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Full text of "Aristotile e il metodo scientifico nell' antichità greca: studi di storia della filosofia"

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STUDI 



DI STORIA DELLA FILOSOFIA 



DEL 



PROF. GIUSEPPE SOTTim 



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fipOGBiiiA DEI rr. Numi 
1873 



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INDICE 



Parte Prima. Della Filosofia greca e del Me- 
todo avanti Aristotile . . . pag 
I. Delle antichissime dottrine cosmogoniche ed eti- 
che. — Metodo Teologico. 

Condizioni originarie delVarte di pensare . » 
Le antichissime dottrine filosofiche greche non 

provengono dall'Oriente 

Teologi propriamente detti 

Teologi misti , . . 

Metodo de* Teologi 

Dottrine etiche primitive 

Etica Omerica 

Etica d'Esiodo e di altri 

II. I Naturalisti Jom'ci antichi. — Metodo dommatico 

naturalistico. 

La prima ricerca filosofica dei naturalisti 

Jonici 

Metodo 

III. I Pitagorici -— Metodo dommatico analogico. 

Condizioni della scuola Pitagorica . . • . 

Dottrine Pitagoriche 

Metodo dei Pitagorici 

IV. Gli Eleati. — Metodo dommatico Idealistico. 

Dottrine Eleatiche 

Metodo degli Eleati 

Prima forma della dottrina della fissità del 

pensiero 

L'assoluto, sua prima comparsa, sua debolezza 

filosofica 

La Dialettica e suo cominciamento .... 



IVI 

9 
11 
13 
14 
15 
16 
17 



20 
22 

25 
27 
29 

33 
37 

39 

40 
42 



V. i Neo-Jonici — Combinazione del Metodo Eleatico 

coli' ionico. 

Dottrine di Eraclito, Empedocle e Anassagora, pag. 44 

Democrito » 47 

Loro metodo » 48 

VI. I Sofisti. — Reazione contro il metodo dommatico 

e incominciamento del metodo critico. 

La Sofistica^ sua reazione al dommatismoj sue 

forme » 51 

La Sofistica e i costumi greci del tempo . . » 53 
Contenuto generale della Sofistica^ sue ten- 
denze enciclopediche . » 54 

Subiettivismo della sofistica. .*.... > 57 

U — homo mensura — di Protagora ... » 58 
Significato e importanza della reazione so^ 

fistica » 60 

VII. Socrate — Metodo dialettico, critico, concettuale. 

Opera filosofica di Socrate » 63 

Smaschera la falsa persuasione di sapere nei 

» contemporanei » 64 

Odio accumulato contro Socrate dalla sua ironia 

e dalla sua condizione di Sofista novatore. » 66 
Metodo di Socrate; esso stabilisce >la validità 

concettuale y» 69 

Vili. Platone — Metodo dialettico, idealistico. 

Le tre forme prese dalle dottrine Platoniche . » 72 

L'Eros filosofico » 73 

La Dialetticaj come sforzo per la copula ero- 

tica mentale » 75 

Il mondo Ideale e il mondo sensibile .... » 78 
Il viaggio premondano delle anime e la remi- 

niscenza » 80 

Natura delle Idee platoniche ...... > 82 

Metodo di Platone » 84 

Vizi di quel metodo » 85 

La fissità della scienza » 87 

Mobilità delle idee in senso di progresso . . 9 88 
Riassunto dei passi fatti dal metodo dagli 

Ionici a Platone. . ^ » 91 



— Ili — 

Parte Seconda. Del Metodo di Aristotile . . pag. 95 
I. Aristotile e l'opera sua. 

Condizione poco scientifica dei lavori prece- 
denti, e possibilità della scienza rigorosa. » ivi 
Lavoro di Aristotile » 96 

II. Arte di pensare e d! argomentare. — e special- 

mente della Dialettica. 

Varj gradi del pensiero di fronte alla certezza » 103 

L'argomentazione probabile e la filosofica , . » 104 
Distinzione Aristotelica tra la Dialettica e 

l' Analitica » 106 

Contrasto tra Aristotile e Platone su questo 

punto » 112 

III. Induzione, formazione dei principi, scienza imme- 

diata sperimentale. 

Non tutta la scienza è dimostrabile dedutti^ 

vamente » 115 

I principj indimostrabili e V Universale proven- 
gono dalla esperienza » 118 

Altrettanto è di alcune definizioni e dei ter- 
mini ..... ^ . . » 121 

L'induzione è la fonte di tutta la scienza im- 

mediata » 124 

IV. Classazione dei concetti, loro espressione. — Ragio- 

namento deduttivo. 

Le Categorie, classificazione dei concetti . • » 127 
La sostanzialità dell* individuo concreto, punto 

centrale della classificazione » 130 

Forma reale e mentale delle Categorie ... » 131 

Le Categorie secondo dottrine più moderne . » 133 

La Classificazione delle proposizioni .... » 134 

Teoria del linguaggio » 135 

Ragionamento deduttivo » 137 

V. Riassunto della Jeorica della scienza — Il Partico- 

lare e r UrJ/ersale in Aristotile. ~ Metodo 
empirico , critico , concettuale . 

Clie cosa è il vero metodo scientifico .... » 142 
Ammaestramenti cavati dallastoria dellescienze 

intorno alla base del metodo scientifico . » 144 

Le idee e la loro formazione » 147 



— IV — 

Massime metodiche . . . • pag. 149 

Condizione della Filosofia di fronte al me- 
todo scientifico » 151 

La Teorica della scienza secondo Aristotile . » 152 

L' Universale » 155 

Il Particolare sensibile » 158 

Metodo d* osservazione 9 161 

Metodo sperimentale p 162 

Uso della storia; stile . > 164 

Il dubbio metodico » 167 

Parte Terza. Saggi di • Dottrine di Aristotile 
richiamate a illustrazione del suo metodo. 
I. La Poetica . 

Scritti di Aristotile . » 171 

La Teorica della Poesia e il metodo adoperato 

in essa da Aristotile » 172 

Impossibilità di formulare il Bello .... » 174 

Dell' imitazione nelle arti belle > 175 

Le tre unità nella Tragedia » 179 

Lo scopo moì ale nell'arte » 181 

Ammaestramenti tratti dai modelli greci. , . » 183 

La natura maestra » 184 

Aristotile non è pedante » 185 

II. La Retorica. 

La Retorica innanzi Aristolile, I . . . . » 188 
Moralizzazione della Retorica per opera di 

esso > 190 

Il vero y come scopo dell'arte del dire, ... » 192 

La Retorica e la Dialettica » 193 

Materie trattate nella Retorica » 196 

Brano sui costumi dei giovani, dei vecchi^ e 

degli uomini di mezza età » 201 

in. Scienze Naturali. — Meteorologia e Zoologia. 

Gli studi dì Fisica e di Meteorologia ... > 206 

DeboLzze Aristoteliche. • » 207 

Astrazioni concretizzate » 208 

Esempi di trattazione fisica > 210 

Altro esempio > 212 

Dottrina di Aristotile sul movimento dei con- 
tinenti » 218 



— V — 

/ libri delle istorie degli animali pag. 2!^3 

Anatomia generale^ descrittiva e comparata, » 224 

Nozioni di Fisiologia » 227 

Classificazione degli animali » 228 

Falso metodo dei naturalisti scolastici ... » 229 

IV. La Biologia. 

Aristotile e i suoi predecessori negli studj 

sull'anima » 231 

L'anima come entelechia » 235 

L' anima principio vitale » 237 

La serie delle anime sino all'anima noetica, . » 240 

4 

Ufficio logico della Noùs » 241 

La Noùs come anima superiore. — Forma e 

Materia » J24S 

Il corpo celestiale luogo delle Forme e delle 

anime » 244 

Attività e passività nelV anima analogamente 
alla Forma e Materia nelle cose, — Intel- 
lectus agens, intellectus patiens .... » 245 

Mortalità c?e/nntellectus patiens » 246 

Valutazione delle dottrine Aristoteliche in or- 
dine alla presente controversia tra il Ma- 
terialismo e lo Spiritualismo » 249 

Dubbi intorno a tale controversia. La materia 

non può pensare^ > 250 

Graduazione e perfezione crescente nella scala 

dei fenomeid naturali » 251 

Lo spirito e V estensione » 254 

Erronea pretensione ne' materialisti di abolire 

la Psicologia in servigio della Fisiologia. » 255 

V. L'Etica. 

Le origini delle dottrine morali > 257 

Falsa via tenuta dalle Religioni » 258 

La Morale nelle mani de' filosofi » 259 

Dottrina di Aristotile. Il summum bonum nella 

Felicità » 263 

La funzione propria dell'uomo nell'atto del- 
l' anima conforme alla ragione .... » 266 
Metodo delle dottrine Aristoteliche nella trat- 
tazione dell'Etica > 269 



VI — 

( 

Difetto della base sistematica delle dottrine 

morali di Aristotile ..."..... pag. 272 
Impossibiliià di conoscere il Buono assoluto . » 275 
Relatività del Buono, e significato di questa 

relatività » 277 

VI. La Metafisica. 

La parola « Metafisica » e la Scienza delle 

cause prime » 280 

Aristotile cadde nel difetto de^ filosofi prece- 
denti di scambiare in queste ricerche i con- 
cetti astratti colle realità concrete , . . » 281 

Continuazione di questo difetto nella Metafisica 

di poi » d83 

Esempio del metodo Metafisico nella formazio- 
ne del concetto di Dio » 285 

Alcune dottrine metafisiche di Aristotile. — 

Il Primo Logico » 289 

Gli assiomi non si formano per opera del me- 
todo metafisico » 292 

Necessità metafisica, fisica e logica^ loro vero 

significato ». 293 

Primo Ontologico aristotelico ...... » 295 

Primo Motore immobile t 297 

Critica della teorica Aristotelica delle Cause — 
La Metafisica è una scienza tutta^composta 
di ipotesi e .... . > 299 

La distinzione tra Materia e Forza è soltanto 

di uso mentale » 300 

Della nozione di Causa » 301 

La Causa esprime sempre un come e non un 

perchè . » ivi 

Differenza tra le ipotesi scientifiche e le cause 

ipotetiche metafisiche » 302 

La ricerca delle cause prifne é speéso nociva 

alla ricerca delle vére caU^e » 304 



PARTE PRIMA 



DELLA FILOSOFIA GRECA E DEL METODO 



AVANTI ARISTOTILE 



«^^«^■1^1^ «-aa^Mik^^i^kAM 



AVVERTENZA 



Il lavoro, die presento al pubblico, ha peculiarmente in 
mira la valutazione dei gradi di miglioramento, pei quali è 
passato il metodo scientifico nelV antichità greca. 

La prima Parte darà un rapido sguardo alle condizioni, 
nelle quali trovossi, rispetto al metodo, la filosofia greca 
avanti Aristotile, la quale compendiava in se qtiasi tutta la 
scienza di quel tempo. 

La seconda Parte tratterà della vera fondazione della 
scienza compiutasi per opera di Aristotile colla legislazione 
logica. La terza Parte presenterà alcuni saggi del lavoro di 
Aristotile, allo scopo di apprezzare l* usq fatto da esso del 
metodo scientifico, nella trattazione delle singole materie, 
colle modificazioni adattate alla natura di ognuna di esse, 
secondochè comportava la ristrettezza dei mezzi allora pos- 
seduti dalla scienza. 

L'indole e lo scopo di questo scritto mi obbligano a rac^ 
cogliere e accennare di volo quel tanto delle dottrine degli 
antichi filosofia che può conferire ad illustrare l' analisi 
del loro metodo, e rimandare il lettore, desideroso di una più 
ampia conoscenza storica, ai migliori trattati di Storia 



— 6 — 

della Filosofia greca, dei quali io stesso mi sono servilo, e 
specialmente ai seguenti: 

Zeller. Die Philosophie der Griechen. 

Brandis Handbuch der Geschichte der Griechisch-Rumi- 
schen Philosophie. 

Schwegler. Geschichte der Philosophie 

Ueberweg. Grundriss der Gesch. der Phil. 

Bertini. La Filosofia Greca prima di Socrate. 

Stahr. Aristotelia. 

Ravaisson. La Métaphysique d'Aristote. 

Barlhélemy Saint-Hilaire. La Logique d Aristote. 

Altre opere, che illustrano le dottrine dei diversi filosofi e 
di Aristotile, verranno richiamate nelle citazioni> 



PARTE PRIMA 



Delle antlelilssline Dottrine Cosmosonl- 
ehe ed Etlehe — Metodo Teologleo. 

Non v' è forse alcun che di più attraente, e ad un 
tempo più utile a studiare, dei tentativi fatti dalla ragione 
umana, per arrivare ad un sicuro metodo nella ricerca del 
vero, quale sì vede oggi praticare dalla maggior parte delle 
scienze. 

L'arte di pensare, sebbene la si debba nei suoi primordj 
ad uno di quei fatti originarj e spontanei della specie uma- 
na, ai quali si debbe Y iniziamento di tutte quante le varie 
forme della attività di essa, è per altro un arte difficile e 
complicata, e non si arriva a possederla nella sua perfezio- 
ne, se non che colla notizia piena di tutti gli strumenti 
usati in quell'arte e di tutte le maniere di adoperargli. È 
per questo, che essa è venuta ad un grado elevato di sicu- 
rezza soltanto a passo a passo, cominciando da un arte 
rudimentale, per finire in un arte riflessa, consapevole, 
illuminata. 

Come i primi navigatori viaggiarono il mare gettandosi 
alla ventura, e perdendosi nella immensità delle acque, e 
poi gradatamente incominciarono ad orientarsi con alcune 
astuzie di arte marinaresca, e soltanto diventarono padroni 
del loro cammino colla cognizione del cielo e colla scoperta 
della Bussola; può dirsi, che il simigliaate è iatravvonuto 



— 8 — 

agli scienziati, i quali hanno con lunghi sforzi acquistato il 
dominio del mare del pensiero. Anche nell'arte, che dovea 
produrre la scienza, vi furono la confusione e il buio dei 
primi tentativi, e i pericoli di un lungo errare nella immen- 
sità dell'ignoto, prima di trovare la guida di sì incerto 
cammino. Le speculazioni teologiche dell'antichità si asso- 
migliano anche troppo agli errori dei primi naviganti. Come 
dalle speculazioni teologiche si passò alle speculazioni filo- 
sofiche? Come in queste si cominciò con passi mal fermi, 
per arrivare ad un metodo sicuro di ricerca? Come dall'au-* 
torità religiosa si passò all'autorità personale dei maestri, 
e dal loro dommatismo all'obbligazione razionale, alla auto- 
rità scientifica? Queste dou^ande trovano la loro risposta 
nella storia della Filosofia Greca dai tempi primitivi sino 
ad Aristotile. Con Aristotile la scienza è insediata sulla sua 
base vera, sulla dimostrazione rigorosa. 

Cotal risultato è tanto grande, che merita conto stu- 
diarlo a minuto, ed è tanto fecondo d'insegnamenti anche 
per la scienza presente, che non riuscirà inutile farne tesoro 
per la nostra pratica scientifica. Il metodo è il complesso di 
tutte quelle regole generali e speciali, che sieiio capaci di 
condurre la speculazione scientifica a raggiungere la cer- 
tezza^ suo scopo connaturale. Queste regole non furono 
trovate d'un tratto, ma in diverse età e da diversi pensa- 
tori, e provando e riprovando se ne raccolse quel tanto, 
che resse all' uso e alla critica. Lo studio della storia del 
metodo, è pertanto di massima utilità, affinchè non ne 
incontri di adoperare^ alcuna di quelle regole, che furono 
riprovate dall' uso, con trascuranza di quelle, che i buoni 
frutti sanzionarono definitivamente. 

Per ciò che concerne la Filosofia in particolare, un tale 
studio della storia del metodo deve considerarsi oggi non 
pure come un vantaggio, ma come una vera necessità^ 
Poiché non farebbe meraviglia, se ci venisse fatto di scuo- 
prire, che in molti punti, e massime nel metodo, la Filo- 



— 9 — 

sofia (li certe epoche recenti sia indietreggiata e peggiorata 
in confronto dell' opera di Aristotile. 

Della vieta opinione, che la Grecia prendesse in pre- 
stito la sua filosofia dall' Oriente, è stato ormai fatto giusti- 
zia dalla critica ; e non v' è al presènte persona mediocre- 
mente versata in cose di storia filosofica, che non sappia, 
come Quella opinione, nata e avvalorata tra i Neoplatonici, 
è priva di ogni fondamento di verità (*). Tutte le dottrine 
degli antichi filosofi greci sono cosi semplici e così originali, 
che impossibile riesce illudersi sul conto loro, e bisogna ri- 
conoscerle come una ricerca primitiva e infantile, non vi si 
jiscontrando che ben poche traccio e tardive di lavoro stra- 
niero. Non vi è alcun conflitto tra le dottrine greche e le 
estranie, nessun richiamo alle tradizioni scientifiche del 
passato, nessuna di quelle servilità, che segnalano una filo- 
sofia dipendente da un' altra, quali s' incontrano nella sco- 
lastica. La filosofia greca de' primi tempi è una scienza che 
comincia. 

I Greci inoltre poteano forse a quel tempo imparare 
alcun, che in filosofia dagli altri? Nessun popolo asiatico 
aveva allora una filosofia. Aveansi delle Teologie e delle 
Cosmogonie; ma queste si perdevano tanto nell'antichità, 
ed erano cosi stranamente fantastiche, che i Greci non vi 
poteano prender gusto, essi che non faceano quasi buon viso 
ai lor propri miti puramente teologici. Quando nacquero 
le prime Teogonie e Cosmogonie greche, ebbero anch' esse 
fisonomia propria, ben diflferente da quella delle orientali; 
e quasi unico si può citare un concetto sceso dall'Oriente, 
la Metempsicosi, che prese posto nelle concezioni cosmo- 
goniche dei Teologi greci. 

D'altra parte vi si opponeva la condizione generale 

(*) Zeller. Die Philosophie der Grìechen. l.'»" Theil. s. 18. 
— Barthelemy Saint-Hilaire , Traile de la Production et de la 
dobiruction dea choses d'Aristote. Introd. p. CLXX. 



— 10 — 

della cultura greca, la quale non era tanto avanzata da 
potere render facili le comunicazioni colla scienza orien- 
tale ; che anzi rarissima fu tra i Greci la cognizione delle 
lingue straniere, e poverissima la Ermeneutica, che sola 
potea guidargli nella interpetrazione di libri asiatici dif- 
ficilissima. Questi ostacoli interni erano tali , che di per 
se bastavano ad annullare il frutto di qualsiasi - comuni- 
cazione coir Oriente in fatto di scienza. 

Nella cultura primitiva dei greci non può dunque tro- 
varsi che rarissime traccio di dottrina prettamente orien- 
tale. Vero è, bene, che i Greci dalla sede comune asia- 
tica della razza ariana anticamente portarono seco e lingua 
e costumi e tradizioni mitologiche, ma tutto in condizione 
rudimentale, che fu ben presto contraffatto in tal modo, 
e composto ad indole nazionale , da non rintracciarsene 
senza molto acume scientifico la provenienza e i carat- 
teri uniformi della razza originaria. Al primo apparire 
del pensiero greco ci troviamo tanto distanti dall' epoche 
di quella cultura elementare, che la formazione della vera 
indole greca ha già scancellato i tratti più riconoscibili 
della cultura ariana. E così che quando si crearono delle 
Teologie e delle Cosmogonie, queste ebbero indole nazio- 
nale, e furono improntate del genio caratteristico de' greci. 

La Religione è sempre la forma, nella quale si svolge 
la prima volta una tal quale conoscenza delle attinen- 
ze fra le cose, e studiasi l'azione di invisibili forze e 
delle leggi universali. Questa ^ forma religiosa si spinge 
tanto oltre e foggia le credenze de' primi speculatori in 
tal guisa, che quanto nel mondo avviene, si attribuisce 
ad occulte ragioni; si forma il concetto, che l'azione di- 
vina si estende a tutte le parti del mondo; è la sola 
sapienza degli Dei che si ravvisa nel lavoro deiruniverso: 
dimodoché il più antico soggetto delle vkevthQ umane è 
lo studio e lo scuoprimento delle traccie di questa sapienza 
nelle leggi universali. E per questa guisa i primi tenta- 



— Il ^ 

tivi della specuLazione sono sempre comparsi sotto forma 
di Teologia. 

Col nome di Teologi nelle origini della scienza greca, 
hannosi a comprendere due classi di pensatori , una di 
Teologi propriamente detti, ed una di Teologi misti^ come 
gli chiama Aristotile, i quali non hanno abbandonato il 
vecchio metodo teologico, e tuttavia sono anche un poco 
proclivi verso il nuovo metodo filosofico , che sta per 
nascere. 

E prima d'ogni altra cosa rammenterò, come non si 
possa, nello stato presente degli studi critici, riconoscere, 
come speculazione teologica antica, tutta quella massa in- 
forme di tradizioni, che vanno sotto il nome di. Orfiche. 
Cicerone, il quale aveva a mano opere di Aristotile, oca 
perdute, attesta, come esso ritenesse un' impostura la esi- 
stenza d'Orfeo (^). E lo stesso si ricava dal modo, che tiene 
Aristotele nel citare le tradizioni Orfiche, chiamandole, le 
così dette poesie d' Orfeo (*). Del resto, è noto che quelle 
tradizioni , se antiche , furono ai tempi dei Pisistratidi 
rimaneggiate per opera di Onomacrito, e questo basterebbe 
a spogliarle di qualunque autenticità. 

Il popolo greco, dotato di così elevate facoltà, fu portato 
a speculare sulle origini del mondo; e fin d'allora dio un 
saggio di quel genio naturalistico , che lo differenziava 
da' popoli orientali, e che dovea renderlo in seguito ca- 
pace di creare le scienze e le arti. Le nozioni, se così può 
dirsi , le più greche di Cosmogonia antica si hanno da 
Esiodo ('), il quale peraltro non è neppure esso esente da 
qualche interpolazione (*). Esiodo appartiene alla classe 

(') De Nat. t. I, 38. Orphcam po(5tam docet Aristoteles nnm- 
qnam faisse. 

Q) Ti xa).oiiuiy2 *Ooc»£w; ìnn, ri 'Op^txi xa/o'u«va Ir». 

(•) Herod. II. 53. àjtoi Sk ("OariDo; xat 'lIfflo(?o; ) ecVi oi Trot- 

(*) V. Schoemann. Hesiodische Thoogonio. . 



— 12 - - 

dei Teologi propriamente detti, che ho sopra indicato; ma 
digià le sue fantasie sono spogliate di ogni preconcetto 
sacerdotale, si sente un profano che medita di problemi 
sacri; la teologia è già secolarizzata. La ricerca delF ori- 
gine delle cose non ha in Esiodo quell'indole prettamente 
teologica, che proveniva dall'interesse, ne* sacerdoti^ di van- 
taggiare questa o quella divinità, e cattivare ad essa la 
buona opinione della geote, facendola comparire regola- 
trice del mondo; ma non ha neppure l'importanza scien- 
tifica, che si dette in seguito alla ricerca delle fonda- 
menta dell'essere. E invece una curiosità quasi infantile, 
di sapere chi abbia fatto e regoli il mondo. E nella Teo- 
gonia d'Esiodo si risponde a questa domanda in senso 
politeistico, il quale fa un bell'accordo con tutte le idee 
greche le più popolari. Le parti del mondo e i suoi 
più mirabili fenomeni sono personificati in molti Dei, e si 
riesce così a descrivere la produzione del mondo stesso 
col distendere un altero genealogico degli Dei, una Teo- 
gonia. - 

Oltre a ciò la più gran parte di x^otale genealogia é 
ispirata da giuochi di immaginazione, è spesso un trave- 
stimento di fenomeni naturali sorpresi nella loro appari- 
scenza, più che nella sostanza. Così *Epe/2oà colla NO^ ge- 
nera Al Brip e Hfispoc perchè il giorno col suo splendore 
è come figlio della notte e delle tenebre: la terra parto- 
risce di se il mare e in congiunzione col cielo i fiumi, 
perchè le sorgenti dei fiumi si alimentano* della pioggia 
celeste, e il mare sembra che scaturisca dalla profondità 
della terra. 

Il problema naturale posto dai Teologi non era, quali 
fossero le condizioni o cause in mezzo alle quali si pro- 
ducessero i grandi fenomeni della natura; essi non cer- 
cavano che cosa è che produce il tuono , il fulmine , il 
terremuoto, ma chi tuona, chi fulmina , chi fa tremare 
la terra. E i greci de' tempi d'Esiodo erano soddisfatti 



quando sì raccoiiLava Idi'o, che Zeus o Poscidon faceva 
tutte queste cose. Il porre loro dinanzi una spiegazione 
fisica, non solo sarebbe stato di poco accontentamento, 
ma assurdo e ridicolo ed empio ('). 

In tutto questo lavoro si fa manifesta una investiga- 
gazione della natura fatta non coli' intelletto ma colla 
fantasia, una teorìa mitica e non scientifica. Il che si fa 
anche maggiormente manifesto dal considerare, che colali 
cosmogonie non si debbono alla speculazione individuale dei 
poeti teologici, ma bensì al lavoro popolare delle prime raz- 
ze greche, le quali sulle tradizioni mitiche d'origine asiatica 
racchiuse nel patrimonio linguistico svolsero la loro mito- 
logia antropomortìca ; i poeti ne furono collettori ed in- 
terpetri. Ne accadde in seguito a ciò, che la scienza na- 
turalistica de' primi filosofi venuti poi, sebbene fosse assai 
meschina, pur quasi nulla ritenne de' concetti cosmogonici 
primitivi, tranne il Caos ed Eros. 

Esiodo è dunque il tipo de' Teologi greci , tipo ben 
perfezionato se si voglia confrontare a' Teologi saceiilotali 
specialmente asiatici od egiziani. Questa maggior perfe- 
zione la si deve al gusto del popolo greco, popolo che 
esigeva un pascolo più umano che non fossero le mostruo- 
sità orientali , e che non avrebbe certimente tollerato le 
astruse dottrine de' templi di Isis o dì Brdhma. E per la 
stessa ragione si rendea necessario altresì vestirgli dì forme 
poetiche la pomposa vanità della Teologia. 

Ai Teologi-poeti primitivi successero alcuni Teologi 
misti, che tentarono anche più decisamente di scuotere il 
giogo delle tradizioni sacerdotali , avviandosi ad una inve- 
stigazione libera. Aristotile gli designa egregiamente chia- 
mandoli misti, perchè non dicono tutto miticamente, e 
fra questi il più noto è Ferecide ('). 



0) Orote. Plato I. p. 2. 
CTTct M'yitv, aiav tip ikìJbì xi 



iripot xim . ■ UetaT. XIIL 4, 4. 



— 14 — 

Esso fa contemporaneo, credesi^ di Talete, e scrisse 
un libro di Cosmogonia , di cui restano soltanto fram- 
menti (^). Insegnò esservi tre principj delle cose, Zeus, 
Chronos e Chthon. Chthon era per esso la terra coi mari, 
Chronos il cielo più prossimo alla terra, Zeus il cielo al- 
tissimo. Chronos generò del suo seme il fuoco, il vento 
e l'acqua. Zeus generò Eros, virtù formatrice del mondo, 
mentre upa caterva di Dei subalterni sotto la sorveglianza 
di Chronos presiede all'ordine di esso. Il più notevole tra i 
concetti di Ferecide è senza dubbio la distinzione da esso 
posta tra la materia e la virtù ordinatrice. Air infuori di 
questo concetto, poco altro pu^ trovarsi di filosofico nei 
frammenti rimastici di quelle specula/ioni. 

Dalla condizione generale delle dottrine teologiche è 
facile ricavare, come loro propria caratteristica sia la asso- 
luta mancanza di metodo. E perciò quando si nomina il 
inetodo teologico^ si adopera questo linguaggio per pura 
necessità di forma^ dappoiché come apparisce, vi è una 
coptrapposizione e una ripugnanza fondamentale tra il me- 
todo e la speculazione teologica. Che cosa è che guida le 
ricerche dei Teologi antichi ? Qual norma di ragionamento 
dà valore alle loro sentenze? Sarebbe diflScile l'indovinarlo. 
. Nella stessa guisa che ai poeti non si può domandare una 
ragione scientifica delle loro finzioni, così sarebbe vano 
domandarla ai Teologi. E così bisogna ritenere che essi 
non ci presentano della scienza, ma soltanto un preambolo 
ad essa, preambolo bensì che ella dovrà dimenticare, se 
pur vuole acquistare solidità. 

La ragione precipua di cotale mancanza di metodo nei 
Teologi, ò l'uso, che essi fanno della fantasia^ in luogo 
della ragione. Aristotile si fa beffe delle cause assegnate 
dai Teologi a certi fenomeni mondiali, ed attribuisce ad 

(*) Pherecidis fragmenta collegit, emend. et illastr. Fr. G. 
Sturz. Lipsiae 1824.' 



— 15 — 

ossi l'ambizione di darsi un tono più tragico della gente 
di buon senso. « Gli antichi e quelli che si occupano di 
teologia, suppongono che il mare ha delle sorgenti .... 
Eglino si sono forse immaginati che questa era una maniera 
di dare un carattere più elevato e più tragico alle loro 
spiegazioni .... ed essi hanno creduto, che il cielo tutto 
intiero non era fatto che in siervigio di questo punto ( la 
terra ) attorno al quale era costituito, e che sarebbe il più 
importante e il principio di tutto il resto. Ma le persone 
più sagge, d' una saggezza puramente umana ec, . . . » (*) 

Questo rimprovero di posa tragica che Aristotile getta 
in faccia ai teologi, mostra come esso credesse poco alla 
loro buona fede e invece gli sospettasse gravemente di ciur- 
merla. Del resto è ben chiaro il ripudio che essi facevano 
della ragione, è chiaro non potervi esser metodo laddove la 
ragione prende appena un piccol posto come facoltà elemen- 
tnre, in luogo di essere signora assoluta e direttrice di tutto 
il lavoro mentale. Ben è vero, che anche ' in seno alla 
scienza la ragione non acquistò così prontamente, come era 
a desiderare, codesta preponderanza; e i progressi del suo 
dominio segnano i progressi del metodo. Ma in seno alla 
teologia è tale una sproporzione tra la fantasia e la rifles- 
sione intellettiva, che i caratteri della scienza non vi com- 
pariscono neppure nei loro minimi gradi . 

Una notevole differenza passa tra le prime ricerche 
cosmogoniche e le prime sentenze di Etica, avuto riguardo 
specialmente al loro valore e al grado di sicurezza razionale 
che presentano. Nella cosmogonia si hanno incertezze 
infinite di speculazione, fantasie poetiche, cause misteriose; 
neir Etica invece, sin dal suo nascere, s'incontra una legge 
inconcussa, che può essere in seguito meglio approfondita 
e applicata, mai sconfessata^ una sicurezza di risultati e 
un'affermazione incrollabile di obbligazioni morali, una 

(') Meteor. II, 1. 2. 



— 16 — 

prepotente idea del giusto. I popoli dotati di elevat§ facoltà 
toccano rapidamente questo grado di sicurezza nelle inve- 
stigazioni etiche; e i Greci ne mostrano un esempio lumi- 
noso . 

La ragione di questo fatto si trova nella indole propria 
della scienza morale. Il vero, per essere cercato e trovato, 
ha bisogno di un lungo tirocinio mentale, col quale si. scuo- 
pra la via che mena ad esso; il vero non porta in se i 
segnali della sua autenticità, e questa non può riconoscersi 
che constatando la provenienza delle conclusioni e riper- 
correndo la via che ha menato ad esse; il bene al contrario 
porta in certo modo con se le impronte, che lo distinguono 
dal male, e lo spirito è capace di carpire quelle impronte 
con un cotal senso intimo, che fa in questo caso le veci 
della ragione. Queir intimo senso, benché abbia anch' esso 
bisogno di un tirocinio per arrivare alla pienezza del suo 
ufficio, è per aUro assai più precoce che non la ragione. Il 
che si riscontra nei popoli, come nei fanciulli, i quali più 
precocemente arrivano ad apprezzare il bene e il male, che 
non il vero ed il falso. Si gli uni che gli altri per sapere se 
una cosa è vera o falsa, è mestieri, che apprendano a 
ragionar legittimamente su di essa, e che siano informati 
del modo per arrivare alla dimostrazione; ma per sapere se 
una azione è buona o cattiva, nella maggior parte dei casi 
non hanno alcun bisogno di ragionamento. In luogo del 
quale sta il sentimento connaturale del proprio benessere, 
quasi formulantesi in un precetto di rispetto per se e per 
gli altri. 

E per questo, che la riflessione etica si è andata for- 
mando con maggior sicurezza, e la flJosofla dei tempi dipoi 
ha dalla sapienza primitiva accettato i materiali per la 
scienza Etica, mentre ha dovuto gettar via tutte ,le fanta- 
sticherie cosmologiche. 

Già nelle poesie Omeriche comparisce una libertà e 
chiarezza di spirito, un senso armonico, una appreziazione 



quasi istintiva del bello e del buono, una sapienza elemeu- 
tare, che onora la fancidlozza dell'Umanilii. E sopratutto, 
meglio che sapienza di sentenze, sapienza di fatti, di carat- 
teri e di avventure. Achille nella sua forza, uell' amicizia 
per Patroclo, nell'umanità verso Priamo, Ettore nel suo 
simpatico patriottismo, nel suo coraggio, Andromaca nella 
sua tenerezza di sposa, Agamennone nella sua regale mae- 
stà, Nestore nella sua saggezza, Ulisse nella sua prudenza, 
Penelope nella sua fedeltà formano l' incarnazione di con- 
cetti morali elevati e attestano di una provetta sapienza di 
vita. Anche alcune brevi sentenze ne fanno testimonianza, 
come un grido eccitatore dei capi, che esprime un pensiero 
sublime nella sua semplicità: « siate uomini » come le belle 
parole di Ettore sul cimentarsi per la patria, e come tutte 
le sentenze, che si incontrano tratto tratto nei poemi Ome- 
rici, appropriate alla vita, alla divinità, alle virtù ed ai vizj. 
Tutto ciò mostra nel popolo greco dell'epoca Omerica una 
singolare attitudine all'apprezzamento dei fenomeni morali. 
Non mancano dei tratti che rappresentano la barbarie 
dell'epoca Omerica, come l'incrudelire di Achille sul cada- 
vere di Ettore. Ma queste macchie non annidlano il valore 
della sapienza morale già acquistata dagli uomini di quel- 
l'età; provano soltanto che la riflessione applicata alla 
moride è progressiva e perfettibile, come lo è in qualunque 
altra delle sue applicazioni . 

Benché in disposizione diversa, cioè a modo di precetto 
e non di esempio vivo, troviamo Io stesso in Esiodo. Le 
idee della giustizia e della rettitudine vi dominano. Giove 
sta a guardare le opere degli uomini in perpetua vigilanza, 
disposto n punirle, se malvagie, e premiarle, se buone. 
Esiodo raccomanda la parsimonia, la diligenza; eccita a 
tere il sentiero faticoso della virtù, e allontanarsi da 
P'jafillo facile del vizio; consiglia la amorevolezza verso ìl 
|«vasÌrao, la condiscendenza verso tutti quelli che sono con- 
discendenti con noi. 



— 18 - 

Col primo apparire del pensiero filosofico greco, questo 
tesoro di morale si accrebbe. A ciò contribuirono i cosi 
detti Gnomici (sentenziosi) che ci sono giunti mescolata- 
mente senza distinzione di tempo, e fra i quali si deve 
annoverare anche Solone, Focilide e Teognide. Nella" 
prima metà del sesto secolo viveva Esopo, che dette tanto 
lustro ad una delle maniere di insegnare la morale, da 
doventarne modello. Gli Gnomici del sesto secolo ebbero 
opportunità dì applicare le massime della giustizia anche 
agli ordinamenti degli Stati^ e ne derivò una nuova specie 
di precetti e di sentenze morali intorno alla giustizia pub- 
blica e sociale. Solone e Licurgo diventarono celebri legi- 
slatori in questa scuola. Fra le loro massime sociali ne 
risaltano alcune, che non disdirebbero al senno di una 
società più provetta, come le seguenti: che non può aversi 
Stato felice, se non è retto da leggi rispettabili e rispettate; 
che la licenza e la discordia dei cittadini sono il massimo 
delle calamità^ l'ordine e la legge il più grande dei beni; 
che è mestieri vi sia diritto e libertà per tutti, sommissione 
di tutti alFautorità, equa ripartizione di onori e potenza, 
come cardini, che un legislatore debba fissare per render 
felice uno Stato. 

L'antichità stessa ha consacrato il principio e lo svolgi- 
mento elementare della sapienza etica colla tradizionale 
rinomanza dei Sette Savi. Le loro dottrine ci sono pervenute 
assai guaste e manchevoli, del pari che i loro nomi, ma la 
loro tradizione è viva e presente in tutto il tempo storico 
della Grecia; il che mostra come il lavoro di etica attribuito 
ai Sette S|avi abbia lasciato profonde traccio nella vita del 
popolo greco. 

Se si considerano queste dottrine morali dal lato del 
metodo, si trova che elleno sono un prodotto di metodo ele- 
mentare, ma non si può a meno di riconoscervi un progresso 
sul metodo teologico dei cosmogonisti. Tenuto conto anche 
della differenza generica tra le dottrine morali e le cosmo- 



- 19 — 

geniche, accennala di sopra, "e pur avendo presente quanto 
la via del vero sia più difficile a tracciarsi, che la via del 
buono; rimane sempre in favore dei moralisti dell' antichità 
una tendenza al positivo, al pràtico, un aborrimento dalla 
sonorità vuota, una costante e saggia delimitazione di con- 
cetti, che fanno il pregio del loro metodo in contrapposto a 
quello dei Teologi. Essi parlano bensì in nome e autorità 
propria, e sono Dommatici; essi non danno fondamento 
alle loro ricerche, e le loro dottrine non isvolgono come 
catena di ragionamento, e sono Aforistici: ma già non 
parlano quasi più in nome di alcun Dio conoscono V esi- 
genza morale, già il vizio è vizio, e virtù la virtù non per 
alcun domma uscito dalla antichità mitica, ma per pronun- 
ziato di coscienza umana. Il metodo che ha portato a così 
fatti risultati è tanto superiore a quello dei Teologi, che 
sebbene non sia il metodo scientifico della morale, è tale 
per altro da porre un evidente contrasto tra i suoi pochi ma 
sicuri prodotti e le fanciullesche concezioni dei^cosmogonisti. 



— so- 
li. 

1 Naturalisti Jonid antichi. — Metodo dommatico 

naturalistico » 

Quando sì incominciò a rivolgere la mente, scevra di 
ogni pregiudizio mitico, alla considerazione delle cose del 
mondo, si arrivò ben presto a riconoscere che dovea esservi 
un che di fondamentale nella varietà degli esseri, un che 
di elementare come base di tutte le formazioni complete. 
Fosse egli questo un puro concetto della mente o la rap- 
presentanza di alcun ente reale, certo è, che T at tenzione 
dei primi filosofi si fermò su questo concetto, e si die alla 
ricerca di questo fondamento della natura. Trovai*e un 
principio elementare, che spieghi la formazione dell'insieme 
delle cose, trovare una base fissa in fondo alla variabilità 
delle molteplici manifestazioni della natura, ecco il proble- 
ma di tutta la filosofia avanti Socrate. 

I filosofi tuonici non posero questo problema in tutta la 
sua ampiezza, ma si ristrinsero alla natura esteriore, alla 
materia, (^) e la ricerca Jonica fu questa: quale degli elementi 
naturali è T elemento fondamentale? Alcuni di essi riten- 
nero che fosse V acqua, altri V aria, altri una materia 
caotica. 

Talete Q) fu il primo a porre in questa maniera il pro- 
blema filosofico, e a risolverlo, dicendo, che V acqua è il 
principio di tutte le cose. (') Aristotile riporta certe osserva- 
zioni, che dovettero servire di appoggio a Talete per arri- 

(') Anchd Aristotile accenna essere stata questa la itianiera di 
pensare della maggior parte fra quelli, che primi filosofarono. 

Metaf. I, 3,2, segg. ctcóv ^n tt^ùto» ^(^oero^Tio'àvruv oi Tr^ccorot ràc sv 
w*X»JC eiVet fiiovac ùiQ^yieray OLpyk^ €i%ai Travtuv ...» 

(') Fiori dal 620 al 560 av. G. C. 
(») Arist. Metaf. I. 3. 



,.v.^.«% ■-r.-jii^4-- ^•'•iK:T*^''''S, 



- 21 - 

vare acciai conclusione, osservazioui elementari ma iuiiior- 
tanti, cioè che la soinenza degli animali e il loro nutrimento 
sieno umidi, che il caldo si sprigioni dall' umidità, che 
generalmente r umidità siala formatrice e la raantenilrice 
della vita, la quale per seccore eccessivo perisce. 

Il merito di Talete di fronte al metodo filosofico, consi- 
ste nell' essere egli stalo il primo a tìlosofai-e in via di 
ragione e non d' ira magi nazione. Mentre Omero coi Teologi 
faceva padre di tutte le cose l'Oceano, persona mitica 
rivestita fanlaslicamenle dì poteri soprannaturali, Talete 
poneva invece la sostanza materiale dell'acqua, nella sua 
condizione di natura, come universale fondamento di pro- 
duzione alle cose. Questo pensiero di appoggiare per la 
prima Tolta il suo principio fisico su basi diverse dalle 
mitologiche per porre il piede sul terreno della scienza, 
fece dare a Talete il titolo Aristotelico ben meritato di 
«Istitutore di colai Filosofia (della Natura) ». A questo 
egli si era disposto, se vuoisi prestar fede a certe tradi- 
zioni, eoo degli studj positivi di Astronomia, coi quali 
sarebbe giunto a predire un ecclisse solarc_, (') e di Geome- 
tria, che esso avrebbe il primo insegnata alla Grecia (*). 

Anassimandro, che alcuni vogliono scuolaro, altri con- 
temiioraneo di Talete, dette più ampia forma alle dottrine 
di esso ('). Per risolvei-o il problema filosofico sovraindi- 
cato non pose a fondamento della natura nò l'acqua, uè 
l'aria, né altro determinato elemento, ma un miscuglio 
primitivo di tutti gli elementi, innanzi che avessero acqui- 
stato la loro attuale determinazione, e lo chiamò appunto 
«t l'indeterminato » ts «irsipoi' (*). Le sosUmze naturati 
dovettero sprigionarsi dal seno di questo indelei'minatQ 



{') Erodoto I. 74. 

(') Proclo comm. ad Eaclido. 

(•) Nacque a Miloto nel 611 av. G. C. 

(') Arisi, l'hya. Aqso. III. 4. 



— es- 
cono svegliarsi di ciascuna delle sue forze latenti. E dubbia 
la interpetrazione precisa da doversi dare a questa sostanza 
elementare di Anassimandro, ma come dall' un lato essa 
non era alcuno degli elementi, non era per altro immateriale; 
ma probabilmente era una materia prima, da cui non eransi 
ancora sprigionati e formati gli elementi, non determinata 
né per la qualità né per la quantità, ma non affatto un 
principio dinamico, bensì un fondamento materiale; infine 
V indeterminato di Anassimandro può ritenersi come una 
espressione filosofica di ciò che i Teologi chiamavano miti- 
camente il Caos, e che modernamente potrebbe immaginarsi 
somigliante ad un miscuglio di tutti gli elementi posti in 
istato di indifferenza chimica . 

Fra le cose notabili circa le dottrine di Anassimandro 
non bisogna trascurare, che fu esso il primo a chiamare 
principio ( ifx^ ) la sua sostanza elementare . 

Anassimene (*) tornò a ravvicinarsi alle vedute fonda- 
mentali di Talete. Egli pòse a principio del Mondo un aere 
illimitato, che è in perpetuo moto, dal quale fossero formate 
tutte le cose ò per dilatazione, come il fuoco, o per conden- 
sazione, come la terra, l'acqua, la pietra. Esso osservò che 
' l'aria abbraccia tutto il mondo, e che il respirarla assicura 
l'attività della vita animale ('). 

Tutti questi concetti, che a noi sembrano puerili, rappre- 
sentano quasi i primi vagiti della scienza. Quando si pren- 
dono in considerazione dal punto di vista in cui siamo 
collocati noi, si vede quanta distanza v' é dal metodo degli 
Jonici^ al metodo scientifico. Ma se scendiamo dal culmine 
della scienza moderna per mescolarci a quei primi pensa- 
tori, ci dovrà far meraviglia invece che essi abbiano in cosi 
piccolo spazio di tempo saputo staccarsi dalle dottrine 
fantastiche dei Teologi, da cui l' oriente non erasi saputo 

(•) Fiori verso il 500 av. G. 0. 

(') Schwegler Geschichte der Phil. p. 8. 



23 — 

staccare in tanti secoli. Il merito principale infatti del 
metodo Jonico sta, come ho avvertilo in proposito di Talete, 
Dell'aver posto da b.T oda ogni concezione mitica, e nel- 
l'aver principiato una serie di osservazioni, che sebbene 
incomplete, deformi, sconnesse, lasciano pur trasparire un 
barlume di quella potenza dello spirito, che dovea spiegarsi 
coti buon successo in seguilo. Si ha qui soltanto un rudi- 
mento di metodo, ma il metodo filosofico è nato. 

Le massime che lo ispirarono e lo diressero, sebbene 
non ci sieiio storicamente note, è facile i-icavarle dal con- 
tenuto delle dottrino Joniche. In primo luogo apparisce 
chiaro, che la natura materiale fu valutata in tutta l'impor- 
tanza sua come base di ogni ricerca. I dati sensibili esterni 
delle cose furono il punto di partenza, da cui mosse la 
ricerca di un fondamento a tutta la formazione naturale. 
L'astrazione poi, che su questi dati si fece, fu limitata alla 
concezione di un dato comune spogliato delle sole condizioni 
di tempo e di luogo, ma non si staccò radicalmente dalla 
realità delle cose. Ciò mostra, che gl'Jonici furono vera- 
mente naturalisti, benché per insufficienza di mezzi scru- 
tassero ben poco a fondo i segreti della natura. Ma è facile 
a congetturare , che se la filosofia Elcatica non avesse 
poscia eoi suo idealismo sopratfatto la filosofia Jonica, ne 
sarebbe stata atfrettita la nascita delle scienze, e rispar- 
mialo molto lavoro inutile. 

Non lascierò intanto di osservare, come fin da questo 
momento si presenta una particolare abitudine melodica, 
che dovea protrarsi fino alla Sofistica, voglio dire 1' abitu- 
dine di esporre dottrine dommaticamente poco o nulla 
curando la discussione e la polemica. Sembra che i pensa- 
tori dell' antichità abbiano obbedito ad una tendenza della 
natura umana, per la quale l'uomo è molto proclive a 
chinarsi ad una qualunque autorità. Non appena il pensiero 
a fu spastoiato dall'autorità religiosa, lo vediamo cercare 
un appoggio nell'autorilà personale di un maestro. Anche 




- 24 - 

quando l'abitudine raziocinativa ebbe migliorato d' assai la 
ricerca scientifica, perjlungo tempo Y autorità personale del 
maestro pensatore rimase prevalente, e fu consacrata col- 
Yavzoq Ì(poc dei Pitagorici, che restò vizio di molte scuole. 

La debolezza mentale della maggior parte dei discepoli, 
dinanzi alla fatica di pensare e di ricercare il vero, favoreg- 
giò la tendenza dei maestri a dominare colla propria auto- 
rità le opinioni dell' universale, e così avvenne che spesso i 
pensatori trascurarono l'uso di dimostrare, e si tennero paghi 
ad annunziare i loro concetti. E quando anche si diffuse 
la pratica del raziocinio, spesso il dommatisn^o viziò le 
premesse, e cosi sebbene se ne cavasse una catena infran- 
gibile di sillogismi, r abuso d' autorità che avea fatto 
accreditare delle premesse senza criticarle, rese vano tutto 
il lavoro raziocinativo attaccato ad esse. Così avvenne anche 
nei tempi dipoi in seno alla scolastica, che su proposizioni 
di Aristotile o dei Padri accettate senza discussione fab- 
bricò castelli di sillogismi senza fondamento. 

Il metodo filosofico portava dunque in se fin dal suo 
nascere i germi della sua forza, ma questi per kingo tempo 
furono soffocati da un principio subiettivo, il quale sebbene 
desse temporaneamente e casualmente autorità alle dottri- 
ne, toglieva però altrettanto valore alla scienza. 



III. 

I Pilagorlcl. — Helodfr doinniatleo 
analogico. 



La scuola di Pitagora prese a risolvere il Problema 
fondamentale delle ricerche naturalistiche da un punfo di 
vista diverso da quello degl' Jonici primitivi. Essa cercò 
l'elemento costitutivo delle cose fuori della materia, in un 
principio che non è ancora ideale, nel senso Platonico, 
ma è certamente astratto. 

Sembra che Pitagora nascesse a Samn verso il 582 av. 
G. C. Le tradizioni che lo riguardano ci sono pervenute 
sovraccariche di favole; il suo nome fu di quelli che 1 
novellieri Alessandrini predilegevano per I' esercizio della 
loro fantasia. 

Il primo punto chiaro nella storia di questo filosofo è il 
suo passaggio nella Magna Grecia. Ma anche di questo 
fatto ci sono rapportate le più prossime circostanze in modo 
tanto contrarli ttorio, che si può appena riuscire a fissarne 
approssimativamente la data, verso Ìl 530, e ci è affatto 
impossibile precisare il motivo che lo indusse a emigrare. 

Certo è che questo passaggio da Samo sua patria a 
Crotone inlluì grandemente sull'esito e sulla maniera della 
sua dottrina, la quale presenta l'aspetto e l'indole de'severi 
costumi Dorici, che fiorivano specialmente in Crotone, iu 
contrapposizione della mollezza Jonica di Samo. La sua 
Scuola prese forma e costituzione nella sua seconda patria, 
ed è per questo che ella vien rammentata anche né passi 
Aristotelici colla denominazione di Scuola italica. 

Lungo sarebbe, e qui inopportuno, il riferire le tradizioni 
che ci ragguagliano intorno alle pratiche della Lega Pita- 
gorica, Alla regola di vita o ai requisiti di perfezione morale 



— 26 — 

ricercata negli affiliati, tradizioni di cui è dubbiosa l'auten- 
ticità. Certo sembra, anche per i ragguagli più vicini a 
Pitagora e perciò più sicuri, che non molto tempo dopo la 
sua morte esso fosse ritenuto come uomo di Scienza stra- 
ordinaria, ma non di condizione soprannaturale, come fu 
favoleggiato dipoi. La natura della sua scienza sembra 
essere stata particolarmente religiosa, ma non somigliante 
a quella di un Epimenide, ed altri personaggi del 7."* e 6.* 
Secolo, che sfoggiarono vanti di ispirazione divina e alluci- 
narono i creduli con pratiche misteriose. 

Più chiara apparisce V indole della sua scuola. Pitagora 
avea senza dubbio V intenzione di fondare nna Scuola 
modello di religiosità e di puri costumi, di moderazione, di 
ordine, di obbedienza alle leggi, di fedeltà nell'amicizia, 
e generalmente di tutte quelle virtù che nell' ideale Dorico 
formavano il carattere di un uomo. 

Anche Io scopo politico della Lega Pitagorica è inne- 
gabile, benché in esso non debba ricercarsi T originaria 
condizione di quella società. L'aspetto politico preso dalla 
Lega Pitagorica fu piuttosto un effetto susseguente che 
una intenzione primaria. Effetto della somiglianza di gusti 
e di costumi, di uniformità di indole e di massime colla 
società Dorica, la quale essendo politicamente aristocratica, 
ebbe appoggio dai Pitagorici contro la democrazia, e fu 
ad essi inevitabilmente fatale. Il risvegliarsi dello spirito 
democratico contro le primitive istituzioni aristocratiche, e 
la preponderanza, che esso prese col tempo nella massima 
parte degli stati greci, arrivò nelle popolose e indipendenti 
città italiche più presto e con più violenza al suo colmo; e 
poiché i sinedrj pitagorici erano il centro della fazione ari- 
stocratica, cosi furon fatti bersaglio ad una persecuzione 
acerrima, la quale imperversò con tal furia in tutta la bassa 
Italia, che ne andarono arse le case di riunione deitPita- 
gorici, essi medesimi uccisi o sbandati, le istituzioni Aristo- 
cratiche abolite; finché colla mediazione degli Achei fu 




- 27 — 

combinato un accordo, pel quale si concesse ai superstiti 
tra i fuorusciti dì ritornarsene in patria. 

Credono alcuni, che Pitagora stesso fosse involto nei 
massacri; altri, che scorato si rifugiasse e morisse a Meta- 
ponto; altri aucora, che i massacri principiassero dopo la 
morte di lui ('). 

Tutlociò lascia vedere, come l'attività, che i Pitagorici 
consacrarono alla scienza, dovesse riuscire scomposta, e 
guastata dai fini sccondarj della Lega. [Quasi nulla ci 
rimane di scritti Pitagorici, tranne i frammenti di nn 
libro di Filolao, vissuro al tempo di Socrate, qualche 
brano dubbioso di Archita e poco più, assieme ad una 
massa informe di falsificazioni di ogni tempo. 

Il principio fondamentale Pitagorico è espresso in que- 
sta formula: il numero è l'essenza di tutte le cose. 11 
cencetto della misura e dell' armonia serve di base, 
secondo i Pitagorici, a tutta la vita pratica e alta forma- 
zione dì tutte le cose. Poiché nulla vi è senza forma e 
misura, e il numero è l'espressione della misura, il numero 
deve essere il principio stesso delle cose, come dell' ordine 
con cui elleno si combinano ne! mondo. Aristotile lascia nel 
dubbio se per i Pitagorici il numero fosse un principio 
sostanziale delle cose, ovvero uu archetipo, un modello 
secondo il quale fossero foggiate e ordinate; talora si esprime 
nel primo significato, talora nel secondo ('). Si ritiene ora 
quasi generalmente che la teoria Pitagorica dei numeri 
abbia avuto diverse interpetrazioni consecutive, e che una 
parte dei Pitagorici riconoscesse nei numeri delle sostanze, 
un' altra soltanto degli archetipi delle cose. La prima inter- 
petrazione sarebbe la più antica e originaria, e più recente 
benché egualmente pitagorica la seconda. 

Le applicazioni del principio « tutto è numero » nello 



(') V. Zeller. Die Phil. der Griechsn. Voi. I. p. 206 e sog. 
(*) Arist. JJatef. L 6. - Metaf. I, 5. 



— 28 — 

studio della realtà riusci nelle mani dei Pitagorici ad un 
infruttuoso simbolismo privo di ogni interesse filosofico. 
Esaminarono le cose, come dice Aristotilev('), secondo una 
tal quale somiglianza coi numeri e colle proporzioni nume- 
riche. Cosi dissero la giustizia stare nel numero quadrato 
perchè è una moltiplicazione di eguale con eguale, e per 
ciò essere la giustizia il 4 primo quadrato dei pari, o 
il 9 primo quadrato dei dispari; Y unità fu la ragione, per- 
chè invariabile, la dualità V opinione perchè variabile. 
Come si vede, non seguivano le proprietà aritmetiche dei 
numeri, ma qualche cosa di arbitrario, di convenzionale 
che loro attribuivano. Di qui ne derivarono molte contra- 
dizioni , secondo il pensare diverso , talché un numero 
sovente indica più cose, ed una èosa è riportata a più 
numeri secondo che paresse meglio a ciascuno. 

I Pitagorici non si appagarono peraltro di questa disor- 
dinata applicazione del loro principio fondamentale; ma 
cercarono di trarne anche qualche teoria generale ottenuta 
medoticamente, come nel loro sistema dei nùmeri, nella loro 
teoria dei toni musicali e delle figure e in quella del 
sistema del mondo. Poco abbiamo di sicuro intomo a queste 
speculazioni, che dovettero fare il merito principale della 
Scienza Pitagorica, perchè i frammenti stessi di Filolao sono 
troppo malconci per darcene una informazione esatta. Un 
concetto espressamente manifestato nella loro Teoria, è 
quello secondo il quale tutti i corpi celesti, compresa 
la terra, si muovono in un determinato e immutabile cam- 
mino circolare attorno ad un centro comune, che è il fuoco 
centrale, da cui irraggia la luce il calore e la vita in tutto 
r universo. Che il mondo sia in tutto cosli*uito secondo forme 
e misure armoniche, si ricava secondo i Pitagorici dalle 
proprietà dei numeri applicati alle figure deicoi^i, essendo- 
ché solo per 1 numeri si abbia la determinazione delle 

(') Metaf, I. 5. 



— 29 — 

proporzioni quantitativo delle cose, come estensione, gran* 
dezza, figura, composizione, distanza ec. Prodotte le cose 
sopra un fondamento di numeri, di opposizioni numericbOi 
bisognava trovare un legame, che^tenesse assieme le cose 
prodotte in tal guisa. Questo legame è TArmonia, che da 
Filolao è definita come unità delia varietà e combinazione 
del discorde. Come la osserv'azione delle antitesi naturali (*) 
si connette colla trattazione dei numeri e specialmente col 
pari e dispari, unità e moltiplicità; cosi Tarmonìa che col<- 
lega i numeri, fondamento delle cose, legame delle antitesi, 
si connette colla trattcìzione della proporzionalità dei toni 
musicali. Nella proporzionalità musicale dei toni riconosce- 
vano i Pitagorici un che di anaiogo al legame dei contrap- 
posti nelle cose, e perciò chiamavano armonia l'uno come 
r altra. 

Che cosa rimase di tanto lavoro Pitagorico nella scien- 
za? Quasi nulla, fuorché il concetto primario del CQnside- 
rare la natura dal punto di vista aritmetico e geometrico. 
Questa debolezza di successo nelle dottrine è colpa di debo- 
lezza nel metodo. I Pitagorici non aveano per anco trovata 
la distinzione certa tra le idee universali e le cose concrete. 
Ma essi si alzavano un grado di più che gì' Jonici nella 
via della semplice astrazione. 

La quantità è la prima astrazione fatta sulla materia; 



(*) finito— infioito 
dispari— pari 
ano— più 
destro— sinistro 
maschile— femminile 
qaiete— moto 
retto— carTO 
luce — tenebre 
bene— male 
quadrato— rettangolo 
Arìst Metaf. I. i. 



- 30 ^ 

il numero è l'astrazione della quantità. Impossessatisi i 
Pitagorici di questo concetto due volte astratto, e appro- 
fonditolo, credettero di aver trovato il segreto della ng.tura, 
e lavorarono su questa astrazione a modo loro, come se ella 
fosse una realità. E per questo che essi jincominciarono a 
perdere di vista il reale concreto, e tenersi nell* astratto. 
Vizio, che doveva essere spinto poi air ultimo segno dagli 
Eleati; ma i Pitagorici stessi si furono invaghiti della loro 
astrazione, e sebbene non trascurassero del tutto il reale, 
si lasciarono poco frenare da qsso. 

^ Infatti se prendesi a considerare V insieme dei loro 
sludi, si troverà che essi chiamano bensì il reale a prender 
posto nelle loro teorie, ma gli danno una parte secondaria, 
e lo fanno servo della loro astrazione, piuttosto che chia- 
marlo a produrla. Le cose perchè sono elleno in armonìa? 
Perchè i numeri sono in fondo alle cose, e i numeri sono 
espressione deirarmonìa musicale, dunque in fondo alle cose 
è r armonìa. Il metodo sano avrebbe dovuto costatare 
dapprima l'armonìa nelle cose, come ordine fisso e reale, 
e non dedurla come conseguenza. Ciò avrebbe portato a 
studiare le cose a minuto in se stesse, indipendentemente 
dair astrazione €ei numeri, e la loro rappresentazione 
numerica astrattiva sarebbe venuta in seguito. Cosi avven- 
ne, che il metodo Pitagorico fu dommatico, perchè non 
appoggiava su dimostrazioni rigorose la sua dottrina, e fu 
astrattivo, perchè il vizio particolare ad esso si riscontra 
nell' avere scambiato la astrazione numerica colla realità, 
ed essersi servito di quella come base di ogni ricerca. 
Vi fu progresso sul metodo Jonico, perchè in questo non 
comparisce nettamente alcuna traccia di legge. 1 Pitagorici 
segnano i primi questo stupendo trovato mentale, che si 
chiama legge^ e che era destinato a darci la cognizione 
della natura in modo tanto sincero, da farla strumento 
nostro, quasi a riprova della solidità degli studj di cui 
l'abbiamo fatta soggetto. E questo buon uffizio reso dai 



ii«> - .-i-» 



— 31 — 

Pitagorici alla scienza, è dovuto senza dubbio al loro me- 
todo aslrallivo, vero metodo della scienza; alla quale 
sarebbe assai giovato di non uscire da esso per salire 
ancora più in alto nel metodo ideale dei^filosofi dipoi; ma, 
come ho detto, il metodo astrattivo, ricco in se stesso di 
immense scoperte avvenire fu viziato col fondare l'astrazio- 
ne sopra una minima parte del reale e col dar corpo alla 
astrazione prodotta, talché ne venne guastato e annullato 
l'uso proficuo del metodo stesso. Il che non sarebbe 
intravvenuto, se i Pitagorici in luogo di proclamar 
sostanza il numero, avessero il metodo stesso, che gli 
avea portati a trovar la legge, che tutto è numero, 
adoperato proficuamente alla ricerca delle leggi speciali 
di tutte le cose. 

Quanto poi vi fosse di vizioso anche nel metodo stesso, 
che i Pitagorici adoperarono per concludere alla legge uni- 
versale doH'armonìa, si fa chiaro dal considerare, come essi 
appoggiassero la legge stessa sopra un fondamento di 
Analogia, e non sopra una sana induzione. Analogia è 
l'attinenza tra 1' armonia musicale e quella clie essi dissero 
armonia delle sfere; analogia è la proporzione de' toni, 
pareggiata alta proporzione e all'ordine delle cose; analogie 
sono le diverso applicazioni del sistema numerico alla rap- 
presentazione delle quahtà morali, delle istituzioni umane, 
delle condizioni individuali e sociali. L'unica applicazione 
'del sistema numerico che non sia analogica, si incontra nella 
determinazione delle figure geometriche dei corpi, ma questo 
esce dalla filosofia per entrare nella matematica, nella quale 
i Pitagorici fecero notevoli progressi. Fu per gl'abuso della 
analogia, che riuscirono vani e spesso rìdiceli i tentativi dì 
definizioni lasciati da essi; il che se non fosse stato, 
I avrebbero fatto avanzare il metodo di un gran passo, poiché 
la definizione è una delle più importanti conquiste della 
logica, avuto specialmente riguardo all' attinenza che la 
definizione ha colla classificazione. Ma colle loro definizioni 



- 32 — 

numeriche, invece di riuscire alla dialettica, come doveva 
essere, i Pitagorici riuscirono ad un simbolismo matematico, 
simbolismo di nessun valore, perchè applicato a cose non 
matematiche. 

In generale si scorge, che i Pitagorici intravvidero 
alcun che del metodo scientifico, ma soltanto in barlume, 
e ne usarono al buio senza cognizione dello strumento 
che adeperavano. Ma già il vantaggio era grande, perchè 
in questa guisa il distacco dalla Teologia e dal metodo 
teologico si faceva più deciso, che negl'Jonici; si rendeva 
qualche ragione del mondo e del suo ordine, cavata da 
esso medesimo; e si giustificava in qualche maniera V ab- 
bandono del concetto mitico. 11 mondo possedeva un armo- 
nia sua propria, una compensazione universale; l'ordine si 
faceva per una linea circolare rientrante, sema l'intervento 
di agenti mitici. 



^ al. 



— 83 — 

IV. 

Oli Kleatl — Metodo dommatleo 

Idealistico. 

Quando la Scuola Eleatica pervenne al suo colmo, il 
problema fondamentale della filosofia contemporanea si 
trovò trasformato. Non era più la base elementare della 
natura, che si cercava, come erasi fatto dagli Jonici, né 
la compostezza armonica delle cose, come dai Pitagorici; 
ma quasi presumendo di aver già trovata quella base e defi- 
nita quell'armonia, gli Eleati fissarono il pensiero sulla 
stabilità di quella base e di quell'armonìa, e si accinsero a 
spiegare, in qual rapporto stasse con quelle il mondo vario, 
esterno, esistente realmente. E conclusero così: la stabilità 
ed unità del fondamento delle cose deve riconoscersi essen- 
ziale: solo un essere intimo sussiste; l'apparente varietà 
delle cose è illusione, è nulla. 

A questa conclusione non si arrivò d' un tratto, ma a 
gradi. Senofane di Colofone partì da una serie di concetti 
teologici; Parmenide, da astrazioni metafisiche; 2^none 
appoggiò in modo dialettico le conclusioni di questo. 

Sembra che Senofane Q) fosse il primo a pronunziare la 
sentenza « Tutto è uno » senza peraltro spiegarsi chiaro 
intorno a siffatta unità, specialmente se fosse materiale o 
ideale, e si limitò,' come dice Aristotile, a volgere lo sguardo 
sul mondo come il Tutto, ed a chiamare Dio l'Uno . 

Dai frammenti che di esso ci rimangono si ricava, come 
egli fosse condotto a questa conclusione per orrore della 
religione politeistica dei Greci. Infitti egli si accende di 
zelo contro il pregiudizio, che gli Dei fossero nati, avessero 
voce e fisonomia umana, e lacera Omero ed Esiodo per 

(•) Nato verso il 569. av, C. 



- 34 — 

aver cantato il furto, l'adulterio, la frode degli Dei. La 
divinità, secondo esso, ò tutta vista^ tutta udito, tutta intel- 
ligenza, instancabile dominatrice di tutto col suo pensiero, in 
nulla somigliante agli uomini nò di forme né di intelligenza. 
I Greci sonosi formati gli Dei a loro somiglianza; ma se i 
cavalli i leoni avessero dovuto foggiare degli Dei, gli 
avrebbero foggiati a loro somiglianza egualmente; gli 
Etiopi foggiano i loro Dei colla pelle nera, i Tracj gli fanno 
biondi ('). Esso sconcerta tutte le Teogonie architettate 
per lo innanzi coli' antropomorfismo mitologico dei Greci, e 
pone in loro vece il concetto della immutabilità divina. Ma ^ 
esso sconcertava egualmente ogni teoria precedente circa la 
formazione delle cose, col dichiarare inammissibile qualun- 
que generazione di cosa reale, ogni successione, cangia- 
mento, principio e fine nelle cose come in Dio; e con questo 
entrava nel campo filosofico. E quando riscontrava tanta 
varietà di concetti umani ad onta della unità invariabile 
delle cose, non la dis(;onosceva, 'ma quella varietà dichia- 
rava esser cosa dell'uomo e non dell' universo, avere un 
valore subiettivo e personale. Ben è vero, che Senofane non 
avea posto per anche questo suo principio immutabile in 
urto coir essere concreto e variabile del mondo, e non era 
riuscito alla negazione di questo. 

Parmenide {^) d'Elea fu il vero capo della Scuola Elea- 
tica, e dette alla dottrina dell'unità dell'essere tutta l' im- 
portanza filosofica di che essa era capace. I pochi frammenti 
che di lui ci rimangono, benché incompleti, sono tuttavia 
di un gran valore per darci notizia del suo pensiero. Una 
parte di essi riguarda l'essere immutabile. Parmenide trae 
decisamente alle ultime conseguenze le massime di Seno- 
fane circa l'unità ed immutabilità del Tutto, spogliandola 
dell'involucro religioso in che esso la lasciava involta, 

(*) Xenophanis, Fragm. ed. Karsten. "^ 

(') Nato verso il 515 ay. 0. 



suiccandola affatto dalla divinità per trasportarla al mondo, 
in servigio ili mia Ontologia prettamente filosofica. Esso 
dichiara, die il puro, unico Essere è in coatraslo con tutta 
la varietà e riioltiplioità delle cose concrete; quello è vera- 
mente l'Essere; queste sono apparenze, sono il Non-essere; 
l'Ess-ire solo è, il Non-essere è nulla; l'Essere solo è pensa- 
bile, il Non-essere è inescogitabile. L'Essere non può tro- 
varsi in movimento, non può mutarsi né formarsi, non può 
trovarai confinato dal tempo e dallo spazio, non divisibile, 
non generabile, tutto ed unico, sempre eguale a se stesso. 
Sola prerogativa sua i! pensiero «Essere e pensiero sono la 
cosa stessa » (*). 

In questo solo sta la verità. Tutte le altre nozioni sono 
fallaci, appartengono all'ordine della opinione e non a quello 
della certezza; tutto il fenomenale, il relativo, il mutabile 
delle cose, la pluralità, la successione, il cambiamento, il 
moto, la generazione e la distruzione, sono illusioni, che 
hanno bensì un'azione sul pensiero, ma sono piene di falsità 
se si attribuiscono all'essere. L'essere non cambia di luogo 
né di tempo, né sì genera o si distrugge, e non è molte- 
plice, ma unico. 

La seconda porzione dei Frammenti tratta di quello 
che Parmenide dichiara non essere, cioè il mondo concreto, 
l'esteriorità, l'apparenza delle cose; ma ne parla soltanto 
in via ipotetica. Tutte le illusioni che ci fanno parere cose 
reali quei fenomeni, che in verità non sono altro che appa- 
renza, derivano dai sensi; i quali in cotal guisa tengono il 
punto opposto all'intelligenza; poiché essa ci presenta 
l'essere, il vero, e quelli il fenomeno, il falso. Nessun lega- 
me scientifico si trova tra la prima e la seconda parte degli 
studj di Parmenide, essendix:hè il mondo esterno non 
sussista -che nella imaginazione degli uomini; l'Ontologia e 



" : 
p. 687. B. 



[ Clero. Alea. Strom. VI. 



— sa- 
la Fenomenologia non hanno alcuna attinenza tra loro, se 
non in quanto V uomo trova nell' una la verità, nel!' altra 
un illusione nocevole al suo pensiero ; e comq nell' ordine 
della prima si producono le dottrine certe e fìsse, riell'ordi- 
ne della seconda sorgono le innumerevoli opinioni degli 
uomini. 

Questi concetti di Parmenide dovettero parere sover- 
chiamente paradossali anche ai contemporanei, i quali tro- 
varono molti punti deboli in quella dottrina, che sosteneva 
enervi un solo Ente continuo, e per combatterla, ad essa 
contrapponevano la dottrina di molti enti discontinui. 
Zenone di Elea (•), per sostenere e appoggiare con qualche 
vigore la tesi del maestro tentò di mostrare agli avversarj, 
come la loro teoria degli enti molteplici e discontinui fosse 
gravida di contradizioni non meno urtanti di quelle, che 
rimproveravano alla teoria di Parmenide. Questo avea 
menomato il fenomenale, e l' avea respinto in un terreno 
ristretto, ma l'avea tollerato; Zenone lo annullò, e^ingaggió 
una polemica, rimasta celebre nella storia, per dar ragione 
di cotale annullamento. Questa polemica gli valse da Ari- 
stotile l'onorato titolo d'inventore della dialettica, non già 
in grazia della tesi sostenuta, ma per gli artifizj dialettici 
impiegati a sostenerla. 

Le reliquie di tal polemica meritano di esser raccolte, 
SQ non per il loro merito intrinseco, almeno per il loro 
valore storico. Le argomentazioni, che ci rimangono, ten- 
dono a provare, come non vi possa essere né moltipUciià 
né movimento nelle cose. 

Il molteplice, dice Zenone, é una quantità dell'Uno; un 
verace Uno, non avente in sé moltiplicità, é indivisibile; or 
l'indivisibile non ha alcuna grandezza (altrimenti potrebbe 
esser diviso); in conseguenza il molteplice non ha gran- 
dezza alcuna, e però è nulla. - Che se si prenda invece 

(*) Nato verso il 495 ay. C. 



- 37 ^ 

il molteplice come un complesso di cose veramente esistenti, 
saranno cose ciascuna delle quali ha grandezza; avendo 
grandezza, ciascuna cosa deve constare di parti, che a lor 
volta hanno grandezza; questo parti debbono essere sepa- 
rate l'una dall'altra da delle grandezze, altrimenti si 
confonderebbero assieme: e queste grandezze interstizio 
debbono èssere aiich' osse separate da grandezze, talché 
ogni cosa risulterebbe di un numero infinito di grandezze; 
ma ili cotal guisa resta sola la grandezza infinita^ scom- 
pare ogni determinata grandezza, e scompare il molteplice. 
Ancora: dato il molteplice, il numero dovrebbe esten- 
dersi tanto quanto esso molteplice si estende, e non più: 
invoce il numero è illimitato, talché al numero, quale è,' 
può sempre aggiungersene un altro, e così air infinito. 

E contro il movimento: un dardo lanciato dovrebbe, 
innanzi di toccare il bersaglio, trascorrere dapprima la metà 
della sua via, e la metà della metà avanti di quella, e cosi 
in seguito; in breve dovrebbe percorrere un numero infinito 
di porzioni di spazio, il che è impossibile; dunque non vi ò 
passaggio possibile da un punto a un altro, dunque è 
impossibile il movimento. 

Di più: stare in riposo dicesi il rimanere in un solo e 
in imo stesso luogo. Dividasi il tempo, durante il quale un 
dardo vola, in momenti; in uno di questi, nel batter d' oc- 
chio del momento presento, il dardo occupa un solo luogo; 
adunque esso sta in riposo, e il movimento è un'illusione. 

Questi, e pochi altri simili a questi sono gli argomenti, 
coi quali Zenone tentava Aisfriiggere completamente il 
mondo esterno nella sua moltiplicità e nel suo moto, per 
porre in salvo la tesi Paniienidea dell' unico ed immobile 
Essere. 

11 Metodo, che gli Eleati seguivano in queste specula- 
zioni, si fa chiaro dalla natura delle conclusioni a cui arri- 
varono, come da quella dei principj da cui partivano. È 
facile anche discernere come lo stesso metodo sia quello, 



V 



— S8 — 

che ispira i concetti di tutti tre i filosofi sóvraccennati, non 
essendovi tra loro differenza, fuorché nella maggiore o 
minore portata che ciascuno dava alle conseguenze; il 
significato delle loro dottrine è pressoché identico. 

Il principio metodico di tutta la scienza eleatica è 
questo: la* verità si trova soltanto nel pensiero. E quando 
questo concetto fondamentale dirige a loro insaputa gli 
eleatici nella speculazione filosofica, il pensiero a cui essi 
si riferiscono, non è il pensiero diretto, foggiato sulle cose 
concrete, ma il pensiero astrattissimo, staccato dalle cose 
stesse, e spinto tanto oltre quanto portava la forza mentale 
di quei pensatori. Ora il pensiero astratto possiede un'unità 
sua propria, mentale, indipendente, nella quale tutte le 
particolari. astrazioni e i concetti stessi delle cose rivestono 
uniformità e invariabilità. Questa unità, trovata nei prodotti' 
più elevati dell'astrazione, gli Eleati la attribuirono alle 
cose stesse, e ne usci la conseguenza, che le cose fossero 
tutte come fuse in un sostanziale ed unico Essere, e che le 
diversità loro fossero soltanto apparenti. E vero infatti che 
nella mente i concetti sono compenetrati in un composto di 
natura ideale, la quale si manifesta in tutti colle sue pecu- 
liari doti di universalità, di indipendenza, di invariabilità; 
talché la generazione la distruzione, la variabilità e il 
movimento spariscono dal mondo dei concetti i quali resta- 
no incolumi anche al distruggersi delle cose. 

Tanto riuscì facile trovare l'unità nel mondo del pen- 
siero quanto invece era difficile trovarla nel mondo dellg 
cose. L' avere scambiato l' ideale col reale, l'astratto col 
concreto costituisce il vizio della filosofia eleatica, e dà 
ragione delle conseguenze, distruttive del mondo esterno, 
alle quali pervenne. 

Per questa via Senofane ideava l'Unico Dio in luogo di 
tutto il Panteon politeistico greco, e Parmenide 1' unico 
Essere in luogo di tutta la moltiplicità delle cose. Il primo 
neir ordine religioso, il secondo nell' ordine metafisico, 



- 39 -^ 

nuir altro facevano, che prestare realità al concepimento 
del pensiero e dar corpo allii unità razionale distruggendo 
la moìtiplicità etfettiva della storia religiosa o della storia 
naturale; senza curarsi se quesla unità, per essere nella 
mente, si trovasse a suo agio del pari nelle cose, a cui per 
forza la si attribuiva; e senza badare, se non si arrivasse 
con questo a distruggere il mondo che si voleva spiegare. 

