubblica  appreziatura,  e  cioè  al- 
l'ufficio che  si  occupava  della  misura  dei  fondi  rustici  ed  uri 
bani  secondo  il  sistema  metrico  locale^.    La  fides  del  coUegic 


nam  voluntatem.  Noverit  universitas  vestra  quod  nos  concivem  vestrui 
de  cuius  fide,  legalitate  ac  suflfìcientia  ad  publici  curialatus  offlcium,  p< 
testimoniale  publicum  scriptum  universitati  vestre,  in  nostra  curia  preseni 
tatum  laudabile  testimonium  curia  ipsa  recepit,  examinatum  utique  ac 
ipsum  offlcium  et  sufflcientem  inventum,  vobis  in  publicum  curialem  n( 
strum,  recepto  prius  ab  eo  solito  fidelitatis  et  de  officio  exercendo  fidelitc 
corporaliter  iuramento,    duximus    tenore  presentium   concedendum   fid< 
litati  vestre  precipiendo  mandantes  ad  eundem  NN.,  tamquam  ad  curii 
lem  publicum  per  nos  vobis  concessum  et  de  omnibus  que   ad  huiusmo( 
publici  curialatus  offlcium  pertinere,  ad  honorem  et  fidelitatem  nostram 
heredum  nostrorum  de  cetero    recurratis.    Datum    Neapjoli...    die...    i 
dictionis  ».  Basta  richiamare  la  legislazione  fridericiana  relativa  alla  eie 
zione  dei  giudici  e  notai  per  vedere  come  il   sistema  elettivo   sia  precisa^ 
mente  quello  voluto  dall'Imperatore  svevo,  Constitutìones,  LXXIX  :  «  Prc 
dicti  autem  tam  iudices  quam  notarli,  cum  licteris  testimonialibus  he 
minum  loci  ipsius  in  quo  statuendi  sunt,  ad  presentiam   nostram  vel  eìi 
qui  vicem  njstram,  in  absentia  nostra  in  regno  universaliter  procurabit,  ac 
cedant.  Que  littere  testimonium  fides  et  morum  iudicis  vel  notarli  statuer 
di  continere  debebunt,  et  quod  in  ipsius  loci   consuetudinibus  sii  instrudm 
Examinationem  autem    litterature  et  etiam  iuris  scripti  examini  nosti 
curie   reservamus  » 

»  Gli    «  universi    homines    civitatis  Neapolis  »  in  altri  termini  non  soM 
rappresentano  il  corpo  elettorale  che  ha  designato  il  nuovo  curiale,  per  mez| 
zo  del  collegio    notarile,  Reg.  ang.,  46,  f.  109;  bensì  «  homines  loci  ipsius 
quo  statuendi  sunt»,  Constitutiones,  LXXIX. 

■  Reg.  ang.,  72,  f.  58. 

*  L'  «  extimatio  »  divenuta    servizio    pubblico  in  tutto  il  regno  di  Slj 
cilia,  DuRRiEU,  I,  89;   Cadier,  23,  45;  Schifa,  Contese,  101,  era  prerogs 
tiva  inerente  alla  carica  notarile  civica,  nei  tempi  anteriori,  quando  cioj 
essa  non  aveva  finalità  tributarie,  ma  semplicemente  edilizie  oagro  nomi 
che.  Fin  dal  tempo  ducale  si  ha  notizia  degli  appretiatores,  Mon.  sopp., 
44,  NisS,  n.  787,  RNAM.,  Ili,  178,  Gap.  II,  188.  I  curiali  adoperavano 


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era  stata  fino  allora  sufficiente  garenzia  alla  esattezza  con  cui 
si  eseguivano  tutte  le  formalità  volute  dalla  consuetudine  e  de- 
signava con  un  ordine  interno  le  persone  destinate  a  certi  ser- 
vizi speciali  1.  Giacomo  Cozzulo,  presentandosi  al  re  col  «  pu- 
blicum  instrumentum  universitatis  »,  assicura  che  da  tempo  an- 
tichissimo si  eleggevano  due  curiali  alla  carica  di  appreziatori 
per  le  funzioni  estimatorie  che  la  curia  cittadina  esercitava 
sulla  proprietà  privata  2.  Tale  ufficio  per  gli  accertamenti  delle 
misure  agrarie  cade  allora  sotto  la  giurisdizione  dell'autorità 
sovrana,  per  opera  del  nuovo  eletto,  che  non  si  doveva  sentire 
abbastanza  sicuro  nel  posto  assegnatogli  dalla  «universitas»'. 
Con  lo  statizzarsi  completo  del  servizio  notarile  civico  vien  sot- 
tratta anche  la  scelta  degli  appreziatori  all'arbitrio  dei  curia- 
ìì  e  creata  come  una  nuova  carica  alla  quale  potevano  perve- 
nire tutti  i  curiali  della  schola*.  Nel  richiedere  la  ratifica 
al  «  publicum  instrumentum  »,  Giacomo  Cozzulo  viene  inve- 
stito dell'  «  officium  loco  patris  sui  »,  per  la  specifica  compe- 
tenza che  aveva  «  in  certis  articulis  qui  inter  [homines  civitatis 
NeapoHs]  occurrunt  »  ^.  Pur  riconoscendo  la  sopravvivenza 
della  successione  ereditaria  nella  carica,  non  si  deve  però  in- 
tendere che  un  tal  principio  valesse  solo  pei  discendenti  di  co- 
loro che  esercitavano  lo  stesso  ufficio;  ma  in  generale  per  qua- 
lunque figlio  di  curiale  idoneo  alla  pratica    dell'agrimensura*. 


«  passus  f erreus  »  della  chiesa  di  Napoli  e  le  misure  di  capacità  che  compa- 
iono nei  numerosi  documenti  napoletani,  Summonte,  348.  Erano  anche 
competenti  nell'  appreziatura  alcuni  «  probi  viri,  experti  in  tali  bus  »,  Reg. 
ang.,   351,  f.  51.  t., 

*  Per  la  statizzazione  di  questo  servizio  e  per  la  sua  speciale  funzione 
unificata  in  tutto  il  regno.  Camera,  Ann.,  II,  32,  126. 

*  Reg.  ang.  53,  f.  199,  in  cui  il  principe  vicario  dice  :  «  venit  ad  presen- 
tiam  nostram  lacobus  Coczulus,  curialis  Neapolis,  concives  noster,  devo- 
tus  noster,  et  asserens  nobis  esse  ab  antiquo  et  pristino  solitum  duos  appre- 
tiatores  habere  i>  ;  Alicto,  f.  28;  Gap.,  //  pactum,  740;  Schifa,  Contese,  92, 
in  cui  s'incontra  Paolo  Cozzulo  nel  consiglio  dei  «  Sei  probi  » 

«  Reg.  ang.y  160,  f.  204;  questi  curiali  sono  promossi  «tamquam  ap- 
pretiatores  »  regi. 

*  Reg.  ang.y  261,  f.  222. 

*  Ivi. 

*  Ivi,  Giacomo  Cozzulo  «  admicti  se  ad  dictum  offlcium  loco  lohannis 


—  224  — 

Contemporaneamente  restano  ben  distinti  i  due  titoli  nella 
stessa  persona,  che,  in  quanto  provvede  al  disbrigo  delle  pra- 
tiche notarili,  vien  detto  curiale,  e,  in  quanto  funziona  per  Vex- 
timatio,  piglia  il  nome  di  appreziatore^.  Viene  cosi  a  mancare 
il  principio  pel  quale  i  singoli  individui  della  schola  agiscono  in 
nome  di  tutta  la  corporazione.  Non  si  avvantaggiava  più  la 
collettività  municipale  del  monopolio  estimatorio,  ma  solo  i 
due  membri  designati  per  elezione,  i  quali,  liberi  dai  vincoli 
consuetudinarii,  sono  a  disposizione  delle  magistrature  citta- 
dine^. Conservavano  gli  appreziatori  il  solo  privilegio  di  es- 
sere scelti  fra  i  napoletani  appartenenti  alla  «  schola  »  e  di  a- 
vere  un  campo  di  azione  assai  più  vasto  dei  loro  colleghi  no- 
tai^. Alcuni  di  essi  anzi  si   trovano  come  componenti  di  una 


Coczuli  patris  noviter  vita  functi  unius  videlicet  de  duobus  eiusdem  sup- 
pliciter  postulavit  »,  ponendo  questo  principio  come  un  titolo  di  prefe- 
renza per  la  sua  promozione.  Con  la  stessa  motivazione  Paolo  Cozzulo  è 
investito  della  carica  di  appreziatore  il  20  agosto  1307,  Reg.  ang.,  164, 
f.  354.  Qualcuno  degli  ufficiali  si  trova  invece  promosso,  non  pel  principio 
ereditario,  ma  «  ad  utilitatem  civitatis  »,  Reg.  ang.,  261,  f.  222. 

^  Erroneamente  il  Chiarito,  40,  li  considera  ancora  come  ufficiali  del- 
l'università, mentre  essi  rappresentano  invece  gl'interessi  dell'erario  re- 
gio, come  si  trovano  in  altri  luoghi  del  Regno,  Camera,  Ann.,  II,  126;  Mi- 
NiERi-Riccio,  Della  dominazione  angioina,  10,  Schifa,  Contese,  101;  Un  man- 
dato di  Roberto,  Reg.  ang.,  261,  f.  222,  stabilisce  «  quod  nullus  alius  civi- 
tatis prefate  (sciL  Neapolis)  dictum  officium  absque  nostro  speciali  man- 
dato, debeat  exercere,  nisi  hii  qui  per  universitatem  prefatam  fuerint  electi 
et  per  nostras  literas  confirmati.  » 

*  Anche  V  intervento  dell'  università  aveva  perduto  ogni  valore  pra- 
tico ed  era  rimasta  mera  affermazione  di  un  diritto  storico,  tanto  che  erano 
sempre  necessarii  1'  «  examen  »  e  la  patente  sovrana  per  autorizzare  il  neo 
eletto  a  praticare  un  tale  ufficio,  Reg.  ang.,  160,  f.  204.  Il  loro  lavoro  si 
compiva  fuori  della  curia  cittadina,  Durrieu,  I,  89;  Cadier,  23  e  sg.;  Del 
Giudice,  Codice,  II,  253,  Schifa,  Contese,  102,  105. 

"  Reg.  ang.,  164,  f.  204,  354  :  «  Robertus  etc.  Universis  hominibus  ci- 
vitatis Neapolis  fidelibus  regiis  devotis  suis  etc.  Venit  ad  presentiam  no- 
stram  Paulus  Coczulus  curialis  de  Neapoli,  concivis  vester,  devotus  no- 
ster,  et  asserens  vobis  esse  ab  antiquo  et  pristino  solitus  duos  appretia- 
tores  habere  quorum  judicio  in  certis  articulis  qui  Inter  vos  occurrunt  prò 
tempore  infierente  admicti  se  ad  officium  ipsum,  loco  lacobi  Coczuli,  fra- 
tris  sui,  noviter  ut  posuit  vita  functi  unius  videlicet  de  duobus  eisdem  sup- 
pliciter  postulavit,  quia  ergo  per  quoddam  instrumentum  puplicum  uni- 
versitatis  vestre  quod  dictus  Paulus  nobis  in  curia  prese  ntavit  de  fide  le- 


—  225  — 

magistratura  collegiale  stabile,  che  appare  a  Napoli  nel  1309, 
composta  di  «  sei  probi  aventi  la  cura  speciale  del  Consiglio  della 
città  »  ^.  Questa  partecipazione  al  corpo  civico  si  riconnette 
con  l'incarico  prettamente  tecnico  che  i  suoi  membri  ebbero  da 
principio  di  sopraintendere  alla  edilizia  di  Napoli  ^.  Il  nome  di 
Paolo  Cozzulo  curiale  ricorre  appunto  nel  divieto  fatto  a  Man- 
fredello  Milloso  di  costruirsi  una  casa  nella  contrada  Porto, 
presso  il  mare^ 

Posteriormente  qualche  curiale  cumulò  anche  la  carica  di 
giudice,  e,  dopo  avere  ricevuto  la  totahtà  dei  suffragi,  in  virtù 
di  «  decreta  »  municipah,  contenenti  «  testimonia  laudedigna  », 
si  fece  promuovere  «  appretiator  et  extimator  »  «  ad  utilitatem 
civitatis  Neapohs  »  *.   Non  era  immesso  nella  carica  come  tutti 

galitate  ac  sufììcientia  eius  electi  per  vos  ad  idem  oflflcium  laudabile  te- 
stimonium  prohibetur,  nos  accepto  prius  ab  eo  solito  fldelitatis  et  de  huius- 
modi  appreciatorio  officio  exercendo  fideliter  corporaliter  iuramento,  eun- 
dem  Paulum  in  appreciatorem  loco  memoria  unius  de  duobus  predictis, 
vobis  duximus,  auctoritate  qua  fungimur,  tenore  presentium  conceden- 
dum,  devotionis  vestre  mandantes  quatenus  ad  dictum  Paulum,  tan- 
quam  ad  appreciatorem  vestrum  in  dictis  articulis,  de  omnibus  que  ad  ip- 
sum  appreciatorem  spectant  officium,  ad  honorem  et  fidelitatem  regis  in- 
cliti domini  patris  nostri  heredumque  suorum  fiducialiter  de  cetero  iuxta 
solitum  recurratis.  Datum  Neapoli,  per  Nicolam  Fricziam  de  Ravello  etc. 
Anno  Domini  mcccvii.,  die.  xx.  augusti, .  v.  indictionis  »  jRe^.  an^.,  153, 
f.  19,  374,  f.  430  t.,  in  cui  è  detto  che  il  curiale  è  competente  nell' apprezzo. 
Chiarito,  40  e  sg.;  Schifa,  Contese,  101. 

*  Questa  ipotesi  messa  innanzi  la  prima  volta  in  modo  alquanto  oscuro 
dal  SuMMONTE,  I,  165,  è  combattuta  da  scrittori  posteriori.  Gap.,  Circo- 
scrizione, 19  e  sg.  ;  DuRRiEu,  I,  89  ;  Cadier,  23;  Del  Giudice,  Codice,  II  «, 
253  ;  Schifa,  Contese,  101, 105,  i  quali  invero  si  fermano  a  discutere  la  par- 
tecipazione delle  classi  sociali  al  Consiglio  dei  «  Sei  probi  »,  ma  non  le  ana- 
logie fra  la  nuova  magistratura  civica  e  l'ufficio  dell'*  extimatio  ».  Nessuno 
infatti  può  escludere,  la  parte  che  ebbe  il  curiale  Paolo  Cozzulo  al  primo 
gruppo  dei  «sei»  che  si  formò  a  Napoli,  Reg.  ang.,  180,  f.  46,  Alicto 
f.  28.  Agevolano  la  identificazione  degli  estimatori  con  questi  speciali  com- 
missari per  gli  apprezzi,  che  furono  fatti  nel  sec.  XIV,  1  sgg.  docc:  Reg. 
ang.,  200,  f.  20  t.,  276,  f.  84  t.,  268,  f.  64  t.,  263,  f.  53;  Chiarito,  41. 

»  Summonte,  I,  164  ;  Schifa,  92  ;  Reg.  ang.,  200,  f.  20  t.  276,  f.  84  t. 
268  f.,  64  t,  nei  quali  si  trovano  costituiti  questi  collegi  edilizi,  secondo  le 
consuetudini  napoletane. 

»  Alicto,  f.  28. 

*  Reg.  ang.,  261,  f.  222. 


—  226  — 

gli  altri,  ma  con  la  forinola  :  «  universitati  vestre  preci piendo 
mandamus  quatenus  ad  eundem  iudicem,  curialem  et  appre- 
tiatorem,  per  nostrani  maiestatem,  vobis  (sdì.  «hominibus 
civitatis  Neapolis»)  concessum  in  omnibus  que  ad  huismodi 
officium  spectare  noscuntur  fiducialiter  de  cetero  recurratis  »  ^. 
La  ingerenza  diretta  del  sovrano  si  afferma  ancora  meglio  quan- 
do tassativamente  statuisce  :  «  quod  nuUus  alius  civitatis  pre- 
fate dictum  officium  et  ubicumque  aliquod  de  extimatione  seu 
valore  bonorum  stabilium  tangitur  seu  agitur  in  dieta  ci  vi- 
tate, absque  nostro  speciali  mandato ,  debeat  exercere  ». 
E  con  questa  disposizione  si  chiuse  la  possibilità  ai  curiali  di 
pervenire  a  un  tale  ufficio  lucroso  ed  onorifico,  che  cadde  de- 
finitivamente nelle  mani  dei  primari  e  dei  tabulari,  veri  mono- 
polizzatori  di  Lutti  i  maggiori  utili  che  si  potevano  ancora  per- 
cepire dall'  esercizio  professionale  ^.  Si  deve  precisamente  a 
queste  violazioni  dell'antico  rito  collegiale,  al  disinteresse  dei 
funzionari  più  alti  per  tutto  ciò  che  rappresentava  gratuita  pre-- 

*  Ivi:  Robertus  etc.  Universis  hominibus  civitatis  Neapolis,  fidelibus 
suis,  gratiam  etc.  Noverit  universitas  vestra  quod  nos  iudicem  Bartolomeum 
Puldericum  curialem  concivem  vestrum  fìdelem  nostrum,  de  cuius  fide  et 
legalitate  ac  sufficientia,  per  decretum  Universitatis  vestre,  nostre  curie 
presentatum  testimonium  accepimus  laude  dignum  ipsum  vobis  in  appre- 
ciatorem  et  extimatorem  ad  utilitatem  civitatis  eiusdem  et  nostre  curie 
tenore  presentium  duximus  concedendum,  recepto  prius  ab  eo  de  offi- 
cio ipso  exercendo  fìdeliter  corporali  ad  sancta  Dei  evangelia  iuramento; 
quapropter  universitati  vestre  precipiendo  mandamus  quatenus  ad  eun- 
dem iudicem  Bartholomeum  curialem  et  extimatorem  ac  appretiatorem 
per  nostram  maiestatem  vobis  concessum  in  omnibus  que  ad  huinsmodi 
officium  spectare  noscuntur  fiducialiter  de  cetero  recurratis,  mandante» 
expresse  quod  nuUus  alius  civitatis  prefate  dictum  officium  ubicumque 
aliquod  de  extimatione  seu  valore  bonorum  stabilium  tangitur  seu  agi- 
tur  In  dieta  civitate,  absque  nostro  speciali  mandato  debeat  exercere, 
nisi  hii  qui  per  universitatem  prefatam  electi  fuerint,  et  per  nostras  licte- 
ras  conflrmati.  In  cuius  rei  testimonium  et  predicti  iudicis  Bartholomei 
cautelam  presentes  nostras  licteras  fieri  fecrimus  et  pendenti  sigillo  maie- 
statis  nostre  iussimus  communiri.  ecc  ».  Chiarito,  40. 

«  Reg.  ang.,  317,  f.  Ili  t.,  261.  222.  Chiarito,  41,  44,  riporta  un  doc. 
perduto  del  1335,  in  cui  un  territorio  è  «mensuratum  et  appretiatum  per 
curialem  »;  fino  al  1344;  Reg.  ang.,  344,  f.  99,  il  cur.  Giovanni  Cannuto 
interviene  alla  «  extimatio  »  di  alcuni  beni  appartenuti  alla  defunta  regina 
Sancìa. 


—  227  — 

rogativa  della  collettività,  alla  scomparsa  lenta  e  continua  delle 
autonomie  locali,  la  decadenza  ultima  del  curialato.  Non  ven- 
nero meno  di  un  colpo,  ma  scomparvero  a  poco  a  poco  gli  an- 
tichi notai  napoletani,  a  misura  che  si  estinguevano  i  più  ac- 
creditati maestri  e  che  la  clientela  fu  completamente  assorbita 
dalle  ofTiciature  regie.  Nel  1386  uno  dei  Ferula  era  ancora 
curiale,  nei  primi  anni  del  '400  fu  promosso  al  grado  di  tabularlo 
senza  lasciare  dopo  di  sé  altro  esempio,  che  valga  a  far  rite- 
nere viva  la  scuola  ^.  Cadde  l' instituto  come  afTermazione  ^ì 
un  principio  politico  di  decentramento;  ma  sopravvisse  il  nome, 
per  indicare  coloro  che  erano  provetti  nella  lettura  e  nella  co- 
pia degl'  instrumenti  curialeschi  ^.  Fino  ai  tempi  del  Chia- 
rito restò  incompresa  l'opera  tenace  della  scuola  napoletana 
che  aveva  solennemente  affermata,  durante  il  millennio  del 
medioevo,  contro  tutte  le  forme  di  governo  che  si  erano  avvi- 
cendate sul  suo  territorio,  la  vis  della  più  classica  tradizione 
municipalistica.  Essa  rappresenta  per  la  storia  del  notariato 
itahano  l'ultima  voce,  l'ultimo  baghore  di  romanità  che  si  spe- 
gne sotto  la  bufera  dell'accentramento  monarchico. 

continua 

Alfonso  Gallo 

*  Chiarito,  44 

»  MS.,  LX,  4818;  NiSM.,  554;  Reg.  ang.,  374,  f.  430 1. 


I  LIBRAI  ED  I  CARTAI  DI  NAPOLI 

NEL   RINASCIMENTO 


(Cont.;  V.  voi.  XLIII,  pp.  253-70) 


22.  Martino  o  Martinello  Carnefice  (1465-1489). 
Fu  per  22  anni  bidello  dello  Studio  di  Napoli,  come  con  molta 
copia  di  notizie  dimostrò  il  Gannavale^.  Tale  ufficio  gli  venne 
conferito  nel  1465  ed  era  retribuito  con  lo  stipendio  di  due  du- 
cati al  mese  2.  Come  già  si  accennò  nel  capo  I,  i  bidelli  delle 
Università  furono  di  solito,  nel  medio  evo,  anche  venditori 
di  libri.  E  tale  fu  pure  il  nostro  Martinello,  il  quale  non  si  con- 
tentò di  essere  un  semplice  libraio,  ma  volle  fare  anche  il  li- 
braio editore,  come  ora  diremmo,  avendo  a  sue  spese  fatto 
stampare  da  Sisto  Riessinger  VApparatus  di  Andrea  da  Isernia, 
impresso  nel  1472.  L'opera  fu  pubblicata  a  spese  e  per  cura  di 
Martino  Carnefice,  il  quale  si  dette  molto  pensiero  perchè  Te- 
dizione  riuscisse  corretta,  facendola  rivedere  per  due  volte  da 
Pietro  Ohverio.  E  volle  che  della  sua  iniziativa  e  delle  sue  cure 
rimanesse  un  ricordo  nei  seguenti  versi,  che  si  leggono  alla 
fine  delV Apparatus  ; 

Hoc  martinus  opus  miro  fecit  ordine  condì 

Sumptibus  et  cartis  bibliopola  suis. 

Sistus  hoc  impressit  sed  bis  tamen  ante  reuisit 

Egregius  doctor  Petrus  oliverius. 

At  tu  quisquis  emis  lector  studiose  libellum 

Letus  emas  :  mendis  nam  caret  istud  opus. 


^  Lo  Studio  di  Napoli  nel  Rinascimento,  Napoli,  1895. 

^  «A  Marino  (sic)  carniffice  e  a  lucha  mancho...  novament  ordenats 
vedells  del  studi  de  napols  viii  d...  per  la  provisio...  de  dos  mesos  90  es 
octubre  e  nohembre...  a  raho  de  il.  per  cascu  lo  mes  »  (Cedole,  v.  43, 
e.  290a). 


—  229  — 

L'ufficio  di  bidello  fu  in  certo  modo  ereditario  nella  sua  fa- 
miglia, perchè  lo  tennero  anche  i  suoi  figli  Vincenzo  e  Giovanni, 
come  vedremo. 

Alcune  notizie  sulla  famigha  Carnefice  si  leggono  in  una  Lo- 
catio  in  perpetuum  prò  Martinello  carnefice  [de  neapoli,  librario] 
Candida  {orina  [de  neapoli,  eius  uxore]  et  Vincendo  carnefice 
[filio  ipsorum  coniugum]  del  18  apr.  1486^. 

Dalla  moglie  Candida  Forina  o  de  Forina  ebbe  Vincenzo  e 
Giovanni. 

11  maggio  1471.  Il  notaio  Roberto  Incugna  da  Melfi  si  di- 
dichiara debitore  verso  Martinello  di  10  ducati  per  un  messale 
vendutogli  da  costui  2. 

24  luglio  1473.  È  presente,  come  testimone,  in  una  Cessio 
debiti  prò  Silvestro  trara  de  neapoli  ^. 

21  settembre  1476.  È  testimone  in  un  altro  atto  *. 

24  marzo  1477.  È  testimone  in  un  altro   atto  ^. 

10  settembre  1477.  Stringe  società,  pel  commercio  dei  libri 
col  nobile  uomo  Angilberto  de  Laghezza  da  Monopoli  *. 

24  febbraio  1480.  È  testimone  in  un  atto'. 

2  novembre  1484.  GU  si  pagano  6  ducati  «  li  quali  lo  S.  Re 
li  comanda  dare  per  far  fare  le  banche  de  li  audituri  dove  se 
lege  et  altre  cose  necessarie  »  ^. 

5  maggio  1485.  È  teste  in  un  altro  atto  ®. 

30  dee.  1487.  È  teste  in  un  altro  atto  i^. 

18  giugno  1487.  È  teste  in  un  altro  atto  ^^. 


'  Prot.  di  C.  Maintano,  1485-86,  e.  142b. 

"  V.  Appendice'  I,  n.  1.  Questo  documento,  già  indicato  dal  Filangieri 
(Indice),  è  stato  recentemente  pubblicato  da  T.  de  Marinis  (Nozze  Padoa- 
Sacerdoti,  p.  11).  Il  D.  M.  ricorda  ivi  un  altro  documento  del  1478. 

»  Prot.  di  Fr.  Russo,  1473-75,  e.  16b. 

«  Ivi,  a.  1476-1477,  e.  12a. 

»  Ibidem,  e.   12a.  Prot.  di  M.  di  Fiore,  1477-78,  e.  viiija. 

•  V.  questo  nome  :  V.  pure  appendice  I,  n.  10. 
'  Prot.  di  Fr.  Russo,  1479-80,  e.  17«. 

*  Gannavale,  op.  cit.,  p.  evi  (doc.  973). 
»  Prot.  di  Fr.  Russo,  1484-85,  e.  272». 

»o  Prot.  di  M.  di  Fiore,  1486-88,  e.  32a. 
^1  Ibidem,  e.  102. 


—  230  — 

13  agosto  1489.  È  teste  in  un  altro  atto  \ 
24  dee.  1489.  È  teste  in  un  altro  atto  2. 

23.  Luca  Mancho  (1466-1471). 

Fu  bidello  dello  Studio  di  Napoli  dall'anno  1466  al  1471  ^  e, 
quindi,  presumibilmente,  venditore  di  libri. 

24.  Antonio  de  Simone,  fiorentino  (1466-1489). 

3  giugno  1466.  Vende  alla  Corte  per  18  due.  e  15  t.  33  quin- 
terni di  pergamena,  da  servire  per  lo  scrittore  della  biblioteca 
reale  Tommaso  de  Venia*. 

20  luglio  1469.  Vende  6  pells  de  moltonina  de  Firenze^. 

26  ottobre  1470  Riceve  5  due.  pel  costo  d'un  libro  mem- 
branaceo (Petrarca,  de  viris  illustribus)  e  5  due.  per  11  quin- 
terni di  pergamena  rasata^. 

Crediamo  sia  la  stessa  persona  quell'Antonio  de  Florentia 
che  s'incontra  in  un  atto  del  10  luglio  1489''. 

25.  Girolamo  d'Ambrosio  (1471-1500). 

Fu  di  Valentino  o  S.  Valentino,  terra  del  Principato  citeriore, 
e  venne  a  stabilirsi  in  Napoli,  dove  fece  ottimi  affari,  essendo 
uomo  di  grande  attività. 

Sposò  Palma  Testa,  come  risulta  da  un  documento  ®,  ed  eser- 
citò anche  l'arte  della  legatoria,  nella  quale  dovette  essere  abi- 
lissimo, perchè  sappiamo  da  un  altro  documento  che  Baldas- 
sare  ScarigUa  gli  dava  a  rilegare  i  libri  della  biblioteca  reale, 
e  che  si  uni  con  lui  in  società  per  l'esercizio  della  legatoria, 
vita  durante®. 


1  Ib.,  e.  127b. 

2  Ib.,  e.  166a. 

3  Canna  VALE,  op.  cit.,  pp.  45-47. 
*  Ged.,  V.  44,  e.  331a 

5  Ged.,  V.  51,  e.  Illa. 

^  Barone,   Cedole  cit. 

'  Prot.  d.  M.  di  Fiore,  1488-98,  e.  116b. 

8  Prot  di  Fior.  Santoro,  a  1491-1500,  a  e.  s.  n. 

»  V.  il  testo  del  contratto  in    Fava-Bresciano,  op.  cit.,  I,  197. 


—  231  — 

7  aprile  1471.  È  nominato  come  testimone  un  Jeronimo  de 
ambrosio  de  neapoli^. 

13  maggio  1476.  Figura  come  teste  nella  Laborandia  por 
Matheo  scanciono^ 

27  gennaio  1477.  Fa  due  compre  ^. 

22  gennaio  1478.  Fa  un'altra  compra*. 

1  agosto  1478.  È  teste  in  un  atto  ^. 

22  settembre  1482.  È  teste  in  un  altro  atto  ^. 

7  marzo  1485.  Egli  ed  un  cognato,  Nicola  di  Giovanni  Natale, 
parimenti  libraio,  contraggono  di  comune  accordo  società  per 
esercitare  insieme  il  commercio  dei  libri,  per  la  durata  di  sei 
anni,  obbligandosi  di  stare  insieme  nella  stessa  strada  e  bottega, 
di  dividere  tra  loro  ogni  guadagno,  dedotte  le  spese,  e  di  tenere 
a  spese  comuni  un  garzone  nella  detta  bottega'. 

15  e  26  aprile,  15  giugno  e  8  agosto  1487.  È  presente  come 
teste  in  alcuni  atti®. 

19  maggio,  17  giugno  9  agosto  e  13  agosto  1488.  È  testimone 
in  altri  atti». 

4  maggio   1489.   È  presente  come  teste  in  un  altro  atto^°. 

19  ottobre  1490.  S' incontra,  come  testimone,  in  un  altro 
attori. 

10  nov.  1490.  Si  unisce  in  società  con  Baldassare  Scariglia 
e  col  figlio  di  costui  Giacomo,  vita  durante,  per  esercitare  l'arte 
della  legatoria,  in  ligacione  et  impressione  librorum^^. 

21  agosto  1491.  Compra  una  terra  ^^ 


'  Prot.  di  Ben.  de  Bienna,  1467-71,  e.  57. 

»  Prot.  di  Fr.  Russo,  1475-76,  e.  87a. 

■  Ibid.,  a  1477-78,  e.  9a  {Emptio  prò  Geronimo  de  ambrosio). 

*  Ib.,  1478-79,  e.  9. 

»  Prot.  di  M.  di  Fiore,  1477-78,  e.  5a. 

*  Prot.  di  Fr.  Russo,  1482-83,  e.  43a. 
'  V.  Appendice  I,  n.  20. 

«  Prot.  di  M.  Fiore,  1486-88,  ce.  85b  e  lOlb.  Ib.,cc.ll2b,  211a. 

*  Ib.,  e.  221a,  235a,  241a,  248a. 
10  Ib.,  a.  1488-89,  e.  91b. 

*»  Ib.,  1486-88,  e.  17a. 

'•  Fava-Bresciano,  op.  cit.,  I,  197. 

»  '  Prot.  di  Luigi  Castaldo,  1491,  e.  184 


—  232  — 

26  giugno  1491.  Ottiene  una  Concessio  in  emphiteosim'^. 

1496.  È  presente  come  testimone  in  un  atto  ^. 

Era  già  morto  nel  settembre  del  1500,  trovandosi  nominata  in 
un  documento  del  7  sett.  palma  testa  vidua  relieta  quondam  Je- 
ronimi  de  ambrosio  librarii^. 

In  un  atto  notarile  del  22  settembre  1502  troviamo  come 
testimone  un  Benedetto  d'Ambrosio  di  Napoli,  libraio,  che  si 
può  credere  figlio  di  Girolamo*. 

26.  Giacomo  Candel  (1471-1491). 

Come  Guglielmo  Candel,  sopra  mientovato,  ebbe  nella  R.  Corte 
l'officio  di  scrivano^,  ma  forse  lo  tenne  per  breve  tempo,  tro- 
vandosi il  suo  nome  soltanto  dal  1471  al  1474  6,  Godeva  lo  sti- 
pendio di  72  ducati'.  Come  si  è  detto,  insieme  con  l'Arcella^ 
condusse  la  stampa  del  Breviarium  Valentinae  Bioeceseos,  di  cui 
si  tirarono  700  esemplari. 

27.  Battista  Vergara  (Cassavergara)  napoletano   (1472- 
1481). 

Fu  padre  del  noto  Minichello^  e  chiamato,  al  par  di  lui,^ 
Caruso,  nelle  carte  del  tempo. 

Riteniamo,  per  le  ragioni  addotte  altrove,  che  esercitasscij 
come  il  figlio  ed  il  nepote^^  il  commercio  dei  libri  e  della  carta, 

26  ottobre  1472.  Dichiara  insieme  col  fìgho  Domenico  di  avei 
ricevuto  da  Cola  di  Pietro  da  Siena  e  socii  tre  balle  «  pagina- 
rum  realium  unius  ex  eis  bulignensis,  unius  bastarde  et  alteriu! 
realio,  que  in  totum  sunt  in  numero  reseme  viginte  due  »,   pe 
prezzo  di  once  6  e  tari  10  ^^. 

»  Prot.  di  L.  Castaldo,  1491,  e.  151  (2a  num.)- 

«  Prot.  d.  M.  di  Fiore,  1488-98,  e.  245. 

8  Prot.  di  Fior.  Santoro,  1491-1500,  e.  s.  n.  (fase.  sleg.). 

*  Prot.  di  L.  Castaldo,  1502-1504,  e.  4a. 

»  Ced.,  V.  56,  e.  85a. 

«  Ced.,  V.  56,  e  416b  ;  v.  63,  e.  350a,  v.  66,  e.  216a. 

'  Ced.,  V.  60,  e.  363b. 

"  V.  questo  nome. 

»  V.  il  n.  20. 

lo  V.  il  n.  88. 

»i  Prot,  di  notar  G.  Ingrignetti,  n.  1472-1474,  e.  30a. 


—  233  — 

26  ottobre  1481.  In  una  Quietaiio  prò  baptista  cassavergara 
figurano  il  figlio  Domenico  e  la  prima  moglie  di  costui,  a  nome 
Penta  De  Pisis^. 

28.  Guglielmo  Teotonico   (1472-1500?)    altro    familiare 
di  Francesco  del  Tuppo. 

19  maggio  1472.  Il  Re  informa  il  capitano  di  Roccamonfina 
che  Guillelmo  todisco  habitatore  In  quessa  terra  ha  esposto  nella 
Camera  della  Sommaria  che,  dopo  aver  questionato  colla  moglie, 
per  inadempienza  di  certi  servizi  commessile,  preso  dall'ira, 
le  gittò  in  testa  certe  chiavi  che  aveva  in  mano,  e  cavaole  certo 
sango.  Esso  Capitano,  allora,  fece  pigliare  detto  Guglielmo  e 
lo  tenne  prigione  per  alcune  settimane,  facendogU  togUere  una 
squarcella  contenente  20  carUni  ed  una  spada,  e  non  lo  si  volle 
mai  hberare  dai  ferri  e  ceppi,  se  prima  per  sua  composizione  non 
avesse  lasciato  il  danaro  e  la  spada.  EgU  ricorre  al  Re,  che, 
trovando  giusto  quanto  espone,  ordina  siano  a  lui  restituiti  il 
danaro  e  la  spada  ecc.  ^. 

19  agosto  1472.  Il  Re  riscrive  al  detto  Capitano,  a  proposito 
del  processo  e  inquisitione  da  lui  fatto  contro  esso  Guglielmo, 
e  si  maraviglia  che  di  «si  minima  cosa  si  sia  facto  tanto  caso». 

Gh  ordina,  pertanto,  sotto  pena  di  25  once,  di  far  restituire 
il  danaro  a  Guglielmo  tedesco,  e  di  comparire  personalmente 
nella  R.  Camera  della  Sommaria,  per  giustificarsi  per  quale 
ragione  non  debba  essere  condannato  ai  danni  e  spese  ecc.  *. 

16  febbraio  1481.  Si  spedisce  una  litera  passus  ad  istanza  di 
guglielmo  teotonico  familiare  di  Francesco  Del  Tuppo,  colla  fa- 
coltà di  portare  e  vendere  libri  stampati  per  tutto  il  Regno  *. 

Fra  i  testamenti  rogati  nell'  anno  1500  dal  notaro  Cesare 
Malfitano  si  trova  un  testamentum  prò  Guilelmo  teotonico. 

29.  Raffaele  de  Apenna  (da  Penne  ?). 

17  sett.  (1472)  Bald.  Scariglia  si  dichiara  debitore  verso 
Raffaele  de  Apenna  di  Napoli  mercante,  di  18  once  per  prezzo 

'  Prot.  di  notar  Giov.  De  Carpanis,  1481,  ce.  74b-75a. 

^  Partium  Summar.,  voi.  5,  e.  62a  {prò  Guillelmo  theotonico). 

*  Partium  Summar.,  voi.  4«,  e.  69  (prò  Guillelmo  todisco). 

*  Priv.  Summ.,  v.   53,  e.  llb. 

Anno  XLV.  16 


—  234  — 

di  una  certa  quantità  cartarum  de  Sando  frabiano  diversarum 
sortarum  vendutagli  dal  detto  Raffaele  ^.  Supponiamo  sia  stato 
un  congiunto  di  Raffaele  quel  Tomaso  de  apenna,  medico,  di  cui 
si  parla  in  un  documento  del  1.  giugno  1487  2. 

30.  Pietro  Pug  Oliverio  (1473). 
14  marzo  1473.  Come  libraio  si  trova  nominato  insieme  coi 

Giovanni  Vaglies  in  un  documento  ^. 

31.  Francesco  di  Dino  (1474). 
È  il  noto  tipografo  fiorentino  che  nel  1478-80  stampò  in  Na-j 

poli  parecchi  libri  e  più  tardi  si  trasferi  a  Firenze,  dove  con{ 
tinuò  a  stampare  (1481-1497).  Nel  1474  era  già  in  Napoli  e  v^ 
esercitava,  come  altri  tipografi,  la  professione  di  libraio.  Ci( 
si  rileva  chiaramente  da  una  quietanza  dell' 11  giugno   147^ 
(Cfr.  T.  De  Marinis  in  :  Bibliofilia,  IV,  p.  101-103). 

32.  Antonio   Scariglia    (1474-1492). 
Fu  copista-alluminatore  e  libraio.  Era  prete. 
13  maggio  1474.  È  teste  nel  Debitum  prò  catharina  de  duce  *j 
17  nov.  1492.  Riceve  15  due.  per  alcune  miniature^. 

33.  Alessandro  de  Calcedoniis  di  Ludovico,  veneziane 
(1474-1497). 

Si  trova  nominato  anche  semplicemente  Alessandro  de 
dovico  e  talora  solo  Alessandro. 

9  settembre  1474.  Espone  alla  R.  Corte  che  nel  lugho  di 
quell'anno  fece  portare  in  Napoli  da  Venezia  12  casse  di  libri 
«  ibidem  ad  stampam  confectorum.  »  Passando  per  Trani  fu  co- 
stretto dal  r.  doganiere  e  gabelliere  a  pagare  il  dritto  di  fondacci 

1  Prot.  di  Andrea  d'Afeltro,  1469-1471,  e.  160a. 

2  Concessio  cuiusdam  terre  prò  mag.co  ariium  et  medicine  doctore  thomasic 
de  apenna:  prot.  di  not.  Marco  Laudario,  ann.  1486-1488,  e.  s.  n.,  verse 
la  fine. 

»  Pro  Joh.  vaglies  et  petro  pug.:  prot.  di  N.  A.  Casanova,  1472-73,  ci 
49a. 

*  Prot.  di  n.  Fr.  Russo,  1473-75,  e.  78b. 
"  Filangieri,  op.  cit..  Indice. 


—  235  — 

al  quale  esso  esponente  non  era  tenuto  ratione  quod  libros  per 
neapolim  ex  venecijs  exiraxit  e  che  per  essi  una  volta  sola  e 
non  già  due  era  tenuto  a  pagare. 

E  poiché,  secondo  il  rito  del  Regno  <.(nemo  inuitus  cogitur 
merces  suas  fundicare  nisi  vendat  sed  tantum  cauere  de  eundo  ad 
terram  Jundicum  habentemne  secondo  le  informazioni  assunte 
è  vero  quanto  si  espone,  si  ordina  ai  detti  gabelUeri  e  doganiere 
di  restituire  all'esponente  o  ad  un  Mattia  Bomizole  veronese, 
a  nome  di  lui,  la  somma  indebitamente  esatta.  Inoltre,  in  avve- 
nire si  permetta  all'esponente,  se  vorrà  portare  o  far  portare 
altri  libri  nel  Regno,  l'esenzione  da  ogni  dazio  di  passaggio, 
osservando  le  lettere  camerali  dei  14  agosto  1474  ecc.  ^  sotto 
pena  di  once  50  per  ciascuno  ecc. 

27  settembre  1474.  Si  ordina  ai  gabellieri  di  restituire  quello 
che  avevano  esatto  da  Alessandro  «  el  quale  secundo  ve  ha- 
nemo  scripto  ha  condutti  li  libri  de  stampa  in  lo  fundico  de  nea- 
poli  2  » 

12  ottobre  1474.  Si  ordina  al  doganiere  e  gabellieri  di  Trani 
di  non  frapporre  verun  impaccio  ad  Alexandro  de  ludovico  de 
venecia,  il  quale  ha  spedito  da  Venezia  a  Napoli  capse  dui  de 
libri  de  stampa^. 

18  marzo  1477.  Innico  d'  Avalos  ordina  agli  stessi  di  non 
esigere  alcuna  tassa  dal  nobil  uomo  Alessandro  di  Ludovico  de 
Calcedoniis,  mercante  veneto  che  aveva  fatto  venire  da  Vene- 
zia una  quantità  di  libri  per  venderli  in  Napoli,  trattenuti  alla 
dogana  di  Trani  pel  diritto  di  fondaco  ;  e  di  restituirgli  subito 
quello  che  già  avessero  esatto*. 

16  giugno  1477.  Si  ordina  a  Nicola  d'  Avanzo,  Maestro  Por- 
tolano di  Trani,  di  far  restituire  ad  Alessandro  di  Lodovico 
veneto,  mercante  di  libri  la  «  pregiarla  »  che  fu  indebitamente 
riscossa  dal  doganiero  del  Fondaco  di  Trani  pei  libri  fatti  ve- 
nire da  Venezia  e  destinati  a  Napoli,  in  virtù  d'un  capitolo  fatto 
di  accordo  tra  i  Veneziani  e  la  detta  dogana,  pel  quale  si  dove- 
vano da  essi  pagare  grana  12  per  oncia  per  ogni  merce,  che  pas- 

'  Comune  Summ.,  voi.  18,  e.  193. 
2  Part.  Summ.,  voi.  7,  e.  223a. 
=»  Part.  Summ.,  voi.  7,  e.  228. 
*  V.  appendice  I,  n.  7. 


—  236  — 

sava  nel  fondaco  di  Trani.  Si  spiega  che,  non  pagandosi  pei  libri 
stampati  verun  diritto  fiscale  nella  dogana  di  Napoli,  altret- 
tanto si  doveva  praticare  nelle  altre  dogane  del  Regno.  E  poi- 
ché nemo  invitus  cogitar  merces  suas  fundacare  nisi  vendaU  es-j 
sendosi  data  «  pregiarla  »  di  portare  essi  libri  direttamente  nel 
fondaco  di  Napoli,  non  dovevano  i  doganieri  di  Trani  esigere 
veruna  somma  dal  commesso  del  libraio  Alessandro  ecc.  ^. 

7  agosto  1477.  Riferendosi  alla  precedente  lettera,  il  cui  te 
nore  non  fu  osservato,  si  riscrive  al  detto  Maestro  Portolano^ 
ordinandogli  di  far  restituire  al  detto  Alessandro  tutta  la  quan- 
tità di  danaro  esatto  ingiustamente  dai  doganieri  di   Trani   p( 
sopradetti  libri,  soddisfacendolo  altresì  delle  spese  da  lui  legil 
timamente  fatte  per  causa  di  essi  ecc.  ^. 

16  settembre  1478.  È  creditore  del  nobile  Ferdinando  Fran-^ 
Cesco  da  Cosenza,  giureconsulto,  di  ducati  20,  tari  2  e  grani 
10,  per  il  prezzo  di  alcuni  libri  legati,  a  lui  venduti  e  consc 
guati  3. 

31  maggio  1479.  Si  concede  dal  Re  una  litera  passus   (frad 
chigia  di  passi  e  gabelle)  ad  Alessandro  di  Ludovico,  che  in| 
tendeva  spedire  da  Napoli  in  varie  parti  del  Regno  alcuni  Ubi 
stampati  *. 

7  febbraio  1482.  Per  parte  di  paulo  de  Joanne^  et  alexan\ 
dro  de  calcidonijs  mercatanti  veneciani  è  stato  esposto  alla 
Corte  che,  avendo  essi  fatto  venire  una  certa  quantit  à  di  libi 
stampati  da  Venezia  nella  giurisdizione  e  distretto  del  fonda( 
di  Cosenza  per  venderli  colà  e  in  altri  luoghi,  furono   costretl 
da  Marino  Minerva,  mastro  portolano  e  secreto  di  Calabria,  e  di 
Angelo  Serraglia  suo  successore  a  pagare  per  detti   hbri  la   ga^ 
bella  di  passaggio...  Si  ordina,  vista  la  dehberazione  della  R.  Ca^ 
mera,  fatta  ad  istanza  di  esso  Alessandro,  che  non    pagando; 
verun  diritto  per  tali  libri  nella   dogana    di    NapoU,   lo    stesi 
debba  farsi  per  gU  altri  fondaci  del   Regno.    Ad   ogni    istanza 
quindi,  degli  esponenti,  i  signori  Marino  ed  Angelo  sieno  obbl 


^  V.  Appendice  I,  n.  8. 
^  V.  Appendice  I,  n.  9 

•  V.  appendice  I,  n.  13. 

*  V.  appendice  I,  n.  13  bis. 
»  V.  il  n.  55. 


—  237  — 

gati  a  non  richiedere  agli  esponenti  verun  pagamento  di  diritto 
di  fondaco,  e  se  avessero  indebitamente  esatto  danaro,  deb- 
bano  quello  restituire  ecc.  ^. 

27  ottobre  1497.  Il  Re  scrive  da  Fratta  ai  membri  del  S.  R. 
Consiglio  interessandoli  di  sollecitare  la  decisione  di  una  causa, 
che  verte  fra  alexandro  calcedony  et  francisco  de  palmieri. 

Non  si  accenna  nella  lettera  all'  oggetto  della   controversia  ^. 

In  un  testamento  dell'anno  1497  è  teste  Alessandro  Calci- 
donis  mercatore  veneto^. 

Dell'agiatezza  di  questo  libraio  si  ha  la  prova  in  un  docu- 
mento del  nostro  archivio  notarile,  da  cui  si  rileva  che  egli 
sborsò  la  somma  di  100  ducati  all'  artefice  Sancio  de  Cuncto 
per  un  padiglione  ordinato  a  costui  e  che  doveva  essere  «  comò 
quillo  del  Duca  de  Calabria  »  ecc.  *. 

33^".  Pietro  de  Grassis  (1475). 

19  luglio  1475.  Espone  che,  avendo  portati  alcuni  libri  «de 
stampa»  a  Castellammare,  si  pretendeva  da  lui  il  pagamento 
de'  diritti  fiscali,  a  cui  non  era  tenuto  ^. 

34.  Pietro  Molino  (1475-1508). 

Come  vedemmo  altrove^,  fu  socio  del  tipografo  Mattia  Mo- 
ravo e  di  Giovan  Marco  Cinico. 

Pare  che  prendesse  poca  parte,  e  solo  per  breve  tempo,  nelle 
imprese  tipografiche  e  nel  commercio  dei  libri.  Si  occupò  anche, 
come  altri  hbrai,  del  commercio  delle  pergamene.  Fu  valente 
caUigrafo  e  verisimilmente  custos  o  librarius  della  Bibhoteca 
Aragonese. 


'  Pro  paulo  de  Joanne  et  Alexandro  de  Calcidonijs:  Part.  Summ,  voi. 
19,  ce.  lb-2a. 

»  Collat.  Com.,  Vili,  e.  121a. 

'  Testamenti  rogati  da  notar  Frane.  Russo,  ann.  1495-1497,  e.  173b  : 
Arch.  notarile  di  Napoli. 

•  Prot.  di  Palm.  Ferrante,  a.  1478-79,  e.  61.  Saneio  de  Cuneto  era  riea- 
matore  della  Corte  del  Duea  di  Calabria.  V.  Barone,  Le  Cedole  cit.  in 
Arch.  Star.  Nap.,  IX,  424. 

•  Part.  Summ.,  v.  11,  e.  72. 

•  FAVA-BREsaANO,  op.  cit-,  I,  74-77. 


—  238  — 

35.  Giovanni  De  Risi  (1476-1491). 

Potrebbe  a  lui  riferirsi  un  documento  del  14  marzo  1476  del 
nostro  archivio  di  Stato  ^. 

22.  febbraio  1491.  Riceve  30  ducati  per  50  quinterni  «  de 
carta  ferentina  de  coyro  de  forma  reale  bulognese,  a  ra^  de 
iii  t.  lo  quinterno  per  preczo  facto  per  baldaxarro  scariglia  »  ^. 

36.  Angilberto  di  Laghezza  di  Monopoli  (1477). 
Della  sua  famiglia  pochissimo  sappiamo. 

Un  documento  del  nostro  Archivio  di  Stato  ^  e'  informa  che 
il  13  gennaio  1464  ai  nobili  Giovanni  Antonio  de  Lagheza  di 
Monopoli,  fedele  del  Re,  e  al  fratello  Pietro  della  R.  Scrivania 
(probabilmente  zii  di  Angilberto)  pei  loro  servizi  si  concede 
l'ufficio  di  R.  Doganiere  della  R.  Dogana  di  MonopoH,  loro 
vita  durante,   con  la  provvigione  di  25  once  annue. 

Un  Pietro  di  Laghezza  da  Monopoli,  fratello,  forse  di  An- 
gilberto, era  Doganiere  di  essa  città  fm  dal  3  sett.  1478  (Part. 
Summ.  V.  14,  a  e.  23b),  e  conservava  ancora  tale  carica  ai 
13  aprile  1482  (Part.  Summ.  voi.  19,  a  e.  123). 

Apprendiamo  da  un  atto  del  10  settembre  1477  che  Angil-I 
berto,  essendo  studente  di  legge  a  Napoli,  col  consenso  dell 
padre  Renzo,  fece  un  contratto  di  società  col  Ubraio  Martinelloj 
Carnefice  per  esercitare  il  commercio  dei  Ubri  e  per  altri  ne-j 
gozii.  Angilberto  asserisce  aver  fatto  reciprocamente  il  conto 
finale  di  tutto  il  venduto,  per  tutto  il  tempo  passato,  e  che] 
Martinello  rimaneva  debitore  de  liquido  di  esso  Angilberto  di] 
once  11  e  di  alcuni  libri,  che  sono  indicati  nel  documento*. 

37.  Francesco  Rufolo  (1477-1489). 
I  Rufolo  erano  di  nobile  famigUa,  come  può  vedersi  pressoi 

genealogisti. 

1477.  È  presente  come  teste  in  un  atto  ^. 


^  Part.  Summ.,  voi.  10,  e.  81. 

2  Ced.  Tes.  Arag.,  voi.  142,  e.  349b. 

«  Esecutoriale  4,  (1462-1464),  e.  205b. 

*  V.  Appendice  I,  n.  7. 

*  Prot.  di  C.  Malfitano,  1477-78,  e.  9b. 


—  239  — 

1483.  S'incontra,  come  testimone,  in  un  altro  atto  ^. 
22  maggio  1484.  Prende  a  servizio  una  persona  2. 
14  luglio  1489.  È  debitore  di  una  somma  ^. 

38.  Francesco  d'Ambrosio  (1478). 

Fu  pure  di  Valentino,  in  provincia  di  Salerno,  come  il  fra- 
tello Girolamo  *.  e  venne  a  stabilirsi  in  Napoli. 

22  gennaio  1478.  Fa  una  comprai 

2  dicembre  1478.  Prende  seco  a  bottega  il  ragazzo  di  8  anni 
Nicola  Jannicelli,  figlio  di  Antonella  Jannicelli,  da  Salerno, 
per  la  durata  di  8  anni.  Francesco  promette,  tra  l'altro,  inse- 
gnargli la  sua  arte  et  ministerium  ligandi  et  coperiendi   libros^. 

39.  Bartolomeo  di  Francesco  milanese  (1478). 

28  maggio  1478.  Innico  d'Avalos  ordina  a  tutti  i  gabellotti, 
doganieri...  esattori  e  percettori  di  dogana  di  tutto  il  Regno 
di  non  esigere  veruna  tassa  dal  nobile  uomo  Bartolomeo  di  Fran- 
cesco milanese,  il  quale  intende  «  transmictere  seu  transmicii 
facere  certos  libros  Inpressos  (sic)  seu  de  stampa  ;  causa  eos  ven- 
dendi))...  nel  Regno,  poiché  nulla  si  esige  dalla  R.  Dogana  di 
Napoli  per  detti  libri,  essendo  franchi  ed  immuni  da  tassa ^. 

40.  Cristoforo  di  Errico  Teotonico  (1478-1493). 

22  giugno  1478.  Innico  d'  Avalos  concede  un  lasci a-passare 
(litera  passus)  ad  istanza  di  Maestro  christofali  de  enrico  teoto- 
nici »,  cui  si  dà  facoltà  di  potere  portare  e  vendere  libri  stam- 
pati, in  tutto  il  Regno  ^.  Nello  stesso  di  Francesco  del  Tuppo 
di  Napoli  si  obbliga  di  pagare,  in  favore  di  detto  Cristofaro, 
quanto  fu  indicato,  per  detta  causa,  dalla  Camera  della  Som- 
maria, sotto  pena  di  once  10^. 

1  Ib.,  a.  1482  83,  e.  106a. 

2  Locatio  persone  prò  francìsco  rufulo:  prot.  di  G.  Ingrignetti  1482-84, 
e.    88a. 

»  Prot.  di  G.  de  Carpanis,  1488-89,  e.  225. 

«  V.  il  n.  25. 

'  Emptio  prò  Francisco  de  ambrosio:  prot.  d.  Fr.  Russo,  1478-79,   e.  9b. 

"  Locatio  persone  prò  eodem:  Ibidem,  ce.  lOOb-lOla. 

'  Priv.  Summ.;  v.  53,  e.  8. 

«  Ibidem,  e.  llb. 

'  Ibidem,  e.  llb. 


—  240  — 

Nell'anno  1493  doveva  essere  già  morto  giacché  in  un  do- 
cumento del  9  gennaio  1493  s'incontra  il  nome  di  una  Anto- 
nella fìssiella  moglie  del  quondam  christoforo  teotonico  ecc.  ^. 

41.  Giovanni  de   Genenpach,   o  Giovanni  Alemanno, 
o  Giovanni  Teotonico  (1478-1482). 

Uno  dei  Germani  fidelissimi  di  Francesco  del  Tuppo,  di  cui 
è  detto  familiare  e  che  talora  gli  fa  malleveria. 

25  giugno  1478.  Una  litera  passus  è  emessa  da  Innico  d'Ava- 
los  in  favore  e  ad  istanza  del  nobile  uomo  Giovanni  alemanno 
ad  presens  hdbitator  neapolU  colla  facoltà  di  potere  portare  e 
vendere  libri  a  stampa  per  tutto  il  Regno  ^. 

16  febbraio  1479.  Altro  lascia-passare  (litera  passus)  si  con- 
cede ad  istanza  ed  in  favore  di  Maestro  Giovanni  de  genenpach, 
al  quale  si  dà  facoltà  di  portare  e  vendere  libri  stampati  per 
tutto  il  Regno  ^ 

11.  gennaio  1481.  Si  emette  un  altro  lascia-passare  in  favore 
di  Giovanni  theotonico  per  lo  stesso  scopo.  Se  ne  rende  malleva- 
dore Francesco  del  Tuppo  *. 

13  dicembre  1482.  Altro  lascia-passare,  per  lo  stesso  scopo, 
si  accorda  a  Johanne   theothonico,  familiaris  francisci  de  tuppo, 

A  noi  pare  che  questo  Giovanni  de  genenpach  non  sia  diverso 
da  quel  Giovanni  di  Ugone  de  Gengenbach  (Johannes  Hugonis 
de  Gengenbach)  che  stampò  più  tardi  (1482  — 1485)  in  Roma 
alcune  opere  (Cfr.  Audiffredi,  p.  272). 

42.  Nicola  di  Benedetto  Veneziano  ^  (1478). 

4  agosto  1478.  Si  unisce  in  società  con  Nicola  Jacopo  de  Lu- 
ciferis,  per  esercitare  la  tipografìa^. 


^  Com.  Summ.,  voi.  35,  ce.  101-102. 

2  Priv.  Summ.,  v.  53,  e.  llb. 

=«  Ibidem,  e.  llb. 

*  Ib.,  e.  137b. 

«  Supponiamo  possa  identificarsi  col  noto  Nicolaus  de  Benedictis,  ti- 
pografo, che  stampò  dal  1490  al  1519  a  Lione  ed  a  Torino:  cfr.  Copinger, 
op.  cit.,  index-Burger,  p.  343. 

"  V.  Fava-Bresciano,  op.  cit.,  1,  89-90. 


I 


—  241  — 

43.  Giorgio  Stratigopuli  napoletano  (1478). 

17  ottobre  1478.  Ser  Giorgio  Straticopulis  de  neapoli,  avendo 
condotto  per  mare  nella  R.  Dogana  di  Otranto  e  di  là  estratto 
dopo  aver  prima  pagato  il  diritto  di  fondaco,  «  pelle  rosse,  tra 
cordovana  e  montonine,  cento  et  dece,  et  quelle  mandando  in 
Napoli  et  de  transita  arrivando  in  taranto  per  seguire  per  Na- 
poli »  il  Doganiero  di  Taranto  le  prese  per  contrabbando,  perchè 
non  si  erano  notificate  nel  modo  prescritto.  Si  ordina  al  Do- 
ganiero che  subito  restituisca  le  pelli  ^. 

44.  Guglielmo  Cristiantino  (1479). 

26  gennaio  1479.  Guglielmo  Cristiantino  libraio,  dimorante 
in  Napoli,  dovendo  conseguire  da  un  Daniele  Pantano,  da 
Brescia,  34  ducati  di  oro,  ed  impedito  di  fare  tale  riscossione, 
nomina  suoi  procuratori  legittimi  a  riscuotere  tale  somma  il 
noto  tipografo  Nicola  Jenson,  che  dimorava  a  Venezia,  ed  i 
socii  di  lui  2. 

45.  Marino  Vetticano  o  Vetticanio  napoletano  (1479). 
19  aprile  1479.  Si  dichiara  debitore  di  Matteo  Castagnola  di 

Napoli  e  di  Ambrogio  Tramontano  di  Napoli  della  somma  di 
18  ducati  per  il  prezzo  di  100  pelli  di  cordovana  vendutegli  e 
consegnategli  da  costoro^. 

46.  Matteo  Castagnola  di  Napoh  (1479). 
Si  vegga  il  n.  45. 

47.  Ambrogio  Tramontano,  da  Napoli  (1479). 
Si  veda  il  n.  45. 

48.  Francesco  Scarola,  napoletano  (1479). 

27  maggio  1479.  Dichiara  di  aver  ricevuto  da  Troiano  Coppola 
e  Renzo  Ferrare  di  Napoli  50  ducati  per  una  certa  quantità 
di  pelli  a  loro  vendute  ecc.  *. 

'  Pari.  Summ.,  voi.  14,  e.  118b. 

2  V.  Appendice  I,  n.  13. 

»  Prot.  di  Palmerio  Ferrante,  a.  1478-79,  e.  87. 

*  Ibidem,  e.  118. 


—  242  — 

49.  Troiano  Coppola  napoletano  (1479). 
V.  il  n.  48. 

50.  Renzo  Ferraro,  napoletano  (1479). 
Vedasi  il  n.  48. 

51.  Antonio  Veneto  (1480). 

19  maggio  1480.  Innico  d'Avalos  spedisce  una  litera  passus 
ad  istanza  di  Maestro  Antonio  librarius  venetus,  al  quale  si  dà 
facoltà  di  poter  trasmettere  al  mercato  di  Lanciano  «  certam 
quantitatem  librorum  impressorum  seu  de  stampa  »  per  venderli 
colà,  senza  alcuna  tassa  ^. 

29  maggio  1495.  Giovanni  Dargramont  francese  dichiara 
aver  ricevuto  dal  magnifico  Pietro  De  Bosco,  regio  protono- 
tario,  stipulante  a  nome  di  Antonio  libraio,  erede  del  fu  Brea- 
mont-Cordella,  16  ducati  e  2  tari  di  carlini  d'argento  della  somma 
di  scudi  20,  legati  dal  fu  Breamont  ad  esso  Giovanni.  Questi 
dichiara,  inoltre,  di  aver  ricevuto  da  detto  Antonio  il  residuo 
a  complemento  di  detti  20  scudi...  ecc..  2. 

Crediamo  che  VAntonius  librarius  di  altri  documenti  sia  la 
stessa  persona  di  Antonius  Venetus.  Uno  stampatore  Anto- 
nius  Venetus  (Antonio  di  Francesco  Veneziano)  insieme  col 
tipografo  Ser  Francesco  Bonaccorsi  stampò  in  Firenze  varie 
opere,  dal  18  febbraio  all'ultimo  di  ottobre  1488^.  Probabil- 
mente è  la  stessa  persona,  che  esercitò  prima  in  Napoli  il  com- 
mercio librario  e  poi  a  Firenze  la  tipografìa. 

52.  Salomone  Falcone  ebreo  (1481-1493). 
V.  il  capo  3. 

53.  PoNZiANo  Sarret  francese  (1481-1491). 

13  novembre  1481.  Si  concede  dalla  R.  Corte  una  litiera  pas- 
sus a  Maestro  ponciano  jrancigena,  che  ha  facoltà  di  portare 


1  Priv.  Summ.,  v.  53,  e.  37b. 

*  V.  Appendice  I,  n.  47. 

»  Hatn,  n.  13572,  12904,  6207,  7108. 


—  243-- 

e  vendere  nel  Regno  libros  impressos  seu  de  stampa  sine  tabulis 
et  cartas  impressas  figuratasi. 

25  ottobre  1482.  Se  ne  emette  un'altra,  per  lo  stesso  scopo, 
ad  istanza  di  pontianus  jrancigena.  Gaspare  teotonico  fami- 
liare del  Conte  Camerlengo  si  rende  mallevadore  di  detto  Pon- 
zi ano  -. 

21  marzo  1485.  Se  ne  concede  un'altra  per  lo  stesso  scopo  ^. 

8  marzo  1489.  In  una  Locatio  persone  prò  meneca  de  robert 
si  accenna  a  magistro  punciano  sarrebi  librario  neapolis^. 

7  febbraio  1491.  Si  accorda  dalla  R.  Corte  a  lui  e  a  4  altri 
librai,  dimoranti  in  Napoli,  un'altra  litera  passuSy  pel  commercio 
di  libri,  esenti  dal  pagamento  di    qualunque  diritto  fiscale*. 

Sarà  stato,  forse,  un  suo  congiunto  quel  Petrus  Raymundus 
sarrety  mercator  jrancigena,  arrendator  pellium  che  figura  in  3 
documenti  degli  anni  1490,  1493  e  1494  ^. 

Infruttuose  sono  riescite  le  ricerche  fatte,  gentilmente,  per 
nostro  conto  dal  chiarissimo  Enrico  Stein,  al  quale  rendiamo 
le  debite  grazie,  negli  Archives  Nationales  di  Parigi,  per  rin- 
tracciare notizie  di  questo  libraio  e  del  seguente. 

54.  Guglielmo  Francese  (1481-1491). 

13  novembre  1481.  Si  emette  una  litera  passus,  in  suo  favore, 
per  la  Ubera  vendita  nel  Regno  di  libri  stampati  ^. 

20  ottobre  1483.  Altro  lascia-passare  ad  istanza  di  guglielmo 
jrancigena  habitator  civitatis  neapolis,  per  lo  stesso  scopo.  Si 
rende  mallevadore  Socius  rujulus  de  neapoli  librarius  '. 

4  febbraio   1488.   Fa  una  compra  s. 

14  giugno  1488.  Si  spedisce  dalla  R.  Corte  un'altra  litera  pas- 


1  Privileg.  Summ.,  v.  cit.,  I.  e. 

2  Priv.  Summ.,  v.  53,  1.  e. 

^  Prot.  di  notar  Buongiorno  Vinciguerra,  anno  1489,  e.  45b. 

•  Vedi,  in  fine.  Appendice  I,  n.  35. 

^  Pro  peiro  ray mando  sarret  :  Com.  Summ.,  voi.  33,  ce.  131  e  136; 
Pro  parte  mag.cì  philippi  gombe:  Com.  Summ.,  voi.  35,  e.  56b  ;  Collat. 
Privileg.,  v.  6,  e.  69. 

•  Priv.  Summ.,  v.  53,  e.   80. 
'  Ib.,  e.  146a. 

•  Prot.  di  Vinc.  De  Boffe,  1488-89,  e.  12a. 


—  244  — 

SMS,  a  sua  istanza  diretta  ai   gabellieri,    doganieri   e  custodi  di 
passi  pei  detti  libri  a  stampa  ^. 
1491.  Fa  una  cessione  2. 

55.  Paolo  di  Giovanni,  veneziano  (1482-1488). 

7  febbraio  1482.  Da  parte  di  paulo  de  Joanne  et  alexandro 
de  calcidoniis  mercatanti  veneciani  si  espone  alla  R.  Corte  che, 
avendo  essi  fatto  venire  da  Venezia  nella  giurisdizione  e  di- 
stretto del  Fondaco  di  Cosenza  una  certa  quantità  di  libri  stam- 
pati, per  venderli  colà  ed  in  altri  luoghi  del  Regno,  furono  co- 
stretti da  Marino  Minerva  Maestro  Portolano  e  Secreto  di  Ca- 
labria e  da  Angelo  SerragUa  suo  successore  a  pagare  per  detti 
libri  la  gabella  di  passaggio...  Vista  la  deUberazione  della  R.  Ca- 
mera, ad  istanza  di  detto  Alessandro,  si  ordina  che,  non  pa- 
gandosi pei  detti  hbri  stampati  nella  dogana  di  NapT)li  verun 
dritto  fiscale,  lo  stesso  debba  osservarsi  per  gli  altri  fondaci  del 
Regno.  I  detti  Marino  ed  Angelo,  pertanto,  non  debbano  richie- 
dere agli  esponenti  verun  pagamento  di  dritto  di  fondaco,  e  se 
per  tale  causa  avessero  già  riscosso  del  danaro,  debbano  tosto 
restituirlo  agh  esponenti  ecc.  ^. 

14  giugno  1488.  Insieme  coi  librai  Biagio  Castagna,  Ponziano 
francese  e  Guglielmo  francese  ricorre  al  Re,  per  ottenere  la  re- 
stituzione del  danaro  indebitamente  esatto  dai  GabelHeri  di 
Cosenza,  pei  Ubri  stampati  che  portavano  a  vendere  a  Cosenza 
ecc.*.  Nuli' altro  sappiamo  di  lui. 

56.  Matteo  di  Antonio  (1482-1500). 

Fu  fiorentino  e  si  stabili  in  Napoli.  Sposò  Margherita  de  Bo- 
no Homine  di  Napoli. 

14  aprile  1482.  È  testimone  col  libraio  S,  Rufolo  in  un  atto 
notarile -^ 

^  Part.  Summ.,  voi.  26,  e.  45. 
2  Prot.  di  Fr.  Russo,  1491,  e.  201b. 

'  Pro  paulo  de  Joanne  et  Alexandro  de  Calcidoniis:  Partium  Summ.,  voi. 
19,  ce.  lb-2a. 

*  Vedi  Appendice  I,  n.  27. 

*  Magisiro  Matheo  fiorentino  librario  et  Socio  rufulo  librario:  Prot.  di 
G.  Malfitano,  a.  1481-82,  e.  136a. 


—  245  — 

20  ottobre  1483.  È  teste  in  un  altro  atto  i. 

21  febbr.  1486.  È  testimone  in  un  altro  atto  ^. 

6  giugno  1487.  Vende  per  2  due.  e  1 1.  12  quaderni  di  perga- 
mena, sulla  quale  Gio.  Rainaldo  Mennio  doveva  scrivere  un 
Ufficio  ^ 

22  sett.  1487.  È  testimone  in  un  altro  atto  notarile  *. 
22  marzo  1489.  Prende  una  persona  ai  suoi  servizi  ^. 

16  ottobre  1494.  È  presente,  come  teste,  in  un  altro  atto^. 
14  aprile   1500.    Compare  nuovamente  come  testimone  '. 

57.  BlSFALLQ    BOLiOGNESE    (1482). 

22.  marzo  1482.  Si  spedisce  una  litera  passuso  foglio  d'immu- 
nità dal  pagamento  di  qualsiasi  diritto  fiscale  in  favore  di  Mae- 
stro Bisfallus  boloniensis  habitator  neapolis,  al  quale  si  permette 
di  portare  e  vendere"  per  tutto  il  Regno  libri  a  stampa,  immuni 
da  tassa®. 

58.  Antonio  Gontier  (1482-1498)  francese. 

Il  noto  tipografo  del  quale  discorremmo  già  altrove  ^  cre- 
diamo possa  identificarsi  con  qxieìV Antonius  jrancigena  habi- 
tator ciuitatis  neapolis,  al  quale  la  R.  Corte  concesse,  addì  20 
giugno  1482,  la  solita  litera  passus  ovvero  licenza  di  libero  tran- 
sito nel  Regno,  a  scopo  di  commercio  di  libri  stampati  ^°. 

20  aprile  1498.  Il  Re  informa  il  Capitano  di  Paola  che  Gia- 
como Carbonelli,  notar  Tomaso  ed  Alfonso  baiuli  di  detta 
città  avevano  costretto  indebitamente  Maestro  Antonius  gun- 
terus  venditor  librorum  de  stampa  (che   aveva  portato    colà  al- 

^  Nella  Emptio  prò  Angelo  de  verso:  Ibidem,  a.  1483,  e.  29b. 
^  Nella  Emptio  prò  Brancadoro  gagliardo:  Ibid.,  a.  1485-86. 

•  Filangieri,  op.  cit..  Indice. 

«  Prot.  di  Fr.  Russo,  a.  1487-88,  e.  24a. 

^  Locaiio  seruitiorum  prò  Magistro  Matheo  antonii  de  florentia,  habiia- 
tore  neapolis,  librario  et  Margarita  de  bono  homine  de  neapoli  coniugibus: 
prot.  di  M.  di  Fiore,  a.  1488-89,  e.  79b. 

•  Prot.  di  Fr.  Russo,  a.  1494,  e.  41. 
'  Ibidem,  a.  1498-99,  e.  53a. 

•  Priv.  Summ.,  v.  53,  e.  82a 

»  Fava-Bresciano,  op.  cit.,  I,  106. 
^o  Privil.  Somm.,  v.  53,  ce.  83b-84a. 


—  246  — 

cuni  libri  stampati  a  scopo  di  commercio)  al  pagamento  di 
una  certa  somma  di  danaro  come  diritto  baiulationis,  non 
ostante  che  esso  Gontier  avesse  loro  esibito  le  lettere  patenti 
della  R.  Camera,  le  quali  esimevano  esso  libraio  dal  pagamento  fl 
di  qualunque  diritto  fiscale.  E  però  il  Re  ordina  che  subito 
essi  baiuli  restituiscano  tutta  la  somma  riscossa  all'esponente, 
0  ad  altra  legittima  persona,  sotto  la  pena  di  25  once  ecc.  ^. 
Forse  fu  un  parente  di  Antonio  quel  Giacomo  Gontier  lega- 
tore di  libri,  autore  di  una  bella  legatura  fiamminga,  fatta 
prima  dell'anno  1500,  che  si  conserva  nella  BibUoteca  già  Im- 
periale di  Vienna,  ed  è  riprodotta  dal  GottUeb  ^. 

59.  Giovanni  di  Giovanni  di  Augusta  (1482). 
27  giugno  1482.  Fu  spedita  un'altra  litera  passus  per  lo  stessoj 

scopo,  in  favore  di  Johannes  Johannis  [de]  Augusta  Theothonicw 
habitator  civitatis  neapolis^. 

60.  Gualtiero  tedesco  (1482). 
13  luglio  1482.  Viene  concesso  un  altro  lascia-passare  per  1< 

stesso  scopo  ad  istanza  ed  in  favore  di  Balthirus  de  alamanea] 
ad  presens  neapoli  commorans^. 

61.  Alberto  Tedesco  (1482). 
13  luglio  1482.  Nella  litera  passus  indicata  al  n.  precedente] 

è  nominato  pure  un  Albertus  de  alamanea  ad   presens  neapol^ 
commorans^. 

62.  Claudio  Pelligerio  o  Claudio  francese  (1482). 
11  dicembre  1482.  Altro  lascia-passare,  per  lo  stesso  scopo, 

è  concesso  a  claudius  jrancigena  mercator  librorum,  utasseruit,] 
habitator  civitatis  neapolis^. 


^  V.  appendice  I,  n.  48. 

2  K.   K.   Hofbibliothek  Bucheinhànde,  tav.  35. 

8  Priv.  Summ.,  voi.  cit.,  1.  e. 

*  Ib.,  V.  53,  e.  87b. 

''  Priv.  Summ.,  v.  53,  e.  87b. 

•  Ibidem,  e.   100. 


—  247  — 

13  luglio  1484.  Vincenzo  di  Chiaricia  da  Salerno  si  pone  a 
bottega  con  Maestro  Claudio  Pelligerio,  per  la  durata  di  un  anno, 
col  compenso  di  9  ducati  di  carlini  d'argento.  Claudio  promette 
d'insegnare  al  detto  Vincenzo  la  sua  arte  ed  il  leggere  ^. 

63.  Sossio  Rufolo  (1482-1488). 
Fu  napoletano,  forse  fratello  di  Francesco  Rufolo,  di  cui  si 
è  discorso  sopra  2. 

12  dicembre  1482.  Giovanni  di  Ferro tta  di  S.  Agata,  procu- 
ratore di  Marco  Antonio  Perrotta,  pone  quest'ultimo  a  bottega 
da  Sossio  Rufulo,  di  Napoli  libraio,  per  la  durata  di  9  anni,  coi 
seguenti  patti  :  Marco  Antonio  promette  di  esercitare  bene, 
fedelmente  e  legalmente  il  mestiere  di  esso  Rufolo,  obbeden- 
dogli in  ogni  cosa  lecita  ed  onesta,  durante  il  detto  tempo.  Il 
Rufolo,  oltre  l'alloggio,  il  vitto  e  le  scarpe,  promette  di  tenerlo 
bene,  trattarlo  secondo  la  sua  condizione,  farlo  dotto,  inse- 
gnargli a  leggere  e  scrivere  siccome  esso  Rufolo  è  dotto  e  sa 
leggere  e  scrivere  e  insegnargli  la  sua  arte  '. 

6  marzo  1483.  Compare  con^e  testimone  *. 

7  marzo  1483.  È  nominato  procuratore  del  magnifico  Pal- 
merio  de  Achilles^. 

20  ottobre  1483.  Si  rende  mallevadore  di  Guglielmo  Fran- 
cese libraio^. 
6  marzo  1484.  Compare  come  testimone  in  un  atto  ''. 

13  luglio  1484.  È  testimone  in  un  atto^. 

11  ottobre  1485.  È  testimone  in  un'  altro  atto^. 

12  febbraio  1486.  S'incontra  come  testimone  in  un  atto^®. 

^  Locatio  persone  prò  magistro  Claudio  pelligerii  :  prot.  di  C.  Malfìtano 
a.  1483-84,  e.  281b. 
•'  Vedi  n.  37. 
'  V.  appendice  I,  n.  15. 

*  Prot.  di  C.  Malfìtano,  a.  1483,  e.  161. 
'•  V.  appendice  I,  n.  16. 

"  Vedi  sopra  il  n.  54. 

^  Prot.  di  C.  Malfìtano,  a.  1483-84,  e.  161.  Ai  7  maggio  1484  ha  una  pro- 
cura :  Procurano  prò  Sotìo  rufulo:  ibid.,  e.  163. 
»  Ibid.,  e.   281. 

•  Ib.,  a.  1485-86,  e.  27a. 
'o   Ib.,  e.  120b. 


—  248  — 

22  sett.  1487.  Interviene  come  testimone  in  un'  altro  atto.^. 

4  aprile  1490.  È  testimone  in  un  altro  atto  2. 

