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Full text of "Atti dell'Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo"

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REALE ACCADEMIA 


SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI 


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ATTI 


DELLA 


REALE ACCADEMIA 


DI 


SCIENZE, LETTERE E BELLE ARTI 


DI PALERMO 


NUOVA SERIE 


VoLume VII. 





PALERMO 
TIPOGRAFIA E. FERRIGNO E F. ANDO 
Via Divisi N. 20 
(1880-81 e più tre mesì 1882). 





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TAVOLA DELLE MATERIE 


Elenco de’ Soci. 
Proemio. 


CLASSE DI SCIENZE COSMOLOGICHE 


NapoLi — Della vita e delle opere di Giovan Battista Odierna. 
Tommasi — Sulla stabilità dell’idrato rameico. 


CLASSE DI SCIENZE NEOLOGICHE 


Bruso — Elogio del Conte Giovanni Arrivabene. 
Dr Marco — Degli arbitrati internazionali e dei dritti della guerra. 
Macciore PERNI— Tommaso Natale e i suoi tempi. 


CLASSE DI LETTERE E BELLE ARTI 


. 


Di Giovanni — Del volgare usato dai primi poeti siciliani e del carattere della loro poesia. 

CrisaruLLi — Sulla pubblica moralità e sull’istruzione pubblica in Italia. 

Alcune poesie lette dai socj nell’anno accademico 1879-80, B. Marotta — G. Vaglica < 
U. A. Amico — C. Ramondetta-Fileti — T. Franceschi-Pignocchi — G. De Spuches. 


COMUNICAZIONI ED ESTRATTI 


Giuseppi MonraLsAno — In memoria del Prof. Filippo Parlatore. Iscrizione e distici. 

Ugo Dr MeLtz di Ungheria — Lettera in occasione di essere stato eletto socio della Reale 
Accademia. 

Ermanno Bucnzontz di Berlino — Addizioni alla grammatica latina. 

Vincenzo Dr Marco — Sull’esegesi del Consigliere Invidiato al num. 3, art. 193 Codice Civile. 

Viro La Mamma — Sul manuale di Dritto Costituzionale del Dott. F. Flogoito. 

Mario Corrao — L'inchiesta sulla marina mercantile. 

Cacciatore G. — Quadro sinottico meteorologico nel R. Osservatorio di Palermo per gli 
anni 1879-80. 

Catalogo de’ libri presentati in dono alla R. Accademia. 











— ELENCO DEI 80CJ 





SOCIO D'ONORE 


SUA MAESTA' PIETRO II, IMPERATORE DEL BRASILE. 





PATRONO 


IL MUNICIPIO DI PALERMO 


PROMOTORE 


IL BARONE NICOLO’ TURRISI COLONNA, Senatore del Regno, 
Sindaco della Città di Palermo. 


MAGISTRATO ACCADERTCO 


DE SPUCHES GIUSEPPE Principe di Galati, PRESIDENTE. 

CERVELLO Prof. NICOLO’, Vice-Presidente. 

BOZZO Prof. GIUSEPPE, Segretario Generale. 

TODARO Prof. AGOSTINO, Direttore della Classe di scienze naturali ed esatte 

GEMMELLARO Prof. GAETANO GIORGIO, 

LO CICERO Prof. GIUSEPPE, 

COPPOLA Prof. GIUSEPPE, Segretario. 

BRUNO Prof. GIOVANNI, Direttore della Classe di scienze morali e politiche. 

DI MENZA Presidente GIUSEPPE, 

MAGGIORE PERNI Avv. Prof. FRANCESCO, 

SAMPOLO Prof. LUIGI, Segretario. 

DI GIOVANNI Prof. VINCENZO, Direttore della Classe di lettere e belle arti. 

CAVALLARI Prof. SAVERIO, 

COSTANTINO Avv. GIOVANNI, 

AMICO Prof. UGO ANTONIO, Segretario. 

PORCARI Barone ANGELO, Tesoriere. 
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Anziani. 
Anziani. 


Anziani. 


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SOCI ATTIVI 


CLASSE DI SCIENZE NATURALI ED ESATTE 


. Albeggiani Prof. Giuseppe. ‘11. Gemmellaro Prof. G. G., Anziano. 
. Bandiera Dott. Giuseppe. \12. Inzenga Prof. Giuseppe. 
. Cacciatore Prof. Gaetano. | 13. Lancia Federico Duca di Brolo. 
. Cacopardo Prof. Salvatore. : 14. Lo Cicero Prof. Giuseppe, Anziano. 
. Caldarera Prof. Francesco. (15. Napoli Prof. Federico. 
. Cannizzaro Prof. Stanislao. 116. Porcari Barone A., Tesoriere. 
. Cervello Prof. N., Vicepresidente. | 17. Raffaele Prof. Giovanni. 
. Coppola Prof. G. Segretario. 118. Tacchini Prof. Pietro. 
. De Maria Allery Tommaso Mar-|19. Todaro Prof. Agostino, Direttore. 
chese di Monterosato. | 20. Tommasi Giulio Principe di Lam- 
. Doderlein Prof. Pietro. pedusa. 
CLASSE DI SCIENZE MORALI E POLITICHE 
. Albergo Dott. Giulio. 11. Evola Prof. Filippo. 
. Ardizzone Dott. Girolamo, 12. Guarneri Avv. Prof. Andrea. 
. Bruno Prof. Giovanni, Direttore. |13. La Mantia Consigliere Vito. 
. Corleo Prof. Simone. 14. Lanza Cav. Prof. Salvatore. 
. Crisafulli Prof. Vincenzo. 15. Maggiore Perni Avv. Prof. F., Anz. 
Cugino Prof. Giuseppe. 16. Ruffo Avv. Giovambattista. 
. Cultrera Prof. Paolo. 17. Sampolo Prof. Luigi, Segretario. 
. Di Marco Cons. Pietro. 18. Saluto Cons. Francesco. 
. Di Menza Pres. Giuseppe, Anziano. | 19. Turrisi Barone Nicolò. 
. Deltignoso Avv. Gaetano. 20) 5 





CLASSE DI LETTERE E BELLE ARTI 


1. Amico Prof. Ugo Ant. Segretario. | 3. Bozzo Prof. Giuseppe, Segretario 


. Basile Prof GB | Generale. 





# Il posto è vuoto per la morte del Marchese Maurigi. 


. Carini Prof. Can. Isidoro. 

. Cavallari Prof. Saverio. 

. Costantini Avv. Giovanni, Anziano. 

. Cusa Prof. Salvatore. 

. De Spuches G. Principe di Galati, 
Presidente. 

. Di Giovanni Prof. V., Direttore. 

. Di Marzo Abate Gioachino. 

. Di Maggio Padre Luigi. 


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11 
. Meli Prof. Giuseppe. 
. Montalbano Can. Prof. Giuseppe. 
. Palomes Padre Luigi. 
. Perez Comm. Francesco. 
. Pitrè Dott. Giuseppe. 
. Salinas Prof. Antonino. 
. Solomone Marino Prof. Salvatore. 
. Starrabba Barone Raffaele. 
. Villareale Prof. Mario. 


S0CJ EMERITI 


D'Ondes Reggio Barone Vito. 
Santocanale Avv. Filippo. 

Mortillaro Vincenzo March. di Villarena 
De Beaumont Uav. Francesco. 
Landolina di Rigilifi Cav. Francesco. 


Pantaleo Prof. Mariano. 

| Maggiacomo Prof. Filippo. 

Barone Dott. Ferdinando. 

| Gravina Abate Domenico di Comitini. 
Garajo Prof. Antonino. 


S0CJ ONORARI 


Gravina Michele Principe di Comitini. 

Paternò Antonio Principe di Manga- 
nelli. 

Tasca Lucio, Conte di Almerita. 

Fraccia Cav. Giovanni. 

La Russa Dott. Tommaso. 

Notarbartolo Comm. Emmanuele di San 
Giovanni-Sciara. 

Cottù L., Marchese di Roccaforte. 

Castelli Abate Luigi di Torremuzza. 

Perez Cav. Giuseppe. 

Ragusa Can. Monsignore Francesco. 

Ruggieri Avv. Leonardo. 

Fardella Vincenzo, Marchese di Tor- 
rearsa. 


Celesia Monsignor Michelangelo, Arci- 





vescovo di Palermo. 
Papardo Monsignor Giuseppe, Arcive- 
scovo di Morreale. 
Lanza Francesco Principe di Scalea. 
Bardesono Conte Cesare. 
Dichiara Dott. Francesco. 
Sciacca Barone Domenico della Scala. 
Crispi Avv. Francesco. 
Muratori Proc. Gen. Matteo. 
Armò Avv. Gen. Giacomo. 
Nunziante Presidente Antonio. 
Colapietro Presidente Erasmo. 
Cajazzo Proc. Regio Saverio. 





Lancia di Brolo Monsignore Domenico, 


SCCI CORRISPONDENTI COLLABORATORI 


Giardina Prof. Antonino. 
Pignocco Prof. Francesco. 


Cacciatore Dott. Giuseppe. 
Agnello Prof. Angelo. 


12 
Spoto Sac. Marco Antonio. 
Fardella Cav. Felice della Ripa. 
Gramignani Avv. Pietro. 
Zerega Avv. Antonino. 
Palizzolo Cav. Raffaele. 
Corrao Avv. Mario. 
Maltese Avv. Paolino. 
Reyes Dott. Sebastiano. 
Celesia Marchese Gaetano. 
Platania Prof. Pietro. 


Fileti Ramondetta Signora Concetta. 


Di Bartolo Can. Salvatore. 
Vaccaro Prof. Vito. 

Cimino Ingegnere Giuseppe. 
Ragusa Enrico. 

La Tioggia Dott. Gaetano. 
Paternò Prof. Emmanuele. 
Marvuglia Architetto Domenico. 
Di Blasi Prof. Andrea. 
Santangelo Prof. Giovan Battista. 
Delisa Prof. Giuseppe. 

Caliri Prof. Filippo. 

Lodi Dott. Giuseppe. 

Florena Avv. Girolamo. 





Palizzolo Barone Vincenzo. 
Ardizzone Prof. Matteo. 

Pizzuto Prof. Pasquale. 

Bozzo Stefano Vittorio. 

Todaro Antonio. 

Montalbano Can. Saverio. 
Oglialoro Todaro Prof. Agostino. 
Lo Forte Prof. Salvatore. 

Geraci Prof. Bernardo. 

Di Giovanni Prof. Giuseppe. 
Civiletti Prof. Benedetto. 

Lo Jacono Prof. Francesco. 
Pensabene Prof. Giuseppe. 
Naselli Cav. Giulio. 

Cavallari Prof. Salvatore. 

Russo Onesta Avv, Michele. 
Riccò Prof. Annibale. 

Zona Prof. Temistocle. 
Finocchiaro Avv. Camillo. 
Camarda Prof. Nicolò. 

Eliodoro Lombardo Prof. Ignazio. 
Malato Todaro Prof. Salvatore. 
Alfonso Spagna Prof. Ferdinando. 
Crisafulli Dott. Salvatore. 


S00J ONORARI E CORRISPONDENTI ASSENTI 


Turano Monsignor Domenico; Girgenti. | Anzalone Cav. Nicolò, Napoli. 
Minà Dott. Palumbo Francesco, Castel- | Acri Prof. Francesco, Bologna. 


buono. 


Biondi Giuseppe, Roma. 


Minà Dott. La Grua Antonio, Castel-|Sturzo Cav. Filippo, Messina. 


buono. 
Busacca Cav. Raffaele, Roma. 
Accordino Dott. Francesco; Patti. 


Tornabene Prof. Francesco; Catania. 


Del Re Cav. Leopoldo, Napoli. 
Mercurj Prof. Giuseppe, Roma. 


- Cacioppo Cons. Vincenzo, Sambuca. 


Errante Cons. Vincenzo, Roma. 
Ferrara Prof. Francesco, Venezia. 
Beltrani Vito, Firenze. 


Amari Prof. Michele, Roma. 
Vaglica Can. Giuseppe, Morreale. 
De Rossi Prof. G. B., Roma. 
Cantù Cav. Cesare, Milano. 
Zurria Prof. Giuseppe, Catania. & 
Scarcelli Dott. Vincenzo, Napoli. 
Garrucci Prof. Raffaele, Roma. 


De Gasparis Prof. Annibale, Napoli. 


Senzales Giuseppe, Girgenti. 
Cornalia Prof. Emilio, Milano. 





Visone Conte Giovanni, Roma. 

Zuccagni Orlandini Prof. Attilio, Fi- 
renze. 

Sbano Sac. Corrado, Noto. 

Guaita Conte Innocenzo, Roma. 

Arietti Cap. Antonio, Parma. 

Gaeta Catiello, Napoli. 

Guasti Cav. Cesare, Firenze. 

Errera Alfonso, Napoli. 

Ventimiglia Domenico, Napoli. 

Arabia F. S., Napoli. 

De Cesare Carlo, Napoli. 

Sbarbaro Prof. Pietro, Parma. 

Franceschi Pignocchi Signora Teodo- 
linda, Bologna. 

Denza. Prof. Francesco, Torino. 

Prudenzano Prof. Francesco, Napoli. 

Zambrini Comm. Francesco, Bologna. 

Tosti Abate Luigi, Monte Casino. 

De Luca Cardinale Antonio, Roma. 

Fornari Abate Vito, Napoli. 

Picone Dott. Giov. Batt. Girgenti. 

Santini Prof. Giovanni, Padova. 

Cittadella Conte Giovanni, Vicenza. 

Lampertico Prof. Fedele, Vicenza. 

Brioschi Prof. Francesco, Milano. 

Beggiato Prof. Francesco, Milano. 

Ercolani Dott. G. Battista, Milano. 

Grazioli Dott. Isaia, Milano. 

Schiaparelli Prof. Giovanni, Milano. 

Carcano Dott. Giulio, Milano. 

Cremona Dott. Luigi, Milano. 

Luzzati Luigi, Milano. 

Zanella Abate Jacopo, Vicenza. 

Vitrioli Prof. Diego, Reggio di Calabria. 

Conforti Avv. Pasquale, Cosenza. 

Casarati Prof. Felice, Milano. 

Betti Prof, Salvatore, Roma. 

Passarini Prof. Ludovico, Roma. 

Paussevich Marchese L., Trieste. 

Finocchietti Conte Carlo, Trieste. 

Chianchella Matteo, Trieste. 





13 
Curti Avv. Pier Ambrogio, Milano. 
Arezzo Barone Corrado, Ragusa. 
Fergola Prof. E., Napoli. 
De Brignole M. Giovanni, Genova. 
Orlando Prof. Giacomo, Carini. 
Racioppi Prof. Giacomo, Napoli. 
Castronovo Sac. G., San Giuliano. 
Ghivizzani Prof. Gaetano, Aquila. 
Polizzi Prof. Maurizio, Morreale. 
Marotta Prof. Benedetto, Morreale. 
Camarda P. Demetrio, Livorno. 
Mamiani Conte Terenzio, Roma. 
Vallauri Prof. Tommaso, Torino. 
Lilla Prof. Vincenzo, Napoli. 
Hortis Dott. Attilio, Trieste. 
Hortis Avv. Arrigo, Trieste. 
Conti Prof. Augusto, Firenze. 
Wolff Conte Prof. Emilio, Roma. 
Rossi Conte Giuseppe, Bologna. 
Ferrazzi Prof. Jacopo, Bassano. 
Di Giovanni Cav. Gaetano, Cianciana. 
Mitchell Prof. Riccardo, Messina. 
Baccarini Comm. Alfredo, Roma. 
Catara Lettieri Prof. A., Messina. 
Pitra Cardinale G. B., Roma. 
Blaserna Prof. Pietro, Roma. 
Filippuzzi Prof. Francesco, Napoli. 
Galassi Prof. Luigi, Roma. 
Richiardi Prof. G., Pisa. 
Cantoni Prof. Giovanni, Pavia. 
Correnti Comm. Cesare, Roma. 
Palmeri Prof. Luigi, Napoli. 
Fiorelli Prof. Giuseppe, Napoli. 
Burresi Prof. Pietro, Siena. 
De Sanctis Prof. Leone, Roma. 
Pelliccioni Prof. Gaetano, Bologna. 
Brugnalelli Prof. Tullio, Pavia. 
Pugliatti Prof. Giuseppe, Messina. 
Lioy Cav. Paolo, Roma. 
Fedeli Prof. Gregorio, Roma. 
Betocchi Prof. Alessandro, Roma. 
Malagola Carlo, Bologna. 


14 
Tommasi Cav. Donato, Parigi. 
Seghi Prof. Giacomo, Certaldo. 
Denaro Pandolfini Prof. F., Termini. 
Valdarnini Prof. Angelo, Macerata. 
Del Rio Prospero, Reggio-Emilio. 
Bambergh Dott. Felice, Germania. 
Poletto Prof. Giuseppe Padova. 
Conterno Dott. Giulio, Cherasco. 
Carrara Prof. Francesco, Milano. 
Gerra Comm. Luigi, Roma. 
Ranalli Prof. Ferdinando, Pisa. 
Scelsi Giacinto, Ferrara. 
Buccellati Prof. Antonio, Milano. 
Cesati Barone Vincenzo, Napoli. 
Brusina Prof. Spiridione, Dalmazia. 
Galanti Can. Carmelo, Ripatransone. 
Maschek Cons. Luigi, Zara. 
Bonghi Prof. Ruggiero, Napoli, 
Spata Dott. Giuseppe, Roma. 
Matranga P. Filippo, Messina. 
Lancia Marchese Corrado, Firenze. 
De Gubernatis Prof. Angelo, Firenze. 
Nocito Prof. Pietro, Roma. 
Guicciardi Prof. Giuseppe, Napoli. 
Baggiolini Cav. Mario, Vercelli. 
Pisati Prof. Giuseppe, Palermo. 
Gorresio Prof. Gaspare, Torino. 
Verdi Prof. Giuseppe, Genova. 
Nobile Cons. Francesco, Roma. 








Trillino Prof. Settimo, Fermo. 
Guzzino Prof. Giuseppe, Genova. 
Comparetti Prof. Domenico, Firenze. 
Prina Prof. Benedetto, Milano. 
Volpicella Prof. Scipione, Napoli. 
Zagari Prof. Saro, Roma. 
Tribolati Avv. Felice, Pisa. 

Grosso Prof. Dott. Stefano, Milano. 
Buroni Prof. Giuseppe, Torino. 
Romano Prof. Nicolò, Cosenza. 
Maffei Andrea, Riva del Trento. 
Capecelatro Sac. Alfonso, Napoli. 
Querci Prof. Dario, Roma. 

Ricci Prof. Mauro, Firenze. 
Invidiato Cons. Agostino, Napoli. 
Boccardo Prof. Girolamo, Milano. 
Rodllkofer Prof. Luigi, Firenze. 
Mordani Prof. Filippo, Ravenna. 
Morcaldi Ab. Michele, Montecassino. 
Minieri Riccio Dott. Camillo, Napoli. 
Cigliutti Prof. Valentino, Roma. 
Gelli Dott. Agenore, Firenze. 

Guido Baccelli Comm., Roma. 
Riccardi Prof. Pietro, Bologna. 
Curioni Prof. Giovanni, Torino. 
Pagano Prof. Vincenzo, Napoli. 
Picone Prof. Giuseppe, Girgenti. 

De Bernardo Dott. Domenico, Collesano. 


S0CJ CORRISPONDENTI ESTERI 


De Lesseps Dott. Ferdinando, Parigi. 

Hugo Vittorio, Parigi. 

Holm Prof. Adolfo, Palermo. 

Witte Prof. Carlo, Halle. 

Vesselofski Dott. Alessandro, Pietro- 
burgo. 

Blin M. A., San Quintino. 

Houssard M., Tours. 

Vau Wolre, M., Harlem. 





Le Jolis Aug. Francesco, Cherbourg. 
Barnes Jos. K. Washington. 


! Nist Dott. Enrico, Bruxelles. 


Lugerberg D. C., Liegi. 

De Puymaigre Conte Th., Parigi. . 
Liebrecht Prof. Felice, Liegi. i 
Bergmann Prof. G. F., Strasburgo. 
Roux Dott. Amedeo, École (Francia). 
Mezières Prof. A., Parigi. 








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Dennis Sig. Giorgio, Londra. 

Ross Dott. Alessandro, Toronto. 

Jeffreyes Dott. Giovanni, Londra. 

Heinzelmann C., Berlino. 

Le Roy Prof. Alfonso, Liegi. 

De Frenne Prof. Giorgio, San Quintino. 

Du Pont Prof. Carlo, Bruxelles. 

Favre Prof. Alfonso, Ginevra. 

Straganoff Conte Sergio, Pietroburgo. 

Pujazol Cav. Cecilio, San Fernando. 

Paris Prof. Gaston, Parigi. 

Franck Prof. Adolfo, Parigi. 

De La Borde Marchese G., Parigi. 

Bourguignat Dott. F. R., Parigi. 

De Caisne Prof. Giuseppe, Parigi. 

De Candolle Prof. Alfonso, Ginevra. 

Meulemans Prof. Augusto, Bruxelles. 

De Vignaux Dott. Eugenio, Parigi. 

De Regel Prof. Eduardo, Pietroburgo. 

Braun Prof. Menandro, Berlino. 

Pringsheim Prof. Nataniele, Berlino. 

Hooher-Dalton Prof. Giuseppe, Londra. 

Bentham Giorgio, Londra. 

Fenze Prof. Eduardo, Vienna. 

Aubée Prof. Beniamino, Parigi. 

Franck Giuseppe, Ginevra. 

Monnier Prof. Marco, Ginevra. 

Maximowich Prof. I. C., Mosca. 

Crepin Prof. Francesco, Bruxelles. 

Godefroi De Herder Prof. F., Pietro- 
burgo. 

Balfour I. Hutton, Bruxelles. 

Lance Dott. Giovanni, Danimarca. 

Bounfaurt Dott. Giulio, Parigi. 

D'Andrien Barone F., Werbourg. 

Haynold Mons. Ludovico, Cardinale Ar- 
civescovo di Colocza in Ungheria. 

Buchenau Dott. Francesco, Brema. 

Morren Dott. Eduardo, Liegi. 





15 
Boot Gerardo Cornelio Prof. Giovanni, 
Amsterdam. 
Rayas Sourindro Mohun Tagore, Cal- 
cutta. 
Bouchholtz Dott. Ermanno, Berlino. 
Minekwitz Prof. Dott. Giovanni, Lipsia. 
Meltzel Dott. Ugo, Claudiopoli. 
Agassiz Dott. Alessandro, Cambridge. 
Hayden Dott. F. V., Washington. 
Durand Prof. Francesco, Gande. 
Ulrici Prof. Ermanno, Halle. 
Crane Prof. T. F., Nuova York. 
Hock Dott. Prof. Augusto, Liegi. 
Lévéque Prof. Carlo, Parigi. 
Bouillier Prof. Francesco, Parigi. 
Laveleye Prof. Emilio, Liegi. 
Del Boeuf Prof. I., Liegi. 
Mignet Prof. Francesco, Parigi. 
De Saint Hilaire Barth, Parigi. 
Liagre J. B. J., Bruxelles. 
Morhange Salvatore, Belgio. 
Henry Dott. Giacomo, Dublino. 
Eli K. Price, Filadelfia. 
S. Vaux Guglielmo, Filadelfia. 
Phillips Junior Enrico, Filadelfia. 
Consiglieri Pedroso Prof. Z., Lisbona. 
Poniropoulos Prof. Eusebio, Atene. 
Millou Dott. Deodato, Marsiglia. 
Tehihal Prof. Pietro, Monaco. 
Lubansky Cav. Alessandro, Smolensko. 
Pietrasanta Prof. Prospero Parigi. 
Newbourg Dott. Ferdinando , Nuova 
York. 
Buchenberger Dott., Filabelfia. 
Spencer Dott. F., Washington. 
Tryon Dott. Giorgio, Washington. 
Withmey Dott. J., Cambridge. 
Lebon Dott. L., Bruxelles. 























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AVVERTENZA 


I socj attivi Lanza, Di Marco, Corleo, Crisafulli, Cugino e Salomone- 
Morino essendo stati nominati ultimamente nella tornata del 5 marzo, 


se n'è scritto al Ministero dell' I. P. per la sovrana conferma. 








ISTITUTI E SOCIETÀ SOTENTIPICHE E LETTERARIE 


CHE SONO IN CORRISPONDENZA CON L’ACCADEMIA 


Comrissione di Agricoltura e Pastorizia. 
Accademia di Scienze Lettere ed Arti 
Accademia Gioenia di Scienze Naturali . . 
Accademia di Scienze e Lettere . 

R. Istituto Lombardo. 

Accademia di Scienze. . . Sta 
Società Adriatica di Scienze Ni 

Istituto di Scienze Lettere ed Arti. .. 

Ateneo di Scienze e Lettere . 

‘Accademiatdi Mettere: 0.0 sl e 0.0 
Accademia dei Fisiocritici . . 

Accademia di Scienze e Lettere . È 
R. Accademia di Archeologia e io . 
RPAccademia della Crusca 0 n, 
R. Accademia di Torino è... 

R. Accademia dei Nuovi Lincei . 

Accademia Fisico-Medico-Statistica . 
Accademia dei Filopatridi 

R. Accademia Medico- iano 

Società Veneta Trentina di Scienze QUI 
R. Accademia di Belle Arti . . 

Accademia di Scienze e Lettere . 

Accademia di Scienze del Messico 

Società di Studj ed Opere oltre dell’ Onion 
Società Reale lt... 0, 

Società delle Scienze della Mis colo Shi Sud 


Accademia Reale Svedese di Scienze di Stockolm . 


Società Malacologica del Belgio. . . 
Accademia Imperiale di Scienze. . . . 
Società delle Scienze Fisiche. . . +... 
Società Italiana di Scienze Naturali. ». +. 