Intanto fa mestieri osservare che fra. i vantaggi di 
questo metodo Eleatico, il più importante per la filosofia fu 
la iniziata proclamazione della fissità del pensiero scienti- 
fico. Parmenide esagerando la realità del pensiero dà 
luogo alla ricerca delle vere condizioni di solidità, che in 
esso si riscontrano. E Platone stesso sembra voglia fargli 
merito di aver mossa, cotal quistione introducendolo come 
•protagonista di quello tra i suoi dialoghi, che era destinato 
a esaltare il mondo delle idee, e farne base alla scienza. 
Or questa maniera di considerare la incrollabile natura 
del pensiero, sebbene da Parmenide non fosse portata alle 
sue vere conseguenze, né tenuta entro ai suoi limiti, rac- 
chiudeva per altro una delle condizioni fondamentali del 
Metodo scientifico. La scienza è nulla se non si può 
contare sulla solidità di essa; il pensiero è un trastullo, 
se r ordine col quale si svolge non ò condotto da leggi in- 
violabili. 

Ma se nei concetti Elcatici trovasi un germe di quella 
dottrina, che dovea poscia assicurare alla scienza la sua 
prerogativa di certezza, vi si riscontrano altresì dei germi 
di quello scetticismo, che invase una parte della filosofia 
dei tempi successivi. Per ciò che spetta a Senofane, pare 
che esso medesimo riuscisse ad una specie di scetticismo, 
dichiarando che nessuno può dire che cosa sia vero intorno 
a tutte le cose del mondo. A questa conseguenza lo portava- 
no le suo premesse, che sebbene si tenessero peculiarmente 
nell'ordine religioso, faceano capo anche all' ordine filoso- 
fico, annullando le opinioni esistenti circa la generazione e 



— 40 — 

la distruzione delle cose. La Teogonia essendo in quel tem- 
po, per la gente religiosa come Senofane, strettamente 
collegata colla cosmogonìa, la distruzione degli Dei portava 
seco la distruzione delle forze e degli agènti molteplici del 
mondo, e cosi ne seguiva un Panteismo o Pancosmisrao 
che ben presto si trasformava in un vero scetticismo (*). 

Parmenide dal canto suo, facendo una sostanziale sepa- 
razione tra r Ontologìa e la Fenomenologìa, ed accordando 
alla prima la verità dell'Essere, all'altra la sola probabilità 
dell' opinione, apriva la strada alla negazione del valore 
dei fenomeni, conseguenze tratte in seguito da Zenone. Il 
metodo eleatico in cotal guisa da un lato avea fatto un 
acquisto fissando la incroUabilità dell'Essere e del vero, 
dall'altro era inferiore al metodo degli Jonici, i quali non 
ponevano in dubbio il valore della fenomenalità. Ed infatti 
t\on si saprebbe spiegare come, tolto il valore di questa, si 
potea salvare il valore stesso dell'Essere unico, che si era 
dalla mente trovato appoggiandosi pur sui fenomeni. 

Fra i difetti del metodo eleatico citerò infine 1' uso 
tacitamente allora introdotto per la prima volta del concetto 
filosofico àeìV assoluto. La Metafisica,- che ha guastato molte 
parti della Filosofia, entrò nel campo di essa con questo 
concetto. Non è qui luogo a trattare partitamente la qui- 
stione dell' assoluto: mi basterà osservare, che nell' ordine 
metafisico esso è l'esagerazione di un processo mentale 
legittimo, il quale diventa pernicioso alla scienza per via 
di questa esagerazione. Tutti i concetti che i metafisici 
vantano per assoluti non sono in se stessi che prodotti 
dell'astrazione esercitata su particolari obietti, in nulla 
differenti dagli altri prodotti di essa. Questo lavoro col 
quale si astrae dalle condizioni di spazio, di tempo, di 
forma ec. applicato ai fenomeni dà origine alla conce- 
zione mentale delle leggi; applicato agli individui produce 

(*) Grote. Plato, p. 18. 



- 41 — 

le specie, i generi ec.; applicato alle qualità delle cose 
produce i concetti fondamentali di esse qualità, che i meta- 
fisici battezzano per assoluti. Il concetto del bello, per es. 
è il prodotto di una astrazione fitta coli' osservare molte 
cose belle ritenendo di esse V effetto artistico, e trascurando 
le diverse loro condizioni, come il concetto di uomo è il 
prodotto di una astrazione fatta osservando molti uomini, 
e trascurando le loro particolarità individuali^ per ritenere 
i dati comuni. Questi due prodotti non differiscono di valore 
tra loro, e non sono assoluti né Tuno né l'altro; soltanto 
si elevano in perfezione quanto maggiore è il numero degli 
obietti su cui la astrazione si è fatta, e quanto più fino è il 
criterio col quale si é condotta la scelta e l'apprezzamento 
di quegli obietti. Dimodoché ciascuno ha una più perfetta 
idea dell' uomo, quanto più minutamente ha osservato gli 
uomini nella loro struttura fisica e morale; e ciascuno ha 
una più perfetta idea del bello, quanto maggior numero di 
cose belle ha gustato in tutte le svariate arti e nelle pro- 
gressive produzioni di esse. Da ciò deriva che cotali concetti . 
sono progressivi o perfettivi a seconda della vigoria men- 
tale di ciascuno, della educazione, e dell' abbondanza e 
scelta delle particolari percezioni. Essi non sono adunque 
assoluti. 

Collo stesso ragionamento il concetto dell' Essere unico 
di Parmenide, a riportarlo al suo vero valore, non è altro 
che il prodotto di una astrazione massima tratta dall'osser- 
vazione di tutta la fenomenalità. E così si aveva torto dì 
ìiegare a nome di quel concetto la fenomenalità medesima, 
e di attribuire ad esso un valore assoluto. Come chi a nome 
di alcuna legge negasse il valore dei fatti che l' hanno 
ispirata, e sclamasse che la legge è^ ma i fenomeni non 
sono; a nome di alcuna specie negasse gì' individui; o a 
nome del concetto del bello negasse lo cose belle. Il metodo 
Eleatico rialzò il valore di queste astrazioni, e questo ò il 
suo pr^Ì0| ma lo esagerò introducendovi una forma asso- 



— 42 — 

luta di concezione, e aprendo la strada alla metafisica, e 
questo è il suo massimo difetto. 

Dal vizio di dar corpo e realità all'astrazione più ele- 
vata è del pari provenuto il controsenso, che giace in fondo 
a tutti gli argomenti di Zenone. 11 suo dardo che vola al 
bersaglio non può arrivare mai a toccarlo, se davvero esso 
è obbligato a percorrere il numero infinito di divisioni in 
progressione decrescente^ in cui è spezzato mentalmente 
lo spazio da percorrere. Ma questa divisione è del tutto 
mentale; la realità non presenta al dardo che la som- 
ma effettiva di quegli spazi a percorrere: la divisione 
astratta di essi non può applicarsi al fatto reale. 

La polemica di Zenone per altro die origine alla dia- 
lettica, e per questa via portò un colpo mortale al metodo 
dommatico dei vecchi pensatori, la discussione divenne per 
la prima volta abito scientifico, e cominciò a prevalere 
Tautorità della ragione all' autorità personale, e l'uso della 
parola cominciò a studiarsi come mezzo di persuasione. La 
retorica e la dialettica, quasi appena uscite nel campo della 
cultura, ebbero tanto abbagliato gli spiriti col presentimento 
di una nuova e poderosa forza, che se ne esagerò la 
portata; ma pur divennero un punto di passaggio per 
arrivare alla fissazione del metodo logico. Il dommatismo 
era spacciato. L'apparizione di Zenone, dice Grote, costi- 
tuisce un' èra rimarchevole nella filosofia greca, perchè 
esso* per primo messe in azione la forza straordinaria 
aggressiva o negativa del metodo proprio alla dialettica. 
Nella sua discussione concernente l'Unità e la Pluralità, 
gli argomenti positivi per P una parte e per l'altra erano 
del pari insufficienti e meschini, ma il vantaggio portato da 
essa è nell' avere la domanda e la risposta fatta metodica- 
mente, e nel comparire della abitudine critica nella specu- 
lazione greca^ cioè di quella forza che dovea approfondire, 
provare e scrutare. Smascherare non pure una menzogna 
positiva, ma anche la affermazione senza prove, la confi- 



- 48 - 

ddnza esagerata in ciò che pure è dubbioso, o la pompa di 
cognizioni i^enza fondo — considerare un problema sotto 
tutti i suoi aspetti, e manifestare tutte le difficoltà che la 
sua soluzione presenta; tutti questi procedimenti divengono 
d' ora in poi abituali ai più grandi pensatori della Grecia. 



— 44 — 

Y. 

I Mee-Jenicl. — Cemblnazlone del nietede 

Eileatlce coir Jenlco . 

Nei tempi che precedettero e susseguirono quello, in che 
si andava facendo un mutamento radicale nel metodo colla 
dialettica e con un rudimento di critica, il problema fonda- 
mentale della natura era soggetto di nuovi studi, per opera 
di Eraclito, di Empedocle, di Anassagora e di Democrito. 
Ma tanto era il bisogno di fissare, innanzi ad ogni altra 
ricerca, le basi del metodo, che le faticose e nuove teorie 
di quei filosofi furono ben tosto poste in disparte, per dar 
luogo alle sole innovazioni metodiche, e non furono riprese 
che dà Aristotile, quando la tesi del metodo avea trovato il 
suo pieno svolgimento. 

Queste teorie dunque interessano poco la nostra tratta- 
zione, e ci appagheremo di accennarle di volo. Gli Eleati 
aveano posto in contradizione V Essere ( unità mentale ) col 
Non-essere ( moltiplicità, varietà delle cose ) dichiarandoli 
incompatibili, e sciogliendo la contradizione, a tutto carico 
del mondo esterno, condannato come non-essere . Eraclito (^) 
tentò conciliare questa contradizione riconoscen lo la compa- 
tibilità, la realità, la coesistenza dell'Uno e del molteplice, 
dell'Essere e del Non-essere. Esso faceva questa conciliazione 
adoperando un suo concetto sulla formazione continua, che 
include infatti l'essere e il non essere. E dichiarava questo 
concetto col far vedere, come le cose stanno in perpetuo 
flusso « Tuavra 'pec ». Nulla, egli dice, resta uguale a se 
stesso, tutto cresce e scema, si dissolve e trapassa in nuove 
formazioni, da tutto esce tutto, dalla vita la morte e dalla 

(*) È incerta l' epoca della sua nascita e della sua morto — 
Pare che fiorisse yerso il 500, av. G. C. e che fosse di Efeso. 



I 



— 45 — 

morte la vita; eteroa ed universale rimane questa unica 
vicenda del nascere e del trascorrere. la colai guisa rimane 
in verità annullato l'Essere unico ed immobile degli Eleati, 
[lerchò Eraclito non riconosce alcun che di perpetuo fuorché 
il processo di cambiamento, cioè il formarsi continuo, o, 
come dicono i tedeschi, il diventare. 

Già, le speculazioni filosofiche erano distanti dal tempo, 
che si cercava l'elemento fondainentalo della natura, e 
all'epoca di Eraclito gli sguarnii erano volti di preferenza 
a cercare 1' origine del movimento, invece che il principio 
dell'essere materiale. Eraclito pose il fuoco come elemento 
fondamentale, ma lo considerò piuttosto come agente primo 
della generazione e distruzione delle cose, cioè del movi- 
mento, che non come materia prima. Si potrebbe anzi in- 
terpretare sovente il fuoco di Eraclito come un simbolo che 
esprime la legge della trasmutazione delle cose, légge 
espressa ancora cou altre metafore; fra ttitte questa del 
fuoco primeggiava ed era pecidiarmente gradita ad Era- 
clito, come la rappresentanza della più vivace mobilità. 

La teoria di Eraclito lasciava inoltre molte lacune. II 
reale nella teoria di Parmenide era dato 'la una astrazione 
(atta sulle cose, in Eraclito era invece dato da una astra- 
zione presa sui cambiamenti, sulla produzione e distruzione, 
sulla variabilità ridotta a legge necessaria. Ma perchè 
tutto l'essere ò un diventare? Perchè il Tutto è in uti 
' costante flusso? Il problema posto in tal guisa fece si che 
dopo Eraclito la ricerca primaria della Filosofia si volgesse 
alla causa della perpetua formazione, al principio del 
moto. 

Per questa via Empedocle immaginò che alla formazione 
del mondo prendessero parte quattro elementi eterni ed 
immutabili, e in tal modo si accostò agli Eleati; deferì poi 
ai concetti di Eraclito, facendo che questi quattro elementi 
fossero posti in moto da due forze, l'amore e l'odio, l'ami- 
cizia e la discordia. Egli suppone che questo due forze, le 



— 46 —' 

quali veramente non sono che personificazioni initiche^ si 
mostrino perpetuamente operative, ma non sempre con 
uguale efficacia; talvolta è predominante V una, talvolta 
Taltra, talvolta vi è equilibrio tra esse. Così le cose girano 
in un circolo, che sempre si rinnuova. Al preponderare 
dell'amore, tutte le cose acquistano una compatta unità; 
e la inimicizia tace per il momento. Ben tosto comincia 
razione di questa^ e si entra in un periodo, durante il quale 
Tamore e l'odio operano simultaneamente; dopo di che 
r odio diventa temporaneamente padrone, ed ogni legame 
allora è disciolto. Ma questa condizione di cose non può 
durare. L' amore si fa nuovamente attivo, cosicché pre- 
parandosi un altro accozzamento degli elementi a traverso 
ad un nuovo equilibrio delle due forze, termina con un 
nuovo impero dell'amore e dell'unione, e cosi di seguito. 

Il solo risultato soddisfacente che può scoprirsi pene- 
trando nelle viscere Ji questa teoria, più mitica che filoso- 
fica, sembra essere la differenza così stabilita tra la materia 
e la forza, e la separazione meccanica dell'una dall' altra. 
La materia è 1' Essere stabile, la forza è il principio del 
moto in queir Essere. 

Distinzione questa, che sebbene inutile e spesso dannosa 
alla scienza completa, dovette molto, sotto forma di stru- 
mento mentale, agevolare l'analisi della natura delle cose. 
Aristotile spese su questa distinzione una grandissima parte 
dei suoi studj , e forse ad essa dovette molte scoperte; tan- 
toché gli scolastici se ne invaghirono, ne abusarono, e gli 
scienziati moderni appena incominciano a spastoiarsene. 

Anassagora (*) mal soddisfatto dall'azione di quelle 
forze indeterminate e inesplicabili, amore e, odio, e dispe- 
rando di trovare una spiegazione puramente materialistica 
del diventare e del principio del moto, assegnò alla materia 
una Intelligenza ordinatrice, posta al di fuori di essa. Non 

(<) Nato nel 450 av. 0. C. 



riconobbe al modo degli Jonici una materia primordiale, 

ritenendo esso die le cose preseuli non potessero conside- 
rarsi come tr;i sformazioni di un solo essere, ma che doves- 
sero avere una coudizione fissa e loro propria. Vu il Caos 
primitivo la massa dalla quale l'Intelligenza secondo Anas- 
sagora formò le cose, dando loro una propria natura e 
finalità. Del resto questa dottrina ebbe poc-a voga: Anas- 
sagora fu preso quasi per un sognatore, e Aristotile stesso 
dice che non si sa che cosa volesse significare colla sua 
intelligenza ordinatrice, essendosi spesso posto in coiitradi- 
zione con se medesimo. 

Aristotile, non ostante gli elogi che spesso tributa ad 
Anassagora, si trova costretto a gettare a terra d'un colpo 
decisivo il suo concetto fondamentale dell'Intelligenza ordi- 
natrice. Esso dichiara incomprensibile un' Intelligenza che 
sarebbe, secondo Anassagora, restata immobile un' eterni- 
tà, e che quindi uscirebbe a un tratto dalla sua inerzia, 
per imprimere il moto e l'ordine al mondo ('). 

Se si pone mente all'indole delle spiegazioni dell' ori- 
gine del moto date da Empedocle e da Anassagora, si 
trova che non dilferiscono molto tra loro; perchè 1' uno 
invoca, per produrre il moto, duo forze mitiche; l' altro 
chiama in suo soccorso un Deux ex machina (') un agente 
sconosciuta) e improvviso, il quale avrebbe più bisogno di 
essere spiegato e dichiarato esso stesso, di quello che possa 
riuscire a render ragione di un fatto mondiale, quale è il 
moto. 

È per ques'to che Democrito (') e gli .^tomisti si appli- 
carono a dar ragione del moto, appoggiandosi sopra una 
innata e ineluttabile necessità dì natura. 11 moto era un 
fatto, che gli Eleati non poteano mai arrivare a distrugge- 



(') Arisi. Fi3. Vin. I. 15. 

(') ArÌBt. Met. I. 4. 5. — Ava^a^opa; ti yip ji-it/ati ^P"^"' 





— 48 — 

re- Ma non avrebbe potuto esservi moto, se non vi fosse un 
vìiotOy e se non vi fossero delle cose mobili, cioè un pieno. 
Democrito adunque affermò che vi è nella composizione del 
mondo una infinità di atomi, ( il pieno) indivisibili, indi- 
struttibili^ separati fra loro da uno spazio ( il vuoto ), diffe- 
renti di grandezza e di posizione, mobilissimi e capaci di 
produrre le cose e la loro varietà con un nupiero infinito di 
combinazioni. Vi è generazione allorché si forma una com- 
binazione nuova di atomi; vi è distruzione, quando una 
vecchia combinazione si scioglie. 11 movimento delle com- 
binazioni è instancabile. Democrito non chiamava alcuna 
forza mitica a dare il moto agli atomi. Essi giravano in 
perpetuo per la loro stessa natura; la loro forza era eterna 
€ome gli atomi stessi, indistruttibile, connaturata con essi. 
E alla domanda: quale è T origine del moto? Democrito 
rispondeva: questo è il corso della natura, è un fatto che 
è successo sempre così. Le leggi delle cose erano costituite 
da un ordine intimo inerente alla natura ed al moto degli 
atomi. ' 

Siffatta teoria di Democrito fu in tutta l'antichità equa- 
mente apprezzata da seguaci e da avversari, e si può dire 
che nessuno dei filosofi naturalisti innanzi Aristotile lasciò 
nella cosmologia di quel tempo traccio così durevoli delle 
proprie dottrine. 

La teoria di Democrito per altro aveva un valore non 
solamente dal lato cosmologico^ che qui poco ci interessa, 
ma ben anche dal lato metodico. Gli Eleati cacciavano 
dalla scienza la nealità fenomenale delle cose. Che cosa 
può mai portare di buono un metqdo che si scema dell' ap- 
poggio dei fatti, che anzi gli dichiara illusorj, ingannevoli, 
perniciosi alla verità scientifica? Democrito correggeva in 
parte questo errore del metodo Eleatico, coll'accettare la 
verità delle combinazioni atomiche: ma forse questa ripri- 

(«) Nato nel 460 av. G. C. 



— 49 — 

stiaazione dei diritti del mondo esterno non era completa, 
per la poca cura con cui si era fatto lo apprezzamento della 
validità delle combinazioni stesse e della costante loro 
riproduzione, validità che può sola dar saldo appoggio alle 
leggi del mondo. Qualche cosa del flusso d'Eraclito rifiori- 
sce attraverso alla teoria degli atomi, non per un vizio 
radicale di cotal teoria, ma per un difettoso e poco 
completo concepimento di essa. All' infuori di questa man- 
chevolezza, Democrito può reclamare per se il vanto di 
avere, molto meglio che i suoi contemporanei, intravve- 
duto la vera traccia che la scienza era destinata a seguitare 
nelle sue ricerche cosmologiche. È ben vero che finattanto 
che questi naturalisti restavano nella isolata speculazione 
delle cose non poteano trovare il modo di assicurare il loro 
metodo; ma findove si potea spingersi oltre per questa 
strada, Democrito lo fece con una rara perspicacia. Se 
Democrito avesse studiato non pur T oggetto della scienza, 
ma ben anche il soggetto, sarebbe forse stato tratto a fare 
a ciascuno dei due la sua vera parte; separando V ordine 
reale e l'ordine mentale, la fissità e la variabilità dell'uno, 
come dell' altro; tenendo conto delle condizioni invariabili 
e delle accidentali, che si verificano nelle cose, e del modo 
di rappresentanza colla quale la mente se le ritrae, e di 
quelle altre condizioni che essa vi pone con un suo proprio 
lavoro. Ma la scienza era immatura per siffatti risultati, 
coi quali Democrito avrebbe preso il passo ad Aristotile, 
non che alla Sofistica e a Platone. 

Dinanzi a Democrito i rimanenti Neo-Jonici sono 
aifatto privi di importanza in ciò clìe spetta al progresso 
del metodo. Eraclito fissò l'attenzione s pra la variabilità 
delle cose, sulla loro distruzione e generazione, prendendo 
come interpctrazione scientifica di esse il concetto di 
trasformazione^ e foce un passo iiri])ortanfe per la s«iienza; 
ma non tenne abbastanza conto del fondamento che a 
questa trasformazione era necessario; e però nella situazio- 

4 



— 50 — 

ne della dottrina di Eraclito la scienza, non che acquistar 
metodo, diventa impossibile. Empedocle ed Anassagora si 
rifugiano in delle forze mitiche per trovare questo fonda- 
mento, e così tornano addietro verso il metodo dei Teo- 
logi, in luogo di fare avanzare il metodo scientifico. 



— 51 — 



VI. 



I Sofifitl — Reazione eontro li metodo 
doniinatlco , e Ineoinlneiaineiito del 
metodo erltleo. 

Quella massa di dottrine apparentemente scomposte, 
che i filosofi erano andati finora accumulando, e che abbia- 
mo sommariamente delineato nei capitoli precedenti, aveano 
gettato negli animi un turbamento nuovo, una inquietezza, 
mista di desiderio di scienza e di sconforto del passato; e 
da questa situazione dovea uscire un movimento intellet- 
tuale, che sebbene dapprima sembrasse voler rovesciare 
ogni solidità di dottrina, riuscì in fine per essere salutare 
al metodo e alla scienza. 

Per il passato erasi fatto un grande abuso del domma- 
tismo; ciascun pensatore avea la costumanza di dettare i 
suoi pronunziati scientifici, come un prodotto delle sue pro- 
prie meditazioni, di avvalorargli colla sua parola di maestro; 
che anzi non si conosceva quasi dottrina alcuna la quale 
avesse altro appoggio, fuor dell' autorità personale dei filo- 
s<jfi. Questo giogo d' autorità, sotto il quale si erano tenute 
docili le menti insino allora, dovea essere spezzato, e vio- 
lato quel sigillo, che avea coperto tanta falsa merce. Di qui 
avvenne, che neir epoca, detta della sofistica, si fece un 
moto di reazione contro le dottrine del passato qualunque 
elleno fossero , e contro Y autorità domraatica che le 
dettava. La sofistica prese decisamente aspetto di riflessione 
invcstigatrice, rovesciò la soverchia fidanza degli antichi 
filosofi, fu un vero razionalismo, la prima forma del libero 
pensiero, guidato dalle sole leggi di ragione, e su quelle 
sorretto. 



— 52 — 

Questo moto di reazione si mostra in tutta la sofistica 
e nelle varie forme che ella prese, benché queste vestissero 
apparenze proprie e speciali, analoghe alla provenienza 
loro, seconilochò traevano origine da conseguenze di 
dottrine passate, o da intemperanze presenti, o da 
concepimenti di sorgente individuale e locale. Queste 
diramazioni della sofistica sono molte e di vario grado 
e valore; tre in parlicolar modo si resero cospicue per 
servizi resi alla scienza ed al metodo, o per disordine e 
vanità di lavoro. Vi ebbe una sofistica elevata, investiga- 
trice, fiduci(»sa di sipere, maestra di ragionare — vi fu 
una sofistica bassa, -venale, che facea della parola un 
mestiere, abile alla dimostrazione del prò e del cantra ^ 
sceltica, negazione della scienza — vi fu una sofistica dia-* 
lettica, ostile alle due prime, benché collegata con esse 
contro il passato, studiosa del nuovo problema dello spirito, 
avida di trovare nella morale il pernio fisso della scienza, 
avversaria della sofistica prima, dichiarando le sue persua- 
zioni mal fondate, e della seconda stimatizzando il mestiere 
della parola e il turpe guadagno che se ne cavava. Della 
prima son campioni Prodico, Gorgia e Protagora; della se- 
conda un numero grande, tra cui quell'Eutidemo e Dioni- 
sodoro messi in caricatura da Platone; della terza Socrate 
e i Socratici. 

Senza fare questa classazione nella sofistica, mal si po- 
trebbe capire la intricata storia del pensiero in queir epoca 
sì vigorosa, feconda in ogni bene e in ogni male; e si 
inderebbe a pericolo facilmente di cadere nell'errore, che 
è comune a molti fra gli storici della filosofia, i quali la 
sofistica non conoscono altro che come un nome esecrabile. 

Invero la sofistica é stata malamente calunniata, col 
porre in rilievo soltanto alcune intemperanze di pensiero e 
di disputa, a cui certi Sofisti si abbandonarono, intempe- 
ranze che ebbero una parie del tutto secondaria; mentre 
il vero pregio di essa fu invece trascurato o discoao- 



- 53 — 

sciuto (*). La satira di Platone ha avuto molta ctjlpa 
in questo discredito; ma la satira, anche quando proviene 
da Platone, non ò buon criterio storico. Che si direbbe se 
si giudicasse Socrate dalle Nubi di Aristofane? Oltredichè 
è da considerare che Platone, mentre morde crudelmente 
i sofisti di bassa sfera, artefici di sofismi j come si 
chiamano al presente, tiene invece assai conto della 
sofistica elevata; dimodoché il concetto che Platone ci 
presenta di Protagora (nel dialogo il Protagora ) e di Gor- 
gia ( uel Gorgia ) è dei più lusinghieri; anzi spesso av- 
viene che, sia caso o volontà, gli fa argomentare più giusta- 
mente che Socrate stesso, del che me ne fa testimonianza, il 
Protagora. — Platone stesso parla della sofistica vera, nel 
Sofista, come di una nobile disciplina. E nella Repubblica (*) 
nega che della corruzione ateniese abbiasi a farne carico 
ai Sofisti. 

Al contrario, quello che v' è di male nella sofistica, 
vuoisi attribuire ai costumi generali di quel tempo. La vita 
politica dei Greci era allora infetta di egoismo: la sofistica 
ritrasse in parte dei vizi che guastavano la società, perchè i 
frofisti erano pure uomini, e politici^ e partigiani, e ambiziosi 
come tutti gli altri. Un egoismo pratico universale domi- 
nava la diplomazia di ogni stato greco, egualmente che la 
vita privata di ogni cittadino. In Atene in particolar modo 
il senso morale avea gravemente sotFerto di quelle passioni 
egoistiche e di quelle lotte partigiane che la straziarono 
durante la guerra del Peloponneso; ciascun privato vivea por 
86, poneva il suo personale interesse al di sepia di quello 
dello Stato; si cercava nel proprio arbitrio o nel proprio 
vantaggio la ragione di fare o non fare una cos'i, di f ivo- 
rire altrui o di avversarlo. Le tradizioni aveano perduto la 

(*) Vedi la difesa dtila Sofistica fatta egregiamente da Grote 
110IU sua storia della Orecia. (trad. frane. Voi. 12. chap. 3). 
O Eap. VL 6. 



— 54 — 

loro forza; cotalchè già si consideravano gli ordinamenti di 
stato come una arbitraria legislazione, e la moltitudine si 
stancava deir impaccio delle leggi fatte da essa; la legge 
morale era stimata un frutto di prudenza politica; la pietà 
già si valutava come una mera consuetudine di convivenza 
civile^ inaugurata da una convenzione umana. 

Questo abbassare l'ordine naturale delle cose, privan- 
dolo del valore di necessità razionale, e riducendolo ad una 
convenzione incerta e variabile, ad una furberia di politica, 
era già nella pratica greca, quando in conformità di essa la 
sofistica coi suoi concetti teorici abbassò T ordine di tutta 
la cognizione intellettuale ad una apparenza soggettiva, 
spogliandolo di ogni necessità di natura. Quale sia dunque 
la prima fonte del guasto non è facile discernere; ma è pur 
mestieri riconoscere, che i pravi costumi avendo necessità 
di molto tempo per insinuarsi e diventare abito comune, 
dovettero essere di lunga mano precedenti alle dottrine 
della bassa sofistica, delle quali si conosce con precisione 
la comparsa, se non improvvisa, certamente più rapida e 
più recente delle male costumanze sociali e politiche. 

Tuttavia sarebbe un falsare la storia, se in ogni caso 
si riponesse in queste dottrine tutto il contenuto della 
sofistica, e non si considerasse invece il male che <Ta in 
esse come una condizione accessoria, come un traviamento 
individuale di alcuni sofisti. 

La sofistica, a osservarla da vicino, non contiene nel 
suo proprio fondo alcun sistema: che anzi, in fatto di dot- 
trine sistematiche, non ha creato gran cosa di nuovo: e non 
è neppure una scuola, nello stretto significato della parola, 
ma una moltitudine di pensatori, che stanchi del dommati- 
smo dominante tra i filosofi, e vogliosi di atterrarlo a tutti i 
costi, iniziano un regime di libera ricerca. Il libero esame 
incomincia sempre col prendere a punto di partenza C Io 
individuale. Questa mossa la si ripiglia sempre al momento, 
che provasi il bisogno di svincolarsi da un passato sovracca- 



— 55 — 

rico di dottrino dommatiche e gravato dai ceppi dell* autorità 
di persone o di libri sacri o profani. Un tale subietti vismo 
genera la critica^ ed è salutare. In questa guisa appunto inco- 
minciò la reazione, che ebbe luogo per opera della sofistica. 
Sendochè le dottrine precedenti dei filosofi fossero mal corre- 
date di prove suflScienti e non presentassero dati positivi, si 
die* mano a soppiantarle, ponendo in loro vece le opinioni 
individuali nuovamente cercate con una libera riflessione 
investigatrice. Ciascuno tentò le vie buone o cattive di far 
trionfare il proprio parere; tutto fu posto in dubbio; si volle 
quasi incominciare daccapo. I migliori spiriti greci erano sazi 
delle dottrine religiose, che urtavano di fronte il buon senso; 
erano sazi del vaneggiare filosofico, prodigo di concetti 
pomposi ed oscuri, ma il più delle volte sprovvisti di ragio- 
nevolezza; erano sazi delle dottrine politiche, che portava- 
no la Grecia in un giro di egemonie senza uscita. 

Per un qualche lato sarebbe permesso dì paragonare 
la sofistica alla filosofia francese del secolo passato, ed al 
lavoro degli Enciclopedisti. Al tempo dell' Enciclopedia non 
si ebbe propriamente un sistema dì dottrine, ma un metodo 
dì ricerca. Si ponea tutto in discussione, e quasi si indovinava 
il lato manchevole delle vecchie teoriche, se anche non sì 
riusciva a svelarne il falso con dati scientifici. Voltaire, 
benché non avesse modo di far crollare la Teologia minan- 
dola colla scienza, pure la scosse colla derisione, e indo- 
vinò i resultati, che soltanto la critica quasi un secolo 
dopo dovea sanzionare scientificamente. Voltaire frustò 
colla sua satira e colle sue risa quei dommi che tutta la 
scienza ha oggi stimatizzato con maggior forza. U ope- 
ra dei sofisti somiglia, per qualche lato, ali* opera dì Vol- 
taire e dei filosofi del secolo passato. V è fra queste due 
epoche anche una rassomiglianza di forma: V enciclopedia 
è ben anche una abitudine della sofistica. L* educazione 
universale è un programma di questa come degli Enciclo- 
pedisti. Fu sentito il bisogno di abbattere quelle barriere^ 



- 56 - 

che faceano della scienza un privilegio di pochi, per darsi 
invece a diffondere il sapere, e quel poco che si fosse trova- 
to, insegnarlo tutto ed a tutti. 

Per ciò che concerne il valore intrinseco del lavoro dei 
Sofisti, si vede la loro attività spiegarsi in tutte le branche 
dello scibile coltivato in quel tempo. Trasimaco e Teodoro 
pubblicarono dei precetti sull'arte retorica, che sembra ini- 
ziassero l'analisi delle parti di un discorso; Prodico lavorò 
intorno alla sinonimia delle parole; Protagora fu maestro di 
morale, e d'una morale elevata, come apparisce dal dialogo 
Platonico di questo nome; distinse, dicesi, il primo le forme 
diverse del discorso e i tre generi di nomi, scrisse un trattato 
filosofico sulla Veritàj al quale forse appartenne il celebre 
detto, che di lui si conosce: « intorno agli Dei, non so se 
esistano, o no, né quali siano i loro attributi; l' incertezza 
del soggetto, la brevità della vita e molte altre cagioni mi 
impediscono di conoscerlo». Questa rimarchevole frase ci 
porterebbe ad un alta idea della sua maniera di delimitare i 
problemi e le ricerche scientifiche. Gorgia, fu retore e polì- 
tico, e nelle quistioni filosofiche si lanciò contro la tesi Elea- 
tica, negando ad oltranza che vi fosse nulla di fisso nella 
natura, e sostenendo che, lungi dall'essere il pensiero il punto 
immobile della natura, era invece impossibile di conoscer 
nulla di questa misteriosa Unità, di cui facevano tanto caso 
gli Eleati. Simiglianti concetti attribuiti a Gorgia, e serbati 
in uno scritto che va sotto il nome di Aristotile, sono i soli 
resti di una tendenza scettica nella Sofistica. Ippia si ren- 
deva celebre come storico, e oltre a ciò erasi applicato a 
molti studj matematici, e avea composto una teoria sulla 
mnemonica; altri si occupavano di arte pedagogica, altri 
della illustrazione di antichi poeti, altri della strategia e del 
maneggio delle armi, della ginnastica e della musica; 
molti erano adoperati in ambascerìe diplomatiche, come 
Gorgia, Prodico, Ippia: in breve i Sofisti si avanzarono in 
tutti i campi di attività, in tutte le sfere della scienza. Fu 



— 57 — 

come uno svegliarsi improvviso dello spirito: tutti erano 
Sofisti quelli che spendevano la loro fatica in qualuoque 
esercizio mentale, e tutti ebbero comune il metodo, cioè 
reazione ai durami, discussione e ricerca. Se quella fu un 
epoca di scetticismo, come sostengono alcuni, bisogna dire 
chiì lo scetticismo sia un veleno molto salutare, perchè 
nessuna epoca di dommatismu fu mai più feoonda di quella. 
Socrate non avrebbe potuto servirsi delle tradizioni di Pro- 
dico, se questi non lo avesse preceduto con tutta la sofistica; 
e massimamente il popolo greco non avrebbe senza di essa 
goduto di quella profusione di scienza che fu allora gettata 
prodigalmente nel suo seno. La sofistica sparse una maasa 
fruttifera di germi di progresso, sollevò quistioni intorno 
alla conoscenza, quistioni logiche e linguistiche, gettd la 
fondamenta della trattazione metodica in molti rami del 
sapere umano ('); fu essa che fondò in parte, e in parte 
preparò quella meravigliosa attività spirituale che rese 
inarrivabile Atene. Grandissimi sono anche ì suoi meriti 
dinanzi alla lingua greca, nonché ì suoi meriti artistici. 
Furono i Sofisti i primi che abbiano fallo soggetto di studio 
lo stile, come strumento ad esprimerà artisticamente ì con- 
cetti, e diventarono quasi creatori delta Prosa Attica, che 
nelle loro mani toccò un grado elovatissimo di perfezione. 

11 pregio principale della Sofistica dinjinzi alla scienza, 
fu, come ho già osservato, lo aver portato la discussione su 
tutte le dottrine, e Io avere iniziato il metodo critico. Tra 
le quistioni sorte in allora, e che più tengono da vicino alla 
formazione del metodo, è quella che sì riferisce all'attinenza 



(') «Tennemimn è tono di tutti gli «torioi dslla filosofi» colui che 
ha re^i) 1k giustizia più completn ai Siifiati, e ai può penaare eoa luì 
che la Sotistica duTe etier computata poaìtivameate e negativk- 
menla per una graa parte aella formaiione doUa Logica, di cai i 
SdSitì sbizzaruno alcuna partì, e di cui fitcero aentire vivamente il 
bitogoo, colle itrgio nburrazioni dell* loro dottrina >. BartbOlanij'- 
SwQt-Hilaire. L.i Logii^ue d'Anstote. Voi. II. p. 107, 



— 58 - 

tra r oggetto conosciuto e il soggetto conoscente; ossia 
r attenzione fissata per la prima volta sul grado di veridi- 
cità, che deve attribuirsi al soggetto conoscente, e su quel 
tanto che esso pone di suo nella conoscenza. 

I precedenti filosofi aveano preso per sicuro che la scien- 
za acquistata corrispondesse esattamente alle cose intorno a 
cui la cognizione si aggirava; o per dir meglio, non si erano 
preoccupati dell' attinenza tra la cognizione e la realità, né 
della possibilità che vi fosse una illusione fondamentale o una. 
incertezza la quale ne annullasse Teffetto. Questo problema 
comparisce per la prima volta in tutta la sua crudezza e 
importanza presso i sofisti. Come si fa chiaro, che le cose 
sieno in realtà quali appai'iscono al soggetto pensante? Que- 
sto problema era stato preparato dal flusso di Eraclito, e 
dagli attacchi degli Eleati contro i dati sensibili. Se tutto 
scorre, nulla è fisso, e ciò che conosciamo non è più al 
momento stesso che lo affermiamo. Questa illazione getta- 
va il turbamento in tutta la scienza. La sofistica su questo 
terreno détte al soggetto una importanza primaria nella co- 
gnizione e neir apprezzamento di essa. L' individualità di 
ciascuno diventò la creatrice massima del vero. Ciò che 
a ciascun pare, quello è vero: « V uomo è la misura di 
tutte le cose » è la formula nella quale Protagora pare 
concentrasse questo risultato dello studio del nuovo pro- 
blema filosofico. 

Grote ha alcune belle pagine in difesa di Protagora e 
del suo famoso detto, (^) contro la polemica Platonica. Il 
significato che Grote assegna a quel detto di Protagora è 
plausibilissimo come interpetrazìone moderna; ma è deplo- 
rabile, che non vi sieno neirantichità abbastanza documenti 
capaci di confermare V interpetrazìone di Grote contro la in- 

(*) Grote 's Plato. Voi. IL p. 345 e p. 507, vedi anche la sua 
storia della Orecia, luogo citato. 



lerpelrazione del tutto ostile e malevola di Platone. (') Grò 
to sostiene, che Protagora iion ha voluto dire altro, che 
questo: la verità qualunque ella sia, Don può essere acces- 
sibile a noi, se non che conforme alle condizioni della nostra 
mente, condizioni che presentano qualche pnrticolarità pro- 
pria in ciascuno individuo: la verilà in se, è una parola 
vuota di senso, perchè qualunque verità è necessario la si 
(ogt^i a seconda della mente in cui penetra. Dinanzi a questa 
interpetrazione cadono di leggieri tutte le argomentazioni 
Platoniche contro Protagora. 

Allorquando si stenta a credere, che quello fosse il vero 
significato inteso da Protagora, egli è perchè in tal cascia 
polemica di Platone sarebbe della più sconcia malafede: e 
d' altra parte fa meraviglia di non trovare alcuno nell' anti- 
chità, che abbia rimproverato a Pl.done una si trista inter- 
petrazione e ristabilito il concetto di Protagora. Platone ha 
certamente torto quando dal detto di Protagora — Homo 
mensura — attribuisce ad esso la confusione della scien- 
za colla sensazione; 1' uomo può essere misura delle cose 
non solamente colla sensazione, ma col giudizio, che è pur 
subiettivo; e in questo caso rimane intalto il detto di Pro- 
tagora, senza la confusione della scienza colla sensazione, 
controia quale argomenta Platone; ma forse questi ha ra- 
gione di attribuire a Protagora l' intenzione di porre in ba- 
lia del soggetto la verità. E Grote dal canto suo, quando 
spiega la frase — Homo meiisura — come tale, che Ìndi- 
chi soUato la necessità naturale, per cui la limitata capa- 
cità del soggetto limita le verità conosciute, interpetra Pro- 
tagora forse troppo con intendimenti moderni, li brano di 
Sesto Empirico, nel quale è fatta menzione dì quella dottrina 
di Pititagora, non sembra che risolva la questione; cL'aomo 



(') Plutone no' Teeteto dichiara che il dotto di Protagora — 
« I' nomo è l.iniisara tji tutte ìe cobo» — eqoiralo a qnoat' altro 
e la scienza à la sensazione >. 



— 60 - 

è la mii^ra di tutte le cose: Protagora fa deiruoma il criterio 
che ne apprezza la realità, degli esseri in quanto esistono , 
del niente in quanto non esiste. Protagora non ammette 
dunque che ciò, «che si mostra agli occhi di ognuno » (*). 

Sembra invero che Protagora nel dichiarare il subietto 
misura dell' obietto, dasse una tal quale azione a quello 
sopra di questo; talché la relatività della cognizione si 
basasse per lui non nella necessità di rapporto naturale 
tra le cose e la mente, ma in una azione di questa 
sopra di quelle. La mente è una formazione lenta, succes- 
sird, condizionata e legata a tutta la influenza che le cose 
esercitano suU' uomo ; è dunque relativa: ma il soggetto 
subisce V azione della cDse, non la modera, come sembra 
che pretenda Protagora. Ad ogni modo la interpetrazione 
di Grote è felicissimai in se stessa, e in nulla contraddetta, 
benché neppure convalidata, da questa testimonianza di 
Sesto Empirico; ma forse non è in simile accordo colla 
testimonianza di Aristotile. (Metaf. 111. 5. 1 ) 

Quel detto di Protagora per altro, anche a considerarlo 
secondo una parte della interpetrazione Platonica, cioè come 
tale che dasse al soggetto una azione diretta sulla verità 
concepita, sempre esclusa la confusione della scienza colla 
sensazione, non è tale da giustificare le conseguenze di 
scetticismo che Platone e i moderni gli attribuiscono. 1 con-* 
temporanei di Protagora, forse attaccandosi al lato esterio- 
re di quella frase, se ne giovarono per portare la libertà 
dello spirito sino alla licenza; ma questa conseguenza sor^ 
passa la premessa di Protagora. Qualunque sia l'azione del- 
la mente sulle verità concepite, siccome le menti di tutti gli 
uomini, ^sebbene variano di condizioni accessorie, sono per 
altro tutte conformi nella loro costituzione naturale e obbe- 
discono tutte alle stesse leggi, ne segue che la verità debba 
subire le stesse influenze in tutte le menti, e riacquistare così 

(«) Pjrrrhon Hypot. Gap. XXXII. 216. 



— 61 — 

quel carattere di generalità, che sembraya le si togliesse 
col detto di Protagora. Questa conseguenza è tanto giusta, 
che fu tratta ben presto da Socrate. Il quale dòtte al sogget- 
to tanta azione sulle cognizioni, quanto Protagora glie ne 
avea data, ma fece d* altra parte rilevare la uniformità del- 
le leggi a cui tutti i soggetti umani obbediscono, e ne esci 
la conseguenza della uniformità dei concetti e della fissità 
della scienza. 

11 metodo dei sofisti adunque da una parte fu rÌToiUKÌo- 
nario, e lasciò dietro a se le traccie di quel disordine che 
tutte le rivoluzioni lasciano sulla loro strada. Ma da un* al- 
tra parte esso entrò nella via della critica, via che dovea es- 
sere poscia la sola, che la scienza lasciasse aperta a se stes- 
sa. A vero dire erano più soggettivisti i dommatici del pas- 
sato, che non i Sofisti, sebbene questi lo paressero più. V è 
più pericolo per la verità nel lasciare balìa di legislatore 
scientifico ad un solo pensatore o ad un solo libro, che non 
nel porre in dubbio tutto il lavoro di tutti; v' è più pericolo 
neir accettare senza ragionamento competente una dottrina 
sola, che nel porre a massima, che è vero ciò che pare a 
ciascuno. Appunto perchè le leggi fondamentali della ragio- 
ne essendo uniformi, ciò che pare a ciascuno, se è il vero, 
ben presto parrà a tutti, e se è il falso, a lungo andare non 
parrà più a nessuno. La libertà individuale del pensiero è 
cosi resa adatta alla pratica dall' incontrare i limiti in cia- 
scun altro individuo pensante: il che torna a dire, che la 
libertà del pensiero è limitata dai limiti del vero; il quale 
solo è ragione e motore dell' azione limitatrice degli altri 
individui pensanti, di fronte al nostro proprio pensiero. Azio- 
ne che in verità non proviene da quest' individui pensanti, 
ma piuttosto dalla condizione reale delle cose pensate. E co- 
sì se vi è collisione tra le conclusioni, sarà necessario ricer- 
care da chi nasca V errore, e V una delle opinioni pugnanti 
dovrà modificarsi, se la ricerca è tale che possa ossero 
rischiarata coi dati che si hanno alla mano. 



— 62 — 

Dal seao della sofistica usciva dunque il metodo spogliato 
deir abitudine dommatica invalsa in addietro, ed arricchito 
della forza dialettica, che sottoponeva tutte le dottrine al- 
la critica. Assieme a questa modificazione esteriore, i pro- 
blemi filosofici sinora agitati si completavano colle ricerche 
nuove intorno al soggetto pensante e ali' attinenza di esso 
colla natura. In questo nuovo problema si concentrava, più 
che in tutto il resto, T avvenire della scienza, per la illustra- 
zione che ne avrebbe ricevuto la quistione metodica.* 



- 63 — 

VII. 

Socrate — Metodo dialettico, critico, 

concettuale • 

Chi dicesse, che la vera Filosofia comincia con Socrate, 
non audrebbe forse molto lungi dal vero. Che il libero uso 
della ragione e la sincera discussione delle dottrine sol- 
tanto allora si posero in onore, e non pur la Filosofia, 
ma tutte le scienze debbono a Socrate e all' epoca sua la 
iniziata formazione della solida investigazione razionale. 
Finché il dommatismo prevalse, il vero non ebbe guarenti- 
gia di sorta, e le scuole non differirono gran fatto dalle 
sètte religiose. La reazione contro il dommatismo fu, inco- 
minciata e spinta ad ogni eccesso dalla Sofistica; ma fu. So- 
crate (^) che trasse poi le più sano conseguenze di cotal 
reazione, e purgò il subietlivismo dei sofisti, riprovando in 
parte il malo uso che alcuni di loro facevano della nuova 
libertà di pensiero. 

La parte presa da Socrate a questo rinnuovamento della 
scienza, rinnuovamento del quale poi tutta la umanità go- 
dette il beneficio, si rende più simpatica e grandiosa per la 
elevatezza morale di queir uomo e per la tragica fine colla 
quale espiò V ardimento della sua parola. 

Socrate non proclama un sistema, non ricerca una ma- 
niera di spiegare la natura. Anzi la natura è come se non 
esistesse dinanzi a lui. Esso non conosce degno oggetto del 
suo filosofare airinfuori dello spirito, o meglio, dei fenomeni 
morali e della società. E diflScile comprenderà Socrate, 
altro che a vederlo in piena attività nel colmo di una 
discussione, che stringe V avversario di riparo in riparo; 
che poscia lo riconduce dolcemente a se e gli fa con* 

(*) Nato nel 470 e morto nel 899 av. 0. 0. 



— 64 — 

cedere una conclusione, poi due, poi dicci; quindi lo 
sconcerta con una giravolta improvvisa , lo devia , lo 

trascina in un nuovo cammino, innanzi e in<lietro, lo fa 
smarrire, e lo tira infine a confessare la propria igno- 
ranza e quella di tutti. Tc*le è Socrate, e se non aves- 
simo abbastanza dati per valutare la sua eletta indole 
morale, sarebbe facile scambiarlo con un abile sofista bra- 
moso di seminare per via lo scetticismo piuttostochè i germi 
del vero. 

Socrate nella sua qualità di uomo onesto e campione 
delle dottrine morali ci è presentato nella miglior parte 
da Senofonte. Ma Socrate filosofo bisogna cercarlo nella 
prima porzione delle opere Platoniche. Sembra sicuro che 
una porzione dei dialoghi Platonici siano stati scritti sotto 
la ispirazione immediata di Socrate o vivente o morto di 
fresca data, talché in quella porzione di dialoghi il ritratto 
scientifico di Socrate debba ritenersi il più somigliante 
all^ originale; mentre nelle altre fu alterato prima per ser- 
vire alle idee eleatiche, poscia per fai* luogo ai concetti pro- 
priamente Platonici. Nei primi dialoghi infatti tutto concorre 
a mostrare T autenticità di quel ritratto. Un modo dialet- 
tico genuino, una totale mancanza di conclusioni precise, 
reminiscenze sofistiche, scena contemporanea degli ultimi 
anni di Socrate, assenza di ogni concetto storico della filoso- 
fia, contradizioni di tesi propugnate in senso opposto in di- 
verse occasioni, bramosia di condurre V avversario a con- 
fessar la sua ignoranza, e confessar la propria d' accordo; 
questo è il fare che si riscontra in tutti i dialoghi Socratici. 
Non già che le proprie parole e i concetti e la condotta di 
quei dialoghi sieno da prendere per una riproduzione esatta 
delle discussioni di Socrate; ma in essi trovasi il ritratto del 
«uo pensiero^ del suo metodo, un pò* corretto e perfezionato, 
come ritratto disegnato a memoria da abile pennello, ma 
sicuramente fedele. 

Or sa a qiuesti stessi dmlogbi domandasi il complesso 



— 65 - 

del lavoro filosofico di Socrate, si trova che tutto si com- 
pendia principalmente nella missione, eh' esso dice d'avere 
avuta da Dio, di mostrare come i suoi coetanei non 
abbiano persuasioni ben fondate, e che bisogna rifar 
da capo le fondamenta della società. 11 primo periodo 
de' dialoghi Platonici non lascia alcun dubbio a questo 
riguardo. Neil' Apologiay che certamente esprime il pen- 
siero e le intenzioni di Socrate, è dichiarato in termini 
precisi, comò esso avesse in mira di smascherare la presun- 
zione burbanzosa di sapere nei contemporanei. Neil' Ippia 
minore^ si ha un concetto chiaro del passaggio dal metodo 
sofistico, a quello Socratico. Vi si ved^ Socrate ancora so- 
fista di forma, ma già cambiato nella sostanza. Vi si 
odono in bocca a Socrate dei sofismi appena tollerabili in 
un Sofista, (^) e tutto il dialogo ostenta una bramosìa di 
mostrare, come i più accreditali uomini del tempo non 
sappiano bene in che propriamente stia la virtù e il vizio. 
Socrate si» preoccupa unicamente di smascherare in essi la 
falsa persuasione di saperlo, senza poi curarsi di porre nulla 
di vero in luogo di quella. Di qui una disordinata battaglia 
dialettica, una smania di atterrare, involgendo nella distru- 
zione ogni cosa buona e cattiva. Altrove si preoccupa di 
confondere e di umiliare gì' interpetri dei poeti mostrando 
quanto sia falsa e presuntuosa la loro persuasione di sape- 
re interpetrargli a dovere; e questo fa nell' Ione. Oppure 
distrugge. nei demagoghi la persuasione di saper governare 
lo Stato, scoprendo in essi povertà di cognizioni all'uopo e 
difetto di rettitudine; come nell' Alcibiade primo: oppure 
prendendo a minuto certe virtù, mostra che i Greci suoi con- 
temporanei credono di sapere, ma non sanno, che cosa sia 
la temperanza, come nel Carmide; o il coraggio, come nel 
Laches; o 1' amicizia, come nel Lisis. Nel Protagora il vero 
sofista è Socrate, e in quasi tutte le quistioni ( tranne quel- 

i 

(') V. Fiat. Ipp. min. passim. 



— 66 - 

la accessoria, che si riferisce ai poeti ) colui che ha più ra- 
gione è Protagora, ma Socrate si maneggia con ogni argo- 
mento della più sottil dialettica solamente per avviluppare^ 
l'avversario, e mostrargli la base mal ferma delle sue per- 
suasioni anche buone, E non glie ne fa quasi rimprovero, 
perchè esso stesso confessa di non esser più stabile di lui, 
che anzi arrivato sulla fine del dialogo ad una conclusione 
assurda ed equivoca, esce in una sentenza che potrebbe 
passare per il programma di tutta V opera dialettica di 
Socrate. « E' mi sembra, egli dice, che la conclusione 
del nostro trattenimento si levi contro di noi e si faccia 
belSfe di noi come persona viva, e che se potesse parlare, 
essa ci direbbe: Socrate e Protagora, "voi siete V uno e 
r altro bene inconseguenti. » L' opera di Socrate infatti 
nella sua forma esterna era una specie di continua incon- 
seguenza, uno sforzo perduto nel mostrare agli altri la 
loro ignoranza e la propria, coronato e riassunto nel famoso 
detto « questo solo so, che non so nulla ». Socrate nel suo 
aspetto filosofico fu dunque un critico, il più instancabile di 
tutti i critici, un critico universale, di tutto e di tutti, dei 
Sofisti, dei Politici, dei Sacerdoti, degli amici e dei nemici, 
e infine di se stesso. Ben è vero, che esso non fu uno 
scettico; perchè il pensiero segreto del bene, che avreb- 
bero ricavato dalla sua critica i contemporanei, illumi- 
nava continuamente i labirinti delle sue discussioni; esso 
era sicuro che se faceva il vuoto rielle menti, non avrebbe 
questo tardato a colmarsi di nuovo,' perchè in fondo a 
questo vuoto esso sapea destramente collocare la speranza 
e il desiderio ardente del vero, doti che gli scettici non 
ebbero mai. 

Prima di passare oltre mi si permetta di richiamar 
r attenzione sulle funeste conseguenze, che dovea portare a 
danno della sua persona questo modo, tenuto da Socrate per 
lunghi anni sulle piazze e sotto i porticati d' Atene. Esso 
gettava lo scompiglio nei pensieri e nelle convinzioni di tutti. 



— 67 - 

biasimava i Sofisti, i Demagoghi, i Sacerdoti, e attirava 
sopra di se l'odiosità che il biasimo accumula. Fa meraviglia 
che la gran tempesta di persecuzione che sì scatenò contro 
di lui già vecchio, non gli scoppiasse sul capo anche prima. 

^ La ragione che mosse Aristofane a metter Socrate, in com- 
media nelle sue Nuhiy è pur la stessa, che animava contro 
di lui il risentimento generale degli Ateniesi. Aristofane 
era uno degli^ entusiasti ammiratori del buon tempo antico 
e il panegirista spiritoso delle vecchie tradizioni ,patrie. 
Come esso porta a cielo costantemente il tempo passato, 
così attacca pertinacemente il moderno, ed ogni tentativo 
di innovazione in Politica, in Arte, in Filosofia. I novatori 
formano V oggetto dell' odio implacabile di Aristofane, ed 
esso gli morde di continuo per metterli in mala vista del 
popolo già bastantemente inclinato ad odiarli; di qui le sue 
tirate contro Cleonte demagogo, nei Cavalieri; contro Euri- 
pide riformatore della Tragedia, nelle Rane e nei Tesmo^ 
foridi; contro Socrate sofista, nelle Nubi. Socrate come il 

' più alto rappresentante di una filosofia distruggitrice del 
vecchio domniatismo, dovea essergli particolarmente in ug- 
gia; tanto più che in politica quella stessa filosofia era acca- 
rezzata dal partito il più agitatore, il più inquieto, quello al 
quale si attribuivano i recenti disastri. E così il pensiero 
primario delle Nubi di Aristofane è di presentar Socrate 
come il campione della Sofistica, cioè di quella maniera di 
filosofare, che scotendo le tradizioni del passato appariva 
come altamente corruttrice, della gioventù. Ed infatti 
Socrate era veramente uno dei Sofisti, e in ciò Aristofane 
avea ben còlto nel segno: ma il suo errore sta nell' aver 
confuso Socrate cogli altri sofisti e specialmente con quelli 
di bassi sfera; nell' aver disconosciuto il movimento e il 
progresso che la Sofistica faceva per lui, progresso capace 
di migliorarla a tal punto, da purgarla di tutta là sua 
parte cattiva. // buon tempo antico è una finzione, che ha 
fatto sempre illusione ai conservatori, e che pur -in questo 



— ^ — 

c?^9. allucinò taiitQ Aristofape, d^ fe<rlo esseife cosi. spOiOci^- 
ifl^i^^ iijg|ius.feo eoa Sperata. Il tempo antico coUa sua igiw- 
r^pj?^, colle sue supierstizioni, col suo dommatismo in. scieiir 
za,, i^oR pptea piìjL, tornare; e Aristofane se ne vendica col 
malfl^epar^. quelli che hanno precipuamente lavorato a sbar- 
rajfgl^, per sempre la strada al ritorno. Socrate è comparso 
i^eU5\ opjjjione. comune quello stesso che' era comparso- ad; 
ArjsjLp^u^.^ La Sofistica, ave^. da espiare la colpa di aver 
agimp^con un moto scompos^to la società greca/ e V espia- 
zipi^p tOQcò a Sperate, che ne fu 1' unica ma la più imm0ri^ 
tev.pJQ. vitti nj/i. Lo stato sociale ateniese era allora in pei^ 
sjnjji^Qppdiziojjp pei rovesci toccati nella guerra del Pelo^ 
ppunesp, p^r- la signoria dei Trenta, e il malumore cbier 
dpya uoo, sfogo. Appena gli occhi si voltarono ai liberi pen- 
satori del tjempo, ai Sofisti, accagionandogli di tutti i. mali 
pubblici, aullja di più dolce apparve, che il potere att^rrar-e 
il più emin^pjte tra lorp e il vero rinnuovatore della. Sofistica, 
la qu^aj^ «per es^o minacciava di riacquistare il credito per- 
duto. Spt,tp qjjjBsto. as{}etto Socrate era anche più colpevole 
deglj altri. JPerqhè la Sofistica futile effimera, vuota di 
seusp e piepa.di baldanza, cadeva'daper se; ma si andava 
a fpndare con lui una Sofistica seria, ammaestrata dall' er- 
rore degli altri, capace davvero di presentarsi a prendere 
il j|osto delje vecchie filosofie. Tutte queste ragioni di; odio 
vanno cQi;nbin^te con quella sopra indicata della terribile, 
irom*^. dialettica colla quale Socrate mostrava a tutti la 
debolffzzadei Ipro pensieri, poche o punte certezze riedi- 
ficando ^vl] terjreno di quelle abbattute. Laonde presto appar- 
ve agli- occhi, di tutti come un malefico genio, il quale rom- 
pendo r incanto, delle menti gettava in esse la desolazione 
del vuoto; e fu.ip tal npodo considerato come il più terribile 
avversari9 della società. Ed anche gli effetti delle sue dot- 
trine^si credea di poter valutare fin d' ora; perchè sebbene 
egli, non fosse aristocratico, si conoscevano le sue intimità 
coOiU^Q 4ft' Trenta, che già era stato suo scuplaro, Critia,. 



ora oligarchico, spartanpgglanfc; ed anche a suo setolalo 
ateTa avnlo Alciljiade or.i egualmente inviso al popolo. 
Questi due sciiolari erano il fruito vive-lte dinanzi al pufc- 
blico dell' insegnamento di Socrate, e crebbero le antipatie 
contro il toaestro. 

Dopo ciò, non pnò far meraviglia la sna condanna. Anzi 
io petlso che sia da meraviglirrre, che Soci*ate solo cadesSe 
sotto i colpi di qnesta reazione prodoUa dal malumoi'e dèi 
con3erva1ori contro i novatori, aiutata d.^1 dolorédei dìsastH 
pubblici, presa a sfogd di vendetta cotìlro i nuovi peiisatòH 
per la perdita del buon (enipo antico e per T acoumuliirsi 
delle sciagTire che trassero a rovina la patria. 

Se si prende a considerare I' o[>era di Socrate dal Ikto 
dei tìielDd'Oj si troverà che essb ha portato nella filòèb'fia un 
concetto nuovo, ma ne ha scartati moki vecchi e necessari. 
U iliigliora mento portato nella Soffslica dando un pUuto fìsko 
alte dottrine soggettive, ponendo ciascuna quasi sOjirà Un 
ano pernio, sul concetto, e a queai' uopo facendo un b^ù 
rilevantissimo della definizione e della classazione e di uba 
aorta d' induzione, fece di Socrate il vero iiistàtirator^ della 
dialettica e il rinnuovalore dèlia filOsdtì.i, specìalmeuté in 
ciò che risguarda la cognizione del soggettò perisnnte. Esso 
fii condotto in questa nuova via della necessità, da esso pro- 
damala, di fermare siuceramente lo sguardo sullo spirito, 
come oggetto primario di ricerca, staccaildo là niènte dàlie 
cose in confhsó per voltarla al loro vero cérìtró, alta ùEltltrà 
umafla. Unico oggetto degno di esercitare Vardor'e di sapere 
gli apparve la conoscenza di so, e ftce sua la sentenza Dèl- 
fica yyfSi) aoRtzòv. 

Ma ben presto si scopre il manchévole di quella dottrina, 
quando si vede in primo luògo che la parte positiva di que- 
sta conoscenza é la sola natura dell' uomo nell' ordine mo- 
rale: Socnilc mutilava in (;erto qual modo la natura umana, 
nulla cercando irt essa all' infuori della pratica mOrale, e in 
essa tH>n tmva&clo materia degAa dì i\M\b alt' infiori dr 



- 70 ~ 

una ricerca intorno alla virtù. In secondo luogo e in conse- 
guenza di questa prima lacuna di metodo^ esso trascurava 
affatto la comunicazione ordinaria che lo spirito ha colle 
cose del mondo esterno; e per questo motivo, non va, come 
è detto nel Fedro di Platone, a passeggiare nella campa- 
gna, perehè gli alberi e il paesaggio non gli possono inse- 
gnar nulla. Se anche si voglia dare a quel passo del Fedro 
un valore Platonico, certo è che dall' insieme delle dottrine 
socratiche si ricava come quel detto sta a meraviglia in ' ' 
bocc? di Socrate stesso, il quale avea, se non un disprezzo, 
certo una trascuranza notoria per lo stadio delle cose del 
mondo, non che per tutte le dottrine dei pensatori pre- 
cedenti. 

Certo che rimarrà gloria perpetua di Socrate lo aver 
rinnuovato il metodo coj solo richiamo della mente allo stu- 
dio del pensiero in se stesso e nei suoi prodotti. I Sofisti 
aveano spogliato di forza le dottrine coli' attribuire troppo 
valore al subietto; e ciò avveniva dal prendere che essi 
facevano i prodotti del pensiero senza criticargli, senza pa- 
ragonargli, senza approfondirgli. Macon Socrate il concetto 
morale diventò il pernio della retta scienza; e questo con- 
cetto fu da esso abitualmente discusso, paragonato, criticato. 
Cosi mentre il Metodo faceva un passo il più decisivo collo 
studio del concetto, anche dal iato dialettico si otteneva un 
miglioramento, perchè la libertà sfrenata dei Sofisti trovava 
un limite. Il metodo Socratico è applicato a svegliare uni- 
versalmente il sentimento di una necessità costante che i 
prodotti individuali siano confrontati a una norma, il con- 
cetto, e così possa il vero trovato da un solo diventare 
patrimonio universale. 11 concetto stesso per altro essendo 
depositato nelle menti secondo diverse gradazioni e con dei 
contorni alcun poco variabili, ne avveniva esser necessario 
confrontare e discutere. All' antico dommatismo, col quale 
uno dei vecchi pensatori Jonici imponeva sulla sua auto- 
rità le proprie concezioni, succedeva ora l' esame, pieno, 



— 71 - 

libero, ma razionale di ogni proposizione e V accettazione 
scientifica di essa. In luogo della subiettività personale, era 
una subiettività comune, se si può dire, quella che Socrate 
facea prevalere; il che significa che la vera misura delle 
cose non era ciò che trovasi in noi di individuale, diverso, 
come la personalità, la credenza, la volontà, il parere^ che 
non hanno forza di ngire sulla credenza e sulla volontà 
degli altri; ma era una subiettività potente, che avea forza 
di imporsi agli altri, era il pensiero ragionato. Il quale è 
bensì subiettivo, ma è in ciascun soggetto nelle, condizioni 
identiche e da identiche leggi è guidato; talché questa su- 
biettività ha un fondamento di consonanza nella conforma-, 
zione stessa della natura umana. Questa conformità che si 
verifica nelle menti, benché nasca in seno al soggetto, non 
è soggettiva, é invece del 'tutto oggettiva, perché nasce, 
come ho osservato in addietro, da una condizione reale delle 
cose pensate. Or ciascun pensante ha una coscienza, la 
quale raccoglie i risultati del pensiero; e se questi furono 
elaborati sinceramente alla luce della percezione e della 
riflessione senza mistura alcuna di individualità inferiore, 
volontà, passioni, pregiudizj, credenze religiose, questi 
risultati possono comparire dinanzi al pensiero degli altri 
uomini, che saranno come forzati da essi; e invece se 
abbiano subito T azione della individualità inferiore, cia- 
scuno gli accetterà quando consuonino colla sua stessa 
volontà, passioni ec, ma non avranno che un valore 
limitato più affettivo, che razionale. Così per ^opera di 
Socrate si traeva delle viscere della Sofistica e si iniziava 
la validità del pensiero individuale, v poggiandola sulla 
invariabilità delle leggi del pensieso stèsso. 



- 72 — 

Vili. 

I 

Platone — Metodo dialettico. Idealistico. 

Platone fu colpito profondameate dalla dottrina Socratica, 
colla quale si stabiliva la forza razionale del pensiero 
morale; e maravigliato di questo fenomeno della natura 
umana, che è nel pensiero come temprata all' unisono, e che 
non può sottrarsi alla sua forza prevalente, «i die' a cercare 
. la causa di tal fenomeno, e trasportandosi dall'ordine morale 
in quello scientifico generale, trovò siffatta causa in un 
.mondo di enti separati creato a sua fantasia. 

Sarebbe per altro far grave torto a Platone, giudicando 
la sua opera grandiosa da questo semplice enunciato. Per 
apprezzare giustamente Platone, è più di tutto necessario 
di seguitare la sua mente attraverso allo svolgimento filoso- 
fico che essa ebbe a subire. I dialoghi Platonici debbonsi 
separare in tre grandi classi, che corrispondono a tre epoche 
importanti della sua vita e a tre maniere di concepire filoso- 
fiico da esso adottate. La 1 .* classe che coincide coi primi 
studi di Platone, comprende dialoghi scritti sotto la ispira- 
zione di Socrate vivente o morto di poco, e presenta una 
serie di dottrine del tutto Socratica, limitata a concetti 
morali, con prevalenza della dialettica minuta di Socrate. 
Nella 2.* classe che corrisponde all'epoca dei viaggi di 
Platone, si ha il primo sintomo del bisogno sentito da esso 
di studiare la storia della Filosofia, trascurata, bandita da 
Socrate; dì informarsi delle dottrine dei precedenti e dei 
contemporanei; e di qui il progetto concepito di conciliare le 
dottrine Socratiche colle straniere e specialmente colle 
Eleatiche. A questa classe e a questo tempo appartiene il 
trasporto fatto da Platone delle idee fondamentali di Socrate 
dalla morale a tutta la scienza. La 3/ classe corrisponde 



- TS — 

ili' insegnamento dato da Platone nell'Accademia, e 
racchiude la vera opera Platonica. Esso è a quest' ora in 
pieno [Któsesso della sua Teorica delie Idee separate, e non 
fa «he applicarla, da esse derivando tutta la organieazione 
dei suoi concetti dlosofici intorno all' anima, .il jjioiido, alla 
società. (') 

Mosso su questa v.'a, Vl.i no peneirù con un ardire e 
un genio sovrano nei più reconditi penetrali del vecchio 
sapere, e creò di pianta un nuovo edificio di sublimi concetti, 
architettando per la prima volta quella che oggi direbbesì 
una Enciclopedia filosofica. Tutto il sapere filosofi-'O contem- 
ptiraneo e il passato e quello dì sua creazione fu da esso 
disposto in una armonia non concepita finora, e il mondo delle 
cose e quello delle Idee, e l' ordine della Società e quello 
dell' Arte si composero sotto 1' egemonia del Bene. Sarebbe 
qui troppo lungo e fuori di proposilo in questo scritto chia- 
mare in r.issegna tutto il lavoro Platonico. A me. basti 
soffermarmi un poco su certi cardini fondamentali delle 
dottrine di Platone, che pili hanno una attinenza diretta col 
metodo* inaugurato da esso e favoreggiato lungamente da 
varie scuole naie dalla tradizione .\ccademica. 

I due cardini delle dottrine Pl-itoniche sono il concetto 
della Scienza e la teorica delle Idee, sopra entrambi i quali 
si tiene in equilibrio tutta la macchina del metodo di Platone. 

L' uomo ha una tendenza vivissima a conquistare la 
verità, una specie dì Amore ('Epwg), che si manifesta nello 
sforzo della mente verso di essa. La trattazione mistica, 
che Platone adopera svolgendo il Ci»ncct!o di quest'amore, 
è del tutto conforma all' indole del suo lavoro intorno alle 
ìe, lavoro ricco di fantasia e di entusiasmo. La bellezza 
è per Plotone il legame tra la mente e la verità, la bellezza 
di cui l'anima gustò una rapida eonlomplazione attraver- 



(*) Da conBulture Gescliichte unJ Sysleni dar Plinto ni schen Phì- 
asopbie Ton Karl. Fr. Eerm»!». ilaitlfilhorg 1839. 



- 74. '- 

sandoil modo delle idee prima di scender quaggiù a incarce- 
rarsi in un corpo; della quale appena 1' anima scorge un 
vestigio, si lancia verso di essa^ tratta dallo svegliarsi in lei 
della reminiscenza del mondo ideale (^). Platone détte uno 
scopo nuovo e degno all' attaccamento comune in Grecia di 
uomini provetti verso i giovanetti, trasformò e idealizzò la 
(pilla, cóìV assegnarle un fine spirituale, e fondando sopra 
di essa il primo grado di tutto V amore della bellezza 
universale delle cose e dei pensieri. Il sentimento primitivo 
di trasporto verso una bella persona maschile nelle migliori 
nature si cangiava, secondo Platone, in un attaccamento^ 
per la bellezza morale e mentale della persona amata. E un 
sentimento anche più elevato si generava da esso, che si 
esprimeva in un trasporto verso tutta la bellezza delle cose 
e delle istituzioni, e delle arti, e delle scienze. E quando la 
mente fosse arrivata a questo punto, se la sua indole fosse 
privilegiata, se le bastassero le forze e l'amore, essa poteva 
arrivare alla contemplazione della Bellezza in se, dell' Idea 
del Bello. 

Questo genere di trasporto verso le persone belle, e 
verso la bellezza mentale e verso l' Idea del Bello era una 
forma secondo Platone, di quella forza d' attrazione uni- 
versale, che trae 1' umanità intiera verso la felicità. (*) E 
d' altro lato, come l'impulso erotico produce una congiun- 
zione tra r uomo e la donna per la procreazione dei figli; 
in simil guisa gli effetti dell' Eros mentale portano le menti 
a stringersi in una copula per la generazione dei prodotti 
mentali. Da questa congiunzione e dallo sforzo reciproco 
delle menti si produce la scienza. In tal guisa il conato verso 
la bellezza, il quale si manifesta nell' amore, è parallelo al 
conato verso la verità^ il quale si manifesta nella filosofia. 
Entrambi questi conati arrivano a delle soddisfazioni par- 

(') V. Fedro. 

(*) Plat. Fedro a Simposio passim. 



- 76 — 

ziali sempre incomplete e sempre più eccitanti, senza mai 
toccare il colmo e la meta dell* aspirazione. (*) 

La via e il modo di questo accoppiamento e la serie delle 
procreazioni mentali, colle quali si arriva al conseguimento 
della scienza, prende nome di dialettica; nome che indica la 
reciprocità dello sforzò mentale di due o più interlocutori, 
i quali pongono in contatto le loro divergenze di opinione 
per trovare T accordo, segno finale della scienza. 

I concetti non si prestano tutti con egual facilità ed 
attitudine a(i essere collegati, anzi spesso resistono alla 
combinazione, che la mente si sforza di trarne, e per farlo 
si rende però necessario T uso di una arte speciale^ che è la 
dialettica . 

Essa è lo strumento col quale la mente dalle sensibili 
appariscenze e dai concetti delle cose concrete sale grado 
a grado alla contemplazione dell' Idea. Quelle forme esterne, 
quelle cose mondane che hanno servito di punto d* appoggio 
per arrivare all' Idea sono come ipotesi^ che svaniscono, 
che si rigettano da se una volta in possesso del vero principio. 

Riporterò un brano della Repubblica, che spiega questa 
formazione ideale. • 

Socr. € Vediamo ora come è mestieri dividere il mondo 
intelligibile. 

GÌ. Come? 

Socr. In due parti, delle quali V anima non arriva a 
conquistare Li prima, che facendo uso dei dati del mondo 
visibile, come di tante rassomiglianze, partendo da certe 
ipotesi, non per rimontare al principio, ma per arrivare 
alla conclusione; mentre che per conquistare la seconda, 
essa va dall'ipotesi fino al principio che non ha uopo d'al- 
cuna ipotesi, senzi fare uso alcuno delle immagini come 
nel primo caso, e procedendo unicamente dalle idee consi- 
derate in se stesse. 

(*) Simposio 204. a. 



^ T6 — 

GÌ. Non capisco bene quel ohe tu dici. 

Socr. Ora capirai meglio, dopo quello che ho detto. 
Tu non ignori, che i geom 'tri e gli aritmetici partono da 
due sorte di numeri, tre maniere d'angoli e così del resto, 
secondo la dimostrazione che cercano: che fissati una volta 
questi punti di partenza, queste ipotesi, essi le riguardano 
come tante verità che tutto il mondo può riconoscere, e non 
ne rendono conto né a se stessi né agli altrif che infine 
partendo da queste ipotesi essi discendono per una catena 
non interrotta, di proposizione in proposizione fino alla 
coi^clusione che aveano in animo di dimostrare. 

GÌ. Questo lo so perfettamente. 

Socr. Per conseguenza, tu sai anche come essi si ser- 
vono di figure visibili e ragionano su queste figure, sebbene 
non pensino propriamente a quelle, ma ad altre figure 
rappresentate da esse. Per esempio^ i loro ragionamenti 
non rigu9,rdano il quadrato né la diagonale tali quali essi 
gli tracciano, ma il quadrato quale é in se stesso colla sua 
diagonale. Dico lo stesso di tutte le maniere di forme che 
essi rappresentano. I Geometri le impiegano come altret- 
tante immagini, e senza considerare altra cosa che quel- 
l'altre figure di cui ho parlato, e che non possono carpirsi 
che col solo pensiero. 

GÌ. Tu dici il vero. 

Socr. Questo io diceva essere il genere intelligibile, e 
per conquistarlo 1' anima è costretta di servirsi d' ipotesi 
non per andare fino al primo principio, perché essa non 
può andare al di là delle sue ipotesi; ma essa impiega le 
immagini che le son fornite degli oggetti terrestri e sensi- 
bili, sciogliendo sempre fra esse quelle, che relativamente 
ad altre sono stimate più vere. 

GÌ. Capisco che tu parli di ciò che avviene in Geometria 
e nelle scienze aflSni. 

Socr. Apprendi ora che cosa io intendo per la seconda 
4i visione delle cose intelligibili. Sono quelle che. l'anima 



— w- 

carpisce immeiliatainante culla dialettica, facendo delle 
ipotesi che essa riguarda come tali, e non come principj, e 
che le servono di gradi e di punti d'appoggio, per elevarsi 
fino a mi primo prinéipio che non aratuette altra ipotesi. 
Ella afferra questo principio e attaccandosi a tutte le con- 
seguenze che ne dipeodono, ella scende di là fino all'ultima' 
conclusione, respingendo ogni dalo sensibile^ per appog^ 
giarsi unicamente sulle idee pure, in esse cominciando, 
procedendo e terminando » ('). 

Collo stesso tenore va spesso Platone insistendo sulla 
natura e suU'utBcio della dialettica, attribuendo ad essa la 
proprietà di svelare 1' essenza delle cose, e per essa sola 
facendo possibile il vero sapere. 