22  giugno  1495.  È  testimone  in  un  atto  ^. 

22  maggio  1497.  È  testimone  in  un  altro  atto  *. 

64.  IvoNE  o  IvoNETTo  RuFFo  (Le  Roux),  fraucese  (1483). 
6  marzo  1483.  Fu  spedita  una  litera  passus  in  favore  di  ybo- 

neh  ruffb  jrancigena,  per  portare  e  far  commercio  di  libri,  li- 
beramente, nel  Regno  ^.  Appartenne  alla  famiglia  dei  Le  Roux 
stampatori  e  librai,  che  dimoravano  a  Parigi,  nei  secoli  XV  e 
XVI.  Il  più  antico  è  Goffredo  Le  Roux  libraio  (1481-1492). 

Un  documento  degli  Archives  Générales  di  Parigi  nomina  un 
«  Yvonetus  Ruffus  »  libraio  e  doratore  a  Parigi  nel  1529. 

65.  Giovanni  inglese  (1483). 
15  marzo  1483.  Si  emette  una    litera-passus  ad  istanza   di 

«  Johanne  englesio  »  pel  commercio  di  libri,  esenti  da  tassa  per 
tutto  il  Regno  ^. 

66.  Riccardo  Tedesco  (1483), 
8  aprile  1483.  Si  accorda  una  litera  passus  ad  istanza  Rizardi 

Theothonici  famuli  nobilis  viri  francisci  de  Tuppo  de  neapoli, 
per  lo  stesso   scopo  ^. 

67.  Baldassare  De  Nastasio  (1483-1490). 

Fu  di  Amalfi,  ma  dimorò  in  Napoli.  Ebbe  in  moglie  Elisa- 
betta Gorziale. 

31  maggio  1483.  Comparisce  come  testimone  in  un  atto  no- 
tarile. 


»  Prot.  di  Fr.  Russo,  a.  1487-88,  e.  24a.  Ai  18  agosto  1488  prende  una 
persona  ai  suoi  servizii.  V.  Locatio  servicìorum  prò  Sotto  rufulo:  Prot. 
d.  M.  di  Fiore,  1486-88,  e.  247b. 

2  Prot.  di  C.  Malfitano,  a.  1489-90,  e.  243. 

»  Ibid.,  a.  1494-95,  e.   271b. 

*  Ib.,  a.  1496-97,  e.  253b. 

«  Privileg.  Somm.,  voi.  53,  1.  e. 

*  Priv.  Summ.  v.  53,  1.  e. 
'  Ibidem.,   e.   106a. 


—  249  — 

18  novembre  1490.  Maestro  Baldassare  de  Nastasio  e  la  moglie 
Elisabetta  de  Corziale  dichiarano  aver  ricevuto  dal  magnifico 
messer  Michele  Riccio  da  Napoh,  a  nome  di  società,  ducati 
12  di  carlini  d'argento  del  danaro  dotale  di  Mariella  Carbone, 
di  lui  consorte,  per  ispenderli  in  alcune  cose,  spettanti  all'arte 
Hbraria,  per  lo  spazio  di  6  mesi.  Alla  fine  di  ogni  mese  rende- 
ranno a  messer  Michele  regolare  conto  delle  cose  comprate  e 
vendute,  dando  ad  esso  l'intera  metà  del  guadagno  ed  alla  fìne 
dei  sei  mesi  i  detti  12  ducati.  L'altra  metà  spetterà  ai  detti  co- 
niugi per  le  loro  fatiche,  col  patto  che  se  capiti  iattura  nella 
società,  messer  Michele  ne  risenta  per  metà  e  i  coniugi  per 
l'altra  metà.  Inoltre  che  questi  non  possano  in  verun  modo  fare 
credenza  alcuna  di  detto  danaro,  e  che  se  non  facciano  a  messer 
Michele  "il  conto  stabilito,  ogni  mese,  questi  abbia  diritto  di 
chieder  loro  la  restituzione  dei  12  ducati  che  i  coniugi  deb- 
bano restituire  ad  ogni  richiesta  ecc.  \ 

68.  Baldassarre  Fiorentino  (1483). 

5  lugho  1483.  Si  accorda  una  liiera  passus  in  favore  e  ad 
istanza  balthasaris  fiorentini  mercatoris  lihrorum  per  lo  stesso 
scopo  2. 

69.  Raffaele  Tarano  (1483). 

Fu  di  Scala',  in  provincia  di  Salerno,  e  venne  a  stabilirsi  in 
Napoli. 

5  settembre  1483.  Stringe  un  contratto  di  società  nell'  arte 
hbraria  con  Andrea  Vitolo^. 

70.  Onofrio  Arina  di  Tricarico  (1483). 

2  ottobre  1483.  Caterina  Dalmacia,  madre  di  Berardino  Dal- 
macio,  pone  a  bottega  il  figlio  da  Maestro  Nojrio  arina  de  in- 
carico libraro,  per  la  durata  di  7  anni,  il  quale,  oltre  la  propria 
arte,  promette  d'insegnargli  a  leggere  e  a  scrivere*. 

*  Vedi,  in  fine,  Appendice  I,  n.  33. 
2  Priv.  Sum.,  V.  53,  e.    115b. 

■'  V.  il  n.  15. 

*  Locatio  persone  prò  Nofrio  librario  :  prot.  di  C.  Malfltano,  a.  1483, 
e.  16. 

Anno  XLV.  17 


—  250  — 

71.  Raimondo  Bunaldi  (1484). 
30  gennaio  1484.  Il  nobile  Raimondo  Bunaldi  faceva  com«* 

mercio  di  pergamene  ^.  Molto  probabilmente,  per  le  ragioi 
espresse  innanzi  circa  la  connessione  delle  professioni  di  librale 
legatore  e  cartaio,  fu  pure  libraio. 

72.  Matteo  Francese  (1484). 
28  marzo  1484.  Si  emette  una  litera  passus  ad  istanza  ed  ii 

favore  di  matheus  francigena  mercator  librorum  habitator  net 
polis,  per  potere  liberamente  portare  e  vendere  libri  stampai 
per  tutto  il  Regno  2. 

73.  Andrea  Fontano  (1484). 
28  marzo  1484.  Altra  litera  passus,  per  lo  stesso  scopo,  si  ri« 

lascia  ad  Andrea  pontani^. 


continua 


M.  Fava-G.Bresciano 


^  V.  Appendice  I,  n.  19. 

2  Prìv.  Summ.,  v.  53,  e.  146a. 

^  Ibidem,   1.  e. 


LA    CONGIURA 

DEL 

PRINCIPE   DI    MONTESARCHIO 

(1648) 


(Contin.  e  fine  :  v.   voi.  prec.  pp.  191-226) 

PARTE  SECONDA 

LE     CO  SPI R  A  Z  I  ONI 

CAPO   III. 
La  grande  congiura. 

SOMMARIO 

1.  Nuova  spedizione  navale  francese  nel  regno  di  Napoli  :  condotta  equivo- 
ca di  Andrea  d'Avalos.  —  2.  Allontanamento  di  don  Giovanni  d' Au- 
stria ;  nuovi  malcontenti  suscitati  dal  viceré  ;  sua  lettera  del  16  ottobre. 
Un  tafferuglio  tra  popolani  e  soldati  al  largo  della  Carità.  —  3.  Inizi 
della  congiura  :  principali  autori  ;  Antonino  Maresca.  —  4.  Il  più  impor- 
tante documento  della  congiura:  una  lettera  del  principe  di  Montesarchio 
a  don  Giovanni  d'Austria. 


1 


Un  mese  e  mezzo  prima  di  quei  fatti  era  apparsa  nel  nostro 
golfo  una  squadra  francese  — una  quarantina  tra  vascelli  e  ga- 
lere. Non  era  che  un'avanguardia  d'assaggio,  a  cui  doveva  tener 
dietro  una  grossa  armata  sotto  il  comando  del  principe  Tommaso 
di  Carignano.Pensava  il  primo  ministro  di  Francia  che  le  condi- 
zioni del  nostro  paese  gli  fossero  propizie  piùora,dopo  la  restau- 
razione spagnuola,  che  non  prima,  sotto  la  signoria  del  duca  fran- 
cese: «  coi  pensieri  chimerici  di  cui  si  pasceva  ».  Pensava  così, 
perchè  Pastena,  Colessa,  altri  capibanda  repubblicani  o  francofili, 


--252  — 

fuggiti  a  Roma,  giuravano  a  quell'ambasciatore  francese  che  la 
generalità  dei  napoletani  non  vedeva  1'  ora  di  tornare  ad  insor- 
gere e  rimettersi  in  libertà;  che  ad  un  loro  cenno  si  sarebbero 
arresi  gli  abitanti  di  Posilipo,  di  Ghiaia,  rivoltata  tutta  la  città  \ 

Quella  squadra  d'avanguardia  quindi,  che  aveva  già  imbar- 
cato «  molti  Lazzari  e  Popolari  fuggiti  da  Napoli  »,  come  apparve 
nelle  nostre  acque  (4  giugno),  si  accostò  a  Posilipo,  a  Ghiaia,  pro- 
vocando qualche  lieve  rumore;  ma  senza  ottenere  alcun  movi- 
mento importante  e  tanto  meno  riuscire  a  «  fare  rivoltare  Napoli  », 
Bastò  r  apparizione  del  conte  d'  Onatte  sui  punti  minacciati  o 
sospetti  ad  impedire  ogni  novità.  Anzi  Giuseppe  Palumbo  gli 
si  presentò  a  capo  della  gente  della  Selleria,  offrendogli  in  ser- 
vigio della  corona  l'aiuto  di  tutti  i  quartieri  del  Mercato  2;  onde 
il  conte  ebbe  ad  «intenerirsi  della  fedeltà  dimostrata  dal  po- 
polo »,  e  proprio  da  quel  popolo  del  Mercato,  e  «tanto  più  si 
persuase  che  la  colpa  della  sollevazione  ricadeva  sull'oppres- 
sione »  impostagli  dai  ceti  più  alti  ^. 

Trovata  sorda  la  terraferma,  il  nemico  tentò  l'isola  di  Procida. 

Procida  era  uno  dei  molti  e  vasti  domini  del  marchese  del 
Vasto  grancamerario  del  regno,  che  da  tre  mesi  erasi  ritirato  a 
Roma,  aduggiato  dalle  guerre  e  dai  disordini  del  suo  paese.  Ma 
il  cugino  suo  principe  di  Montesarchio,  dopo  la  fortunata  cam- 
pagna condotta  in  Puglia  contro  i  repubblicani,  aveva  fatto  ri- 
torno a  Napoli,  e  in  quel  punto  si  trovava  a  Procida.  Qui  dun- 
que il  principe  di  Montesarchio  accolse  a  colpi  di  cannone  la 
visita  delle  navi  francesi  e  le  forzò  ad  allontanarsi;  inviò  feluche 
a  spiarne  i  movimenti  ulteriori;  riuscì  per  una  di  esse  a  cattu- 
rare una  tartana  dov'era  imbarcato  don  Tiberio  del  Ferro  (pa- 
dre dell'ambasciatore  di  Francia)  con  buona  provvista  di  ritratti 
di  Luigi  XIV  e  di  cartelli  eccitanti  a  rivolta.  Mandò  quindi  a 
Napoli  al  viceré  il  prigioniero*. 

Allontanatasi  la  squadra    nemica,  dopo  due  settimane  di 


>  Mazarino  a  Du  Plessis,  5  maggio  e  4  settembre  '48,   in  Capecelatro, 
III,  Ann.,  pp.  75  e  115. 

2  M.  Verde,  Registro  dei  Bianchi,  p.  134  sgg. 

3  Tartaglia. 

«  Diario.  Cfr.  Capecelatro,  III,  273  sgg.  ;  321. 


—  253-- 

vana  esplorazione  e  di  sterili  tentativi,  ai  22  giugno,  don  Ti- 
berio del  Ferro  fu  impiccato  allargo  del  Castello  insieme  con 
un  volgare  assassino  ad  un'  unica  forca.  Ad  un'altra  forca  fu- 
rono contemporaneamente  impiccati  due  giovani,  un  mari- 
naio ed  un  fruttivendolo,  rei  d*  intelligenza  coi  francesi  testé 
partiti.  E  in  mezzo  alle  due  forche  per  lo  stesso  delitto  lasciò 
il  capo  sul  palco  l'exgeneralissimo  Gennaro  Annese^. 

Ma  li  ebbe  fine  la  seconda  serie  di  benemerenze  spagnole 
di  don  Andrea  d'  Avalos.  Quando,  ai  4  agosto,  apparve  tra 
Ponza  ed  Ischia  il  grosso  dell'armata  francese,  il  principe  si 
trovava  a  Napoli.  Eppure  da  parecchi  giorni  qui  era  stato  prean- 
nunziato queir  arrivo.  Molti  emigrati  napoletani  facevano  corteo 
a  Tommaso  di  Carignano,  comandante  supremo  di  quella  flotta. 
E  primeggiava  tra  loro  il  marchese  d'Acaia,  vecchio  nemico  di 
Spagna  e  vecchio  cospiratore  contro  la  signoria  spagnola. 

Il  principe  di  Montesarchio  si  recò  a  porre  in  salvo  Procida  ; 
ma  solo  la  mattina  del  6  agosto:  quando  già  da  un  giorno  vi 
si  erano  istallati  da  padroni  i  nemici.  Due  loro  aderenti  — 
un  procidano  a  nome  Vincenzo  Salano  e  un  certo  Onofrio 
Schiavo,  nativo  di  Napoli,  ma  casato  nell'isola  —  ve  li  ave- 
vano introdotti  a  tradimento.  H  principe,  che,  sbarcato,  fu 
informato  dell'avvenuto  da  un  prete,  nell'impeto  dell'ira, 
colpì  con  la  spada  al  capo  il  disgraziato  nunzio.  Pensò  chia- 
mare i  maggiorenti  dell'isola  per  tentar  qualche  cosa  ;  ma  si 
vide  preso  di  mira  ed  in  grave  pericolo  e  fuggi  per  salvarsi, 
gittandosi  con  tanta  furia  in  una  feluca  da  sconciarsi  un  braccio. 
Questo  si  legge  in  qualche  diario  contemporaneo.  Ma  si  trova 
anche  asserito  che,  se  il  principe  potè  mettersi  in  salvo,  fu  perchè 
il  marchese  d'Acaia  ordinò  che  fosse  lasciato  fuggire^. 

E,  quantunque  poi,  falliti  i  tentativi  francesi  su  Ischia  e  Poz- 
zuoli e  trasferiti  nel  Salernitano,  il  principe  si  offrisse  ad  agire 
colà;  quantunque  una  tartana,  recante  legno  da  costruzione 
ai  francesi  di  Procida,  rimanesse  una  notte  pre(Ja  di  un  vas- 
sallo del  principe®;  il  viceré,  che  dovè  conoscere  meglio  le  cose. 


^  Registro  dei  Bianchi,  pp.  132  sgg. 

•  M.  Verde  ;  Tartaglia.  Cfr.  Capecelatro,  III,  394  sgg. 

»  Capecelatro,  III,  407  sgg.,  e  433, 


—  254  — 

perseverò  poi  nella  convinzione  che  la  fallita  impresa  di  Tom- 
maso di  Savoia  più  che  avversata  fosse  stata  favorita  da  don 
Andrea  d'Avalos^ 


Si  ripresero  quindi  i  processi  e  le  condanne  di  quanti  vennero 
ulteriormente  accusati  d'intelligenza  col  nemico.  Ma  nel  tempo 
stesso  si  attese  pure  la  concessione  delle  grazie  già  chieste  al 
plenipotenziario  don  Giovanni  da  quanti,  in  alto  ed  in  basso, 
avevano  servito  o  credevano  o  asserivano  d'aver  servito  la  co- 
rona nelle  emergenze  passate  con  maggior  zelo  e  con  maggior 
sacrifizio. 

Il  principe  di  Montesarchio,  come  quelli  di  Roccaromana 
e  Della  Rocca  e  il  conte  di  Conversano  e  i  duchi  d'Andria  e  di 
Maddaloni,  si  attendeva  a  compenso  uno  degli  onori  supremi 
del  Grandato  di  Spagna  o  del  Toson  d'oro  ^  Ma,  mentre  don 
Giovanni  aveva  segnalati  quelli  ed  altri  alregal  genitore,  rice- 
vendone promessa  di  guiderdoni  adeguati^,  il  viceré  avvisava 
esser  più  urgente  l'estirpazione,  in  alto  ed  in  basso,  di  ogni 
seme  di  commozioni  future,  che  non  l'elargizione  di  premi  e 
di  favori.  E  alla  Corte  rappresentò  come  il  baronaggio,  dispre- 
giatore dell'autorità  vicereale  con  «  pravo  esempio  »  e  «  gran- 
dissimo pregiudizio  agl'interessi  della  Monarchia  »,  era  stato 
già  troppo  gonfiato  dal  favore  incontrato  presso  don  Giovanni. 
Si  aggiunge  anzi  che  quel  favore  egli  prospettasse  e  spiegasse 
in  modo  obliquo,  rendendo  «sospetto  alla  Corte  di  Spagna» 
il  figlio  di  Filippo  IV  di  ambire  la  corona  di  Napoli  e  di  cer- 
care a  quel  fine  il  seguito  dei  baroni*. 

Comunque  sia,  la  Corte  nominò  viceré  di  Sicilia  don  Giovanni; 
e  ai  23  settembre,  questi  «ad  ore  22  s' imbarcò  lasciando  deso- 
lati i  popoli  ridotti  all'arbitrio  del  viceré  di  più  rigoroso  natu- 

1  Lettera  di  Onatte  a  Filippo  IV  del  16  ottobre  1648,  citata  in  seguito. 

2  Ms.  XXI,  B.  13  bis. 

3  Archivo  general  de  Simancas,  Secretarias  provine,  lib.  742,  ff.  9,  16 
sgg.  30  —  dove,  tra  i  popolari  da  premiare,  figura  anche  Gennaro  Annese— 
f.  413  sgg.  Secretarla  de  Estado,  legajo  218,  f.  240. 

*  Campanile-Fuidoro. 


—  255  — 

rale  ».  Ma  non  solamente  per  questo.  Partendo  alla  volta  di  Mes- 
sina, egli  lasciava  a  Napoli  solamente  «  bone  parole»  ;  non  una 
delle  grazie  chiestegli  «pubblicata  né  conceduta».  E  sì  che  mol- 
tissimi se  ne  attendevano,  oltre  i  baroni  e  cavalieri.  «  Molti  sol- 
dati (nota  un  contemporaneo)  pretendevano  remunerazione  ; 
le  università  fedeli  privilegi;  ed  alcuni  dottori  piazze  di  ministri 
e  molti  del  popolo  civile  portatosi  così  fedelmente  diverse  gra- 
zie e  riconoscimenti  »  ^. 

Con  altri  soldati  che  seguirono  don  Giovanni  s'imbarcò  l'ul- 
tima leva  del  principe  di  Montesarchio.  Questi,  al  momento  del- 
la partenza  del  principe  spagnolo,  giaceva  a  letto  nuovamente 
infermo  ^.  Ma  il  conte  d'  Onatte,  disimpacciato  oramai  nel- 
l'esplicazione del  suo  programma,  giudicò  opportuno  allonta- 
narlo dal  regno  in  maniera  da  non  destare  scandalo. 

La  sua  politica  ci  è  così  riassunta  nello  stile  del  tempo  :  «  Con 
meravigliosa  destrezza  il  viceré,  tra  li  preziosi  sonniferi  di  cor 
tesia  e  gentilezza  addormentando  li  capi  principali  dei  più  sedi- 
ziosi, con  nuove  imputazioni  andava  di  quando  in  quando 
troncando  quei  fiori  che  pregni  di  pessime  sementi  sogliono 
ammorbare  li  giardini  del  buono  e  quieto  governo  y>^. 

Quanto  ai  gregari,  il  conte  d'  Onatte  pose  ora  ad  effetto 
l'espediente  già  suggerito  dal  cardinale  Filomaiino  :  comperò 
cioè  segretatamente  le  armi  tenute  dai  popolani,  e  così  riuscì  a 
disarmarli*.  Ma  sopra  tutto  volle  eliminare  o  almen  scemare 
la  causa  prima  del  loro  malcontento.  «Perché  buona  parte  del- 
le sollevazioni  per  il  Regno  venivano  imputate  alli  soverchi 
rigori  di  alcuni  nobili,  il  viceré  chiamò  a  Napoli  quasi  tutti 
li  Baroni  e  titolati  acciò,  divertiti  da  perseguitare  li  popoli, 
maggiormente  non  si  esacerbassero;  e  apparentemente  dimo- 
strò di  volerli  presso  di  sé  col  pretesto  di  averli  pronti  ad  ogni 
accidente  »  ^. 

'  Ms.  XXI,  B,  13  bis. 

^  Ms.  cit  Istoria  delle  guerre  ciò.  Tartaglia.  Cfr.  Capecelatro,  III, 
485. 

^  Diario  ms.  M.  Verde. 

»  Arch.  cit.  di  Simancas,  Secr.  prov.,  lib.  623,  f.  279  :  Onatte  al  re,  7 
febbr.  49  ;  lib.  742, 1.  226  :  il  re  a  Onatte,  2  marzo  49. 

^  M.  Verde.  Diario.  Cfr.  Capecelatro,  III,  253. 


—  256  — 

Egli  stesso,  ai  16  ottobre,  «  nella  forma  più  segreta»  informò  il 
re  dei  propri  disegni  e  dei  propri  propositi  riguarda  alla  nobiltà 
in  genere  e  al  principe  di  Montesarchio  in  ispecie.  Ammetteva 
che  una  parte  dei  nobili,  e  la  più  numerosa,  avesse  ben  servito 
la  corona  nei  moti  recenti.  Ma  reputava  necessario  tener  d'oc- 
chio attentamente  gli  altri,  pur  senza  punirli  in  massa  né  mo- 
strare di  differenziarli  dai  benemeriti.  In  conseguenza  avrebbe 
fatto  mostra  di  onorare  e  premiare  il  prindpe  di  Montesarchio 
conferendogli  il  comando  di  due  «terzi»  del  Milanese.  Ma  in  ef- 
fetti lo  avrebbe  tenuto,  come  doveva,  lontano  dal  regno.  Giac- 
ché era  certezza  per  lui  aveie  don  Andrea  d'Avalcs  accettato 
salvaguardia  dal  duca  di  Guisa,  nonostante  che  s'ostentasse 
partigiane  del  re.  Di  ciò  avealo  assicurato  il  principe  di  Ca- 
stellaneta,  che  l'Avalos  invano  aveva  tentato  di  trascinare 
alla  parte  sua.  E  in  seguito,  venuta  la  flotta  francese,  l'Avalcs 
a  giudizio  del  viceré  era  stato  più  amico  che  avversario  dei  ne- 
mici e  dei  traditori  del  re^. 

»  Arch.  Simancas,  Secr.  de  Estado,  leg.  218,  f.  383.  Ecco  testualmente 
l'importante  documento  : 

«  Senor.  Cìerto  es  que  los  mas  de  estos  Cavalleros  han  servido  mui  bien 
y  los  que  de  estos  se  an  apartado  pueden  ser  mirados  con  mas  cuidado 
pero  no  castigados  derechamente  ni  aun  diversificados  en  los  favores  y 
cosas  generales,  por  esto  yo  se  los  he  hecho  al  Principe  de  Montesarchio  y 
le  he  deseado  sacar  del  Reyno  y  para  elio  le  encargue  zerca  de  dos  tercios 
para  Milan  dandole  el  nombre  de  dos  tercios  porque  haviendo  tenido  Ti- 
tulo  de  Capitan  General  de  la  Cavalleria  que  el  Duque  de  Arcos  comenzo 
a  levantar  quando  quiso  ir  sobre  Puerto  Longon  era  menester  darle  si- 
quiera  este  honor  de  dos  Tercios  para  salir  de  aqui.  Ma  yo  le  hice  ajustan- 
do  primero,  que  en  llegando  a  Milan  se  contentase  de  que  solo  un  tercio 
quedare  en  pie  y  el  otro  se  lo  formase.  Hame  parecido  dar  quente  dello  a 
V.  M.  y  de  que  yo  desseo  sacar  de  aqui  al  Principe  con  qualquiera  prete- 
sto porque  no  solo  es  cierto  que  aunque  estava  de  està  otra  parte  recivio 
salvaguardia  del  Duque  de  Guisa.  Pero  el  Principe  de  Castilaneta  me  ha 
contado  a  mi  que  le  deseò  enlazar  a  el,  y  sobre  elio  paso  disgusto  entre  los 
dos.  Pero  despues  quando  la  segunda  venida  de  la  Armada  de  Francia  me 
tuvo  con  certos  celos  y  cuidados,  sin  que  yo  aya  podido  averiguar  el  caso, 
mas  si  visto  muchas  senales  y  tenido  mui  perjudiciales  avisos,  que  todavia 
conserva  el  dar  de  comer  y  ayudar  a  muchos  que  tenemos  por  traidores,  y 
que  por  todo  lo  que  puede  suceder,  me  ha  parecido  que  V.  M.  tenga  està 
noticia  en  està  forma  mas  secreta  paraque  siempre  me  mande  Io  que  fuere 
de  su  mayor  servicio.  Nuestro  Senor  »  etc. 


—  257  — 

Ma  per  quanto  segrete  rimanessero  quelle  rivelazioni,  per 
circospetto  che  fosse  il  contegno  del  viceré  verso  i  più  alti  ba- 
roni sospetti,  non  potè  il  conte  d'  Onatte  evitare  nuovi  moti- 
vi di  rancori  e  di  accuse  a  suo  danno  di  singoli  e  di  masse. 

Quel  priore  Gianbattista  Caracciolo,  che  prima,  ai  5  febbraio, 
aveva  giurato  in  nome  di  tutta  la  nobiltà  di  voler  vivere  quin- 
di innanzi  coi  popolani  nella  «unione  e  fratellanza  che  Dio  co- 
manda »,  e  poi  s'  era  unito  cci  più  fieri  e  più  efficaci  oppositori 
della  parità  di  voto  reclamata  dai  popolani  ;  chiese  ora  al  viceré 
il  generalato  delle  artiglierie,  asserendo  che  glielo  avesse  con- 
cesso il  re.  Ma  il  viceré  glielo  negò  i. 

Verso  lo  stesso  tempo,  morta  la  vecchia  marchesa  del  Vasto, 
il  principe  di  Montesarchio  suo  nipote  pretese  succederle  nel  do 
minio  dell'isola  d' Ischia,  devoluto  alla  corona.  Ma,  fattane  ri- 
chiesta al  conte  d' Onatte,  questi  gli  rispose  invitandolo  a  vol- 
gersi al  re;  egli,  il  viceré,  avrebbe  poi  eseguito  il  comando  so- 
vrano ^ 

Nuova  materia  di  disgusto  tra  il  principe  napoletano  e  il 
conte  spagnolo  sopraggiunse  nel  mese  successivo. 

Frattanto,  perdurando  la  carestia  e  facendosene  colpa  princi- 
palmente all'  ingordigia  dei  grandi  proprietari  feudafi,  che  te- 
nevano il  grano  nelle  fosse  per  venderlo  a  prezzo  più  alto,  «Sua 
Eccellenza  destinò  commissionari  per  le  provincie  con  bandi 
che  fossero  manifestati  i  grani  nascosti  e  venduti  a  c^irlini  22 
il  tomolo  ».  Ma  il  grano  continuò  a  vendersi,  come  prima,  a 
quattro  ducati  (40  carlini)  il  tomolo  3. 

Opportunamente,  in  quel  mezzo  ottobre,  giunse  a  Napoli  la 
notizia  della  congiura  spagnola  del  duca  di  Hijar.  Secondo  la 
voce  corsane  qui,  «  molti  nobili  spagnoli  »  avevano  tramato  di 
ammazzare  Filippo  IV  per  «distribuirsi  li  Regni  di  Spagna»*. 
Il  fresco  incidente  si  prestava  ad  utifi  interpetrazioni  per  quanti 
volevano  disfarsi  del  conte  d'  Onatte.  Ma  prima  si  ritentò  l'op- 
posizione legale.  Una  nuova  ambasceria  aire  destinarono  i  seggi 

1  Gapecelatro,  III,  495  ogg 

2  Piacente,  p.  378. 
^  Tartaglia. 

*  Tartaglia.  Cfr.  Lafuente,  XII,  66  ;  Hume,  pp.  392  sgg. 


—  258 


contro  di  lui.  La  scelta  dell'ambasciatore  cadde  su  un  personag- 
gio di  primo  ordine,  Luigi  Poderico,  che  aveva  già  capitanato  le 
forze  baronali  contro  i  repubblicani.  E  gli  fu  data  un'istruzione 
che  lasciava  supporre  assai  gravi  propositi  ne'  mandanti:  che 
cioè,  non  ottenendo  il  ristabilimento  delle  gabelle  abolite,  si 
astenesse  dal  chieder  altro  e  ripartisse  immediatamente  per  Na- 
poli. L'  ambasciatore  partì  il  17  ottobre  in  compagnia  di  Giam- 
battista Caracciolo,  che  aveva  un  conto  suo  personale  contro  il 
viceré  ^. 

Ad  un  mese  di  distanza  da  quella  partenza  capitò  un  episo- 
dio, che  colmò  la  misura  nell'  animo  esasperato  del  principe  di 
Montesarchio. 

O  che  al  largo  della  Carità  tre  soldati  spagnoli  negassero  a 
un  macellaio  il  prezzo  di  una  coscia  di  vitello  da  loro  presa, 
o  che  nel  prossimo  vico  del  Nunzio  in  una  casa  di  mal  affare 
venissero  a  briga  per  motivo  di  donne  soldati  spagnoli  con 
vassalli  del  principe,  il  lieve  tafferuglio  si  dilatò  in  breve  in 
zuffa  tra  soldati  e  cittadini.  Si  sparò  gran  quantità  di  archi- 
bugiate,  molti  caddero  morti  o  feriti.  E  tra  questi  parecchi 
della  gente  del  principe  (18  novembre)  ^. 

Della  sua  gente  rimastavi  morta  ebbe  a  dolersi  il  principe 
ragionando  con  vari  amici  (Cesare  Carafa,  Gennaro  Petagna, 
Michele  Baldacchini,  Ottavio  Caracciolo).  E  nello  sfogo  del 
risentimento  espresse  propositi  di  vendetta  variamente  riferiti 
poi  :  o  che  volesse  «mandare  a  sangue  e  a  fuoco  il  Palazzo  e  il 
signor  Viceré  »  o  che,  se  non  fosse  il  suo  rispetto  pel  viceré, 
«  questi  spagnuoli  li  manderia  a  sangue  e  fuoco  »  ^. 


I 


Da  quell'istante  don  Andrea  d'Avalos  divenne  centro  di  quanti 
per  diversi  motivi  avversavano  il  viceré,  e  da  questo  molte- 
plice cumulo  di  odi  venne  a  sbocciare  l'idea  di  restituire  al 
paese  l'indipendenza  sotto  lo  scettro  di  don  Giovanni  d'Austria. 


^  Capecelatro,  III,  495  sgg. 

2  Cfr.  Capecelatro,  III,  504,  e  Pollio  cit.,  dal  De  Blasiis    in    Arch. 
sior.  Nap.y  IX,  144. 

'  V.  la  doppia  deposizione  del  Giannella  in  Registro  dei  Bianchi,  p.  144. 


I 


—  259-— 

Ad  arte  o  in  buona  fede  le  mire  di  don  Rodrigo  de  Silva,  di 
don  Carlo  Padilla  e  degli  altri  autori  della  sventata  congiura 
spagnola  si  collegarono  conia  persona  e  con  la  politica  del  conte 
d' Onatte.  Egli  apparteneva  a  quella  nobiltà  ch'era  riuscita 
ad  isolare  il  sovrano  cattolico,  sopprimendone  i  fratelli  e  il  fi- 
gliolo legittimo,  tutti  immaturamente  usciti  dal  mondo.  All'am- 
pia monarchia  mancava  un  erede.  Allora  allora  Filippo  IV  si 
era  congiunto  in  nuove  nozze  con  la  giovinetta  nipote  Mariana, 
già  fidanzata  del  principe  ereditario  defunto.  Ma,  invecchiato 
anzi  tempo,  logoro  di  corpo  come  di  spirito,  più  che  speranza  di 
un  nuovo  erede  dava  timore  che  spirasse  anche  lui  da  un  mo- 
mento all'  altro.  E  quella  scomparsa  si  diceva  che  attendessero 
e  bramassero  i  nobili  di  Spagna  cupidi  di  smembrare  a  proprio 
vantaggio  i  territori  del  regno.  Tra  quegli  ambiziosi  veniva  se- 
gnalato r  Onatte,  a  cui  s' imputava  il  disegno  di  mutare  il  mi- 
nistero in  principato,  come  già  s' era  detto  del  duca  d'Os- 
suna. 

Tali  apprensioni,  vere  o  simulate,  strinsero  intorno  al  nome 
di  don  Giovanni  d'Austria  «la  nobiltà  di  tutto  il  regno  »,  come  fu 
indicata  al  viceré  da  uno  dei  baroni,  che  la  denunciò  quale  co- 
spiratrice  e  traditrice  i.  Ma  di  essa  pochi  nomi  ci  è  dato  di  riferire: 
queUi  cioè  del  piincipe  di  Troia,  fratello  di  Andrea  d'Avalos,  di 
Cesare  Carafa  e  probabilmente  degli  altri  presenti  alla  con- 
versazione accennata  ;  di  don  Gregorio  Carafa,  figlio  del  prin- 
cipe della  Roccella,  cavaliere  di  S.  Giovanni  e  priore  della  Roc- 
cella  ;  del  già  menzionato  Fra  Titta  o  Battista  Caracciolo  ;  di 
due  cavaUeri  del  seggio  di  Porto  :  Paolo  Venato  e  Andrea  Mi- 
roballo.  Ma  a  questi  i  narratori  aggiungono  in  modo  vago,  oltre 
molti  altri  nobili,  anche  «  riformati  e  compagnoni  »  o  «  smar- 
giassi, conosciuti  o  protetti  o  dipendenti  dai  nobili,  che,  per  aver 
servito  la  corona  nelle  passate  guerre,  erano  divenuti  assai  au- 
torevoli e  più  che  insolenti  »  ;  e  poi  preti  e  frati  e  in  fine  gran 
quantità  di  gente  del  popolo  cosi  civile  come  minuto  2. 


»  Vedi  lettera  del  Montesarchio  riferita  in  seguito. 

*  Cfr.  Tartaglia  ;  Rubino  dottor  Andrea,  Notìzia  di  quanto  è  occorso 
in  Napoli  dalla.  1648  per  tutto  l'a.  1657,  to.  I  (ms.  XXIII,  D,  14);  Verde; 
Piacente,  p.  378. 


—  260  — 

Anello  di  congiunzione  tra  le  classi  estreme  per  la  congiura 
dovette  essere  un  grosso  borghese,  che  merita  bene  una  men- 
zione speciale.  Mattia  Maresca,  fabbricante  di  calze  nel  rione 
di  S.  Pietro  Martire,  negoziando  principalmente  con  case  to- 
scane nella  «  nobile  mercanzia  della  seta  »,  aveva  ammassato 
tanta  ricchezza  da  diventare  poi  imprenditore  di  «partiti  con 
la  Corte  ».  Ereditata  dal  figlio  Antonino  questa  stessa  specu- 
lazione, gli  appalti,  da  un  lato,  e  i  prestiti  alla  corona,  dall'al- 
tro, gli  avevan  fruttato  tanto  guadagno,  «  che  si  ritrovava  in  suo 
podere  da  un  conto  d'oro  »  (un  milione).  A  rivalsa  di  uno  dei 
suoi  crediti  verso  la  corte  Antonino  Maresca  aveva  ricevuto  un 
«  assegno  »  nella  regia  dogana  di  25  grana  per  ogni  peso  di  mer-  Jj 
ce.  Ma,  non  si  sa  perchè,  questo  assegno,  poi,  prima  dei  tumulti 
popolari,  era  stato  tolto  a  lui  e  concesso  al  fiammingo  Giovanni 
Vandeinden  —  già  «  poverissimo  sensale  casato  con  una  f emina 
che  imposimava  collari  »  ;  ora  «  per  li  moderni  partiti  di  navi  e 
vascelli  fiammenghi,  pervenuto  a  straordinaria  ricchezza  e  ap- 
parentato con  famighe  Nobili  ». 

Indarno  il  Maresca  s'  era  volto  ai  tribunali  per  avere  giusti- 
zia, quando  scoppiò  l' insurrezione  di  luglio.  Allora,  «  avendo 
bisogno  i  Regii  di  gente  atta  all'armi  e  di  danari»,  per  po- 
tere con  più  vigore  ributtare  le  forze  popolari,  il  Maresca,  nella 
«  vana  ambizione  di  esser  rifatto  di  tutta  la  sua  perdita  in  un 
subito  »  [cosi  nota  uno  dei  diaristi]  provvide  all'  uno  e  all'  altro 
bisogno.  Non  solamente  forni  nuovo  danaro  ;  ma,  chiesto  e 
ottenuto  il  grado  di  maestro  di  campo  di  un  «  terzo  »  di  volon- 
tari, questo  egli  reclutò  e  mantenne  a  proprie  spese  e  condusse 
anche  sulle  navi  spagnole,  combattendo  contro  i  francesi. 

Ora,  cessata  la  guerra,  di  tanta  benemerenza  il  conte  d'  0- 
iiatte  non  tenne  quel  conto  che  Antonino  Maresca  si  attendeva. 
Per  quante  istanze  ne  ricevesse,  il  viceré  non  gli  restituì  1'  asse- 
gno in  dogana,  non  solo;  ma,  poiché  con  l'anno  1647  spirava 
l'Elettato  del  dottor  Cangiano,  posta  dal  Maresca  la  sua  candi- 
datura alla  successione,  le  sue  sollecitudini  e  le  brighe  non  val- 
sero a  propiziargli  l'animo  del  viceré.  Questi  gli  preferi  Felice  J 
Basile,  e  del  Maresca  così  si  fece  un  nemico  mortale. 

«  Si  disse  e  si  pubblicò  che  il  Maresca  avesse  congiurato  col  j 
principe  di  Montesarchio  e  con  un  pescivendolo   del  fondaco  di 


—  261  — 

S.  Giacomo  a  Porto  chiamato  Ciccio  Guallecchia,  già  Capitano 
del  popolo  in  quel  quartiere  »  ^, 

In  un  suntuoso  banchetto  da  lui  ordinato  a  Posilipo  adunò 
molti  caporioni  popolari  :  Giuseppe  Palumbo,  che,  promosso 
maestro  di  campo  dal  duca  di  Guisa,  vedemmo  ultimamen- 
te convertito  in  tutto  alla  fede  spagnola  e  al  servizio  del  viceré  ; 
i  fratelli  Andrea  e  Ciullo  o  Giulio  Ricca,  il  dottor  Carlo  Gen- 
zale,  i  due  capitani  di  giustizia  Giambattista  Sparano  e  Giu- 
seppe de  Palma,  Agostino  Mannara  cartaro,  Francesco  Maz- 
ziotta  mercante  di  mante  a  S.  Pietro  a  Fusariello,  Francesco 
Marranzino,  «  tutti  persone  machinatrici  e  suoi  aderenti  ». 

Colà  si  decise  «  il  modo  che  si  aveva  a  tenere  per  una  nuova 
sollevazione  »  con  uccisione  del  conte  di  Onatte  e  la  procla- 
mazione di  don  Giovanni  d'Austria  a  re  delle  due  Sicilie  2.  Ciò 
doveva  eseguirsi,  secondo  alcuni,  al  prossimo  3  giugno  ((festi- 
vità del  Corpus  di  Cristo  »  ;  secondo  altri,  e  più  probabilmen- 
te, venti  giorni  dopo,  alla  ((  vigilia  di  S.  Giovanni  Battista,  gior- 
nata solennissima  per  la  festa  che  si  celebrava  in  Napoli,  mentre 
[il  viceré]  con  la  cavalcata  si  stava  godendo  la  festa  »  ^  Le  se- 
conda data  è  da  preferire  in  quanto  è  confermata  da  un  avviso 
scritto  ad  Ippolito  Pastena  —  e  rivelato  nella  tortura  da  un  reo 
di  crimenlese  —  ((  che  stesse  allegramente,  perché  a  S.  Giovanni 
si  rivoltava  Napoli  »*. 


Quanto  al  viceré,  urgeva  toglierlo  di  mezzo,  perché  egli,  in- 
formato che  ((  la  nobiltà  di  tutto  il  Regno  destinava  per  il  suo 
Re  e  Signore  »  il  figlio  di  FiUppo  IV,  si  asseriva  che  avesse  «  giu- 
rato di  troncare  con  il  vivere  »  del  giovane  principe  ((  il  filo  delle 
speranze  napoletane».  E,  quanto  a  don  Giovanni,  si  diceva 


*  Tartaglia  con  le  ali  re  fonti  sopra  citate. 

*  Rubino. 

'  Gfr.    Verde  ;     Rubino  ;     Campanile-Fuidoro;    Istoria     delle   guerre 
civili. 

*  Registro  dei  Bianchi^  p.  143. 


—  262  — 

«  pubblicamente  che  li  congiurati  avessero  inviato  a  Sua  Al- 
tezza alcune  capitolazioni  in  Sicilia,  dove  si  trovava  viceré  »i. 
Ma  è  giunto  fino  a  noi  il  testo  dell'  appello  destinato  per  lui» 
Fu  attribuita  al  principe  di  Montesarchio  la  paternità  di  questa 
scrittura.  Ma,  se  può  mettersi  in  dubbio  tale  attribuzione,  cer-  |l 
to  è,  ad  ogni  modo,  ch'essa  rispecchia  il  pensiero  politico  di  una 
parte  dell'aristocrazia  napoletana  del  tempo;  e  però  merita  di 
esser  resa  di  pubblica  ragione  2. 

«  Serenissimo  ed   Invittissimo  Principe, 

«Benché  il  dar  consiglio  a  Grandi  fosse  sempre  stimato  da' 
più  saggi  fatto  non  meno  periglioso  che  difficile,  rivolgendosi 
sovente  la  colpa  dei  non  conseguiti  disegni  contro  di  chi  non  J| 
ebbe  mai  altro  peccato  che  di  procurare  Tavanzamento  del  suo  ^ 
Signore,  non  temo  Io  ad  ogni  modo  di  rendermi  all'A.  V.  odioso 
arrischiandomi,  con  riverenti  avvisi,  e  ben  fondate  ragioni,  di 
promuoverla  alla  conquista  di  questi  Regni,  dei  quali  già  è 
neir  animo  de'  popoli  anticipatamente  acclamata  per  Re.  Fa- 
vello, o  Eroe  Invittissimo,  dei  Regni  di  Napoli  mia  Patria  e 
Sicilia  ;  nei  quali,  non  già  con  la  crudeltà  dei  Neroni  e  con  le 
proscrizioni  dei  Tiberi,  praticate  colà  dal  Conte  Viceré,  ma  con 
la  clemenza  d'Augusto  Tautorità  del  nostro  potentissimo  Re  e 
Principe   si   stabilisce. 

«A così  generosa  Impresa  TA.  V.  al  presente  destinata  dal 
Cielo,  chiamata  dai  Popoli,  invitata  dai  Grandi,  augurata  dalle 
Stelle,  diretta  dal  suo  valore,  é  consigliata  dalla  mia  devotissi- 
ma sincerità,  che  mancherebbe  a  se  stessa,  ed  al  debito  di  vas- 
sallaggio, se  non  Le  proponessi  tutti  quei  motivi,  che  sollecitar 
la  possono  a  farsi  Re  di  Napoli  e  di  Sicilia. 

«Proporrei  all' A.  V.  ;  per  primo  ed  efficace  motivo  delle  sue 


1  Tartaglia. 

^  Fu  inserito  con  la  firma  «  Il  principe  di  Montesarchio  »  a  p.  266  del- 
ì'Istoria  delle  guerre  civili  (ms.  XXVI,  B,  18  della  Soc.  Stor.  Nap.,  ester- 
namente intitolato  Rivoluzioni  ed  altro  occorso  nella  città  e  regno  di  Napoli 
dall' a.  1647  al  1655)  ed  anche  a  ff.  122  sgg.  del  volume  miscellaneo  ms. 
XXVI,  B,  16  di  Notizie  diverse  di  Napoli;  col  titolo  di  «  Lettera  scritta  da 
un  Principe  Napolitano  al  Sig.  D.  Giovanni  d'Austria,  intercetta  dal  Vice- 
rè  di  Napoli,  nella  quale  viene  esortato  a  farsi  Re  di  Napoli  e  di  Sicilia  », 
con  pochissime  e  lievissime  varianti  e  con  la  firma  «  11  Principe  N.  N.  ». 


—  263  — 

incontrastabili  risoluzioni,  V  evidenza  dell'  attentate  violenze 
dei  Spagnoli  Ministri  contro  la  sua  Real  Persona,  ed  insieme 
rodio  eterno,  col  quale  sarà  sempre  insidiata  ;  e  non  pregiudi- 
carà  a  quel  cuore,  che  non  conoscendo  timore,  non  s'arresti 
giamai,  per  conseguimento  di  gloria,  di  cimentarsi  con  la  morte 
stessa.  Ma,  perchè  non  è  men  disagio  il  dubitare  di  quello  sia 
di  valoroso  il  non  temere,  dovrà  l'A.  V.,  con  quella  prudenza 
che  Le  scorsi  sempre  in  ogni  sua  azione,  farsi  presente  alla  ri- 
cordanza dei  Zii  e  del  Fratello,  Carlo  e  Ferdinando  e  Baldas- 
sarre, consecrati  vittime  innocenti  al  furore  de'  Ministri  Spa- 
gnuoli,  che  ad  altro  non  aspirano  che  a  spengersi  affatto  nella 
Spagna  la  prosapia  degli  Austriaci,  a  fine  di  dividersi  fra  di 
loro  i  Regni  di  tutto  la  Monarchia i.  È  questa  verità  posta 
in  chiaro  dall'esecranda  congiura  attentata  li  giorni  passati 
dalla  maggior  parte  de' Grandi  di  Spagna  contro  il  cattolico 
Re  vostro  Padre,  e  viene  più  di  presente  manifestata  dalle  im- 
pertinenti dichiarazioni  del  Consiglio  di  Spagna,  che  non  vuole, 
che  passi  colà  Ferdinando  Re  d'Ungaria  vostro  Cugino ^  te- 
mendo, con  l'esempio  di  Carlo  V,  che  si  vadi  perpetuando 
negli  Austriaci  per  mezzo  de'  matrimoni]  l'Imperio  di  quei 
Regni.  Di  queste  diaboliche  massime  di  Stati  intestati  quei 
scelarati;  siate  sicura,  come  non  trasanderanno  occasioni  di  le- 
varsegli  dagli  occhi,  che  hanno  pieni  di  sangue  di  mille  ven- 
dette, ancorché  avessero  a  lasciar  Dio  per  il  Regno. 

«Dio  vi  guardi,  Innocentissimo  Principe,  di  far  tregua  col 
sospetto  ;  che  vi  giuro,  che  indubitatamente  sarete  tradito. 
Non  vi  lusinghino  le  apparenze,  perchè  sotto  di  queste,  come 
nei  frutti  di  Cleopatra,  ritrovarete  il  veleno  di  che  sono  i  Spa- 
gnuoli  impertinentissimi  fabbri. 

«Il  Ministro  che  disegnano  mandare  ad  assistervi,  non  è  per 
altro  fine,  che  per  assicurarsi  della  vostra  persona.  Del  Borgia 
più  che  di  ogni  altro  avete  a  temere,  perchè  più  di  chi  si  sia  è 
ambizioso'  ;  siate  avvisato,  come  già  per  le  adunanzze  d'Italia 


»  Sulle  morti  degl'infanti  Carlo  (1632)  e  Ferdinando  cardinale  (1641)  e 
del  principe  ereditario  Baldassare  (1646),  v.  Hume,  pp.  245,  362  e  385. 

«  Ferdinando,  generato  all'imperatore  Ferdinando  III  dalla  sua  prima 
consorte,  sorella  di  Filippo  IV,  e  premorto  al  padre. 

»  Allude  probabilmente  a  D.  Fernando  de  Borgia,  stato  già  ufficialmen- 
te aomigliere  di  corpo  del  principe  ereditario  deiunto,  effcUivanionlt  suo 
aio.  V.  Pellegrini,  Relazioni  cit.,  p.  75. 


^264  — 

s'odono  i  susurri  della  vostra  caduta,  prefissata  per  iscopo 
principale  della  sua  barbarie  dal  Conte  d'  Onatte,  a  cui  dal 
Prencipe  di  Monticchio  con  animo  plebeo  essendo  stato  fatto 
palese,  come  vi  destinava  la  Nobiltà  di  tutto  il  Regno  per  il 
suo  Re  e  Signore,  giurò  di  troncare  con  il  viver  vostro  il  filo 
delle  speranze  Napolitane^. 

«Ma,  quando  le  accennate  non  fossero'veritàpiù  che  evidenti 
ma  bensì  trasognati  racconti,  non  dovrebbe  riempir  Tanimo 
vostro,  o  Principe  valoroso,  d'imperturbabile  ardire,  per  esser 
pur  troppo  certo,  o  di  passar  per  le  violenze  dei  Tiranni,  o  di 
viver  fuggitivo  e  ramingo  vita  privata  e  meschina,  su  assicu- 
rarsi con  la  successione  nei  vostri  fratelli  i  possessi  dei  Regni 
di  Spagna  2.  Non  sarete  voi  astretto  ad  esser  privato  Cava- 
liere, ed  in  sospetto  al  Padre,  a  fratelli,  ed  al  Regno  di  Spagna, 
non  sarete,  e  nel  Padre  averà  fine  la  serie  dei  Regni.  Non  scor- 
gete, come  attendono  solo  i  Ministri  Spagnuoli,  disgustando 
tutti  i  Potentati  d'Europa  ed  alienandoli  tutti  dalla  divozione 
e  corritpondenza  con  vostro  Padre,  di  portarsi,  calcando  Te- 
sempio  degli  altri,  al  comando  assoluto  dei  Stati?  Il  Conte 
d'Ognatte,  Vice  Re  di  Napoli,  con  fare  dei  miseri  Napoletani 
sanguinoso  macello,  e  con  assicurarsi  del  più  potenti,  e  con  rat- 
tentato  di  nuove  fortificazioni,  guarnite  e  presidiate  di  genti 
a  sé  divote,  non  si  batte  la  strada,  tanto  più  che  ne  attende  di 
giorno  in  giorno  la  morte  di  vostro  Parde,  alla  tirannia  di  Na- 
poli ?  Non  credetelo  a  me  ;  osservate  le  sue  azioni,  e  mi  dica 
[se]  Fautorità  del  Cattolico  o  la  propria  procura  in  Napoli  di 
stabilire.  Non  sono  Io  già  avvisato  come  ad  alcuni  Baroni  suoi 
aderenti  (a'  quali  fa  concepire  alte  speranze)  ha  già  motivato 
questo  suo  ambizioso  disegno  ?  E  come,  dunque,  potrà  Tanimo 
glorioso  ed  invitto  di  D.  Giovanni  d'Austria  tollerar  che  un  vas- 
sallo gli  tolga  di  capo  quel  Diadema,  che  sol  fu  destinato  alla 
sua  virtù  ?  Vorrà  egli  vivere  non  Dionigi,  ma  con  la  spada  di 
Dionigi  sopra  del  Capo,  e  non  acconsentire,  che  senza  contrasti 
s'usurpi  il  Tiranno  l'Imperio  ? 

^  Un  «principato  »  di  Monticchio  non  so  che  sia  mai  esistito.  Un  feudo 
di  Monticchio  (in  Principato  ultra,  presso  S.  Angelo  dei  Lombardi)  era  sta- 
to venduto  pochi  anni  avanti  dagli  Aldane  al  principe  di  Gallicano  Pom- 
peo Colonna.  Avesse  l'autore  della  lettera  voluto  anche  con  quel  titolo  con- 
fermare il  suo  disprezzo  pel  delatore  ? 

■  Non  s'intende  quest'ultima  frase.  Il  testo  vi  è  certamente  corrotto, 
come  pure  nel  periodo  che  immediatamente  segue. 


—  265  — 

«  Quai  difficoltà  possono  arrestarvi,  o  Prìncipe  infaticabile, 
che  frettoloso  non  accorriate  ai  sospiri  dei  miseri  Napolitani,  che 
con  supplichevoli  voti  vi  attendono,  che  li  sottragghiate  dalla 
crudeltà  del  Tiranno  oppressore  ?  Non  siete  più  che  accertato 
della  divozione  dei  Popoli?  Non  leggevate  già,  mentre  eravate 
in  Napoli,  caratterizzato  ne'  sembianti  di  tutti  il  vivo  [desi- 
lerio  ?]  dell'augurato  Regno  ?  Risolvetevi.  Che  aspettate  d'es- 
*ser  prevenuto  dal  tradimento,  o  d'esser  rimosso  dal  Comando  e 
da'Regni  d'Italia?  Avete  i  cuori  dei  Popoli,  il  braccio  de' Grandi; 
ed  averete  ancora  il  favore  di  tutti  i  Potentati  d'Europa,  quali 
secondaranno  i  vostri  generosi  attentati,  non  s'ingannaranno 
[sic]  d'assicurare  i  loro  Stati  da  quella  Potenza,  che  si  rendeva 
già  con  le  rapine  odiosa  e  temuta  da  tutto  io  Mondo. 

«I  Signori  Veneziani  non  mancheranno  a  quella  saviezza, 
che  sempre  suggerì  loro,  col  dividere  i  più  Potenti  d'Europa, 
di  stabilir  con  la  proria  la  libertà  di  tutta  l'Italia,  ed  insie- 
me d'assicurare  i  propri  Stati  dalle  severe  ed  ingiuste  invasioni 
dei  Spagnuoli,  se  [pure]  non  darà  a  voi  quelli  agiuti,  che  per 
ristessa  ragione  di  Stato  diede  già  all'Olanda. 

«  La  Chiesa  Romana  stimar à  a  sua  fortuna  l'aver  un  Principe 
confidente,  confederato,  benemerito  ed  obligato,  e  di  non  esser 
dubbiosa  di  vedere  la  Città  Santa  di  Roma  un'altra  volta  sac- 
cheggiata dai  Spagnuoli;  ond'è  che  vi  farà  sentire  i  suoi  potenti 
sovvenimenti,  quando  di  presente  a  ciò  fare  l'hanno  con  bar- 
bara ingratidudina  invitata  nell'impresa  di  Castro  i  Ministri  di 
Spagna. 

a  Le  Altezze  Serenissime  di  Fiorenza  e  di  Parma,  fisse  sem- 
pre nelle  massime  dell'Italiana  Libertà,  dubbio  non  vi  è,  che 
non  aderischino  alle  vostre  deliberazioni,  non  solo  per  assicu- 
rare li  Stati  loro  dalla  voracità  Spagnuola.  che  sempre  disegnò 
d'usurpaglieli,  quanto  per  liberarsi  anco  da  quei  tributi,  che 
pretendono   i  Spagnuoli  per  le  guerre  di  Napoli  e  di  Milano. 

«  Il  Serenissimo  di  Modena,  se  non  mancò  a'  Francesi  per  le- 
vare dallo  Stato  di  Milano  i  Spagnuoli,  non  mancarà  a  voi,  per 
scacciarli  dal  Regno  di  Napoli. 

«Il  Duca  di  Mantova,  che  piange  ancora  la  calamità  del  suo 
Stato, conoscendo  nelle  perdite  Spagnuole  migliorare  i  suoi  van- 
taggi, se  bene  pare  che  abbino  procurato  di  affezionarselo  per 
mezzo  di  matrimonio,  non  credete  che  si  scordi  di  esser  vero 
figlio  e  Prencipe  d'Italia,  amico  della  Francia,  e  nemico  di  colo- 
ro che  con  nuove  usurpazioni,  or  di  Sabioneta,  or  della  Miran- 
randola,  non  temono  d'ingelosirlo  nel  proprio  Stato. 

Anno  XLV,  18 


—  266  — 

«  La  Repubblica  di  Genova,  benché  creduta  dal  Mondo  per 
Spagnuola,  farà  conoscere  che  grinteresssi  privati  di  alcuni  suoi 
Cittadini  saranno  inefficaci  a  trattenerla  che  non  dia  mano  al 
vostropartito,  conoscendo  quei  Padri  quanto  sia  a  proposito,  per 
levare  una  volta  i  Spagnuoli  d'Italia,  che  vi  facciate  Re  di  Na- 
poli. So  che  siete  a  parte  dei  disgusti  che  passano  di  presente  fra 
quella  Repubblica  e  i  Ministri  della  Maestà  Cattolica:  condi- 
zioni tutte  che  migliorano  il  vostro  partito. 

«  La  Signoria  di  Lucca,  disobligata  dalla  divozione  che  pro- 
fessa alla  Spagna  in  risentimento  dei  strapazzi  ricevuti  nella 
persona  del  suo  Ambasciatore,  che  generosamente  ribattette 
alla  Magnada  [sic]  gli  affronti  dei  Spagnuoli,  se  non  vi  sommi- 
nistrarà  agiuti,  goderà  almeno  che  siate  agiutato^. 

«  L'Altezza  di  Savoia,  benché  più  d'ogni  altro  Prencipe  Ita- 
liano sia  lontano  da  Napoli,  si  farà  altrettanto  sperimentare  da 
vicino  più  d'ogn'altra  potenza  dei  vostri  vantaggi  parziale  ; 
impercioché  il  giovinetto  Eroe  non  potrà  meglio  assicurare  il 
suo  Stato,  tante  volte,  ma  invano,  insidiatogli  dagli  Spagnuoli 
ed  anco  parte  usurpatogli,  come  la  Città  di  Vercelli,  in  tempo 
che  non  era  in  età  d'imbrandire  lo  stocco  alla  difesa,  che  col 
smembrare  li  Stati  e  Regni  loro. 

«Le  Repubbliche  dei  Grigioni  non  vedond  l'ora  che  si  perda 
dai  Spagnoli  questo  Regno,  acciò  possano  veder  in  esempio 
alienato  quello  di  Milano,  per  mezzo  del  quale  hanno  fatto  più 
volta  quelle  Arpie  disegno,  con  pretesti  apparenti  di  religione, 
di  togliarli  la  libertà,  lo  Stato,  sono  questi  Popoli  agguerriti, 
gente  valorosa,  e  facile  a  far  che  pieghi  la  vittoria  ove  piegano 
l'armi  loro.  Quindi  è  che  nell'  aggiuto  loro  avete  a  fare  gran 
capitale. 

«  Il  Re  di  Portogallo  D.  Giovanni  IV,  non  cedendo  ad  alcunj 
Potentato,  farà  che  sentiate  il  valore  delle  sue  potentissime  ar- 
mate, sapendo  dalla  divisione  dei  Regni  Spagnuoli  fondamen- 
tarsi  la  pace  della  sua  Monarchia  ;  siccome  di  presente  noni 
manca  alla  Francia,  da  cui  riconosce  la  sua  fortuna,  così  noni 
mancherà  a  voi,  dal  quale  sperarà  l'assodamento  della  sua  fe-j 
licita. 

^  Ambasciatore  residente  di  Lucca  a  Madrid,  dopo  Alessandro  MasseiJ 
fu  Giovanni  Guinigi  dall'agosto  1646  all'agosto  1649  ;  ma  dalla  relazioni 
che  abbiamo  della  sua  ambasceria  (Pellegrini,  op.  cit.,  n.  XII,  p.  80  sgg.j 
nulla  traspare  che  faccia  luce  sull'incidente  qui  accennato.  Quella  Magna' 
da  potrebbe  essere  una  storpiatura  di  Maqueda. 


—  267  — 

jH  «Le  sacre  Maestà  dell'Imperatore  e  del  Re  d'Ungaria  Tuna 
HMisgustata  dei  Spagnuoli  per  gli  ultimi  trattati  della  Germania, 
^H'altra  per  li  strapazzi  fattili  dal  Ministro  del  Cattolico,  e  per- 
^Bonalmente  dal  Duca  di  Maqueda  nel  viaggio  della  sorella  Re- 
^"gina  e  vostra  Madre  ^,  non  sarannno  entrambi  per  denegare 
agiuti,  tanto  più  che  si  tratta  di  stabilire  sul  trono  un  Cugino, 
Principe  e  parente  del  Sangue. 

«La  Francia  riflettendo  agFinteressi  dello  Stato  ed  a' suoi 
vantaggi,  oblierà  le  sue  ragioni  che  tiene  sul  Regno  di  Napoli; 
vi  manderà  agiuti  potenti,  acciò  possiate  coronare  li  vostri  glo- 
riosi disegni;  e  senza  dubio  trattare  con  più  sinceri.à  con  voi 
di  quello  facessero  agli  Angioini  quelli  di  Castiglia  e  d'Aragona. 
Molto  accertato  d'assicurarvi  l'assistenza  di  questa  potentissi- 
ma Corona  sarà,  se  resisterete  [sic]  voi  con  serenissimi  mari- 
taggi di  madamigella  d'Orleans,  Dama  e  Principessa  la  più  bella 
che  adori  il  sole. 

«  Lo  Stato  di  Milano,  avvertendo  esser  Napoli  catena  alla  sua 
libertà,  ed  esso  a  quella  di  Napoli,  nell'istesso  tempo  che  procu- 
rarete  di  farvi  Re  di  quel  Regno,  incontrando  congiontura  cosi 
a  proposito,  si  riportarà  anch'esso  sotto  il  comando  de'  suoi 
antichi  e  naturali  Padroni  2.  Non  saranno  i  Milanesi  così  scioc- 
chi come  furono  i  miei  Napoletani,  che  depongano  la  spada, 
se  una  volta  si  risolvono  d'imbrandirla  per  liberarsi  dalla  ser- 
vitù dei  Spagnuoli,  de'  quali  non  è  più  il  numero  in  quello 
Stato  di  4000  —  ;  sed  quid  inter  tantos  ? 

«  Oltre  la  somma  di  tutti  questi  aggiuti  ha  poi  l'A.  V.  da 
sapere  che  [altri  ne  avrà]  dai  Regni  stessi  di  Napoli  e  di  Si- 
cilia, oppressi  e  traditi  da'  Spagnoli,  che  ad  altro  non  aspirano, 
che  (facendoli  passare  alle  calamità  delle  Indie)  a  votarli  af- 
fatto d'abitanti.  Scorgono  ora  i  miei  concittadini  cosa  sia  por 
mano  alla  spada  contro  Spagnuoli,  per  rinfodrarla  poi  a  suo 

*  Madre  in  quanto  moglie  del  padre  di  don  Giovanni.  Quel  viaggio  di 
Marianna  d'Austria  quindicenne  dall'Ungheria  per  l'Italia  alla  volta  del 
vecchio  zio  datole  per  marito  è  ben  descritto  da  Hume,  pp.  396  sgg.  Visi 
nota  pur  qui  «  come  il  Duca  di  Najera  e  Maqueda,  che  avevala  accompa- 
gnata dall'  Italia  in  Ispagna,  venne  congedato  al  suo  arrivo  (a  Denia]  per 
una  mancanza  di  rispetto  che  gli  si  rimproverava  ».  Ma  non  più  di  tanto. 

*  Allude  ai  duchi  di  Savoia  0  ad  altri  ?  Quanto  al  valore  dell'  asserzione 
circa  la  reciproca  influenza  delle  sorti  di  Napoli  e  Milano,  vedi  ora  Fero- 
RELLi,  /  patrioti  meridionali  rifugiati  in  LombardiOy  in  questo  Archivio^ 
XLUI,  p.  300. 


—  268  — 

danno  -.Meglio,  meglio,  disse  il  Duca  di  Mad aloni  a  chi  il  con- 
sigliava di  disarmarsi,  è  morire  con  la  spada  alle  mani  che  col 
canape  al  collo.  Questo  Principe,  ch'è  uno  dei  più  potenti  e 
valorosi  del  Regno,  vi  farà,  quando  vi  risolverete,  acclamare 
da  tutte  le  Provincie  per  Re,  e  ricevere  per  Capitano. 

«  Non  fluttui  Tanimo  vostro,  generoso  novello  campione,  in- 
traprendere questa  condotta,  benché  vediate  molti  Baroni  del 
Regno  aderire  alle  crudeltà  del  conte  Vice  Re,  perchè  sono 
tutti  arteficij,  così  della  necessità  come  del  consiglio,  sapendosi 
benissimo  come  l'odiano  a  morte,  non  stando  altro  attendendo 
che  le  candele  [?]  di  Cesare;  che,  sinché  una  volta  il  Mago,  che 
tiene  appresso  di  sé  non  gli  rivela  la  congiura,  se  bene  da  sensati 
vien  creduto  che  il  scoprimento  di  molti  trattati  siano  politici 
arteficij,  del  Conte  d'  Ognatte,  per  togliersi  dagr  occhi  molti 
Grandi  innocenti  affatto,  invero  dame  conosciuto,  sì  che  non 
cada  questo  Tiranno  o  che  voi  a  altri  passino  all'assoluto  coman- 
do del  regno  ^. 

«  Gran  vantaggi  averete  voi,se  intraprenderete  questa  impresa, 
(più)  di  quello  conseguisse  Tomaso  Aniello,  primo  condottiero 
e  gran  Capitano  del  Regno,  poiché,  se  a  quello  obediente  si  mo- 
strò la  plebe,  a  voi  la  plebe  e  nobiltà  é  ossequiosa. 

«  Del  Regno  di  Sicilia  non  voglio  parlare,  perchè  avete  speri- 
mentato Tanimo  di  quei  Popoli.  Questo  solo  non  posso  tacere 
che,  se  già  i  Siciliani  cantavano  contro  i  Francesi  i  Vesperi  in- 
tonati da  Alfonso  rinquieto  d'Aragona  [sic]  ricantaranno  ancora 
contro  i  Spagnuoli  le  compiete,  se  voi  darete  principio.  Buon  fu 
per  li  Spagnuoli,  che  passasse  a  governare  nel  Regno  il  Cardi- 
nal Trivulzio,  amico  più  della  spada  che  del  Breviario,  che  per 
altro  credo  che  [sic]  sarebbe  già  compiuto. 

«  Resta  ora,  o  gran  Prencipe  e  gran  Capitano,  che  non  vogliate 
pregiudicare  a  voi  stesso  ed  a  quella  fama  che,  splendendo  per 
tutto  il  Mondo  glorioso  il  vostro  nome,  fa  che  non  solo  siate  ri- 
verito per  vero  discendente  di  quel  gran  Carlo,  che  fu  il  primo 
fra  i  quinti,  ma  ancora  acclamato  per  il  più  valoroso  e  saggio 
Principe  di  questo  secolo.  Sete  in  possesso  di  queste  glorie,  pro- 
curatevene  lo  stabilimento;  eccovi  l'occasione  di  farvi  Re,  non 
la  trascurate,  quando  anche  s'arrischiasse  la  vita,  non  essendo 
mal  impiegata  quella,  che  ha  per  premio  le  corone  dei  Regni. 
Con    questo   sentimento  parlò  quella    gran    Donna    Luisa   di 

^  II  testo  qui  è  sicuramente  guastato. 


—  269  — 

Gusman  3  di  Braganza,  al  presente  Regina  gloriosissima  di  Por- 
togallo, al  Serenissimo  Re  suo  consorte  allora  che  stava  in  forse 
di  porsi  in  capo  quel  Diadema,  che  a  nome  del  Cielo  e  di  tutto 
il  Popolo  gli  offerivano  i  Grandi  del  Regno  :  Meglio  é,  o  mio  Si- 
gnore e  marito  (disse  questa  gran  Donna)  morire  Re  e  Regina  di 
Portogallo  che  viver  Duca  e  Duchessa  di  Braganza,  Lo  stesso  dico 
a  voi,  o  Prencipe  Magnanimo,  meglio  è  che  procuriate  di  farvi 
Re  di  Napoli  e  di  Sicilia,  che  sopravvivere  in  stato  privato  sog- 
getto alle  insidie  dei  Spagnuoli.  Fate  che  abbiano  li  Principi 
d'Europa  da  applaudire  alle  vostre  fortune,  e  da  non  compas- 
sionare alle  vostre  miserie:  ed  accettate  intanto  con  ciglio  se- 
reno questi  avvertimenti  figli  d'  un  divotissimo  affetto  e  d'una 
più  che  ferventissima  divozione,  con  la  quale  sto  supplicando 
il  Cielo  ch'esaudendo  i  miei  voti  feliciti  le  vostre  glorie. 
«  Di  V.  A.  Serenissima 

<(  Umilissimo  e  devotissimo  Servitore  e  Vassallo 

«  Il  Prencipe  di  Montesarchio  ». 

CAPO  IV. 
Il  fallimento  della  congiura. 

SOMMARIO 

1.  La  scoperta  :  il  delatore  ;  arresto  del  principe  di  Montesarchio,  prote- 
teste  sollevatene  —  2.  Una  Giunta  di  Stato  napoletana  a  mezz  ;  il  seco- 
1  o  XVII  :  memoriale  del  marchese  di  Gervinara;  la  Giunta  di  Spagna.  — 
3.  Giustizie  eseguite  in  Napoli  :  fine  di  Antonino  Maresca  ;  giudizi  su 
quelle  condanne  —  4.  Prigionia  di  Andrea  d'Avalos  in  Spagna  ;  con- 
sulta della  Giunta  spagnuola  —  5.  Azione  ulteriore  del  principe  di  Mon- 
tesarchio :  sotto  Filippo  IV,  Carlo  II  e  Filippo  V  ;  postuma  attuazione 
del  suo  giovanile  ideale  d'indipendenza. 


«Ma  come  che  il  Cielo  benegno,  mitigato  per  intercessione 
di  tanti  santi  protettori  della  città,  non  aspirava  più  alla  ruina 
di  quella  Napoli,  che  con  le  passate  sollevazioni  era  divenuta 
campo  di  Marte,  ove  troppo  spietata  trionfava  la  morte,  per- 
mise che  questi  machinatori  confidassero  il  machinatL  a  chi  fe- 
delissimo non  era  per  consentire  a  si  enorme  trattato  ;  ma  solo 
era  per  scovrire  e  difendersi  dalla  crudel  barbarie  che  aveano 
intrapresa  gl'infidi  ». 


—  270  — 

In  tal  modo  il  pacifico  dottor  Rubino  informa  che,  attirato 
nella  congiura  un  fautore  di  Spagna  incapace  di  tradire,  rivelò 
al  viceré  il  «  tradimento  ».  Ma  il  Rubino  è  il  solo  che  attribuisse 
tal  merito  al  più  volte  menzionato  priore  fra  Titta  Caraccio- 
lo, che  abbiamo  visto  tra  i  più  ardenti  avversari  del  conte  di 
Oli  atte.  Gli  altri  narratori  unanimemente  indicano  come  de- 
latore don  Pietro  Carafa,  figlio  del  marchese  di  Anzi,  che,  ri- 
fugiatosi nella  rocca  di  S.  Elmo  durante  i  tumulti  di  agosto  e 
saccheggiatagli  la  casa,  era  poi  rientrato  nella  città  ai  6  di  aprile 
con  l'avanguardia  di  don  Giovanni  ed  era  stato  nominato  go- 
vernatore di  Castellammare  ^. 

E  poco  credibile  è  la  notizia  che  il  principe  di  Montesarchio 
chiedesse  «  licenza  al  Viceré  d'andare  in  Sicilia  a  visitare  D.  Gio- 
vanni d'Austria,  viceré  di  quel  Regno,  il  quale  gli  offerì  una  gale- 
ra» pel  viaggio  2.  Più  verisimile,  invece,  e  risultante  da  varie 
testimonianze,  é  ch'egli,  guarito  dalla  recente  infermità,  spar- 
gesse la  voce  di  «  voler  visitare  la  chiesa  di  S.  Domenico  a  So- 
riano »,  e  con  questa  «scusa»  s'imbarcasse  «con suoi  creati» in 
una  galera,  «  per  fuggirsene  »  ^.  Ma  sul  punto  di  salpare,  o  (come 
qualcuno  riferisce)  giunto  già  a  Soriano,  mentre  voleva  con  fe- 
luche trasferirsi  nell'  isola,  fu  arrestato,  ricondotto  a  NapoH  e 
chiuso  nel  castello  dell' Ovo  (la  notte  del  17  decembre  1648)  *. 
Con  lui  furono  catturati,  ed  egualmente  rinchiusi  in  castel 
dell'  Ovo,  don  Cesare  Carafa  e  «  moltissimi  altri  »  :  «  tutti  li  suoi 
aderenti,  salvo  quelli  che  potettero  fuggirsene  a  Roma,  come 
Peppo  d'Avento,  persona  facinorosa,  benché  avesse  servito  h 
Regij  nella  passata  guerra  »  ;  e  don  Francesco  d'  Avalos  principe 
di  Troia,  fuggito  al  primo  avviso  dell'arresto  del  fratello. 

Ai  primi  arresti  altri  ne  tennero  dietro  nei  giorni  successivi  : 
del  priore  della  Roccella  don  Gregorio  Carafa  (6  gennaio  1649)  di 
Fra  Paolo  Venato,  di  don  Andrea  Miroballo  ^;  e  poi  altri  ed  altri: 


*  Istoria   delle  guerre   civili  ;   Campanile  -  Fuidoro  ;   M.    Verde.    Cfr. 
Capecelatro,  I,  197  ;  III,  10  e  209. 

2  Tartaglia. 

'  Verde  e  Istoria  cit. 

*  Tartaglia;  Verde;  Istoria  cit. 
»  Tartaglia. 


I 


—  271  — 

nobili  e  assai  più  popolani.  Fra  i  primi  di  questi  ultimi,  Antonino 
Maresca  fu  rinchiuso  nel  castello  di  S.  Elmo  (marzo  1649)  ^ 

Ma  la  cattura  di  un  personaggio  della  qualità  del  principe  di 
Montesarchio  impressionò  più  largamente  e  più  profondamente. 

Fu  discussa  e  variamente  spiegata  «  secondo  le  passioni  e 
gl'interessi  di  ciascuno» 2.  In  generale,  i  legittimisti  prestarono 
fede  alla  trama  da  lui  ordita  col  Maresca,  col  Guallecchia,  con 
Io  stesso  don  Giovanni  contro  il  viceré,  al  fine  di  dare  la  co- 
rona del  Regno  al  figlio  di  Filippo  IV.  Qualcuno  ne  dubitò  :  «il 
trattato  (scrisse  uno  dei  diaristi)  si  dice  fosse  stato  scoperto 
da  D.  Pietro  Carafa;  io  non  lo  posso  deponere  come  gli  altri 
non  di  meno  fu  pubblicato  »  ^  Altri  lo  negarono  addirittura. 

Particolarmente  se  ne  risentì  «  quasi  tutta  la  Nobiltà,  parendo 
che  le  operazioni  fatte  da  questi  Cavalieri  in  servizio  del  Re, 
in  congiuntura  così  grave,  non  meritasse  simile  ricompensa.  E  si 
andava  disseminando  da  quelli  che  non  approvavano  il  gover- 
no degli  spagnuoli  che  questi,  sempre  emuli  ed  invidiosi  della 
gloria  acquistata  dai  Cavalieri  napoletani,  andassero  procu- 
rando di  annientarli  coi  loro  artifizi  e  pretesti  per  screditarli 
e  nell'abbassamento  di  questi  far  risplendere  il  solo  nome  e 
l'autorità  loro.  Altri  attribuivano  simili  novità  alla  massima 
di  assicurarsi  nel  dominio  piuttosto  con  la  violenza  che  con 
l'amore,  ben  conoscendo  infruttuosi  li  lenitivi,  quando  la  mate- 
ria richiede  purganti.  Ed  altri  non  tralasciarono  di  sospettare  che 
tutto  fosse  artifizio,  per  più  raddolcire  il  popolo  ed  esacerbare 
la  nobiltà,  a  cui  indossavansi  dalli  spagnuoli  le  colpe  degli  eser- 
citati rigori,  per  sgravarsi  dell'  odio  portato  ai  loro  governo  »*. 

«  Molti  nobili  andavano  a  supplicare  il  Viceré  »  per  conoscere 
«  la  causa  della  carcerazione  del  Principe  »  e  dargli  agio  di  «  di- 
fendersi dall'imputazione.  Disse  l'Onatte  che,  se  egh  non  aves- 
se avuta  causa  bastante,  non  l'averia  fatto  arrestare,  che  col 
tempo  si  saria  pubbhcata  la  causa».  Ma  «per  molti  mesi  si 
tenne  celata,  per  non  insospettire  li  complici  x^. 

*  Verde  ;  Istoria. 

*  Piacente,  p.  378. 

*  Campanile  -  P'uidoro. 

*  Diario. 

*  Tartaglia. 


—  272  — 


Per  essa  il  viceré  compose  una  vera  giunta  di  stato  :  con 
reggenti,  Zufia  (a  capo),  Garcia,  e,  si  vuole  da  qualcuno,  anche 
Casanate;  il  presidente  del  Sacro  Consiglio  don  Francesco  Mer- 
lino e  il  Luogotenente  della  Camera  della  Sommaria  don  Diego 
de  Uceda  ;  i  consiglieri  don  Biase  de  Artiaga  (o  de  Buliaca) 
come  fiscale  e  don  Benedetto  Trelles,  e  i  giudici  Aniello  Porzio 
e  Giovanni  de  Burgos.  Il  consigliere  Trelles  «  scriveva  di  suo 
pugno  r  informazione  »  con  1'  assistenza  dell'  attuario  Gregorio 
Ferraro  ^  Venne  chiamata  la  «Giunta  dei  ribelli»,  e  fu  «tutta 
rigore»  per  esser  formata  di  magistrati  tutti  confidenti  del  con- 
te; il  quale  poteva  dirsene  il  presidente  effettivo,  inteso  minu- 
tamente come  volle  essere  di  quanto  vi  si  faceva. 