Palermo 
Aci Reale 
Catania 
Napoli 
Milano 
Bologna 
Trieste 
Venezia 
Bergamo 
Pisa 

Siena 
Vicenza 
Napoli 
Firenze 
Torino 
Roma 
Milano 
Savignano 
Napoli 
Trento 
Milano 
Tolosa 
Messico 
Crisviania 
Londra 
Nuova Galles 
Stockolm 
Bruxelles 
Pietroburgo 
Konisberga 
Milano 





= 


18 


Reale Osservatorio di S. Fernando (Spagna) 


Archivio Néerlandeso. ‘.. . . . . 
R. Società Geologica d'Irlanda . . . 
Società di Scienze Naturali . . . . 
Museo Zoologico Comparativo. . . . 
Accademia Reale d'Irlanda . . . . 
Società Entomologica del Belgio. . . 
Accademia Imperiale di Scienze e Lettere 
Società Zoologica e Botanica di Vienna. 
Società Zoologica di Francia.» . . . 
Accademia di Scienze Ateneo . . . 
Accademia Archeologica... . . 
Accademia Nazionale d’Agricoltura . . 
Società di Statistica Universale . . . 
Nccademiagdlalizco dior e Ia 
Accademia di Oftalmologia . . . . 
Società di Antiquaria e Numismatica. . 
Accademia di Belle Arti... LL. 
Archivio del Museo Nazionale . . . 
Accademia di Agricoltura . |... 20.0 


Sir, 





S. Fernando 


Harlem 
Dublino 


Wisbaden 


Cambridge 
Dublino ‘ 
Bruxelles 
Mosca 
Vienna 
Parigi 
Brescia 
Filadelfia 
Parigi. 
Parigi 


Guadalajara (Messico) 


Pavia 


Montreal - Canadà 


Torino 
Rio Janeiro 
Verona. 














PROEMIO 


(Relazione dell’anno accademico 1878, letta dal Segretario generale Prof. Giuseppe Bozzo 
nella tornata solenne del 27 aprile 1879). 


. Non mai più bel principio al novello anno accademico; le arti 
che sì l’infiorano lietamente cominciano, venendo innanzi a tutte 
la regina tra esse (1). 

Gratuliamoci a vicenda, come a vicenda ci siamo confortati 
lungo l’anno trascorso; nel quale le opere aggiungendosi alle o- 
pere, e il pregio accumulandosi al pregio, tanto siam valuti a 
soprapporre, tanto le armi del tempo abbiamo saputo ribattere, 
che la nobiltà dell’Accademia n'è rimasta intera, anzi se n' è 
potentemente ingrandita. Quando, se i sav] dissero dovere le dotte 
esercitazioni agli uomini arrecare giovamento o diletto, che al 
tutto è far bene, l'Accademia sull’orma propria s'è dell'uno e 
dell'altro consigliata, nè una sola delle sue adunanze è mancata 
allo scopo. Assemblea per vero eletta che nel comune consorzio, 


(1) Fu scritta per tal solennità una sinfonia ed eseguita a piena orchestra dal valente 
socio Bernardo Geraci. 


2 
‘vive come fuori del consorzio, e pure sempre al suo utile; e 


mentre di là s'occupano in temperare gli ardenti, e di qua i tre- 
pidi in consolare, essa attende, medita, e nel ritiro che solo l'è 
d’uopo, e nell’agio che l'ispirazione soccorre, guardando a tanto 
agitarsi del mare della vita, tirata come in sicuro, fa pro e al- 
letta, e gli ardenti e i trepidi al suo tenore riconduce. Assem- 
blea elettissima; nello scorso anno gloriosa. Le prove, in esso 
avute gioverà un giorno rammentare; dritto è adunque che ora 
in uno si raccolgano, e il vanto chiesto dal merito ad ogni sguardo 
si appresti. 


Dopo le feste pel felice cominciamento di quell’anno, qual no- 
me più eccelso poteva qui d’intorno risuonare nelle scienze co- 
smologiche, che il nome di un Grande che pe’ sublimi suoi stud] 
dirizzò l'ingegno verso il cielo, trattando Il aere co’ calcoli sin 
per iscrutare nel — Ministro Maggior della Natura? — Il socio 
prof. Cacciatore con tutta valentia tessè l'elogio del celebre Padre 
Secchi; e ne fummo commossi, e insieme ammaestrati; che la 
lode in mezzo ai dotti è sprone e documento, alla via di sa- 
pienza sovrana allettatrice. 

Lasciando il cielo e venendo alla terra e alle sue necessità, ci 
fu grato intendere al grave argomento della pubblica salute. Il 
socio D.° Reyes lesse in due tornate delle fogne e della Cala di 
Palermo, e de’ danni che oggimai al benessere dei cittadini ne 
derivano. Che essendosi ricostruito il suolo della città si mutò 
il sistema de’ condotti sotterranei per ricevere e sgorgare acqua 
ed immondizie, ciò che vero è una fogna; e gli ingegneri pre- 
sumendo di lavorare senza il consiglio de’ medici, l'una separa- 
rono dalle altre; e mancarono gli acquidotti co’ scolatoj ben fo- 
gnati; e invece nel suolo a tratto a tratto, praticaronsi de' fori, 


I 


3 
da’ quali male si disfogano i miasmi delle immondizie che ri- 


stagnano. E più che questo. A far riparo nel nostro porto al 
traverso vento, d'onde talora mettevansi le barche in burrasca, 
che non era certamente la tempesta scatenata da Eolo, pen- 
sarono d'’inalzare un antemurale, per difenderlo da quella. Il 
perchè qui in terra da’ fori, e colà in mare da quel seno così 
chiuso, vie più 1 miasmi disfogandosi, la città ne fu infestata, 
e le malattie si sono accresciute con danno degli abitanti, e dei 
viaggiatori. I quali ritornando alle loro case dicono male del 
nostro clima, e l'appellano morbifero; sin facendolo maledire ai 
loro periodici; quando già questa Sicilia, in grazia del puro aere, 
l'Alighieri con bella autonomasia aveva chiamato Primevera.— 
A tanto male, e a’ suoi rimed] avvertì il nostro socio. La sua voce 
sì ben nota all'Accademia, e ’1 suo pregio di valente igienista, 
lo fecero ascoltare con brama, e la lezione a stampa destò la 
brama nel pubblico con lo stimolo d'altri lavori dati in luce allo 
stesso scopo, ed al cospetto di una Commissione eletta al riparo 
dell’ avveduto Municipio. Nè solo il Reyes; il socio Corleo, il 
socio Corrao facevano saviamente saggi avvertimenti, d'onde la 
Accademia per virtù de’ suoi arrecava vantaggio per così grave 
bisogno. 

Ma d'altra parte fa male al quale essa con caldo zelo ebbe 
ad intendere. Là dove tanta è vita, ma dove per fatale impro- 
vedenza tante sono cagioni di morte, covano i morbi più ne- 
fandi che per eccessiva celerità di tragitti, alla foca de’ com- 
merci, all’infernal furia delle guerre, sbucano feroci e si attaccano 
ai luoghi sani e li attossicano e li desolano. L'anno scorso pro- 
ruppero dalla Russia asiatica all’ europea, e incrudelirono. Gli 
oculati governi gridarono all’ erta, con essi loro l’Italia, dalla 
quale, dirò col Tamassia di Pavia, solo dalla quale dipende che 


4 

l'Europa non si appesti. La Sicilia con gagliardia gridava an- 
cor essa, e ’l Municipio meritò molta lode, e colui che ben lo 
regge non mai rimise da’ provvedimenti con vigilanza ammire- 
vole. L'Accademia allora dava lode al Municipio, e in frequenti 
tornate avvisava al riparo, invocando il metodo di separazione; 
metodo che può dirsi eminentemente siciliano, e che solo giova 
allo scampo, come negli incendj, come nelle inondazioni. Che se 
il Boutkin di Russia diceva ancora al tristo evento, essere questa 
l’èra de’ contagi, voglia il cielo che non dovessimo invece noi 
dirla l’èra della negligenza delle leggi di pubblica salute. Sì il 
ciel voglia, che il patto internazionale ora all'uopo fermatosi a 
modificare altri patti, ed anco a rendere più efficace quello 
del 1872, che tal patto firmato tra la Germania. l’Austria e la 
Russia, cui sarebbe bene che si accostasse l’Italia, valga a tanto; 
e che i provvedimenti igienici ed amministrativi dell’accortissima 
Germania, sino a fondare delle Cattedre d’Igiene pubblica nelle 
sue Università, insieme valgano : rifiettendosi sempre , che, se 
l’Italia deve alla fortuna l'essere ultimamente scampata dal di- 
sastro, come ora considerava il bravo scrittore dell’articolo del 
Giornale di Sicilia; la fortuna fu spiegata dall’Alighieri per il 
volere di Dio, cui ben si deve l’ossequio dell’uomo provveden- 
dosi ne’ pericoli coi mezzi i più efficaci. 


Negli stud} noologici ancora noi fummo prodi. Il socio Di- 
rettore Di Giovanni facendo le lodi del Padre Giuseppe Romano 
trattò dell’ ontologismo in Sicilia sulla metà di questo secolo. 
Bene è vero che il metodo psicologico ha i suoi vanti, altresì 
è vero che l’ ha il metodo ontologico; e ’1 Romano ne diede 
prova, come considerava il nostro socio, con la sua speciale teoria 
conciliativa. La tornata fu luminosa. Il Municipio di Termini qui 


5 
chiesto diede testimonianza generosa e patriottica, e ’1 discorso 


del Di Giovanni fu retribuito di lode. 

Alla scienza del vero seguitava la scienza del bene elogiandosi 
l’estinto socio barone D'Ondes Rao, dal socio avv. Vincenzo Di 
Marco. Egli lo rimeritò quale si conveniva : valente avvocato, so- 
lerte professore, tra’ più saggi preposti alla formazione del Codice 
Italiano; ma quando n’encomiò la sincera pietà, la modesta libe- 
ralità e la virtù cittadina, la sua orazione fu rivestita d'un novello 
splendore. Il senso morale s'ebbe il suo trionfo; e come lampo 
trascorse d’uno in altro in tutti quelli che numerosi erano venuti 
ad ascoltarlo. Gran lode a lui, gran lode al senno ed al cuore dei 
nostri, che lungi da insani trascorrimenti e da vergognosi de- 
lirj, al senso morale si affanno, il senso morale coltivano, non 
mai degeneri dagli avi e del proprio onore gelosi. Le due ora- 
zioni del Di Giovanni e del Di Marco, ciascuno nel vario aringo 
di questi studj eccellenti, valsero tutto all’onore della nostra Ac- 
cademia, nè uopo è ch'io nulla aggiunga a farne oltre contem- 
plare la singolarità e la maestria. 


Lieti del dire legato in numeri de’ nostri nella prima solenne 
tornata di quell’ anno, ci riconoscemmo per que’ dessi che pel 
corso di più d'un secolo e mezzo siamo apparsi da questo luogo, 
cultori intenti al bello con nomi gloriosi. 

Se ci riconoscemmo tutti zelo, e provanti alla lezione del 
socio prof. Evola il quale discorse dell’introduzione della stampa 
in Sicilia ne’ secoli xvi e xvir. Egli con gli assidui studj fu adatto 
al tema eruditissimo. L'ascoltarlo era un riempirsi di meraviglia 
e di piacere riandandosi con la mente secoli pieni di sollecitudine 
per una delle arti certamente più utili; nei quali i privati, fra 
noi seppero farsi nome, come il Cumia in eguaglianza a quello 
fattosi dal De Licnamines in Roma. 


6 
Nella erudizione più occupandoci, andando fuori di noi, alle 


cose ci rivolzemmo di una parte del mondo che tanto ai nostri 
giorni ci fa attenti; alle cose d'Oriente, in medio tempo. 
Il socio Stefano Vittorio Bozzo lesse dell'Islam e de’ rapporti 
religiosi e politici tra l'Oriente e l'Occidente. Rintracciò con dili- 
genza quale sia relazione di dottrine tra il Corano e l’Evangelo 
per comuni tradizioni dell’ebraico e dell'arabo, e pe’ precetti e 
per le credenze monoteistiche che Maometto ritrasse dal Cri- 
stianesimo; e sullo stesso tenore trattò de’ rapporti politici; ciò 
a noi molto importante mercè i ricordi e le tradizioni della Sici- 
lia, già sotto gli Arabi, poi sotto al primo poderoso movimento 
dei Normanni. Il discorso quivi tosto dato in pubblico, corse sino 
al più estremo d’Italia, e’ critici di Trieste dissero con questa 
occasione benemerita la nostra Accademia. Dopo di che il socio 
prof. Cultrera volle interrompere le dotte meditazioni sopra una 
nuova opera di erudizione biblica che accrescerà pregio al suo 
nome, e venne a toccare delle considerazioni ermeneutiche sopra 
una delle profezie di Daniele, che vogliono riferire all'Impero di 
Russia. Le armi in Oriente risuonarono feroci, e’ mali aggiun- 
gevansi ai mali, di cui rimane la traccia; e’ capi di quelle na- 
zioni guerreggianti spingevano ad attendere ed a studiare in 
quei luoghi e nella storia di essi; e qui la spinta in questa Ac- 
cademia nelle sue esercitazioni sempre alacre ed indefessa. Ma 
l’andar fuori di noi, quale di luogo tale di tempo, è antichissi- 
mo; ed il socio professore Isidoro Carini trattò coll’usata erudizione 
di Egittologia. Questa nobil parte dell'Asia che ancor’essa ci fa 
attenti, diede al valente socio di mostrare tra’ primi come tutto 
ciò che trovasi nella scrittura intorno all’ Egitto sia confirmato 
da’ più ponderati libri profani e da’ più segnalati monumenti. 


7 
S’inalza la mia relazione ora che mi è dato narrare di ciò che 


mi porta a dire il dilettoso tema delle arti. Il meritissimo Pre- 
sidente discorse di alcuni oggetti archeologici; e innanzi a tutto 
del gran musaico di Carini. Mosse dal discorrerne con mente in- 
sieme artistica ed erudita, e quasi poselo sotto gli occhi con 
pretta descrizione. Di poi, fattivi suoi stud], lo dichiarò nella 
parte più bella, opera del primo o del secondo secolo; addetto 
tutto l’edifizio ad uso di Pretorio, essendo stato indi ingrandito 
e reso ad uso ecclesiastico. E con pari bravura esaminò altri 
oggetti colà rinvenuti, dove un tempo sorgeva una città : un 
grande acquidotto di stagno, una edicola rotonda; e soldi aurei 
di Valentino, ed un'antica moneta di Costantino Pogoniate, ed 
un candelabro di ordine dorico. Senza che notevole fu il disser- 
tare sopra una vasta necropoli non esplorata; là dove si fè luogo 
a varie congetture , lù dove il Presidente espresse il voto che 
questa seconda città si dissepellisca in prò, più che dell’archeo- 
logia e dell’estetica, della scienza del dritto pubblico, potendo 
rischiararsene le origini di molti nostri Comuni e le loro vicissi- 
tudini. Quel voto fu ripetuto da tutta l’ Accademia; e diè ter- 
mine alla lezione, illeggiadrita del bel tema, sostenuta dal valor 
critico, confortata da una speranza che inanimerà sempre questi 
gravi e cari stud]. 

Fiso al santo scopo, e rivolgendolo al moderno, leggeva il 
socio Basile le osservazioni sugli svolgimenti dell'architettura 0- 
dierna all'Esposizione di Parigi (1877.) 

Dopo avere discorso del vero stile del classicismo, e del suo 
invadere nelle accademie gli ultimi anni dello scorso secolo, disse 
della forma ora introdotta con una certa libertà, determinata dalla 
diversa indole della vita moderna, come scorgevasi ne’ progetti 
presentati; e notò un nuovo svolgimento dell’arte in alcuni pro- 


8 
getti di edifizj; avvertendo che, eccettuato questo il quale fu ori- 


ginato dall'uso organico del vetro, niuna altra forma che si possa 
dire nuova potè quivi raccogliersi. 

Considerò infine per la Sezione Italiana, che sebbene non sieno 
stati presentati che soli trenta progetti, pure l’Italia ebbe un nu- 
mero maggiore di premj di quello che statisticamente le sarebbe 
toccato. Generalmente concluse : oggi in Italia prediligersi la for- 
ma del cinquecento più o meno pura, con più o meno libera 
maniera. E non credè di meglio porre fine all’applaudito discorso 
che avvisando una riforma nell’insegnamento dell'arte. 


Qui rompe l’'esultanza della mia narrazione il mesto richiamo 
dei cari soc] estinti. 

Mancò a noi nello scorso anno Francesco Crispi da Palazzo 
Adriano dotto nella letteratura greca e nell’'italiana, che nell’una 
potè a lungo sostituire il rinomato suo zio, e nell'altra sostituir 
me se taluna volta fossi mancato alla mia Cattedra; comentatore 
di Demostene, autore di saggi di buonissima critica. Manceò dopo 
di lui Luigi Longoni da Milano, professore di merito all’ Acca- 
demia scientifica e letteraria della Patria, autore dell’ Introdu- 
zione alla filosofia, che gli arrecò fama, e membro utilissimo 
dell'Istituto Lombardo, ragionando egli sovente d’importantissimi 
argomenti. E mancò pur testè a noi Lionardo Vigo da Aci Reale, 
poeta inchinevole al forte; zelante dell’onor patrio; cultore degli 
stud} del siciliano, de’ primi a segnalarsi in essi, che sono in tanto 


pregio. 


Al qual mesto ricordo succeda un altro tutto lieto per grazia 
delle esercitazioni che gli esteri corrispondenti vollero aggiungere 
nel corso anno alle nostre. Baurguignat di Parigi ci donò l’au- 


9 
tografo di una sua monografia di un nuovo genere di conchi- 


glie da lui scoperto in Sicilia; un altro ce ne donò Bulchowtz 
di Berlino di un Appunto di lingua latina ed italiana, e Bam- 
bergh da Messina fece lo stesso per un suo saggio della vita 
di Hebbel; i quali tutti fanno parte della odierna pubblicazione. 
Poi, mentre gli esteri ci mandavano i loro doni, i nostri si ren- 
devano al di là ognor più chiari e ’1 vanto siciliano ognor più 
aumentavano. Galati riceveva unanimi applausi dai dotti d'ogni 
parte del mondo incivilito, per le traduzioni dal greco e per li 
versi latini; e dovè con grato sentimento udirsi di là dal mare 
un’autorevole voce, asserire: la versione di Mosco e di Bione 
fatta dal nostro Presidente, essere da anteporre a quella fatta 
dal Leopardi, alla qual voce altra d’egual peso consuonava d’oltre 
monti, in prova evidentissima della verità dell’asserto. Di Giovanni 
era lodato pe’ suvi libri di filosofia nell’ Accademia del Belgio, e 
nell'Istituto di Francia, quà dicendolo di grande onore alla filo- 
sofia italiana, dopo aver fatto conoscere con la sua storia due 
grandi gen] originali, il Miceli e il D'Acquisto; colà dichiarando 
quest’ ultima opera una esposizione completa di tutte le parti 
essenziali della scienza; mentre la Biblioteca di Losanna segna- 
lavalo come uno de’ più distinti e de’ più laboriosi. Il prof. Bozzo 
comentatore del Boccaccio riscuoteva grande approvazione non 
pure dal continente d’Italia, ma dalla Germania e dalla Francia, 
sino sentenziandosi che quind’innanzi non è da leggere il gran 
prosatore che solo con questo comento. L’esimia signora Ramon- 
detta raddoppiava la fama del suo bel nome con le ottave al Za- 
nella dolcemente ispirate. Gli studj del socio La Mantia sugli anti- 
chi Statuti di Roma, destavano l’attenzione dell’ Accademia delle 
iscrizioni e belle lettere, e il De Rozière vi riconosceva l'ottimo 
ingegno di un critico valente; d’onde il nostro socio aggiungea 
2 


10 
vanto con una nuova memoria sulle origini e le vicende degli 
Statuti medesimi. Dennis, che qui dimorando s'è fatto de’ nostri, 
mostravasi ognor più degno co' lavori archeologici sull’Etruria, 
Pitrè in pari modo con la stampa de’ Proverbj Siciliani posti con 
quelli degli altri dialetti d’Italia, che saranno tutti editi in quattro 
grossi volumi, e Cavallari facendo ancora belle ricerche nel suolo 
dell’antica Sibari, e Bruno promovendo in tutti i modi al comun 
benessere la Società d’Economia, oggi mai più importante per la 
lotta imminente tra’ protezionisti e i liberisti di Parigi; e Torre- 
arsa e Di Maggio in fine adoperando altrettanto al bene della So- 
cietà di Storia Patria. 

E l’Esposizione pur dianzi terminatasi ha accresciuto pregio 
del quale dobbiamo rallegrarci. L'Esposizione Universale è stata 
cagione di gran vanto all’ Italia; i premj ottenuti ci diedero 
il 62 per 100; le belle arti vi furono da ua italiano presie- 
dute; la più bella di tutte le arti vi fu fatta dagli italiani con 
maestrevole orchestra risplendere; e i Siciliani tra gli altri eb- 
bero i primi premj; e l’ebbero i soc] di questa Accademia. Onore 
innanzi a tutti a Basile per la sua facciata monumentale della 
Sezione Italiana; Dumonchele la descrisse e la esaltò nel diario 
dell’ Esposizione, dalla Spagna assentirono con encomio gli scrit- 
tori del Mundo Politico, e l’eco dilettosa e concorde si ripetè sino 
alla Nuova York. Ed onore, e premio, a Todaro per la egregia 
opera sul cotone; onore e premio a Civiletti per la viva espres- 
sione del suo Canaris; ed onore insieme a Lo Jacono per la pit- 
tura, ed a Platania per la musica. Nell’ardua palestra bene ap- 
parvero gagliardi i nostri atleti. 

L'Accademia che può desiderare di più se dentro le sue pa- 
reti e fuori il nome le risuona di savia e valorosa? Ma la lode 
e il nome riflette a chi dell’Accademia ha il patronato. Il Mu- 


11 
nicipio ci favorisce, esso che benevolmente ci accoglie, esso nostro 
presidio e nostro dolce decoro. Le adunanze si avvivano, e con 
fervore si succedono; il volume sesto degli Att ne è qui in bella 
mostra, e per poco è che non si imprende la pubblicazione del 
settimo; d'onde questa lode e questo nome a’ più lontani con- 
giungesi. Come per tante altre guise l’opera dell’Accademia si 
rialza e si fa insigne, con eco, con reflesso, con amore; e i più 
sani principj si ripetono, e le più nobili manifestazioni si fanno, 
lungi i malvagi pungoli de’ tristi, lungi ogni pensiero strano da 
ordinato e costumato consesso. 

Che se ultimamente udivamo all'Istituto di Francia con so- 
lennità proclamarsi: « Non si può essere grande poeta senza 
idealismo, grande artista senza fede, grande scrittore senza logica, 
grande oratore senza la passione del bene e della libertà » noi 
abbiamo di che prendere superbia quale ai meriti è dovuta, co- 
noscendo che tutto questo è stato sempre proclamato e con en- 
tusiasmo ripetuto ne’ geniali convegni di questa nostra Acca- 
demia. 


(Relazione dell’anno accademico 1879, letta dal Segretario generale Prof. Giuseppe Bozzo 
nella tornata solenne del 28 aprile 1880). 


In quest'ora sì solenne, in questo luogo sì cospicuo dovrò an- 
cora io rammentare i vostri vanti, o soc] illustri! i vanti ottenuti 
nell’anno che ora è scorso, e col quale siamo a chiudere l’ot- 
tava decade del secolo! Chi mi darà voce da tanto? chi eziandio 
se umanissimo vorrà credere io possa al grave officio adempire? 
Ma il dubbio ch'è a’ piè del vero, come cantò l’Alighieri, non 
tolga ch'io per l’opposito non cerchi di raddoppiare le mie forze, 
vedendovi qui benignamente ad ascoltarmi, narratore affettuoso 
dei vostri vanti medesimi; d’onde questa qualunque siasi qualità 
di lavoro sarà meglio dovuta a voi, che mi siete fratelli e che mi 
siete maestri. — Voi faceste il meglio e nel modo il più sicuro 
voi i quali andate co’ piè dritti sulle orme de’ predecessori; ciò 
che il socio Guizot già osservava de’ dotti. d'Inghilterra, ed è, più 
che degli altri, de’ nativi delle isole; e giova tanto al conservare, 
ch'è prezioso negli studj non meno che l’estendere. E nelle Ac- 
cademie ancora meglio della società benemerite; assidue esse alla 
letteratura, la quale fa le grandi nazioni, lo ripeterò ancor io 
col socio Victor Hugo. E nella presente età altrettanto, della 
quale tutti dolgonsi e la chiamano con motti assai vituperevoli; 


13 
quando non è a chiamarla, eccetto che soverchiamente agitata, 
e che talvolta negli stud] per soverchia agitazione trascorre. 

Ben è vero che gli assettati ordini civili sono delle nazioni va- 
lido sostegno, altresì è vero che lo sono gli ordini letterarj; la 
qual cosa vedremo essere stata per parte sua dall’ Accademia 
conseguita. E lo vedremo oggi con più animo, perchè oggi fa 
un secolo che Giovanni Meli entrava la prima volta in questo 
sacro ricinto, e che nel nostro albo era scritto il suo nome, del 
quale certamente non fu nome più caro. 


Gli eserciz) delle scienze naturali ed esatte ebbero splendido 
principio pel socio Federico Napoli, il quale presentò, discusse 
e diede in dono il manoscritto inedito del compendio della geo- 
metria d’ Euclide eseguito dal nostro celebre Maurolico; quello 
da Megara riordinatore delle discipline, l’altro da Messina restau- 
ratore di esse nell’epcca del risorgimento. Ci arrecò il socio le 
pagine preziose ritrovate da lui nella Biblioteca di Parigi, e 
l'Accademia accettò il dono, deliberando di pubblicarsi nei venturi 
volumi degli At. 

Ascoltammo di poi il socio Agostino Oglialoro-Todaro sul 
feucrium fruticans, estraendone la fenerina, che vuolsi ben vaglia 
sull’organismo animale a combattere più che altro le febbri mias- 
matiche; e lo ascoltammo sopra una sintesi dell'acido fenilcinna- 
mico e sopra altri alla scienza utilissimi. 

Il socio Monterosato in appresso espose alcune conchiglie delle 
coste d'Africa che non si trovano nel Mediterraneo, ed accrebbe 
così il numero degli acquisti fatti dal diligente De Stefanis; il 
quale scrutando una gran quantità di quelle, tutta la specie può 
dirsi di aver fatto conoscere. Ed inoltre riferi la notizia delle 
conchiglie pompejane del D." Tibari prodotte nel centenario della 


14 
sventurata città, e delle conchiglie esotiche del Mar Rosso de- 
positate nel Museo di Napoli; bensì avvertendo, ad onore di que- 
sta nostra Accademia, che già nel 1872 ne aveva egli a noi 
letto; e la novità dell’osservazione non doversi al Tibari attri- 
buire. 
| Alla voce del Monterosato per tali studj nominato, s'aggiunse 
quella del valente socio Gaetano Giorgio Gemmellaro, per la geo- 
logia e la paleontografia. La lezione del Gemmellaro, che tanto 
aveva avuto applauso dagli oltramontani ne’ lavori sulle gaste- 
ropodi, fu seguita ora sui Brachiopodi del calcare cristallino della 
montagna di Bellolampo presso Palermo; argomento importan- 
tissimo che tende ad illustrare la fauna ancora non ben cono- 
‘sciuta del Zas inferiore del bacino mediterraneo a facies di bra- 
chiopodi; e la memoria ora fattane accrebbe gloria al socio qual’ei 
si gode chiarissima. Nè meno fu del socio Emmanuele Paternò 
col suo chimico esame sulla pierotostina. Tali le esercitazioni in 
mezzo a noi: mentre il socio Inzenga pubblicava col nome di 
cronaca, buoni documenti di agricoltura nel reputato periodico 
diretto da uno dei nostri. 