Questa foniiazione dei concetti supremi per opera della 
dialetlica si compie per via di due peculiari operazioni, la 
tnìittjii»yn e la Si^i^^-Jt^, cioè la formazione del concetto e la 
divisione. Colla prima si ottiene dal molteplice 1' unità, 
colla seconda si divide il composto nelle sue parti ('). Di 
questi due ufficj della dialettica, il primo era stato messo in 
onore da Socrate, Platone prendendo a migliorare tutta la 
dottrina Socratica, ampliò l'uso della classazione concet- 
tuale e la maneggiò con tanta finezza, quale può riscon- 
trarsi da ogHUno che porga attenzione alla tessitura 
dei dialoghi del periodo socratico. 11 cmcetto contiene il 
significato generale della cosa in esso rappresentata, e 
ad esso si può inalzarsi col ricercare l'elemento comune, 
che trovasi in fondo ai concreti individui raccolti e classati 
sotto quel concetto, rigettando le condizioni passeggiare 
dì ciascuno individuo e ritenendo i caratteri della classa. 
Cosi quando nel Menone Socrate domanda, che cosa sia 
la virtù, egli vien risposto coli' indicare tali e tali virtù 
de^i uomini e dello donne, esso insiste sulla domanda, 

{') Rep. VI. 510- B. 

(») Fedro 265, D. - Sofist. 253. B. 



— 78 - 

e dichiara di voler cercare che cosa sia la virtù, cioè 
queir elemento comune pel quale tutte le sovra indicate 
prendono aspetto di virtù. 

Il metodo di divisione è considerato come una innova- 
zione almeno un perfezionamento propriamente Platonico 
nel campo della Logica. Con questa operazione si procede 
dal generale al particolare, sezionando i concetti più com- 
plessi e ritenendone una porzione, per sezionarla di nuovo, 
e di nuovo ritenerne una parte, finché si arrivi ad avere 
una determinazione di un concettò subalterno; il quale per 
tal modo non solo diventa definito, ma classato. Questa 
operazione assai imperfetta in se stessa, ma certo assai , 
importante al tempo di Platone, si fonda sulP operazione 
logica della classazione. Molti esempi ne dà Platone stesso, 
fra cui alcuni ben completi nella prima parte del Sofista. 

Dai quali si vede come il metodo di divisione consiste 
in una completa ed esatta enumerazione delle classi e sot- 
toclassi contenute in una specie o in un genere, percorrendo 
concettualmente la loro serie, allo scopo di trovare in essa 
il grado occupato dal concetto che è in discussione. 

Tutte queste minute pratiche di Platone per il ritrova- 
mento della verità derivano poi da più al;e considerazioni 
metodiche, che hanno le loro radici nella grande concezione 
Platonica del mondo ideale di fronte al mondo sensibile. 

L' obietto vero della scienza è secondo Piatone V Essere 
in se; ma questo Essere ci è dato trovarlo soltanto nel 
mondo ideale non già in questo mondo sensibile. Là è la 
incrollabile solidità, invariabilità, eternità; qui invece è 
continua niiitazione, fuggevolezza; là è dunque il vero 
obietto della scienza, qui si agitano le opinioni degli uomini 
che vanno dietro alla traccia dei sensi. 

€ E mestieri a mio credere cominciare col distinguere 
due cose, cosi leggesi nel Timeo: ciò che esiste sempre senza 
esser mai nato; ciò che nasce conti uovamente senza esister 
giammai. La prima cosa è compresa per via del pensiero 



— 79 — 

ragionante, perchè dura sempi'e in se stessa; la seconda è 
congetturata per via di opinione accompagnata dalla sensa- 
zione non ragionante, perchè essa nasce e perisce senza 
essere mai completamente. Or tiittociò che nasce proviene 
di necessità da una causa .... Qiiando dunque un artista, 
coli' occhio fissato in ciò che mai non cambia, lavora dietro 
nn modello di tal f;itta e si sforza di riprodurne l' idea e la 
virtù, fa necessariamente una beli' opera; ed al contrario 
se ha in mira soltanto ciò che è fuggevole e lavora dietro 
UQ modello caduco, non fa nulla dì bello .... Or il mondo 
è nato, perchè è visibile e corporeo; e tuttociò che possiede 
UH condizioni è sensibile; e tuttociò che è sensibile, e cade 
nel dominio dell' opinione aiutata dalla sensazione, nasce ed 
è prodotto . . . Dietro qual modello l' architetto ha costruito 
r Universo? .... Egli è perfettamente evidente che esso 
è r imitazione di un modello eterno. 11 mondo è infatti la 
più bella delle cose prodotte; il suo autore la migliore delle 
cause. L'Universo cosi prodotto è stato dunque formato su 
.li un modello che è compreso dalla ragione e dall' intelli- 
genza, e tale rimane. Dal che si deduce che è la copia di 
qualche cosa .... Bisogna perciò porre differenza tra la 
copia e il modello ... I discorsi che si riferiscono alle cose 
$tabdi, immutabili, intelligibili, debbono essere anch' essi 
stabili inconcussi, invincibili, so è possibile, a tutti gli sforzi 
di una confutazione, in una maniera assoluta. Quanto ai 
discorsi che si riferiscono a ciò che è stato copiato su quelle 
cose, noa si richiede se non che sieno verosimili, come pro- 
venienti da copie. Infatti ciò che è 1' esistenza di fronte alla 
produzione, lo stesso è la verità di fronte all' opinione. » (') 
Le Idee secondo questi concetti Platonici formano un 
mondo modello, di cui questo mondo sensibile è la copia. 11 
mondo ideale serve per altrtì a due uffici: prima alla forma- 
zione del mondo sensibile servendogli di modello, e dipoi 



{') Timeo 28. il. seq. 



— 30- 

« 

alla iatellrgenza scientifica e salda di questo mondo sensibile, 
colla partecipazione che le menti acquistano del modello 
stesso. 

Or come si fa alle meati questa partecipazione? Un mito 
metempsicostico è da Platone chiamato a dare spiegazione 
di questo fatto. Ogni anima ha un potere essenziale di 
mitovei' se stessa, ed è perciò causa del moto in tutte le 
altre cose. Essa è dunque immortale, senza principio né 
fine: tale è l'anima universale o cosmica e tali le anime indi- 
viduali degli dei e degli uomini. Ciascuna anima può essere 
paragonata ad un carro attaccato ad una pariglia di cavalli 
alati. Neil' anima divina entrambi i cavalli sono eccellenti 
e perfette le loro ale; nell' anima umana un solo di essi è' 
buono, l'altro è furioso e bizzarro, spesso inobediente alla 
mano del cocchiere, con ale deboli e spennacchiate. Gli Dei 
coir aiuto de' loro cavalli buoni e ben piumati volano alla 
sommità del Cielo, e girano cosi colla rotazione della sfera 
celeste attorno alla terra. Nel corso di questa rotazione 
essi contemplano le pure essenze e le Idee, realità e verità 
senza forma, senza figura né colore; essi godono la visione 
dell'assoluta Giustizia, Temperanza, Bellezza e Scienza. Le 
anime umane colle loro deboli piume si sforzano di accompa- 
gnare gli Dei; talune si attaccano ad un Dio tali altre ad un 
altro per essere aiutate nell' ascensione. Ma alcune di essei 
mancano per via, son trascinate alla terra per causa del loro 
difettoso equipaggio e per lo zoppicare di uno dei cavalli: 
alcune ottengono un qualche vantaggio, una parziale visione 
della verità e delle Idee, benché in modo incompleto e 
fuggevole. Quelle anime che non hanno potuto per nulla 
godere la vista della verità e delle Idee, non possono vestire 
un corpo umano, ma solo quello di alcuna bestia. E indispen- 
sabile ad esse avere ottenuto una qualunque visione della 
verità, per acquistare la condizione di anime umane. Perchè 
la mente deve possedere la capacità di paragonare e combi- 
nare le particolari sensazioni, per arrivare ad una concezione 



— 81 — 

generale per vìa della prigione. Ciò è reso possibile dal 
processo della reminiscenza; è per essa, che rifioriscono le 
traccie di quelle pure e vere bellezze ( Idee ) che già parzial- 
mente furono contemplate dalle anime nella loro estra-cor- 
porea esistenza, quando facean corteggio agli Dei. La facoltà 
rudimentale dì ravvivare quelle magnifiche visioni, contem- 
plate nel primo stato di esistenza, distingue T anima umana 
da quella degli animali: ma in molti uomini la visione fu 
così fuggitiva, che il potere di ravvivarla è fiacco e 
dormente. Soltanto alcuni pochi filosofi, le menti dei quali 
durante il primitivo stato volarono fin sul dosso della volta 
celeste, e goderono una abbastanza ampia contemplazione 
delle Idee, son capaci di ravvivarne le traccie con facilità 
e successo durante la vita corporea. Alla reminiscenza del 
filosofo queste Idee si presentano con tale splendore e fasci- 
nazione, che esso dimentica ogni altra cura ed interesse. 
Questo lo fa di tanto superiore al resto degli uomini. 

E V aspetto della bellezza il movente primario che eccita 
la reminiscenza. Fra tutte le Idee supreme, che si sono come 
incarnate in questo mondo sensibile, la sola Idea della 
Bellezza 'si è trasfusa nelle cose in maniera abbastanza 
trasparente; le altre Idee, come quelle di giustizia, di tempe- 
ranza ec. sono più occultate, ed esigono maggiore sforzo a 
carpirle, mentre V Idea di bellezza si presenta quasi di per 
se alla mente nella contemplazione del mondo. La mossa 
data dalla facile e sollecita apprensione dell'Idea di Bellezza^ 
sveglia la reminiscenza delle altre Idee; ma senza questa 
resterebbero latenti, e V uomo non si alzerebbe dalla condi^ 
rione fatta al bruto, né si staccherebbe da questo mondo 
sensibile per contemplare le pure Idee. (^) 

In questa maniera le Idee contemplate dalle anime più 
avventurose, e ricordate imperfettamente da esse in questa 
vita d' imprigionamento corporeo, air occasione precipua 

O Fedro 24 R. - Vedi droto. Plato. Voi. 3. p. 217. 



— 82 — 

della vista del bello che è disseminato in tutto questo mondo 
sensibile, ci rendono possibile la concezione di molte cose e 
dei loro rapporti, e ci rendono possibile la conquista della 
verità. 

Ma rispetto alla natura di queste Idee, la mente Plato- 
nica ci comparisce nei dialoghi in una continua trasforma- 
zione; le nozioni si vanno aggruppando e completando^ e si 
può dire che il contenuto di un dialogo non è quasi mai della 
stessa portata del precedente. Per cotal guisa nella dottrina 
delle Idee si hanno tante versioni quanti sono i dialoghi che 
ne tengono proposito. Così nel Parmenide si ha una tratta- 
zione elementare incerta, piuttosto polemica che dommatica, 
e nella lotta che si épmbatte tra Socrate, Parmenide e 
Zenone, la vittoria resta alle obiezioni di questi ultimi, 
piuttostochè alla difesa delle Idee fatta dal primo; tantoché 
il Parmenide potrebbe bene essere intitolato « dialogo contro 
le Idee ». Le obiezioni, che Platone fa ivi a se stesso, son 
tanto gravi, che alle più stringenti esso trascura perfino di 
rispondere, e non le scioglie né in questo" né in altri dialo- 
ghi. (^) Negli ultimi tempi durante il suo insegnamento Pla- 
tone dimentica le obiezioni, prende la teorica delle Idee 
come fatta e assicurata, e si dà unicamente pensiero di 
applicarla.- Ma apche con questo intendimento la teorica 
stessa è soggetta a delle oscillazioni, presentandoci le Idee 
ora come cause, ora come intelligibili, ora come numeri 
d' indole Pitagorica (*). 

Il punto da cui si diparti Platone per immaginare le 
Idee, era la dottrina Socratica della scienza. Sola la scienza 
ideale, secondo Platone, può dare il vero sapere. Tutte le 
cose sensibili sono in un continuo diventare, elleno non 
possono dunque dare per prodotto la scienza, ma V opi- 



(') Vedi Grote. Plato. Voi. 2. p. 276. 
(*) Qaest' ultima caratteristica delle Idee Platoniche, ci viene 
attestata da Aristotile. 



□ione; la scienza può esser fiata solanieote dall'idea di un 
ente fisso ini mutabile, divino fondamenlo di tutte le appa- 
riscenze mondane. ìì concedo ili Socrate era cosi per opera 
di Platone portato al grado di principio metafisico, e si 
trasformava nell' Idea, perdendo la sua condizione sogget- 
tiva che ancora riteneva, per vestire le forme della più alta 
obiettività. 

L'Idea è un che di fisso nella varia vicenda del mondo, è 
1' Uno e l'Identico come base alla moltiphcità e al contrasto 
delle cose. Essa è per conseguenza un Universale, di fronte 
ai particolari individui. Ma qnesto Universale Platone lo 
considera come una sostanza, laquale non è percepibile dalla 
vista degli occhi corporei, bensì da quella della mente; la sua 
sede è la Sfera celeste, ove come abbiamo sopra raccontato^ 
r anima ne ha goduto qualche visione. Il mondo di queste 
Idee è molteplice e gerarchicamente disposto, è un tutto 
reale nella realità delle sue parli. Platone allorquando 
tien parola delle Idee, fa cenno di esse il pili delle volte 
in plurale; il mondo delle Ideo è ciò che più interessa 
a Platone, invece della condizione di questa o quella 
Idea, benché in fatto eljeno sieno costituite in uba molti- 
plicità ridotta ad unità. Fu forse 1' armonia come legame 
di questa moltiplicità, che indusse Platone negli ultimi 
tempi ad acconciarsi coi Pitagorici e dare alle sue Idee la 
caratteristica di Numeri. 

Ma la più rimarchevole tra le doti assegnate alle Idee, 
fa la causalità, cercata in esse come in unico suo fonte. Una 
notevole parte del Fedone è disposta a mostrare questo 
officio delle Idee. Chi cerca le cause delle cose, non vada, 
come il volgo, ad attaccarsi ai fenomeni, ma .si volga alla 
ragione che gli darà nell' Idee separale la vera Causa. « Se 
alcuno viene a dirmi, esclama Platone, che ciò che fa bella 
una cosa, è la vivacità dei colori o la proporzione delle 
parti, e altre simiglianti cose, io lascio là tutte queste 
ragioni, che non fanno che turbarmi, e rispondo senza rag- 




- 84 — 

giri e senz' arte e forse troppo semplicemente, che nulla la 
rende bella fuorché la presenza o la comunicazione di questa 
Bellezza primaria, in qual siasi maniera si faccia cotal 
comunicazione; perchè intorno a ciò non asserisco alcun 
che; io asserisco solamente, che tutte le cose belle son belle 
per la presenza del Bello in se. Cosi è della Grandezza e 
della Piccolezza^ e perfino dell' Unità e della Duità, che 
sole sono le cause per le quali una cosa è grande o piccola, 
una due ». 0) Il che riconnesso col già detto di sopra a 
proposito della visione delle Idee e della Reminiscenza, fa 
conoscere la dpppia Causalità che Platone attribuiva alle 
Idee, cioè la Causalità verso le cose per acconciarle nella 
loro naturai condizione, e la Causalità intellettuale, per cui 
la mente fosse fatta capace di intendere le cose stesse. 

Tenendo dietro a questa sommaria esposizione delle 
dottrine di Platone, è facile scorgere, come presso di lui 
s' incontra per la prima volta una completa e decisa -forma- 
zione di Metodo. Del qu?.le si può contestare la giustezza e 
il valore dinanzi alla scienza, ma vuoisi al tempo stesso 
riconoscere la consapevole intenzione che ne diresse 1' ordi- 
namento. Tra i filosofi che lo precedettero alcuni non 
hanno che un metodo rudimentale, pratica pensativa indi- 
viduale, maggiore o minor giustezza relativa di concepire, 
come accade negli Jonici ; oppure quando incominciasi a 
formulare un metodo derivante da principj, come "fra gli 
Eleati, si tiene in mira V obietto del pensiero solamente 
trascurando tutto il pensiero stesso, formulando il metodo 
sulla sola considerazione dell' inteso, e nulla curando V in- 
telligenza; ovvero si cura la formazione di un metodo, che 
dia norma e sicurezza al muoversi dell'intelligenza, creando 
la prima volta le leggi della dialettica, ma si pone da parte 
tutto il mondo fisico, e si riduce il metodo alla sola legisla- 
zione dei prodotti di coscienza senza porre in salvo i legami 

(0 Fedone XLIX. (100. d.). 



-^ 85 — 

che stringono quei prodotti col mondo esterno e coi fatti, il 
che è avvenuto a Socrnte. Ma in Platone troviamo 1' analisi 
del pensiero e del suo ordine dialettico, la pi^sizione gerar- 
chica dei prodotti del pensiero stes-o fissata in una formazione 
estramondiale, la critica dei prodotti del senso, e con essa 
la valutazione dei fenomeni del mondo esterno, e infine una 
estesa applicazione del metodo, così formato, al mondo e 
alla società umana e alla coscienza. Fu sano e utile alla 
scienza quel Metodo? Sarebbe malagevole V affermarlo, se 
si prendesse quel metodo, come legislazione ultima e defini- 
tiva della ragione. I princijy su ^aii quel Metodo si appoggia 
soa mal sicuri; basterebbe a persuadercene il vedere come 
esso riduce i sensibili, che ci provengono dalle cose, a mere 
ipotesi, destinate solamente a risvegliarci e voltarci al 
vero: quel che veramente ci può illuminare sul suo valore 
scientifico è la sua storia, che inesorabilmente lo condanna. 
Ciò per altro non toglie a Platone il merito di aver sentito 
per primo e soddisfatto il bisogno di dare alla scienza una 
prima fissazione del suo carattere, delle sue condizioni e dei 
suoi limiti. 

In verità il fondamento del metodo Platonico è tutto 
appoggiato sulla natura e sugli uffici delle Idee separate 
sostanziali. Ma che valore ha questa ipotesi? lo credo che 
basti ad atterrarla, o almeno ad indebolirla tanto da non 
potersene più cavare alcun costrutto filosofico, la serie di 
obiezioni che Platone fa alla sua stessa ipotesi nel Parme- 
nide, obiezioni che esso non isventò nò in quel dialogo né 
altrove mai, e quelle che Aristotile accumulò ad ogni passo 
contro le dottrine del suo maestro, obiezioni le une e le altre 
le più forti, che siano state fatte nell' antichità alla teoria 
dell' Idee separate sostanziali. Ben è vero che, come ho 
detto, Platone rispetto a quelle, che esso medesimo fece a 
se stesso, in seguito parve dimenticiirlè e trascurarle 
affatto; e dominato da quella sua concezione del mondo 
ideale, si abituò a considerarla in seguito come una verità 



— 86 T^ 

inattaccabile; il che intravviene spesso alle menti di gran 
forza immaginativa, quando si danno ad architettare quei 
palazzi incantati , che abbagliano di luce etìmera ma 
svaniscono al comparire del spie della scienza. Il tra- 
scurare le minute necessità del ponsiero scientifico è 
un vizio troppo comune ai più grandi pensatori dell' an- 
tichità, perchè ci debba recare stupore di trovarlo in 
Platone medesimo. 

Da un altro lato, quanto più grande era il valore che 
Platone attribuiva al mondo separato delle idee, altrettanto 
ne menomava quello del mondo sensibile e reale. I dati 
presentati dai sensi sono pieni di illusioni e di errori, e que- 
sta debolezza della percezione sensitiva, invece di sospìngere 
le ricerche Platoniche verso la scoperta dei rimedi, che la 
dovessero rendere più sicura e veritiera^ lo portò a negare 
ad essa ogni valore, lasciandole Y unico uflScio di svegliare 
neir anima le traccio confuse dell' Idee. Nel Fedone e 
altrove esso dichiara che le cose sensibili sono prive di 
realità, di verità, incapaci di produrre la scienza. 

Ora un cotal metodo il quale poggia sopra una base mal 
fondata ( la teorica delle Idee separate ), che trascura dei 
dati importanti per la formazione della scienza ( il mondo 
sensibile ) qual valore può avere, e come può esso corri- 
spondere al primario ufficio suo, quello, di produrre la 
certezza scientifica? Esso in verità non corrispondeva ai 
desideri del sapere antico, non che a quelli del nostro. 
Come potevano gli antichi accettare quale soluzione della 
quistione metodica una dottrina, che invece di dar ragione 
del doppio ordine di fenomeni ( i fenomeni concettuali 
e i fenomeni sensibili ), annullava gli uni a benefizio 
degli altri? Questo fu, che produsse le lunghe tergi- 
versazioni dei pensieri di Platone negli ultimi tempi del 
suo insegnamento, e la facilità con che i suoi discepoli 
immediati cedevano il terreno su tutti i punti, al mo- 
mento che furono d' ogni parte pressati dagli avversari. ' 



— 87 — 

Ma dal punto di vista moderno, ben più solidi sono gli 
argomenti, che ci portano a considerare il metodo di Platone, 
non pur come vano, ma come dannoso alla scienza. Dietro 
le norme di esso tutto il lavoro delle scienze d' oggidì 
sarebbe distrutto, perchè tutte lavorano prendendo a base 
il sensibile, stimatizzato e rejetto da Platone: nel campo 
scientifico oggi sarebbe tutto opinione, e non verità. Ed 
invece fra le scienze, che di presente accumulano più gran 
tesoro di verità, dopo le scienze esatte, sono da annoverare 
quelle che più si tengono al sensibile. 

L' illusione massima delle concezioni Platoniche è la 
medesima, che giaceva in fondo alle dottrine Eleatiche. Il 
concetto astratto è chiamato a prender posto di realità, e in . 
suo nome si vuole spodestare il fenomenale, che pure avea 
servito di sgabellò per salire ad esso. Si osservi per altro,. 
che Platone stesso sentiva la necessità di un reale, per dar 
fondamento alla scienza. E perciò ricorreva ad un reale 
verOj secondo lui, sovrumano (separato), e in nome di 
questo dava al reale sensibile mondano là funzione di reale 
occasionalej per svegliare la reminiscenza del primo. 
A questo si induceva Platone, per la necessità di assicurare 
la fissità della scienza. Intorno alla quale per altro sembra 
che Platone avesse dei concetti alquanto esagerati. Portato 
dal suo amore per la scienza, e dal sentimento che la 
minima debolezza la renderebbe del tutto vana, esso non si 
rese conto delle vere condizioni della scienza stessa e della 
sua fissità. 

La scienza essendo composta di una serie di conclusioni, 
ne deriva che essa sia fissa e incrollabile, finché incrollabili 
restano le conclusioni stesse. Ora le conclusioni restano 
incrollabili finché non variano le premesse, i dati, da cui 
sono state *ca vate. Questi dati per altro, sieno essi sensibili 
concettuali, vanno soggetti a variazione successiva, a 
seconda dei progressi che si fanno nell'osservazione. Alcuni 
fenomeni osservati un po' grossolanamente fanno argomen- 



— 88 - 

tare una legge ben diversa da quella, che i fenomeni stessi 
mostreranno, quando siano osservati con maggior finezza, 
quando sieno combinati coli' osservazipne di altri finora 
sconosciuti . E cosi la scienza e le conclusioni sono soggette 
a cambiamento, col migliorarsi dell' osservazione. Ma la 
scienza benché incompleta è fissa, incrollabile anch' essa, 
finattantochè i dati su cui essa è fondata non variano. 
Ma la sua stessa natura la obbliga a cambiarsi, a perfezio- 
narsi col cambiare dei dati. A questo modo, per un lato è 
fissa, invariabile (stando fermi i dati delle sue conclusioni ), 
per un altro la mutabilità è per la scienza una condizione 
necessaria di vita; che assurdo sarebbe, se al cambiare delle 
premesse, le conclusioni restassero immobili, quanto sarebbe 
assurdo, se restando ferme le premesse, la scienza e le 
conclusioni non fossero incrollabili. ' 

E cosi che le idee, le quali sono il prodotto di percezioni 
di conclusioni, si trovano ad essere di natura ben diversa 
da quella, che loro assegnava Platone. Ben lungi dall'avere 
in esse dei tipi ben formati e completi, che servano di 
norma per la valutazione del sensibile, si trova i^el fatto 
che le idee si formano principalmente sui dati sensibili, e a 
seconda di essi vanno migliorandosi nel loro contenuto. 
Tantoché quella che potrebbe chiara^irsi sostanza ideale non 
ha vita che dietro i sensibili, e coir accumularsi di questi si 
migliora e si forma fino ad un grado di sufficiente comples- 
sione. Tutte le idee sono in continua formazione negli 
individui umani presi separatamente, come anche nella 
moltitudine sociale e nella specie umana presa in massa. 
Per aver un esempio della graduazione delle idee negl'intel- 
letti individuali, si può aver ricorso alle idee del Bello, del 
Giusto ec. idee che Platone riteneva come centrali nel 
mondo assoluto e sostanziale da esso immaginato. Or l'idea 
del Bello, come abbiamo anche in addietro accennato, non si 
va formando che a costo del ripetuto godimento e della accu- 
rata osservazione di numerosi e scelti modelli. £ chi non 



abbia fatto questo tirocinio, invano si lusingherebbe di pos- 
seJere l' idea dui Bello. Certo cba la venustà e la armonia 
del)© forme sarà mille volte comparsa dinanzi agli occhi del 
villano, che invece di pregiarla l' avrà derisa. Egli è perchè 
la sua mente non era ancora stata, per lungo uso della con- 
templazione delle cose belle, temprata a gustare il bello, ove 
lo incontrasse. Il villauo terrà più in conto, e crederà 
fermamente di maggior pregio uuo sguai:ito quadro, che 
a colori vivaci rappresenti fiamme e mostri Ìq forma di 
anime del Purgatoi'io, che non uno dei più bei lavori di ce- 
lebrato pennello. Il selvaggio che ascoltasse una delle più 
care melodie della Sonnambula o la sinfonia del Guglielmo 
Teli, facilmente la prenderebbe per un vaniloquio musicale, 
e ad essa preferirebbe certo lo strider de' suoi pifferi e lo 
sconcio tintinnare dei suoi tamburi e dei suoi triangoli. E la 
gradazione medesima si riscontra ben anche in mezzo agli 
uomini colti. Quanti professori di estetica si potrebbero* 
annoverare, che per essersi racchinsi in un piccol cerchio di 
modelli, e quasi sepolti in esso, riescono mal acconci a 
gustare II bello; come, per es. i clfissicisti puri, che non 
sanno che farsi di Shake.spe.Tre! Or questo non sarebbe 
possibile, se un idea sostanziale e completa del Bello inve- 
stisse l'intelletto che si fosse ad essa rivolto. Le idee dunque 
lungi dall' essere assolute, sono invece tanto relative, da 
graduarsi secondo il numero e la capacità delle menti, e 
secondo la infinita varietà delle osservazioni fatte sui dati 
sensibili. 

E lo stesso dicasi delle idee scientifiche. Ogni scienza 
cammina e trasforma il suo proprio contenuto a seconda 
dell'osservazione nuova e migliore dei fatti. Talché poche 
Idee scientifiche si possono considerare come complete e 
invariabili, e multe sono quelle che si vanno rinnuovando e 
formando. Nelle stesse scienze esatte ove le conclusioni 
deduttive per loro natura non soo soggette a cambiamento, 
pur camminano i metodi, e le idee si trasformano, sebbene 



— 90 — 

restino salde le masse dei calcoli. Il mondo morale, come 
quello sociale e quello scientifico è in un movimento costante 
e progressivo, non già perchè esso in verità sia oscillante 
ed incerto, ma perchè è in uno stato di miglioramento, per 
l'aumentarsi dei dati sui quali fu formato, e le 'menti 
muovendosi dietro ad essi. Ed il moto dello menti none 
altro che moto delle idee. Egli è dunque assurdo il conce- 
pire un mondo ideale immobile e sostanziale, che abbracciato 
dalla mente umana, la illuminerebbe di una luce infinita, 
ma nel tempo medesimo la fermerebbe.. 

Forse vorrebbesi che la gradazione delle idee dipen- 
desse dall' accostarsi più o meno le menti a quel mondo 
ideale e sostanziale? Ma questo riesce difficile a compren- 
dere, come una idea sostanziale potesse esser carpita in 
parte, e via via guadagnandone ogni di una porzione mag- 
giore, si arrivasse al colmo del suo possesso con acquisti 
consecutivi. L' idea così spezzata perderebbe la sua indole 
di assolutezza, perchè nessuna mente potrebbe con qualche 
ragionevolezza asseverare di possederla tutta; e l'assoluto 
sparirebbe così dalle menti, per la stessa via, per la quale 
si volea infonderlo in esse. 

Che valore avrebbe l' assoluto, se restasse inaccessibile 
alla mente? Che valore possono avere le idee sostanziali di 
Platone, se un destino invidioso le confina al di sopra 
della volta celeste, e solo ne concede allo menti privilegiate 
una languida reminiscenza? Non potranno certo servir di ' 
modello, se non sieno possedute nella loro pienezza; che 
non si può misurare, senza posseder la misura. 

Questo ci mostra la ragione per cui il metodo Platonico, 
benché germogliato nel campo della attività filosofica in un 
momento cosi propizio, e quando tutti gli intelletti erano 
bramosi di una regola che dasse ordine, limiti e pernj 
alla scienza; benché vestito delle più pompose foggio della 
fantasia, e consegnato al più beli' idioma che abbia mai 
parlato la Filosofìa, non riusci a fondare una salda 



- 91 — 

dottrina, e ben presto attaccato di fronte dal genio Ari- 
stotelico, cedette il terreno, e non riprese vita, che sotto 
r ispirazione mistica dei Neoptatonici e dei Padri della 
Chiesa. Ma allora esso perdette di vista la scienza, ed 
allevato al servizio della religione, perde, assieme colle 
grazie e gli ornamenti nativi, le pili belle tradizioni che 
aveano fatto la gloria Platonica, e fu sovraccaricato di un 
fardello non suo accumulato dal misticismo fantastico ed 
anche dall' impostura. 

Volgendo ora indietro lo sguardo, per rendersi conto 
del cammino tenuto dal pensieri e degli acquisti fatti dal 
Metodo, possiamo essere in grado di apprezzare il divario 
che corre tra la speculazione dei tempi Platonici e quella dei 
tempi primitivi. Con Platone il Metodo non era fissato; ma 
gli elementi di esso sì combinavano e si accumulavano, coz- 
zando tra loro ed armonizzandosi, e da questo lavoro 
poteasi aspettare la scoperta dell' organismo della scienza. 

Anche la nozione precisa di Metodo sarà più agevole 
ricavarla dalla considerazione della storia del pensiero, che 
non da speculazioni astratte. GÌ', Ionici ebbero conoscenza 
della sola natura esterna, e questa accettarono quale era 
data dai sensi, nulla preoccupandosi della veracità ed auten- 
ticità delle facoltà umane impiegate a studiarla. E lo stesso 
è dei Pitagorici, i quali alia natura materiale cercarono 
un fondamento armonico, che ne spiegasse l'ordine, ad essa 
ponendo accanto come soggetto di speculazione anche un 
mondo morale, ma non istudiarono il valore delle facoltà 
umane, né quelle del ragionamento. Cogli Eleali un ele- 
mento ideale prendeva il posto della natura, e il metodo ne 
era profondamente modificato, essendoché si accettasse 
allora come base di esso il pensiero preso, quasi direi, in 
blocco, e si rifiutasse il reale sensibile. Cotale innovazione 
metodica, mentre da nn lalo portava l'attenzione sulla veri- 
dicità delle facoltà umane, e svegliava la dialettica, ten- 
deva dall' altro a distruggere il lavoro dell' intelletto, 



— 92 — 

coir annullare il valbre della osservazione e dell'esperienza. 
Fra i Neo-Jonici prendeva origine la distinzione tra la 
materia e la forza; concetto che si atteneva più all' ideale 
Eleatico, che al reale Jonico, e dovea essere poi tanto 
acqarezzato da Aristotile in quasi tutte le sue analisi 
di metafisica, da diventare il vizio prevalente di quegli 
studi aristotelici. La Sofistica creava la disputa e con essa 
uftO dei più potenti argomenti per la distruzione dell' arbi- 
trio scientifico e per l'impianto della libera ricerca del vero. 
Socrate proclamava la necessità, che la disputa fosse ordi- 
nata da norme concettuali per esser proficua; e Platone 
riconnettendosi cogli Eleati e con Socrate, cercava di dar 
base alla scienza e alla disputa portando lo sguardo sopra 
un mondo Ideale modello, che doveva essere ragione per- 
fezionatrice del conoscimento del mondo sensibile copiato 
sopra di esso. In questa guisa il metodo si trovava a 
dovere tener conto di due primarj elementi entrati in giuoco 
finora, cioè del reale sensibile, e del concetto come rappre- 
sentanza di esso. E siccome il valore del concetto, lungi 
dall' esser posto in dubbio, era dalla massima parte delle 
scuole esagerato, l'ufficio di un vero fondatore del metodo 
scientifico consisteva nel porre il sensibile reale e il concetto 
nel loro vero ordine, evitando di sacrificargli l'uno all'altro 
come le scuole precedenti aveano fatto, e assicurando ad 
un tempo il primo posto al reale sensibile. 

Chi avesse combinato questo accordo del fenomenale e 
del concettuale, ponendo il primo come espressione natu- 
rale del vero, il secondo come dipendenza di quello e 
riproduzione mentale del vero in esso contenuto, era sicuro 
di porre le fondamenta per un solido metodo scientifico. 
E (questo fece Aristotile. 



PARTE SECONDA 



DEL METODO DI ARISTOTILE 



I 

% 



— 95 -' 



PARTE SECONDA 



I. 



.%rlii(ollle e T opera lioa. 

Il genio di Aristotile si mostra per la prima volta 
nell'antichità greca come genio scientifico, staccandosi quasi 
da un fondo di gemo artistico, che avea spiegato la sua 
potenza nel passato. Tutti i pensatori precedenti aveano 
sacrificato troppo alle Muse anche quando si accingevano a 
formulare la. scienza. La fantasia aveasi fatta la miglior 
parte nei concepimenti di Pitagora, di Parmenide e di 
Platone, e più o meno in quelli degli altri minori, e tutti 
ne aveano acquistato splendore, ma perduto molto di soli- 
dità razionale. Le vecchie e le nuove filosofie somigliavano 
piuttosto a dei poemi sulla natura, che a dei trattati didat- 
tici. Air infuori di scarsi rudimenti di scienza nel campo 
della geometria e di pochi altri rami del sapere, V eredità 
del passato arricchiva i greci del tempo di Aristotile di 
molta arte, ma poca scienza. 

Ciò che in quel momento appariva chiaro, e guada- 
gnava l'assenso universale, era la, possibilità della scienza 
come prodotto di un lavoro ben diverso dal lavoro artistico, 
come necessità immediata per la quiete dello spirito e per 
l'armonia del mondo. A stabilire questa possibilità e ad 
indurre nelle menti il concetto di una base incrollabile 
connaturale alla scienza e di una forza razionale prepon- 



- 96 - 

I 

derante come carattere di essa, avea grandemente contri- 
buito Platone. Un fecondo principio era questo: la scienza 
non è fittizia, non è effimera, essa s* impone all' intelletto, 
essa ha un valore, il quale chi disconosca, uccide la propria 
ragione. Questa tesi generale era guadagnata, e Platone 
avea il vanto di essersi applicato a farla trionfare. 

Era per altro una necessità immediata porre in pratica 
questo concetto, e far la scienza con un metodo, che fosse 
in accordo colla razionalità connaturale ad essa , che 
mostrasse in azione la forza dimostrativa preponderante, 
che ora alla scienza si attribuiva. Il lavoro di tutto il pas- 
sato non presentava questa forma, e neppur quello di 
Platone, che avea saputo fare riconoscere il valore della 
scienza, e tentato, benché infelicemente, di darne ragione, 
senzat esser per altro riuscito a trovare un metodo pratico, 
che nei ditersi rami del sapere portasse in luce quel valore 
già in tesi generale riconosciuto. Aristotile si détte a rifare 
tutta la scienza del tempo suo, con quel rigore di forma, 
che in essa era richiesto dal suo valore, dal suo carattere di 
universalità e di preponderanza razionale. La scienza è ben 
veramente un risultato razionale incrollabile,' prodotto dai 
dati che si trovano presenti allo spirito, e fino a che 
questi non sieno cambiati; ma non qualunque modo di 
scienza; bensì quella sola che risulta da un processo 
rigoroso della mente. Il rifare una cotale scienza fu 
r òpera di Aristotile; il quale cosi per primo adoperò il 
Vero metodo scientifico per quanto gli fu concesso dalle 
condizioni e dagli argomenti razionali del tempo suo. Il 
frutto di questo immenso lavoro fu non già la creazione 
della scienza, ma la creazione del Metodo, e però la 
origine di tutta la scienza dipoi. 

Computando i libri di Aristotile pervenuti sino a noi, e 
quelli numerosissimi che sono andati perduti, si vedrà che- 
esso abbracciò tutto lo scibile del tempo suo, e dalla lettura 
di qudli riiaaasti si può argomentare, che come'Mida esso 



_ 9T — 

cAmhia in oro tutto quel che toccava. Creò alcune acieoM, 
Iq altre rinnuovò, e in tutte portò un metodo positivo ìnusi- 
talo[fino allora. 

Aristotile è riconosciuto universalmente come padre 
della Logica. Sebbene lungo tempo innanzi ad esso vi fos- 
sero dei rudimenti di Logica nei filosofi greci, pure si è per 
lui soltanto ottenuto la prima volta una cognizione esatta 
delle forme e delle leggi raziocinative. Tanto più che il la- 
voro teorico sugli elementi della ragione fu da esso appog- 
giato alla scoperta delle formule pratiche di essa, le quali 
servirmio così di complemento' e di controllo alla teorica. 
« Da Aristotile, dice Kant, data la Logica, come la Geo- 
metria pura da Euclide; 1' una e l'altra ebbero pienezza di 
scienza e d' allora in poi nessun miglioramento o cambia- 
mento vi si è fatto, n Sebbene questo giudizio di Kant sì& 
vero soltanto per la parta che spetta alla Logica deduttiva, 
le scoperto logiche di Aristotile serbano tutto il loro 
valore, essendoché non sieno infatti state mai sorpassale 
dalla scienza dipoi, ma soltanto contornate di aggiunte e di 
forme, che si irradiavano da esse come da centro 
comune (*). 

Innanzi ad esso, i limiti che separano le matematiche 
dalla filosofia della natura, non erano tracciate con esat- 
tezza; elleno sono ancora confuse in Platone: disgraziata- 
mente i libri Aristotelici intorno alle matematiche sono 
andati perduti. Ma dai passi che ci restano sparsi nelle altre 
sue opere, si vede che esso determinò il primo le condizioni 
di una dimostrazione rigorosa nelle Matematiche, le divise in 
Matematiche pure e miste, separando cosi la Aritmetica, la 
Geometria e la Stereometria dalla Meccanica, dall' Ottica, 
dall' Astronomia e dalla Musica. Anche insistè sulla sepa- 

(') Da Sophiat. Eleneh, cap, nlt. — Buhle. Commentatio do phì- 
losophor graec. aoto Arist. iti artu logica couamimbua — RavaÙ- 
•oa. La Logique d'Atiat. Furia 183S. 

1 



— 98 — 

razione della Geometria dair Aritmetica, divisione che 
giovò grandemente alla Geometria, la quale doveva ai 
Pitagorici la sua confusione coir Arimetica. 

Nelle scienze della Natura portò nuovità di ricerche, 
creò la Storia naturale, e tracciò il primo la via di un vasto 
empirismo. Nella Zoologia aggruppò la osservazione dei 
secoli precedenti, pose a contributo i poeti, gli storici, i 
trattati di caccia^ pesca, agricoltura, ove poteano ritrovarsi 
delle nozioni circa la struttura e i costumi degli animali. 
A queste aggiunse una preziosa e faticosa messe di osser- 
vazioni sue proprie, attinte all' analisi minuta di un 
immenso numero di animali procacciati ad esso dalla muni- 
ficenza di Alessandro. Per questa stessa guisa portò una 
ampia contribuzione anche all'Anatomia; e sebbene la 
impossibilità di adoperare con piena sicurezza il metodo di 
osservazione ancora nascente lo traesse in molti errori, le 
sue scoperte in queste materie sono ammirate anche al dì 
d' oggi. Anzi ad Aristotile è intravvenuto come ad Erodoto, 
che non curato quanto meritava dai contemporanei e dai suc- 
cessori immediati ha ottenuto giustizia dai moderni^ l' uno 
alle sue notizie di geografia e di costumi e 1' altro alle sue 
ricerche di storia naturale. (*) 

Aristotile deve essere anche considerato come fondatore 
della Botanica, sebbene Teofrasto suo scuoiare abbia in 
essa acquistato rinomanza maggiore. Allo studio di questo 
intelligente discepolo debbo aver fatto strada l' insegna- 
mento del maestro. Il trattato delle Piante sebbene non sia 
testo Aristotelico, ma traduzione dall' Arabo, riportata 
poscia in Greco, e nuovamente tradotta, ci è testimone che 
tra i libri perduti si debbo annoverare una trattazione di 
Botanica. (*) 

^ (') Sprengel. Pragmatische Geshichte der Medicin. — Weber. 
Arìfit. Yefdienste tim die Wisseucbaftliche Bearbeitiing der Zoo- 
logie. 

(*) Henschel. De Arist. Botanico philosopho. Vratislaviae 1823. 



I primordi degli studi di Fisica, ne! significato odieruo 
della parola, si incontrano nel libro deUa Meteorologia, ove 
spesso l'osservazione dei fenomeni fisici è feconda per 
Aristotile di ispirazioni felici, e tentativi di esperienze, e 
scoperte di leggi. 

I libri della Fisica, nel senso Aristotelico, ncm profitta- 
rono molto alla scienza della natura, perchè in essi eome 
nei libri della Metatisica, Aristotile sacrificò il suo genio 
alla tradizione delle scuole precedenti. Ma la sua cosmo- 
logìa, che l;<le è il contoiiuto di quei libri, è ben lungi 
dalle vanità dei Pitagorici o degli Eleati o del Timeo, e 
basterebbe a darle importanza la trattazione delle condizioni 
, generali del moto. 

Fra le scienze naturali e le morali si trova situato in 
mezzo il trattato dell' Anima. 11 inerito di esso non fu sola- 
mente r aver posto da banda le concezioni spiritualistiche 
e mitiche di Platone e dei predecessori, ma anche lo avere 
in loro luogo sostituita una serie di concetti attinenti a tutta 
la Biologìa, che oggi stesso ci maravigliamo di trovare in 
Aristotile. 

Nelle scienze morali esso non pure ha il vanto di aver 
fissalo i cardini dell' Etica sulle condizioni della umana 
felicità, e di avere tratteggiato con pennello maestro i linea- 
menti delle più simpatiche virtù, e di averle classate; ma 
più gran merito gli ;si debfae fare dall' aver fondato la teorìa 
dello Slato, col desumerla dai principali modelli che i di- 
versi popoli presentavano. Disgraziatamente si è perduta la 
più grande opera politica di .Aristotile, nella quale erano 
ammassati i materiali dei suoi studi politici coli' esame' di 
più centinaia di costituzioni greche e barbare; ma l'opera 
politica che ci rimane basta a farci conoscere la profondità 
del suo genio politico e la sincera analisi che esso portava 
nell'esame dei fatti sociali. 

Ha rinnuovata la Retorica, della quale alcuni rudimenti 



— 100 - 
si aveaao avanti di luiO), ma si riferivano quasi esclusiva- 
mente a pratiche minute oratorie, e non consideravano che 
le maniere di ben parlare. Esso invece classò i generi 
dell'oratoria, fondò il bea parlare sul ben pensare, organizzò 
la dottriaa scientifica dell'invenzione, dell'argomentazione e 
di tutte le vicissitudini dell'arti del dire. (*) A più forte 
ragione esso è creatore della teoria deil'aj'te poetica e della 
filosofia dell'arte. Perchè sebbene Platone avesse già stabi- 
lito come base alle arti belle l' imitazione, esso tuttavia 
sviluppò in una maniera più vasta questo principio, e fissò 
l'attinenza tra la poesia e le arti belle e gli altri rami d'at- 
tività dello spirito, applicando i suoi nuovi concetti alla 
storia della poesia greca. (^) 

Studiosissimo della storia del pensiero umano esso fii il 
primo, che si facesse una abitudine costante di raccogliere 
intorno a tutte le quistioni le opinioni dei precedenti filosofi, 
e diveuQe così il primo storico della filosofia; oltre di che 
colle sue ricerche intorno agli antichi poeti, coi numerosi 
ragguagli intorno ai più recenti scrittori greci portò una 
larga contribuzione alla storia della Letteratura e alla 
Filologia. 

Tutto questo cumulo di lavori dovuti al genio Aristotelico 
si può ricavare dalla valutazione degli scritti pervenuti sino 
a noi. Quanto più meraviglioso sarebbe riuscito l'insieme 
di sì vasta opera, se ci fosse dato porre a calcolo il conte- 
nuto dei libri perduti, che per numero e per importanza, a 
stare alle tradizioni di Diogene Laerzio e di altri, non do- 
veano cedere molto ai rimasti, o in alcuna parte gli supe- 
ravano. 

E più di tutto meravighosa è la sincerità e il valore 

(') Spengel. Artium acrìptores ab initils usqne ad Arìat. 
Stnttg. 1828. 

(') Westermann. Oesch. der Grieoh. Beredaamk. Leipz. 1833. 

(') B Mailer. Gesoh dar Thoorìa dar Etinat bei den Alten — 
Bods. 00Bch der HeUenischen dicbtkunst. Leipzig 18S8. 



À 



— 101 - 

DooTO ddl metodo, che Aristotile adoperò percorrendo èÌ 
varie o vaste regioni del sapere. Anche questo metodo è 
creazione sua: ò la combinazione, la prima volta formata, 
dell' osservaaione e del pensiero, dell'empirismo e della 
speculazione. L' ideale fu da esso corretto col tenerlo 
costantemente associato al lavoro sperimentale. E se tal- 
volta la speculazione prende in Aristotile la vecchia abitu- 
dine di svolazzare nel vuoto, ciò addiviene, più che dal suo 
intelletto, dalla attuale mancanza di dati sperimentali; 
difetto non del metodo ma della ristrettezza degli strumenti 
dalla scienza allpra posseduti; debolezza che accompagna 
ogni creazione ed ogni riunuovamenlo — « quandoque 
bonus dormitai Homerus » . ~ Esso da un altro canto non 
trascura la speculazione; si serve di essa per concentrare 
la sua scienza sperimentale, per dare unità al suo lavoro 
empirico. Non parte dalla unità dì una ideao di un princi- 
pio per trarne fuori sistematicamente il particolare; al con- 
trario, il fondamento della sua speculazione è Io studio 
completo dei fenomeni, la loro istoria e la loro compara- 
zione; e da questo punto si avanza poi ad un lavoro intel- 
lettuale di unificazione, cercando di risalire la scala delle 
leggi fino a quel più alto grado che gli sia possibile. 

Questa nuovità e perfezione di lavoro scientifico, inusi- 
tata in tutta l'antichità, fu quella che cattivò ad Aristotile 
il culto dell'epoche successive. La scolastica se ne invaghì 
talmente, che nell'entusiasmo del suo omaggio oltrepassò 
ogni limite, credette che Aristotile avesse pronunziato 
Vultima parola della scienza, e per questa illusione spese 
una intiera e laboriosa epoca a intrecciare catene di sillo- 
gismi attaccate a un passo Aristotelico. Lavoro inutile anzi 
dannoso e contrario allo spirito del metodo Aristotelico, 
che volea fare maestra prima del pensiero la sola natura 
delle cose conosciuta per esperienza. Ben a ragione diceva 
Galileo agli Aristotelici del suo tempo: io sono più siuce- 
rameate Aristotelico di voi, perchè voi prendete da Aristo- 



~ 102 - 

tile certe dottrine, e io prendo invece il suo metodo; talché 
se Aristotile vivesse oggi, penserebbe come me e non 
come voi. 

Una parte delle cose, che qui sommariamente abbiamo 
accennate, si farà più precisa in seguito per la considera- 
zione del contenuto di alcuni tra i più importanti libri 
Aristotelici. 



II. 

Arte di pensare e di argomentare, 
e Mpeclalmente della dialettica. 



U miglior moilo per arrivare alla tìssazione del metodo 
scientifìco era quello di studiare la mente nel suo lavoro 
logico, cercando di carpire 11 segreto di questo lavoro, e 
determinare le leggi naturali, secondo le quali ella si con- 
duce nella ricerca del vero. Queslo studio è stato fatto da 
Aristotile con una sicurezza e una pienezza meravigliosa, 
se si considera massimamente quale intricato labirinto 
fosse l'argomentare tenuto dai predecessori -suoi, e quanto 
difficile riuscisse orientarsi nel campo della discussione. 
Sebbene alcune pratiche salutari, ma incomplete, fossero 
poste in luce da Socrate e da Platone, non che dai Sofisti,' 
e lo studio dell' argomentazione fosse una delle primarie 
occupazioni dello spirito filosofico del tempo; tanta è per 
altro la distanza che separa la precisione del metodo Aristo- 
telico dalla incertezza che regnava tra i suoi contemporanei 
medesimi, che merita si presti una particolare attenzione 
alle trattazioni logiche di Aristotile, come quelle che hanno 
la prima volta criticato la ragione e fissato il modo del suo 
cammino nella ricerca del vero. 

La certezza essendo il punto a cui tutta la scienza ha in 
mira di pervenire, è stato preso da Aristotile questo punto 
medesimo come centro a cui convergono gli studi suoi circa 
il ragionamento, cercando di scuoprire 1' attinenza che le 
singole maniere di argoment^ire hanno colla certezza. Il re- 
sultato finale di questi studi porta, che vi sono varj gradi 
dì certezza possibili ad ottenersi; 1." Dimostrazione da opi- 
nioni probabili; 2." Induzione dal particolare al generale; 
3.' Deduzione dal generale al particolare, o sillogistica. 
Il primo grado dà per resultato principale la dialettica o 



k 




— 104 — 

arte della disputa; il secondo la formazione dei principj o 
arte di pensare; il 3.** e il 2/ riuniti la dimostrazione dedut- 
tiva ossia r Analitica. 

Prima di passar oltre nell'esame di questi tre gradi del 
metodo logioo, è necessario esporre i concetti Aristotelici 
intorno alla argomentazione filosofica, ossia scientifica, in 
contrapposto alla non filosofica, ossia del probabile. È una 
al»tudine costante di Aristotile quella di contrapporre la 
trattazione filosofica ^alla trattazione dialettica intomo a 
ciascheduna materia — « Dal punto di vista della filosofia 
bisogna trattare le cose secondo la verità; dialetticamente 
invece, secondo la probabilità » (^). 

E altrove: « 8on diflferenti tra loro i ragionamenti che si 
fanno secondo un diverso metodo, alcuni filosoficamentOj 
altri non filosoficamente » (^). 

In conformità di questo pensiero Aristotile avea diviso 
anche la sua trattazione didattica. L'insegnamento suo gior- 
naliero si divideva in due lezioni o passeggiate ^ secondo la 
denominasione Peripatetica, in una delle quali esponeva le 
sue dottrine'in maniera facile e rudimentale, accomodandosi 
a quella cultura, che si trovava ad avere un uditorio ancora 
troppo giovane e mal fornito di esercizio mentale, e perciò 
incapace di profittare del più elevato insegnamento scienti- 
fico. In queste lezioni non predominava V argomentazione 
rigorosa, come troppo astrusa, ma una dimostrazione ca- 
vata da ragioni 'probabili, come più alla portata della comu- 
ne intelligenza, corredata di numerose digressioni, e colla 
mira piuttosto di coltivare lo spirito che non di convincerlo. 
L^ insegnamento filosofico, rigorosamente scientifico era 
invece riserbate all'altra lezione, che indirizzavasi ad un 
uditcH^io di coltura elevata, capace di valutare le dimostra- 

ii9à^xi^^ ti itfii déìiayt. Top. Lib. I. It. 6. 

C) Mcff. Ead. L (|. 



— 106 - 

ziooi senza essere arrestato di difficoltà secondarie, talché 
r insegnante potesse per il corredo necessario di ciascuna 
lezione richiamarsene all' insegnamento della prima manie- 
ra. L' uno si chiamò exoterico e Taltro acromatico (*). Non 
pur r insegnamento, ma i libri pubblicati da Aristotile, 
sembra si dividessero nell'antichità in queste due categorie, 
sebbene al presente forse iicrfòuiìo scritto ci rimanga di quelli 
che si sospetta dovessero appartenere alla categoria degli 
eioterici. Essi erano per altro nelle mani di Cicerone, e ben 
conosciuti al tempo suo: esso pò tea vantare, certo con alla 
mano gli esoterici, i fiumi di eloquenza di Aristotile^ e 
contrapporgli al parlare monosillabico degli Stoici, e anche 
aggiungere qualche rimprovero alle eleganze un po' caricate 
dello Stagirita; cosa che davvero noi) potremmo far noi colle 
sole opere che ci restano, scritte per la massima parte, 
air infuori di pochi brani della Retorica o della Morale, con 
uno stile severo e contorto, il cui pregio è la precisione, ma 
non l'abbondanza. Cicerone ci ha ben anche tramandato un 
brano Aristotelico nel quale comparisce veramente la dote 
attribuitagli da (cicerone stesso di pienezza e ornatezza 
d* eloquio, e che contrasta coU'indole dell'opere Aristoteli- 
che, che abbiamo noi (*). 

(*) V. Kavaisson. Estai sur la Méthaphjsiqne d'Arisiote. 
Partie. III. Lib. I. Gap. I. Vedi anche Stahr. Aristotelia. Erster 
Theil. 8. 272. foJg. 

(*) De Nat. Deor. II. XXXVII. Praeclaro ergo Arìstoteles, e si 
essente ìnqaìt, qui sub terr.i semper habitaTÌssent, boDÌs et illustri- 
bns domicìliis, qaae essent ornata signis atque picturis, instructa- 
qne rebas iis ooinlbus, quibus abundantii, qui beati putantur nec 
tamen exissent unqnam supra tcrnim, accepissent antem fama et 
anditione, eséo quoddam numen et vimdeorum; deuique aliquo tem* 
pere, patefactis terrae faucibns, ex iHis abditis sodibus evadere in 
haec loca, quae nos incolimus, atqne oxire potuissent: qunm repento 
terram et maria coelamqno \idissent, nubium magnìtudinem, yen- 
torumqne vim cognoTissent , adDpexissentque solem, eiusqao tum 
magnitudinem, tum otiam efficienti am oognovissent, quod ìs diom 



— 106 — 

Arìstotile stesso nei suoi libri fQosofici rimanda sovoate 
il lettore ai libri exoterici, e dall' insieme dei luoghi in cui 
queste citazioni compariscono, risulta che esso rinvia a quei 
libri, come a discussioni comuni già fatte frequentemente; 
se ne appella ad essi soltanto per cognizioni elementari e di 
corredo, non mai per dimostrazioni rigorose; e infine dalla 
maniera di citazione apparisce che nel libro esoterico phe si 
richiama^ è trattata in parte la stessa materia che quella 
del libro filosofico che lo cita (*). 

' Si può concludere da questo, che la distinzione di dot- 
trina filosofica e non filosofica aveva una importanza grande 
per Aristotile, e che era una abitudine sua di separare i 
discepoli adatti a profittare dell' una piuttostochè dell'altra, 
come anche di trattare le stesse materie in un modo rigo- 
rosamente scientifico ed in un modo dialettico, ossia con 
ragioaameati probabili. 

Progredendo su questa via per arrivare alla formazione 
del metodo, la distinzione introdotta da Aristotile tra Dia- 
lettica e Analitica si mostra di capitale importanza, essen- 
doché nessuno 1' avesse fatta insin allora, e non si fosse in 
tal maniera graduato il valore delle argomentazioni diverse 
dinanzi alla certezza. E veramente questa importante dif- 
ferenza non era facile a rilevarsi, e senza di essa non si 
sarebbe riusciti alla fissazione del metodo. Gli oratori, par- 
lando nelle assemblee popolari e nei dibattimenti giudiciali, 
adoperavano artificj di ogni maniera per commuovere le pas- 
sioni; i retori poggiavano i loro argomenti con eguale indiffe- 
renza su di un passo di poeta antico o su di un fatto storico 

gfficeret, toio cuelo luce diffusa; quum autem terras nox opacasset, 
tum coelum totum cernerent a^tris distinctum et ornatum, luaaeque 
laminum varietatem tum. crescentis, tum senescentis, eorumque 
omnium ortus et occasus, atque ia omni aeternitato ratos ìmmuta- 
bilesque cursus: quae quum yìderent, profecto esse Deos et haec 
tanta opera deorum esse arbitrarentur >. Atque haec quidem iUe. 
(*) Y. Bavaisson loc. cit. 



— 107 — 

sa di un principio razionale, come se queste tre maniere 
di premesse dassero delle conclusioni di uno stesso valore; 
i dialettici si appagavano di trattare un soggetto colle armi 
dell'avversario credendo aver messo in chraro la verità 
quando lo avessero ridotto al silenzio; pochi erano quelli che 
ragionassero partendo da un principio solido, e che sapes- 
sero tenersi fedelmente a q:iel:0, scartando ogni argomento 
che non fosse di un valore sostanziale alla quistione. In 
questo intricato labirinto di argomentazioni bisognava porre 
arditamento la mano, e tracciarvi le vie maestre e le dira- 
mazioni secondarie. Questa opera ha fatto Aristotile spe- 
cialmente col separare il sillogisino retorico dal dialettico 
e àdiW analitico j in queste tre maniere di sillogizzare 
facendo ravvisare tre gradi di argomentazione crescenti in 
valore^ all'ultimo dei quali soltanto può spettare il primo 
posto nella scienza. 

« La Retorica e la Dialettica sono le sole arti del dire, 
che arrivano talvolta a delle conclusioni contrarie al sillogi- 
smo » (O- 

L'argomentare si giova talvolta di aiuti secondarj, che 
hanno in mira piuttosto lo scopo da raggiungersi, che non 
la verità. Di questi mezzi si occupa massimamente la Reto- 
rica non in ordine ad uno scopo scientifico, ma in ordine 
all'argomentaìe dal probabile, di cui è comune l' uso tra la 
maggior parte degli uomini. In cotal guisa la Retorica è una 
succursale della Dialettica, è una particella di essa. («) Con 
questa differenza, che siccome il precipuo ufficio del parla- 
tore, che vuol persuadere, consiste nella buona condotta 
dell' argomentazione; questa argomentazione, come conclu- 
sione dal probabile si perviene alla Dialettica. Mentre la 
Retorica è lo ammaestramento all' argomentare opinativo 
in attinenza colla condizione peculiare del discorrere in 

(«) Ehet. L 1. 12. 
O Ibid. L 2. 7. 



— 108 — 

pubblioOi la Dialettica dal canto suo è lo ammaestramento 
per la condotta dell' argomentazione opinativa in vista di 
tutte le possibili eventualità della disputa. 

« Il metodo artificioso della Retorica si affatica a for* 
mare le persuasioni; perchè anche la persuasione ò una 
specie di dimostrazione; ( che più si ha fiducia in quello che 
è più. dimostrato); e la dimostrazione retorica è Tentimema, 
capacissimo di generar fiducia; e l'entimema è una specie 
di sillogismo; ora spetta alla Dialettica o ad una sua parte 
la trattazione del sillogismo. Quegli che saprà determinare 
con precisione la natura del sillogismo e le sue leggìi potrà 
giudicare anche gli entimemi^ e qual sia la differenza tra 
essi e i sillogismi logici. Perchè il vero e il verosimile spet- 
tano alla medesima facoltà » (*). 

Cosi tra la Retorica e la Dialettica vi è una somiglianza 
nell'abitudine di trattenersi sull'opinabile, e vi è una dif- 
ferenza sostanziale in quanto l' una presenta le forme della 
eloquenza, e l'altra più si accosta alle forme del pensiero 
scientifico. In mezzo tra la Retorica e la Dialettica si na- 
sconde come serpe tra i fiori la Sofistica, quella Sofistica 
bassa, che Platone e Aristotile a ragione schernivano. « Il 
sofistico è tale per intenzione, il retore è costituito tale parte 
dalla scienza parte dall'intenzione, il dialettico non dall' in- 
tenzione ma dalla facoltà» (*). Il primo infatti vuol provare 
il falso e il vero a suo piacere; riuscire, guadagnare- la per-» 
suasione, nulla curando il vero e il falso, è l'intenzione che 
predomina in tutto il suo lavoro; il retore ha predilezione per 
il vero e se ne informa con certa cura, ma l' intenzione di 
persuadere si associa costantemente al suo pensiero; il dia- 
lettico cerca il vero, benché non lo cerchi con tutti i mezzi, 

(*) Bei. 1. 1. 11. y. anche I. 2. 8. Un paragone del siliogitmo 
e induzione, da parte deUa Dialettica, coirEntimoma e l' esempio 
corrispondenti a quelli da parte della Retorica. 

O Rhet. I. 1. 14. 



— 109 — 

serrendosi della dimostrazione dal probabile, ma pur il vero 
aveodo in mira primariarneute e non la persuasione. 11 sofi- 
sta sì atlacca anzi al falso con amore, riputando un trion- 
fo il riuscire a farlo parer vero: « la Retorica specula intorno 
al probabile e a ciò che ha l'apparenjia del probabile, corae 
la dialettica intorno al sillogismo o a ciò che ha l'apparenza 
dì sillogismo » (<). 

Il che si farà più chiaro, per ciò che spetta alla Dialettica, 
non essendo qui luogo di intrattenersi più oltre della 
Retorica, dai seguenti passi, che alla Dialettica più diretta- 
mente si riferiscono. 

Abbiamo fatto notare, come per Aristotile vi sia un 
modo di argomentare filosofico — vòlto alla verità — ed 
Bno dialettico — vòlto hVÌ opinabile. Questo -paragone 
esprime decisamente la differenza tra la dialettica e la 
scienza. « I sillogismi dialettici si fanno con proposizioni 
probabili » ('). 

< Fra la proposizione analitica o dimostrativa e la pro- 
posizione dialettica corre questa differenza, che la dimostra- 
tiva pone l'una delle due parti della contradizione; perchè 
chi dimostra non interroga ma pone un principio; al contra- 
rio la proposizione dialettica comprende in una interroga- 
rione ambedue i lati della con tradizione. Ma questa 
differenza non impedisce che nell'un caso e nell'altro si 
&ccia un sillogismo; perchè tanto chi dimostra, che chi 
interroga sillogizza sull'attinenza o non attinenza di una 
cosa a un'altra ... La proposizione sillogistica è dimostra- 
tiva, quando è vera, e deriva dalle condizioni primitiva- 
mente poste. È dialettica quando sotto forma di interroga- 
xione comprende le due parti della contradizione, e accetta 



(') Eet. I. 1. 14. 

Ò) Ami. pr. I. 30. 1. — Vedi anche Anal. post. I. 19. 4. — 
Anal. pr. U. 18.8. 



- 110 — 

nella formazione del suo sillogismo V apparente e il pro- 
• babile » (*). 

Si vede assai chiaramente quale fosse la intenzione *di 
Aristotile nel porre come preparazione alla scienza la 
Dialettica. La scienza non parte che da principj riconosciuti 
yeri, e non arriva che a conclusioni vere. La dimostrazione 
è il suo organo legittimo. Ma prima eli possedere questi 
principj veri, la mente deve essere passata per uno stadio 
nel quale essa era perplessa fra due opinioni probabili. Se 
Tuna delle due fosse evidentemente falsa, l'esercizio logico 
della mente non avrebbe luogo, ella si getterebbe decisa- 
mente verso la vera. E dunque necessario che la discussione 
mentale capace di produrre il pensiero^ i principj, le propo- 
sizioni fisse, e la discussione esterna capace di farle 
accettare agli altri, abbiano luogo come propedeutica alla 
dimostrazione, la quale non può farsi, che quando i principj 
sono già riconosciuti. Il probabile è strada al certo, e questo 
è punto di partenza alla dimostrazione scientifica. 

Or quale è questo probabile che si incontra così sul 
limitare della scienza ? e quando avrà esso diritto di essere 
accettato legittimamente in questo posto? 

Chiamasi probabile ciò che sembra tale o a tutti gli 
uomini, alla maggior parte, o ai savi; e tra i savi o a tutti, 
alla maggior parte, o ai più celebri e più credibili. (*), 

Non tutte le scienze, né tutte le auistioni in ciascuna di 
esse possono corredarsi di ricerche, le quali partano da dati 
certi e riescano a conclusioni egualmente certe. Ma in molte 
cose è necessario appagarsi della probabilità, e in questo 
caso si hanno delle gradazioni di probabilità che ognor più 
e più acquistano di forza, e così vanno accostandosi alla 



(«) Anal.pr. 1.1.3* 
O Top. 1. 1. 7. 



- ni — 

certezza: e il più probabile sarà quello che dovrà occupare 
il posto dovuto al vero, in mancaaza di questo. 

Non ogni proposizione, uè ogni problema può conside- 
rarsi come dialettico, ma solamente quelli che non sono 
dimostrabili filosoficamente, e pur serbano ancora tal grado 
di ragionevolezza da non essere insostenibili affatto ('). 

Non bisogna del resto darsi la pena di esaminare qua- 
Innque tesi e qualunque problema, ma quelli soli che possono 
trarre vantaggio dal ragion-amento. Così la discussione non 
deve applicarsi alle cose di cui la dimostrazione è del tutto 
in pronto, né a quello di cui è troppo lontana; perchè le 
une' non presentano alcun dubbio, le altre offrono troppa 
difficoltà perchè chi ha mente sana si acconci ad occupar- 
sene (*). 

Una delle più notevoli particolarità di questa maniera 
Aristotelica di considerare l' acquisto e 1' uso del vero, si 
riscontra certamente negli ufficj attribuiti alla dialettica , e 
massime nell'ultimo. 

La dialettica serve ad alcuni uffici primarj, che sono la 
ginnastica della mente, la disputa, la preparazione all'acqui- 
sto filosofico dellascienza. È chiaro di per se che essa è utile 
come ginnastica; perchè essendo forniti di un metodo, potremo 
pili facilmente argomentare intorno alle quistioni proposte. 
È utile per la disputa, perchè tenendo conto delle opinioni 
degli interlocutori, potremo discutendo con loro, trattenergli 
d'opinioni loro proprie, e scartarne gli errori. È utile per 
l'acquisto filosofico della scienza, perchè col discutere il prò 
e il centra, si scoprirà più agevolmente il vero e il falso. 
E in questo ufficio è suo principal compito di farci cono- 
scere gli elementi, i primi principj di tutte le scienze; perchè 
i principj speciali delle scienze non possono insegnarci nulla 



k 



(')Top. I. 8.1. 
(■) Top. I. 9. 10. 



— 112 — ^ 

circa quei principj elementari, i quali sono comuni a tutte; 
e cosi è mestieri studiarli ciascuno a parte dietro proposizioni 
probabili che si riferiscono ad essi. Questo è l'oggetto 
proprio e peculiarissimo della dialettica; perchè investiga* 
trice corno ella è ci apre la strada ai principj di tutti i 
metodi (*). 

Quale sia la maniera che tiene la dialettica per arrivare 
alla formazione dei principj indimostrabili, lo vedremo un 
poco più oltre. Osserveremo qui che V importanza di tale 
ufficio si ricava dalla necessità di dare alla dimostrazione un 
sustrato indimostrabile, il quale sia tanto solido da reggere 
tutta la catena sillogistica. E veramente qualunque nome sì 
voglia dare a questa operazione preliminare dell' intelletto, 
è indubitato che essa precede necessariamente tutto il lavoro 
delle scienze, e senza di essa questo non potrebbe farsi in 
modo alcuno. Tutto il materiale elementare del pensiero 
debbo essere apparecchiato, quando si pon mano alla mole 
della scienza. Vedremo che la dialettica adopera a formarlo 
la esperienza e la induzione; ma questo è ciò che rende 
r uso della^ Dialettica necessario a tutte le scienze, le quali 
attingono da essa i loro principj comuni; ed è necessaria a 
tutti gli individui in particolare, qualunque sia il grado 
della loro cultura; perchè sebbene lo scienziato adoperi i 
suoi principj valorosamente, e il villano con poca esperienza 
e in modo quasi inconsapevole, l'uno e l'altro però hanno 
avuto necessità di formarsi i loro principj innanzi, di poter 
ragionare deduttivamente ('*). 

Questo modo di considerare la Dialettica pone chiara- \ 
mente in contrasto Aristotile con Platone. Essa per Aristo- 
tile serve di preparativo alla scienza, per Plalone è invece 
l'organò più potente della scienza sfessa. Nella opposizione 

(•) Top. I. 2. 

(') Soph. II. 9. ' 



- 113 — 

inUina che f^iace in fondo a r|ueste diverse maniero di consi- 
ilerara la Dialettica, si risconlra un grnn progresso che si 
compiè dn Aristolile in confronto all' opera di Plalone. La 
impossibilità, che si abbia una dimostrazione rigorosa in 
alcune branche del sapere, è dati dall'osservazione delle ma- 
niere diverse, colte (inali il pensiero si manifesta, e giustilica 
l'oratoria, la retorica, la discussione dell'opinabile. L'aver 
distinto chiaranieiile questa impossibilità è uierilo di Aristo- 
tile, il quale in simil guisa faceva una importante divisione 
neir ordine della manifestazione del pensiero; e liberava 
d' altra parte la dimostrazione rigorosa da una nociva 
confusione colla dimostrazione opinabile, assegnando a 
ciascuna un posto ed un ufficio proprio. Neil' istesso lempo 
esso segnalava una gradazione nell' acquisto della certezza, 
per cui lasciando una libertà assai larga alla formazione dì 
concetti più e più vicini alla certezza medesima, dava il loro 
speciale valore non solo a certe scienze, ma ancora a tulle 
le gradazioni della cultura negl'individui. L'uomo igno- 
rante e ruzzo ha una sua maniera di pensare e di argornen* 
tare che è in ragione dei principj da esso conquistali, e die 
perd è ioQma nell'ordine della dimostrazione, quaudo qiiosti 
principj sono pochissimi o malamente corredali d'osserva- 
uodì giuste. In questo grado si ha un risultato che è 
immensamente distante dalla certezza, specialmenle nelle 
materie a cui non serve 1" uso ordinario dei sensi per 
rischiararle, che esigono invece un uso raffinato di essi, od 
UD complesso di processi mentali e una combinazione 
complicata di cognizioni. Da questo stato mentale dell'uomo 
rozzo fino all' acume sorprendente dello scienziato coire una 
infinità di gradi inierniedj nella cultura delle intelligenze, 
le quali camminano verso la dìmnstrazione rigorosa, ma 
non saranno nel loro pieno sviluppo che quando questa sia 
diventata in loro rm' abitudine assicurata. Adunque le 
scieoM sono tanto più perfette, quanto più aminettono 1' uso 



à 



— 114 — 

dì questa abitudine: le nienti sono tanto più vicine alla 
certezza, quanto più estendono l' uso di questa abitudine 
nella loro speculazione in una data scienza; e l'uomo 6 
tanto più colto, quanto più estende l'uso di questa abitudine 
ad un maggior numero di scienze. Ecco il processo ascen- 
sivo che va dall' infimo opinabile pei suoi gradi fino alla 
certezza; dall' oratoria fino alla scienza di dimostrazione; 
dal volgo fino allo scienziato. 



III. 

llndnzIoDe, formazione del prlncliJ, 
Mstenza Immediata sperimentale. 



Abbiamo veduto, come Aristotile, tra gli uiEci assegnati 
alla Dialettica, annoveri quello della formazione dei prin- 
cipj. Questo grande ufficio è sostanziale per la scienza, 
perchè concentra in se la parte Ibndamentale dell'arte di 
pensare, che deve precedere l'arte di rlimostrare ; e 
vedremo con Aristotile che esso si rende possibile per l'oso 
dell'induzione. 

Aristotile non ha fatto nelle sue opere dialettiche la 
, teoria dell'induttiva; l'Iia accennata di volo e come sboz- 
zata con pochi tratti. Ne ha tenuto parola più volte nelle 
opere analitiche; ma non ne ha data una legislazione, 
come ha fatto per la deduttiva. Tuttavia è questo il luogo 
di richiamare tutto ciò che Aristotile ha lasciato intorno 
alla induzione, avendo in mira l'ufficio primario della 
formazione dei principj, che l'analitica non può di perse 
trovare né dimostrare, ma sui quali è necessario ch'ella si 
appoggi. 

E innanzi tutto è mestieri porre in saldo questo con- 
cetto, che cicHÌ non tutta la scienza può essere capace di 
essere dimostrata deduttivamente, ma vi è una parte fon- 
damentale di essa, che è indimostrabile, ed è però scienza 
immediata, dovuta soltanto allo esercizio elementare delle ' 
facoltà umane. 

Quando si fa uu sillogismo in questa guisa; tutti gli 
uomini sullo mortali — Socrate è lionio — dunque Socrate 
è mortale; il sillogismo corre, a patto che sia vera la 
maggiore e la minore. Ma la maggiore e la minore come 
le abbiamo noi imparate? La maggiore si è ottenuta anno- 
verando i casi di morte di tutti gli nomini conosciuti fiu 



qui, cioè l'abbiamo avuta per indiizione; e questo prodotto 
iQfìuttivo serve di principio Dell'indicato sillogismo. La 
minore egualmente si è ottenuta confrontando le proprietà 
caratterisliche di Socrate, e trovandole analoghe a quelle 
degli altri uomini Io abbiamo potuio classitìcare con essi: 
il che significa, che la minore ci è d.ita dall'osservazione. 
Ora tanto più i priacipj elevali, che servono ad una vasta 
catena di conclusioni sono in simil guisa indimostrabili 
deduttivamente, e dati invece come scienza immediata dalla 
induzione e dall' esercizio delle facoli.à elementari della 
ragione. Se i principj dovessero essere dimostrati colla 
deduzione, siccome ogni deduzione ha mestieri di essere 
appoggiata sur un principio, ne verrebbe che la catena 
deduttiva sarebbe infinita; i! che è assurdo ('). E dunque 
impossibile che vi sia dimostrazione di tutto, perchè è 
necessità che la dimostrazione parla da un punto dato ('}. 
È per questo che Aristotile spesso ripete, come sia neces- 
sario che ogni cognizione provenga da alcuni dati prece- 
denti, specificando meglio, nel seguente passo esprime il 
modo di cotal provenienza. 

« Qualunque cognizione imparata proviene da cose 
conosciute per lo innanzi, perchè qualunque siasi cono- 
scenza si acquista o per induzione o per sillogismo. 
L' induzione è inoltre anche principio dell' universale; e 
il sillogismo è dedolto dall'universale. Così vi sono dei 
principj dai quali proviene il sillogismo, e pei quali non vi 
è più sillogismo possibile; essi sono dunque il risidlato 
della induzione » ('). 



{') Anal. Post. I. 22. 11. — 23. 3. 

(') Miitiif. II. 2. 10. — Anal. poat. I. 1. I. 

(') 'Ex iTfjoyi^voiDtSfiiviiiv Si jràcH SiSxaxylix , . . v ii\ 
iitaytiyfit n Ss lulioyUTfiw. 'H fitv Sri in^yi^iit i^-jiìi tOTi 
)!«3o1«u, Si o-uX/uyiOfiòg in TÌiv xi^òÀou. Kìiiv a^x ip/^ui, 
aui.ì.ayiaiiìi, Zìi aùx ictti B-ulJoyiofu'f tffayw/i òf a Etic. Nu'. 
Tedi anche Anal. pr. II. 25. 1. 



- UT - 

Da questa uecessilà di dnver conoscere certi elementi 
primitivi, dice Aristotile, ne traggono alcuni la conse- 
guenza, che non ò possibile alcnn;i scienza; e altri ammet- 
lenJy la possibililà della scienza, credono che si possa 
dimostrar tutto; opinioni entrambi che non sono né vere né 
necessarie. Quando si ammetto che la scienza sia impossi- 
bile, è peri.;hiì si crede che vi sia nella dimostrazione un 
processo all'infinito; e si dico allora con ragione che non 
si può arrivare a conoscere coso posteriori partendo da 
antecedenti che non sono primiiivi di fronte ad esse; e 
infatti è bene impossibile di percorrere l' iiifinilo. Ma, si 
a^iunge, se la dimostrazione si arresta e se ti sono dei 
principj, questi principj stessi sono sconosciuti, perchè non 
vi ha dimostrazione di essi, e questi avversirj ritengono 
che la dimostrazione deduttiva ('anroJji'Sn;) sia V unico 
mezzo di conos<;ere. Gli altri ammettono ben la possibilità 
del sapere, perchè dicono che per 1,1 sola dimostrazione SÌ 
sa, ma pretendono ancora che nun vi sia alcun impedi- 
mento a che tutto si possa dimostrare deduttivamente, 
perchè la dimostrazione può essere circolare, e le cose 
possono dimostrarsi le une per le altre. 