Le  confessioni  e  le  rivelazioni,  che  quella  Giunta  estorse  con 
la  tortura,  provocarono  succesivamente  altri  imprigionamenti. 
Cosi,  tormentato  Antonino  Maresca  con  un'ora  di  «poliedro» 
(«tormentato  alla  Spagnuola»),  «confessò  il  tutto  e  chiamò 
molti  altri,  che  anche  furono  carcerati  ed  atrocemente  tormen- 
tati per  ordine  della  Giunta  »:  confermò  la  complicità  del  priore 
della  Roccella,  di  Andrea  d'Avalos,  del  Venato,  e  del  Miroballo 
«  tutti  nobili  di  seggio  »  ;  rivelò  quello  di  Andrea  e  Giulio  Ricca 
«  gran  macchinatori  ed  omicidi  »,  che  furono  catturati  alla  fine 
di  maggio  (1649)2.  Qqs^  ^n  pescivendolo  padrone  di  barca 
Francesco  Giannella  (che  par  da  identificare  col  Guallecchia 
dei  cronisti)  già  capitano  popolare  di  Porto,  giurò  d'avere  udito 
il  principe  di  Montesarchio  dire  che  volesse  mandare  a  sangue  e 
a  fuoco  il  Palazzo  e  il  Viceré.  Ma,  al  momento  del  supplizio 
(7  ottobre  49)  per  sgravio  di  coscenza  dichiarò  aver  giurato  per 
«  paura  dei  tormenti  »,  avendo  il  principe  detto  invece  sola- 
mente che  ,  se  non  era  il  suo  rispetto  pel  viceré,  «  questi  Spa- 
gnuoli  li  manderia  a  sangue  e  fuoco  »^ 

Il  principe,  come  il  priore,  si  tenne  fermo  nella  negativa  di 

»  Cfr.  Verde;  Istoria,  e  Tartaglia. 
*  Cfr.  Tartaglia;  Verde. 
3  Registro  dei  Bianchi,  p.  144. 


—  273  — 

fronte  ai  giudici.  In  nome  della  nobiltà  napoletana  in  generale, 
fu  spedita  al  re  in  Spagna  una  relazione  della  cattura  del  d'  A- 
valos  «  eseguita  con  circostanze  di  notevole  pregiudizio  alla 
qualità  della  casa  d'  Avalos  e  dell'intera  nobiltà  napoletana  ». 
Il  marchese  di  Cervinara,  altro  cognato  del  principe,  mandò  un 
memoriale  a  parte.  Testimone  del  valore  spiegato  dal  principe 
in  servizio  della  corona,  del  dispendio  da  lui  sostenuto  e  della  fi- 
nezza dimostrata  nei  passati  tumulti  ;  conscio  di  quanto  il  buon 
credito  di  un  tal  cavaliere  e  della  sua  casa  importava  al  reale 
servizio,  il  marchese  di  Cervinara  supplicò  il  sovrano  di  ordina- 
re l'invio  del  principe  alla  sua  Corte  per  punirlo  di  sua  reale 
mano,  se  fosse  giusto,  o  premiarlo  con  cariche  ed  onori  e  lasciar- 
lo continuare  nel  reale  servizio,  sull'esempio  dei  suoi  antenati 
benemeriti  dello  stabilimento  e  della  conservazione  della  co- 
rona. Ricadeva  (non  mancò  di  avvertire  il  ricorrente)  sopratut- 
to sulla  persona  del  conte-viceré  il  carico  delle  calunnie  di  ne- 
mici, cumulato  contro  il  principe  di  Montesarchio;  e  però  alla 
giustizia  di  sua  Maestà  toccava  sottrarre  la  causa  dalle  mani 
di  un  giudice  falsamente  irritato,  che  in  fin  dei  conti  veniva 
ad  essere  parte  ^ 

Ma  anche  il  viceré,  dal  canto  suo,  spedì  a  Fihppo  IV  una  sua 
relazione  (10  maggio  1649)  per  dar  conto  del  processo  istruito 
contro  il  principe,  dichiarando  però  che  non  sarebbe  passato  ad 
esecuzione  di  sorta  senza  previo  ordine  di  Sua  Maestà.  Alla 
Corte  di  Spagna  la  cosa  fu  riconosciuta  della  più  alta  impor- 
tanza. Interpellatone  dal  re  il  Consiglio  di  Stato  (29  giugno 
1649),  espresse  il  parere  che  il  principe  dovesse  esser  tradotto 
in  Spagna.  In  considerazione  della  gravità  eccezionale  della 
materia,  Filippo  IV  formò,  di  suoi  ministri  di  stato  e  di  mi- 
nistri del  Consiglio  d'Italia,  una  nuova  Giunta  consultiva;  che 
poi,  pel  giudizio  definitivo,  ampliò  ancora,  chiamando  a  farne 
parte  le  più  eminenti  personalità  di  Spagna,  come  i  conti  di 
Monterey,  di  Mora  e  di  Peiiaranda;  i  marchesi  di  Leganes  e 
di  Veleda;  il  duca  della  Montagna,  i  reggenti  don  Gaspare  di 
Sobramonte  e  Tomaso  Brandolino  napoletano  (15  giugnol651)  ^ 


»  Arch.  Simancas,  Estado,  Legajo  218,  f.  16  sg. 
»  Arch.  cit.,  Leg.  cit. 


—  274  — 

Parere  di  quella  prima  giunta  consultiva  fu  che  una  causa 
contro  il  principe  di  Montesarchio  si  sarebbe  dovuta  dilatare 
anche  al  marchese  del  Vasto  e  ad  altri  cavalieri  della  più  alta 
nobiltà  del  paese;  consistere  bensì  la  maggior  sicurezza  della 
giustizia  nel  lasciarne  libero  il  corso  contro  i  colpevoli  ;  ma  ciò 
non  sembrare  la  cosa  più  conveniente  nel  presente  caso,  datele 
circostanze  attuali,  l'esempio  dei  Paesi  Bassi  e  la  necessità  di 
acchetare  e  conservare  il  regno:  necessità  senza  dubbio  più  ur- 
gente della  stessa  giustizia  e  però  da  far  prevalere. 

In  questi  sensi  quindi  rispose  il  Sovrano  al  viceré,  in  cifra  e 
per  corriere  espresso,  ordinandogli  di  separare  gl'imputati  con- 
fessi dai  negativi;  far  giustizia  d'alcuni,  evitan  o  quanto  fosse 
possibile  il  tormento  «  come  cadavere»;  e,  quanto  al  principe  di 
Montesarchio  e  al  priore  della  Roccella,  inviarli  in  Ispagna  se- 
paratamente su  navi  diverse  sotto  buona  scorta,  quand'anche 
se  ne  fossero  chiusi  i  processi,  e  con  loro  spedire  altresì  i  voti 
e  le  motivazioni  dei  giudici.  A  spedizione  eseguita,  si  pubblicasse 
perdono  generale  fino  a  quel  yorno,  esclusine  i  carcerati  e  con- 
fessi per  la  stessa  causa  (10  decembre  1649)  ^. 


Quando  quegli  ordini  giunsero  a  NapoH,  da  un  anno  incirca 
erano  cominciati  i  supplizi  «per  la  nuova  congiura  di  volere  am- 
mazzare Sua  Eccellenza  »  ^. 

A  quegli  ordini  il  viceré  si  dichiarò  pronto  ad  obbedire,  a  pa- 
role. Agli  effetti  però,  scusandosi  di  dover  per  allora  «  imbaraz- 
zare »  ad  altro  scopo  i  vasceUi  e  le  galere  disponibili,  e  adducendo 
di  aver  motivi  per  non  procedere  per  allora  a  pubblicità  di  sorta 
(2  febbraio  1650)  ^  continaò  a  lasciar  eseguire  le  condanne  ca- 
pitali decretate  della  «  Re^^ia  Giunta  »  napoletana.  E,  se  di  essa, 
come  qualcuno  asserì,  faceva  parte  .il  reggente  di  Cancelleria 
Mattia  Casanatte,  il  rigore  del  viceré  non  si  arrestò  nemmeno 


»  Ivi. 

*  Registro  dei  Bianchi,  p.  140  :  presenta  impiccato  per  quella  causa  un 
Carlo  Feroce  pescatore  ventottenne  ai  27  febbraio  1649. 
»  Arch.  Simancas,  loc.  cit.  :  Monterey  al  re,  21  aprile  1650. 


—  275  — 

davanti  ai  membri  della  stessa  Giunta.  Perchè,  senza  che  se 
ne  dica  il  motivo,  sappiamo  che  egli  ordinò  la  relegazione  di 
quell'insigne  magistrato  nel  castello  di  Taranto  agh  11  febbraio 
1651  ;  e,  benché  vecchio  e  malsano,  lo  fece  partire  in  quella 
stessa  giornata  di  quella  dura  stagione.  Sicché  ai  4  lugho  suc- 
cessivo giunse  a  Napoli  la  notizia  della  sua  morte  \  Un  mese 
dopo,  fu  decapitato  il  cavaliere  don  Ferrante  delU  Monti  dei 
marchesi  di  Corigliano,  da  tre  anni  rinchiuso  nel  carcere  di  Ca- 
stelnuovo  (18  marzo  1651)  \  Fu  dopo  quel  supplizio  che  il  conte 
d'Onatte  potè  annunziare  alla  Corte  di  Spagna  che  s'era  con- 
dotta a  termine  la  compilazione  del  processo  dei  rei  confessi 
0  convinti  di  fellonia  posteriore  alla  pacificazione  dell'aprile 
1648  ;  che  erano  prossimi  i  pubblici  supphzi  dei  peggiori  delin- 
quenti ,come  i  Ricca ,  il  Palumbo,  il  Maresca  e  compagni;  e 
con  ciò  si  sarebbero  una  buona  volta  estinte  le  trame,  che  dopo 
la  pace  non  avevan  cessato  di  alterare  questo  popolo.  «  Il  po- 
polo (aggiungeva  il  viceré  a  comento)  col  suo  Eletto  mi  ha  man- 
dato a  dire  che,  se  voglio,  saranno  essi  stessi  i  boia  (verdugos) 
di  questi  uomini.  Vostra  Maestà  può  stare  sicura  dell'affetto  di 
queste  popolo  ».  Solo  allora  in  fine  informò  che  avrebbe  spedito 
il  principe  di  Montesarchio  e  il  priore  della  Roccella  con  copia 
autentica  della  parte  che  li  riguardava  del  processo  e  relazione 
al  re  degli  espedienti  risolati  pei  prigionieri  di  minor  qualità 
o  di  colpa  men  grave  (10  maggio  1651)^. 

Spedì  infati  quella  copia,  fatta  stendere  di  pugno  dagli  stessi 
ministri  della  Giunta,  e  impartì  gh  ordini  per  l'imbarco  e  il  tra- 
gitto fino  a  Valenza  dei  due  prigionieri  più  illustri  *. 

Prima  di  qu'^Ua  partenza  fu  giustiziato  nella  piazza  del  Mer- 
cato, dopo  due  anni  di  carcere,  Andrea  Ricca.  Gli  si  accordò  «il 
privilegio  di  decapitarlo  per  esser  stato  un  tempo  capitano  di 
Strada  »  (9  maggio  1651).  Lo  segui,  il  giorno  dopo,  suo  fratello 
GiuUo  0  Giulio,  e,  dopo  due  altri  giorni,  il  dottore  Carlo  Censale 

1  Giornale  istorico  dei  tumulti  popolari  e  dei  loro  eventi  accaduti  t  delle 
pene  dei  delinquenti  da  Luglio  1647  per  li  16  Gennaro  1662,  ms.  XXVI,  B, 
14  della  Soc.  Stor.,  f.  84. 

«  Reg.  dei  Bianchi,  p.  147. 

»  Ardi.  Simancas,  Leg.  cit.,  f.  14  sg. 

*  Arch.  clt.,  Leg.  cit.,  t.  13  sg. 


—  276  — 

e  i  capitani  Giuseppe  Palumbo,  Giambattista  Sparano  e  Giu- 
seppe de  Palma.  Furono  poi  impiccati  (ai  15  maggio)  Francesco 
Marranzino,  scrivano  di  dogana,  Agostino  Mandara,  negoziante 
di  drappi,  e  Francesco  Mazziotta. 

Antonino  Mar  esca,  «  per  sfuggire  la  morte  si  fìnse  pazo».  Non 
gli  valse.  Tradotto,  quella  stessa  mattina  del  15  maggio,  dal 
carcere  del  Castello  a  quello  di  S.  Giacomo  e  consegnato  ai 
Bianchi  per  essere  condotto  al  Mercato,  «stiede  ostinato  a  non 
confessarsi  sino  alla  metà  della  strada;  ma  poi  si  confessò  e 
comunicò  innanzi  al  Carmine»,  ed  ebbe  mozzo  il  capo:  «  pena 
molto  poca  (giudicò  questa  e  le  altre  il  dottor  Andrea  Ru- 
bino) ai  loro  misfatti  »  ^.  E  naturalmente  non  solo  il  Rubino. 
Il  luogotenente  della  regia  Camera  (don  Diego  de  Uceda, 
ch'era  poi  uno  dei  componenti  della  Giunta  napoletana),  incari- 
cato dal  governo  centrale  di  avvisare  se  mai  il  viceré  trasgre- 
disse ai  sovrani  voleri  o  si  arrogasse  provvedimenti  riservati  a 
Sua  Maestà,  assicurò  che  quelle  giustizie  si  erano  eseguite  «  con 
gran  so  disfazione  della  gente  del  Mercato  e  dei  quartieri  vicini  »  ; 
che  non  si  «  poteva  parlare  di  rigore,  ma  di  pietà  e  generosità  »  ^ 


Da  cotale  pietà  solo  a  stento  potè  salvare  l'essere  «titolati  e 
di  gran  sangue  ».  Andrea  Miroballo  povero,  ma  nobile  di  seggio, 
ebbe  carcere  a  vita  nel  Castello  di  Manfredonia.  Il  principe  di 
Montesarchio  e  il  priore  della  Roccella  furono  imbarcati  su  due 
vascelli  diversi  della  squadra  che  salpò  ai  23  maggio  1651  per 
rilevare  a  Finale  truppe  milanesi  e  siciliane  e  condurle  all'as- 
sedio di  Barcellona  ^ 

Egualmente  in  Spagna  gl'imputati  furono  chiusi  in  carceri 
separate,  e  ci  rimasero  per  più  di  un  anno.  Prima  del  loro  ar- 
rivo a  Valenza,  la  Giunta  di  stato,  ampliata  nel  modo  che  si  dis- 
se, aveva  ricevuto  ordine  di  presentare  al  re  una  consulta  circa 
il  partito  più  conveniente,  prima  di  sentenziare  di  giustizia. 


1  Cfr.  Rubino  ;  Istoria  delle  guerre  civ.;  Reg.  dei  Bianchi,  p.  148. 

=^  Lettera  del  23  maggio  1651  nell'Arch.  di  Simancas,    Leg.  cit.;,  f.  16. 

'  Cfr.  Rubino  ;  Verde  ;  Istoria  cit. 


—  277  — 

Dall'esame  del  processo  napoletano,  dallo  studio  di  tutta  la 
congerie  dei  documenti  allegati,  evidentemente  non  risultò 
punto  un'  inesistenza  di  reato,  perchè  la  consulta,  redatta  ai 
18  ottobre  1652,  lascia  intendere  che  il  reato  fu  visto.  Ma,  bi- 
lanciate le  ragioni  giudiriche  con  le  convenienze  politiche  è  sta- 
tali ;  reputata  più  utile  al  servizio  del  re  la  considerazione  di 
queste  ultime,  si  consigliò  che  non  si  procedesse  oltre  per  ter- 
mini di  giustizia,  e  in  conseguenza  fossero  rimessi  in  libertà 
gl'imputati.  Senonchè,  per  non  trascurare  in  tutto  i  risultati 
del  processo  informativo  e  la  conseguente  tensione  fra  gl'impu- 
tati e  il  viceré,  si  opinò  che,  almeno  durante  il  governo  del 
conte  di  Onatte,  fosse  loro  vietato  il  rimpatrio,  divertendoli 
con  impieghi  del  real  servizio  dove  e  come  piacesse  al  re  ^ 

Per  tale  calcolata  clemenza  Andi-ea  d'  Avalos  riebbe  la  li- 
bertà, ma  con  la  «grazia»  di  non  lasciar  la  Corte  per  qualche 
tempo.  E  in  Corte  rimase  «  a  servire  (fu  scritto,  e  si  legge  con 
qualche  sorpresa)  Sua  Maestà  appresso  il  Serenissimo  Signor 
don  Giovanni  d'Austria,  che  con  particolare  prudenza  conobbe 
il  valore  di  questo  personaggio  e  la  sua  fedeltà»  ^  E  in  Corte  ten- 
ne alto  e  fece  rispettare  l'onore  del  suo  paese  e  piacque  allo  spi- 
rito ibericamente  cavalleresco  di  Filippo  IV  o,  come  si  disse,  alla 
«  innata  pietà  di  un  re  amatore  del  giusto  ».  Un  giorno  nell'an- 
ticamera del  re  s'incontrò  con  Luca  de  Andrada,  che  in  Napoli 
(notò  sarcasticamente  il  nostro  diarista)  aveva  servito  Sua 
Maestà  da  sergente  maggiore  durante  i  tumulti,  «pigliando 
ogni  sera  il  Palazzo,  quando  con  ogni  sicurezza  assisteva  al- 
l'entrata di  Guardia,  e  pigliar  le  smisurate  paghe  del  soldo, 
senza  il  beneficio  che  di  più  ne  traeva  con  l'approveccio  (per 
non  dire  hurto  o  furto  )  delle  paghe  delli  poveri  soldati  bisogno- 
si». E,  poiché  lo  udì  parlare  di  NapoU  e  rammentare  che  questa 
nostra  città  si  fosse  prima  venduta  ai  francesi  e  poi  lasciata  ri- 
conquistare dagli  spagnoli,  gli  dette  pubblicamente  del  mentito- 
re e  lo  sfidò  a  duello.  La  giusta  indignazione  parve  ai  cortigiani 
audace  mancanza  di  rispetto  verso  il  re  ;  e  ghene  fecero  rimo- 
stranza. Ma  questi  «approvò  l'ardire  dell'Avalos  per  degno  di 


^  Ardi.  Simancas;  Lcg.  cit.,  f.  11  sgg.  e  21  sgg. 
*  Istoria  delle  guerre  civili.  Cfr.  Verde. 


—  278  — 

un  signor  valoroso  e  amatore  della  riputazione  della  sua  patria 
e  fedele  al  suo  re  »  ^. 

A  parte  ogni  altra  ragione  e  convenienza  politica,  lo  stesso 
crimenlese  del  principe  di  Montesarchio  pel  cuore  di  Filippo  IV 
poteva  non  essere  stato  che  un  eccesso  di  amore  pel  suo  dilet- 
tissimo e  finallora  unico  figliolo.  Ad  ogni  modo,  egli  colmò  di 
favori,  di  cariche  e  di  onori  il  graziato  fellone.  Al  termine  del 
doppio  triennio  del  governo  del  conte  d'  Onatte  Filippo  IV 
assegnò  al  principe  d'Avalos  una  pensione  privilegiata  (1654)  ^ 
Lasciato  quindi  rimpatriare  ^,  nominato  generale  dei  vascelli 
napoletani,  poi  governatore  dell'  armata  spagnola,  poi  capi^ 
tano  generale  delle  galee  siciliane,  elevato  «  per  la  sua  per- 
sona e  casa  »  a  Grande  di  Spagna  (onore  che  gli  fruttò  un'  an- 
nua rendita  di  altri  ottomila  ducati)*,  ben  visto  e  sempre  pro- 
tetto da  don  Giovanni  d'Austria,  non  maraviglia  che  il  prin- 
cipe di  Montesarchio  si  piegasse  alla  forza  del  fato  e  (caso  non 
raro)  convertisse  gl'indocili  spiriti  di  ribellione  degli  anni  gio- 
vanili in  lealismo  zelante  e  fedeltà  operosa  verso  lo  stesso  Fi- 
lippo IV  e  poi  verso  Carlo  Ile  verso  il  sucessore  da  costui  de- 
signato al  trono  di  Spagna. 

Partecipò  in  servizio  del  primo  alla  guerra  di  Portogallo 
(1660)  ;  servi  il  secondo,  guerreggiando  la  ribelle  Messina  ^. 
E,  quando  dall'opposizione  napoletana  alla  successione  borbo- 
nica in  Spagna,  parve  risbocciare  l' idea  dell'indipendenza,  in- 
carnata nel  secondogenito  di  Leopoldo  d'Austria  imperatore,  la 

*  Campanile  -  Fuidoro.  Cfr.  Capegelatro,  III,  Ann.,  p.  19. 

*  Di  ducati  1500  annui  «  sopra  gli  efletti  t>traordinari  »  esente  da  ogni 
ordine  di  sospensione  di  mercedi.  V.  Giuliano  Biagio,  Pandetta  seu  Re- 
pertorio de  Regali  ordini  di  S.  M.  dai  principii  del  XVI  sec.  all' a.  1722;  to. 
I  e  II  (ms.  XXVII,  B;  11  bis  e  12  della  Soc.  Stor.):  cedole  del  13  nov.  1674, 
e  del  29  maggio  1695. 

3  In  Napoli  nel  1659  ricevè  per  1'  «  apprezzo  dei  suoi  vassalli  »  Reali 
Castigliani  423.  848  ;  dei  quali  decretò  il  re  che  il  principe  non  dovesse  dar 
conto  veruno,  come  nemmeno  di  quante  altre  partite  gli  si  erano  date  «  per 
conto  dei  suoi  Assienti  »  :  Carta  reale  del  17  aprile  1662,  in  Giuliano  cit., 
tom.  I. 

*  Giuliano  cit.,  to.  II  :  ordine  del  2  agosto  1702  e  2  maggio  1703. 

'  Aldimari  B.,  Memorie  Hist.  di  diverse  famiglie,  p.  16;  Parrino,    Tea 
irò,  HI,  92,  419,  453  e  474. 


—  279  — 

vecchiaia  (se  pure  non  nonagenaria,  come  si  asserì)  sicuramente 
inoltrata,  non  impedi  al  principe  di  Montesarchio  di  uscire  in 
campo  in  seggetta,  guidando  la  nobiltà  borbonica  e  la  solda- 
tesca spagnola  contro  gl'insorti  austriacanti  (23  settembre 
1701). 

Tra  questi  ultimi  si  era  gittato  l'inetto  e  borioso  cugino 
suo,  don  Cesare  d'Avalos,  marchese  del  Vasto  e  di  Pescara, 
gran  camerario  del  regno.  Costretto  quindi  ad  enaigrare,  fu 
dall'imperatore  nominato  suo  maresciallo  di  campo;  da  Fi- 
lippo V  condannato  a  morte  ed  alla  confisca  \  Onde  il  vecchio 
principe  apri  l'animo  alla  speranza  di  congiungere  al  suo  il 
pingue  dominio  del  congiunto  ;  e  lo  richiese  ^  Ma,  se  avea  po- 
tuto disperdere  i  tumultanti  del  1701,  i  suoi  e  gh  altrui  sforzi^ 
di  sei  anni  dopo  non  valsero  ad  impedire  l'entrata  in  Napoli 
degli  Austriaci^. 

Quel  trionfo  dei  suoi  avversari,  del  resto,  si  sa  che  non  pro- 
dusse l'indipendenza  speratane;  mantenne  ancora  per  altri  ven- 
tisette anni  soggetto  il  regno  ad  un  sovrano  lontano  —  Carlo 
allora  terzo  di  Spagna,  poi  sesto  imperatore.  Ma  il  soccom- 
bente vegliardo  non  potè  sicuramente  sopravvivere  tant'  altro 
da  vedere  un  figlio  del  re  di  Spagna,  non  erede  di  quel  regno, 
venire  a  restaurare  l'indipendenza  delle  due  Sicilie,  come  di 
don  Giovanni  egh  aveva  sognato  nella  sua  giovinezza. 

fine 

Michelangelo  Schifa 


»  Diploma  imperiale  del  16  decembre  1701  e  sentenza  di  Filippo  V  in 
Granito,  La  congiura  di  Macchia^  I,  Ann.^  p.  84;  II,  Ann.,  p.  10. 

*  Giuliano,  II  :  ordine  del  9  settembre  1703  per  distinta  informazione 
»  circa  la  pretenzione  del  Principe  di  Montesarchio  sopra  la  causa  del  Mar- 
chese del  Vasto  y  Pescara  per  delitto  della  ribellione  ». 

•  Granito,  op.  clt.,  I,  124  ;  II,  157. 


LA    PRIGIONIA    DI  MALIZIA  CARAFA 

E      LE 

SUE  SUPPLICHE  A  PAPA  CLEMENTE  XI 


Fallito  il  tentativo  di  abbattere  il  governo  spagnolo  a  Na- 
poli col  sanguinoso  tumulto  del  23-24  settembre  1701,  Malizia 
Garafa,  che  della  congiura  era  stato  tra  i  più  audaci  organizza- 
tori, dopo  d'essersi  accanitamente,  ma  invano,  battuto  con  le 
milizie  del  duca  di  Popoli,  riusci  a  scampare  con  altri  amici  ed 
avviarsi  a  Benevento.  Quivi  s'era  appunto  «manipolata  la  mi- 
na che  poi  scoppiò  a  Napoli  »^;  quivi,  lontani  dagli  occhi  indi- 
screti del  viceré,  tra  le  mura  guardate  dai  birri  del  Gover- 
natore, i  turbolenti  s'eran  dato  per  l'innanzi  convegno,  non 
ostante  gli  scrupoli  del  cardinale  Orsini,  tenero  dei  Francesi 
come  degli  Spagnoli  ^.  Tanto  più  che  il  principe  della  Riccia, 
padrone  di  molti  feudi  in  Altavilla,  vantava  stretta  parentela 
tra  i  patrizi  della  città  e  contava  numerosi  vassalli  fìnanco^ 
tra  i  gendarmi  del  bargello  laicale  ^.  Malizia,  perciò,  memon 
dell'affetto  che  lo  legava  al  principe  e  sicuro  della  protezione 
di  lui,  credeva  di  trovarsi  come  in  casa  propria  con  don  Sa- 


1  Archivio  segr.  Vaticano,  Cardinali,  t.  66,  p.  144,    lettera   originalej 
di  Orsini  a  Paolucci,  segretario  di  Stato. 

2  Dopo  la  battaglia  di  Luzzara  fece  cantare  un  solenne  Te  Deum  per  li 
vittoria  dell'armata  cattolica,  indicendo  preghiere  con  pubblico  awis( 
del  24  agosto  per  la  salute  di  Filippo  V.  Cfr.  Landau,  Rom,  Wien,  Neapell 
Leipzig,  1885,  p.  133,  nota.  Appena  sedati  i  tumulti  del  23-24  sett.  si  afH 
frettava  a  congratularsi  col  Viceré,  di  cui  si  protestava  «  fedele  vassallo 
V.  Archivio  della  Curia  di  Benevento,  Lettere  di  Ministri  Regi,  t.  28^ 
p.  61. 

»  Arch.  segr.  Vaticano,  1.  e. 


—  281  — 

verio  Rocca,  suo  compagno  di  sventura.  Onde  quando  gli  ar- 
migeri del  Riccia  gli  uscirono  incontro  a  S.  Leucio  —  paese 
dello  Stato  pontificio  —  col  pretesto  di  soccorrerlo,  era  ben  lon- 
tano dal  supporre  un'insidia  e  un  tradimento. 

Quel  che  avvenne  in  seguito  è  noto  per  la  narrazione  del 
Granito  ^.  —  Legati  entrambi  e  trascinati  fino  allo  «  stretto  di 
Barba  »,  Carafa,  già  rassegnato  a  morire,  aveva  chiesto  di  con- 
fessarsi a  un  frate  che  per  caso  di  là  passava  2,  e  sarebbe  stato 
certamente  ucciso  se  la  pietà  della  moglie  del  principe  non 
avesse  scongiurato  gli  ordini  del  perfido  marito. 

Una  relazione  inedita  di  Orsini  al  cardinale  Paolucci  — Se- 
gretario di  Stato  —  aggiunge  qualche  altro  particolare  scono- 
sciuto: «  La  notte  del  lunedi  —  26  settembre  —  calarono  a  pie- 
di in  un'osteria  presso  Benevento  ;  la  mattina  del  martedì  si 
rifugiarono  nella^ chiesa  vicina  della  Libera  ^  e  dimandarono  la 
fiela  a  mons.  Governatore,  che  prudentemente  negolla. 

«  Dubitando  poi  di  essere  con  facilità  uccisi  fuori  delle  mura, 
entrarono  in  città  verso  1'  bora  di  pranzo,  e  presero  addi- 
rittura il  cammino  verso  l'Episcopio,  e,  trovatolo  chiuso,  anda- 
rono alla.porta  laterale  della  Metropolitana,  che  parimente  era 
chiusa.  Quindi  si  fermarono  fino  a  23  bore,  protestandosi  che 
volevano  bagnare  col  loro  sangue  quella  sacra  soglia,  dolendosi 
che  non  gli  era  aperta  la  porta  dai  Canonici.  In  tutto  questo 
tempo  vi  fu  gran  concorso  di  popolo,  affollatosi  per  curiosità. 
Dicesi  che  l'accennata  sig.ra  principessa  per  compassione  fa- 
cesse loro  dire  da  un  suo  domestico  che  la  notte  potevano  in 
quel  luogo  aperto  correre  pericolo  di  essere  uccisi,  e  che  perciò 
si  ritirassero  nella  vicina  chiesa  di  S.  Bartolomeo*. 


*  Granito  -  Belmonte,  Storia  della  congiura  del  principe  di  Mac- 
chia, Napoli,  1861,  I,  159. 

'  Arch.  segr.  Vaticano,  1.  e. 

'  Cappella  rurale  distante  meno  di  un  chilometro  dalla  Porta  Ruflna, 
sulla  via  provinciale  che  mena  a  Napoli. 

*  Ricostruita  dalle  fondamenta  per  il  terremoto  del  1688  non  era  an- 
cora aperta  al  culto  e  «  prestava  secura  ritirata  »  ai  delinquenti,  comuni- 
cando con  un  edifizio  di  poche  stanze,  anch'esso  fatto  costruire  da  Orsini. 
(Cfr.  Arch.  segr.  Vaticano,  Nunziatura  di  Napoli,  t.  128,  leti,  del  Go- 
vernatore di  Benevento,  30  sett.  1701). 

Anno  XLV.  19 


—  282  — 

«  Accettato  il  consiglio,  cominciarono  a  far  istanza  che  si  par- 
tisse la  gente  ragunata,  o  che  fussero  rassicurati  nel  transito  du- 
bitando di  qualche  archibusata  nel  passaggio.  Vi  accorsero  i  cur- 
sori della  mia  Curia,  che  fecero  slontanare  la  folla  del  popolo 
ed  in  tal  maniera  amendue,  il  don  Malizia  e  il  don  Saverio,  verso 
le  23  ore  entrarono  nella  suddetta  Chiesa.  In  questa,  la  mattina 
e  il  giorno  seguente  si  ritirarono  parimente  in  habiti  di  frati  gli 
altri  due:  Lopez  e  Calideo nella  congiuntura  che  si  celebra- 
vano l'esequie  a  un  defunto  Canonico  di  quella  Collegiata  »  ^. 

Frattanto  T  i  rei  vescovo  che  si  trovava  a  Castelpagano  per 
la  santa  visita,  informato  del  fatto,  spediva  nella  notte  stessa 
del  27  settembre  un  corriere  al  suo  vicario,  con  l'ordine  di  ar- 
restare i  profughi  a  tenore  della  bolla  di  Clemente  Vili,  e  di 
consegnarli  con  pubblico  istrumento  alle  carceri  del  castello, 
in  attesa  delle  disposizioni  pontifìcie.  Questi,  invece,  cominciò 
a  discutere  sull'ubbidienza  al  suo  prelato,  e  mons.  Valerio  Rota, 
allora  governatore  della  città,  pur  essendo  in  ottime  relazioni 
con  l'Orsini  — fatto  rarissimo  fìno  allora — ,  si  ricusò  di  riceverli, 
«  perchè  doveva  mostrarsi  indifferente  come  ministro  di  Sua 
Beatitudine.  » 

A  ciò  si  aggiunsero  i  maneggi  di  Malizia  che  temeva  di  essere 
avvelenato  dagli  sbirri,  tra  i  quali  alcuni  eran  dipendenti  del 
Riccia.  Il  popolo  allora  cominciò  a  commuoversi  per  la  venti- 
lata minaccia  di  un  assedio,  ma  il  governatore,  senza  troppo 
preoccuparsi  dell'avvenire,  rispondeva  al  Nunzio  di  Napoli  : 
«se  verrà  la  violenza  delle  milizie  del  regno,  io  ne  sarò  scusato: 
per  altro  non  voglio  impegnare  la  mia  persona,  né  tampoco  h 
S.  Sede  in  queste  materie  »  ^. 

In  verità  monsignore,  per  guardarsi  le  spalle  ed  anche  perchi 
«era  mal' affetto  alla  Corona  di  Spagna»  3,  non  poteva   rego- 
larsi meglio,  ma  al  pio  Orsini  non  piacque  il  comodo  ripiegojl 
ne  fu  anzi  turbato,  e,  abituato  a   scansare  tutti  gl'inciampi»! 
magari  dando  un  po'  di  ragione  a  tutti,  senza  sconciarsi  co] 


1  Arch.  segr.  Vaticano,  Cardinali,  t.  66,  p.  144. 
»  Arch.  segr.  Vaticano,  Nunziatura  di  Napoli,  t.  128,  lett.  del    29   sett.; 
1701. 

»  Ivi,  t.   130. 


—  283  — 

alcuno,  si  dibatteva  fra  le  angustie  di  una  risoluzione  che 
fosse  meno  nociva  ^  Erano  vivi  infatti  i  ricordi  dei  furiosi 
tumulti  sollevati  nella  piccola  città  del  Papa  a  tempo  dell'ar- 
civescovo Poppa,  suo  predecessore,  quando  colà  ripararono 
don  Giuseppe  Carafa,  chierico  beneficiato,  ed  il  padre  del  Prin- 
cipe della  Riccia E  così  per  non  errare  in  «  cosa  cotanto  ge- 
losa »,  ci  tenne  a  chieder  consigli  al  cardinale  Cantelmo,  di 
Napoli,  uomo  anch'esso  abbastanza  pratico  della  politica  vice- 
reale per  aver  avuto  più  d'una  volta  bisticci  col  Collaterale. 
E  questi  che  poco  prima  aveva  alzato  la  mano  benedicente  sui 
soldati  diretti  alle  barricate  di  S.  Lorenzo,  e  nella  Cattedrale 
aveva  a  lungo  pregato  S.  Gennaro  per  la  disfatta  dei  ribelli  2, 
ora  s'  affrettava  a  suggerire  all'  amico  —  amico  tanto  da  chia- 
marlo al  suo  letto  di  morte  ed  affidargli  il  testamento  ove  di- 
ceva di  morire  senza  un  carlino  ^  —  il  partito  di  assicurare  don 
Malizia  nelle  prigioni  del  Vescovado,  senza  troppo  preoccu- 
parsi dell'evidente  violazione  dell'immunità.  Oramai  —  scri- 
veva —  il  papa  avea  già  da  tempo  rilasciata  l'antica  disciplina 
su  questo  punto,  e  a  lui  pure  avea  concessa  più  d'una  volta  la 
facoltà  d'estrarre  financo  dai  chiostri  i  monaci  sediziosi,  che 
impunemente  tramavano  congiure  e  rivolte*. 

Comunque,  tra  Clemente  XI  e  Medina  passò  un  frettoloso 
carteggio,  e  fu  deciso  di  rinchiudere  i  cospiratori  nelle  carceri 
ecclesiastiche,  in  attesa  di  tempi  migliori^. 

A  Benevento  intanto  sospetti  e  malumori  crescevano  a  dismi- 
sura. 

La  notte  del  3  ottobre  bastò  la  falsa  voce  che  le  truppe  di  Na- 


^  «  Non  ho  ordinato  »  — scriveva  1'  Arcivescovo  al  Cardinal  Segretario  — 
«che  i  due  si  custodissero  nelle  mie  carceri...  affinchè  non  apprendesse  il 
Sig.  Viceré  che  io  difendo  nel  mio  Episcopio  i  traditori  di  questo  Regno  »: 
Arch.  segr.  Vaticano,  Cardinali,  t.  66;  pp.  144  e  sgg. 

2  Granito,  op.  e,  1, 137. 

*  Arch.  segr.  Vaticano,  Cardinali,  t.  67,  p.  346,  lettera  di  Orsini  al 
Papa  sulla  morte  del  cardinal  Cantelmo,  del  15  die.  1702. 

«  Ivi,  Clemente  XI,  t.  45,  passim.  Per  maggiori  particolari  vedi  il  mio 
scritto:  L'Acqua  tufania  a  Napoli  e  le  contese  del  card.  Francesco  Pignatelli, 
in  questo  Archivio,  XL,  3-4  e  XLI,   2-3. 

»  Ivi,  Cardinali,  t.  66,  pp.  156  e  sgg. 


—  284  — 

poli  erano  entrate  nello  Stato  pontificio,  perchè  il  popolo  si  met- 
tesse in  scompiglio:  il  vicario  fece  sonare  le  campane  a  1'  armi  e 
cento  «  patentati»,  muniti  di  daghe  e  di  pistole,  si  distribuirono 
parte  al  campanile  del  duomo  e  parte  a  S.  Bartolomeo  ^.  Ma  in 
verità,  quell'  assedio,  che  tutti  gli  storici  ricordano,  non  si  veri- 
ficò mai,  tanto  meno  era  mai  passato  per  la  mente  del  viceré  ^. 
Piuttosto  la  minaccia  e  1'  allarme  si  dovettero  unicamente  alla 
spavalderia  di  un  maestro  di  campo,  il  quale,  andato  dal  pro- 
curatore di  S.  Chiara  per  ottenere  migliore  trattamento  ai  sol- 
dati posti  a  guardia  di  quella  chiesa,  si  era  millantato  con  lui 
«  che  subito  che  le  truppe  fossero  giunte  da  Milano  e  da  Spagna, 
non  si  sarebbe  mancato  di  mandarne  un  buon  numero  a  Bene- 
vento per  prendere  con  la  forza  Malizia  e  compagni e  che 

si  sarebbe  portato  all'occorenza  anche  il  cannone  »  ^. 

Muniti  di  armi  e  di  vettovaglie,  e  fatte  murare  le  finestre  della 
casa  attigua  alla  chiesa,  Garafa  e  Rocca  non  vollero  arrender- 
si ai  cursori  della  Curia,  e  si  dovè  ricorrere  al  preside  di  Monte- 
fusco  per  ottenere  un  valido  presidio  di  soldati  ed  evitare  guai 
maggiori*. 

Assediato  l'edifìcio,  si  sperava  ridurli  per  fame. 

La  resistenza  durò  quasi  una  settimana.  Finalmente  la  sera 
del  7  ottobre  dopo  un  violento  incrocio  di  fucilate,  i  birri  riusci- 
rono a  penetrare  nell'interno,  e  trassero  fuori  con  forza  Fran- 
cesco Lopez,  Gaetano  Noto,  che  si  faceva  chiamare  di  Tota,  Ni- 
colò CedroH,  Nicola  Rubino  —  conosciuto  sotto  il  falso  nome  di 
Galideo — e  tre  servi:  Francesco  di  Peppe,  Andrea  Simonetto  e 
Nicola  Riccio.  Questi  due  ultimi  furono  rilasciati  per  mancanza 
d' indizi;  a  Lopez  e  a  Rubino  si  permise  di  ricoverare  nella  chiesa 
di  S.  Modesto;  gli  altri  passarono  con  don  Malizia  alla  prigione 
del  Vescovado^.  Ma  l'inconsulta  preferenza  del  vicario  neppure 

1  Ivi,  Nunziatura  di  Napoli,  t.  128,  p.  128,  lettera  di  Mons.  Rota  al| 
Nunzio  del  4  ott. 

2  Ivi,  Nunziatura  di  Napoli,  Cifre  segrete  del  Nunzio,  1. 129,  p.  27, 19nov. 

3  Ivi,  1.  e. 
<  Ivi,  Vescovi,  t.  93,  p.  543,  comunicazioni  di  Mons.  Rota  al  card.  Pao-i 

lucci,  non  già  per  assediare  la  città  ed  estrarre  con  violenza  i  profughi,  co-j 
me  afferma  il  Granito  (1.  e.) 
6  Ivi,  Cardinali,  t.  66,  p.  162. 


—  285  — 

andò  a  genio  al  timido  arcivescovo  ed  ecco  nuove  dispute  presso 
il  Collaterale  perchè  si  ponderassero  le  ragioni  degli  altri  ^. 

Quel  giorno  il  trasporto  dei  rei  alle  carceri  non  era  avvenuto 
senza  proteste  ed  alterchi  e  tra  gli  amici  di  Malizia  s'era  fatto 
gran  bisbiglio,  perchè  mai  come  allora  gli  ecclesiastici  aveano  of- 
fesa con  più  violenza  l'immunità;  mai  come  allora  s'era  compiuta 
più  grave  ingiustizia.  Ed  eccitandosi  gli  animi,  e  ribollendo  di  sde- 
gno, non  tardarono  i  prigionieri  a  far  giungere  le  loro  lagnanze 
al  papa:  per  giunta  la  sbirraglia  non  aveva  alcun  freno  nel  trat- 
tarli malamente  ^  e  insolentiva  fin  troppo  contro  il  grado  di  lor 
nobiltà.  E  il  cardinale,  paziente  e  mite  sempre,  fatto  consapevole 
dal  Paolucci,  mandò  da  Vitulano  il  suo  confessore,  il  cameriere 
ed  il  medico  Volpe  per  provvederli  del  necessario  ^  e  poiché  la 
fazione  s' ingrossava,  temendosi  «  qualche  insulto  alle  carceri 
arcivescovili  »,  il  governatore  del  castello,  messo  sull'avviso  dal 
duca  di  Medina  Coeh,  non  esitò  a  munire  di  più  accorta  guarni- 
gione le  porte  della  città,  affinchè  si  arrestasse  la  gente  so- 
spetta *.  Furon  perquisite  le  case  dei  patrizi  e  lo  stesso  monastero 
di  S.  Vittorino  fu  posto  a  soqquadro,  mormorandosi  in  città  che 
il  principe  della  Riccia  bazzicasse  in  clausura  con  grave  scandalo 
del  pubblico  ^.  Fra  le  altre  corsero  dicerie  pure  sul  conto  del  ca- 
uonico  Baglioni,  abate  di  S.  Sofia  e  procuratore  dei  canonici 
regolari,  essendosi  trovata  nel  chiostro  che  fu  benedettino,  «  una 
delle  quattro  casse  di  archibusi  detti  focilarU  con  monizione  di 
polveri  e  di  palle  da  moschetto,  mandatevi  dal  suddetto  prin- 
cipe, quando  faceva  collezione  di  gente  »  «.  GonsigUato  daU'ar- 

»  Ivi,  pp.  189,  231,  259,  corrispondenza  col  vicario. 

«  Così  parrebbe  dalle  lettere  del  Carafa  ai  suoi  famigliari  e  specialmen- 
te dalla  sua  supplica  al  papa  dove  si  parla  di  «  segrete  orribili  et  oscure  ». 
Invece  una  relazione  di  mons.  Valerio  Rota  al  Cardinal  Segretario  di  Stato 
c'informa  che  Orsini  ebbe  continui  richiami  dal  viceré  per  la  soverchia  li- 
bertà da  lui  concessa  ai  detenuti,  limitata  soltanto  verso  gli  ultimi  giorni. 
Cfr.  Arch.  segr.  Vaticano,  Vescovi,  t.  96,  p.  68. 

3  Ivi,  Cardinali,  t.  66,  p.  200,  lett.  al  card.  Paolucci,  27  nov.  1701. 

*  Ivi,  p.  259. 

'  Ivi,  p.  61,  Relazione  di  Orsini  sulla  condotta  del  Principe  della  Riccia 
durante  la  sua  dimora  a  Benevento. 

*»  Ivi,  Nunziatura  di  Napoli,  t.  128,  lettera  del  Governatore  di  B.  al 
card.  Paolucci,  27  sett.  1701;  Vescovi,  t.  93,  p.  480.  Per  altre  notizie  circa 


—  286  — 

civescovo  ad  allontanarsi  dal  paese  per  non  incappare  negli  ar- 
tigli della  polizia,  l'imprudente  prelato  si  portò  invece  a  Napoli, 
vivendo  ramingo  di  monastero  in  monastero  i. 

In  tale  stato  di  cose  papa  Clemente,  poiché  aveva  impegnata 
la  parola  di  non  lasciar  sfuggire  i  colpevoli,  risolse  di  farli  tra- 
sportare il  17  gennaio  nella  rocca  attigua  al  palazzo  del  De- 
legato pontifìcio  — anch'esso  una  volta  monastero  di  Benedet- 
tine —  innalzata  da  Giovanni  XX  li,  per  sicurezza  dei  Rettori  2. 
È  interessante  per  la  storia  della  sua  topografìa  interna  quanto 
mons.  governatore  scriveva  allora  al  papa:  «...Le  carceri  di  que- 
sto castello,  cosi  chiamato  non  per  l'ampiezza  et  fortezza  del 
luogo,  ma  rispettivamente  alla  situazione  in  riguardo  alla  par- 
te più  bassa  del  resto  della  Città,  si  racchiudono  tutte  entro  una 
antica  torre  che  da  due  lati  che  riguardano  il  recinto  della  Cit- 
tà, è  circondata  da  un  fosso  secco,  et  dall'altra  parte  corri- 
sponde sopra  il  cortile  di  quest'abitazione,  per  dove  ha  il  suo 
ingresso.  Si  divide  interiormente  in  tre  piani  :  1'  uno  sotterra- 
neo, dove  stanno  le  secreto  allo  scuro,  molto  ben  riposte  e  mu- 
nite, poiché  si  sprofondano  dentro  la  fossa;  1'  altro  superiore, 
dove  é  la  cappella  per  il  bisogno  della  messa,  ha  tutta  la  liber- 
tà dei  merli  della  torre  e  del  passeggio  Ubero  di  quel  sito.  Così 
che  si  restrigne  nel  piano  di  mezzo  la  sola  abitazione  per  li  car- 
cerati. Questa  non  consiste  che  in  due  stanze  per  custodia,  ser- 
vendo un'altra  di  guardia.  Mi  è  convenuto  levare  di  qua  tutti 
li  carcerati  di  questo  tribunale  che  con  molto  incomodo  si  so- 
no malamente  distribuiti  altrove,  per  lasciare  quest'  unica  abi- 
tazione a  don  Malizia  Carafa  et  suoi  seguaci,  che  sono  al  tutto  in 
numero  di  sette.  La  loro  assicurazione  viene  raccomandata  ad 
una  semplice  chiave  e  quel  che  più  importa  in  mano  d' uno  di 
questi  sbirri  del  tribunale  eh'  é  del  Regno,  come  sono  tutti  quan- 
ti gli  altri,  i  quali,  non  potendosi  bavere  altrove,  si  prendono 
dalle  squadre  et  dal  servizio  dei  Reggi.  In  tale  forma  resta  to- 
talmente esposta  l'assicurazione  delli  detti  carcerati  ad  ogni 
violenza  così  interna  come  esterna,  et  ogni  più  attenta  vigilan- 


le  condizioni  dei  monasteri  di  Napoli  e  la  vita  chiericale  cfr.:   Cardinali, 
t.  66,  p.  125. 

1  Ivi,   Cardinali,  i.  66,  p.  189. 

2  Ivi,  Vescovi,  t.  95,  pp.  161,  231. 


—  287  — 

za  non  può  in  verun  conto  impedire  quelle  insidie  che  per  ogni 
parte  si  devono  temere,  perchè  1'  accesso  alle  carceri  in  ogni  ora 
del  giorno  dev'essere  libero  et  frequentato  da  qualsiasi  sorta  di 
persona  per  i  bisogni  che  occorrono  »  ^. 

Per  questo  il  preside  di  Montefusco  aveva  fatto  chiamare  dal 
cardinale  parecchi  tra  frati  e  gentiluomini  della  città,  troppo 
teneri  della  sorte  del  Garafa,  e  il  delegato  pontifìcio  nel- 
l'invocare  gli  «oracoli  supremi»  del  segretario  di  Stato  card. 
Paolucci,  fu  tutto  premuroso  a  licenziare  alcuni  carcerieri  so- 
spetti e  ad  istituire  un  corpo  speciale  per  la  ronda  intorno  al 
castello  2. 

Se  non  che  altri  guai  dovevano  aggravare  le  miserie  e  le  tri- 
stezze del  patrizio  cospiratore:  il  terremoto  del  14  marzo  di 
quell'  anno  I 

Le  case  furon  quasi  tutte  abbattute  al  suolo,  il  prossimo  pa- 
lazzo del  governatore  e  1'  Episcopio  lesi  in  gran  parte  e  cadenti; 
la  stessa  rocca,  pur  forte  della  sua  mole  massiccia,  rovinata 
nelle  mura  esterne,  s'ebbe  squassati  l'interno  del  torrione  e  la 
carcere  di  don  Malizia.  «  Uno  dei  prigionieri  restò  sepolto  sotto 
le  rovine,  gU  altri  rimasero  attaccati  in  aria  alle  ferrate  dei  fì- 
nestroni,  da  dove  implorando  pietà,  fu  di  necessità,  con  scale 
a  mano,  non  senza  molto  stento  e  gravissimo  rischio  mentre  per 
ogni  parte  la  terra  tremava,  l'aria  con  neve  e  vento  furioso  in- 
crudeUva,  per  farli  scendere  dalle  mine  per  via  di  funi  per  non 
vederli  perire  miseramente  in  così  tragica  fine.  »  E  perchè  non 
evadessero  «  furono  esposti  nel  giardino  del  palazzo  Apostolico 
sotto  d'una  baracca,  guardati  da  soldati,  che  sono  in  luogo  dei 
Corsi,  et  assicurati  dalla  fuga  per  il  proprio  loro  timore,  e  per 
vedere  i  Regi  che  vegUano  con  troppa  attentione  per  osservare 
gU  andamenti  dei  medesimi»^.  Oltre  di  che,  abbandonati  dal- 

1  Ivi,  t.  96,  p.  68.  Cfr.  E.  M.  Martini,  Indiscrezioni  postume  sulla  vita 
d'A.  de  Biasio,  storico  beneventano;  in  Rivista  St.  del  Sannio,  I,  5. 

2  Ivi,  t.  95,  p.  161. 

'  Ivi,  Carpinea,  t.  55  p.  1,  2.  Per  la  circostanza  il  viceré  scriveva  ad 
Orsini..:  «Con  este  motivo  (del  terremoto)  tenendo  por  conveniente  insi- 
nuar à  V».  E»,  que  haviendo  entendido  que  con  el  del  damno  que  ha  receu- 
do  el  Gastillo  donde  estavan  los  pressos  inquisidos  en  la  rebellion  d'està 
Giudad  se  les  quiere  passar  al  Convento  de  los  Capuchinos,  que  està  situa- 


—  288  — 

le  famiglie  e  privi  di  danaro  eran  costretti  a  mendicare  dalla  pie- 
tà degli  amici  un  po'  di  cibo..,  e  non  sempre  arrivava  ai  cancelli. 
Purtroppo  la  borsa  del  governatore,  —  per  avarizia  o  per  po- 
vertà — ,  era  piccola  a  sopperire  al  bisogno  dei  reclusi  :  tante 
volte,  invano,  se  n'era  doluto  con  papa  Clemente  ^I 

Esposti,  così,  alle  intemperie,  parecchi  non  tardarono  ad 
ammalarsi  gravemente  :  il  giovine  patrizio  non  dimenticava  gli 
aiuti  che  dalla  protezione  del  Lamberg  poteva  ora  ripromettersi, 
ma  troppo  lontano  era  il  giorno  della  liberazione,  e  le  manovre 
dei  Napoletani  a  Vienna  e  il  progetto  di  nuove  spedizioni  nel 
Regno,  commovendolo,  gli  aprivano  l'animo  a  più  audaci  di- 
segni di  riscossa 2.  Il  governatore,  consapevole  ed  astuto,  po- 
teva sorriderne  ed  abilmente  insinuare  al  Collaterale  l'espediente 
di  trasferire  i  rei  a  Roma  in  Castel  S.  Angelo,  ma  il  viceré,  cui 
prima  era  parsa  buona  l' idea,  in  seguito  se  ne  adombrò  e  franco 
ribattè  «  che  non  ammetteva  in  conto  alcuno  la  protesta  della 
fuga,  poiché  se  fusse  seguita,  sarebbe  stato  per  opera  di  mons. 
Rota,  più  ribelle  degli  stessi  ribelli  »  ^. 

E  monsignore  e  papa  Clemente  prudentemente  tacquero  al- 
lora e  rinfacciarono  poi  l'accusa  al  duca  di  Uxeda  quando  nel- 
l'ultima sollevazione  di  Abbruzzo,  scoperte  le  insidie  e  le  trame 
del  Garafa,  ebbero  invito  di  sedare  quei  tumulti*. 

Gli  odi  s'inferocirono. 

Nell'agosto  il  patrizio,  dichiarato  pubblico  nemico,  mani- 
festo ribelle  e  reo  di  lesa  maestà,  fu   spogUato  del  grado  di  no- 


do fuera  de  lo  habitado  de  donde  se  deve  riponer  qui  tengan  mucha  faxi- 
lidad  para  cometer  fuga,  y  dolver  à  fomentar  enquietudes  contra  este  Rey- 
no.  »  Il  cardinale  fu  sollecito  a  dire  «  che  molte  diligenze  si  praticavano 
per  impedire  la  fuga,  e  di  ciò  poteva  esser  testimone  il  rappresentante 
regio  di  Montefusco  e  lo  stesso  Montalcini,  maestro  di  Campo  »:  Arch.  della 
Mensa  Arciv.  di  Benevento,  Lettere  del  Viceré,  Ministri  etc,  t.  3,  p.  79 
e  sgg.  Quando  nel  febbraio  dell'  anno  seguente  il  nuovo  Governatore 
mons.  Grispolti  entrava  nella  città  trovò  che  era  guardata  da  60  sbirri  e 
120  dragoni:  Arch.  segr.  Vatic,  Vescovi,  t.  97  p.  156. 

1  Arch.  segr.  Vaticano,  Vescovi,  t.  95  p.  161. 

2  Ivi,  I.  e,  p.  234;  Landau,  op.  e,  p.  133. 

3  Ivi,  1.  e,  t.  e,  p.  200,  t.  96,  p.  68,  e  Nunziatura  di  Napoli,  t.  130,  re- 
lazione segreta  di  mons.  Casoni  al  papa  (6  giugno  1702). 

*  Ivi,  Nunziatura  di  Napoli,  t.  131  (15  luglio  1702). 


—  289  — 

biltà  e  prescritto  dal  regno.  In  seguito,  scovertasi  una  seconda 
congiura  sotto  gli  occhi  stessi  dell'  Imperatore,  altri  sediziosi 
riuscivano  a  scampare  a  Benevento,  fra  cui  Ignazio  Prete,  mu- 
sico, e  Gaetano  d'Amico,  entrambi  intimi  di  Malizia^.  Ed  Or- 
sini, pronto  a  dar  soddisfazione  al  viceré  Vigliena,  anche  questa 
volta  ordinava  una  minuta  inchiesta  sulla  loro  condotta,  trat- 
tandosi di  «  pericolosi  soggetti  »  dipendenti  dal  principe  di  Ca- 
serta e  in  corrispondenza  col  cardinal  Grimani.  Carico  di  debiti 
e  spiacente  al  popolo,  il  primo  ;  insidiatore  di  fanciulle  e  di 
talami,  il  secondo,  furono  catturati  e  chiusi  anche  essi  nel  ca- 
stello 2. 

Frattanto  mons.  Rota  stanco  e  sfiduciato  aveva  lasciato  il 
«  Palazzo  »  di  Benevento  e  a  sostituirlo  nella  carica  era  venuto 
Anton  Felice,  in  qualità  di  vicegerente.  Ne  profittarono  i  pri- 
gionieri, specialmente  Gaetano  Noto  e  Francesco  Lopez,  i  quali, 
fatti  animosi  dalla  larghezza  loro  concessa  dal  nuovo  prelato, 
un  bel  giorno  se  la  svignarono,  scavalcando  la  muragUa  del  cor- 
tile. Fu  buona  ventura  del  governo  ecclesiastico  se  poterono  essere 
raggiunti  nella  chiesa  di  S.  Domenico  ed  essere  ricondotti  alla 
carcere:  il  cardinale,  per  quanto  non  uso  a  sgridare,  trovò  que- 
sta volta  termini  forti  nel  rimprovero,  ma  finì  col  regalare  dieci 
ducati  al  Lopez,  che  non  aveva  di  che  mangiare^.  E  fosse  il 
timore  di  saperli  a  l'improvviso  passeri  di  bosco,  fossero  le  in- 
sistenze della  curia  romana  0  i  continui  brogli  dei  cospiratori, 
fosse  la  certezza  del  prossimo  arrivo  degli  Austriaci,  ben  presto 
si  tornò  alle  trattative  per  trasportarli  tutti  a  Roma. 

Il  carteggio  irto  di  modalità  durò  più  di  un  mese.  Finalmente 
nel  marzo  il  nuovo  governatore  mons.  Crispolti  ottenne  di  po- 
terli affidare  al  capo  della  guarnigione  pontifìcia,  e,  scortati  da 
diciotto  soldati,  da  due  sbirri  del  castello  e  da  altri  gendarmi  vi- 
cereali, presero  di  buon'ora  la  via  di  Arienzo  *. 

'  Cfr.  Granito,  11,  passim. 

-  Arch.  segr.  Vaticano,  Cardinali,  t.  67,  p.  262. 

'  Ivi,  Vescovi,  t.  97,  p.  36. 

*  Arch.  segr.  Vaticano,  Vescovi,  t.  97  p.  238.  Nel  documento  di  conse- 
gna si  rilevono  i  seguenti  connotati:  «  Malitia  Carafa,  neapolitanus,  altae 
staturae,  aetatis  suae  annorum  50,  capillis  tonsis,  sive  abrasis  coloris  mi- 
schi, cum  perucca  coloris  nigrì  ;  Xaverius  Rocca,    neapolitanus,  staturae 


—  290  — 

MVepitafflo  di  Prosinone  ventidue  soldati  corsi,  quattordi- 
ci birri  e  dodici  cavalleggeri  del  papa  ricevettero   i   detenuti  i. 

Purtroppo  la  «Mole  Adriana»  segnava  un  altro  calvario  ed 
altre  amarezze  eran  preparate  ai  generosi  proscritti  I 

In  quel  tempo  soprintendeva  colà  il  vice  castellano  capi- 
tano Origo,  uomo  fanatico  ed  ambizioso,  di  fede  spagnolo, 
che  senza  riguardi  a  blasoni  ed  a  livree,  per  quanto  nobile  an- 
ch'esso, sapeva  a  suo  tempo  por  mano  a  tutti  i  meschini  espe- 
dienti dell'  aguzzino  stupido  e  malvagio,  pur  di  mostrarsi  scru- 
poloso co'  suoi  padroni,  schivo  di  simpatie,  immune  da  debo- 
lezze. Non  gli  parve  vero  allora  d'aver  sì  buona  preda  ! 

Rinchiuse  don  Malizia  e  i  compagni  «  in  due  miserabili  et  an- 
guste stanze  con  la  proibizione  di  non  poter  parlare  nemmeno  con 

la  sentinella 2 mentre  il  luogo  del  passeggio— scriveva  don 

Malizia  — cognominato  dal  Sig.  Vice-Castellano  il  cortile  o  via 
corridore,  consiste(ya)  per  lunghezza  in  palmi  quindici  et  in 
larghezza  palmi  sei»^. 

Non  valsero  proteste  e  preghiere  perchè  gli  smodati  rigori  si 
mitigassero.  Si  rivolsero  al  lontano  arcivescovo  di  Benevento, 
profittarono  delle  amicizie  che  lo  stesso  Origo  vantava  tra  la  no- 
biltà romana  ;  qualcuno  tentò  anche  lì  la  fuga  e  la  ribellione,  ma, 
a  nulla  riuscendo,  picchiarono  al  cuore  del  papa,  inviandogli 
una  lettera  pietosa  in  cui  invocavano  giustizia,  per  la  loro  pri- 
gionia contraria  ad  ogni  procedura.  «La  Congregazione  dell'Im- 
munità ecclesiastica»  —  dicevano  essi — «  dispone  che  tah,  estratti 
e  ritenuti  nomine  Ecclesiae,  debbano  trattarsi  caritativamente 


plus  altae  quam  bassae,  aetatis  suae  annorum  26  circiter,  capillis  pariter 
abrasis  coloris  castaneae  et  cum  perucca  colorìs  biondi  ;  Frane.  Lopez  iu- 
stae  staturae,  annorum  37,  capillis  tonsìs,  coloris  castaneae  obscurae  et 
perucca  coloris  nigri;  Caietanus  Notus  de  Calabria  Citeriori  staturae  iuxtae, 
aetatis  suae  annorum  42  circiter,  capillis  coloris,  nigri  abrasis  et  cum  pe- 
rucca coloris  nigri.  Nicolaus  Cedrola  de  Policastro  Regni,  iustae  staturae, 
aetatis  suae  annorum  34  circiter,  capillis  tonsis  coloris  rubei  et  perucca 
coloris  castaneae;  Franciscus  de  Peppo,  neapolitanus,  altae  staturae,  aetatis 
suae  annorum  21,  capillis  nigris  abrasis.  »  Ivi,  p.  25. 

1  Ivi,  Particolari,  t.  93  p.  184. 

2  Ivi,  Clemente  XI,  t.  56. 

'  Ivi,  1.  e.  Memoria  per  li  carcerati  di  Castello. 


—  291  — 

nelle  carceri  laxiori  et  non  orribili  et  oscure  come  quelle,  nelle 
quali  per  lo  spatio  di  sei  mesi  sono  stati  ristretti  li  suddetti.  Non 
v'è  dubbio  che  rimane  non  poco  lesa  l'immunità  della  detta  Chie- 
sa da  dove  furono  estratti,  anche  per  il  di  più  di  haver  essi,  dopo 
detti  sei  mesi  di  sì  dura  carcerazione,  patito  il  trasporto  in  quel 
Castello,  ove  nell'anno  susseguente  sopravvenne  il  flagello  del 
terremoto,  e  stiedero  per  quattro  ore  sepolti  sotto  le  mine  et  un 
loro  compagno  parimente  estratto  dalla  d.*  Chiesa,  ne  restò 
morto  »  ^. 

Proprio  in  quei  giorni  — era  noto  — doveva  giungere  a  Roma 
un  messo  imperiale  e  qualcosa  certamente  si  sarebbe  ottenuto 
per  mezzo  di  lui  I 

Invece,  contro  ogni  previsione,  la  supplica  sortì  l'effetto  con- 
trario. I  prigionieri,  fatti  segno  all'odio  dei  carcerieri,  furon  trat- 
tati come  ribelli,  più  aspramente  di  prima:  il  vice  castellano  «per 
un  suo  mal  genio  contro  i  medesimi,  ossia  per  compiacere  i  per- 
secutori dei  suddetti  carcerati,  aveva  dichiarato  che  non  ha  ves- 
serò sperato  ombra  di  maggior  larghezza,  e  che  quando  ciò  ve- 
nisse hordinato  da  nostro  Signore  egli  havrebbe  ostacolato  e 
repUcato  fortemente  all'  bordine  di  S.  Santità  »  ^. 

Fremevan  di  sdegno,  ma,  impotenti  a  vendetta,  i  reclusi  ri- 
mastica van  la  bile,  pensando  alle  palesi  ingiustizie:  a  quel  tempo 
eran  chiusi  in  S.  Angelo  i  peggiori  arnesi,  quali  un  Borra,  capo 
di  setta  eretica,  Emilio  Ruiz,  fratricida  e  stupratore,  il  prin- 
cipe della  Matrice,  uxoricida  e  pubblico  concubinario,  «et  que- 
sti havevano  il  passaggio  per  tutto  il  maschio  e  potevano  trat- 
tare e  discorrere  con  tutti  ». 

Don  Malizia  non  ristette.  In  un  secondo  memoriale^  fece 
particolarmente  osservare   al    pontefice  che  non  così   il  re   di 


*  Ivi,  1.  e.  Senza  dubbio  vi  si  rivela  1'  animo  passionato  di  Malizia  Ca- 
rata circa  il  trattamento  ricevuto  da  Orsini,  giacché  stette  rinchiuso  nel 
Vescovado  non  per  sei  mesi,  ma  solo  dalla  sera  del  7  ottobre  al  mattino 
del  17  gennaio  1702.  Il  Cardinale,  poi,  amicissimo  di  casa  Carafa,  non  po- 
teva tanto  invelenirsi;  ed  è  risaputo  che  quando  l'Imperatore  venne  a  Na- 
poli piatì  in  favore  di  don  Malizia  e  di  Tiberio,  suo  nipote,  non  ostante  le 
Aere  proteste  del  vecchio  padre,  il  principe  di  Chiusano. 

2  Ivi,  1.  e,  Memoria  per  li  carcerati  ecc. 

»  Ivi,  Clemente  XI,  t.  56. 


—  292  — 

Francia  trattava  il  principe  della  Riccia  cui  si  concedeva  di 
uscire  a  cavallo  benché  carcerato  alla  Bastiglia;  e  neppure  in- 
crudeliva contro  don  Giuseppe  Garafa,  figlio  suo  naturale,  che 
nella  torre  di  Tolone  giocava  e  sedeva  a  mensa  col  comandante. 
«  Maggior  convenienza  et  urbanità  s'è  ricevuta  dall'  istessi  ne- 
mici francesi,  che  dai  ministri  della  Corte  di  Roma,  che  si  pro- 
fessa santa  e  neutrale  e  protettrice!  ». 

Era  d'inverno.  Privi  d'indumenti,  colmi  d' amarezza  ed  av- 
viliti, i  cospiratori  si  rassegnavano  ormai  a  passare  la  giornata 
sotto  le  coverte  per  riscaldarsi  dal  freddo,  poiché  non  era  stato 
neanche  possibile  vendere  alcune  camicie  ed  un  mantello  scar- 
latto di  don  Malizia  per  acquistare  le  necessarie  calze:  «  non  era 
honore  del  Castello  che  i  carcerati  si  havessero  venduta  tanta 
roba  !  » 

Si  tavoleggiava  in  una  lurida  taverna  posta  nel  cortile  della 
«Mole»,  dove  di  solito  si  forniva  qualcosa  ai  prigionieri  più 
facoltosi:  e  cortesie  di  oste  e  finezze  di  gu atteri  non  manca van 
mai,  «  con  le  robbe  mal  conciate  e  sporche  benché  si  pagassero 
salato  »  1 

Invano  il  segretario  imperiale,  Wetzel,  in  una  visita  al  papa 
aveva  anch' egli  implorato  la  grazia  della  liberazione  :  a  nuove 
speranze  sorrisero  gli  animi  solo  quando  il  conte  Martinitz, 
venuto  a  Roma  nel  giugno  di  quell'anno,  prese  per  sé  la  cosa, 
deciso  di  risolverla  ad  ogni  costo^. 

Da  principio  papa  Clemente  s'era  schermito  dalle  insistenze 
del  conte  «  col  motivo  di  essersi  impegnato  a  parola  col  duca 
d'Uxeda,  ambasciatore  cattolico,  di  non  liberar  (Malizia)  e  che 
bisognava  trovare  un  mezzo  opportuno  di  esaudire  l'istanza  del- 
l' Imperatore  senza  venir  meno  alla  parola  data  »  ^.  Ma,  insi- 
stendo il  Martinitz  essere  ordine  di  Carlo  VI  di  non  partir  da 
Roma  senza  i  sei  prigionieri,  il  papa  lo  accontentò  assicuran- 
dolo di  rilasciarli  non  appena  le  truppe  austriache  sarebbero 
entrate  nel  regno. 

Ma,  fosse  caso  o  raffinata  astuzia  diplomatica,  quelle  spe- 
ranze si  fondavano  sull'equivoco. 

Entrare  nel  Regno  non  significava  conquistarlo,  ed  il  papa 

1  Landau,  op.  cit.,  1.  e.  ;  Granito,  op.  e,  II,  p.  26. 

'^  Ivi,  Nunziatura  di  Napoli,  t.  138,  relazione  del  9  luglio  1707. 


—  293  — 

non  avrebbe  potuto  così  leggermente  annuire  al  rappresentante 
dell'  imperatore,  senza  compromettere  gì'  impegni  assunti  con 
rUxe da:  consegnerebbe  perciò  Carafa  solo  quando  Napoli  fosse 
realmente  in  dominio  .  i  Carlo.  Cosi  doversi  intendersi  e  non 
altrimenti  il  significato  della  sua  parola  1 

All'alba  della  conquista  fu  pertanto  burla  la  papale  promessa  1 

Corsero  messaggi  e  proteste  da  una  parte  e  dall'  altra:  don 
Malizia  anche  ora  si  acconciò  ad  attendere  tempi  migliori,  men- 
tre si  andava  per  le  lunghe  tra  gli  intrighi  dei  mestatori  e  gl'in- 
toppi della  procedura.  Per  ripiego  finalmente  si  decise  il  ritorno 
dei  carcerati  a  Benevento,  donde — restituiti  alla  chiesa  S.  Bar- 
tolomeo —  uscirebbero  spontaneamente.  Il  Carafa  non  se  ne 
dolse,  ma  suo  figlio  Giuseppe  corse  invece  a  protestare  dal 
Nunzio  mons.  Casoni,  vivamente  preoccupato  che  «  la  mutazione 
dell'aria  »   non  danneggiasse   la  salute  del  padre  ^. 

n  Landau,  su  l'autorità  del  Granito,  asserisce  a  torto  che  il 
giovane  patrizio  si  presentò  al  Nunzio  con  una  squadra  di  gra- 
natieri e  che  in  tono  minaccioso  gli  annunzi  ola  prigionia,  se  non 
facesse  liberare  i  reclusi  al  più  presto  2.  Al  contrario  —  come 
premurosamente  il  Nunzio  comunicava  al  papa  in  cifre  segre- 
te —  egli  si  lasciò  accompagnare  soltanto  dal  segretario  impe- 
riale, e,  anziché  minacciare,  pregò  d'intercedere  in  favore  del 
padre,  di  cui  consegnò  una  lettera  «  a  sugello  volante  »  con  la 
prescrizione  delle  norme  per  il  prossimo  viaggio^. 

Ma  in  sostanza,  le  difficoltà  per  la  scarcerazione  non  erano 
né  gl'impegni  assunti  dal  papa  con  gli  Spagnoli,  né  le  moda- 
lità procedurali,  sibbene...  «  un  grosso  debito  »  che  Malizia  aveva 
contratto  con  l'oste  e  gli  speziali  di  Castel  S.  Angelo*,  piccante 
particolare  sfuggito  alle  ricerche,  il  quale  riveste  d'inaspettata 
comicità  la    rammatica  scena  del  tradito  cavaliere  partenopeo. 

Mons.  Casoni  fece  intravedere  l'intoppo  al  Martinitz,  e  giusta- 
mente questi  «  s'inviperì  in  maniera  che  diede  in  smania  »,   di- 

'  Ivi,  1.  e. 

2  Landau,  op.  cit.,  1.  e.  Granito,  op.  e,  II,  184  . 

^  Arch.  segr.  Vaticano,  Nunziatura  di  Napoli,  t.  138,  lettera  del  G  agosto 
1707  :  importante  anche  il  carteggio  tra  il  Nunzio  e  il  conte  Marlinetz  per 
quest'affare. 

*  Ivi,  1.  e,  9  agosto  1707. 


—  294  — 

cendo  che  ciò  era  un  pretesto  per  martoriare  sempre  più  i  pri- 
gionieri. Carafa — diceva  il  conte  —  comunque  ridotto  alla  mi- 
seria, era  sempre  un  gentiluomo  degno  di  fede  nelle  sue  pro- 
messe, e  se  questo  non  bastava,  ben  volentieri  prenderebbe  lui 
su  di  sé  i  debiti  di  tutti  cospiratori  pur  di  saperli  liberi  in  patria 
loro.  E  Kaunitz  da  parte  sua  strepitava  a  Roma,  volendo  che 
tutto  pagasse  Clemente  XI,  il  maggior  colpevole  di  tanti  guai  \ 

Senza  por  tempo  in  mezzo  Giuseppe  Carafa  ebbe  ah  ai  piedi, 
ed  inviato  dal  viceré  raggiunse  i  confini  dello  Stato  per  incon- 
trarsi col  padre,  invecchiato  dal  dolore. 

Giunsero  a  Napoli  il  27  agosto. 

Seguirono  litigi  pel  pagamento:  «buone  risposte  da  parte  del 
conte  «  — scriveva  il  Nunzio  —  «ma  danaro  non  se  ne  vede » 

E  mai  non  se  ne  vide  !  ^ 

Cosi  le  simpatie  per  gli  Spagnoli  e  le  insidiose  promesse 
costarono  all'inclemente  pontefice  il  mal' animo  e  l'ironia  de- 
gli Austriaci,  ed  anche....  lo  scotto  al  bettoliere  di  Castel  S. 
Angelo  I 

E.  M.  Martini 


1  Ivi,  1.  e,  16  agosto  1707. 

^  Ivi,  1.  e.  Corrispondenza  varia,  agosto- dicembre  1707. 


L'ESERCITO     NAPOLETANO 

DALLA 

MINORITÀ    DI    FERDINANDO 

ALLA 

REPUBBLICA    DEL   1799 


(Cont.  V.  fase,  prec,  pp.  88-109). 
II. 

NELLA  PRIMA  COALIZIONE 
(1791-1796) 

SOMMAR  IO 

Tentativi  di  federazione  degli  stati  italiani  e  primi  preparativi  militari  — 
La  spedizione  dell'ammiraglio  La  Touche-Tréville  (dicembre  1792)  — 
Napoli  nella  1*  coalizione:  I  Napoletani  a  Tolone  (16 
settembre  -  19  dicembre  1793)  —  Trattative  con  Vienna  per  la  spedi- 
zione in  Lombardia  —  Il  campo  di  Sessa  (aprile-giugno  1794)  —  I  reg- 
gimenti di  cavalleria  partono  da  Napoli  —  La  difesa  del  regno  :  leva 
straordinaria  del  5  agosto  1794  ed  altri  provvedimenti  militari  —  Co- 
stituzione delle  brigate  e  delle  divisioni  (29  giugno  1795)  —  L'  azione 
della  cavalleria  napoletana  nell'Alta  Italiafìno 
all'armistizio  di  Brescia  (5  giugno  1796)  —  Il  pericolo  del- 
l'invasione francese:  l'esercito  alla  frontiera  —  Pace  di  Parigi  (10  otto- 
bre 1796). 

Dopo  la  partenza  del  Salis  e  degli  altri  istruttori  francesi, 
a  cui  non  furono  estranei  i  primi  timori  per  gli  avvenimenti  di 
Francia,  l'organizzazione  dell'esercito  napoletano  non  subì, 
fino  al  momento  della  prova,  altre  radicali  trasformazioni. 

Nel  maggio  del  1791  fu  ordinata  la  formazione  d'un  secondo 
reggimento  macedone  col  nome  d'Illirico^;  e  poco  appresso  — 
frutto,  crediamo,  del  viaggio  in  Austria  e  in   Gennania  dei  so- 

^  R.  Archivio  di  Stato  di  Venezia,  Dispacci  del  residente  Fontana 
al  Senato,  31  maggio  1791. 


—  296-. 

vrani  di  Napoli  —  venivano  nel  regno,  accolti  con  trasporto, 
specie  da  Maria  Carolina,  per  sostituire  nell'armata  di  terra 
l'influsso  francese,  i  precursori  di  Zehenter  e  di  Mack,  vale  a 
dire  i  principi  di  Hassia  Philippstadt  e  di  Wurtemberg;  mentre 
il  Pommereul,  ispettore  dell'artiglieria,  veniva  messo  nelle  con- 
dizioni di  non  nuocere  e,  pur  in  mezzo  a  studiati  elogi  e  con  lauta 
pensione,   quasi  forzato   ad  abbandonare  l'ufficio   affidatogli  ^ 

Gli  eventi  precipitavano  :  fallito  il  primo  tentativo  di  fede- 
razione degli  stati  italiani  per  opporsi  agli  eserciti  rivoluzio- 
nari che  si  ammassavano  sulle  Alpi,  i  sovrani  di  Napoli,  tor- 
nati da  Vienna,  si  occupavano  più  attivamente  del  governo  : 
frequenti  consigli  di  stato  avevano  luogo  a  Caserta,  a  S.  Leucio, 
a  Portici,  e  il  re  dava  ogni  sua  cura  perchè  l'esercito  fosse  por- 
tato all'efficienza  stabihta,  in  tempo  di  pace,  dal  piano  del  Sa- 
lisi. D  Cacault,  rappresentante  della  Francia  a  Napoli,  calco- 
lava nel  dicembre  1791  che  l'esercito,  forte  sulla  carta  di  40  mi- 
la uomini,  non  ne  avesse  effettivamente  che  15  mila  ;  a  non  più 
di  18  mila  uomini,  oltre  a  15  mila  miUziotti  provinciali,  tro- 
vandosi la  maggior  parte  dei  reggimenti  alla  metà  appena  dei 
loro  effettivi,  lo  faceva  ascendere  il  Fontana  ^. 