E la Società d’agricoltura, e quella d’acclimazione, ben riguar- 
date per pubblicazioni saviissime, facevano con gran voce met- 
tere all’erta pe’ mali che ormai hanno infestato le viti. L’Acca- 
demia con grato animo attese all’ opera di Società così egregie; 
uno dei cui presidenti elesse ad entrare nel novero dei nostri. 


La classe di scienze morali ed economiche trasse ammirazione 
di se nel corso dell'anno e proclamò, innanzi a tutto, un socio 
di molta fama, celebrando l’ anniversario di Tommaso Natale, 
filosofo, criminalista, letterato eccellente. Il socio direttore Vin- 
cenzo Di Giovanni con l’usata valentia lo mostrò divulgatore, 


15 
perfezionatore della dottrina di Leibnizio; il socio anziano Fran- 
cesco Maggiore Perni fu lodato in dimostrarlo pubblicista di gran 
merito per le nuove leggi economiche e civili sulla divisione e il 
censimento della proprietà demaniale ; le quali leggi furono sì 
giuste che le tolsero ad esempio gli altri Stati d'Italia, allora che 
la penisola non era unita in un sol regno; e il socio Segretario 
Generale fu lodato per averlo descritto letterato di bel nome, 
traduttore di Omero, oratore ragguardevole. Che se non potè ascol- 
tarsi la voce del socio segretario Giuseppe Di Menza per mo- 
strarlo criminalista di pregio originale, come sin d’ailora anco il 
nostro socio Giuseppe Lanza principe di Trabia l'aveva ricordato 
nelle diligenti sue cronache, se quella voce dissi non potè ascol- 
tarsi; 1 soc) Palizzolo, Baggiolini, Pizzuto, Montalbano, con ele- 
ganti versi adempierono, insiem che ad altro, ancora a questo, 
del Natale notando l’intuito del ben fare, il genio delle riforme 
delle pene, sì che alla società sieno più utili; di lui emulo del 
Beccaria, anzi precursore; gloria della Sicilia e di tutta l’Italia, 
che ogni traccia di schiavitù s'affretta a togliere da’ codici. 

Questo ammaestrare con gli esemp], questo ricordare i chiari 
autori per ricondurre gli uomini al dovere, è oltremodo profit- 
tevole e fu adoperato dagli antichi; più, lo ripeterò nel tempo 
del pericolo, riproducendo in pubblico le immagini de’ grandi. 
Questo ammaestrare aggiunse vanto lungo l’anno alla Accademia, 
se per tal via venne bene, a noi troppo bisognevoli. 

Vi adempiette il socio Filippo Evola con considerevole lezione 
sulle sane teorie economiche svolte da noi e discusse dal 1845 
al 1875. Le lodi di Emerico Amari, di Bernardo Serio, di Pietro 
Sanfilippo , di Gaetano Vanneschi qui udite, dopo già esserlo 
state quelle del Balsamo e dello Scrofani, seguite in fine dalle 
lodi del Bruno, del Maggiore Perni, del Biondi e di altri parec- 


16 
chi, ci vennero veramente al cuore, e del bene che aveva sempre 


arrecato l'Accademia fu l'Evola dissertatore degnissimo. 

Il qual bene acquistò forza per le continue esercitazioni della 
Società di Economia Politica, fondata da non guari in Palermo, 
e di tratto venuta in voce; unica oramai in Italia e tra le più in- 
signi d'Europa; il suo giornale propugna i veri più certi, e del 
reggimento della cosa pubblica accresce col lume la confidenza. 
Nella strettezza dei nostri termini ci basti solo ad accennare 
l'argomento della marina mercantile; il quale trattato dal socio 
Mario Corrao, continuandosi a quello della marina da guerra svolto 
da lui pur dianzi in questa nostra Accademia, ha scosso l'animo 
de’ reggitori, ed ha chiamato tutti ad intendervi, nella grande 
e salda idea che la marina, e la mercantile, può essere uno dei 
migliori mezzi, a recare ad altro all'Italia. 

Come le esercitazioni dell'economia civile, quelle della Storia 
Patria pel zelo del Preside, per l'affetto del Segretario, per la 
vigilanza de’ membri, con la voce, con la stampa, in ogni guisa 
vantaggiosa. Come le esercitazioni delle altre Società scientifiche 
di sopra accennate; le quali tutte da questa antica Accademia 
si derivano. Ed essa con occhio materno le scorge e se ne tran- 
quilla, e con cuor vivo ne esulta; sono studiosi che rispondono 
agli studiosi pel progresso della Sicilia: il progresso migliore che 
è quello degli stud]. i 

Ma degli studj morali sia all'Accademia più brama ora che i 
medesimi versano in pericolo. Si vogliono tristamente studj non 
altro che di pratica; si vogliono le Università solo al vero rivol- 
gersi e solo al bello, che fin rilegano agli Istituti elementari ; 
questa cara filosofia seconda che non è meno importante che la 
filosofia prima non credendola da tanto. Ma quando l'alto in- 
segnamento della morale era stato sbandito dall'Università; che 


17 
lo reclamò poi, ed ottenne le fosse restituito, essa qui lo fe” a bal- 


danza di un gran nome, del nome di Giuseppe Gioeni di Angiò, 
nostro socio, che aveva fondato del suo le due cattedre del dritto 
e del dovere, ponendo premj a’ discenti con generoso consiglio; 
ed intanto la Società d’Economia Civile, che gli aveva inalzato 
un simulacro, e lo poneva a gran significanza nell'Aula dell’U- 
niversità, giovava indirettamente all’ altro buon scopo, perchè 
Gioeni delle due scienze era stato egregio benefattore. E mentre 
la torta opinione di togliere la filosofia morale dalle Università, 
infieriva (che tuttavia non è spenta), l'Accademia assurgeva; ed 
ora Di Menza, ora D'Ondes Rao, ora La Mantia, ora Vincenzo 
Di Marco in qualunque si fosse forma, o in materie affini, vi fa- 
cevan qui prova che dissero nobile e coraggiosa. Tenacità dei Si- 
ciliani, tenacità dei nostri studj che ci dà salda rinomanza, e appo 
tutti ci rende singolari dagli altri. 


Alle lettere ed alle arti porgasi al fine il passo; gioja dell’a- 
nima, conforto della vita, che il secolo vuole, per cattivi spiriti, 
in mille guise maledire. 

Il socio direttore Vincenzo Di Giovanni lesse del volgare usato 
da’ siciliani nel xm secolo, e del carattere della loro poesia. Ciò 
che s’ebbe la testimonianza dei tre gran padri dell’ italiana elo- 
quenza, ciò che è stato confirmato di secolo in secolo da’ loro 
successori, meritava il sostegno e la difesa del chiaro socio, già 
che contrarie grida s’ascoltavano di là con fiero sbigottimento. 
La lezione fu applaudita, e d’oltremare e d’oltremonti i saggi 
fecero eco; e perchè taluni opponendosi tentarono altre armi, il 
nostro socio di nuovo lesse e fu approvato di nuovo. Voglia il 
cielo che le lezioni rechino il vantaggio che s’aspetta, e che una 


volta veggasi come, meglio che perdersi e mettere in forse il pri- 
3 


18 
mato della Sicilia nell'origine dell’italiana favella, si studii da noi 


profondamente essa, qual fu appellata aurea dall’ Alfieri, e celeste 
da Ugo Foscolo, qual'è appellata la più bella di tutte le favelle 
moderne dagli assennati oltramontani. 

Il socio Isidoro Carini fece in seguito, con l’usata utile idea, 
il richiamo del socio estinto Isidoro La Lumia. Storico di retto 
giudizio e di puro sentimento in questi giorni che un soverchio 
gli stud] storici anco invade. I pregi di La Lumia furono mostrati 
con voce schietta, e la voce ci entrava più vivamente nell’ani- 
mo con vero merito dell’oratore, stretto al lodato per vincolo 
di natura. 

Il socio Stefano Vittorio Bozzo lesse della nostra lingua e 
delle sue fasi in Sicilia. Le idee ne furono le più sicure, per- 
chè le fonti da cui le attinse erano le più chiare; d’onde ben 
qui tutti s' attesero, e unanimi applaudirono. Bel congegno di 
pensieri, ai quali diede lume proemiando felicemente il suo la- 
voro paleografico! Possa in agio compierlo, come devesi, e a- 
verne onore, quale col cuor commosso altamente gli desidero! 
Il socio Antonio Salinas lesse del merito in archeologia del socio 
Giuseppe Romano. Già dell'illustre che tuttora piangiamo, ave- 
vamo ascoltato con pago animo le lodi in filosofia, qui le ascol- 
tammo in archeologia tirate con affetto dai ricordi più intimi con 
li quali il socio Salinas annunciò le fatiche del Romano, e il con- 
sorzio avutone con gli archeologi più celebri. Le parole di lui 
ci furono gravi, e quel ch'egli disse del sistema seguito dal Ro- 
mano nel trattare l'archeologia riguardandola con occhio, oltre 
che erudito, artistico, ci fu gravissimo, perchè tale occhio, tale 
scopo, è tutto proprio di noi. 


19 

Le arti sono nostra eredità, le arti che in quest’ Accademia 
di continuo si coltivano, e d’ora in ora s'ingrandiscono. 

La più sublime di tutte s'ebbe qui pompa l’anno scorso con 
le avvenevoli note del socio Bernardo Geraci. La più grande di 
tutte l’ebbe quivi tosto dai socj Galati, Palizzolo, Montalbano, 
Barone, Pizzuto, Vaglica, Ramondetta che con carmi d'’eletta 
tempra fecero lieta la tornata. E le ragioni delle arti come qui 
in bell’accordio! — Per opera del socio Salvatore Lanza di Trabia 
furono raccontati i fasti della nostra scultura negli ultimi tre 
secoli; e per l’opera del socio Giovan Battista Basile ci avemmo 
il più sano giudizio sul progetto del Busiri di Roma per una 
gran piazza in quell’eterna città. 

Le arti ministre del bello sì variamente possiedono l’Accade- 
mia della città capo della Sicilia; che Dante non seppe chiamare 
con altro titolo che di bella; quivi soggiungendo che caliga per 
nascente zolfo, per accennare al meraviglioso fenomeno, cui con- 
suona il vivo estro dei suoi felici abitatori: quando al di fuori il 
bello con reo animo da molti si contamina. 

Al grave danno per la poesia, avvertirono i soc} nostri. Stefano 
Vittorio Bozzo scrisse contro l’ Assomoîr e mandò oltre le sue idee 
al periodici più gravi, che furono tosto a ripeterle. Ma meglio con 
la sicura e cheta via dei fatti altri accorsero al danno. Galati 
pubblicò la sua eccellente traduzione di Euripe, detto sì tragi- 
cissimo da Aristotile, ma che se va al vivo nel tocco degli af- 
fetti, non lo fa al di là di quello che giovi ai bisogni del cuore; 
e dietro il classico libro del nostro Presidente, Amico tradusse 
Omero, Villareale tradusse Orazio, autori di sicuro gusto ora 
dagli Accademici a giusto fine divulgati. Che per l’ esempio 
vedesi dileguar meglio il dubbio tra il reale e l’ideale, e im- 
parasi meglio la sentenza di Platone, il bello altro non essere 


20 
che il vero ma splendido; e consacrasi il precetto: non essere 
argomento onorevole di un artista le cose sordide e vili; se il 
maestro dei maestri, la cui epistola a’ Pisani fu appellata dal 
Dacier codice del buon gusto, insegnò di tralasciarsi quello che 
disperasi che trattandolo non possa rilucere. Infine di che, per 
la forma, con gli esempj vedesi, che se Ugo Foscolo ebbe giusto 
odio del verso che suona e che non crea; odio ancor giusto 
dovremo noi avere del verso, che, se crea, malauguratamente 
non suona. Lascio di dire altrettanto per le arti, che ad uno stesso 
ora tornerebbe, alcuni de’ cui cultori possono chiamarsi, con la 
frase di Giuseppe Mazzini, barbari del sentimento; come lascio 
del bene che in vario modo loro si è fatto, qual di sopra fu mo- 
strato, dalla nostra Accademia. 

Essa nel 1879 tanto ha operato. I socj hanno altrettanto 
meritato e nuovi vanti acquistato, mentre nuovamente lavori hanno 
intrapreso. Al nostro Presidente l’ Accademia del Belgio espresse il 
voto più invidiabile esclamando, ch'egli co’ dotti lavori nelle tre 
grandi letterature, prova una volta di più che le tradizioni delle 
medesime sono restate vive nella Trinacria; in Germania si tra- 
ducono in patria lingua i suoi carmi latini, e si traducono nel- 
l’idioma inglese in Filadelfia; ed egli oltre pubblicando ognora 
e ovunque meglio si manifesta. Di Giovanni per continui lavori 
è nominato a far parte de’ Consessi più celebri, ed ultimamente 
dell’Istituto di Francia. Il Segretario generale è ricordato con 
onore in Germania per le varie sue elucubrazioni; ed ora in Un- 
gheria que’ valentuomini fanno eco in onore di lui a tutto ciò 
che testè s'era scritto in Italia e con parole savie e più gravi; 
e ancora meglio nel Belgio con parole di tanta lode che alla 
sobrietà del costume di lui, ed alla gravità di questo ufficio suo 
non è concesso di riferire. Cultrera rinomato per la Flora bibli- 


21 
ca, è già a dare in luce d’egual merito la zoologia biblica col ti- 


tolo di Fauna. Palizzolo uso a recarci diletto con gli accesi suoi 
versi, ora altri avendone l’una e l’altra volta pubblicato di vago 
e leggiadro stile, ha riscosso altre lodi quali meglio a lui dovute. 
Ugo Antonio Amico pei suoi inni d’Omero, e per quello surtogli 
dal petto mentre quegl’inni traduceva, ha ascoltato lieti evviva, 
cui ben consuonano quelli di questa nostra Accademia. Pietro Di 
Marco ben vede oggimai, dopo quattro lunghi anni, ritornarsi dai 
più alti politici e da’ più invitti capitani del secolo a quelle sane 
e certe idee di dritto pubblico, da lui svolte alla nostra pre- 
senza, leggendo degli arbitrati nazionali e del dritto di guerra. 
La Mantia con altro lavoro, sull’ antica legislazione italiana, ad- 
doppia il vanto del primo sulla legislazione di Sicilia. Girolamo 
Ardizzone mettendo a stampa le prime e le novelle sue opere 
mostra ognor meglio in qual buon grado debba per esse essere te- 
nuto. Carini con gli eruditi lavori della cattedra di paleografia fa 
riscontro a quelli letti fra queste mura con unanime ammirazione. 
E Pitrè e Salomone Marino fanno riscontro con nuovi lavori di 
letteratura sicula a’ primi che loro hanno recato da ogni parte ap- 
provazicne. E Basile intanto va chiesto a far parte del Con- 
gresso centrale della Esposizione a Torino ed a scrivere la regola 
dei concorsi d’architettura, e Platania va chiesto a scrivere mu- 
sica fra’ più insigni per l'anniversario del Palestrina. E il Muni- 
cipio di Palermo corona la nostra opera, e ci fa bene di ogni 
sorta, esso nostro Patrono; e che, savio e nobile, conosce la di- 
gnità di tanto patronato. 

Le dimostrazioni dei lontani compiono la mia relazione con 
suono di letizia; quelle degli oltramontani superano quelle dei 
nostri d’oltre mare; e lo fanno con gara. Doni all’ Accademia, 
voti all'Accademia chiamandola tra le prime e solenni. Da Bre- 


22 
scia, da Pisa, da Bergamo ci viene invito a lavorare seco loro 


col nome di sorelle, dall'Inghilterra Caleb Bradlee ci manda un 
tributo di versi in onore di due grandi italiani del quattrocento 
e del cinquecento, Cosimo De Medici e Guido Reni; dalla Francia 
la Società di Statistica e la Società d’ Agricoltura chiedono il 
nostro consorzio; dalla (rermania altrettante manifestazioni d’af- 
fetto ci pervengono, e sin da Filadelfia. Ed un magnifico si- 
gnore di Napoli, figliuolo di un antico nostro socio, il marchese 
Saverio d'Andrea la cui memoria in mezzo a noi sarà imperi- 
tura, ci lascia eredi dell’ ottava parte del suo patrimonio per 
istituire de’ concorsi a pro delle arti; e l'Imperatore del Bra- 
sile, eletto socio della nostra Accademia, ringraziando dichiara 
averlo accettato pel merito de’ socj che presentemente la com- 
pongono. 

Ahi mi toglie dalla letizia il richiamo de’ nostri trapassati in 
quell’anno! Pietro San Filippo ragguardevole uomo di lettere 
che a pro della più preziosa cosa, a pro dell’insegnamento, ado- 
però le sue forze e n’ebbe concorde voto per sani racconti e per 
precipua storia civile e letteraria. Isidoro La Lumia, il cui pregio 
fu detto toccando dell’elogio fattogli dal socio Carini; Luigi Mazza 
erudito in economia politica ed in letteratura, ornamento poi 
del nostro foro in uno de’ supremi seggi; Filippo Minolfi ad- 
dettissimo alla sicula biografia, intento sempre a migliorarla coi 
suoi assidui ricordi; Diego Orlando giureconsulto meritissimo 
scritto avendo sulla legislazione normanna, sul feudalismo in Si- 
cilia, sul sistema ipotecario in Francia, e sopra siculi diplomi; 
e pure trapassato Paolo Volpicelli da Roma professore di fisica in 
quella Università, restauratore laborioso dell’ Accademia de’ Lincei, 
Silvestro Centofanti Rettore dell’ Università di Pisa, onore dell’elo- 
quenza e della letteratura italiana come lo aveva proclamato il 


23 

Gioberti, terzo già tra il Niccolini e ’1 Capponi a reggere l’onorata 
schiera degli uomini, gli elementi della cui anima erano la lettera, 
la religione, la patria.—E che fare richiamo qui insieme io possa, 
dopo alquanti anni, dell’estinto socio Alessio Narbone, che fu 
segretario generale dell’Accademia; di vita illibata, di dottrina 
onnigena, Varrone, come bene lo dissero, de’ nostri tempi, per 
opere di varia specie e di tutta importanza; il cui elogio aspet- 
tasi, e ’l voto sarà presto adempiuto. 

Dalla pietra che tutti copre, alla nostra aura festevole rivol- 
gendomi, con ispirazione oltrechè viva, auguro a voi, socj il- 
lustri, prosperità e grandezza; ed auguro all’ Accademia rino- 
manza ognor più bella, che della felicità di questa terra sia in- 


dice al comun gaudio il più bramato e il più certo. 




















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(Essendosi ritardata la pubblicazione del volume si aggiunge la Relazione degli anni 
accademici 1880 e 1881, letta nella tornata del 29 gennajo 1882). 


Concederete, chiarissimi socj, che ad obbedire il vostro comando, volga al mio 
scopo la sentenza del divino libro: La morte e la vita nelle mani della lingua ; 
perchè a conoscere il vero nulla vale meglio che ascoltare, e, secondo i più sav], 
il discutere; e il vero è la vita degli uomini, che mette in fuga l’errore che è 
la morte. 

Le Accademie sopra tutto recano un sì gran bene; dove ingegni fieri e Dril- 
lanti dalla erudita conversazione vengono ad affinarsi, dirò col Salvini, ad illu- 
minarsi, a schiarirsi. Pratica utilissima degli antichi, da’ moderni con pari uti- 
lità continuata per opera degli Italiani, poi dagli ultramontani seguitati; orgo- 
gliosa sempre, e per secoli, del nome di quella Istituzione fondata dal padre, 
dal Dio dei filosofi, come lo chiamò Cicerone. 

D’onde è gran dolore che uomini baldanzosi a malmenare le cose più sante, 
e le reputazioni più insigni, sin malmenino questa pratica; talora, per isciagura, 
alcuni valenti seco loro. I detti speciosi o spensierati dei quali hanno generato, 
senza volerlo, divisioni, astj, e, come dicono, partiti, sì nocevoli a’ civili ed ai 
letterarj negoz]. 

La cagione di questi detti è derivata dall’ equivoco in cui molti si sono tro- 
vati, qual maraviglia; anco valenti, di scambiare l’abuso per l’uso, e solo avere 
in odio un'istituzione perchè di essa si abusa. Ciò che, come ognun vede, è gran 
danno, e poter produrre danno maggiore; avvegnachè non vi sia cosa umana 
che non sia soggetta agli abusi, ed allora converrebbe che si abborrissero tutte. 

Fortunatamente, malgrado così gran trepidare del secolo, il mal di taluni a- 
busi che abbia potuto far cadere in tanto equivoco, è oggi nelle più illustri 
Accademie quasi dileguato; nè ombra è quasi in esse che impedisca di mirare 
la candida loro luce; siccome può vedersi nella Accademia nostra. Questo mo- 
streremo ragionando del corso ultimamente terminato; tal che voi, o socj, tro- 
verete di compiacervi di voi stessi; se il vero che è la vita lunghesso schietta- 
mente è apparso, mercè la facoltà della parola, che gli uomini concilia. 


Perchè meglio ferisse nel segno l’Accademia in quell’anno battè per lo più la 


26 
via de’ nobili esempj, d’onde per essa, che è sì breve, sorgesse con singolare 
atteggiamento la virtù dell’emulazione, mezzo efficace di progresso. 

Il socio prof. Federico Napoli lesse di Giovan Battista Odierna da Ragusa in 
Sicilia celebre astronomo, fisico, e matematico contemporaneo di Galileo. Mostrò 
come da umili principj sia venuto in altezza al favore compartitogli dal Prin- 
cipe di Lampedusa, secondo era allora costume dei Baroni di Sicilia; e questo 
segnatamente fu costume de’ Lampedusa nella cui casa l’amore degli studj è 
stato caldissimo, occupandosi in essi, e proteggendoli in sino al tempo presente. 

Pel quel favore l’Odierna potè salire sì ad alto; che ai remi si erano aggiunte 
le vele, e l’opera sugli astri medicei, e l’altra sulle comete lo fecero conoscere 
ed ammirare, cosa allora meno facile, in Francia ed Inghilterra. 

All’eco di tali lodi si esalta il nostro socio disserente, e poi considera con par- 
ticolare attenzione il merito dell’Odierna per l’ opera sull’ Iride; ponendola con 
quella di egual tema scritta dal Dedominis, rammentata da Newton; fermando 
che l’uno fu inconsapevole dell’ altro, cosicchè, sebbene l’Odierna abbia scritto 
dopo del Dedominis, se perdè il merito della contemporaneità, non perdè quello 
dell’originalità, e restò per conseguenza ad ogni sguardo segnalato. 

Tale il pregio della lezione, colla quale è stata colmata quella lacuna, che 
nella storia delle matematiche aveva notato il benemerito prof. Riccardi, non 
avendo ancora veduto uno espresso lavoro sull’Odierna; come ora degnamente il 
nostro socio l’ ha fatto. i 

Il socio Gemmellaro di poi, il socio Inzenga ed il socio Paternò si accingono 
a conseguitar con lavori di massima importanza. 

Bella gara d’ingegni a mostrare come in questo luogo le scienze naturali ben 
coltivansi, ed alla bontà, ed alla vaghezza degli altri studj ben s’accoppiano, e 
industremente a comun vanto si alternano. 

Nella classe di scienze morali e politiche la nostra Accademia nello. scorso 
anno di egual passo è progredita. Il socio Carini trattò un argomento assai im- 
portante; la Chiesa cattolica e le scoperte geografiche. Niun fu che non l’abbia 
ammirato per l’opportuna erudizione, pel savio ragionamento, e per la gravità 
impressavi. La religione benefica in varj modi, lo fu già per le Crociate; e gravi 
storici mostrarono con l’occasione di quelle imprese essersi avvantaggiati i civili 
in seguir virtude e conoscenza. Altresì per le missioni religiose, e per lo pii 
viaggi. Valentuomini, specialmente di Sicilia, vi hanno avuto nome; e con la 
bontà continuamente si è diffuso il sapere. 

Dopo l’applaudita prova del Carini si profferse con tema non meno alto il socio 
Crisafulli, esaminando un progetto sull’educazione. 

L’importante argomento fu trattato in maniera importantissima. La rettitu- 
dine del pensiero, la vigoria del sentimento, la sobria dottrina rifulsero nel di- 
scorso del nostro socio. E importò molto che gli Accademici ascoltandolo, e gli 
altri uditori, si fossero levati ad unanime esultanza: il senso morale assurgendo 
in ascoltar quelle massime, ad onor certo dei nostri cuori in questa età diver- 
samente agitata e di soverchio alterata. Accadde allora in questa Accademia, ciò 


Par, 
che l’anno precedente era accaduto avendo letto il compianto socio Vincenzo Di 
Marco l’elogio del socio d’Ondes; dove a quelle giuste teorie a quel diritto sen- 
tire con lealtà e con fede, lo stesso sentimento in tutti noi si riscosse, che leg- 
gendo il Crisafulli si è da ultimo riscosso. 

In corrispondenza fece quindi ascoltare la sua voce lo stesso socio Di Marco 
allora tuttavia nel numero dei viventi. Già il socio Invidiato, da Napoli dove ha 
sua stanza, ci aveva offerto in dono la sua esegesi all’art. 133, n. 3 del codice 
civile, nel quale è scritto che: il figlio naturale, anche nei casì in cui il rico- 
noscimento è vietato, avrà sempre cagione di domandare gli alimenti se la pa- 
ternità o maternità risulta da esplicita dichiarazione scritta da’ genitori. Il socio 
disserente dopo aver seguito l’autore dell’esegesi nella narrazione delle vicende 
che tal legge s’ ebbe dopo la sua pubblicazione nel codice Napoleone, lodò il 
senno del bràvo giureconsulto Invidiato, perchè nel suo lavoro con franca voce 
aveva affermato, che la dichiarazione esplicita è la dichiarazione completa, che 
sola da se attesti il fatto della paternità criminosa ; esclusa quindi qualunque 
altra ricerca di supplemento. In quest’avviso dell’ autore fu qui lodando ed in- 
sistendo il Di Marco sui principj di sana morale, e sull’ abborrimento di turpi 
esempj; e sul danno di malaccorta così detta equità. 