Ma noi, dice Arist. sosteniamo dapprima che non tutta 
la scienza si ha per dimosirnzione deduttiva, e clic gli 
elementi imraedi.iti sono conosciuti senza dimostrazione. 
E che questo sia necessario appare manifesto; perchè è 
necessario che si conoscano le cose che sono antecedenti a 
qaelle da cui pende la dimostrazione, e che di più si debba 
trovare nn punto fermo alla dimostrazione in seno agli 
etementi immediati, i quali perciò dovranno essere indi- 
mostrabili. Noi sosteniamo dunque, che la scienza esiste, e 
che vi è per la scienza un principio, in quanto conosciamo 
i termini della scienza stessa ('). 

« Quanto a sapere come i principj possono arrivare a 



('} Ànal, posi. I. S. 



- 118 - 
cognizione nostra, e quale è la facoltà, che ce li fa cono- 
scero, apparirà dalla soluzione di alcune rjuistioni. Intanto 
cbiamansi principj in ciascun genere quei termini che non 
possono dimostrarsi, come che cosa sia 1' unità e la linea 
retta e il triangolo, e la grandezza ec. e soltanto per le 
altre cose vi ha dimostrazione. Fra i principj dì cui si 
servono le scienze dimostrative, alcuni sono speciali a 
ciascuna scienza, altri comuni a tutte. Principj speciali 
sono, per es. la definizione della linea, della retta ec; al 
contrario comune è questo: se da quantità eguali tolgonsi 
quantità eguali, i resti seguitano ad essere eguali. In ge- 
nerale ogni scienza acquistata per dimostrazione si riferisce 
■a tre cose; prima a tuttociò di cui si ammette 1' esistenza 
senza dimostrazione, cioè il genere stesso di cui la scienza 
studia le modificazioni; in secondo luogo, a quei principj 
comuni che si chiamano assiomi, dai quali traggonsi pri- 
mitivamente le dimostrazioni; e infine alle modificazioni di 
quello stesso genere, delle quali bisogna ammettere senza 
dimostrazione il significato ('). 

Or questi principj, che sono necessarj alla dimostra- 
zione, e che non son dimostrabili essi stessi, come arrivano 
alla nostra conoscenza? questa conoscenza che ne abbiamo 
è della stessa natura che la conoscenza delle conclusioni? 
Questi principi abituali (') sono acquistati e non primitivi? 
oppure erano primitivi benché latenti? Quest' ultima suppo- 
sizione è assurda ('); perchè ne seguireblje, che avendo 
delle conoscenze piij esatte che la dimostrazione essa stessa, 
noi le ignoriamo; e d'altra parte, se le acquistiamo, senza 
averle in precedenza, come potremmo conoscerle e come 
impararle senza una cognizione precedente? Il che è impos- 
sibile, come abbiamo avvertito della dimostrazione. È ma- 



(') Anal. post. I. 10. 

(■) «..(. 

(') Ciò va diritto contro Platont. 



nifesto dunque che non è possibile che sì abbiano priniitiva- 
meme colali principj, uè che si vadano formando senza 
alcuna disposizione ad essi. Cosi è mestieri che noi abbiamo 
qualche facoltà capane di acquislarli, che per «ttro non sia 
superiore ed essi dal lato della certezza. Ora è questo che 
si riscontra in tutti gli animali; ossi hanno tutti quella 
potenza lunata di giudicare, che sì chiama seusitività. 11 
senso essendo una facoltà innata di tutti gli animali, ìn 
alcuni la percezione sensitiva lascia una traccia ('), in 
allri no. In quelli che non serbano questa percezione, la 
conoscenza non va al di là della sensazione siessa. Gli altri 
invece conservano qualche cosa della sensazione nell'anima, 
e son molti quelli cost costituiti. Ma v' è tuttavia tra loro 
slessi questa differenza, che in alcuni dalla traccia di 
queste sensazioni si origina la ragione, in altri no. Così la 
memoria proviene dal senso, e dalla memoria delle sensa- 
zioni spesso ripetute si origina l'esperienza ('). Che le ricor- 
danze possono essere molte, ma l'esperienza è una. Ora 
dall'esperienza, ossia da tutto l'imìversale, clie s'è formato 
oetranima, come unità cavata da molle cose (*} e che si 
trova unica e identica in esse, proviene il principio dell'arte 
e ddla scienza; dell' arte, se si tratta di produrre alcun 
che; della scienza, se si tratta di conoscere ciò che è. 
Adunque questi principj abituali non sono in noi tutt' affatto 
determinati, uè provengono da altri principj piìi notoij di 









(*) È notevola qaesta descrixions dell' esperienza, nella quale 
troveranoo un rimprovero qaei metaSaii'i d'oggìdi, che fanno vista 
di credere ciio l'esperienza ( dei positivisti ) aia limitata alla sonsa- 
■ìone. L'eaperifua è inTece prodotta dalla sensazione e dai concatti 
che provengono da questa. Proclamare la necps9itù ddl'eaperionza 
in tntts le scienze non è ridnrre l'uomo alla sola st'usazìoue, è porgli 
on confine perchè nella conca tonali on e astrattiva dei concoUi non 
ù allontani eccesiivaiuente da quella. 



- 180 — 

essi, ma soltanlo dalla sensazione (')■ Come in batlaglia, 
in mezzo a ima rotta, se uno dei i'uggitiyi s' arresta un 
altro s'arresta, poi un altro ancora, finché si riannoda 
l'armata; nell'anima avviene qualche cosa di simigliente. Al 
momento che .ilcuno degli oggetti individuali si ferma in 
essa, di subito si forma nell' anima l'universale. Ben è vero 
che si sentono gli oggetti a uno a uno, ma la sensibilità si 
eleva all'universale e all'indivisibile. Così, per esempio, si 
arresta nell'anima la sensazione di qnal tale animale, fin- 
ché si abbia il concetto dell'animale, e similmente di tutto 
il resto. E dunque ben evidente che è necessariamente l'in- 
duzione, che ci fa conoscere i prineipj; perchè così avviene 
ohe la sensazione ci dà di per se stessa 1' universale » ('), 
Questo brano meritava di essere riportato per intiero, 
avuto riguardo alla lucidezza, con cui vi è e.'iposta la 
legge elementare della formazione del pensiero, e alla ma- 
niera con cui si attribuisce alla stessa facoltà induttiva la 
formazione dei concetti nella niente e quella dei prineipj. Di 
qui deriva che i prineipj non sono dimostrabili, per la stessa 
ragione per cui non stmo dimostrabili i concetti, i quali 
. risultano da una formazione elementare, ì! cui valore è 
dovuto unicamente all' attitudine delle facoltà mentali. Di 
questa attitudine possiamo ben conoscere e analizzare il 
lavoro, ma assurdo sarebbe chiedere quale sia il segreto, 
e quale l'origine della forza concettuale nella nostra mente. 
Tanto varrebbe domandare all'occhio perchè sia adatto alla 
sensazione dei colori, e perchè la potenza sensitiva della 
retina sia di un genere diverso da quella dei nervi acustici 
odolfattorj. Per la stessa ragi'one è assurdo domandare 
alla mente il perchè della sua capacità di tbrniare i prineipj, 
che servono di base a tatto il lavoro dimostrativo. Questo 
significa, e non altro, la indimostrabilità che Aristotile attri- 



(■}>n»l.'pogt. II. 1». 



— 121 - 

biiisce ai principj, e il paragone che esso db fa colla indi- 
mostrabilità dei concetti elementari, paragone che poteva 
estendersi egualmente anche ai dati elementari della sensa- 
zione. Questa cundizione della indimostrabilità dei principj è 
tanto importante per Aristotile, che esso vi ritorna sopra a 
pia riprese, e la estende ad altri dati primitivi del pensiero, 
cpecialniente alle definizioni e ai termini, e spesso dichiara 
) ufficio dell') niuzioau e dulia sensazione il fonnar- 
cegli. 

€ Bisogna che i principj, che son punto di partenza alla 
dimostrazione, sieno indimostrabili — il principio della dimo- 
strazione è la proposizione immediata, è (quella che non ha 
altra proposizione avanti dì so — ancora è mestieri non 
solamente che si conoscano i principj primitivi anterior- 
mente o tutti o in parte, ma che si conoscano meglio di 
tallo il resto; perchè quello, per cut una cosa esiste, 
debbe esistere più di essa; come ciò, per cni amiamo un 
Altra cosa, è amato da noi più di questa» ('). 

1 principj e i dati primitivi, di cui qui si tien parola, 
sono gli assiomi (*), le definizioni immediate e alcuni medj 
e termini immediati. Intorno agli assiomi apparisce chiaro il 
pensiero di Aristotile dal detto fin qui. Resta ora a diro 
alcun che delle altre due sorte di dati primitivi. 

La definizione si fa col portare lo sguardo sulle cose che 
Bono somiglianti e senza differenza tra loro, ricercando ciò 
tntte possono avere di comune. È mestieri quindi f^r la 
ricerca per le cose che appartenendo a! medesimo 
genere, sono tra loro di specie identica, ma che differiscono 
Ila specie delle prime che sì sono studiate. Una volta 
ivalo per tutte queste cose il rapporto comune che possono 
ivere, e trovatolo egualmente per tutte le altre, bisogna di 
tUOTO ricercare nelle cose in tal guisa ravvicinate quale 

(') A.DkL post. I. 2. e-12-U. 

O Anal. po8t 1.7.2. — I. IO. 6. 



- 122 — 
identità hanno tr.'i loro, finché si arrivi a uoa espressione 
unica per tutte. Questa espressione unica è la definizione 
vera della cosa ('). 

Vi è una sorta di definizioni, che esprimono il significato 
del nome delia cosa, e ve ne è un'altra sorta ohe esprimono 
la causa della cosa. Le prime indicano ciò che è la cosa, ma 
non la dimostrano, le altre sono una specie dì dimostrazione. 
Infatti vi è differenza tra il dire che cosa è il tuono e il dire ' 
perchè tuona (*). 

Le definizioni che danno per risaltato la causa della 
cosa sono dimostrabili, prendendo la causa per medio ('}. 

Ma vi sono le definizioni immediatej che sono principj 
delle dimostrazioni, e delle quali non vi è dimostrazione 
possibile, come dei principj. Di due cose 1' una, o i principj 
saranno dimostrabili, ed anche i principj dei principj e così 
all'infinito; oppure i dati primitivi dovranno essere alcune 
definizioni indimostrabili ('). 

E questo deve estendersi a tutti i termini immediati, 
dei quali la definizione è una tesi indimostrabile dell' es- 
senza (») . 

A proposito dell'essenza delle coso espressa dalla defini- 
zione, Aristotile chiaramente esprime la ni;cessi(à, che la 
cognizione di essa essenza ci venga data dalla cognizione 
delle qualità, ed anzi riconosce come vana qualunque defini- 
zione dell'essenza che non risulti dalla riunione del complesso 
di quelle. « Certo sembra utile di conoscere l'essenza, per 



(•) Aual. post. II. 12. 21. 
(•) Anni. post. II. 9. 3. 
(') Anal. post. II. 8. 2. 
(') Anal. post. II. 3. 9. — i 



» irfUTa o/itTjiOi 



O — '« 3i Tùli àiiitti* iptajiii SiTK if'i Tsu TI i-TTi» ànBirorfii- 
xToc — Anal, post. II. 9. 6. — e anche Anal. poat. I, 28. 7, — «Hi 



— 123 — 

comprenderà ciò che origina le qualilA in certe sostanze; e 
cosi nelle matematiche, bisogna sapere che rosa sìa retto e 
curvo, linea e superficie, per vedere a quanti angoli retti 
sieno uguali gli angoli di un triangolo. Ma reciprocamente 
la conoscenza delle qualità serve anche in gran parte a far 
conoscere l'essenza delle cose. Infatti quando eoi possiamo 
dietro le immagini sensibili spiegare le qualità della cosa, se 
non tutte, almeno la maggior parte, si riesce a rendersi 
conto della sua essenza. L'essenza è il vero principio di 
ogni dimostrazione, e si ricava da questo, che ogni defini- 
zione in cui non si ha cognizione de'jli accidenti della 
cosa, sono evidenlemeate definizioni di pura dialettica e 
del tutto vuote» ('). 

Vi sono adunque molti medj indimostrabili, i quali sono 
dati dall'induzione o dall'esperienza sensibile. Per esempio 
quando si dimostra che i pianeti son vicini alla terra perchè 
DOQ scintillano. Nel qual caso lo scintillare o no dei pianeti 
è un medio indimostrabile fornito dai sensi ('). Talvolta i dati 
primitivi di una dimostrazione sono appunto i medj indimo- 
strabili. Perchè vi è sempre tanti prìncipj ed elementi di di- 
moetrazione quanti vi hanno termini meitj; e le proposizioni 
che ai compongono dì quei termini sono i priucipj della dimo- 
Rtrazione. Però nella guisa stessa che vi sono certi prìncipj 
indimoatrabilì i quali atfermano che uua cosa è tale, vi sono 
anche dei prìncipj indimostrabili i quali affermano che una 
cosa non è tale. Quando vuol dimostrarsi alcun che di una 
data cosa, bisogna prendere un termine medio che sia attri- 
buito egualmente a quella cosa, e a ciò che di essa si vuol 
dimostrare: e procedendo sempre cosi, siccome il medio deve 
rientrare costantemente net limite dei termini, progredendo 
nelle dimostrazioni l' intervallo si rinserra sempre più, e si 
arriva ad una proposizione immediata. E come in tutte le 

(*) De An. I. 1. 8. 

(•) AdbI. poit. L 19. 2. 



- 124 — 

altre cose, il principio è qui una cosa semplice, ed è la pro- 
posizione immediata ('). 

Tutiociò furma la scienza immediala, la quale è frutto 
dell'arte naturale di peasare; arte chu, come abbiamo visto, 
incomincia col fornire i concetti e sale alla formazione dei 
principi, delle defiaizioni e dei termini medj, e così prepara 
tutti i tnateriali indimostrabili della dimostrazione (*}. 

Tutta questa scienza immediata è portata nella mente 
dall'esercizio dell'induzione, la necessità della quale per 
siffatto ufficio è da Aristotile chiaramente accennata in un 
passo che abbiamo riportato di sopra. Esso non conosce 
altra fonte di scienza tranne il sillogismo e la induzione ('). 
La quale abbiamo anche risto sopra come seiTa a formare i 
principj, e genericamente si estenda a tutta la formazione 
dell'Universale. Quello che importa di notare accuratamente 
è la assiduità colla quale Aristotile collega l' esercizio della 
induzione coll'uso dei sensi. Non vi è possibile alcuna indu- 
zione, e però nessun principio e nessuna dimostrazione, se 
non sia preceduta dalla sensazione. 

Al mancare di alcun senso ne segue di necessità la 
mancanza di qualche scieuza. Perchè non possiamo nulla 
apprendere che per induzione o dinios (razione. Or la dimo- 
strazione si cava da principj universali, e l'induzione dai 
casi particolari. Ma è impossibile di conoscere gli universali 
altrimenti cbe per induzione ■ . . ( che anche le cose astratta 
son conosciute per induzione ) . . . Ora indui're è impossibile 
per chi non ha la sensazione; perchè la sensazione si apjdica 
agli oggetti particolari . , . non si può cavare la scienza 
dagli univeisali senza l'induzione, né si può fare l'induzione 
senea la i^ensazione (*}■ Il che fa sì, che l'induzione è per 



(') Anal. post. I. 23. 5. logg. 

O Anal. post. I. 3. 4. 

(') ÀDal. pi', ir. 25. 1. 

(') Aaal. post. I. 18. — iitxx,^iivy.i ii p-i) l^oviac bItS-hi 



— i85- 

noi anche più evidente del sillogismo doduttivo, benché que- 
sto sin per natura più esatto di essa ('). 

QtiesU teorica cosi completa accurata e perfetta forse a 
noi sembra oggi la più facile e naturale dottrina, ma ci farà 
graodemenie maravigliare, se la si riporti al tempo che 
Aristotile la delineava, allorquando l'argomentazione ei 

. suoi mezzi erano poco conosciuti e gli elementi del pensiero 
da altra parte erano stati anche falsati nella loro vera na- 
tura per opera delia teoria di Platone, che chiamando in suo 
servigio a dare spiegazione di essi le Idee separate, avea 
gettalo nella quistione più complicanza ctie luce, e V avea 
Catto con un genio da sgomentare ogni tentativo posteriore. 
Il metodo di divisione, che Platone avea traccialo, sebbene 
fosse un esempio nuovo e fecondo di classificazione dei con- 
cetti, non toccava il fondo della quistione metodica intorno 
alla formazione e alla gradazione dei concetti slessi (*). 
Quando Platone sì appliaì a questo, non seppe che rifugiarsi 
nel mondo ide-ile a tutto danno del inondo vero della 
percezione. Aristotile ebbe il coraggio di non lasciarsi allu- 
cinare dallo splendore dei concetti Platonici, e ripigliando 
pazientemente il problema dell'arte elementare di pensare, 
lo ricondusse nelle condizioni umane da cui Platone avea- 
lo staccato. 

Stuart-Mill ha rinnuovato recentemente con molla feli- 
cità i concetti Aristo'elicJ, mostrando come la Induzione sia 

I base necessaria della deduzione, e come la Induzione non 

I possa aver luogo che partendo dai dati sensibili. Esso ha 
inoltre completato la Teoria Aristotelica, col mostrare come 
a base della vera o propria induzione ( formazioni; del 

I generale sul particolare) siavi un processo di inferenza (dal 



(') Anal. i.r. II. 25.8. 

n V. tìroté'a Plato. Vo). 2.» 



- 126 — 
particolare al particolare) precedente a quella induzione ('): 

e l'analisi datane da esso non lascia nulla a desiderare 
dal lato dell'esattezza. Ma ciò non nuoce alla pienezza della 
teorica Aristotelica, perchè, a vero dire, il processo di infe- 
renza di Stuart-Mill è condizione necessaria del pensiero 
volgare o rudimentale od oratorio, mentre Aristotile aveva 
primariamente in mira il pensiero scientifico. L'un processo 
serve di punto di partenza all' altro, e bisogna riconoscere 
che in alcuna parte del loro lavoro hanno delle condizioni 
comuni. Aristotile attribuisce all'induzione anche 1 prodotti 
dell' inferenza, dicendo « che la retorica produce la persua- 
sione per via d' esenipj (dal particolare al particolare) il 
che non è dtro che induzione » {*). 



(') Stuart-Mill. System of Logik. Voi. 1. 

(*) Anni. poHt. I. 1. 3. — Vedi anche Bbet. I. 2. 8. 



IV 

ClaHMozIone «lei ooiipelll. loro espresslone- 
Rnxluiianieiifo deduttivo. 



Trovato, come abbiamo visto, il punto di partenza noi 
sensi per la formazione dei concetti e dei principj, Aristotile 
aveva in pronto la maniera di spiegare la combinazione di 
tutto il mondo intellettuale, ed erasi preparato i materiali 
per tutta la scienza della dimostrazione deduttiva. 

Una volta iniziato il movimento dei sensi, e aperta la 
via dell'intelligenza, le cose si affollano a prender posto 
nella mente assieme colle loro qualità e colle loro relazioni, 
col loro concetti e coi primi assiomi. Come porre l'ordine 
in questa scomposta massa di nozioni, che si producono 
incrociandosi e incatenandosi senza una regola (issa, ma 
piuttosto seguendo il caso e l' eventualità della percezione 
sensitiva, operazione elementare che varia infinitamente 
a seconda della forza più o meno grande di intelligenza 
e di attività negli uomini diversi, e della varia vivacità 
dei temperamenti svegliati o pigri, e dell'acume dei sensi 
vario negl' individui, e della più o meno curata educazione? 

U libro delle Categorie adempie a questo ufficio dì 
porre l' ordine nel mondo dei concetti. Le categorie di Ari- 
stotile sono state molto infelici nella parte che ad esse 
tianno attribuito gli amici e i nemici delle dottrine Aristote- 
liche. Bacone ha detto, che Aristotile ha voluto fabbricare 
un mondo colle sue Categorie, o ha voluto farlo uscire da 
quelle. Altri hanno attribuito alle Categorie un significato 
metafisico, ed anche un' aria di mistero, che davvero non 
presentano nell'originale Aristotelico. 

Che cosa snno queste Categorie? Sono il primo frutto 
della Classificazione applicata ai fenomeni dell' intelletto. 



Come nelle scienze naturali, per arrivare con sicurezza alla 
cognizione degli individui svariati, che formano la materia 
del loro studio, la necessità massima è la Classificazione, e 
ne risulta un ordine nello accumularsi scomposto della co- 
gnizione d' innumerevoli individui e varietà zoologiche o 
botaniche; così nella scienza del pensiero la Classificazione 
dei fenomeni intellettuali è la più elementare necessità e la 
chiave di tutto l'edificio di quei fenomeni. Come ogni mine- 
rale, studiato a minulo e nella sua condizione concreta, 
presenta certe particolarità, per le quali si connette con 
altri, e con essi tutti entra a far parte della classe, per 
esempio, dei solfati o dei carbonati; così ò dei concetti, i 
quali studiati singolarmente presentano caratteristiche, per 
le quali si aggruppano a formare certe Classi, come quelle 
della sostanza, della qualità ec. Con questa sola dilferenza, 
che mentre là si classano varietà, specie, generi famiglie, 
prendendo a considerare le particolarità di descrizione natu- 
ralistica in ciascuno individuo studiato, qui invece sì classa 
seguendo i varj aspetti menlalì che una sola cosa può rive- 
stire. Mentre la classazione naturalistica non potrebbe farsi 
che con molta varietà di individui; la classazione calegorica 
si farebbe ben anche con un solo individuo purché fosse 
mentalmente percepito. 

Il concetto metodico, che ha presieduto alla formazione 
delle Categorie Aristoteliche, è di quelli che tratto tratto 
rinnuovano una scienza. Qualcuna delle classi del pensiero 
erano già entrate a far parte di una classificazione rudi- 
mentale nei tempi precedenti per opera specialmente di 
Platone; ma la divisione completa, forse esuberante, che na 
dà Aristotile ha portato nella scienza dei fenomeni intellet- 
tuali un vero rinnuovamento. La scoperta delia classifica- 
zione intellettuale è strettamente coUegata colla scoperta 
delle leggi deduttive e di tutta la legislazione del raziocinio. 
Lasciamo stare, se la class.tzione Aristotelica sia in tutte 



le sue parti inappuntabile; (') certo è però che te diverso 
formazioni del pensiero erano dai precedenti filosofi confti- 
samente considerate, secondo caratteri spesso arbitrar], con 
mire del tutto individuali e variabili nei diversi pensatori e 
nei diversi aspetti delle dispute, come avviene della so- 
stanza e della qualità di Platone. Una legge unica dì for- 
mazione mancava, e la confusione regnava nelle complicata 
diramazioni del pensiero. Colle Categorie di Aristotile com* 
parisce nettamente quella legge. La sostanza è la base di 
formazione del pensiero, perchè esso non può avere suo 
punto primo di fermata altro che in un concreto; la sostanza 
si riveste, a così dire, di varie speciali condizioni alle quali 
il pensiero della sostanza stessa si applica modificandosi ih 
diversa attitudine. E così esso prende aspetto di qualità, 
qttantità ec. Nulla per altro è pensabile se non cotói* 
sostanza, o appartenenza di sostanza, cioè come astrazione 
cavata dalle condizioni particolari della sostanza stessa. 
Oneste condizioni sono reali della realità del concreto a 
cui sono inerenti, ed hanno un particolar valore mentalo 
per r astrazione che ha prodotto il loro concetto. 

Il pensiero fissandosi con più viva attenzione sulle con- 
dizioni, che circondano la sostanza, dà luogo alla forma- 
zione di questi concetti, che sebbene non sieno concetti di 
sostanze, rispondono alla realtà, perchè son formati sopra 
appartenenze e condizioni reali delle sostanze, ma prescin* 
dono Deli' ordine mentale dal concetto primitivo della 
sostanza e del concreto che loro ha dato orìgine. Cosi seb- 
bene non si abbiano originariamente che individui sostan- 
ziali e completi rappresentati nella formazione mentale; si 
arriva poi ad avere i concetti anche delle appartenenze di 
quegl' individui, appartenenze che mentalmente si astrag- 



(') Afistotile stesso noQ ha Mmpre tenuto il medesimo nnaii^o 
di classi, ritenenJone talvolta otto, nove, taUltra dieci, coU'ftOCeture 
o rtspiagere alonne oUbbì secondarie. 

» 



i 



- 130 — 

goDO> betiiìhè nel fatto sieuo iusoparabili. I coocetti delltn 
apparteoenze suppongono il concetto di sostanza e lo ' 
completano. 

Meritano speciale attenzione nel libro delle categorie 
certe qualificazioni cbe Aristotile attribuisce alle classi in 
cui esso divide i concetti, e che fanno palese la sincera 
analisi, colla quale esso era arrivato a concepire e tracciare 
la sua classificazione. 

Il pensiero piìi importante di Aristotile nella trattazione 
delle Categorie è lo aver riposto la sostanza reale nel con- 
creto sensibile individuale ('}. Mentre Platone poneva la 
sostanzialità e la realità nell'ideale, visto cogli occhi della 
mente, Aristotile al contrario la ripone nelle cose che 
reggiamo e tocchiamo sensitivamente, alle quali Platone 
assegnava un posto secondario nella formazione del mondo 
intellettuale. Questa differenza è tanto grave, che in essa 
giace tutta la controversia tra Aristotile e Platone, e tra la 
scienza e la Metafisica. Sebbene la considerazione della 
sostanza individuale al modo Aristotelico sia ben lungi dai 
risultati della scienza moderna, essa costituiva ppr altro un 
passo importantissimo verso il metodo scientifico. La più 
rimarchevole particolarità di questo rinnuovamento fatto da 
Aristotile era contenuto nella distinzione dell'Ente in fon- 
damentale e concomitante, sostanza e accidente (*). Così il 
punto centrale della formazione del pensiero era in — 
questo uomo — questo cavallo — ec. i concetti generali 
erano prodotto dalla mente, e le qualità erano reali soltanto 
nei loro concreti. « Non bisogna credere che la sostanza 
sia cosa diversa dei corpi e più che i corpi, ec, è impossibile 
che la sostanza sia mai realmente separata ». (*) Ciò è 



(') Cai. III. 1 e 2 — oùff 

(*) eiiitt — 9u(ipsp»iiio(. 
O Met, XII 2. 16. 



Ti; àvSpronot, il 



- 181 — 

precisamente l' iuverso della teorìa Platonica, cella quale, 
la bellezza, la grandezza e lutle le qualità erano entità 
snstanziali, e di esse p.irtecipar doveano le cose per acqui- 
stare (jiialolie T'ealUà. 

Non i' diiiiqiiB iiilGrpfltrare Aristotile cnn inleiidìiticnlì 
moderni lo attrihuirfjli un concetto della sostanza al lutto 
alieuo della nozione metafìsica di essa, in modo da ritenere 
che la sostanza non sia un cute separato dalle qiialiLà che la 
foriuano nel loro complesso, e questo pensiero è conformato 
da un brano del libro delle Categorie, lo esso si presenta la 
sostanza come un vocabolo destinato ad indicare un rapporto 
pÌutto3(ochi> un ente metafisico. (') II che farebbe concludere 
che Terrore di prendere la sostanza come un ente distinio 
dalle qualità sembra non possa .ittribuirsi ad Aristotde. 

Ma questo interessa poco alla trattazione nostra, a cnì 
più che delle dottrine importa tener conto del metodo. Il 
pensiero, che condnceva Arisiolile a porre nell'individuo 
concreto il centro e il punto dì partenza di ogni operazione 
mentale, era lo stesso che ispiniva la teorica della forma- 
zione dei prmcipj d;i! sensibile sperimentale per via d' indu- 
zione, clie abbiamo visto in addietro. 

Le Categorie non contengono dunquf altro significato, 
che quello di una classificazione del reale nelle sue diverse 
manifestazioni. E perù non sono forme subiettive del pensiero 
introdotte per azione automatica dello spirito, come le cate- 
gorie Kantiane. Elleno sono chiamate espressamente — 
classi dell'essere — ('). Quante volte si esprìme alcuna 
delle categorie, tante si esprime 1' essere (■). Dopo la fissa- 



TI- 7.4. 



— 132 — 

zìone della sostania nell' individuo concreto, sono questi i 
concetti più importanti di Aristotile intorno alle categorie, 
cioè la loro rispondenza alla realità e il loro uso logico. 

« Qualunque cosa dicasi secondo ciascuno schema delle 
categorie, dicesi secondo la categoria dell'ente: talvolta 
significando che cosa è, tal' altra quale è ec. » ('}, 

< L' Ente si esprime in molti modi. Talvolta ciò che è, 
cioè una cosa particolare; altravolta quale o quanto ec. La 
prima di queste maniere è quella che esprime la cosa, cioè, 
la sostanza, le altre esprimono appartenenze di quella. Onde 
alcuno dubiterà se il camminare e l'esser sano e lo star 
seduto ec. sieno enti o no, e così delle somiglianti qualità. 
Ma nessuna delle qualità può slare senza la sostanza: cosic- 
ché il camminare e l' esser sano e lo star seduto è più ente. 
Queste qualità ci appaiono maggiormente enti, perchè 
hanno un subietto obbligato cioè la sostanza e il singolare 
che si sottintende h quei predicati » ('). 

Le classi stesse per altro sono di uso mentale, non 
trovandosi in natura la categoria sostanza o la categoria 
qualità, ma questa o quella sostanza, questa o quella 
qualità inerente a una sostanza. L'uso mentale delle cate- 
gorie apparisce dal prestarsi elleno al vero e al falso 
nelle loro combinazioni. Tutte le singole parti di questa 
come di ogni altra classazione sono enumerate, ma non 
combinate tra loro; si possono bensf con una affermazione 
negazione collegare, e allora entrano in una proposizione 
vera o falsa. Il che costituisce una operazione che spetta 
alla mente f'). 



{') Met. IV. 28. 5. 

(*) « . . . . àXU fiSUov, tUtp, to' ^a^i'Cou twm ovtuv ■ 

ti flà^kX^V ^Zl'vtTaE Itttt, JlOTt itti TI UTT^XEIUEVOV auToi 

Met. VI. I. 3 e 4. Vedi anche Mot. Vili. 1. 1. Cat. III. I 
5 — De Anidra I. 5, 

C) Cat. II. 5 Big. — Mat V. 1. 1. >V«l Si n ffuunl 
ì ti»ìfM\i iv Siavaia, ctlV ai!x tv Tat{ jrpàyftasi. 



; . , . Tiùtì 
(SfLufxevov. 



— 133 — 

Come si rode, le Categorie Aristoteliche nel loro genuino 
significato sono ben, lungi dal legittimare l'abuso che i 
logici scolastici ne facevano, presentandole come una dot- 
trina misteriosa. Kant ha dato ad esse un significato 
tutt' affatto alieno da quello Aristotelico, ispirandosi alle 
tradizioni scolastiche intorno alle categorie e combinando 
ad esse lo teoriche Leibuiziane intorno al contenuto origina- 
rio dello spirito. Colalchè questa teorica cosi semplice in 
Aristotile divenne col tempo il terreno più scabroso della 
Filosofia, per opera delia Metafisica. 

La quistione delle Categorie è posta da altri filosofi 
d'oggidì in UH modo ben diverso da quello Scolastico e 
Leibniziano e Kantiano, ma forse non tanto ripugnante al- 
l'indole dei concelti Aristotelici . 1 filosofi che tftngono ancora 
alle varie scuole recenti sono numerosi, e questi conside- 
rano le categorie dal punto di vista Kantiano o da quello 
Ontologico puro o da quello Hegeliano, cioò danno alle 
Categorie un carattere e una origine psicologica, od ogget- 
tiva , o idealistica , Per costoio la Categorie prendono 
aspetto di forme dolio spirito, o di Idee inspirate da forza 
sovrassubiettiva, o di composto in cui l'ideale assume 
le qualifiche di un reale assoluto. Ma la loro tratta- 
zione è oggi riprosa con molto frutto dalle scuole di 
filosofia scientifica, e queste arrivano a delle conclusioni 
molto somiglianti alla teoria Aristotelica, colla sola impor- 
tantissima variante, per la quale il concetto di sostanza è 
ridotto al suo vero valore di complesso delle qualità 
conosciute. (') Un subietto, un sustrato, una sostanza, 
come sostegno alle qualità, è un'illusione della mente, la 
quale a vero dire non conosce, che i modi nei quali una cosa 
le si è successivamente manifestata; e ad analizzare il con- 
cetto di sostanza, non si trova in fondo ad esso, che ciò che 



{') Abbiamo in addietro p. 122 citato un passo di Ariatotilo cha 
porta questo medesimo concetto parlando della esaensa delle cose. 



— 134 - 
1' espenenz;i vi ha posto. E per esperienza s'intende il 
complesso delle seasazioui e dei conceltl formati per astra- 
zione sulle cose sensibdi. Cotale vai'iaiite è di molto valore 
per l'analisi delle opercizioni mentali, ma uon annulla la 
class,nzion6 Ai'iatotelica; invece la prende a base e la mi- 
gliora, cacciando di mezzo ad essa una dottrina Scolastica 
in cui si rifugiava spesso la Metafisica. 

Un altro libro nel qusle Aristotile seguitava la classa- 
zione incominciata eolie Categorie, e che serviva perciò di 
soccorso alla dimostrazione scientifica, è il libro dell'Espres- 
sione parlata o del Linguaggio. 

La classazione delle cose e delle loro qualità si riferiva 
al materiale^elementare intellettuale considerato come im- 
mobile, inerte, scomposto come i caratteri dì una stamperia 
allorché giacciono nelle loro scatole. Ma come di questi 
caratteri ben tosto si può dar mano a comporre delle parole 
e dei libri, e qui l'ordine o Li confusione si farà sentire per 
la prima volta; così i concetti aggruppandosi possono essere 
messi in un movimento dal quale esca formata tutta la serie 
dei giudizi che la mente fa e che esprime in proposizioni. 
Qui il vero e il falso incomincia, e la ricerca del metodo 
scientifico si può grandemente giovare di una buona classa- 
zione delle proposizioni. 

Il nome, il verbo, e quindi la negazione, l'afFermaziono, 
la enunciazione e il giudizio sono le materie trattate nel- 
l'Hermeneia. Il nome e il verbo sono dapprima considerati 
separatamente, e quindi nelle loro combinazioni, mercè le 
quali sono aggruppati in proposizioni; la classazione delle 
proposizioni e lo studio di esse nei loro diversi aspetti dà 
luogo ad una analisi minuta e nuova che forma la parte 
cospicua di quel trattato. Aristotile si trattiene lungamente 
sulla teoria dell'opposizione delle proposizioni, sulle regole 
della contradizione nei tre momenti principali del tempo, 
il passato, il presente e il futuro. Dall' opposizione nelle 
proposizioni categoriche passa all' opposizione nelle modali. 



— 135 - 

e termina il trattato coli' osp.Tre i prìncipj dell* opposizione 
negli attributi. 

Questo lavoro fii nell* antichità assai trascurato, e restò 
per liinp;o tempo seppellito sotto una trista rinomanza di 
oscurità, e sotto la taccia di non autenticità. Questa sem- 
bra non sia giusta, ma certo non è priva di fondamento 
la prima. Ad ogni modo esso resta come il primo ten- 
tativo di classazione delle proposizioni, e così la prima 
forma di una grammatica filosofica. La classazione delle 
proposizioni, come essa è fatta da Aristotile, non possiede 
tutta la lucidezza, che s'incontra nella classazione delle 
Categorie. Ma anche di essa restarono molte traceie negli 
studj che si fecero dipoi. Sebbene per allro la classazione 
Aristotelica delle proposizioni lasci a desiderare dal lato 
della chiarezza, è rimarchevole il pensiero che l'ha diretta. 
La via, che Arislolìle apriva per la prima volta dinanzi a 
se, era la vera e sicura per an-ivarc a scoprire l'ordine della 
formazione mentale. Questa necessità della classazione degli 
elementi primi del ragionamento non fii smentita mai più, 
benché ad essa fosse provveduto in modo migliore. 

Merita che si presti attenzione ad un luogo dell' Herme- 
neia, ove è di volo accennata 1;» quistione generale intorno 
al linguaggio, al suo ufficio e alla sua condizione. 

« Le parole sono l'imagine delle modificazioni dell'ani- 
ma, e la scrittura l'imagine delle parole. Nella manìem 
che la scrittura non è identica per tutti gli uomini, anche 
le lingue non sono somiglianti. Ma le modificazioni dell'ani- 
ma sono le medesime per tutti gli uomini, perchè sono iden- 
tiche le cose di cui sono immagini queste modificazioni .... 
Il nome è una voce, che per consenso (') significa qualche 
cosa .... Diciamo per consenso, perchè nessuna parola è 
un nome per natura sua, ma diventa nome quando diventa 
simbolo». 



(') xatù «uy£i)ii|y. 



- 136 - 

In questo passo è dichiarato l'uflBcio del lioguaggio 
come segnale, simbolo delle imagini, le quali a loro volta 
sono indicate come simbolo delle cose. Un tal modo di 
comprendere il linguaggio, sebbene imperfetto, mostra che 
allora si studiò questa materia tenendosi all'ordino umano, 
Dalla sognando le teoriche metafisiche dipoi. 

Quello che Aristotile non vide, né lo poteva, è la filia- 
aoDe dei gruppi dei linguaggi, filiazione che oggi scema 
.notevolmente la difficoltà delle loro differenze. Furono 
,quasttì differenze che indussero Aristotile nella falsa idea 
di assegnare la convenzione e il consenso come ragione 
all'origine del linguaggio. La filiazione dei linguaggi, fino 
al punto a cui la si può condurre, allevia in parte questa 
difficoltà, riducendo i tipi linguistici a sole quattro o cinque 
forme diverse. Della diversità delle quali d'altra parte a 
noi dà ragione la considerazione di tutte le altre particola- 
rità, che rendono diverse tra loro originariamente le pri- 
marie famiglie umane. Da questa difficoltà, a noi di leg- 
gieri sormontabile, fu indotto Aristotile a disconoscere la 
naturalità del linguaggio, e dar luogo invece ad un artificio 
-convenzionale, li che è tanto erroneo, quanto la ideale 
naturalità del linguaggio ammessa da Platone. Il qu^de 
spingea questa naturalità fino a farne un rapporto neces- 
-sario tra una data idea e una data parola. Per altro tra 
tutte le ipotesi tentate finora, la piìi assurda è quella della 
rivelazione divina del linguaggio, e della ragione delle 
AìSej:tTiz& trovata nelladispersione Babelica, lo non richia- 
merei qui una tate ipotesi, se non sapessi che, cosa impos- 
sibile quasi a comprendersi, vi sono molti filosofi anch'oggi, 
.che l'accarezzano; e mi preme in conseguenza di far notare 
■ come certe scuote filosofiche in certe quistioni abbiano oggi 
meno valore che non Aristotile e Platone stesso, anche 
quando essi sbagliavano. 1 quali nella quistione del linguaggio 
benché non arrivassero a un risultato scientifico soddisfa- 
cente, tennero una vìa meno distante da quella tenuta oggi 



— 187 — 

dalla filologia. La teorica di Platone combina colla teo- 
rica filologica nel riconoscere un rapporto naturale tra 
l'idea e il linguaggio, ftenchò esageri questo rapporto sino 
a dichiararlo assoluto. Aristotile si è con molto buon 
sei^o astenuto dal farne una trattazione scientifica, ma 
dalle poche parole, che ci danno qualche notizia dei suoi 
pensieri in proposilo, si vede che esso tenea la quistlone 
sul terreno naturalo, benché vi facesse agire troppo la 
volontà ÌD luogo della spontaneità. 

Per noi il linguaggio non è che una conseguenza del- 
l'azione subita per opera dei sensi nella percezijjne. La 
parola è la conseguente espressione, che tien dietro alla 
impressione della percezione. Il cauto degli augelli, il grido 
involontario di dolore o di piacere in tutti gli animali sono 
formazioui analoghe a quella del linguaggio umano, seb- 
bene in esso si arrivi a riprodurre non le sole impressioni 
violente, ma ì mìnimi portati della sensazione. 

La naturalità del linguaggio adottala da Platone indica 
un falso rapporto tra certi segni e certe cose segnate. Al 
contrario la naturalità del linguaggio, come oggi s'intende, 
indica la disposizione naturale dell' uomo a parlare perchè 
pensa, e include la tendenza generale della sensazione e 
del concetto ad esprimersi in segni articolati. 

L'ultimo tratto della furmazioue mentale entra nel 
campo della scienza. I concetti categorici facendo dei gruppi 
btnaij collegati dal verbo costituivano le proposizioni, e 
queste facendo dei gruppi ternarj danno origine al sillogi- 
smo, la pili serrata forma del ragionamento deduttivo. I 
primi e secondi Analitici sono i libri nei quali Aristotile 
lasciò un monumento imperituro del suo genio tratteggian- 
do le forme sillogistiche e ponendo quasi nelle mani della 
«cien2a il compasso per misurare i suoi prodotti e il loro 
valore. Questa trattazione Ai'istotelica è tanto conosciuta, 
che inutile riescirebbe darne qui un minuto ragguaglio, 
r^ei primi Analitici è tutta la teorica del sillogismo, nei 



— 138 — 
secondi la ricerca del valore della dimostrazione, complesso 
di sillogismi. 

Quello che dal lato della qiiislione metodica ci interessa 
più da vicino, è l'insieme delle caratteristiche attribuite da 
Aristotile alla couchisione e alia dimostrazione, e il valore 
loro assegnato scieotiflcamente. La grande scoperta colla 
quale si riconduceva ad una sola forma di solidità incon- 
cussa ogni ragionamento, col ridurlo ad un tipo unico di 
due premesse dalle quali scende necessariamente una con- 
clusione, manifesta una potenza stragrande di analisi. La 
mente dei filosofi Indiani si era accostata a questa forma 
di legislazione del pensiero, ma 1' avea quasi soltanto 
intravveduta, senza riuscire a farne una esatta descrizione 
e delimitazione ('). Il metodo di divisione Platonico, era 



(') Nel Nyaya di Gotaina la Siddhiinta ( asierziona ) corri- 
sponda al sinogismo Ariatotelico, benché molte sia distante da esso 
per rigore di forma, 8 di analisi. Easa ha cinque membri, la propo- 
sizione, la ragione, lo schiarimento, l'applicarione e la conclusione. 
Colebrooke attribuisco all'Asserziono l'indole di un vero sillogismo. 
Barthélemy-Saint-Hilaire traduttore del Nyaya contesta queato 
Talore sillogistico. Ma l'esempio , da esso medesimo riportato dai 
commenti, credo faccia dar ragione a Colebrooke. Benché la forma 
del sillogismo non vi comparisca nella sua perfezione, e a cos\ dire, 
ridotta ai suoi minimi termini; vi si trova per altro un sillogismo 
plooiiastico. Ecco r esempio dei commentatori: 

Propos. Questa montagna bnioia; [a) 

Ragione. Perchè ella fuma; b) 

Suhiarim, Ciò che fuma brucia, come Ìl fuocolare della cucina; (e) 

Applicai. Egualmente la montagna fuma; (rf) 

Gonclns. Dunque ella brucia, perchè ella fuma, (e), 

(a) Tesi conclusione preanmiwsiata. 

(b) Minore 

(e) Maggiore eorredaia della Induzione corris})ondenle. 

(d) Sipetieione della minore. 

(e) Concìnsione corredata della minore. 

Questa forma di ragionamento Barthélemy stesso confessa che 
li ATTÌoina al sillogismo, e ohe di più è stata dalla Mimattta ridotta 



ben lungi da rjuesto risultato; esso conteneva uno studio 
del pensiero e rielle sue diramazioni e non lo norme della 
dimostra^iono. Cotalchè il metodo di divisione non bastava 
a dare esattezza al ragionamento, essendo esso slesso nelli. 
necessità di essere diretto nella classazione analitica dei 
con<:eiti, la quale sarebbe riuscita buona o cattiva a seconda 
della abilità mentale e dialettica dei disputanti. Ma il 
sillogismo Aristotelico collocò il ragionamento su basi 
incrollabili. La Matematica non ha nulla di più solido nei 
suoi metodi, benché soccorsi dn un simb-jlìsrao così per- 
fetto. 

Aristotile non si limitò ad organizzare il tipo fonda- 
mentale del sillogismo, ma ne completò la teorica con una 
intiera trattazii^ne intorno alla possibilità e agii elementi 
della dimostrazione ('), alle sue diverse specie (*), alLi 
incrollabili tà delle conclusioni ec. (') Dichiarò, come abbia- 
mo visto in addietro, alla dimostrazione essere base la 
esperienza, sola capace di formare ì principj, e non potersi 
applicare alt' essenza, ma soltanto allo condizioni delle 
cose ('). 

Un concetto del i^uale non mi sembra siasi abba- 
stanza tenuto conto dai logici, e che sebbene da Aristotile 
accennato di volo, può essere assai rilevante per la 
scienza nostra, ò riuello che si riferisce al ricondurre la 
induzione ad un sillogismo. La induzione è generalmente 



ftd una espvestione in tre sole proposizioni, prendendo o le sole 
prime tre ( un sillogiame rovesciato ) o le sole tre nltime ( siilogi- 
amo vero e proprio ). — Manca per altro nel Nyaya ogni traccia 
di quella analisi dell'organiamo sillogistico che fa il merito precipuo 
di Aristotile, manca la acoperta del medio, che 6 il vero centro da 
cut si irradia la fòrza Billogistica. 

(') Anal. post I. sect. 2.' 

(») Ibid. I. Bect. 5.' 

(•) Ibid. I. 8. 1. 

(■) Anal. pr. I. 30. 3. - Ànai. post II, 4. 1. 



— 140 — 

coasiderata come una forma di ragionamento di natura 
differente dal tipo fondamentale del sillogismo, e alla quale 
perciò i logici attribuiscono un valore inferiore o superiore 
a quello sillogistico, secondocliò patteggiano per l' una 
forma o per 1' altra. Non sembra die di tal parere fosse 
Aristotile il quale dichiarò doversi la forma induttiva 
ricondurre ad un sillogismo e valutare alla pari di quello. 
Infatti esso appella l' induzione « sillogismo della proposi- 
zione primitiva e immediata » di quella cioè che rende 
possibile il sillogismo deduttivo senza poter essere mai 
generata da esso. « L'induzioue e il sillogismo per iudu- 
zione hanno luogo allorché si conclude l'uno degli estremi 
del medio per via dell'altro estremo (') ». 

Ma, come ho detto, quell'acLitissima analisi, che avea 
condotto Aristotile a scuoprire il segreto della formazione 
del materiale elementare del pensiero per via dell'azione 
origiuaria dei sensi, in seguito alla quale prendevano ori- 
gine per opera dell' induzione i concetti sotto forma di 
termini, definizioni, assiomi, principj, proposizioni generali, 
e si riusciva cosi all' universale; la stessa analisi, colla 
quale esso era pen'enuto a districare le difficoltà delle varie 
e scomposte maniere di argomentare in seno al discorso 
volgare, oratorio, dialettico, filosofico e ad assegnare a cia- 
scuna di esse il loro proprio valore dinanzi alla certezza; 
questa medesima analisi la troviamo m azione al momento 
che esso costruisce la teorica del sillogismo. 

Se nell'arte di pensare il ragionamento preparatorio era 
intricato, se la ricerca delle proposizioni generali era sca- 
brosa, non si presentava meno arduo il problema deduttivo, 
di trovare cioè una regola fissa colla quale riuscisse agevole 
di ricondurre i casi particolari nuovi sotto il domiiiio delle 
proposizioni generali già trovate, e salvarsi così dal rendere 
perpetuo e inesauribile il lavoro induttivo. 

(') Aliai, pr. II. 23. 



L'abuso che la sa)lastica lece della logica formalo, 
nocque gravemente alla teorica dei sillogismo, la screditò 
colle iafiiiìte minuzie di cui l'ebbe sovraccaricata, la falsò 
coli' attribuire ad essa come suo monopolio la facoltà di 
scuoprire il vero, la ridusse a una macchina da fabbricare 
ragionamenti. 

Ma anche in questo lato Aristotile ha avuto la disgrazia 
di (taderc in mano a troppo zelanti discepoli, che hanno 
perduto di vista il suo metodo e il suo pensiero, per attenersi 
alla lotterà morta dei libri. La trilogia sillogistica ha \m 
ben più alto valore quando la sì prenda a considerare dal 
lato del pensiero metodico che la ispirò, che non dal lato 
delle formule, colle quali si tentò di compiere la classazione 
delle Figure e dei Modi dei sillogismi possibili. Questo pen- 
siero si compendiava nello studiarsi di concentrare il ragio- 
namento deduttivo, scartandola esso ogni cog^nizione super- 
Hua, ponendo un legame necessario di tre termini, 1 quali 
per via di un congruo paragone di due di essi ad un terzo 
dassero due premesse ed una conclusione, al modo che la 
Geometria teneva, quando poneva in pratica iì suo assioma, 
che due quantità eguali a una terza sono eguali tra loro. 

Per questa via il frutto dell'arte di pensare e della 
disputa scientilìca era assicurato. Appena si fosse col lavoro 
mentale o col dialettico, e come oggi si direbbe, polemico, 
toccato il punto fisso di una proposizione generale, la scienza 
era tolta alle divagazioni e alle incertezze, e per ogni caso 
speciale incontrato se ne richiamava alla proposizione gene- 

krale sotto la quale poteva essere classato e qualificato. 

In questa maniera nelle mani di Aristotile non pure si 

I perfezionava il metodo dal lato del valore attribuito ai sen- 

1 sibili e al mondo esterno, egualmente che al concettuale, ma, 
ben anche si assicurava il pernio fisso della polemica acien- 

L tifica, e le verità trovate si ponevano in salvo dalle basse 

laiti de' mestieranti della parola. 



Riassunto della Teorica della scienza. - 
Il Particolare e T Universale In Ari- 
stotile. Metodo empirico, critico, con- 
cellnaie ■ 



La diversità dei prindpj e delle massime fondamentali, 
che regolano le ricerche e le speculazioni di ciascuna scuola, 
porta nel seno di essa una diversità di Metodo. per dir 
meglio, le scuole si succedono, e si migliorano col migliorare 
le loro massime fondamentali, e con esse il loro metodo. Per 
tal maniera, abbiamo veduto per es. nei Teologi primitivi 
un rudimento di metodo, degno appena di questo nome, nel 
quale le massime fondamentali%rano costituite da assiomi 
di sentimento, di fede, di iaterpetrazione fantastica della 
natura. E però i dati propriamente razionali erano i meno 
curati. Gli Eleati dal canto loro ebbero per massima fonda- 
mentale metodica la nullità dei dati sensibili; e il loro 
metodo in conseguenza tenne conto della speculazione pura 
e rifiutò r esperienza . 

Or se si domanda ad una scuola filosofica dell'antichità 
dei tempi nostri, che cosa è il vero metodo scientifico? 
Ciascuna ci risponderà a modo suo, e ne avremo tanta 
scuole, tante definizioni del metodo; perchè ciascuna scuola 
intravvede il metodo attraverso alle sue proprie massime. 
Come è dunque possibile giudicare in questa varietà di opi- 
nioni della validità di un metodo in confronto della nullità 
di un altro ? 

La miglior via per arrivare a questa mela è certamente 
la computazione dei risultati ottenuti in ciascuna scuola. Le 
scienze naturaU come hanno elleno fatto a giudicare e sce- 
gliere il loro metodo, che ormai si sono assicurato? Hanno 
valutato il pregio dei frutti che loro dava il metotlo speri- 



— la- 
mentale nei pochi tentativi fatti Dell' antichità, hanno con- 
frontato il grande valore di questi pochi tentativi colla 
I vanità degli sforzi immensi consumati attorno al metodo 
1 aprioristico, e ne hanno concluso alla sanzione di quello e 
all'abolizione di questo; conclusione che portata alla pratica 
ha rimunerato largamente le scienze naturali della loro 
preferenza. 

Le scuole filosofiche non hanno ragione alcuna di riget- 
I tare questa regola. E innanzi tutto è permesso di osservare 
I che sebbeue in tutte le scuole filosofiche si abbia un concetto 
I diverso del metodo, ciò nonostante debbono tutte sottostare 
1 una condizione unica e primaria, che contiene il signifi- 
I cato vero di esso. Qualunque sieno i concetti che si hanno 
1 intorno al metodo d.tlle scuole diverse, tutte debbono partire 
j da questa condizione, che il metodo dia per prodotto la 
I certezza od il massimo avvicinamento ad essa. 

La certezza e nuli' altro è ciò che domanda la scienza 
! vera. La necessità di arrivare ad essa ha prodotto la riforma 
j metodica di Socrate, e quella di Platone, e piìi di tutto ha 
I prodotto il metodo di Aristotile; la stessa necessità, rinata 
I dopo il Neoplatonismo e il falso Aristotelismo della Sco- 
I lastica, produsse la Critica di Kant, e produce il desiderio 
I universale, che si prova al presente, di dare un metodo 
I scientifico alla filosofia. 

E se ben si guarda, in alcuni casi la Logica sola può di 
I per se darci la norma per giudicare della validità o della 
\ nOD validità di un'metodo. Imperocchii un metodo errato ha 
Isovente la radice del suo errore in un vizio di logica. 
[ Pitagorici traevano da premesse aritmetiche delle conse* 
Igaenze attinenti all'ordine morale. I Teologi partendo da 
I prìncipj di Fede pretendeano arrivare a conclusioni che sono 
I Del campo della ragione. Gii Eleati per ispiegare la natura, 
Jcioè il mondo sensibile, partivano dal priocipio, che esso è 
I nitUa, e le loro conclusioni si tenevano però nell* ordine 
I della idealità, e non aveano che Care colla scienza del mondo 



- U4 - 

sensibile. Socrate partiva dal princìpio, che la coscienza 
umana fosse tutto, e nulla la natura rimanente; le sue con- 
clusioni perciò erano fatte entro limiti troppo ristretti, e non 
fa meraTiglia se si trovavano poi in collisione colla storia 
della società e colla natura. Platone per far la teorica del- 
l' uomo e del mondo e delle loro condizioni, poneva a prin- 
cipio un Mondo ed un Uomo ed una serie di enti separati 
dotati di perfezione fantasticata, non mai vista né trovata 
nei fatti naturali ed umani, e da questo principio traeva 
conseguenze, che avrian dovuto comporre la scienza di que- 
sto mondo reale e di questa Umanità; è per ciò che la pratica 
non gli rispondeva, e quando provavasi a dar corpo alle sue 
conclusioni, finiva nell'utopia, come nel caso della sua 
Repubblica. 

L' errore del metodo è d'ordinario una sproporzione tra 
certe promesse e certe conclusioni, ovvero l' uso malaccorto 
di principj non adatti alle scienze e alle ricerche a cui se ne 
fa l'applicazione. Per avere un buon metodo à dunque neces- 
sario mantenere fedelmente questa proporzione tra le pre- 
messe e le conclusioni, tra ì dati che abbiamo alle mani e le 
leggi, i principj, le conseguenze che se ne indusono o 
deducono. 

La certezza non sarà possibile ottenerla, quando si 
osservassero anche tutte insieme le altre regole, ma si 
trascurasse questa, che è il fondamento di tutte. 

D'altra parte chiaro apparisce oggi dalla storia della 
scienza, come la materia elementare di tutta la cognizione 
nostra, e però il punto di partenza per ogni metodo debba 
cercarsi nel mondo sensibile, fenomenale, esterno od interno, 
poiché senza questa base si vedono diventare impossibili le 
scienze, nessuna eccettuata. 

La Matematìcaj per incominciare da questa, che è spesso 
citata allo scopo di dare una mentita a quella massima, la 
Matematica pone a fondamento del suo edifizio alcuni assio- 
mi cavati originariamente dall' esperienza, e col corredo di 



-1*- 

postatati e di dcfìniziooi, che pur sono occasionate da espe- 
rienza, trae per via deduttiva le sue conclusioni in un ordine 
di combinazioni puramente razionali. Sarebbe per essa con- 
trario al suo melode uscire da questo ordine, e misurare Itì 
figure tracciate col tira-linee in luogo delle più vere figure 
ideali. Da questo si può concludere, che l'esperienza conse- 
cutiva alla teoria sarebbe per lo meno inutile alla Matema- 
tica, ma mm se ne può concludere al cunlrario la possibilitÀ 
di fare a meno della esperienza preparativa del lavorò 
matemalico. È inutile la esperienza consecutiva, perchè IS 
conclusioni matematiche si formano per via di combinaziomi 
mentali tratte da un pici'olo numero dì concetti e di prlncìpj 
formulati in una serie di simboli perfettissimi, e vano sa- 
rebbe cercare nella realità una perfezione rispondente si ] 
concetto materna Lieo, come vano sarebbe cercare nella realità , 
l'esistenza di una specie o di nagenere. Nessuno strumento 
nostro il più sensibile varrebbe per es. a farci conoscere Ift \ 
curvatura di un piccolo ai-co tagliato sopra una circonferenza ' 
delineata con un raggio immenso, e quell'arco non è possi- 
bile sperimentalmente distinguerlo da una linea retta, ben- 
ché lo distingua benissimo il calcolo. Ma é vero ancora, che 
senza l'esperienza preparativa ed originaria non avremmo 
potato form-irci i concetti delle figure, e se non avessimo 
avuta mai la percezione sensibile di un circolo approssima- 
tivo, di un triangolo, di un quadrato, non saremmo diventati 
mai geometri; come se non avessimo mai veduto la divisione 
meccanica fatta con imperfetta esperienza di un tutto nelle 
sue parti, non saremmo mai arrivati alla massima, che il 
tutto è eguale all'insieme delle sue parti, perchè non 
avremmo in nessun modo acquistato il concetto di tutto e 
quello di parte. 

Intorno alle scienze naturali non può sorger dubbio, che 
tale sia l'abitudine loro, cinèdi tenersi costantemente all'e- 
sperienza, abitudine che esse hanno contribuito grandemente 
ad insinuare alle rimanenti scienze, che vi si mostravano 

10 



— 146 — 

restie. Elleno accumulano col pia paziento lavoro i materiali 
della osservazione e dello sperimento, e sovra di essi per vìa 
d'induzione si elevano alle leggi, traomlo poi da queste al- 
cune conseguenze, sempre soggette alla verifica e alla mi- 
sura dei fatti. La pura razionalità deduttiva porterebbe la 
morte delle scienze naturali, 

Le scienze morali sono destinate dalla loro indole ad 
adoperare un metodo misto di induzione e deduzione, e stu- 
diare r andamento delle leggi mentali, prendendo a base 
l'osservazione dell'uomo, e più che tutto la storia dei feno- 
meni morali. Eesendochè l'osservazione dei fenomeni di 
coscienza individuale sia difficilissima in pratica e spesso 
illusoria, perchè in essa non si raccoglie che uno solo dei 
casi i quali debbono in gran numero concorrere a darci for- 
mulata la legge, le scienze morali si trovano nella necessità 
di raccogliere il loro materiale sperimentalo osservando la 
manifestazione dei fenomeni spirituali nella storia. E dalle 
leggi cosi assicurate possono trarre deduttivamente molte 
conseguenze in rapporto alla condizione dell' uomo in indivi- 
duo o costituito in società, e portare tanti frutti alla esistenza 
civile, quanti alla comodità della vita ne portano le scienze 
naturali. 

Ma nelle scienze morali sarebbe veramente farsi illusione 
il credere che fosse per esser buon metodo il porre come 
principio un'idea supposta assoluta, come certi metafisici 
vorrebbero, e trarre deduttivamente da quella le conclusioni 
relative alla materia di quelle scienze. Sarebbe illusione, 
perchè quelle scienze a questo patto dovrebbero essere nella 
condizione della Matematica, aver bisogno, come quella 
dell' unico materiale elementare sperimentale, potere fare a 
meno dell' esperienza consecutiva, ed anzi correggerla e di- 
rigerla. Elleno sono ben^ungi da questa fortunata condizio- 
ne della Matematica; elleno hanno bisogno di esperienza 
continua, sia per trovare nuove leggi, sia per porre in pratica 
le loro conseguenze. Prova di questo è che le scienze mo- 



— 147 - 

rali hanno iuiaUi tratto vantaggio unicamente dalla pratica 
sociale, pn'ina ispirandosi agli ordini spontaneamente creati 
dall' uomo, poi migliorandogli coll'applicazione del pensiero, 
e sempre camminando con essi. So l'uomo non avesse 
originariatucute , per opera della sua attività spontanea, 
posto il fatto di un rudimento di vita sociale, sarebbero 
forse nate lo scienze sociali? Se le società umane non andas- 
sero via via soggette a continove esperienze di fatti sociali, 
esperienze spesso dolorosissime, le scienze sociali avrebbero 
elleno trovato le formule del giusto? Per creare le formule 
del giusto, ò necessario avere in pronto dei fatti giusti e do- 
gi' ingiusti per poter farne confronto, e trarne la regola. 
La quale trovata cbe sia, servirà in seguito a classare i 
nuovi fatti. 

Hanno bensì anche le scienze morali una azione perfe- 
zionatrice dei fatti umani, e ciò deriva dal contenuto che si 
accumula nelle idee morali, particolarità che è analoga a 
quanto s'è dotto avvenire nei concetti matematici. Partico- 
larità che proviene da una forza ritentiva e costnittiva della 
mente, per la quale essa è fatta capace di posarsi sull'espe- 
rienza, e poi su quella spingersi ad una concezione piii per- 
fetta dei dati sperimentali medesimi. Ma tanto nel caso della 
Matematica, quanto e piii ancora nel caso delle scienze mo- 
rali, non si può arrivare a quella perfezione concettuale senza 
l'aiuto della natura slessa, senza imparare da lei, dai suoi 
fatti. L'idea, che ò questo prodotto superiore, ha vita por 
no perfezionamento dei concelti fatto per opera dell' astra- 
zione, della fantasia e della costruttiva mentale. Come la 
fiantasia combina le imagini, così la mente combina i con- 
cetti. In questa combinazione sì l'una che l'altra non pongono 
alcun che di nuovo nò di pi-oprio, ma ne traggono un 
composto, il quale sorpassa in perfezione gì' individui perce- 
piti, per r unica ragione che esso risulta della combinazione 
da loro migliori elementi. La fantasia crea cosi le opero 
d' arte, la ragione le idee. £ per di piìi la mento trovando 



— 148 - 
nei fatti della natura una scala di perfezionamenti via via 
crescenti, come la Matematica i triaugoli di meglio in meglio 
tracciati, impara dalla uniura la via di aecnmiilarele perfe- 
zioni, e fatta abile da ciuesto tirocinio costruisce un'idea che 
sorpassa i singoli falli. Questa idea si riveste di fanlasmi 
anch'essi perfezionati per la combinazione dei veri fantasmi 
percepiti, e per l' accurauiazione delie loro perfezioni. 

Come avviene, se mi fosse permesso mi simile paragone, 
che un convoglio sulle rotaie frascitiato dalla forza della 
locomotiva seguita a correre anche olire al punto su cui fu 
rinserrato il vapore, e va tant' oltre da se solo quanto lo porta 
la spinta della forza accumulata, così la meute accumula le 
perfezioni dei concetti, e va oltre ad essi sino a una idea, 
che contenga queste accumulate perfezioni (') . Cosi il 
Genere e la Specie contengono le comuni proprietà com- 
binate dei concreti individui, astrazione fatta dalle casuali. 
Così le idee del Bello; del Giusto, del Buono resultano 
dalla combinazione dì perfezioni concettuali ottenute per 
via della percezione di cose belle, giuste, buone, di cose 
cioè che danno una grata impressione artistica, una sod- 
disfazione di giustizia, una compiacenza di senso morale. 
Ma queste idee sarebbero del tutto rese impossibili a for- 
marsi per chi non avesse mai provato quella gradevole sen- 
sazione proveniente da un'opera d'arte, o quella compiacenza 
che portano le opere buone e la pi:atica della giustizia. E 
come le menti sarebbero in tal caso incapaci di formar quelle 
idee, del pari senza l'Arte e le opere d'Arte nelle loro varie 



(') In che cosa consiste questa combinagione, accìtmtilaxione'i 
Sono parole che esprimono la esistenza del fenomeno, non il sao 
perchè. — Nella stessa maniera i Fisici non sanno dire in che con- 
ciata quella specie di accumulazione di forza clie porta nn projettila 
qnando eiBO parte dalla bocca di un cannone, né gli Àstrooomi cha 
cosa sia l' attrazione dei corpi colesti ec. . Bisogna che anche i 
Tisici adoperino, come noi, una parola analogica: ò poTertà di lin- 
guigfpo « ignoranza del perchè dei fenomeni. 



— 1« — 

gradazioni dì bellezza, senza le società civili nelle loro varie 
forme di governo e ne'varj gradì dì cullnra sociale, senza la 
pratica umana personale nei vari gradi di opere virtuose, 
sarebbero impossibili a formarsi le scienze delia Estetica, 
della Politica, del Diritto e della Morale. 

Ancora si fa manifesto per la storia delle scienze, che il 
metodo essendo forzatamente ci indotto a prendere come base 
i fatti sensibili, può nelle eoricliisioni elevarsi alla generalità, 
come fa la mente salendo all'nniversale concettuale dal 
concreto, e formulare sui fatti particolari la legge, ma non 
può oltrepassare l'ordine naturale dei fatti stessi. Dimodo- 
ché studiando i fatti umani, le leggi cavate da questo studio 
non sieno portate in un ordine sovrumano; come studiando 
i fatti fisici, le leggi loro non. sieno portate in un ordine 
metafìsico; come studiando la natura, le conclusioni noD 
sieno portate in un ordine sopraunaturale. E in consegueniii 
la combinazione dei concetti, destinata alla formazione delle 
idee analoghe, sarà mestieri sia concatenata colla più scm- 
pulosa esattezza a quelle basi sperimentali da cui ebbero 
origine i concetti stessi; ogni costruzione mentale che non 
potesse ricondursi fin là sarebbe a dichiararsi opera vana 
e iallace. 

Per concludere dirò, che la storia delle scienze ci dà oggi 
agevolmente ammaestramenti e norme per la costituzione 
del metodo, mostrandoci come siensi fissate in proposito 
alcune massime principali, di cui mi basta annoverarne tre 
«he si attengono piti da vicino allo scopo del presente scritto. 
I.' La realità fenomenatf, sensibile à la fonte primaria 
della verità concettuale. II.' La monta non porta nella 
rappresentanza di questo reale fenomenale, cioè nella cogni- 
Bone, nuli' altro che la propria facoltà di astrarre par 
formare i concelli, e di costruire combinandogli. 111.' L'or- 
dine scientifico si compone dei concotti, delle classi e della 
leggi ricavale immediatameute dai fenomeni percepiti; 
l' ideale puro e l' uso dell' astrazione nei Buoi gradi più loa* 



- 150 - 

tani dal concreto deve essere criticato, e tenuto nel posto 
delle ipotesi, non in quello delle leggi. 

Per ciò che concerne la prima massima, se ne ha la 
prova dal vedere, come ogni di più vada ammantandosi la 
produzione dei buoni fratti, si diminuisca il lavoro perduto, 
si acceleri il movimento delle idee in ciascuna scienza, 
mano a mano che essa si accosta a questo punto, e acquista 
la abitudine di appoggiarsi sullo studio dei feuomeni. La 
serie progressiva di perfezionamento in questo ordine meto- 
dico fa vedere il crescente apprezzamento della realità 
fenomenale, che via via ha preso il posto delle concezioni 
mitiche o metafisiche, ha cassato i problemi attinenti all'es- 
senza misteriosa delle cose, ha abbandonato la sostanza 
separata, ed ha ridotto anche il principio di causalità ad 
una pura condizione di fenomeni concomitanti in ordine 
fisso. 

Rispetto alla seconda massima, già da lungo tempo fii 
studiata la parte che spettava alla mente nella formazio- 
ne dei concetti. Piatone e Leibuiz e Kant rappresentano 
le diverse maniere di soluzione posto innanzi da quelli^ 
che in questo fatto ritenevano si avesse a cercare un 
elemento straniero alla percezione. Ma Aristotile e altri 
fllosofl antichi e moderni si sono dati a mostrare la poca 
sohdità di quelle soluzioni; la riconosciuta vanità delle teorie 
architettate da quei pensatori ha finito coli' indurre la per- 
suasione, che la mente nulla pone di suo nei concetti; le 
Idee separate sostanziali ( Platone ), le traccie originai-ie 
simighanti a vene delineanii la statua nel blocco (Leibuiz ), 
le forme dello spirito collo quali esso foggia e caratterizza 
automicamente le impressioni di fuori ( Kant ), non conclu- 
dono ad una soluzione seria del iiroblema; e si è cercato 
rifugio neir unica teoria Aristotelica della formazione del 
concettuale per opera della percezione sensitiva e della fa- 
facoltà d'astrazione (Hartlsy, James Mill, John Stuai-t-Mill, 
Baine, scuola positiva). Come l'occhio non pone nella vista 



- 151 - 

nulla più che la sua facoltà visiva, la facoltà cioè di perce- 
pirò e ritenere lo immagini colorate, destinate ad essere 
poscia combinate por via di costruziooo fantastica; cosi la 
mente non pone nella cognÌKiono nulla più che la facoltà di 
percepirci concreti, di scomporre, astrarre, ritenere o com- 
binare i dati della percezione. E per questo lato il metodo 
scieotiiico ha dovuto formularsi la massima, che le cogni- 
zioni sono sincero e legittimo soltanto allorché elleno si 
appoggiano sopra il lavoro della percezione sensibile o sulla 
combinazione dei coucettì provenienti originariamente da 
quella. 

La terza massima ò derivata dall'analisi della ragione, 
dei suoi portati, dei suoi errori, e dalla cousecutiva ricerca 
dei suoi limiti; stadio fatto mirabilmente da Kant. La sua 
critica è diventata la riformatrice di tutta la speculazione 
odierna, di quella speculazione che ha innanzi lutto in mira 
la certezza, ed aborro dalle sonorità vuote o dal lavoro 
inutile. 

Adunque lo studio dei fatti, doi fenomeni, dei casi 
particolari per ogni scienza è necessità primaria di metodo, 
studio che solo può aprire il passo verso la parte utile, reale 
della teorica, dalla quale in seguito potrassi avere sicuro 
appoggio a perfezionare la pratica di quei fatti stessi da 
cui s'era partiti. 

La filosofia in particolare, che è tenuta a ponderare il 
valore dello strumento il quale serve a tutto il lavoro scien- 
tifico, e a far conoscere qual sia il rapporto precìso che 
passa ti'a l' ideale e il reale, e in qual misura il primo 
sia rappresentanza del secondo e in quale non lo sia, non 
ha per questo uiflcio altra strada a battere, che quella 
medesima delle altre scienze, vale a diro Io studio dei 
casi scientifici speciali in fui una data maniera di ado- 
perare quello sLrumouto, che è la ragiono, abbia portato 
il frutto voluto della certezza, e in quali casi abbia fallito 
questo scopo. E cosi l'esperienza solarla cognizione storica 



( 



— 152 — 

della pratica scientifica può preparare un conveniente 
nasetto al metodo generale delle scienze, come la espe- 
rienza sola poteva dare uii fondamento per la costituzione 
delle scienze stesse. 

Non è peraltro qui mio pensiero di dichiarare il luiglior 
metodo per le scienze fllosoflciie, ma solamente di mostrare, 
come il metodo adoperato da Aristotile fu uell' antichità 
quello cUe più si assomigliò al metodo delle scienze d'og- 
gidì. Io vorrei che dall' insieme di questi studj si facesse 
manifesto come quel metodo scientifico fosse per Aristotile 
il maggior titolo di gloria, e che quando esso Io praticò 
accuratamente ne ebbe risultati che lo fecero creatore e 
rianuovatore di molte scienze, e quando se ne lasciò stac^ 
care si accostò ai vaneggiamenti della massima parte dei 
filosofi predecessori suoi e contemporanei. Vorrei che appa- 
risse, come il più gran vantaggio che Ai-Ìstotile portasse 
i^Ua scienza, fosse quello di essersi fatto avversario di Pla- 
tone e fondatore del metodo empirico. Ciò si farà abba- 
stajiaa chiaro da un saggio del lavoro Aristotelico, che 
presenterò nella terza parte, scegliendo soltanto quell-i 
ricerche e quei concetti che possono meglio conferire a darci 
notizia della intenzione metodica. 

Riassumerò intanto in questo Capitolo tuitociò, che può 
servire a mostrare come il metodo adoperato da Aristotile 
e le sue massime fondamentali sono somiglianti molto da 
vicino al metodo e alle massime delle scienze moderne. 

Aristotile avea trattato la questione del metodo in un 
libro (AgSoiiità, il quale è perduto, e ci sarebbe forse riuscito 
prezioso per la conoscenza dei principj che lo aveano diretto 
ifei suoi lavori. Al presente non si può che raccogliere da 
tutte le sue opere, che ci restano, le più importanti dottrine 
intorno alla scienza e le massime qua e là inculcate per 
arrivare ad essa. 

Dietro quello che siamo audati esponendo intorno alla 
;pi&ltì.tica ed all'Analitica, è facile ora di rifare la teorica 



I 



— «ss — 

della scienza secondo Aristotile, partendo dalla formazione 
elementare di essa per via dei dati sensibili e concettuali 
fino al suo sviluppo complesso nella dimostrazione . In 
queata teorica giace imo dei problemi pii!i disputati dell;i 
filosofìa, che avea già dato origine al sistema metafisico di 
Platone, e che dipoi ha stancato le menti dì lutti i metafisici. 

Kiassumendo lo dottrino di Aristoule è facile scorgere 
il riunuovamento metodico, che si fa strada per esse, e mira 
particolarmente a rovesciare ì concetti e il metodo di 
.Platone. 

Si l'uno che l'altro si preoccuparono di assegnare 
all' opinione o al senso comune un posto di fronte alla 
scienza, e separare quelle facoltà volgari, quei concetti 
elementari, che vanno formandosi nella vita ordinaria degli 
uotnini, da quella serie di dottrine che cou lunga fatica si 
accuranlano per opera degli scienziati. 

La Dialettica per Platone era la facoltà di risvegliare e 
illurainare in sono al nostro intelletto quelle pure e incrolla- 
bili Idee, che si erano contemplate più o meno rapidamente 
in una vita ostramondanaj e che al nostro apparire in que- 
sto mondo portammo latenti nella mente. La Dialettica era 
per esso il sommo della scienza, e in conseguenza il prima- 
rio lavoro melodico per acquistare la scienza vera si 
riduceva a stimolare col dialogo la virtù dormente dell'ani- 
ma eil aiutare la reminiscenza delle forme ideali eteme. 
Tutto l'opinabile, secondo Platone, è un ombra del vero 
sapere, è per natura sua transitorio, sprovvisto di ogni 
valore, di ogni norma e di ogni realtà; la Retorica ne (a 
soo argomento. Ma la Dialetti:a è il contrapposto della Re- 
torica, al modo istesso che la scienza ò il contrapposto 
dell'opinione. 

Anche Aristotile separa la regione dell'opinabile da 
quella della scieiza, e riguardri gli Universali come obietti 
della scienza. Ma i suoi Universali sono ben differenti da 
quelli di Platone; uon sono realità sostanziali separate. 



— 154 — 

viste nell'altro mondo e rammemorate qui all'occasione 
delle sensazioni; e la Dialettica non ha per Aristotile l'offi- 
cio Platonico di produrre quella reminiscenza. La Dialettica 
por Aristotile è invoco nella regione dell'opinabile a fianco 
della Retorica , e servo a formare l' apparecchio della 
scienza. 

Imparare per Aristotile significa combinare alcune no- 
zioni preesistenti, e cavarne mentalmente una costruzione 
a cui ciascuna di quelle preconoscenze porta il suo tributo. 
Questo materiale per costruire è dato dai sensi e dai concetti 
fatti dietro la percezione sensitiva. L'Universale ò la forma 
che rende questo materiale adatto a entrare in quelle costru- 
zioni mentali. Ora la Dialettica è destinata, secondo Aristo- 
tile, ad apparecchiare, a scegliere, a dar forma di Univer- 
sale a tutto quel materiale elementare del ragionamento 
scientifico, e formare così la scienza immediata. La quale 
sola, se abbia sufficiente complessione e solidità, può servire 
di appoggio alla scienza dimostrativa. 