Tali  condizioni  precarie,  più  forse  che  ragioni  di  prudenza  po- 
litica, spiegano  l'incerto  contegno  della  Corte  di  Napoli  di 
fronte   alla  guerra   dichiarata   dalla  Convenzione  francese   al- 

^  Fontana  al  Senato  veneto,  29  novembre  1791.  Il  principe  di  Hassia, 
colonnello  graduato,  ebbe  il  comando  d'uno  squadrone  del  reggimento 
cavalleria  Re,  il  principe  Alessandro  di  Wiirtemberg  il  grado  di  coman- 
dante di  squadrone,  aggregato  al  regg.  di  cavalleria  Regina  (Cfr.  Arch. 
DI  STATO  DI  Napoli  (Guerra),  Reali  Ordini,  voi.  77,  disp.  18  giugno  1792). 
Il  principe  d'Hassia  (1766-1816)  era  figlio  del  langravio  Guglielmo  II  : 
una  sorella  della  moglie,  contessa  di  Bergh,  aveva  sposato  il  maresciallo 
Acton,  fratello  del  ministro:  Mémoires  du  comte  Roger  de  Damas,  1787- 
1806,  Paris,  Alcan,  1912,  I,  278,  n.  2.  Egli  ebbe  parte  importante,  come 
è  noto,  negli  avvenimenti  posteriori  del  regno  ;  il  dùca  di  Wiirtemberg 
lasciò  invece  il  servizio  napoletano  nel  febbraio  del  1794,  chiamato  dal 
padre  a  servire  in  un  reggimento  tedesco  (Busenello  al  Senato  veneto, 
4    marzo    1794). 

^  Fontana  al  Senato  veneto,  31  maggio  1791. 

^  Fontana  al  Senato  veneto,  26  luglio  1791  ;  Franchetti,  Le  relazioni 
diplomatiche  fra  la  Corte  di  Napoli  e  la  Francia  dal  1791  al  1793,  in  Riv. 
stor.  del  Risorg.  Italiano,  I  (1895-96),  p.  606. 


—  297  — 

l'Austria  e  poco  dopo  alla  Prussia  —  moralmente  legata  alla 
prima  da  Pillnitz  —  nell'aprile  del  1792.  Titubante  tra  il 
desiderio  di  salvare  la  famiglia  reale  di  Francia,  il  timore  di 
perderla  e  il  pericolo  di  vedersi  rapidamente  trascinata  in  una 
guerra,  alla  quale  il  regno  era  assolutamente  impreparato,  la 
Corte  s'era  limitata  ad  aderire  al  concerto  delle  potenze  pro- 
posto dall'imperatore  Leopoldo  e  rinnovato  dal  successore, 
ma,  per  quel  che  riguardava  la  partecipazione  diretta  alle  ope- 
razioni militari,  aveva  espresso  concetti  assai  vaghi  e  prudenti, 
e  il  marchese  di  Gallo  era  riuscito  a  persuader  Vienna  dell'im- 
possibilità di  «  portar  fuori  una  parte  delle  sue  forze  o  dei  suoi 
mezzi,  fintantoché  non  fosse  sicuro  di  non  averne  bisogno  nel- 
l'interno del  paese  ;  il  quale  se  venisse  attaccato  dalla  parte 
di  mare,  non  potrebbe  mai  per  la  sua  posizione  esser  soccorso 
dagU  alleati  »  ^. 

Vero  è  che,  poco  più  tardi,  quando  Vittorio  Amedeo  III  di 
Savoia,  certo  onnai  d'una  imminente  aggressione  ai  passi  delle 
Alpi,  cercò  dappertutto  soccorsi,  il  re  di  Napoli,  dichiarando 
che  «la  causa  del  Piemonte  era  la  causa  di  tutti  i  principi  di 
ItaUa  )),  promise  d'inviar  truppe  a  guardar  la  Toscana  e  la  Lom- 
bardia, liberando  così  contingenti  austriaci  che  avrebbero  po- 
tuto unirsi  ai  piemontesi  ^  ;  ma,  di  lì  a  poco,  ammonito    dal 

^  Arch.  di  Stato  di  Napoli,  Affari  Esteri,  Austria,  Diversi,  voi.  70 
(Gallo  ad  Acten,  22  e  28  aprile  1792). 

^  I  particolari  di  questo  accordo,  che  fu  conseguenza  di  lunghi  e  segreti 
colloqui  tra  l'Acton  e  il  Ministro  di  Torino,  conte  di  Gastelalfèro,  ci  sono 
tramandati  con  la  consueta  diligenza  dal  Fontana.  Secondo  il  piano,  tra- 
smesso a  Vienna  per  l'approvazione  alla  fine  di  giugno,  Napoli  avrebbe 
dovuto  soccorrere  il  Piemonte  con  6000  uomini  di  fanteria,  una  brigata 
di  otto  0  novecento  uomini  di  cavalleria  e  un  treno  di  24  cannoni  da  cam- 
pagna. Queste  truppe,  al  comando  del  maresciallo  de  Gambs,  traspor- 
tate per  mare  a  Livorno  e  di  là  avviate  in  Lombaidia,  avrebbero  dovuto 
sostituirvi  i  reggimenti  austriaci  passati  in  Piemonte.  L'Acton  però  si 
era  riservato  il  diritto  di  modificare  il  piano  secondo  l'opinione  di  Vienna 
ed  anche  (ciò  è  strano)  di  sostituire  le  truppe  con  un  soccorso  mensile 
di  denaro  al  re  di  Sardegna.  Il  disegno  era  stato  approvato  dall'impera- 
tore, il  quale  aveva  fatto  formale  richiesta  delle  truppe  napoletane,  con 
la  modificazione  che  2000  uomini  dovevano  essere  destinati  a  presidiar 
la  Toscana,  neutrale,  ma  paurosa  d'un  colpo  di  mano  della  flotta  francese 
di  Tolone,  date  le  sue  strette  relazioni  con  Vienna.  Per  occultare  poi  le  vere 
Anno  XLV.  20 


—  298  — 

fratello  Carlo  IV  di  Spagna  a  meditare  i  pericoli  a  cui  andava 
incontro,  si  schermì  dal  mandare  anche  pochi  reggimenti  nel 
Milanese,  adducendo,  come  già  ne'  dispacci  a  Vienna,  la  neces- 
sità di  difendere  i  suoi  stati  da  probabili  aggressioni  navali. 

Cosi,  ogni  principe  mettendo  in  campo — come  il  re  di  Napoli —  i 
propri  egoistici  motivi  per  tener  incrociate  le  braccia,  le  irrompenti 
schiere  repubblicane  non  si  trovarono  di  fronte  nelle  invasioni 
della  Savoia  e  del  Nizzardo  (22-29  settembre)  che  i  battaglioni 
piemontesi.  Né  miglior  esito  ebbero  le  esortazioni  e  le  propo- 
ste del  re  di  Sardegna,  quando,  perdute  quelle  due  provincie, 
cercò  nuovamente  di  stringere  in  un  sol  fascio  le  forze  della  pe- 
nisola. Dopo  lungo  esame  della  situazione  il  marchese  di  Gallo 
ebbe  ordine  d'informare  il  principe  di  Kaunitz  che  la  Corte  giu- 
dicava prudente  non  togliere  un  uomo  o  un  cannone  dalle  fron- 
tiere ;  solo,  nei  primi  giorni  di  ottobre,  il  governo  di  Napoli, 
largo  di  promesse  sulla  carta,  si  piegava  ai  desideri  del  re  di  Sar- 
degna e  dell'Imperatore,  impegnandosi  ad  armare  e  a  stipen- 
diare a  sue  spese,  per  una  somma  di  400  mila  ducati  annui  fino 
al  termine  della  campagna,  un  corpo  di  5000  svizzeri  che  dove- 
vano mihtare  sotto  le  bandiere  del  Piemonte;  ma  della  somma 
pattuita  il  re  di  Napoli  non  pagò  al  conte  di  Castelalfèro  che  il 
primo  trimestre  !  Buon  espediente  ad  ogni  modo,  scrive  il  resi- 
dente veneto,  poiché  l'esercito  napoletano,  come  il  re  aveva  «  con 
stupore  »  constatato,  era  per  numero  molto  al  di  sotto  delle  pom- 
pose cifre  degli  almanacchi,  parecchie  delle  navi  che  l'avrebbero 
dovuto  trasportare  a  Livorno  disarmate,  i  soldati  «  affatto 
inesperti  e  da  lunghi  anni  lontani  da  qualunque  cimento  ^  ». 

Ma  quando  giunsero,  chiare  ed  esplicite,  le  gravissime  nuove 
di  Francia  e  la  proclamazione  della  repubbUca,  quando  dopo 
la  cannonade  di  Valmy  e  la  ritirata  del  Brunswick,  gli  eserciti 
della  Rivoluzione,  proclan^ata  dall'Assemblea  l'annessione  di 
Nizza  e  della  Savoia,  invadevano  il  Belgio  vendicando  a  Je- 


intenzioni  della  Corte  di  Napoli,  la  prima  divisione  doveva  sbarcare  nei 
Presidi,  pronta  però  alle  richieste  del  Granduca;  gli  altri  4000  uomini  eia 
cavalleria  dovevano  figurare  come  truppe  mercenarie  al  soldo  dell'Impe- 
ratore. (Fontana  al  Senato  Veneto,  3  luglio  1792). 

>  Gallo   ad  Acton,    12  ottobre   1792  (Austria,   voi.   70)  ;     Fontana  ai 
Senato  veneto,   9  ottobre   1792. 


—  299  — 

mappes  i  rovesci  dell'anno  precedente,  la  Corte  di  Napoli,  con- 
scia del  pericolo,  mentre  dava  opera  a  ricostituire  le  milizie  e 
ad  armare  la  flotta,  prendeva  l'iniziativa  d'una  lega  militare, 
((  tendente  non  solo  a  garentire  generalmente  la  nazione  da  una 
qualsiasi  irruzione,  ma  eziandio  i  propri  rispettivi  Stati  e  la 
forma  attuale  delli  esistenti  Governi  ». 

Anche  questo  tentativo  falli  per  la  gelosia  dei  governi  ita- 
liani e  pel  malvolere  dell'Austria  che  bramava  mantenere  la 
supremazia  poUtica  nella  penisola,  dirigendo  ai  suoi  fini  par- 
ticolari gli  sforzi  dei  principi  collegati^;  ma  quanta  colpa  pei 
mancati  accordi  non  spetta  anche  a  quel  regno  di  Napoh  che 
l'indecisione,  i  timori  interni,  il  disordine  della  pubbhca  ammi- 
nistrazione doveva  rendere  «  a  Dio  spiacente  ed  a'  nemici  sui  >»  l 


H  primo  aperto  atto  d'ostilità  della  Francia  contro  il  regno 
di  Napoli  è  —  com'è  ben  noto  —  la  spedizione  dell'ammira- 
gUo  La  Touche-Tréville  nel  decembre  1792^ 

Ma  già  prima,  in  previsione  d'un  colpo  di  mano  della  squadra 
di  Tolone  contro  il  regno  che,  pur  fuori  della  guerra,  non  aveva 
celato  le  sue  simpatie  per  la  duplice  austro-prussiana  (almeno 
per  quel  che  riguarda  la  Corte  e  il  governo),  erano  cominciati  i 
preparativi  militari. 

Verso  la  metà  di  maggio  si  iniziavano  febbrili  opere  di  di- 
fesa dei  forti  e  del  Cratere  :  si  davano  disposizioni  per  lo  sta- 
biUmento  di  guardiani  d'artigUeria  nelle  batterie  di  Vighena, 
PosilUpo,  Sermoneta,  Pietrarsa,  Galastro,  Torre  Scassata  etc, 
si  spedivano  a  Gaeta  12  lance  cannoniere,  si  raddoppiava  il  nu- 
mero dei  pezzi  a  difesa  del  porto  e  della  rada,  altre  batterie  si 
armavano  lungo  la  spiaggia,  tra  cui  una  di  diciotto  cannoni  a 

*  Cfr.  Bianchi,  Storia  della  monarchia  piemontese  dal  1773  fino  al  1861, 
Roma-Torino,  Bocca,  1877,  II,  58  sgg.  ;  Garutti,  Storia  della  Corte  di  Sa- 
voia durante  la  Rivoluzione  e  l'Impero  francese,  Roma-Torino,  Roux,  1892, 
I,  170  ;  RoMANiN,  Storia  documentata  di  Venezia,  Venezia,  1860,  IX,  199 
sgg.  ;  Conforti,  Napoli  dal  17  89  al  17  96,  Napoli,  Anfossi,  1887,  p.  95  sgg. 

-  SiMioNi,  La  gptdizione  dell'ammiraglio  La  Touche-Tréville  a  Napoli  nel 
dectmbre  1792,  Napoli,  Pierro,  1912  (estr.  da  qutsV Archivio,  voi.  XXXVII). 


—  300  — 

Castellamare,  si  ordinava  ai  vascelli  Tancredi,  Guiscardo  e  Par- 
tenope  e  ad  alcune  fregate  di  rimanere  nel  golfo  in  pieno  assetto 
di  guerra  ^. 

E  i  preparativi,  a  mano  a  mano  che  gli  avvenimenti  incal- 
zavano, divenivano  più  intensi  :  se  il  dispaccio  11  giugno  1792 
per  il  prestito  del  famoso  milione  di  ducati  garantiva  che  tal 
somma  sarebbe  stata  unicamente  impiegata  per  soddisfare  i 
particolari  debiti  della  Casa  Reale,  era  certo  invece  che  la  mag- 
gior parte  di  essa  si  sarebbe  spesa  per  gli  armamenti  del  Cra- 
tere e  per  gl'impegni  con  Vienna.  ^ 

Nel  luglio  si  completavano  con  le  nuove  reclute  alcuni  reg- 
gimenti che  si  dicevano  destinati  in  Lombardia  ;  ma  la  spedi- 
zione—  se  pur  ventilata  —  sfumava  ai  primi  d'agosto,  ed  an- 
che veniva  sospesa  la  partenza  di  2000  uomini  che  avrebbero 
dovuto  concentrarsi  nei  Presidi  di  Toscana  ;  intanto  si  affret- 
tavano i  lavori  del  nuovo  vascello  il  Sannita,  che  veniva  varato 
il  13  agosto  a  Castellamare,  e  si  avviavano  trattative  con  Vien- 
na, a  mezzo  del  Gallo,  per  ottenere  il  più  sollecitamente  pos- 
sibile fucili,  polvere  e  proiettili  da  cannone  ^. 

Ma  nell'ottobre,  proclamata  la  Repubblica,  dato  in  Francia 
novello  vigore  alla  poUtica  estera,  le  notizie  fm'allora  incerte 
e  contradditorie  si  precisano  rapidamente. 

La  squadra  del  Mediterraneo  ha  cooperato  con  le  truppe  di 
terra  alla  conquista  di  Nizza  e  del  territorio  di  Villafranca,  ed 
una  nuova  divisione  (quella,  effettivamente,  del  La  Touche) 
è  già  salpata  da  Brest  per  raggiungerla. 

Quale  Sarebbe  stato  il  piano  dell'amm.  Truguet  ?  Si  parlava 
d'un  colpo  di  mano  sulle  coste  dello  Stato  pontifìcio  ed  anche 
della  possibilità  d'un  tentativo  nell'Adriatico  contro  i  porti 
della  PugUa,  ma  il  pericolo  maggiore  era  per  Napoli  e  la  Siciha. 

^  Arch.  di  St.  Napoli  (Guerra):  Reali  Ordini,  voi.  77,  disp.  15  maggio 
1792  ;  Fontana  al  Senato,  stessa  data,  in  Romanin,  o.  c,  IX,  469.  Questi 
preparativi  sono  confermati  da  un  dispaccio  di  Cacault  al  ministro  Lebrun 
(5  maggio),  in  Franchetti,  o.  c,  p.  607. 

*  Fontana  al  Senato  veneto,  26  giugno  1792. 

*  Fontana  al  Senato  veneto,  10  e  31  luglio,  14  agosto  1792.  Arch. 
DI  Stato  di  Napoli,  Affari  Esteri,  Austria,  fascio  71  (Wallis  a  Gallo,  26 
agosto  1792). 


—  301  — 

La  conquista  dell'isola  costituiva  un  vecchio  sogno  francese, 
onde  verso  la  metà  d'ottobre  la  Corte  ordinava  il  passaggio  da 
Capua  a  Palermo  del  reggimento  Calabria  sul  nuovo  piede  di 
1200  teste  e  il  rapido  armamento  del  Tancredi  e  di  4  fregate, 
che  unite  al  Guiscardo,  già  pronto,  e  a  due  altre  fregate  incro- 
cianti  sulle  coste  della  Sicilia,  avrebbero  formato  una  discreta 
armatella  ^. 

Per  Napoli  un  dispaccio  del  28  ottobre  ordinava  il  concen- 
tramento alle  frontiere  e  sul  litorale  di  18  battaghoni  di  fante- 
ria e  di  12  squadroni  di  cavalleria,  volendo  il  re,  nel  timore  di 
un'aggressione,  assicurare  il  suo  popolo  e  garantire  efficacemente 
la  religione,  la  quiete  pubblica  e  le  proprietà  dei  cittadini  ^. 

Maria  GaroUna,  più  che  mai  nervosa  ed  inquieta,  tradisce  il 
crescente  interno  turbamento.  E  con  quella  sfiducia  che  la  tur- 
bolenta regina  ebbe  sempre  pei  napoletani,  —  già  presaga  della 
guerra  imminente  —  chiede  con  insistenza  a  Vienna  un  generale, 
0  Braun  o  Goburg  o  Wartensleben,  che  venga  a  Napoli  a  rior- 
ganizzar le  milizie,  a  prepararle  contro  la  Francia  sanguinaria  ^. 

Quando  la  squadra  del  La  Touche  si  spiegava  il  16  dicembre 
dinanzi  la  rada  diNapoU,  i  mezzi  di  difesa  erano  davvero  im- 

1  Fontana  al  Senato  veneto,  16,  23  e  30  ottobre  1792. 

'  Codesto  dispaccio,  riportato  dal  Fontana  (4  novembre),  ordinava  che 
si  tenessero  pronte  a  marciare  per  le  frontiere  e  pel  litorale  le  truppe  se- 
guenti :  della  guarnigione  di  Napoli,  4  compagnie  di  fucilieri  e  2  di  gra- 
natieri, sul  piede  di  pace,  dei  reggimenti  Regina,  R.  Italiano,  Puglia,  Lu- 
cania e  Sannio,  8  compagnie  di  R.  Macedonia  sul  piede  di  guerra,  4  di  fu- 
cilieri e  2  di  granatieri  del  1°  Estero  ;  in  tutto  8  batt.  di  fucilieri  e  3  di  grana- 
tieri. Della  guarnigione  di  Capua,  3  batt.  di  fucilieri  e  1  di  granatieri  dei 
reggimenti  Re  e  Borgogna.  Della  guarnigione  di  Gaeta,  4  compagnie  di 
fucilieri  e  due  di  granatieri  per  ciascuno  dei  regg.ti  JR.  Napoli  e  Messapia. 
Per  la  cavalleria,  8  squadroni  della  I  brigata,  più  uno  squadrone  per  cia- 
scuno dei  regg.  Rossiglione,  Tarragona  e  Principe,  seguiti  dal  rispettivo  treno 
d'artiglieria  del  Corpo  Reale.  Le  guarnigioni  dovevano  essere  sostituite 
dalle  milizie  provinciali  sul  piede  di  guerra.  Il  piedilista  di  tutte  le  truppe 
marcianti  comprendeva,  secondo  il  r.  dispaccio  28  ottobre,  9861  uomini 
di  fanteria,  1828  di  cavalleria,  3300  miliziotti,  vale  a  dire  14,989  uomini. 
Cfr.  anche  Fontana  al  Senato,  13  novembre  e  Reali  Ordini,  vol.cit.,  passim. 

*  Correspondance  inèdite  de  Marie- Caroli  ne  auec  le  marquis  de  Gallo, 
publiée  et  annotée  par  M.  H.  Weil  et  C.  di  Somma  Circello,  Paris,  E- 
mile-Paul,  1911,  I,  49. 


—  302  — 

ponenti  :  le  batterie  del  Cratere,  già  provviste  di  206  cannoni 
di  diverso  calibro,  erano  state  rinforzate  con  23  mortai,  4  obici 
e  179  pezzi  d'artiglieria  ;  l'intera  flotta  posta  in  pieno  assetto 
di  combattimento  ;  150  cannoniere  e  60  barche  coralline  armate 
a  difesa  del  golfo  ;  rinforzato  il  corpo  degli  artiglieri  litorali  e 
poderosamente  munite  le  batterie  di  Posillipo,  di  Vigliena  e  di 
Pietrarsa  ;  15  mila  uomini  di  truppe  di  linea  sul  piede  di  guerra, 
altri  12  reggimenti  di  milizie  provinciali  pronti  all'azione  *. 

Sappiamo  come  le  paure  di  Maria  Carolina,  più  che  qual- 
siasi altro  motivo  d'ordine  interno,  abbiano  reso  vano  tanto 
apparato  di  forze  militari,  e  come  il  singolare  episodio  segnasse 
r  umiliazione  della  Corte  e  del  governo,  costretti  ad  accogliere 
sotto  la  minaccia  del  bombardamento  quel  che  il  La  Touche 
e  il  Mackau,  ambasciatore  di  Francia  a  Napoli,  avevano  chie- 
sto con  la  burbanzosa  forma  della  nuova  diplomazia  repub- 
blicana. 

Solo  pochi  mesi  dopo,  quando  i  battaglioni  napoletani,  pro- 
tetti dalle  navi  di  0.  Nelson,  movevano  verso  Tolone,  solo  al- 
lora parve  a  M.  Carolina  di  aver  vendicato  l'onta  del  dicembre 
e  la  fiera  umiliazione  impostale  dalla  squadra  dell'ammiraglio 
La  Touche. 

Ma  della  convenzione  anglo-napoletana  pel  Mediterraneo 
(l2  luglio  1793),  che  sanciva  con  l'entrata  del  regno  di  Napoli 
nella  prima  coaUzione  il  servaggio  dell'esercito  e  della  marina 
agl'interessi  egoistici  dell'Inghilterra  e  dell'Austria,  e  della  con- 
seguente partecipazione  delle  forze  napoletane  all'  assedio  di 
Tolone  (16  settembre-19  dicembre  1793),  già  abbiamo  ampia- 
mente trattato,  sulle  relazioni  ufficiah,  in  altro  studio  ^.  Con- 


1  Arch.  di  Stato  di  Napoli  (Guerra),  Reali  Ordini,  voi.  77  ;  Segr. 
di  polizia,  Disp.  al  Reggente,  25  e  27  novembre  1792,  voi.  I,  f.  346  e  350  ; 
Fontana  al  Senato  veneto  20  novembre  ;  Logerot,  Memorie  storico  -  po- 
litiche, ms.  cit.,  cap.  VI,  §  1.  ;  La  Storia  dell'anno  MDCCXCII,  p.  II,  Ve- 
nezia, 5.  a.,  p.  217;  Arrighi,  Saggio  storico  ecc.,  Napoli,  1809-1813,  III, 
37;  Marulli,  Ragguagli  storici  sul  regno  delle  due  Sicilie  etc,  Napoli,  1845- 
46,  I,  28-29;  Conforti,  Napoli  dal  1789  al  1796  cit.,  p.  107,  Correspon- 
dance  inèdite  cit.,  I,  52,  59,  64,  65  etc. 

'  /  Napoletani  a  Tolone  (1793),  Napoli,  Pierre,  1913  (estr.  da  questo 
Archivio,  anni  XXXVII-XXXVIII). 


—  303  — 

verrà  tuttavia  affermare  che  se  i  battaglioni  napoletani  in  quel 
memorabile  e  confuso  assedio  non  si  coprirono  di  gloria,  fecero 
tuttavia  —  specie  la  marina  e  il  corpo  reale  d'artiglieria  —  il 
loro  dovere  ;  'né  giunti  in  condizioni  miserande  nella  rada  di 
Gaeta  sulle  navi  del  Forteguerri,  i  soldati  delle  Due  Sicilie  me- 
ritavano le  accuse  e  il  sospetto  che  la  regina,  attratta  nelle  fa- 
tali spire  della  poUtica  inglese,  riversò  ingiustamente  sulla 
parte  mighore  del  suo  esercito,  a  cui  invano  chiederà  qualche 
anno  dopo  la  propria  salvezza. 


L'organizzazione  delle  miUzie  di  Tolone  era  stata  opera  del 
maresciallo  ungherese  Giuseppe  von  Zehenter,  giunto  a  Napoli 
il  30  aprile  1793  e  nominato  poco  appresso  ispettore  generale 
delle  truppe.  Le  disperate  richieste  di  Maria  CaroUna  erano 
state  finalmente  esaudite,  mercè  le  insistenze  del  marchese  di 
Gallo  presso  l'imperatore.  Ma  la  scelta  —  a  malgrado  degh 
alti  elogi  del  Gallo  —  non  era  stata  felice  :  le  sue  scarse  quahtà 
di  organizzatore  e,  sopratutto,  la  sua  rigidezza  tedesca  lo  posero 
tosto  in  conflitto  con  l'esercito,  affetto  da  mali  insanabili  :  la 
neghgenza  e  la  malafede  degli  ufficiah  superiori,  la  rilassatezza 
della  discipUna,  l'avversione  pel  duro  travagho  dei  continui 
esercizi,  provocarono  anche  dei  complotti  mihtari  ;  con  dispaccio 
in  data  1°  ottobre  1794  il  re  accogheva  le  sue  dimissioni  «onde 
potesse  ritornare  in  Germania  per  dar  riposo  alla  sua  sconcer- 
tata salute  »,  ed  egli  lasciò  definitivamente  le  mihzie  al  capitan 
generale  marchese  Arezzo,  non  senza,  a  quanto  pare,  qualche 
recriminazione  sul  conto  della  Corte  di  Napoh  \ 

Ma  innanzi  alla  partenza  dello  Zehenter  importanti  avveni- 

»  Lo  Zehenter  (1733-1812),  vivamente  raccomandato  dal  Gallo  che  lo 
giudicava  un  uomo  «  che  farebbe  l'invidia  d'  ogni  Potenza  e  di  cui  qui 
iatesso  [a  Viennal  si  sente  sempre  più  il  merito  e  l'importanza  »,  era  feld- 
maresciallo dal  1790  (Arch.  di  St.  di  Napoli,  Austria,  Diversi,  voi.  72, 
confidenziale  all'Acton  s.  d.,  ma  dell'aprile  1793).  Per  la  sua  venuta  a  Na- 
poli cfr.  Correspondance  inèdite  de  Marie-Caroline  cit.,  I,  96,  101  ;  Buse- 
ncUo  al  Senato  veneto,  disp.  5,  17  marzo,  9  aprile,  2  luglio  1793.  Il  gen. 
Damas  lo  giudica  «  insufflsant  à  sa  place  »  {Mémoires  cit.,  I,  272).  Il  di- 


—  304  — 

menti  si  erano  maturati.  Il  ritorno  delle  truppe  da  Tolone  non 
aveva  evidentemente  sottratto  il  regno  di  Napoli  agli  obblighi 
dell'alleanza  ;  e  già  prima  che  la  squadra  scortante  le  polacche 
cariche  di  truppe  giungesse  a  Gaeta,  correva  voce  di  nuove 
leve  per  completare  i  reggimenti  di  Tolone  e  per  inviare  un  con- 
tingente di  truppe  in  Lombardia,  a  fianco  degli  austriaci  ^. 
A  mezzo  gennaio  un  corriere  straordinario  del  marchese  di  Gal- 
lo portava  infatti  a  Napoli  la  formale  richiesta  dell'imperatore 
per  un  soccorso  di  truppe  a  difesa  della  Lombardia  austriaca 
minacciata  dai  concentramenti  francesi  sulle  Alpi,  ed  un  con- 
sigUo  di  stato,  in  cui  dovette  assai  pesare  la  volontà  della  re- 
gina, che  in  una  lettera  al  suo  fido  ambasciatore  si  doleva  di 
non  poter  fare  «  mieux,  plus  et  plus  vite  »,  si  stabiliva  di  concor- 
rere alla  difesa  d'Itaha  con  un  corpo  di  18.000  uomini  2. 

Ai  primi  di  febbraio,  a  malgrado  della  situazione  interna 
assai  oscura  e  della  voragine  finanziaria  che  la  spedizione  di 
Tolone  aveva  smisuratamente  allargata,  cominciavano  i  pre- 
parativi febbrili  :  la  fanteria  e  l'artigUeria  avrebbero  dovuto 
imbarcarsi  a  Napoli  e  passare  a  Livorno  0  ad  Onegha,  la  ca- 
valleria raggiungere  i  quartieri  assegnati  per  via  di  terra.  Erano 
in  tutto,  secondo  le  cifre  dei  dispacci  ufficiali,  23  battaghoni 
di  fanteria  (14,284  uomini),  2000  uomini  d'artigUeria  ed  altret- 
tanti di  cavalleria,  che  si  volevano  far  partire  tra  i  primi  di  mar- 
zo e  l'aprile  ^.  Senonchè,  oltre  alle  difficoltà  infinite  che  in  quel- 


spaccio  che  ne  accetta  le  dimissioni  è  in  Reali  Ordini  cit.,  voi.  77.  — 
Per  la  sua  partenza  cfr.  Busenello  al  Senato,  disp.  7  ottobre  1794  ;  M.  Ca- 
rolina a  Gallo  (Corresp.,  I,  251).  Lo  Zehenter,  avvertiva  il  Gallo  (voi.  72 
cit.),  era  giunto  a  Vienna  nel  dicembre  1794,  destinato  all'armata  di  Cler- 
fayt.  «  Spero  che  egli  non  farà  doglianze,  né  rapporti  esagerati,  nel  qual 
caso  non  mancherò  di  dissiparli  ».  Morì  a  Graz  il  20  aprile  1812. 

'  Busenello  al  Senato  veneto,  7  gennaio  1794. 

"  Id.  21  e  28  gennaio  1794.  Correspondance  inèdite  de  Marie-Caroline, 
I,  173.  La  corrispondenza  confidenziale  del  marchese  di  Gallo  con  l'Acton 
del  gennaio  1794  è  piena  appunto  di  accenni  alle  decisioni  della  Corte  di 
Napoli  :  nel  dispaccio  23  gennaio  è  l'invito  formale  da  parte  di  Vienna  di 
mandare  un  ufficiale  o  un  commissario  a  Milano  per  prendere  accordi  con 
l'arciduca  Ferdinando,  governatore  della  Lombardia  (Arch.  di  St.  di  Na- 
poli, Austria,  Diversi,  voi.  73). 


—  305  — 

le  condizioni  si  dovevano  superare,  l'Hamilton  chiedeva  a  sua 
volta  alla  Corte  il  mantenimento  degl'impegni  fissati  dalla  con- 
venzione di  luglio  non  solo  per  quanto  riguardava  le  unità  na- 
vali che  avrebbero  dovuto  riunirsi  alla  squadra  dell'ammi- 
raglio Hood,  ma  anche  pei  6000  uomini  di  truppa,  che  l'In- 
ghilterra avrebbe  voluto  impiegare  nell'impresa  di  Corsica,  e, 
d'altra  parte,  notizie  da  Vienna  riducendo  i  promessi  rinforzi 
austriaci  in  Piemonte  per  la  necessità  di  tenere  un  corpo  di  ri- 
serva sul  Reno,  la  Corte  di  Napoli  si  apprestava  a  ridurre  a 
sua  volta  (presa  tra  i  due  fuochi  delle  insistenze  di  Hamilton  e 
dell'ambasciatore  cesareo),  il  numero  delle  truppe  fissato  per 
entrare  in  campagna  2. 

Tuttavia  ogni  divergenza,  con  grande  letizia  di  M.  Carohna, 
sembrava  appianata,  accontentandosi  l'Hamilton  dell'ausiUo 
della  marina  da  guerra  e  del  permesso  di  arrolare  un  certo  nu- 
mero di  marinai,  e  l'Imperatore  avendo  dato  pressanti  ordini 
perchè  40  mila  uomini  fossero  concentrati  in  ItaHa  ^  quando 
alla  fme  di  marzo  veniva  scoperta  a  Napoli  la  famosa  congiura 
giacobina  che,  minacciando  gravemente  lo  stato,  mutava  com- 
pletamente la  faccia  delle  cose  *. 

Allontanare  in  quei  frangenti  le  truppe  mighori  sarebbe  sta- 
to per  la  Corte  un  suicidio  :  ogni  pensiero  di  spedizione  in  Lom- 
bardia venne  sospeso,  e  fu  amara,  indeclinabile  decisione,  pro- 
prio quando  le  vittorie  francesi  di  Saorgio,  di  Onegha,  di  Loano 
contro  le  truppe  del  re  di  Sardegna  rendevano  assai  grave  il 
pericolo  per  la  coaUzione  in  Itaha^  Tuttavia,  e  per  tener  u- 
nite  le  truppe  raccolte  nell'eventualità  d'  un'  azione  offensiva 
della  flotta  di  Tolone,  e  per  far  fronte,  anche,  ad  ogni  evenienza 


1  Busenello  al  Senato  veneto,  4  e  11  febbraio  1794.  Le  truppe  avreb- 
bero dovuto  venir  divise  in  due  corpi:  al  1°  erano  assegnati  contingenti 
di  Re,  R.  Napoli,  Messapia,  Borgogna,  Calabria,  2*>  Estero  e  Macedonia, 
al  2°  reparti  di  Regina,  R.  Italiano,  R.  Borbone,  R.  Farnese,  R.  Cam- 
pagna, Puglia,  Lucania  e  Sannio. 

-     Busenello  al  Senato  veneto,  25  febbraio,  4,  11    e  18  marzo  1794. 

'     Id.,  4  e  25  marzo  1794. 

*  SiMiONi,  La  congiura  giacobina  del  17  94  a  Napoli,  Napoli,  Pierre, 
1914    (estr.    da   quest'Archivio,   anno    XXXIX). 

*  Busenello  al  Senato  veneto,  8  e  22  aprile  1794. 


—  306  — 

interna  —  date  le  giornaliere  -scoperte  di  trame  giacobine  nella 
capitale  e  nelle  provin^iie  — ,  fu  deciso  di  costituire  un  campo  di 
osservazione  tra  Sessa  e  il  Garigliano,  con  carattere  provviso- 
rio. «  Per  non  agitare  —  scrive  il  residente  veneto  —  questa 
popolazione  ora  tanto  turbata,  né  potendosi  dare  di  nascosto 
queste  disposizioni,  si  è  fatto  spargere  la  voce  che  il  campo  si 
è  fatto  per  preparare  la  nota  spedizione  in  Lombardia,  e  che 
non  durerà  che  40  giorni,  e  se  ne  è  dato  il  comando  al  mare- 
sciallo Daniele  de  Gambs,  con  l'ordine  di  fare  qualche  evolu- 
zione^... ». 

Un  real  dispaccio,  infatti,  del  29  aprile  1794  ordinava  nel  luo- 
go detto  di  S.Maria  la  Piana  presso  Sessa,  prescelto  dal  mare- 
sciallo de  Gambs  e  dal  capitano  ing.  D.  Ludovico  de  Sauget, 
un  campo  «  per  ora  »  di  5  reggimenti  di  fanteria  (Re,  R.  Na- 
poli, Messapia,  Borgogna  e  Calabria)  e  di  6  squadroni  della  P 
brigata  di  cavalleria,  «  per  poterne  uscire  ed  impiegarsi  util-j 
mente  in  campagna,  ove  la  necessità  ed  urgenza  possa  richie-: 
derlo  »,  agli  ordini  del  de  Gambs  e  dei  brigadieri  Micheroux  e 
Montalto  ^.  H  campo  di  Sessa  (che  non  valse  ad  impedire  le 
numerosissime  diserzioni,  dovute  alla  sottile  propaganda  ri- 
voluzionaria favorita  dalle  fatiche  della  truppa  e  dalla  paga 
insufficiente,  diserzioni  che  dettero  luogo  nel  maggio  e  nel  giu- 
gno a  cruenti  episodi  ad  A  versa  e  a  Napoh)  fu  sciolto  il  30  giu- 
gno per  le  malattie  infettive  scoppiate  tra  le  truppe,  ma  so- 
pratutto per  le  nuove  decisioni  della  Corte  in  seguito  alle  ri- 
chieste di  Vienna^. 

"■  Id.,   6  maggio   1794. 

»  Arch.  Di  St.  di  Napoli  (Guerra),  Reali  OrdinU  voi.  77  (disp.  29 
aprile  1794).  Cfr.  anche  Logerot,  ms.  cit.,  capo  VII,  §.  3»;  Busenello  al 
Senato  Veneto,  6  e  13  maggio  1794. 

^    Reali  Ordini  cit.,  voi.  77  (disp.  25  giugno  1794).   I  reggimenti  Re,\ 
R.  Napoli,  Messapia  e  i  granatieri  di  Borgogna  vennero  acquartierati  a\ 
Gapua,  i  fucilieri  di  Borgogna  a  Gaeta.  La  paga  delle  truppe  era  di  cinque" 
grana  per  gli  alimenti.  Un  severo  dispaccio  del  6  maggio  comminava  ri- 
gorosi castighi  ai  disertori  ;  ciò  non  impediva  che  insubordinazioni  gravi 
avvenissero  nel  regg.  R.  Macedone  e  si  avessero  vere  battaglie  ad    Aversa 
tra  disertori  e  regolari  il  26  maggio  e  tra  disertori  e  lazzari  a  Napoli  presso 
Porta  Capuana,  ai  primi  di  giugno  (Busenello  al  Senato  Veneto,  27  maggio 
e  10  giugno  1794). 


—  307  — 

Il  residente  veneto,  l'S  luglio,  informava  il  Senato  deirarri- 
vo  d'un  corriere  espresso  da  IVIilano  con  lettere  dell'imperatore 
inviate  tosto  a  Caserta.  Si  trattava  di  nuove,  pressantissime 
domande  di  rinforzi  e  specialmente  di  cavalleria,  poiché  la  ca- 
valleria alleata  era  di  gran  lunga  inferiore  alla  francese,  che  si 
raccogheva  a  Nizza.  Dopo  numerosi  e  segreti  Consigli  di  stato, 
non  potendo  aderire  la  Corte  per  le  truppe  di  fanteria,  fu  deciso 
di  mandare  nella  Lombardia  austriaca  12  squadroni  di  caval- 
leria, imbarcandoli  —  ad  onta  del  maggiore  dispendio  —  so- 
pra polacche  e  bastimenti  mercantili,  scortati  da  legni  da  guer- 
ra fino  a  Livorno,  allo  scopo  di  affrettarne  il  più  che  fosse  pos- 
sibile r  arrivo  a  destinazione  ^. 

La  notizia  era  esatta  :  fin  dal  16  giugno  il  Gallo  aveva  scritto 
a  Napoli  che  l'imperatore,  a  mezzo  del  Thugut,  gli  aveva  fatto 
premura  di  pregare  il  re  di  Napoli  a  «  voler  soccorrere  alla  di- 
fesa d'Italia  con  un  corpo,  almeno,  di  cavalleria  e  con  qualche 
bastimento  di  guerra  sottile,  che  incroci  sulle  coste  di  Ponente 
ed  impedisca  i  trasporti  francesi  per  la  riviera  in  munizioni  e 
viveri  ^  ».  Per  quanto  si  scegliesse  l'ambigua  via  d'inviare  gli 


^  Dispaccio  8  luglio   1794. 

»  Gallo  ad  Acton  (confidenziale),  16  giugno  1794  (Arch.  di  St.  di  Na- 
poli, A.  E.,  Austria,  voi.  73).  I  documenti  ufficiali  dell'accordo  per  Ir. 
spedizione  di  Lombardia  sono  in  Arch.  di  St.  di  Napoli,  f.  2006,  Sardegna, 
Diversi  1790-1798.  La  lettera  di  richiesta,  firmata  dal  Thugut,  è  in  data 
3 1  maggio  da  Valenciennes  :  in  essa  il  ministro  austriaco  a  nome  dell'im- 
peratore, pur  riconoscendo  «les  motifs  fondés  de  circospection  et  de  pru- 
dence,  que  les  circonstances  de  l'odieux  complot  decouvert  à  Naples  peu- 
vent  indiquer  à  la  sagesse  de  S.  M.  Sicilienne  »,  non  dubita  che  la  Corte  di 
Napoli  prenderà  parte  «  à  la  glorieuse  entreprise  de  defendre  l'Italie  contre 
des  barbares  par  qui  tonte  cette  belle  partie  de  l'Europe  se  trouveroit 
incontestablement  exposée  à  une  bouleversement  total  dès  qu'  ils  auroient 
réussi  à  envahir  la  Lombardie  »,  e  chiede  un  corpo  di  cavalleria  da  riu- 
nire all'esercito  imperiale  e  una  flottiglia  di  bastimenti  leggeri  che  dovrà 
intercettare  lungo  la  riviera  di  Genova  i  trasporti  d'approvvigionamento 
e  di  munizione  pel  nemico.  Richiede  quindi  al  re  di  Napoli  una  persona  di 
fiducia  da  mandare  a  Milano  per  intendersi  coll'arciduca  Ferdinando, 
governatore  della  Lombardia,  come  avevano  già  fatto  altri  principi  d'Ita- 
lia, fra  cui  il  Papa,  che  aveva  scelto  a  tale  scopo  il  card.  Albani.  Il  1°  luglio 
la  regina  stessa  annunziava  con  due  lettere  all'arciduca  Ferdinando  la  de- 
cisione presa  dalla  Corte  di  Napoli,  e  una  nota  ufficiale  veniva  inviata 


—  308  — 

squadroni  non  verso  i  passi  delle  Alpi,  ma  nei  piani  lombardi, 
è  evidente  che  la  decisione  finalmente  attuata  dalla  Corte  rap- 
presentava il  deciso  intervento  del  regno  di  Napoli  nelle  vicen- 
de militari  della  prima  coalizione. 


Un  dispaccio  in  data  5  luglio,  diretto  all'intendenza  dell'e- 
sercito, ordinava  il  rapido  approntamento  di  12  squadroni,  os- 
sia di  tre  reggimenti  di  cavalleria,  da  inviarsi  nella  valle  del 
Po  :  otto  squadroni  dovevano  scegliersi  dalla  prima  brigata, 
cioè  quattro  per  ciascuno  dei  reggimenti  Re  e  Regina,  gli  altri 
quattro  dovevano  formarsi  dai  reggimenti  Rossiglione,  Tana- 
gona,  Principe,  Napoli  e  Sicilia,  in  modo  da  costituire  il  terzo 
reggimento  che  avrebbe  dovuto  portare  il  nome  e  le  uniformi 
di  Principe.  Poiché  ogni  squadrone  doveva  essere  composto  di 
135  uomini,  la  forza  totale  dei  dodici  squadroni,  compresi  gh 
stati  maggiori  (66  uomini),  comprendeva  1686  cavalieri,  oltre 
a  una  piccola  riserva  di  120  uomini  montati  ^. 


dall'Acton  al  marchese  di  Gallo  ;  il  14  luglio  questi  rimetteva  al  Thugut 
la  risposta  alla  lettera  di  Valenciennes,  d'ordine  del  suo  re:  «  Malgrez  que  le 
Gouvernement  Napolitain  n'ait  pas  encore  pu  étouffer  entièrement  les  suites 
de  cet  infame  complot,  qui  s'etoit  ourdi  à  Naples,  et  qu'on  en  decouvre 
méme  encore  presque  chaque  jour  des  ramifications  dans  différentes  pro- 
vinces  tant  du  Royaume  de  Naples  que  de  celui  de  Sicile...,  cependant 
S.  M.  Sicilienne  ne  balance  pas  à  faire  quelque  sacrifice  de  ses  propres  moy- 
cns  pour  donner  à  S.  M.  l'Empereur  une  nouvelle  preuve  de  l'energie  des 
sentimens  qui  l'animent  à  son  regard  ;  et  saìsissant  pour  cet  ellet  ce  qui  a 
été  propose  dans  la  lettre  de  S.  E.  M.r  le  baron  de  Thugut,  S.  M.  vient  de 
donner  ordre  à  un  Corps  de  Gavalerie  compose  de  12  Escadrons,  sous  les 
ordres  du  Brigadier  Prince  de  Cutò  de  partir  immediatement  et  ma.lgré 
les  grandes  chaleurs,  pour  étre  à  la  disposition  entière  et  illimitée  de  S.M. 
l'Empereur  pour  la  defence  de  la  Lombardie  et  sous  les  ordres  du  general 
commandant  de  son  armée  en  Italie  ».  A  tale  scopo  partiva  immediata- 
mente per  Milano  il  commissario  D.  Giuseppe  Bisogno.  Quanto  ài  basti- 
menti leggeri,  non  appena  scomparso  il  pericolo  d'un  attacco  della  flotta 
francese  di  Tolone,  essi,  già  pronti,  saranno  inviati  nella  riviera  di  Genova. 
^  Arch.  di  St.  di  Napoli  (Guerra)  f.  537,  Dispacci  per  la  campagna 
di  Lombardia  (1794-96:  Arch.  dell'Intendenza  dell'Esercito),  disp.  5  luglio 
1794. 


—  309  — 

I  tre  primi  reggimenti  che  dovevano  tener  alto  il  nome  della 
cavalleria  napoletana  sui  campi  di  Lombardia,  erano  dunque 
all'atto  della  partenza  : 

1.°  Re  —  colonnello  bar.  D.  Abramo  de  Bock. 

2-^  Regina  —  colonnello  D.  Enrico  bar.  di  Metsch. 

3.^  Principe  —  colonnello  D.  Francesco  Federici. 
Comandante  in  capo  era  il  maresciallo  di  campo  principe  di 
Cutò  ;  comniissario  di  guerra  il  capitano  graduato  D.   Ferdi- 
nando Bucarne,  primo  tenente  di  Borgogna^. 

Ed  era  con  essi,  veramente,  il  fior  fiore  della  nobiltà  e  delle 
armi  napoletane  :  nomi  non  soltanto  di  intrepidi  cavalieri  che 
9Ì  segnalarono  contro  le  agguerrite  schiere  del  Bonaparte  nella 
prima  campagna  d'Italia,  ma  di  soldati  che  servivono  col  brac- 
cio, nel  1799,  l'effimera  «repubblica  dei  filosofi»,  che  sali- 
rono —  come  il  Federici  —  il  patibolo  o  conobbero  le  dure  vie 
dell'esiUo,  che  più  tardi,  nel  Decennio  ed  oltre,  diedero  lustro 
alla  patria,  raggiungendo  alcuni  i  più  alti  fastigi  della  mihzia  : 
il  tenente  colonnello  principe  di  Hassia  PhiUppstadt,  i  primi 
maggiori  Diego  PignatelU  di  Marsico  ed  Agostino  Colonna,  i 
secondi  maggiori  Dionisio  Corsi  e  Giovanni  Battista  Fardella, 
il  capitan  tenente  Ottavio  Spinelh,  i  primi  tenenti  Mattia  An- 
tonio Grutter  e  Giuseppe  Staiti,  il  secondo  tenente  Michele  Ca- 
rascosa,  ed  altri  molti  che  ommettiamo  per  amor  di  brevità   ^. 


^  Cito  qui,  una  volta  per  sempre,  gli  scritti  più  importanti  sull'azione 
della  cavalleria  napoletana  in  Lombardia,  avvertendo  però  che  si  tratta 
sempre  di  notizie  sommarie,  esemplate  quasi  totalmente  sul  racconto  del 
Marulli,  0.  e,  I,  82-83  ;  87  sgg.  Tali  sono  :  «  Un  antico  uffìziale  di  arti- 
glieria »  [Andrea  d  e  Angelis  ;  cfr.  B.  Croce,  Una  famiglia  di  patrioti 
ed  altri  saggi  storici  e  critici,  Bari,  Laterza,  1919,  p.  105],  La  cavalleria  na- 
poletana nell'alta  Italia  dall'anno  1794  al  1796,  in  Antologia  Militare  [com- 
pilata da  A.  Ullga],  a.  V  (1840),  n.  10,  poi  in  [Ullga],  Fatti  di  guerra 
dei  soldati  napoletani,  Napoli,  R.  Tip.  Militare,  1852,  n.  1;  Ferrarelli, 
Memorie  storiche  militari  cit.  ;  E.  de  Rossi,  La  cavalleria  napoletana  nel- 
l'Alta Italia  dal  17  94  al  1796,  nelle  Memorie  Storiche  Militari,  f.  Ili  (di- 
cembre 1910),  p.  1  sgg. — Cfr.  anche  B.  Maresca,  La  pace  del  1796  fra  le 
Due  Sicilie  e  la  Francia,  Napoli,  Jovene,  1887,  p.  1;  Conforti,  Napoli  dal 
1789  al  1796,  cit.,  p.  243  sgg. 

*  Per  le  biografie  di  alcuni  fra  gli  ufficiali  che  raggiunsero  poi  i  più  alti 
gradi  dell'esercito  cfr.  M.  D'Ayala,   Vite  de'  più  celebri  capitani  e  soldati 


—  310— 

M.  Carolina  era  entusiasta  de*  suoi  cavalieri:  «Je  vois  par- 
tir nostre  cavalerie  avec  douleur,— scriveva  al  Gallo,  il  19  lu- 
glio. G*  est  là  ce  que  nous  avons  de  mieux  et  je  crains  que  nous 
en  reverrons  peu,  ayànt  trop  peu  de  monde  pour  tenir  téte  aux 
ennemis...  Pour  la  volonté  et  le  point  d'honneur,  c'est  ce  que 
nous  avons  de  mieux.  Gutò  les  commandera  prò  jorma,  et  les 
trois  colonels  effectivement  ;  c'est  Bock^  Metsch  et  Federici. 
Metsch  est  le  meilleur  des  trois,  mauvaise  ligure,  mauvaise  tour- 
nure,  mais  adoré  de  ses  soldats.  Il  les  a  montés  et  après  des 
peines  infinies,  il  en  est  très  aimé.  Enfm,  j 'espère  qu'ils  et  nous 
se  feront  honneur  ^  ». 


napoletani,  Napoli,  St.  dell'Iride,  1843  (Faldella,  p.  91  ;  principe  di  Cutò 
p.  239  ;  Colonna,  p.  397  ;  Pinedo,  p.  451  ;  Zenardy,  p.  543;  Federici,  p.  569; 
Russo,  p .  597).  Su  Francesco  Federici,  martire  della  repubblica  napole- 
tana, vedi  anche  D'Ayala,  Vite  degl'Italiani...  uccisi  dal  carnefice,  Torino- 
Roma,  Bocca,  1883,  p.  271.  Qualche  altro  particolare .  nel  cit.  fascio  537 
(Dispacci  per  la  campagna  di  Lombardia)  dell'Archivio  di  Guerra.  Cfr. 
anche  Elenco  delle  promozioni  fatte  nei  tre  reggimenti  di  Lombardia,  annesso 
al  disp.  22  luglio  del  residente  veneto.  Secondo  il  Croce  (La  rivoluzione  na- 
poletana del  1799,  3»ediz.  Bari,  Laterza,  1912,  p.  385)  sarebbe  partito  tra 
i  primi  anche  il  principe  di  Moliterno,  Girolamo  Pignatelli,  che  fin  dallo 
scoppio  della  guerra  contro  la  Francia  era  accorso  volontario  in  Piemonte, 
era  stato  aiutante  di  campo  del  comandante  in  capo  dell'esercito  austro- 
sardo  bar.  Devins,  e  ferito  e  fatto  prigioniero  nell'azione  di  Giletta  (ottobre 
1793),  era  stato  di  li  a  poco  liberato.  Due  nuovi  documenti  ci  permettono 
di  precisare  i  fatti.  Una  lettera  del  principe  di  Marsico,  ambasciatore  di 
Napoli  a  Torino,  del  2  luglio  1794,  annunzia  all'Acton  che  suo  figlio  prin- 
cipe di  Moliterno,  il  maggiore  Pausback  e  il  cap.  Piantanida  del  regg.  Ca- 
prara,  taciti  prigionieri  a  Giletta,  erano  stati  scambiati  col  gen.  Casablanca 
«  sulla  parola  di  non  più  combattere  contro  la  Francia  ».  Il  Moliterno  par- 
tiva da  Torino  il  4  luglio  per  Napoli.  (Arch.  di  St.  di  Napoli,  A.  E.,  Sar- 
degna, R.  Missione,  f.  1996).  Ma  il  principe  non  raggiunse  i  reggimenti  di 
Lombardia  che  nel  luglio  1795  ;  lo  attesta  un  dispaccio  del  brig.  Arriola 
al  Logerot  :  «  Avendo  il  Re  permesso  al  Principe  di  Moliterno,  capitano  ag- 
gregato al  regg.  di  cavalleria  di  Napoli  di  passare  in  Lombardia  a  far  cam- 
pagna in  qualità  di  capitano  aggregato  al  regg.  di  cav.  Regina,  vuole  S.  M. 
che  nel  solo  tempo  in  cui  egli  rimarrà  in  campagna,  conseguisca  il  soldo 
di  capitano  vivo,  in  due.  30  al  mese,  il  soprassoldo  mensuale  di  altri  du- 
cati 20,  e  tre  razioni  di  pane  e  cinque  di  foraggio».  (Arch.  di  Guerra, 
f.  537  cit.,  disp.  15  luglio  1795). 
*  Correspondance  inèdite  cit.,   I,  223. 


—  311  — 

Dapprima  si  era  pensato  di  far  partire  i  tre  reggimenti  per 
via  di  terra,  attraverso  lo  stato  romano,  poi  ragioni  di  oppor- 
tunità e  di  rapidità  avevano  fatto  prescegliere  la  via  di  mare 
e  lo  sbarco  a  Livorno,  dopo  trattative  con  la  Toscana  e  con  la 
repubblica  di  Lucca,  un  po'  riluttante  al  passaggio  ^. 

Il  22  e  il  23  luglio  aveva  luogo  l'imbarco  dei  primi  otto  squa- 
droni (Re  e  Regina)  su  54  tra  polacche  e  bastimenti  da  carico, 
e  il  23  stesso,  scortato  da  una  divisione  di  nove  legni  da  guerra, 
accompagnato  per  un  tratto,  fino  alle  bocche  di  Capri,  dal  re, 
imbarcato  sul  Guiscardo  e  vestito  con  l'uniforme  del  suo  reggi- 
mento, il  convoglio  salpava  da  Napoli  per  Livorno,  dove  giun- 
geva la  sera  del  3  agosto. 

Il  24,  ritornate  le  navi  da  trasporto,  partivano  gli  altri  quat- 
tro squadroni  di  Principe  su  26  polacche,  scortate  dalla  mede- 
sima squadra,  giungendo  il  7  settembre  a  Livorno.  Di  là  gli  squa- 
droni napoletani,  dopo  qualche  giorno  di  riposo,  si  ponevano 
in  marcia  verso  Pavia  :  nella  seconda  metà  di  settembre  i  reg- 
gimenti di  Napoli  erano  accampati  intorno  a  Lodi  in  attesa  de- 
gli avvenimenti  2. 


L'intervento  diretto  delle  mihzie  napoletane  nella  guerra  di 
Italia  obbligava  la  Corte  ad  apprestare  nel  regno  un  esercito 
che  fosse  in  grado  di  respingere  qualsiasi  pericolo  d'aggressione 
francese  nel  caso  di  rovesci  alleati  in  Lombardia.  Infatti,  un 
dispaccio,  datato  da  Caserta  5  agosto  1794  ^  stabihva  di  ac- 
crescere di  67.300  uomini  la  forza  miUtare,  valutata,  anche  con 
le  recenti  leve  ordinarie,  ad  appena  22.000  uomini. 

*  Cfr.  Arch.  di  Stato  di  Napoli,  A.  E.,  Sardegna,  Diversi,  1790-98. 

*  Fasci  citati,  passim;  Busenello  al  Senato  veneto,  29  luglio,  12,  19, 
26  agosto,  9,  16  settembre  1794. 

*  «  R.  Dispaccio  con  cui  per  le  attuali  circostanze  di  guerra  si  ordina 
nel  regno  la  leva  di  16  mila  reclute  per  l'Esercito,  la  formazione  di  truppe 
volontarie  ausiliarie,  consistenti  in  60  battaglioni  di  fanteria  e  20  squa- 
droni di  cavalleria,  e  il  tenersi  pronta  la  gente  atta  alle  armi,  allistata  fin 
dal  1792  »  (5  agosto  1794),  in  Arch.  di  Stato  di  Napoli  (Guerra),  f.  628, 
Decreti  a  stampa  (1746-1799).  Cfr,  anche  Busenello  al  Senato  veneto,  12 
agosto    1794. 


—  312  — 

Le  Università  avrebbero  dovuto  somministrare,  per  la  du- 
rata della  guerra,  o  «  volontariamente  o  con  bussola  »,  una  for- 
za di  16.000  reclute,  da  incorporarsi  nei  reggimenti  di  fante- 
ria esistenti.  Si  accettava  l'offerta  fatta  nel  1792  da  diversi  ba- 
roni, cavalieri  e  gentiluomini  S  di  formare  a  loro  spese  delle 
compagnie  di  soldati  per  la  difesa  del  regno  ;  uguale  facoltà  era 
concessa  a  tutti  i  sudditi,  secolari  ed  ecclesiastici,,  in  modo  da 
formare,  per  la  durata  della  guerra,  60  battaglioni  di  volon- 
tari ausiliari,  ognuno  di  800  uomini,  da  avviarsi  alle  frontiere 
del  regno  da  Aquila  a  S.  Germano  e  nelle  provincie  di  Salerno 
e  di  Montefusco.  Questi  battaglioni,  costituiti  in  gruppi  di  tre 
col  nome  di  1°,  2°,  3°  battaglione  di  volontari  ausiliari,  dove- 
vano essere  aggregati  a  ciascuno  dei  20  reggimenti  di  fanteria. 

Si  commetteva  inoltre  a  tutti  i  sudditi,  e  a  loro  spese,  la  for- 
mazione di  20  squadroni  di  cavalleria,  ognuno  di  165  uomini, 
composti  di  volontari  benestanti,  da  incorporarsi  nei  reggimenti 
Rossiglione,  Tarragona»  Napoli  e  Sicilia,  i  quali  avrebbero  do- 
vuto essere  raccolti  nella  capitale  a  disposizione  del  coman- 
dante della  Piazza,  gen.  Pignatelli,  e  dell'ispettore  della  ca- 
valleria, ten.  gen.  Filippo  Spinelli. 

Era,  senza  dubbio,  un  imponente    aumento  delle  forze  del- 
l'esercito che  in  gran  parte  lo  Stato  affidava  al  patriottismo  d( 
sudditi  ;  ma  se  non  mancarono  anche  nel  1794  le  cospicue  of- 
ferte dei  cavalieri  e  dei  gentiluomini  più  prossimi  alla  Corte] 
difficoltà  d*ogni  genere  si  affacciarono  fin  dai  primi  giorni 
il  gran  numero  di  volontari  che  si  chiedevano,  la  precaria  si-] 
tuazione  delle  finanze,  le  condizioni  dei  baroni  spossati  datanl 
pesi,  i  pessimi  sistemi  di  reclutazione,  la  contrarietà    invincil 


^  Tra  essi  il  dispaccio  regio  ricorda  il  duca  di  Cassano,  il  principe  di 
Supino,  il  duca  d.  Alfonso  Crivelli,  il  duca  di  Maddaloni,  il  duca  di  Laurino, 
il  principe  di  Leporano,  il  barone  D.  Giulio  Cesare  Donnaperna,  il  bar.  d. 
Francesco  Farina  di  Chieti,  D.  Fabrizio,  Saverio  e  Raffaele  Marincola, 
D.  Vitaliano  de  Riso,  D.  Odoardo  d'Ippolito,  D.  Saverio  Laudari,  D.  Giu- 
seppe e  D.  Francesco  Salzano  della  prov.  di  Catanzaro,  il  cav.  d.  Lelio  Ri- 
vera dell'Aquila,  D.  Fr.  Antonio  Rusciani  di  Terranova,  i  tenenti  D.  Sci- 
pione La  Marra  di  Sessa  e  D.  Filippo  Ciavoli  dell'Aquila,  D.  Costantino 
Perifano  di  Foggia,  D.  Eugenio  Fiorillo  Cavaselice  dì  Campobasso  etc. 


—  313  — 

bile  del  popolo  pel  servizio  militare  obbligatorio,  resero  assai 
lenta   e   tumultuaria   la   formazione    dell'esercito   di  guerra  ^. 

Bisognò  accordare  sempre  nuove  facilitazioni,  bisognò  — 
gravissima  disposizione  —  permettere  l'arrolamento  dei  rei  di 
omicidi  in  rissa,  di  ferite  e  di  armi  proibite  «  tanto  se  si  tro- 
vassero sotto  giudizio,  come  se  fossero  condannati  a  tempo- 
ranee pene  afflittive  di  corpo,  anche  di  galera  »  ^,  bisognò  so- 
spendere, su  proposta  del  gen.  Pignatelli,  la  vecchia  consue- 
tudine di  esimersi  dal  servizio  militare  col  pagamento  di  200 
ducati,  poiché,  se  in  pochi  giorni  si  erano  in  tal  modo  raccolti 
365  mila  ducati,  era  stato  necessario  elevare  dal  4  al  12  ®/o  la 
percentuale  di  leva  per  le  singole  Università  ^.  Bene  osservava 
il  residente  veneto:  la  guerra,  voluta  dalla  Corte  e  specialmen- 
te da  Maria  Garohna,  non  era  né  desiderata  né  sentita  dalla  na- 
zione, che  nelle  sue  classi  colte,  anche  in  quelle  immuni  da  idee 
francofile  e  giacobine,  considerava  l'impreparazione  del  paese, 
il  baratro  finanziario,  l'arresto  di  ogni  progresso  economico  dello 
Stato,  per  soddisfare  l'orgoglio  e  il  livore  della  regina  e  l' in- 
teresse dell'Austria  e  dell'Inghilterra,  e  nel  popolo  temeva,  con 
l'arresto  dei  traffici,  il  rincaro  dei  generi  di  prima  necessità  ed 
una  miseria  sempre  maggiore.  —  Così  le  difficoltà  aumentavano 
di  giorno  in  giorno,  specie  in  quelle  provincie,  come  nelle  due 
Calabrie,  dove  peggiori  erano  le  condizioni  generali  e  più  pro- 
fondo il  malcontento. 

Tuttavia,  nel  dicembre,  pareva  che  in  seguito  alle  insistenze 
di  Vienna,  si  pensasse  seriamente  ad  inviare  in  Lombardia  un 
contingente  di  truppe  di  hnea:  un  dispaccio  regio  ordinava  infatti 
che  si  tenessero  pronti  a  marciare  in  campagna  19  battaglioni  di 
fanteria,  oltre  a  un  corpo  di  900  artiglieri  (12,128  uomini  in  tutto), 


^  Gfr.  Busenello  al  Senato  veneto,  19  agosto,  2  e  16  settembre  1794. 
M.  Carolina  aveva  previsto  le  difficoltà  del  reclutamento  :  «  Le  Roi  —  scri- 
veva al  Gallo  —  a  ordonné  une  nouvelle  levée  très  consldérable...  Ce  pays 
n'ayant  jamais  été  préparé  à  la  guerre,  je  doute  et  je  crois  qu'il  sera  très, 
très  diffìcile  de  trouver  tanL  de  recrues,  mais  on  fera  de  tout  »  (Correspon- 
dance  inèdite  cit.,  I,  226). 

^  R.  Dispaccio  21  agosto  1794,  in  Busenello  al  Senato  veneto,  26  a- 
gosto. 

*  Id.,  dispacci  4  novembre,  16  e  23  dicembre  1794. 

Anno  XLV.  21 


—au- 
se pure  tutti  questi  preparativi  —  come  insinua  il  residente 
veneto  —  non  rappresentassero  che  delle  parate  per  acque- 
tare le  continue  ricerche  della  Corte  di  Vienna  e  per  giustifi- 
care agli  occhi  del  pubbHco  le  spese  del  governo  e  le  gravi  mi- 
sure finanziarie  \  Certo  si  è  che  il  Gallo  aveva  l' ordine  di  di- 
mostrare a  Vienna  l'impossibilità  d'inviare  il  desiderato  con- 
tingente di  truppe  in  Lombardia,  mentre  i  regni  di  Napoli  e 
di  SiciUa  erano  minacciati  «  da  interne  pericolose  sedizioni  » 
e  da  possibili  aggressioni  dal  mare,  e  nel  marzo  1795  pareva  il 
Thugut  persuaso  delle  eccellenti  ragioni  del  ministro  napole- 
tano '. 

In  quei  primi  mesi  del  1795  non  è  difficile  notare  tra  le  ri- 
ghe della  corrispondenza  ufficiale  con  Vienna  e  nello  spirito 
dei  dispacci  miUtari  uno  stridente  contrasto  tra  la  volontà  e 
la  possibilità  :  mentre  il  pericolo  era  ancora,  in  fondo,  lontano 
e  gli  eserciti  francesi  non  riuscivano,  a  malgrado  dei  successi 
del  Massena,  a  sboccare  dalla  Riviera  di  Genova,  la  Corte,  che 
pur  avrebbe  voluto  partecipare  attivamente  alle  operazioni  in 
Piemonte,  preferiva  —  impressionata  dalle  difficoltà  interne 
ognora  crescenti  —  preparare  nel  regno  lo  strumento  della 
sua  difesa. 

Cosi,  mentre  appunto  in  un  consiglio  del  2  marzo  (pochi 
giorni  dopo  l'arresto  del  Medici  e  la  scoperta  della  nuova  grande 
congiura  di  Stato)  si  era  stabilito,  contro  il  parere  della  re- 
gina e  dell' Acton,  di  non  allontanare  altre  truppe  dal  paese 
e  di  concentrarle  invece  al  confine  per  impedire  i  minacciati 
ostili  propositi,  si  riprendeva  il  disegno,  già  in  parte  attuato 
l'anno  innanzi,  di  fonnare  un  campo  tra  Sessa  e  S.  Germano, 

»  Reali  Ordini  cit.,  voi.  77,  disp.  29  dicembre  1794.  I  battaglioni  di 
fanteria  dovevano  essere  costituiti  da  due  compagnie  di  granatieri  e  da  diie 
battaglioni  di  fucilieri  sul  piede  di  guerra  deiregg.  Re,  R.  Napoli,  Meesapia 
e  Borgogna  ;  di  due  battaglioni  di  fucilieri  di  Calabria  ;  di  un  battaglione 
di  fucilieri  di  Regina,  R.  Italiano,  Puglia,  Lucania  e  Sannio;  di  un  batta- 
glione, sul  piede  di  164  teste  per  compagnia,  di  R.  Macedonia  ;  delle  ri- 
spettive compagnie  di  granatieri  aumentate  fino  a  164  teste,  dei  regg.  1» 
e  2«  Esiero.  Cfr.  anche  Busenello  al  Senato  veneto,  23  e  30  dicembre  1794, 
6  gennaio  1795. 

*  Gallo  ad  Acton,  confid.  4  marzo  1795  :  Arch.  di  St.  di  Napoli,  A.  E., 
Austria,  voi,  74,  Diversi  (1795-1796). 


—  315  — 

riunendovi  la  maggior  parte  delle  guarnigioni  di  Gaeta  e  di 
Capua  che  obbedivano  rispettivamente  al  ten.  gen.  Tschoudy 
e  al  maresciallo  di  campo  De  Gambs  ^.  E  mentre  si  procedeva 
alla  riforma  di  qualche  reggimento  che  non  aveva  dato  buona 
prova  per  le  numerosissime  diserzioni,  come  il  R.  Macedonia  2, 
e,  in  seguito  a  gravi  disordini,  s'impartivano  ordini  severi  per 
la  reclutazione  ^  un  dispaccio  in  data  29  giugno  1795  ordi- 
nava in  brigate  ed  in  divisioni,  secondo  lo  specchio  seguente, 
i  20  reggimenti  di  fanteria  regolare  : 

)  P  Brigata  —  Re  e  Regina 
1^  Divisione  > 

(Daniele  De  Gambs)   )  2*  Brigata  —  R.  Borbone  e  R.  Farnese 


2*  Divisione 
(Carlo  Tschoudy) 


1*  Brigata  —  R.  Napoli  e  R.   Palermo 
2*  Brigata — R.  Italiano  e  R.  Campagna 

1*  Brigata  —  1^  e  2^  Illirico 


3^  Divisione  7 

(Diego  Naselli)  ;  2*  Brigata  —  Puglia  e  Lucania 

[con  r  ispezione  dei  Fucilieri 
di  Montagna  e  degl'Invalidi] 


4*  Divisione 
(Fabrizio  Pignatelli 
di  Gerchiara) 


P  Brigata  —  Sannio  e  Messapia 
2*  Brigata  —  Calabria  ed  Agrigento 


^  Busenello  al  Senato  veneto,  3, 10,  17  marzo  1795. 

«  Id.,  5  e  12  maggio  1795. 

»  Il  residente  veneto  racconta  che  molte  reclute,  appena  arrolate,  di- 
sertavano ;  altre,  specialmente  in  Terra  di  Lavoro  e  nel  Principato  cite- 
riore, o  avevano  ucciso  gli  agenti  pubblici  0  s'erano  privati  d'una  mano  o 
d'un  occhio,  pur  di  non  servire.  Le  Calabrie  avevano  dato  uno  scarsissimo 
contingente  «  per  gli  eccessi  minacciosi  di  quelle  torbide  popolazioni  ». 
Nuclei  di  disertori,  unitisi  a  malviventi  in  bande  di  trenta  0  quaranta  per- 
sone, rendevano  impraticabile  la  via  dagli  Abruzzi  a  Lecce,  rapinando  e 
uccidendo,  sicché  erano  stati  dati  ordini  severissimi  al  Marulli,  preside  di 
Lecce  e  direttore  generale  dell'Adriatico  (id.,  26  maggio  e  9  giugno). 


—  316  — 

Ìia  Brigata  —  Siracusa  e  Borgogna 
2^  Brigata  —  1^  e  2^  Estero  ^ 
[coi  volontari  di  Longone 
e  dei  Presidi  di  Toscana] 

Così  tra  richieste  e  diplomatiche  ripulse,  tra  difficoltà  tec- 
niche e  finanziarie  sempre  crescenti,  passò  quasi  tutto  il  1795, 
senza  che  un  solo  uomo,  oltre  i  tre  reggimenti  di  cavalleria, 
fosse  inviato  a  rafforzare  l'esercito  del  Devins.  Ma  nel  dicem- 
bre le  insistenze  di  Vienna  si  fecero  così  vive,  non  solo  sul  Ga- 
binetto di  Napoli,  ma  presso  tutti  i  principi  d'Italia,  che  nel 
febbraio  1796  poteva  il  Gallo  assicurare  il  Thugut  essere  pron- 
to un  corpo  di  circa  10.000  uomini  per  unirsi  agli  austro-pie- 
montesi. Esso  avrebbe  dovuto  comprendere  il  reggimento  di  ca- 
valleria Napoli  su  4  squadroni,  oltre  due  mezzi  squadroni  di  ri- 
monta ed  i  servizi  (1170  uomini),  due  battaghoni  di  fuciheri  della 
guarnigione  di  Gaeta  (Re  e  Borgogna),  sei  battaghoni  di  fuciheri 
e  due  di  granatieri  (Real  Napoli  e  Messapia)  della  guarnigione 
di  Gapua,  due  battaglioni  di  fuciheri  ed  uno  di  granatieri  deUa 
guarnigione  di  Napoh  (P  Estero  e  \^  R.l  Macedonia),  (8220 
uomini),  un  distaccamento  con  40  pezzi  del  Corpo  Reale  di 
artigheria  (630  uomini)  ;  in  tutto  10.020  soldati. 

Ma  di  essi,  soltanto  la  cavalleria  avrebbe  dovuto  partire  im- 
mediatamente ;  la  fanteria  e  la  cavalleria,  scriveva  Acton  al 
Gallo  il  16  febbraio,  avrebbe  lasciato  le  guarnigioni  sol  «  quando 
le  circostanze  di  questo  regno  lo  permetteranno  ».  E  subito  si 

^  Arch.  di  St.  di  Napoli.  Scritture  diverse  raccolte  dalle  Segreterie 
Stato  di  G.  Acton,  voi.  XLVII,  n.  2;  Reali  Ordini  cit.,  voi.  77,disp.  29  giugi 
1795.  Le  due  prime  brigate,  di  marcia,  erano  rispettivamente  agli  ordii 
dei  brigadieri  Francesco  Pignatelli  di  Casalnuovo  (già  comandante  di  Li 
canta)  ed  Antonio  Alberto  Micheroux.  È  noto  che  nel  maggio  era  avvi 
nuta  una  radicale  riforma  nel  governo  :  l'Acton  pur  conservando  sempre 
l'antica  influenza,  aveva  lasciato  gli  affari  esteri,  e  i  suoi  carichi  erano  stai 
divisi  fra  due  direttori,  l'uno  per  gli  affari  di  Stato  ed  Esteri,  Marina  e  Coi 
mercio,  e  fu  il  principe  di  Gastelcicala,  l'altro  per  la  Guerra  e  fu  scelto 
brigadiere  Giambattista  Manuel  e  Arriola,  che  con  r.  dispaccio  19  genm 
1795  era  stato  inviato  in  Sicilia  come  interino  ispettore  di  fanteria  in  luoj 
del  defunto  D.  Giuseppe  Dusmet  :  Reali  Ordini  cit.  ;  Busenello  al  Senatj 
veneto,  5  maggio  1795. 


—  317  — 

iniziavano  le  pratiche  col  Papa  e  con  le  Corti  di  Toscana,  di  Mo- 
dena e  di  Parma  per  il  libero  passaggio  degli  squadroni  napo- 
letani che  avrebbero  dovuto  raggiungere  per  via  di  terra  i  quar- 
tieri di  Lodi.  È  noto  per  gli  studi  del  Maresca  ^  come  — mentre 
il  papa  accoglieva  tosto  le  richieste  di  Napoli  e  le  trattative 
facilmente  approdavano  tra  il  card.  Zelada  e  V  inviato  napo- 
letano, il  conte  Gaetano  di  Ventimiglia  dei  principi  di  Bei- 
monte  —  la  Toscana  oppose  cosi  tenacemente  i  suoi  doveri 
di  stato  neutrale,  che  bisognò  mutare  itinerario  e  scegliere  la 
più  lunga  via  degli  Abruzzi  e  della  Romagna  ;  né  forse  que- 
st'improvviso ostacolo  fu  estraneo  al  mancato  invio  dei  reggi- 
menti di  fanteria,  quando  si  pensi  che,  seguendo  la  stessa  stra- 
da (poiché  non  si  poteva  più  fare  assegnamento  sul  porto  di 
Livorno  o  su  quelli  della  riviera  di  Genova),  sarebbero  occorsi 
più  di  tre  mesi  di  disastrosa  e  dispendiosissima  marcia  perché 
giungessero   a   destinazione. 

Cosi  mentre  il  VentimigHa,  dopo  i  felici  accordi  di  Roma, 
era  inviato  in  qualità  di  ministro  plenipotenziario  presso  la 
Corte  di  Parma  ed  i  governi  di  Milano  e  di  Genova,  e  special- 
mente incaricato  di  risiedere  per  ogni  evenienza  presso  il  ge- 
nerale comandante  dell'esercito  imperiale  in  Italia,  ai  primi 
di  marzo  si  fissava  pel  15  la  partenza  a  scaglioni  del  reggimento 
Napoli  cavalleria,  agli  ordini  del  colonnello  Antonio  Pinedo, 
e  si  stabilivano  da  Aversa  e  da  Santa  Maria  a  Lodi,  dove  avreb- 
be dovuto  giungere  tra  il  18  e  il  28  aprile,  gl'itinerari  di  mar- 
cia. Con  esso  partiva  il  brigadiere  D.  Prospero  Ruiz  de  Cara- 
vantes,  il  quale,  agli  ordini  del  principe  di  Cutò,  avrebbe  do- 
vuto assumere  il  comando  della  II  brigata  (Principe  e  Napoli)^. 

Quando,  alla  fine  d'aprile,  gli  squadroni  di  Pinedo  giunge- 
vano,  dopo  faticosissima  marcia,  sui  campi  lombardi,  già  il 

*  La  pace  del  17  96  tra  le  Due  Sicilie  e  la  Francia,  cit.,  pp.  17-22. 