A chiudere il corso di sì pregiati lavori il socio Bruno sciolse il voto dell’Ac- 
cademia facendo l’elogio dell’estinto socio Giovanni Arrivabene. Egli con pietoso 
animo ricordò i lunghi anni del trapassato, e le molte sue opere, e discorse delle 
vicissitudini degli uni, ed esaminò il merito delle altre. L'immagine amatissima 
del più provetto degli economisti italiani apparve tutta dessa dalla lezione ascol- 
tata con tanta attenzione e meritamente lodata; sì che quando andò a stampa 
gli economisti di Francia nel reputato periodico l’ebbero in grande onore. 

E qui, al termine, diremo dell’elogio del socio Sampolo pel cessato socio 
Vincenzo Di Marco. Con sacra pompa l'Accademia ne celebrava la memoria. Le 
belle iscrizioni dei socj Galati, Vaglica, Di Menza e Coppola erano alle pareti 
per ricordarne le virtù. Ciò che poi era compiuto dall’ elogio del socio Sampolo 
in lodatissima guisa. Tributo estremo dell’ Accademia al socio illustre defunto ; 
il cui nome non sarà per estinguersi mai in mezzo a noi, e che sempre ripete- 
remo con ammirazione e rammarico. 

Resta riferire delle lettere e del suo esercitarsi in esse, la cui bellezza splendè 
innanzi per li poetici componimenti. Onor precipuo di questa antica Assemblea, 
non mai mancatole; che non mai, se al Ciel piaccia, sarà per mancarle. Per essi 
è additata sin dalle più lontane regioni; essi proclamano: sacra eredità lasciataci 
da’ nostri avi, ajutata dal dolce clima, animata da un certo foco dilicato, che, 
per dirlo col divino nostro poeta, scorre qui in mezzo a noi, e va di cosa in cosa, 
sempre caro e piacevole che gli animi rapisce. 

Chi non fu lieto nel principio dell’altro anno agli aurei versi del Principe di 
Galati nostro illustre Presidente; come del Pizzuto , del Barone, e dell’Amico e 
della Franceschi Pignocchi; seguiti da quelli del Santangelo in siciliano, traccia 
gloriosa del nostro primo apparire in questo aringo. E chi non fu maravi- 


28 i 
gliato de’ classici versi latini del Vaglica, del Marotta; come de’ due Montalbano 
e del Vaccaro. Li quali componimenti mostrano con prova eloquentissima : in 
italiano, l’arte del dir legato da° numeri, lungi dall’essere de’ frivoli e de’ nojosi, 
essere degli uomini più ponderati e più insigni: in latino, che il riprodurre in 
Italia la bellezza del secolo di Augusto è più che d’altri di noi, la cui scuola con- 
tinua con incessante esercizio. 

Rammentiamo ora l’ameno scrivere in prosa del socio Amico ragionando del 
nostro Alfano poeta del cinquecento, e della sua battaglia celeste. Essa tenne 
in pregio l’Alfano appo i valentuomini del secolo, perchè col tema sublime, trat- 
tato dall’ Andreini con vario stile ed immortalato dal Milton, fece mostra di se 
con applaudita sentenza. Di questo poema trattò l’ Amico percorrendolo indu- 
stremente e giudicandolo avvedutamente e dimostrandone i pregi con sagezza 
e maestria. 

E dopo sì giusti studj del socio Amico pensò nella via de’ nobili esempj il 
socio Carini apprestarsi di nuovo a far le lodi dell’ antico nostro segretario ge- 
nerale Alessio Narbone. 

Corse con rapido sguardo, e con salda base cronologica, tutte le erudite opere di 
questo nostro Varrone, e provò con evidenza che in quelle dotte opere dovrà con 
molto utile attingere chi voglia, com’ è nei voti, scrivere la storia letteraria di Si- 
cilia. Nè tacque a tanto il nostro socio; ma volse la sua attenzione al merito avu- 
tosi del suo elogiato reggendo da segretario generale questa Accademia: le sue 
cure, il suo zelo, la sua avvedutezza; come tutto si avvisa e si compendia nella 
elaborata relazione dopo il 1832. A che l’Accademia non pure applaudì , ma si 
commosse, sino a deliberare con voce sola, che a Narbone le cui ceneri furono 
per tristo caso miseramente neglette, si ponga un marmo in S. Domenico che 
ai posteri incessantemente, a nome della stessa, lo rammenti. 

Dopo di che ritardandosi per caso la celebrazione del principio del novello 
anno accademico, ben valse a non interrompere la catena de’ nostri esercizj il 
socio Basile riferendo sugli studj,i disegni del prof. Andrea Busiri di Roma per 
un ponte-galleria da costruirsi sul Tevere. Ne applaudì la parte d’ingegniere, ne 
applaudì la parte di architetto; e lo disse meritevole per entrambe che l’ Acca- 
demia gli dirigesse un voto di lode. E promise di poi il disserente sulla richiesta 
de’ socj di ragionare con apposito discorso sul modo di ristorare al possibile l’ar- 
chitettura, come sì fa per l’ingegneria, nel suo studio categorico, e nel suo an- 
tico splendore. Valse poi il socio Sant'Angelo leggendo eruditamente intorno al- 
l’Alighieri. E l’onor grande del padre della letteratura non pure dell’Italia, ma 
del mondo si accinge ora a segnalare il socio Pizzuto in. una lezione sull’utilità 
dei classici con invitti argomenti. 

All’espettazione dei quali argomenti per animare il zelo verso i grandi maestri, 
considererò io da mia parte di non avere meglio potuto adempire al mio pub- 
blico magistero , che in tutti e tre i padri della letteratura meditando, e le 
meditazioni pubblicando ; sino le ultime nel corso di questo anno accademico, 
a mostrare di quanta importanza fu il siciliano alla formazione dell’italiano il- 


29 
lustre; secondo ha ora notato sul mio lavoro la reale Accademia del Belgio. Laonde 
non mi si apporrà a superbia il ripetere di avere in tal modo bene spesa la vita, 
siccome testè ne scrisse il valente professore Giannini di Ravenna, sebbene con 
lode di soverchio eccedente. 

E lasciando la lode, perchè io alla fine non ho fatto che il mio dovere, mi 
contenterò qui a concludere, riflettendo sullo importantissimo argomento , che 
non so come non possano tenersi in grande osservanza tutti e tre questi crea- 
tori, perfezionatori della nostra lingua, se la lingua di una nazione è tutto, e 
vale quanto la libertà; se la lingua di una nazione è sì gran cosa anzi sacra, 
che i tiranni più spietati non hanno creduto avvilire di più anzi annullare un 
popolo, che vietandogli l’uso della propria nativa, ed obbligandolo, oh barbarie! 
ad usare quella del dominatore. Rifletterò inoltre che non so nemmeno persua- 
dermi come alcuni abbiano potuto, con poca considerazione, chiamare questi tre 
grandi padri, scrittori di parole e non di cose; de’ quali il primo tra le grandi 
e maravigliose sue creazioni, con la pietà dell’Ariminese e col terrore del Conte 
di Donoratico riempì del più gran sentimento drammatico, ed esercitò gli animi 
di tutti ne’ più supremi affetti con tale un movimento, che nelle sue pagine 
imperiture dura da cinque secoli; l’altro, maestro prima di quell'amore che no- 
bilita il cuore dell’ uomo, e creatore poscia della più sublime lirica poesia in 
Italia, esortando con la melodica sua voce i Grandi della terra alla concordia , 
ed alla liberazione dell’ Italia dallo straniero, benemeritò allora, ed insegnò ai 
posteri in che più d’ ogni altro sia da usare la divina arte de’ versi; il terzo, 
descrittore immortale di tutti i casi umani, giunto alla metà del suo cam- 
mino pensò meglio che altro adagiarsi nell’amore ragionevole del Petrarca con 
la novella di Cimone, il quale amando divien savio, raccomandandola non solo pel 
felice fine di virtù al quale cominciò a ragionare, ma per comprendere quanto 
seno sante, quanto poderose e dì quanto ben piene le forze d'amore; e non credè 
dar termine alle sue narrazioni, se non con quella ammirevole in cui espone ed 
esalta la fede e l’obbedienza della moglie, provvedendo così con l’impareggiabile 
sua eloquenza al più certo bene della società riposto tutto nell’ordine e nell’o- 
nore della famiglia; a traboccar poi felicemente in bene dell’ordine e dell’onore 
della civil comunanza. 

Nè solo in Accademia i socj hanno avuto merito lungo il tempo descritto, ma 
al di fuori con lo stesso zelo con lo stesso intuito che nell'Accademia, alla quale 
il vanto ottenuto grandemente ritorna. 

Inzenga nella sua cronaca agraria co’ più sicuri lumi delle scienze per so- 
brietà di giudizio, e per sana pratica, è giovato alla più utile di tutte le arti 
in questa nostra Isola del sole. Cacciatore ha fondato l’Osservatore Meteorologico 
nuovo a grande pubblico vantaggio. Tacchini congedandosi da noi ha lasciato 
un insigne ricordo co’ suoi lavori per l’Osservatorio sull’Etna; promotore ancora 
egli insieme col socio Cacciatore, de’ più zelanti, dell’ equatore Secchi, monu- 
mento glorioso allo astronomo immortale. Riccò ha pubblicato le sue dotte os- 
servazioni astronomiche sulla gran cometa recentemente apparsa a rendere ognor 


30 

più lieto il mostro emistero; dopo avervi atteso Cacciatore colle sue effemeridi ; 
pure il principe di Lampedusa dalla sua specola secondando. Gemmellaro pei 
suoi studj di storia naturale ha arricchito incessantemente i più celebri perio- 
dici; e non altrimenti Paternò per la chimica: entrambi col vanto di avere ac- 
cresciuto il nome dell’ Università co’ loro compiuti stabilimenti. Cultrera alle 
lodi meritate per la flora biblica e per la fauna biblica, ha aggiunto quelle per 
la mineralogia biblica, e per le bibliche istituzioni. I socj Prelati Celesia, Tura- 
no, Ragusa, ciascuno dalla sua sede, han divulgato dotti sermoni a dirizzare il 
popolo nella via della virtù. La Mantia ha dato in luce la nota de’ libri rari del 
secolo XV. esistenti nella biblioteca Lucchesi in Girgenti, e la monografia delle 
notizie e documenti sulle consuetudini di varie città in Sicilia; mentre a man- 
tenere il bel nome acquistatosi, e ad accrescerlo, scrive con mente assidua una 
nuova importante opera sulle origini italiche del nostro codice civile. 

Maggiore Perni ha reso di pubblica ragione i suoi travagli sulla statistica e- 
lettorale di Palermo e sui movimenti della popolazione dal 1862 al 1871, in con- 
fronto co’ precedenti, ed è stato applaudito in Francia del de Blok. Carini che 
tante volte ravviva l’idea del suo esercizio negli studj di paleografia, e di ar- 
cheologia, quante ritorna ad iniziare con erudita prolusione il suo corso, ora 
più felicemente addimostrossi parlando degli stromenti dello scrivere con ampia 
classificazione, e più particolarmente dello stiletto scrittorio, del calamo e della 
penna sotto l’aspetto archeologico e diplomatico. Stefano Vittorio Bozzo intento 
all’archeologia, ed alla diplomatica ha presentato all'Accademia la continuazione 
della Storia della guerra del Vespro a quella del socio Michele Amari, e l’opera 
lodatagli sarà per vedere la luce nel sesto centennario. 

Ed inoltre Pitrè aggiunge volumi ai volumi pubblicati con comune approva- 
zione sulla letteratura siciliana. Cusa rende di comune ragione ed in originale 
i diplomi greci ed arabi della Sicilia. Girolamo Ardizzone ottiene maggior pregio 
per l’altima sua pubblicazione di un sermone in difesa della causa del giusto 
e dell’onesto, e per eleganti traduzioni. Di Giovanni scrive all’Istituto di Francia 
della filosofia di quell’anima santa, che, come disse l’Alighieri, i mondo fallace fa 
manifesto chi di lei ben ode. Marvuglia, mentre tutti dolgonsi dell’architettura on- 
deggiante, e quasi persa, inalza un tempio di tutta bellezza con lo stile del se- 
colo XV, con l’elevatezza delle sue linee e con la sobrietà de’ suoi membri ad 
eccitare il sentimento religioso; e con metodo di singolare scelta sui più grandi 
monumenti di architettura cristiana in Sicilia. Civiletti, in tempo in cui la 
scoltura dalla pietà di Niobe e dal terrore di Laocoronte già si vede precipitare 
alle trivialità così dette reali, sino alla Nana del Zola ed alla petroliera del 1870 
in Parigi, tiensi al suo cheto e bene ispirato estro con elette creazioni a man- 
tenere il decoro dell’arte. 

E delle lettere toccando e della ragione di esse, accenneremo il merito avu- 
tosi dal Vaglica dal Montalbano e dallo Spoto nelle traduzioni e nelle epigrafi 
latine; e pure dal Mortillaro; il quale poi accresce il corso delle erudite pubbli- 
cazioni con riprodurre con utile il suo vocabolario; e dalla Ramondetta con 


31 
versi di squisito sentimento, e dall’Amico con versi in decorosa forma; ì quali, 
vedendosi in opposto tanta mala via battersi nel presente tempo, potrebbero 
fare rammentare quel di Cicerone — qual perversità è negli uomini, che tro- 
vato il frumento, si pascolano di ghiande? — Ed accenneremo in fine il me- 
rito del nostro Presidente che in tutte e tre le letterature, ed in prosa ed in 
versi ha riportato unanimi suffragi in vario modo, da tutte le parti, dove i suoi 
volumi si sono letti ed ammirati; più dalla Germania, perchè, è d’alcun tempo, 
.di lassù agli studj de’ Siciliani si fa grandissimo applauso. 

Ma chi dopo essersi affissato in tanta luce potrà rivolgere lo sguardo fra le tenebre 
della morte ? Chi dirà de’ nostri socj estinti lungo il corso accademico ? Chi dirà di 
Giuseppe Ugdulena accurato professore di diritto costituzionale in questa Regia 
Università, di animo saldo e gagliardo, di erudizione singolare nella storia, e nelle 
lingue straniere? Chi di Vincenzo Di Marco chiaro lume del nostro celebre foro, con 
mente rettissima, con istudj profondi; la cui parola fece trovare vera la sentenza 
di Omero che la bellezza e la eccellenza del dire sono doni degli Dei? Chi dirà 
d’Ignazio Li Bassi professore di fisica e di botanica, cultore esimio di storia na- 
turale, la cui memoria sulle conchiglie fossili di Palermo orna di molto pregio 
il terzo volume de’ nostri Afl#? Chi di Giovanni Maurigi, caduto innanzi tempo 
per la via alacremente percorsa in sino al supremo grado della magistratura si- 
ciliana? Mi è forza far di loro richiamo con estremo dolore. Non meno estremo 
sarà esso per li defunti oltre il mare. Per Francesco Rizzoli insigne chirurgo di 
Bologna Presidente di quell’Istituto, socio insigne e in sino all’ultimo alla no- 
stra Accademia affettuoso; per Giovanni Arrivabene anziano degli economisti ita- 
liani, della gloria della patria in sommo grado sollecito ; per Giusto Bellavitis; 
trai nobili sapienti del Veneto, che credette accrescere la nobiltà della nascita 
con quella di pubblico professore delle scienze esatte nella patria Università; 
pel conte Carlo di Beligioso grande ornamento dell’ Istituto Lombardo, che agli 
eccellenti studj di scienze morali aggiunse con vanto gli studj delle belle arti; 
chi per Giovanni Duprè infine, la cui morte recente tiene tutta in ]Jutto la bel- 
lissima Italia. Scultore di gran merito, tra’ primi dell’arte, seguendo il vero sce- 
gliendolo: scrivendone aumentò il proprio nome, e ne’ marmi e ne’ libri lasciò 
un nome importante. E se il dolor non ha tregua, non l’abbia per, al sommo della 
gloria , alla ricordazione del celebre Vincenzo Miceli, il centennario della cui 
morte avvenne nello scorso anno. Vanto di Morreale, terra avvezza ai vanti scien- 
tifici, letterar], ed artistici. Uno de’ più cospicui filosofi del tempo; movendo dal 
savio dubbio della scuola di Megara, si diè allo spiritualismo con la teoria del- 
l’ Ente Uno e Reale; in onore presso i più grandi Istituti delle nazioni più colte 
che senza posa lo esaltano. 

Ritorno dalla ricordazione di questi egregi che di là ci osservano e con l’eco del 
loro nome a belle imprese ci spingono, per dar termine alla relazione segnalando 
gli onori in questo periodo dall'Accademia ricevuti. 

All’esposizione geografica di Milano sono stati accolti con singolare attenzione 
i due rari portulani l’ uno del 1468 e l’altro del 1536, mandati colà dal socio 


32 
Lanza, proprietà dell’avita sua casa; ed i rapporti archeologici dell’Archivio Si- 
ciliano mandati dal socio Carini. Al congresso filarmonico di Milano sono stati 
eletti a prendere parte i due nostri socj maestri Platania e Geraci. Al centen- 
nario di Camoens in Lisbona fummo segnalati, e lo fummo di poi al centennario 
di Calderon in Madrid; lo fummo in tante grandi esposizioni industriali, per 
opera del socio barone Porcari e del socio Duca Brolo. 

Di poi da Atene il socio professore Paniropulos ci mandò una memoria ori- 
ginale sui tremoti di Scio per inserirsi nei nostri Atti; da Vienna il professore , 
Werner proclamò che si dessero tutte a stampa le opere di Emerico Amari; da 
Ripatranzone il socio prof. Galanti ci dedicò le sue memorie dantesche delle 
quali l’Accademia gli è assai riconoscente , e da Berlino il socio Buchholtz ci 
mandò i suoi studj sul latino pure a far parte degli Atti nostri. Come il Museo 
Nazionale di Rio Janeiro e la Società degli Ingegneri di Guadalajara, con le altre 
più illustri Accademie sorelle ci fanno dono de’ loro insigni lavori; e nuovi se ne 
aggiungono da quelle di Brescia e di Filadelfia e dall'Accademia di Medicina di 
Parigi, e dall’ altra di Pavia, e dall'Accademia del Canadà e dall’ Accademia di 
belle arti in Torino; entrate tutte lo scorso anno in questo nostro consorzio. 

E se la fognatura, la marina, e la perequazione delle imposte sui terreni, sono 
tre temi gravissimi ed alla nostra città importantissimi, i socj Reyes, Corrao, e 
Maggiore Perni li hanno essi, per li primi, in questa Regia Accademia trattato; 
ed ora le autorità costituite con tutto l’animo vi intendono. Così che il merito 
della iniziativa sarà sempre, cagion somma d’orgoglio, a quest’Accademia attri- 
buito. 

Il Municipio rispondendo, dalla parte sua all'Accademia con savia beneficenza 
l’ajuta e l’alimenta; e mancano le parole alla lode per gli effetti ottenuti dal 
provvedente comunale magistrato, a favore della stessa; il cui settimo volume è 
presso a pubblicarsi. A tutti i quali onori il Re con compiacimento singolare 
badando, applaude ancora egli, e nella Accademia riconosce e le conferma il ti- 
tolo di Regia. 

Sia tutto caparra di futuri vantaggi, sia tutto augurio di novelli splendori a 
questa pacifica adunanza, dove vero gli uomini sì riconoscono fratelli, come 
l’appellò il Tocqueville, a questo albergo della scienza, a questo tempio di Dio e 
della virtù, come l’appellava Bernardo Tasso; cui io, ora che si festeggia il com- 
pimento di mezzo secolo dalla sua restaurazione, presso al termine della mia 
accademica carriera, mi proffero affettuoso e devoto. 


CLASSE DI SCIENZE NATURALI ED ESATTE 





DELLA VITA E DELLE OPERE 
DI "% 


GIOVAN BATTISTA ODIERNA 


ASTRONOMO FISICO E NATURALISTA DEL SECOLO XVII 


MEMORIA 


DEL SOCIO PROF. FEDERICO NAPOLI 


letta nella tornata del 25 luglio 1880 





La vita di G. B. Odierna, offre un esempio splendido, di ciò che possa l’inge- 
gno, unito ad un vigoroso e perseverante volere; per vincere le più gravi diffi- 
coltà, e lasciare malgrado i più forti ostacoli, una traccia luminosa nella storia 
delle scienze. 

Nacque in Ragusa di Sicilia (provincia di Siracusa) il 13 novembre 1597 da 
poveri genitori, i quali esercitavano la modesta industria di calzolai. 

Intorno alle condizioni degli studj nell’isola in quel tempo, non si hanno che 
incerte notizie; ma ben può affermarsi che in Messina fiorivano le scienze e le 
lettere in quella università; ove l’illustre geometra Francesco Maurolico, il quale 
va celebrato come uno dei restauratori delle matematiche, nell’ epoca gloriosa 
del rinascimento, avea insegnato le scienze con molto splendore. Morto il Mau- 
rolico gli era succeduto il Borelli, il quale avendo parteggiato pel governo fran- 
cese, che in quel periodo, ebbe breve dominio in quella parte dell’ isola; venne 
in sospetto del governo spagnuolo ristaurato, e allontanandosi dalla università 
messinese ebbe l’onore di venir nominato matematico dello studio di Pisa ove 
successe al sommo Galilei. Non vi ha dubbio quindi che in quella regione 0- 


4 DELLA VITA E DELLE OPERE 





rientale di Sicilia le matematiche erano state insegnate da grandi maestri; e però 
riesce agevele d’intendere come G. B. Odierna, nato pochi anni dopo la morte 
di Maurolico, avvenuta nel 1575; abbia potuto nella sua giovinezza studiare pri- 
vatamente matematiche in Ragusa, e meditare le opere del grande geometra mes- 
sinese; delle quali come vedremo in appresso fece studio diligente. Entrò di buo- 
n’ora nel chiericato, che in quell’epoca era in Sicilia, la carriera prescelta co- 
munemente da tutti coloro, che intendevano a passare la lor vita, nella regione 
serena degli studj; e trovavano nello stato ecclesiastico, una qualche risorsa per 
far fronte ai bisogni della vita, ed una guarentigia contro le persecuzioni poli- 
tiche, frequenti in un paese, travagliato dalle alterne vicende di dominazioni 
straniere. 

Del resto, il tempo in cui egli visse, era singolarmente adatto agli studj delle 
scienze fisiche e matematiche; perchè Galileo Galilei, dal quale prende origine la 
grande scuola sperimeutale moderna; diffondeva allora con le sue opere, una viva 
luce, su tutte le parti delle scienze matemetiche, e delle scienze sperimentali. È 
naturale quindi, che il modesto chierico di Ragusa, educato agli studj matema- 
tici, sotto le splendide tradizioni di Maurolico e di Borelli, malgrado l’isolamento 
in cuì vivea nella sua patria; sia stato indotto dalla lettura di quelle opere, a 
dedicarsi alle speculazioni astronomiche, ed agli studj della fisica, e di altre 
scienze naturali. 

È noto come in quel tempo i lavori di Galileo presero una nuova direzione. 

Ai cominciamento dell’anno 1609 si sparse la notizia, che in Fiandra era stato 
presentato a Maurizio di Nassau uno strumento costruito in modo, che gli og- 
getti lontani, vedevansi come se fossero vicini. 

Galileo racconta egli stesso, di avere appreso tale notizia mentre trovavasi in 
viaggio; e ne ebbe conferma da una lettera di Parigi. Di ritorno a Padova, dove 
era stato chiamato dalla repubblica veneta ad insegnare matematiche , in quel 
celebre ateneo; meditò una notte intera alla scoperta dell’apparecchio olandese, 
sulla cui forma non si conosceva alcuna particolarità; e l’indomani il teloscopio 
che prese il suo nome era trovato. Questo strumento egli perfezionò prontamen- 
te; in modo da potere ottenere un ingrandimento di mille volte in superficie. 
Galileo non si è mai attribuito il primo onore di questa invenzione, ma egli ha 
sempre affermato, e le sue asserzioni sono appoggiate da tutte le testimonianze 
contemporanee, che egli aveva indovinato il segreto, e perfezionato la costruzione 
dello strumento. L’artista olandese fu presto dimenticato; poichè documenti au- 
gentici provano, che col teloscopio costruito in Olanda, si poteva appena ottenere 
un ingrandimento di cinque volte il diametro degli oggetti; e che nel 1637 non 
sì sapevano ancora costruire in Olanda telescopj, adatti ad osservare i satelliti 
di Giove. Da tutti i pnnti di Europa quindi, gli studiosi delle cose astronomiche, 
sì rivolsero agli artisti italiani, per avere teloscopj. 


E noto come Galilei, rivolgesse con ardore il nuovo strumento alle osserva- 


zioni del cielo; e che in tempo brevissimo, fece una serie d’importanti scoperte, 


i 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 5 








sulla costituzione fisica del corpo lunare, sulla costituzione della Via Lattea , e 
sui quattro satelliti di Giove, di cui egli il primo notava la esistenza. 

Codeste ed altre molte scoperte astronomiche fatte mentre dimorava a Padova, 
| egli consegnava nella sua opera celebre Galilei Sidereus Nuncius. Risulta da pa- 
recchi luoghi dei lavori pubblicati dall’ Odierna, che egli ebbe di buon ora co- 
desta opera; della quale fa cenno ripetutamente; e che gli servi di guida nelle 
sue osservazioni, e ricerche astronomiche. 

Il 24 giugno 1628 Odierna ricevette da Roma un teloscopio, dal sig. Alessandro 
Rondanini. È 

Taluni degli scrittori siciliani, che hanno raccolte con diligenza, le notizie re- 
lative alla vita di G. B. Odierna; affermano che codesto teloscopio fosse costruito 
nel sistema primitivo dei teloscopj olandesi; ma tale affermazione è inesatta, non 
solamente perchè egli fece molte ed importanti osservazioni sui satelliti di Gio- 
ve, che siccome abbiamo già notato non era possibile di osservare coi teloscopj 
olandesi; ma altresì perchè nell’opuscolo Il nunzio della terra, egli stesso parla di 
alcune sue osservazioni, fatte col telosgopio del sig. Galilei. 