Platone avea sciolto il problema della fissità della scienza 
in modo mitico colla teorica della Reminiscenza. Aristotile 
si applicò a scioglierlo studiando le condizioni umane in 
mezzo a cui si origina la conoscenza, e trascurando la causa 
ultima della conoscenza stessa. La formazione dell' Univer- 
sale ossia del concettuale è da esso presa come un fatto, di 
cui è vano cercare il segreto, e le cui coudizioni concomi- 
tanti possono sole essere studiate con frutto. Non è certo 
degno di poca attenzione il vedere un filosofo che passa per 
un gran partigiano delle cause ultime rifiutarsi a cercare 
la causa dell' Universale, cioò del pensiero, e limitarsi alle 
condizioni stimolanti la sua formazione. Fatto rimarchevole, 
che toglie ad Aristotile una parte della taccia di metafisico. 
11 seguito delle ricerche intorno al metodo e specialmente il 
frutto ottenuto dalle scienze per questa stessa via ha dato 
piena ragione a questo positivismo di Aristotile. 

La sua teorica della conoscenza e della scienza è tutta 



- 165 - 

intiera dominata dallo stesso concetto. La sensazione pro- 
dnce la conoscenza, l' Universale, i principj. La scienza sì 
appoff^ia sui dati portati da qiiesln lavoro elementare. 1 
passi che si riferiscono a questa teorica sono innumerevoli. 
Ne citeremo alcuni dei più importanti. 

L'ultimo capitolo degli Analitici posteriori, che abbiamo 
già riport,ito ('), racch'nde titlto il pensiero di Aristotile 
intorno alla formazione dei concetti sui dati sensibili. Ma 
esso non è isolato uè di secondaria importanza; che anzi 
qnei pensieri Aristotelici compariscono quasi ad ogni istante, 
tutte le volte che è tenuto proposito di conoscenza, di prin- 
cipj, di Universali. 

« Il sensibile è il più noto rispetto a noi, cioè è il punto 
di partenza della nostra conoscenza; benché l'Universale 
fWssieda maggiori elementi conoscitivi. » {*) 

« Ma gli Universali non possono formarsi senza il sen- 
sìbile. Tanfxjchò al mancare di un senso, è conseguente la 
mancanza di una classe di nognizioui » C). 

« La sensazione isolatamente presa non dà la scienza di- 
mostrativa, ma senza la sensazione la scienza è impossibile. 
Perchè sebbene il senso sia ordinato ad una qualità e non 
solamente ad un dato oggetto, puro è necessario sentire 
tina cosa particolare in tal luogo e in tal momento . . . 
L'Universale non può esser sentito, perchè non è una cosa 
speciale ... Il merito dell'Universale sta nel farcì cono- 
score la causa. Cosi per le cose, che hanno una causa fuori 
di se, la nozione universale è al di sopra della sensazione 
e del pensiero; ma per gli elementi primilivi il modo di 
conoscerli è differente » {*). 

L' Universale ha per Aristotile un' alto valore nella 



(■) V.paR. US. 
(») Anal. post. I. 2. II. 
C) ]l>ia. 1.18. 1. 
(')Ibid. I. 31.1. aoq. 



— 158 — 

formazione scientifica, ma è ben lontano, dalla natura metafi- 
sica che molti gli attribuirono. Aristotile respìnse il sistema 
delle Idee ( V Universale separato ) patrocinato da Platone; 
ma quel che più importa, dichiarò che l'Universale non era 
per lui che r espressione vera di una pluralità, e ch'esso 
Don ha esistenza che nella coadizione di un appellativo 
applicabile a più individui. 

« Non vi è alcuna necessità, che esistano delle Idee, 
(^ Platoniche J, per rendere possibile la dimostrazione, 
nò che vi sieno delle unità distinte e separate dalla 
pluralità. E necessario soltanto che una sola e medesima, 
^icsa possa essere attribuita veracemente a più esseri; (') 
parche senza questa condizione non vi è Universale; 
senza Universale, non si ha termine medio, e così non. 
SI avrà più dimostrazione. Bisogna dunque unicamente 
che sia possibile, che una sola e medesima cosa si trovi 



in più esseri ». 

« Siccome non vi è, al di fuori delle cose estese, nulla 
che eia separato al modo che ci compariscono le cose sen- 
s'bili, è necessario riconoscere che le cose intelligibili sono 
u ilio forme sensibili, come vi sono le cose astratte e tuttocìò 
r'ie è qualità o modificazione delle cose sensibili. Ed ecco 
perchè chi nulla sentisse, non potrebbe nulla sapere né 
comprendere; ma quando taluno concepisce qualche cosa, 
bisogna che esso pure concepisca qualche imagìne, perchè 
le imagini sono una sorta di sensazioni, ma sensazioni senza 
materia » (*). 

« Nulla è possibile pensare se non appoggiandosi sui 
dati sensibili » ('). 



{') AnaJ. post. I. II. l. 
O De An. III. 8. 3. 
(') Do sensu: oJJi 



- fv ìtaxk irtt.luv i.ly\5i( ilm 



ù( tÌ txTÒt fili ft«t' aÌo5tisiui óvT». 
Far ciò chd si riferi9i:e alla formaaione dei princìpj a delle propoai- 
Z'o&i immadiate auU' esperienza seDSìbila rimando il lettore indietro 
u pag. 115 e B8gg. 



Come I' Universale concettuale sì forma sopra un lavoro 
precedente dei sensi, e sugli slessi;dati di esperienza^si ap ■ 
poggiano tutti i prìncipj, gli assiomi, le definizioni, non 
(die i termini e le premesse generali; per la stessa guisa, 
secondo Aristotile, ogni manifestazione di scienza provieni! 
da una cognizione precedente, e attraverso a questa dal ■ 
l'ordine intellettuale elementare e dalla sensazione. 

« Ogni conoscenza, insegnata o acquistata, proviene! 
sempre da nozioni antecedenti. L'osservazione mostra chù 
ciò è vero in tutte le scienze; perchè questo è il procedi - 
mento delle scienze matematiche e di tutte le altre senza 
eccezione. E questo ancora il procedimento di tutti i ragio 
namenti della dialettica, tanto di quelli che si fanno per via 
di sillogismo, che di quelli per induzione. Si gli uni, che 
gli altri, l' istruzione che danno, la cavano sempre »la 
nozioni anteriori; i primi supponendo delle nozioni com- 
prese e accordate, gli altri, dimostrando l'Universale 
per via dell' evidenza stessa del particolare. È con quesio 
metodo del pari, che i ragionamenti retorici generano la 
persuasione; perchè essi arrivano ad essa o per viad'eser.'- 
pi, cioè per induzione; o per vìa d'entimemi, cioè per sil- 
logismi (<), 

« La scienza si applìca'a tuttociò che può esser saputo; 
e questo doiiiìnio si sfende tanto lontano quanto la dimo- 
strazione e il ragionamento » (') . 

« La scienza dimostrata si confonde colla dimostrazione 
essa stessa ('), e la conclusione di ogni dimostrazione fi 
etema» (*). 

« Noi pensiamo di sapere le cose'in una maniera asso . 
Iuta, e non in una maniera soJistica, puramente accidentale, 



(<) Anol. poli. 1. 1. 
Ci Mag. Mor. I. S2. 
(') Anal. poat. II. Il 
nibid. 1.8. I. 



- 158 - 
quando pensiamo di sapere die la causa per cui la cosa 
esiste, è veramente la causa di quella cosa; talché noi pen- 
siamo che la cosa non possa esser diversa da quello che noi 
sappiamo » ('). « La scienza ó dunque cognizione dì certe 
cause e principj » (*). 

Questi concetti che si sono qui richiamati, haaoo for- 
mato materia di piii ampia trattazione nei capitoli prece- 
denti. Essi fanno parto per altro dell' intiero sistema 
metodico di Aristotile, anzi ne presentano i tratti fonda- 
mentali. Da essi apparisce come esso tenesse a base di tutta 
la scienza, in tutte le sue manifestazioni le piii rudimentali 
le più complete, il mondo reale sensibile, sul quale la 
mente lavorava dando vita ad un mondo concettuale, 
elevato sopra di quello, ma non separato. 

Allo stesso risultato arriveremo raccogliendo le mas- 
sime, che Aristotile qua e là ha lasciato sfuggire, attinenti 
ad abitudini di pensiero scientifico, necessarie per la con- 
quista della verità. Da quelle possiamo ricavare alcuno dei 
pensieri Aristotelici intorno al metodo generale e ai metodi 
speciali, lo domando scusa al lettore, se qui gli pongo 
innanzi agli occhi una lista di citazioni alquanto numerosa; 
mi induco a questo neU' intento di mostrare, come la 
necessità di fondare la ricerca scientifica sul sensibile © 
sui fatti sia una dottrina propugnata da Aristotile io tutti 
i suoi libri, ed inculcata con tanta costanza, da recara 
meraviglia che tanti secoli si ostinassero a disconoscere 
questi suoi precetti metodici, pur ritenendo di lui le 
meno felici ispirazioni. 

« Non perdiamo di vista che vi è grande differenza tra 
le teorie, che partono dai principj e quelle che salgono ai 
principj. Platone avea ben ragione di domandarsi e di 
ricercare se il vero metodo consiste nel partire dai principj 



(') Anal. post. I. 2. 1. 
O Metaf. I. 1, 



— 169 — 

) salire ad ossi ... Ma bisogna sempre incominciare dalle 
wse note ». 

« Noto sono alcune cose rispetto a noi, altro in se stes- 
(') . . Forse è mestieri incominciare dalle cose note rispetto 
. Principio è il fatto { il come ) e quando questo 
Ùa sufficientemente conosciuto, non si farà molto desiderare 
% cognizione della causa ( il perchè ). Colui che conosce il 

(') < Primo e pid oonoicibile per natura o assoluiammte, primo 
t più oonoscibilc rispeito a noi — qae%ti due modi di cogatzione non 
•ono soltanto distinti, ma l'ano è antitesi all'altro. Rispetto a noi 
^tengono il primo posto ì eensibili particolari, e sono i primitivi og- 
I getti del nostro sapere. liispelto a noi aiguifica l'ampia Tarietà 
Ideile menti individuali, cho impercettibilmente si elevano dalle 
tnplict capacità dell'infanzia alla matnra complessione degli anni 
[ odnltj; ciascuno va formando il ano corredo di impressioni sensitive, 
L.nmmenta, paragona, associa; ciascuno impara nn linguaggio, il 
I quale serba concentrata in parole generali « proposizioni lo classìfi- 
Eesiioni nconoBciute degli oggetti, e trasmette le credenze affettive 
' piti comuni. Noi tutti abbiamo cominciato coli' imparare; e per dif- 
t ferenti gradi salgbianio a qnelle nozioni o credenze nnìveraali che 
[ «impongono il corredo elementare dell' inteìlelto culto, cbe in atcu- 
] tu menti urriva a svilupparsi in prindpj di filosofia e loro coose- 
I gaenze. Per natura o assobilamente qaosi i principj sono considerati 
e primi, e come tali che formano un panto di partenza: rìgnar- 
[ dando come guadagnata quella elevata posizione, il passa che si 
e da quella non è passo di novizio, ma di adulto camminatore, 
l.clie avendo già molto imparato, ii pronto a far duo parti, imparar 
r ài piii e insegnare agli altri . . . Per cose più conoBcìbìli per natura 
I .Aristotile intende neli' uomo quel compinto corredo che proviene da 
E oognizioni precedenti e ad altre ci rendo atti, corredo portato dal- 
li' età matura; iioto-a natura sono gli acquisti, i punti di vista,! 
i, cbe più o meno completamente son famigliari all' uomo 
t naturo e alle società provette. Notiora noòis sono qnei fatti e pro- 
ti coi quali ognuno comincia o che servono d'appoggio al lavoro 
intellettuale tanto nel suo pili alto che nel piil basso stadio; con 
I questo, cbe nel più alto stadio sono impiegati, dirotti e modificati 
I tu dipendenza dì nn capitalo acquistato e dì un permanente mecca- 
[ nlemo di parole uoirerMalmente accettate, nello quali qaol capitale 
I è investito >. Grato. ArìstoUo. Voi. I. pag. 282. 



— ìm - 

fatto, g:ià è in possesso del principio, o faciimente lo con- 
quista » ('). "~ 

È difficile fissare con più precisione la necessità dei t 
dinanzi alla scienza. Questo brano così rimarcbevolò* 
seguito e corredato da molti altri di eguale importanza. 

< La causa che ha fatto sì, che certi filosofi hanno spe? 
culato peggio degli altri su certi fenomeni, è la mancanza 
d'osservazione. Al contrario quelli che hanno atteso di più 
all'esame della natura soùo meglio in condizione di scuo- 
prire i principj ... Ma coloro che perdendosi dietro a 
teorie complicate, non osservano i fatti reah, fìssatio gli 
occhi sopra un numero troppo ristretto di fenomeni; ed essi 
pronunziano più facilmente. Di qui si può anche vedere tutta 
la difl'erenza che separa il vero studio della natura da 
uno studio puramente logico » (*). 

« Tali sono le teorie di questi filosofi ... e senza dah- 
hio ^ si ha, riguardo a puri ragionamenti semhvR che le 
cose stieno in quella guisa, ma se si considerano i fatti, 
sembrano follie » ('). 

« Essi inventano . . . non cercando di appoggiare le 
loro spiegazioni e le cause, che indicano, sull' osservjizione 
dei fenomeni; ma al contrario piegando e accomodando i 
fenomeni a seconda di certe opinioni o spiegazioni loro 
proprie, e tentando di fare concordare il tutto come 
possono » {'). 

Innumerevoli sono i luoghi in cui Aristotite fa sempli- 



I 11 TsuTo (petivaiTO apKtuvTuc, nuotv irpotr- 



V Stafi- 



(ftno.1 TOC JtÒT-i. 'O Ji 
Nicom. I. 4. 7. 

(•) De General. I. 2. 10. 'iSm J' &■, TI5 «il 
fovaiv ai f uiTinùt n=' loyiniit oxoiroivTK 

{') De Gen. I. 8. i. insl Si siri piv twv Xo'yu» rfoxtt tkùtk tm^Pai 
vitu, iir'i ii Tcòv jTpayciartdV fiivin napan'iàiaiav «''vai tb Sa^ii^sv 

(*) De Coelo. II. 13. 1. 



— 161 — 

cernente appetto alla testimonianza dei sensi contro ragiona- 
menti teorici, e del pari sono per esso espressioni familiari 
quelle con cui accenna alla osservazione dei dati sensibili 
come base del suo proprio ragionamento. « E chiaro il 
fatto {') — non è questo ciò che accade (') — si pud vedere 
L dall' osservazione dei fatti ('). — ec. » 

E questi precetti intorno all' uso dei fatti nella specula- 
ione scientifica Aristotile stesso seguiva, e consigliava 
Jerciò la pratica induttiva e il metodo d' osservazione e 
■nello sperimentale. 

« Non basta porre un principio in una maniera univer* 
ì per via della sola ragione; bisogna ancora mostrarne 
l'applicazione a tutti i fatti particolari ed ai fatti_os8ervabili, 
i quali medesimi ci debbono servire a fondare delle teorie 
generali, e coi quaJi queste teorie debbono, secondo noi, 
sempre accordarsi(*) ». 

La scienza moderna non potrebbe dir davvantaggio, né 
meglio. Tanto piìi che qaesto pensiero è confermato larga- 
mente e colla più grande lucidità in molti luoghi, che 
sembrano scritti sotto l' ispirazione del nostro metodo 
scientifico. 

« Vedendo i fenomeni ripeteì-si spesso noi possiamo, 
cercando l' Universale, arrivare alla dimostrazione; perchè 
l'Universale si forma evidentemente della riunione di più 
casi particolari (») » . 

< In tutte le scienze i principj sono speciali la maggior 
parte; e tocca all' esperienza a provvedere questi principj 
per ciascuna di loro. Per esempio, l' esperienza astronomica 



I 



<■) Meteor. I. 14. 25. 

OJbid. n. 3. 17. 

(') Ibid. U. i. 6. 

(') De motii An. I. 8. 

(■) Anal. post. I. 31. 5. — i 



< M*d' ria«^K irXiidnwv ri 



- 162 — 

fornisce i principj dell' astronomia; e soltanto dopo aver 
luHffamenie osservali i fenomeni si è potuto arrivare alle 
dimostrazioni astronomiche. Tutte le arti e tutte le scienze 
sono in questa condizione. Ma dal momento che i principj 
solio acquistati per ciascun' obietto, uoi possiamo trarne 
delle dimostrazioni regolari. Se nella osservazione non si 
è nulla omesso di ciò che appartiene realmente al soggetto, 
noi potremo in tuttociò che è suscettibile di esser dimo- 
strato, scuoprire la dimostrazione ed esporla; e se la dimo- 
strazione è Daturalmenté impossibile, noi potremo rendere 
evidente anche questo (') ». 

Aristotile si serve constantemente di questo metodo per 
fare la critica delle opinioni dei suoi predecessori, e per 
convalidare le proprio. Il metodo d' osservazione con tutte 
le sue primarie caratteristiche serve di guida alla più gran 
parte degli studi Aristotelici, e se la metodologia moderna 
ha migliorato assai questo strumento rendendolo capace 
delle più svariate forme d'applicazione e di uso, non può 
per altro negarsi che esso fosse largamente adoperato 
nell' anticliità, benché noi siamo assuefatti a considerarlo 
come privilegio dell'epoca nostra. 

In conseguenza non ci dee recar meraviglia di trovare 
in Aristotile^, medesimo la pratica, se non completa, certo 
inaugurata, del metodo sperimenlale. La difficoltà di orga- 
nizzare le esperienze è molto superiore a quella del semplice 
osservare; essendoché richieda un maneggio facile di agenti 
naturali, combinato con una vasta messe di cognizioni e 
di leggi assicurale, e con una finitezza e precisione non 
ordinaria di strumenti , e facile provvista di materie 
adatte all'esecuzione dell'esperienze. Un laboratorio era 
cosa impossibile nell' antichità. E ciò non ostante il metodo 
sperimentale era stato da Aristotile intravveduto, avendosi 
da esso citate parecchie esperienze, buone o cattive che 



01 



1. 31. ; 



163 — 

sieno, indirizzate a convalidare co] l'osservazione fatta sopra 
di esse una qualche opiaione. 

« È dietro r esperienza, che noi sosteniamo, che l'a- 
cqaa col vaporizzarsi diventa pot-ibile, e che la parte vapo- 
rizzala non toma acqua di mare allorché si condensa di 
nuovo (') ». 

« Quello che prova, che la salsedine del mare deriva 
dalla presenza di qualche sosianza, è il detto sin qui, e 
l'esperienza seguente. Se si pone nel mare un vaso di cera 
modellato a quest' uso, tappandone la bocca con materie 
impermeabili all' acqua di mare, ciù che passa attraverso 
le pareti di cera, è acqua potabile. La parte terrosa è la- 
sciata fuori come da mi vaglio, egualmente che la sostanza 
che produce la salsedine. È questa sostanza ancora quella 
che produce il peso e la densità dell' acqua di mare, che è 
più pesa dell' act|ua potabile. 

« La sua densità è tanto considerevole, che dei vascelli, 
che col medesimo carico starebbero per calare a fondo nei 
fiumi, si trovano, appena arrivano in mare, ad avere giusto 
il carico per navigare. Così l'ignoranza di questo fatto ha 
spesso cagionato dei danni, perchè dei vascelli si trovarono 
troppo carichi all' entrare nei fiumi. Quello che prova che 
la densità del mare proviene dal miscuglio di una sostanza 
particolare è Tesperioiiza cho segue. Se si prende dell'acqua 
e si rende salmastra col mischiarvi molto sale, si vede che 
le uova possono stare a galla benché sieno piene; perchè 
l'acqua, dùventa allora una specie di mota. 11 mare ha 
nella sua massa qualche cosa di denso, ed è questo che 
produce la salsedine (*) ». 

« L'arco-baleno, che si forma sotto i remi cavati dal- 
l'acqiia, è, quanto alla posizione, dol tutto simile a quello 
che si fijrma nel cielo ... La refrazione proviene da goc- 

(') Mptflor. II. 3,31. 
(') Metoor. II. 3.35.esog. 



— 164 — 

cioline piccolissimB, ma continuG ... Si forma egualmente 
un arco-baleno, quando si schizzano delle goccioline d'acqua 
leggiere in no sito posto al sole ia maniera, che un lato sia 
rischiarato dal sole e vi sia ombra nell'altro. Se in un luogo 
così disposto si gettano delle goccie d' acqua dal di fuori, 
r arco-baleno si forma (') » . 

Certo è gran distanza da questi rudimenti di esperienze 
al lavoro complicato e fecondo dei nostri laboratorj; ma non 
si può a meno di riconoscere in questi incerti tentativi, la 
stessa mano della scienza che oggi lavora con tanta sicu- 
rezza , 

Meritano poi una particolare attenzione altre abitudini 
di metodo, che hanno attinenza colla sana ricerca del vero, 
e che Aristotile il primo praticò e pose in onore; tra le quali 
sono da annoverare in primo luogo 1' uso delle tradizioni 
storiche, e la maniera scientifica di esporre le dottrine in uno 
stile spoglio di ogni ornamento. La prima di queste abitu- 
dini mentre ha reso un servigio eminente ai nostri studi 
storici, ed ha assicurato ad Aristotile il posto di primo sto- 
rico delle scienze, mostra d' altra parte nella sua maniera 
di trattare la scienza un amore spassionato del vero che lo 
induceva a ricercare e accettare le dottrine buone di tutti i 
pensatori precedenti. Tutta la nostra cultura è il frutto del 
passato, che si va^da noi aumentando a benefizio dell'avve- 
nire; e tanto varrebbe per noi lo sconfessare i prodotti che la 
tradizione ci tramanda, quanto ridursi a rifare il lavoro 
intiero da capo; Aristotile vide questa necessità e conforme- 
mente ad essa si abituò a richiamare in esame su ciascuna 
materia i pensieri dei filosofi precedenti, accettandogli o con- 
dannandogli, ma non trascurandogli mai. Non vi è quasi 
alcun^libro Aristotelico in cui questa abitudine non sia 
praticata. (*}_E8So era a ciò indotto dalla persuasione, che 
(') Hoteor. III. 4.117. e seg. 

(') Qduì unico libro Ariatotetico ma acanta di ragguagli Btorìci 
luUe dottrine, tnttftte è la Istoria degli animali. 



— 165 — 
qualcosa di vero si dovesse trovare anche nelle dottrine più 
erronee. « Di queste opinioni, dice nell' Etica, alcune sono 
state sostenute da lungo teaipo e da graa numero di parti- 
giaoi; altre non lo sodo state che da uomini in piccol 
□amerò, ma illustri, È ragionevole di supporre, che tanto 
gli uui che gli altri, non sieno caduti in errore sopra tutti 
i punti, e che almeno alibiano veduto chiaro sopra alcuni o 
anche su quasi tutti (') ». 

€ Debbesi saper grado non pure a quelli, alle cui opi- 
qìoqì ci accostiamo, ma anche a quelli che trattarono la 
materia superficialmente. Perchè anche questi hanno con- 
tribuito ad esercitare la nostra facoltà. Se Timoteo non fosse 
stato, non avremmo tanto progredito nella melopèa: ma se 
non era Frine, non sarebbesi avuto Timoteo. Lo stesso 
accade di quelli che ricercarono la verità.[Da taluni avemmo 
in retaggio alcune dottrine; altri dettero origine al prodursi 
di quelli (*) ». 

« Poiché ci proponiamo di studiare l'anima, è neces- 
sario . . . esaminare e raccogliere, prima d'andar oltre, le 
opinioni di tutti coloro che innanzi a noi ne hanno detto 
qualche cosa; noi prenderemo da quelle ciò che hanno di 
vero, e se vi sono errori impareremo a guardarcene (') ». 

È con questi intendimenti che nel libro dell' Anima 
esamina le opinioni di Democrito, di Leucippo, dei Pita- 
gorici, d'Anassagora, di Platone ec. Quasi tutto il primo 
libro della Metafisica è consacrato alla storia della teorica 
delle cause da Talete a Platone. Cosi è nel, libro della 
Fìsica, e nel libro della Meteorologia ad ogni passo si in- 
contrano le sentenze dei precedenti filosofi riportate e criti- 
cate su pressoché tutti Ì fenomeni di cui è quislione in quel 
libro. 



(') Eth. Nic. I. 6. 6. 
OMetaph. I. 1. (« il«i) S. 
(')DeAn. 1. 2. 1. 



— 166 — 

Aristotile pose in voga per primo uno stile didattico che 
$i confacesso alia natura severa e rigorosa della scienza, col 
bandire i fiori della eloquenza e della poesia, che fin allora 
aveano fatto mala prova nello stile lìlosofico. 1 Filosofi 
antichi aveano per vezzo di cantare in poemi filosofici le 
loro teorie; Platone si era molto scostato da quei tentativi 
infantili, ed avea abbellito i suoi concetti della più gustosa 
prosa, che forse abbia udito la Grecia; ma sovente anch'esso 
sacrificava troppo alle muse, e il ragionamento filosofico seb- 
bene ne acquistasse venustà, n'era scemato assai di valore. 
In questo proposito Aristotile la ruppe con tutto il passato: 
dettò i suoi concetti confinandogli a stare in una frase che 
presentasse i soli elementi necessarj ad esprimergli, nulla 
curando il periodeggiare rotondo, o il parlar figurato, o la 
maniera insinuante per cattivarsi il lettore: la scienza nuda, 
dovette ai suoi occhi apparire più seducente, che vestita 
dei più pomposi abbigliamenti, 

« Non è meno ridicolo, dice nella Meteorologìa, imma- 
ginarsi di dire qualche cosa di chiaro, sostenendo, come 
Empedocle, che il mare è il sudore della terra. lu poesia, 
spiegazioni di tal sorta possono bene sembrar sufBcienti; 
perchè la metafora appartiene alla poesia; ma sono del tutto 
insufficienti per far conoscere la natura (*) ». 

D' altra parte questa particolarità dello stile Aristotelico 
non dipendeva da insufficienza di scrittore, come ne fa fede 
lo stile dei libri exoterici, di cui abbiamo qualche tradizio(ie, 
e ehe ci viene presentato come ricco delle più peregrine 
forme dell'oratoria (*). 

Darò fine a questo capitolo col citare ancora un brano, 
da cui si ricava, come condizione massima del lavoro scieiir 
tifico fosse per Aristotile, non meno che per la scieiiz^ 
moderna, il dubbio, stimolo di ogni ricerca, e germe 



{') Meteor. II. 3. 12. 
O V. aopra p. 105. 



— 167 — 

r fecondo di verità, e più che tutto salvaguardia del metodo 
' scientifico contro ogni invasione dell'autorità dommatica di 
uno scienziato o di una scuola o di uu libro. 11 brano clic 
segue è tanto più importante, in quanto contiene implicita- 
mente la condanna di quella apoteosi, colla quale la scola- 
stica sacrificò ad Aristotile la scienza e la verità, 
[■ dichiarandolo infallibile, maestro dell' ultima parola, e 
I condannandosi per devozione ad esso all'inerzia mentale. 
Quelli che aspirano ad avere qualche valore, è 

■ mestieri che sappiano bene dubitare; perchè il valore di 

■ poi è lo scioglimento del dubitato innanzi, ma sciogliere 
ì non può chi non conosce il modo ». 

( Ora, quando ripensando s'ha un dubbio, vuol dire 
L appunto che nella cosa c'è un nodo; che quando si dubita 
m è in una condizione somigliante a quella, di chi si trova 
legato; infatti uell' un caso e nell' altro ci riesce impossibile 
iàrsi avanti. Perciò bisogna avere considerato da prima 
tutte le difficoltà, tra per le ragioni allegate, e perchè chi 
cerca senza aver prima dubitato fa come colui che non sa 
dove va: in simil guisa non può in seguito sapere se sia 
riescilo a trovare quel che cercava; poiché non vede chiaro 
il fine; ben lo vede chi ha dubitato ('} ». 

Da tutto questo apparirà chiaro quanto abbiamo sopra 
accennato, come cioè in Aristotile comparisce per la prima 
volta nella storia del pensiero un metodo, che più di tutti 
quelli praticati in addietro, si accosta all'indole del metodo 
scientiSco moderno. 

Questo ci si farà anche più manifesto dalla considera- 

ròme di alcune poche dottrine Aristotehche, che sceglierò 

me raccoglierò nella terza parte, per farle principalmente 

lerrire all'illustrazione del metodo di Aristotile, del quale 

ì accennato fin qui le massime fondamentali. 



<■) Mei II. 1. i 



PARTE TERZA 



SAGGI DI DOTTRINE DI ARISTOTILE 
RICHIAMATE A ILLUSTRAZIONE DEL SUO METOD 



La Poetica. 



Gli scritti dì Aristotile, all'opposto di quelli di Platone, 
fiirono sfortunati ssìmi; e a tener dietro alla loro storia, rie- 
sce maraviglioso il vedere salvati quelli che pur ci riman- 
gono. Un numero stragrande di essi andò perduto, e qui 
non si arresta il danno; ciiè l'esame accurato di quelli 
rimasti ce gli fa apparire pressoché tutti come un ammasso 
di frammenti. A considerargli nella condizione in che ci sono 
stali tramandali da una tradizione stranamente disattenta, 
si assomiglierebbero quasi alle mine di alcuno dei piìi 
splendidi monumenti dell'antichità, che il tempo e la 
barbarie abbiano devast-ilo. Magnifici pezzi, ma dislocatì; I 
statue, architravi e colonne, in mezzo a macerie e mura*! 
diroccate. Tali sono le Opere di Aristotile. L'idee del mae- ( 
stro sono riconoscibili però anche in mezzo alle mine, e se J 
i discepoli suoi dell'antichità tennero sì poco conto del*' 
l'edificio intiero, da lasciarlo straziare sì sconciamente, è I 
possìbile ogcridi il ricostruirlo ripigliando le linee indicate^ 
dai pezzi rimasti in piedi. 

Non è tale lo scopo di questa ultima parte del mio 
scritto; che già una sitfatta ricostruzione è stata compiuta 
da storici di alto valore, come Brandiss e Zeller: è mio i 
pensiero invece dì raccogliere e di commentare quei brani, ' 
che pili spiccati presentano i caratteri del metodo scientifico^ 
sopra delineato, e che perciò meritarono di doventare fon- 
damento a tutta la scienza di poi. 

Prima dì entrare in materia, mi pernietLo di esprimere I 
un desiderio, cioè che il lettore, il quale trovasse che akune-l 
osservazioni sopra le dottrine Aristoteliche riprodotte, non ^ 
consonassero pienamente coi suo giudizio abituale sopra dì 
esse, voglia accertarsi delia veracità critica, non già rìcor- 



— 172 ~ 

rendo al primo vcniito tra gli espositori di Aristotile, ma 
invece ad Aristotile stesso ed alle sue opere in origioale. 
È questa la primaria condizione per potere apprezzare con 
giusto criterio i concetti di Aristotile. Nulla di più erroneo, 
che giudicarlo dietro le sentenze che la Scolastica gli ha 
attribuito falsamente, od anche diefro la guida di recenti 
storio della Filosofia. La Scolastica non pure defigurò la 
sua Metafisica e la sua Psicologia, ma abiurò il suo metodo, 
interpetrò malamente alcune delle più importanti dottrine, 
gli prestò lo sue. E da essa furono lungamente ingannati 
gli storici della filosofia, e a mo' d'esempio, la stessa critica 
letteraria di pochi anni addietro prestava ancora ad Ari- 
stotile ( e se ne facea bandiera) la tei>rica delle (re uniià 
nella tragedia, ie fpiali or ora ci verrà fatto di ridurre al 
loro vero valore. 

Non ci è dato di conoscere con pienezza la teorica delle 
arti del Bello secondo Aristotile; perchè una sola opera ci 
resta su questa materia, opera frammentaria, incompleta (') 
ed interpolata (*), che porta per titolo « della Poetica ». 
Dalle frequenti allusioni alla musica ed alla pittura ci è reso 
più pungente il danno della perdita degli altri libri intorno 
alla teorica del Bello. 

A noi assuefatti già da un luogo tirocìnio di filosofia 
applicata alla illustrazione dei diversi rami di attiviià uma- 
na, non fa certo una gran meraviglia l'udire a citare un 
trattato di Filosofia del Bello, di Teorica della Poesia o 
dell'arte. Ma al momento che Aristotile tracciava le linee 
della sua Poetica, essa compariva come uno sforzo di niente 
creatrice non inferiore a quelli da cui esci la Logica o la 
Politica. Il dare ordine alle diverse manifestazioni dell'arte. 



(') Manca evidentemente In tratLazioae della Commsiìia, pro- 
messa in ani priacipio. 

(*) Il Cap. XX. e aeguenti sono interpolati; ma non si sa. & 
cbi attribuirgli. 



- 173 — 

e nella Poesia Greca classare i rnonunienli, e ravarno leggi 
loro proprie, è opera di elevatissima filosofia u di t:usto 
squisito. L'ubo del pensiero applicato a studiare lo sviluppo 
umano non era ancora incominciato; V iniziarlo era opera di 
genio sovrano, quale l'applicazione del pensiero a [Kirre 
ordine nella storia di tutta la attività umana, e a creare la 
filosofia delia Politica, della Legislazione, delle Religioni, 
della Storia. 

Sin da questi scritti di Aristotile si vede l'iipplìcazione 
dal suo metodo. Esso parte d;ii fatti, fondiinJo la sua teorica 
dell' arte poetica suH" ossorvazione dei modelli già posseduti 
dalla Grecia, modelli che esso conosce profondamente, e 
che ammira con tanta passione. Questo lavoro è ben diverso 
da una certa maniera metafisica di tracciare una Estetica 
vuota di senso, quale si è veduta dipoi uscire dalle mentì di 
molti filoBofi. Il genio artistico vuoisi studiare sui suoi prò 1 
dotti, e sulle sue manifestazioni storiche, non altrimenti che 
il genio scientìfico e morale e polìtico. La storia è la base 
necessaria di tutte le teoriche relativo all'attività, dello spi- 
rilo; il tentativo di costruire quelle teoriche a pHori, è 
infruttuoso dinanzi all' arte, chianumdo spesso le betfe 
dei pratici, ed è falso dinanzi alla scienza. Aristotile nel 
tratteggiare per es. le leggi della tr.-igedia non parte dalla 
natura di essa, ma esemplifica, e negli esempi à V unica 
giustificarione delle sue leggi. Di ciò gli è stato anzi fatto 
ufl rimprovero, accusandolo di avere dato ì risultati del suo ■ 
studio sulla tragedia greca, e non le leggi generali; md J 
questa accusa fa il suo pregio, separandolo dalla scliier» J 
degli estetici visionarj . Chi facesse oggi una teorica della < 
tragedia, sarebbe certo giustamente rimproverato dì tener | 
conto unicamente dell' arte greca, trascurando Shakespeare | 
e Schiller e Corneìllc e Racine e Alfieri: ma per la ragione | 
stessa sarebbe stato male ispirato Aristotile, se fosse andato j 
al dì lA dei modelli che conosceva. Poniamo che l' arte 
greca non avesse alcun modello, sarebbe stato assurdo fare 



- 174 - 

la teorica della tragedia o di qiuil siasi altro genere di pro- 
duzione poetica. 

Un altro merito, di cui credo si debba tener conto ad 
Aristotile, è il nt-ii essersi affatto occupato di definire il 
Bellp. Esso HOQ ama di lanciarsi in balìa del pensiero puro 
per cercare la formula assoluta del Bello, ma soltanto, date 
le cose belle, spiega le condizioni in mezzo a cui il Bello si 
manifesta. Un sentimento, quale ci è porto dalla presenza 
delle cose belle, sfugge alla analisi razionale, per essere 
composto di numerosi elementi sensitivi e subiettivi, aiutati 
dall'educazione e dalla pratica. Nel Bello non si incontra 
un rapporto preciso o delimitato tra elementi facili a para- 
gonarsi. 

Lo spirito umano osservando e pregiando 11 meglio 
nella natura dal lato estetico, riproduce in molte maniere 
il bello, creando opere artificiali che inspirano lo stesso sen- 
timento delle naturali le più perfette. Un codice del Bello 
non può farsi che andando dietro alle traccio seguite dagli 
artisti per ottenere queir effetto d'emozione artistica. Un 
codice del Bello è perciò via via perfezionabile. 

Anche in ordine al Giusto, la pratica e il sentimento del 
benessere sociale aiuta la formazione di Godici di diritto. 
Codici perfezionabili a seconda delle piii perfette società. 
Ma tra il Bello e il Giusto è questa differenza, che quando 
un Codice di di giustizia è scritto, qualunque sia la sua per- 
fezione nel momento presente, nella massima parte del casi 
la produzione dei fenomeni di giustizia individuale e siiciale 
si compie per un rapporto preciso tra 1' azione e la legge, 
termini ben definiti; ma del Bello ciò non può dirsi, per 
cagione della parte che alla produzione dì esso prende la 
imaginativa. È perciò che Aristotile concentra la sua at- 
tenzione suir arte invece che sul Bello in se stesso. Le cose 
belle sono a ciascuno accessibili e apprezzabili con più o 
meno vivacità. Quello che i più non vedono, è l' insieme 
delle condizioni in mezzo a cui l' arte ha prodotto le cose 



- 175 — 

belle. Aocke oggi, che tanto elucubrazioni si sonu fatte 
sopra (li ciò, nessuno saprebbe definire il Bello, altro che 
per contrasto al Brutto; perchè i prodotti del sentimento 
non si definiscono, come non si definiscono le sensazioni, 
altro che per analogia. 

Una delle condizioni primarie del Belio ò secondo Ari- 
stotile la proporzione. « Siccome un animale o una cosa 
qualunque composta di parti diverse non può avere bellezza, 
se non abhia queste parti disposte in un ceno ordine, e che 
sieno di una dimensione non arbitraria, perchè il bello coa- 
sisle neir ordine e nella grandezza, ne segue che un lell'a- 
nimale non potreblje essere né troppo piccolo, perchè non si 
vedrebbe che confusamente, producendosene la vista in un 
istante quasi impercettibile; né smisuratamente grande, 
perchè non si potrebbe allora goderne la vista nell'insieme, 
e l'unilà e tuttociò che quella vista dovrebbe darci sfuggi- 
rebbe agli sguardi; come per es. se l'oggetto avesse dieci- 
mila stadj di lunghezza » ('). 

Tra le più rimarchevoli particolarità che troviamo 
nella Poetica di Aristotile, è la fissazione di un concetto 
generale intorno alle arti belle, ad alcune delle quali esso 
assegna come condizione primaria la imitazione. 

« Evidentemente l'epopea e la tragedia, la commedia 
e il ditirambo, del pari che l'arte del fiauto e della lira 
quasi intieramente non sono nel loro insieme che delle imi- 
tazioni .... Si imita un gran numero dì cose, talvolta 
per mezzo dei colori e delle forme che si disegnano, o colle 
regole d'arte, o per semplice abitudine, tal altro per mezzo 
della voce »(•)... 

€ L'uomo è per natura imitatore sin dalla fanciullezza; 
e ciò che lo distingue da tutti gli altri animali, e ch'esso è 
piti imitatore di tutti loro: esso comincia la sua prima edu- 



CJ Poet. VU. 8. ugg. 
Ò) Po»t. I. 3. lagg. 



— 176 — 

cazione coll'imiiare. Tutti gli umniiii si dilettano nell'imi- 
taziono delle cose. Per convincersene, basta osservare i 
fatti. Le cose che noi non vedremmo che con dolore nella 
realtà ci fanno gran piacere a contemplarle nelle loro ripro- 
duzioni più esatte; per esempio, la rappresentazione delle 
bestie più schifoso, e dei cadaveri .... Così l' imitazioue 
è connatnrale a noi » ('). 

« Siccome nell' imitare si imita sempre degli esseri in 
azione, e le persone imitate non possono essere che buone 
eattive ... ne segue die bisogna necossariainente rap- 
pr^eotarle o migliori di noi, o peggiori, o somiglianti al 
comune degli uomini. Ciò accade anche ai pittori. Polignoto 
dipingeva gli uomini più belli che in natura, Pausone 

più brutti, e Dionigi tali quali È così che Omero 

rappresenta gli uomini più grandi che non sono mentre 
Cleofonte gli rappresenta tali quali, ed Egemone Tasio, che 
primo fece le parodie, gli imbruttisce » (*), 

Da questi passi apparisce come Aristotile ritenesse 
essenziale a certe arti la imitazione, Il che si fa mani- 
festo più chiaramente rispetto alla tragedia, per la quale 
esso pone quasi il L-eutro nell' Azione imitala^ cioè nella 
favola. 

«. La tragedia è la imitazione di una azione, e questa 
azione essendo 1' opera di personaggi che agiscouo, ne 
accade che i personaggi inedcaimi hanno necessariamente 
un carattere e uu modo di pensare, che gli fa quali sono; 
condizione che d' altronde serve a qualificare anche gli atti 
umani. Or vi sono due cause che determinano natural- 
mente tutte le nostre azioni; e sono il modo di pensare e il 
carattere, che nella vita egualmente decidono sempre del 
nostri successi e dei nostri rovesci. È la favola quella che 
imita l'azione, e per favola intendo l'intreccio dei fatti. 



(') Poet. IV. 2. seg. 
(*) Post. II. 1. aeg. 



— !T7-^ 

Il raralteru o ì costumi disti ug unno i porsonapryi che ngi- 
soouo e permettono di qualificargli; il muito di [«usare è 
riasieme iloÌ discorsi coi quali si esprime :ilcuiia cosa, u si 
svela il t'ondo del proprio pensiero * ('). 

li conotìtto della iiuittzione iitìll*arLu è sialo di quelli 
che hanno dato appiglio alle più lunghe e ostinate conipo- 
versie. Gl'idealisti iVemooo a sentire far parola dell' imita- 
lione: i realisti si f:inno licffi ilell' ideale, b ne» reggono 
the la natura. L'Estetica è stata il te;ilro di una lotta 
perenne tra questo due scuole. Se sì cotii^iderano i pochi 
passi Aristotelici risguardanti la iraitazidne, farà t-erto 
meraviglia di vedere la quistinne posta e delitiiitjila con 
nna precisione rimarchevole. In primo luugo vi apparisce 
chiara la necessità della imitazione della natura studiala 
neirinsietue delle sue forme {'). Certo die la m.tssiraa 
parte d<!llc aiti beile non snrtiùljtì possÌl)Ìle, se mi esso 
mancassero i tipi corrispondemi da imitare. Nella pittu- 
ra la prima imitazione è quella clic forma la educazione 
della mano, V altra è la riproinzione di sceno nelle 
quali 1' uomo e gli animali e il paciaggio compariscono dì- 
versaineute aggruppati, ma obbedendo sempre all' lyrdine 
che la natura avrebbe tenuto se avesse fatto lei nn (ale ag- 
gruppamento. Supponiamo che il cavallo nou esistesse, non 
potrebbe 1' arte riprodurlo. Pulrebbe l'arte creare un ani- 
male fantastico, coirje 1' l|)pogrifo. ma le membra staccate 
di questo animale sono date in natura; e se ale e zampe e 
(asta grifjigna non fossero stale mai, l' Ippngrifo non avreb- 
besi potuto comporre. E lascio stare che una tale riprodu- 
zione fantastica sLl sugli estrerai limiti dell'arte. Ma ad 
i^i modo l'ordine della natura imitato è condizione 
necessaria e inevitabile all' arte bella. 

Nessun pittore di battaglie, qualunque sìa il modo di ag- 



(*) Post. VI. 7, seg. 



- Po«t.L2. 



— 178 - 

gruppamento tónnto da esso dei soldati e cavalli e cannoni, 
si sottrarrà mai alla necessità di porre le masse dei soldati 
che salgono nna collina curvate in avanti, e i morti distesi 
a terra, e le i'accie volte al nemico neir assalto, e volte le 
spalle nella fuga. Nessuna battaglia sarà mai successa nel 
modo ideale combinato dall'artista, ma questa stessa bal^ 
taglia noo potrà sottrarsi alle condizioai delle battaglie 
r&iU imitate nel loro ordine dato dalla natura. Questo 
pensiero col quale si attribuisce alcun che 3Ì[' vlealCf e la 
massima parte alla imitazione dfil reale, sembra essere 
espresso esattamente da Aristotile a proposito della poe- 
sia. « Tutto ciò che abbiamo delto dimostra, che ufficio 
del poeta è di raccontare non tutto ciò che è avvenuto, ma ' 
ciò che sarebbe stato possibile ad accadere secondo la vero- 
simiglianza la necessità». (') E qui mi piace di fare 
osservare che Aristotile non parla neppur d'ideale, parola 
di cui mi son servito per deferire al linguaggio estetico 
nostro, ma solamente di possibile. 

Tutlociò mostra che quando dicesi con Aristotile o cui 
realisti moderni, che l'imitazione è il fondamento dell' arte, 
non s' intende di ridurre il genio artistico alla sterilità o 
all' ufficio manuale di copista, uè si conclude che la foto- 
grafia sia il ralmo dell'arte. Ma il genio artistico trova 
nell'imitazione i soccorsi necessari al suo proprio lavoro e 
la guida e la bussola senza di cui si smarrirebbe nell'im- 
mensità della fantasia. Aristotile stesso ritiene che la natura 
si può migliorare, come esso indica che facea Polignoto. 
Ma la natura non può essere migUorata, che imparando da 
lei medesima, cioè studiando a minuto e. imitando le grada- " 
zioni di bello che essa ci presenta nei suoi tipi. Salendo 
questa scala naturala del bello il genio artistico pun arri- 



(*) ?="- 



9 àvayxBÌBy, Foet. IX. 1. 



- 179 - 

vare ad imparare il segreto del bello, e i» lai condizione 
potrà imitare non più gli oggetti naturali, me Varto della 
natura. Questo tirocinio peraltro non può farsi t-he sui 
modelli della natura. I Greci coniprendeTniio facilmente il 
concetto imitativo Aristotelico, ed essi furono grcindissimi ' 
artisti, disegnatori lyefl/i, come vogliono frli estetici Idea- 
listi, perchè aveano dinanzi agli occhi i più bei tipi reali. 
La Venere, copiata sulle cintjiiu modelle, se è una favola, 
esprime tuttavia l'abitudine artistica greca, abitudine J 
invero che era resa facile agli artisti dalla ginnastiiM, che j 
perfezionava i contorni delle iiienibra.. e dalla tollerauza 1 
del gusto e del costume greco, che poneva in mostra libo- \ 
Talmente ogni giorno i più bei nudi agli occhi dì tutti. 

I concetti Aristotelici furono da discepoli e da avver- 
sai] denaturati a segno, da mostrarcelo come il capo- 
scuola della pedanteria, tìuello che andrenjo aggiungendo 
mostrerà quanto sia falsa questa accusa: esso appella di J 
continuo alla natura come maostr.t, abitudine scomisciuta 1 
ai pedanti. 

Si è fatto gran rumore attorno alle tre unità, che 
attribuivano ad Aristotile, come leirgi invariabili pir ei 
nella composizione della Tragedia. Nulla di piii strano di j 
cotale importanza data a questi fantasmi di leggi, che 
Aristotile appena accennava Cime una pratica dai medesimi < 
tragici greci curata pochissimo. Queste leggi, invece di 1 
prescriverle imperiosamente, non le ha conosciute affatto i 
come leggi. Nessuna allusione all' unità di luogo, che i! 
teatro greco non ha mai osservato, e di cui non sembra ] 
siasi molto preoccupato. {') 

Per ciò che concerne 1' unità di tempo, ecco il passo ] 
Aristotelico, al quale si è attribuito valore di legge: « La 



(') Bftrthelemy Saint-Ili taire, l'rcl. a li 
P.IVII. 



TraJ, de la l'oeU 



— 180 — 

tragedia si sforzerà, quanto ò possibile, di racchiudersi 
in una sola rivoluzione di sole o poco più. L' epopea al con- 
trario non ha limite di tcTopo; sebbene da prima si tenea 
per la tragedia lo stesso modo che per l'epopea». (') in 
questo passo si constata unicamente, che la tragedia greca 
dopo essersi prosa una gran libertà nei limiti del tempo per 
la sua favola, si restrinse poscia ad un tempo determinato. 
Anzi a questo proposito si può forse applicare al tempo favo- 
loso della tragedia quello che Aristotile dice altrove, cioè che 
« per dare una detìnizione assoluta, bisogna dire che la vera 
misura d" una tragedia è quella In cui, dietro la successione 
verosimile o necessaria degli eventi, i personaggi hanno 
tutto il tempo convenevole di passare dalla felicità alla 
infelicità, o viceversa » Cj. 

L'unità di soggetto è anch'essa da Aristotile indicata 
nella maniera piii larga e meno pedantesca, lacendosene 
una necessilà inerente a tutte le composizioni artistiche, e 
collegandola colla natura di una azione completa, cioè né 
esuberante nò difettosa. Ecco le sue parole: « Se duaque 
in tutte le altre arti imitative l'unità della imitazione risul- 
ta dall' unità del soggetto, bisogna egualmente che nella 
tragedia la favola,, che imita l'azione, non imiti che una 
azione unica e completa, e che le parti del dramma sieno 
disposte di tal maniera, da non potersene spostare né 
tagliar fuori una sola senza scomporre l' intiero; perchè ciò 
che può indiiferentemente figurare o non figurare nell' o- 
pera, senza portarvi alcuna luce, non dee far parte 
dell'insieme » (^). 

Della ragionevolezza e naturalezza di questo principio 
non v' è alcun romantico, che possa mostrarsi restìo a 



« Poet. V. 8. 

{*) Poet. VII. 12. 
(') Poet. VUI. 4. 









perstiailerai, come non v'è alcun classico, che si possa 
credere autorizzato a trarne conseguenze esagerate e pe- 
dautesche. 

Un errore somigliante a quello che faceva attribuire ad 
Aristotile le Ire unità, gli prestava anche una pretesa 
necessità di scopo morale nell'arte. «La tragedia, dice 
Aristotile, debba arrivare, eccitando in noi la pietà e il 
terrore, a purificare questi due sentimenti > ( '). Da questo 
passo si concluse alla purificazione dei costumi come scopo 
imposto da Aristotile alla tragedia. Certo questo concetto 
sarebbe in urto coi pronunziati della Estetica moderna, 
che ben ragionoTolmente non vuole per l'arte altro scopo 
che 1' arte stessa. Uno scopo moi-ale o politico distrug- 
ge r arte. SÌ .-wrebbe tante specie di arce quanti potes- 
sero essere i fini secondar) presi di mira; ed invece l'arte 
non ha che una specie, quella cioè che prende a riprodurre 
il bello. 

È probabile che la morale guadagnerà per opera della 
vera arte, parche il vizio artisticamente, cioè in tutta la 
sua bruttezza riprodotto, è capace di svegliare un' avver- 
sione altamente morale, egualmente che la virtù è capace 
di attrarre le simpatie. Lo vediamo giornalmente nei 
teatri nostri, ove, sebbene l'illusione sia alquanto inde- 
bolita dal grande uso di essi, pur tuttavia il popolo e le 
donne sovente si trasportano contro a questo o quel tiran- 
no, tristo marito, o amante sleale, e a' inteneriscono alle 
lacrime delle mogli e delle amanti tradite e di figli fatti 
orfani dal delitto. 

In ogni modo il Bello è per natura sua altamente mora- 
lizzatore: il sentire e gustare il Bello è segnale di felice 
diaposizione a gustare© pregiare U Buono, Ma indipenden- 
temente da ciò, non ò certo ad Aristotile che deve attri- 
buirsi l'intrusione dello scopo morale nell'afte. 



(') PMt. VI. 2. 




— 182 — 



sovracìtalo trova la sua spiegazione Ìii un altro, già ripor- 
tato da noi a proposito dell'imitazione, ove dicesi che un 
cadavere imitato diventa piacevole a vedersi, benché faccia 
ribrezzo un cadavere vero. La pietà e il terrore che sve- 
glia una madre uccisa dal proprio figlio nella Tragedia, 
non è quella stessa che si proverebbe assistendo a un vero 
misfatto: Li pietà a il terrore in quel caso sono purifi- 
cati, e non vanno scevri di piacere. In questo e non in 
altro consiste la puritìcazione degli affetti indicata da 
Aristotile. 

Un secondo passo sul quale si è tentato da alcuni 
di appciggiare la teoria della necessità di costumi mo- 
rali nella tragedia è sul principio del Gap.- XV. Ma 
quel passo suona ben altro, « Ne' costumi la prima cosa 
a cui bisogna guardare, è eh' e' sieno dee/ni. Il costume 
sarà der/no quando le parole o le azioni manifestino una 
risoluzione che sia degna », La parola xp^^^o; che qui 
traduco degno, è stata la pieira dello scandalo, essendosi 
dati alcuni a interpetrarla per buono. Interpetrazione equi- 
voca, perchè quella parola può avere molti significati, per 
esempio quello di — servibile, utile, idoneo, felice nell'arte 
sua, buono nella sua specie, e cosi buono in senso di scel- 
tezza — ma è molio più raro il significato di onesto, di 
intono in senso morale, per indicare il quale i Greci adope- 
ravano xa>oi e ctyxBoi. Non v'è dunque ragione di adottare 
invece del significato genuino e comune quello più raro, 
che a detta di molti critici, renderebbe privo di buon senso 
quel passo. 

Non posso qui trattenermi sulla analisi del contenuto 
generale della Poetica Aristotelica, né formare un quadro 
delle dottrine, che per la prima volta la filosofia appli- 
cava all' arte , dottrine che conservarono tanto valore 
dipoi, da non essere piiì smentite dalla scienza. Solo mi 
preme di osservare, in ordine al metodo di Aristotile nella 
Poetica, come esso tracciasse i suoi concetti, non si dipar- 



— 183 — 

tóndo mai dai migliori modelli greci, e il più delle volte 
chiamando a maestra la natura. Per mostrare l'importanza 
data ai modelli greci, basta portare l'attenzione sulla teorica 
del Riconoscimento ('), che Aristotile tratteggia largamen- 
te, e che nessuno ha poi ridotto a legge, benché tenga 
nella Poetica maggior posto, che le leggi che vi si vollero 
trovare. Essa è un abìtndine d'intreccio nei tragici greci, 
il quale Aristotile copiava e delineava dietro i lom esempi, 
come del i-esto adoperava in tutta l'analisi della tragedia, 
appallandosi spesso ai tragici (*). 

Aristotile, lungi da! farsi maestro, sulle parole del 
quale si abbia a giurare, lungi'dall'imraobilizzarsi in quella 
apoteosi che di lui fecero poi gli scolastici, dichiara che la 
vera e sola maestra dei precetti del bello, come di tutte le 
leggi, è la natura, e che alla scuola dì lei vuoisi progre- 
dire nell' apprendere. Le regole della tragedia da esso 
Indicate non sono le sole ed invariabili, ma esso medesimo 
le dichiara capaci di mighoramento. 

« Quanto al sapere se la tragedia abbia preso tutte 
le forme poetiche di cui è capace, tanto in sé stessa, 
che rispetto alle condizioni del teatro, è un' altra qui- 
stione (*) ». 

Questo passo mostra come Aristotile intravvedesse le 
U'asformazioni della tragedia, e forse ne trattò in alcuno 
scritto perduto. Esso mostra anche come di (atto ella si 
fosse andata perfezionando sino a prendere la sua forma 
naturale, che per altro, come dal passo precedente appa- 

, risce, non era la perfettissima né l' ultima. 

« Da principio la tragedia fu tutta improvvisazione, 

I egualmente che lacommedia; perchè l'una rimonta ai primi 
cantori di ditirambi, e l'altra ai primi cantori di quegl'inni 



(■) Poet. XI. XIV. e XVI. 
(•) V. Poet. VI. 7 « puBim 
(') Poet. IV. U. 



— 184 - 

fallici, che la legge autorizza anch'oggi in più d'una città. 
Grado a grado essa sì sviluppò a misura che si scòrsero ì 
miglioramenti the vi si potevano introdurre; e dopo molte 
trasformazioni, si fermò quand'ebbe raggiunto la sua forma 
naturale .... Fu assai tardi che la tragedia, abbando- 
nando i soggetti troppo corti e lo stile burlesco proprio del 
genere satirico da cui ella proveniva, prese tutta la sua 
grandezza e la sua pompa, e il verso doveutò giambico in 
luogo di tetrametro: infatti da prima erasi fatto uso 
del tetrametro, perchè la poesia era allora destinata 
ad accompagnare la danza dei satiri. Ma quando fu 
adottato il dialogo , la natura forni ben presto di per 
sé stessa il metro più conveniente: perchè il giambo è il 
metro che sta meglio al dialogo; e la prova è che si fanno 
più giambi che altra sorta di versi nella conversazione, 
l>ochissimi esametri, e soltanto quando si esce dal tono 
ordinario » ('). 

La natura a cui qui si attribuisce l'impiego del verso 
giambico è sovente chiamata a dare le norme del bello e 
i precetti per ottenere l'intento dell'arte. È per queato lato 
che Aristotile si dichiara entusiasta d'Omero. 

« Ma Omero, che per ogni riguardo è tanto superiore, 
lo è anche per questo lato; esso ha perfettamente visto il 
oero, ispirato dall' arie e dalia natura » (*), 

L' arte e la natura, ecco i segreti argomenti per la 
riproduzione del bello; la natura come modello e 1' arte 
come tirocinio a bene osservarla e comprenderla. 

« È mestieri identificarsi alle situazioni. 1 personaggi, 
che provano una passione, sono eminentemente persuasivi, 
quando coloro che gli fanno parlare hanno la stessa impres- 
sione; si arriva a commuovere veracemente quando si è 



(') Poet. IV. 15 e seg. 
(•) Poet. Vili. 3. 



- 185 — 

commossi: si insulta veracemente quando si ò in col- 
lera 0). 

€ Gli antichi poeti prestavano ai loro personaggi dei 
veri discorsi d'uomini di Stato; oggi son piuttosto decla- 
mazioni di retori » (>). 

« La tragedia non è solamente imitazione degli uomini; 
ò anche imitazione della loro attività^ della loro vita, della 
loro felicità e della loro sventura » ('). 

Avuto riguardo peculiarmente all'accusa di pedantismo 
procurata dallo zelo degli Aristotelici ad Aristotile^ accusa 
che ha intaccato la sua fama come filosofo estetico, mi per- 
metterò di riportare qui come saggio alcuni pochi brani, nei 
quali si contengono osservazioni e precetti del tutto alieni 
dalla pedanteria, e che possono far testimonianza dello 
spirito e della razionalità che predomina nel libro della 
Poetica. 

« Infilzare le une accanto alle altre delle sentenze mo- 
rali, delle frasi , dei pensieri ben contornati, non si chiama 
fare una tragedia; la vera tragedia è piuttosto quella che 
difetta da questo lato, ma che ha una favola e una azione 
bene intrecciata. Inoltre i più perenti argomenti della tra- 
gedia per commuovere, cioè le peripezie e i riconoscimenti, 
son parti della favola. Un' altra prova si è che gli autori 
principianti arrivano a saper cavarsene bene dal lato dello 
stile e dei costumi, prima di saper comporre una buona 
azione; e questo è stato lo scoglio di quasi tutti gli antichi 
poeti. La favola è dunque il principio e, quasi direi, l'ani- 
ma della tragedia; in secondo luogo vengono i costumi. Un 
fenomeno analogo succede nella pittura. Un pittore che 
distendesse in disordine i più bei colori sopra una tela, non 

(«) Poet. XVII. 3. 
(•) Poet. VI. 23. 
O l'oet. VI. 12. 

13 



— 186 — 

ci farebbe tanto piacere quanto col solo tracciare una figura 
col gesso. ...»(*). 

« Nella tragedia ci si attiene di preferenza ai nomi 
conosciuti e già fatti. La ragione di ciò è, che il possibile è 
sempre credibile; perchè quando le cose non sono accadute, 
non siamo punto sicuri che le sieno possibili, ma una volta 
accadute, son possibili evidentemente, perchè non sareb- 
bero accadute se erano impossibili. Si può tuttavia permet- 
tersi, come vedesi in alcune tragedie, di non avere che uno 
due nomi conosciuti, e inventare tutti gli altri, la alcune 
poi non vi è. pur un nome che non sia inventato, come nel 
Fiore di Agatone, dove tutto è finzione, il fatto come i 
nomi, e tuttavia non reca meno piacere. Non bisogna 
dunque farsi un troppo stretto dovere di attenersi unica- 
mente alle favole tradizionali, che tratta d' ordinario la 
tragedia. Ciò non potrebbe a meno di essere ridicolo; per- 
chè i nomi anche i più conosciuti, non lo sono che da piccol 
numero di persone, benché tutti prendano piacere alla rap- 
presentazione » (^). 

« 11 terrore e la pietà possono provenire dallo spettacolo 
che si pone sotto gli occhi degli spettatori; ma si può far 
generare questi sentimenti dall' intreccio del dramma, il 
che è molto miglior partito, ed indica un poeta più abile. 
La favola debbo essere combinata in tal maniera, che basti 
udire le cose, anche senza vederle, per rabbrividire e inte- 
nerirsi al racconto .... cercare di produrre questo effetto 
col porre le cose direttamente sotto gli occhi è molto meno 
degno deirarte, e non necessita che le spese della rappre- 
sentazione. Quanto a coloro che hanno in mira di produrre 
con quello che fanno vedere sulla scena^ non già il terrore, 
ma uno spavento mostruoso, non capiscono nulla della tra- 

(•) Poet. VI. 16. e seg. 
O Poet. IX. 6. e seg. 



— 187 — 

gedia; alla quale non bisogna domandare ogni sorta di 
piaceri, ma quei soli che le sou proprj » (*). 

« Lo scioglimento in tutti i drammi deve uscire dal 
fondo stesso del dramma; e non deve venire da una mac- 
china .... Non si può adoperare la macchina altro che 
per gli avvenimenti che, essendo fuori del dramma o anteriori 
all'azione, sfuggono alia conoscenza dell'uomo, o per gli 
avvenimenti susseguenti che hanno mestieri di essere pro- 
fetizzati. Ma nell'azione stessa, non bisogna lasciare entrar 
nulla che urti la ragione ....>(*). 

(•) Poet. XIV. 2. e seg. 
(•) Poct. XV. 11. e seg. 



- 188 - 



II 



lia Retorica. 

Se nella Poetica e nella filosofia deir arte Aristotile fu 
creatore, nella Retorica fu restauratore. La prima non 
aveva alcun precedente scientifico: i soli tratti Platonici che 
ad essa si riferiscono, sono piuttosto osservazioni o concetti 
di parlatore colto gettati là in una conversazione elegante e 
fina, che non pensieri di filosofo. Spesso si odono in bocca 
di Socrate delle frasi spiritose intorno a' poeti in generale 
in particolare ad Omero, ma che non rivelano un pensa- 
re giusto né scientifico. E quando Platone si adopera a 
farsi un concetto da questo lato, dà in molte stranezze e fi- 
nisce col distruggere la poesia e le arti del bello in luogo 
di trovar la legge della loro formazione. Questo gli accade 
appunto nei libri della Repubblica, ove stimatizzando tutta 
Tarte poetica del passato si propone di farla servire all'e- 
ducazione de' suoi cittadini, incaricandola di tramandare 
miti nuovi e fatti ad arte in servizio della politica, e dichia- 
rando dannosa ogni altra maniera di poetare. 

L' arte retorica aveva innanzi Aristotile trovato cultori 
pratici in gran numero e alcuni legislatori, ma l'opera di 
questi era troppo meschina e ridotta a condizione di studio 
sullo stile e sugli artifizi diretti a guadagnare a tutti i costi 
l'assenso, invece che alla considerazione delle leggi fonda- 
mentali dell'eloquenza. Nulla perciò di meno scientifico, 
che questi tentativi di speculazione sull'arte retorica fatti 
avanti Aristotile. 

La maggior parte dei critici si accordano a ritenere che 
la Retorica nascesse in Sicilia. Empedocle d'Agrigento 
détte il primo alcuni precetti: poi Corace Siracusano compo- 
se un trattato di qualche importanza. Tisia suo discepolo lo 
portò seco in Grecia. Ma colui che ve lo acclimatò fu Gor- 



- 180 — 

già Leoulino. Mandato a domandar soccorso agli Ateniesi, 
parlò nell'assemblea del popolo, e dilett(3 siffattamente col- 
la splendida nuovità del suo linguaggio, che gli Ateniesi 
lo pregarono di restare tra loro, e di prendere ad istruire i 
loro figli (*). 

Ben presto la eloquenza fu cominciata a coltivare con 
gran frutto in Grecia, ma'non resta dal lato teorico alcu- 
no de' numerosi trattati che dovettero esser composti in- 
nanzi la Retorica di Aristotile . Sarebbe un prezioso mo- 
numento l'opera nella quale Aristotile avea raccolto tutti i 
risaltati de' lavori precedenti. Cicerone riteneva quel libro 
come un modello di tal genere di compilazione. «Aristotile, 
dice esso, raccolse tutti gli antichi retori da Tisia primo 
inventore di quell' arte, e aggruppò sotto il loro nome, 
ooUa più gran cura, tutti i precetti, che essi aveano dati . 
Gii spiegò e gli svolse con chiarezza, e sorpassò tanto 
gFìnventori stessi per la piacevolezza e la precisione dei 
suo stiie, che nissuno conosce più i loro precetti dietro let- 
tura de' loro libri; ma a»loro, che vogliono imparare ie le- 
zioni di questi retori si rivolgono al filosofo, come ad un in- 
terpetre molto più chiaro (>) ». 

Ci rimangono degli antichi retori alcuni frammenti rac- 
colti da Spengel, e che possono darci una qualche idea dei 
loro trattati originali. Il resto è andato perduto, come il 
lavoro compilato da Aristotile su quelli . 

L'epoca della pubblicazione della Retorica di Aristotile 
ò stata indicata specialmente da M. Max Schmidt (')• Esso 
argomenta che debba considerarsi come pubblicata un paio 
d'anni dopo il ritorno di Aristotile ad Atene e la fonda- 
zione della scuola nel Liceo. Ciò accadde, secondo la testi- 

(') Speng«l. Ariium serìptores. Stuttgard. 1826. 
(•) Qio. De invent. IL 2. 

(*) Gommentat. do temp. quo ab Arili. Rothor. co^3pript. et 
edit, sii. Halissaxonum 1837. 



— 190 — 

monianza di Apollodoro, nella 01. 111. 2.® (335 a C. ), e 
d'altra parte tutto porta a credere che questo libro fosse 
pubblicato ad Atene . 

Oltre a certe mancanze che Aristotile rimprovera al- 
l'arte retorica precedente, come il non si occupare della 
pronunzia e dell'azione (*), e di non tener proposito che 
quasi esclusivamente del genere giudiziario (*); il vizio ra- 
dicale di tutti i precedenti trattati, e che mosse Aristotile 
ad instaurare quello studio, è la trascuranza del vero fondo 
dell'arte di persuadere, per attaccarsi invece all' artifizio; 
dimodoché la retorica ne doventasse debole, vana, ed an- 
che immorale. Platone avea tentato di correggere in parte 
i vizi della Relorica, ma il suo pensiero non è ben determi- 
nato, oscillando tra l'annullamento della Retorica, come nel 
Gorgia^ e la riforma di essa, come nel Fedro. Ed in questo 
secondo caso le sue dottrine si scostano troppo dalla comu- 
ne abitudine degli oratori per gettarsi nelle regioni più 
elevate del pensiero, si tengono in una generalità poco 
profittevole, e non rispondono all'esigenze minute di una 
educazione letteraria . Aristotile vide che Gorgia, sebbene 
infiammasse il popolo Ateniese, non dovette ottenere que- 
sto efifetto, né cosi pieno, né cosi durevole, né coi mezzi 
stessi di Pericle; e ciò a' suoi occhi separava l'oratore dal 
retore, l'arte fondata sul vero, sulla prova, sulla convin- 
zione, suli' affetto sincero, dall'artifizio appoggiato sur un 
lavoro effimero e superficiale di cadenze studiate, di meta- 
fore pompose, di frasi eleganti, di suoni e di gesti piacevoli 
all' orecchio ed all'occhio ma sprovvisti di forza attinta 
alla sorgente del vero . 

Il vero, ecco il principio inspiratore della riforma ope- 
rata da Aristotile nella Retorica; il vero come tesi da pa- 
trocinare, il vero come analisi delle vere condizioni in 

(') Rhet. III. 1. 5. 
O Bhet. III. 13. 



— 191 — 

mezzo a cui sì dovea ottenere l'effetto persuasivo, il vero 
come affetto sincero che infiammasse Foratore . 

Anche qui ci apparisce il metodo Aristotelico fondato 
sulla natura che getta da se gli artifizi illusori, per tenersi 
al prodotto della scienza e dell' affetto . 

A considerare l'introduzione della Retorica di Arislotile, 
si scorge che esso è nauseato dell'abuso, che di essa fa- 
ceano i Sofisti; quasi gli dispiace di dover trattare di que- 
sta arte. Vi si rassegna come per necessità; ma quale esso 
la trova in voga gli sembra un giuoco puerile ed anche 
nocivo alla repubblica. Ed è per questo che esso si accinge 
con ogni sua possa a ritemprarne la fibra, a consolidarla 
col vero, a purgarla di ogni artifizio ciarlatenesco, a mo- 
ralizzarla . 

€ Quelli che al presente accozzano i precetti circa le 
arti del dire, non hanno posto mano che ad una meschina 
parte di esse. 11 produrre la persuasione è il vero scopo di 
quelle arti, il resto è un accessorio; e costoro non fanno 
parola degli entimemi, nei quali davvero sta il nerbo della 
persuasione, e invece fanno gran caso di moltissime cose, 
che sono un fuor d'opera. Infatti l'invettiva e la pietà e 
l'ira, e altre simili perturbazioni d'animo, non concernono 
la materia trattata, ma investono il giudice. Tantoché se in 
tatti i giudizi si adoperasse alla maniera che si tiene in 
alcune città, e particolarmente in quelle regolate da buone 
leggi, costoro non avrebbero campo di dir nulla. Perchè là 
tutti ritengono che le leggi /anno bene a provvedere; e 
nella pratica impediscono che nel parlare si esca dalla 
causa; nell'areopago stesso si tiene questa proibizione, e 
ootal legge è buona. Non è infatti conveniente che si 
distragga il giudice, col risvegliare in esso Tira e l'invidia 
la pietà; sarebbe lo stesso che alcuno, mentre sta per 
adoperare una misura, la storcesse (*) » . 

(*) Bhet. I. 1. 3. seg. Vedi anche Ibid. 10 seg. 



~ 192 — 

La primaria necessità per le arti del dire secondo Ari- 
stotile, è riposta nella loro indissolubile attinenza col vero. 
È perciò che tutto il lavoro suo mira a combinare la Reto- 
rica colla Dialettica. Esso non sa comprendere come un arte 
che ponesse i suoi metodi in servizio del falso, possa otte- 
ner favore e cultori: esso che tanto amava il vero, da farsi 
per quello quasi ingrato a Platone suo maestro, dovea 
sentire un profondo orrore per Varie del falso. Ciò appa- 
risce dal disprezzo che mostra per lo studio del portamento 
de' gestire della voce, come finezze ordinate a blandire 
l'occhio e l'orecchio, ma del tutto estranee alla verità o alla 
falsità delle cose dette. « Tre cose studiano i retorici sul 
portamento della, voce, la forza, l'armonia e il ritmo. Delle 
quali chi ben sa servirsi suole guadagnare il premio nei 
certami; e come oggi valgono meglio che i poeti gl'istrioni, 
lo stesso accade anche nelle controversie civili a gran de- 
trimento delle repubbliche (*) ». 

La più gran forza della vera Retorica debbo scaturire 
dall'uso delle prove, cioè dall' uso della Dialettica; e un 
trattato di quell'arte debbo perciò richiamarsi dalla censi* 
derazione sofistica delle parti di un discorso alla vera ricerca 
dell'arte di persuadere . 

«È manifesto che il metodo dell'arte vera si occupa della 
persuasione; e la persuasione è una specie di dimostrazione 
(perchè allora massimamente prestasi fede quando^ credia- 
mo dimostrata una cosa ); or la dimostrazione retorica è 
l'entimema, potentissimo a produrre la persuasione, essendo 
esso un sillogismo. Alla Dialettica spetta l' analisi di tutto 
ciò che concerne il sillogismo (*) ». 

Come nella Logica (Analitica) Aristotile ha fatto delle 



(*) xai xa^CTTrip ixe? fAti^ov ^uvavrai vuv t&)V TroiiQTfijv oì un'oxjDirat 
xal xarà roù; 7roXiTixoù( àyuvac $i% Tyjv po;^5y}pZav tqì>v TroÀiTiióav.— 

Rhet. III. 1. 4. 

O Bhet. 1. 1. 11. Ibid. L 2. 7. 



^ 193 — 

ricerche intorno all' argomentazione scientifica, e nella 
Dialettica (Topici) circa rargomenlazione probabile, cosi 
nella Retorica esso studia altri aiuti dell' argomentatore, 
non in servigio dell' argomentare scientifico , ma del- 
l'argomentare probabile, che è comune uso della mag- 
gior parte degli uomini. I sofisti e i retori del tempo 
suo staccavano completamente l'arte del dire dall'arte 
di pensare e di argomentare, riducendo la prima a nulla 
più che un metodo di buona dicitura. Invece Aristotile di- 
chiara, che il vero e il simile al vero spettano alla medesi- 
ma facoltà (*), e perciò la Dialettica è una succursale della 
Logica, e la Retorica è una corrispondenza della Dialet- 
tica O . 

La Retorica e la Dialettica hanno entrambi natura di 
scienza comune preparatoria, non avendo un soggetto spe- 
ciale, ma applicandosi generalmente a tutte le forme del 
pensiero. E tutti si accingono talvolta a fare delle ricerche, 
a sostenere alcuna tesi, o a difendere ed accusare. Al- 
cuni lo fanno spontaneamente, senz'arte, altri con metodo 
e consuetudine, e cosi si può per essi tracciare una uianiera 
razionale di farlo (') . 

Fra la Dialettica e la Retorica corrono molte ditferenze, 
fra le quali si possono particolarmente annoverare quelle che 
si riferiscono alla condotta dell'argomentazione Alla Dia- 
lettica si appartiene di fissare le basi dei sillogismi e degli 
entimemi, e la loro materia, e la differenza che è fra que- 
sti e i sillogismi logici (*). 

La Retorica ammaestra ad argomentare sulla stessa via 
della Dialettica, ma tenendo conto più particolarmente delle 
condizioni di un discorso la pubblico, e servendosi a questo 

(•) Rhet. I. 1. 11. 

(') i pmroptìii to-Tiv àiridxpofOi xri (rta>cxTixn — Bei. I. 1. 1, 
Tnv pDTopixiòv otov Trapse^vf'c ti tn? ^t3t>.ej{Tiy.n;. — Bet I. 3* 7. 
(') Rhet. I. 1. 2. 
C) Bbét. 1. 11. 



— 194 — 

effetto delle opinioni plausibili, che piìi sono alla portata 
dell'udi torio, o professate da personaggi per esso autore- 
voli, e in generale avendo in mira'^di adattare la scelta 
delle opinioni, poste in campo per formulare una argomen- 
tazione, alle tendenze universali degli uomini e a quelle in 
particolare degli uditori, e aggrupparle in guisa da trarne 
il maggior frutto per la provaMel%ero (*). 

Da entrambi si diflPerenzia la Sofistica. Perchè la Dialet- 
tica è caratterizzata dalla facoltà dell'argomentazione; la 
Retorica si giova della facoltà della scienza, e vi aggiunge 
un maneggio^dovuto all'intenzione; la Sofistica sta tutta 
nel maneggio d'intenzione (*). 

La Retorica ridotta in tal guisa alla facoltà di scuoprire 
in ciascuna cosa ciò che vi può essere di acconcio a pro- 
durre la persuasione ('), e fondata sulla Dialettica e sugli 
elementi del vero, diventa un'arte morale ed utile alla 
repubblica. 

« Appresso certuni, anche ad avere una scienza super- 
lativa,- non è agevole con essa sola produrre la persuasione. 
È natura dell'insegnamento'di mirare a un discorso scien- 
tifico, ma questo riesce impossibile, se prima non si parta 
da ragioni comuni per provare e argomentare, come fu già 
detto ne' Topici del modo di conversare colla moltitudine. — 
D'altra parie è bene conoscere il modo di inculcare l'una e 
l'altra delle tesi opposte, come anche nei sillogismi, non già 
per farlo (che non bisogna patrocinare il falso ) ma per co- 
noscere l'artifizio, e se taluno adopera con noi di tali argo- 
menti a torto, ci sia possibile distrigargli .... Sarebbe as- 
surdo che si considerasse come indegno il non sapersi aita- 

(•) Rhet. II.*19-20.21 passim. 
pYìTtap, ^ia^fxT(xo( ^c où xarà ryjv npooLÌpsoiv àX^k xarà Tnv ^ùvapLiv. 