2  Per  i  preparativi  di  partenza,  gì'  itinerari  e  gli  scopi  della  missione 
Ventimiglia,  cfr.  Arch.  di  St.  di  Napoli,  A.  E.,  f.  4264  (Spedizione  di  Ven- 
timiglia in  Milano,  Genova  e  Parma).  I. reali  dispacci  in  f.  537:  Dispacci 
per  la  campagna  di  Lombardia  cit.  Cfr.  anche  Busenello  al  Senato  veneto. 
23  febbraio,  1°,  8,  15,  22  e  29  marzo  1796.  Intorno  alle  continue  richieste 
di  Vienna  per  rinforzi  di  fanteria  e  di  artiglieria  è  da  vedersi  una  notevole 
lettera  di  M.  Carolina  al  Gallo,  in  Correspondancc  inèdite  cit.  I,  368. 


—  318  — 

Bonaparte  aveva  iniziato,    sul    Tanaro,    la    sua    travolgente, 
offensiva. 


I  reggin^enti  Re,  Regina  e  Principe  erano  giunti  alla  fine 
di  settenibre  del  1794  nei  quartieri  d'inverno  loro  assegnati  dal 
Devins  :  i  due  primi  a  Lodi,  il  terzo  tra  Godogno,  Casalpuster- 
lengo  e  Malleo  ^  Né  durante  la  campagna  del  1795  erano  sta- 
ti seriamente  impegnati,  all'infuori  di  Re,  che  nella  breve  of- 
fensiva austro-sarda  del  giugno  diretta  dal  Colli,  aveva  operato 
nella  zona  di  Vado-Finale-S.  Giacomo,  e  contribuito  a  cacciare 
alcuni  battaglioni  di  Kellermann  dalle  loro  posizioni  presso  il 
Toirano  K 

Quando,  successo  lo  Schérer  al  comando  dell'esercito  d'Ita- 
lia, i  francesi  sferrarono  improvvisamente  quel  vittorioso  at-- 
tacco  contro  il  Devins  che  culminò  nella  battaglia  di  Loam 
(23-28  novembre  1795),  la  cavalleria  napoletana,  concentrati 
nel  campo  di  S.  Salvatore  presso  Alessandria,  era  già  in  cammi- 
no per  raggiungere  gli  accantonamenti  tra  Lodi  e  Piacenza 
la  marcia  fu  sospesa  per  qualche  giorno,  poi  —  cessati  gli  at- 
tacchi francesi  —  i  reggimenti  del  Cutò  movevano  verso  i  quar-j 
ti  eri  d'inverno  dell'anno  innanzi. 


>  Per  la  narrazione  delle  azioni  dì  guerra  della  cavalleria  napoletani 
in  Lombardia,  pur  avendo  innanzi  agli  occhi  i  racconti  già  ricordati  de 
Marnili,  del  de  Angelis,  del  Ferrarelli,  del  De  Rossi,  seguo  dappresso  i  raj 
porti  ufficiali  che  sono  nell'ARCH.  di  St.  di  Napoli,  A.  E.  fascio  4340  (Guem 
in  Italia,  1796-97),  e  Carteggi  diversi  n.  178  (Carteggio  col  conte  di  Venti 
miglia- 1796).  I  conti  della  cassa  militare  formano  un  grosso  fascio  de 
I'Arch.  di  Guerra  (f.  596).  Per  la  parte  generale  cfr.  E.  Gachot,  La  pi 
mière  campagne  d'Italie  (1795-1798),  Paris,  Perrin,  1901,  e  F.  Bguviei 
Bonaparte  en  Italie  (1796)*,  Paris,  Cerf,  1902. 

*  Al  l»  novembre  1795  i  tre  reggimenti  avevano  la  seguente  forzs 

Jìe  —  ufficiali     25  —  truppa     520 

Regina     —         »  24  —        »  548 

Principe  —         «  25    —       »  526 


74 


1594 


oltre  a  10  ufficiali  dello  stato  maggiore  e  al  cap.  principe  di  Moliterno,  ^ 
gregato  al  regg.  Regina. 


—  319  — 

Allorché  il  25  aprile  1796  il  conte  Ventimiglia  giungeva  a 
Parma  coi  primi  due  squadroni  di  Napoli,  la  cavalleria  napole- 
tana aveva  lasciato  gli  accantonamenti  ed  era  passata  in  Pie- 
monte, agli  ordini  del  nuovo  generale  in  capo  degli  austro-sardi, 
il  Beaulieu. 

Già  il  Bonaparte,  preso  il  comando  dell'esercito  d'Italia, 
era  piombato,  fulmine  di  guerra,  sul  nemico,  aveva  separato 
nelle  giornate  di  Dego  e  di  Millesimo  austriaci  e  piemontesi, 
inseguito  questi  ultimi  e  battuti  ripetutamente  a  Ceva,  alla 
Bicocca,  a  Mondovi,  obbligando  il  re  di  Sardegna  all'armisti- 
zio di  Gherasco  (26  aprile  1796). 

I  reggimenti  napoletani  erano  entrati  in  azione  dopo  la  bat- 
taglia di  Mondovi.  Informato  il  Beaulieu  delle  pratiche  ini- 
ziate dalla  Corte  di  Torino,  timoroso  delle  conseguenze  mih- 
tari  della  defezione  del  re  di  Sardegna,  egli  aveva  tentato  una 
azione  d'avanguardia  su  Asti,  S.  Stefano  di  Belbo  e  Nizza  della 
Paglia,  movendo  dalle  alture  di  Terzo  il  corpo  del  Liptay,  con 
cui  era  il  reggimento  Regina,  e  da  Bosco,  lungo  la  Bormida,  il 
corpo  del  generale  Nicoletti,  da  cui  dipendeva  il  reggimento 
Napoli,  allora  giunto,  e  già  collocato  verso  la  sponda  destra 
del  Ticino,  a  custodia  del  ponte  di  Pavia.  Col  grosso  marcia- 
vano i  reggimenti  Regina  e  Principe.  Era  ormai  troppo  tardi: 
sconcertato  dalla  «  fatale  »  notizia  dell'armistizio  piemontese, 
minacciato  dall' avanzarsi  del  Bonaparte  su  Possano,  il  Beau- 
lieu ordinava  la  ritirata  generale;  ma  nello  stesso  tempo,  per  ri- 
tardare la  marcia  del  nemico,  tentava  di  occupare  con  un  colpo 
di  mano  le  fortezze  di  Tortona,  di  Alessandria  e  di  Valenza. 

La  sorpresa  delle  due  prime,  affidata  rispettivamente  alla 
brigata  Pittony  e  a  due  reggimenti  di  ussari,  falli  per  l'accor- 
gimento dei  loro  comandanti  e  per  la  lentezza  delle  mosse  au- 
striache ;  ma  il  reggimento  Re,  avanguardia  d'una  colonna 
agli  ordini  del  gen.  Nicoletti,  riusciva  sotto  la  guida  del  prin- 
cipe d'Hassia  e  del  ten.  col.  Fardella  ad  occupare  Valenza. 
Intanto  il  29  aprile  il  Beaulieu  proseguendo  nella  sua  ritirata 
passava  la  Bormida  sul  fianco  destro  di  Alessandria  ed  il  30 
si  riuniva  in  Valenza  alla  colonna  Nicoletti;  di  là  il  2  maggio, 
ordinato  lo  sgombro  della  città,  dopo  aver  inchiodati  i  canno- 
ni e  bruciato  il  ponte  sul  Po,  il  grosso  dell'esercito  austriaco 


—  320  — 

coi  cavalieri  napoletani  si  concentrava  nel  campo  di  Otto- 
biano,  la  destra  appoggiata  all'Agogna  e  la  sinistra  a  Valeggio. 
Il  corpo  del  gen.  Rosselmini,  composto  di  9  battaglioni  e  del 
regg.  Napoli,  che  si  ritirava  da  Tortona,  si  schierava  presso  il 
ponte  sul  Po,  a  Pavia. 

Ingannato  dalle  abili  mosse  del  Bonaparte,  che  ostentata- 
mente mostrava  di  voler  passare  il  Po  a  Valenza,  il  Beaulieu 
aveva  concentrate  da  quella  parte  le  sue  difese  ;  quando,  trop- 
po tardi,  fu  avvertito  che  l'avanguardia  di  Laharpe,  condotta 
dal  gen.  Dallemagne,  era  giunta  il  mattino  del  7  maggio  a  Pia- 
cenza e  che  la  sera  stessa  aveva  lanciato  oltre  il  Po,  verso  Fom- 
bio,  500  granatieri  di  Lannes,  per  costituirvi  una  solida  testa 
di  ponte  e  prendere  quindi  a  rovescio  le  posizioni  occupate 
dagli  austriaci.  D  BeauHeu  inviava  allora  a  marce  forzate  la 
divisione  Liptay,  forte  di  4  battaglioni  di  fanteria,  di  due  reg- 
gimenti di  ussari  e  dei  quattro  squadroni  di  Regina,  allo  scopo 
di  ributtare  nel  fiume  l'avanguardia  francese,  mentre  egli  stes- 
so si  spostava  a  Lomello  e  poi  sulla  destra  di  Pavia,  di  là  dal 
Ticino.  Il  regg.  Regina,  giunto  di  buon  trotto  innanzi,  attac- 
cava animosamente,  guidato  dal  col.  di  Metsch,  i  quadrati 
francesi,  li  sgominava,  rompeva  il  ponte  di  barche  sul  Po,  fin- 
ché veniva  arrestato  nel  bosco  della  Mezzana  dai  granatieri 
del  col.  Lanusse.  L'azione,  che  durava  fino  a  notte,  costava 
ai  napoletani  una  sessantina  di  uomini  posti  fuori  di  combat- 
timento 0  prigionieri  :  tra  essi  il  principe  di  Moliterno,  capi- 
tano del  4**  squadrone,  gravemente  ferito  da  un  colpo  di  mo- 
schetto che  gli  aveva  spezzato  un  occhio  e  rotto  il  naso  ^.  Nella 


*  Cfr.  Croce,  La  rivoluzione  napoletana  cit.,  p.  385.  Il  conte  di  Venti- 
miglìa  scriveva  all'Acton  il  12  maggio  :  «Giunto  in  Mantova  circa  le  ore 
9  della  sera  trovai  alla  locanda  il  principe  di  Moliterni  in  letto,  il  quale 
molto  soffriva  per  la  ferita  ricevuta,  ma  che  con  tutto  ciò  sarebbe  partito 
domane  per  Verona  per  non  rischiare  di  rimaner  qui  prigioniere  »  {Car- 
teggi diversi  cit.).  Un  ritratto  del  principe  Moliterno,  con  l'occhio  coperto 
da  una  benda,  è  nel  Museo  di  S.  Martino,  e  fu  riprodotto  da  B.  Croce  in 
questo  Archivio,  XXVII  (1902),  p.  101.  Per  questo,  durante  l'epico  gen- 
naio del  1799  egli  era  insultato  dalla  plebe  col  nome  di  cecato  fauzo  :  vedi 
La  rivoluzione  napol.  del  1799  illustrata  etc.  a  cura  di  B.  Croce,  G.  Ceci, 
M.  d'Ayala,  S.  di  Giacomo,  Napoli,  Morano,  1899,  p.  12.  Per  l'azione  del- 
VS  maggio,  cfr.  Cairo  G.,  La  battaglia  di  Fombio  e  la  sorpresa  di  Codogno 


—  321  — 

notte  il  Liptay  ritirava  a  Fombio  la  truppa  ;  ciò  dava  tem- 
po ai  francesi  di  riattare  il  ponte  e  di  riprendere  il  passaggio 
del  fiume.  La  mattina  del  9  il  nemico  di  gran  lunga  rinforzato 
attaccava  il  corpo  del  Liptay  e  l'obbligava  a  ritirarsi  a  Codo- 
gno  e  quindi  a  Pizzighettone,  continuamente  molestando  il 
regg.  Regina  passato  alla  retroguardia,  il  quale  ebbe  nella  ri- 
tirata tre  ufficiali  feriti  e  40  uomini  fuori  combattimento,  e 
che  fu  l'ultimo  a  passare  l'Adda,  e  a  ritirarsi  quindi,  d'ordine 
superiore,  a  Cremona. 

Intanto  il  Beaulieu,  credendo  il  Liptay  ancora  a  Fombio, 
marciava  a  quella  volta  col  grosso  delle  sue  truppe,  ed  avendo 
alla  testa  il  regg.  Re,  entrava  alle  undici  di  sera  a  Godogno 
credendola  occupata  dagli  austriaci,  mentre  vi  era  già  stan- 
ziata la  divisione  Laharpe.  Il  primo  squadrone  di  i?6,  il  solo 
entrato  in  città,  fu  immediatamente  accerchiato,  e  dovette 
aprirsi  la  strada  con  molto  sangue:  nel  trambusto  di  quella  tra- 
gica notte  cadeva  ucciso  per  isbaglio  dai  suoi  lo  stesso  gen.  La- 
harpe ^- 

All'alba  gli  austriaci,  accortosi  dell'errore,  riparavano  a  Ca- 
salpusterlengo  e  di  là  a  Lodi  (9  maggio)  ;  i  regg.  Re  e  Principe 
protessero  la  retroguardia  con  duri  combattimenti  e  furono  gU 
ultimi  a  traversare  l'Adda. 

La  ritirata  fu  disastrosa.  Il  Beaulieu,  dato  ordine  che  la  co- 
lonna Sebottendorf,  composta  di  5  battaglioni  di  fanteria,  una 
divisione  di  ussari  e  il  regg.  Napoli,  la  quale  era  rimasta  a  guar- 
dia del  Po  ad  oriente  di  Pavia,  si  ritirasse  a  marce  forzate  per 
tutte  le  strade,  e  che  il  gen.  Colh,  che  era  a  Vigevano,  prendesse 
la  via  di  Milano  e  del  lago  di  Como,  riordinava  a  Lodi  l'armata 
coll'intento  di  difendere  ad  oltranza  il  passaggio  dell'Adda  : 
minava  il  ponte,  poneva  ai  posti  avanzati  i  due  reggimenti 
napoletani,  ordinava  il  deflusso  delle  artigherie  e  lo  sgombro 


(1796),  in  Napoleone,  s.  II,  a.  1917,  nn.  3-4.  L'arciduca  Ferdinando,  venuto  a 
Mantova  da  Milano,  aveva  fatto  grandi  elogi  del  regg.  Regina,  che  aveva 
avuto  due  volontari  morti,  due  ufficiali  (Moliterno  e  Resta)  e  6  soldati 
feriti,  un  uflìciale  (Navarrete)  e  parecchi  soldati  prigionieri. 

»  Cfr.    Secrétant,    Le   general   Amédée   de   Laharpe,    Lausanne  -  Paris, 
Chevalier,   1898. 


322 


dei  magazzini;  indi,  giunto  la  sera  il  corpo  del  Sebottendorf 
e  quello  del  gen.  Schubirz,  che  aveva  formato  i  corpi  avanzati 
sul  Po,  decideva  invece  di  proseguire  la  ritirata  in  direzione 
di  Crema,  con  alla  testa  i  regg.  Re  e  Principe. 

Al  corpo  del  Sebottendorf,  a  cui  appartenevano,  come  di- 
cemmo, gli  squadroni  di  Napoli,  fu  affidato  il  compito  di  di- 
fendere il  ponte  di  Lodi.  È  noto  il  temerario  assalto  dei  gra- 
natieri francesi,  guidati  dal  Bonaparte,  preceduti  dal  Massena, 
dal  Berthier,  dal  Lannes,  dal  Cervoni  (10  maggio)  e  la  tenace 
difesa  del  Sebottendorf,  prima  di  battere  in  ritirata  la  sera 
sulle  orme  del  suo  duce  supremo^. 

Nella  dura  mischia  il  regg.  Napoli,  per  quanto  «  stanco  e 
sbigottito  »,  si  segnalò  per  valore  e  per  rapidità  di  mosse  e 
contribuì  validamente  a  respingere,  nelle  prime  azioni,  la  foga 
dei  soldati  repubblicani. 

Intanto  il  corpo  del  Liptay,  separato  dal  grosso  dell'eserci- 
to austriaco,  si  era  fortificato  il  9  a  Pizzighettone,  inviando  due 
battaglioni  e  il  regg.  Regina  a  Casalmaggiore  per  impedire  al 
nemico  il  passaggio  del  Po.  Ma  la  mattina  del  10  preferiva  ri- 
tirarsi verso  Cremona  in  cerca  del  Beaulieu,  mentre  il  nemico, 
occupata  la  città,  incalzava  il  distaccamento  di  Regina,  riti- 
rato dalla  confluenza  dell'Adda  col  Po.  Raccolte  faticosamente 
e  con  gravi  perdite  le  sue  forze,  il  Beaulieu  proseguiva  la  marcia 
verso  il  Mincio,  lasciando  a  guardia  dei  ponti  suU'Oglio  il  ten. 
col.  Fardella  con  due  squadroni  di  Re,  due  battaglioni  di  gra- 
natieri ungheresi  e  quattro  pezzi  d'artiglieria  leggera.  Più  volte 
attaccato,  il  Fardella  si  difese  valorosamente  ;  quando  seppe 
della  ritirata  del  Beaulieu  oltre  il  Mincio,  fece  saltare  i  ponti,] 
incendiò  le  barche,  indi  raggiunse,  continuamente  molestato,! 
il  grosso  dell'esercito  austriaco. 

La  marcia  del  Beaulieu  non  era  stata  facile  :  premuto  dal 
nemico,  egli  aveva  piegato  a  sud-est  e  dopo  essersi  riunito  col 
Liptay,  toccava  Cremona,  Marcaria,  Rivalta;  quindi  raccoltoj 
il  regg.  Napoli,  che  copriva  la  retroguardia  del  corpo  del  gen. 
Schubirz,  e  gli  avanzi  di  Sebottendorf,  concentrava  l'armata 


^  FRAyiCUKTTi,  Storia  d' Italia  dal  17  89  al  1799,  Milano,   Vallardi,  s.  a. 
pp.  307-308. 


—  323  — 

la  mattina  del  16  maggio  a  Roverbella,  dove  lo  raggiungeva 
cinque  giorni  dopo  il  Colli  con  le  sue  truppe  decimate. 

Il  18  il  Beaulieu,  lasciate  le  posizioni  di  Borgoforte  e  Rivalta, 
si  spostava  col  quartiere  generale  a  Roverbella,  e  mentre  av- 
viava il  grosso  col  gen.  Liptay  verso  il  Trentino,  guarniva  la 
linea  del  Mincio  per  ritardare  la  marcia  del  Bonaparte  :  la  de- 
stra a  Peschiera,  il  centro  tra  Valeggio  e  Borghetto  (brigata 
Pittony  con  gli  squadroni  di  Regina),  la  sinistra  col  gen.  Colli 
a  Goito  (regg.  Re  e  Principe)  ;  Napoli  in  riserva  tra  Villafranca 
e  Castelnuovo.  Il  29  maggio,  improvvisamente,  il  Massena, 
giunto  sul  Mincio  con  una  rapida  marcia  d'avvicinamento,  lan- 
ciava l'avanguardia  oltre  il  fiume  dinanzi  a  Borghetto.  I  gra- 
natieri, passato  a  guado  il  Mincio  con  l'acqua  fin  sopra  il  petto, 
s'impadroniscono  sotto  la  mitraglia  dell'artiglieria  nemica  e 
delle  alture  circostanti  ;  sulle  loro  orme  la  cavalleria  di  Kil- 
maine  penetra  sciabolando  in  Valeggio,  dov'era  il  Beauheu 
ammalato.  Per  salvare  il  comando,  si  dà  ordine  a  una  divi- 
sione di  ulani  (Maszaras),  ad  un'altra  di  ussari  dell'Arciduca 
Giuseppe  e  ai  napoletani  di  Regina  di  attaccare  la  cavalleria 
nemica  negli  abitati  di  Valeggio  e  di  Borghetto.  I  nostri  squa- 
droni caricano  i  francesi  con  grande  impeto,  ed  a  prezzo  di  gra- 
vi perdite  permettono  al  Beaulieu  e  alla  fanteria  austriaca  di 
sciogliersi  dalla  stretta  e  di  ritirarsi  sull'Adige  :  costretti  a  pie- 
gare, di  nuovo  attaccati  ed  accerchiati  sulla  via  dell'Adige,  si 
difendono  con  coraggio  :  il  reggimento  ha  centocinquanta 
uomini  fuori  di  combattimento  ;  il  cap.  Basurdi,  gravemente 
ferito,  muore  a  Villafranca,  l'aiutante  Preca  è  pure  ferito,  lo 
stesso  principe  di  Cutò,  il  tenente  colonnello  Colonna  di  Sti- 
gliano, ed  altri  ufficiali  e  soldati  cadono  prigionieri.  All'azione, 
brillantemente  sostenuta  dai  napoletani,  partecipa  anche  uno 
squadrone  di  Napoli,  comandato  dal  capitano  G.  B.  Caracciolo. 

Intanto  i  reggimenti  Re  e  Principe,  sotto  la  guida  del  briga- 
diere Ruiz,  sostenendo  aspri  combattimenti  di  retroguardia, 
si  ritiravano  per  Villafranca  e  Castelnuovo,  verso  l'Adige,  che 
il  31  maggio  valicavano,  a  Rivoli,  anche  i  resti  del  reggimento 
Regina.  Il  giorno  dopo  la  cavalleria  napoletana  era  avviata 
verso  Trento,  diretta  ad  acquartierarsi  nell'alto  Adige  fra  Me- 
rano e  Schlauders,  quando  l'armistizio  di  Brescia  (5  giugno) 


324 


chiudeva  la  sua  brillante  azione  di  guerra,  e  la  traeva,  poco 
appresso,  ad  attendere  con  l'arme  al  piede  la  non  lontana  pace 
negli  stati  veneti  :  il  regg.  Principe  a  Rezzato,  Napoli  fra  Pa- 
lazzolo  e  Rovato,  Regina  a  Rergamo,  Re  a  Crema  (luglio  1796)  ^. 

Ferdinando  IV  coniò  per  essa,  com'è  noto,  una  medaglia 
comi?iemorativa  ^  ;  il  principe  di  Cutò,  condotto  prigioniero 
a  Lodi  con  tutti  gli  onori,  ebbe  dalla  Corte  le  più  alte  lodi  ^  ; 
ma  l'elogio  migliore  venne  ai  cavalieri  napoletani  dal  Rona- 
parte,  a  cui  i  «  diavoli  bianchi  »  (dal  colore  delle  loro  divise), 
dettero  filo  da  torcere  sovente  in  quella  fulminea  campagna, 
e  che  al  Ruiz,  da  lui  convitato  a  Rrescia,  dopo  le  vittorie  del 
giugno  e  del  luglio,  diceva:  «  Generale,  mi  sono  bene  avveduto 
che  tra'  nostri  nemici  mancava  la  vostra  buona  e  bella  caval- 
leria ))  *. 

Prova  luminosa  questa,  che  l'esercito  napoletano,  quando 
ebbe  capi  valenti  ed  animosi,  quando  non  fu  massa  raccogli- 
ticcia di  malcontenti  o  di  criminaU,  quando  non  lo  inquina- 
rono quei  germi  di  dissolvimento,  che  la  corruzione  e  l'anar- 
chia del  governo  e  della  Corte  alimentarono  nel  prossimo  1798, 
fu  assai  migliore  della  sua  fama  e  seppe  coghere,  come  più  tar- 
di sui  campi  d'Europa,  allori  non  perituri. 


continua 


Attilio  Simioni 


1  Gfr.  Maresca,  La  pace  del  17  96  tra  le  Due  Sicilie  e  la  Francia  cit., 
pp.  32-79,  dove  sono  ampi  particolari  sulle  mosse  della  cavalleria  napo- 
letana dall'armistizio  di  Brescia  alla  pace  di  Parigi  (giugno-ottobre). 

^  Marulli,   Ragguagli,  1.   e.  ;   Albo  della    Rivoluzione  napoletana  cit., 
tav.  VI  e  n.  12  delle  illustrazioni. 

^  Arch.  di  St.  di  Napoli,  A.  E.,  f.  4660  (Acton  al  principe  di  Cutò, 
2  aprile  1797). 

*  D'Ayala,  Le  vite  de'  più  celebri   capitani    e    soldati    napoletani    cit. 
p.  249. 


DA    ARCHIVII     E    BIBLIOTECHE 


PER  LA 

STORIA  DELLA  CONGIURA  DEI  BARONI 

DOCUMENTI     INEDITI 

DELL'ARCHIVIO  ESTENSE 

1485-1487 


(Contili.  V.  fase,  prec,   pp.  128-151) 


XXX.Id.  Foggia,  20  settembre  1485. 
III. me  princeps,  el  m.co  m.  Branda  ducale  oratore,  essendo 
noi  altri,  il  Fiorentino  et  io,  nanti  al  conspetto  regio,  dove  etiam 
erano  el  S.  don  Federico  et  il  Secretarlo  et  il  conte  Brochardo, 
dixe  havere  havute,  poiché  se  parti  da  Napoli,  due  cavalchate 
de  Milano.  Eran  per  resposta  de  la  comune  scripta  el  27  del  pas- 
sato, le  quali  in  paucis  conteneano  che,  quanto  al  cercare  de 
fare  nova  lega  generale,  vel  reformare  la  particulare,  non  li  parea 
fusse  in  proposito  ;  prima,  per  la  generale,  per  non  dare  umbra 
ala  Signoria  de  Vinetia,  et  per  non  darli  occasione  de  stringerse 
cum  il  papa,  et  similiter  a  Sua  St.a  con  loro  ;  de  la  particulare 
autem  per  non  dare  diminutione  a  la  lega  et  suspecto  ad  altri 
che  la  non  fusse  ben  unita.  Del  mandare  autem  insino  a  cinque 
squadre  in  Romagna,  non  li  parea  fusse  in  buon  proposito  per 
non  dare  materia  a  la  Signoria  de  suspectare,  vedendo  muoversi 
giente  darme  per  Milano,  maxime  non  facendo  altro  effecto;  et 
pur,  quando  bisognasse,  fariano  muovere  de  quelle  terre  M. 
Joanne  in  Bologna^  et  de  quelle  del  conte  hieronimo  sono  in  Ro- 
magna. Ma,  per  dare  pur  adiuto  a  S.  Mta.  et  tale  che  li  possa  gio- 
vare et  non  nocere  a  niuno,  li  era  parso  subito  scrivere  a  Fran- 

*  Giovanni  II  Bentivoglio,  le  cui  relazioni  cogli  Aragonesi  si  possono 
vedere  in  Volpicella,  pp.  281-82- 


—  326  — 

Cesco  Oliva^  suo  cancelliere,  el  quale  e  appresso  il  conte  hiero- 
nimo,  ad  ciò  se  adrizasse  volando  a  N.  S.  a  Roma,  per  farli  in- 
tendere che  quello  Stato,  havendo  inteso  quella  comotione  deli 
baroni  contro  el  Re,  et  cum  speranza  del  favore  de  Sua  Beati- 
tudine, la  conforta  et  priega,  per  non  dare  materia  de  pertur- 
bare la  pace  de  Italia,  che  la  Sua  S.ta.  se  vogli  intromettere  per 
questa  cosa,  mostrandoli  che  ogni  mal  del  Re  sera  comune  a 
quello  Stato;  offerendo  etiam  mandarli  uno  altro  più  digno  ora- 
tore, el  quale  non  habii  a  fare  altro  sopra  questa  materia  cum 
Sua  S.ta.,  se  non  quanto  sarà  de  parere  de  Sua  M.ta.  et  che  li 
dirla  lo  R.mo.  card,  suo  figliuolo  et  M.  Anello. 

Il  re  dixe  che  pensasseno  de  levarli  da  le  spale  el  papa,  el 
quale,  come  se  vede  manifestamente,  non  cessa  d'ogni  canto 
dargli  noglia,  et  non  se  curarla  per  qualunque  modo  li  fusse 
levata  questa  molestia  li  da  Sua  S.ta.,  che  non  li  potesse  dare 
travaglio,  perchè  poi  de  li  baroni  se  ne  adiutaria. 

El  ducale  oratore  dixe  che  Sua  M.ta  posseva  star  di  buona 
voglia,  poiché  vedeva  chel  S.  Ruberto  non  se  havea  a  muovere, 
non  parendo  ala  Signoria,  si  per  non  turbare  la  pace  de  Italia, 
si  etiam  per  non  fare  despiacere  al  S.r  suo  et  S.r  Ludovico,  che 
se  ne  erano  travagliati  ;  unde  manchando  questo  caldo  nel  quale 
speravano  li  baroni,  era  da  credere  che,  non  se  confidando  de 
quello  del  papa  essendo  solo,  non  havendo  etiam  più  forza  di 
quello  habii,  se  adaptarano  ad  omni  cossa  cum  Sua  M.ta,  maxime 
promettendoli  etiam  el  S.r  suo  et  S.ri  fiorentini,  come  haveano 
già  l'uno  et  l'altro  li  mandati.  Imo  etiam  se  posseva  indubitanter 
credere  che  N.S.  se  levarla  da  questa  impresa,  poiché  vedea  che 
la  Signoria  non  se  volea  impazare,  come  tanto  più  se  intendeva 
esser  vero,  quanto  che  havea  havute  littere  da  Roma  dal  Card. 
Vesconte,  che  a  Venetia  era  ito  Mons.  Ibletoet  el  conte  de  Torse 
ad  instar  per  la  licentia  del  S.  Ruberto  et  S.  de  Camerino  2,  che 


'■  Di  Giovan  Francesco  Oliva  si  trovano  alcune  lettere  al  d,  di  Milano 
nel  secondo  volume  del  Rosmini,  Dell'istoria  intorno  alle  militari  imprese 
e  alla  vita  di  Gian  Iacopo  Trivulzio,  Milano,  1815,  p.  149  e  sgg.  Da  esse  si 
rileva  che  l'Oliva  fu  rappresentante  degli  Sforza  presso  Alfonso  di  Ara- 
gona, e  come  tale  appare  in  una  cedola  della  Tesoreria  aragonese  del  di- 
cembre 1486,  ricordata  dal  Volpicella.  V.  anche  doc.  CXXXVI. 

2  Della  missione  di  Giovanni  Sanseverino,  conte  di  Tursi,  a  Venezia, 
che  fu  preceduta  da  un'altra  a  Roma,  parla  I'Albino,  pp.  38-39  ;  e  vi  si 
accenna  anche  nei  Processi^  p.  XII.  Il  conte  di  Policastro  infatti  confessò 
di  avere  scritta  una  lettera  «  de  sua  propria  mano...  ad  effecto  de  non  fare 


—  327  — 

e  signo  che  la  Signoria  non  vole,  se  ha  bisognato  mandarli  di 
novo  li  prefati.  Ulterius  dixe  che,  havendo  mandato  il  Sr.  suo 
a  Roma  quello  Francesco  Oliva  suo  cancelliert,  et  mandandoli 
etiam  uno  altro  più  digno  da  Milano  a  fare  intendere  a  Sua  S.ta 
quanto  bisogna,  non  dubita  che  tanto  più  restara. 

Il  fiorentino  dixe  che,  per  littere  scripte  in  primis  al  orator 
loro  in  Roma,  questi  farla  cum  N.S.  tanto  quanto  li  sera  imposto 
per  lo  card,  de  Aragona  .  Quanto  al  parlare  de  la  lega,  concor- 
revano cum  il  parere  de  Sua  S.ria.  De  le  gente  darme  subito 
le  hano  spazate  verso  Cortona. 

Sua  M.ta  dixe  che  più  volte  a  Napoli  l'havea  detto  ad  ambi- 
due,  et  credea  non  bisognasse  più  lo  dicesse  quello  desiderasse. 
Pur,  poiché  M.  Branda  glilo  domandava,  iterum  ze  lo  diria.  Et 
subiunxe  che  voria  fusse  facto  come  lei  ha  operato  quando  son 
achaduti  li  bisogni  loro.  Etracordo  che  al  tempo  de  la  f.m.  del 
duca  Francesco,  subito  drizo  uno  consiglio  de  digne  persone, 
che  ogni  di  et  ogni  zorno  erano  inseme  cum  Sua  S.ria  da  per  se, 
per  pensare  et  consultare  quello  fusse  in  proposito  et  beneficio 
di  quello  Stato.  Et  cusì  advisava  et  significava  bora  per  bora,  in 
modo  che  trovarianse  etiam  le  littere  che  li  erano  resposte,  che 
dei  gratia  non  li  erano  necessarii  tanti  soi  racordi.  Successive, 
quando  accadete  elcaso  de  Bartholamio  da  Bergamo,  che  se  mosse 
andando  in  Romagna  contro  el  Stato  de  Fiorenza,  subito  fece 
cavalchare  el  S.  don  Alfonso  et  el  cavalero  Ursino  volando  per 
neve  et  per  piove  in  modo  che,  etiam  chel  vi  andasse  dopoi  el 
duca  Galeazzo,  se  non  vi  fossero  stati  li  soi  cussi  presto  come 
fumo,  la  cosa  era  spazata.  Si  che  fece  in  quelli  casi  quello  era 
suo  debito  et  non  altramente,  che  se  quilli  Stati  fussero  stati  li 
proprii.  Cussi  li  parerla  fusse  da  fare  in  questo  caso,  che  è  de  tanta 
importantia  quanto  se  possa  dire,  si  per  lei  come  per  li  coUigati. 
Per  lei  che  li  va  lo  Stato  et  ciò  ha  in  questo  mondo  et  li  figliuoli 
et  la  vita  propria,  sapendo  che,  se  perdesse  el  Stato,  perderla  la 
vita  et  rhonor  appresso.  Et  quando  cussi  seguisse,  poteriano 
pensare  et  vedere  li  altri  soi  coUigati  come  stesseno  li  Stati  loro, 
non  se  valendo  de  la  Sua  M.ta,  o  per  essere  travagliata  da 
quisti  baroni,  o  quando  perdesse  il  Stato,  quod  absit.  Unde  li 
parerla  che  per  quisti  dui  respecti  importantissimi  se  dovesse 


firmare  lo  conte  de  Turso  in  Roma,  ma  de  passare  ultra  al  S.  Ruberto  de 
Sanseverino  ».  Per  l'esito  della  missione  veneziana  del  conte  di  Tursi  v. 
doc.    XLIV. 


—  328 


pigliare  altra  cura  non  se  fa,  et  non  andare  cum  tante  ragioni 
et  reguardi,  però  che  il  caso  noi  richiede,  non  se  havendo  a  fare 
cum  gente  che  li  ponga  tanto  sale.  Gunciosiiche  tuta  questa 
mossa  non  poterla  esser  facta  cum  mancho  sentimento  et  ra- 
gione, sì  dal  canto  de  li  Baroni,  come  da  quello  de  N.S.et  di  chi 
gli  e  apresso.  Dicendo  Sua  M.ta  che  in  extraordinariis  ordo  est 
ordinem  non  servare,  et  che  li  era  tropo  gran  molestia  et  affano, 
quando  ogni  zorno  vedea  et  sentiva  chel  papa  non  cessava  per 
ogni  via  et  modo  dargli  travaglio,  mo  in  fare  qualche  tractato, 
come  e  stato  verso  TAquilla^,  mo  in  infestare  quisti  baroni  et 
sollicitarli,  mo  in  volere  fare  processi  contra  et  per  mille  altri 
modi.  Quantunque  de  li  processi  ne  facesse  piccol  caso,  perchè 
cum  verità  non  se  ne  potria  fare  se  non  per  una  causa,  che  ha- 
vesse  tropo  supportato  et  indulto  ali  baroni  in  angariare  et 
maltractare  li  subditi  soi,  et  non  già  per  altro  se  non  per  esserli 
tropo  buono  et  volerli  meglio  non  meritano.  Siche  voria  per  li 
colligati  li  fusse  celeriter  provisto,  o  per  uno  modo  o  per  un  altro, 
che  a  Sua  S.ta  fusse  necessario  de  attendere  et  bavere  el  penserò 
ad  altro  che  darli  noglia  ;  et  magiormente  li  preme  et  vuole, 
quando  pensa  chi  e  il  papa,  qual  dice  lo  conosce  meglio,  et  quanto 
vale,  che  non  se  conosce  lui  medesimo,  et  quanto  el  scia  di  guera 
et  di  pace,  et  quali  siano  li  soi  consulturi,  et  che  gente  haet  quanti 
dinari,  et  che  habii  animo  di  dargli  noglia,  et  dica  che  sapii  ben 
che  Milano  non  se  ne  impazara,  dicendo  Sua  M.ta  che,  quando 
li  soi  colligati  vorano,  saperano  ben  fare,  etiam  senza  arme,  che 
se  levara  da  la  impresa  per  molti  modi  et  mexi,  et  parli  che  non 
se  debba  expectare  che  se  scoprisca  più  de  quanto,  perchè 
quello  bora  se  faria  cum  poche  spese  et  quasi  cum  parole,  quando; 
le  cose  passassero  più  oltre,  poterla  andare  tanto  che  poi  non  se. 
li  potria  rimediare  cum  picoli  remedii  et  senza  spesa  grandissima,! 
ne  senza  molti  periculi  come  sono  ne  le  guere.  Et  interim,  stando^ 
le  cose  in  questo  suspecto,  lei  se  perderà  la  doana  dele  pecore^l 

^  Da  nessuno  degli  scrittori  che  si  sono  occupati  di  cose  aquilane,  né' 
dall'ANTiNORi,  op.  e  voi.  cit.,  p.  31  e  segg.,  né  dal  Rivera,  La  dedizione  degliì 
Aquilani  ad  Innocenzo  Vili  meglio  dichiarata  da  alcuni  brevi  dello  stesso] 
pontefice,  in  Bollettino  della   Società   di   Storia  patria   A.  L.  Antinori  negli 
Abruzzi,   I  (1885)  p.  4  e  segg.,  né  dal  Carusi,  Alcuni  documenti  ecc.,  ri- 
sulta che  il  papa  abbia  avuto  rapporti  con  gli  Aquilani  prima  del  21  set- 
tembre, data  del  breve  col  quale  Innocenzo  Vili  spedì  ad  Aquila  il  vescovo.] 
di  Bagnorea.  Ma  poiché  l'accenno  del  nostro  documento  è  molto  preciso,] 
bisogna  supporre  che  anche  in  precedenza  vi  furono  trattative  fra  il  papa^ 
e  i  suoi  aderenti  nella  città. 


—  329  — 

che  non  venirian  in  Puglia,  come  hora  ne  vene  el  tempo,  che  e  la 
summa  de  circha  centomillia  ducati  ;  se  ne  perderà  etiam  la 
tracta  de  li  grani,  che  sono  più  de  altri  tanti;  le  altre  insuper 
sue  entrate  patirano  diminutione  et  danno  grandissimo^.  Et 
cussi  ne  seguiran  inconvenienti  pure  assai  in  detrimento  et 
preiudicio  grandissimo  de  Sua  M.ta,  quando  non  se  li  prò  veda 
altrimenti  che  cum  littere,  subiungendo  che  per  li  oratori  dela 
lega  sono  a  Roma  oltra  se  havesse  a  depingere  a  Sua  S.ta  Tin- 
ferno  et  de  levarli  la  obedientia  quando  non  cessasse,  etiam  se 
dovria  tenire  de  le  pratiche  nele  terre  sue,  come  seria  per  Sig.ri 
fiorentini  in  quello  de  Perosa,  et  etiam  de  temptare  cum  el  S.r 
Virginio  Ursino  de  condurlo  et  de  adaptare  li  Colonisi  cum  lui, 
come  dimonstrano  hano  voglia  per  chiamarse  hora  malcontenti 
del  papa,  quando  pero  cussi  paresse  ad  epso  S.r  Virginio  del 
quale  se  ha  bona  speranza 2.  Et  in  questo  modo  dixe  Sua  M.ta 
sperarla  che  le  cosse  dovessero  andare  bene,  et  chel  papa  las- 
sarla questa  provintia  et  non  se  haria  cagione  de  venire  a  le 
armi.  Et,  quando  quisti  baroni  non  se  volessero  poi  adaptare, 
ne  facea  pocho  caso,  perchè  li  bastava  Tanimo  et  le  forze  sue 
senza  aiuto  d'altri,  non  solum  in  defendersi,  imo  in  castigarli 
et  punirli  de  la  rebellione  loro,  dicendo  assai  chiaramente  che 
de  lacordo  suo  hora  manco  ne  spera  che  habii  facto  sin  qui.  Anzi 
l'ha  per  desperato  per  molti  mali  signi. 

P.S.  Ut  supra,  XXI  septembris.  Nanfe  se  spazasse  la  caval- 
cata, giunse  el  duca  de  Melfi,  che  era  circa  hore  XX,  in  Fogia 
et  subito  andò  a  basare  la  mano  al  Re  cum  debita  reverentia,  el 
quale  lo  abrazo  et  monstroli  gran  festa  cum  bona  cera,  et  la  Sua 
M.ta  andò  ala  casa  et  menolo  cum  se  cum  multi  parlamenti. 

'     XXXI.    Id.    Foggia,    21    settembre    1485. 

Ill.me  princeps...  El  Re  desidera  in  primis  che  tuti  li  oraturi 
de  la  liga  habiano  commissione  da  li  Signori  loro  di  fare  quanto 
dira  el  card,  de  Aragona  et  m.  Anello. 

Secundo  che  S.ri  fiorentini  quelle  20  squadre,  che  havevano 
spazate  et  comenzate  a  drizare,  continuassero  in  mandarle  verso 

*  Che  le  condizioni  finanziarie  dello  Stato  non  fossero  in  quel  tempo 
molto  floride  è  provato  dagli  aggravi  fiscali  imposti  poco  prima  (v.  doc. 
VII).  A  questo  proposito  si  tenga  presente  quanto  depose  il  Bentivogli 
{Processi,  p.  LI),  che  riferì  la  seguente  frase  del  princ.  di  Salerno  :  «  Mo 
me  ha  dicto  Io  e.  de  Sarno  che  Io  Re  non  ha  uno  meczo  carlino  >.  Cfr.  anche 
Liber   Instrudionum,   pp.    8-9. 

*  Sui  fatti  qui  accennati  cfr.  Volpicella,  p.  389. 

AnnoXLV.  22 


—  330  — 

Perosa  suso  quello  di  Cortona,  et  similiter  lo  duca  de  Milano 
n'havesse  a  mandare  vinte  altre  per  unirse  con  quelle  e  rompere 
guerra  contro  el  N.S.  in  quello  de  Perosa. 

Terzio  che  S.ri  fiorentini  vedano  cum  quilli  modi  saperano  fare 
de  operare  che  Perosa  se  adrizi  a  la  via  de  la  lega,  la  quale 
sforzarasse  de  ponerla  in  libertà  et  conservaglila;  similiter  se  faci 
Verso  Cita  de  Castello. 

Quarto  fare  intendere  al  duca  de  Milano  et  S.  r  Ludovico  l'andata 
de  Mons.  Ibleto  et  del  conte  de  Torse  a  Vinetia  a  persuadere 
quella  Signoria  che  dialicentia  al  S.  Ruberto  et  al  S.  deCamarino, 
adcio  perseverino  in  confortare  essa  Signoria  de  Venetia  a 
denegarliela,  et  pregare  le  sue  S.rie  de  dare  li  avvisi  necessarii 
al   Re. 

Il  secretarlo  ce  dixe  chel  duca  de  Calabria  havea  scripto  al 
Re,  come  una  persona  venuta  de  Cicilia  gli  havea  referito  che 
l'armata  dela  Signoria  de  Vinetia  de  tredese  galee,  tre  galeaze 
et  quatro  navi  grosse  havea  preso  in  Cicilia  una  cita  nominata 
Agosta,  et  la  quale  ha  porto  ;  non  se  intende  la  causa,  ma  sti- 
masse per  alcuni  che  la  Signoria  Thabii  facto  per  una  galeaza,  la 
quale  già  più  mesi  prese  el  Re  de  Castella,  forsi  a  fine  de  compo- 
nersi^. 

Dixe  anchora  che  TOrator  regio  per  littere  da  Fiorenza  de  XII 
scrivea  che  Sforza  betino  havea  dicto  chel  S.  March,  de  Mantoa 
era  accunzato  cum  la  Signoria  de  Vinetia,  et  che  U  se  ne  dubitava 
per  intendere  che  quello  S.re  era  malcontento  de  Milano  ;  quello 
che,  se  fusse  vero,  molto  despiaceria  qua.  Ma  fu  dicto  che  non 
dovea  esser  vero,  considerato  che  l'oratore  ducale  dice  che  in 
le  sue  littere,  date  etiam  ali  XII  del  presente,  non  gli  ne  facta 
mentione  alcuna,  che  non  e  da  credere,  quod  si  sic  fuisset  et 
prius  illic  intellectum  scriptumque  fuisset.  Fu  etiam  chi  dixe 
che  la  V.Ex  tia,  per  quanto  l'havesse  possuto,  non  permisisset. 
XXXII.   Id.  Foggia,  2  settembre  1485. 

Ill.me  princeps...  Tornati  M.  Bartholamio  Veri  et  Antonio 
de  Alexandro  da  Venosa,  heri  Sua  M.ta  a  tuti  nui  oraturi  ne  li 
fece  audire  per  quello  haveano  operato  cum  quilli  baroni.  In  pau- 
cis  non  poteriano  referire  meglio  de  la  loro  dispositione  in  volerse 
adaptare  cum  il  S.  Re;  non  de  manco  Sua  M.ta  dixe,  poiché  ha- 
vean  dato  uno  pocho  de  lunga  a  certa  cosa,  et  che  voleano  parlare 
al  Secretarlo,  non  ni  stava  senza  suspecto  che  f ussero  tucte  pa- 

»  V.  doc.  XXXV  in  fine. 


—  331  — 

rolle,  et  dicessero  ad  uno  modo  et  havesseno  un'altra  intentione. 
Et  pero  ni  temeva  più  che  vi  fusse  speranza  per  quello  havesseno 
dicto  et  facto  cum  loro  et  epsiregii  consigliarli  et  tuti  li  altri 
vi  sono  stati,  havendo  veduto  che  sempre  hano  portato  la  cosa 
in  lungo.  Maisì,  perchè  non  fusse  mai  imputato  ne  da  altri  ne 
da  se  medesimo,  havea  voluto  mandare  la  matina  passata  esso 
secretano,  et  ha  scripto  di  sua  mano  al  gran  Siniscalco,  sperando 
più  in  questo  suo  scrivere,  che  in  un'altra  cossa,  per  essere  pro- 
prio la  medicina  de  quello  male  che  appare. 

Questa  mane  ne  mandete  a  vedere  lalittera  scripta  da  Venosa 
dal  Secretarlo  de  XXII  ale  XXIII  hore,  in  la  quale  conclude 
che,  havendo  data  la  littera  al  Siniscalcho,  ni  e  stato  tanto 
alegro  et  consolato  quanto  dire  se  possa,  affermando  pur  che, 
quando  segui  la  loro  honesta  et  conveniente  segurta,  che  tenga 
per  certo  che  loro  baroni  serano  parati  a  tuto  quelo  vora  Sua 
M.ta  .Et  e  vero,  perchè  el  principe  de  Bisignano  ha  pure  grande 
confidentia  del  conte  di  Sarno,  haria  carissimo  parlare  prius 
cum  si,  pero,  quando  Sua  M.ta  non  havesse  mandato  per  lui,  gli 
mandi  volando  ^. 

Dopoi  desinare  hogi  ce  dixe  che,  havendo  littere  de  M.  A- 
nello  chel  papa  monstrava  essere  de  pegiore  dispositione  lusse 
sta,  et  che  tuttavia  preparava  da  ogni  canto,  et  de  novo  erano 
venuti  alcuni  fanti  dal  canto  de  qua  de  li  soi,  li  pareva  non  pro- 
cedesse da  altro  se  non  chel  non  sentiva  che  Milano  et  Fiorenza 
se  movessero  per  tal  modo  che  ne  havesse  a  temere.  Pero  che 
non  era  de  cussi  pocho  intellecto,  chel  credesse  el  papa  cussi 
grosso  et  de  pocho  vedere,  che,  quando  sentisse  Milano  et  Fio- 
renza fare  quello  doveriano,  che  subito  el  non  lassasse  l'impresa. 
XXXIII.  Id.  Foggia,  24  settembre  1485. 

Gloriam  in  excelsis  Deo  et  in  terra  pax.  La  Vostra  Sublimita 
per  le  altre  mie  bara  inteso  de  l'andata  del  secretarlo  a  Venosa; 
hora  sapera  che  questa  nocte  gionsero  le  sue  littere  al  Re  come, 
ad  gaudium  et  perpetuo  stabellimento  del  Stato  Suo,  havea 
concluso  et  firmato  lacordo  cum  quisti  baroni  secundo  la  inten- 
tione et  proposito  de  Sua  M.ta,  et  come  havea  firmato  etiam  et 
concluso  el  parenta  cum  el  principe  de  Altamura  de  la  figlia  de 
Sua  M.ta,  che  era  sta  promessa  al  duca  de  Urbino,  et  che  le  noze 

*  Allora  e  non  prima  il  conte  di  Sarno  fu  inviato  dal  re  a  trattare  l'ac- 
cordo coi  baroni.  Egli  era  partito  da  Napoli  insieme  col  sovrano  e  col  se- 
gretario, cfr.  Processi,  p.  LXXXVIII. 


—  332  — 

se  havessero  a  fare  ali  X  di  octobre  proximo  in  Andria  i;  et  come 
questa  mane  li  dovea  essere  consegnata  la  torre  de  Alemanni, 
che  era  ne  le  mani  del  principe  de  Altamura;  et  cussi  se  ne  ve- 
niva tutavolta  a  Sua  M.ta  cum  Irate  Francesco.  Unde  che,  do^ 
poi  giunti  hogi  et  conferito  el  tuto  cum  el  Re,  ne  fece  chiamar^ 
noi  oratori  lo  ill.mo  S.  don  Federico,  dove  etiam  era  lo  secreta^ 
rio,  et  cum  grande  i'ubilatione  ne  confirmorno  essere  verissima 
questa  conclusione  de  pace  cum  tuti  li  baroni  de  quibus  dubiti 
batur,  et  già  loro  erano  per  scriptura  obligati  taliter  che  non  pos 
sevano  contradire  ni  recusare,  imo  già  bavere  havuta  la   torr^ 
predicta,  che  era  de  summa    importantia,  et    similiter  etiai 
haverla  consignata  a  quilli  del  card,  de  Parma,  del  quale  e 
beneficio   de  S.   Lunardo.   Et   dixe  che  a  total  sigillatione  ej 
stabilimento  di  questo  adaptamento,  non  li  bisognava  se  noi 
lo  assenso  del  Re  prò  confirmacione  totius  ;  perchè    Sua    M.ti 
domane  li  remandava  esso  Secretarlo  cum  el  conte  de  Sarn^ 
a  significarli  lo  assenso  suo  et  clarissimo  consentimento.    Quj 
facto  tutti  essi  baroni,  li  quali  se  hanno  a  trovare  bora  in  Migli( 
nico^,  dove  sarà  etiam  el  principe  de  Bisignano  et  forsi  etiai 


^  Sì  tratta  della  figliuola  naturale  del  re  donna  Lucrezia,  già  promes 
a  Guidobaldo  di  Montefeltro  duca  di  Urbino:  cfr.  Volpicella,  p.  263 
Liber  Instrudionum,  pp.  29-31.  Le  nozze  tra  lei  e  Pirro  del  Balzo,  fiss 
prima  pel  .10  ottobre  e  differite  poi  al  10  novembre  (docc.  XLV  e  XLV 
non  ebbero  mai  luogo,  forse  perchè  Ferdinando  temeva  che  la  nascita 
nuovi  eredi  danneggiassero  gl'interessi  di  Francesco  suo  figlio,  promesi 
sposo  di  Isabella  Del  Balzo.  Nel  1487,  quando  il  principe  di  Altamura  e] 
in  Napoli,  nei  mesi  che  precedettero  il  suo  arresto,  egli  ebbe  a  lamenta 
più  volte  del  re,  perchè  «  se  vedeva  delegiare  de  lo  matrimonio  con  don 
Lucrecia  ».  Processi,  pp.  CLXXXVI  e  CCXVHI. 

^  Depose  Gregorio  di  Samito    (Processi,  p.   LXIII)  che   «tractando 
la  pace  tra  la  Maiesta  del  S.re  Re  et  ipsi  baroni,  se  dava  dilatione  alle  cosi 
adfm  chel  Papa  havesse  possuto  providere  secundo  la  conclusione  et  a] 
puntamento  pigliati  tra  loro  per  la  Victoria  de  la  impresa  contra  della  mai 
sta  dello  S.  Re.  Et  retardandose  de  se  mandare  ad  effecto  dicti  conclusio: 
et  appuntamenti,  fo  ordinato  per  dicti  baruni  se  dovesse  andare  in 
glionico  sub  pretestum  ad  dieta  pace  pure  con  simulatione  et  ingan 
adfìn  che  havesse  possuto  providere  el  Papa  ad  dare  faore  ali  baroni  re- 
belli  con  volunta  de  ipso  conte  de  Sarno  et  Secretarlo,  secondo  ipso  Gran 
Sinischalcho  dicea  et  communicava  con  ipso  testimonio  ».  Anche  il  prin- 
cipe di  Bisignano  confessò  che  «  da  poi  lo  Signor  Roberto  non  venne  al 
tempo...  besognio  che  se  unessero  in  Miglionico  et  la  fare  consìglio  «.  Pro;^ 
cessi,  p.  GXCVII. 


—  333  — 

el  principe  de  Salerno,  et  quando  non  in  persona  vi  sera  omnino 
uno  suo  (ma  già  però  e  firmato  cum  la  Sua  Sig.ria  per  il  man- 
dato de  procura  che  havea  da  la  Sua  Sig.ria  el  gran  Sinischalcho); 
barano  a  venire  a  basare  el  pedeetla  mano  a  Sua  M.ta  dove  vora, 
et  farianose  le  noze  alo  di  preferito,  dove  se  li  trovara  Sua  M.ta 
et  vole  cbe  etiam  sui  oraturi  ve  siamo.  Fra  tri  o  quatro  zorni 
andara  a  Barleta  per  essere  in  loco  più  comodo.  Et  dice  el  se- 
cretarlo che  dei  clementia  questo  asseto  e  facto  senza  opera  ni 
bisogno  de  verun  altro,  et  per  consequens  non  li  serano  necessarie 
altre  promesse  ni  securita  de  ninno.  Le  condictioni  autem  et  le 
particu Ilarità  de  questa  concordia  un'  altra  volta  li  serano  facte 
intendere  1  ;  per  bora  basti  (cussi  ni  e  stato  dicto)  questa  con- 
clusione de  optima  pace  facta  cum  tanta  dolceza  et  carità 
cbe  nil  supra,  et  cum  malore  reputatione  del  S.  Re,  obedientia 
et  reverentia  de  essi  baroni  verso  Sua  M.ta,  che  havesse  mai 
più  Re  alcuno  che  fosse  signore  di  questo  regno. 
XXXIV.  Id.  Foggia,  25  settembre  1485. 
Ill.me  princeps...  La  M.ta  del  Re  ni  ha  facto  exporre  da  don 
Federico  che  diversi  advisi  erano  giunti  da  Roma  et  Milano 
come  N.S.  non  cessava  cum  omni  diligentia  fare  tute  le  pro- 
visioni posseva  de  guerra,  et  come  a  Genoa  seran  armate  quatro 
galee  et  una  nave  cum  mille  fanti  per  volerse  adrizare  a  Salerno^. 
Per  il  che  Sua  M.ta  non  stava  senza  suspecto  et,  dato  le  cose  de 
quisti  baroni  siano  neli  termini  deli  quali  beri  scripsi,  non  de 
manco,  sentendo  ogni  dì  il  papa  essere  più  gaiardo  a  questa  im- 
presa, et  chel  prefecto  e  venuto  cum  le  sue  genti  verso  Sora,  al 
obstaculo  del  quale  pero  li  e  andato  el  duca  de  Melfi  cum  XII 
squadre^,  et  subsequenter  Sua  S.ta  essere  pegio  disposta  verso 
Sua  M.ta  ;  non  e  absque  suspitione  magna  che  per  quisti  ba- 
roni se  li  possa  usare  qualche  tradimento,  bavendo  dicto  et 
promesso  et  facto  quanto  sta  scripto,  et  poi  facessenoel  contrario. 
Impero  don  Federico  prego  nui,  et  presertim  lo  ducale  et  fio- 
rentino, a  voler  scrivere  ali  S.ri  loro  che  per  dio  non  volesseno, 
per  ravviso  d'heri,  ne  cessare  ne  tardare  de  continuare  le  pro- 
visioni richieste.  Perchè,  quando  essi  baroni  volessero  usare 
Iraude  et  proditione,  non  se  fusse  colti  aPimproviso.  Seben  Sua 

*  Un  accenno  alle  condizioni  dell'accordo  tra  il  re  e  i  baroni  ricorre  nel 
doc.   LXV. 

•Antonello  Sanseverino  ricevette  realmente  aiuti  dai  Genovesi.  Cfr.  docc. 
XLII  e  LVII. 
.    »  Cfr.  doc.  LXII. 


—  334  — 

M.ta  non  resta  de  sperare  che  Tacordo  habii  a  succedere,  et  cus- 
si già  li  ha  remandato  el  Secretarlo  cum  el  conte  de  Sarno,  se- 
condo l'ordine  preso,  et  per  exequire  quanto  est  a  concluso  frj 
loro  baroni  et  sua  Sig.ria,  che  Thaveno  a  retornare  cum  dechia-i 
ratione  expressa  de  la  confirmationeetapprobatione  deSuaM.ti 
XXXV.   Id.  Foggia,  27  settembre  1485. 

Ill.me  princeps...   El   Re   me   dixe  chel   secretarlo  li   havei 
scrlpto  et  slmlllter  el  conte  de  Sarno  come  andavano  a  Meglii 
nico,  quantunque  havesse  llttere  de  Roma  de  mala  natura  p< 
quello  preparava  N.S. 

Paulo  post  fece  lezere  la  littera  di  Mons.  de  Ragona  et 
Anello  li  quali  respondeano  che,  quantunque  Sua  M.ta  haveS5 
scripto  che  stava  pur  non  senza  speranza  del  acordo,  quello  ch^ 
molto  li  piacerla,  non  de  mancho  temeano  molto  del  contrarie 
maxime  intendendo  che  mo  M.  Raniero  de  Maschii  era  retornati 
da  Venetia  dal  S.  Ruberto  al  papa,  et  monstrava  fusse  contenti 
servire  Sua  S.ta  cum  700  homlni  darme  per  70000  ducati,  da] 
dogllne  adesso  30000  et,  quando  fusse  a  Cesena,  10  altri,  dicend< 
quando  fusse  a  Sena,  revolt'aria  quello  Stato  al  proposito  d< 
papa,  et  poi  se  aviaria  verso  al  reame.  Successive  scriveanj 
chel  prefecto  et  lacomo  Conte*  erano  venuti  a  Sora  cum  50  h< 
mini  darme  molto  in  freta,  et  solum  cum  li  corpi  de  le  coraz< 
et  che  tutavolta  li  altri  si  preparavano  a  seguire  tuti  salvo 
Ursini  et   Colonesi.  Però  indicavano  che  N.S.  fusse  in  mal 
disposltione  de    guerra   contra  Sua    sl.ta,  polche  se  era   tanl 
scoperto,  presertlm  che  havea  mandato  20000  ducati  al  S.  Ri 
berto  per  un  genoese  ed  altri  li  ne  porto  M.    Ibleto;  che  non 
da  credere  che,  quando  sentesse  in  altra  disposltione   dacord< 
non  volesse  spendere  et  che  non  se  retrahesse.    Però  conforti 
vano  Sua  M.ta  a  volere  fare  bona  et  celere  provislone  perchi 
quando  Sua  S.ta  vedesse  quelle  et  le  intendesse,  forsi  mutari 
sententia,  et  tanto  più  quando  li  baroni  havessero  altro  pensieri 
come  havea  scrlpto  la  Sua  M.ta  sperare. 

Lecte  queste  lettere.  Sua  M.ta  dixe  che,  quantunque  havessl 
bone  et  optime  llttere  dal  Secretarlo  et  dal  conte  de  Sarn^ 
giunti  a  Venosa,  et  come  la  matina  seguente  doveano  andare 
Mlglionico,  dove  saria  el  principe  etiam  de  Rislgnano  et  un^ 
altro  per  lo  principe  de  Salerno,  tamen  non  stava  senza  suspecti 
che  li  potesse  essere  qualche  ingano  et  tradimento,  vedendo 


*  Su  Giacomo  Conti  cfr.  Volpi  cella,  pp.  320-21. 


—  335  — 

el  papa  tanto  inante  et  tanto  infocato,  et  già  bavere  spesi  tanti 
dinari.  Però  instava  pur  che  Milano  et  Fiorenza  volesseno  fare 
tale  demonstratione  al  papa,  che  intendesse  Tanima  de  loro 
colligati  soi  non  manchare  a  Sua  M.ta. 

Monstra  non  sii  vero  quello  fu  scripto  al  Re  de  Augusta,  cita 
de  Sicilia,  fusse  sta  presa  da  Tarmata  venetiana. 
XXXVI.  Id.  Foggia,  28  settembre  1485. 

Ill.me  princeps...  El  secretarlo  scrive,  per  l'ultime  sue,  che 
erano  in  camino  per  andare  a  Miglionico  et  li  era  el  gran  Sini- 
schalcho  cum  tri  cavalli  solum,  dove  essi  del  Re  erano  cum  più 
de  XXV.  Scrive  però  chel  principe  d'Altamura  non  li  ha  voluto 
venire  cum  loro  per  certo  suspecto  li  e  venuto  in  capo^  ;  ma  non 
de  mancho  che  Sua  M.ta  stii  di  bona  voglia,  che  per  questo  non 
restara  non  succeda  lacordo,  et  cussi  spera  li  condura  ali  pedi 
de  Sua  M.ta.  Del  che  Sua  M.ta  dixe,  licet  el  Secretarlo  scriva 
cussi  gaiardamente,  tamen  dubita  assai  sera  inganato,  et  parli 
che  dicto  secretarlo  per  la  sua  bunta  creda  più  non  bisogni, 
subiungendo  che  fa  gran  caso  che  esso  principe  bora  non  habii 
voluto  andare  a  Miglionico  come  sempre  ha  dicto  et  offerto 
andarli.  Ulterius  li  pare  gran  facto  che,  sei  papa  intendesse  che 
per  lo  vero  li  baroni  fusseno  in  bona  dispositione  de  accordarse 
cum  lui,  che  Sua  S.ta  potesse  perseverare  in  fare  quello  fa  et 
preparare  da  ogni  banda  contra  Sua  M.ta. 

P.S.  Non  obmettere  chel  principe  d'Altamura,  quantunque 
per  allora  dicesse  non  volere  andare  a  Miglionico,  tamen  el  di 
seguente  gli  andarla. 

XXXVII.  Id.  Foggia,  29  settembre  1485. 

Ill.me  princeps...  La  M.ta  del  Re  ne  fece  legere  alcune  lit- 
tere  di  M.  Belprato,  oratore  suo  in  Milano,  le  quali  conteneano 
che  airill.mo  Marchese  de  Mantoa  se  havea  mandato  zoglie 
per  10000  ducati,  et  scripto  ala  V.  Ex.tia  et  S.ria  sua  che  prohi- 
bisseno  el  passo  al  S.  Ruberto,  offrendoli  mandare  quelle  gente 
d'arme  fusseno  al  bisogno.  Sua  M.ta  ne  resto  consolata  per  ha- 
verli  scripto  chel  S.  Ludovico  non  solum  li  ha  dicto  chel  duca 
de  Milano  mandara  quelle  genti  darme  serano  al  bisogno,  perchè 
se  uniscano  in  Toschana  cum  quelle  de'  Fiorentini  verso  Perosia 
per  rompere  contro  il  papa,  ma  scrive  quod  etiam  iuravit. 

Successive  Sua  M.ta  fece  legere  quanto  li  scrivea    lo  R.mo 

»  Il  principe  d'Altamura  andò  a  Miglionico  e  fu  presente  alla  conclu- 
sione dell'accordo.  Cfr.  doc.  XL. 


—  336  — 

cardinale  suo  figlio  et  M.  Anello  per  le  sue  de  XXII  da  Roma, 
continenti  la  perseverantia  de  N.S.  in  la  mala  despositione  con- 
tro el  Re.  Item  alcune  altre  del  duca  de  Sora^  al  duca  de  Calabria 
et  de  la  sore  de  la  contessa  moglie  fu  óel  conte  Camerlengo  alla 
duchessa  de  Calabria  ;  per  le  quali  Sua  M.ta  dixe  che  non  bi- 
sognava più  dubitare  dell'animo  di  N.S.,  perchè  non  solum  se 
era  scoperto  in  parole  et  demonstrationi  preparative  contro  Sua 
M.ta  ma  in  facti  ;  per  modo  che  se  posseva  dire  che,  havendo 
facto  el  prefecto  de  volunta  et  cummissione  de  Sua  S.ta,  la  guer- 
ra fusse  ropta  dal  canto  suo.  Però  li  pareva  fusse  necessario 
etiam  dal  canto  de  lì  coUigati  et  suo  se  havesse  mo  a  fare  altro 
che  parole  per   defensione  sua. 

Paulo  post  el  prefato  S.  Federico  se  ne  venne  a  noi  per  consul- 
tare insieme  quello  paresse  de  fare  in  questo  caso,  poiché  se 
vedeva  già  dal  canto  de  N.S.  essere  pur  ropta  la  guerra,  tem- 
ptando  el  Prefecto  che  se  levi  le  bandiere  de  la  chiesa  et  mina- 
zando  la  guerra.  Del  che,  post  multa  invicem  collata,  sua  Ex.tia 
dixe  che  li  parca  se  dovesse  mandare  a  Roma  copia  de  epsa  lit- 
tera  de  la  sore  dela  Marchesa  et  del  conte  di  Sora,  monstrandola 
prima  ali  oraturi  de  la  liga,  li  quali,  inseme  col  cardinale  et  M. 
Anello,  se  debbano  presentare  al  papa,  et  in  primis  intendere 
da  la  Sua  S.ta  l'animo  et  deliberatione  sua,  e  subsequenter 
se  quello  fa  el  Prefecto  procede  per  suo  ordine,  che,  quando 
cussi  fusse,  epsi  oraturi  se  ne  maravigliariano,  non  li  essendo 
sta  data  mai  causa  alcuna  per  lo  Re.  Et,  quando  quella  dicesse 
che  non  fusse  sta  cum  sua  volunta,  se  li  habii  a  replicare  che,  per 
verificare  che  cussi  sia,  voglia  incontinente  demonstrare  che  a 
tutto  il  mondo  sia  noto  Sua  S.ta  essere  sta  malcontenta  detal^ 
novità  et  de  non  essere  sta  facto  de  sua  volunta.  Ma,  quando  il 
tendano  essere  facto  cum  suo  ordine,  come  ha  dicto  el  Pr< 
fecto,  debianli  protestare  che,  se  Sua  S.ta  offende  el  Re  cum  1| 


*  Duca  di  Sora  era  allora  Giovanni  della  Rovere  ;  ma  qui  si  tratta 
Giovan  Paolo  Cantelmo,  già  signore  di  quella  città,  di  cui  era  stato  spo; 
sessato  da  re  Ferdinando  per  aver  seguite  le  parti  di  Giovanni  d'Angi 
Il  Cantelmo  continuò  a  chiamarsi  duca  di  Sora  e  trasmise  il  titolo  al  figliò 
Sigismondo,  che  visse  sempre  alla  corte  di  Ferrara-  Nella  guerra  dei  ba- 
roni egli  tornò  a  schierarsi  nel  campo  contrario  agli  Aragonesi  (V.  docc. 
XLII  e  LV),  ma  con  poco  frutto  a  quanto  si  rileva  da  una  lettera  di  A. 
Guidoni  (Cappelli,  p.  276),  poiché  la  prima  cosa  che  gli  si  chiese  fu  quella 
di  rinunziare  ad  ogni  sua  ragione  sul  feudo  di  Sora. 


1 


—  337  — 

armi,  che  etiam  cum  le  armi  li  sera  resposto,  et  aspecti  guerra 
dal  Re,  duca  de  Milano  et  Fiorentini. 

Item  che  li  dicano  che  li  levarano  la  obedentia  a  Sua  S.ta, 
revocando  tutti  li  prelati,  che  sono  in  corte  de  Roma,  de  loro 
cita,  comminandoli  che,  non  se  partendo,  serano  privati  de  le 
intrate  de  loro  beneficii,  li  quali  prelati  habiino  andare  a  la  cura 
de  le  sue  chiesie,  però  che  epsi  intendono  convocare  el  concilio 
et  operare  che  se  faci  nova  electione  de  Pastore,  conservatore 
de  la  pace  et  fede  de  Christiani,  et  non  perturbatore,  et  che  la 
ponga  in  periculo  de  soversione,  come  e  Sua  S.ta. 

Ulterius  subiunxe  chel  Re  priega  lo  ducale  et  fiorentino  vo- 
glino  scrivere  ali  S.ri  soi,  che  se  faci  ogni  opera  per  condure  li 
baroni  de  le  terre  de  la  Chiesia,  videlicet  Ursini  et  CoUonisi, 
al  soldo  de  la  liga  cum  quelle  migliori  conditioni  se  potrà,  pi- 
gliandoli in  protectione,  et  promittendoli  la  defensione  delli 
Stati  loro  ;  cossa  che  non  poterla  essere  più  utile  non  solum  per 
le  presenti  contingentie,  ma  etiam  per  tenire  el  papa  restrecto 
più  non  saria. 

Item  el  fiorentino  vogli  pregare  li  S.ri  soi,  che  subito  mandino 
le  genti  loro  verso  Corthona  cum  commissione  che,  quamprimum 
M.  Anello  li  scriva,  d ebano  rompere  in  quello  de  Perosia  o  dove 
meglio  sarà  indicato,  et  che  cominzasseno  a  tractare  de  offendere 
le  terre  dela  Chiesia  come  fa  el  papa  le  terre  del  Re. 

Item  chel  ducale  scriva  al  duca  de  Bari  che  preghi  la  Signoria 
de  Vinetia,  che  le  gente  adunate  a  Cittadella  le  faci  tornare 
ali  primi  alogiamenti,  comandando  a  dicti  soldati,  sotto  pena  di 
essere  posti  a  sachomano,  che  non  se  partino  dele  loro  stantie, 
et  similiter  comandi  ali  Rectori  et  officiali  de  le  terre  et  cita  sue, 
che  non  li  lassino  passare  da  locho  a  locho,  che  in  questo  modo 
non  poterà  passare  uno  cavallo.  Et  chel  duca  di  Bari  scriva  et 
replichi  ala  V.  Ex.tia  et  al  marchese  de  Mantoa,  che  nullo  modo 
dagino  el  passo  al  S.  Ruberto,  offerendoli  de  novo  et  man- 
dando quelle  genti  li  bisognarano  ad  obstare  al  suo  transito. 
Et  in  ispetie  Sua  Ex.tia  me  dixe  dovessi  pregarve  per  parte  del 
Re  perchè  V.  S.  stesse  in  ordine  che,  mandandogli  le  gente 
necessarie  el  prefato  duca  de  Milano,  la  faci  come  spera  in  quello 
ad  ciò  per  niente  passi.  Et  insuper,  quando  li  paresse  che  a 
questo  proposito  fusse  necessario  fare  più  una  provisione  che 
un'altra,  voglia  racordarlo  a  chi  et  dove  sarà  bisogno,  et  simi- 
liter tenire  ben  disposto  a  questo  effecto  el  prefato  marchese 


—  338  — 

de  Mantoa,  perchè  presertim  dal  duca  de  Milano  gli  e  sta  dato 
un  monte  di  dinari. 

Successive  chel  prefato  S.  Ludovico  vogli  scrivere  che  non 
solum  la  V.  Ex.tia  et  el  prefato  Marchese,  ma  etiam  Zoanne: 
Bentivogli  et  il  conte  Hieronimo  tengano  le  genti  parate  per 
posserle  adoperare  ala  prohibitione  de  dicto  transito. 

Postremo  che  volesse  pregare  el  dicto  duca  de  Bari  che  senza 
perdimento  di  tempo  mandi  in  Toschana  quella  gente  darme,j 
che  ha  offerto  Sua  S.ria,  adunirse  cum  le  genti  de  Fiorentini) 
et  rompere  guerra  al  papa. 

P.S.  Ut  supra  ultimo  septembris.  El  re  ce  dixe  questa  manej 
come  allora  allora  havea  havute  nuove  da  più  bande  come  in] 
l'Aquilla  sera  levato  romore  et  cridato  :  Arme,  arme  !  FerroJ 
ferro  !  Mora  lì  forastieri  !  et  come  se  dicea  essere  stato  mortoj 
uno  deli  soi  caporali  de  fanti,  che  ben  gli  n'  ha  circa  400,  et  peri 
anchora  non  bavere  la  verità  de  la  cossa,  nelittereda  Antonio] 
Gincinello  che  se  trova  in  l'Aquilla.  Vero  che  hebbe  una  suj 
de  XXIV  che  non  ne  fa  mentione  alcuna,  ma  queste  sono  de  26; 
et  credesse  che  debba  essere  stapiù  presto  qualche  contemptione, 
che  possi  essere  nata  fra  qualche  fante  et  qualcuno  dela  terrj 
come  accade. 

Del  secretarlo  non  e  successo  altro  adviso,  et  credesse  pro- 
ceda chel  Principe  di  Altamura,  el  quale  non  volse  andare 
Miglionico  quello  di  li  andarono  gli  altri,  ma  che  doveva  andari 
el  seguente,  bara  differito  el  potere  concludere  prima  li  sii  giunto^ 
XXXVIII.  Id.  Foggia,  30  settembre  1485. 

Ill.me  princeps..  Su  Thora  de  vespero  giunsero  littere  dé\ 
secretarlo  date  pridie,  che  fumo  29,  in  Miglionico,  el  quale 
scrive  che,  essendoli  venuto  etiam  el  principe  de  Bisignano^ 
monstra  sii  pur  molto  umbroso  de  la  sicurtà  sua  et,  per  open 
del  Siniscalco,  e  stato  contento  che,  andando  a  Matera  secre- 
tamente  don  Federico,  gli  parlarano  voluntieri.  Et  per  questo  el 
Secretarlo  per  parte  loro,  sed  presertim  del  Siniscalco,  ha  pre-i 
gato  el  Re  gli  lo  vogli  mandare.  Unde  che  Sua  M.ta  fece  chiamare 
nui  oratori,  et  post  multa  fu  concluso  che,  polche  la  M.ta  sua 
era  venuta  qua,  magiormente  dovea  mandare  el  figlio  per  non 
lassare  cossa  a  fare,  che  sii  sta  richesta  da  loro,  et  presertim 
che  poterla  essere  voriano  fare  questo  acordo  per  più  suo  onore 
cum  filio  regis  quam  cum  alio,  sed  praecipue  per  che  per  l'andata 
sua  saltem  se  ne  caverà  la  totale  resolutione  dela  conclusione 
o  dela  dissolutione.  Et  cussi  ha  deliberato  Sua  M.ta,  quantunque 


—  339  — 

creda  siano  parole,  tamen  subito  li  vadi  et  secretamente  cum  sei 
cavalli,  andando  a  Materia  larga  da  Miglionico  miglia  sei,  et  li 
pigliara  l'ordine  de  parlare  cum  loro  in  quello  loco  meglio  li 
parerà. 

XXXIX.  Id.  Foggia,  1  ottobre  1485. 

Ill.me  dux.  El  re  ne  fece  legere  una  littera  delo  arcidiacono 
del'Aquilla  *,  in  la  quale  scrivea  come  quello  di  fu  Thora  de  la 
nona,  essendo  sta  levato  uno  romore  cridando  :  Ferro,  ferro  t 
Mora  li  forastieri  !,  monstra  che  in  quella  zuffa  fosse  morto 
Bianchino  caporale  cum  5  fanti.  Del  che  se  mosse  Antonio 
Cincinello  cum  quilli  de  la  Camera,  et  sedo  quello  tumulto;  ma 
non  senza  periculo  de  la  persona.  Dapoi  per  certo  spatio  de 
intervallo  alcuni  tristi  se  levorno  un'altra  fiata,  et  andorno 
a  la  casa  di  M.  Antonio  et  lo  amazorno  cum  4  o  5  de  li  soi,  et 
poseno  la  casa  a  sachomano.  Non  dice  essere  seguito  altro,  ma 
che  dubita  non  li  sii  pegio,  et,  se  dovrà  essere,  sera  la  nocte  se- 
guente, la  qual  cosa  li  pare  de  natura  che  più  presto  se  ada- 
ptara  cum  destreza  che  cum  forza.  Unde  che  Sua  M.ta  dìxe  che 
questo  era  caso  molto  li  dispiaceva,  si  per  la  iactura  de  tanto 
homo,  come  etiam  che  se  puoi  credere  che  questo  sii  sta  per 
opera  et  cura  de  N.S. 

La  M.ta  del  Re  ha  scripto  dolcemente,  mostrando  de  non  fare 
tropo  stima  del  caso,  et  che  credesse  fusse  intervenuto  più  per 
colpa  de  M.  Antonio  che  de  loro  aquillani,  et  tutta  volta  conforta- 
doli  a  perseverare  in  fede,  et  non  di  mancho  aspectando  inten- 
dere sei  sera  successo  pegio  ;  che  quando  fusse,  se  li  provederia 
poi  secundo  meglio  fusse  indicato. 