Pare che egli abbia trovato un mecenate, nel Principe di Lampedusa signore 
della terra di Palma in provincia di Girgenti; il quale era non solo amante dei 
buoni studj, ma altresì cultore non volgare delle scienze matematiche; ed è pro- 
babile che l’Odierna abbia ottenuto da codesto suo protettore, i mezzi per l’ac- 
quisto del teloscopio, e delle opere matematiche ed astronomiche, le quali de- 
terminarono l’indirizzo dei suoi studj, e delle sue ricerche. 

Nell’aprile del 1645, fu creato Parroco ed Arciprete della terra di Palma, e d’al- 
lora in poi occupò interamente la sua vita nell’ adempiere i doveri del suo uf- 
ficio, e nel coltivare con ardore i suoi prediletti studj; menando una esistenza 
modesta ed operosa in quel comune, sin che si spense nel 6 aprile 1660. 

La sua prima pubblicazione, di argomento astronomico, porta la data del 1629; 
e venne fatta in Palermo, essa ha per titolo: 

Universae facultatis || Directionum Physiotheorica || opus astronomicum || in Duas 
partes divisum || Authore || D. Jo: Baptista Hodierna || Presbytero Saeculari Ragusano || 
Mathematicarum cultore || Panhormi || Typis Alphonsi de Insula; Anno Virginei Partus 
MDCXXIX. 

Uodesto breve lavoro che conta 26 pagine, è preceduto da una lettera dedica- 
toria al Barone D. Vincenzo Arezzo. che egli saluta come il suo primo discepolo. 
Si ha da tale lettera, la conferma del fatto, asserito dai suoi biografi, che l’ 0- 
dierna insegnò privatamente in Ragusa, le matematiche e l’astronomia. E poichè 
le notizie intorno alla vita del nostro autore, sono scarse ed incerte; non è su- 
perfluo il notare, che la lettera porta la data di Palermo 12 Kal. Julij 1629. Ciò 
mi pare indichi chiaramente, che egli erasi recato in questa città ; nella quale 
siccome si deduce da altri documenti, fece lunga dimora; e vi attese a studj ma- 
tematici, e sperimentali, presso l’Accademia palermitana; che avea sede in quel 


tempo, nel Collegio massimo dei gesuiti. 
2 


-6 DELLA VITA E DELLE OPERE 





Il lavoro del quale superiormente abbiamo riferito il titolo, è diviso in due 
parti; siccome è annunziato nel titolo stesso : nella prima parte si discute del 
modo onde si possono determinare i movimenti dei corpi celesti, riferendone le 
posizioni ad alcuni pochi punti fondamentali; di cui le posizioni, si possano ri- 
guardare come permanenti. La seconda parte tratta dei circoli di posizione, nella 
sfera celeste; e dei metodi per determinare le posizioni degli astri, riferendoli 
a tali circoli; e come codeste determinazioni si possano registrare in tavole, se- 
condo le differenti posizioni della sfera nelle regioni ove si fanno le osserva- 
zioni. Egli anzi in una breve nota che precede ]’ opuscolo, annunzia di avere 
costruito le tavole per i gradi 36. 37. 38 di latitudine ma che avea dovuto ri- 
tardarne la pubblicazione, per difficoltà tipografiche (1). 

Il lavoro ha indole elementare, mantiene le denominazioni degli antichi scrit- 
tori di astronomia e mostra che il suo autore, benchè conoscesse le opere e le 
scoperte di Galileo; non si era del'tutto affrancato, dalle vane credenze dell’astro- 
logia; e riguardava come dottrina sacra, la immobilità della terra. 

Se l’Odierna, si fosse limitato a questa sua prima pubblicazione; il suo nome 
non sarebbe certamente divenuto sì chiaro, presso i contemporanei; nè sarebbe 
pervenuto alla posterità. 

Ma le grandi scoperte dell’astronomo fiorentino, avendo dato ottimo indirizzo 
ai suoi studj; egli rivolse le sue osservazioni, ai satelliti di Giove ; che gli for- 
nirono materia ad una importante pubblicazione, la quale gli procacciò molta 
fama, tra gli astronomi di quel tempo. 

Codesta opera, sopra il primo foglio porta il titolo: Medicaeorum || Ephemerides 
|| Numquam Hactenus apud mortales Editae|| Cum suis || Introductiomibus || In tres 
partes distinctis || Auctore || Don Jo. Baptista Hodierna; e al di sotto nel secondo fo- 
glio: Meneologiae Jovis || Compendium || seu || Ephemcrides Medicacorum || ad || Ferdinan- 
dum || Bis Magnum || Hetruriae Ducem || Hodierna Siculo Auctore || Ducis Palmae Ma- 
thematico || Panormi apud Cirillos || MDCLVI || Impr. Abbas Gelosus V. G. S. V. || Impr. 
de Denti F. P. 

Di codesta opera ha fatto cenno ampiamente il celebre astronomo francese De- 
lambre nella sua Histoire de l’Astronomie moderne (2). 

A pag. 327 del secondo volume sotto il titolo di Hodierna, l’astronomo fran- 
cese dice: « Questa opera è estremamente rara; io l’ho avuta alla vendita di La 
Lande e vi trovo queste parole scritte di sua mano: recu de M. Piazzi. 

Ne esistono tuttavia parecchie copie in Sicilia, e ne possiede una copia la Bi- 
blioteca Vittorio Emanuele di Roma, che per la grande liberalità dei regolamenti 


(1) Studiorum utilitati consulendo, post Dirertionum Physiotheoricae editionem. Praxim 
etiam ac Tabulas (quas admirabili artificio sub Poli Borealis altitadinibus grad 36. 37. 38 
proprio Marte construxe ram et quamplurimi studiosi admirati sunt) in lucem edere spe- 
rabam verum ad Typographi nostri impedimentum ec. ec. 

(2) Paris 1821, tome 2, pag. 327-332. 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 7 








delle biblioteche italiane, e per la perfetta cortesia di chi dirige quella bibliote- 
ca, ho potuto avere a mia disposizione. Giova ora di qui riferire, il lungo reso- 
conto di codesta opera, dato dall’astronomo francese: 

« Gli astronomi che si erano occupati dei satelliti prima di Odierna sono come 
«lo dice egli stesso nella sua prefazione Simon Marius, Blancanus, Keplero, Heri- 
«gone, Gassendi, Rheita, Franc. Fontana, Gotifredo, Zupus e Reineri. Ma niuno d’essi 
«potè riuscire a dare la teoria completa, niuno d’essi aggiunse alcun che d’im- 
« portante alle scoperte di Galileo. Si sa che il Reineri discepolo del grande astro- 
«nomo fiorentino, avea per di lui incarico compilato codeste tavole, le quali non 
«poterono essere ritrovate, malgrado tutte le ricerche fatte presso i suoi eredi. 

«Noi esamineremo, dice il Delambre, ciò che Odierna ha potuto aggiungere alle 
« conoscenze dei suoi predecessori. La sua Jettera dedicatoria dell’opera al Gran- 
«duca Ferdinando secondo, Granduca di Toscana, reca la data del 1° gen. 1656 
«ed è firmata: Jo: B: Hodierna archipresbyter Palmae. Egli promette una teoria 
«completa (Theoriam absolutissimam persolvimus). Ha trattata la parte teorica in 
«un’altra opera; la quale per ciò che si conosce delle sue opere, non è stata pub- 
«blicata. In libris theoreticorum haec exponentur amplissime. Siquidem illic at- 
«lantem agimus modo hic herculem representamus. 

«I satelli ti non possono essere appercepiti ad occhio nudo, sebbene abbiano lo 
«splendore di stelle della sesta grandezza. La vicinanza e la luce brillante di Gio- 
«ve li rende invisibili ad occhio nudo. 

« Egli stima le elongazioni dei satelliti in moduli ossia in diametri di Giove, ag- 
«giungendo che giammai questo diametro non gli è parso superiore a 45”. 

«Ecco queste distanze secondo lui e i suoi predecessori: 
































en EROE E E Nom | 

MARIUS| LEUS NA | 

, , , | 
C SIMONA TIZONO .° 0° | 3.° 30’ Alphipharus | Principharus 
Oi o. 0 5. 0 | 4. 0 | 5. s0| Betipharus | Victripharus 
CH SO) 480 o TOTO. Cappipharus | Cosmipharus 
CY |12. 0 |13. O |10. O |14. 30) Deltipharus | Ferdnipharus 











-r@“"’"@"@@P@@p@’-@vtui@ 





«Iquattro satelliti sono indicati dai nomi coi quali egli li ha successimante de- 
« nominati. In generale li chiama phares a cagione della loro luce. Li distingueva 
«in seguito con le quattro prime lettere dell'alfabeto greco, che sono anche le ci- 
« fre 1. 2. 3. 4; poi ha preferito i nomi dei membri della famiglia granducale di 


8 DELLA VITA E DELLE OPERE 





«Toscana, in onore della quale Galileo, avea già adoperato la denominazione di 
« stelle medicee. Ha dato il nome di Cosimo al terzo satellite, il più brillante di 
« tutti, in onore di Cosimo I. dei Medici. Il quarto che inviluppa le orbite di tutti 
«gli altri nella sua orbita, ha ricevuto da lui il nome sincopato di Ferdinando. 

«Il secondo ha ricevuto il nome di Vittoria, moglie di Ferdinando, Princifaro ha 
«denominato il primo, in onore dell’erede presuntivo. Diede inoltre il nome di 
«Firenze, al disco di Giove; ed il nome del fiume Arno, alle bande che si osser- 
«vano sul disco. Ometteremo il capitolo delle influenze che chiude questa prima 
«parte dell’opera. 

« La seconda tratta delle latitudini, delle rivoluzioni, delle ineguaglianze e degli 
«ecclissi. Noi abbiamo visto la disputa tra Galileo e Marius per le latitudini. 0- 
« dierna trova che essi hanno torto entrambi. Egli si allontana dalla opinione di 
« Galileo, sostenendo che le latitudini dei diversi satelliti sono differenti, e così 
«sensibili, che nelle congiunzioni essi possono intercettare soventi più che il se- 
«midiametro di Giove; e nelle disgressioni allorchè un satellite superiore è in 
«congiunzione con un satellite inferiore, non si vede fra loro alcun intervallo. 
« Contro la idea di Marius, egli ha sempre osservato i satelliti settentrionali nei 
«loro semi circoli superiori, e meridionali nella parte inferiore. 

«Si domanda forse come gl’illustri matematici e gli abili astronomi che hanno 
«tanto lavorato sui satelliti non hanno potuto darne sin qui alcuna teoria se 
«non è forse Reineri che se ne è occupato per dieci anni. » 

« È forse perchè non si è potuto ancora determinare con esattezza le rivoluzioni, 
«di cuila durata incostante ed ineguale sembra esigere non una sola equazione 
«ma parecchie ? 

« Odierna concepisce tre ineguaglianze, e non più. 

«I satelliti si muovono in orbite inclinate all’ecclittica di Giove. Sono già due 
canni che per una serie di osservazioni, egli è stato condotto a pensare, che i 
«quattro satelliti si muovono in uno stesso piano inclinato di 45° all’ecclittica di 
« Giove (ad semiquadrantem); secondo questa idea, esprimendo le più grandi lati- 
«tudinì in decimi di digiti del disco, egli ha trovato pei quattro satelliti 1°. 59’, 3°. 
«7°, 5°. 61, 8°. 29°. Mercè di nuove osservazioni egli ha riconosciuto, che la sup- 
«posizione è inesatta. Queste latitudini sono una prima causa d’ineguaglianza. 

«La seconda è la parallasse annua che non è sempre la stessa. La terza è la 
«ineguaglianza propria di Giove che è variabile. 


Rivoluzioni periodiche dei satelliti 


C' o" Qu CIV 
LES 2A, RETRO ee SA A Odierna 
2/8 9,0 019 IR 99 TSO 5 17 0 | secondo De- 


lambre 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 9 


ASper 0 — NES obi 8 per CV — 5068 4714 per C'— 408 18h79' 
2 CA 7620036 


1 QU] i Ci=:004019:128 C.—- 49 13 14 


20 per C"—14388!29"(101 per © —723522224'/128 perC"—454522% 25° 
SIMO — 4438 47/409 CE 50 299 o 2 


119 per C" — 422520% 23' 
59 C=1226020025 


«Sin qui non si vede alcun vestigio di teoria e solameute alcune osservazioni 
«alquanto incerte. L’autore passa alle cause degli ecclissi; a ciascuna rivoluzione, 
«tutti i satelliti debbono ecclissarsi nelle loro congiunzioni superiori, eccetto il 
«quarto che passa qualche volta al di sopra del cono di ombra. La osservazione 
«era nuova allora; essa è esatta. Allorchè il quarto satellite ricomincia ad ecclis- 
«sarsi, non entra che poco profondamente nel cono d'ombra, ed i suoi ecclissi 
«hanno una durata più corta ciò che è facile a concepirsi. 

«Il quarto satellite si ecclissa tre volte in cinquanta giorni, il terzo sette volte, 
«il secondo quattordici ed il primo ventotto. 

«Il quarto ventuna volta in un anno il terzo cinquantuna volta, il secondo 
«cento due volte, il primo duecentosette volte, cioè a dire ciascuno tante volte, 
«quanti gradi percorrono in un giorno solare. Questa osservazione è curiosa e la 
«ragione non è difficile a trovare. 

« L’asse del cono d’ombra è il prolungamento del raggio vettore di Giove; que- 
«sto asse fa co] raggio visuale guidato dalla Terra, un angolo uguale alla paral- 
«lasse annua di Giove. Questo angolo fa che noi siamo meglio collocati, per vedere 
« l’entrata che l’uscita dall’ombra, o al contrario. 

«Nei due satelliti interni non si vede mai che la entrata o la uscita (Questa 
«regola vera sempre per il primo satellite soffre eccezioni pel secondo). Pei due 
«altri si vede la entrata e l’uscita quando la parallasse è la più grande. 

«Odierna passa al calcolo degli ecclissi. Egli ha già detto che nelle sue più 
«grandi latitudini, il quarto satellite cessa dall’ecclissarsi. Egli non osa nulla de- 
« cidere relativamente al terzo, ma lo ha visto sempre ecclissarsi. Egli indicherà 
«i tempi delle congiunzioni, perchè il cangiamento di latitudine fa che la fine ed 
«il cominciamento degli ecclissi non ritornano in intervalli di tempo ben fissi; 
«due cominciamenti e due fini di ecclissi consecutivi non daranno dunque esat- 
«tamente le rivoluzioni: parecchi vi sono rimasti ingannati. Questo passo ci prova 
«che Odierna non è il primo che abbia osservato gli ecclissi, ma egli non ha af- 

3 


10 DELLA VITA E DELLE OPERE 


pri 





« fatto ragione quando afferma che i cominciamenti e le fini degli ecclissi non 
« possono dare le rivoluzioni; questi fenomeni bene osservati gli avrebbero dato 
«rivoluzioni più esatte e sopra tutto durate meno difettose. 

« Il 1° Settembre 1655 egli osservò la immersione del primo satellite a 14® 12’ 
« pomeridiane, È 

« Il 25 luglio immersione del secondo 13* 9' dopo mezzogiorno. 

«Il 25 luglio immersione del terzo a 14* 1’ durata dell’ecclisse 29 57. 

«Da queste osservazioni egli deduce l’epoche dei quattro satelliti. 

« La terza parte dell’opera contiene le tavole; la prima è quella delle rivoluzioni 
«in tempo. 

« La seconda tavola quella dei movimenti per i giorni, in gradi, minuti, e se- 
« condi. 


C' C" pe CIV 
Movimento diurno SERRE sodi si x 
203%2304 410917 IR hi 008 BLEI SO 


«I movimenti dei tre primi sodisfano a 55” al teorema di Laplace. 


A+2A4C0"=34C0" 


«Il 1° settembre 1655 immersione C' 14» 12’ 1/2. Egli suppone la semidurata 
« 55’ per concluderne il mezzo. 

« Il 4 ottobre 1655 imm.: €" 15» 13’. Egli suppose la durata 1> 10°. 

« Il 19 ottobre 1655 egli calcola la immersione di C'" a 14> 20'. 

« Il 24 ottobre 1654 il quarto satellite diminuisce la luce senza ecclissarsi a 
«10h 13'. 

« Il suo modo di determinare il tempo, era di osservare il passaggio di qualche 
« stella al meridiano e di fare oscillare un pendolo da questo passaggio sino al- 
« l’istante dell’osservazione. 

« Io sospetto (dice il Delambre) che il suo tempo non era molto esatto, perchè, 
«avendo calcolato le sue osservazioni, non ho creduto di farne uso nelle mie tavole. 

«A pagina 15 egli riferisce varie congiunzioni non ecclitliche del CIV. 

«In seguito dà le epoche dei quattro satelliti dal 1650 al 1682. 

« Alcune tavole di correzione per la ineguaglianza di Giove. 

« Alcune tavole per calcolare le elongazioni. 

«Egli descrive in seguito lo strumento che serve a determinare l’elongazioni per 
«un tempo dato; è quello che di poi si è denominato jovilabe unendo una parola 
« latina ad una parola greca. 

«Vi hanno tavole per determinare gl’istanti degli ecclissi del primo satellite. 

«Egli si scusa di non aver potuto determinare le leggi che regolano le durate. 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 11 





« ParTE 3. — Questa parte contiene le effemeridi che danno dal 1656 al 1676 pel 
«cominciamento di ciascun mese le longitudini in gradi dei quattro satelliti; poi 
«i movimenti per tutti i giorni del mese. Per gli anni 1651 e 57 si vede al basso 
« delle pagine l’annunzio di alcuni ecclissi. Egli si scusa di non averli dati tutti 
«e con maggiori particolari. Ma il numero di quelli che ne faranno uso non è con- 
« siderevole, i teloscopj sono rari; egli ha dato delle facilitazioni per compiere il 
«calcolo, a quelli che vorranno dedicarsi a queste osservazioni; ciò che basterà per 
«il presente. 

« Egli finisce con affermare che Giove non ha che quattro satelliti. Questo è un 
«punto che non è più dubbioso» (1). 

L’esteso e particolareggiato resoconto che abbiamo riprodotto testualmente dalla 
citata opera dell’illustre astronomo francese, dà prova dell’importanza da lui at- 
tribuita all'opera dell’ astronomo siciliano; e fornisce inoltre un concetto ben 
definito, delle notevoli osservazioni fatte dall’Odierna, sui satelliti di Giove. 

Un'altra opera la quale ha dato molta riputazione all’ astronomo ragusano, e 
lo mostra degno continuatore dei lavori astronomici di Galileo reca per titolo: 


(1) L'autore dopo di avere in parecchi luoghi dell’opera affermato che i satelliti di Giove 
sono quattro solamente; fatto che in quel tempo era controverso, per le inesatte osserva- 
zioni di varj astronomi; tratta in fine dell’opera di siffatta quistione, a pag. 78-79. 


Scholium 


De quaternario Mediceorum numero. ; 

Sicuti sapiens vobis asserendum fuit Iovis Comites quaternarium numerum nunquam ec- 
cedunt; adest testis hujns rei Eustachius de Divinis, streanissimus Teloscopiorum istructor 
qui pluries (varijs Teloscopijs vel 45 palmorum longitudinis) Iovem observans nunquam 
plures quatuor se animadvertisse testatur; uti scribit ad serenissimum Hetruriae Ducem. 
Quod autem viri preclarissimi R. P. Schirnerius, S. I. Franciscus Fontana, Schyrleus, vel . 
etiam R. P. Caramuel in omni genere scientiarum versatissimus, Plures admiserint Iovis 
comites, pace tantorum virorum, quos omnes, uti Preceptores meos veneror, ipsi de facile, 
in observando, decipi poterunt, praesertim ubi Stella Iovis juxta suas stationes fulserit, 
Nam stellulae firmamenti in eodem eoeli sinu fulgentes:in quo Iupiter in statione, inter ac- 
cessum et recessum latiiudinem etiam permutando circumvolvitur apparent Stellulae circa 
Tovem non secus, ac satellites circumgrediri quod sepius equidem inter observandum, vix 
atque vix, in candem deceptionem incidissem, ut crederem plures quatuor esse Iovis comites, 
nisi postmodum examinando illorum Periodum, cognoscerem non illorum, sed Iovis fuisse 
motum et circumgressum. Quod autem renatus de Cartes sue dioptricae cap. 9 asseveret 
oculum suis Hyperbolicis Teloscopijs instructum quatuor alios minores Planetas Iovem con- 
comitantes prospicere quae fortesse excerni, non possa usitatis Teloscopijs Fontanae Turri- 
cellae aut Eustachij dixerit: tamen adhuc ipse (rerum abditarum profundissimus Indagator) 
decipi poterit: oportet primum pluries earundem Stellarum circugressionum Periodos disqui- 
rere, et explicare ut rei veritas luce clarius pateat nunc igituv in eadem sententia persisti- 
mus, ut non plures quatuor Satellites [ovis, quas Mediceas , indigitavimus exsistant stabi- 
litum sit. 


12 DELLA VITA E DELLE OPERE 


De systemate |] Orbis Cometici || et de || Admirandis Coeli || characteribus || opuscula duo 
|] in quorum primo || Cometarum causae disquiruntur et explicantur [| nec non || Viae 
cometarum per orbem cometicum ultiplices |] indicantur || In secundo vero || Quid, quales, 
quotve sint Stellae Luminosae, Nebulosae; || nec non et occultae manifestantur || et re- 
rum Coclestium studiosis || commendantur. || Authore || Don Joanne Baptista Hodierna || 
Siculo Palmae Archipresbytero. || Panormi Typis Nicolai Bua 1654. 

L’opera siccome si scorge dal titolo è divisa in due parti, aventi soggelto di- 
verso; e che formano due opuscoli, segnati con una differente numerazione dì 
pagine. 

Il primo opuscolo risulta di 102 pagine il secondo di 99. 

Di questa opera trovasi fatta menzione nel catalogo bibliografico di Guglielmo 
Libri pubblicato a Londra nel 1861 ; al n° 1853 vi si legge ciò che segue: this 
work unknown to Lalande and Struver no copy being mentioned as în the Library of the 
Pulcovian Observatory the richiest perhaps in works on comets. On the importance of 
the works of Hodierna who is said to have anticipated some of Newton discoveries and 
who has made some curious observations on Beems (see Lalande). 

Nel primo lavoro intorno alle comete, egli ha dato particolarmente la storia 
delle tre comete, apparse nel 1600, 1618, 1652, notando le loro successive posi- 
zioni nel cielo, le loro più notevoli apparenze, e l'andamento generale del loro 
COrso. 

Ha tentato inoltre di dare una teoria, sulla origine delle comete; nella quale 
se per una parte sostiene, che le orbite delle comete sono molto al di là di quella 
della Luna; cade per l’altra nell’errore di supporle altrettante masse di vapori, 
staccate da violenti scosse dalla nostra atmosfera, e trasportate verso 1’ orbita 
di Marte; dove accese, dopo di essersi avvicinate al sole, interamente si consu- 
mano. 

La teoria sulla origine delle comete, è preceduta dalla esposizione di dodici 
proposizioni di fisica, molto notevoli; dalle quali si scorge, che egli avea rinun- 
ziato alla credenza dei cieli cristallini di Tolomeo; e riguardava gli spaz] celesti, 
come riempiti da un fluido sottilissimo ed elastico, il quale è melto più sottile 
relativamente all’aria, di quel che è l’aria relativamente all'acqua. 

L’etere, ha con l’aria varie qualità comuni: specialmente la tenuità, la fluidità, 
e la trasparenza; ma in grado molto più eminente dell’aria. 

Cuin Aere vero Aether communem habet, cum tenuitate, ac fluiditate transpicuita- 
tem: verum Acther hasce qualitates in gradu summo, Aer in gradu remisso sibi ven- 
dicat. Ut si dixerim tantumdem substantiam Acetheris ab Aerea (in tenuitate fluiditate 
ac transpicuitate) differt; quantumdem ab Aquea (in hisce qualitatibus) Aerea dissidet: 
nil fortasse deciperer. Utrumque spirituosum substantiae Genus: sed spiritus Aeris la- 
bilis ac flaebilis, Aetheris vero vivificus costanter perseverat. 

Sectio prima, pag. 4, lin. 11... 19. 

La grande massa di aria che circonda dapertutto il globo terrestre, ha una 
estensione limitata; l’ altezza della colonna atmosferica, ha un termine che si 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 13 











può definire, e che varia in limiti assai ristretti; in vece l’etere che riempie gli 
spazi celesti, ha una estensione di cuì i limiti non sì possono definire, neanco 
col pensiero. 

La massa aerea, va soggetta ad una serie di flussi e di riflussi, per le continue 
evaporazioni di sostanze che avvengono alla superficie della terra; che si innal- 
zano, si dilatano, e tornano poi a ricadere condensandosi; mentre l’Etere che co- 
stituisce il Cielo etereo o Firmamento celeste , persevera sempre nel medesimo 
stato, nè va soggetto a quelle mutazioni, ed a quei flussi e riflussi, ai quali va 
soggetta la massa atmosferica. 

L’etere, è l’alveo comune di tutti i corpi che esistono nel mondo, e della stessa 
Aria. 

Aetheris immensi substantia omnium mundanorum corporum (vel etiam Aeris ipsius) 
communis Alveus, uterus, vel centinens absolutissimum ewistit: cuius molis vastitas per 
immensa Mundi spatia circumquaque diffunditur, ac dilatatur; ita ut Limites ejus ma- 
gnitudinis nonnisi ratione, quatenus totius Mundi sensibilis continens sit, percipiuntur. 

La luna non ha un’atmosfera, simile a quella che circonda il globo terrestre. 

Egli non esita ad emettere francamente tale opinione, contradicendo a quella 
di varj uomini autorevoli; i quali han sostenuto la esistenza di un’ atmosfera 
lunare fondandosi sulle apparenze dei colori, che si mostrano ai bordi del disco 
lunare, quando si contempla col teloscopio, e sulla fievole luce rossastra, che il- 
lumina il disco lunare, quasi sempre negli ecclissi totali, specialmente se annulari. 

Del primo fenomeno, egli dà ragione, attribuendolo all’effetto della figura len- 
ticolare del vetro, nel teloscopio. 

Quanto poi alla luce onde appare illuminato il disco della luna, negli ecclissi 
totali; egli adotta la spiegazione data da Keplero, ed adottata dagli astronomi 
moderni, cioè: che siffatta luce provenga dalla refrazione dei raggi solari, i quali 
nell’atmosfera terrestre, sono deviati dal loro cammino rettilineo, ed entrano nel 
cono d’ombra, che sarebbe determinato dai raggi tangenti alla superticie terre- 
stre. Egli deduce dalle sue dotte considerazioni, le conclusioni seguenti: 

Dalla massa del corpo lunare non si sprigiona alcuna sostanza aeriforme, che 
possa costituire un’atmosfera intorno al globo lunare. 