Rei. I. 1. U. 

(»J Ehet. I. 2. 1. 



_ 195 — 

re del suo corpo, e non fosse invece indegno di non saperlo 
fare colle ragioni, le quali sono più uso umano che non 
quello della forza. Si può opporre che può essere di grave 
danno, se alcuno adoperi in male questa facoltà di ragiona- 
re, ma questo è comune a tutte le cose buone, eccetto la 
virtù, e più di tutto alle cose le più utili, come la forza, la 
salute, la ricchezza e la tatticvi guerresca. Di simili cose 
verrà gran profitto se sieno adoperate in bene, e gran dan- 
no, se in male C) » . 

Il paragone tra la Retorica e la Dialettica è da Ari- 
stotile applicato alle speciali maniere di argomentazione 
che Tuna e r altra adopera più spesso. «Nella Dirnlettica 
si ha r induzione, e il sillogismo vero o falso: lo stesso 
avviene nella Retorica. Poiché l'esempio è un'induzione, e 
Tentimema un sillogismo. E chiamo così l'entimema, sillo- 
gismo oratorio; l'esempio, induzione oratoria. Ogni volta 
che si produce la persuasione, si ottiene ciò con dimostra- 
zioni cavate da esempi o con entimemi^ e quasi nuU'al- 

troO >• 

La Tessitura generale del libro della Retorica fa vede- 
re nella pratica la cura assidua di Aristotile di tenersi ai 
principj esposti sin qui, e particolarmente alla riconosciuta 
necessità di avvezzare a ben pensare le cose, chi voglia 
diventare un buono oratore; il ben dirle verrà in seguito a 
questo, e in secondo luogo. La massima parte del libro è 
trattazione psicologica, politica , morale, economica, è una 
rassegna di quasi tutta l'attività umana; una minima por- 
zione di esso è consacrata all'arte del dire . 

Le condizioni in mezzo alle quali si forma la persuasio- 
ne tengono a due classi primarie di concetti, l'una delle 
quali è costituita dalla materia trattata e dalle sue specie, 
l'altra dalla posizione del parlatore e del giudice. Vi è una 

(*) Rhet. I. 1. 12 e segg. 
Rhet. I. 2. 8. 



— 196 — 

necessità inerente alla trattazione delle cose, ed un'altra 
agli individui che debbono fare o ascoltare quella tratta- 
zione. 

A tre forme della materia trattata corrispondono tre 
sorte di discorsi retorici, e si ha cosi il genere Deliberati- 
vo, il Dimostrativo e il Giudiciale (*). 

La materia appartenente al genere deliberativo è tutta 
quanta caratterizzata dalla possibilità che la cosa in qui- 
stione possa essere fatta o non fatta (2), e può dividersi in 
cinque capi, attorno ai quali si aggirano quotidianamente 
le deliberazioni: del bilancio dello Stato, della pace, della 
guerra, della difesa del. paese, del comriiercio e della legi- 
slazione. (^) Io riporterò qui un brano, dal quale apparisce, 
come p^ Aristotile, la primaria qualità per un oratore 
uomo di Stato, sia la profonda cognizione della scienza 
politica . « Or chi prenderà a deliberare intorno alle 
rendite, fa d' uopo che conosca i proventi della città ; 
quali e quanti sieno, per potere, se ne manchi alcuno, 
aggiungerlo; e se alcuno sia basso, aumentarlo. Inoltre 
conosca tutte le spese della ci ttà^ perchè se ve ne sia 
di superflue, siano tolte, e se di troppo forti sieno dimi- 
nuite. Poiché non pur coli' aumentare l'entrata si arric- 
chisce, ma ben anche col detrarre dall' uscita. Il che non 
basta saperlo per privata esperienza, ma è necessario 
aver cognizione isterica degli spedienti adoperati dagli 
altri per poter deliberare su tali cose. — Per la pace e la 
guerra bisogna conoscere la forza della città; quanta sia in 
piede, e quanta se ne possa approntare, e di che natura sia 
la forza presente e quella da aggiungersi. E di più quante 
guerre abbia fatto e con che esito. Bisogna saper questo 
non pur della propria città^ ma anche delle confinanti. Od 

C) Rhet. I. 3, 3. 
(*) Rhet. I. 4. 4. 
(») Rhet. I 4. 7. 



— 197 — 

ancora con che sorta di nemico s'abbia a combattere, per 
potere* far la pace coi più forti, e coi da meno lasciare 
ad essi la scelta di entrare in guerra o no. E le forze, 
se sieno uguali o disuguali, perchè anche in questo non è 
indifferente essere superiori o inferiori. A questo effetto è 
necessario avere studiato non pur le proprie, ma le guerre 
altrui ed il loro esito; in casi simili possono aversi avveni- 
menti simili. — Per la guardia del paese, bisogna non 
ignorare la maniera di guardarlo, e il numero dei soldati 
e la forma e le località adatte per le piazze forti ( e questo 
non si pud, se non si ha cognizione del paese ), per aumen- 
tare la guardia ove sia debole, e alleggerirla ove sia su- 
perflua, e concentrarla nei luogi più adatti . — Oltre a ciò 
intorno airapprovvigionamento, quanta spesa basti ad ali- 
mentare la città, e che cosa produca ossa, e che cosa sia 
d'importazione, e di quali cose possa farsi esportazione ed 
importazione, per potere a proposito concludere patti e con- 
venzioni; è necessario proteggere i buoni cittadini tanto 
contro i più potenti, che contro i monopolisti. — Per la 
sicurezza poi è mestieri potere aver cognizione di tutte in- 
sieme queste cose; e non è cosa da poco l'intendersi di le- 
gislazione, che nelle leggi sta la salvezza della città. E 
però bisogna sapere quante sono le forme di governo^ e 
quali a ciascuna città sieno profittevoli, e da quali elementi 
sieno guaste, si propri, che eslranei. . . . Laonde è mani- 
festo essere alla legislazione di giovamento i viaggi ( dove 
s'imparano a conoscere le leggi dei popoli ), e alle delibe- 
razioni politiche le isforie di coloro che descrivono gli avve- 
nimenti: le quali cose tutte spetta alla Politica e non alla 
Retorica V insegnarle. Ma sono queste alle quaU più di 
tutto deve attendere chi si accinge a deliberare » ('). 

Questo quadro delle cognizioni necessarie a possedersi 
dall'uomo di Stato, mostra l'indole sincera e nuova che 

(') Rhat. I. 4. 8. segg. 



- 198 — 

Aristotile attribuiva alla Retorica, corredandola di un sus- 
sidio di solida scienza attinta alla Politica^ o come vedrem 
dopo, alla Psicologia o ad altre fonti . 

Prendendo la cosa più da alto, si può in fondo ad ogni 
deliberazione rintracciare un elemento comune a tutte, e 
che serve a dirigerle. La felicità è la base di ogni delibe- 
razione; ad essa e alle sue attinenze ed ai suoi contrari si 
riferiscono tutte le persuasioni e le dissuasioni Q). Ciò che 
conferisce alla felicità, cioè l'utile, è il fine di ogni delibe- 
razione. Ma non è di questo che si disputa, che nessuno 
contradirebbe alla ricerca dell' utile, ma dei mezzi che por- 
tano a questo fine; questi sono ricercati nelle azioni (*). 
Sarà dunque necessario conoscere il bene in tutte le sue 
manifestazioni (^), e i segni ai quali si può ravvisare il 
maggiore o minor grado dei diversi beni {*) . 

Ma più di tutto conferisce allo scopo della persuasione 
nel genere deliberativo la piena cognizione di tutte le co- 
stituzioni politiche, non che il fine di ciascuna di esse, per- 
chè nel deliberare si possa scegliere i provvedimenti che 
ciascuna costituzione conducono al suo fine. « Il fine della 
Democrazia è la libertà; dell' Oligarchia, la ricchezza; 
dell' Aristocrazia la disciplina, della Tirannide la conr 
servazione. E evidente che in ciascuna si abbiano a distin- 
guere costumi, leggi, ed espedienti, che sieno in ordine al 
suo fine (^) » . 

Il genere dimostrativo ha per oggetto la lode e il bia- 
simo. A questo deve dunque prepararsi l'oratore colla co- 
gnizione della virtù e del vizio, del bello e del turpe, del 
lodevole e del biasimevole, imparando ad applicare con giu- 
stezza queste nozioni (^). 

{•) Rhet. I. 5. 2. 

n Rhet. I. 6. 4. 

(•) Rhet. I. 6. 

(*) Rhet. I. 7. 

(») Rhet. I. 8. 

(•) Rhet. I. 9- >. ^ ' 



— 199 - 

Nel genere giiidiciario avendosi ad accusare e difen- 
dere, e trattare le ragioni del giusto e dell'ingiusto, sarà 
mestieri conoscere la vera qualificazione dell'ingiuria colle 
sue attinenze, sapere caratterizzare il giusto, ed usare ac- 
conciamente i dati del dibattimento. Le cagioni dell'ingiu- 
ria si trovano nel desiderio di trarre a se il bene, (*) ovve- 
ro nella bramosia del piacere (*). Oltre di che l'ingiuria 
debbe essere studiata nella parte di chi la fa e di chi la 
riceve ('). Il concetto dell'ingiustizia si dee completare 
colla considerazione della natura e dei gradi del giusto, (*) 
in attinenza dei qipli puossi graduare l'ingiuria {^). 

Per arrivare a produrre la persuasione, la cognizione 
delle cose è una necessità fondamentale; ma accanto a que- 
sta debbe tenersi conto di alcune condizioni attinenti al 
parlatore e al giudice. E importante nei giudizi saper di- 
sporre in proprio favore il giudice, che la benevolenza fa 
piegare il giudizio dalla parte ove piega l'affetto, testimoni 
gli amanti nel giudicare le colpe delle loro belle (^). Tut- 
tociò richiede per altro una cognizione profonda del cuore 
umano, in modo da potere con facilità volgerne ambo le 
chiavi. A questo riuscirà soltanto chi sappia come s' ecciti 
altrui all'ira (^), come si ammansisca (**), qual sia il segreto 
dell'amore e dell'odio (*), come si svegli il timore (**) e la 
vergogna (\^), come s'ingrazionisca e si svegli la misericor- 



{'] Rhet. I. 10. 
n Rhet. I. 11. 
(•) Rhet. I. 12. 
Ci Rhet. I. 13. 
(•) Rhet. I. U. 
(•) Rhet. IL 4. 
C) Rhet. II. 2. 
(•) Rhit. TI. 3, 
(•) Rhit. II. 4. 
(*•) Rhet. IL 5. 
(••) Rhet. IL 6. 



- 200 — 

dia e lo sdegno, Tinvidia e l'emulazione, (*) Tutte le età 
hanno i lor propri affetti e una particolar maniera di sen- 
tire, che rende difficile il maneggio del cuore a chi non 
conosca per qual via si arrivi ad esso. Che diversa è la via 
da tenere coi giovani, (*) e coi vecchi (^) e cogli uomini 
fatti. {*) Né lo stesso tono può adottarsi con le condizioni 
varie degli uomini, come coi nobili (^), e coi ricchi (*), e 
coi potenti (^). 

Coiranimo arricchito di siffatte cognizioni può Foratore 
con piena sicurezza aggruppare una potente falange di 
esempi, di sentenze, di entimemi, e scompaginare le mac- 
chine deir avversario, e guadagnare la persuasione. Al 
che se si aggiungerà una elocuzione peregrina, adorna di 
tutte le virtù del dire, e specialmente pura (^), decorosa, 
armonica elaborata e con uno stile adatto alla materia trat- 
tata, reso efficace da tutte le astuzie di un abile maneg- 
giatore di armi oratorie, come V interrogazione, il ridicolo 
ec. avrassi un oratore perfetto (*). 

Questo abbozzo delle materie trattate nella Reto- 
rica di Aristotile, può facilmente apprendere al lettore la 
verità di ciò che abbiamo sopra indicato circa la moralizza- 
zione e la riforma dell'arte del dire, e far conoscere il me- 
todo che Aristotile ha seguito nel trattarla. Tutto il libro 
è dominato dalFodio del falso; e all'oratore s'inculca di pro- 
curarsi scienza profonda delle cose, de' costumi, della natu- 
ra umana e delle sue debolezze, e il tutto porre in servizio 

(')Rhet. II. 7. 8. 9. 10. 11. 

O Rhet. II. 12. 

O Rhet. II. 13. 

(») Rhet. II. 14. 

(•) Rhet. II. 15. 

(•) Rhet. II. 16. 

f) Rhet. IL 17. 

(') c<jtt ^ipx^ fic ^£?«c TÒ i>X>jvtCiiv. Rhet. III. 2 o segg. 

O Rhet. III. 2 segg. 



■SOI 

del vero. Se si^dasse un'occhiata anche a molti retori 
d'oggidì, sarebbe facile accorgersi, quanto sieno arretrati, 
almeno in fa^to di metodo, di fronte nd Aristotile. E la 
scienza che Aristotile esige dall'oratore, non si appaga di 
consigliarla e dichiararla necessaria, ma quasi sempre ne 
traccia un rapido lua lucido contorno. Già ne abbiamo visto 
no saggio a proposito del genere deliberativo. Non posso 
trattenermi dal riportare qui come snggio Psicologico, un 
brano rimasto famoso come studio di costumi, ove si deli- 
nea un quadro delle tre età dell'uomo e delle variazioni che 
elleno portano sul suo modo di sentire, di giudicare e di 
agire . 

< I giovani dunque per costume son facili a concepire 
delle voglie, e pronti a cavarsele. locliini strabocchevol- 
mente alle cupidigie corporee si lasciano adescare ai pia- 
ceri venerei, e non son buoni a frenargli. Con gran legge- 
rezza mutano di voglie, e con quanto ardore s'invaghisco- 
no d'una cosa, con altrettanta facilità la prendono a noia; 
perchè le loro voglie sono acute, ma non durevoli, come fa 
la sete e la fame negli ammalati. Sono iracondi e di subita 
collera, e da quella si lascirino trasportare a' fatti. Perchè 
l'ira gli vince, e per punto d'onore non sopportano d'esser 
tennti a vile, ma'piglian fuoco al sospetto della menoma 
ingiuria. Ambiscono d'esser tenuti in gran contfl, ma più 
ancora di riuscire; perchè la gioventù ama di sopraffare 
gli altri, e a questo la porta il riuscire in qualunque modo. 
L'onore e la^'riuscita sono entrambi preferiti da loro alla 
ricchezza;\i 'danari non^gli tirano gran fatto, percliè non 
hanno'per anche provato ad aver bisogno. 

Non sono scaltriti, ma generosi e semplici per non aver 
ancora visto molta raalvagiià, si fidano di leggieri, per 
non essere stati ancora messi in mezzo troppo di frequente. 
Cosi abhandonansi facile alla speranza; che Ì giovani sono 
per loro natura in calore, come sono gli avvinazzati; e poi 
non hanno avuto tempo di provare molli disinganni. Anzi 



— 202 — 

i più vivono di speranza; che chi ha dell'avenire innanzi a se, 
spera; e chi non può guardare che il passato, è ridotto alle 
ricordanze. Ora i giovani hanno il più innanzi a se, e breve 
è il loro passato. A quella prima età npn sanno d'aver nul- 
la da ricordare, e allargansi nella speranza. E così per 
la stessa ragione sono illusi e speranzosi. Però ne diven- 
tano più coraggiosi, essendo pieni d'ardore e di speranza; 
l'uno gli fa sprezzatori del pericolo, e l'altra fiduciosi della 
vittoria; chi va in furia non ha paura di nulla, e chi spera 
bene, diventa intraprendente . 

Sono anche verecondi; perchè non son tratti da molto 
varie apparenze di bello, ma pur da quelle che la disciplina 
educativa ha loro insinuate. E pieni di grandezze e di sfarzi 
perchè la vita non gli ha ancora schiacciati: anzi ignorano 
le minute necessità, e la grandigia gli persuade di doversi 
occupare solamente delle cose grandi. E abitudine anche 
questa di gente speranzosa . 

Nelle loro azioni s'attengono piuttosto all'onesto che al- 
l'utile, perchè nel vivere guardano più alla creanza, che al 
conto loro. Quando si guarda al conto proprio si prende in 
mira l'utile, mentre il buon costume mira all'onesto. 

Pregiano l'amicizia e la compagnia assai più che le 
altre età, per il piacere che trovano nella comunanza di 
vita, e non misurano ancora le cose alla stregua delPutile, 
e cosi neppure gli amici . 

Se incappano in qualche fallo, lo fanno il più delle 
volte perchè trasmodano; hanno il vezzo di fare ogni 
cosa troppo. Troppo amano, troppo odiano, e in ogni altra 
cosa ad un modo. Si presumono di saper tutto, e lo spac- 
ciano; anzi è questa la ragione che gli fa trasmodare in tutte 
le altre cose. 

Quando fanno ingiuria ad alcuno, la fanno per ispregio, 
npn per fargli del male: sono invece compassionevoli per- 
chè tengono tutti per gente per bene e più valente che non 
sia; misurano gli altri dalla innocenza propria, e si persua- 
dono che sia a tutti fatto del male a torto. 



a 



- 203 — 

Amano la giocondità; perciò sono spesso faceti: la fa- 
cezia è un modo civile di malmenare la gente. Tali sono i 
costumi de' giovani . 

Ma i vecchi e quelli che toccano ormai ad un* età 
avanzata han costumi per la maggior parte opposti a' primi. 
Per aver vissuto una lunga età, ed esser passati attraverso a 
molti inganni e molti errori, e aver visto che nella massima 
parte delle cose umane vi son de' malanni, non tengono 
nulla per sicuro, e di qualsiasi cosa fanno minore stima 
che non meriti. Hanno sempre delle opinioni,' ma non di- 
cono di saper nulla. Stanno sempre intra due, e soggiun- 
gono ad ogni istante /brs^, facilmente^ e a ogni discorso 
fanno questa riserva e non accertano mai nulla. 

Sono maligni; è uso della malizia pigliare ogni cosa 
in mala parte. Sono anche sospettosi, per la lor diffiden- 
za; diffidenti per esperienza. E perciò non amano né odia- 
no con calore, ma secondo il precetto di Tiante amano come 
chi sta per odiare, odiano come chi sta per amare. E sono 
tangheri; perchè essendo una delle prime necessità la copia 
degli averi, eglino sanno anche per esperienza quanto è 
difficile far danaro e quanlo è facile dissiparlo. Son meti- 
culosi e d'ogni cosa s'allarmano; e in questo tengono oppo- 
sto costume de' giovani, che essi hanno cuor diaccio, e que- 
sti focoso. Dappoiché la vecchiezza apre la strada a ogni 
paura, e la paura è una specie di freddo dell'anima. Sono 
attaccati alla vita, e piili vanno attaccandosi eoll'avvicinarsi 
de' giorni estremi, perchè si fa viepiù viva la brama di ciò 
che si sente sfuggire, e le cos(^ che ci mancano son quelle 
che più si desiderano. 

Essi son teneri della propria persona più del dovere; 
questa tenerezza é una maniera di pusillanimità. E così 
vivon per T utile, invece che per il bello e l'onesto, assai 
più che non vuoisi, perché amano troppo se stessi; e 
r utile è bene per il nostro proprio essere, mentre l'one- 
sto è Ijene genericamente. S^)no slacciati piuttostochè 



\ 



— 204 — 

riservati; perchè non facendo stima conven^vol© dell'one- 
sto e dell' utile, fanno poco conto di quel che altri pensi 
di loro. 

Non hanno quasi mai buona speranza per causa della 
loro esperienza; la massima parte delle cose di questo 
mondo son mal disposte, e però ne segue che molte le vanno 
male; a questa esperienza aggipngesi in loro Tesser meti- 
culosi. Vivono di memorie meglio che di speranze; perchè 
la parte di vita che loro avanza è poca, ed è molta quella 
trascorsa, e l'avvenire è il terreno della speranza cornei 
lo è della memoria il passato. Questo dà ragione della; 
gran voglia di cicalare che hanno; vanno da mane a sera. 
raccontando quel che accadeva al loro tempo, e sì godono 
a ricordarlo. 

I loro sdegni sono aspri, ma impotenti, e i loro desiderji 
parte se ne sono andati, parte affievoliti, tantoché nop 
hanno più voglie né cercano di cavarsele, ma guardano 
unicamente al danaro. E però si vedono essere tempe- 
ranti a quelP età; perchè le loro cupidigie si allacchironoi, 
e son devoti al quattrino. 

Cosi regolano la loro vita secondo i loro disegni invece' 
di badare al retto costume; perchè il ragionamento gli 
mena all' utile, mentre il costume ha in mira la virtù. B"^ 
quando ingiuriano alcuno, lo fanno a fine di nuocergli^ 
non per fagli spregio . 

Anche i vecchi sono compassionevoli, ma non per la 
stessa cagione che i giovani; che questi lo fanno per filan- 
tropia, e quelli per debolezza; perchè ad essi pare di sen* 
tirsi cascare sul capo ogni malanno, cosa che avviene a' 
piagnucolosi per debolezza. Laonde non rifinano di lamen- 
tarsi, schifano le facezie e gli scherzi; che l'essere piagnu- 
coloso fa a' cozzi collo scherzevole. 

Quelli poi che si trovano nel vigor dell'età si vedono 
in fatto di costumi tenere una via di mezzo tra i giovani e 
i vecchi; scartando quanto v'è negli uni e negli altri di 



- 205 - 

smodato; e così non fanno troppo a fidanza, uso della gen- 
te temeraria, né son troppo timorosi, ma stanno con giusta 
misura tra l'uno e l'altro. Non prestano credenza a tutti e 
neppure sono sfiduciati di tutti, ma piuttosto si regolano 
secondo un sano criterio. Non indirizzano la loro vita all'o- 
nesto solamente, né al solo utile, ma ad entrambi. Non 
alla gretteria né alla prodigalità, ma al convenevole. Lo 
stesso modo tengono in fatto di collere e di cupidigie. Son 
prudenti con coraggio, coraggiosi con prudenza. E invece 
ne' vecchi e ne' giovani queste virtù son separate; perchè 
i giovani sono coraggiosi e sventati, e i vecchi sono pru- 
denti e paurosi. Per dir tutto in uno, quello che hanno di 
Uiono separatamente la gioventù e la vecchiaia, lo riuui- 
soono gli uomini fatti; e quello in che esse trasmodano o 
mancano, lo portano essi in una convenevole misura. 

In questo colmo d'età ci troviamo, in quanto al corpo, di 
trenta anni fino in trentacinque; quanto all'animo, circa li 
quarantanove » (0* 

0) Bbct. II. 12. e segg. 



— 206 — 



III 



Scienze Maturali. — Meteorologia 

e Zoologia 

Degli studi di Aristotile in scienze Naturali, poco più 
ci rimane oggidì che i libri della Meteorologia e delle Isto- 
rie degli animali . Il trattato della Fisica benché in alcuna 
parte contenga ricerche naturali, corrisponde piuttosto per il 
suo tenore generale a quello che noi chiameremmo oggi un 
trattato di Cosmologia — o anche Sistema del Mondo . 

Una parte delle ricerche, che oggi sono annoverate e 
classate nella Fisica, sono da Aristotile presentate nel suo 
libro della Meteorologia. 

Lo studio minuto de'fenomeni fisici era quello che si pre- 
sentava circondato per un elevato intelletto delle più grandi 
attrattive, ma non avea per base che pochissime conclusioni 
già fissate, ed era invece reso malagevole da ogni sorta d'in- 
certezza e di falsa apparenza. Le tradizioni scientifiche nel 
fatto di questi studi erano a' tempi d'Aristotile più assai di 
danno che di soccorso. I fenomeni che erano stati campo 
alle esercitazioni fantastiche de' teologi, e che coU'andare 
del tempo erano stati dalle . più strane teorie abbuiati o 
trattati senza ordine o metodo uniforme, in servizio di cia- 
scun pensatore e di ciascuna dottrina falsati, presentavano 
alla mano dello scienziato, che tentasse strigare una ma- 
tassa arruffata in tanti secoli, delle difficoltà pressoché in- 
sormontabili. Furono queste che sovente portarono il ge- 
nio Aristotelico a doversi appagare di alcuna spiegazione 
di fenomeni del lutto insufficiente, non valendo la forza di 
un solo uomo a rompere d'un tratto l'illusione creata da 
tante speculazioni . 

Ma Aristotile nelle scienze naturali, se si ha riguardo 
particolarmente al suo metodo, ci comparisce come il primo 



-. 207 — 

cbe sotioposo a minuta aualiai razionale tutti i fenomeni na- 
turali, scartando del tutto le concezioni fantastiche, e tjiianriu 
errava, errando colla ragione non colla fantasìa. Ciò si fa 
chiaro dal vedere come es.so in tutti i libri di scienz;i natu- 
rale pone da banda tutte le spiegazioni mìtiche, anche 
quAndo la sua spiegazione razionale non è esatta. Per que- 
sto lalo esso diventa come un ponte di passaggio tra la Fi- 
sica fantastica degli antichi e la nostra. Ben è vero che 
esso prende spesso a patrocinare àei^ìì enti di ragione, 
astratti, e gli tratta spesso come realità, ma quegli enti non 
sono più mitici, sono razionali. E in ciò sta anche la differen- 
za tra Aristotile e i naturalisti moderni. Che mentre esso 
cercava con tutta l'antichità iramediataraente successiva ^e 
realità che si nascondevano sotto la forma esteriore delle 
cose, i moderni cercano soltanto di scuoprire nella fenome- 
nalità l'ordine della coesistenza e della successione: la 
realità intima è dichiarata ricerca illusoria. (') 

Se a questa fondamentale mancanza metodica si ag- 
giunge la totale povertà dei mezzi di ricerca d'allora, aiuti 
che il ttimpo ha aumentalo in servizio della scienza nostra, 
farà meraviglia che Aristotile abbia potuto mettersi sulla 
strada delle ricerche naturali con tal successo, da fondare 
le origini della scienza. Citerò ad esempio la tesi generale, 
che uno dei primarj agenti dell' atmosfera è il calorico, tesi 
proclamata da Aristotile, egualmente che dai moderni. Con 
questa differenza, che 1' uno si è dovuto limitare a mostrar- 
ne l' azione nella formazione dei venti, o della pioggia e 
della rugiada, mentre gli altri coi sensibili strumenti che la 
scienza attuale possiede, hanno dato alla stessa lesi V ap- 
poggio di un numero sorprendente di fatti, e ne hanno 
tratto una serie di innumerevoli applicazioni. Lo stesso è 
avvenuto di ben molti e felici concetti intomo a* fenomeni 
nattirali, che Aristotile ha posto il primo in evidenza; dai 



(') Uw»i. Arìitot. Oratili. TTtbaruti. p. 123. 



- 208 — 

quali tuttavia, per la impossibilità di condurre le osservazioni 
colla pienezza necessaria, non ha potuto trarre il vantaggio 
che poteasene aspettare, e spesso gli ha immersi in una 
confusa farragine di concetti falsi. 

€ La Meteorologia, secondo Aristotile, racchiude tutti 
quei fenomeni, che sebben prodotti da leggi naturali, hanno 
tuttavia delle condizioni meno regolari che quelle dell' ele- 
mento primo dei corpi (V etere 7noventesi circolarmente Jj 
e che hanno luogo nello spazio più vicino alla rivoluzione 
degli astri; voglio dire, per es. la via lattea, le comete, le 
meteore ignite e a movimento rapido, che possiamo riguar- 
dare come delle accidentalità comuni air aria e all' acqua. 
Infine questa scienza contiene lo studio di tutte le specie 
della terra, delle sue parti, o delle proprietà di queste parti, 
che ci possono servire alla spiegazione de' venti e de' teiTi^ 
moti, e di tutte le circostanze che accompagnano i movi- 
menti provocati da essi. Fra questi fenomeni, alcuni ci sono 
inesplicabili; gli altri ci sono accessibili in una certa mi- 
sura. Noi tratteremo anche della caduta dei fulmini, degli 
uragani, delle tempeste, e di tutta quella serie di fenomeni, 
che colla loro combinazione divengono modificazioni di quei 
medesimi corpi (*) ». 

Questa descrizione del soggetto e della materia della 
Meteorologia non è molto chiara; e di qui si scorge in ch^ 
stato di confusione fossero le ricerche naturali, se Aristotile 
stesso non arriva a riprodurle con ordine; ed è bene a pro- 
posito sulla fine del brano citato presentata al lettore una 
dichiarazione di incompetenza alla trattazione di alcune 
quistioni. 

In sul principio della Meteorologia comparisce un esem- 
pio di quella formazione mentale di enti astratti, alla qual^ 
si deve l'inferiorità di Aristotile di fronte alla scienza moder- 
na, come abbiamo accennato di sopra. < Da prima fa duopp 

(') lIet«or. L 1. S. 



— £09 — 

losoere che questo mondo si coonette senza disooa- 
lUità, in qualunque modo ciò avvenga, alle rivoluzitmi 
.periori, di tal guisa che tutto il suo potente ordinamentu 
governato da quelle. Infatti il principio che dà U moto 
m tutte le cose deve essere considerato come causa prima. 
Di più questa causa è eterna; essa non ha &ne per il moto 
e circolare J che si compie nello Sfiazio; ma va a compirsi 
eternamente. Quanto a tutti .jutsti corpi .... il fuoco, la 
■terra e gli elementi analoghi servono ai fenomeni come 
una specie di materia; perchè è col nome di macèria che si 
chiama il sustrato dei fenomeni; mentre ciò che è causa, 
■nel senso di principio del moto, deve essere riguardato 
come la potenza propria ai corpi di cui il moto è eterno(') ». 
Questa divisione tra la materia e la forza, sulla quale 
Spesso ritorna Aristotile, e che la scienza moderna ha do- 
Tuto porre da banda, benché a ciò siasi risolta assai tardi, 
k il tipo di tutte quelle astrazioni, di cui fece sì grande 
■abuso la scolastica. All' infuori di questo malvezzo, dì cui 
l'origino Aristotelica è ben nota, di crearsi delle entità, 
4dle quasi-personiticazioni, delle cause e degli agenti a 
rappresentare la combinazione fenomenale di certi fatti, il 
inetodo seguito nella meteorologia e negli altri scritti di 
«cienze naturali, è quello stesso che te scienze tengono 
;gidì. La ditfereuza tra i Fisici-Teologi , o Ì Fisici- 
ìtafisici, i Fisici propriamente detti, cioò gli scienziati, 
pkella loro gradazione dì tempo come di metodo, è accennata 
I Aristotile in un passo, che già abbiamo in parte citato 
[trova. 
« Gli antichi e quelli che si occupano di Teologia Gup- 
Ipoagono che il mare abbia delle sorgenti, ed'è un{modo per 
essi di spiegare i principi e le radici della terra e del mare. 
Ettsi si son forse figurati di aver cosi un modo di presentare 
.qualche cosa di pili elevato e di più tragico nelle loro spi^a- 



(>)Metoor. I. 2.2. 



— 210 — 

zioni su questa parte dell* universo si considerevole ai loro 
occhi; ed hanno creduto, che il cielo tutto intiero non era 
fatto, che in servigio di questo punto attorno al quale era' 
costruito, e che questo fosse il più importante e il principio 
di tutto il resto ». 

« Ma delle genti più saggio, a senso di una saggezza 
puramente umana^ spiegano la formazione del mare col 
dire, che da prima la terra tutta intiera, e ciò che l'attor- 
nia, era liquida, e che una parte disseccata dal sole, e 
vaporizzandosi, cagionò i venti e i movimenti diversi del 
sole e della luna, e l'altra parte che restò diventò mare. 
Ed aggiungono essi che il mare disseccandosi diminuisce di 
volume, e che al fine si asciugherà per intiero. Alcuni di 
questi filosofi dicono anche che la terra scaldata dal sole 
produce una sorta di sudore, e che ciò rende salato il mare, 
perchè il sudore, secondo loro, è salato ». 

« Ma senza andar più oltre, bisogna dimostrare colla 
scorta dei fatti , che è impossibile, che il mare abbia delle 
sorgenti (*) ». 

Non essendo qui il luogo di esporre per esteso le dot- 
trine meteorologiche o fisiche di Aristotile, dovrò limitarmi 
a citare qualche passo da cui si vegga l' importanza meto- 
dica del suo lavoro nelle scienze naturali e la felice ispira- 
zione di alcuni concetti, in cui quasi potrebbe scorgersi 
un'anticipazione di scoperte che la scienza moderna per 
altre vie ha ripreso e sancito. 

E in primo luogo citerò un brano, nel quale sembra 
che Aristotile abbia presentito tutta la connessione, che la 
nostra scienza ha riconosciuto tra il moto e il calore; tanto- 
ché esso va all' esagerazione di questo legame, dichiarando 
quasi unica sorgente del calore solare il suo moto. 

« Noi vediamo con certezza che il movimento può divi- 
der r aria e infiammarla, a tal segno che i corpi trasportati 

(*) Meteor II. 1. 2. e segg. 



— 211 — 

in un movimento rapido sembrano talvolta liquefarsi. 
L' unica rivoluzione del sole basta dunque perchè il seccore 
e il calore si produca; perchè basta che il moto sia rapido e 
non troppo lontano. Il corso degli astri è rapido; ma è a 
troppa gran distanza; quello della luna è più vicino, ma è 
lento. Quello del sole riunisce i due caratteri in una giusta 
proporzione. Ciò che può farci credere con piena ragione 
che il calore è prodotto principalmente dal sole, sono i feno- 
meni somiglianti che l'osservazione ci insegna accadere 
presso di noi. Cosi noi vediamo sulla nostra terra Taria 
divenir caldissima, dove essa è in contatto con un corpo 
mosso violentissimamente; ed è cosa naturale, essendoché 
allora il moto del corpo solido divida Tarla estrema- 
mente (*) ». 

Questo brano mostra un esempio del come nelle dottrine 
naturali di Aristotile s' incontri spesso in mezzo a molti 
errori e false appreziazioni alcun concetto che mostra 
almeno la buona intenzione di tenersi alla osservazione dei 
fatti. Odasi con qual giustezza si parla della formazione 
delle nubi e della pioggia. 

€ La terra essendo immobile, il liquido che la circonda 
vaporizzato dai raggi del sole e da tutto il calore che pro- 
viene dall' alto, è portato in alto. Quando il calore che lo 
ha innalzato viene a mancare, sia che esso si disperda nella 
region superiore, sia che si estingua per esser portato più 
lungi neir aria che è al di sopra della terra, il vapore raf- 
freddato [per la scomparsa del calore e per il luogo^ si 
condensa di nuo^o, e ridiventa acqua, di aria- che era; 
r acqua così ricomposta è trascinata di nuovo verso la terra. 
L* esalazione che esce dall' acqua è vapore; e l'esalazione 
dell' aria cangiata in acqua è una nube. La nebbia è il resi- 
duo della conversione della nube in acqua, ed è perciò che 
essa annunzia il bel tempo piuttosto che la pioggia; perchè 

;* Matcor. I. 3. 20. 



- fil? — 

la nebbia è uaa sorta di nube, che non è formata. Del resto 
il cerchio di qu^sli fenumeni imita il cerchio del sole; per- 
chè ne! tempo stetìso che il sole prosegue il suo corso 
obliquo e cangiante, nel tempo stesso l'altro cerchio va 
anch'esso girando d'jilto in basso; e bisogna riguardario 
come UQ fiume, che scorre in alto e in basso circolarmente, 
e che è ad un tempo composto d' acqua e d'aria. Cosi quan- 
do il sole è vicino, il fiume di vapore scorre verso l'alto; 
quando è lontano, il fiume dell'acqua scorre in basso: e 
questo sembra accadere senza interruzione con una certa 
regolarità, di tal maniera che quell'Oceano, di cui gli anti- 
chi tennero parola, potrebbe esser preso per questo fiume 
che circola attorno alla terra. 11 liquido essendo sempre 
inalzato dalla forza del calore, ed essendo di nuovo precipi- 
tato per il raffreddamento verso la terra, si è trovato dei 
nomi convenienti per questi fenomeni e per alcune delle 
loro varietà (') ». 

11 lettore mi permetterà di citare ancora due brani, in- 
vero di una lunghezza eccezionale; citazione che è per altro 
resa inevitabile dalla impossibilità di far conoscere 11 meto- 
do Aristotelico nelle scienze naturali, altro che col porre 
innanzi agli occhi lo svolgimento di alcuna dottrina; il 
tracciare un quadro del contenuto totale de' libri dì scienza 
naturala, sarebbe fuori di luogo, e non raggiungerebbe lo 
scopo cercato. La salsedine del mare e alcune quislioni 
connesse danno ad Aristotile occasione di mostrare la sua 
maniera di pensare, e di richiamare le opinioni degli anti- 
chi, e contro di essi appellare costantemente ai fenomeni 
osservati . 

« Bisogna ora trattare della salsedine del mare, e 
domandarsi se il mare è sempre lo slesso, ovvero se ad 
una certa epoca esso non esisteva, e se ad un'altra epoca 
sia per cessare d'esistere, opinione che alcuni fllosotì 80- 



(') Met«or. 1. 9. 2. • aigg. 



J 



I 



— 218 — 

steDgODO. Dapprima è ud punto sul quale tutti sodo d'ac- 
cordo, cioè che il mare ha avuto uu cominci amento, se sì 
ritiene che il mondo intiero ahbia cominciato; perchè tutti 
sembra riconoscano che esso ha dovuto formarsi col mondo; 
e la conseguenza evidente di ciò è che se il mondo è eterno, 
bisogna credere che il mare lo sia con esso. — Ma l'imma- 
ginarsi, come fa Democrito, che il mare continuamente 
vada diminuendo di quantità, e che alfine s.'omparirà, è 
una opinione che sembra degna delle favole d' Esopo ('). E 
in tal maniera infatti che Esopo ci narra come Cariddi 
avendo dne volte inghiottito le acque nelle sue caverne, fe- 
ce sì che da prima uscissero fuori le montagne, in seguito 
le isole, e che infine metterà all'asciuto tutta la terra con 
una terza boccata. Era pienamente nell'indole del narra- 
tore di fivole, di spacciare questo racconto, per vendetta 
contro un navalestro col quale era in collera; ma questa 
maniera di fare non si conviene a chi cerca la verità; 
perchè qual che si sia la causa che da principio ha con- 
dotto il mare nel luogo che occupa, sia Ìl peso delle 
sue acque, come alcuni ritengono, spiegazione che si pre- 
senta a prima vista a chi faccia un po' d'osservazione, o 
sia qualunque altra, è evidente che la medesima legge de- 
ve necessariamente esser causa che il mare rimanga nella 
stessa posizione per l'avvenire. Infatti di due cose 1' una; 
o bisogna sostenere che l'acqua trasportata via per opera 
del sole, non tornerà sulla terra; o sì ella ritorna, biso- 
gna riconoscere di necessità, che questo fenomeno avrà 
I luogo sempre, diminuendosi il mare di una certa quantità, 
Hmcc[uistandola quando la porzione potabile sottratta sarà 

' (') Aristotile nel libro d« U a MDt«orologi& tratta quali abitnal- 

ment» con molto disprezzo Ì Fisici-Metafìiici, comti ti vode ancba 
da quAsto pnsso. Le sae opinioni non Bono il più delle volte di 
tns^or valore che quelle dei predecessori saoi, ma i affare di me- 
todo. Le false opinioni di Aristotile erano fondate fin ftilse OBSem- 
nonii e però correggibili. Le loro, su miti; • però iacorreggibili. 



- 214 — 

tornata di nuovo. Così il mare non si asciuga mai; perchè 
quella parte che prima se n'è andata, ben presto ritor- 
na in massa eguale; e ciò che si dice d'una volta, vale per 
tutte. — Che se si pretende di arrestare il sole nel suo 
corso, qual sarà allora il corpo che asciugherà il mare? 
Ma se si lascia che esso prosegua la sua rivoluzione, è 
chiaro, come abbiamo esposto, che la sua presenza porterà 
via sempre una parte potabile^ e la sua lontananza la la- 
scierà ricadere. Ciò che può aver dato origine a siffatta 
opinione sul mare^ è che si è potuto osservare come molti 
luoghi sieno in secco oggi^ e non lo erano in addietro. Ma 
noi abbiamo detto quale è la causa di questo fenomeno (*). 
E per una ragione analoga, una abbondanza eccessiva 
d'acqua sopravvenuta in certe epoche non costituisce che 
una modificazione dell'acqua e delle sue partii e non un 
cangiamento nella massa totale che essa forma. In seguito 
di tempo avverrà [tutto il contrario, e dopoché l'acqua si 
sarà prodotta, si asciugherà di nuovo, in guisa che il 
fenomeno si ripeta necessariamente in un circolo perpetuo. 
È infatti più razionale supporre che le cose stieno così, 
invece di credere che il cielo intiero sia posto a soqquadro 
da questi fenomeni. 

« Quanto alla salsedine del mare , coloro che la fanno 
prodursi tutto in un tratto, e coloro in genere che riten- 
gono che la si produca, sono nella impossibilità di spiegare 
come il mare sia salato. Infatti, sia che di tutta l'acqua 
sparsa sulla terra, parte sia stata elevata dal sole, e 
il resto sia divenuto mare, sia che in questa massa enor- 
me d'acqua, dapprima dolce, siasi mischiato un succo 
particolare proveniente da mistione di terra avente gusto di 
sale, non è meno certo che il mare ha dovuto esser salato 
sin dal principio ; 1' acqua vaporizzata torna poi ed in 
quantità eguale. Oppure se il mare, non era salato da prin- 

(') Vedi il brano ciluto più oltre. 



I 



— 215 - 

oipio, non poteva diventarlo più tardi. Ora se da principio 
era tale, resta sempre a dirne la causa, e nel tempo stesso 
a spiegare, se allora si vaporizzò in stato di acqua salsa, 
come avviene che oggi non succede lo stesso. DÌ piìi, quan- 
do si attribuisce la salsedine del mare alla terra che vi è 
mischiata, o dicesi che la terra ha sapori di tutte le sorte 
e che portata dai fiumi nel mare lo fa diventar salato 
mescolando visi, quando, dico, si sostiene tale opinione, si 
dovrebbe scorgere che riesce impossibile di comprendere 
come i fiumi non sieno salati al pari del mare. Come 
sarebbe possibile infatti che in una così gran massa d'acqna 
il miscuglio di questa terra fosse tanto sensibile, e che non 
lo fosse invece in ciascuna parte di questa acqua che viene 
per i fiumi. Perchè evidentemente il mare non è che tutta 
1* acqua fluviale; la quale non differisce da quella dei fiumi 
che per esser salata, e questa salsedine non si fa sentire nei 
fiumi altra che nel luogo ove tutti si riuniscono iu massa. 

« Non è meno ridicolo figurarsi di dire qualche cosa di 
chiaro, sostenendo, come Empedocle, che il mare è il sudore 
della terra. In poesia spiegazioni di tal sorta possono bene 
parer sufficienti; perchè la metafora è eminentemente poe- 
tica; ma sono evidentemente insufficienti a far conoscere la 
natura. Non si fa vedere neppure con questa teoria, come 
mai da una bevanda dolce provenga un sudore salato, e se 
ciò avvenga per disparizione della parte più dolce, o per 
mescolanza di qualche altro corpo, come nel caso delle ac- 
que filtrate attraverso alla cenere. La causa sembra essere 
qui la stessa che per la secrezione che si forma nella vescica; 
essa è amara e salata, benché la bevanda ingerita e il liqui- 
do che si trova negli alimenti sieno dolci. Se dunque, nella 
stessa guisa che l'acqua filtrata nella cenere doventa 
amara, succede lo stesso in entrambi le materie, perchè 
l'orina riceve nel movimento di discesa e nell' agglomera- 
zione dei liquidi una proprietà analoga a quella della salse- 
dine, a giudicarne al deposito che si forma al fondo dei 



— 2ie . 

vasi, e il sudore presenta questa stessa salsedine, che è 
estratta dalle carni, come se 1' umido che esce dal corpo 
trascinasse con se qualche cosa col lavarlo; è chiaro del 
pari che la porzione di terra che viene a mischiarsi col 
liquido è causa della salsedine del mare. Net corpo questa 
materia non è che un residuo di alimento non digerito. 

Resta a dire come ella si tro-va nella terra 

Così tutto ciò che si è detto sulla salsedine del mare sembra 
contrastare colla ragione. 

• Noi abbiamo stabilito che l'esalazione è di due sorte, 
r una umida e l'altra secca ('); e devesi evidentemente 
pensare che qui sta il principio di questi fenomeni. È di qui 
che partiremo ancora per risolvere questa quistione, che 
dobbiamo discutere prima di tutto, cioè se il mare sussista 
conservando le sue parti sempre eguali in numero, oppure 
se le sue parti sono in un perpetuo cangiamento di specie e 
di quantità; come lo souo le parti dell'aria, dell'acqua pota- 
bile e del fuoco. Ciascuno di questi elementi infatti cangia 
perpetuamente: ma la specie delia massa totale di ciascuno 
sussiste, come il flusso delle acque che scorrono e Ìl flusso 
della fiamma. Ora è evidente, '^e devesi ammettere che è 
impossibile che la legge di tutti questi elementi non sia la 
stessa. Evidentemeute non differiscono che per la lentezza 
la rapidità del cangiamento; ma v' è per tutti produzione 
e distruzione, e il cangiamento si applica regolarmente a 
tatti senza eccezione. Ciò posto, è necessario tentare dì dare 
la spiegazione della salsedine del mare. 

« È chiaro da molti indizj , che quel sapore deve prove- 
nire dal miscuglio di una certa materia. Così nel corpo la 
parte meno digerita è salsa ed amara, come abbiamo detto, 
ed è la secrezione degli alimenti liquidi quella meno digeri- 
ta; ora ogni residuo ha quella qualità, ma sopra tutto quello" 
della vescica. La prova ne è, che quel residuo è motto leg- 



{') EBalniioQs rapoTosa ed eaal&EÌoiie gassosa ( ? ) 




I 



- 317 — 

glero, mentre tutte le cose cotte si condensano natural- 
mente. 11 residuo che in seguito è più leggiero, è il sudore, 
e in tutti i casi è la secrezione del medesimo corpo che pro- 
duce il sapore salso. Lo stesso avviene ne' corpi bruciati; 
perchè la parte non consumata dal calore doventa negli or- 
ganismi viventi il residuo, e nelle sostanze bruciale la 
cenere. È questo, che ha fatto pensare a certi filosofi che il 
maro provenga dalla combustione della terra. È assurdo 
di esprimersi cosi; ma è ben varo che la salsedine del mare 
proviene realmente da questa specie di terra. Ciò che suc- 
cede infatti nel caso citato, deve succedere anche per il 
mondo intiero; e secondo che vcdesi nei fenomeni che la 
natura produce e che si compiono secondo la natura, biso- 
gna credere anche che pei corpi bruciati il residuo è una 
terra di cotal fatta, e lo stesso per l'esalazione totale nella 
esalazione secca. È essa infatti che fornisce egualmente la 
più gran parte di questa massa |imniensn. Or l'esalazione 
umida e l'esalazione secca venendo a mischiarsi, come ab- 
biamo detto, quando si cambinno in iiulti ed acqua, bisogna 
necessariamente che raccolgano in se qualche parte dì 
quella proprietà. Allora quella proprietà si trova traspor- 
tata nelle pioggia, e scende con esse; e tutti questi fenomeni 
procedono con un certo ordine, secondochè questi fatti com- 
portano • 

Del resto torneremo su tal soggetto in una occasione più 
conveniente. Ci basti di dire qui, che il mare essendo tale, 
vi è una parte di esso sollevata in alto, che diviene pota- 
bile, e che dopo essersi modificala in un'altra sostanza, 
ricade dall'alto sotto forma di pioggia. . . . Ciò che 
prova, che la salsedine del ra.ire proviene da qualche so- 
stanza è l'esperienza seguente. Se si pone nel mare un vaso 
di cera modellato a tale etTetto, e se ne tappa la bocca con 
materie impenetrabili al m.^^e, ciò che passa attraverso la 
parete di cera è acqua potabile. La parte terrosa è respìnta 
come da un filtro, e così anche quella sostanza, che produce 



— 218 — 

col suo miscuglio la salsedine del mare. È questa parte 
egualmente che fa il peso e la densità dell'acqua del mare. 
La sua densità è tanto considerevole che dei navigli, i quali 
collo stesso peso sarebbero colati a fondo nei fiumi, si tro- 
vano ad avere, appena giunti in mare, il carico giusto per 
navigare. Così Y ignoranza di questo fotto ha spesso cagio- 
nato dei disastri, perchè alcuni navigli si trovarono stra- 
carichi air entrare dal mare nei fiumi (0 *• 

In tutto questo brano e in altri moltissimi somiglianti a 
questo, sebbene poco o nulla si riscontri che possa soddi- 
sfare uno scienziato moderno, è peraltro rimarchevole Fuso 
largo e completo dell'iuduzione scientifica, la quale si vede 
qui in azione, e da se sola dirige tutta la trattazione e 
legittima o annulla le conclusioni. L'uso dell'induzione in 
Aristotile è silfattamente connaturato alla sua maniera di 
pensare e di argomentare, che non ne fa a meno in nessuno 
dei suoi libri. 

L'cJtro brano, che ho sopra accennato di voler citare, 
è il seguente, dal quale si ricava come Aristotile sapessa 
anche innalzarsi a quel grado elevatissiuìo di divinazione 
induttiva, che spesso caratterizza i più grandi genj scienti- 
fici. Il capitolo XIV del libro primo della Meteorologia, in 
cui si parla dei cangiamenti perpetui e reciproci dei mari 
e dei continenti, ricorda le più grandi divinazioni induttive 
dei genj naturalisti, che hanno la facoltà di intravvedere 
spesso delle grandi verità, benché sproporzionate al piccolo 
materiale scientifico da essi posseduto, come è avvenuto a 
Copernico e ad altri. 

€ I medesimi luoghi della terra non son sempre umidi 
asciutti; ma la loro condizione cambia a seconda del for- 
marsi sparire dei corsi d'acqua. Questo fa si che il conti- 
nente ei mari cambiano di posizione, e i medesimi luoghi 
non son sempre terre nò sempre mari. Il mare si avanza 

(*; Mwteor. II. 3. 



*w„ 



» 



ì 



— 219 - 

là ove era terraferma; e la terra emorgejà tti uuovo là dove 
di preseote vedcsi il mare. Bisogna credere d'altra parte, 
che questi fenomeni si succedono con un certo ordine e una 
certa periodicitii. 11 principio e la causa di colali movimenti 
si trova in questo, che l'interno della terra, al pari dtìl 
corpo delle piante e degli animali, ha le sue epoche di 
vigore e di deperimento. La sola ditìerenza è, che nelle 
piante e negli animali questi cauibìamenti non hanno luogo 
nelle parti separate soltanto, ma tutto intiero l'essere per 
una legge necessaria fiorisce o decade, menire per la terra 
al contrario questi cambiamenti sì fanno parzialmente per 

opera del freddo e del caldo ». 

« Quel che fa si che questi fenomeni ci sfuggono, è che 
tutta questa formazione naturale della terra si compie per 
via di aggiunte successive nell" intervallo di tempi iranien- 
Bamente lunghi, a paragonargli a quello della nostra esi- 
stenza; intiere nazioni spariscono e muoiono prima che si 
possa tener conio delle memorie relative a questi grandi 
cambiamenti dalla loro origine sino alla fine. Le distruzioni 
dei popoli sono considerevolmente rapide nelle guerre, altre 
volte provengono da delle epidemie o da careetie, e queste 
cause talvolta struggono i popoli d' un tratto, tal altra a 
poco per volta. Egualmente non ci sì rende conto delle 
trasmigrazioni dei popoli; mentre gli uni abbandonano 
affaltA la contrada, altri durano a resi.irvi sino a tanto che 
il suolo non sia più capace di nutrire alcuno. Tra la prima 
ossen'azione e 1' ultima deesi credere dio sia scorso un 
tempo così considerevole, che nessuno ne ha conservato 
memoria, e che quegli che poterono salvarsi e restarono, 
han tutto dimenticato per ciusa del lungo intervallo. Per 
la medesima maniera ci sfugge 1' epoca del primo stabili- 
mento delle nazioni sui terreni che si suu cingiali, e che 
essendo prima sommersi d<dle acque reslartmu in secco. 
Egli è perchè questo accrescimento del suolo abitabile non 
SÌ compie che poco a poco e nell' intervallo di lunghi secoli, 



— 220 — 

di maniera che non si sa più quali fossero ì primi ad abi- 
tark», né a quale epoca vi arrivarono, né quale fosse la 
condizione della contrada quando essi vi presero stanza. 
Questo appunto è accaduto all'Egitto. Quel paese sembra 
essere stato sempre più asciutto degli akri, e il terreno 
mostra ii' essere tutto formato dall'alluvione del Nilo; msk 
siccome i popoli vicini non si poterono recare ad abitarlo 
che dopo il successivo prosciugamento delle paludi^ la lon** 
tananza delle epoche ha fatto perdere ogni traccia delle 
origini. Si vede bene che anche tutte le bocche del fiume^ 
ad eccezione di una sola, quella di Canopo, mostrano d' es- 
sere state fatte per mano d'uomo e non per lavoro del fiume. 
Ai tempi addietro l'Egitto era ridotto alla regione che oggi 
chiamasi di Tebe; e ben lo prova la testimonianza d' Ome- 
ro, che era un testimone più prossimo a quei cambiamenti. 
Esso infatti parla di quei luoghi come se Mentì non esi- 
stesse ancora, o almeno non in quella floridezza che ebbe 
dipoi. E secondo ogni verosimiglianza le cose debbono 
infatti essere andate a quel modo; perchè le contrade basse 
hanno dovuto essere popolate dopo le regioni elevate. 
Infatti i luoghi più prossimi all'alluvione dovettero restare 
più a lungo paludosi, perché le acque stagnano sempre più 
nei luoghi bassi. Poi questa condizione si cambia e il suolo 
in seguito si risana. Ora i luoghi che restano all' asciutto 
diventano ognora più comodi, e quelli invece che già erano i 
più abitabili, disseccatisi oltre misura, lo divengono meno. 
È appunto ciò che è avvenuto in Grecia del paese d'Argo e 
di Micene. Infatti all' epoca della guerra di Troia la terra 
degli Argivi che era tutta paludosa non poteva nutrire che 
un piccol numero d' abitanti, la Micenia al contrario era 
allora in eccellente condizione; e da questo derivò la sua 
gloria. Oggi è precisamente il contrario, per la causa già 
detta. La Micenia è diventata del tutto sterile e riarsa; e le 
parti dell' Argolide che allora erano isterilite dall'inondazione 
^on diventate fertilissime. Or questo che è accaduto per quel 



- 221 - 
cantuccio di terra, accade precisamente allo stesso modo, 
secondo ogni apparenza, per contrade estesissime e paesi 
intieri. 

Coloro pertanto che non osservano altro che imperfet- 
tamente, credono che la causa di questi fenomeni e di 
questi cambiamenti risegga nel cambiamento dell'universo e 
del cielo intiero. E così essi affermano che il mare dimi- 
nuisce perchè va disBecc;^n(^lPsi, e che vcdonsi oggi in più 
gran numero luoghi cosi cambiati, di quello che non se ne 
vedesse prima. In queste asserzioni v'è del vero e del falso. 
È ben vero che pili luoghi sono allo scoperto oggi e mutati 
in terra ferma, che prima erano coperti dalle acque; ma 
succede anche il contrario, e a ben guardare si troveranno 
parecchi luoghi che il mare ha invasi. Non bisogna attri- 
buire al principio del mondo questi fenomeni, perchè sarebbe 
ràlicolo di ci^edere che l'universo si muova per cambiamenti 
sì pìccoli e sì meschini. La massa della terra e la sua gi-an- 
deeza è nulla se la sì paragona a tutto intero il cielo, asso- 
lutamente nulla. 

La causa che si potrebbe assegnare a tutti questi fatti è 
che, come a certe epoche fisse nell' anno 1' inverno prende 
posto tra le stagioni, egualmente si produca nn grande 
iovarno che abbia luogo a intervalli d' immensa durata, e 
che porti seco una stragrande abbondanza di pioggie .... 
Talché bisogna credere, che i luoghi che ricevono questo 
ammasso enorme di acque ne serbino come nua sorta di 
umidità permanente. E col tempo un luogo si secchi più 
e un altro meno, dopo essere stati ben bene ìnnafflatì, 
finché si svolga nuovamente questo gran periodo verso il 
luo ritorno. 

Siccome v' è necessariamente qualche cambiamento del- 
l' universo, senza che per altro ne consegua por esso nascita 
o distruiione, dacché e' sussiste eternamente, v' è egual 
necessità, eecondo che noi sosteniamo, che i medesimi 
luoghi non sieno sempre bagnati dal mare o dai fiumi, 




— 222 — 

e non sieno sempre riarsi i medesimi. I fatti son là per 
provarlo. Cosi gli Egiziani , che riconosciamo per i più 
antichi popoli, occupano un paese che mostra di essere 
ed è tutto intero opera del fiume. È facile convincersene 
osservando le loro contrade; e le rive del Mar Rosso ne sono 
un testimonio irrefragabile. Uno dei loro Re tentò aprire un 
canale; che se tutta la contrada fosse divenuta navigabile, 
i vantaggi che ne avrebbe risentito sarebbero stati conside- 
revoli; e fu Sesostri, dicono, che il primo tra gli antichi Re 
tentò questa impresa. Ma trovò che il Mare era più alto 
della terra. Lasciò dunque lo scavamento del canale, come 
dovette fare più tardi Dario, per timore che il mare venendo 
a mischiarsi col fiume non ne sbarrasse il corso del tutto. E 
dunque evidente che tutti questi luoghi non erano in antico 
che un mare non interrotto. E da questo proviene che la 
Libia e il paese d'Aramone sembrano più bassi e più sca- 
vati che non dovrebbe essere in confronto delle contrade di 
sotto. Ma è chiaro che formandosi V alluvione si origina- 
rono acque stagnanti e terra ferma, e col tempo l' acqua 
rimasta e che s' era impaludata venne a prosciugarsi del 
tutto. 

Nella palude Meotide le alluvioni dei fiumi sono state 
tanto considerevoli, che i batielli che s'adoprano oggi sono 
molto più piccoli di quelli di sessanta anni fa. Da questo 
is può facilmente concludere che neir origine quella palude 
fu come molte altre formata per opera di riviere, e che ella 
finirà per colmarsi del tutto. Di più il Bosforo ha sempre 
una corrente a causa delle alluvioni; e si può accertarsi coi 
propri occhi come vanno le cose. -Quando la corrente ebbe 
fatto un interramento dalla parte dell'Asia, quel che restava 
dietro diventò dapprima un piccolo padule, e poi si seccò; 
poi venne a formarsi un nuovo interramento dopo il primo 
e cosi un altro padule ancora. E cosi seguita perpetua- 
mente, A forza di ripetersi a più riprese questa formazione, 
fu ben forza cho col tempo ne nascesse un fiume il quale 



— 223 — 

finirà anch'esso col disseccarsi. È chiaro per conseguenza, 
che siccome il tempo non si arresta e l' universo è eter- 
no, il Tanai e il Nilo non hanno avuto sempre il loro corso, 
e il luogo dove corrono oggi le loro acque era una volta 
in secco; perchè la loro azione ha un limite e il tempo non 
rha, e questa osservazione può applicarsi a tutti i fiumi. 
Ma se i fiumi nascono e spaiiscono, o se i medesimi luoghi 
della terra non sono sempre coperti dalle acque, è mestieri 
di necessità che il mare subisca i modesimi cambiamenti. 
Dal momento che il mare lascia scopei'ti certi luoghi e va a 
bagnarne certi altri, è chiaro che sulla terra non sempre le 
medesime contrade son mari o continenti, ma tutte cam- 
biano di condizione coi secoli ». 



I libri di Zoologia, che ci restano, sombi'a sieno una 
parte soltanto di un grande lavoro di Aristotile intorno 
alle scienze naturali. Lo stilo frazionario in che ci son per- 
venuti, e tradizioni di scoliasti e di sforici degli studj peri- 
patetici lo confermano. A giudicarne particolarmente dalle 
parole di Plinio, Aristotile avrebbe composto una grande 
opera, in cui le sue conoscenze di storia naturale si trova - 
vano presentate tanto sotto l'aspetto descrittivo che filoso- 
fico. La storia degli Animali è una parte di questo lavoro, 
ed è, nel genere descrittivo, il più cospicuo libro che ci 
abbia lasciato l' antichità. Per la parte filosofica non ci 
rimangono che pochi opuscoli di autenticità dubbiosa. 

Ma la descrizione naturalistica nelle mani di Aristotile 
non potea mancare di indole scientifica e filosofica; le sue 
liste ed enumerazioni di parti, le sue osservazioni sui costu- 
mi e sulla vita, sulla nascita e sul movimento degli animali 
portano infatti una impronta di mente organizzatrice, che 
sa trarre dai fatti osservati una legge di classificazione e 
distribuzione metodica. 

Considerando il contenuto della storia degli Animali, 



— Sg4 — 

si vede distribuita Ih materia in quattro grandi Sezioni, 
alcuna delle quali è rimasta nelle abitudini della scienza 
zoologica dei tempi nostri. 

La prima grande Sezione tratta della conformazione e 
degli Organi degli Animali, ed occupa i primi tre libri fino 
a tutto il capitolo settimo del quarto. « Fin qui, dicesi alla 
fine di quel capitolo, abbiamo trattato delle parti sì interiori 
che esteriori di tutti gli animali, tanto di quelle proprie »i 
singoli generi, che di quelle comuni » ('). 

In questa Sezione s'incontrano delle suddivisioni, che 
ci mostrano avere Aristotile intravveduto, anzi creato il 
principio di costruzione della scienza anatomica, introdu- 
cendo in essa la divisione in Anatomia generale, Anatomia 
descrittiva ed Anatomia comparata. « Le parti degli ani- 
mali alcune sono semplici, perchè si dividono in particelle 
similari ( eì; ófiom^Epvi ) come la carne in carni; altre com- 
poste, perchè si dividono in parti dissimih («i; avoiJ.atofi£pri ): 
infatti non si divide la mano in mani, né la faccia in facràe. 
E però alcune di queste non si chiamano parti, ma mem- 
bra. ... Or tutte le anoraeomerie son composte dì 
omeomerie, come la mano di carne, nervi ed ossa » (*). In 
questa suddivisione, la trattazione delle omeomerie corri- 
sponde all'anatomia generale dei moderni, cioè al trattiito 
delle parti elementari di cui si compongono gU organi, ed 
occupa nel lavoro Aristotelico la piìl gran parte del libro 
terzo ( Gap. 2 sino al fine del libro ). La trattazione delle 
anomeomerie risponde all' anatomia descrittiva, occupando 
il primo e secondo libro e una parte del quarto. Qua e là 
disseminati s' incontrano poi i concetti fondamentali dell' A- 
natomia comparata, concetti che esso dovette creare, non 
trovandosi^alcun che di somigliante nei lavori e nelle idee 
de' suoi predecessori. Cerio che a noi, abituati ormai allo 



(') De An. hist. IV. 7. 8. 
(*) Ibid.I. 1.1. 



— «25 — 

studio il piò completo dell' anatonoìa comparata i concetti 
Aristotelici sembrano mes<Ahiiia coea; ma in queslo ordine 
di pensieri più ancora che in qualunque altro vuoisi tenere 
a mente la deboleeza dell' in&nzia scientìfioa, dtirante la 
quale c^ni piccolo giuocojdi forza che a noi può parere 
giuoco iofantile richiese maggiore ai-dire, che non fona i 
nostri sforzi giganteschi. Fin dal principio della istoria de- 
animali Aristotile aiccnn.'i a dei concetti di anatomia com- 
parata, che dovcano servirgli di guida nelle ricerche. «Ma 
il maggior numero delle parti degli animali differiscono tra 
loro per contrasto di formazione, come colore e figura; 
alcune sono in maggiore, alcune in minor grado conformale; 
e altrettanto avviene della abbondanza o della scarsezza, 
della grossezza o della piccolezza, e in generale dell'eccesso 
o della mancanza. Taluni animali hanno la carne molle, 
altri wda, alcuni un lungo becco, altri corto, alcuni niolte 
penne, alcuni poche. Fra gli uccelli stessi v' hanno alcuni 
eoo delle parti loro proprie; alcuni hanno lo sprone, altri 
no, alcuni hanno la cresta, che non hanno altri. Ma, a dir- 
la schietta, il maggior numero delle parti onde si compone 
l'insieme o sono le stesse, o differiscono per opposizione 
derivante da eccesso o difetto, (') Infine in certi altri ani- 
mali troviamo delle parti che non sono di specie identica, 
né eccessive o difettose, ma analoghe: in questo rapporto 
sta l'osso alla lisca, e l'unghia allo zocedo, e la mano alla 
zampa fessa, e la penna alla squamma; ciò che è la peana 
aell'uocello, lo stesso è la squamma nel pesce. (') Per le 
membra dunque in cotal modo differiscono o concordano 
gli animali; ma anche per la disposizione di esse, essendo- 
ri molti animali forniti delle stesse membra ma diveraa- 



(') Fru8 rimArclWToUuiQ 
mautt conssorato. 

(■] De Ah. HJat. I. 1.4. 



1, ch4 ta icieuza attutla ha piena* 



È 



~ 226 — 

mente situate: come le mammelle, alcuni le hanno al petto, 
altri vicino alle coscio. » Q) 

In conformità di questi concetti intorno all'Anatomia 
comparata si vedono da Aristotile poste in confronto le 
membra dell'uomo con quelle degli animali, e queste ricon- 
dotte nella classificazione a quelle dell'uomo, del quale pri- 
mariamente avea dato la descrizione, come di « animale 
più noto (*) ». E creando l'Anatomia comparata, non pure 
esso paragonò l'insieme delle parti esterne degli animali, 
ma ben anche fece conoscere l'analogia degli organi inter- 
ni, considerando per es. le branchie come analoghe ai pol- 
moni, e spingendo molto oltre il confronto degl' organi in- 
servienti alla digestione in tutto il regno animale. Tanto- 
ché se ne può ragionevolmente concludere, che il principio 
dell' analogia degli organi, benché spesso da Aristotile 
erroneamente applicato^ costituisce il vero principio del* 
l'anatomìa comparata; come può ricavarsi dalla conside- 
razione della scienza anatomica moderna, la quale ha 
tratto precisamente dall'analogia le più feconde conse- 
guenze; ed oggi dando a quel medesimo principio una più 
vasta portata, accenna con Darwin di voler sopra di esso 
ricostruire tutto il regno animale, e corredare quel con- 
cetto mentale di una base nuova nell'ordine della formazione 
successiva delle specie . 

L'anatomia umana in questa Sezione si riduce per altro 
a poco più che una descrizione topografica delle membra 
esterne, essendo le interne^ secondo l'espressione di Aristo» 
tile, pochissimo conosciute, ed essendo però necessario trat- 
tarne dietro all'esame de' visceri negli animali più vicini 
^'uomo. La massima parte degli errori anatomici di Arista* 
tile sono conosciutissimi, ina il più delle volte si è fatto carico 
ad esso de' suoi sbagli troppo più, che non siasi tenutp conto 

(') De An. Hist. 1. 4; 2. e segg. 
{•) De An. Hist. I. 6. 5. 



delle sue scoperta. Esso conosco il cervello e la membrana 
(meninge) che lo circonda; i nervi oUici, con-io via tra il cer- 
vello e g^li occhi, benché neghi l'esistenza una simile via Ira 
esso e gli orecchi; conosce le trombe Eustachiane, la trachea 
e la sua biforcazione e l'entrata ne' polmoni, ma ritiene una 
comunicazione tra i polmoni e il cuore del tutto erronea» 
facendola esso servire alla comunicazione dell'aria. Conosce 
l'esofago col suo ingr-^sso nHlo slomnco, e piil oltre nell'in- 
testino, come il peritoneo e il mesenterio. Descrive, sebbe- 
ne incompletamente 1' aorta, la vena cava, la carotide ec. 
Rammenta il diaframma, il fegato, le vessichette del fiele, 
i reni, la pelvi ec. Distingue le vene, i tendini, le libre, le 
ossa, le (rartilagini, la sostanza coiuea, la pelle e i capelli 
ec. e paragona la carne, il grasso, il sangue, il midollo, il 
latte, e lo sperma secondo la loro densità, colore ec. Tut- 
tocifì è contornato dalla descrizione delle parti nel loro com- 
plesso e nella loro posizione reciproca, e corredato di notizie 
inforno all'ordinamento di esse e alle loro funzioni. 

La seconda Sezione della storia degli Animali, che va 
dal cap. 8 del quarto Libro, fino alla fine del libro stesso, 
comprende la trattazione dell'uso e della disposizione degli 
organi dei sensi e della voce, si occupa del sonno, del sesso ec. 
Dal che si vede essere questa Sezione un assieme di consi- 
derazioni fisiologiche. Questa parte è i>er altro del tutto 
incompleta. Nulla sa Aristotile della circolazione del san- 
gue; la funzione del cuore è ridotta alla produzione e al- 
l'impulso del sangue, il cuore è ritenuto erroneamente 
centro nervoso, è sbagliata la descrizione delle funzioni pol- 
monari, e molto incerta quella degli organi digestivi. Più 
precise sono le considerazioni relative ai cinque sensi. Ma 
la più gran confusione regna nell'analisi delle funzioni 
nei-vose tanto nel loro rappoito ai sensi, quanto nella dira- 
mazione dei nervi verso i centri . 

La terza Sezione (quinto e sesto libro) tratta della gene- 
razione dello sviluppo degli animali. Questa parte presenta 




gVQflrìcameate i pregi e i difetti della antecedente. Mentre 
vi si riacontra una potenza di genio straordinaria nel susci- 
tare le ricerche e le quistioni, il difetto di esperienze suftì- 
cienti porta Aristotile in molti errori. E qual meraviglia di 
ciò, se intorno ai problemi della generazione e dello sviluppo 
degli animali si atfatiea anch' oggi con grande sforzo la 
scienza, e appena si può dire che abbia incominciato ad 
accumulare pochi dati sicuri? Aristotile presenta una nume- 
rosa serie di fatti relativi all'accoppiamento, all'epoche 
dell'amore, all'uso dei pesci di porre le uova, e osservazioni 
intorno alle uova di tutti gli ovipari, come un accurato stu- 
dio dello sviluppo del pulcino nell'uovo, della formazione 
del cuore, del cervello, degli occhi ec. assieme a molte 
notizie sulla vita embrionale di certi animali, e sulla durata 
della gestazione ec. La quarta ed ultima Sezione ( ottavo 
libro ) tratta delle abitudini ed istinti degli animali, partico- 
larmente in confronto coli' uomo. 

Un principio di Classificazione degli animali è tentata 
da Aristotile, col dividere il regno animale in generi, 
generi massimi, specie ec. Queste parole non hanno per 
altro la significazione loro attribuita dalla zoologia moder- 
na, ma piuttosto sono una nomenclatura portata a indicare 
le classi generalmente ricoaosciule negli animali al tempo 
di Aristotile, classi più popolari che scientifiche. La Clasea- 
zloae Aristotelica riconosce due grandi divisiooi dagli 
animali: 



'Evect/zct (rispondente ai vertebrati) 

1 . {oMTeKsOvra tvavzoCi (Manamiferi) 

2. Spvt^Ei (Uccelli) 

3. ■tttpdiitoùa ri àna3x t.>"eTO«ouwTa(Rettill ed Anfibi) 

4. l'x^wì (Pesci) 
A'wai^a ( rispondente ai non vertebrati ) 

5. fieùjiìtta ( Cefalopodi ) 

6. fiakaxóaTpiii.Kx (Crostacei) 



- 229- 

7. ivroiia (Insetti, Aracnidi, Vermi) 

8. (yTTpxxoiipiKXTa (Conchiglie, Lumache ec.) (*). 

Di tutto questo lavoro di Aristotile Cuvier faceva la più 
alta stima, e certo a questa fu portato dal considerare di 
quanta utilità per la scienza zoologica fu Y opera della 
storia degli animali, benché incompleta, benché sovraccarica 
d'errori. Egli è, che il metodo di ricerca era Inidato, ed 
ogni scienza, più che di tutto, ha mestieri di un metodo. 
Sarebbe inutile spender parole a indicare la somiglianza 
del metodo Aristotelico con quello della Zoologia moderna. 
L'elemento descrittivo, ebbe la prevalenza allora e l' ha di 
presente, e come Aristotile intitolò il suo libro storie m- 
tomo agli Animali, la scienza moderna prese con inten* 
dimenti analoghi il nome di storia naturale. 

Non voglio per altro tralasciare di richiamare Tatten- 
zione sul modo anti-aristotelico che tennero gli Aristotelici 
scolatici nel trattare le quistoni naturalistiche. Essi impa- 
rarono quel che Aristotile avea scoperto, ma non impara* 
rono da lui il metodo e l'abitudine di andare a scuola dalla 
natura sola maestra: ne accadde che essi centuplicarono 
gli errori di Aristotile, e sotto di essi affogarono le sue fé* 
liei ispirazioni, di cui solamente avriano dovuto fare buona 
messe. È una cosa rimarchevole, che nel libro delle storie 
degli animali Aristotile non cita mai l'autorità di alcuno; 
la descrizione procede sempre come racconto di un testimo- 
ne oculare. Ad Aristotile può rimproverarsi di aver osser- 
vato male, ma non certo di aver trascurato l'osservazione. 
Vedasi ora l'abitudine degli anatomici aristotelici, come 
stia in armonia col metodo di Aristotile. « Mi trovai un 
giorno, racconta Sagredo nel dialogo de' Massimi sistemi, 
in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni 

(*) Vedi Àubert und Wimmer. Arist. Thierkunde. Einl. s* 94 
e segg. 



— 230 - 

per lo studio, ed altri per curiosità convenivano talvolta a 
veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente 
non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accad- 
de quel giorno che si andava ricercando l'origine e nasci- 
mento dei nervi^ sopra di che è famosa controversia tra i 
medici Galenisti e i Peripatetici; e mostrando il notomista, 
come partendosi dal cervello e passando per la nuca il gran- 
dissimo ceppo dei nervi, si andava pei distendendo per la 
spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo 
sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un 
gentiluomo, ch'egli conosceva per filosofo Peripatetico, e 
per la presenza del quale egli avea con estraordinaria dili- 
genza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s'ei restava 
ben pago e sicuro, l'origine dei nervi venire dal cervello e 
non dal cuore; al quale il filosofo, dopo essere stato alquanto 
sopra di se, rispose; Voi mi avete fatto vedere questa cosa 
talmente aperta e sensata, che quando il testo di Ari-- 
stotile non fusse^ in contrariOy che apertamente dice i 
nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza con- 
fessarla per vera (*) ». 

(*} Galileo opere. Voi. I. p. 121, ediz. Albóri. 



— 281 — 



IV. 



Ìj tt Biologia. 



Non è senza ragione l' intitolare Bioloffia il contenuto 
del presente capitolo. Questa parola aioderna applicata ad 
una scienza moderna, si adatta a capello al modo di trat- 
tare la qiiistione dell'anima tenuto da Aristotile nel suo 
libro dell'Anima; unico esempio dell' antichità, s' incon- 
tra in quel libro uno sguardo generale alle manifestazioni 
graduate della vita, le quali soltanto la Biologia nostra 
ha saputo valutare nel toro vero ordine. 

I predecessori di Aristotile, e particolarmente Platone, 
aveano presentato il concetto dell'anima ( razionale ) come 
di un ente sostanziale, distinto dal corpo, e in esso rac- 
chiuso, simile ad un prigioniero nel suo carcere, o ad un 
uomo nella sua abitazione, o ad un nocchiero nella sua 
nave, t'otal dottrina si ispirava originariamente alle tradi- 
zioni religiose della Metempsicosi, e Platone se n' era 
silfattamenle invaghito da fare quasi una teoria scìentifìca 
di questa, come abbiamo visto di sopra. 

Aristotile si rivolta il primo contro queste dottrine e 
contro r ente sostanziale separato di Platone, e facendo del- 
l'anima la funzione primaria della vita organica , trasporta 
le sue ricerche dalla specie umana a tutto il regno orga- 
nico. 

II libro dell'auima in cui Aristotile espone i suoi concetti 
in proposito, è dei più rimarchevoli, e nella massima parte 
della trattazione sì vede essere forse giustificata l'accusa di 
materidisruo, ciie gli hanno fatto alcuni filosofi dell' anti- 
chità e del tempo moderno. 