XL.    Id.   Foggia,  2  ottobre  1485. 

Deo  sii  semper  laus  et  gloria.  Tornato  el  Secretarlo  cum  el 
conte  de  Sarno  da  Miglionico  cum  la  conclusione  dela  pace,  el 
Re  subito  mi  dixe  chel  Secretarlo  havea  reportato  la  fermeza 
de  la  pace  conclusa  et  stabelita  cum  lo  principe  d'Altamura, 
lo  principe  de  Bisignano,  cum  el  gran  Sinischalcho  et  cum  el 
messo  del  principe  de  Salerno,  subscripta  de  mano  loro  propria 
et  sigillata  del  sigillo  de  ciascun  de  loro  cum  quilli  capituli  che 
sono  restati  dacordo,  et  tali  che  Sua  M.ta  ce  dixe  altri  non  po- 
teriano  più  satisfare  per  essere  honesti  et  iustissimi.  Uno  dei 
primi  e  che  don  Federico  pigliara  per  moglie  una  figlia  del  gran 


»  Era  Vespasiano  Gaglioffi  promotore  della  rivolta  insieme  col  fratello 
G.    Battista. 


340 


Sinischalcho  de  età  hora  circa  8  o  9  anni  ^.  El  principe  de  Bisi- 
gnano  dice  non  ha  domandato  cosa  alcuna  se  non  che,  havendo 
in  pegno  una  sua  gabella  per  18  milia  ducati,  fra  uno  anno  li 
ha  a  dare  Sua  M.ta  et  lui  rendere  la  gabella  2,  et  fra  lui  e  Sua 
M.ta  non  li  e  sta  mai  differentia  alcuna,  ni  etiam  fra  el  princ. 
de  Salerno,  el  quale  non  ha  richesto  covelle.  Et  in  paucis  Sua 
M.ta  e  molto  consolata,  imponendone  che  subito  vogliamo 
scrivere  questa  bona  nova  ali  S.ri,  li  quali  pero  non  voglino  de- 
sistere da  le  provisioni  già  facte,  ad  ciò,  sei  S.  Ruberto  contro 
la  volunta  de  la  Signoria  volesse  passare,  et  N.S.  non  volesse 
desistere  dall'impresa  pur  per  fare  guerra  al  Re,  le  provisioni 
possano  obstarli  et  giovare  quanto  sera  necessario. 

M.  Anello  ha  scripto  da  Roma,  per  sue  de  XXVII,  come  in 
Roma  era  giunto  uno  messo  del  princ.  d^  Alt  amura  et  del  Gran 
Sinischalcho  retornato  dal  Prefecto,  al  quale  haveano  scripto, 
et  lui  referito  per  parte  loro,  che  più  non  se  affaticasse  in  nome  de 
N.S.  per  sue  S.rie,  non  essendo  più  bisognio,  poiché  erano  com- 
posti cum  el  Re. 

XLI.   Id.  Foggia,  4  ottobre  1485. 

Ill.me  dux.  El  secretarlo  porto  una  littera  de  loro  baroni  a 
la  comunità  de  TAquilla  che  contenea  comò,  per  satisfactione 
de  la  M.ta  sua  che  cussi  li  havea  imposto,  li  advisavano  come, 
anchora  che  sempre  siano  stati  fidelissimi  vasalli  de  Sua  M.ta, 
non  de  mancho,  per  el  suspecto  se  havea  havuto  de  loro,  mon- 
strava  che  essi  et  altri  deffidassero  de  mandare  le  sue  pecore  et 
bestie  in  Puglia.  Però  li  certificavano  come  erano  in  optima  con- 
cordia cum  la  M.ta,  et  che  mandassero  le  loro  bestie,  che  non 
solo  non  seriano  offese  da  li  soi  vasaUi  et  gente  darme,  ma  sa- 
riano acareza  et  defese  da  qualunque  altro  li  volesse  dare  no- 
glia.  Et  cussi  la  M.ta  sua  Tha  mandata  sottoscritta  per  mano 
loro  propria  et  sigillata  del  suo  sigillo  et  del  principe  di  Salerno. 

Et  dixe  beri  che  quisti  baroni  già  haveano  ordine  de  levare 
li  stendardi  de  Sancta  chiesa  et  di  Sancto  Angelo  o  sii  San  Mi- 
chele. 

La  M.ta  del  Re  questa  mane  se  ne  ito  a  Barleta,  et  cussi  do- 


1  Due  figliuole  ebbe  Pietro  di  Guevara  da  Gisotta  Ginevra  del  Balzo  : 
non  so  se  qui  si  alluda  alla  primogenita  Eleonora,  che  più  tardi  il  re  voleva 
dare  in  moglie  a  Pietro  d'Aragona.  Cfr.  doc.  CXX.  Il  Volpicella  dedica 
alla  Eleonora  una  breve  biografìa,  pp.  344-45. 

«  Trattasi  della  gabella  delle  sete,  Cfr.  Volpicella,  p.  425. 


—  341  — 

mane  lo  seguiremo  nui,  dove  stara  circha  octo  zorni,  et  interim 
se  farano  forsi  le  noze  del  principe  d'Altamura  cum  filia  Regis. 
XLII.  Id.  Barletta,  7  ottobre  1485. 

Ill.me  princeps...  Partiti  noi  heri  Taltro  da  Fogia,  pridie  giun- 
gessemo  qua,  et  el  Re  primum  ne  fece  legere  una  lettera  de  M. 
Impou  da  Miglionico  de  5,  in  la  quale  demonstrava  quanto  de- 
spiacere  haveano  havuto  quilli  baroni  del  caso  de  TAquilla,  più 
per  la  morte  de  Antonio  Cicinello,  che  per  altro;  peroche  quella  era 
recuperabile,  al  resto  se  poteva  provedere  facilmente  per  Sua  M.ta, 
non  dubitando  che  contro  Sua  M.ta  quel  populo  non  farà  altra 
novità.  Et  subiungendo  che  essi  baruni  non  poteriano  essere  meglio 
disposti  al  servitio  de  Sua  M.ta,  et  non  desiderare  altro  che  la 
exequtione  de  li  apontamenti  facti  cum  el  Secretarlo,  la  quale 
cunsiste  ne  la  volunta  del  Re,  et  quanto  più  presto  tanto  li  sarà 
più  grato.  Dice  che  hano  havuto  littere  del  princ.  de  Salerno  che 
e  contento  de  quello  hano  facto;  ne  se  dubiti  Sua  M.ta  per  5oo 
fanti  et  quatro  galee  giunte  da  Genoa  a  Salerno. 

Dopoi  fece  legere  un'altra  littera  del  princ.  de  Bisignano  et  del 
Gran  Siniscalco  in  absenza  del  princ.  d'Altamura,  ito  a  vedere 
certe  sue  terre  propinque,  direct  iva  al  Re^. 

El  secretarlo  parti  ali  4  da  Fogia,  sicché  li  doveva  essere  quello 
zorno  che  scripseno  la  sua,  et  non  dubita  Sua  M.ta  se  ne  havessero 
a  mutar  voluntà. 

Postea  dixe  chel  papa  ognhora  se  monstrava  inanimato,  come 
vedea  in  molti  modi,  primum  che  per  due  fiate  o  tre  havea  man- 
date genti  et  fanti  al  Guasto;  el  Prefecto  li  era  venuto  a  Sora 
cum  molte  genti  darme  et  havea  trovato  chel  duca  de  Sora  havea 
levate  le  bandere  de  la  Chiesa,  et  la  march,  de  Pescara  mandati 
500  fanti  e  4  galee  a  Salerno  ;  tentare  avere  el  S.  Ruberto,  come 
tutavolta  non  desiste  ;  haverli  havuto  uno  castelleto  ;  drizate 
genti  a  le  confaze  de  TAquilla  et  essere  sta  causa  de  quello  e  se- 
quito  in  quella  cita.  Et  cussi  non  cessa  per  tutte  le  vie  pò  darli 
noglia,  quasi  che  non  faccia  conto  ne  stima  non  solum  de  Sua  M.ta, 
ma  ni  de  Milano  ni  de  Fiorenza,  et  più  li  dole  che  se  intenda  chia- 
ramente che  la  Signoria  de  Vinezia  non  se  vole  impazare  de  questa 
materia,  ni  vole  dare  licentia  al  S.  Ruberto.  Et  questo  non  pro- 
cede da  altro  se  non  perchè  Sua  M.ta  non  intende  ni  da  Milano 

*  Nella  lettera  del  princ.  di  Bisignano  e  del  Siniscalco  si  dicevano  le 
stesse  cose  esposte  in  quella  del  Pou.  Ho  tralasciato  perciò  il  brano  del  di- 
spaccio, in  cui  il  B.ne  riassunse  il  contenuto. 


—  342  — 

ni  da  Fiorenza  li  siano  altro  che  parole  in  difesa  sua.  A  noi  libe- 
ramente ha  diete  come  e  sta  advisato  che  Milano  mai  in  questa 
cosa  li  darà  subsidio  altro  che  verbale,  et  per  questo  piglia  ordine 
de  fare  come  vole.  Perchè  se  li  fusse  facto  intendere  per  el  stato 
de  Milano  et  de  Fiorenza  che  andariano  ali  danni  soi,  et  che  se 
facesse  cum  effecto,  et  se  gli  levasse  la  obedientia  et  minazasse 
concilio,  non  poterla  credere  fusse  de  cusì  poco  intellecto,  che 
temptasse  quello  tempta  lui  et  S.  Pietro  ad  Vincula,  quasi  che 
siano  li  più  savii  et  potenti  de  Italia.  Et  scia  questo  che  li  mati 
hano  pocho  animo  et  sono  spaurosi  de  le  bote,  et  vedesse  che  le 
bastonate  castigano  li  pazi.  Però  dixe  essere  necessario  chel  duca 
de  Milano  et  i  Fiorentini  facesseno  f acti  et  non  dicessero  parole. 
Et,  quando  epsi  Signori  non  gli  paresse  pure  de  fare,  almancho 
voglino  farlo  intendere,  perchè  provedaria  meglio  o  per  la  via  del 
Turco  o  per  qualche  altro  modo.  Li  pontifici  hano  sempre  questo 
animo  et  desiderio  de  augumentare  lo  Stato  et  de  papa  Eugenio 
insino  al  presente  tuti  sono  stati  de  questa  ambizione,  maxime 
centra  questo  regno,  exceptuando  solum  papa  Eugenio  et  papa 
Nicolo. 

El  ducale  oratore  crede  che  el  Signor  suo  non  habia  mancato 
in  cosa  alcuna,  allegando  che  sera  interposto  cum  la  Signoria 
de  Vinetia,  perche  non  desse  licentia  al  S.  Ruberto,  et  che  per  sue 
de  XXVI  scrivea  chescrivea  alcard.  Vesconti,  che  dovesse  essere 
cum  N.  S.  et  farli  intendere  che,  non  desistendo  dal  dar  mole- 
stia a  Sua  M.ta,  ala  quale  se  li  rompesse  guerra,  li  seria  etiam 
ropta  a  la  sua  B.ne,  et  non  se  hàrià  respecto  à  li  soi  interdicti; 
et  subiungendo  che  havea  scripto  ai  fiorentini,  che  rompesseno 
guerra  a  Sua  S.ta  quamprimum  sentisseno  che  hàvesseno  ropto 
centra  Sua  M.ta,  offerendoli  de  pagare  ©mandare  la  rata  sua 
de  li  fanti  bisognassene. 

L'oratore  fiorentino  dixe  che  li  suoi  S.ri  haveano  preparate 
le  5  squadre  richieste  e  dato  danaro  a  tute  le  zenti  darme,  che, 
da  quelle  poche  in  fuori  li  bisognavano  per  defensione  contro 
Genovesi,  tute  le  altre  seriano  a  suo  comando  et  ali  soi  bisogni 
et  cussi  ogni  altra  cosa  restasse  da  fare.  Perchè,  havendo  posta 
la  mano  ala  bursa  et  dati  dinari  ale  genti  darme,  presto  se  fa 
el  resto  ;  et  quanto  al  protestare  de  concilio  et  de  revocatione 
prelatorum,  intenderìano  quelle  volesse  fare  Milane,  et  se  con- 
formariane  a  tute  quelle  fusse  de  mente  et  determinatiene  de  li 
confederati. 


—  343  — 

XLIII.  Id.  Barletta,  8  ottobre  1485. 

Ill.me  dux.  La  M.ta  del  Re  ce  dixe  come  per  due  volte  el  S. 
Ludovico  li  havea  facto  scrivere  come  li  parerla  ben  facto  che 
Sua  M.ta  mandasse  qualche  suo  homo  a  rengraciare  Vinetia  dela 
licentia  denegata  al  S.  Ruberto  ;  unde  havea  deliberato  mandare 
M.  Francesco  Galeotto  ^  a  Ferrarla  per  mare  cum  ordinatione 
che,  giunto  costì,  subito  scrivesse  al  S.  Ludovico  de  la  sua  giunt  a 
costì  cum  commissione  de  fare  quanto  imponeva  la  Sua  E.tia, 
non  tanto  per  l'andata  a  Vinetia,  quanto  per  quello  bara  a  fare 
et  a  dire. 

Del  che  per  tuti  noi  fu  subiunto  che  saria  ben  facto  che  questa 
sua  andata  fusse  secreta  più  che  se  potesse,  et  havesse  voce  che 
venisse  a  Ferrarla,  et  de  li  a  Milano,  ad  fine  che,  se  non  paresse 
al  S.  Ludovico  per  qualche  nova  contingentia  che  più  vi  havesse 
andare,  el  non  habii  ad  essere  de  qualche  graveza  ala  Sua  M.ta 
questa  voce  che  mandasse  M.  Francesco  a  Vinetia  et  poi  restasse, 
pe  ter  consequens  levasse  occasione  de  mormorare  et  dare  che 
dire  a  Venetiani  et  ad  altri. 

Per  Sua  M.ta  fu  comprobato  questo,  et  cussi  sera  tenuta  se- 
creta questa  sua  andata  et  montara  in  barcha  forsi  domane. 

P.S.  Le  cose  de  qua  vano  a  bon  camino,  essendo  andato  a 
Miglionico  et  lo  S.   don   Federico. 

XLIV.  Ibid.  Minute  ducali  a  Battista  Bendedei.  Ferrara, 
10  ottobre  1485. 

M.  Baptista,  Per  advisi  da  Venetia  habiamo  che  uno  secre- 
tarlo de  la  Signoria  de  Vinetia,  che  e  appresso  al  S.  Roberto,  ha 
scripto  ad  epsa  Signoria  chel  S.  Ruberto  se  vuole  levare  lunidi 
per  andare  ala  via  de  Roma,  et  successive  ala  impresa  del  Rea- 
me, et  chel  passara  pel  Ferrarese,  dove  già  passo  el  capitano, 
perche  nui  gli  diamo  el  passo  i3er  virtù  de  un  breve  che  ne  scrive 
el  papa  che  gè  dobiamo  dare  el  passo,  et  che  da  Ferrarese  ne  va 
a  Ravenna,  et  de  li  a  Cesena,  et  che  mena  cum  lui  nel  Reame 
40  squadre,  de  le  quali  adesso  ne  ha  seco  30,  et  come  li  a  Cesena 
ne  ha  altre  10. 

Et  scrive  epso  secretarlo  come  el  S.  Roberto  ha  parlato  et 
parla  cum  lui  ogni  zorno  molto  largamente,  et  che  gli  ha  dicto 
la  divisione  che  hano  facta  del  Reame,  la  quale  e  tra  il  Papa,  Sua 
Ex.tia  et  li  baroni;  et  prima  dice  chel  papa  se  chiamerà  general 
Signore  de  tuto  il  Reame  et  de  Capua  cum  altre  terre  circo- 

*  Cfr.  su  lui  quello  che  dice  il  Volpicella,  pp.  338-39. 


—  344  — 

stanti,  et  al  S.  Roberto  dia  Stato  dove  vora  et  intrata   de  due. 
50000  et  Manfredonia,  che  vuole  sopra  marina  per  haver  addito 
ad  venire  et  mandare  a  Venetia  da  questa  Signoria  cum  la  qual 
ha  deliberato  finire  sua  vita  et  sempre  stargli  suggetto  et  ser 
vitore;  et  il  resto  del  Reame  sera  de  li  baroni,  li  quali  lo  parti 
rano,  secondo  che  a  loro  parerà  chel  toca  per  la   successione  et 
ragioni  loro  antique. 

Et  scrive  che  Sua  Ex.tia  dice  chel  persuade  questa   Signori 
ad  esser  contenta  che  lui  la  incorpori  et  faccia  essere  una  cosa] 
medesma  cum  el  papa,  perche  il  fa  per  questo  seren.mo  Stato  j 
impero  che  quando  el  papa  sera  signore  del  Reame,  el  sera  u; 
gran  signore,  et  poche  persone  li    potrano  nuocere,  et  seran 
rotte  queste  lighe,  le  quali  già  tanto  tempo  sono  state  in  Itali 
per  danno  de  questa  Signoria,  pur  che  Thavesseno  potuto  dan 
neggiare  ;  la  qual  liga  epso  S.  Roberto  ha  deliberato  de  romper 
et  extirpare,  et  cussi  vuole  cominciare  dal  capo  grosso  et  princi 
pale,  el  quale  Sua  S.ria  ha  per  più  facile,  secundo  chel  dice  in 
parole,  chel  non  ha  da   metterse  le  armi  indosso  perchè  in  poco 
tempo  el  vuole  deschazare  la  M.ta  del  Re  da  quel  Reame. 

Scrive  etiam  come  el  S.  Ruberto  gli  ha  dicto  chel  papa  li  scriv 
chel  ha  che  li  baroni  dano  bone  parole  et  demonstrationi  alaM.ti 
del  Re  de  volerse  acordare,  et  che  lo  fano  cum  intelligentia  d 
Sua  S.ta  per  tenere  la  cosa  in  tempo,  expectando  epso  S.  Ruberto 
et  che  per  Dio  el  soUicita  l'andata  sua,  per  la  quale  lui  ha  havut 
quatro  cavallari  in  pochi  zorni.  Et  dice  epso  S.  Roberto  che  quest 
bon  christianello  del  Re,  che  vuole  vendere  li  altri,  se  lassa  oscili 
lare  da  li  baroni,  che  li  dano  parole,  et  trovarasse  poi  cum  l 
mani  piene  de  mosche.  Et  finalmente  scrive  epso  secretario  che 
S.  Ruberto,  mettendo  questa  impresa  per  expedita  et  el  Re  per 
expulso  del  Reame,  conclude  lui  bavere  el  più  bel  giocho  eh 
già  gran  tempo  havesse  capitano  veruno  de  Italia  et  essere  molt 
fortunato.  Al  che  epso  secretario  ha  resposto  esser  vero  et  baveri 
racordata  una  dovisa  la  quale  fece  Sua  Ex.tia,  che  fu  de  tre  e 
Ione  che  tiene  uno  homo  abrazate,  la  quale  se  intende  per  la  Si 
gnoria  de  Vinetia,  che  Sua  Ex.tia  vuol  tenere  abrazata  et  non  se 
despizare  da  l'amore  de  quella,  et  uno  homo  nudo  tenuto  per 
li  capilli  da  un  altro,  che  se  intende  per  la  fortuna  che  epso  S. 
Ruberto  impresta  per  li  capilli  et  non  la  vuol  lassare,  la  quale 
fortuna  adesso  se  li  e  aprestata  et  monstrage  de  honorevoli  et 
fructiferi  partiti. 

Et  poi  adimanda  epso  Secretario  se  lui  ha  ad  accompagnare  epso 


)er 

1 


—  345  — 

S.  Roberto  in  questa  sua  pratita  saltem  per  le  terre  de  San  Marco; 
al  che  subito  la  Signoria  ha  resposto  che  non  lo  accompagni, 
perchè  se  darla  da  dire  ad  altri;  ma  che  con  bel  modo  pigli  li- 
centia,  et  se  ne  venga  dopo  haverlo  rengraciato  da  parte  de  la 
Signoria  de  le  bone  intentioni  ha  dicto  bavere  verso  epso  Stato, 
et  de  li  amorevoli  suoi  racordi,  cum  dirgli  che  epso  Stato  sera 
sempre  disposto  ad  ogni  suo  bene  et  favore,  et  che  pregarano 
Dio  che  Sua  Ex.tia  exequisse  ogni  suo  desiderio,  et  che  le  cose 
li  vadino  prospere,  et  che  vadi  in  bona  gratia  accompagnato  da 
misser  Dominedio,  et  voglia  provedere  che  le  sue  genti  nel  suo 
andare  non  faciano  dano  ale  gente  loro.  Sogionge  etiam  essere 
gionto  al  S.  Ruberto  uno  messo  de  li  baroni,  m.  Bentivoglio,  che 
lo  tene  molto  sollicito  che  vadi,  et  che  non  s'especta  che  lui  e, 
gionto  che  sia,  s' incominciara  a  fare  facti,  et  che  a  Sua  S.ria 
se  aparecchia  bene  assai,  perchè  questa  volta  posa  acquistare 
stato  per  lui  et  per  li  figlioli,  ma  che  vadi  presto  i.  Et  epso  Ben- 
tivoglio ha  pregato  Sua  Ex.tia  per  parte  de  li  baroni,  che  non 
se  voglia  più  far  chiamare  de  la  casa  de  Ragona,  perchè  in  quella 
parte  non  porla  dirse  cosa  più  exosa  ad  homo  quanto  sentire 
nominare  la  casa  de  Ragona,  et  per  questo,  se  Sua  S.ria  vuole 
in  tuto  essere  benvisa,  non  se  faci  più  chiamare  de  la  casa  de 
Ragona,  et  cussi  ha  commesso  ai  sol  cavallari  che  più  non  scri- 
vano de  Ar agonia. 

Havemo  etiam  come  el  figliolo  del  C.  de  Torse  ^  se  e  portato  a 
quella  Signoria  et  ha  exposto  lui  essere  mandato  dal  papa  et  dai 
baroni  per  fare  instantia  de  dare  licentia  al  S.  Roberto,  ad  ciò 
potesse  andare  a  servire  Sua  S.ta  a  questa  impresa  del  Reame  ; 
ma  che,  havendo  trovato  Sua  Ser.ta  haverge  dato  licentia,  non 
bisognava  insistere  più  circa  questo,  ma  solo  per  parte  del  papa 
et  baroni  rengraciare  la  Signoria,  facendo  intendere  che  li  ba- 
roni restarano  obligati  sempre  a  questo  dominio  loro,  havendo 
certa  questa  impresa  et  la  expulsione  de  la  M.ta  del  Re  facilis- 
sima, perchè  tuti  li  subditi  gli  sono  dispostissimi  et  tuti  li  buoni 
inanimati,  li  quali  più  tosto  stariano  a  manzare  li  propri  figliuoli, 
che  venire  mai  a  compositione  cum  Sua  M.ta,  et  che  queste  pra- 


*  L'andata  del  Bentivogli  al  Sanseverino,  che  non  si  conosceva  dalle 
altre  fonti,  ebbe  luogo  dopo  la  sua  missione  a  Roma,  per  la  quale  cfr.  n. 
4  al  doc.  XVI. 

2  Qui  v'è  una  inesattezza.  Non  il  figlio  del  e.  di  Tursi,  ma  il  padre  stesso, 
Giovanni  Sanseverino,  si  recò  a  Venezia.  Cfr.  doc.  XXX,  n.  3    e  XLVIII. 

Anno  XLV,  23 


346 


tìche  erano  tute  facte  per  lenirlo  in  tempo  tanto  chel  S.  Roberto 
fosse  conducto  da  le  bande  di  la  a  questa  impresa  per  la  quale  il 
papa  era  tanto  disposto,  et  per  la  quale  se  trovarano  110  squadre, 
40  cum  el  S.  Ruberto^,  40  cum  el  papa  et  30  cum  li  baroni.  Al 
che  la  Signoria  respose  che  haveano  dato  licentia  al  S.  Roberto, 
perchè  cusì  volea  iustitia  et  ragione  per  essere  homo  libero  et  non 
obligato  alo  Stato. 

Intedemo  anche  come  questa  Signoria  ha  dal  suo  ambasciatore 
in  Roma,  come  el  papa  parla  honorevolmente  de  quello  Stato, 
dicendo  che  vuol  far  mettere  littere  in  marmore  che  attestino 
la  intelligentia  et  fide  de  questo  dominio  verso  la  sede  aposto- 
lica ,  et  che  Sua  S.ta  va  signando  che  quella  Signoria  se  dovea 
resolvere  ad  intrare  in  questa  impresa  del  Reame,  se  ben  per  an- 
chora  non  Thabia  apertamente  richesta.  Al  che  epso  ambassa- 
tore  ha  risposto  cum  parole  generali. 

Havemo  etiam  come  epso  Ambassatore  scrive  ala  Signoria  la 
rebellione  dell'Aquila,  et  come  li  baroni  sono  in  pratiche  dacordo 
per  tener  suspeso  el  Re,  che  non  proveda  ali  facti  suoi,  il  che 
pare  li  venga  facto  ;  et  intendemo  che  quando  questa  parte  fu 
lecta,  che  la  brigata  uscirno  in  queste  parole  :  Anche  de  la  rolpe 
se  piglia. 

XLV.  Ibid.  Battista  Bendedei.  Barletta,  11  ottobre  1485. 

Tornato  el  secretarlo  hogi,  Antonio  de  Alexandre  et  m.  Impou 
da  Miglionico,  el  Re  ni  dixe  come  dei  clementia  le  cosse  erano 
concluse  et  firmate  in  presentia  de  don  Federico  tra  Sua  M.ta 
et  li  baroni  tanto  bene  amorevolmente  quanto  se  potesse  cre- 
dere, secondo  le  conventioni  fra  loro  convenute  honeste  et 
iuste,  le  quali  non  se  publicariano  altramente,  ma  haveano  a 
stare  scerete  alcuni  di  per  satisfatione  de  epsi  baroni  ;  quantun- 
que Sua  M.ta  un  altra  volta  ce  le  farla  intendere.  Et  fra  le  altre 
ce  dixe  che  le  noze  del  princ.  d'Alt  amura  cum  eius  fllia  se  erano 
differite  ali  X  de  Novembre,  et  chel  tuto  era  facto  cum  volontà 
etiam  del  princ.  de  Salerno  per  l'homo  suo,  che  sempre  li  e  in- 
tervenuto cum  el  mandato,  el  quale  similiter  ha  approbato  et 
facto  come  li  altri  nomine  ipsìus  principis  ^,  et  non    de  manche 


*  Che  il  Sanseverino  fosse  atteso  nel  regno  con  quaranta  squadre  depose 
il  e.  di  Carinola.  Processi,  p.  Vili. 

2  Al  convegno  di  Miglionico  mandò  un  suo  rappresentante  anche  il  e. 
di  Lauria,  Barnaba  Sanseverino,  che  fu  il  suo  Cancelliere  Giacomo  d'A- 
meglio  di  Amendolara.  Cfr.  Processi,  p.  CL 


—  347  — 

erano  iti  il  Gran  Sinischalcho  et  il  e.  di  Sarno  a  Salerno  per 
abraciarse  ^  ;  et  inter  alia  essendo  rimasti  dacordo  et  contenti 
li  baroni  predicti  che  habino  subito  a  mandare  un  messo  al  papa 
per  notificarli  lacordo,  et  però  non  essere  più  bisogno  che  Sua 
S.ta  per  epsi  se  affatichi,  ne  pigli  altra  molestia,  rengraziandola 
quanto  più  potrà.  Et,  quando  la  non  volesse  desistere  da  quello 
ha  facto,  la  protesterà  etiam  in  presentia  cardinalium  si  opus 
fuerit,  che  si  quid  temptabit  ulterius  et  aget  contra  regem,  quod 
ipsis  invitis  fiet  et  contra  sua  volontà,  imo  che  totis  viribus  li 
resisterano  come  fldelissimi  vassali  de  Sua  M.ta.  Ma,  perchè  Sua 
M.ta  non  dubitasse  che  esso  suo  messo  dicesse  fare  una  cosa  et 
poi  ne  facesse  un'altra,  hano  voluto  che  la  Sua  M.ta  mandi  uno 
suo  homo,  et  cussi  sono  restati  dacordo  del  prefato  e.  di  Sarno 
che,  subito  poi  che  sarà  sta  a  Salerno  cum  el  Gran  Siniscalco, 
facta  la  visitatione,  perchè  e  tuto  de  quel  signore,  se  ne  andarà 
volando  a  Roma  a  fare  quanto  disopra  e  dicto.  Et  per  questo 
respecto  loro  baroni  hano  dimandato  che  questa  cosa  non  se 
scriva  per  noi  altri,  ad  ciò  prima  vada  ipso  e.  de  Sarno  a  Roma, 
chel  papa  non  intenda  la  sii  publicata  per  più  reverentia  de  Sua 
S.ta. 

Successive  dixe  Sua  M.ta  che  più  non  era  bisognò  lei  stesse 
qua,  et  passato   domane  se  levarla  de  qua,  che  serano  ali  XIII. 

Veramente  de  questa  pace  tractata  se  ne  ha  a  dare  summa 
laude  in  primis  al  factore  de  tuto,  poi  ala  M.ta  Sua,  postremo  al 
Secretarlo  che,  non  perdonando  a  faticha,  che  e  sta  grandissima 
si  per  reta  sua  come  per  bavere  cavalcato  da  cavallaro  per 
questi  caldi  sono  di  qua  excessivi,  cum  la  sua  dextreza  et  optime 
manere  ha  saputo  ben  exequire  le  regie  commissioni  et  redure 
le  cose  ad  optato  fine. 

P.S.  Nelparth:ela  Sua  M.ta  da  Fogia  dete  licentia  al  d.  di 
Melfi  che  se  ne  tornasse  a  casa,  del  quale  e  restato  Sua  M.ta 

*  Il  Gran  Siniscalco  ed  il  e.  di  Sarno  non  andarono  subito  a  Salerno 
(v.  docc.  XLVIII,  XLIX  e  L).  Anche  dalla  deposizione  di  Gregorio  di 
Samito  (Processi,  p.  LXIV)  appare  che  il  Guevara  e  il  Coppola  andarono 
a  trovare  Antonello  Sanseverino  dopo  il  convegno  di  Miglionico.  Ma  se 
li  tien  presente  quello  che  riferi  lo  stesso  testimonio,  che  cioè  i  due  baroni, 
strada  facendo,  si  dettero  a  criticare  vivacemente  il  re  per  l'assegnazione 
ai  Carafa  delle  terre  del  card.  d'Aragona,  morto  a  Roma  il  17  ottobre,  si 
riconoscerà  che  fra  la  fìnta  pace  di  Miglionico  e  l'andata  del  Siniscalco  e 
del  Conte  a  Salerno  corsero  varii  giorni.  Per  ciò  che  fece  il  Coppola  a  Mi- 
glionico il  10  ottobre  all'insaputa  del  re  cfr.  doc.  CV. 


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plusquam  optime  satisfacto  per  la  demonstracìone  de  la  sincera 
fidelità  sua,  et  ita  l'ha  veduto  molto  alegramente  et  offertoli    ^ 
assai,  che  non  se  dubita  etiam  gli  ne  renderà  digno  merito^. 
XLVI.    Id,   Barletta,  2  ottobre   14852. 

P.S.  Quello  che  non  ho  voluto  scrivere  in  litteris  credesse  che,, 
fra  gli  altri  capitoli,  sii  questo  in  primis  chel  S.  don  Federico] 
habii  ad  bavere  tutto  quello  tenea  el  princ.  de  Taranto,  videliceti 
quello  e  al  presente  del  domanio,  et  che  non  e  dato  in  altri  ;  itemi 
che  habii  ad  bavere  quella  figlia  del  Gran  Sinischalcho,  et  la 
figlia  de  Sua  Extia,  che  ha  in  Francia,  habii  ad  essere  moglie 
del  figlio  del  princ.  di  Bisignano,  et  in  dote  habii  ad  bavere  el^ 
principato  de  Squilatio  che  tene  epso  d.  Federico  ^,  et  etiam  donj 
Francesco  habii  ad  bavere...  El  principe  d'Altamura  habii  ad 
bavere  la  figliuola  del  Re  et  fare  le  noze  ali  X  de  novembre,  neH 
qual  tempo  habii  ad  essere  exequito  tuto  quello  e  promesso  hinc] 
inde.  Non  affermo  pero  tute  queste  cose,  sed  solum  illa  de  qui- 
bus  in  litteris.  De  queste  altre  cussi  se  ragiona  et  credesse  :] 
affirmo  etiam  del  Stato  fu  del  princ.  de  Taranto  chesera  de d. Fe- 
derico, che  al  presente  è  ito  a  Matera. 

Nauti  se  sia  expedita  questa  cavalchata  el  S.  don  Federicoi 
è  giunto  qua,  el  quale  ha  refermato  l'acordo  facto  cum  grande] 
carità,  et  quanto  dolcemente  Thano  veduto  quelli  baroni,  et  hi 
dicto  de  dovere,  partito  el  Re,  che  sera  pur  domane,  andare  a| 
pigliare  possessione  del  Stato  se  e  convenuto*. 

^  Depose  il  princ.  di  Bisignano  (Processi,  p.  CXCVII)  che,  quando 
baroni  si  trovavano  a  Miglionico,  si  recò  colà  da  parte  della  duchessa 
Melfi  fra  Bartolomeo  dell'Ordine  di  Sant'Agostino  di  quella  città,  por 
tando  le  condizioni  messe  innanzi  dal  duca  per    entrare  nella  congiura 
Nella  stessa  deposizione  sono  indicati  i  patti,  che  furono  accettati  dai 
altri  baroni. 

^  Questa  poscritta  seguiva  il  dispaccio  della  stessa  data  che  è  perduto 

2  Trattasi  di  Carlotta,  che  don  Federico  aveva  avuto  dalla  prima  mo- 
glie Anna  di  Savoia,  e  che  visse  sempre  nella  corte  di  Francia.  Il  figlio  del 
princ.  di  Bisignano,  al  quale  qui  si  è  accenna,  è  forse  il  primogenito  Be- 
rardino. 

*  «  In  questo  anno  (1485)  die  12  ottobre,  lo  S.  Re  donau  e  fece  caval- 
care per  Napoli  lo  S.  don  Federico  princ.  di  Taranto,  e.  di  Lecce  ».  Così 
A.  CoNiGER  nelle  sue  Cronache,  Napoli,  1782,  p.  23.  Ma  dal  nostro  do- 
cumento risulta  che  Federico  non  tornò  allora  a  Napoli,  e  invece  si  recò 
direttamente  nel  suo  nuovo  Stato.  Narra  infatti  lo  stesso  cronista,  p  23, 
che  il  23  ottobre  «lo  ill.mo  S.  don  Federico,  prencipe  di  Taranto  e  conte 
di  Lecce,  intrò  in  Lecce  a  pilliare  la  possessione,  e  fo  receputo  con  gran 
trionfo  et  honore  ».  Il  12  ottobre  neppure  il  re  trovavasi  a  Napoli. 


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XLVII.   Id.   Napoli,  21   ottobre  1485. 

III. me  due.  L'oratore  fiorentino  et  io,  partito  el  S.  Re  ali  XIII 
presente  per  venire  a  Napoli,  facendo  la  via  de  Ascoli,  partissimo 
da  Barleta  ali  XIV  et  giunsemo  ali  XVIII,  restando  el  ducale  o- 
ratore  per  partire  ali  XV,  el  quale  non  e  anchora  giunto^. 

Intenderà  come,  nel  venire  de  Su?  M.ta,  el  Gran  Sinischalcho 
se  gli  fece  incontro  et  basoli  el  pede  et  la  mano,  et  accompagnolo 
per  alcune  miglia,  el  quale  el  re  abracio  teneramente,  et  ando- 
sene  ad  Ariano  et  terre  sue  cum  5  o  6  cavalli  che  havea*. 

Sua  M.ta  dixe  a  nui  oraturi  che  la  non  podea  far  che  non  se 
dolesse  et  agravasse  assai,  parendoli  de  credere  che  ogni  homo 
se  sii  acordato  che  questo  Regno  vadi  in  preda  et  a  fare  grande 
la  Chiesia  et  Vinetiani,  la  maiorita  et  augumento  de  ciascuno 
de  li  quali  ha  da  essere  la  ruina  del  resto  de  Italia,  facendosi 
cossi  pocho  conto  per  tutti  de  questo  regno,  come  sei  fusse  in 
capo  al  mondo,  et  che  non  se  ne  havessero  a  valere,  o  che  mai 
non  havesse  giovato  a  ninno  de  li  sol  coUigati,  dolendosse  de 
tutti,  li  quali,  se  havessero  facto  quello  doveano  pure  cum  pa- 
role per  modo  chel  papa  havesse  inteso,  non  solo  non  haria  per- 
seguito rimpresa,  ma  haria  confortato  li  baroni  alo  acordo,  quel- 
lo mo  non  se  poterà  fare  cussi  presto,  ne  facilmente,  ne  senza 
grandissima  opera  et  pericolo,  presertim  che  hogi  havea  havuto 
lettere  che  l'Aquila  havea  gitato  fuori  le  bandiere  de  la  chiesa, 
che  a  recuperarla  non  sera  se  non  difficile,  et  interim  da  più 
bande  li  potrà  dare  molestia  dove  la  confina  3.  Et  cussi  se  dolse 
in  primis  chel  Stato  de  Milano  non  havea  facte  che  parole,  et  in 
dire  chel  S.  Ruberto  non  venirla,  ni  la  Signoria  mai  li  darla  li- 
centia,  come  bora  s'intende  licentiato  et  venirsene.  Successive 


»  Branda  Castiglioni,  oratore  del  d.  di  Milano,  giunse  a  Napoli  il  22  ot- 
tobre. Gfr.  doc.  XLVIII. 

'  Questo  incontro  del  re  con  Pietro  di  Guevara,  che  avvenne  sopra 
Grottaminarda  (Raimo,  ap.  Muratori,  XXIII,  236),  spiega  un  passo  della 
deposizione  di  Antonio  da  Mignano  (Processi,  pp.  LXXI-II),  dove  è  detto 
che,  trovandosi  egli  a  Salerno  due  giorni  innanzi  l'alzata  delle  bandiere, 
il  Gran  Siniscalco  gli  mostrò  una  lettera  in  cifra  pervenutagli  dall'Abruzzo, 
In  cui  lo  si  rimproverava  t  che  era  reducto  ad  parlare  con  la  S.  M.ta  dello 
Sig.  Re  et  non  lo  bavere  amazato,  et  che  lo  S.  Re  non  havea  facto  minore 
errore,  havendolo  possuto  pigliare  et  non  lo  bavere  pigliato  ». 

»  Tra  la  rivolta  degli  Aquilani  e  la  dedizione  alla  Chiesa  intercedettero 
alcuni  giorni.  Cfr.  L.  A.  Antinori,  op.  e  voi.  cit.,  p.  23  e  sgg.  e  Ri  vera 
op.  cit.,  pp.  31  e  sgg. 


—  350  — 

come  per  il  mezo  suo  se  e  adaptata  la  cossa  fra  li  Ungari  e  la  Si- 
gnoria per  quello  f accano  contro  Trieste  et  Fiume,  quello  de 
che  se  dolse  assai,  parendoli  che,  quando  non  se  levavano  li  Un- 
gari da  quella  impresa,  la  Signoria  non  haria  dato  licentia  al  S . 
Ruberto.  Pariter  se  dolse  de  Fiorentini,  li  quali  monstravano 
non  volesseno  rompere  contra  el  papa,  allegando  la  guerra  cum 
Genoisi  et  il  suspecto  de  Siena,  bisognandola  guardare  et  de- 
fendere, et,  non  havendo  più  gente  de  quelle  se  habino,  non  po- 
tere bastare  a  tante  cosse.  Dicendo  Sua  M.ta  chel  S.  Ludovico 
li  havea  pure  facto  dire  per  il  suo  oratore  che  de  Genoisi  non 
dubitasseno,  perchè  havea  pur  saldato  cum  loro  et  colligatoli 
cum  quello  Stato,  et  che  loro  non  li  dariano  impazo.  Per  Siena 
non  bisognava  dubitassero  d'altri  che  del  papa,  et  questo  havea 
tropo  che  fare  dela  impresa  contro  Sua  M.ta,  et  molto  più  ne 
haria  quando  lo  rompesseno  contra,  come  recercava  el  bisogno 
suo  per  divertere  Sua  S.ta;  che  erano  cosse,  che  quando  non 
volesseno  fare  per  vigore  de  capitoli  et  de  confederatione,  et  per 
utile  de  Sua  M.ta,  almanco  se  deveriano  fare  per  comodo  et 
benefitii  loro  per  non  perdere  de  poterse  ad  ogni  bisogno  valerse 
de  questo  Stato,  si  come  se  ha  pur  visto  quanto  l'ha  giovato 
alle  cossa  de  Ferrarla  et  de  Lombardia,  et  già  etiam  per  loro 
Fiorentini  al  tempo  de  Bartholomeo  da  Bergamo,  extendendosse 
molto  sopra  questo  parlare,  dolendose  et  gravandose  che  se 
demonstri  non  solum  de  non  intendere  la  ruina  de  Italia  per 
questo  caso,  ma  se  li  dia  favore  et  aiuto  per  ruinarla  più  presto. 
L'oratore  fiorentino  dixe  che  questa  venuta  del  S.  Ruberto 
era  sta  contro  el  parere  suo  et  contra  ogni  ragione,  vedendo 
quanto  continuamente  haveano  resposto  Venetiani  al  S.  Ludo- 
vico, et  per  Zacharia  Barbaro  et  per  l'oratore  ducale  sta  in  Ve- 
netia,  che  mai  li  dariano  licentia,  et  etiam  per  non  se  denudare 
de  tanta  gente  darme;  non  de  mancho,  venendo  pure  et  non  se 
havendo  possuto  proibirli  el  passo,  volea  credere  chel  Stato  de 
Milano  farla  el  debito  suo  et  tanto  più  quanto  che  sii  sta  inganato 
da  Venetiani.  Cussi  non  dubita  farà  la  sua  Republica  et  non  li 
mancherà.  Et  a  quest'ora  haverne  facto  malore  demonstratione, 
perchè  non  solum  hano  dato  dinari  a  le  sue  genti  darme,  ma 
etiam  ne  hano  facto  cavalchare  parte.  Et  se  non  mostrano  de 
volere  cussi  presto  rompere  guerra,  lo  fano  per  non  essere  soli. 
Preterea  non  vedeno  Milano  facia  cum  effecto,  imo  Sua  M-ta 
non  ha  ropto  contro  el  papa,  che  doverla  essere  stato  il  primo, 
et  farlo  più  presto  se  potesse  in  offendere  le  terre  de  la  Chiesa, 


I 


—  351  — 

prius  che  se  faccia  più  grosso  el  suo  exercito,  et  darli  una  sbar- 
buzata,  come  se  potrà  fare  per  Tanimosita  del  d.  di  Calabria 
et  per  le  gente  debe  bavere,  che  sarà  etiam  causa  che  li  col- 
ligati  lo  seguirano,  e  specialmente  la  sua  Republica,  che  non  du- 
bita, se  li  dovessero  impegnare  figli  e  moglie,  serano  promptis- 
simi  a  quello  sera  debito  loro  et  in  satisfactione  de  Sua  M.ta. 
Sua  M.ta  replico  che  havea  dicto  più  volte  che,  stando  in  su- 
specto  de  quisti  baroni,  li  era  sta  forza  a  tenire  le  gente  danne 
sparse  de  qua  e  de  là  dove  erano  li  dubii.  Però  non  essere  sta  modo 
che  habii  possuto  offendere  el  papa  per  forma  che  fusse  honore- 
vole  et  cum  reputatione,  et  che  ninno  debbe  credere  fusse  sta 
negligente  a  fare  quello  fusse  stato  suo  utile  et  benefficio,  et 
per  intendere  el  mostro  de  le  armi,  pur  alquanto  non  li  e  sta  fa- 
cultà  de  quello  seria  sta  necessario  et  de  bombarde  et  altre  cos- 
se. Quanto  ala  parte  che  non  voriano  esser  soli  ala  roptura  et 
che  reguardano  a  Milano  dixe  che,  licet  el  speri  che  Milano  habii 
a  fare  el  debito,  tamen,  quando  non  lo  facesse,  mai  per  questo 
non  deveriano  restare  de  fare  quello  a  che  sono  obligati  verso 
Sua  M.ta.  Et  che  bene  sa  Sua  Magn.tia  quando  fu  el  principio 
dela  guerra  sua  cum  Genoisi,  lui  lo  domando  per  parte  deli  soi 
S.ri  se  volea  adiutarli  contra  epsi  Genoesi,  dato  che  el  Stato 
de  Milano  non  volesse,  et  lei  li  rispose  affirmative  de  si.  Et  sim- 
pliciter,  non  havendo  voluto  in  quello  bavere  respecto  a  Milano, 
et  però  non  volse  intendere  se  volea  o  no,  ne  volse  differire  la 
risposta  perchè,  dato  che  Milano  non  havesse  voluto  aiutarli, 
omnino  havea  deliberato  de  darli  quello  adiuto  rechiedesseno 
et  potesse,  et  cussi  li  servete  de  le  galee  liberamente,  che  li 
costorno  molte  migliara  de  ducati.  Cussi  voria  se  facesse  verso 
Sua  M.ta  et  non  bavere  reguardo  ad  altri  de  quello  se  e  obli- 
gato. 

continua 

Giuseppe  Paladino. 


GLI  AVVERTIMENTI  AI  NIPOTI 


FRANCESCO    D'ANDREA 


(contin.  :  v.  in  questo  voi.,  pp.  152-178) 


§  9.  —  Casa  del  sig.  reggente  Gio.  Francesco  Sanf elice. 

Nel  medesimo  tempo  che  il  reggente  Galeota  ^  fu  fatto  reg- 
gente per  Spagna,  fu  anche  creato  reggente  di  Napoli  per  la  morte 
del  reggente  Branda  ^  il  consigliere  Gio.  Francesco    Sanf elice. 

Di  questo  ministro,  la  di  cui  vita  non  fu  che  una  indefessa  ap- 
plicazione a  governar  la  nostra  città  nelle  cose  criminali,  non 
posso  sapere  se  si  avviasse  al  principio  per  Tavvocazione,  che 
credo  facilmente  che  no,  perchè  fu  poverissimo  ;  onde  o  non  fu 
mai  avvocato,  o  non  lo  fece  che  per  pochissimo  tempo,  né  dovè 
averci  fortuna.  Fu  insigne  per  l'innocenza  de'  costumi,  e  per 
rintegrità  della  vita,  non  discompagnata  dalla  dottrina,  come 
lo  dimostrano  i  suoi  tre  tomi  di  Decisioni  ^  ;  fu  severissimo  nel 
castigare  i  delitti,  ma  con  tal  tranquillità  che  quando  condan- 
nava i  rei  pareva  che  li  assolvesse.  Né  fu  meno  ammirabile  per 
l'indicibile  pazienza  colla  quale  ascoltava  tutte  le  differenze  che 
succedevano  in  Napoli,  anco  tra  povere  donnicciole  e  tra  per- 
sone d'infima  plebe,  e  per  l'equità  nel  terminarie  ;  sicché  la  sua 
vita  poteva  dirsi  un  esercizio  continuo  in  amministrare  a  tutti 
indifferentemente  la  giustizia.  Fu  anche  prò  vicecancelliere  del 
Collegio  de'  Dottori  :  quale  officio  non  isdegnò  di  esercitare  anco 
fatto  reggente,  mentre  il  vicecancelliere  era  il  duca  di  Galvano 


*  Cfr.   Avvertimenti,  §  8. 

2  Cfr.  ivi,    §  7 

3  Decisionum   supremorum 
1642-64, 


Tribunalium   Regni   Neapolitani,     Napoli, 


1 


—  353  — 

Segretario  del  regno  *;  e  da  lui,  essendo  reggente  e  prò  vicecan- 
celliere, ricevei  io  la  laurea  del  dottorato  \ 

Lasciò  tre  nipoti,  credo  figliuoli  del  fratello  ;  Il  primo  fu  duca 
di  Lauriana  ^  il  secondo  fu  arcivescovo  di  Cosenza  *;  il  terzo 
il  dottore  D.  Alfonso,  ch'egli  forse  pensava  che  avesse  dovuto 
seguire  la  strada  della  toga.  Ma  quello,  non  avutovi  genio,  dopo 
le  rivoluzioni  si  pose  per  la  spada;  fummo  però  condiscepoli  nello 
studio  della  legge,  e,  benché  egli  fusse  di  minor  età,  si  dottorò 
prima  di  me  ^;  onde  mi  precede  oggi  nel  Collegio  de'  Dottori; 
ma  non  può  dirsi  che  la  loro  casa  abbia  ricevuto  né  dall'avvoca- 
zione  né  dalla  toga  alcuno  avanzamento. 

§  10.  —  Della  casa  del  sig.  Andrea  Marchese  presidente  del  nostro 
Sacro  Consiglio. 

Ma  grandissimo  all'incontro  fu  lo  splendore  che  dall'una  e 
dall'altra  ricevè  la  casa  del  sig.  Andrea  Marchese  presidente  del 
S.  C,  che  dovrebbe  proporsi  per  idea  a  tutte  le  persone  nobili 
che  non  sono  di  Piazza,  quando  si  applicano  alla  nostra  profes- 
sione; poiché  in  essa  si  vede  sin  dove  può  arrivare  per  1'  avvo- 
catura in  Napoli  una  privata  famiglia. 

Fu  egli  figliuolo  di  Fabio  Marchese,  che,  nato  in  Capua  ed  in 
mediocrissima  fortuna,  come  ne  vive  ancor  oggi  la  fama  in  quella 
città,  venuto  in  Napoli  ed  applicatosi  all' av vocazione,  riuscì  in 
essa  così  celebre,  e  con  sì  grande  acquisto  di  ricchezze  e  di  ri- 
putazione, che  non  solo  superò  tutti  quei  che  erano  stati  prima 


i  Cfr.  Avvertimenti,  §  13. 

2  II  D'  Andrea  si  addottorò  nel  marzo  1641  :  cfr.  Diligentissima 
Neapolitanorum  Dociorum  nunc  viventium  nomenclatura,  Napoli,  F.  Savi, 
1653,  p.    99. 

»  Cfr.  Giustiniani,  Dizionario  geografico  del  regno  di  Napoli,  Napoli, 
1802,  V,  233.  Lauriana  è  in  prov.  di  Salerno. 

«  Il  Giustiniani,  Scrittori  legali,  III,  154,  n.  12,  cita  una  biografia  di 
Diego  Mazza,  Compendio  della  vita  di  mons.  Gius.  Maria  San  felice  arcive- 
scovo di  Cosenza  e  Nunzio  Apostolico.  Questo  Sanfelice  fu  arciv.  di  Cosenza 
dal  22  agosto  1650  al  10  nov.  1660,  nel  quale  anno  mori:  cfr.  Gams,  Series 
episcoporum  Ecclesiae  Catholicae,  Ratisbonae,  1873,  p.  879.  Era  figlio  di 
un  Flaminio  e  di  Lucia  dei  baroni  di  Mirabella;  per  la  sua  vita  cfr.  Ughelli, 
Italia  sacra,  ed.  Venezia  1721,  IX,  269. 

»  Alfonso  Sanfelice  si  addottorò  nell'  ottobre  1640  :  cfr.  la  cit. 
Nomenclatura,    p.    98. 


—  354  — 

di  lui,  ma  tolse  la  speranza  a  quei  che  verranno  di  potervi  mai 
arrivare.  Onde,  stimando  inferiore  al  suo  merito  il  posto  più 
volte  offertogli  di  consigliere,  non  volle  accettare,  e  datosi  a  con- 
sultare in  casa,  la  vide  sempre  piena  de'  signori  primari  del  re- 
gno, che  dipendevano  dalle  sue  risposte  come  da  oracoli.  In  ma- 
niera che  le  di  lui  consulte  erano  stimate  più  delle  sentenze  del 
medesimo  S.  C.  Visse  con  fasto  eguale  alla  stima  che  di  lui  faceva 
il  mondo;  onde  non  fu  contento  della  riverenza  che  se  li  portava 
per  lo  suo  proprio  valore,  ma  volle  poi  far  pompa  della  grandezza 
de'  suoi  antepassati,  de'  quali  per  la  loro  antichità  se  n'  era 
spenta  la  memoria,  procurando  però  di  mettere  in  chiaro  la  no- 
biltà della  sua  discendenza,  come  può  vedersi  dal  Discorso  della 
sua  casa  fra  le  Memorie  del  duca  della  Guardia  \ 

Dalla  moglie  di  casa  della  Marra,  della  casa  del  medesimo  du- 
ca, generò  Andrea,  del  quale  si  parla,  e  Girolamo,  che  fu  il  pri- 
mogenito. E  volle  che  ambedue  si  avviassero  per  la  strada  del- 
l'avvocazione,  ben  conoscendo  che  la  medesima  avvocazione, 
che  avea  portata  alla  sua  casa  la  grandezza,  dovea  conservar- 
gliela ;  e  riuscirono  ambedue  insigni  nella  professione.  Ma  Gi- 
rolamo, essendosi  casato  con  una  signora  di  casa  di  Sangro  della 
casa  de'  principi  di  s.  Severo,  dopo  la  di  lei  morte,  con  magna- 
nima, non  men  che  pia  risoluzione,  se  n'  entrò  fra  i  PP.  della  com^ 
pagnia  del  Gesù,  con  che  non  lasciasse  ivi  anco  di  consultare, 
essere  arbitro  delle  più  gravi  differenze  tra'  magnati  del  regno* 
e  r  unica  figlia  che  ebbe  stimò  bene,  con  dispensa  del  Sommo 


1  Ferrante  della  Marra  duca  della  Guardia,  Discorsi  delle  fi 
glie  estinte,  forastiere  o  non,  comprese  ne'  Seggi  di  Napoli  imparentate 
casa  della  Marra,  Napoli,  1641,  pp.  222-236.  Fabio,  morto  TU  novembre 
1593,  ebbe  dalla  moglie,  Lucrezia  della  Marra,  tre  figli  :  Tommaso,  Girola 
mo  e  Andrea,  e  tre  figlie:  Eleonora,  Ippolita  e  Isabella.  Girolamo  sposò 
D.  Orinthia  di  Sangro  ed  ebbe  quattro  figlie.  Ma,  morta  quella,  si  fece  g 
suita  ;  e,  fattesi  monache  tre  figliuole,  la  quarta,  sua  primogenita,  sposò 
zio  Andrea  portandogli  ricca  dote.  Girolamo  «  apportò  nella  sua  Comp 
gnia  col  valore,  zelo  e  prudenza  sua  benefici  immensi  »  ;  ottenne,  fra  1' 
tro,  una  donazione  dì  150  mila  scudi  dalla  duchessa  di  Gravina  ;  nel  163i 
era  consultore  della  provincia,  «  carico  solito  darsi  a'  Padri  di  gran  talento 
e  sapere,  perlochè  anche  non  corre  nella  città  controversia  civile  tra  uo- 
mini grandi,  e  che  sia  di  grande  importanza,  che  non  si  comprometta  in  lui 
per  la  fede  che  s'ha  da  tutti  alla  sua  bontà  e  dottrina  eminentissima  :  è  sta- 
to poi  preposito  della  casa  Professa,  e  poscia  provinciale  del  Regno  » 


—  355  — 

Pontefice,  maritarla  col  fratello  per  non  fare  uscire  le  ricchezze 
dalla  casa. 

Il  quale,  divenuto  perciò  signore  di  tutte  le  robe,  esercitò  la 
professione  più  da  principe  che  da  uomo  privato,  e,  non  inferiore 
al  padre  nella  dottrina,  pare  che  lo  superasse  nell'  eccellenza  del- 
l'ingegno e  nel  fasto,  abitando  nel  superbo  palagio  del  principe 
di  S.  Severo  ^,  dove  pareva  che  facessero  a  gara  i  maggiori  signori 
del  regno  di  venire  a  fargli  la  corte,  co'  quali  solca  uscire  la  festa 
a  piedi,  godendo  di  così  splendido  corteggio  ;  ed  il  medesimo 
stile  osservò  poi  fatto  ministro  ed  anche  presidente  del  S.  C,  non 
avendo  in  nessuna  cosa  mutata  l'antica  forma  di  trattare.  Con- 
forme, la  cattedra  de'  Feudi,  che  ebbe  da  che  era  avvocato,  si 
pregiò  di  continuaria  anco  presidente,  dove,  oltre  gli  avvocati 
e  ministri,  veniva  gran  numero  di  nobiltà  a  sentirìo  per  acqui- 
star la  sua  grazia. 

Costituitosi  in  sì  alto  grado,  non  lasciò  però  di  conoscere 
che  la  sua  casa  allora  sarebbe  cominciata  a  declinare,  quando 
le  fusse  mancato  il  sostegno  della  toga  ;  onde  de'  più  figliuoli 
ch'ebbe,  Giuseppe,  il  primogenito,  cavaliere  di  bellissima  indole, 
ma  di  talenti  e  complessione  assai  debole,  avendoli  ottenuto  il 
titolo  di  principe  di  Montemarano,  e  casatolo  coli' erede  del  prin- 
cipe di  Crucoli  di  casa  d'Aquino  \  destinò  per  la  professione  D. 
Gerolamo,  il  secondo,  che  dimostrava  gran  spirito:  onde  sperava 
averio  per  suo  successore  nel  pregio  così  dell' avvocazione  come 
del  ministero.  Ma  la  morte  avendosi  preso  il  padre  mentre  stava 
neir  auge  delle  grandezze,  rapì  anche  dopo  il  figliuolo,  prima 
che  avesse  potuto  corrispondere  a  quel  che  di  lui  sperava;  ed  un 
altro  figliuolo,  che  poteva  aver  miglior  ingegno  di  tutti,  per  le 
imperfezioni  del  corpo  fu  obbligato  farsi  frate  di  S.  Domenico, 
che  ultimamente  abbiamo  poi  veduto  per  la  bontà  della  vita  e 
la  dottrina  fatto  vescovo  di  Pozzuoli  ^. 

*  Sul  palazzo  del  principe  di  S.  Severo  cfr.  F.  Colonna  di  Stigliano, 
in  Napoli  Nobilissima,  IV,  1895,  pp.  33  sgg. 

2  Giuseppe  Belprato  -  MarcheRe,  princ.  di  S.  Vito,  sposò  nel  1646 
Girolama  d' Aquino  (1629-54),  principessa  di  Crucoli  [Calabria  citeriorel, 
Cfr.  Scandone,  /  d'  Aquino,  Napoli,  1905,  tav.  XXXV.  Giuseppe  il  15 
die.  1653  ottenne  che  il  titolo  sopra  Montemarano  passasse  su  S.  Vito: 
L.  Serra,  1  registri  Titolalorum  del  Collaterale,  Napoli,  1910,  p.  12;  e  Ricca, 
Nobiltà,  Napoli,  1859  sgg.,  Ili,  260-1. 

'  Andrea  ebbe  dalla  moglie  cinque  figli  :  Fabio  (morto  nel  1625),  Giu- 
seppe, Girolamo,  Ignazio  e  Fabio,  e  due  figlie  :  Maria  e  Lucrezia:  cfr.  Del- 


—  356  — 

Così  la  casa,  benché  accresciuta  di  titoli,  è  rimasta  assai  di- 
minuita di  facoltà.  Poiché,  venduta  la  terra  di  Montemarano,  bi- 
sognò trasferire  il  titolo  in  S.  Vito,  picciola  terra  nella  provincia 
di  Lecce  ;  e  Bartolommeo  di  Franco,  famoso  avvocato  nella  di- 
fesa de'  rei,  ma  che  si  stimava  poco  favorito  dal  padre,  mentre 
fu  presidente  se  ne  vendicò  contro  la  casa,  con  avocarle  tutte  le 
cause  contro:  ciò  che  non  sarebbe  succeduto  se  ci  fusse  stato  un 
ministro  o  un  avvocato  celebre  che  1'  avesse  protetta.  E  Todierno 
principe  abitando  quasi  sempre  nella  sua  terra  fuori  di  Napoli, 
la  casa  può  dirsi  che  non  stia  oggi  in  nessuna  stima  rispetto  a 
quella  che  godè  quando  quei  che  la  fondarono  non  erano  principi, 
ma  avvocati. 

§  11.  —  Casa  del  sig.  reggente  Antonio  Caracciolo   marchese    di 
S.  Sebastiano, 

Quasi  nel  medesimo  tempo  che  il  sig.  Andrea  fu  fatto  presi- 
dente del  S.  C,  fu  fatto  ancora  reggente  il  presidente  di  Camera 
Antonio  Caracciolo. 

Era  egli  stato,  conforme  si  disse  \  il  più  eloquente  avvocato 
de*  suoi  tempi,  ed  avrebbe  accumulato  molte  ricchezze,  se,  de- 
dito per  natura  e  per  consuetudine  agli  amori,  non  avesse  eser- 
citato la  professione  più  con  vanità  di  cavaliere  che  con  serietà 
d'avvocato,  avendo  profuso  tutto  ciò  che  guadagnò  in  servir 
dame  ;  e  correva  una  fama  di  lui  che,  per  farsi  vedere  orare  in 
Consiglio  da  una  dama  da  lui  amoreggiata,  che  con  vanità  fem- 
minile ardentemente  il  desiderava,  procurò  di  farla  venire  una 
mattina  in  una  casa  che  sta  incontro  le  Ruote  del  S.  C,  dalla  fi- 
nestra della  quale,  quando  la  finestra  di  una  di  esse  Ruote  sta 
aperta,  nella  quale  Ruota  egli  quella  mattina  avea  da  difendei 
una  causa,  può  vedersi  assai  da  vicino  l'avvocato  che  sta  pj 
landò  da  quella  parte. 

Perde  però  molto  di  concetto  colla  nobiltà,  quando  per  ra^ 
gione  de'  suoi  amori,  ritrovato  in  casa  di  una  gentildonna  di  Poz-^ 
zuoli,  fu  obbligato  da'  fratelli  togliersela  per  moglie,  benché  di 


LA   Marra  cit.,  p.  234.  L'  Ughelli,  ed.  cit.,  VI,  290,  e    quindi  il   Gams 
p.  195,  ricordano  come  vescovo  di  Pozzuoli  dal  31  maggio  1688  un  Domenico 
Maria  Marchese,  morto  nel  1692  :  quale  dei  due  ultimi  figli  dì  Andrea  sia 
questi  non  saprei  dire. 
»  Cfr.  ADvertimentìy  §  2. 


—  357  — 

nascita  molto  inferiore  alla  sua.  Ma  pericolo  assai  maggiore  in- 
corse quando,  dato  di  sospetto  che  amoreggiasse  con  una  dama 
di  gran  qualità,  né  senza  qualche  corrispondenza,  si  suppose 
che  la  dama  dal  marito  fusse  fatta  morire  di  veleno,  ed  egli  ne 
stiede  gran  pezzo  ritirato  per  tema  di  perdere  la  vita  ;  sin  che 
cessato  poi  quel  sospetto,  o  pure  che  si  fusse  fatta  nota  la  sua 
innocenza,  o  che  per  altra  ragione  si  assicurasse,  ritornò  all'av- 
vocazione. 

Né  qui  perciò  finirono  li  suoi  infortunj  ;  poiché,  disgustatosi 
col  sig.  duca  di  Ossuna^  viceré  per  la  sua  differenza  eh'  ebbe 
sempre  colle  Piazze,  procurò  il  viceré,  che. aveva  alcune  risolu- 
zioni stravaganti,  di  farlo  carcerare  mentre  si  giaceva  una  notte 
con  una  donna  ordinaria  in  una  casetta  sotto  le  finestre  de'  frati 
di  S.  Maria  delle  Grazie  ^  dato  ordine  al  capitano  de'  birri  che 
l'avesse  menato  in  una  sedia  chiusa  a  Palazzo  così  nudo,  come 
r  avesse  ritrovato:  sicché  tutto  1'  arbitrio  che  potè  fargli  fu  di 
lasciargli  vestire  le  mutande.  Onde,  fattoli  così  stare  un  pezzo  nel- 
l'anticamera dentro  la  sedia,  uscito  il  viceré,  quando  vi  era  mol- 
ta gente,  alzate  di  propria  mano  le  bandariole,  gli  ;disse  per 
ischerzo:  Quìen  puotes  mas  el  Duque,  o  Antuono;  e  senza  dirgli 
altro,  com'era  di  genio  capriccioso,  lo  rimandò  a  casa.  Del  che 
rimasto  gravemente  offeso,  procurò,  dopo  partito  1'  Ossuna, 
di  essere  fatto  ministro  di  Camera,  e  poi  sotto  il  duca  Medina 
reggente  ^. 

»   Il  duca  di  Ossuna  fu  viceré  dal   1616   al  1620. 

2  Su  S.  Maria  delle  Grazie  a  Caponapoli  cfr.  G.  Filangieri,  Docc.  per 
la  storia,  le  arti  e  le  industrie  delle  provincie  Napoletane,  Napoli,  1888,  IV, 
5-391. 

»  Per  la  lotta  tra  l'Ossuna  e  le  Piazze  nobili,  e  per  la  parte  che  vi  ebbe  il 
Caracciolo,  cfr.  Schifa,  La  pretesa  fellonia  del  duca  d'Ossuna,  Napoli,  1912, 
II,  57-58.  Lo  Zazzera,  Giornali,  ms.  XX.  B.  32  della  S.  S.  N.,  (da  prefe- 
rirsi all'ediz.  del  Palermo  in  Arch.  stor.  Hai,  IX,  1846,  pp.  471-617),  e.  226, 
parla  dell'odio  del  viceré  verso  il  nostro.  Il  quale,  eletto  dalle  Piazze  per  an- 
pare  in  Spagna  a  parlare  contro  l'Ossuna,  in  sostituzione  di  P.  Lorenzo  da 
Brindisi,  timoroso  delle  minacce  di  quello,  tentò  nascondersi,  ma,  «  sta- 
nato da  una  fregola  intempestiva,  incappò  nella  rete  in  modo  ignominioso 
—  scrive  lo  Schifa,  p.  58  — ,  onde  restò  moralmente  diminuito  se  non  de- 
molito ».  Racconta  lo  Zazzera,  c.  226  :  «  [  L'  Ossuna  1  nell'  odj  era  perti- 
nace e  vendicativo,  in  tanto  che  coloro  che  l'odiava  li  perseguitava  sempre, 
come  tra  l'altri...  contro  del  sig.  D.  Antonio  Caracciolo,  gran  jurisconsulto 
e  cavaliere,  al  quale  hebbe  odio  per  le  Piazze  fatte  contro  di  lui.  E 
per  questo,  essendose  appartato,  procurò  d'haverlo  nelle  mani,  come  alfine 


—  358  — 

Della  di  lui  casa  non  può  parlarsene,  perchè  si  estinse  nella  di 
lui  morte.  Una  sola  figliola,  che  ebbe  dalla  prima  moglie,  la  ma- 
ritò al  duca  di  Ruoti  di  casa  Capece  di  Seggio  di  Nido  ^.  Dalla 
seconda,  che  fu  una  signora  di  casa  Bologna,  non  ebbe  alcuna 
prole.  E,  come  poco  applicato  all'economia,  visse  sempre  povero; 
talmente  che,  dopo  le  rivoluzioni,  ottenuta  per  la  sua  grave  età 
la  giubilazione,  si  sostenne  malamente  col  solo  soldo  di  reggente  ; 
e  benché  fusse  stato  di  genio  benefico,  e  non  avesse  mai  fatto 
male  ad  alcuno,  come  la  memoria  de'  benefici,  tosto  si  estinse 
anche  prima  di  morire  la  di  lui  memoria. 


§  12.  —  Della  casa  del  sig. 
del  Torello. 


reggente  Ettore  Capecelatro   marchese 


Non  così  il  reggente  Capecelatro,  il  quale,  benché  fusse  nato 
ancor  egli  poverissimo  cavaliere,  ebbe  però  fortuna  d'acqui- 
stare gran  ricchezze,  così  nel  tempo  che  fu  avvocato,  come  dopo 
che  fu  reggente,  sicché  potè  lasciar  la  sua  casa  assai  ricca,  ed 
accresciuta  di  titoli  e  signorie.  Il  principio  delle  sue  fortune 
nacque  dalla  disgrazia  di  un  cavaliere  assai  ricco  della  sua  istessa 
famiglia,  che,  ucciso  d'archibugiata  nel  casale  di  S.  Anastasia, 
dove  possedeva  i  suoi  beni,  come  per  non  aver  figliuoli  si  ritro- 
vava aver  istituito  erede  l'Ospedale  della  Gasa  Santa  della  SS. 
Nunziata,  persuaso  poco  prima  che  spirasse  da  un  cavaliere  suo 
amico,  che  venne  ad  assisterli  in  quell'ultimo  passo,  che  più  ope- 


l'hebbe,  perciocché  fu  pigliato  prigione  una  notte  in  casa  di  un  povero  huc 
mo  l'anno  1619,  dove  era  quella  notte  andato  detto  sig.  Antonio  a  ritrovi 
una  sua  cara,  per  la  quale  haveva  patiti  molti  infortuni,  per  dormire  et 
quella.  E  così  nudi  furono  portati  in  Palazzo,  dandogli  appena  il  capitai 
Modana  di  ponersi  un  paio  di  calzonetti  de  tela  bianca,  e  a  quella   signoi 
una  coperta  di  letto  sopra;  e,  perchè  era  inverno,  patirno  molta  incomm< 
dita  in  quel  modo  in  Palazzo  fino  al  giorno  et  hora  che  se  levò  S.   E.  de 
letto;  e  vistili  a  quel  modo,  fé  dare  colazione  a  quella  signora,  et  il  signor 
D.  Antonio  mandatolo  carcerato  in  Vicaria.  E  quantunque  se  ne  fusse  spe- 
rato male  di  tal  causa  per  inquirerlo  d'adulterio,  tuttavia  hebbe  felice  fine, 
perché  furono  liberati  indi  a  poco,  ed  il  tutto  per  l'esame  di  quella  si- 
gnora ».  Anche  l'Ossuna  aveva  vizi  uguali  a  quelli  del  Caracciolo.  Cfr.  an- 
cora Giuliani,  Successi,  ms.  della  B.  N.,  X.  B.  32,  ff.20  sgg.;  e  Rivoluzione 
di  Masaniello  ms.  della  S.  S.  N.,  XXII.  C.  6,  pp.  313  - 17. 

»  Ruoti  é  in  Basilicata,  ed  era  dei  Capece  Minutolo.  Cfr.   Giustiniani, 
Dizionario,  Vili,  81. 


—  359  — 

ra  dì  pietà  saria  stata  se  avesse  lasciato  la  roba  al  suo  parente 
che  si  trovava  in  necessità,  ed  anco  più  decoro  della  sua  fami- 
glia, rivocato  il  primo  testamento,  il  lasciò  suo  erede  con  perpe- 
tuo fedecommesso  a  favore  della  sua  discendenza. 

Accresciuto  però  così  notabilmente  di  facoltà,  si  rese  più  abile  a 
far  progressi  nell'avvocazione,  sempre  stimatosi  che  per  riuscire 
bene  in  questa  professione  bisogna  che  chi  l'esercita  non  ab- 
bia da  far  conto  di  vivere  colla  professione,  e  che  tanto  compa- 
rirà maggiore,  quanto  sta  più  agiato  de'  beni  di  fortuna  ;  onde, 
benché  non  avesse  alcuna  facondia  nel  pariare,  ebbe  però  cause 
di  grandissima  importanza,  come  può  vedersi  da'  due  tomi  delle 
sue  Consultazioni  i,  supplendo  con  la  fatica  e  colla  dottrina  al 
difetto  dell'eloquenza,  sicché  col  guadagno  dell'  avvocazione  e 
colla  perfetta  economia  potè  di  molto  aumentare  il  suo  patri- 
monio. Onde,  fatto  consigliere,  esercitò  il  posto  con  non  minor 
integrità  che  decoro  ;  e,  divenuto  padre  di  più  figliuoli,  comprò 
per  lo  primogenito  la  terra  di  Siano  ^  con  titolo  di  duca.  Tra- 
sportato poi  dall'  ambizione  di  divenir  reggente,  non  ebbe  ri- 
paro di  portarsi  in  Ispagna  con  titolo  di  ambasciatore  della  città 
contro  il  voto  della  medesima  sua  Piazza  ad  istanza  del  duca  di 
Medina  viceré,  per  opporlo  al  duca  di  S.  Giovanni  andatovi  po- 
co prima  col  medesimo  tìtolo  per  rappresentare  alcuni  pretesi 
aggravi  in  nome  della  nobiltà  contro  il  viceré  ;  ed  il  motivo  fu 
che,  avendo  il  viceré  alla  comparsa  dell'armata  di  Francia,  co- 
mandata da  Monsù  di  Bordeos,  date  l'armi  al  popolo  sotto  i  suoi 
capi  popolari,  un  governo  indipendente  dalla  nobiltà,  pretesero 
le  Piazze  nobili^  che  ciò  fusse  contro  l'antico  stile  ;  onde  desti- 
narono ambasciatore  in  Spagna  il  duca  di  S.  Giovanni  in  nome 
della  Città,  per  gravarsene.  Ma  il  popolo  pretese  che  le  Piazze 
nobili  non  potessero  rappresentar  Città,  quando  si  trattava  di 
una  differenza  particolare  tra  la  nobiltà  e  il  popolo  ;  onde  il  duca 
di  Medina,  non  fatto  ricevere  in  Spagna  il  duca  di  S.  Giovanni 
come  ambasciatore,  procurò  dal  popolo  e  dalle  tre  Piazze  pic- 
cole si  mandasse  un  altro  ambasciatore  per  altri  negozi  univer- 
sali della  Città,  e  che  si  eligesse  il  sig.  Ettore,  benché  le  Piazze 
di  Nido  e  Capuana  vi  dissentissero,  perché  dicean  di  non  ricono- 
scere altro  ambasciatore   che  il  duca  di  S.  Giovanni  ^. 

»  ConsuUationum  juria  selectiorum  in  variis  ac  frequentioribus   facti  con- 
tingentiis,  Napoli,  1643. 
»  In  provincia  di  Salerno. 
»  Cfr.  Parrino,  Teatro  eroico  e  politico  de'  governi  de'  viceré  del  regno  di 


—  360  — 

Ritornato  da  Spagna  con  felice  esito  de'  suoi  negoziati,  portò 
per  sé  la  mercede  di  marchese  di  Torello,  e  T altra  della  prima 
piazza  di  reggente  che  fusse  vacata,  della  quale  le  ne  fu  data 
dal  viceré  anticipatamente  la  possessione  con  titolo  di  proreg- 
gente, e  da  Spagna  fu  dichiarato  reggente  sopranumerario  ;  e 
finalmente  la  piazza  fu  dichiarata  ordinaria  dopo  che  si  aggiustò 
la  terza  piazza  Spagnola  ad  istanza  della  Camera  d'Aragona. 

Sopravvisse  nel  posto  molti  anni,  ed  andato  due  volte  in  Fog- 
gia in  tempo  del  sig.  conte  d'Onatte  ^  per  rimettere  in  piedi  gli 
effetti  della  Dogana,  che  per  le  passate  rivoluzioni  stavano  non 
mediocremente  turbate,  fu  fama  che  accumulasse  gran  contanti^ , 
quali  però  la  maggior  parte  l'impiegò  in  mantenere  D.  Diego, 
uno  de*  suoi  figliuoli,  prelato  in  Roma,  e  nel  mantenere  il  duca 
suo  primogenito  nella  guerra  dello  stato  di  Milano  con  posto  di 
maestro  di  campo,  e  nella  spesa  del  di  lui  matrimonio  con  una 
signora  di  casa  Caracciolo  vedova    del  sig.  duca  della  Regina. 

Ma  tutti  questi  posti  conoscendo  che  sarebbero  stati  alla 
casa  piuttosto  di  peso  che  di  profitto,  tutte  le  sue  speranze  le 
aveva  poste  in  D.  Giulio  suo  ultimo  figliuolo,  giovane  di  grandis- 
sima aspettazione,  e  l'avviò  per  l'avvocazione,  ma,  sopraggiunto 
dalla  morte,  non  potè  godere  la  riuscita  ;  e  sarebbe  riuscito  D, 
Giuseppe,  che  fu  mio  grandissimo  amico,  assai  maggiore  del  pa- 
dre, se  da  fiera  morte  non  fusse  stato  rapito  nel  fiore  degli  anni 
dal  contagio  del  1656,  insieme  con  monsignor  Capecelatro  il 
fratello,  che  per  sua  avventura  si  ritrovò  poco  prima  venuto  in 
Napoli. 

Rimase  la  casa  sostenuta  dal  duca  di  Siano  primogenito,  che, 
cavaliere  di  molto  giudizio,  per  supplire  con  risparmio  a  quel  che 
li  veniva  a  mancare  per  la  morte  del  padre,  si  ritirò  a  far  vita 
privata  nella  villa  di  Minadois  comprata  pochi  anni  prima  dal 
reggente  alla  Montagnola  \  sicché  la  stimava  la  sua  delizia;  e 
mentre  visse,  essendo  stato  per  i  servizi  del  padre  e  per  i  prò- 


I 


Napoli,  ediz.  Napoli,  Gravier,1770,  II,  37  sgg.;  Giannone,  Storia,  XXXVIII 
4.  Il  duca  dì  Medina  fu  viceré  dal  1637   al  1644. 

^   n  conte  di  Ofiatte  fu  viceré  dal  1648  al  1650. 