Nella Luna o in sua vicinanza, non si produce alcuno di quei fenomeni me- 
teorici, che si producono presso la terra; Nubi, Pioggie, Nevi, Nembi. 

Le macchie che sono coeve al corpo lunare, e che assumono le apparenze di 
Mari o di Laghi, non sono che imagini prodotte dalle ineguaglianze e scabrezze 
del corpo lunare, e dall’attitudine diversa delle varie sue parti a riflettere la luce. 

Mancando l’ atmosfera; il globo lunare non può contenere abitatori di natura 
almeno, che avesse qualche rassomiglianza con gli esseri viventi sul globo ter- 
restre. 

Nullam igitur in orbe lunari Atmosphaeram, vel aeris scaturiginem, huic, quae Tel- 
luris Orbem circumsepit, similem produci ex praemeditatis evidentissime constat, quod 
erat demonstrandum (pag. 8, lin. 8... 11). 

4 


14 DELLA VITA E DELLE OPERE 





In Orbe Lunari Incolae nullae sunt, neque illuc, è Terris translatae, naturaliter 
vivere poterunt (pag. 9, lin. 6 7). 

L’opuscolo secondo conziene importanti osservazioni e notizie intorno all’astro- 
nomia stellare. 

La prima sezione di codesto lavoro, che trovasi distribuito in quattro sezioni, 
classifica le stelle in Nebulose, Occulte o cieche, e Luminose. 

Chiama nebulose quegli spazi che osservati ad occhio nudo sulla volta celeste 
assumono la forma di leggiera nuvola biancastra; ma che guardati col teloscopio 
appariscono non come un insieme nebuloso od una semplice stella, ma come una 
copiosa riunione di stelle. 


I. Diffinitio Nebulosae 


Nebulosae Stellae encomio illum Caeli eminentissimi Tractum, vel Nexum, decoran- 
dum venit, qui ad immediatum, seu nudum oculorum intuitum nebuculae speciem ada- 
mussim repraesentare valcat, quanvis deinde, ubi oculus prospicientis Tubospecillo cor- 
roboratur, nequaquam nebulosus nexus, aut simplex Stella; sed copiosa Stellarum 
coadunatio circumspectari videatur. 

Et consequenter, Stella nebulosa nil aliud esse perhibit, nisi Stellarum tumultuosa in 
Aethere eminentissima coadunatio quae ob totidem tenvissimorum confusam ad oculum 
irradiationem, sub specie unius nebulosi Globis ad sensum representantur. (pag. 2. 
lin. 1.... 14). 


II. Diffinitio Occultae Obscurae seu stellae Cecae 


Occultae vero stellae encomio angustissimum ille Caeli nodus insigniri debet, et dignus 
reputavi qui cum ad liberum, seu immediatum oculi intuitum quasi Stella nubilo Caeli 
Tractu obducta appareat, nihilominus ubi oculus prospicientis Tubospecillo munitus 
fuerit et cumdem Cacli nodum excernere contingerit, tunc non Stellam simplicem, sed 
aut multiplicem, partibus distinctis, aut caccum quodam lucis iubar, indivisum cernere 
videbitur. 

Et consequenter Stella occulta nil aliud esse perhibetanisi arctissima tenuissimarum 
Stellarum in profundiori sinu coadunatio, quam vix oculus. 

Tubospecillo corroboratus excernere poterit. (pag. 2. lin. 14.... 27). 


III. Diffinitio Luminosae 


Porro luminosam Stellam, vel (congruentius) Constellationem cam esse reputandam 


censemus, quae cum sit etiam Stellarum ad invicem coeuntium tumultuosa coadunatio; 
tamen sive quatenus hae stellae nobis propinquiores existant ; sive quatenus matores 
sint et spatiosioribus ab invicem intervallis dissitae partis ad visum patulae fiiunt. 
(pag. 4. lin. 1.... 8). 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 15 


_—__—_——————rr—t—___——##38tt*  +xtkttk._____— ——————+————»+-»»-»+»»+»_—_»+—+— —_—-_—ttòt—etoo. rn] 


Su codesto soggetto delle Nebulose sono noti gl’importantiistudi cdegli! astro=! 
nomi moderni, e specialmente quelli di Sir William Herschelbil, quale:: mereù: 
l’uso dei suoi potenti telescopii, ha potuto scoprire un numero/prodigioso, sdi mex 
bulose di vario genere e ne ha studiato le forme e dato congrande probabilità 
ed approssimazione il numero prodigioso di stelle dalle quali risultano. +rv:init » 

Secondo le denominazioni degli astronomi moderni, quelle:che»Odierna:(©hiàma 
Stelle Nebulose sono le nebulose stellari e le Stelle occulte o cieche.»dell'astrionòomo 
ragusano sono le nebulose diffuse dei moderni. dip sroig eps) La 

Secondo Odierna le stelle cieche sono anche dei cumuli di stelle: Cameb ii cho 
bulose risolubili; se non che per la loro maggiore distanza, anche.l’:occhio! ar- 
mato di teloscopio, può appena discernerle. Mentre i moderni hanne adottato la 
ipotesi che le nebulose diffuse, siano originate dalla condensazione=«diomateria 
cosmica; sieno in somma delle vere stelle in istato di formazione. OD LB » 

Nella seconda sezione della sua opera (pag. 6.) Odierna ci da un elenco: delle 
nebulose che si conoscevano ai suoi tempi. Cominciando da Tolomeo coi più:an- 
tichi osservatori, e dai suoi seguaci sino a Ticone Brache; i quali non conosce- 
vano che solamente cinque Stelle Nebulose nel cielo. 

« 1. Primam in Constellatione: 

« Persei super extremitatem eius manus Dexterae. 

«2. Secundam in pectore Cancri, quam; 

« Praesepe appellare consuevere. 

« 3. Tertiam quae subsequitur spinam ; 

« Scorpionis ad Orientem. 

«4. Quartam quae in capite Sagittarii; 

« Super oculum duplex. 

«5. Quintam in capite Orionis; (pag. 5 lin. 6... 17). 

Codeste sono le cinque nebulose annotate nel catalogo di Tolomeo; ma la quinta 
può riguardarsi come gruppo luminoso: at quintam, equidem inter Luminosas ad- 
scriberem , quatenus in ea Stellificatione, quae praesidet in capite Orionis , Stellarum 
turba splendet evidenter. 

Brache e Longomontano hanno aggiunto quattro stelle nebulose, nel capo del 
Capricorno, ma così tenui, che appena si possono discernere con grande sforzo. 

«1. Nebulosa superius cornus praecedens. 

«2. Nebulosa Occidentalis Basis trianguli in fronte. 

«3. Nebulosa Orientalis. 

«4. Nebulosa praecedens in frontes. Quae quidem exigue sunt adeo, ut potius 
«inter Stellas Obscuras adnumerandae videantur. 

«5. Quintam praeterea in Herculis constellatione videlicet. 

« Ultimam trium Obscurarum in eius pede sinistro, quam Longomontanus in 
« pede sinistro Gnorsiae adnotat, quam equidem nonchem obserrare potui, neque 
«excernere, fortasse ob tenuitatem (pag. 6 lin. 3... 19). 

L’Odierna quindi afferma che gli astronomi più antichi ed i più vicini al suo 


16 DELLA VITA E DELLE OPERE 








tempo hanno registrato dieci. Nebulose, alle quali egli ne aggiunge altre cinque 
molto insigni, scoperte mercè le proprie osservazioni. « quibus equidem et alias 
quinque, insignes Nebulosas adiicio, vidilicet. 

« 1. Quae super Aculeum Scorpionis in Boream, quae respectu illius magnae Ptole- 
« maicae respicit in Carrum. 

« 2. Quae iuxta viam lacteam superius telum Sugittarij ad occasum. 

e 3. Quae super caput Algol, in humero sinistro Persei. 

e 4. Quae prentit Rostrum Cygni inter Galaziae bisectionem, in eadem recta, pro- 
e ducenda a Lucida Aquilae ad Fidiculam. 

«5. Quae iunta Triangulum, vel hinc inde duplex (pag. 7, lin. 19... 32). 

« Hisce quindecim Nebulosis (in Hemispherio nobis Europeis viso) et alias in hemi- 
« sphaerio austrino, Indis viso, quatuor addunt, videlicet duas in Constellatione Pavo- 
« nis, ac totidem in Constellatione Phaenicis. Practer duas Nébuculas preclarissimas 
« iuxta Polum antarticum candicantes; quas oportet esse etiam de natura Nebulosa- 
«rum, vel illius magni nebulosi tractus, qui veluti magna zona universam sphaeram 
« circumabit, ob candorem vero Graecis dicitur Galaxea, quae Latinis via lactea, ex 
« eadem causa appellari consuevit, (pag. 8, lin. 1... 9). 

Per ciò che riguarda le stelle occulte che i più moderni astronomi preferirono 
chiamar cieche, Tolomeo ne indicava undici nelle seguenti posizioni : 

« In primis Ptolomeus quatuor occultas informes, inter duos pedas anteriores Ursae 
« matoris, et Caput Leonis ad meridiem indigitat. 

« Duos item informes supra Leonis dorsum, in Comam Berenicîs. 

« Unam informem, quae antecedit cam Stellam quae in capite Algol. 

« Quatuor postremo in Constellatione. Equi minoris (pag. 8, lin. 13... 20). 

Odierna osservando attentamente col teloscopio, alcune stelle che Tolomeo in- 
dicava tra le occulte, e che Ticone avea classificato come luminose di quarta 
grandezza ; egli dopo accurate osservazioni le classifica tra le stelle doppie o mul- 
tiple. 

« Quia potius quatuor easdem, quas Plotomeus in Equuleo occultarum Encomio in- 
« signivit, ipee Tycho, in ordinem quartae magnitudinis, sicuti, et reliquas lucidas, ad- 
« misit. Dicv easdem numero; quod considerationis valde dignum videtur, idequidem 
« animadvertens, ul experientia Teloscopij comprobarem, ut videlicet praeter liberum 
« intuitum Tubaspecillo exccernerem, quale essent in ca Equulei regione, Stellulae qua- 
« tuor: an scilicet obscuritatè vestigium aliquod in illis deprehenderem, ingenue fateor, 
«a religuis differre, nisi in esse duplices, vel multiplices. Praeterea et quatuor occul- 
«tas, quas Ptolomeus informes, inter duos pedes anteriores Ursaè maioris, et Caput 
« Leonis ad meridiem iuxta Cancri peder Boreales, indigitat, per Tubospecillum obser- 
ec vari, ac deprehendi singulas esse duplices, aequales quartae magnitudinis, et aspectu 
c pellucidas, ac pulchras, Stellis illis, quae intuitu libero, duplices in pedibus Ursae 
« anlerioribus emicant, persimiles, (pag. 8, lin. 31 32, pag. 9 1.., 18). 

Il nostro autore crede che l’ apparenza di nebulosità che presentano codeste 
stelle doppie provenga da una illusione ottica; per la difficollà di ottenere una 
imagine singola determinata, da un oggetto doppio o multiplo. i 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA ste%; 


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_—_———<<==-=+=+#=>+6+ff%% "ZZ = =T 


Del resto non tutte le stelle cieche registrate da Tolomeo, appartengono al 
novero delle doppie o multiple; ma parecchie sono vere e proprie nebulose, le 
quali conservano tale apparenza, non solamente ad occhio nudo, ma altresì os- 
servate col teloscopio mantengono la forma nebulosa o cometica. 

« Verumtamen nequaquam omnes, ac singulae Stellae occultae a Ptolomeo re- 
«censitae eiusdem conditionis existunt, ul duplices, aut multiplices reperiantur: 
«nam duae Stellae informes iuxta Leonis Tergum, in caudam Ursae et in Tricam 
« Berenicis, non solam ad immediatum intuitum (pag. 9, lin. 30 31 32). 

« Sequens earum et est in Figura similis Rosae fusae et est species volubilis. 
« Hanc etiam Copernicus conulebrat dicens, esse in figura folij Hederae. 

« Hisce duabus equidem admirandis, terlam valde insignis adijcio, a nemine (ut 
«sciam) deprehensam. Hanc veri caecam Stellam super coxam dexteram Andro- 
« medae vel sub Lilium Cassiopeae post duas lucidus in extremitate zonulae pen- 
« dentis, e cingulo ipsius Andromedae deprehendo: quae quamvis Nebulosam ad 
«immediatum intuitum repraesentit: nebulosa tamen nequaquam existit, sed et 
« caeca, quatenuus per Tubospecillum visa, nulla in eius amplitudine Stellarum 
« coaeuntium apparet multitudo, sed adhuc Stellae occultae lubar, ad instar co- 
« metae vicuti et duae premeditatae iam Ptolemaicae Stellae iuxta Tricam Be- 
«renicis. (pag. 9, lin. 30. 31. 32.-pag. 10. lin. 1.... 25). 

Riassumendo le cose dette anteriormente egli afferma che oltre le dieci Stelle 
occulte registrate da Tolomeo e le undici osservate da Brahe; ed una da lui sco- 
perta et unam a nobis indigitatam; egli può additarne parecchie altre nelle varie 
Costellazioni celesti. 

«Quam plurima etiam possim in singulis Caeli Constellationibus hujusmodi 
« Stellae quocumque nomine censeantur occultae, obscurae, ac nebulosae prae- 
« sentim. 

« In Pisce Boreo iuxta Andromedam. 

« Circa Hyades et Pleiades. 

«In Brachio dextro et Baculo Orionis. 

«Juxta Triangulum. 

«Juxta Caput Arietis. 

«Juxta Caput Medusae ef ubique iuxta viam lacteam. (pag. 10, lin. 29.... 32. pag. 
belin. 219). 

Dopo le nebulose e le stelle cieche egli passa a descrivere le principali costel- 
lazioni luminose delle quali fornisce una descrizione grafica con l’aiuto di figure 
inserite nel testo della sua opera; le quali, secondo le notizie raccolte dai suoi 
biografi, erano da lui stesso disegnate ed incise. 

La prima Costellazione da lui descritta è quella delle Pleiadi, della quale oltre 
la figura graficamente descritta quale si presenta la costellazione ad occhio nudo; 
fornisce le posizioni delle sue sette principali stelle componenti, mercè le ri- 
spettive Longitudini e Latitudini, espresse in gradi e minuti. (pag. 12. pag. 13. 
pag. 14). 

5 


18 DELLA VITA E DELLE OPERE 


-___________—_—_—______—_—____——T—T—TT—_Tt_—_—_—_r_r_t -"-—r—re"er 





SISI LARIO 


Aggiunge in seguito, la figura della’ costellazione medesima, qusle si osserva 
mediante il teloscopio; e le distanze fra loro delle varie stelle che la compon- 
gono. 

La seconda costellazione della quale dà la descrizione e la figura, splende nella 
testa del Toro. | 

«2. Secundus valde insignis, et omnium Maximus Stellarum Caetus, cui Lu- 
« minosae constellationis Encomio optimo iure tribuendnm est in eadem Coeli 
«Regione, videlicet, in Capite Tauri splendet; ut qui magnam Stellarum Turbam 
« tumultuose in Synodum concurrentium continet et circumplectitur. 

« Harum Stellarum illustriores patronimico vocabulo Hyades denominantur. 

«Septem vero Hyades esse autumant, videlicet, singulas in singulis oculis (sed 
« quam in sinistro omnium clarissimam Paulitium appellant) in Fronte media 

unam: in Naxibus duas: ac totides in eductione cornuum. » pag. 15. lin. 19....32. 
pas al6lin 2: 

Delle sette principali stelle di codesta costellazione egli determina i siti in 
longiludine e latitudine e ne aggiunge la descrizione grafica. (pag. 17). 

La terza costellazione da lui descritta è la Chioma di Berenice « que per An- 
« tonomasiam omnibus Astronomis venit appellanda, hanc Berenicis Tricam, seu 
« Comam appellant, et splendet post Leonis tergum ad Caudam Ursae maioris , 
«et quamvis innumeras ignobiles tarum Stellas complectitur: ut nil aliud sin- 
« gulare sibi vendicet, nisi copiosum stellarum numerum. Ideo de illa nulla nobis 
« ratiocinatio. (pag. 18. lin. 1.... 8). 

La quarta costellazione della quale dà la descrizione grafica con una figura 
incisa al testo è posta nel lato destro di Perseo. 

« 4. Quarta Constitutio Luminosa splendet in latere dextro Persei instariam 
« lacteam, ubi praeter insignis magnltudinis Stellam, quae fulget in eodem la- 
« tere, nebulosis etiam nonnullis implicatur Tractibus. » pag. 18. lin. 9.... 18. 

Ne descrive quindi con analoga figura una quinta posta nella spada di Orione 
e nella quale novera ventidue stelle. 

«o. Quinta in ense Orionis vigintiduabus Stellis circumscribitur, prout atten- 
« ditur per Teloscopium. Sed haec constellatio Luminosa admirabilior apparet , 
«ex Luminis quoddam caeco lubare, quod e meditullio, tribus Stellis , supere- 
« minens, circumradiare videtur, prout ex ipsa Configuratione, in adiecto Later- 
« culo repraesenlanda intueri liceat. » pag. 19. 

La sesta Costellazione descritta dall’astronomo ragusano «enitet in Capite 0- 
« rionis, ubi quamvis libero intuito tres tantum Stellae attenduntur, per telo- 
«scopium tamen visa constellatio, Stellas 14 continet pront in adiecto Laterculo 
« circumscribuntur. (pag. 19). 

Le ultime due Costellazioni delle quali fornisce la descrizione; l’una nella co- 
stellazione dello scorpione rappresentata graficamente con figura incisa, l’ altra 
nella costellazione dell’Acquario. 

«7. Septima Stellatio Luminosa splendet in tertia Spondili Scorpionis valde 


POI SD 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 19 





«insignis ob coordinatam XVII. Stellaram dispositionem, videlicet cum annexa 
« sibi Nebulosa, cuius exemplar in annexo schemate exprimitur.» pag. 20. 

«8. Octava Luminosa splendet in fusionae Aquae Aquarj, multiplex gregatim, 
«ut non immerito Aquae perlabentis, atque spumantis, similitudinem reprae- 
« sentat.» pag. 21. 

Con la descrizione di codeste otto costellazioni luminose, che egli annovera 
tra le più insigni, ha termine la seconda sezione del suo lavoro. 

La terza si propone di esaminare per quali cause si producano queste diffe- 
renti apparenze negli spazi celesti. La cagione materiale di tutte codeste varie 
apparenze, di costellazioni luminose, di nebulose, di stelle occulte o cieche , è 
una sola. La riunione di molto stelle nello stesso sito, nella stessa regione del 
Cielo. Se non che per la maggiore o minore distanza di siffatti gruppi di stelle, 
o le varie distanze che le stelle dei diversi gruppi hanno vicendevolmente fra 
loro, si produce la differente apparenza di costellazioni Luminose, di nebulose e 
di Stellificazioni occulte. 

Allorchè le irradiazioni dei varj corpi componenti un gruppo stellare perven- 
gono all'occhio sotto angoli più ampj e la visione riesce distinta; tale aggregato 
di stelle si presenta sotto la forma di Costellazione Luminosa. Allorchè gli an- 
goli dei raggi luminosi che emanano dai vari componenti di un gruppo stellare 
riescono più angusti e la visione dei corpi luminosi si produce contusamente, 
si ha l’apparenza di una Nebulosa. 

Che se poche stelle convengono in augustissimo spazio, o varie stelle formano 
un nodo strettissimo (archtissimum Nodum) codeste stelle costituiscono la specie 
delle occulte. 

La‘cagione fisica o materiale di codesti vari fenomeni comune, e ciò apparisce 
dal fatto che come all’ occhio nudo le costellazioni luminose appariscono come 
riunioni di stelle con l’uso del teloscopio che aumenta le dimensioni degli 0g- 
getti e dilata del parigli spazj fra loro !nterposti; sì scorge che le Stelle Nebulose 
non sono che moltitudini radunate di stelle. 

L'annunziò prima fra tutti Galileo, al suo Nunzio Sidereo; annotando 21 stelle 
nella nebulosa di Orione e 36 nella nebulosa del Presepe) 

E della Galassia che ha la medesima causa materiale scrive : Non essere altro 
che una congerie innumerevole di Stelle adunate nello stesso spazio ed in qua- 
lunque punta di essa si rivolga il cannocchiale apparisce una ingente frequenza 
di Stelle delle quali parecchie sono abbastanza grandi e perspicue ma la molti- 
tudine delle minori è del tutto inesprimibile. 

Tutti coloro i quali hanno affermato che le Nebulose e la stessa Galassia ri- 
sultano da una sostanza materiale proveniente dal condensamento dell’ etere si 
sono ingannati poichè egli ha già dimostrato nell’ opuscolo intorno alle comete 
che l’etere sottilissimo che invisibilmente comprende tutto l’ universo non può 
mai degenerare dalla sua innata trasparenza. 

Nè lo rimuove dal suo concetto la obiezione proveniente da quella nebulosa 


di 


20 DELLA VITA E DELLE OPERE 





che egli denomina stelle cieche od occulte; le quali anche col teloscopio non 
presentano alcuna apparenza di stella luminosa, ma conservano quella di spazj 
nebulosi. 

Le stelle che brillano di luce propria come il Sole; non debbono riguardarsi 
come equidistanti dal sito dell’osservatore sulla terra. Le dimensioni del mondo 
sensibile sono immense. Nè riesce possibile di determinare; se le stelle di prima 
grandezza o di grandezze minori sieno corpi di massa e d’intensità di luce di- 
versa; ovvero appariscono tali per le loro ineguali distanze. 

Per la grandezza incommensurabile della sfera del Mondo, ben possono esistere 
corpi luminosi posti a così grandi distanze che anche con l’ajuto del teloscopio 
conservino l’apparenza di stelle cieche o di semplici nebulosità. Poichè quando 
varj oggetti lucidi irradiano l’occhio sotto angoli acutissimi; le loro imagini nel- 
l’occhio le loro imagini si frastaglianp e si perturbano a vicenda in modo da pro- 
dursi la impressiene di un oggetto unico e continuo. 

« Materialem igitur Caelestium horum Phaenomenum causam eandem omni- 
« bus, ac singulis Nebulosarum, Occultarum et Luminosarum generibus commu- 
«nem esse substinemus, quae etiam ipsius Galaxiae seu viae Lacteae per expe- 
« rientiam esse deprehendimus, videlicet. Confluentia, Conspiratia Synodus, vel 
« multarum Stellarum concursus in eamdem apparentem Coeli eminentissimi 
« Regionem, ita ut multitudo quaedam Stellarum in talem ac tulem specialem 
« Synodum conveneriît, quae nobis pro maiori, vel minori a visa distantia, aut 
« varia Stellarum ipsarum ad invium coadunatio, sua specie Luminosae, vel Ne- 
« bulosae aut Occultae Stellificationis representetur. » pag. 22 lin. 13... 26. 

« Porrò causa formalis non eadem omnibus, differt enim effective, quatenus 
« eorumdem Obiectorum Lucidorum species, diversimode ocnlum afficiant, pro 
« lucis robore, vel pront magis minusve distincte oculum irradiaverint: Nam ubi 
«sub angulis amplioribus, ac distincti species visum irradiaverint, talem Stella- 
«rum concursum sub specie Luminosae Stellificationis sensus apprehendet. Kbi 
« vero sub angustioribus confusae oculum afficerint Stellae eam Stellarum coa- 
« dunationem sub specie. Nebulosae Stellificationis sensus ipse deprehendit. Quod 
« si paucae stellae in angustissimum Synodum convenerint, aut ite quampluri- 
« mae arctissimum Nodum sub Coelo ad oculum repraesentaverint, sensus eas 
« Stellas, ita ad invicem cocuntes sub specie Occultarum Stellarum apprehendet. 
«Pi 29, n Sdi ir ee i ne 

« Ope Tubospecilli Nebulosas Stellas, nil aliud esse percipimus; nisi Stellarum 
« coacervatae multitudines idque primus omnium inter Mortales, Galileus in suo 
« Nuncio Sydereo detexit (p. 23 lig. 23... 28). Sed quid egemus Testibus ? idem et 
« nos ipsi prospicimus intuemus, attendimus et admiramur, non solum in par- 
« tibus Galaxiae et in singulis Nebulosis, sed ubique fere quorsumlibet Telosco- 
« pium dirigimus per singulos Firmamenti Actherei Regiones, vel Constellifica- 
« tiones Stellas promiscuae magnitadinis innumeras, praesertim ubi candoris 
« vastigium aliquod prospicimus intuemur. » (p. 24 lin. 9 16) . . . . . . + 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 21 





« Non ob id, quod Stellae quaedam occultae vel quosdam Coeli tractus, etiam ope 
« Teloscopij, Oculi acie corroborata, adhuc tanquam Nebulose appareant et nullum 
«in eis vestigium Stellarum attendatur, subsequitur necessario, ut illae Coeli par- 
« tes ex Aetheris condensata substantia, sicuti et Nubes ex Aere coarctato consti- 
«tuantur, quia fortasse in tanta Sphaericitatis celsitudine, et ab oculo nostro di- 
« stantia, Stellae illae nobis occultae removentur, ut etiam adhibito Tubospecillo 
«nondum tamen ad visum partes, illos Coeli tractus constituentes, ad visum pa- 
«tulae fiunt, sed adhuc etiam indistinctae representantur (pag. 26, lin. 22... 32). 

« Nam quoties plurima objecta lucida sub angulis acutissimis Oculum irradiant 
« toties illarum species, in ipsa oculi superficie transfusi, ad invicem vehementer 
«complicantur, et ita sensus illuditur, ac perturbatur, ut unum quid spissum et 
«continuatum objectum sentiat ac percipiat: prout manifestissime patet in ipsis 
« Nebulosis Cancri et Scorpionis ad nudum oculum relatis (pag. 27, lin. 2... 8). 

La quarta sezione dell’opera è forse la più importante. 

L’autore comincia in essa dal trattare l'argomento delle stelle doppie che si 
osservano in grande numero in tutte le regioni del cielo, 

Codeste stelle appariscono semplici all’occhio dell’osservatore perchè tra i corpi 
che le costituiscono la distauza è così piccola che non potrebbe fra le due stelle 
collocarsi una stella della medesima loro grandezza. 