Non è senza interesse dì incominciare ad udire alcuni 
pensieri che sommariatuente Aristotile esprime nell'atto di 




- £32 — 

rigettare tutte le teorie dei predecessori intorno all'anima. 
«Tutti i filosofi, può dirsi, definiscono l'anima per tre 
caratteri: il movimento , la sensazione e l' immateria- 
lità ....(') Anassagora solo pretende, che l' intelligenza 
è impassibile, e eh' essa non ha nulla di comune con tutto 
il resto. Ma se è tale, come può fare a conoscere, e per 
qiial causa? è ciò die esso non ha detto, e non si può argui- 
re ....('') È inesatto dire che l'anima sia una grandez- 
za .... L' intelligenza è una e continua nel modo stesso 
che il pensiero; ora il pensiero sono i pensieri. E questi 
formano unità, perchè sì succedono, eguale a quella del 
numero, e non a quella della grandezza. Ecco perchè l' in- 
telligenza non è continua al modo della grandezza ...(') 
Inoltre il pensiero rassomiglia, può dirsi piuttosto a un 
riposo, elle ad un movimento ( circolare ) ed è lo stesso del 
sillogismo. D'altra parte una cosa non porta felicità quando 
non è facile e si eseguisce per forza; e se il movimento 
(circolare) non è l'essenza dell'intelligenza, l'anima sa- 
rebbe dunque mossa contro sua natura. Ed è ancora una 
condizione penosa per essa dì essere unita al corpo, in modo 
da non potersene liberare. Ben più è uno stato ch'essa de- 
ve fuggire, se per l'intelligenza, come si sente dire, è me- 
glio non essere unita al corpo ('). 

« Dicesi che l'anima è un'armonia; l'armonia, aggiun- 
gesi, è un miscuglio e un composto di contrari, e il 
cwpo è anch'esso composto di contrari. Ma l'armonìa 
è un rai^rto, o nna combinazione di cose mischiate, 
e non è possibile che l'anima sia l'una cosa uè l'altra. 
Di pili produrre il movimento non si addice a un' armo- 
nìa; eppure è all' anima che tutti, per così dire, attri- 



(') Do An. I. 2. 20, 
0) Ibid. I. 2. 22. 
(•)DeAii.LS. 13. 
(')lbiiì. I. 8. 17. 




buisooDO questo effetto. La parola armonìa bì adatterebbe 
alla salute e io generale alle virtù corporee assai meglio 
che all'anima ... Se la parola armonia ha due sensi prio- 
, che non bisogna perdere di vista, nel suo signiticato 
più speciale si applica alle grandezze considerate nelle cose 
che sono in movimento e proporzione, per esprimere la 
combinazione di quelle grandezze, quando elleno si armo- 
nizzano io maniera da non presentare tra loro nulla d' o- 
mogeneo. Di più significa an'^ora la proporzione delle cosa 
mischiate; ma si vede ciie questa parola non è applicabile 
qui né in un senso né ncLl' altro. Quanto a supporre, che 
l'anima è la combinazione delle parti del corpo, è facile 
confutare questa ipotesi. Le combinazioni di queste parti 
&yao tanto numerose quanto diverse. Ora di quali elementi 
puoBsi egli supporre che l'intelligenza sia la coni binazione? 
Come mai la sensibilità o la passione sarebbe essa una com- 
lùnazione dital sorta? E egualmente assurdo di credere che 
l'anima sia la proporzione del miscuglio; percliè il miscu- 
glio degli elementi che formano la carne non ha il medesi- 
mo rapporto di quello che forma le ossa. Bisognerà dunque 
sostenere che vi sono tante anime, quanti corpi, se è vero 
che tutti i corpi provengono da elementi mischiati, e che il 
rapporto del miscuglio sia l'armonia e l'anima .... Tali 
sono le quistioni che si possono porro innanzi qui. Ma se 
l'anima è qualche cosa di diverso da quel miscuglio, per- 
chè la vita le vien tolta nel tempo stesso che è tolta alla 
carne e alle altre parti dell'essere animato? Di più poiché 
ciascuna delle ptrtt del corpo non ha un'anima, se l'anima 
non è il rapporto di quel miscuglio, che cosa Ò dunque che 
vien distrutto quando l'anima viene a mancare? (<) 

« La maggior parte delle altre teoriche che si son date 
intorno all' anima, sono erronee per questo lato, che si pre- 
tende unire l'anima al corpo nel quale la si pone, e non si 



0) De An. I. 4. 10. 




~ 234 — 

determina per qual causa vi si unisce, e come è disposto il 
corpo a riceverla; il che sembrava necessario a farsi .... 
parrebbe che qualunque anima senza preferenza subisca qua- 
lunque corpo, come favoleggiano i Pitagorici; invece sembra 
che ciascuna cosa debba avere la sua particolare specie e 
funzione. Il loro discorso suona, come chi dicesse che V ar- 
te del fabbro si possa servire di cornette musicali; perchè, 
al loro dire, come l'arte si Serve degli attrezzi, cosi l'anima 
del corpo (*) >. 

€ Si potrebbe dubitare con più di ragione, che l'anima 
si muova, fondandosi sulle seguenti considerazioni: l'anima 
si rattrista e si rallegra, ella è sicura o tremebonda, si 
sdegna e sente e pensa. Questi sembrano tanti movimenti; 
e però potrebbe credersi, che l'anima si muova. Ma tal 
condizione non è necessaria. Infatti il rattristarsi o il ralle- 
grarsi il pensare sono, dicesi, certamente dei movimenti, 
ed è l'anima che gli produce. Per esempio sdegnarsi, te- 
mere avranno luogo perchè il cuore sarà mosso di una certa 
maniera, e il pensare è forse qualche cosa di simile o qual- 
cosa di analogo. Or questi fenomeni si producono per lo 
spostamento di alcuni elementi messi in moto o per l'alte- 
razione di certi altri . . . Ma sostenere che è l' anima che 
si sdegna, torna lo stesso che dire, che è l'anima- che tesse 
una tela, o che fabbrica una casa. Sarebbe forse meglio 
dire, non che è l'anima che s'impietosisce o impara o pen- 
sa, ma l'uomo coli' anima (^) ». 

Io ho raccolti questi sparsi pensieri, disseminati nella 
polemica di Aristotile contro i suoi predecessori circa la 
quistione dell'anima, perchè possono servire a dilucidare 
e preparare le dottrine che sono esposte in seguito. Aristo- 
tile rigetta tutte le teorie poste innanzi dai filosofi prede- 
cessori suoij ma specialmente le due seguenti: quella che 

(') De An. I. 3. 22. legg. 
0)lbid. 1.4. 40. 



sosteneva che 1' anima dovesse il suo potere conoscitivo al 
fatto dell'essere composta dei quattro elenieati, e quella poi 
che dava all' anima la qualifica di semovente. 

Esso osserva che nessuno dei filosofi ha messo in buo- 
na luce il pensiero e la considerazione di tutta la varietà, 
delle anime nella loro cradszione, talché le loro teorie non 
possono servire a classificare le anime stesse, né a formare 
uo concetto ciiiaro della loro essenza. 

Aristotile riconosce la uecessilà che una buona teorìa 
dell'anima deve egualmente soddìstare alla spiegazione 
dell'anima vegetale, come alla spiegazione delle elevate 
funzioni dell'anima umana e divina. 

Per comporre la sua teoria, esso non ricorre alla vita 
eatramondana, come Platine, ma consideia le cose nella 
presente condizione del mondo, e si serve di un concetto 
che domina tutta la sua Ontologia, la distinzione tra la 
Materia e la Forma. 

Nel primo e secondo capitolo del secondo Libro de 
Anima si trovano espressi ì concetti di Aristotile intorno 
idl'anima umana e a tutta la natura animata, con tanta 
chiarezza, da non aver bisogno di alcuna interpetrazione. 

« Tentiamo di definire che cosa è l'amma, e darne la 
nozione più generale possibile. 

< Diciamo dapprima che la sostanza è un genere parti- 
colare fra le cose che esistono; e nella sostanza bisogna di- 
•tinguere in primo luogo la materia, che è ciò che non à 
costituito di per se in una data individualità; e poi la /'or- 
ma e la specie, che fa che una cosa sia quel eh' eli' è; in 
terzo luogo la cosa risult;inte da tjueste due. La materia è 
poten 3 ia lilà, \3i. specie è atto e funzione perfetta (èvrtW- 
X«<a)- Sono i corpi quelli che massimamente sembrano esse- 
re sostanze, e fra questi più particolarmente i corpi delia 
natura, perchè son principio degli altri (prodotti dell'artej. 
Fra i corpi naturali, alcuni hanno la vita, alcuni nò; e vita 
chiamiamo il nutrirsi di per se, lo svilupparsi e il deperire. 



Così ogni corpo naturale vìvente è sostanza, e sostania 
composta nella maniera sopraindicata. Tale essendo il cor- 
po, e così dotato di vita, il corpo non sarà anima: perchè 
il corpo non è di quelle cose che possono attribuirsi ad un 
soggetto, ma piuttosto esso fa da soggetto e materia. È 
necessario dunque che l'anima sia sostanza solamente in 
quanto è specie di un corpo naturale, che ha in potenza la 
vita, sostanza come funziono perfetta, funzione perfetta di 
un siffatto corpo .... E bisogna intendere di un corpo or- 
ganico. Così le parti stesse dolle piante sono degli organi, 
ma degli organi eccessivamente semplici, come il petalo, 
che è l'inviluppo del pericarpo, il quale è l'inviluppo del 
frutto. Lo radici rispondono alla bocca; perchè dall'una e 
dalle altre si ingerisce| l'alimento. Se dunque vuoisi una 
definizione comune ad ogni sorta d'anima, si dirà essere 
la superiore funzione perfetta di un corpo naturale 
orgaìiico (')». 

Non deesi dunque domandare, se il corpo e l'anima sie- 
no la stessa cosa, come non si domanda se sia lo stesso la 
cera e la figura impressa, e così neppure la materia di qua- 
lunque cosa e ciò di cui è materia .... 

Abbiamo dunque detto in universale, che cosa è l'ani- 
ma: è la sostanza razionalmente concepita; or questa per 
un corpo qualunque è d'essere ciò che esso è; e per esem- 
pio se uno degli stromenti di cui ci serviamo potesse esserft 
nn corpo naturale, poniamo un'ascia, la sua sostanza ra- 
zionalo sarebbe di essere ascia, e questa sarebbe l'anima 
sua, perduta la quale, non sarebbe ascia se non che di no- 
me Si può applicare questo anche alle parti dell' es- 
sere animato. Se l'occhio fosse l'animale, la sua anima sa- 
rebbe la vista; perchè questa è la sostanza razionale del- 
l'occhio; e l'occhio è la materia della vista; la quale se 
venga a mancare, non si avrà che \\i\ occhio di nome, non 



(') i.r.\, 



t'x»* n ft^wTn 7«ùfi<iT«e fvtiwi «pyrnuv. Di Ab. IL 1. 6. 



■^ --j. 



I 



— «37 — 

diverso da nno scolpito o dipinto. Or ciò che s'è detto di 
una parte, è mestieri applicarlo a tutto il rorpo vivente. . . 
Come dunque la facoltà di tagliare è l'essenza dell'ascia, e 
la vista è l'essenza dell'occhio, cosi l'anima ò lo stesso che 
la vista neir^occhio e il filo nell' ascia: il corpo è ciò che è 
in potenza; ma come l'occhio si compone della pupilla e 
della vista, cosi l'anima e il corpo formano l'animalo (') » . 

A render completa questa dottrina sull'anima, Aristo- 
tile volge uno sguardo a tutto il mondo organico, a tutte 
le manifestazioni della vita, e dichiara che l'anima e la 
vita umana non sono che il gradino supremo della scala 
degli esseri viventi . 

« L' essere animato si distingue dall' essere inanimato 
per il vivere. Vivere sì dice in più modi: un essere vive, 
quando possiede anche una sola delle seguenti cose: intel- 
letto, senso, locomozione e riposo nello spazio, movimento 
per fatto di nutrizione, accrescimento e deperimento. Laonde 
anche le piante appariscono dotate di vita, per avere in se 
stesse una forza e un principio dal quale traggono il loro 
accrescimento e il loro deperimento in sensi contrari. Per- 
chè non crescono solamente in alto e non in basso; ma si 
sviluppano e si nutriscono egualmente nell'una e nell'altra 
direzione e in qualunque verso, e vivono tutto il tempo 
che possono trarre il nutrimento. Egli è perchè questa fun- 
zione può essere separata dalle altre, ma le altre da essa 
no, negli esseri mortali: il che si vede nelle piante, nelle 
quali nessun'altra potenza dell'anima s'incontra. Questo è 
dunque il principio della vita in tutti gli esseri viventi: ma 
l'animale è costituito primitivamente dal senso; ed è per 
questo che anche gli esseri che non sono dotati dì locomo- 
zione, se hanno la'sensihtiità, diciamo che non solamente vi- 
vono, ma sono 'animali. Il primo senso che appartiene a tutti 
gli animali è il tatto: e come la nutrizione può isolarsi dal 



ODeAn. li. 1. l.flMgg. 



— 238 — 

tatto e da ogni sensibilità, egualmente il tatto può isolarsi 
da tutti gli altri sensi. Noi chiamiamo facoltà di nutrizione 
quella parte dell'anima che è comune anche alle piante; ma 
tutti gli animali senza eccezione sembra che abbiano il sen- 
so del tatto. Diremo più tardi la causa di ciascuno di questi 
fenomeni. Per il momento limitiamoci a dire, che V anima 
è il principio delle facoltà sopra indicate e si trova definita 
da esse, cioè: la nutrizione, la sensibilità, il pensiero, il 
moto. 

Ciascuna di queste facoltà è essa l'anima, o solamente 
una parte dell'anima? E se è una parte, è tale che possa 
separarsi soltanto mentalmente oppure anche materialmen- 
te? Sono quistioni, alcune delle quali possono facilmente 
essere risolute, ed altre presentano grandi difficoltà. Così, 
come nelle piante alcune vivono dopo averle divise e sepa- 
rate, quasiché l'anima per questi esseri fosse perfettamente 
e realmente una in ciascuno di essi, e molteplice in poten- 
za; del pari vediamo in un'altra classe d'anime, un feno- 
meno analogo prodursi negl'insetti che si tagliano. Ciascuna 
delle loro parti possiede la sensibilità e la locomozione; e 
se hanno la sensibilità, hanno ancora l'immaginazione e 
l'appetito; perchè dove è senzazione, havvi pena e piacere, 
e dove sono queste affezioni, vi ha necessariamente cupidi- 
tà. Non v'è nulla di chiaro ancora intorno all'intelletto e 
alla virtù speculativa; ma sembra essere un diverso genere 
d'anima, e questo solo possa separarsi come l'eterno dal 
caduco. Quanto all' altre parti dell'anima, i fatti provano 
bene che non sono separabili, come si è sostenuto talvolta; 
ma razionalmente elleno sono differenti; manifestamente 
perchè è diverso l'essere sensitivo dall'essere pensante, per- 
chè sentire e giudicare son cose diverse. E così delle altre 
facoltà nominate. Di più alcuni animali le possegono tutte, 
altri alcune, altri una sola. Ciò costituisce la loro differen- 
za; e noi vedremo più tardi quale è la causa di questo. Ma 
avviene qualche cosa di somigliante per i sensi; altri non 



ne haano che alcuni; altri un solo, ed è allora il più neces- 
sario, il tatto (')». 

II pensiero di Aristotile apparisce qui abbastanza mani- 
festo. Esso trasporta la quistione dell'anima sul terreno 
della Biologia, e non esita a porre l'anima come funzione 
superiore del corpo vivente. Questa dottrina cozza con qua- 
si tutte quelle dei predecessori, ma è poi essenzialmente 
antagonistica di quella di i'iatone. 

Le conseguenze che se ne possono trarre, e che Aristo- 
tile stesso ne ha trntto, cons-uonauo col significato generale 
di quella dottrina. La più importante di queste è la identi- 
ficazione dell'anima colla funzione vitale. La vita, dice 
espressamente Aristotile, si manifesta per quattro gradi, nu- 
trizione, locomozione, sensilività e intelligenza. Eia tutti 
questi gradi è l'anima che rappresenta la funzione superiore 
del corpo vivente ed organico, secondo che esso sia vege- 
tale, animale, od umano. Esso dichiara espressamente, che 
se vi fosse una causa della vita diversa dall'anima, quella 
sarebbe la. vera anima (*). Nella vita si ha una serie ascen- 
dente in perfezione, che aumenta la facoltà degli ordini 
inferiori e loro ne aggiunge uno suo caratteristico. Questa 
serie determina i suoi gradi con varie specie di funzioni 
proprie, che si dicono anime. La legge di questa serie 
regolare porta « che senza nutrizione non ha luogo sensi- 
bilità; ma la nutrizione nelle piante è separata dalla sen- 
sibilità. I)'altr.i parte senza il tiitto nessun '+l(ro senso esiste. 
Ma il tatto può esistere senza gli altri; cosi molti animali 
non hanno uè la vista né l'udito, e son privi dell'odoralo. 
Fra gli esseri dotati di sensibilità, alcuni possiedono la loco- 
mozione, altri no. Intìpe pochi animati hanno ti ragionamento 
e il pensiero. Quelli che hanno il ragionamento, hanno 
anche tutte le altre facoltà; ma quelli che non ne hanno 



(■) De An. II. 2. 1. 

(*) De An. I. 5. 23. t 34. 



— 240 ~ 

che una, non hétnnò tutti il ragionamento. Inoltre alcuni 
sono privi d*immaginazione, mentre altri non vivono che 
per essa. Dell' intelletto speculativo, sarà parlato a suo 
tmipo. E dunque evidente, che la definizione che conviene 
meglio a ciascuna di queste facoltà, è anche quella che me- 
glie conviene all'anima (^) » . 

È uno de' più bei lavori Aristotelici l'insieme delle os-- 
servazioni; colle quali la serie de' gradi della vita è illu- 
strata, incominciando dalla nutrizione fino all'intelligenza. 
L'esame di quelle dottrine ci devierebbe dal nostro scopo, 
che è di conoscere il metodo di Aristotile nello studio della 
Psicologia. E mestieri dunque limitarsi a qualche raggua- 
glio circa la suprema tra le anime quella che porta per 
caratteristica la intelligenza . 

L'anima, secondo i concetti di Aristotile, è comune a 
tutti i corpi viventi, e si classifica secondo diverse varietà. 
Ma queste varietà non sono aggruppate quasi in un gene- 
re, di cui elleno sieno specie, ma sono distribuite in gradi 
successivi che si restringono in estensione mentre si allar- 
gano in comprensione. Il primo o più basso grado che ha 
tutta l'estensione della serie de' corpi viventi è caratterish 
zato da due o tre semplici attributi; l'altro aumenta di al- 
cuni attributi sul primo e comprende meno esseri viventi; 
il terzo aggiunge ancora a' due precedenti qualche attributo 
e comprende sempre meno esseri viventi; e cosi di seguito. 
Così si va per gradi cominciando da una classe Ji esseri 
viventi, che posseggono l'anima nutritiva^ e passando ad 
un'altra classe che possiede la nutritiva e la senziente^ ed 
un altra che alle due precedenti aggiunge la locomovente, 
r appetitiva la fantastica , ed un altra che a tutte aggiunge 
la noetica (intellettiva). 

Si può osservare qui^ che la classificazione Psicologica 
di Aristotile cammina a rovescio di quella di Platone. Nel 

(') De An, II. 3. 7. 



- 241 - 

Timeo si comincia colla grande anima del mondo, e per 
successive forme di degradazione siamo coodoUi all'uomo, 
9gli animali, alle piante; mentre Aristotile prende le mosse 
dal più largo e numeroso complesso d'iiidiviihii viventi, che 
«imprende tntta la vita, e ci porta a diversi gradi di anime 
per aggiunta di proprietà nuo^'e, ma senza perdere mai la 
base dell'infimo grido pn?if,o t fondamento di tutta la vita. 

Il posto più elevato tra lo animo è tenuto dall'anima 
intellettiva, dalia Noiìs. 

Nei secondi Analitici Aristotile dice: cirt-a le abitudini 
(iK^ttuv) che spettano al pensiero, e per le quali raggiun- 
giamo la verità, alcune sono eternamente veraci, altre 
vanno soggette al pericolo del falso, come l'opinione e la 
disputa; ma la scienza e la intelligenza (voùr) sono eter- 
namente veraci. Nessun altro genere è più certo della 
scienza, all'infuori della sola Noùs. Siccome inoltre i prin- 
cipj della dimostrazione sono pin noti di essa, ed ogni 
scienza è ragionata, ne segue che la scienza non dimostra 
i principi; ma poichà non v'ù che la Noùs che possa es- 
sere più verace della scienza, spetta alla Noùs la abitu- 
dine di formare i prìncipj. Questi possono essere conosciuti 
soltanto per via delia Noùs, che gli cava dai particolari. 
Per via dei principj così procacciati dalla Nnùa la scienza 
sì fa strada alle sue conclusioni. La Noùs è il gran prin- 
cipio della scienza (')». 

In questa guisa ì principj e tutta la scienza immediata 
di cui abbiamo a lungo parlato in addietro, come prodotto 
dell'induzione, è da Aristotile riportata a facoltà e abito 
della Noùs dotata di eterna certenza. 

Aristotile ereditò da Platone questa dottrina di una in- 
fallibile Noós intelligenza, che è posta in condizione di 
completa immunità dall'errore. Ma in luogo di appoggiarla 
(come Platone avea fitto) sulla Reminiscenza delle Idee 

(•) An»l. po«t. n. 15. 8. 




- 242 — 

contemplate in una vita estramondana, la collega invece 
col lavoro della induzione. 

In questa maniera la Noùs comparisce essere la facoltà 
d'intendere nel suo esercizio abituale, facoltà alla quale si 
attribuisce la eternità e la infallibilità, in quel modo che 
r una e r altra si attribuisce alla conclusione. Eternità e 
infallibilità, che significano la destinazione delle facoltà co- 
noscitive in ordine al vero, secondo loro natura; significano 
la impossibilità di porre in dubbio i loro prodotti al modo 
che teneano gli scettici; significano la necessità di accet- 
tarle quali eternamente ce le presenta la natura umana, e 
là necessità di riconoscere la condizione invariabile della 
loro funzione. E un postulato naturale contro gli scettici, e 
contro tutti quelli che sostenevano non essere possibile usci- 
re dall'incertezza, dal dubbio, dal pericolo dell'errore^ non 
potersi acquistare il criterio della verità, né queir impera- 
tivo razionale che impone alla ragione l'assenso. 

Tutto ciò riguarda l' ufficio logico della Noùs; ma non 
interessa meno la condizione di essa come culmine delle 
anime e come altissimo prodotto nella scala della . vita. 
Aristotile definisce prelimiparmente la Noùs, come quella 
parte dell'anima razionalmente distinguibile dalle altri 
parti,, ma non realmente divisa, la quale è destinata a cono- 
scere e riflettere mentalmente ('). Conformemente allo sche- 
ma generale costantemente seguito da Aristotile nella trat- 
tazione dell' Animalità, la più elevata parte dell' Anima, 
benché distinta dalle inferiori, le presuppone tutte. Come 
r anima sensitiva suppone la nutritiva, del pari la pensante 
suppone la nutritiva, la sensitiva, la fantastica, la remini- 
scente. Aristotile distingue accuratamente la regione del 
senso neir anima dalla regione del pensiero, e confuta spes- 
so la dottrina dei filosofi, che le confondevano o identifica- 
vano. Ma d'altra parte ha gran cura egualmente di 

(^) De. An. IL 4. 1. e segg. 



ooastatara il rapporto tra esse, e di presentare la facoltà 
sensitiva non pure come tale che accoglie in se in una certa 
proporzione la proprietà di giudicare, ma anche come con- 
dizione essenziale e fonfiaiiieutale per l'esercizio delle 
funzioni del pensiero, e come porzione neeeas'iria dell'anima 
umana. Esso afferma nell;v più esplicita maniera, che 
l'anima non può pensare o ragii »n.ire senza fantasmi, che 
i fantasmi sono indispensabili per l' attuale lavoro delta 
Noùs. 

La dottrina di Aristotile circa la Xoiìs è s(a(a molto 
imbarazzante fin dal tempo de' primi comiuentatori. Parte 
per la oscurità inerente al subietto, parie per la dìtfettosa 
condizione del testo, quale ci è pervenuto, il vero senso 
dell'autore non è agevole a comprendere. 

Aristotile avea riconnesso la sua teoria biologica tutta 
intiera, come sopra abbiamo accennato, colle idee da esso 
introdotte nella sua Ontologia circa la Forma e la Materia. 
Esso considerava la sostanza o l' essenza come un composto 
ideale; non solamente in quanto fosse corredalo di tutti gli 
accidenti classati nelle Categorie, ma anche capace di es- 
sere analizzato idealmente in se stesso. E in questa analisi, 
all' infuori delle accidentalità categoriche, Aristotile rite- 
neva vi fùssei'o uella sostanza d'ie elementi nSlratti, logici, 
concettuali, o princijìj — La Forma e la Materia. Sono 
questi i due peroj di tutta l'ontologia Aristotelica, dei quali 
si trova f:ìtto uso in mille maniere, alcune ingegnose, altre 
strane e piene di soUigtiezze. Questi due priucipj mentali 
sono due correìativi V nno dell'altro, combinati insepara- 
bilmente nel fatto reala in ciascimo individuo, cha vien 
rappresentalo da un nome sostantivo; sono mentalmente 
separabili e capaci di essere denominali e considerati a 
parte l'uno dopo l'altro. Io questa maniera l'analisi Ari- 
stotelica in proposito della sostanza individuale concreta ci 
porta a una triplice divisione mentale, colla quale si 
scopre in essa: 1 ." La Forma, 2.° La Materia, 3." La Cosa, 



- 844 - 

ossia il composto delle due precedenti. Questa terza osser- 
vazione ci conduce dall'ordine mentale al reale, dall' astra- 
zione al fatto concreto. 

La Forma chiede per suo correlativo la Materia, e 
separata da questa è nulla, come del pari la Materia 
richiama la Forma. La completa realità, il concreto indivi- 
duale è il solo esisteuto in realtà; i costituenti di esso, 
Forma e Materia, non hinno esistenza separata, ma una 
esistenza concettuale prodotta per via d' astrazione. 

Da un altro punto di vista, la Materia e la Forma 
esprime il Potenziale e 1' Attuale. La Materia è il 
potenziale, imperfetto, in stato di semplice possibilità, 
ai quale sopravvenendo la Forma, Io attualizza e lo 
rende perfetto e compiuto. Questo passaggio dalla poten- 
zialità all'attualità dà al concreto che ne nasce la sua 
entelechia. 

Orala Forma e la Materia essendo Tuua all'altra 
essenzialmente relative, hanno varj gradi di relazione 
di maggiore o minore importanza. Cosi un blocco di 
marmo è un concreto, un completo, il quale risulta 
dalla Materia e dalla Forma ( marmorea ); ma questo 
completo può a sua volta essere semplice Materia che 
aspetta una nuova Forma relativamente ad un nuovo 
completo, la statua . 

Il Corpo celestiale è la grande regione delle Forme, 
secondo Aristotile, ed è quella gran massa che circonda il 
nostro Globo. In^quelìo è incorruttibilità, in questo gene- 
razione e distruzione. Ogni Forma, egualmente che ogni 
anima che informa il corpo vivente, trae la sua facohà 
vivificante da quella regione celestiale. Ogni semenza di 
vita racchiude in se un certo spirituale o gassoso calore, 
più divino che i quattro elementi, proveniente dal Sole e di 
natura affine a quello delle stelle. Cotal calore solare o cele- 
stiale è diverso genericamente dal calore del fuoco. È 
r unica sorgente da cui si origina la vita col calore animala 




— 246 — 

che la accompagna. L'anima, iii tutte le sue varietà, pro- 
viene da quello (•). 

Ma sebbene tutte le varietà di anima provengano 
dalla medesima sorgente celestiale, elleno ritengono ~il 
divino elemento in gradì difTerenli e sono molto disugaalì 
comparativamente in valore e dignità. Per questi gradi 
si ha la scala ascensiva dall'anima nutritiva sino alla 
noé^ca. 

Ma l'anima nutritiva e la senziente hanno ciascuna una 
speciale attività corporea da svegliare e un movimento con- 
forme ad essa. Mentre la Noùs, o l'anima razionale, non 
è destinala a generare nessuna stmigliante attività corpc^- 
rea. Non v' è nessuna speciale corporea potenzialità ( per 
parlare il linguaggio Aristotelico ) che essa sia destinata 
ad attualizzare. Essa procede dalla medesima sostanza 
celestiale, ma essa si sovrappone alle anime nutritiva e 
senziente, e sopraggiunge in un età dell'individuo più 
avanzata di quella che porta le due prime. E anche per 
questo che essa è separabile dal corpo organizzato e viven- 
te, perchè le potenzialità di esso come corpo vivente sono 
attualizzate dalle altre due anime. La vera Noùs è entele- 
chia del corpo celestiale. Ma da quello una certa intluenza 
di Nofìs è tramandata ad alcuni mortali abitanti della ter- 
ra, dell'acqua e dell' aria. E per questa via alle due fun- 
zioni dell'animale, nutritiva e sensitiva è aggiunta una 
terza funzione noetica, che porta seco una sua specialissima 
attitudine a raccogliere il Formale di tutte le cose e l' Uni- 
versale. E così l'anima noètica è chiamata da Aristotile 
« il luogo delle Forme » « la potenzialità delle Forme * 
« il correlativo delle cose, astrazion fatta dalla loro mate- 
« ria». 

Ora la distinzione e correlazione, che, secondo Aristotile, 



(') Orote. Aristotle. Voi. li. De Anim».— Ariit. DeQeirtrat. 



i 



— 246 — 

si trova diffusa in tutta la natura, quella cioè della Forma 
e della Materia, la medesima si trova anche nel seno stes- 
so della Noùs. In questa bisogna riconoscere un Intellectus 
agens o costruttivo, e un Intellectus patiens o recettivo (*). 
IJ agens è la grande energia intellettuale che' investe il 
corpo celestiale, ed agisce sui corpi animati capaci della 
sua influenza; analogo alla luce, che illumina i corpi dia- 
fani, e quello che era colore in potenza lo fa colore in atto 
e visibile. Il patiens è la recettività intellettuale prodot- 
tasi in ciascuno individuo per il sopravvenire deir agensy 
e che lo rende capace di intendere le cose. Il patiens è 
anteriore all' agens cronologicamente, avuto riguardo alla 
formazione dell'individuo, mentre V agens è come fatto 
generale anteriore per natura. Entrambi sono peraltro cor- 
relativi. U Intellectus agens è pura intellettuale energia, 
senza mistura di sorta^ inimpressionabile dal di fuori, sepa- 
rabile da tutti i corpi animali; e in questo senso esso è im- 
mortale, è il solo immortale, mentre l' intellectus patiens 
perisce colle altre anime e col corpo. Cosi sebbene V Intel- 
lectus agens sia eterno, e sebbene ne abbiamo noi una 
partecipazione, noi non possiamo ricordarci nessuna delle 
sue operazioni precedenti alla nostra maturità; perchè per 
rimembrare e pensare noi nel nostro particolare abbiamo 
bisogno del concorso delY Intellectus patiens y che comincia 
e finisce con noi (^). 

Si vede qui in tutta la sua estensione la differenza della 
dottrina di Aristotile da quella di Platone rispetto alla im- 
mortalità deir anima. Aristotile definisce V anima come la 
prima attualizazione di un corpo che ha potenzialità di vita 
con un determinato organismo. Conseguenza di ciò, ed 
Aristotile lo dichiara espressamente, è che V anima e il 
corpo nel caso di ciascuno individuo formano una cosa indi- 

ODeAn. III. 
(«) De An. III. 



— S47 — 
visibile, talché l' anima di Socrate perisce di necessità col 
corpo di Socrate. Ma Aristotile stesso salva da questa 
morte la Noùs speculativa, non dipendente dall'organismo 
corporeo ma capace di esserne separala come dal mortale 
l'eterno. Questa riserva assicura l'eternità alla energia 
speculativa, ma non all'anima razionale di Socrate. La 
Noùs speculativa che esiste in Socrate, Platone, Democrito 
ec. è individualizzata in ciascuno, e di tferenl emente indivi- 
dualizzata. Essa riippresenla la combinazione dell' Inlelle- 
ctus agens, Noùs Formale, universale e permanente, 
coW Iniellectus pnfiens o recettività noetica propria di cia- 
scuno individuo. Come la Forma prevale alla Materia in 
tutta la natura, cosi prevale nella Noùs e neiranlma 
genericamente. Or ciascuno individuo non pud sussistere 
nella sua qualità di pensante senza la cooperazione dell' a- 
gens e del paliens, Forma e Materia. Ma \' Intellectus 
patiens viene a mancare colla morte dell'individuo. In 
conseguenza la vita intellettuale di Socrate non può essere 
protratta più oltre. Cessa col mancare della vita nutritiva 
e sensitiva. L'uomo intettuale, come individuo, non è più 
immortale che l'uomo senziente, 

L'individualità ( l'essere imo numericamente in una 
specie) e la immortalità sono per Aristotile incompatibili, 
l'una eselude l'altra. Ogni individuo vivente aspira a 
diventare immortale, ma la natura gli ha posto un ostacolo, 
oppure Timmortalilà è incompatibile coli' individualità; ed 
è perciò che ogni indivìduo procreando il suo simile cerca 
di avvicinarsi all'immorUilità col perpetuare la specie ('). 
Come la specie delle piante, degli animali, degli uomini sì 
fa immortale attraverso a una sucwssione d'individui mor- 
tali; la Noùs è immortale, mentre gl'individui pensanti 
periscono (*). 



(*) De Geaerat. Animai. II. 1. — De Ad. TI. 4. — Oecon. I. 
{*) Oroto. Ariitotle. De Ànim. panini. 




— 2® ^ 

Nel dare questi pochi traiti della teorica di Aristotile 
intorno alle anime, ho seguito le traccio di Grote, che ns 
presenta una anahei la più chiara e la più compiala. Come 
è facile vedere, in questa teoria Aristotile si abbandona ai 
concetti che formano la base della soa Ontologia o Metafi- 
sica, e una gran parte delle dottrine che nascono da questo 
connubio di osservazioni del mondo vivente e di astrazioni 
metafisiche, perdono affatto ogni valore scientifico. Questo 
ronzare attorno ai palazzi incantati della Metafisica colla 
Bua dottrina del corpo celestiale incorruttibile, e colla teo- 
rica della Forma e della Materia, dell' Intellectus Agens e 
dell' Intellectus patiens, non distoglie tanto Aristotile dalla 
via dell' osservazione che gli è bì famigliare, che il libro 
dell'anima non presenti ad ogni passo concetti del più alto 
valore scientifico sulla nutrizione, sulla sensi-vita, sulla fan- 
tasia ec. E molto meno n' è menomato il valore del concetta 
fondamentale biologico dal quale Aristotile partiva, facendo 
la sua teoria dell'anima in considerazione di lutti i corpi 
organici viventi. 

La dottrina poi dell'intelletto attivo eterno, imperso- 
nale, e dell' intelletto passivo, personale, umano mortale, 
ha una speciale importanza dal lato storico, perchè tocca a 
qaistioni gravissime. 

Aristotile, sembra, non si facea scrupolo di strapparsi 
dal cuore questa brama di immortalità, che ci tormenta di 
contimio, e neppure di legare il pensiero alle vicende di 
nascita, di accrescimento, di decadimento e di morte del 
nostro corpo. Ed affrontava tranquillo i Platonici e i Pita- 
gorici; ed essi non pare se ne scandulezz:nssero gran fatto 
dal lato morale. Segno, che le quistionì filosofiche a quel 
tempo erano più calme che a' nostri giorni. 

Infatti in queste dottrine Aristoteliche è riposta la s&> 
menza di una gravissima controversia, che data da luogo 
tempo e oggi fa più rumore del solito, la controversia tra 
la Materia e lo Spirito. 




I 



Aristotile è egli materialista? Se per materìaliata si vuo- 
le intendere chi ritiene che Don esista nel corpo un ente di 
natura a. parte (spirituale), personale, separabile, immor- 
tale, Aristotile è materialista certamente. Esso non accorda 
l'immortalità che all'Essere impersonale. Se invece per 
materiahsta s'intende chi non fa distinzione di classe tra i 
fenomeni, e dichiara che i fenomeni intellettuali sono un 
semplice processo della materia corporea, senz'altro, Ari- 
stotile col suo Intellectus agens si separa dai materialisti, 
benché non si accosti agli spiritualisti puri. 

Queste dottrine di Aristotile hanno un'importanza 
gravissima tanto dal lato storico, quanto dal lato del loro 
significato, considerato dal punto di vista moderno. La di- 
scussione tra i materialisti e gli spiritualisti è oggi al suo 
colmo. Ma è forse esagerata la portata delle conseguenza 
nell'una scuola e nell'altra. Gli spiritualisti navigano io 
piena metafisica, e un po' di metafisica rifiorisce qualche 
volta anche di sotto al materialismo. Dallo studio dei feno- 
meni spirituali nella loro orìgine materiale, si potrà avere 
la spiegazione di questi fenomeni? Non lo credo, e ne darò 
una ragione piì» avanti. Dalla esistenza di un ente sostan- 
ziale, spirito, ente contrapposto alla materia', anzi alla 
natura, si può avere la spiegazione di quei fenomeni? La 
presente controversia, figlia di una controversia antichis- 
sima, prova, che una spiegazione di tal fatto è insufficiente. 

Egli è, che impossibile riesce in questi fenomeni, come 
in tutti gli altri, trovare la spiegazione della loro essenza, 
e ci d forza limitarsi alla cognizione delle loro condizioni. 

Senza aver la pretesa di risolvere I.a quìstione, mi per- 
metterò di esporre alcuni dubbi, i quali si riferiscono talu- 
ni alla tesi sostenuta dagli spiritualisti, altri a quella dei 
materialisti. 

Certo mi sembra, che questa controversia turba og^ 
pili del dovere le serene regioni della scienza. Dico più del 
dovere, perchd ritengo assurdo, che le concluuoni scianti- 

X7 




— 250 — 

fiche' di qualunque portata siano, possano portare lo scom- 
piglio negli ordini sociali e Io sconforto nel cuore. Lo 
scienziato, che si agita e si spaventa per una conclusione 
scientifica, mostra di non essere scienziato, ma settario. Le 
conclusioni a cui a(;jC!ennano oggi certi slud] biologici, e in 
specie fisiologici, hanno messo a remore il campo delle 
scienze morali. I cultori di queste, parte se ne sono impen- 
sieriti, per tema che certe conseguenze minaccino il quieto 
vivere della società, parte si sono gettati ad avversare la 
Fisiologia partendo da un tradizionale rispetto di venerate 
dottrine, parte hanno abbracciato con tutta franchezza le 
nuove dottrine per nulla allarmandosi delle loro conseguen- 
ze, ritenendo come necessità inevitabile T accettazione del 
vero, e fidando nella naturale tendenza delle forze sociali 
ad equilibrarsi e a rendere innocui i momentanei turbamenti 
che uno spostamento delle vecchie dottrine potrebbe portare 
neir ordine morale. 

Gli spiritualisti puri sono quelli che ritengono esservi in 
ogni individuo umano uno spirito, ente distinto dal corpo, 
personale, principio e cagione di tutti i fenomeni mentali e 
morali, che si serve della materia corporea come strumento 
per compiergli. I Materialisti sono quelli (;he ritengono non 
esservi alcun ente di tal natura, i fenomeni spirituali pro- 
venire da processi della materia organizzata, fenomeni di 
un ordine più elevato che i fenomeni fisici e i sensori, ma 
* non di opposta natura. 

I dubbi che possono sorgere in chi esamini le teorie 
degli uni e degli altri con occhio spassionato, sono molti. 

Lo spirito è una sostanza diversa dalla materia? Cioè a 
dire, i fenomeni che si chiamano spirituali sono prodotti da 
un ente sostanziale diverso da tutti gli enti materiali? Che 
cosa è lo spirito? Nessuno lo sa. E infatti non v'è mezzo 
di conoscerlo, perchè tutti i fenomeni spirituali ci arrivano 
rivestiti di materia, e senza essa svaniscono. 

Egli è, che lo spiritualismo risulta da una ipotesi, che 



» 



- 251 — 

ha in mira la spiegazione de' fenomeni che si preaentauo 
nell'animale ragionevole, ma in verità non conferisce gran 
fatto a rischiarargli, perchè essi medesimi restano involti 
nella oscurila che si trova attorno alla base ipotetica spi- 
ritualistica. Dicesi, (') la materia non può pensare. Perchè? 
Che cosa autorizza questa delimitazione delle proprietà del- 
la materia? Lo essere la materia estesa, mentre il pensiero 
è inesteso. A vero dire, l' inestensione del pensiero non po- 
trebbe oggi armettersi ragionevolmente. 11 pensiero è per 
lo meno successivo; se tale non fosse, Ì suoi prodotti, non 
potrebbero essere percepiti dal nostro proprio senso intimo; 
è forse più istantaneo che certi altri fenomeni materiali, ma 
la sua istantaneità è invero una quasi-istantaneità. Quella 
che nei fenomeni del pensiero ci sembra inestensione e im- 
materialità, è forse estrema finezza di essi, che gli renda 
impercettibili a' nostri organi, ed è complicatezza massima, 
che c'impedisce di seguitargli nella loro evoluzione. 

D'altra parte non vi sono gradazioni nei fenomeni del 
mondo, che ci mostrano l'azione della materia, a così dire, 
pili e pili assottigliata; come quando da' fenomeni mecca- 
nici si passa a' processi chimici, dall'inerzia alla estrema 
mobilità, dalla caduta de' gravi alla luce e all'elettrico? Chi 
potrebbe porre un confine alla crescente perfezione de' fe- 
nomeni materiali? se non conoscessimo che sola la caduta 
dei gravi, supporremmo forse impossibili i fenomeni della 
luce e dell'elettrico. 

Nella natura e ne' suoi fenomeni troviamo ima ffra- 
dazione ascendente; sui primi gradini i fenomeni, se coat 
pud dirai i più materiali, come la gravitazione, lo spo- 
stamento, la coesione, l'impenetrabilità ec; nell' ultimo 
gradino i fenomeni spirituali, il pensiero, la coscienza, la 
volontà. Nell'intermezzo si hanno dei fenomeni che non 



I italA profeiiat» kaclis d» 




(') QaeitK opinioDB sambra e 
liùtotile .V. Da Aa. HI. 4. 12. 



— 252 - 

somigliano ai primis né hanno l'altezza degli uhimi; hetn^ 
no una energia loro particolare^ talvolta tinà efiitfettìa 
priscisione^ e si possono coli' intermezzo di strumenti o 
talvolta senza, rendere accessibili a' nostri sensi. Ln 
teienza gli chiama processi, e se ne origina la luce, il 
calorico, Telettrico ec. In questa gradazione di fenomeni 
è notevole la persistenza della materia con qualità sem» 
pre più perfette. Nei fenomeni meccanici il moto è confi^ 
nato in certi limiti, nei fenomeni prodotti dai processi il 
moto sovente acquista proporzioni straordinarie, nei feno»^ 
meni spirituali il moto è quasi istantaneo. Lo stesso 6 
delle altre proprietà fenomenali, che vanno in questa gra^ 
dazione perfezionandosi. 

Altrettanto si vede succedere nella complicanza dei 
fenomeni. Anche in questa i fenomeni naturali mostrano 
una gradazione, per la quale vanno crescendo di oomples^ 
sione nella loro propria classe e nelle varie classi. Dei 
fenomeni meccanici si possono talvolta assegnare le leggi e 
la loro concatenazione, accumulare i dati per calcolare il 
loro movimento, predire il complesso del fenomeno; cosi 
nella Balistica si dirige un proiettile, così si predicono i 
movimenti dei corpi celesti. Talvolta la complessità dei 
fenomeni diventa cosi grande, che, sebbene si conoscano 
le loro leggi fisse, non si arriva a concepitane la concatena*» 
«one, per la impossibilità di aggruppare certi dati che 
sfuggono alla percezione. Cosi per la caduta di un sasso in 
un lago di acqua, sebbene si possa conoscere là le^e gene- 
rica colla quale un liquido di una data densità sposta le sae 
onde percosse; ciò non ostante non si può calcolare il 
punto in cui una data molecola d'acqua si troverà in uti 
momento dato, in seguito all'urto del sasso: perchè in que- 
sto fenomeno agiscono diversi dati impossibili a por» in 
calcolo come la forma irregolare del sasso, la scabrosità 
delle ripe ec. In eguale modo, benché assolutamente par- 
lando, si potrebbero conoscere le leggi con cui divei^se palle 



sì voltolano in una urna, non si può per altro calcolare la 
palla che verrà estratta, perchè nella produzione di questo 
fenomeno non si possono enumerare moltissimi dali sempre 
varj che si verificano nel moto dell'urna e nella posiziona 
delle palle raccliìuae. Il calcolo delle probabilità, iioa segue 
ì dati del moto meccanico delle palle nell'urna, ma tutt' altri 
dati. Questa complessione di fenomeni diventa esorbitante 
negli esseri viventi e sensitivi, e benché si conoscano gene- 
rìeaioente le leggi dell* istinto, non si può per altro predire 
dove si troverà in un nioaiento dato uu animale lasciato in 
libertà. Complessila che diventa anche piìi grande nei 
feDomeni spirituali, nei quali innumerevoli dati ignoti 
pceodono parte alla loro produzione, e danno per risultante 
il eotsplesao del pensieri, dei voleri, degli atti umani e degli 
avvenimenti. Questa impossibilità di applicare le le^i 
conosciute, questa serie di dati ignoti si personifica nel 
linguaggio comune nella fortuna per il caso delle proba- 
bilità, e pei rimanenti nel vagabondaggio dell' animale, € 
Delta libertà e nel pensiero dell' uomo. 

Una gradazione analoga si riscontra nei composti 
mtturuU e nel loro modo d' azione. Si hanno i composti 
iaorganiei derivanti dalla più semplice combinazione dei 
iSKtUUi metalloidi eloro prodotti; si hanno le fermentazioni 
mistura di ooinposti inorganici ed organici; si ha la cellula 
organica vegetale; la cellula organica animale; i composti 
a&iniali sensitivi in serie crescente; i composti animali sen- 
sitivi, che presentano fenomeni intellettuali. Tutti per altre 
questi composti naturali presentano una combinazione di 
elementi minerali variabile nella proporzione, invariabile 
nella qualità. La diveraità dei fenomeni provenienti da 
questi diversi gradi di formazione non può mettersi in dub- 
bio; ma non sì può negare la uniformità fondamentale degli 
dementi componenti. Il complesso dei loro effetti cì pra^ 
Mata dei modi d'azione variati, che chiamiamo forze e 
sono yM es. moto, affinità, attrazione, calore, luce, elettri- 



— 254 — 

dtà, senso^ intelligenza. Quale ò il segreto della formazione 
di queste forze in seno a quei composti di elementi mine- 
rali sempre i medesimi in varia proporzione? È impossibile 
il dirlo; se ne conosce solamente il modo e le condizioni 
adatte. Quale è la ragione ultima che fa si, che quei com- 
posti prendano aspetto di combinazione chimica, di organi- 
smo vivente, di animalità sensitiva, d' intelligenza? È del 
pari impossibile a dirsi. 

Or tutta questa gradazione nei fenomeni e nei composti 
naturali ci dovrebbe far cauti nelF assegnare il limite a 
quella specie di raffinamento che la materia ci mostra, e 
farci anzi vedere l' impossibilità di arrestarla ad un punto 
dato, e di porre un abisso tra i più elevati fenomeni mate- 
riali e gì* intellettuali . Ciò acquista tanto maggior valore, 
quando si consideri che dagli stessi spiritualisti la miglior 
parte dei fenomeni sensorj sono dichiarati fenomeni spiri- 
tuali; e in verità per il lato della semplicità, dell'apparente 
inestensione, simultaneità ec. certi fenomeni dell' immagi- 
nativa non differiscono molto dai fenomeni intellettuali, o 
soltanto per grado, non per natura. Or questi fenomeni 
sensitivi sono prodotti in varia gradazione* anche in seno 
air animalità bruta. Il sentire, e talvolta V immaginare 
degli animali è analogo a quello dell' uomo. V è dunque 
uno spirito, ente immateriale, cagione di quei fenomeni nel 
corpo degli animali bruti? Oppure se non v' è, può la mate- 
ria organica produrre i fenomeni sensitivi, e gl'intellettuali 
no? Non v'è ragione di fare questa differenza, né v'è 
ragione di porre un limite all'azione e alle capacità della 
materia. 

I materialisti hanno così un gran vantaggio, ed è che 
essi possono definire la materia per via d'attributi positivi. 
Essi dichiarano il loro concetto di materia, dicendo che 
essa ha per caratteristica r estensione. E per estensione 
intendesi la successione di due o più punti^ successione 
sótto forma di tempo o di spaziowv Ora siccone i fenomeni 



- 255 — 

mentali si presentano in qualche modo estesi, da questo 
partono i materialisti por arrivare a classare i fenomeni 
. mentali assiemo con quelli elio universalmente si appellano 
fenomeni materiali. 

Ma gli spiritualisti quando si pongono a definire lo spi- 
rito, non ci riescono, che per esclusione di dati positivi. E 
dicono infatti ch^ lo spirilo ò un ente che ha caratteri op- 
posti a quelli dell i matnia, clic ò seitiplice, che non ha 
estensione. Questo modi,» di caratterizzare lo spirito è del 
tutto negativo. L'cstonsioue si con- sce, perchè è forma di 
tutte le nostre sensazioni; ma la semplicità non si conosce 
che per 1* esclusione montale della ostensione. Per questa 
via gli spiritualisti non polendo disc(»noscere la caratteri- 
stica di estensione noi fonoiiioni mentali, si contentano di 
attribuire Li semplicità a un fine i[)Ototico che gli produce. 
E aggiungono, che la ostonsi'.>ne di quei fenomeni dipende 
dalla necessità che In lo spiriio di servirsi d'un oy^gano 
esteso per produrgli, ma che lo spirito stesso è inesteso. 

Tutto ciò lascia una irrande incertezza dal lato scienti- 
fico a tutto d'inno dogli sì^iriiualisti. Resta sempre inespli- 
cabile il modo d'agire di qiiesro ente inesteso sul suo 
organo esteso. 

Ma i materialisti, che son tratti dalla loro dottrina ad 
attribuire la fonniziouo doì ieno.noni montali ad un processo 
fisiologico cort'bralo, I;annu, se.nbrami, dal canto loro un 
torto gravissimo di cercaro soltanto nel pn»cesso fisiologico 
le leggi del pensiero, e di invanii-sì tanto dolio studio della 
fisiologia api)li'.-ata alh spio^rizione dei fenomeni mentali, 
da voler per essa distruggere la Psicologia . Essi fanno 
troppo a fidanzi c«»n questi proMomi, quando fanno sem- 
bianza di credere, che una vulta trovata la base dei feno- 
meni intellettuali nella materia, questi fenomeni avranno 
trovato la loro spiegazione. 

Il pensiero si i pure pi-ovenionte da un processo fisiolo- 
gico cerebrale. — La luce è pure un processo chimico, — 



-«56- 

I fisiologi par altro sorpassano il valore delle premesse tra- 
endone la conseguenzai che la Fisiologia è una Bcieuza 
capaee di studiare il pensiero. Ciò sarebbe esatto^ se il peii* 
siero avesse le leggi medesime del processo da cui dipende* 
La luce è bene un processo chimico, ma le leggi di questo 
sono diverse dalle leggi d^lla luce. Così è del pensiero: I9 
sue leggi sono ben diverse dalle leggi del processo fisiolo- 
gico che lo ha^ prodottò. Il pensiero mostra una for^a, un'^- 
sione nuova di molto diverj^a da quella del processo fisiplo^p 
gicp, come la luce mostra una azione e una forza diversa 
da quella del processo chimico. Jlia combinandone chimica 
nuova che si origina per via dello sfregamento di m 
fiammifero^ è un fatto che ha regole sue proprie» e 
ne nasce fiamma, calore e luce. Ma le leggi di questa 
luce prodotta sono diverse da quelle della combinai;ion9 
chimica. Cob^ ò del pensiero: e le leggi del processo 
chimico spettano alla Chimica, le leggi della luce all' Ottica; 
e del pari le leggi del processo fisiologico alla Fisiologia, 
e quelle del pensiero alla Psicologia. E però la Fisiologia 
non deve invadere il campo della Psicologia, come la Chimi- 
ca non invade quello dell' Ottica. E cosi, se mi è permesso 
dirlo, una buona Psicologia deve essere l'Ottica del pen-r 
siero comoi r Ottica $ quasi la Psicologia della luce. 



Lotica 



Quando si prende a studiare la storia del Buone, sì 
resta maravigliati, che per lunghissimo tempo, per opera 
di Sacerdoti o di Filosofi il Buono si trovi cuufiiso col 
Divino . 

Le idee e i costumi morali incominciarono a farsi stra- 
da appeoa le azioni umane poterono essere valutate e pa- 
ragonate. Prima di diventare obietto delle ricerche filosofi- 
che, la Morale fu da' tempi remotissimi ìnsei^nat:» dalla 
Religione, come una legge direttamente emanata dal cielo, 
ed occupò i legislatori, i sacerdoti, i poeti. I fondatori delle 
religioni, o le caste che sotto la bandiera di un norne favo- 
reggiarono alcune idee religiose, si occuparono sempre di 
lasciare ai discepoli uh codice di precetti morali, e di con- 
validargli con qualche maniera di sanzione divina. 

Ma nella maggior parte dei casi la morale religiosa si 
vesti di una farragine di strani concepimenti, s'impauri di 
minacce lanciate da una terribile divinità; e questo vizio, 
sebbene andasse via via diminuendo, non lo perdette giam- 
mai. All'uomo fu allora inculcato, che esso portava con se 
un sentimento razionale, che gli facea ributtante il vizio, 
ma che esso dovea tenersi lontano da questo, perchè oltre 
al sao sentimento di ripugnanza, eravi una pena preparata 
per chi a quel sentimento non obbedisse. La Religione 
invece dì dare una grande importanza al valore di quel 
sentimento razionale, si gettò piuttosto a far valere quella 
paura delle pene. È questa la ragione, per cui la morale 
religiosa proiluce così dì frequente le esagerazioni dell'a- 
scetismo piuttostochè delle solide virtù, e porta ordinaria- 
mente alla superstizione e allo scrupolo, e non al vero 
amore del beae. SitTatta conseguensa è inevitabile dal mo- 





. ~ 258 — 

mento che in ordine all'onestà delle azioni la Religione ha 
dato il sopravvento non al contenuto morale della virtù e 
del vizio ma alle punizioni e ai premi che portano seco. 

Tutta la Morale di tutte le Religioni fa capo al Para- 
diso e all' Inferno. E i sacerdoti in luogo di moderare quel- 
la fantastica tendenza dei popoli rozzi a immaginarsi la 
irata Divinità, e facilitare ad essi l'acquisto di una abitudine 
morale, per la quale si astenessero dal vizio per vero orrore 
del male e del brutto morale, favoreggiarono invece 1' abi- 
tudine di abborrire il vizio per sola questa paura delle fusti- 
gazioni diaboliche. Paura che al momento piìi critico nella 
vita riesce infruttuosa; inquantochè la punizione lontana 
non salva dal fascino del vizio presente. Ed è ben naturale; 
che la morale non si avvantagiò mai col deturparne il con- 
cetto. Un impulso potente esiste, che trae l'uomo al bene; 
ad esso si deve la sua uscita dallo stato selvaggio; ma tale 
impulso non si presenta davvero sotto la forma della paura 
di un male avvenire, paura che all'alto delittuoso si dimen- 
tica^ e soltanto punge dipoi; maè invece il gusto per la 
virtù e il sentimento profondo del dovere che insinuandosi 
nell'animo può farci capaci di miglioramento morale. Quan- 
do fu mai maggior paura dell' Inferno, di quella che sentì 
una certa epoca del medio evo? Le chiese risuonarono di 
descrizioni de' tormenti e dei tormentati; le leggende n'era- 
no piene, . diventavano canti e poemi; la pittura lottava di 
fantasia coi poeti e coi predicatori; il giudizio finale era lo 
spauracchio del medio-evo. Vero spauracchio, perchè non 
v!è stata gente più immorale di quella, a cominciare dal 
Clero. 

Accanto a questo ingombro di premi e di pene fantasticate 
tutte le Religioni posseggono quale più quale meno un tesoro 
di morale, e rimontando alla più lontana antichità le si ve- 
dono dispensare precetti e consigli, e più o meno sanamen- 
te porre in rilievo il concetto della virtù. Questo primo mo- 
vimento morale, di cui sono interpetri le religioni, germina 



- 259 - ■ 

direltamente dai moversi della cultura umana nei popoli 
primitivi, che cominciavano ad apprezzare il Buono e il 
Giusto. E un prodotto di quella spontaneiìà di apprezziazio- 
ne, che a poco a poco fece gli uomini capaci di giudicare se 
Blcssi come le altre cose. Ma per eccessiva fantasia nasceva 
nei medesimi popoli l'apprensione di forze soprannaturali, e 
a queste perciò si legavano, corno tutti i loro pensieri, an- 
che le apprezziazioni dfl^enc. E i sacerdoti mccoglievano 
questa mistura di concetti mitici e morali, e lìngeano disceso 
dal cielo quel che era emanato dalla coscienza dell' uomo. 
E finivano col monopolizzare nello proprie mani la Teologia 
e la Morale. Essi estendevano ed esageravano i concetti di 
premio e di pena, dando ad essi una portata che ^lUrepassa 
la vita presente, e ponevano il compimento della morale nel 
mondo di là. E^sebbene questa aspirazione la si debba ri- 
conoscere, come un portato del uos(ro amor dell'esistenza, 
e della nostra coscienza che si giudica e si applaude tenen- 
dosi meritevole di ricompensa, o si rimorde e si sente de- 
gna di pena; quando cotale aspirazione è esagerata, è ca- 
pace di sbandire la nozione vera del Buono. Esso ha uno 
scopo nella vita, un ordine nella società; questa è la fonte 
primaria della sua importanza, il resto non serve che ad 
oscurarlo. 

Quando la Morale passò dalle mani dei sacerdoti e dei 
teologi in quelle dei filosofi, il che avvenne in Grecia per 
la prima volta, non potè all'istante dimenticare la vita 
passata nel tempio, e|tra i Pitagorici, benché foLse abbellita 
caW'ayyiore fraterno, cùW eguaglianza, e fondata sul prin- 
cipio che quanto si farà agli altri tanto s'avrà in ricambio, 
fu tuttavia tenuta legata al Divino per mezzo del concetto 
della metempsicosi, che era una forma particolare della 
sanzione divina della morale per via di premio e di puni- 
lione. Ben è vero che, non essendo il Dio di Pitagora un 
ente personale, ma quasi un cerchio di cui il centro è dap- 
pertutto e la circonferenza in nessun luogo, la sanzione 




- 260 — 

morale Pitagorica prendeva aspetto di una necessità di 
natura. Ma questa però non cessava* di tenere obbligata la 
morale ad un legame sovrumano. 

Socrate affermava senza riserva la realità naturale ed 
umana del Buono^ e sappiamo anzi che non volea si sepa- 
rasse questo dal bello e dall'utile. Esso non determinava, 
è vero, con precisione in che cosa consistesse il bene e il 
male; ma se ne appellava sempre alla coscienza, per pro- 
vare che ad onta di qualunque sottigliezza vi sono alcune 
cose naturalmente buone ed altre naturalmente eattive. 
A chi si tributa ammirazione, a colui che sperpera la 
fortuna pubblica e si arricchisce, ovvero a chi forma la 
felicità d' un popolo colla sua amministrazione giudiziosa e 
disinteressata? Chi non è buono a nulla si copre d^ infamia. 
La voluttà, diceva Socrate, è tenuta in ispregio dalla 
brava gente, mentre la virtù accarezzata dagli uomini 
saggi riceve gli onori che le son dovuti in cielo e m terra. 
Chiunque rientra in se stesso non può, senza mentire, 
negare la differenza tra il bene e il male; e Socrate, pw 
convincere altrui di questa verità non ha bisogno di eem** 
tare i voti e di interrogare tutto il genere umano; si con- 
tenta invece della risposta del vostro proprio cuore. Ma il 
senso comune parla al modo stesso della vostra coscienza. 
Tutti i popoli distinguono il valoroso dal codardo, il 
temperante da chi è dedito agli stravizzi, l'impostore, b 
spergiuro, dall' uomo onesto che all' occasione muore in 
omaggio alla verità. Gli Stati . hanno ricompense per la 
santità e per la giustizia, dei biasimi e delle pene peic 
r ingiustizia e V empietà. I Greci e i barbari non si sono 
xoai posti d'accordo, eppure sono unanimi a riconoscere certe 
leggi che non sonp mai state scritte. La voce del mondo e 
quella della coscienza si accordano dunque meravigUosa- 
mente a proclamare la disciplina naturale del bene e del 
male, del giusto e dell'ingiusto. Che se il bene esiste per 
natura e non per convenzione, è dovere regolare dietro ad 



— «61 <^ 

esso la vila. Agir così, è la sola cosa che meriti nome di 
aiiioue. L'uomo deve dunque occuparsi a far il bene e fare 
il bene vuol dire farsi del bene, farsi felice. V'è una gran 
differenza tra la felicità e k fortuna. Questa è effetto del 
caso, quella è frutto del lavoro e della scienza. Questo ben 
essere (eyirpajta), di cui Socrate parla così spesso, è il 
nostro destino, la nostra vita, il nostro dovere, la nostra 
felicità ('). 

Si vede in tal ^uisa, come Socrate avesse staccato af- 
fatto la Morale dal Divino, riportandola alle vere condi- 
zioni umane, ricavando il suo valore dal gusto del Buono, e 
ordinandola al fine della felicità umana in questo mondo. 

Platone che volle trovare una base fissa al concetto 
socratico, tenue lo stesso modo colla Morale socratica; e 
quello e questa riconnesse con "una gerarchia di Idee sostan- 
ziali, separate, sovrumane, e così condusse di nuovo la 
Morale a connettersi col Divino. Sebbene i concetti di Pla- 
tone su questo punto sieno, come su tutti gli altri, svariati 
e in formazione successiva nei diversi dialoghi che ne ten- 
gono parola, l'ultima dottrina di Platone sulla Morale può 
ritenersi essere espressa nel Fitebo nella Repubblica e 
Delle Leggi. 

L' Idea del Buono tiene il posto culminante nella cele- 
ste regionfl delle Idee. In quella si affissa il filosofo e ne 
trae le norme dell'onestà, della santilà, dell'eroismo; il 
volgo non ne sa che ben poco. Allorquando Platone si ab- 
bandona all'entusiasmo, che l'idea del bene desta nell'a- 
nima sua, diventa veramente il poeta della Morale. 

Tutto quel che vi è di grande, di bello, di mara- 
viglioso nel completo culto della virlij è da Platone 
ritratto coi piii splendidi colori, e ne esce dalle sue 
mani un quadro abbagliante. In fondo all'essere nostro 



(') Memorab. pKMÌm. V. Denis. Hiit, desTbaoriea at dea idén 
morales dana l'Aot. 1. 1>%. 



— ges- 
si svolge un dramm.i di situazioni coutrapposte, una lotta 
tra il visibile e l'invisibile, tra il divino e il terrestre. 
L'uomo è posto tra il cielo e la terra; per via dei corpo 
dei sensi, dei desideri carnali, e per via di questa intelli- 
genza bastarda, che si forma in forza dell'unione dell'ani- 
ma col corpo, esso tiene a questa terra di morte che è il 
luogo del suo esiglio; per via dell' intelligenza pura, « per 
via dell'amore, della reminiscenza, del desiderio dell'i- 
deale, s'accosta al cielo sua vera patria. Se coi suoi pensie- 
ri e coi suoi desideri s'attacca a quel che v'è in lui di ter- 
restre e di mortale, si degrada si abb;)ssa, e per quanto è 
possibile, perisce. Se al contrario si unisce colla ragione 
alla verità eterna, coli' amore alla suprema bellezza, esso 
tende alla sua salute e vi arriva, cioè al vero essere e 
alla vera vita. E per questo che la temperanza e la forza 
sono le più grandi virtù, che elleno ci staccano dal corpo, 
e ci aiutano a rianuovare in noi il vero uomo, ci lasciano 
libertà di volgerci alla nostra vera patria, il cielo. I beni di 
questa terra non si agognano e si disputano fra noi che 
per ignoranza. 11 bene supremo e il suo possesso porta con 
se il più intenso piacere di questa vita e la felicità. L'uomo 
retto è sempre felice, il malvagio sempre infehce. L'anima 
è immortale, ha goduto una visione fuggitiva dell'Idea del 
bene corteggiando gli Dei in una vita premondana; se qaì 
seguirà la reminiscenza di quella visione sarà latta degna 
di godere la visione dello Idee eternamente. Altrimenti 
sarà inchiodata in corpi di bestie, finché la sua espiazione 
non sia finita. 

Questo poema sulla virtù ricco di così nobili senti- 
menti mostra i caratteri dell'amore e dell'entusiasmo, ma 
invano si chiederebbe ad esso una dottrina scientifica. Ari- 
stotile il primo volle sistematizzare anche la Morale, e per 
quel gusto delle dottrine positive che l'avea portato a farsi 
avversario a Platone in tutti i rami della scibile, si accinsa 
a riiare la Teoria della morale riconnettendosi con Socrate, 




— 263 - 

prendendo da Platone un riccliissimo materiale descrittivo 
e le traccie delle primarie virtù, e combinando il tutto in 
un sistema, che avesse per scopo primario di ricondurre la 
Morrile nelle condizioni umane, staccarla dal Divino, pre- 
sentarla come speculazione di scienziato osservatore della 
natura umana, non come fantasia di poeta. 

Aristotile incomincia dal porre a fondamento della sua 
trattazione la condizione del bene come fine a cui tutte le 
cose tendono, e applicando all'uomo questo concetto, trova 
che il ben supremo dell'uomo è la felicità, la quale non può 
trovarsi che nell'opera dell'anima compiuta secondo la sua 
più elevata funzione, cioè secondo la ragione retta dalla 
virtù. 

€ Tutte le arti, tutte le ricerche metodiche dello spiri- 
to, egualmente che tutti i nostri atti e tutte le nostre de- 
terminazioni morali, sembra che abbiano sempre in vista 
alcun bene che noi cerchiamo di raggiungere; e per questo 
si r perfettamente definito il bene quando s'è detto che è 
ciò che tutte le coso desiderano .... Il bene a cui ogni no- 
stra conoscenza, ogni nostra determinazione si volge è un 
bene supremo a cui in tutti gli atti della nostra vita volgia- 
mo la mira. La parola che lo indica è accettata pressoché 
da tutti; il volgo del pari che la gente illuminata lo chia- 
ma felicità. Ma sulla natura e suU' essenza della felicità 
son divisi i pareri, e su questo il volgo è lungi dall' accor- 
darsi coi savi. Alcuni la pongono in certe cose'appariscenti 
e che danno nell' occhio, come il piacere, la ricchezza, gli 
onori, mentre altri la ripongono altrove. Aggiungasi che 
l'opinione d'un medesimo individuo varia spesso su tal 
soggetto; quando si è malati, crediamo che la felicità sta 
nella salute; povei'i, nella ricchezza; oppure quando s' ha 
coscienza della propria ignoranza, ci contentiamo di ammi- 
rare coloro che parlano della felicità in termini pomposi, e 
che se no fanno una imagine superiore e quella che ce ne 
facciamo noi. Talvolta s'è creduto (da Platone) che al di 



— 264 — 

sopra di tulti questi beni particolari esista un altro Bene iu 
9e, che è la causa unica che fa beni tutte queste cose se^ 
coiidarie .... ma se il Bene che si attribuisce a tante coaB 
e si fa comune a tutte, come pretendesi, è uno, od è qual- 
che l'osa di separato che esiste da per se, è del tutto eviden- 
te eh' esso non potrà mai essere posseduto né praticato 

dall' uomo ■» 

« Le nature volgari e grossolane credono che la felicità 
sia nel piacere; ed ecco perchè non amano che la vita di 
godimenli materiali. Infatti vi hanno tre modi di vita, che 
si possono particolarmente distinguere: prima questa vita 
dì cui parlavamo, poi la vita politica o pubblica, e infine la 
vita contemplativa e intellettuale. La maggior parte degli 
uomini, tali quali si mostrano, sono veri schiavi che mena- 
no per gusto una vita da bruti; e quel che loro dà qualche 
ragione e sembra ginstificargli è che la più gran parte di 
quelli che hanno il potere, non ne profittano d' ordinario 
che per abbandonarsi ad eccessi degni di Sardanapalo. Al 
contrario gli spiriti eletti e veramente attivi pongono la fe- 
licità nella gloria, che è lo scopo più comune della vita pcn 
litica. Ma la felicità intesa in questo modo è qualche cosa 
di più superficiale e di meno solido di quella che si cerca 
qui. La gloria e gli onori sembra che appartengano a quelli 
che gli dispensano, meglio che a chijgli riceve; mentre il 
bene quale è quello proclamato da noi è qualche cosa di 
affatto personale, e che non bì può senza molta difficoltà 
rubare a chi ne è in possesso. Debbo aggiungere che so- 
vente sembra non si corra dietro alla gloria altroché per 
confermarsi nella Idea che abbiamo della nostra propria 
virtù; si cerca di cattivarsi la stima della gente saggi! a 
delle persone che ci conoscono, perchè la si considera un 
giusto omaggio al merito che ci supponiamo d'avere. Ne 
concludo, che anche agli occhi degli uomini che son con- 
dotti da quei moventi, la virtù ha la preminenza sulla gloria 
che essi ambiscono. E di qui sì può arguire che la virtù è 
il vero fine dell'uomo, piuttosto che la vita politica . 



— 265 — 

« Ma la virtù essa stessa è evidentemente troppo in- 
completa, quando è sola; perchè non sarebbe impossibile 
che la vita d'un uomo pieno di virtù non fosse che un lun- 
go sonno e una perpetua inazione. Potrebbe anch'essere che 
un uomo siffatto soffrisse i più vivi dolori e i più grandi in- 
fortuni; ora non potrebbesi mai ritenere, salvo il caso d'a- 
vere una tesi affatto personale da patrocinare, che l'uomo 
che vivesse in tali condizioni fosse felice > 

« Quanto alla vita nella quale ci si propone soltanto di 
arrichirò, è una sorta di violenza e di lotta continua; ma 
evidentemente la ricchezza non è il bene che si va cercando; 
la ricchezza è una cosa utile e ricercata soltanto in vista di 
altre cose diverse da lei .... » 

€ Siccome vi sono diversi fini, a quanto sembra, e sic- 
come noi possiamo ricercarne alcuni in vista di altri, come 
p. es. la ricchezza, la musica, e in generale tutti quei fini 
che possono chiamarsi strumenti, è l3ene evidente che tutti 
questi fini indistintamente non sono compiuti e definitivi in 
se stessi. Ora il bene supremo dove essere qualche cosa di 
compiuto e di definitivo. Per conseguenza, se esiste una 
sola cosa che sia definitiva e perfetta, quella sarà precisa- 
mente il bene che cerchiamo; e se ve ne è più di sìmil ge- 
nere, la più definitiva tra esse è il bene. Ora, a nostro pa- 
rere, il bene che vuol essere cercato per se stesso è più 
definitivo di quello che si cerca in vista d'un altro bene; in 
una parola, il perfetto, il definitivo, il completo è ciò che è 
eternamente ricercabile per se stesso. Ma questo è appunto 
il carattere che mostra d'avere la felicità; è per se stessa e 
sempre por se sola, che noi la cerchiamo, non in vista 
d'altra cosa .... » 

€ Questa conclusione a cui siamo arrivati, sembra che 
si ricavi anche dall'idea d'indipendenza, che si attribuisce 
al bene perfetto, al bene supremo. Evidentemente lo rite- 
niamo per indipendente da tutto. E quando parliamo d'in- 
dipendenza, non intendiamo affatto limitarlo all' uomo che 



- 266 — 

trae vita solitaria; ma può appartenere anche a chi vive 
pei suoi parenti, pei figli, per la moglie, e in generale pei 
suoi amici e concittadini, poiché l'uomo è naturalmente un 
essere socievole e politico. Per il momento, intendiamo per 
indipendenza ciò che preso isolatamente basta a farci ac- 
cettare la vita, e fa sì che essa non abbia altro bisogno di 
sorta; ora in questa condizione è appunto, secondo noi, la 
felicità .... » 

« Ma forse, accordato che la felicità è senza contrasto 
il pili grande dei beni, il bene supremo, si può desiderare 
ancora di conoscerne meglio la natura. Il modo più sicuro 
per ottenere questa nozione completa, è di sapere qual' è 
l'opera propria dell' uomo. Così al modo che per il musico, 
per lo scultore, per ogni artista e ingenerale per tutti 
quelli che producono qualche cosa e operano in qualche mo- 
do, il bene, la perfezione, sembra, stanno nell'opera spe- 
ciale che compiono; per simil guisa l'uomo deve trovare il 
bene nella sua opera propria, se v'e un'opera speciale che 
l'uomo debba compiere. Ma sarebbe forse possibile, che 
mentre il muratore, il tornitore ec. hanno un'opera specia- 
le e atti propri, l'uomo solo non ne avesse? sarebb'egli con- 
dannato dalla natura all'inazione? piuttosto come roc- 
chio, la mano, il piede e ciascuna parte del corpo compie 
una funzione speciale, non deesi del pari ritenere che l'uo- 
mo, indipendentemente da tutte queste funzioni diverse, 
ha ben anche un'azione sua propria? Ma quale può esser 
questa funzione caratteristica? Vivere è una funzione che 
l'uomo ha comune colle piante; e qui cercasi ciò che gli è 
proprio. Bisogna dunque porre da banda la vita di nutri- 
zione e di sviluppo. In seguita trovasi la vita di sensibilità; 
ma dal canto suo questa vita si mostra egualmente comune 
ad altri esseri, al cavallo, al bove, a tutti gli animali, co- 
me all'uomo. Resta dunque la vita attiva dell'essere fornito 
di ragione . . . Cosi la funzione propria dell'uomo sarebbe 
l'atto dell'anima conforme alla ragione. D'altra parte quan- 

M 



— 267 — 
do diciamo che una funzione è propria di un dato essere, 
intendiamo che essa è la funzione di quel!' esere ben confor- 
mato, come l'opera propria del musico è l'opera del buon 
musico. Egualmente in lutti i casi senza eccezione si ag- 
giunge all' idea semplice dell'opera l'idea della perfezione 
superiore alla quale quell'opera può essere portata. Se ciò 
è vero, possiamo ammettere che l'opera propria dell'uomo 
in generale è una vita d'un certo genere; e che questa vita 
particolare è l'attività dell'anima e una continuità d'azioni 
che la ragione accompagna; possiamo ritenere, che nell'uo^ 
rao ben conformato tutte queste funzioni si compiono rego- 
larmente e bene. Ma il bene la perfezione in ciascuna cosa 
varia a seconda della virtù speciale di quella cosa. Per con- 
seguenza il bene proprio dell' uomo è 1' attività dell' anima 
diretta dalla virtii; e se vi sono più virtù, diretta dalla piii 
elevala e più perfetta di tutte. Aggiungasi che queste con- 
dizioni debbono essere adempiute durante un'intiera vita; 
perchè una sola rondinella non fa primavera, e neppure un 
solo giorno di bel tempo ...» 