«  Per  la  missione  del  Capecelatro  alla  Dogana  di  Fogglp,  1648,  cfr.  De 
DoMiNicis,  Lo  stato  politico  ed  economico  della  Dogana  della  mena  delle  pe- 
core di  Puglia,  Napoli,  1781,  II,  220  sgg. 

»  La  villa,  a  Capodimonte,  fu  costruita  dal  regg.  Minadois;  cfr.  Celano,^ 
ed.  Chiarini,  V,  382;  Croce,  in  Napoli  Nobilissima,  III,  7,  1894,  p.  11 


—  361  — 

pri  più  volte  preside  di  provincia,  non  lasciò  di  far  figura  ;  ma 
dopo  la  sua  morte,  rimasti  i  figliuoli  pupilli,  e  non  nell'abilità 
del  padre,  la  casa,  tolto  il  titolo  di  duca  di  Siano,  non  ha  rice- 
vuto niente  più  di  quel  che  abbiano  gli  altri  privati  cavalieri 
della  sua  Piazza. 

§  13.  —  Casa  del  signor  Gio.  Angelo  Barile  duca  di  Caivano  e  Se- 
gretario del  regno. 

Non  devo  io  tra  le  case,  che  dagli  avvocati  furono  sollevate 
al  posto  di  reggente  o  di  presidente  del  S.  R.  C,  tralasciare  di 
annoverare  quella  del  duca  di  Caivano,  Gio.  Angelo  Barile,  che, 
di  avvocato  divenuto  segretario  del  Regno,  ascese  per  suo  me- 
rito a  così  alto  segno  di  potenza,  che  divenne  arbitro  di  tutto  il 
regno. 

Questo,  che  benché  fusse  cavaliere  della  Piazza  di  Capuana, 
e  della  più  antica  famiglia,  come  discendente  dalli  più  antichi 
conti  dei  Marsi  e  baroni  di  S.  Arcangelo,  terra  antica  della  sua 
casa  ^,  non  sdegnò,  per  sollevarla  a  maggiore  fortuna,  di  appli- 
carsi air  avvocazione,  nella  quale  riuscì  di  tanta  abilità,  che 
seppe  rapir  di  mano  del  reggente  Rovito  il  posto  di  segretario 
del  regno  2,  che,  per  non  estinguersi  che  con  la  vita,  lo  stimò 
migliore  di  qualunque  posto  di  reggente;  e  li  riuscì  così  maravi- 
glioso  con  buone  e  con  cattive  arti,  che  sotto  i  due  viceré,  il  conte 
di  Monterey  e  il  duca  di  Medina,  non  vi  fu  negozio  grave  nel 
regno  che  non  passasse  per  le  sue  mani,  in  tempo  che,  per  l'in- 
finite gravezze  che  si  posero,  il  regno  potè  dirsi  che  più  volte 
si  vendesse,  e  più  volte  si  comprasse.  Sicché  potè  pagare  non 
solo  il  prezzo  dell'  officio,  ma  comprare  la  terra  di  Caivano  ^  e 
fare  acquisto  d'immense  ricchezze.  Con  una  profonda  e  somma 
simulazione  non  fece  mai  ostentazione  della  sua  potenza,  ed 
usando  la  medesima  forma  di  vestire,  come  quando  era   avvo- 


»  Sulla  famiglia  Barile  cfr.  S.  S.  N.,  ms.  XXII.  E.  7,  ce.  28  t-29.  Appar- 
teneva al  Seggio  di  Capuana,  e  si  diceva  discendente  dagli  antichi  «  conti 
di  Marsi  »  :  «  però  io  non  ardisco  affermarlo,  non  avendone  pruova  certa  ». 
Ebbe  il  casale  di  S.  Angelo,  «poche  miglia  distante  da  Napoli  »;  ma,  dive- 
nuta povera,  abitava  fuori  città,  quando  a  farle  acquistare  ricchezza  giun- 
se in  buon  punto  il  nostro. 

*  Cfr.   Avvertimenti,   §  4. 

•  Giustiniani,  Dizionario,  III,  27. 

Anno  XLV.  24 


—  362  — 

cato,  copriva  i  suoi  talenti  con  un  volto  sempre  ridente  e  scher- 
zante. 

Sotto  il  visitatore  Giaccone  ^,  in  tempo  del  sig.  Ammirante 
di  Gastiglia  2,  patì  gran  persecuzione  dalla  visita.  Sospeso  dal- 
l'esercizio dell'officio  ed  esentato  poi  anche  dalla  Città,  quando 
tutti  lo  credevano  caduto,  si  vide  ristituito  nel  governo  dal  sig. 
conte  di  Ofiatte,  ma  non  con  quell'aura  e  quella  potenza  di  prima. 

Lasciò  la  casa  assai  ricca  al  suo  successore,  che  per  ritrovarsi 
duca  di  Galvano  esercitò  l'officio  di  Segretario  colla  spada;  ma 
poco  tempo  il  godè,  perchè,  assalito  da  febbre  terzana,  quale  per 
aver  intempestivamente  presa  la  china,  divenne  continua,  si  morì 
lasciando  due  figliuole  pupille,  delle  quali  la  prima  si  caso  col 
primogenito  del  marchese  di  Fuscaldo^,  che  sdegnò  di  eserci- 
tare l'officio  di  Segretario  del  regno,  non  conveniente  alla  sfera 
dei  Signori,  ed  ottenne  da  Spagna  che  potesse  nominare  altri  per 
esercitarlo,  e  per  la  medesima  ragione  sdegnò  anche  di  assumere 
il  titolo  di  duca  di  Galvano,  già  fatto  troppo  famoso  nel  posto 
di  Segretario,  ed  impetrò  da  Spagna  il  titolo  di  principe  di  S.  Ar- 
cangelo. 

La  seconda  figlia  si  maritò  col  figliuolo  del  marchese  di  Alta- 
villa *,  Golonna  figliolo  di  sua  zia.  Ma  l'officio  di  Segretario  colla 
podestà  di  nominarlo  toccò  alla  prima,  onde  si  possedè  per  lungo 
tempo  dal  marchese  di  Fuscaldo,  da  cui  si  mercantava  la  nomina 
all'esercizio  di  Segretario  da  tutti  quei  che  ambivano  per  quella 
strada  ascendere  alla  toga  perpetua,  benché  oggi  per  conven- 
zione tra  loro  questa  prerogativa  sia  passata  alla  casa  del  mar- 
chese di  Altavilla;  cosa  di  grandissima  importanza,  perchè  dal 
posto  di  Segretario  si  sono  veduti  già  tre  passati  a  quello  di 
ministro  perpetuo  :  Giulio  Gesare  Bonito  d'avvocato  fatto  Se- 
gretario, poi  duca  dell'Isola  ^  fiscale  di  Gamera,  ed  oggi    consi- 

1  Don  Giovanni  Chacon  Ponz  de  Leon,  detto  comunemente  Don  Gio- 
vanni Ciaccone,  fu  il  sesto  visitatore  generale  del  regno.  Venne  nel  gennaio 
1645,  e  la  sua  opera  finì  nel  1647,  allo  scoppio  della  rivoluzione.  Cfr.  E.  Gen- 
tile, /  visitatori  generali  del  regno  di  Napoli,  CsLsalhordìno,  1914,  pj).  13-16. 

-  D.  Gìo.  Alfonso  Enriquez  di  Cabrerà  ammiraglio  di  Gastiglia  fu 
viceré  dal  1644  al  1646. 

3  Fuscaldo  era  in  possesso  di  casa  Spinelli  dal  sec.  XVI  :  cfr.  Giusti- 
niani, Dizionario,  IV,  40'}. 

*  Altavilla,  in  provincia  di  Salerno,  comprata  da  Giacomo  Colonna  nel 
1646  come  marchesato  :  cfr.  Giustiniani,  Dizionario,  I,  141. 

'  Isola,  poco  distante  da  Aversa  :  cfr.  Giustiniani,  Dizionario,  V,  177. 


—  363  — 

gliere  ;  D.  Gio.  Battista  d'Afflitto  da  Segretario  fatto  ancor 
esso  consigliere,  e  Federico  Cavaliere  da  avvocato  similmente 
Segretario  con  nomina  della  marchesa  di  Altavilla,  poi  fiscal 
di  Camera  ed  oggi  presidente,  esercitandosi  presentemente  l'of- 
ficio da  D.  Domenico  Fiorillo  del  fu  reggente  Fiorillo,  che  aspira 
al  medesimo  posto  di  consigliere;  sicché  può  dirsi  questa  la  mag- 
giore prerogativa  della  casa  d'Altavilla  ^. 


1  Maggiori  particolari  dà  il  ms.  della  S.  S.  N.,  XXII,  C.  6,  pp.  277-285, 
sulla  Rivoluzione  di  Masaniello,  già  cit.  pel  Rovito:  »  Ancor  questi  da  po- 
vero cavaliere  del  Seggio  di  Capoano  e  barone  di  S.  Arcangelo  si  die  all'e- 
sercizio del  Foro,  nel  quale  col  suo  prodigioso  cervello  riuscì  così  scaltro, 
che  seppe  rapir  di  mano  dal  reggente  Scipione  Rovito  l'officio  di  Segreta- 
rio del  regno,  che  comprato  avea  per  il  suo  figlio  primogenito,  imbroglian- 
dolo di  tal  maniera,  che  non  solamente  non  potè  ricuperare  parte  del  prez- 
zo da  lui  sborsato,  ma  né  anco  potè  arrivare  a  liquidare  l'istromento.  Fu 
per  verità  uomo  di  gran  destrezza  e  gran  trafficone  ;  ed  ebbe  sempre  mira 
con  buone  e  cattive  arti  farsi  autorevole  appo  de'  viceré  del  suo  tempo  in 
danno  della  Patria,  a  segno  tale  che,  sotto  il  governo  de'  due  viceré,  conte 
di  Monterey  e  duca  di  Medina,  nel  qual  tempo  dir  si  può  che  per  l'infinite 
gravezze  e  gabelle  questo  regno  più  volte  s!  vendesse  e  co  mprasse,  non  vi 
fu  negozio  che  non  passasse  per  le  sue  mani.  Quindi  è  che  si  rese  l'arbitro 
di  tutto  il  regno,  accumulando  perciò  immense  ricchezze.  Lui  fu  uno  dei 
principali  autori  che  s'imponesse  la  gabella  de'  frutti,  edera  solito,  in  ogni 
volta  che  doveasi  trattare  d'imponere  qualche  dazio,  di  andare  nelle  ore 
che  si  teneano  le  Piazze  l'un  dopo  l'altra,  persuadendo  i  più  fermi  e  mezzo 
costanti,  e  qualunque  altro  che  vacillasse  contro  l'intento  che  si  avea  ad  ot- 
tenere, facendoli  prevaricare  con  denari  ai  più  poveri,  con  capitanati  a 
guerra  ai  miUtari,  e  con  uditorati  di  Provincie  e  toghe  ai  dottori.  —  A  guisa 
di  volpe,  con  una  profonda  simolazione,  non  fece  mai  otsentazione  della 
sua  potenza,  usando  sempre  l'istessa  foggia  di  vestire  e  tenore  di  vita 
come  quando  era  avvocato,  cuoprendo  i  suoi  talenti  con  un  volto  sempre 
ridente  e  scherzante.  Sotto  il  visitatore  Ciaccon,  nel  governo  dell'Almirante 
di  Castiglia,  per  i  grandi  riclamori  che  si  ebbero  di  lui  fu  sospeso  dall'e- 
sercizio del  suo  impiego,  ed  anco  esentato    poi    dalla    Città.    Ma,  quando 

liti  Io  credeano  caduto,  si  vidde  di  bel  nuovo  costituito  nel  suo  ufficio. 
M 1  fervore  di  queste  sollevazioni  gli  fu  dall'arrabbiata  plebe  incendiato  il 
suo  palagio,  a  fianco  della  porta  picciola  di  S.  Chiara,  e  propriamente  nella 
strada  che  chiamasi  del  Pallonetto  incontro  il  muro  della  Clausura  di  S. 
1  rancesco  delle  Monache,  che  fu  prima  del  principe  di  Stigliano  Carafa.  E 

ii  fu  fatto  con  maggior  improperio  quest'oltragio,  perchè  si  lasciò  dire 
'  lie  non  avea  paura  di  quattro  scalzi  ;  quindi  è  che  gl'incendiarono  il  più 
liceo  e  nobile  suppellettile  che  mai  gran  principe  potesse  tenere;  e  perchè 
[)oi  la  plebe  seppe  che  gran  parte  di  gioie,  argenti,   oro  e  denari    stavano 


364 


§  14. — Della  casa  del  sig,  reggente  D.  Francesco  Merlino  marchese \ 
di  Ramonte. 

Il  reggente  Merlino  fu  un  privato  gentiluomo  di  Sulmona 
famiglia  però  nobile  ed  antica  di  quella  città.  La  madre  fu  Pi- 
gnatelli  figliuola  del  marchese  di  Paglieta  e  di  D.  Beatrice  Tap- 


riposti  in  un  certo  nascondiglio,  vi  ritornò  dì  bel  nuovo,  e  il  tutto  poce 
fiamme,  a  segno  tale  che  il  colo  del  prezioso  metallo  a  guisa  di  lava  scorre- 
va per  quella  strada,  e  non  bastando  il  gran  fuoco  che  Ingombrava  tutte 
e  due  le  strade,  ne  fecero  un  altro  in  mezzo  al  cortile.  Tra  l'altre  cose  gl'in^ 
céndiarono  una  famosa  libraria,  di  libri  assai  curiosi  e  rari,  e  tutte  U 
scritture  e  libri  della  Real  Cancelleria,  che  come  Segretario  del  regno  con^ 
servava.  Teneva  egli  in  alcune  camere  di  sopra  alcuni  stipi  grandiosi  tutl 
pieni  di  scritture,  che  ^i  dimandavano  il  Secretorum  Curine,  che  contenean< 
le  scritture  più  segrete  del  re  non  solo  per  la  città,  ma  per  tutto  il  regno  ; 
nel  piano  del  cortile  (ove  era  l'archivio  della  Cancelleria)  teneva  quantità 
di  credenzoni,  ne'  quali  conservava  i  registri  e  scritture  dei  passati 
tanto  Aragonesi,  cominciando  da  Alfonso  I  sino  a  Federico  ultimo  di  qu( 
sta  casa,  quanto  degli  Austriaci,  che  conteneano  gli  assensi  regi  per 
beni  feudali,  vendite  di  terre,  provisioni  del  Collaterale,  lettere  regie] 
concessioni  regie,  vendite  d'offizj,  assenzi  di  vescovadi,  benefìzi  regi,  et 
altre  scritture  di  privilegi  e  grazie  regie,  tutte  concernenti  all'universale" 
della  città  e  regno,  come  anche  de'  particolari,  che  furono  con  irrepa- 
rabile danno  del  pubblico  incendiate.  Fu  sì  grande  la  fiamma  di  questo 
incendio  che  avvampava  in  alto  dai  tre  lati  de'  fuochi  suddetti,  che  le  vi- 
cine monache  di  S.  Francesco  si  credeano  di  dovere  andare  tutte  a  fuoco;  la 
cui  forza  era  sì  grande  che  sospingeva  in  alto  i  fogli  de'  libri,  e  di  questi  ne 
venne  a  cadere  uno  intiero  nel  claustro  delle  monache,  che  trattava  della 
nobiltà  degli  antichi  conti  de'  Marsi,  di  dove  pretendeva  discendesse  la  sua 
famìglia.  Gli  bruciarono  ancora  alcuni  animali  curiosi,  ch'erano  di  D.  Fran- 
cesco suo  figlio  :  tra  quali  un  leoncino,  che  non  molto  prima  eragli  stato  con- 
dotto da  Levante;  e  per  fin  i  cavalli  della  sua  stalla  fecero  vivi  entrare  nel 
grande  incendio;  e  non  potendo  far  altro  evacuarono  tutte  le  botti  piene 
di  vino,  che  stavano  in  cantina.  In  somma  si  fece  il  conto,  che  dal  vorace 
fuoco  fosse  stato  consumato  il  valsente  di  ben  cento  ottanta  mila  ducati. 
Ruppero  ancora  tutte  le  statue  antiche  di  marmo  del  suo  magnifico  palagio 
che  stava  egli  fabricando  nella  Riviera  di  Chiaia  [passato  dipoi  ai  principi 
di  Teora],  e  non  contenti  di  ciò,  in  odio  del  padre,  incendiarono  similmente 
il  palazzo  del  duca  di  Marianella,  suo  primogenito,  a  S.  Lucia  a  Mare,  uomo 
niente  meno  tiranno  del  padre.  Dopo  sedati  i  tumulti  attese  di  bel  nuovo 
al  suo  impiego,  ma  non  già  con  quell'aura  e  prepotenza  di  prima.  Lasciò 
dopo  sua  morte  la  sua  casa  assai  ricca  a  due  suoi  figliuoli,  D.  Francesco  e  D. 


—  365  — 

pia,  sorella,  come  si  disse  ^,  della  madre  del  reggente  Tappia, 
per  la  quale  si  professava  di  lui  nipote,  e  per  ostentazione  del 
quarto  materno  s'intitolò  sempre  Merlino  Pignatelli.  Fatto  il 
zio  reggente,  ebbe  genio  di  menarlo  seco  in  Spagna,  ancorché 
in  età  assai  giovane;  sotto  la  cui  educazione  attese  grandemente 
allo  studio  e  ad  imbeversi  tutto  della  gravità  e  de'  costumi  della 
Nazione. 

Onde,  ritornato  poi  in  Napoli,  stimò  per  divenir  ministro  non 
aver  bisogno  di  applicarsi  all'avvocazione,  o  perchè  non  vi  avesse 
genio,  o  piuttosto  perchè,  trasformatosi  ne'  costumi  Spagnoli, 
volle  seguitare  quella  medesima  strada  ch'era  stata  battuta  dal 


Antonio.  D.  Francesco,  che  fu  suo  primogenito  e  duca  di  Marianella  (che  poi 
come  titolato  esercitò  l'ufflcìo  di  segretario  colla  spada),  ebbe  per  moglie  D. 
beatrice  Orsino,  sorella  del  principe  dell'Amatrice,  colla  quale  non  molto 
tempo  visse,  essendo  morto  senza  lasciare  di  sé  prole  alcuna,  di  febre  ter- 
zana, la  quale  per  aver  intempestivamente  presa  la  china  divenne  ettica. 
D.  Antonio  altro  suo  figliuolo,  comecché  dalla  sua  gioventù  erasi  esercitato 
nella  milizia,  ed  in  più  fatti  d'armi  erasi  dimostrato  assai  prode,  ottenne 
grazia  da  S.  M.,  anco  per  i  meriti  del  padre,  dell'onore  di  Mastro  di  campo; 
ed  essendo  poi  morto  il  fratello  senza  figli,  succede  nella  ricca  eredità  pa- 
terna e  nel  titolo  di  duca  di  Marianella  e  di  Galvano,  e  volendosi  casare  pre- 
se per  moglie  D.  Popa  di  Somma,  figlia  di  D.  Fabrizio  marchese  di  Circello, 
dama  belUssima,  colla  quale  similmente  visse  poco  tempo.  Ed  essendo  ri- 
masta vedova  in  giovanile  età,  coll'occasione  che  fin  da  che  vivea  il  marito 
coabitava  in  sua  casa  D.  Gio.  Pignatelli  figlio  del  marchese  di  Casalnuovo 
e  nipote  del  duca  D.  Antonio,  datosi  occhio  con  questo,  finalmente  con  di- 
spensa di  Roma  si  sposarono  assieme.  Lasciò  di  sé  due  sole  figlie  pupille, 
delle  quali  la  prima  si  caso  col  primogenito  del  marchese  di  Fuscaldo,  Spi- 
nelli, che,  isdegnando  di  assumere  il  titolo  dì  duca  di  Galvano,  già  divenuto 
troppo  famoso  nel  posto  di  Segretario,  ottenne  dalla  Gorte  di  Spagna  il  ti- 
tolo di  principe  di  S.  Arcangelo  [in  Basilicata].  La  seconda  si  maritò  col  fi- 
glio del  marchese  di  Altavilla  Golonna,  ch'era  figho  di  una  sua   zia.   L'uffi- 

io  poi  di  Segretario  del  regno  per  convenzione  avuta  tra  di  loro  toccò  alla 
()rima;  e  perchè  la  casa  di  Fuscaldo  isdegnava  di  esercitarlo  di  persona, 
(  ome  non  conveniente  alla  sua  sfera,  ottenne  dalla  Gorte  di  Spagna  di 
poter  nominare  altri  ;  qual  nomina  per  qualche  tempo  si  è  mercadantata 
da  questa  casa,  e  tutti  quei  che  ambivano  per  questa  strada  di  ascendere 
alla  toga  han  procurato  vantaggiare  la  loro  offerta  al  marchese.  Passò  poi 
per  nuova  convenzione  nella  casa  del  marchese  di  Altavilla;  dal  quale  ancor 
fu  mercadantata  la  nomina,  finché  di  nuovo  é  ricaduta  alla   Gorte  ».  —  Per 

litri  particolari  cfr.  A.  Fiordelisi,  Gì'  incendi  in  Napoli  ai  tempi  di  Masa- 
niello, Napoli,  1895,  pp.  8-13. 
'  Gfr.   Avvertimenti,   §  6. 


—  366  — 

zio,  ed  ancora  perchè  colla  di  lui  protezione  si  assicurava  di  giun- 
gere in  breve  al  ministero. 

Né  gli  fallì  il  pensiero,  perchè,  andato  Uditore  in  Salerno  ed 
ivi  casatosi  con  una  gentildonna  di  casa  Longhi  e  fatto  poi  giu- 
dice di  Vicaria  Criminale  e  Civile,  e  poi  commessario  di  cam- 
pagna, in  brevissimo  tempo  fu  consigliere;  ma,  non  essendo  stato 
avvocato,  non  potè  fare  acquisto  di  ricchezze;  onde,  per  soste- 
nere il  posto  con  decoro,  procurò  dal  sig.  duca  di  Monteleone 
a  titolo  di  parentela  aver  la  protezione  de'  suoi  stati  con  mille 
ducati  di  provvisione  Tanno.  Per  essere  stato  creatura  del  conte 
di  Monterey  fu  poco  grato  al  sig.  duca  di  Medina  ;  ma  poi  per 
la  medesima  ragione  fu  dall' Ammirate  di  Castiglia  passato  pre- 
sidente in  Camera,  e  indi  a  pochi  mesi  reggente,  portatosi  in 
tutti  i  posti  con  somma  lode  di  valore,  d'integrità  e  di  dottrina  ; 
onde  ai  due  suoi  tomi  delle  Controversie  ^  dai  moderni  scrit- 
tori del  regno  comunemente  si  dà  il  primo  luogo. 

Ha  fatto  in  tutte  le  sue  azioni  in  primo  luogo  il  sussieguo  per 
dimostrarsi  degno  nipote  del  reggente  suo  zio,  di  chi  ostentava 
di  riverire  la  memoria;  e  dal  non  essere  stato  avvocato  prese 
una  certa  avversione  a  quei  che  allora  l'erano  ;  onde  nel  suo  se- 
condo tomo  parve  inclinare  nell'opinione  dell' Alciato  ne'  suoi 
Emblemi,  che  gli  avvocati  non  furono  buoni  per  giudici: 

Venali  vir  lingua,  et  causis  servire  suetus 
ludicium  libero  non  feret  arbitrio. 

E  dopo  che  ritornò  da  Spagna  e  fu  presidente  del  S.  C,  era 
solito  di  dire  che  in  consiglio  non  vi  erano  più  avvocati,  tutto 
che  a  suo  tempo  ve  ne  fossero  moltissimi  famosi,  non  meno  per 
dottrina   che  per   eloquenza. 

O  forse  dispiaceva  in  lui  ed  in  loro  quel  medesimo,  per  lo  che 
avrebbe  avuto  ammirare,  cioè  1'  eloquenza,  perchè  egli  non  la 
possedeva  ;  onde,  andato  in  Roma  per  certo  negozio  di  giuri- 
sdizione, fu  scritto  da  quella  Corte  che  non  aveva  dato  altro  sag- 
gio del  suo  sapere,  che  nel  poco  parlare;  e  perchè  abbattuto  ne- 
gli ultimi  anni  dall'infermità  contratte  nella  sua  gioventù  e  non 
mai  ben  curate,  era  venuto  noioso  a  se  medesimo,  né  cosa  tanto 
li  dispiaceva  quanto  un  lungo  discorso  :  onde  spesse  volte  nelle 


1  Controversiarum  forensium   juris  communìs  et  regni  Neapolitani  cen- 
turia I  et  II,  Napoli,   1645. 


i 


—  367  — 

due  Ruote,  mentre  si  parlavano  le  cause,  si  addormentava,  sic- 
ché passavano  sensibilmente  l'ore  senza  che  se  ne  accorgesse. 

Ma  per  altro,  essendosi  egli  in  altro  luogo  delle  sue  opere  van- 
tato di  essere  stato  non  solo  imitatore,  ma  emulatore  dell'  offi- 
cio di  giudicare  delle  virtù  del  reggente  Rovito,  che  fu  sì  grande 
avvocato,  ben  molto  mostrò,  per  sua  propria  confessione,  che 
l'idea  del  ministero  non  altronde  dovea  prendersi  in  Napoli,  che 
dall'  ordine  degli  avvocati. 

Ed  avendo  destinato  per  successore  della  sua  casa  (non  avuto 
fortuna  aver  figlioli)  il  nipote  figliolo  di  sua  sorella  il  sig.  D.  Carlo 
Cala  ^,  volle,  forse  per  supplire  quello  che  aveva  mancato  in 
se  stesso,  che  si  avviasse  per  l'avvocazione;  con  che  mostrò  con 
fatti,  più  che  parole,  il  concetto  che  ne  tenea  del  pregio  dell'av- 
vocazione  in  Napoli,  poiché  per  essa  sola  alla  dignità  del  mini- 
stero possono  unirsi  anco  le  ricchezze,  senza  le  quali  le  stesse  di- 
gnità si  rendono  vili. 

§  15. —  Casa  del  sig.  reggente  Gio.  Camillo  Cacace. 

Partito  il  reggente  Merlino  per  Spagna,  e  succeduto  al  go- 
verno dell'  Ammirante  di  Castiglia  il  sig.  duca  d'  Arcos,  segui- 
rono appresso  l'anno  susseguente  le  rivoluzioni  popolari,  quali 
supite  nelli  primi  mesi  del  1648  e  creato  il  reggente  Merlino  pre- 
sidente del  S.  C,  fu  eletto  in  suo  luogo  per  reggente  di  Spagna  il 
presidente  di  Camera  Gio.  Camillo  Cacace. 

Questo,  come  si  disse^,  era  stato  un  grandissimo  avvocato  e  per 
la  dottrina  celebre  e  per  l'arte  del  dire,  che  solca  pregiarsi  che 
ne'  mezzanini  della  sua  casa,  dalla  quale  non  volle  partirsi  mai, 
incontro  S.  Lorenzo  ^  e  dove  solca  negoziare  quando  era  av- 
vocato, non  vi  era  stato  signore  del  regno  che  non  fusse  ve- 
nuto a  prendersi  le  consulte.  Il  di  lui  padre  fu  di  Castellammare 
e  di  ordinari  natali  *;  ma,  venuto  in  Napoli  ed  acquistata  medio- 
cri ricchezze,  furono  poi  quelle  da  lui  eccessivamente  cresciute 
col  guadagno  dell' avvocazione  e  con  una  somma  parsimonia  ; 

1  Cfr.  Avvertimenti,  §28. 

2  Cfr.  ivi,  §  2. 

•^  Sulla  chiesa  di  S.  Lorenzo,  ove  i  Cacace  ebbero  cappella,  nella  quale 
fu  seppellito  il  nostro,  cfr.  Celano,  ed.  Chiarini,  III,  135  sgg. 

^  Il  padre  fu  Giovan  Bernardino  Cacace,  «  avvocato  di  buone  lettere 
e  di  buona  fama  »,  e  la  madre  Vittoria  de  Caro.  Cfr.  G.  Ceci,  /  Reali  Edu- 
candati femminili  di  Napoli*,  Napoli,  1900,  p.  10. 


—  368  — 

talmente  che  stava  in  opinione  del  più  ricco  ministro  del  suo 
tempo.  Onde  quando  fu  avvocato  fiscale  di  Camera,  il  duca  di 
Galvano,  venuto  in  sua  casa  a  rallegrarsene,  il  disse,  colle  sue  so- 
lite facezie,  che  da  gran  tempo  il  fisco  non  era  stato  così  ricco, 
come  sotto  di  lui. 

Fu  però  un  uomo  zotico  e  di  genio  tetro  e  niente  accomodato 
per  la  società  civile;  onde  non  volle  mai  ammogliarsi,  dicendo, 
né  senza  ragione,  che  se  sua  moglie  fusse  stata  tale  che  avesse 
piaciuto  a  lui,  egli  non  avrebbe  piaciuto  a  lei,  e  se  egli  fusse  pia- 
ciuto alla  moglie,  ella  non  avrebbe  potuto  piacere  a  lui  ^. 

Fatto  reggente,  per  un  indicibile  abborrimento  ch'ebbe  al 
viaggiare  per  mare  rinunciò  il  posto,  ed  in  suo  luogo  fu  eletto 
il  reggente  Brandolino;  ma  di  là  a  pochi  anni  fu  eletto  di  nuovo 
reggente  per  Napoli,  concedutosi  ciò  a'  suoi  meriti,  senza  obli- 
gazione  di  andare  in  Spagna.  Ma  molto  poco  d'appresso  morto, 
non  avendo  chi  lasciare  erede  della  sua  famiglia,  fondò  di  tutta 
la  sua  roba  un  monistero  detto  de'  Miracoli  di  donne  povere, 
che  si  chiama  anche  oggi  il  monistero  di  Cacace,  onde  della  sua 
casa  non  vi  è  che  parlarne  ^. 

§  16.  —  Della  casa  del  sig.  reggente  Tommaso  Brandolino. 

Tommaso  Brandolino  fu  fiscale  di  Vicaria;  fatto  avvocato 
fiscale  della  Camera,  fu  con  esempio  non  altre  volte  praticato 
promosso  al  supremo  grado  di  reggente. 

Era  egli  figliolo  di  Scipione  Brandolino,  che,  d'avvocato  in  Na- 
poli fatto  Eletto  del  Popolo,  fu  poi  consigliere  ed  indi  ancor 
egli  reggente,  morto  in  età  assai  giovane  mentre  se  ne  ritornava 
da  Spagna;  ed  il  di  lui  padre  dicono  i  Brandolini  di  Procida  che 
da  Procida  aveva  trasferito  il  suo  domicilio  in  Napoli.  Avea  que- 

»  Scrisse  il  Celano  che  lo  conobbe,  ed.  Chiarini,  V,  405  :  «  Era  que- 
sto grande  uomo  ricco  di  beni  ereditari,  che  arrivavano  al  valore  di  due- 
centomila scudi,  quali  accrebbe  e  con  le  sue  fatiche  nell'avvocazione,  e  con 
la  parsimonia  fino  alla  somma  di  cinquecentomila  scudi.  Visse  celibe  e  così 
continente,  che  comunemente  si  stima  che  fosse  andato  vergine  alla  sepol- 
tura come  nacque.  Era  così  amico  del  celibato,  che  a  tutte  le  sue  parenti, 
che  monacar  si  volevano, non  solo  dava  la  dote  che  bisognava,  ma  commode 
sovvenzioni  vitalizie.  Fu  gran  custode  della  modestia  del  corpo,  in  modo 
che  fuor  delle  braccia  e  dei  piedi  non  vi  fu  persona  che  poteva  dire  d'averne 
veduta  parte  che  vien  coverta  dalla  veste.  » 

*  Cfr.  l'opuscolo  cit.  del  Ceci. 


gli  avuto  più  figlioli;  per  lo  primogenito,  coir  ordinario  costume 
degli  uomini  di  farsi  abbagliare  dalla  prosperità  della  fortuna, 
avea  ottenuto  il  titolo  di  duca  di  Melito,  di  cui  poi  ne'  suoi 
discendenti  non  ha  mai  servito  farsi  menzione;  per  lo  secondo- 
genito Giuseppe  ottenne  una  piazza  di  consigliere  in  età  di  27 
anni,  che  poco  dopo  morì  *;  onde  Tommaso,  che  fu  il  terzo,    con 

*  Il  BuccA,  ms.  X.  C.  20,  ce.  13-14.  della  B.  N.,  scrive  :  «  Sorse  nella 
nostra  città,  de  l'ordine  peròpopulare,  Scipione  Brandolino,  il  quale,  datosi 
a  seguire  il  studio,  in  processo  di  tempo  ne  divenne  buon  dottore,  e  stato 
alcuni  anni  avocato  primario,  procurò  esser  creato  Eletto  della  sua  Piaz- 
za del  Popolo.  Con  questa  occasione,  servendo  il  viceré  e  mostrando  la  sua 
abilità,  fu  conosciuto  per  uomo  meritevole,  per  il  che  ottenne  in  breve  no- 
mina in  Corte,  e  fu  creato  presidente  di  Camera  molto  giovane.  Visse  in 
questo  posto  molti  anni,  sì  che  arrivò  ad  essere  decano.  Fu  sibene  sempre 
travagliato  dalle  podagre  ;  però  del  resto  fu  sempre  in  vita  e  morte  felice, 
e  fortunatissimo  in  tutte  le  cose,  et  huomo  da  bene,  e  di  gran  letteratura; 
fu  sibene  alquanto  ritrosetto  causatoli  forse  dal  male.  Vidde  otto  figli  arri- 
vati ad  età  perfetta  e  tutti  bene  incaminati  :  tre  de'  quali  furono  dottori. 
Intanto  la  fortuna,  che  voleva  portarlo  più  in  su  per  darli  maggior  preci- 
pìzio, fé'  venire  occasione  dì  haversi  da  eligere  un  regente  persona  dotta 
ed  intendente  de'  negozi  di  Camera  per  mandarci  in  Corte,  mentre  che  il  re 
ne  voleva  conto  e  lo  cercava.  Per  il  che  fu  subito  nominato  et  eletto  lui,  ben- 
ché fusse  di  persona  inabile  e  quasi  cionco.  Andò  costui  con  nome  di  giusto 
e  dotto  ministro,  e  fu  molto  ben  visto  et  honorato  da  Sua  Maestà,  il  quale* 
per  finire  di  sublimare  Brandolino,  in  arrivare  lì  diede  titolo  di  marchese 
di  Melito.  Poco  dipoi  ne  ottenne  piazza  di  consigliere  in  persona  di  Giuseppe 
suo  secondogenito.  Indi  per  stabilire  meglio  1»  casa  sua  si  pensò  che  fusse 
stato  creato  Eletto  del  Popolo  di  Napoli  Gio.  Batta  Apicella  suo  carnai  ne- 
pote,  a  pena  dottor  di  nome.  Il  quale,  avendo  esercitato  l'officio  costi  po- 
chi mesi,  fé', benché  poco  lo  meritasse,  arrivare  ad  esser  ancor  luì  creato  con- 
sigliero.  Stava  intanto  questa  Casa  nel  colmo  della  felicità,  e,  per  maggior- 
mente prevalere,  Gioseppe,  già  consigliere,  passato  ad  assistere  nella  Vicarìa 
Criminale,  giovane  che  non  arrivava  a  25  anni,  essendo  mancato  il  regente 
di  Vicaria,  esercitava  luì  quel  carico.  Et  infine  non  ci  era  a  che  più  aspirare 
essendo  regenti  il  padre  et  il  figlio  in  un  tempo  :  cosa  non  successa  mai  per 
l'adietro.  Stava  intanto  in  questa  felicità  e  cercava  di  accasarsi,  che  lo  ha- 
veria  fatto  con  grande  avantaggio,  quando  non  vi  essendo  dove  passar  più 
avanti  era  forza  tornar  indietro,  e  così  cominciò  la  fortuna  a  voltarli  il  ter- 
go. Poiché,  venuto  a  morte  il  regente,  mentre  per  esser  stato  tanti  anni  offi- 
ciale si  credeva  dovesse  lasciar  un  tesoro  perché  sì  era  portato  da  christiano, 
non  lasciò  a'  figli  quanto  li  fusse  bastato  a  sostentarnosi.  Saria  questo  colpo 
Etato  soffribile,  poiché,  rimasto  Gioseppe  giovane  di  spirito  e  tanti  fra- 
telli di  buona  aspettazione,  quando  havessero  havuto  appoggio,  se  ne  poteva 
sperar  bene  ;  ma  la  fortuna,  fastidita  di  sostentarli  più,  volle  in  tutto  som- 


370 


aver  avuto  un  padre  reggente  e  un  fratello  consigliere  fu  obli- 
gato  avviarsi  per  la  via  degli  uffici,  e  cominciò  dal  giudicato  di 
Aversa;  e  fatte  poi  diverse  udienze,  fu  giudice  di  Vicaria  e  indi 
avvocato  fiscale  del  medesimo  tribunale,  posto  che,  esercitato  da 
lui  per  molti  anni  con  somma  lode  ed  integrità  ed  intrepidezza, 
partorì  l'odio  della  nobiltà. 

Da  fiscale  di  Vicaria  passò  a  fiscale  di  Camera,  ed  essendo 
intanto  sopravvenute  le  rivoluzioni  popolari,  si  trovò  per  sua 
fortuna  abitar  negli  quartieri  de'  Spagnuoli;  onde  dopo,  quelle 
quietate,  avendosi  da  eleggere  il  reggente  per  Spagna,  parve 
al  Consiglio  d'Italia  che  da  nessun  avriano  potuto  avere  le  re- 
lazioni de'  passati  moti  e  dello  stato  dell'Azienda  Reale  con  mag- 
giore dispassione,  che  da  lui  ;  onde  fu  ordinato  che  prendesse 
possessione  di  presidente,  ed  indi  immediatamente  si  trasferisse 
in    Spagna   reggente. 

Il  sig.  Luigi  Poderico,  che  si  ritrovava  in  Spagna  inviato  dal- 
la nobiltà  per  rappresentare  i  di  lei  servizi  ne'  passati  tumulti, 
stimandolo  odioso  del  loro  ordine,  lo  ricusò  come  sospetto,  e  scris- 
se in  Napoli  alla  Deputazione  che  avesse  fatto  istanza  al  sig. 
viceré,  che  li  avesse  trattenuta  la  possessione;  ciò  che  in  cambio 
di  nuocerli  li  giovò,  poiché  il  conte  di  Oiiatte,  che  per  non  averlo 
nominato  si  supponeva  che  avesse  poca  volontà  di  dargliela, 
avendo  saputo  che  la  Deputazione  aveva  da  venire  a  suppli- 
carlo per  questo  effetto,  affinché  non  si  ponessero  in  possessione 
le  Piazze  d' intromettersi  nell'elezione  de'  reggenti,  il  mandò  a 
chiamare,  e  credendo  egli  di  essere  chiamato  per  altro  affare, 
quando  vide  aprirseli  la  porta  del  Collaterale,  volendo  levarsi  il 
ferraiolo,  sentì  dirsi  dal  portiere  :  «  Colla  cappa,  sig.  reggente  »  ; 
onde  entrato  se  li  diede  subito  la  possessione;  il  che  fatto,  fu 
licenziato  il  Collaterale.  E  mentre  il  reggente  Capecelatro  se  ne 
calava,  non  introdotto  in  quel  tempo  lo  stile  che  li  reggenti  se 


mergerli,  poiché,  venute  a  costui  le  bone,  in  pochi  dì  li  tolsero  la  vita  mo- 
rendo per  regente,  con  serrar  affatto  la  via  alle  speranze  ed  al  li  concetti  di 
una  casa  da  niente  elevata  alle  stelle.  Fu  costui  così  huomo  da  bene,  che  di- 
cono esser  morto  vergine,  e  non  lasciò  a'  fratelli  altra  lieredità  che  un  buon 
nome  senza  un  carlino  di  suo  acquisto.  E  perciò  restò  la  casp  in  tutto  di- 
strutta, povera  e  miserabile,  e  solo  ricca  di  miserie,  essendo  rimasti  sette 
fratelli  poverissimi  senza  spirito  et  senza  aiuto  :  vero  esempio  della  fragilità 
delle  humane  grandezze  che  in  un  momento  svaniscono  ancor  che  siano 
accumulate  nel  corso  di  molti  anni,  e  con  reiterati  sudori  male  spesi.  » 


—  svi- 
ne calassero  in  sedia,  incontrati  i  deputati  per  le  scale,  domandò 
loro  quello  venivano  a  fare,  ed  intesolo,  disse  che  se  ne  poteano 
ritornare  perchè  la  possessione  si  era  già  data  ;  onde  poco  dopo 
se  ne  passò  in  Spagna. 

Mase  il  padre  similmente  reggente  si  morì  nel  ritorno  di  Spagna, 
egli  se  ne  morì  prima  che  partisse;  e  quel  che  accrebbe  la  sua  di- 
sgrazia fu  un'infermità  cagionatali,  per  quel  che  si  disse,  da'  mali 
de'  giovani,  che  per  non  scuoprirla  tralasciò  di  curare.  E  non 
avendo  avuto  mai  moglie,  rimase  Carlo  ultimo  dei  fratelli,  che 
quanto  fu  pieno  di  bontà,  tanto  fu  voto  di  ogni  sorte  di  lettere; 
onde  per  li  servizi  del  padre  e  del  fratello  fu  fatto  fiscale  della 
provincia  dell'Aquila,  quale  vive  ancor  oggi  padre  di  più  figlioli, 
e  per  essere  ultimamente  entrato  nella  parte  grossa  del  colleggio 
de'  Dottori  ha  rinunciato  il  posto  per  venirla  a  godere,  rimasta 
perciò  la  casa  dopo  due  reggenti,  un  duca  ed  un  consigliere 
in  nessuna  estimazione  e  povera. 

Donde  può  vedersi  quanto  i  titoli,  le  toghe,  le  dignità  anco 
supreme  siano  inutili  agli  eredi,  quando  non  sono  accompagnate 
dalle  ricchezze,  le  quali  non  possono  né  onestamente  acquistarsi 
né  acquistate  conservarsi  per  altra  strada,  che  per  quella  del- 
l'avvocazione:  la  quale  in  questa  casa,  perchè  mancò  parte  per 
l'ambizione,  parte  per  l'inabilità  de'  successori,  facilmente  si 
ricondusse  a  niente,  sicché  oggi  li  Brandolini  di  Procida  non  si 
riconoscono  molto  inferiori  a  quelli  di  Napoli. 

§17.  —  Casa  del  sig.  reggente  Gio.   Francesco  Marciano. 

Non  succede  già  così  della  casa  del  sig.  reggente  Gio.  France- 
sco Marciano. 

Questi  fu  figliolo  del  consigliere  Marcello  Marciano,  il  quale, 
stato  prima  non  men  dotto  che  celebre  avvocato,  come  dimo- 
strano i  due  tomi  de'  suoi  Consigli^,  fé'  acquisto  di  molte  ric- 
chezze; anzi,  per  non  perdere  il  guadagno  dell' avvocazione,  aven- 
do potuto  essere  molto  prima  fiscale  di  Camera  ricusò  di  esserlo. 
Onde  è  Ama  che  il  viceré  di  quel  tempo  dicesse:  Marcello  Mar- 
ciano non  quiere  ser  reggente. 

Fabbricò  il  suo  nobil  palagio  nella  strada  di  Costantinopoli  2, 
e,  casato  il  figliolo  nobilmente,  l'avviò  per  l'anzidetta  strada  del- 


'  Consiliorum  sive  Juris  responsorum,  Napoli,  1636-46. 
2  Sul  palazzo  Marciano  cfr.  Celano,  ed.  Chiarini,  III,  49. 


—  372  — 

r  avvocazione,  nella  quale  riusci  non  men  dotto  del  padre,  come 
si  vede  da'  due  tomi  delle  sue  Disputazioni  ^  come  che  non 
avesse  molta  eloquenza  ;  onde  fu  assai  più  stimato  nello  scri- 
vere che  nel  parlare. 

Così  potè  mantenere  la  casa  nel  medesimo  stato,  supplendo 
col  guadagno  delFavvocazione  alla  diminuzione  della  roba  la- 
sciatali dal  padre  cagionata  dalla  mutazione  de'  tempi;  ed  aven- 
do casato  il  figliolo  con  una  nobilissima  signora  di  casa  Castriota 
e  con  buona  dote,  l'inviò  similmente  per  l' avvocazione,  ben  co- 
noscendo che  la  casa  non  avea  da  conservarsi  con  altri  mezzi 
che  con  quelli,  co'  quali  egli  e  il  padre  l'avevano  fondata. 

E  benché  non  trascurasse  il  pensiero  di  nobilitarla,  né  lo  pro- 
curò per  mezzo  de'  titoli  e  di  altre  vanità;  ma,  fattosi  da'  no- 
bili della  città  di  Scala  reintegrare  a  quella  nobiltà,  procurò  di 
ponere  per  fra  Andrea  suo  secondogenito,  che  oggi  vive  l'abito 
di  Malta.  E  poco  dopo  fatto  reggente,  sopraggiunto  dalla 
morte,  non  godette  il  reggentato,  né  le  congratulazioni  degli 
amici.  Lasciò  però  la  casa  bene  accomodata,  ed  il  figliolo  erede 
non  men  della  virtù,  che  della  speranza  paterna.  Onde  poco 
dopo  il  vidimo  consigliere  in  età  assai  giovane  ed  indi  fiscale  di 
Camera  e  reggente  ;  e  benché  prevenuto  dalla  morte  in  Spagna 
che  poco  potesse  godere  il  reggentato  2,  lasciò  però  il  figliolo 
D.  Francesco  che  oggi  in  atto  é  consigliere,  con  speranza  di  per- 
venire al  terzo  reggentato.  Onde  la  casa  si  é  andata  per  lo  spa- 
zio ormai  di  cento  anni  piuttosto  avanzando  che  mancando  di 
estimazione  ^. 


^  Disputationum  forensium,  Napoli,   1654. 

2  Cfr.  Avvertimenti,  §  26. 

3  Scrive  il  Confuorto,  ms.  XX.  B.  28,  della  S.  S.  N.,  ce.  61-62:  «  Questa 
famiglia  [dei  Marciano]  venne  in  Napoli  nelli  primieri  anni  del  secolo  pre 
sente  [sec.  XVII]  con  la  perdona  di  Marcello  dalla  terra  di  Durazzano  [prov. 
di  Benevento];  il  quale,  essendo  divenuto  non  imperito  nella  scienza  legale 
nella  quale  s'era  applicato,  postosi  poi  ad  avvocare  ne'  Regi  Tribunali.- 
riusci  famoso  dottore  ed  avvocato,  onde  da  S.  M.  ottenne  cedola  nel  1623 
di  R.  consigliero  del  Consìglio  di  S.  Chiara  di  Napoli,  e  tre  anni  prima,  cioè 
nel  1620,  fu  uno  de'  Mastri  popolari  della  Santa  Casa  A.  G.  P.  di  Napoli. 
Hebbe  per  moglie  donna  di  casa  Vitale  di  quei  della  Cava,  colla  quale  ge- 
nerò un  figliuolo  detto  Gio.  Francesco,  ed  alcune  f emine...  Gio.  Francesco, 
avendo  seguitate  le  vestigia  paterne,  divenne  anch'egli  peritissimo  nelle 
leggi.  Compose  due  volumi  di  Controversie,  che  diede  alla  luce  del  mondo 
colla  stampa,  come  altresì  Marcello  suo  padre  n'avea  dato  due  de'  Consi- 


373 


§  18.  —  Della  casa  del  sig.  reggente  Tommaso  d'  Aquino. 

In  luogo  del  reggente  Marciano  fu  creato  reggente  il  consi- 
gliere Tommaso  d'Aquino,  assai  vecchio  e  non  molto  agiato 
nei  beni  di  fortuna. 

Questo  era  della  nobilissima  famiglia  degli  Aquino  di  Casti- 
glione ;  ma  di  un  ramo  molto  prima  disseparatone;  onde,  non 
avendo  modo  di  vivere  con  decoro  corrispondente  alla  nobiltà 
della  nascita,  si  diede  così  egli  come  il  fratello  Landulfo  alla  pro- 
fessione della  legge  ^. 

Procurò  nel  principio  andare  uditore  nella  provincia  di  Lecce, 
come  anco  il  fratello  andò  uditore  in  quella  di  Chieti,  dove  si 
caso  con  una  signora  di  casa  Valignani  2,  famiglia,  senza  contro- 
versia, in  quella  città  la  prima  e  forse  nella  provincia  ;  ma  l'uno 
e  l'altro  conoscendo  forse  quella  strada  male  adattata  per  lo 
loro  bisogno,  ritornati  in  Napoli,  si  applicarono  all'avvocazione. 

Non  vi  fecero  gran  fortuna,  ma  questo  bastò  per  sostenerli, 
e  Tommaso,  ch'era  il  primogenito,  fé'  acquisto  di  mediocre  fa- 
coltà, e  non  avendo  figlioli  ^  si  elesse  per  suoi  eredi  uno  de'  fi- 
glioli del  fratello  ^. 


gli.  Fu  promosso  anch'egli  al  ministerio,  essendo  stato  creato  nell'anno  1645 
R.  consigliero,  indi  nel  1655  regente  della  R.  Cancellaria;  ma  non  potè  go- 
dere della  suprema  carica,  per  avellila  Parcp  rotto  lo  stame  vitale  ne!  me- 
desimo anno.  Fé'  reintegrare  la  sua  famiglia  nella  città  di  Scala  della  nobi- 
lissima costiera  d'Amalfi,  facendo  apparire  non  so  come  che  in  tempo  antico 
vi  era  stata  ;  il  che  non  era  difficile  maxime  a  ministro  della  sua  qualità 
di  far  constare.  Si  congiunse  in  matrimonio  con  donna  della  nobil  famiglia 
Saracino  di  Lecce,  colla  quale  procreò  Marcello  [vedi  appresso],  Andrea,  che 
prese  l'abito  militare  della  Religione  di  Malta  con  meravigUa  di  tutti  per 
le  sue  prove  passate  di  nobiltà,  Giuseppe,  che  si  fé'  religioso  Gesuita,  e  Gio- 
vanni, che  pria  prese  l'abito  Gerosolimitano,  indi  si  fé'  prete  sacerdote  del- 
l'Oratorio di  S.  Filippo  Neri,  ed  al  presente  che  noi  scriviamo  è  proposito 
di  detta  Chiesa,  ed  è  soggetto  di  molta  stima,  et  in  particolare  appresso  il 
cardinale  Cantelmo.  » 

»  Furono  tutti  e  due  figli  di  Alessandro  e  di  Beatrice  Recco,  e  discende- 
vano da  un  ramo  laterale  dei  signori  di  Castiglione.  Cfr.  Scandone,  La  fa- 
miglia D'Aquino^  in  Litta,  Famiglie  celebri  ilaliane,  serie  II,  Napoli,  1905, 
tav.  XXXV  e  XXXVl. 

*  Landolfo  sposò  il   14  aprile  1628  Violante  Valignani  di  Alfonso. 
'*  Tommaso  sposò  il  29  aprile  1629  Costanza  Siscara  di  Carlo. 

•  Antonio  (1632-1692),  figlio  di  Landolfo . 


—  374  — 

Fatto  consigliere,  visse  molti  anni  con  fama  di  molta  integrità, 
onde  finalmente  fu  fatto  reggente  ;  ma  appena  acquistata  quella 
dignità,  con  fatto  molto  differente  a  quello  del  reggente  Mar- 
ciano, si  morì  nel  contagio  del  1656;  rimasta  per  esso  la  casa  piut- 
tosto povera,  che  tutte  le  speranze  rimasero  appoggiate  a  D. 
Luigi  figliolo  di  Landulfo,  che,  applicato  similmente  all'avvoca- 
zione,  dava  indizi  di  dover  riuscire,  se  per  la  morte  del  zio  e  del 
padre  non  si  fusse  quasi  arrestato  nel  principio  della  sua  carriera^. 

Ma  la  fortuna,  ciò  che  per  una  strada  li  tolse,  glielo  rendè 
centuplicatamente  per  un'altra.  Poiché  essendo  stato  ucciso  il 
principe  di  Castiglione  ^  senza  eredi  mascoli,  e  rimasta  la  prin- 
cipessa vedova  assai  giovane  ^  ch'era  l'erede  dello  Stato,  ri- 
solse di  maritarsi  con  D.  Luigi,  per  non  far  uscir  la  grandezza 
dalla  famiglia  :  si  risolvè  così  persuasa  dalla  principessa  *  sua 
madre,  eh'  era  della  medesima  casa,  e  di  cui  D.  Luigi  era  avvo- 
cato. Il  quale  così,  d'avvocato  divenuto  principe  di  Castiglione, 
portò  nello  stato  di  principe  il  giudizio  e  la  frugalità  della   vita 

*  Luigi  fu  il  primogenito  dei  quindici  figli  di  Landolfo.  Di  lui  così  scrive 
lo  ScANDONE  cit.,  tav.  XXXVI:  «Nacque  V8  maggio  1629.  Ixi  un  docu- 
mento del  15  febbraio  1664  ci  si  presenta  come  «  il  magnifico  dottore  in  utro- 
que  iure  Aloisio  d'Aquino  di  Napoli,  di  anni  34  circa  ».  Abitava  nella  piazza 
di  S.  Domenico  Maggiore  nella  casa  dì  proprietà  della  principessa  di  Casti- 
glione e  Pietraelcina,  che  quattro  anni  di  poi  divenne  sua  moglie,  vedova 
da  pochi  mesi  del  principe  di  Pietraelcina.  Egli  fu  dedito  non  solo  agli  studi 
e  alla  toga,  ma  anche  alle  armi.  Ancora  giovinetto  nella  sommossa  di  Masa- 
niello, insieme  con  lo  zio  si  battè  per  gli  Spagnuoli,  e  assistè  all'entrata  in 
Napoli  di  D.  Giovanni  d'Austria,  che  poi  lo  ebbe  molto  caro  per  il  suo  va- 
lore. Quando  insorse  Messina,  a  lui  fu  dato  il  comando  della  difesa  delle  co- 
ste Calabresi,  dal  capo  di  Tropea  ad  Amantea,  e  potè  liberare  Castiglione 
a  cui  i  nemici  avevano  posto  l'assedio Dopo  il  1687,  quando  il  figlio  Tom- 
maso, principe  di  Feroleto,  sposò  la  figlia  del  duca  della  Mirandola,  chiese 
al  re  di  esser  aggregato  al  seggio  di  Porto,  cui  erano  stati  ascritti  i  suoi  con- 
giunti Cesare,  principe  di  Pietraelcina,  e  il  fratello  di  lui,  Girolamo,  trapas- 
sati senza  lasciar  figliuoli  maschi.  Morì  nel  1697.  » 

"  Cesare  d'Aquino,  principe  di  Pietraelcina,  ucciso  il  26  marzo  1668  da 
Ramiro  Ravaschieri  perchè  gli  aveva  negato  la  mano  della  primogenita: 
cfr.  ScANDONE,   tav.  XXXIII. 

=»  Giovanna  Battista  d'Aquino,  tìgha  di  Cesare  III  principe  di  Casti- 
ghone  ;  aveva  sposato  Cesare  il  20  aprile  1651  :  era  nata  a  Nicotera  il  27 
giugno  1638;  rimase  vedova,  perciò,  a  trenta  anni:  cfr.  Scandone,  tav. 
XXXV. 

*  Laura  d'Aquino,  figlia  di  Tommaso  princ.  di  S.  Mango  :  cfr.  Scan- 
done, tav.  XXXII. 


—  375  — 

privata  ;  onde  attese  ad  accrescere  l'azienda,  maritò  due  figliole 
del  morto  principe,  l'una  col  duca  d'Ielsi  Carafa  ^  e  1'  altra  col 
marchese  di  Casalbore  Caracciolo  ^;  e,  divenuto  padre  di  più  fi- 
glioli ^  caso  il  primogenito  con  una  figliola  del  duca  di  Miran- 
dola ^  con  cui  acquistò  la  parentela  di  quasi  tutti  i  principi  di 
Altezza  d'Italia  ;  sicché  oggi  la  sua  casa  è  una  delle  più  illustri, 
non  meno  che  delle  più  ricche  case  del  regno. 

§  19.  —  Progressi  da  me  fatti  tra  questo  mentre  nella  legge  come 
nella  via  delle  scienze  e  principio  di  miglioramento  di  fortuna 
nella  nostra  casa. 

Io  intanto,  dopo  che  fui  dottorato,  secondo  quel  che  avea  in- 
teso essere  stato  solito  osservarsi  dagli  antichi  avvocati,  mi  ap- 
plicai allo  studio  Camerario  de'  Testi,  Glossa  e  Bartolo,  sceltomi 
il  quarto  libro  del  Codice  per  apprendere  la  maniera  de'  con- 
tratti, della  quale  stavo  affatto  digiuno;  e  vi  aggiunsi  la  lettura 
di  Paolo  di  Castro  ^  che  mi  parve  più  conclusiva  del  medesimo 
Bartolo;  e  mi  parve  allora  la  legge  una  cosa  talmente  nuova 
sicché  tutti  quei  cinque  anni,  ne'  quali  non  avea  fatto  altro  che 
scrivere  e  trascrivere  una  infinità  di  lezioni,  delle  quali  teneva  ri- 
piena una  gran  cassa,  non  mi  aveva  servito  per  altro,  che  per 
produrmi  un  desiderio  d'impararla. 

Mi  trattenni  un  anno  a  quello  studio,  col  quale  mi  assuefeci  a 
studiar  le  materie  continue  e  pei  loro  principi,  con  legger  prima 
di  ogni  altra  cosa  tutti  i  testi  che  parlavano  di  quelle  materie  ; 
onde  non  potei  mai  accomodarmi  all'uso  introdotto  in  quei  tem- 
pi da'  giovani,  di  studiar  gli  articoli  di  materie  disparate  l'una 

»  Antonia  (1656-1717)  il  23  giugno  1672  spoj^ò  Mario  Caìafa,  duco 
di  Jelsi-  cfr.  Scandone.  tav.  XXXIII. 

^  Caterina  (n.  1657),  nel  16T0  sposò  Marcello  Caracciolo  march,  di  Ca- 
salbore e  princ.  di  Terranova  ;  ed  in  seconde  nozze  il  19  marzo  1699  Dome- 
nico di  Sangro  princ.  di  Castelfranco  :  cfr.  Scandone,  tav.  XXXIII. 

»  Lo  Scandone,  tav.  XXXVI,  ne  ricorda  solo  due  :  Carlo  Tommaso, 
chierico,  morto  giovanissimo,  e  Tommaso. 

«  Tommaso,  princ.  di  Castiglione,  di  s.  Mango  e  di  Feroleto,  duca  di  Ni- 
castro  (1669-1721),  sposò  il  29  novembre  1687  Fulvia  Pico  della  Mirandola 
(1663-1691),  figlia  del  duca  Alessandro  II  e  di  Anna  Beatrice  d'Este  :  cfr. 
Scandone,  tav.  XXXVI. 

•  Celebre  giureconsulto,  morto  alla  metà  del  sec.  XV.  Il  Cujacio  soleva 
dire  :  Qui  non  habet  Paulum  de  Castro  tunicam  vendat  et  emat. 


—  376  — 

dall'altra  colle  Decisioni  del  presidente  de  Franchis  S  nelle  qua- 
li pareva  che  allora  si  credesse  consistere  tutto  il  sapere  per  lo 
caso  del  Foro.  Onde  dal  presidente  Orsino 2,  che  fu  gran  giure- 
consulto e  sommamente  testuale,  erano  chiamati  i  nostri  avvo- 
cati: letterados  de  Vincentio  de  Franchis. 

Cominciai  indi  a  venire  in  Consiglio  col  nostro  sig.  padre  ed 
a  studiare  gli  articoli  che  occorrevano  nelle  sue  cause,  e  la  prima 
allegazione,  che  stampai,  fu  sopra  un  articolo  che  eccitossi  in 
una  causa  del  principe  di  Casalmaggiore,  se  l'interesse  di  più  an- 
ni poteva  eccedere  il  doppio  della  sorte  principale.  Articolo  che, 
per  non  essere  ancora  stato  impreso  nel  S.  C,  e  da  me  disputato 
con  tutti  li  testi  che  parlavano  della  materia  e  con  tutti  gli  au- 
tori eruditi,  de*  quali  anco  procurai  d'imitar  lo  stile,  diede  molto 
che  parlare,  non  meno  ai  ministri  che  a  tutti  gli  avvocati  ;  tal- 
mente che  il  consigliere  Arias  de  Mesa,  che,  cattedrario  di  Sa- 
lamanca, era  venuto  pochi  anni  prima  in  Napoli  per  consigliere 
e  leggeva  ancor  la  prima  cattedra  ne'  nostri  Studi,  disse  che 
quello  era  il  primo  papel  che  aveva  veduto  in  Napoli  secondo 
la  vera  maniera  di  doversi  disputar  gli  articoli;  e  che  io  l'aveva 
appresa  da  lui,  inanimandomi  a  continuarla. 

Onde  non  molto  dopo  ne  feci  un  altro,  che  mi  costò  assai  più 
fatica,  e  di  maggior  importanza,  nella  causa  del  principe  di  Pie- 
traelcina  col  duca  di  Acerenza  circa  la  risoluzione  del  contratto 
della  vendita  di  Giugliano  ^  in  risposta  dell'  allegazione  con- 
traria fatta  dal  sig.  D.  Giulio  Caracciolo,  che  tutto  consiste  in 
intelletti  di  testi,  secondo  l' interpetrazione  di  Cujacio  e  degli 
altri  eruditi,  non  discompagnati  dalle  comuni  tradizioni  de'  dot- 
tori, che,  per  esser  cosa  che  non  avea  come  l'altre  l'uso  di  giu- 

» 

*  Vincenzo    De  Franchis,   Decisiones  Sacri  Regii  Consilii,  Venezia 
1580. 

2  Pietro  Giordano  Orsino,  «  il  più  eminente  et  elevato  spirito  che  sia 
tra  i  ministri  della  Corona  di  Spagna,  alla  quale  ha  servito  là  medesimo  in 
tanti  carichi,  nei  quali  ha  sempre  dimostrato  l'eccellenza  della  sua  persona, 
nobiltà  e  sapere,  col  quale  pare  a  me  che  sopravanzi  l'esser  homo,  e  che  hog- 
gi  tiene  in  tanta  Maestà  il  Tribunale  del  Consiglio,  dove  con  la  sua  bontà 
et  esquisitezza  di  sapere  e  di  valore  è  fatto  ammirabile  »  :  Capaccio, 
pp.  596-97. 

^  Galeazzo  Pinelli  duca  di  Acerenza  nel  1639  vendè  Giugliano,  oggi  inj 
prov.  di  Napoli,  a  Cesare  d'Aquino  principe  di  Pietraelcina.  Per  le  poste- 
riori vicende  della  terra  cfr.  A.  Basile,  Memorie  storiche  della  terra  di\ 
Giugliano,  Napoli,  1800,  pp.  128-131. 


—  377  — 

dicare  in  contrario,  fu  assai  più  applaudita.  Sicché  io  fui  il  pri- 
mo che  introdusse  in  Consiglio  V  uso  di  disputare  gli  articoli  se- 
condo i  veri  principi  della  giurisprudenza,  che  fece  sentire  nei 
nostri  Tribunali  il  nome  di  Cujacio  e  degli  altri  eruditi,  appli- 
cando la  loro  dottrina  all'uso  del  Foro.  E  dell'una  e  dell'altra  al- 
legazione ne  stampò  poi  più  capitoli  il  sig.  Cariantonio  Moccia 
nella  sua  Silva  S  e  della  seconda  ne  fa  menzione  il  consigliere 
Staibano  nel  secondo  tomo  ^. 

Né  solamente  introdussi  questo  stile  nello  scrivere,  ma  anco 
nel  difendere  le  cause  in  Ruota  ;  poiché,  giunto  all'età  di  venti 
anni,  cominciai  a  difendere  le  cause,  e  la  prima  fu  una  causa  de' 
Quatini  di  terra  di  Bari  contro  un  laudo  di  Cario  Maranta  da 
lui  stampato  nel  terzo  tomo  delle  sue  Controversie  ^  che  con- 
sisteva tutto  in  articoli  legali  cavati  da'  più  intimi  penetrali  del- 
la giurisprudenza,  come  può  vedersi  dallo  scritto  nel  primo  vo- 
lume delle  mie  allegazioni'*;  quale,  avendola  parlata  lungamente 
alla  presenza  del  presidente  Marchese  ^  che  a  caso  si  trovò, 
mi  ascoltò  con  un'attenzione  straordinaria  senza  mai  tormi  l'oc- 
chio da  sopra  e  senza  interrompermi  una  parola,  cosa  insolita 
a  lui,  che  non  faceva  molto  applauso  agli  avvocati,  particolar- 
mente quando  si  entrava  in  articoli  legali.  Onde,  avendola  gua- 
dagnata, disse  egli  la  sera  alla  conversazione  che  si  teneva  or- 
dinariamente nel  quarto  del  sig.  Bernardino  Belprato  ^  nel 
palagio  da  lui  abitato  del  sig.  principe  di  S.  Severo,  che  io  sa- 
rei riuscito  il  primo  avvocato  del  Consiglio,  come  il  signor  Ce- 
sare Gallucci,  che  si  trovò  presente,  ne  diede  immediatamente 
contezza  a  nostro  padre,  congratulandosi  seco  ;  onde  per  tutto 
quel  tempo  che  io  stiedi  in  Napoli,  mi  continuò  sempre  i  mede- 
simi favori. 

Ma  non  avrei  io  già  potuto  dar  tal  saggio  de'  miei  talenti,  se 
non  mi  fusse  prima  almeno  in  parte  liberato  da  quella  grossa 
ignoranza,  nella  quale  mi  avevano  i  miei  direttori  tenuto  di  tutte 

'■  Moggia,  Silva  casuum  forensiumt  Napoli,  1649. 

*  Staibano,  Resolutionumforensium  centuria  II,  Napoli,  1719,risol.  185. 
•^  Maranta,  Controversarum  juris  utriusque  responsionum  in  Foro  caus- 

sariim  Ecclesiastico  praesertim  discussarum,  Napoli,  1643,  t.  U. 

*  Il  D'  Andrea  cita  una  raccolta  delle  sue  allegazioni,  che  non  mi  è 
stato  possibile  trovare. 

»  Andrea  Marchese,  pel  quale  cfr.  Avvertimenti,  §  10. 

*  U  marchese  D.  Berardino  Belprato  è  ricordato  dal  Capecelatro,  Dia- 
rio, III,  12  ;  e  Annali,  p.  206. 

Anno  XLV.  25 


—  378  — 

le  buone  lettere  ;  di  che  non  ebbi  obligazione  che  a  me  mede- 
simo ;  poiché,  per  lo  gran  diletto  che  provava  nel  leggere  Ti- 
storia,  procurai  di  leggere  tutti  gli  istorici  così  latini,  come  greci, 
tradotti  in  latino,  ed  anco  l'istorie  favolose,  come  T  Iliade,  V  O- 
dissea  d'Omero,  ed  in  somma  ogni  altra  cosa  che  avesse  appa- 
renza di  istoria;  con  che,  fattomi  familiare  la  lingua  latina,  potei 
facilmente  intendere  il  vero  senso  de'  nostri  testi  e  gli  autori 
eruditi  che  l'interpetrano,  poiché  l'intendea  senza  fatica  e  niente 
meno  che  se  avessero  scritto  in  italiano. 

Mi  adornai  con  questa  occasione  l'animo  dell'erudizione  degli 
antichi  ;  onde  non  vi  fu  quasi  libro  toccante  all'erudizione  de- 
gli antichi  ed  anco  allo  studio  critico  che  io  non  procurassi  di 
leggere;  e  come  la  maggior  parte  de'  libri  me  l'imprestava  il  sig. 
D.  Ottavio  di  Felice  \  un  vecchio  assai  erudito  e  molto  affezio- 
nato della  nostra  casa,  mi  disse  che  per  goder  meglio  dell'  istorie 
saria  stato  bene  far  qualche  studio  nella  Geografia.  Onde  mi 
diede  a  leggere  Tolomeo  con  la  geografìa  del  Mancino,  il  quale 
studiai  ex  professo  con  qualche  notizia  della  sfera,  che  fu  la  pri- 
ma disciplina  che  mi  aprì  la  mente  alla  cognizione  di  questo 
globo  che  abitiamo  e  di  questo  gran  tetto  che  ci  copre,  scienza 
che  sempre  stimai  dover  essere  la  prima  a  prendersi  per  sapere 
che  era  questo  mondo  nel  quale  viviamo,  e  non  abitarci  come 
peregrini  senza  saperne  i  confini,  né  la  struttura. 

Aveva  egli  consumato  tutta  la  sua  vita  nello  studio  della  lin- 
gua greca  e  della  filosofia  morale  di  Aristotile  ;  onde  mi  per- 
suasi a  studiar  l'una  e  l'altra;  ma  nella  lingua  greca  poco  mi  ci 
applicai,  e  quel  poco  che  ne  appresi  poco  dopo  me  lo  scordai  ; 
ma  nell'Etica  d'Aristotile  ci  ebbi  maggior  diletto,  per  poter  di- 
scorrere nelle  conversazioni  da  filosofo  dei  vizi  e  delle  virtù,  non 
facendovi  però  altra  fatica,  che  tradurre  il  testo  in  lingua  ita- 
liana, con  che  cominciai  anche  ad  assuefarmi  a  comporre  nella 
nostra   lingua. 

Cominciai  con  ciò  a  perdere  in  parte  quella  diffidenza  che 
avea  di  me  stesso  per  riconoscermi  nudo  di  tutte  le  discipline, 
poiché  tra  gli  altri  miei  coetanei  mi  parca  che  ancor  sapessi 
qualche  cosa  più  di  loro  ;  ma  l'obhgazione  maggiore  l'ebbi  poi 
dalla  familiarità   che  contrassi  col   signor  Camillo  Colonna  zio 

1  Ottavio  de  Felice  è  ricordato  anche  dal  Bouchard,  ed.  Marcheix, 
p.  100,  Era  «  un  bon  petit  homme  qui  s'était  mis  à  étudier  sur  le  tard  »,  e 
voleva  dimostrare  che  l'Iliade  era  un'allegoria  politica. 


—  379  — 

del  sig.  principe  di  Gallicano,  che  era  un  signore  dotato  d'un 
intendimento  così  sublime,  che  parca  che  trascendesse  la  con- 
dizione degli  altri  uomini.  Sicché  poteva  commemorarsi  tra  gli 
eroi,  il  quale,  coli*  occasione  che  abitava  alle  Mortelle,  vicino 
al  giardino  del  sig.  Ciccio  Porzio  ^  dove  io  solca  spesso  an- 
dare, avendomi  un  giorno  menato  da  lui  il  signor  D.  Cesare  della 
Marra,  di  chi  era  compadre,  ebbe  tal  gusto  di  conoscermi,  e  mi 
prese  tal' affetto,  che  mi  stimò  degno  d'introdurmi  in  un'accade- 
mia letteraria,  che  era  fatta  ogni  settimana  in  sua  casa,  nella  quale 
esponeva  all'esame  di  vari  letterati  e  particolarmente  religiosi 
di  tutti  gli  ordini  alcune  sue  speculazioni  circa  una  nuova  filo- 
sofia che  intendeva  formare,  non  gran  fatto  molto  dissimile  da 
quella  che  oggi  chiamano  atomista  ;  onde,  sentendo  io  quelle 
alterazioni  che  si  facevano  da'  frati  circa  la  creazione  ex  nihilo 
e  circa  i  principi  delle  cose  naturali,  con  quei  loro  termini  sco- 
lastici che,  per  parlarsi  in  italiano,  erano  obbligati  lor  malgrado 
esplicare  con  parole  più  intelligibili,  e  coi  continui  discorsi  che 
ne  faceva  con  me  il  signor  D.  Camillo,  mi  accorsi  in  breve  tempo 
che  quei  termini  astratti  non  erano  che  puri  concetti  della  no- 
stra mente,  ma  non  avevano  niente  di  reale  ;  sicché  la  filosofia 
delle  scuole,  alla  quale  han  dato  il  nome  di  peripatetica,  non  era 
che  un  giuoco  di  parole  per  parere  dotti  appresso  il  volgo,  il  qua- 
le stima  sempre  più  quelle  cose  che  meno  intende,  ma  che  per 
verità,  non  essendo  cose  intelligibili  dall'umano  intendimento, 


1  II  Celano,  ed.  Chiarini,  IV,  566  sgg.,  parlando  delle  Mortelle,  non 
ricorda  il  giardino  del  Porzio,  né  il  palazzo  del  Colonna.  Parla  però  di  quello 
del  D'Andrea,  che  il  nostro  si  fece  costruire  dopo:  la  prima  ediz.  del  Celano 
è  del  1692;ed  è  descrizione  che  vale  la  pena  rileggere,  perchè  oggi  non 
esiste  più  l'oggetto.  Sorgeva  ove  sono  le  rampe  Brancaccio  ed  era»  biz- 
zarrissimo  »,  «  eretto  col  disegno  del  suo  ingegnosissimo  padrone  >.  <  Questo, 
ancorché  non  finito,  mostra  un'architettura  che  più  bizzarra  e  nobile  desi- 
derar non  si  può.  Non  parlo  poi  del  sito,  perchè  non  so  se  la  natura  possa 
formarne  uno  più  dilettoso  ed  ameno;  perchè  oltre  alla  bontà  dell'  aria  che 
più  perfetta  desiderar  non  si  può,  soggetta  al  dominio  della  sua  vista  una 
parte  più  bella  del  nostro  cratere  con  tutti  i  luoghi  che  li  fanno  riviera  ;  e 
dall'altra  parte  tutte  quasi  le  nostre  fertilissime  colline  di  S.  Ermo,  dei  Ca- 
maldoli  e  di  Posilipo.  Vi  ha  situati  ben  coltivati  giardinetti  ;  ed  acciocché 
in  essi  non  manchi  ogni  delizia,  vi  si  vedono  capricciose  fontane  che  pren- 
dono le  acque  da  alcuni  pensili  cisternoni  che  paiono  opre  dei  Romani;  ed 
in  uno  di  questi  giardini  si  vedono  le  piante  del  pepe  che  danno  frutti , 
cosa  curiosai  » 


--  380  — 

il  quale  non  può  intendere  quello  che  non  conosce  per   mezzo 
del  senso,  non  erano  intese  ne  meno  da  quei  che  T insegnavano^. 

Toltomisi  perciò  il  maggior  ostacolo  che  mi  pareva  di  aver 
per  lo  difetto  della  filosofìa,  mi  rimanea  ancor  quello  che,  per 
non  aver  studiato  rettorica,  non  mi  fidava  di  fare  alcune  fun- 
zioni pubbliche  in  materia  letteraria:  dal  che  anco  me  ne  liberò  il 
sig.  D.  Camillo  con  assicurarmi  che  in  pochi  giorni  mi  avrebbe 
fatto  divenire  un  grande  oratore.  Onde,  datomi  alcuni  precetti 
particolarmente  circa  lo  stile  con  la  notizia  di  buoni  autori,  mi 
inanimò  anco  a  leggere  i  nostri  poeti,  scoprendomi  le  bellezze 
del  Petrarca,  di  cui  era  adoratore,  benché  poi  nel  componere 
fusse  più  tosto  imitatore  dello  stile  del  Gasa;  sicché  facilmente 
conobbi  l'arte  oratoria  non  essere  così  diffìcile  come 'io  pensavo, 
benché  circa  la  poesia  le  muse  mi  fussero  così  poco  propizie  che, 
ancorché  sentissi  gran  gusto  nel  leggere  i  buoni  poeti,  non  mi 
conobbi  mai  abile  a  componere  un  verso. 

Quindi,  preso  già  animo,  in  una  solennità  che  si  celebrò  nella 
nostra  congregazione  di  S.  Ivone,  nella  quale  si  usava  in  quel 
tempo  che  un  giovane  della  medesima  congregazione  facesse 
l'orazione  in  lode  dell'Istituto,  non  ebbi  diffìcultà  di  accettare 
il  peso,  cosa  che'  non  mi  era  mai  fìdato  di  fare  dal  principio,  ed 
avendola  fatta  con  tutti  li  precetti  dell'arte  e  pienissima  di  eru- 
dizione, nella  quale  il  medesimo  sig.  D.  Camillo  mi  fé'  1'  onore 
di  voler  intervenire,  mi  riusci  di  maggiore  plauso  di  quel  che 
avrei  saputo  desiderare,  e  fu  la  prima  funzione  pubblica  che  io 
facessi. 

Onde  nell'occasione  poi  che  nacque  qualche  tempo  appresso 
di  trattarsi  in  Collaterale  la  causa  della  medesima  Congregazione 
coi  PP.  Gesuiti,  che  volevano  fare  l'altra  del  medesimo  istituto, 
alla  presenza  del  sig.  duca  d'  Arcos,  mentre  1'  avvocato  che 
portava  per  noi  il  peso  della  causa  quella  mattina  non  vi  si  trovò, 
e  mentre  nessuno  degli  avvocati  della  Congregazione,  che  si 
trovavano  in  Collaterale  per  altri  affari,  ardì  d' opporsi  al  discorso 
che  con  gran  pompa  d'eloquenza  fu  fatto  dal  consigliere  Prato 
allora  avvocato  ed  in  lìngua  spagnola,  io  solo  non  diffìdai  di 
risponderli  improvviso,  ributtando  parte  per  parte  tutto  il  di 
lui  discorso,  tutto  con  autori  non  meno  politici  che  giurecon- 
sulti e  gran  copia  d'erudizione,  perchè  avevo  scritto  nella  causa; 


Della  filosofia  «  colonnese  »  abbiamo  parlato  neirintroduzione. 