« Splendent namque ubique passim per Acthera, Stellae quaedam Geminae quae cum 
« reipsa duplices existant, nihilominus tanta intercapedinis angustia tenentur ; ut vix 
« duae ab invicem dissidere, ob contiquitatis vinculum quo ipsae connecti videntur, ap- 
« pareant; et sic non duplices sed simplices prorsus reputantur. 

« Quamvis enim visus expeditissimus duplices illas esse sentiat, eas tamen ab invicem 
« tanta intercapedinis angustia dissidere censet ul ne quidem inter illas tertia ciusdem 
« magniludinis interseri posse credat; cum tamen in rei veritate plures viginti aut tri- 
« ginta per eamdem rectam Stellae in contiguitate dispositae ntersererentur prout in- 
« ferius patehit (pag. 29, lin... 12... 24). 

Vi è appena qualche Costellazione in cui l’una o l’altra stella Gemina non si 
rinvenga. 

Tra esse sono molto notevoli quelle che sono presso l’Ecclittica; e di tali stelle 
gemine egli dà un quadro che contiene le loro rispettive Longitudini e Latitu- 
dini. 


92 DELLA VITA E DELLE OPERE 





















STELLAE GEMINAE IUXTA EcLYPTICAM LoncIituDo | LATITUDO 














| 
| 
Signum Grad. Min. | Grad. Min. 

1. Orientaliss.* Pleiadum...., Tauri 20 196 y|118 di Ba 
2. Oculus Bor." Tauri........, Gemin. di poinz SÙ, de 
3. Lanx Austr.* Librae...... Scorp." 10: bi 4908, 2031 
4. Cornus Occ.' Caprie. ....| Caprie. DI AD: SU Ts 
I 5. Trium in frontem Occid.| Scorpionis 281808 | Tio:40, «Baldi 








(pas. 30, 13... 19). 


Egli ha misurato gl’intervalli che si frappongono tra i corpi costituenti le più 
insigni stelle doppie. 

« Harum vero duplicium Stellarum aliquot insigniores, ope Tubospecilli adaptato 
« urta cius Orificium Dimensorio intercapedines dimensus sum; easque reperi, sicut 
« în adiecto laterculo adnotantur videlicet (pag. 31, lin. 6... 9). 

I componenti delle stelle doppie trovansi notati in apposita figura con lettere 
alfabetiche, e le loro distanze con linee proporzionali (pag. 31). 

Con l’uso del Teloscopio si scoprono poi altre stelle doppie delle quali è ap- 
pena discernibile l’intervallo. come avviene ad occhio nudo delle altre sopra no- 
tate. 

« Inter innumeras, quae sub Noctibus interlunij sub Acre defecatissimo Stellae du- 
« plices, per Tubospecillum in Aethere passim discoperiuntur, nonnullae Geminae tam 
« aretissimo ab invicem intervallo dissitae cernuntur ut vix, atque via discontinuari 
« internoscuntur: quin potius eodem modo quo nos libero intuitu Geminas Tauri, Scor- 
« pionis vel Capricorni in contactum fere coire cernimus: ita et Geminas quosdam in 
« Nebulosis Persei, Cancri et Scorpionis adhibito Tubospecillo: difficillime a contactu 
« secernere possumus, si quidem tamquam lapidum cumulus, ibidem Stellae tumultuose 
« congeri videntur (pag. 33, 1... 12). 

Questa diligente ricerca fatta dall’autore intorno alle stelle doppie ha lo scopo 
di servire di guida ad una discussione relativa al sistema del mondo. « An quia 
« fortasse stellis hisce ducibus, ad Mundani systematis obscuritatem dilucidandam, nos 
« (psos conducere speramus (pag. 33, lin. 14... 17). 

Aristarco, Filolao e Copernico, dice l’autore, valutando arbitrariamente la gran- 
dezza del mondo sensibile, la estendono pressocchè all’ infinito; e così grande 
suppongono la distanza delle stelle fisse, che la grande orbita ossia la rivolu- 
zione annua della terra intorno al sole, non produrrebbe alcuna parallasse sen- 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 23 





sibile. Dalla quale impercettibilità della parallasse seguirebbe necessariamente, 
che il nostro sistema planetario malgrado la sua vastità, avrebbe dimensioni 
impercettibili relativamente alla grandezza dell’intero sistema del Mondo sensi- 
bile. 

Secondo l’ipotesi Filolaica il nostro mondo solare, sarebbe una delle innume- 
revoli stelle sparse nel firmamento celeste ; e qualunque stella al pari del Sole 
dovrebbe avere un proprio sistema planetario. Vi sarebbero mondi innumerevoli 
uguali a questo nostro mondo visibile: ciò che se non urta con la potenza di- 
vina, urta contro la dottrina delle sante scritture.... «et quamvis non implicaret 
contra Omnipotentiam Altissimi implicat nililominus contra sanam sanciorum literarum 
doctrinam. 

A confutare codesto sistema, egli afferma che la Parallasse riesce sensibilissima 
nelle stelle polari, e nelle stelle gemine vicine alla Ecclìttica, che non hanno un 
intervallo maggiore di un minuto, ed ancor più evidente presso quelle che hanno 
una distanza minore di un minuto. 

« Dico huiusmodi Parallaxis cvidentia patere necessario apud Stellas Polares, apud 
« quas Parallaxis fit evidentissima: sed et in Geminis iuata Ecliplicam; quae non ad- 
« mittunt maiorem intercapedinem unius Minuti; et evidentius apud illas, quae minorem 
« umus Minuti intercapedinem admittunt (pag. 34, lin. 13... 27). 

Ma codeste affermazioni così positive, non sono corredate da notizie intorno 
al metodi di osservazione, adoperati per giungere alla misura delle parallassi ; 
cosicchè appajono piuttosto ipotesi, create da un preconcetto, contrario ai sistemi 
di Filolao e di Copernico; anzichè il risultato di vere, e proprie osservazioni. 

Del resto è noto, quante lunghe e laboriose ricerche, abbiano dovuto durare 
gli astronomi moderni; prima che fosse dato loro raggiungere un risultato po- 
sitivo, per la determinazione della parallassi, di alcune poche stelle. 

È solo in tempi molto recenti, e dietro i più grandi progressi nella costru- 
zione degli strumenti, e nella precisione dei calcoli astronomici, che il problema 
della parallassi, ha potuto raggiungere una favorevole, e positiva soluzione. 

Varî moti provenienti da elementi uranografici, le variazioni nascenti da pe- 
riodi annui nelle rifrazioni, e dai moti anch’essi annui, indotti negli strumenti, 
nei loro sostegni, e nel suolo su cui poggiano ; rendono difficilissimo, di sceve- 
rare la differenza di posizione apparente delle stelle, nascente dallo spostamento 
della terra nella sua orbita attorno al sole, dagli altri moti apparenti, che na- 
scono da elementi uranografici, o da altre cagioni fisiche, aventi lo stesso pe- 
riodo annuo della parallassi. 

Non può farsi quindi rimprovero all’ Odierna, se nel tempo in cui egli vivea; 
nel quale la scienza non possedeva i mezzi istrumentali di osservazione, ed i 
precisi metodi di calcolazione, che sono stati il conquisto dell’ astronomia mo- 
derna; egli abbia fallito nel tentativo, di risolvere l’ importantissimo problema 
della parallassi. 

Del resto i suoi errori, più che a difetto nei metodi di osservazione, o di cal-. 


24 DELLA VITA E DELLE OPERE 





colo, che erano al suo tempo tanto lontani dalla perfezione, che hanno acqui- 
stato dai progressi posteriori dell’ astronomia teorica, e strumentale; nascevano 
sopratutto, dal concetto, che attribuendo al sistema dell’ universo, dimensioni 
così grandi da sorpassare ogni umana imaginazione, secondo i sistemi di Filolao, 
e di Copernico; si andrebbe contro alla dottrina delle sante scritture. La cre- 
denza del sacerdofe, vinse nel dotto ragusano, l’acume deil’astronomo. 

Le diligenti ricerche infatti, degli astronomi moderni hanno dato prove ben 
fondate, della giustezza delle ipotesi di Filolao, e di Copernico, dedotte dalla mi- 
sura delle parallassi. 1 

Da una serie di osservazioni, fatte al Capo di Buona Speranza, negli anni 1832 
e 1833 dal Prof. Henderson, col circolo murale di quell’Osservatorio, veniva de- 
terminata la parallassi di un intero secondo per la stella « Centauri, una delle 
più notevoli tra le stelle meridionali. 

Le osservazioni posteriori del signor Maclear negli anni 1839 e 1840, in parte 
con lo stesso, ed in parte con un nuovo, e più poderoso strumento, hanno con- 
fermato le osservazioni di Henderson, benchè con una leggiera diminuzione, de- 
terminando la parallasse di codesta stella, a 10/11 di secondo. 

Ora codesta stella, si riguarda con molta probabilità dagli astronomi, come tra 
le più vicine al nostro sistema solare; poichè ha un movimento proprio, annuo, 
molto notevole, che è stato accertato di 4". 

La distanza di un astro che produce la parallassi di 1” è stata considerata 
come una specie di unità parallattica, la quale calcolata in funzione del semi- 
diametro terrestre, e poi tradotta nelle unità di misura ordinarie terrestri, da- 
rebbe una distanza calcolata, di venti bilioni di miglia (@nglesi). 

Il percorso di codesta distanza, con la immensa velocità della luce solare, ri- 
chiederebbe il tempo di 3 1]2 anni. 

Poco tempo prima della pubblicazione di questo notevole risultato, Bessel os- 
servando le due piccole stelle che formano la 612 del Cigno del Catalogo di 
Flamstedio, nella quale avea notato un regolare moto progressivo di spostamento 
della estensione di più che 5” per anno, relativamente alle stelle vicine; calco- 
lando la distanza di tale stella la trovò, seicentomila volte la distanza della terra 
dal sole. 

Così le ipotesi degli antichi astronomi sulla immensa vastìtà del sistema del 
mondo, si trovano non solamente confermate, ma dimostrate dalle diligenti ed 
accurate ricerche degli astronomi moderni (1). 





(1) Outlines of Astronomy {l dy i Sir John F. W. Herschel || Fourth edition || London | 1851, 
pag. 540 e seg. 

Taking therefore the carth's radius for unity, a parallax of 1° supposes a distance of nearly 
five thousand millions of such unites: and lastly to descend to ordinary standards, since the 
‘carth’s radius may be taken at 4000 of our miles, we find about twenty billions of miles for 
qur risulting distance. 


bile 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 25 





Il quarto capitolo dell’opera di Odierna, dopo avere trattato siffatta importante 
quistione intorno al sistema del Mondo; prosegue ad esporre varie notizie di 
astronomia stellare. Vi si descrivono con apposite figure incise, dieci nebulose 
nelle apparenze che presentano osservate col teloscopio, completando per tal modo 
un soggetto trattato già nella seconda sezlone. 

La prima nebulosa descritta è quella del Presepe ossia del Cancro; nella quale 
Galileo annotava 36 stelle. Egli osservandola attentamente vi ha scorte trentotto 
stelle notevoli, ed altrettante che per la tenuità della luce sfuggono quasi alla 
vista: et in adiecto laterculo singulas incisimus. Eius centralis Longitudo sub grad. 1,56 
Leonis, Latitudo Grad. A,14 Bor: e nella figura annessa si legge: Nebulosa Prae- 
sepis seu Cancri Stellas habei Quinquaginia (pag. 38... 39). 

La seconda nebulosa descritta con figura , è la nebulosa dello Scorpione: Se- 
cunda in ordine, caeteras praecxullit Nebulosa Scorpionis omnium evidentissima ; nisi 
quod ipsi Galaxie proxime inhaeret, post Aculeum Scorpionis în Orteum aestivum de- 
clinans. Stellas diversae magnitudinis promiscuas habet XXX, quae ad invicem, sicut 
in hoc Laterculo exprimuntur, coordinantur. Centralis ejus Longitudo sub grad. 25. 
Sagitt. latitudo vero ejus austrina grad. 13, pag. 41. 

« Tertia Nebulosa quae omnium prima, a Ptolomeo indigitatur in constellatione 
« Persei super extremitatem manus ejus dexterae sub Cassiopeam, inter viam lac- 
«team, valde insignis, ob Stellarum eximiam copiam. » 

Alle tre nebulose delle quali abbiamo notato le indicazioni fornite dall’autore 
si aggiungono le seguenti: 

4.2 Altra nebulosa presso lo Scorpione. 

5.° All’occhio destro del Sagittario. 

6.° Nella stessa costellazione del Sagittario sopra il dardo ad occidente vicino 
la Galassia. 

7. Nella Costellazione dell’Auriga. 

8.° Nella bisezione della Galassia. 

9.* Nel piede sinistro della Costellazione di Ercole. 

10.* Nel sito che precede la testa del Capricorno. 

Oltre alle dieci nebulose delle quali, dice l’autore , abbiamo qui disegnato le 
apparenze; molte altre e forse più insigni dapertutto si osservano nel cielo, tra 
le quali molto notevole è la Nebulosa intercanicolare che trovasi presso Sirio, e 
varie altre che vengono particolarmente indicate. 

Chiude l’ opera una breve appendice nella quale sono trattate varie questioni 
astronomiche con grande acume e con piena conoscenza delle dottrine di quel 
tempo intorno all’astronomia stellare (1). 

Uno dei fenomeni più singolari dell’astronomia stellare, formò soggetto di os- 
servazioni e di studi, del dotto e diligente astronomo ragusano. È noto, come per- 


(1) Problemata Nonnulla pag. 53... 62, 


26 DELLA VITA E DELLE OPERE 











correndo i cataloghi che hanno lasciato gli antichi, gli astronomi posteriori sono 
stati indotti a fare um’osservazione di grande importanza; talune delle stelle an- 
ticamente osservate, hanno cangiato sensibilmente di splendore, in una guisa più 
o meno notevole, nel mentre che altre ne sono apparse, che non si erano mai 
vedute; ve ne ha che sono sparite, ed indi sono di nuovo ricomparse, ed altre 
che non sono riapparse mai più. 

Talune di queste stelle, hanno uno splendore temporaneo, che cede il luogo 
ad una completa disparizione, altre ricompariscono ad intervalli fissi più o meno 
lunghi; hanno perciò ricevuto il nome di periodiche: sebbene non ritornino sem- 
pre ad avere lo stesso splendore, nè tutte procedono con regolarità nei loro ri- 
torni. 

La stella di splendore variabile della quale ci ha dato notizie particolareggiate, 
l’astronomo di Ragusa, è apparsa nel 1600 nella costellazione del Cigno: Una 
stella nuova e peregrina sul nostro vertice nel seno della via Lattea, dove nella 
candidissima costellazione del Cigno risplende il sacrosanto segno della croce 
fregiato di cinque lucidissime stelle ; apparve la prima volta con grande mera- 
viglia degli astronomi nel 1600: disparve dal 1640 al 1650, venne osservata nuo- 
vamente da Odierna nel gennaio 1864 della sesta grandezza. i 

Negli anni che corsero dal 1600 al 1629, andava successivamente scemando ; 
ma invece nel periodo osservato dall’astronomo ragusano, andava successivamente 
crescendo; passando pet la quinta e per la quarta grandezza, cosicchè nel 1659 
vedeasi ingrandita di luce nel principio della terza grandezza, finchè come nel 1601 
superi l'apparente grandezza di quella stella che splende nel becco del Cigno. Essendosi 
sempre osservata nell’ istesso sito e nella stessa posizione senza punto variare e colla 
stessa luce pallida e languida come quella di Saturno, come da principio nel 1601 
fu osservata. Sicchè non vi è luogo da dubitare se questa che oggi splende sopra la 
lucidità del petto sul principio del Collo del Cigno sia Vislesso individuo o differente da 
quel che con istupore del mondo fu nel 1600 e nelli seguenti anni insino al 1620, ivi 
sempre veduta ed osservata. 

La vera causa di taii fenomeni che sembrano strani, e che sfidano la umana 
sagacia come tanti altri segreti della natura, ci è ignota; sebbene varie conget- 
ture ed ipotesi, sieno state proposte da astronomi eminenti onde spiegare queste 
apparizioni e disparizioni di stelle e la variazione dei loro splendori. Anche 0- 
dierna il quale in tutte le sue opere, apparisce non solo osservatore diligente, 
ma altresì filosofo dotato di molto acume, ha tentato di spiegare il fenomeno. 
Egli ha imaginato che codeste stelle, debbono essere animate da un movimento 
inconsueto che si deve fare per una linea retta, cadente a piombo per il piano della 
nostra veduta, e non per qualsivoglia circonferenza come sogliono muoversi tutti è mo- 
bili del cielo sin ora osservati. Ma egli stesso non dissimula la difficoltà di ammet- 
tere fale movimento insolentissimo, che tanto si scosterebbe dalle leggi, che rego- 
lano i movimenti di tutti i corpi celesti. 

Su codesta importante ricerca astronomica, l’Odierna pubblicò un opuscolo sotto 


ta. 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA I; 








forma di lettera, che reca il titolo: Il nunzio della Stella nuova ossia la Stella nuova 
e peregrina comparsa sul petto del Cigno scoperta nuovamente. Io possiedo una copia 
di codesto opuscolo, che è stato pubblicato a Roma nel 1659, eseguita da persona 
che ebbe in mani l’opuscolo, posseduto altra volta dalla Biblioteca dei Gesuiti 
ora Nazionale. 

Mi è riuscito impossibile di avere quell’opuscolo, malgrado le diligenti ricerche 
del Direttore abate Filippo Evola, ma ne ho trovato un largo estratto in una 
opera di Caramuale in Mathesi nova synt: L° autore che era riputato come uno 
dei più dotti uomini del tempo, parla di Ogierna, lodandolo qual uno degli astro- 
nomi più celebrati. 

La importanza dei lavori astronomici dei quali abbiamo fatto cenno, gli valse 
una grande ripulazione tra i dotti contemporanei, e quando nel 1656 in occa- 
sione di una ecclissi solare osservata il 16 gennaio di quell’anno a Roma, una 
riunione di cultori delle scienze astronomiche fu tenuta in quella città, sotto la 
direzione di D. Domenico Plato, professore di Filosofia nel Monistero di Monserrato, 
per discutere e definire varie quistioni sorte, per le speciali osservazioni fatte in 
quella ecclissi; il dotto uomo che presiedeva a quella riunione, trasmise la serie 
dei quesiti proposti, all’Odierna, in Ragusa, perchè ne formasse soggetto di studio 
e ne pubblicasse le relative soluzioni. 

Frutto di codesto onorevole incarico era un lavoro dell’ astronomo ragusano 
pubblicato in Palermo sotto il titolo: De Admirandis Phasibus || In Sole et Luna 
visis [| Ponderationes || Opticae Physicae et Astronomicae || In questiones Incidentes || In- 
fer observandum Solis Eclypsim Romae || Anno Domini 1656 Die 26 Januarij, Ho: 14 
Min: 36 P. M.|| Seu || Dissertationum Responsiones || Don Joannis Baptistae Hodierna 
Siculi, || Ducis Palmae Mathematici, ibidemque Archipresbyteri || Ad Reverendum Domi- 
num || Don Dominicum Platum, Montisserrati. || Monachum , ibidemque Plulosophiae 
Prophessorem etc. 

Panormi Typis Nicolai Bua 1656. 

I quesiti che gli vennero trasmessi dal dotto frate romano, egli ordinò in tre 
categorie secondo la loro diversa natura; componendo una serie di Problemi Ot- 
tici, Fisici, ed Astronomici; e dando poscia a ciascuno di tali problemi singolare 
e sapiente soluzione. 

«Porro hae Questiones curiosissimae quae Romae, inter observandas Eclypsis 
«cum viris illustribus tibi coortae sunt, Reverende Platae quasve mihi conside- 
«randas proponis, miscellanae cum sint pro diversitate obiecti, in quem respiciunt, 
«in tres Classes, vel Sectiones, ad maiorem dilucidationem, distinguere libuit. 

Dalle 43 quisiioni che vennero a lui proposte, egli trasse 7 Problemi Ottici, 
16 Problemi Fisici e 19 Problemi Astronomici, 

Ci riesce impossibile di riassumere codesta serie svariata di quistioni e di ri- 
sposte, anche per l'indole molto varia e peculiare dei soggelti ai quali hanno 
relazione. 

Diremo solamente che esse si riferiscono principalmente alla natura fisica del 


28 DELLA VITA E DELLE OPERE 


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Sole e della Luna, alle più importanti apparenze presentate dai dischi dei due 
astri, al fenomeno delle macchie solari, e ad altri subietti astronomici di grande 
importanza. 

L’Odierna vi apparisce fornito delle più sode dottrine scientifiche, e perfetta- 
mente istruito delle grandi scoperte fatte dal Galileo nella scienza astronomica 
con l’uso del teloscopio, e rese pubbliche nel Nuntius Sidereus. 

Le stesse quistioni sollevate dall’assemblea, presieduta in Roma da Plato, for- 
niscono una prova evidente, dell'influenza che aveano esercitato per la diffusione 
degli studi astronomici, anche in Roma, le scoperte dell’astronomo fiorentino; 
cui non era ancora stata mossa quell’aspra guerra, la quale condusse a quel pro- 
cesso che ormai rimane celebre nella storia. 

La soluzione dei varii problemi di ottica, e di fisica, rende già ampia testimo- 
nianza del valore del dotto siciliano nelle scienze fisiche; ma altri suoi lavori 
speciali in codeste scienze, meritano di venire particolarmente ricordati. 

Uno dei più notevoli fra tali lavori è stato superiormente accennato, citando 
una nota bibliografica di G. Libri ed ha per soggetto il fenomeno della disper- 
sione della luce col prisma triangolare. 

È un opuscolo che egli definisce come introduzione ad una nuova scienza sulla 
causa dei colori. 

Codesto opuscolo di sole 36 pagine pubblicato in Palermo nel 1656 pei tipi di 
Nicola Bua, è divenuto tanto raro, che appena ne fa menzione taluno dei biblio- 
grafi siciliani, i quali han dato copiosi elenchi delle sue opere. Tuttavia dalla 
nota di Guglielmo Libri sopra ricordata, si vede che tale lavoro era noto a La- 
lande, il quale giudicava che in talune osservazioni sui raggi luminosi Odierna 
avea preceduto Newton, il gran padre dell'ottica moderna. 

Thaumantiae || Miraculum || seu de causis || Quibus Obiecta singula , per Trigoni 
vitrei || transpicuam substantiam visa, elegantissima Colorum varietate ornata || cer- 
nuntur || Opusculum Opticum || Vel introductio ad novam scientiam de causis || Colo- 
rum || Don Joannis Baptistae Hodierna || Siculi Ragusani in Oppido Palmae Agri- 
gentinae Diaecesis Archipresbyteri. 

Panormi, Typis Nicolai Bua 1652. 

L’autore dell’opuscolo narra (in una breve prefazione) come otto anni innanzi 
dell’epoca in cui accingevasi a tal suo lavoro, sui fenomeni di colorazione che 
appariscono col prisma triangolare di cristallo, avea già compiuto un altro 
lavoro di ottica nel quale si proponeva di spiegare le cause dei colori che sì 
osservano nell’Iride : de opere quondam optico, quod de causis colorum Iridis inscripse- 
ram et publici juris facere constitueram. 

Ragionando di tale lavoro col P. Francesco del Bene gesuita, professore di 
matematiche nel Collegio palermitano; costui lo consigliò a far opera molto più 
importante studiando lo spettro che si produce, facendo cadere i raggi luminosi, 
sopra un prisma triangolare, e procurando di spiegare le cause dei colori che 
si osservano nello spettro. 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 29 








Codesto lavoro dell’Odierna compilato in forma scolastica e distribuito in De- 
finizioni, Proposizioni e Corollarj , meriterebbe una minuta analisi che non può 
trovar posto nel presente nostro discorso. Tuttavia ci studieremo di fare una ra- 
pida rassegna, dei fatti e delle osservazioni in esso raccolti, e delle conclusioni 
che ne deduce l’autore. 

Precede una esposizione del metodo, secondo il quale conviene sia adoperato 
il prisma triangolare di cristallo, a traverso cui si vogliono guardare gli oggetti: 
Methodus observandi obiecta visenda per organum Thaumanticum, sive per diaphanam 
substantiam Trigoni vitrei. La luce bianca è la luce pura, luce sincera (1). 

I colori sono luce, che degenera dalla sua purezza; essi si debbono classificare 
in due specie, l’una di colori sobri l’altra di colori ebrij. 

I primi nascono dalla luce degenerata per attenuazione , gli altri nascono da 
rafforzamento o raccoglimento di luce. Ogni spazio privo affatto di luce , dicesi 
nero. 

I colori debbono distinguersi in colori primarj e semplicissimi e colori non 
semplici o secondari]. 





(1) £ Albedinis candor, nil aliud est, nisi purae lucis imago, in sua semplicitate ad visum 
“ relata (pag. 10). 

“ Lucis species non syncera; sed a sui candoris simplicitate degenerans, Color dici con- 
“ snevit.... Unde color nil aliud esse perhibetur, nisi lucis specimen a sua sinceritate dege- 
“ nerans et luminis perturbati nitor (ibidem). 

“ Color, seu lucis species a sua sinceritate degenerans, in duplici differentia consistit, vi- 
“ delicet in esse Colorem sobrium et in esse colorem ebrium (pag. 11). 

« Omne spatium a candore, seu lucis nitore denudatum Nigrum dici consuerit ; cst enim 
« Nigredo ipsa omnimoda lucis carentia (ibidem). 

“ Sobrij colores, dicendi veniunt , quorum a candore, ac sinceritate luminis degeneratio, 
“ per ipsius luminis extenuationem fieri contingit, ut ob id hebetes, umbrosi, et obscuri so- 
« brij Colores censeantnr, quatenus videlicet ob luminis aliquantam defectionem ad Nigre- 
« dinem declinare videantur (ibidem). 

“ Ebrij vero Colores dici consuevere, quorum a simplicitate luminis degeneratio, per coitum 
“ et luminis coadunationem fieri contingit; ubi ob luminis continuati excessum, vegetiores, 
« pollentioresque ad visum colores ipsi redduntur: vibrant enim ob luminis coeuntis exces- 
“ sum (ibidem). 

“ Sobriorum Colorum species quamplurimae: etenim aliae Primariae ac simplicissimae : 
© aliae non simplices vel secundariae. Ebriorum etiam totidem, siquidem nonnullae simpli- 
“ ces ac Primariae nonnullae vero promiscuae ac secundariae Colorum Ebriorum sunt spe- 
“ eies (pag. 12). 

8 


30 DELLA VITA E DELLE OPERE 


AT ranenininmanenia 











L’autore enumera sei specie di colori sobrij dei quali vengono dati i nomi 
tratti dagli oggetti naturali nei quali si osservano. Segue indi la enumerazione 
di altri sei colori ebrij. 