« Tuttavia,' la iclicità per essere completa, sembra non 
possa fare a meno di alcuni beni esterni. E impossibile, o 
almeno' non è facile fare il liene quando si soflre la man- 
canza dijtutto; vi sono molte cose che abbisognano di 
strumenti indispensabili, quali sono gli amici, le ricchezze, 
l'influenza politica. Vi sono ancora cose, la privazione delle 
quali guasta la felicità; come la nobiltà, la iamiglia agiata, 
la bellezza. Non si può dire che un uomo sia felice se 
è di una bruttezza ributtante, se è di cattiva nascita, se è 
isolato e senza tigli; anche meno può dirsi che un uomo sia 
felice, se ha dei figli e degli amici del lutto perversi; o se 
la morte gli; ha rapito gli amici e figli virtuosi ch'esso 
ptissedeva. » 

« Non potremmo egualmente chiamare felice né un ca- 
vallo uè un bove né altro animale qualunque, perchè nessu- 
no di essi è capace della nobile attività che attribuiamo al- 



— 268 — 

Tuomo. Per la stessa ragione non può dirsi d' un fanciullo 
che esso è felice; la sua età non gli consente quell'attività 
che costituisce la felicità .... » 

« E chiaro che se noi volessimo tener dietro a tutte le 
avventure d'un uomo, ci avverrebbe spesso di dover chia- 
mare il medesimo individuo felice e infelice. Ma bisognerà 
dunque dare tanta importanza alle fortunose vicende degli 
uomini? Non è in questo che trovasi la felicità o l'infelicità; 
la vita umana è esposta a queste vicissitudini inevitabili: 
ma sono gli atti di virtù che soli decidono sovranamente 
della felicità. Non vi è nulla nelle cose umane che sia 
costante e assicurato tanto quanto lo sono gli atti e la pra- 
tica della virtù: questi atti ci appariscono più stabili che la 
scienza stessa. Ben più, tra le abitudini virtuose quelle che 
fanno più onore all'uomo, sono anche le più durevoli, ap- 
punto perchè in esse soprattutto si compiacciono a vivere 
con più costanza le persone veramente fortunate. Così que- 
sta perseveranza che noi cerchiamo è quella dell'uomo feli- 
ce, ed esso la conserverà durante la sua vita intera; non 
praticherà e non terrà in conto che ciò che è virtuoso. Esso 
sopporterà le traversìe della fortuna con un ammirabile 
sangue freddo, saprà sempre rassegnarsi con dignità a tutte 
le prove, se abbia una virtù sincera e senza macchia; e sarà 
tetragono a' colpi di ventura. Le vicende della fortuna es- 
sendo molteplici e d'importanza varia, i piccoli rovesci 
saranno senza influenza sulla sua vita. Ma gli eventi gra- 
vissimi e ripetuti, se favorevoli, danno un nuovo lustro 
alla virtù; se sfavorevoli, scuotono e appannano la felicità; 
perchè ci portano de' crepacuori che pongono molti impedi- 
menti alla nostra attività. Ma in queste medesime prove 
la virtù brilla di tutto il suo splendore, quando un uomo 
sopporta con serenità gravi e frequenti infortunj , non per 
insensibilità ma per magnanimità. Se gli atti di virtù deci- 
dono sovranamente della vita dell'uomo, mai l'uomo onesto 
che noa chiede felicità altro che alla virtù, potrà diventar 



miserabile, poicbd non commetterà mai azioni biasimevoli e 
cattive. A nostro parere l'uomo veramente virtuoso e saggio 
sa portare ogni vicenda di fortuna senza perder nulla della 
sua dignità; sa tirare il miglior partito dalle circostanze, 
come un buon generalo sa impiegare nel modo più utile 
l'armata di cui dispone, come Ìl cakolajo sa fare la miglior 
calzatura possibile col cuoio che gli si dà. Se questo è vero, 
l'uomo che è felice perchè è onesto, non sarà mai infelice, 
anche se non sarà più fortunato, anche se cadesse per caso 
in mezzo a dei malanni pari a (luelli di Priamo. . . E sottin- 
teso che quando parlasi di felicità, se ne tratta sempre nel- 
la proporzione che è dato all'uomo acquistarla (') ». 

Questa bella introduzione contiene tutta la parto più 
originale dell'opera di Aristotile intorno ai costumi, la 
parte in cui il complesso delle virlìi è ridotto a sistema. Il 
corpo del trattato contiene la descrizione delle virtìi spe- 
ciali, la teoria del giusto mezzo per certe virtù, uno 
studio sul volontario e sull'involontario, e la teoria del 
piacere. Il trattato delle' virtù tutto intiero è un modello 
di studio Psicologico, di finezza di gusto, di perfetta cono- 
scenza delle condizioni umane. A volerne dare un saggio 
sarebbe troppo imbarazzante la scelta; e non si saprebbe 
resistere al desiderio di riportarlo tutto. Un libro intero 
nella Morale a Nicomaco consacrato alla trattazione della 
giustizia, sia individuale che sociale, la descrizione della 
magnificenza e della magnanimità, della temperanza, del 
coraggio, dell' amicizia e perfino delle virtù della buona 
compagnia, amabilità, socievolezza, franchezza, spirito, e 
loro contrari, danno a questa opera la più grande impor- 
tanza descrittiva, educativa, scientifica e letteraria. 

Quello che più ci interessa qui dal lato del metodo, ò la 
posizione c)ie Aristotile assegna al Buono nell'online dell'at- 
tività umana e la caratteristica scientifica che esso attribiii- 

(*) Eth. Nic. I. II. III. e Beg. 





- 270 — 

sce alla Morale. ' In proposito di questa^ Aristotile inculca 
a più riprese, che la Morale non debba considerarsi come 
una scienza alla pari delle altre, come quella che avendo in 
mira particolarmente la pratica umana, resiste alla ridu- 
zione a principj fissi, perchè le azioni umane rispetto alla 
loro bontà sono poco facili a sistematizzarsi e ridursi a prin- 
cipj, e perchè in ogni individuo umano si riscontra quella 
impecio di idiosincrasia che lo rende più o meno adatto a 
comprendere e operare il bene, e perchè nelle condizioni 
che circostanziano ciascuna azione in particolare si trova 
una cosi inesauribile varietà', da non poterne fare la 
legislaaone fissa. « Ci è forza in prima convenire, dice nel 
secondo dell'Etica a Nicomaco, che ogni discussione la quale 
tratta delle azioni dell'uomo, non può mai essere altro che 
un abbozzo assai vago e senza precisione, come abbiamo 
fatto osservare, perchè non si può nei ragionamenti otte- 
nere che quel tanto di rigore che ne comporta ^la materia 
trattata. Or le azioni e gì' interassi degli uomini non pos- 
sono ricevere nissuna prescrizione immutabile e precisa, 
del pari che le condizioni diverse della sanità. Ma se lo 
studio generale delle azioni umane presenta questi inconve- 
nienti, a più forte ragione lo studio speciale di ciascuna 
delle azioni in particolare presenterà anche meno precisio- 
ne, perche esso non rientra nel dominio di un'arte regelare, 
e neppure in quello di alcun precetto formale. Ma quando 
st agisce^ è una necessità costante di condursi a seconda 
delle circostanze uQlle quali si è posti^ assolutamente come 
si fa neir arte della medicina e in quella della naviga- 
zione (*) » . 

Questo passo per altro deve interpetrarsi, non già come 
una negazione della possibilità di ridurre in qualche modo 
a principj e leggi riconosciute il contenuto della Morale, 
come interpetxa Barthélemy-Saint-Hilaire, ma piuttosto 

(•) Etlu Nic. U. 2. 8. 



— 271 — 

come una ricognizione della complessità pratica dei fatti 
morali, complessità per la quale è reso spesso difficilis- 
simo il valutare la loro portata e la loro condizione di 
fronte alle leggi morali. Il Buono, benché possa essere for- 
mulato in certe leggi sommarie, sfugge spesso ad una 
legislazione ben determinata, e non si assomiglia al Vero, 
il quale nei casi scientifici particolari i più minuti può essere 
misurato e controllato; ma piuttosto si avvicina al Bello, 
che sebbene abbia alcune leggi, lascia nei casi particolari e 
nella infinita varietà di forme che può assumere un largo 
campo alla scelta dell' artista e alla conseguente apprezia- 
zione degli altri. Quando s'è voluto fare la legislazione mi- 
nutissima dei fatti morali, si è incappato nella casuistica^ 
come è avvenuto alla morale che alcuni teologi cattolici 
hanno tracciato per uso del confessionale . 

Nell'insieme delle sparse dottrine che sono contenute 
nell'Etica di Aristotile s'incontra uno squisito senso del ret- 
to, e un grande amore per la virtù. Non v'è quasi capitolo, 
che preso e parte non contenga concetti di alto valore mo- 
rale. Vera, e pienamente umana, e feconda dei più preziosi 
frutti è la corrispondenza che Aristotile pone tra la perfe- 
zione e l'attività. La virtù dell'uomo consiste nel vivere, 
nell'agire, nel dispiegare tutte le sue facoltà, sia in se 
stesse, sia nei loro rapporti alle persone e alle cose; come 
la virtù di un Popolo sta nel mettere in opera tutte le risor- 
se del proprio genio e quelle del paese ch'esso abita. Vivere 
bene peraltro, per gl'individui come per le nazioni, è agire 
bene, è agire conformemente alla natura razionale del- 
l'uomo. Questo concetto Aristotile lo attingeva all'osserva- 
zione della vita del popolo greco ne'suoi momenti più felici. 
Ne' quali il genio greco era una manifestazione della virtù 
della umanità nel suo più alto grado; il che avviene quando 
l'umanità non è abbrutita da bassezza di razza, né da 
eventi micidiali, nò da stupide legislazioni (*) . 

(*) Denis Hiit dM Theor. ec. Voi. I. p. 189. 



— 272 — 

Rapporto alla base sistematica adottata da Aristotile 
nella morale, io debbo esporre qui un mio dubbio, che si 
riferisce, non pure a quella base Aristotelica, ma a molte 
altre che i filosofi venuti dipoi hanno posto a sostegno 
sistematico dei concetti morali. 

Quando ci si studiò di sistematizzare il vero, si arrivò 
a trovarne le formule esatte, e tutte furono insediate sul 
principio di contradizione. D'allora in poi le formule 
fondamentali non sono più cambiate; molto meno è cambiato 
il pernio di quelle formule; l'aggiunta di alcune altre fatta 
modernamente ha lasciato intatta la base di tutto il lavoro 
logico, cioè il principio di contradizione che Aristotile vi 
avea posto. 

Invece il concetto fondamentale che dovrebbe servire 
di base alle formule del Buono o a quelle del Bello, è 
andato cambiandosi in mille modi e per lo più senza fi:utto. 
Oggi siamo a tal punto,, che nel fatto della morale scien- 
tifica due scuole si disputano il terreno, alcune di prove- 
nienza Platonica, e fanno una morale fondata sul concetto 
di Dio sul concetto del Bene assoluto, altre di provenienza 
Aristotelica, che fanno una morale senza. Dio e senza meta- 
fisica, e tengono a fondamento del loro sistema il concetto 
della felicità trasformato in quello della utilità. 

È un fenomeno mentale degno d'osservazione che il 
vero nei ragionamenti particolari non si può esattamente 
valutare senza l'uso tacito o espresso del principio di con- 
tradizione. E a rovescio il Buono, come il Bello, è facilissimo 
sieno valutati e pregiati nei loro fenomeni particolari da chi 
abbia' cultura appropriata, indipendentemente da tutti i 
concetti che furono adoperati per dar loro una base siste- 
matica, e sono contrastati da scuole varie e numerose. 
Sembra talvolta che il principio sistematico serva ad anneb- 
biare piuttostochè ad illuminare i fatti particolari morali. 
È facile provare questo effetto, quando si fissa il pensiero 
sul primum bonum di Aristotile, la felicità; ovvero su 



— 273 - 

quello di Platone, il Bene assoluto. La felicità di Aristotile 
non ci dà affatto, anche con tutte le illustrazioni elevale di 
cui la correda, il significato \oro dell'azione morale. Mollo 
meno ci esprime questo signi tìcato il Bene assoluto. Ari- 
stotile ha ragione di dire a Platone, che ogni bene è rela- 
tivo ( Eth. 1. 3. IO. ). Ma dal canto suo esso ci devia per 
un'altra parte dal gustare e o imprendere il bene, quando a 
quella relaziono ila per termine corrispondente la felicità. 
Il bene ha, sembrami, per termine correlativo ,11 migliora- 
mento della volontà; non già iiuello di tutto l'essere umano, 
che veramente costituirebbe l;i felicità. L'assoluto è invero 
una fantasia, ed ogni bene è relativo, ma non per una 
attinenza che esso abbia ad una comiizione di felicità, bensì 
per l'ordine che esso ha vers» la perfezione delta volontà, 
nella quale si assomma tutto lo sforzo morale di cui siamo 
capaci. La volontà e la sua perfezione è il vero centro del 
bene, centro che è in noi, non fuori di noi, come sarebbe 
il bene assoluto. Lo stesso vorrei dire di tutte le altre 
specie di summmn Oonuìn immaginate dai moralisti, fino 
alla utilità inclusive. 

Se d'altra parte dimentichiamo lutte le teorie relative 
a questo summwn honum, e riteniamo soltanto la nostra 
pratica della vita, aprendo il libro dell'Etica di Aristolile 
od altro o essendo spettatori di un bel fenomeno morale, ci 
troviamo senza alcuna tergiversazione portati a dichiarare, 
che quelle descrizioni sono vere descrizioni di elevate virtù, 
che queir atto è un atto veramente virtuoso. 

Che anzi allorquando per istudi.'ire la legittimità di un 
processo razionale ci fermiamo appositamente a fare un uso 
non tacito ma espresso del principio di con tradizione, ridu- 
cendo il raziocinio alle sue forme più rigorose, troviamo 
che la nostra ragiona si sente veramente illuminata, e que- 
sto richiamo del principio sistematico ci aiuta veramente a 
conoscere il verti nel caso parlicolaro. E al contrario nei 
casi speciali della morale se ci rechiamo a mente alcuni de; 



- 274 — 

prihcìpj sistematici, sia il bene assoluto, sia la felicità, sia 
Futilità, il nostro giudizio sul fenomeno morale presente ne 
viene intorbidato, o almeno infruttuosamente distratto. 
Tutti i quaranta e più sistemi, che sono stati immaginati 
per dar fondamento all'Etica, ci presentano il loro sum- 
mum bonum come una forma speciale della bellezza, della 
dignità, dei vantaggi, dei piaceri della vita virtuosa, ma 
nessuno di loro ci dà più di quel tanto che ci vien porto 
dal nostro gusto per la bontà delle azioni . Un cattivo ragio- 
natore può col mezzo del suìnmum logicum essere condotto 
a valutare con giustezza i ragionamenti; ma nessuno dei 
summum bonum finora escogitati sarebbe capace di indurre 
l'abilità pratica di discernere le azioni buone in colui che 
fosse sprovvisto del senso morale. 

Questa condizione dei fenomeni morali proviene, secon- 
do ogni probabilità, dall'essere il Buono percepibile da noi 
per via di una facoltà mista di sentimento e di razionalità, 
non altrimenti che il Bello. Colla diflferenza, che mentre 
il Bello è ordinato al solo godimento estetico, il Buono 
è ordinato alla pratica umana, e però porta seco il 
dovere, che l'altro non porta. Questo sentimento si educa 
più facilmente che la ragione, ma ha bisogno pur esso di 
essere educato. ^ 

Tale sembra essere stata l'opinione anche di Aristotile, 
il quale fa osservare più volte, e specialmente trattando 
della prudenza virtù regolati*ice delle azioni, come V espe- 
rienza della vita e la pratica delle azioni buone fatino na- 
scere nel riostro spirito quasi un occhio che discerne a prima 
vista i veri principj, che debbono regolare la nostra con- 
dotta, e ciò che è buono o cattivo in un caso particolare e 
determinato. E perciò noi dobbiamo seguire queste intui- 
zioni dell'occhio spirituale colla stessa confidenza con cui 
accettiamo i principj scientifici; e coloro che non hanno 
abbastanza pratica e conoscenza della vita, se aspirano alla 
onestà, non debbono essere meno attenti e meno sottomessi 



— 275 — 
alle decisioni degli uomini sporiraentati e prudenti, che alle 
dimostrazioni della scieuza ('). 

II risultato di queste considerazioni mi porterebbe a 
concludere, che ò irapossibilo ridurre la Morale a uua 
generalo e unica formula, coiac d'altra parte ritengo impos- 
sibile fare altrettanto per 1' Estetica; e che l'unica ragione 
dell'oscillare e del" frequeme vaneggiare dei sistemi di 
Etica, in mezzo alla pili iiiij[iida e sincera suppellettile di 
fatti morali, s'abbia a ricercare nell' uso di tratiare melafi- 
sicamento il Buono, 

Che cosa è il Buono? Noi sappiamo liensì che cosa è 
buono oggi, e che cosa era buono nei tempi addietro, e l'idea 
del Buono che noi abbiamo proviene dall'accumulazione di 
tutte le esperienze morali del passato. Ma questa idea 
è perfezionabile. Se si fosse domandato a Solone, o a 
Licurgo che cosa è il Buono, certamente avvebber dato 
una beila risposta, ma che a noi sembrerebbe man- 
chevole. Dicono alcuni filosofi, che sebbene le cose buone 
non siano sempre le slesse, in quantoche certe cose che 
erano buone per gli antichi non lo sono più per noi, 
viceversa, tuttavia il Buono assoluto si sa che cosa è. 
Ma questa asserzione dipende da una strana illusione di 
scuola. Se il Buono assoluto si conoscesse, come avreb- 
bonsi meglio che quaranta sistemi di £l.ica, ì quali ap- 
punto diversificano tra loro nella definizione di questo 
Buono assoluto? Mentre questi medesimi sistemi in ciò che 
si conosce davvero, cioè nella descrizione delle virtù, gareg- 
giano di sincera analisi, mostrano poca o nissnna diversità, 
avendosi le poche varianti ad attribuire alla varia condi- 
zione sociale del tempo in cui nacquero certi sistemi. Or 
che significa questo? Significa, sembrami, che l'apprezza- 
mento della bontà delle azioni si compie originariamente in 
noi per opera di un sentimento, al quale sopraggiunge 



(•) Bth. Nic. VI. 12. 43. 




~ 276 -- 

la ragione. E infatti i prodotti del sentimento sono quelli 
che non si definiscono affatto. Ed è perciò assurdo definire 
il Buono, come è assurdo, in un ordine di minor portata, 
definire il Rosso o il Celeste. 

Aristotile sentì questa impossibilità^ e in conseguenza 
scansò la definizione del Buono, e per sistematizzare l'Etica 
spostò la tesi fondamentale di essa; trasportandola dal 
Buono ad una delle primarie sue condizioni concomitanti, 
la Felicità; e appena esaurita questa tesi, in tutto il trat- 
tato non fece che ritrarre dal vero, dalla pratica dell' uomo 
onesto i lineamenti delle più nobili virtù. E appunto perchè, 
invece di ragionare, descrive, l'Etica di Aristotile si è gua- 
dagnata una classicità perpetua. Egli è che sulla virtù 
e sulla bontà delle azioni è vano il ragionare; si può accon- 
tentarsi di descrivere; e la descrizione sveglia l'assenso e 
l'attaccamento assai più che il ragionamento, come avviene 
per le opere d'arte. Laonde per la Morale non potrà mai 
farsi un sistema, come è stato vagheggiato ostinatamente 
dai filosofi; ma solamente una classificazione come per 
le scienze naturali; solamente un codice descrittivo che 
diventa codice di precetti. Ma chi sancirà questi pre- 
cetti? Quel sentimento razionale che ci dà le grate sen- 
sazioni provenienti dalle opere buone, quello stesso ci dà 
il rimorso', quando si è rimasti paghi ad ammirare le 
opere buone senza imitarle. E questo rimorso è una delle 
forme della sanzione. Tutto questo si vede avvenire nel 
fatto, quando il fanciullo sente a dire come il leone, veden- 
do l'agnello dissetarsi al ruscello in cui era solito bere, lo 
rampognava ch'e' gli avesse intorbidato l'acqua, mentre il 
meschinello stava bevendo lungo la corrente più in basso; 
e quando il fanciullo ode a raccontare come di questo 
delitto la prepotente bestia fingeva di punirlo facendosene 
un lauto pasto, la descrizione del vizio è qui molto più 
efficace moralmente di qualunque ragionamento. Ottenuto 
una volta questo effetto morale, il dovere si può ragie- 



» 



— 2Tr - 

nare, perchè la regola allora è posta, e la regola e l'atto 
umano sono duo termini ben definiti . E anche per questo 
motivo, che la Morale è il campo dell'educazione piuttosto- 
che quello della istruzione. 

Ciò non ostante non bisogna dimenticare, che il Buono 
si manifesta nell'individuo come nei popoli, in diversi gradi, 
e io ciascuno di essi si piega in modo diverso all'applica- 
zione della ragione. 11 Buono si percepisce originariamente 
pervia di un sentimento individuale, a cui si aggiunge in 
seguito la comprensione intellettiva di quell'ordine e perfe- 
zione che caratterizza le opere buone. Nel suo primo appa- 
rire il Buono è buono per noi; coll'andar del tempo si ar- 
riva a intendere e pregiare il buono per tutti. Infatti nei 
popoli giovani e nei fanciulli il sentimento del bene è 
sentimento egoistico. A ragione fu detto: nessuno più 
spietato dei fanciulli . Altrettanto può dirsi dei popoli 
incolti. Il Buono pregiato così per opera di un senti- 
mento egoistico, fa strada più tardi alla comprensione 
del Buono considerato in rapporto al benessere di tutti i 
nostri simili e anche di tutte le creature, e si forma 
in precetto morale, e si piega a essere trattato e classato 
ragionevolmente . 

II Buono nelle azioni umane e il Bello artificiale sono 
un riflesso di un ordino naturale delle cose, e danno origine 
alle opere buone e alle opere d'arte per effetto di una pro- 
duttività libera nell'un caso, doverosa nell'altro, ma sem- 
pre radicata nell' attività individuale. Una volta prodotta 
in pratica alcuna forma di Buono o di Bello, essa diventa 
patrimonio e conquista assicurata di un intero popolo o 
anche dell'umanità, salvo il caso che la distrugga la vio- 
lenza di un popolo più barbaro , o l' azione cornittrice di 
basse passioni la faccia porre in dimenticanza. Quell'uomo 
che in seno a una tribù selvaggia si astenne il primo dal 
mangiare i suoi prigionieri di guerra, quello ebbe conqui- 
stato una forma di Buono, che il sentimento dogli altri 




J 



_ 278 - 

uomini imparò in seguito ad apprezzare, e la pose in pratica 
e la accreditò con crescente diffusione, finché diventasse 
precetto quell'astinenza. Lo stesso dicasi di tutte le virtù. 
La storia di esse si potrebbe fare intieraj^ se avessimo alla 
mano documenti bastevoli sulle età primitive dell'uomo, se 
potessimo fare la storia della fanciullezza del genere umano. 
Lo troveremmo spovvisto di tutte, lo vedremmo acquistarle 
a una a una in lunghi secoli, fino a quante ne possiede og- 
gidì. E il vocabolario della virtù sta scrivendosi ancora, e 
non si chiuderà che coli' ultimo uomo . 

L'idea del Buono nelle condizioni umane potrebbe 
aversi soltanto allora, e non già Y idea del Bene in 
se, ma della portata delle facoltà umane nel • riprodurre 
l'ordine che lo costituisce. Tanto meno si può conoscere 
l'essenza del Buono finché esso é in formazione, e Aristo- 
tile fu condotto da questo pensiero a rigettare il Bene in se 
di Platone, rifiutandosi di poiTe a base del valore morale 
delle azioni umane un che di estraumano e di estramon- 
diale. Ma quando esso connetteva scientificamente l' idea 
del Buono con quella della Felicità, considerava, a quanto 
sembrami, come condizione essenziale ciò che è condizione 
accessoria, benché abitualmente concomitante, e sostituiva 
ad una astrazione metafisica Platonica una divagazione 
scientifica . 

Aristotile cita a più riprese nel suo trattato dell'Etica, 
come punto di partenza all'osservazione morale € quel che 
fa r uomo virtuoso» il che sarebbe un circolo, se per giu- 
dicare e pregiare la pratica virtuosa non avessimo un 
sentimento, che, come ho accennato sopra, previene la 
ragione, al modo appunto che l'uso generale dei sensi 
precede la formazione intellettuale dei principi in tutto 
l'ordine mentale. 

Questa base sperimentale che Aristotile cercava nel* 
l'Etica, a più forte ragione la gli bisognava nella Politica 
o scienza sociale. E infatti tutto il lavoro Aristotelico sulla 



— 279 — 

Politica non è che il riassunto filosofico di tutta la storia 
dell'organamento sociale secondo le forme che eransi rag- 
giunte sino allora. Il metodo seguito da Aristotile in 
quegli studj è così evidente, che mi dispensa dal farne 
parola. Nella Politica vedesi lavorare la medesima mano 
che dclineava il trattato delle virtù; e con una simigliante 
giustezza d'apprezzamento vedonsi ritratte le caratteristi- 
che delle diverse forme di Governo, delle condizioni so- 
ciali, delle necessità fondamentali della convivenza umana, 
dei rapporti tra lo stato e i cittadini, delle virtù e delle 
condizioni del viver libero; come anche vedonsi trattati 
teoricamente e posti in grado di dottrine alcuni difetti 
sociali che viziavano il mondo antico. Questa particolarità 
della trattazione politica di Aristotile, mostra come esso 
credesse infruttuoso anzi dannoso lo scostarsi dall' espe- 
rienza sociale nel tratteggiare le necessità e le condizioni 
politiche, per rifare la società a priori, come avea pra- 
ticato Platone. 



280 



VI. 



Lia Mctafllsilca. 

La parola « Metafisica'» ò entrata nella filosofia quasi 
di contrabbando. Il contenuto di essa esisteva già da un 
pezzo, quando fu adottata a significare una parte delle 
ricerche filosofiche. Aristotile, o piuttosto il raccoglitore 
delle opere sue, dovendo assegnare a ciascun libro il suo 
posto, dispose le opere in un ordine che parve indicato 
dalle materie trattate, e arrivato a collocare le opere /?- 
siche, fece sì che a queste tenesse dietro un libro Ari- 
stotelico poco facile a classare per la materia e per la 
difficoltà dello studio, perchè trattava di certe generalità 
applicabili a tutto il lavoro scientifico precedente, e lo 
intitolò « dopo le opere fisiche » « (lercx xa (pvaiìta » . 

Aristotile trattava in quel libro la Filosofia prima, 
ossia scienza delle cause prime. E di questo genere di 
ricerche s'invaghirono poi i filosofi tanto calorosamente, 
che, certo contro la volontà del maestro, concentrarono 
in esse tutto il loro lavoro, e trasportarono a tutti gli 
argomenti filosofici un metodo che era speciale e proprio 
alla ricerca delle cause prime. In questa maniera la Me- 
tafisica si occupò incessantemente nel fabbricare un edi- 
fizio di teorie, che dassero le ragioni ultime di Dio, ^iel 
Mondo, del pensiero, del moto, di tutte le forze e di tutti 
gli aspetti sotto di cui le forze si manifestano. 

È facile scorgere, che se grandi oscurità s' incontrano 
nello scrutare le ragioni prossime e le leggi viventi degli 
esseri^ foltissime ed impenetrabili dovrannosi incontrare 
in quelle profondità metafisiche. 

Non fa certo meraviglia, che il genio dello Stagirita, 
dopo aver percorsa tutta la natura e tutto lo scibile allora 



— 281 - 
conosciuto, si raccogliesse in una gran eiotesi a -veder di 
scrutare la profondità dell'essere. Esao grande scopritor 
di mondi nella scienza, tentò quei recessi spiando se nulla 
sì scorgesse di vivente in quelle tenebre. Ma fa però 
meraviglia che i filosofi cotanto si invaghissero poi di 
quelle profondità, da trascurare per esse le piii produttive 
ricerche intorno alle cause prossime. 

A proposito di cift che forma l'oggetto della Metafisica, 
cioè la ricerca delle cause prime, sembra che Aristotile 
fosse tratto ad occuparsene della intenzione di correggere 
le conclusioni di filosofi suoi predecessori, e specialmente 
di Platone, che avea fatto delle cause prime tante forze 
produttrici estramondane, e la loro azione avea diffusa 
sopra tutte le forme dell'essere e dell'intelligenza. Aristo- 
tile dovette molto avere a cuore di ricondurre nell'ordine 
umano e mondano anche queste fondamenta dell'essere e 
dell'intendere. Che molto lo preoccupasse il pensiero di 
correggere i predecessori, si vede dalla cura particolare 
che esso pone nel richiamare le loro dottrine in un intiero 
libro, e nel farne critica accuratissima, specialmente di 
quelle dei Pitagorici e di Platone. 

Ma certo dal difetto radicale della Metafisica, quello 
di prendere un concetto astratto e adoperarlo come un 
reale, non si guardò abbastanza Aristolile stesso in questa 
sua ricostituzione della Metafisica. 

Egli incomincia dal constatare come la sola cognizione 
delle cause è capace di formare la scienza. Ed esempli- 
fica questa premessa, mostrando come la cognizione di 
certe cause prossime sia generatrice di certe particolari 
scienze. Egli argomenta in seguito dall' esservi delle 
scienze particolari, che si aggirano intorno a cause par- 
ticolari, che si debba risalire di causa in causa fino alle 
cause supreme, le quali sieno la materia di una scienza 
prima. 

< Ci è una scienza, che contempla l'ente in quanto 




— 282 — 

ente e le proprietà sue essenziali. La non s' identifica con 
veruna delle scienze particolari: giacché nessuna di queste 
medita in universale sull'ente in quanto ente; ma ciascuna 
studia le proprietà di sola quella parte dell'ente, che 
riseca per se; così fanno, per esempio le matematiche. 
E poiché noi cerchiamo i principj e le supremissime cause, 
è chiaro che devono necessariamente essere principj e 
cause d'wwa natura per se» (^). 

Di quali cause si parla, quando si nomina le cause 
prime? Certo di alcune cause che possono esser tutto, fuor- 
ché cause speciali. Se fossero cause speciali di fatti spe- 
ciali, produrrebbero le scienze minute già annoverate. 
Sono dunque cause di fatti universali. Ma i ftxttì universali 
dove sono, di grazia ? Dinanzi a noi non vi è che fatti 
particolari. L'ente in quanto ente, che qui si cita come 
un fatto universale, non è, a vero dire, un fatto, è invece 
una astrazione presa dai fatti particolari, eJ alla quale 
si è dato valore di fatto. E già s'intende, come fatto 
universale sia una contradizione nei termini. Ora perché 
la conclusione addotta fosse legittima, bisognava dimo- 
strare che vi erano delle cause prime e dei fatti universali 
come erasi adoperato perle cause prossime e speciali. E 
ciò Aristotile non fa. E bisognava dimostrare, che la legge 
trovata buona per le cause speciali e prossime, lo fosse 
egualmente per queste supposte cause prime. Il che dav- 
vero é pericoloso a presumersi senza dimostrarlo; perchè 
si tratta di cambiare ordine e sfera^ applicando cioè una 
conclusione trovata nell'ordine dei fatti, all'ordine ben 
diverso di una astrazione presa per fatto. A patto soltanto 
di legittimarla, si potea dunque trarre quella conclusione. 
Ma il trarla così per analogìa, risalendo una catena di 
cause, mentre questa catena stessa non poteva arrivare 

(*) Metaph. IV. 1.1. 



— 283 — 

fino alle cause supreme, costituite per loro natura al di 
là delle cause speciali, era abbastanza arbitrario. 

L'errore commesso da Aristotile in siffatto ragiona- 
mento, dipende da questo, che mentre per ciò che si rife- 
risce alle cause speciali, si tenne alla realità ed alla espe- 
rienza, per le cause supreme invece ha preso un concetto 
astratto, formato sulle cause prossime avute dall'espe- 
rienza, e lo ha valutato come reale. Il che si vede dal- 
l'avere dato valore di cause ai concetti clje ne provenivano, 
come vedremo di quello di Forma e di quello di Materia. 

Questo errore dell'aver attribuito azione reale ad una 
astrazione, si propagò in tutta la Metafisica posteriore. 
Se prendasi a riscontrare tutta la storia della Metafisica, 
si troverà che il vago e l'incerto di tutto il suo anda- 
mento, si rapporta precisamente a questo vizio, che tutta 
la guasta da capo a fondo. E quanto più l'astrazione che 
è stata vestita di forme reali è sublime, tanto più l'errore 
è grave, e più proteiforme l'aspetto delle dottrine che ne 
provengono. Dal vedere agire un essere si è fatta l'astra- 
zione della forza, del potere, della causa, e queste astra- 
zioni si sono considerate in seguito come esistenze ine- 
renti, benché distinte, ai concreti, in cui risiedono, e che 
animano in qualche modo. Così in seguito si ebbe una 
forza vegetativa e una forza plastica e un principio 
vitale ed egualmente V essenza e la sostanza, finte realità. 
I fenomeni furono cosi presi a considerare come partico- 
lari tendenze della astrazione massima realizzata, la Na- 
tura, la quale fu considerata quasi come impersonale, e 
fu immaginata operante per diversi motivi e in certo 
modo più o meno analogo a quello degli esseri che 
hanno coscienza. Per questa via si attribuì il salire del- 
l'acqua nella pompa all'orrore della natura per il vuoto. 
La caduta dei gravi e l'ascensione della fiannna furono 
spiegati colla natura che cerca il suo posto. Alcune im- 
portanti conseguenze furono tratte dalla dottrina^ che la 



— 284 - 

natura non opera a salti. la Medicina la vis medtcatrix 
naturae détte il modo di spiegare il processo riparativo 
che i moderni fisiologi attribuiscono a particolari agenti 
6 loro leggi. 

Basta una piccola cognizione della storia del pensiero, 
per convincersi, che si scambiò l'astrazione colla realità 
durante il periodo speculativo di quasi tutta l'antichità e 
del Medio-Evo. Anche avanti Aristotile questo scambio 
era stato generalizzato e applicato sistematicamente nelle 
Idee di Platone. Quello che tutti i Metafisici faceano e 
fecero poi nelle particolari nozioni, esso lo fece nell'or- 
dinamento generale dell'Intelletto, dichiarando che. le Idee 
erano vere realità sussistenti. Gli Aristotelici presero una 
diversa via, ma non furono da meno dei Platonici nel dar 
xjorpo alle astrazioni. Essenze, quiddità, virtù occulte 
delle cose, erano da essi accettate in buona fede come 
spiegazione dei fenomeni. Il Realismo della Scolastica non 
era che la conseguenza più logica di tutto il metodo me- 
tafisico. Non solo le qualità astratte, ma i nomi dei generi 
e delle specie furono da esso ridotti ad obiettive esistenze. 
Si arrivò a credere che fossero sostanze generali corri- 
rispondenti alle classi conosciute delle cose. 

Il Realismo scomparve, traendo seco la sostanza Uomo, 
la sostanza Albero, la sostanza Animale;* ma Y essenze ^ le 
quiddità, le virtù e qualità occulte sopravvissero, e 
fiarono i Cartesiani che primi le vollero sbandite. Nel 
sistema Cartesiano tutti i fenomeni naturali erano spiegati 
colla materia e col moto, che non sono astrazioni, ma 
invariabili leggi fisiche: tanta fu per altro la parte fatta 
air ipotetico nel loro sistema, che non riuscirono a portare 
la scienza filosofica sopra il suo vero terreno. Lungo tempo 
infatti dopo i Cartesiani, le fittizie entità continuavano ad 
essere immaginate, come mezzi di spiegare i più misteriosi 
fenomeni. Una grande varietà di frasi, un profluvio di 
forze e principj tentavano di coprire la nudità della 




scienza, e facean viata di spiegare i fenomeni della natura 
organizzata. Nei motlerni tììosofi metafisici questo imbro- 
glio si incontra portato alla massima confusione; i nomi 
astratti delle classi di fenomeni hanno nelle loro mani 
preso realtà; e formatisi certi accozzi d'idee o di immagini, 
prendono corpo, e collo sparire della loro natura di crea- 
zioni mentali, sì fanno passare per cause efficienti (•). 
È per questa via che i filosofi facendo poi a loro bell'agio 
giuocare i vani concetti nella mente, gli intrecciano ìd 
isvariati sistemi, ciascuno dei quali va ad urtare in un 
sistema avversario, il quale facilmente lo smonta, e poco 
dopo è smontato esso medesimo da un altro, che sarà 
amontato a piccolo intervallo con -vicenda indefinita. 

Che cosa è rimasto di tanti magnifici sistemi, che i 
filosofi a grandi spese di fantasia hanno architettato, per 
sorreggere l'edificio delle cause prime, se non che un vano 
suono, e peggio un disgusto della Filosofia? Lasciando 
stare lo spreco della virtù intellettuale, che potrebbe essere 
adoperata in meglio, e la compassione svegliata negli 
spettatori, il peggio è, che questo travolgimento delle 
astrazioni colla reahtà diventa un grave imbarazzo della 
filosofia, la quale dovrà faticare assai per disbrigarsi da 
sì trista eredità. 

E questo malvezzo non è soltanto dalla Metafisica 
adoperato nei casi speciali del ragionamento scientifico e 
I nelle dottrine di piccola portata, ma nelle più importanti 
[ e nelle più complicate, di preferenza. 

A questo modo per es. dal vedere tra i concreti na- 
turali questo e quell'essere mettersi in azione, se ne cava 
legittimamente la cognizione della forza di queslo o quel- 
Tessere, il concetto astratto della sua causalità ec. La 
Forza e la Causalità non concrete, sono enti di puro uso 
mentale, adatti a soccorrerci nel porre a calcolo le proprietà 



(') Rtiiart, Mill. Auguste Cointe und FosìtiviBm. 



— 286 — 

di un essere, sono nulla più che i numeri in un libro di 
contabilità, i quali non hanno che un rapporto mentale 
col danaro vero ch'essi rappresentano. 

La mente fermandosi su quelle astrazioni, ha creato 
le Cause le Forze ^ in luogo di quella causa, quella forza. 
Astrazione che può ancora legittimamente sussistere; pur- 
ché non sia trattata al modo di realità, come farebbe chi 
invece del danaro dasse in pagamento le cifre del libro 
mastro. 

In seguito la Metafisica prendendo queste Cav^e e 
queste Forze e a poco a poco lasciandosi andare a con- 
siderarle come enti, ha voltato il tergo ai fatti, da cui 
avea tratto questi concetti, ed ha creato una gerarchia 
di cause e di forze, colla quale ha preteso di spiegar la 
natura e il suo movimento. Le Forze sono diventate anima 
della materia, le Cause sono diventate regolatrici del 
moto. 

Dalla moltiplicità delle Cause è passata alla Causa unica 
generatrice di tutte. Questa è la terza astrazione, in cui 
il concreto è ormai tanto lontano, che non si scorge più 
affatto. 

Si è andati più oltre: questa Causa unica s'è dichiarata 
fuori della natara. Nella stessa maniera che dal concetto 
di Essere, collo spogliarlo della caratteristica dell'esistenza 
seguendo un'abitudine di funzione astrattiva della mente, 
la Metafisica ha tratto il concetto del Nulla; collo stesso 
processo dalla Causa unica naturale ha tratto il concetto 
di Causa unica sovrannaturale, . per via della ragion dei 
contrarj . 

Il concetto di Dio era sorto in tal guisa, non come 
gli uomini primitivamente lo concepirono, ma come lo 
sapea fare la Metafisica, portato all'altezza della più lon- 
tana astrazione. 

I primi concetti dei popoli intorno alla Divinità par- 
tivano dal sentimento del maraviglioso, e salendo al culto 



-- 287 — 

della natura benefica, o malefica, od orrida, o incantevole, 
riuscivano a foriuarc una Divinità in ogni fatto che tra- 
scendesse la forza umana. 

(iuesto procedimento assieme a tutte le sue conse- 
guenze, dee valutarsi come prodotto del senso intimo, 
doH'affetto, della fantasia e della intelligenza dei poi)oli 
primitivi, ma non ha valore nel campo della scienza. Infatti 
presso tutti i popoli, nessuno escluso, si trova anche un 
presontimenlo vivissimo ed un culto della magia, delle 
streghe, degli spiriti familiari. -E anche questo ha valore 
nell'ordine delle f icoltà affetti ve e fantastiche, ma non in 
quello della ragione scientifica. 

La Metafisica volle infatti colmare questa lacuna, ten- 
tativo già fatto dalla Teologia di tutti i popoli, volle rin- 
nuovare il concetto di Dio, dandogli una espressione ra- 
zionale, utilizzando quella sua teoria della causa prima, 
e così lo trasportò dalle regioni del seìiso intimo in quelle 
della speculazione pura. Ma in realtà in questa nuova sede 
la Divinità si trovò più disagiata, che nella prima. 

Infatti per corredare questo Dio metafisico di qualità 
suo proprie, cosa si fece? Presso a poco quello, che faceano 
gli Alchimisti p' r formar Y oro; voleasi comporre Y oro 
coH'estratto dei metalli. Così fecero i* Metafisici: vollero 
comporre Dio quasi coU'estratto delle cose naturali. Hanno 
dunque detto, che siccome la volontà è la miglior cosa, 
che si possa attribuire agli esseri naturali. Dio è personale; 
che siccon)e le cose sono buone, ma relativamente. Dio è 
Beno assoluto; che siccome tutte le forze nostre sono finite, 
por ragion dei centrar]. Dio ò infinito ec. 

[)i questo passo la Metafisica ha fatto Dio, pigliando 
a lovescio le imperfezioni delle cose, e moltiplicando per 
un certo infinito ideale le loro qualità buone. 

Or questo modo di costruire i grandi prodotti della 
idealità essendo illegittimo, la conseguenza necessaria che 
ne derivava, era elio le idt'e così costruite non avessero in se 



la preponderanza razionale irresistibile, la quale è caratte- 
ristica dei concetti legittimamente formati, e può sola sfor- 
zare l'assenso di tutti gli uomini. N'è seguito uno scisma 
filosofico: i metafisici si dividono oggi, e si divideano lungo 
tempo addietro in due grandi classi, l'una delle quali pro- 
pugna l'esistenza di un Dio personale, e l'altra tiene per 
un Ente panteistico; e nessuna delle due ha argomenti 
bastanti a ridurre al silenzio l'avversaria. Or questo noa 
può provenire altro che dalla impotenza razionale del con- 
cetto metaliaico di Dio e della Causa prima. 

Si potrebbero facilmente analizzare molti altri concetti 
metafisici con un procedimento analogo, e in fondo a tutti 
troverebbesi una personificazione o concretizazione di ele- 
vatissimi concetti astratti. Che significalo porta in se l'Idea 
di Hegel, se non che la considerazione della forza mentale 
come una manifestazione suprema della natura, e la con- 
seguente trasformazione della piii alta idealità nella più 
alta realità, attribuendo la realità della mente produttrice 
all' idea prodotta? 

Ma non è qui mio pensiero di fare il processo alla Me- 
tafisica. Dal punto di vista di questi vizi di metodo, Aristo- 
tile ha contribuito alla loro diff'usione piuttosto per la cele- 
brità ottenuta dalle sue opere, che per la radicale viziosità 
delle sue dottrine. Perocché esso è certamente il meno 
metafisico fra i filosofi; e la metafisica dell' età moderna è 
piuttosto figlia di Piatone che di Aristotile. Dal contenuto 
dei libri Aristotelici di metafisica sceglierò due dottrine: 

1. quella che si riferisce ai primi principj dell'ordine logico; 

2. quella che ai riferisce allo cause prime dell'ordine onto- 
logico. Nella prima non s'ha nulla dì metafisico, essendo 
una analisi dei processi mentali conservati nel loro proprio 
ordine; nella seconda si trova, a confrontarla colle dottrine 
dì altri filosofi, un minimum di metafisica. Dico un mini- 
mum, perchè questa trattazione, sebbene mostri l'intenzione 
di fare delle Cause dei veri principj ontologici, negli altri 



suoi libri, all'occasione (lolle varie ricerche filosofiche, Ari- 
stotile non bì serve in generale di queste cause altro che 
per uso logico, e iu quelli e in questo libro medesimo serba 
gelosamente la prerogativa di vera entità naturale al solo 
composto, al concreto individuale. 

Una delle importanti dottrine della filosofia prima, se- 
condo Aristotile, è, come ho l'.etto, quella che si riferisce al 
Primo logico. 

€ S'ha inoltre a dire, se la scienza che tratta dei cosi 
detti in matematica assiomi, faccia o no tutt'uno con quella 
che tratta dell'essenza. 

« Ora è evidente che sì, e che è la scienza appunto del 
filosofo; di fatto s'applicano a tutti gli enti, e non solo ad 
un genere d'enti in particolare ad esclusione degli altri... » 

Perciò nessuno di quelli che hanno soggetti di studio 
parziali, non il geometra, non l'aritmetico, s'attentano 
punto di discorrere, loro, sulla verità o falsità di questi 
assiomi .... » 

« In ogni materia, chi n' ha la più gran cognizione pos- 
sibile, bisogna dire, che ne possegga i più fermi principj: 
di maniera, che chi conosce l'ente in quanto onte, deve 
possedere i principj pili fermi. Ora, questo è appunto il fi- 
losofo > . 

« Il principio poi il più fermo è quello su cui è impossi- 
bile di errare: giacché bisogna ohe esso sia addirittura il 
più conosciuto ( di fatto tutti errano in quelle cose che non 

conoscono ) e non ipotetico Ora, che Ìl princìpio il 

più fermo deve esser cosi, è chiaro: quale poi sia, veniamo 
a dirlo. » 

< L'impossibilità che una stessa cosa stia insieme e non 
stia in una cosa stessa e secondo lo stesso rispetto, è ap- 
punto il più fermo dì tutti i principj: di fatto, si riscontra 
colla definizione data. Giacché è impossibile, che uomo al 
mondo pensi che lo stesso sia e non sia. Certi credono che 
Eraclito lo dica: ma non d poi necessario, le cose che uno 




_ 290 — 

dice, che le pensi anche. Davvero, se i contrarj non posso- 
no stare insieme nella stessa cosa, e nella contradittoria ci 
sono due giudizj Tuno contrario all'altro, si vede essere im- 
possibile, che lo stesso uomo pensi che la stessa cosa sia e 
non sia: perchè chi fosse in questo errore, avrebbe a un 
teqapo i due giudizi contrarj. Perciò tutti quelli che dimo- 
strano, riducono a questo principio ultimo; perchè è princi- 
pio di sua natura, e va avanti a tutti gli assiomi ...... 

« Pure c'è di quelli, che come s'è detto, affermano, che 
una cosa stessa possa insieme essere e non essere, e che 
loro lo pensino. Invece, noi abbiamo assunto per impossibile 
che una cosa sia insieme e non sia, e da questa impossi- 
bilità ritraemmo che questo sia appunto il più fermo di tutti 
i principj. Ora alcuni pretendono che si dimostri loro anche 
questo; ignoranti davvero: giacché è pure un'ignoranza 
a non sapere di quali cose bisogni dimandare la dimostra- 
zione, di quali no. Difatto, non è possibile che si dia di- 
mostrazione d'ogni cosa addirittura; s'andrebbe all'infinito; 
di maniera che neppure cosi non ci sarebbe la dimostra- 
zione. E se c'è cosa, di cui non bisogna cercare dimostra- 
. zione, un principio che pretendano più atto a farne senza, 
non ce lo saprebbero dire. » 

€ Se non che si può dimostrare anche questa impos- 
sibilità in via di redarguizione, se solamente l 'avver- 
sario dice qualcosa; che se non dice nulla, è ridicolo di 
cercare un ragionamento contro a chi non ragiona di nulla. > 
«... Essere uomo non può voler dire il medesimo, che 
non essere uomo, se pure la parola uomo ha un significato 
unico non solamente perchè si predica d'un soggetto unico, 
ma perchè ne significa un solo .... Ed ora non si dubita 
già, se lo stesso possa insieme essere e non essere uomo di 
nome ma di fatto .... » 

« In generale poi quelli che affermano, che es'sere uomo 
e non essere uomo sia la stessa cosa, distruggono l'essenza 
e la quiddità. Di fatto, se varrà qualcosa V avere la 



I 



— 291 — 

quidctità di uomo, doq equivarrà di certo ad aver quella 
di non uoìno o a non aver quella di uomo, che ne son pure 
le negazioni. Giacchò ciò che quello significava, era ima 
cosa sola, e questa cosa sola i-ra l'essenza di qualcosa. Ora, 
significare l'essenza di una cosa vuol diro che quella lai 
cosa non abbia punto altro essere .... » 

« Oltre di che, è chifiro cìie se le contradittorie, dette 
dello stesso, fossero vere, si farebbe di tutte le cose uua 
sola. Giacché sarebbero lo stesso e hHreme o paréte e wo- 
mo, se d'ogni cosa ai può affermare o negare qualunque 
altra». 

« .... A costoro non è lecito di aprir bocca né di par- 
lare: giacché dicono insieme una cosa e non la dicono .... 
Ma il punto, dove si vede che nessuno né di quelli che fanno 
di questi discorsi, né degli altri, n'è persuaso, é questo. 
Perchè mai va a Megara, e non se ne sta invece, figuran- 
dosi che ci vada? Perchè uno non se ne va, un bel giorno, 
a gittarsi, poniamo, in un pozzo o in un burrone, anzi si 
vede che se ne guarda appunto come se non peusasse che sia 
tanto buono quanto non buono il caderci dentro? E dunque 
chiaro, che crede che ci sia del meglio e del peggio... {') » 

Un altro principio analogo al principio di contradi- 
zione, di cui s*è parlalo finora, & quello del mezzo escluso 
fra i contraditlorj . 

« Anzi non ci può essere niente di mezzo fra i contra- 
dittorj, ma d'una qualunque cosa è necessario dì negare o 
affermarne una qualunque altra .... Quel qualcosa di mezzo 
sarebbe come il bigio tra il bianco e il nero, ovvero corno 
il né Puno ìiè l'altro tra uomo e cavallo. Ora, se di que- 
st'ultim.T maniera, non andrebbe mai soggetto a cangia- 
mento; di fatto il cangiamento accade dal non buono al 
buono da questo al non buono: e invece è quello che si 
crede sempre, non ci essendo cangiamento altro che negli 

(') MstupL. IV. 3. e aeg. Trail, di Uuggiero Bonghi. 



— 29« — 

opposti e negr intermedi. E se il mezzo è delFaltra maniera 
ma sempre tra contradittorj , ci sarebbe del pari una gene- 
razione del bianco non dal bianco; e chi l'ha mai vista? 

« Di più, ogni cosa, che la mente pensi o intenda, o 
rafferma o la nega: il che risulta chiaramante dalla defl*- 
nizione di quando coglie il vero o cade nel falso. Quando 
cioè negando e affermando, congiunge a questa maniera, 
sta nel vero; quando a quest'altra, sta nel falso » Q). 

Questi principj, che presentano quasi l'ultima formula 
del valore del giudizio e del raziocinio, benché trattali da 
Aristotile nei suoi libri di Metafìsica, sono tutt'altro che me- 
tafisici. Sono invece veri e proprj principj sperimentali non 
altrimenti che tutti i così detti assiomi. La stessa indimo- 
strabilità di essi invocata da Aristotile ce lo indica. Ed esso 
medesimo riconosce che la indimostrabilità di tutti i princi- 
pj proviene dalla impossibilità che per formargli si adoperi 
la dimostraziene deduttiva, e gli fonda invece sull'espe- 
rienza e sull'induzione fatta all'occasione dei sensibili. Gli 
assiomi sono tutti di provenienza sperimentale, e questi as- 
siomi massimi non differiscono dagli altri, che per la esten- 
sione maggiore che hanno, abbracciando essi tutti i feno- 
meni e tutti i concetti, non differiscono gik per la loro 
natura né per le condizioni della loro formazione • 

E una improprietà di linguaggio l'uso invalso tra' filo- 
iDsofi di chiamare necessità metafisica il valore di certi 
principj assiomatici, come questo di contradizione o altri 
analoghi. Il loro valore dipende invece da una vera e pro- 
pria necessità fisica, cioè proveniente dalle cose come elleno 
sono e si presentano alla percezione. La necessità metafi- 
sica, a propriamente parlare, è quella che proviene da pura 
combinazione di idee, e che porta ad una conclusione nel- . 
l'ordine ideale, senza che per altro questa conclusione me- 
desima la si possa verificare fisicamente o sperimental- 

(«) Metaph. IV. 7. 



— S93 — 

mente. Che quattro pift quattro faccia otto, non è una con- 
clusione fornita di necessità metafisica, ma di necessità fi- 
sica, perchè ella dipende dalla natura delle cose conosciuta 
sperimentalmente, e dal novero fatto e sperimentato dei 
concreti, senza il quale neppure il vero concetto di numero 
si avreblw avuto. Limitare la necessità fisica alle conclu- 
sioni che esprimono lo leggi della natura, è inesatto. Nel 
caso delle quali invece non si ha una vera e propria neces- 
sità fisica, ma logica. Allorquando da una serie di fenomeni 
si trae induttivamente una legge, questa è un portato logico 
di quei fenomeni, e potrà cambiarsi questo portato logico 
col solo osservar meglio i fenomeni stessi o collo scoprirsene 
uno nuovo. Chi può mai dire quali sono le leggi vere della 
natura? siamo noi certi di averne ancora definita una sola 
con precisione? Dunque non v'e nelle leggi trovate da noi 
necessità fisica. Ma ó l^ensi questa necessità fisica negli 
assiomi, i quali eontengon conclusioni provenienti da espe- 
rienza fissa, invariata e invariabile, come quando si afferma 
ohe il tutto è eguale all'insieme delle sue parti; o in certi 
postulati, come in quello che due linee parallele non pos- 
sono incontrarsi. Qui, ripeto, è vera e propria necessità 
fisica, perchè è la osservazione dei fenomeni considerati in 
tutta la loro estensione e nella loro comune natura, che ci 
ha portato a questa conclusione induttiva. Mentre la conclu- 
sione induttiva delle leggi ci è data da un aggruppamento 
concettuale dei fenomeni, il quale non sappiamo se, o quan- 
do, diventerà per noi aggruppamento naturale. Dall' altro 
canto la necessità metafisica ci vien data da un aggruppa- 
mento di idee pure, senza alcun controllo sperimentale, e ci 
conduce alla ipotesi. Tale è, per esempio, la necessità 
razionale, che Aristotile adopera per provare come il primo 
motore debba essere immobile; o quella che i filosofi ado- 
perano per provare che il mondo sia causato e che vi debba 
essere una causa prima fuori del mondo . 

Gli assiomi sì formano sopra i concetti tratti immedia- 



■ 



— 294 — 

tamente dai concreti percepiti; in conseguenza non oltre- 
passano r esperienza, anzi i' hanno continuamente conna- 
turata a se talmente, da non si potere enunciare un concetto 
od un fatto attinente alla loro categoria senza enunciargli 
implicitamente; la loro esperienza è perciò completa ed 
esaurita; hanno valore di necessità fisica, tale cioè che 
significa, che nessun ente e nessun concetto potrebbe aver 
posto nella natura senza essere una prova della loro 
veracità. 

Le leggi si cavano da gruppi di fatti sperimentali; 
V esperienza non è oltrepassata né prima né dopo la forma- 
zione della legge, è pronta sempre alla verifica, ma non è 
esaurita; le leggi hanno valore finché restino intatti i dati 
sperimentali da cui furono tratte, dati che potrebbero 
cambiare. 

Le cause supreme si cavano da gruppi di astrazioni 
lontanissime dal concreto; l' esperienza è oltrepassata tanto, 
che non può più aver luogo la verifica; hanno, valore di 
necessità metafisica, cioè qualcosa meno che ipotetica. Le 
cause supreme sono in condizioni di ipotesi, perché è ipote- 
tico ciò che non è verificabile. Ma di fronte alla scienza 
hanno meno valore che non le ipotesi, perchè queste si 
ammettono talvolta anche nella formazione delle leggi, e 
sono allora leggi posticcie destinate prima o poi ad essere 
abbandonate o diventare vere e proprie leggi, in quanto 
che aspettano alcuni fatti che le smentiscano o le confer- 
mino; mentre le cause supreme sono ipotesi che son desti- 
nate a restare perpetuamente nella condizione di ipotesi; 
elleno non aspettano fatti nuovi, essendoché il materiale da 
cui furono cavate non è composto di fatti, ma di astrazioni 
elevatissime, le quali per quanti fatti nuovi sieno per 
sopraggiungere, non cambiano carattere mai; cosi la forza^ 
la causa, V ente, sono astrazioni ( materiale delle cause 
supreme ) nelle mani dei metafisici immobilizzate talmente, 
che se nuovi fatti non solo, ma un nuovo universo soprag- 
giungesse^ non sì cambierebbero d'un pelo. 



— 295 — 

La vera Metafisica comincia dunque colla ricerca di 
queste causo supreme ipotetiche, che senza essere potute 
verificare in seno alla fenomenalità hanno vita soltanto per 
via di un solitario lavoro ideale, che sembra faccia conclu- 
dere alla loro esistenza, e le caratterizzi in modo da farne 
un fondamento e insieme un contrapposto a tutto V ordine 
fisico. Queste cause supreme costituiscono per Aristotile il 
Primo Ontologico. 

« E dunque manifesto che bisogna acquistare la scienza 
(Ielle cause prime: e di fatto, allora diciamo di sapere una 
cosa quando ci paia di conoscerne la prima causa. Ora, 
causa si dice in quattro sensi. In un senso diciamo causa 
V essenza la quiddità; di fatto il perchè si riduce da ultimo 
al concetto, e il primo perché è causa e principio. L' altra 
causa è la materia, il soggetto. La terza quella di dove è 
il principio del movimento. La quarta è la contrapposta a 
quest'ultima, il fine ])er cui e il bene, essendo essa il 
termine d'ogni generazione e movimento . . . 0) ». 

« E manifesto che vi sono delle cause, e che il numero 
di esse è appunto quale lo abbiamo noi fissato, dacché la 
ricerca delle cause involge precisamente quattro specie di 
domande. E così la causa d' una cosa si riporta: o all' es- 
senza stessa dell'oggetto, termine ultimo nelle cose cJie non 
hanno moto, e per esempio nelle matematiche, dove la 
ricerca ultima fa capo alla definizione della linea retta, o 
a quella della proporzione o ad altra simile idea; ovvero 
al motore primordiale; e per esempio, da che proviene che 
un tal popolo ha fatto la guerra? Da questo, che gli aveano 
fatto una razzìa; ovvero al fine che si ha in mira; e per 
esempio ancora, perchè un tal popolo ha fatto la guerra? 
Affino di estendere il suo dominio; ovvero finalmente alla 
materia, degli oggetti che nascono e si producono ... ». 

« Bisogna rendersi conto, dietro la scorta delle leggi 

(') Metaph. 1. 3. 



— 296 — 

naturali 9 della materia^ della forma^ del moto e del fine 
delle^cose >. 

M 

« Spesso tre di queste cause si riducono a una sola. 
Così l'essenza e il^fine si riuniscono; e di più la causa dalla 
quale proviene il movimento iniziale si confonde special- 
mente con quelle due ... ». 

« In conseguenza la causa delle cose si trova, sia stu* 
diando la loro materia, sia studiando la loro essenza che le 
fa essere ciò che sono, sia infine studiando il motore ini- 
ziale ... Vi sono due principi nella natura, che possono 
muovere le cose, Y uno non ha in se Torigine del movi- 
mento, e tale è V essere, se e' è, che può muovere senza 
esser mosso, come sarebbe Tessere assolutamente immobile 
e anteriore a tutti gli esseri; l'altro principio è l'essenza e 
la forma, perchè la forma è il fine in vista del quale è jEatto 
tutto il resto (*) ». 

« La natura può concepirsi in doppio aspetto: da una 
parte come materia, dall' altra come forma. Ora, la forma 
essendo un fine e tutto il resto ordinandosi al fine , può 
dirsi che la forma è il perchè delle cose e la loro causa 
finale («) ». 

« Il necessario nella natura è ciò che in essa prende 
aspetto di materia, coi movimenti che questa materia riceve. 
Queste due specie di cause, materia e fine, debbono essere 
spiegate; ma è mestieri attenersi più alla causa finale; 
perchè il fine è causa della materia, mentre la materia non 
è causa del fine {^) » . 

Le molteplici considerazioni che Aristotile fa nei diversi 
suoi libri e in quelli della Metafisica intorno all'essenza, 
alla materia, alla forma, alla causa finale, sono le più 
intricate analisi, e quelle che possono portare il vanto 

(*) Phys. n.^:7. 

(») Phys. II. 8. 
(») Pby8. ir. 9. 



— «97 — 

sopra tatto di sottigliezza e spesso dì acume portentoso. 
Ma l'essenza e la causa finale si fondono, a così dire, 
colla forma, una delle più notevoli creazioni della Metafi- 
sica di Aristotile. Dimodoché tutta la teoria sua delle cause 
si volge su questi due pernj, la forma e la materia ('), 
le quali prendono respetti vamen te in ordine alia produzione 
delle cose condizione di aito e di potenza, di essenza e di 
suslrato; separate son nulla, la loro importanza comincia 
dal momento della loro combinazione; la materia è eterna, 
ma inerte; la forma è eterna e proviene dal corpo celestiale 
primo mobile; la forma in conseguenza porta seco ìl moto 
attinto nel primo mobile e lo trasmette alla materia. Così 
nascono e si distruggono le cose. La produzione delle cose 
è passaggio di forme attraverso alla materia; da una parte 
si ha completa attiviL^, dall'altra assoluta passività; la 
materia è una e identica; le forme sono disposte in gerar- 
chia, da quelle della materia inorganica fino alle anime 
direttrici della vita e del pensiero. Il corpo celestiale, che 
è il luogo delle forme, e che come primo mobile trasmette 
ad esse il suo moto, è in contatto col primo motore immo- 
bile, il quale ò ìl vero centro e principio del moto, benché 
esso medesimo non sia in movimento. 

Cosi dalla teoria delle cause Aristotile si fìt strada a 
quella del Primo motore immobile. 

« Tutto ciò che è mosso deve necessariamente esser 
mosso da qualche cosa. Perchè se il mobile non ba in se 
stesso il principio del suo moto, è evidente, che deve rice- 
verlo da un' altro, e che è quest' altro il vero motore ... * 

« Ma se ogni mobile è musso necessariamente da qual- 
che cosa, e se è mestieri del pari che tuttociò che è mosso 
nello spazio sia mosso da un altro mobile, allora il motore 
è mosso da un altro mobile, che è mosso anch' esso; e 



(') Vedi ia proposito della forma e della materia, aopra — Bio- 
logìa. — 



— 298 — 

quelFaltro ancora è mosso da un altro, e così sempre di 
seguito (*) » . 

« Bisogna bene tuttavia che vi sia qualche causa prima 
e iniziale del movimento, perchè non si può andare al- 
l' infinito... E dunque necessario che siavi un punto fermo, 
e che necessariamente abbiasi anche un primo motore e 
un primo mobile (*) ». 

«Il movimento è eterno, perchè è eterno il tempo, 
che è il numero del movimento o un movimento d'una 
certa specie.... il movimento è indistruttibile... » 

« Poiché bisogna che il movimento sia perpetuo e non 
cessi giammai, bisogna necessariamente che vi sia qualche 
cosa eterna che muova originariamente... e che il motore 
primitivo sia eterno come il movimento... O ». 

« Se esiste effettivamente un principio eterno, che sia, 
come diciamo motore, restando immobile ed eterno, biso- 
gna che il primo mobile che esso mette in movimento sia 
eterno come lui... (*) »• 

«Non vi ha di movimento continuo altro che quello 
prodotto dall' immobile; perchè essendo eternamente iden- 
tico, sarà di fronte al mobile in un rapporto sempre lo 
stesso e continuo.,. Il motore primo ed immobile non pud 
avere grandezza alcuna; perchè se ne avesse una, biso- 
gnerebbe ch'ella fosse finita o infinita. Or abbiamo dimo- 
strato che non vi può essere grandezza infinita; e abbiamo, 
dimostrato che il finito non può avere una forza infinita, 
e che una cosa finita non può neanche produrre il mo- 
vimento durante un tempo infinito. Per ultimo abbiamo 
fissato che il primo motore produce un molo eterno, e 
ch'esso lo produce per un tempo infinito. Dunque non è 
meno chiaro che il primo motore è indivisibile, che è senza 

(«) Phys. VII. 1. 
(•) Phys. VII. 2. 
(•) Phys. Vm. 7. 
0) Phys. vm. 9. 



— 299 — 

partì, e che non ha assolutamente alcuna specie di gran- 
dezza (') ». 

Questa teoria delle Cause, che è la più bella dottrina 
dell'antichità sui principj metafisici dell'Ontologia, e che 
di fronte alle altre dottrine di simil genere non ha riscon- 
tro per solidità e completezza, se non fosse nella dottrina 
atomica di Democrito, ai nostri occhi perde la più gran 
parte della sua importanza, perchè diventa povera di 
significato e di valore naturalistico. La natura e le cause 
e le forze e la materia si vedono oggi sotto un punto di 
vista Ijen diverso, anche da quelli che avrebbero una gran 
tendenza a tenersi alle vecchie dottrine. Molto più perde di 
valore per chi sottoponga le cause ai criterj nuovi col quali 
sì trattano oggi te qui^tionì fondamentali della natura; in 
questo caso la dottrina Aristotelica, anche a rendere la 
più completa giustizia al genio dell'autore, non può a meno 
di sembrare vana e illusoria . 

E innanzi tutto, come si può far buon viso oggi a una' 
scienza, che come la Metafisica, si compone tutta intiera 
d'ipotesi? Che veramente, come ho sopra accennato; le 
cause prime sono tutte allo stato di ipotesi. Infatti ogni 
scuola ha le sue, ha le sue ogni paese, e sto per dire ogni 
città; lo scuoiare ne accarezza di quelle che non sono le 
favorite del maestro; e quasi si terrebbe a onta di non 
inventare il suo sistema metafisico, chi voglia acquistar 
grido di vero filosofo. Una scuola di Metafisica che al 
modo della Chimica o della Fisica camminasse insegnando, 
e dove i discepoli trovassero nuove dottrine come conse- 
guenze di quelle imparate, senza sconfessare le teoriche 
del maestro, sembra, a pensarci, una cosa tanto inusitata, 
che si sarebbe tentati di pigliarla per impossibile. Qual 
meraviglia dunque se ne n.isce uno sconforto di tal aorta 
di dottrine, e se la scienza scredita la Metafisica? Qual 



(') Phyfc VIU. 15. 




— 300 — 

meraviglia se^ in mancanza dei veri dati razionali, se ne 
mischia Tamor di setta; se le dispute metafisiche non sono 
tranquille al pari delle dispute scientifiche, ma focose smo- 
datamente, e però mentre alcuni sorridono di compassione, 
altri restano estatici e si elevano fino ali* entusiasmo ? 
Queste non sono abitudini della scienza. 

Ben è vero, che la scienza non ha da porre nulla in 
luogo delle dottrine metafisiche. Ed è naturale: là ove i 
fatti non hanno portata, la scienza non può penetrare. So- 
lamente intorno al modo d'agire delle cause prime, quando 
le si mostrano sotto forma di cause seconde e mondane la 
scienza può dire la sua parola, e anche correggere certe 
asserzioni metafisiche. 

La materia e la forza non possono separarsi se non 
che mentalmente, non già ontologicamente. La materia 
in azione, è la forza. Ma non si dà materia che non sia 
azione più o meno energica, più o meno sensibile e rico- 
noscibile. La materia inerte nel senso di privazione asso- 
luta d' azione, è una astrazione della nostra mente,' 
astrazione che s'è fatta sul dato della materia comune, 
cioè della materia agente, prescindendo concettualmente 
dalla sua azione. La materia concreta può essere inerte 
di fronte a una forza che non è sua propria, ma non ne 
viene per questo^ che essa non sia in azione per una forza 
sua. Ora, se non si dà affatto materia che non sia attiva, 
come puossi" separare ontologicamente la materia dalia 
forza? Mentalmente si può, ma è assurdo dare a questo 
prodotto mentale valore di causa, e dichiarare che la forza 
è causa reale del moto nella materia. La forza è indistrut- 
tibile, perchè è indistruttibile la materia; le forze circolano 
e si trasformano, perchè circola la materia; quando si sen- 
tono le forze, è la materia in realtà che si sente. E se 
non fosse un lungo abuso d'astrazione che ci avesse abi- 
tuati a nominare due cose invece d'una, la forza e la ma- 
teria, ci maraviglieremmo che al fenomeno unico e solo 



I 



— 301 — 

e QOD bipartito della materia si daasero due appellativi. 
L'educazione scientifìca metafisica per questo lato ci oacura 
la cognizioue. 

Altreltauto può dirsi della nozione di causa, della quale 
I luQgauieute abusato aiuo ai tempi moderai per creare 
sistemi e dottrine le più varie, da quelle di Aristotile e 
degli Scolastici, a quelle di Spinoza e di Hegel, nozione che 
tra i più dei filosofi si consi lera come significante una effi- 
cienza reale, come qualcosa di simigliante a un rapporto 
sostanziale tra un essere e un altro. Anche in questo caso 
quel che era una astrazione mentale formata sulla produ- 
zione d'un fenomeno, si conduce ad un valore reale; e 
mentre come strumento mentale poteva essere utile quel 
modo di considerare l'efifetto e la causa e il loro rapporto, 
portato nel campo dell'ontologia dà luogo ad una serie 
ideale successiva io cima alla quale sta la causa prima, 
aliena affatto dai fenomeni reali da cui s'era partiti. 
Mentre a considerare i fatti, Ìl legame misterioso e la 
forza intima e la viKù generatrice dell'effetto non si 
trovano per nulla. Quel che si trova è una combinazione 
di fenomeni in ordine fisso ai quali ne tien dietro un altro 
invariabilmente. 

Allorquando si spara un fucile contro al petto d*nn 
uomo, che ne è colpito a morte, quale è la causa della 
morte? Non il fucile, che in molti altri casi non spara, 
non la polvere, che è innocua, né la palla, né la mano 
dell'uomo che ha mù^to. Ma la serie de' fenomeni, cioè, 
il fucile caricato con polvere e palla, e puntato al petto 
d'un uomo, serie di fenomeni in ordine fisso, perchè al 
solo variare uno di questi, il complesso de' fenomeni con- 
secutivi come effetto, non avrebbe pili luogo. Ora in que- 
ste due serie che si succedono e formano il vero significato 
della causa e dell'effetto, la prima risultanza mentale è il 
come delle due serie di fenomeni, non il loro perchè. 
Infatti l'(»:dine fìsso dai feoomeoi ò la condixiooe primar» 



— 802— 

per la produzione consecutiva della serie corrispondente. 
Noi apprendiamo -dall^esperienza, dice Stuart-Mill, che vi 
è nella natura un ordine di successione invariabile^ e che 
ciascun fatto vi è sempre preceduto da un altro fatto. 
Chiamiamo causa Yantecedente invarHabiley effetto il con- 
segttente invariabile... La causa reale è la serie delle 
condizioni, l'insieme degli antecedenti senza i quali l'effetto 
non sarebbe avvenuto... Non vi è fondamento scientifico 
nella distinzione che si fa tra la causa d'un fenomeno e 
e le sue condizioni.... La distinzione che si stabilisce tra 
il paziente e l'agente è puramente verbale... La causa è 
la somma delle condizioni negative e positive prese in- 
sieme, la totalità delle circostanze e contingenze di ogni 
specie, le quali una volta poste, sono invariabilmente se- 
guite dal conseguente... » 

Il pensiero che conduce i metafisici a oltrepassare 
questa nozione dell'antecedente invariabile e del conse- 
guente invariabile, è la smania del perchè^ smania che 
a noi non è dato mai di soddisfare. Nei casi in cui ci 
figuriamo di essere appagati in questa ricerca, siamo vit- 
time di un' illusione. I perchè che noi arriviamo a cono- 
scere sono dei come mascherati. Neil' esempio addotto di 
sopra, che è dei minimi, il fucile sparò, perchè la polvere 
fu incendiata dal fuoco, cioè a dire quando la polvere fu 
incendiata. Non saprei mai dire perchè il fuoco allora e 
sempre incendia la polvere. 

E lascio stare, che massimamente nelle dottrine rela- 
lative alle cause ultime, la difficoltà che si tentava con 
quelle ipotesi di risolvere, non è quasi mai risolta; mentre 
nelle ipotesi scientìfiche almeno questa condizione si ha, 
e se le ipotesi non sono appoggiate dai fatti, benché nep- 
pur contradette, si reggono almeno sulla facilitazione che 
presentano per risolvere alcune difficoltà. Ma nella dottrina 
delle cause prime la cercata soluzione delle difficoltà è 
illusoria. Quando si è con Aristotile arrivati ad ottenere 



— 308 - 

la ipotesi di un Primo inotore immobile, si è forse risoluta 
quistione del principio del raotol SÌ è trovata una formula 
ideale, che è in se stessa pugnante, che fa ai cozzi col 
concetto cavato dal moto reale, che lascia una difficoltà 
insolubile nella immobilità movente di questo Motore. Come 
mai ciò che è immoto ed immobile può muovere? Come 
mai l'energia del muovere non è essa stessa nn moto? 
Il Motore immobile riesce tanto incomprensibile, quanto 
il moto senza principio. 

1x3 stesso può dirsi di altre soluzioni metafisiche intomo 
a problemi relativi a cause prime. Quando s'è trovato in 
una sostanza ideale, all'uso di Platone, la ipotesi con cui 
si vorrebbe spiegare la formazione e la natura di tutti i 
prodotti mentali, il segreto di questa formazione è esso ve- 
ramente trovato? Supposta vera la ipotesi, resterebbe 
sempre a spiegare come il reale possa essere ideale, perchè 
il particolare prenda forma d'universale, perchè il moto 
delle idee nostre provenga da un mondo ideale immobile. 
La difficoltà della coesistenza del reale coH'ideale, che si 
riscontra nell'ordine mondano, non persiste forse anche 
nell'ordine estramondano, che si suppone fonte ed origine 
del realee dell'ideale nostro? L' ideale obiettivo, divino, 
come si voglia, è tanto difficile a concepirsi nella sua for- 
mazione sul reale obiettivo, divino, quanto può esserlo la 
formazione dell'ideale subiettivo sul reale contingente. I 
Metafisici trovano comodo di velare queste difficoltà por- 
tando in campo un concetto, oscuro quanto quelle, Ìl con- 
cetto dell'assoluto. L'ordine assoluto ha, si suppone, carat- 
teri diversi dall'ordine relativo. Ma che cosa è l'assoluto? 
Non si conosce altro che per una contrapposizione mentale 
col relativo; cioè colla negazione astrattiva dei caratteri 
positivi del relativo. Ma a forza di negazioni non si crea 
un concetto, si ottiene una forma rovesciata di un altro 
concetto che si aveva. Quando si è arrivati a dare una 
origine al mondo per via del concetto di creazione, la dif- 



— 304 — 

ficoltà di qaesta origine è ella risolta? Non mi pare. È 
spostata si, ma non risolta. Il mondo eterno ci riesce in- 
comprensibile; perchè non deve riuscire a noi egualmente 
incomprensibile un Dio eterno? Non è Tattribuire la carat- 
teristica d'eternità al mondo, piuttostochè a Dio, ciò che 
strazia la nostra ragione; è il concetto stesso d'eternità 
che ci strazia. Un Dio eterno, creante, che dà origine al 
mondo, aspetta esso medesimo un'origine, un fondamento 
della sua forza . La quistione dunque è spostata, traspor- 
tandola dal mondo in Dio. 

Ognuno converrà con Barthélemy-Saint-Hilaire che 
Aristotile ha fatto la più completa teoria metafisca del 
moto, ma ciò solamente in quanto il moto potea tollerare 
di essere sottoposto a una teoria metafisica. Ma si ha torto 
di credere che la scienza si possa contentare di questa, e 
molto meno servirsene. Barthélemy rimprovera Laplace (*) 
di aver lasciato fuori Dio dalla scienza astronomica, se- 
condo che si vede dal contenuto dell' Esposizione del 
sistema del Mondo y e in conformità del motto che narrasi 
Laplace dasse in risppsta a Napoleone, che lo interrogava 
su quella esclusione — * « non ho avuto bisogno di quella 
ipotesi » . — Neir interesse della scienza quella esclusione 
era salutare. Se gli astronomi si fossero acquetati alla 
conclusione di Keplero e di Newton, i quali arrivati a 
spiegare le perturbazioni del sistema solare provate dalle 
osservazioni, si piacquero di invocare una forza divina 
riparatrice (^), gli astronomi, dico, con questa fiducia in 
Dio e nell'intervento miracoloso della sua mano non 
avrebbero ricercato la vera legge della periodica ripara- 
zione di quelle perturbazioni. 

(') Vedi. Barthelemy-Saini-Hilaire. Preface à la Trad. de la 
Physiqnd d'Arist. 

(*) Keplero. Manam emendatricen desideraret. 



— 305 — 

Non è raro il caso veramente che la ricerca delle cause 
prime, e specialmente T acquetamento nella fede metafi- 
sica, distragga dei fortissimi intelletti dallo studio delle 
leggi e dei fenomeni di questo basso mondo. 



FINE 




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