—  381  — 

sicché  non  solo  ne  portai  la  vittoria,  ma  riuscì  quella  1'  azione 
per  me  più  gloriosa  che  facessi  in  mia  vita  \ 

Per  premio  di  questa  vittoria  il  duca  d' Arcos  volle  onorarmi 
del  posto  di  avvocato  fiscale  della  provincia  di  Chieti;  qual, 
mentre  tutti  gli  amici  dissuasero  mio  padre  di  farìo  accettare, 
perchè  non  lasciassi  l'avvocazione  colla  quale  dicevano  che 
non  avrei  potuto  non  ingrandire  la  casa,  nessuna  cosa  m'indusse 
tanto  ad  accettarlo  quanto  il  vedermi  sfornito  di  tutti  quei  mezzi 
necessari  alla  professione  per  poterla  fare  con  decoro,  mentre  quei 
pochi  negozi  che  nostro  padre  teneva,  per  la  sua  naturale  mo- 
destia e  per  la  poca  attitudine  che  ebbe  sempre  in  far  danari, 
poco  li  rendevano,  ed  anco  perchè,  essendo  il  viceré  venuto  di 
fresco  al  governo,  si  considerava  che  avrebbe  avuto  tempo  di 
avanzarmi  a  posto  maggiore. 

Ma  svanì  bentosto  questa  speranza,  quando,  sopravvenute 
pochi  mesi  dopo  le  rivoluzioni  popolari,  il  sig.  duca  d'  Arcos 
fu  obbligato  partirsi  dal  regno,  patendo,  come  egli  diceva,  le  pene 
delle  colpe  dei  viceré  che  erano  stati  prima  di  lui  ;  onde,  essen- 
domi sopravvenuto  il  proprietario  da  Spagna,  mentre  io  non 
vi  era  che  per  Vinterium,  e  fu  il  sig.  D.  Girolamo  Natale,  padre 
dell'  odierno  sig.  D.  Cesare  consigliere  ^  me  ne  ritornai  in  Na- 
poli nel  mese  di  novembre  1648.  Non  mi  fu  però  del  tutto  inu- 
tile  l'andata  in  Abruzzo  per  la  cognizione  delle  scienze  ;  poi- 
ché, mentre  per  la  rivolta  seguita  nella  città  di  Lanciano,  mi 
ebbi  a  trattenere  un  mese  al  governo  di  quella  città,  abitando 
nel  convento  dei  PP.  Agostiniani  mi  venne  a  caso  in  mano  una 
logica  manoscritta  ;  onde  mi  eccitò  subito  la  curiosità  di  ve- 
dere che  cosa  era  questa  logica  che  faceva  tanto  rumore  nel 
mondo,  e  senza  la  quale  si  diceva  non  potersi  apprendere  alcu- 
na scienza,  e  vidi  che,  tolte  le  formole  di  argomentare  per  Teser- 
citazione  della  scuola,  era  una  cosa  non  necessaria,  potendo  al 
tutto  supplire  la  logica  naturale,  o  che  forse  era  meglio  a  pren- 
derla dopo  ingravidata  prima  la  mente  della  cognizione  delle 
cose,  dovendosi  prima  fare  l'apparato  delle  cose  e  poi  imparare 
il  modo  di  disporle,  e  che  si  potea  imparale  in  pochissimi  giorni. 

E  poi  nella  rivolta  della  città  di  Chieti,  convenutomi  stare  due 


*  Sulla  causa  cfr.  Cortese,  La  Congrefl'az/one  di  S.  Ivone  cit.,  in  ìs'afioli 
Nobilissima,  n.  s.  I,  1920,  pp.  33-35,  e  l' introduzione. 

*  Su  Cesare  Natale  cfr.  Auoertimenti,  §  2. 


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mesi  ritirato  presso  i  PP.  delle  Scuole  Pie  \  lessi  tutte  le  opere 
di  Cicerone,  che  stavano  ivi  in  una  libraria  picciola,  e  partico- 
larmente le  filosofiche,  e  vi  ritrovai  ancora  un  volume  mano- 
scritto delle  quistioni  filosofiche  del  P.  Campanella,  che  mi 
piacque  tanto  che  me  lo  feci  dare  da'  Padri  quando  partii  per 
Napoli,  che  fu  nel  settembre  del  1648  ^. 

1  Scrive  il  Ravizza,  Collezione  di  diplomi  e  di  altri  docc.  de'  tempi  di  mez- 
zo e  recenti  per  servire  alla  storia  della  città  di  Chieti^  Napoli,  1833,  II,  135: 
*  La  Religione  de'  Chierici  Regolari  delle  Scuole  Pie,  fondata  da  5?.  Giuseppe 
Calasanzio,  di  nazione  Spagnuolo,  tu  l'ultima  a  comparire  nelle  mura,  la 
più  utile  in  vero  pel  loro  istituto,  ma  ncgligentata  negli  ultimi  tempi.  Nel- 
l'anno 1636  essi  furono  invitati  in  Chieti.  Le  scuole  furono  aperte  nell'anno 
1640.  Gfr.  inoltre  G.  Nicolino,  H istoria  della  città  dz  C/j?'c/z, Napoli,  1657, 
pp.  257-58. 

2  Non  è  il  caso  di  dire  qui  tutto  ciò  che  il  D'  Andrea  facesse  in 
Abruzzo  durante  la  rivoluzione  di  Masaniello.  Egli  stesso  lo  raccontò 
in  una  sua  Relazione  de'  servizi  fatti  nel  tempo  eh'  esercitò  il  posto  di 
avvocato  fiscale  nella  provincia  di  Abruzzo  Citra,  e  particolarmente  di  tutto 
ciò  che  da  lui  si  operò  in  servizio  di  S.  M.  mentre  durarono  le  rivolu- 
zioni populari,  cominciate  in  Napoli  nel  dì  7  di  luglio  1647  et  estinte 
nel  dì  6  di  aprile  1648  sotto  il  Presidato  del  sig.  D.  Michele  Pigna- 
tello  preside  e  governatore  delle  armi,  in  quel  tempo,  di  ambedue  le  Pro- 
vincie di  Abruzzo  ,  s.  n,  t.,  di  ce.  26  ;  per  la  quale  vedi  V  introdu- 
zione. Per  errore  tipografico,  nell'  introduzione  si  legge  che  essa  fu 
stampata  in  Napoli  nel  1628;  il  D  'Andrea  la  diede  alla  luce  soltanto 
parecchio  dopo  il  1648,  ed  anche  dopo  il  1682,  allorché  molti  lo  accusarono 
di  esser  parente  ed  anche  di  esser  lo  stesso  Francesco  d'  Andrea  che  aveva 
preso  sì  viva  parte  alla  rivoluzìon  di  Masaniello.  E  così  conchiudeva 
la  sua  interessantissima  memoria  :  «  Così  il  suddetto  Francesco  d'  An- 
drea, dopo  ritornato  da  Abbruzzo,  fece  in  Napoli  nell'  avvocazione  e 
in  altri  ecercizij  letterarìj  quella  figura  eh'  è  nota  al  mondo.  E  ben- 
ché, per  tutto  il  tempo  della  sua  vita,  havesse  seguitate  le  medesime 
massime,  più  adattate  veramente  agli  antichi  secoli,  che  a  quello,  nel 
qual  viviamo,  di  non  far  conto  dell'  applauso  volgare.  Onde  anche  in  cose 
di  assai  maggiore  importanza,  ordinateli  da'  Signori  Vice  Ré,  per  servi- 
zio di  S.  M.  e  da  lui  eseguite,  in  quel  miglior  modo,  che  gli  è  stato 
permesso  dalla  sua  abilità,  non  sol  non  n'ha  mai  preteso  alcun  premio, 
ma  in  qualche  scrittura  data  alle  stampe,  in  servizio  di  S.  M.,  e  non 
ricevuta  senza  lode,  non  vi  ha  posto  neanche  il  suo  nome.  Ad  ogni 
maniera,  come  non  tutti  i  tempi  comportano  un  medesimo  tenor  di 
vivere,  e  tal  cosa  può  succedere  air  huomo,  per  costante  che  sia,  nel 
lungo  corso  di  una  vita,  che  senza  nota  d' incostanza,  1'  obblighi  a 
mutar  sentimenti,  ha  stimato,  quando  già    di   queste  cose  parca  per- 


—  383  — 

Ritornato  dunque  a  Napoli,  ritrovai  che  nostro  padre,  quale 
durante  le  rivoluzioni  si  era  con  tutta  la  casa  trasferito  in  Ra- 
vello,  era  già  ritornato  ed  abitava  insieme  con  mio  fratello  nel- 
la casa  grande  del  sig.  Mario  Rota  ^  al  vico  del  Fico,  di  dove 
per  migliorare  di  sito  stimai  dovessimo  passare  in  quella  del  si- 
gnor principe  di  S.  Severo,  che  fa  penisola  intorno  al  suo  pa- 
lagio grande  nella  strada  della  Pietatella^,  dove,  avendo  assunto 
con  carico  la  causa  del  sig.  principe  di  Cassano  contro  il  sig. 
principe  della  Roccella  per  la  consecuzione  del  prezzo  della 
Grotteria  ^  che  fu  una  causa  assai  celebre,  avendo  avuti  per 
contrari  Bartolomeo  di  Franco  con  altri  avvocati  primari  del 
Consiglio,  vi  feci  più  allegazioni  in  jure  ed  in  fatto,  e  finalmente 
la  guadagnai,  e  cominciai  a  crescere  di  clientela  e  di  fama. 

Onde,  essendo  già  in  questo  mentre  ritornata  in  Napoli  la  no- 
stra signora  madre,  col  palmario  di  quella  causa  e  con  altri  negozi 
portatimi  d'Abruzzo  feci  la  compra  della  massaria  di  Posilipo, 
che  fu  la  prima  compra  che  da  me  si  facesse  per  due  mila  du- 
cati, con  indicibile  contento  della  signora  madre,  alla  quale  parve 
che  quello  fusse  il  principio  di  miglior  fortuna. 

Non  lasciavo  per  tanto  di  attendere  anche  allo  studio  delle 
belle  lettere  e  di  altre  scienze.  Onde,  venuto  in  Napoli  da  Roma 
l'anno  1649  il  nostro  signor  Tommaso  Cornelio,  a  cui  la  nostra 
città  deve  tutto  ciò  che  ancor  oggi  si  sa  di  più  verosimile  nella 
filosofìa  e  nella  medicina,  io  fui  il  primo  che  abbracciassi  quella 
maniera  da  lui  propostami  di  filosofare,  con  far  venire  in  Napoli  le 
opere  di  Renato  des  Cartes,  di  cui  sino  a  quel  tempo  n'era  stato 
a  noi  incognito  il  nome.  E,  restituitasi  nel  medesimo  tempo  l'ac- 
cademia degli  Oziosi  sotto  il  governo  del  signor  duca  di  S.  Gio- 


(luta  la  memoria,   di  rinovarla   al     mondo.     Perchè    possa    servire    per 
oddisf azione  de'  posteri,  e    perchè  in  nessun    tempo    la    verità    possa 
rimanere  offuscata  dalla   viltà  dell'altrui  malignità   o   della  bugia. 

1  Su  Mario  Rota  cfr.  Avvertimenti,  §  4. 

*  La  strada  della  Pietatella  corrisponde  all'attuale  vicolo  S.  Severo: 
si  chiamava  così  perchè  vi  sorge  la  Chiesa  di  S.  Maria  della  Pietà,  allora 
volgarmente  detta  «  la  Pietatella  »,  fino  a  vari  anni  fa  unita  con  un  ponte, 
o[»gi  caduto,  al  palazzo  Sansevero.  Cfr.  Celano,  ed.  Chiarini,  III,  442. 

'  Il  march.  Gaspare  Aragona  de  Ajerbis,  avendo  avuto  dalla  moglie  D 
Girolama  de  Curtis  il  principato  di  Cassano  in  Puglia,  vendè  il  feudo  di 
<^rrotteria  (prov.  di  Reggio  Calabria)  al  march.  D.  Vincenzo  Carafa  principe 
«Iella  Roccella  nel  1630:  cfr.  D.  Lupis-  Crisafi,  Cronaca  di  Grotteria,  Ge- 
lace  Marina,  1887,  pp.  146  e  251. 


—  384  — 

vanni,  tra  le  molte  orazioni  che  vi  feci  due  furono  le  più  celebri, 
che  per  le  loro  novità  diedero  molto  che  dire,  e  forsi  incontrai 
rodio  di  molti;  nell'una  delle  quali  dimostrai  che  per  essere  per- 
fetto giureconsulto  bisognava  aver  anco  la  notizia  di  tutte  le 
altre  scienze,  e  nell'altra,  mostrando  di  scherzare,  dimostrai  su 
quanti  deboli  fondamenti  si  appoggiasse  la  volgare  filosofìa,  e 
quanto  dovesse  per  conseguenza  esserli  preferita  la  novella  ma- 
niera di  filosofare  ^. 

Ma,  sopravvenuto  pochi  anni  dopo  il  contagio,  tutti  questi 
studi  bisognò  lasciare,  onde  io  fui  de'  primi  a  partirmi  da  Napoli 
assieme  col  sig.  principe  di  Gassano,  che  mi  menò  seco  nel  suo 
stato  di  Alessano  nella  provincia  di  Lecce;  e  nostro  padre  assieme 
col  sig.  reggente,  che  allora  non  so  se  avesse  compiuti  quattor- 
dici anni,  si  ritirò  di  nuovo  in  Ravello,  dove  pochi  mesi  prima  si 
era  portata  la  nostra  signora  madre  per  ricevere  dall'aere  nativo 
alcun  sollievo  ad  una  grave  indisposizione.  Donde  non  ritornam- 
mo in  Napoli  che  di  là  ad  un  altr'anno,  quando  io,  ritirato  d'A- 
lessano,  mi  portai  in  Ravello,  donde  ce  ne  venimmo  in  Napoh. 
Qui  avea  fatta  prender  la  casa  del  Monte  della  Monica  incontro 
la  porta  piccola  di  S.  Domenico,  alla  quale  io  poi  unii  l'altra  casa 
attaccata  del  medesimo  Monte,  che  avea  l'entrata  dalla  strada 
Maestra  \  rompendo  il  muro  che  divide  le  due  entrate  e  li  due 
cortili,  sicché  riuscì  un'entrata  ed  una  abitazione  assai  cospicua. 
E,  ritrovato  morto  gran  numero  di  avvocati  particolarmente  de' 
giovani,  crebbi  in  brevissimo  tempo  in  gran  numero  di  clientela, 
sicché  mi  posi  in  posto  di  avvocato  primario,  e  la  nostra  casa 
cominciò  a  fare  altra  figura  di  quella  che  avea  fatta  sino  a 
quel  tempo  ^. 

^  Vedi  l'introduzione. 

»  La  strada  «  maestra  »  dev'essere  l'attuale  via  Forcella.  La  «  porta  pic- 
cola »  di  S.  Domenico  è  quella  che  dà  sulla  piazza  omonima. 

'  Scrive  C.  F.  Riaco,  //  giudicio  di  Napoli,  Perugia,  1658,  pp.  221-22  : 
«  Certo  se  v'ha  città  nel  mondo  in  cui  si  professino  in  grado  eminente  le  scien- 
ze legali,  Napoli  è  quella  a  cui  s'attribuisce  il  primato,  e  perciò  allieva  in 
essa  gran  moltitudine  di  dottori,  che,  parte  in  Vicaria  Civile  e  Criminale, 
e  '1  meglio  in  Consiglio,  ostentano  sopra  i  testi  il  lor  ingegno;  fra  la  turba 
di  costoro  sì  fraraesse  la  morte,  e  non  curando  l'allegazioni  de'  testi:  nemo 
impune  est  occidendus,  confermate  colla  prattica  universale  e  le  decisioni 
communi,  da  duicentosessanta  sentenzìonne  a  morte,  venticinque  de'  quali 
di  grido  non  ordinario  e  di  scienza  mirabile  sepelì  nella  tomba  dell'oblio- 
vione,  altri,  che  forastieri  attendevano  a'  proprii  ed  altrui  interessi,  vi  ri- 


—  385  — 

Rimane  dunque  ora  che  si  riferiscano  brevemente  le  case 
de'  reggenti  Italiani  che  furono  fatti  dopo  il  contagio. 

§  20.  Del  sig.  reggente  Giacomo  Galeota. 

Il  primo  che  s'incontra  è  il  reggente  Giacomo  Galeota,  quale, 
sebbene  non  fu  avvocato,  non  si  dubita  però  che  tutto  il  suo 
essere  lo  doveva  all' av vocazione  del  padre  \  il  quale  da  avvo- 
cato, essendo  poi  asceso  al  reggentato  ed  andato  in  Spagna,  lo 
fé'  fare  giudice  di  Vicaria  e  poco  dopo  presidente  di  Camera, 
donde  poi  passò  in  Spagna  reggente. 

E  forse  il  non  essere  stato  avvocato,  ed  il  non  aver  avuto  per 
conseguenza  onesto  modo  di  acquistar  azienda  per  mezzo  del- 
l'avvocazione  gli  pregiudicò  sommamente  e  fu  causa  della  sua 
disgrazia;  poiché,  avendo  voluto  prender  moglie  e  fare  un'altra 
casa  distintamente  da  quella  del  duca  della  Regina  suo  nipote, 
non  tralasciò  per  lasciarla  ricca  alcun  mezzo  di  far  danari  ;  onde 
fé'  compra  di  massarie,  fabbricò  case  e  palagi  ^  comprò  lo  stato 
di  S.  Angelo,  e  vi  ottenne  il  titolo  di  duca  ^,  sicché  nella  visita 
del  visitatore  Casati  si  vide  esentato  dalla  patria  e  sospeso  dal 
posto,  del  che  se  ne  accorò  talmente  che  ne  perde  indi  a  poco  la 
vita  *;  onde,  dopo  sua  morte,  per  restituirli  in  parte  la  fama,  fu 


masero  per  sempre  cittadini,  e  '1  resto  fra  l'aumento  delle  grazie  e  1  mag- 
giore degl'acquisti  involontarj  si  recisero.  » 

^  Fabio  Capece  Galeota,  pel  quale  cfr.  Avveramenti ,  §  8. 

2  Fra  gli  altri  comprò  il  palazzo  del  Panormita  che  fa  angolo  fra  vico 
Bisi  e  piazza  Nilo,  e  «  con  molta  spesa  l'abbellì  e  lo  ridusse  al  moderno  »: 
Celano,  ed.  Chiarini,  II,  639. 

*  Sant'Angelo  a  Fasanella,  in  prov.  di  Salerno:  cfr.  Giustiniani,  Di- 
zionario,  Vili,   285. 

*  II  reggente  Danese  Casati  fu  l'ultimo  visitatore  del  regno  ;  venne  in 
Napoli  alla  fine  dell'aprile  1679  e  vi  rimase  fino  all'aprile  1681  :  cfr.  E.  Gen- 
tile, /  visitatori  generali  del  regno  di  Napoli  clt.,  pp.  16-18;  ed  anche  Par- 
ring,  Teatro  eroico  e  politico  de'  governi  de'  viceré  del  regno  di  Napoli,  ed. 
Napoli,  Gravier,  1770,  II,  551  sgg.  Scrive  il  Confuorto,  ms.  S.S.  N.,  XX. 
C.  20,  in  data  14  marzo  1680,  e.  76:  «  U  sig.  Visitatore  [Casati,  del  quale 
parla  a  lungo]  mandò  Bernardo  Rossi  suo  secretarlo  d'imbasciata  al  sig. 
duca  di  S.  Angelo  regente  Giacomo  Capece  Galeota,  con  ordine  che  si  esen- 
tasse da  Napoli  con  tutta  la  sua  famiglia,  et  andasse  in  alcun  luogo  di  suo 
compiacimento  distante  però  sessanta  miglia  da  essa,  che  cosi  compliva  al 
servizio  di  Sua  Maestà.  Certamente  ciò  diede  maraviglia  a  tutta  la  città  per 
essere  un  gran  ministro,  di  gran  talento  e  grandissimi  espedienti,  e  tale  che 


386 


fatto  il  figliolo  giudice  di  Vicaria,  in  chi  stanno  riposte   le  spe- 
ranze della  perpetuazione  della  toga  ^. 


forse  in  tutt'Europa  non  havea  pari.  La  cagione  di  quest'esilio  non  si  sa  dì 
certo,  sino  ad  hora  ;  et  lo  stesso  ordine  d'assentarsi  da  questa  città  è  stato 
anche  fatto  alli  Signori  duca  di  Montesardo  suo  genero,  et  duca  della  Re- 
gina suo  nipote,  a  questi  però  per  trenta  miglia,  acciò,  cred'io,  non  andassero 
questi  impedendo  l'informazione  che  contra  quello  si  pigliava.  E  benché, 
per  ritrovarsi  in  atto  il  duca  di  Regina  eletto  della  città  per  la  sua  Piazza, 
fussero  gli  altri  suoi  compagni  andati  dal  sig.  viceré  a  supplicarlo,  che  si 
adoperasse  col  sig.  Visitatore  di  non  farlo  partire  per  non  impedire  gli  af- 
fari del  publico,  con  tutto  ciò,  essendo  il  Visitatore  venuto  in  Palazzo,  ri- 
spose al  sig.  viceré  che  non  poteva  lui  revocare  dett'ordine,  essendo  il  tutto 
venuto  ordinato  da  Spagna.  Furono  anche  carcerati  alcuni  creati  più  fami- 
liari et  intimi  del  sig.  regente,  e  posti  criminalmente  in  carceri  separate. 
Certo  che  ciò  ha  fatto  stui)ire  il  mondo,  vedendosi  in  un  volger  d'occhi  uno, 
che  poco  prima  era  l'assoluto  arbitro  del  regno,  stimato,  riverito,  di  gran 
senno  e  sapere,  caduto  dall'alto  grado,  nel  quale  si  trovava,  in  piana  terra 
con  poca  speranza  di  risorgere  ».  E  in  data  17  marzo,  e.  77  :  «  Domenica  di 
molto  ben  matino  si  é  partito  da  Napoli  il  sig.  regente  Galeota  con  suoi 
figli  e  moglie  per  la  città  di  Gaeta,  ove  s'have  eletto  la  sua  stanza,  finché  si 
vedranno  li  suoi  affari.  A  detto  dì  si  è  anche  partito  il  duca  di  Montesardo 
per  Vietri,  ove  s'have  eletto  di  fare  il  suo  esilio.  A  18  detto  lunedì  s'è  par- 
tito il  duca  della  Regina  per  Castello  a  mare  ».  Ed  ancora,  in  data  l*»  giu- 
gno, e.  87  t.  :  «  Gli  affari  del  sig.  regente  Galeota  hanno  cominciato  ad  ba- 
vere buon  esito  ;  poiché  da  Gaeta,  ove  stava  confinato,  bave  ottenuto  li- 
cenza di  venire  in  qualche  luoco  vicino  Napoli  di  suo  conpiacimento  ;  e  per- 
ciò è  venuto  nel  casale  di  Trocchia  ;  et  è  venuto  due  giorni  prima  il  sig. 
duca  di  Regina  a  ripatriare  in  Napoli,  conforme  anche  da  molti  giorni  vi 
stava  il  sig.  duca  di  Montesardo.  Se  dice  che  il  sig.  regente  habbia  ha- 
vuto  alla  Corte  di  Spagna  gran  favori  e  lettere  di  raccomandazione  de'  suoi 
affari  caldamente  da  alcuni  signori  principi  di  Germania,  et  sin  dal  sig. 
duca  d'Orleans,  padre  della  nostra  regina,  procurategli  da'  RR.  PP.  Ge- 
suiti suoi  fautori  ».  Ed  ancora,  in  data  16  giugno,  e.  88:  «Domenica  matina 
è  morto  quasi  di  subito  il  sig.  regente  Giacomo  Capece  Galeota  nel  casale 
di  Trocchia,  ove  era  venuto  da  Gaeta.  Infine,  quando  si  credeva  di  ritornare 
nelle  pristine  grandezze,  havendo  navigato  per  tempestoso  mare,  dentro  al 
porto  ha  trovato  il  naufragio  :  misera  humanità.  La  sua  morte  è  succe- 
duta del  modo  che  siegue.  Volendo  prendere  una  medicina  per  purgare  il 
corpo  dalla  bile  causata  dalli  disgusti  e  travagli  patiti,  si  accinse  a  prender 
la  detta  dì  domenica,  et  havendola  presa  con  molta  nausea,  li  venne  un 
vomito  poco  doppo,  e  la  buttò;  per  Io  che  li  fu  data  la  conserva,  qual'an- 
che  presa  con  nausea,  li  caggionò  una  gagliarda  sincope,  che  in  breve  hora 
lo  condusse  a  morte  ». 

*  Scrive  il  CoNFuoRTO,  sotto  la  data  17  giugno,  e.  88t  :  «  Il  sig.  viceré 


—  387 


§  21.  —  Del  sig,  reggente  Francesco  Antonio  Musceitola. 

Quasi  nel  medesimo  tempo  fu  ancor  fatto  reggente  il  consi- 
gliere Francesco  Antonio  Muscettola.  Questo  al  principio  fu  avvo- 
cato, e  da  avvocato  fatto  giudice  di  Vicaria,  e  dopo  uscito  d'officio 
ritornò  con  gran  disinvoltura  all'  avvocazione;  onde  a  quei  che 
lo  salutavano  rispondeva  con  gran  franchezza:  Servitore  di  V.  5. 
in  ogni  stato.  Ma  dopo  breve  tempo  fu  fatto  consigliere,  ed  in 
questo  tempo  comprò  il  casale  di  Melito  ^  vicino  Napoli,  con 
titolo  di  duca  per  lo  suo  primogenito;  ed  essendo  già  decano  del 
S.  C.  fu  fatto  reggente. 

Conoscendo  quanto  l'avvocazione  sia  necessaria  per  lo  man- 
tenimento delle  case,  fece  che  Michele  suo  secondogenito  si  av- 
viasse per  quella  strada:  il  quale  poi,  non  avendosi  avuto  molta 
attitudine,  morto  il  padre,  procurò  di  essere  giudice  di  Vicaria, 
ed  indi  fu  consigliere,  e  poi  presidente  di  Camera;  in  ciò  più  pru- 
dente del  reggente  Galeota,  che  voluto  casarsi  non  volle  prender 
moglie  che  fusse  in  età  di  far  figlioli  ;  onde,  morto  pochi  anni  or 
sono,  lasciò  tutta  la  sua  facoltà  al  nipote  figliolo  del  primogenito 
duca  di  Melito  2. 

§  22.  —  Del  sig.  reggente  Antonio  Miroballo. 

Venuto  al  governo  del  regno  il  sig.  duca  di  Penaranda^  fé'  im- 
mediatamente reggente  il  consigliere  Antonio  Miroballo,  stimato 
assai  per  la  dottrina,  onde  era  lettor  de'  feudi  ne*  nostri  StudJ, 


mandò  biglietto  di  giudice  di  Vicaria  al  sig.  D.  Giulio  del  morto  sig.  re- 
gente, che  attende  allo  studio  delle  leggi  «.  Fu  dipoi  nominato  consigliere 
del  Sacro  Regio  Consiglio  nel  1698  :  cfr.  De  Fortis,  Governo  politico,  p.  68; 
e  Giustiniani,  Scrittori  legali,  I,  183.  —  Il  reggente  Giacomo  fu  seppellito 
nella  Chiesa  di  S.  Maria  dell'Arco.  Ma  il  suo  corpo,  portato  di  nascosto  in 
Napoli,  fu  trasportato  nella  propria  cappella  dell'Arcivescovato.  Il  Parrino 
accenna  con  poche  parole  al  Galeota,  senza  fame  il  nome.  Antonio  Buli- 
fon  gli  dedicò  nel  1675  il  primo  voi.  della  ristampa  del  Summonte. 

»  Melito  in  prov.  di  Napoli  ;  cfr.  Giustiniani;  Dizionario,  V,  430. 

«  Evidentemente  il  Giustiniani,  Scrittori  legali,  II,  289,  è  incorso  in 
due  errori,  dicendo  che  Michele  era  primogenito  di  Francescantonio,  e  da- 
tando la  sua  morte  «  verso  il  1700  •. 

>  Il  duca  di  Pefiaranda  fu  viceré  dal  1659  al  1664. 


—  388  — 

cattedra  siano  a  quel  tempo  mantenutasi  sempre  in  somma  ri- 
putazione. 

Cominciò  egli  similmente  dall' avvocazione,  e  sarebbe  facilmen- 
te riuscito  il  primo  in  quella  professione  se  avesse  più  tardato  ad 
esser  ministro  ;  ma,  fatto  consigliere  troppo  per  tempo,  non  ebbe 
tempo  da  far  grandi  acquisti.  Essendo  per  altro  nato  non  molto 
agiato  de*  beni  di  fortuna,  si  accomodò  non  per  tanto  colla  dote 
della  moglie,  che  fu  una  signora  di  casa  Guarina,  famiglia  assai 
nobile  ed  antica  nella  provincia  dì  Lecce  e  sorella  alla  signora 
duchessa  di  Alessano  \ 

Fatto  reggente,  appena  presane  la  possessione  se  ne  morì, 
sicché  non  potè  andare  in  Spagna;  e,  lasciata  una  figliola,  fu  dalla 
madre  maritata  col  sig.  Troiano  figliolo  di  Rinaldo  fratello  del 
reggente,  quale,  poco  dopo  T  avvocazione,  ancor  egli  fu  fatto 
consigliere  ed  oggi  è  reggente  col  tìtolo  di  duca  di  Campomele  ^; 
sicché  la  casa  non  ha  perduto  niente  di  estimazione,  e  si  man- 
tiene con  moderate  ricchezze. 

§  2.3.  —  Del  sig.  reggente  Donato  Antonio  de  Marinis. 

In  suo  luogo  fu  fatto  reggente  il  presidente  di  Camera  D.  A. 
De  Marinis,  uno  degli  avvocati  che  dal  sig.  conte  di  Castrillo^ 
furono  fatti  giudici  dì  Vicaria  e  poi  tutti  passati  a'  posti  supremi: 
Raimo  de  Ponte,  Francesco  Rocco,  Francesco  Maria  Prato,  ed 
il  suddetto  de  Marinis,  Antonio  Fiorillo,  Ortensio  Pepe,  Ascanio 
Raetano,  Paolo  Giannattasìo,  e  Gio.  Battista  Odierna. 

Fu  Donato  Antonio  (ciò  che  é  suo  maggiore  onore)  un  povero 
studente  d'una  picciola  terricciola  delregno  nominata  Giungano*, 
— mi  diceva  il  sig.  Alvaro  della  Quadra, — che  venne  in  Napoli  per 
accompagnare  un  figliolo  di  un  cavaliere  suo  padrone  allo  studio. 
E  con  quella  occasione,  essendo  di  buon  ingegno,  si  diede  ancor 

»  Sui  Miroballo  cfr.  A.  Galietti  Sabino,  Memorie  de'  personaggi  illu- 
stri della  famiglia  Miroballo  d'Aragona,  s.  n.  t.  [1785]  ;  e  del  med.,  La  ma- 
gistratura vendicata,  apologia  delle  «  Memorie  de'  personaggi  illustri  della  fa- 
miglia Miroballo  »,  Napoli,  1786.  Sui  due  opuscoli  cfr.  anche  Giustiniani, 
Scrittori  legali.  III,  265-66.  Abitava  nel  palazzo  del  duca  di  Trajetto  Ruffo 
al  Borgo  dei  Vergini  :  cfr.  Fiordelisi,  Gl'incendi  al  tempo  di  Masaniello, 
pp.   66-69. 

2  Su  Trojano  Miroballo  cfr.  Avvertimenti,  §  31. 

5  lì  conte  di  Castrino  fu  viceré  dal  1653   al  1659. 

*  Giungano,  in  prov.  di  Salerno.  Cfr.  Giustiniani,  Dizionario,  V,  181. 


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egli  a  studiare;  visse  però  sempre  da  studente,  e,  non  avendo 
avuta  alcuna  abilità  al  parlare,  si  diede  a  scrivere  in  alcune  cause; 
onde  stampò  il  primo  tomo  delle  sue  Risoluzioni  quotidiane  ^. 

CoU'integrità  de'  costumi  e  con  una  certa  sua  maniera  libera 
e  lontana  da  ogni  affettazione  si  rendè  grato  a  tutti  gli  avvo- 
cati più  principali  ;  sicché  in  tutte  le  cause  era  chiamato  a  col- 
legiare;  onde  cresciuto  d'opinione  cominciò  egli  ancora  a  difen- 
dere qualche  causa,  e  diede  in  luce  il  secondo  tomo  delle  sue 
Risoluzioni  2,  e  vivendo  con  somma  parsimonia  accumolò  qual- 
che contante.  Non  volle  che  mai  si  sapesse  la  sua  origine,  né  che 
avesse  alcun  parente.  Onde  fu  fama  che,  essendo  venuto  il  padre 
a  vederlo  per  essere  ancor  egli  a  parte  delle  sue  fortune,  il  fé' 
rinchiudere  in  una  camera  perché  nessuno  il  vedesse,  e,  fattoli 
fare  un  vestito,  il  fé'  partire  di  notte,  insinuandoli  che  se  altra 
volta  fosse  venuto  si  sarebbe  egli  partito  da  Napoli,  perché  non 
era  figliolo  che  di  se  stesso. 

Ma  se  mentre  fu  avvocato  seppe  resistere  agl'impulsi  della 
natura,  eletto  ministro  non  seppe  star  saldo  al  vento  della  va- 
nità. Onde  l'entrò  il  capriccio  di  esser  venuto  da'  Marini  di  Ge- 
nova, raccogliendo  da  scritture  dell'Archivio  che  a  tal'  effetto 
gli  eran  portate  da  D.  Andrea  Gizzio^;  e  venuto  a  morte,  empio 
di  tutti  i  suoi  e  verso  la  patria,  lasciò  erede  di  tutti  i  suoi  beni, 
che  consistevano  in  contanti  ed  in  una  buona  libraria,  i  PP. 
Scalzi  di  S.  Teresa  per  ambizione  che  li  rizzassero  una  statua 
di  marmo,  come  fecero  nella  lor  Chiesa  *. 

»  Resolutìonum  quotidianarum  juris  Pontificii,  Caesarei  et  Regni  Nea- 
polis  liber  primus,  Napoli,  1632. 

*  Il  secondo  voi.  fu  pubblicato  nel  1650. 

*  Su  Andrea  Giuseppe  Gizìo  cfr.  Giustiniani,  Scrittori  legali,  II,  114-16, 
che  cosi  scrive  :  «  Ma  non  tantosto  ei  giunse  a  qualche  età,  che  infantasti- 
chi tanto  per  la  sua  nobiltà,  che  nuli'altra  apphcìizione  stimò  più  degna,  che 
trovar  monumenti,  onde  fissare  la  sua  genealogia  e  quella  degli  altri.  Egli 
intanto  essendosi  molto  adoperato  con  Niccolò  Toppi,  archivario  della  R. 
Camera  della  Sommaria,  per  impolverarsi  instancabilmente  in  quel  dovi- 
zioso Archivio,  ritrovò  delle  molte  carte  e  diplomi  appartenenti  al  celebre 
Pietro  Marco  Gipsio  nobile  Chietino,  di  cui  Io  stesso  Toppi  ne  aveva  già 
parlato;  e  con  siffatti  materiali  incominciò  a  tesser  la  storia  della  sua  imma- 
ginaria famiglia  e  discendenza,  con  farsi  dichiarare  dell'istessa  famigha, 
portando  a  tal  eccesso  questo  suo  entusiasmo,  che  divenne  presso  tutti  il 
più  ridicolo  uomo  della  terra  ».  Ricercò  *e  origini  di  molte  famiglie  napole 
tane,  ma  scrisse  solamente  su  quella  dei  Tocco. 

*  Cfr.  Celano,  ed.  Chiarini,  V,  262. 


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§  24.  —  Del  sig.  reggente  Antonio  Capobianco. 

Il  reggente  Capobianco  non  fu  avvocato,  ma  era  figliolo  di 
Gio.  Francesco  Capobianco  autor  del  trattato  De  auctoritate 
Baronuniy  che  fu  giudice  di  Vicaria,  né  so  se  prima  fusse  stato 
avvocato  ^. 

Era  egli  della  città  dì  Muro,  ma  si  era  fatto  aggregare  alla  no- 
biltà di  Benevento;  fu  uditor  fiscale  di  Chieti  e  poi  di  Vicaria,  e 
finalmente  consigliere  e  reggente;  fu  di  mediocrissimi  talenti, 
ma  col  risparmio  ed  essere  stato  auditore  della  Dogana  di  Fog- 
gia accumolò  molto  contante;  se  ne  ritornò  di  Spagna  con  titolo 
di  marchese  di  Caritè  per  un  suo  nipote,  di  chi  poi  non  si  è  sa- 
puto altro,  ed  un  altro  suo  parente  procurò  che  fusse  giudice  di 
Vicaria.  Fu  uomo  in  estremo,  e  che  solo  colle  udienze  e  colli 
giudicati  dopo  la  sua  morte  si  è  andato  sostenendo  ^. 


*  Su  Giov.  Francesco  Capobianco  cfr.  Giustiniani,  Scrittori  legali,  I, 
191-95;  pubblicò  il  Trac/af US  de  jure  e/  auctoritate  Baronum  erga  vassallos 
burgenses,   Venezia,   1603. 

*  Scrive  il  Confuorto,  ms.  XXIV.  D.  2,  ce.  187-89:  «  La  famiglia  Capo- 
bianco  non  ha  dubbio  alcuno  che  fu  una  delle  famiglie  antiche  della  città 
di  Benevento,  della  quale  se  ne  leggono  onorate  memorie  co^ì  ne'  Regi  re- 
gistri de'  publici  archivi,  come  nelle  carte  de'  scrittori  ;  et  ho  detto  bene 
che  fu  perchè  non  vi  è  più,  essendosi  già  questa  estinta  da  molti  anni  sono 
nella  persona  di  D.  Diego,  e  sua  sorella  maritata  nell'altra  famiglia  del  me- 
desimo cognome,  della  quale  semo  posti  a  parlare,  divers'affatto  d'origine 
e  di  nobiltà  che  quella,  la  quale  pi  presente  come  reintegrata  nella  città  di 
Benevento  ne  gode  gli  onori  di  nobiltà.  Gio.  Frane.  Capobianco  trasse  con 
il  natale  l'origine  dalla  città  di  Muro,  della  provincia  di  Basilicata,  da  pa- 
renti assai  civili  fra  gli  altri  di  quella  città,  prima  di  ristretta  nobiltà,  come 
sono  quasi  tutte  le  altre  di  quella  provincia;  poiché  il  suo  padre,  chiamato 
Flavio,  fu  dottore  in  legge.  Venne  in  Napoli  ne'  confini  del  passato  secolo 
ad  apprender  la  scienza  legale,  nella  quale  si  approfittò,  e  ne  prese  la  lau- 
rea nel  dottorato;  e  ben  mostrò  d'avere  ingegno  e  dottrina,  poiché  sin  dalla 
sua  gioventù  compose  l'opera  De  jure  et  auctoritate  Baronum  erga  vassallos, 
mandata  in  luce  colle  stampe  la  prima  volta  in  4°  nell'anno  1603  ;  nel  fron- 
tespizio della  quale  afferma  lui  medesimo  essere  della  città  di  Muro,  anzi 
la  dedica  a  Flaminio  Orsino  suo  padrone  e  signore  della  città  di  Muro,  come 
si  legge  dalla  lettera  dedicatoria  nel  principio  di  dett'opera.  Quale  poi, 
avendola  accresciuta  con  alcune  annotazioni,  ristampò  nell'anno  1624  si- 
milmente in  40,  e  la  dedicò  al  regg.  Fulvio  di  Costanzo  marchese  di  Cor- 
leto,  et  ivi  anche  afferma  esser  di  Muro.  Ma  alcuni  anni  doppo,  cioè  nel- 


—  391 


§  25.  —  Del  sìg,  reggente  D.   Marcello  Marciano. 

Avrebbe  il  reggente  Marciano  fatti  gran  progressi    nell'  av- 
vocazione,  se  come  la  cominciò  l'avesse  voluta  continuare,  non 


l'anno  1632,  avendola  di  novo  accresciuta,  la  ristampò  in  f,,  e  la  dedicò  al 
conte  di  Monterey  viceré  in  questo  regno  di  Napoli  ;  et  ivi,  negando  la  sua 
patria,  si  disse  originario  Beneventano.  E  finalmente,  ristampandosi  più 
volte  da'  suoi  posteri,  fu  detto  Patrizio  Beneventano,  perchè  già  la  fami- 
glia era  stata  reintegrata  in  detta  città,  come  diremo.  Applicatosi  Gio. 
Francesco  dopo  la  laurea  del  dottorato  ne'  Regi  Assessorati  d'alcune  città 
nel  regno,  indi  esercitò  la  carica  d'auditore  nella  provincia  di  Calabria  Ci- 
tra,  sotto  il  governo  del  conte  di  Lemos,  viceré  del  regno.  Finalmente  nel 
1630  fu  promosso  dal  conte  di  Monterey  del  giudicato  di  Vicaria,  che  eser- 
citò un  biennio  ;  fra  il  qual  mentre,  avendo  fatto  compra  della  rocca  di  S. 
Felice,  terra  posta  nella  provincia  di  Principat*  ultra,  e  con  ciò  strin- 
gendo amicizia  col  dott.  Tommaso  Gapobianco  nobile  di  Benevento  ma 
povero  de'  beni  di  fortuna,  ottenne  facilmente  da  questo  pubblica  dichia- 
razione d'esser  della  famiglia  sua;  con  che  e  con  stringer  matrimonio  fra 
una  figliola  del  detto  dottor  Tommaso,  sorella  di  D.  Diego,  nel  quale 
s'estinse  la  nobil  famiglia  Gapobianco,  et  Antonio,  suo  figliolo  primo- 
genito, senza  dote  alcuna,  fu  reintegrato  come  della  medesima,  con  altri 
suoi  parenti  della  famiglia,  a  quella  nobiltà  della  quale  li  posteri  di 
lui  negarono  gli  onori.  Ebbe  Gio.  Francesco  per  moglie  Laura  Goscia, 
della  quale  io  non  ho  potuto  rinvenire  la  prosapia.  Gostei,  dopo  la  morte 
del  marito,  fé' compra  della  terra  di  Garife  posta  nella  medesima  provin- 
cia; e  posso  credere  che  fusse  donna  di  talento  et  ambiziosa  di  beneficare 
li  suoi  figlioli  procreati  col  marito,  quali  furono  Antonio  primogenito, 
Stefano,  Gio.  Batta  e  Paolo...  Antonio,  applicatosi  allo  studio  delle  leggi, 
ne  divenne  mediocremente  perito,  ma  assai  fortunato  ;  poiché,  seguendo 
le  vestigie  paterne,  fé'  molti  assessorati  in  molte  città  del  regno,  ove  diede 
buon  saggio  di  sé.  Perloché  nel  1646  fu  mandato  in  Foggia  con  carica  d'au- 
ditore e  premincasa  della  toga  di  giudice.  Fatto  poi  nel  1648  ritorno  in  Na- 
poli, dal  viceré  conte  di  Ofiatte  fu  di  novo  promosso  al  giudicato  di 
•Vicaria  criminale,  ed  esercitò  anche  l'officio  di  profiscale  del  medesimo  tri- 
bunale ;  indi  nel  1650  promosso  alla  carica  di  R.  Gonsigliere  di  S.  Ghiara  ; 
finalmente  nel  1665  alla  Garica  suprema  di  reggente  della  R.  Gancellaria. 
Fu  decorato  altresì  da  S.  M.  nel  1667  di  due  titoli  di  marchese  sopra  Garife 
e  l'altro  per  D.  Domenico  Gapobianco,  suo  nipote,  sopra  la  Rocca  S.  Felice. 
Non  li  mancò  per  compimento  della  felicità  che  solo  d'aver  prole  ;  benché 
havesse  avuto  due  mogli,  ne  fu  privo:  la  prima,  vivente  Gio.  Francesco  suo 
padre,  fu  figlia  di  D.  Tommaso  Gapobianco...;  ma,  rimasto  dopo  pochi  ann 
di  questa  vedovo,  passò  a  seconde  nozze  con  D.  Teresa  Vulgano,  sorella 


—  392  — 

mancatali  alcuna  di  quelle  parti  che  ricercasi  per  riuscir  grande 
in  tale  professione,  gran  capacità,  gran  dottrina,  grand' erudi- 
zione, petto,  ed  in  età  assai  giovane  gran  maturità  di  giudizio. 
Ma  quasi  prevedendo  non  aver  a  vivere  molto,  procurò  as- 
sai per  tempo  d'esser  ministro.  Onde,  fatto   giudice  di  Vicaria 


carnale  di  Paolo,  che  gode  gli  onori  del  Seggio  di  Nido,  donna  assai  vaga  e 
bella,  di  cui  Antonio  visse  sempre  mai  molto  geloso,  quale,  condotta  da  suo 
marito  in  Foggia,  dove  andò  nel  1646  ad  esercitar  la  carica  d'auditore,  ivi 
non  mancomo  alcuni  che  s'abbagliassero  la  vista  ne'  raggi  della  sua  bel- 
lezza con  gran  martello  del  marito.  Ma,  essendo  successe  nell'anno  1647  le 
rivoluzioni  popolari  in  quasi  tutte  le  terre  e  città  nel  regno  che  seguirono 
il  malo  esempio  della  capitale,  fra  quelle  fu  Foggia  che  ricalcitrò,  come  le 
altre,  contro  il  suo  re,  perlochè  fu  bisogno  sopra  tutti  i  ministri  regi  di 
scappar  via  da  quella  città  e  ricoverarsi  in  altra  dependente  dal  partito 
regio  ,  si  come  fece  Antonio,  che  colla  sua  vezzosa  moglie  si  ritirò  in  Man- 
fredonia, ove  ebbe  ricetto  in  casa  di  Lodovico  d'Aprile  geiitilomo  di  quella 
città.  Sedate  poi  le  rivoluzioni,  nel  mese  d'aprile  1648  fé  ritorno  in  Foggia, 
ove,  avendo  seguitato  ad  esercitar  la  sua  carica  per  due  altri  mesi,  fu  chia- 
mato in  Napoli  e  promosso  al  ministerio,  come  si  è  detto,  da  S.  E.  Onde 
con  nessuna  di  dette  moglie  Antonio  fé'  prole  alcuna,  e  morendo  restò  suo 
universale  erede  ne'  beni  feudali  D.  Domenico  suo  nipote,  come  si  dirà. 
Stefano,  che  dicemmo  esser  secondo  nato  di  Gio.  Francesco,  si  congiunse  in 
matrimonio  con  Livia  Pisano  di  quei  di  Bovino,  e  con  detta  moglie  procreò 
due  maschi:  il  primo  chiamato  D.  Domenico,  detto  di  sopra,  et  il  secondo 
similmente  Stefano  come  suo  padre  per  esser  nato  postumo.  Don  Domenico 
successe  ne'  feudi  d'  Antonio  suo  zio,  fu  secondo  marchese  e  cavaliere  del- 
l' abito  di  S.  Giacomo,  del  quale  S.  M.  le  ne  fa  mercede;  si  caso  nobilmente 
con  D.  Lucrezia  Protonobilissima  de'  marchesi  di  Specchio,  che  godono 
gli  onori  del  Seggio  di  Capuana,  colla  quale  procreò  la  posterità  in  due  ma- 
schi che  sono  appresso  la  madre  :  il  primo  de'  quali,  detto  D.  Giuseppe, 
è  divenuto  per  la  morte  del  padre  il  terzo  marchese  di  Carif  e,  e  il  secondo 
detto  Gio.  Batta,  et  altrettante  femmine,  una  chiamata  D.  Livia  e  l'altra 
D.  Isabella,  che  si  educano  dentro  il  Monasteri©  di  Regina  Coeli  di  Napoli. — 
Fu  Pietro  con  molti  suoi  figlioli,  così  maschi  come  femine,  assai  scarso  de' 
beni  di  fortuna,  perlochè  gli  è  stato  di  bisogno,volendo  collocare  in  matrimo- 
nio una  delle  sue  figlie,  chiamata  D.  Giulia,  di  darla  per  moglie  al  razionale 
Di  Franco,  figlio  di  Carlo,  che  tiene  bottega  di  drappi  di  seta  vicino  le  car- 
ceri dell'arte  della  seta  a  Portauova.  Questo  Pietro  è  stato  auditore  in  mol- 
te Provincie  del  regno  et  anco  giudice  criminale  della  Vicaria  ;  ma  ciò  se- 
guì per  essere  stato  appadrinato  dal  reggente  mentre  visse.  Ma,  mancato 
quest'appoggio,  l'è  mancato  l'esercizio  del  ministerio  ;  onde  se  ne  vive  in 
molte  necessità.  E  costui  fu  figliuolo  di  Giulio,  che  nacque  da  Bartolomeo, 
il  quale  fu  fratello  carnale  di  Flavio  padre  di  Gio.  Francesco,  menzionato 
nel  principio  di  questo  discorso  ». 


—  393  — 

Civile  dal  sig.  conte  di  Castrillo,  poi  Criminale,  fu  poi  poco  ap- 
presso dal  sig.  conte  di  Penaranda  fatto  consigliere,  e  dal  mede- 
simo poi  passato  in  Camera  avvocato  fiscale,  donde  nel  principio 
del  governo  del  fu  sig.  D.  Pietro  d'Aragona  ^  andò  reggente  in 
Spagna,  dove  di  là  a  non  molto  se  ne  morì. 

Lasciò  figlioli  di  assai  poca  età  e  la  casa  assai  diminuita,  anzi 
che  no,  di  ricchezze;  qual  però  si  conserva  in  gran  speranza  dal 
di  lui  primogenito  che,  stato  più  anni  giudice  di  Vicaria,  si  trova 
oggi  consigliere  e  con  concetto  di  essere  uno  de'  più  abili  per 
giungere  al  terzo  reggentato  2. 

§  26.  —  Del  sig.  reggente  Girolamo  de  Philippis. 

Il  reggente  de  PhiUppis  fu,  come  si  disse  ^  uno    de'    più  ce- 

1  D.   Pietro  di  Aragona  fu  viceré   dal  1666  al  1671. 

-  Scrive  il  Confuorto,  ms.  XXIV.  D.  2,  e.  62,  della  S.  S.  N.:  «  Marcello, 
primogenito  del  Regente  Gio.  Francesco,  seguì  le  pedate  di  suo  padre  et 
avo  così  nello  studio  delle  scienze  legali,  nelle  quali  fu  molto  perito,  come 
nel  ministerio.  Poiché  fu  promosso  prima  al  giudicato  della  Gran  Corte 
della  Vicaria,  indi  alla  carica  di  R.  Consigliero  del  Ccnsìgho  di  S.  Chiara, 
poi  a  quella  d'avvocato  fiscale  della  R.  Camera  della  Summaria,  e  final- 
mente alla  suprema  dignità  di  regente  del  Consìglio  Collaterale  d'Italia 
nella  Corte  d'Ispagna,  ove,  essendosi  egli  portato,  l'esercitò  per  alcuni 
anni  con  somma  lode  di  dottrina,  et  integrità  ;  ma,  sperando  di  far 
ritorno  alla  patria  et  esercitare  il  suo  ministero  nella  R.  Cancelleria  di 
Napoli,  li  fu  preclusa  la  strada  dalla  morte,  che  ivi  li  sopragiunse.  Fu  ca- 
sato con  Camilla  Castriota  nobile  della  città  di  Lecce,  figlia  di  Ercole  ed  Ip- 
polita Castriota,  con  la  quale  procreò  quattro  figliuoli  et  una  femina,  quale 
sife'monica  in  Napoli  nel  monisterio  di  S.  Gio.  Batta.  Li  figliuoli  furono  : 
Francesco,  Domenico,  Ercule  e  Gennaro.  Francesco  non  tralignando  punto 
da'  suoi  maggiori  ha  chiarito  al  mondo  esser  la  sua  Casa  veramente  sena- 
toria. Fu  questo  virtuoso  soggetto  nel  fiore  della  sua  gioventù  pria  assonto 
alla  carica  di  giudice  di  Vicarìa,  indi  a  quella  di  R.  Consigliero,  et  ultima- 
mente di  regente  del  Consiglio  di  Italia  nella  Corte  d'Ispagna,  ove  anco 
come  suo  padre  pria  di  ritornarsene  alla  patria  n'è  morto,  parendo  fatale 
alla  lor  casa  la  Corte  d'Ispagna.  Non  fu  mai  casato.  Ercole  per  ordine  del 
re  fu  graduato  capitano  di  milizia,  et  adesso  havendo  perduta  la  vista  se 
ne  sta  assieme  con  Gennaro  suo  fratello  in  una  massaria  nella  città  di 
Sorrento,  dove  si  dice  l'Aya.  Domenico  è  cherico,  e  se  ne  sta  in  Napoli,  et 
essendoli  più  volte  stata  offerta  una  piazza  di  giudice  di  Vicaria  l'ha  sem- 
pre rinunciata  parendoli  espediente  non  lasciare  sei  0  settecento  scudi  di 
annui  benefici  ecclesiastici  provisteli  con  ordine  del  re  di  Spagna  per  il 
giudicato  di  Vicaria,  e  bora  é  di  bonissimi  costumi  ». 

•  Cfr.    Avvertimenti,   §  2. 
Anno  XLV.  26 


—  394  — 

lebri  avvocati  de'  suoi  tempi.  Era  originario  di  Sanseverino, 
benché  nato  in  Napoli,  dove  suo  padre  stato  ancor  avvocato 
aveva  trasferito  il  domicilio. 

Non  ci  fu  avvocato  de'  suoi  tempi,  che  più  di  lui  sapesse  con- 
ciliarsi l'affetto  e  la  stima  de'  suoi  clienti;  ebbe  gran  clientela, 
ma  non  fece  gran  ricchezze  o  per  la  mutazione  de'  tempi  o  per- 
chè più  affettasse  il  parere,  che  l'essere.  Comprò  non  per  tanto 
il  casale  di  Miano  vicino  Napoli,  sopra  il  quale  poi,  fatto  reg- 
gente, ottenne  il  titolo  di  marchese  ;  procurò  farsi  aggregare 
alla  nobiltà  della  sua  patria,  maritò  una  sua  figliola  con  un  ca- 
valiere di  casa  Capano  del  Seggio  di  Nido,  e  poscia  passò  a  se- 
conde nozze  con  un  altro  cavaliere  chiamato  D.  Francesco  Ca- 
pece  Scondito  di  Seggio  Capuano;  ed  al  suo  primogenito  diede 
per  moglie  una  dama  di  casa  Caracciolo.  Onde  non  fu  mara- 
viglia che  la  casa  rimanesse  povera. 

Fu  il  primo  degli  avvocati  eletti  da'  sig.  conte  di  Castrillo 
per  giudice  di  Vicaria,  ma,  scusatosi  col  titolo  de'  bisogni  della 
sua  casa,  ne  incorse  nella  sua  indignazione.  Onde  poi  fatto  in 
Spagna  avvocato  fiscale  di  Camera  senza  nomina  del  viceré 
per  pieno  sforzo  del  reggente  Trelles  ^  suo  grande  amico,  per 
più  mesi  l'esecuzione  del  suo  privilegio  li  fu  trattenuto. 

Da  avvocato  fiscale  passò  consigliere,  indi  di  nuovo  in  Ca- 
mera e  poi  reggente  ;  ma  poco  ne  godè  ;  perchè  morì  in  Spagna 
e  la  casa  si  sostiene  oggi  dal  figliolo  marchese  di  Miano  in  assai 
mediocre  fortuna  col  posto  di  giudice  perpetuo  di  Vicaria,  da 
chi  una  bellissima  libraria,  che  lasciò,  si  trova  la  maggior  parte 
venduta  \ 


*  Benedetto  Trelles,  marchese  di  Toralve,  fu  consigliere  nel  1644,  di- 
poi consultore  della  monarchia  di  Sicilia,  e  finalmente  nel  1653  presidente 
del  S.  R.  C.  :  cfr.  Fortis,  p.  48. 

«  Scrive  il  Confuorto,  ms.  XXIV.  D.  2,  della  S.  S.  N.,  ce.  177-179: 
a  Questa  famiglia  è  originaria  del  casale  di  Villa  di  S.  Severino.  Il  primo  di 
essa  che  venne  in  Napoli,  e  cominciò  di  vii  condizione  a  farla,  e  poscia  di- 
venne riguardevole,  fu  Antonio,  il  quale,  applicatosi  alla  disciplina  legale, 
ne  prese  in  Napoli  la  laurea  del  dottorato  :  ove  si  fermò  a  fare  la  sua  resi- 
denza per  trovarsi  la  sua  fortuna,  com'in  effetto  la  ritirò,  perchè,essendo  riu- 
scito non  imperfetto  nella  professione,  fé'  acquisto  di  numerosa  clientela, 
e  nell'anno  1625  fu  uno  de' mastri  della  S.  Casa  di  A.  G.  P.  di  Napoli  per  il 
Popolo.  Prese  per  moglie  una  donna  di  casa  Cangiano,  di  famiglia  popolare 
napolitana,  sorella  del  dott.  Giacinto,  che  poi  divenne  eletto  del  Popolo, 
indi  giudice  di  Vicaria  e  finalmente  R.  consigliere.   Con  la  qual  moglie  prò- 


395 


§  27.  —  Del  sig.  reggente  Antonio  di  Gaeta, 

Il  reggente  di  Gaeta  fu  di  famiglia  nobilissima   di   Cosenza  , 
ma  quanto  nobile,  altrettanto  povera,  benché  il  padre  si  fusse 


creò  tre  maschi,  che  furono  Geronimo,  Lonardo  e  Antonio,  che  nacque  postu- 
mo, nati  et  allevati  nella  Casa  ove  sempre  haveva  dimorato,  esistente  nel  vico 
de'  Christi  vicino  all'Annunziata  [cfr.  Celano,  ed.  Chiarini,  III,  822],  e  pro- 
prio alla  fontana.  Qusle  casa  hoggi  sta  inclusa  nel  comprensorio  della  fa- 
brica  del  Monasterio  di  Moniche  di  S.  Maria  Egiziaca.  Tutti  tre  questi  fra- 
telli furono  molto  studiosi  della  scienza  legale,  nella  quale  divennero  peri- 
tissimi; ma  sopra  gli  altri  due  molto  s'avanzò  Geronimo  ».  Questi,  «  primo 
nato  de'  figlioli,  non  solo  riuscì  nella  legale  disciplina  peritissimo,  ma  di  mi- 
rabil  facondia  nel  orare,  perchè  fu  stimato  il  più  celebre  avvocato  del  suo 
tempo  ne'  reggi  tribunali  di  Napoli,  onde  fece  acquisto  d'una  fioritissima 
clientela,  e  le  cause  di  maggior  importanza  erano  appoggiate  in  lui.  Per- 
ciò hebbe  tempo  di  accumulare  molte  ricchezze,  colle  quali  fé'  compra  di 
molti  beni  stabili,  e  particolarmente  del  casale  di  Miano  poco  distante  da 
Napoli.  Et  essendoli  già  venuto  il  prorito  di  far  la  sua  casa  nobile,  procurò 
et  ottenne  con  facoltà  esser  agregato  alla  stimata  nobiltà  di  S.  Severino  sua 
patria  originaria.  Veramente  questo  personaggio  in  tutte  le  parti  compe- 
tentissimo  era  dotto,  eloquente,  amabile  con  tutti,  cortesissimo  e  degno  di 
esaltazione,  onde  ragionevolmente  fu  da  S.  M.  promosso  prima  alla  carica 
di  fiscale  del  suo  patrimonio  in  Napoli,  indi  a  quella  di  presidente  del  Con- 
siglio d'Italia  in  Spagna,  nella  quale  morì.  Fu  due  volte  casato  :  la  prima 
con  Dianora  Rocco,  figlia  di  Francesca  Antonio  e  di  una  damigella  del  conte 
di  Lemos,  viceré  di  Napoli,  di  Casa  Lugo  y  Maldonato,  e  con  tal  moglie  pro- 
creò un  maschio  chiamato  D.  Gennaro  et  una  femina  detta  D.  Grazia..; 
ma  essendo  remasto  vedovo  passò  alle  seconde  nozze  con  D.Anna  Palazzo; 
eh'  era  vedova  di  Carlo  Lopez  R.  Consegliero...,  e  con  questa  non  fé  prole, 
e  passò  all'altra  vita  in  Spagna,  carico  di  gloria  e  d'onori  e  contento  d'ha- 
ver  posto  la  sua  casa  in  grado  risguardevole  di  nobiltà  e  di  honorate  cariche, 
nelle  quali  per  i  suoi  meriti  e  virtù  fu  esaltato,  come  anche  della  signoria 
del  feudo  per  li  nobili  matrimoni  fatti  fare  uno  doppo  l'altro  a  D.  Grazia 
sua  figlia,  che  degenerò  dall'esser  suo...  Il  primo  marito...  fu  un  cavaliere 
della  famiglia  Capano  del  Seggio  di  Nido  de'  baroni  di  Caracuso,  figlio  di 
D.  Carlo  e  di  una  dama  di  Cosanzia  (?)  di  quei  di  Capua,  dal  quale  matri- 
monio nacque  D.  Carlo,  come  il  suo  avo,  il  quale  è  dottore  di  legge,  et  hoggi 
è  vivente.  Ma  essendo  D.  Grazia  rimasta  vedova  del  Capano,  lo  medesimo 
reggente  padre  la  fé  passare  alle  seconde  nozze  con  D.  Ciccio  Capece  Scon- 
dito; che  era  rimasto  anch'egli  vedovo  della  moglie  Giuditta  figlia  del  reg- 
gente Paolo  Giannattasio,  col  quale  secondo  marito  ha  procreato  tre  femi- 
ne...  II  figlio  maschio,  chiamato  D.  Gennaro,  fu  condotto  dal  padre  in  Spa- 


—  396~- 

casato  in  Napoli  così  nobilmente  con  una  signora  di  casa  Pisci- 
celli  1. 

Come  suo  padre  e  nostro  padre  erano  nati  di  due  sorelle  fi- 
gliole del  barone  di  Rofrano,  vissimo  nella  nostra  prima  età  egli 
ed  io  con  gran  domestichezza,  andando  ad  una  medesima  con- 
gregazione e  ad  una  medesima  scuola,  sino  che  poi  ci  separam- 
mo, andato  io  alla  legge  ed  egli  alla  scuola  de'  PP.  Giesuiti  alla 
filosofìa  2. 

Era  d'ottimo  ingegno  e  di  candidissimi  costumi,  ma  parendoli 
la  strada  dell'  avvocazione  assai  lunga,  astretto  dalle  urgenze 
della  sua  casa,  pensò  avviarsi  a  quella  degli  uffìcj  ;  onde  per  mez- 
zo di  Tommaso  d'Aquino  ^,  che  avea  apparentato  con  Piscicelli, 
procurò  dal  conte  d'Onatte  essere  mandato  giudice  a  Nola. 
Ma  né  meno  quella  strada  trovatala  atta  per  lo  suo  bisogno,  ri- 
tornato in  Napoli,  si  diede  alla  difesa  delle  cause  criminali  e 
gli  riuscì.  Onde,  acquistatovi  qualche  nome,  vacato  l'officio  di 
avvocato  de'  poveri,  fu  conferito  a  lui;  ma  senza  obbligazione  di 
portar  toga  per  poter  attendere  alle  altre  cause  che  li  davano 
guadagno,  colle  quali  e  con  utì  matrimonio  d'una  signora  spa- 
gnola di  casa  Astorga  accresciuto  di  facoltà,  fu  dal  conte  di 
Peiiaranda  fatto  fiscale  dì  Vicaria  ed  indi  consigliere. 

Partito  poi  il  conte  e  passato  al  posto  di  presidente  d'Italia, 
fu  per  sua  opra  eletto  da  S.  M.  per  uno  de'  due  ministri  cl^e  dal 
nostro  regno  e  dallo  Stato  di  Milano  andarono  in  Roma  per  ot- 
tenere qualche  riforma  dagli  abusi  dell'immunità  ecclesiastica, 
missione  che,  per  altro  inutile,  riuscì  utilissima  per  lui  perchè. 


gna,  e  doppo  la  morte  ivi  seguita  di  quello  hebbe  da  S.  M.,  per  li  meriti  del 
medesimo,  titolo  di  marchese  sopra  il  casale  di  Miano  e  di  una  toga  perpe- 
tua di  giudice  della  G.  C.  della  Vicaria  Criminale,  della  quale  carica  fatto 
ritomo  in  Napoli  ne  prese  il  possesso.  Si  caso  dopo  il  suo  ritomo  da  Spagna 
con  una  bella,  vezzosa  e  legiadra  giovinetta  della  nobilissima  famiglia  Ca- 
racciolo, chiamata  D.  Ottavia,  figlia  di  D.  Francesco  detto  del  Pallonetto  il 
sgobbo  e  di  D.  Adriana  Pallavicino..,  ch'è  stata  et  è  la  sua  stella,  ma  non  nella 
procreazione  de*  figlioli,  essendo  sterile  ». 

*  Sulla  famiglia  Gaeta  cfr.  F.  Castiglione  Morelli,  De  patricia  Co- 
sentina Nobilitate  monimentorum  epitome,  Venezia,  1713,  pp.  29-31. 

*  Sulle  scuole  dei  gesuiti  a  Nicoli  nel  Seicento  cfr.  Schinosi,  Istoria 
della  compagnia  di  Gesù  appartenente  al  regno  di  Napoli,  Napoli,  Muzi, 
1711;  e  l'introduzione  a  Michele  Volpe,  I  Gesuiti  nel  Napoletano,  Napoli, 
M.  d'Auria,  1914,   I,  1  sgg. 

'  Cfr.  Avvertimenti,  §  18, 


—  397  — 

acquistata  la  confidenza  del  sig.  marchese  dell'  Asterga*  al- 
lora ambasciatore,  fu  da  lui  venuto  viceré  immediatamente 
nominato  al  reggentato.  Onde  andato  in  Spagna  ed  ivi  tro- 
vatosi non  so  come  parente  del  Valenzuela,  fu  creato  luogo- 
tenente della  Regia  Camera,  posto  che  si  era  perduta  la  memoria 
che  si  fosse  occupato  da  italiano,  quale  esercitatolo  per  più  an- 
ni, mai  parendoli  poter  supplire  alle  continue  richieste  della 
Corte  di  danari,  chiesta  più  volte  licenza,  finalmente  l'ottenne, 
passando  in  Collaterale  con  titolo  di  reggente  sopranumerario; 
e  dopo  non  molto  si  morì. 

Lasciò  di  sé  gran  desiderio  per  la  bontà  e  placidezza  de'  co- 
stumi, per  la  quale  meritò  da'  cavalieri  della  Piazza  di  Porto, 
dove  la  sua  casa  avea  anticamente  goduto,  essere  reintegrato 
agli  onori  di  quella  Piazza,  rimasta  la  sua  casa  in  concetto  piut- 
tosto di  non  povera  che  di  ricca,  che  col  figliolo  giudice  di  Vi- 
caria casato  con  una  signora  di  casa  Dentice  della  medesima  Piaz- 
za  si  mantiene  in  stima  colla  speranza   della   toga   perpetua  2. 

continua 

Nino  Cortese 


»  Il  marchese  di  Asterga  fu  viceré  dal  1672  al  1675. 
*  Credo  sia  Ottavio  di  Gaeta,  che  il  Castiglione,  p.  30,  diceva  «  consi- 
liarius  meritissimus  et  hodie  a  latere  consiliarius  cum  sex  filiis  ». 


ATTI  DELLA  SOCIETÀ 


Nuovi    Socii 


Amodio  avv.  Cesare 

Napoli 

Angelillis  dottor  Ciro 

Badia  Tedalda  (Arezzo) 

Baldi  dottor  Raffaele 

Cava  dei  Tirreni   (Salerno] 

Barattiere  conte  ing.  Dionigi 

Piacenza 

Bartoletti  prof.  Amelia 

Napoli 

Botti  dott.  Alberto 

» 

Briscese  prof.  Rocco 

Venosa  (Potenza) 

Camardella  dott.  Pietro 

Napoli 

Canino  Mario 

» 

Coco  Frimaldo  Lett.  G.le  0.  M. 

Galatone  (Lecce) 

Cortese  dott.  Aniello 

Casoria  (Napoli) 

D'Atri  avv.  Ferdinando 

Napoli 

Forte  dott.  Giovanni 

» 

Gaida  dott.  Giacinto 

Grella  dott.  Vincenzo 

Minervini  Nicola 

Padula  prof.  comm.  Antonio 

Pagliara  prof.  Antonietta 

Quintieri  Rachele 

Riso  Alimena  Angela 

Ruocco  colonnello  Vincenzo 

Ventrone  cav.  Giuseppe 

Villani  dott.  Enrico 

Aliano  (Caserta) 

INDICE  DEL   VOLUME  VI,  SERIE  SECONDA 
(XLV    deli/  intera   collezione) 


Memorie 

Bresciani  G.  —  Fava  M-,  I  librai  ed  i  cartai  di 

Napoli  del  Rinascimento  {contin.) pag.  228 

Gallo  A.,  I  Curiali  napoletani  {contin.).     ...»  5,  201 

Mancarella  a.,  Firenze,  la  Chiesa,  e  T avvento 
di  Ladislao  di  Durazzo  al  trono  di  Napoli (con^)      »  28 

Martini  E.  M;,  La  prigionia  di  Malizia  Carafa  e 

le  suppliche  a  Papa  Clemente  XI »  280 

Pescione  R.,  Gli  Statuti  dell'  Arte  della  seta  in 
Napoli  in  rapporto  al  privilegio  di  giurisdi- 
zione (fine) »  61 

Schifa  M.,  Cause  e  importanza  della  Rivoluzione 

Napoletana  del  1820 »  110 

Id.,     La  congiura  del  Principe  di  Montesarchio 

(1648)  (fine) »  251 

SiMiONi  A.,    L'esercito  Napoletano  dalla  minorità 

di  Ferdinando  alla  Repubblica  del  1799  (con/.).       »       88,  295 

Da  Archivi  e  Biblioteche 

Cortese  N.,  Gli   «  Avvertimenti   ai    nipoti  »    di 

Francesco  D'Andrea  (contin.) »      152,  352 


—  400  — 

D'Addosio  G.  B.,  Documenti  inediti  di  artisti  na- 
poletani dei  secoli  XVI  e  XVII.  Dalle  polizze 
dei  Banchi  {contin.) pag.  179 

Paladino  G.,  Per  la  storia  della  congiura  dei 
Baroni.  Documenti  inediti  dell'Archivio  Eeten- 
se   (1485-1487)  (contin.) »       128,  325 

Varietà 

Salvigli  G..  Il  diritto  ad  Amalfi  neir  alto  Me- 
dio  Evo »  191 

Atti  della  Società:  Assemblea  Generale  dei  Soci      »  199 

Nuovi  soci »  398 


Direttore  prof.  Michelangelo  Schifa 


Gerente  responsabile  d.r  Fausto  Nicolini 


PUBBLICAZIONI 

DELLA 

SOCIETÀ   NAPOLETANA  DI  STORIA   PATRIA 
(Piazza  Dante,  93) 


Con  r  annata  XL  si  è  iniziata  la  seconda  serie  deW Archivio 
storico  per  le  province  napoletane^  che  viene  inviato  gratuita- 
mente ai  soci.  Pei  non  soci  il  prezzo  di  un  fascicolo  separato 
della  seconda  serie  è  di  lire  7,50;  di  un'intera  annata,  di  lire  30,00. 
Per  l'Estero  il  pagamento  deve  esser  fatto  in  oro. 

Della  prima  serie,  le  annate  II,  IV,  V,  VI  sono  esaurite;  le  al- 
tre, fino  alla  XX,  si  vendono  a  lire  25,00  l'annata,  e  a  lire  20,00 
le  successive. 

I  fascicoli,  che  risultassero  disponibili  dall'elenco  conservato 
in  Segreteria,  si  vendono  separatamente  al  prezzo  di  lire  6,25 
ciascuno.  Ai  soli  soci  si  accorda  lo  sconto  del  25%. 

Altre  pubblicazioni  della  Società  Napoletana  di  Storia  Patria  : 

1.  Monumenti  storici  (in-quarto). 

Capasso   B.,  Monumenta  ad  Neapolitani  Ducaius  Hisioriam  per- 

tinentia,  tomi  tre,  1881-5 I-  200.00 

\)K  Blasus  G.,Chronicon  Siculum  incerti  authoris  ab  anno  340  ad 

an,  1396  ex  inedito  codice  Ottoboniano  Vaticano,  ISSI.  ...»  20,00 
-AUDENzi  A.,  Ignoti  Monachi  Cisterciensis  S.  Marim  de  h errarla 

Chronica,  et  Riccardi  de  Sancto  Germano  Chronica  priora,  1888.  »  20,00 
De   Montemayor    G.,  Diurnali  di  Scipione  Guerra,  1891.  .    »     20,00 

Faraolia  N,  F.,  Diurnali  detti  del  duca  di  Monteleone,  1895.  »  20,00 
Abignente    G.  ,    Domini  Blasii    de   Morcone  :    De    differeniiis 

inter  jus  Lowjobardorum  et  jus  Romanorum  tractatus,  1912.  »  05,00 
\Olpi  cella  L.,  Ferdinandi  Primi  Jnslrucfirr'^-   ,'  •'.♦r  ^'  isr.  vsk 

con  note  storiche  e  biografiche  .      .  •     <>5,00 


II.  Documenti  per  la  storia,  le  arti  e  le  industrie  delle  province 

napoletane  (Nuova  Serie,  in-quarto): 
Bertaux  e.,  S.  Maria  di  Donna  Regina  e  l'arte  senese  a  Napoli  nel  secolo 

XIV,  con  figure  e  tavole,   1899 L.  35,00 

'!.  Varia  (ia-ottavo). 
(APASSO  B.,  Descrizione  di  Napoli  nei  principii  del  sec.  XVII  di 

GiULio  Cesare  Capaccio,  1882 »    5,00 

Capasso  B.,  Masaniello  ed  alcuni  di  sua  famiglia  effigiati  nei  quadri, 

nelle  figure,  e  nelle  stampe  del  tempo,  1897 »    7,00 

Del  Giudice  G.,  Commemorazione  di  Bariolommeo  Capasso  190O.    »    2,00 
C'.ocE  B.,  Relazioni  di  patrioti  napoletani  col  Direttorio  e  col  Con- 
solato e  l'idea  della  Unit<\  Italiana,  1901 »    3,00 

Capasso  B.,  Napoli  greco-romana,  opera  postuma  edita  da  G.  de 
Petra,  1905.  Un  voi.  rilegato  in  tela  col  ritratto  dell'Autore, 
con  16  tavole   intercalate  nel  testo  e  con  la  pianta  della  città 

greco-romana »  30.00 

De  Nicola  Carlo,  Dzarzo  napoletano  (1798-1825),  1905,  voi.  tre  .  «50,00 
Egidi  P.,  La  colonia  saracena  di  Lucerà  e  la  sua  distruzione,  1915   .  >  15,00 

Eqidi  P.,   Codice  Saraceno  di  Lucerà,   1917 s  30,00 

ScHiPA  M.,  La  così  deità  rivoluzione  di  Masaniello,  1919 »  10.00 

Sono  in  vendita  presso  la  Società  le  seguenti   aJtre  opere  : 

I.  Filangieri  di  S  atri  ano  Gaetano,  Documenti  per  la  storia,  le  arti  e  le 
industrie  delle  Provincie  Napoletane,  voli,  cinque  (il  primo  è  esaurito); 
II,  1884 ,  pp.  XXVIII-494  ;  III ,  1885  ,  pp.  XLIII-680  ;  IV,  1888  , 
pp.  XLVIII-548;  V,  1891,  pp.  XIX-627;  VI,  1891,  pp.  VIII-678  L.  187,50 

I  volumi  V  e  VI ...»  100,00 

II.  Biblioteca  Napoletana  di  storia  e  letteratura  : 

Percopo  e.,   //  Chariteo,  1892,  Un  voi.  di  pp.  CCXCIX    .    .  »       6,50 
C'AOcn  P.,  Lo  canto  de  li  cunti  (il  Pentamerone)  di  G.  B.  Basile, 

1891.    Un   voi.,    pp.    CLXXXIX-293 6,00 


AVVISO 


Lettere,  libri  e  manoscritti  debbono  inviarsi  alla  sede  della 
Società:  Piazza  Dante.  93. 

I  pagamenti  dei  soci  si  fanno  direttamente  o  per  mezzo  di 
vaglia  postale  al  signor  marchese  Giuseppe  de  Montemayor 
nella  predetta  sede. 

Per  l'abbonamento  e  la  vendita  dei  fascicoli  e  delle  altre 
pubblicazioni  rivolgersi  all'  editore  Luigi  Lubrano  presso  la 
sede  della   Società. 


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