Il bianco che è la manifestazione della luce sincera, sta tra le due sezioni dei 
colori sobrij ed ebrij. 

Ma poichè in entrambe le sezioni alcuni colori si possono riguardare come 
gradazioni di altri colori della stessa specie; la intera serie dei colori si riduce 
nel modo seguente : 


SECTIO (pag. 17). 
_-Yv-_TT->%5>5, 1 __——_.r rt0'°'°'°r'_ _=_L C_  oENpppppeee——m—m—_cc=o Ti 
SOBRIORUM (ALBUM) EBRIORUM 
mirtinus, violaceus, cerul.s 0 Flavus, russeus, purpureus 
3 2 si 1 2 3 


Il fascio luminoso che parte da un centro di luce, quanto più si estende nel 
suo cammino si espande in più ampie sfericità e quindi decresce in intensità : 
in codesta proposizione, si comprende, sebbene non formulata esplicitamente, la 
legge della diminuzione d’intensità luminosa del fascio, secondo î quadrati delle 
distanze dal centro luminoso. Egli nota infatti che facendo cadere un fascio di 
luce solare, da uno stretto forame del tetto, sul pavimento di una camera oscura, 
ed intercettando il fascio con un piano che si avvicina gradatamente dal pavi- 
mento al tetto , il fascio si restringe in uno spazio (circolare) sempre più an- 
gusto, e la luce risplende più intensa e più chiara (1). 

Ne deduce come corollario che i pianeti essendo tutti illuminati dal sole , la 
intensità della luce, deve in essi diminuire con l’ aumento della distanza loro, 
come infatti si osserva (2). 

Allorchè si guarda un oggetto a traverso la sostanza diafana del prisma appa- 
riscono i colori, solamente, ai limiti ombrosi dell’oggetto che si guarda. 

Se si riguarda un piano molto esteso e uniformemente illuminato in ogni verso, 
che sia interamente bianco o del tutto nero, o splendente di un colore speciale 
diffuso in modo continuo; guardato a traverso il prisma triangolare non presen- 
terà alcun colore, o manterrà il suo speciale colore. 


(1) Propositio III. “ Lucidi aut Luminosi corporis, Radius, quo longius extenditur, eo 
« magis in ampliorem sphaericitatem expanditur, et eatenus in hebetudinem extenuatur 
“ (pags 17). 

(2) “ Stellae errantes omnes ac singulae illuminantur ab eodem Sole: nitidius tamen Mer- 
€ curius splendet ac micat: deinde Venus: tertio Mars: quo minus Iuppiter: minimum vero 
‘€ Saturnus splendere videtur: sicut patet observantibus: ob maximam videlicet Folciferi e- 
€ longationem a Sole; ubi per illud immensum tantae sphaericitatis spatium lumen exte- 
“ nuatissimum fieri contingit: e contra vero Mercurij et Veneris Stellae cum Soli proximae 
« sint, ob sphaererum angustiam lumen Solis insensibiliter hebetari contingit. 





DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA S1 


In qualunqde oggetto, che ha limiti determinati, guardato a traverso la so- 
stanza diafana del prisma, i colori appariscono, solamente, ai margini; i colori 
sobrj verso la regione del vertice gli ebrij verso la regione della base, I colori 
più intensi di entrambe le sezioni appariscono al di là dei limiti degli oggetti, 
i meno intensi al di qua dei contorni (1). 

L’Odierna dopo varie osservazioni su codesti colori, che si manifestano ai con- 
torni degli oggetti, guardati a traverso il prisma giunge alla seguente con- 
clusione: essere quattro e non più i colori semplici o primarj cioè: violaceo e 
turchino, (violaceus et turchesius) che Qiconsi sobri], manifestantisi dalla regione 
del vertice; giallo ed aranciato cifrinus et coccineus) che si dicono ebrij dalla re- 
gione della base. Tutti gli altri sono colori secondar]j o misticolori. 

Dopo varie osservazioni sui colori secondarj più notevoli che possono generarsi 
dalla sovrapposizione di colori semplici; giunge ad una conclusione nella quale 
sì riassumono le differenti osservazioni sui colori. 

(2) Le specie di colori principalissime sono sei: quattro cioè semplici e puris- 
sime, due generate dalle medesime specie semplici. Vi sono quindi (secondo il 
suo sistema) due sezioni di colori; una dei Sobrij l’altra degli Ebrij. Due prin- 
cipali e semplicissimi della specie dei sobrij, Violacea, e Cerulea. La tinta Verde 
è prodotta dalla loro sovrapposizione ; codesti colori si manifestano dalla parte 
dell’angolo. Due della specie degli Ebrij Gialla e Rossa, dalla regione della base. 
La tinta purpurea nasce dalla sovrapposizione della Rossa e Violacea. 





(1) Proposirio IV. “ Colores quicunque per diaphanam Trigoni substantiam cernuntur, 
“ nonnisi iuxta umbrosos, Obiecti visi, limites attenduntur (pag. 19). 


CorotL: “ Ubi planum quodvis aequaliter extensum et uniformiter fuerit illuminatum, 
“ ita ut sinus umbrositatis nullos admittat, sive id albedine candeat, sive ingredine tingatur, 
« aut quovis colore miteat, nullum peregrini coloris specimen, per Vitrei Trigoni miraculum 
“ visum, in eo apparebit verum suo peculiari colore prorsus nitescere videbitur. 

« Sic Caelum Caeruleo: Mare marino colore et albus Paries albedine coruscare: nigrum 
“ vero pannum telerrima nigredine tinctum, ubi continuato Plano, eius inconspicui Termini 
« fuerint, apparebit (pag. 19). 


Proposirio V. “ In quovis terminato Obiecto, per Anguli solidi substantiam viso, Sobrij 
“ e regione basis, in Terminis, seu ipsius Obiecti Marginibus, ad visum irradiantur (pag. 19). 

(2) CoroLLarIvm. “ Sunt igitur colorum species principalissimae sex : Quatuor. videlicet 
“ simplices et purissimae: duae vero ex ipsis simplicibus progenitae. 


« Igitur Colorum sectiones duae; una Sobriorum, altera Ebriorum. Sobriorum species duae 
« Principales, ac simplicissimae Violacea et Cerulea è regione Anguli. Viridis ex his pro- 
« ducta. Ebriorum species duae, Hava, et Russea, è regione Basis: Purpurea ex Russea et 


“ Violacea (pag. 26). 


32 DELLA VITA E DELLE OPERE 





Nell’Iride appariscono più di quattro colori, perchè per l’angustia dello spazio 
tra il giallo ed il ceruleo, si genera il color verde , nascente dalla loro sovrap- 
posizione. E poichè nell’iride la serie dei colori della Zona interna, si ripete in 
ordine inverso nella Zona esteriore; di modo che il colore supremo della prima 
apparisce infimo nella Zona superiore; ne segue che per la coincidenza del colore 
Rosso col Violaceo emerge il Purpureo (1). 

Ma delle cause dei colori apparenti nell’ Iride l’autore si riserva a parlare in 
un lavoro speciale, del quale noi possediamo una copia manoscritta che verrà 
in parte pubblicata più avanti. 

La causa materiale della generazione dei colori che appariscono a traverso la 
sostanza diafana del prisma; è la inclinazione delle faccie che racchiudono l’an- 
golo. Il fenomeno quindi si manifesta non solamente nel prisma cristallino, ma 
altresì in qualunque solido diafano terminato anche da varie superficie piane, 
sieno solidi vitrei, o cristallini, o adamantini, come le gemme, o masse di umori 
transpicui come il .ghiaccio. Apponendo una gemma adamantina o cristallina 
terminata da superficie piane variamente inclinate, ai raggi del sole, sì vedranno 
apparire i colori dell’ iride. E parimenti si vedranno colorate le lamine delica- 
tissime del gesso là dove esse si staccano le une dalle altre (2).. 

Uno speciale teorema (Propositio XII) (3) è impiegato a dimostrare, per qual 
modo la inclinazione dei piani che racchiudono il prisma produca l’ appari- 
zione dei colori. La dimostrazione è ingegnosa e dà ragione del diverso spo- 
stamento delle imagini degli oggetti, guardati a traverso il prisma triangolare, 
secondo la diversa inclinazione dei piani, ma non rende ragione dell’apparizione 





(1) “ In Iride colorum species exterioris Zonae ab interiori Zona ordine converso re- 
€ petuntur, ita ut supremus color infimus appareat in Zona superiori, et extima, tune ex 
€ coitione Rubei cum Violaceo colore, Purpureus, vel potius Sandarachinus, seu Vinaceus color, 
« (qui est purpureus dilutus) emergit. 

(2) ProPosirio XI..... * Ex praemeditatis patet evidentissimè, Materialem causam colorum, 
€ qui per anguli solidi transpicuam substantiam conspicui apparent, esse obliquam superficie- 
“rum Angulum solidam claudentium inclinationem inter Parallelam et Perpendicularem 
“ constitutionem. i 

“ Idque non solum in Trigonis vitreis, sed in solidis quibusque Diaphanis pluribus etiam 
« planis superficiebus terminatis, sive ea vitrea, sive christallina sint, vel Adamantina, vel 
“ ex humoribns quibusque transpicuis, aut e Gelu modulata. Jam si adamantinam Gemmam 
“ aut Christallinam varijs superficierum inclinationibus terminatam ad Solis radium appo- 
“ sueris, e singulis inclinationibns transmissus radius, Irini Lilij florem adamussim repre- 
“ sentabit. 

(3) “ Causae materialis dispositio , (ipsorum videlicet planorum Angulum solidum clau- 
« dentium aptitudo) ad colores concipiendos, a Parallelica ad Orthogonicam constitutionem 
€ extenditur (per Quadrantem Circuli, videlicet, a primo ad nonagesimum inclinationis gra- 
“ dum) et per successivos inclinationis gradus, succesive Colores irradiantes intenduntur 
“ et vivificantur. 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 39 


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dei colori, per la differente refrangibilità dei raggi diversamente colorati; ciò che 
dà la vera spiegazione del fenomeno della dispersione , e costituisce una delle 
grandi scoperte di Newton. 

Il concetto intorno alla uatura della luce, è sempre lo stesso degli antichi. 
La luce bianca è luce nella sua più grande purità, i colori sono luce che dege- 
nera dalla sua purezza; e questa degenerazione avviene sempre quando la luce 
passa dagli spazj illuminati agli spazj ombrosi. 

Ma sebbene questo concetto , si ripete ad ogni passo nell’ opuscolo; non s’in- 
tende bene ciò che egli voglia significare sotto la denominazione di spazj om- 
brosi, nè per quale azione cotesti spazj possono generare i colori. 

Il concetto che la luce bianca sia composta di raggi variamente colorati, e che 
il prisma separi i raggi colorati per la loro differente refrangibilità non appa- 
risce affatto nel lavoro di Odierna; cosicchè sebbene l'opuscolo contenga osser- 
vazioni ed esperienze notevoli, che certamente rivelano nell’autore un ingegno 
abituato alla paziente ed accurata ricerca dei fenomeni naturali, il lavoro che 
siamo venuti esaminando non muta sostanzialmente lo stato delle conoscenze 
ottiche legatoci dagli antichi fisici. 

Per cortesia del signor Principe di Boncompagni ho potuto esaminare un vo- 
lume da lui posseduto, contenente quattro importanti Opuscoli del Dr. D. Giovanni 
Battista Odierna di Ragusa Arciprete della terra di Palma in Sicilia. « Il Nunzio 
Sidereo della Terra» « L'occhio della Mosca» « La Nuvola pendente » « Il Sole del 
Microcosmo » dedicati : 


AWINMz0 Signore il Signor || D. Giulio Di Tomasi e Caro || Duca di Palma Barone 
del Castello di Monte Chiaro || e Signore dell’ Isola di Lampedusa || In Palermo per 
Decio Cirillo 1644. 


Di codesti opuscoli merita particolare menzione il primo, in cui l’autore esa- 
mina le grandezze apparenti delle stelle, le quali, siccome già avea notato Ga- 
lileo, ed annunziato nel nunzio sidereo; ad occhio nudo appariscono maggiori di 
quello che si mostrino nel campo del teloscopio. Egli sostiene che la maggiore 
grandezza apparente delle stelle è un’ allucinazione che si produce nell’organo 
della vista. 

Dopo avere intorno a ciò riferite molte ingegnose esperienze ed osservazioni, 
stabilisce che la più grande delle stelle fisse, non può avere un diametro mag- 
giore di due secondi circa. Ma da codeste premesse inferisce poi una conseguen- 
za, cui certamente il lettore non si attenderebbe, cioè: che le stelle sono in 
massa minori della nostra terra, conseguenza che non avrebbe certamente de- 
dotta, se come ebbe il coraggio, di rinunziare ai cieli cristallini di Tolomeo, 
avesse osato del pari rigettare le altre parti del sistema tolemaico. In vece sic- 
come abbiamo già notato nell’esame dell’opuscolo De admirandis Celi caracteribus 
egli sì studia con ogni sforzo in quella operetta di confutare gli argomenti di 
Copernico’, contro il moto del Sole, ed ammette come dottrina sacra il riposo 

9 


94 DELLA VITA E DELLE OPERE 





della terra. Tanta è la forza del pregiudizio ed il peso dell’autorità nel ritardare 
lo sviluppo delle verità più luminose! 

« L'occhio della mosca» è un opuscolo che dà prova dello spirito di paziente 
investigazione che guidava l’Odierna nelle scienze naturali, e gli concede posto 
cospicuo tra i zoologi. Egli prima del Miiller e dei micrografi moderni, trovò 
che gl’insetti hanno occhi multipli, e faccettati a musaico, e provò che ogni 
faccetta era un apparato visivo completo con lo strato di pigmento isolatore della 
luce, diverso per le varie intensità. e pei var] bisogni ottici dei diversi insetti; 
e in ogni faccetta trovò un cristallino speciale, ed uno speciale strato cerebroso 
segmento della retina. 

« La nuvola pendente » è un opuscolo meteorologico in cui l’autore, raccogliendo 
le idee enunciate in altre sue opere tratta della formazione delle nubi, delle 
pioggie, delle nevi, e di altri fenomeni meteorologici, dandone la spiegazione se- 
condo principj che sono in armonia con le idee della fisica moderna. 

« Il sole del microcosmo » sotto una denominazione alquanto bizzarra, è un opu- 
scolo nel quale si descrive anatomicamente la struttura del corpo umano e si 
dà la spiegazione flsica del fenomeno della visione. Codesto opuscolo rende te- 
stimonianza delle conoscenze anatomiche del dotto racusano. 

Agli opuscoli precedenti fa seguito un altro opuscolo in-4 edito in Palermo 
1644, intitolato : Archimede redivivo o la stadera del momento dove non solo sinsegna 
il modo di scoprire le frodi nelle falsificazioni dell’ oro e» dell’ argento, ma si notifica 
l’uso dei pesi e delle misure civili presso diverse nazioni del mondo è di quesito Regno 
di Sicilia. L’autore comincia col trascrivere il discorso di Galileo Galilei sul prin- 
cipio idrostatico che va indicato sotto il nome di principio di Archimede ; indi 
vi aggiunge un suo dotto commentario, in cui con grande acume d’ingegno si 
mostra profondo conoscitore dei princip]j di fisica moderna, posti in onore dal 
grande fisico ed astronomo fiorentino. 

Un altro opuscolo appartenente ai suoi lavori di zoologia porta il titolo: «Jo: 
Bapt. Hodierna » Dentis in vipera virulenti anathomia. Pan: 1646, in-4. 

Codesto trattato precorse quello del Redi, che lo cita in più luoghi delle sue 
« Osservazioni sul veleno della vipera. » 

Nè meno importanti sono le osservazioni e gli esperimenti da lui fatti, per 
provare che il miele è un prodotto del fiore; corregendo le ipotesi degli antichi 
naturalisti che lo supponevano prodotto dalla rugiada: escrementum syderis. 

Intorno a codesto argomento, egli scrisse un opuscolo portante il titolo: Floris 
Mellis et Apis Anathomes; opuscolo che si conserva manoscritto nella Biblioteca 
Comunale di Palermo, ed è sin ora inedito. Ò 

Tale opuscolo è preceduto da una lettera dedicatoria al Rev. D. Filippo Api- 
cella che porta la data Palmae kalendis. Novem. 1658, ed è diviso in varie parti 
o capitoli di cui i titoli bastano a dare una sufficiente idea della importanza del 
lavoro. 

La prima parte ha per titolo: Floris Mellis et Apis|| Breves nonnullae veluti ana- 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 35 


= —_——"8"r*—TrT—_--+rFFrrrFrF,F,,,r,r,r,r,,----------;.r 








thomes Observationes proponuntur et explicantur. Ac primum de natura Floris: Segue 
De Mellis productione: Indi Apis Anathomes ac natura: Infine si aggiunge una 
esatta e particolareggiata descrizione del Favo illustrata con figura, Exemplar 
Favi Mellei in Frontali aut dorsali superficie. 

A codesto opuscolo ne va unito nel medesimo fascicolo un altro, anche ine- 
dito, scritto in italiano e di data anteriore : La scaturigine del miele dall’intrinseco 
della Pianta nel calice del fiore, non dall’estrinseca rugiada del cielo prodursi. Nuovo 
scoprimento di G. B. Odierna. Palma 15 maggio 1658. 

Tale lavoro è inteso esclusivamente, a combattere gli argomenti accampati 
dagli antichi naturalisti, onde provare che il miele, si forma dalla condensa- 
zione della rugiada, e ad esporre in modo chiaro, e facile, varie osservazioni ed 
esperienze, fatte dall’autore, onde provare che il miele, è generato dagli organi 
interni delle piante. Entrambi gli opuscoli, porgono prova evidente del valore di 
Odierna come naturalista, il quale respinge le volgari opinioni, e le affermazioni 
inconsulte degli antichi, ponendo l’ osservazione e la esperienza, a fondamento 
delle spiegazioni dei fenomeni naturali. 

Un altro opuscolo di argomento botanico è posseduto dalla Biblioteca Comu- 
nale di Palermo, sotto il titolo: L’equità della Natura || nel distribuire || Diverse 
tuniche corteccie, e coprimenti || a° Frutti delle Piante per || corroborazione del loro || 
seme || Discorso di || Giambattista Odierna || da Ragusa || Arciprete di Palma. 

Codesto opusoolo è stato pubblicato da un erudito che vivea nel secolo  pas- 
salo, Domenico Schiavo, in una sua raccolta di Opuscoli di Autori Siciliani, To- 
mo II, pag. 1*. Palermo 1759. i 

I manoscritti ancora inediti che sono posseduti dalla Biblioteca Comunale di 
Palermo, provennero dallo stesso Domenico Schiavo; e tra tali manoscritti giova 
ricordare: Genealogia temporum seu Hystoria || Anni Civilis Romani || Principum Ro- 
manorum arbitrio costituti || ac sepius innovati correcti et instaurati || a Romulo ad 
Gregorium XIII || Pont. Opt. Max. || Libri tres || In quibus et Anni ipsius cum ad 
Lunae tum ad Solis || circuitum variae applicationes et magnitudines mensium, ritus, 
numerus, ordo || singularum atque magnitudo denominationes diversas apud nationes 
habentur et recensentur || D. Joannis Baptistae Hodiernae Siculi. || Il manoscritto 
porta la data del 1641. 

Ma il manoscritto più importante dell’ Odierna che rimane ancora inedito, è 
posseduto dalla Biblioteca dell’ Università di Catania: esso ha per soggetto la 
spiegazione del fenomeno dell’Iride e porta il titolo: Thaumantias || Junonis Nun- 
tia || praeconium pulchritudinis || seu || De Natura Iridis et de Irinis || Coloribus ratio 
exactissima ad novam || et absolutam de Causis Visibilium || Scientiam promulgandam 
praemissa || Authore || D. Johanne Bap.ta Hodierna Siculo Ragusano || In Oppido Pal- 
mae Agrigentinae Dioecesis || Archipraesbitero ||, 


(FicurA DELLIRIDE) 


36 DELLA VITA E DELLE OPERE 


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Mille trahit varios adverso sole colores || Iris quam ut sit miraculo mortalibus lupiter 
statuit || in nimbo. 

Codesto manoscritto oltre la pagina di frontispizio qui trascritta, contiene 34 
pagine numerate solamente al recto, e però risulta di 68 pagine. La scrittura e 
la carta sono dell’epoca, ed alcune cancellature ed aggiustamenti, confermano la 
tradizione che sia un manoscritto autografo dell’ Odierna. 

Le pagine 1-2 contengono una prefazione esplicativa dello scopo dell’opera che 
sì esprime nei seguenti termini : 


Praefatio. 


« Inter admiranda Naturae miracula nil Iride mirabilius , cujus arcuati cur- 
« vaminis speciositas, tantis est ornata Uoloribus, ut Florum atque Gemmarum 
«omnium speciositatem facile vincat. At cum tanta sit ejus pulchritudo , non 
« tam cito e Nubibus prosiliens, omnibus circumspectanda venit, quam citius 
« prae Oculis repente evanescit; atque homines, quas in sui admirationem allicit, 
«evanescens, in ecstasim proripit: Id circo non immerito Poetarum quique sa- 
« pientissimi Thaumatias seu Admirationis Sobolem appellaverunt; quam vulgo 
« Iridem, videlicet, Nuntiam, dicimus, quatenus ea Junonis, id est Aeris Nuntia, 
« sit unde Virgil. 9. Aenid. — Irim de Coelo misit Saturnia Iuno — Siquidem 
« Iridis apparitio Aeris immutationem indicit, com nunquam sine imbrifica nube 
« appareat. Unde Poetae Irim a Junone, vel è Jove immissam e nubibus per tur- 
« binem in Terram descendere simulant. Ita Homerus lib. 15 Iliadum : Sic locuto 
«Jovi obtemperans Iris, ab aetherei aquilonis turbine discussa decidit a Nymbo 
cin Terram, quam etiam Alas in Auro, et pedes ex Aura habere dicit, lib. II. 
« Iliad. ita. Haec locuto Jovi obsecuta Iris, ex auro Alas: ex Aura pedes ha- 
« bens, etc. 

1° verso. Ut insinuaret, per aureas Alas splendoris speciositatem, quam praese 
« fert Iris in summitate : et quam praefert in ima basi levitatem atque transpi- 
« cuitatem per Pedes ex Aura significaret. Quibus et illud etiam Encomium 
« adijciendum censeo, quod sit, videlicet Praeconium Pulchritudinis ob admi- 
«randam speciositatem, quam, jucundissimis circum ammicta Coloribus, oculis 
« intuentium repraesentat. Sed omnium illud maximum, quod in sacri perhibet. 
« Encomium nemo sit quì nesciat. Signum Faederis inter Deum et hominem ut 
« habetur ex 9 Genesis Arcum meum ponam in Nubibus, ut sit Signum Foederis 
«inter me, et inter Terram : Cumque obduxero Nubibus coelum apparebit Arcus 
«meus, in nubibus, et recordabor Faederis mei vobiscum etc. Quatenus videlicet, 
« Iris sit signum divinae clementiae. Quae sicut Iris impossibile est rorante coelo 
«ut deficiat, (cum generatio Iridis, necessario subsequitur pluviae generatione 
« sicuti demonstrandum venit) ita etiam impossibile est ut Deus non recordetur 
«suna clementia, cam proprium ejus sit misererì. 


WEA 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 37 


«Ideo tandiu divina clementia durabit, quandiu Iris apparebit, quod fiet 
«usque ad finem Mundi. 

«Cum igitur dum tantum sit hujusmodi admirandum Naturae Spectrum, ut 
nemo sit viventium, qui illud non admiretur, neminem ejus speciositas lateat : 
«et nunquam de eo Physicus, sive Poeta sive Hystoricus, aut quivis scientificus 
« sit, ratiocinari satis ipsi non lubeat; cum tamen nullus ut sciam qui de Na- 
« tura Iridis exactam, absolutamque Doctrinam tradiderit extitisse videtur. Quod 
«equidem cum animadvertissem, accepta occasione ab eo quod de Causis Albe- 
« dinis et Nigredinis absolutam haberem notitiam ut omnium etiam, ac singu- 
«lorum Colorum scientiam disquirere ab ipsa irinum colorum contemplatione, 
« exordiendum esse censui; libenter cepi; indagines exquisitissimas aggressus 
«sum, nullis laboribus indulsi; multimodas operationes demolitus sum; iam 
« inexplicabilia persolvi, tandem id quod vehementi desiderio concupivi, iam sic 
« Deo inspirante, consequtus sim, et universas Colorum causas scire censeo, quas 
«et profiteor: In primis Nutricem Colorum-hane, tanquam Praenuntiam Iridem 
« praemitto ut Studiosis, quam de Natura visibilium, Scientiam sint expectaturi, 
«satis innotescat ac prosit. » 

A questa introduzione nella quale l’autore accenna un po’ vagamente il pro- 
prio convincimento di aver dato una spiegazione completa del fenomeno dell’Iri- 
de ; segue un capitolo racchiudente alcuni principj di ottica già dichiarati nel- 
l’opuscolo con sufficiente larghezza analizzato superiormente. Capitolo che porta 
la intestatura: De natura Iridis et irinis coloribus || suppositiones || pag. 3 recto 
3 Verso. 


CI 


Suppositio prima. 
« Color est Lucis non sincerae, ad Visum relatae, vel ejus perturbatae sensatio. 
Suppos. 11. 


« Solida figura pro multitudine laterum quibus clauditur maiorem, atque ma- 
«iorem, in Diaphanis Capacitatem inducit. 


Suppos. IIT. 
« Globositas, seu Rotunditas multam inducit in solidis diaphanis Opacitatem. 
« Nam ob superficiei continuatam curvitatem (qua quivis Globus extremitatem 
«in seipsum invertit et claudit) singulae ejus partes ad visum, et ad irradiosum 
« diversum relationem habent. 


Suppos. IV. 


« Sphaerica ab eodem lucido persistente , secundum omnes partes aequaliter 
« irradiari nequeunt. 


38 DELLA VITA E DELLE OPERE 


ni 





« Nequit nam ijsdem radius universas convexitatis partes eadem modo illu- 
« minare, quod angulos inaequales, incidens in diversa puncta constituat. 


Suppos. V. 


« Sphaerica in maximis a perpendiculari recessibus, maximam ad Visum, opa- 
« citatem inducunt. 


Suppos. VI. 


«Quae sub angustiori angulo cadunt spatia, minorem seu turbatiorem ad Vi- 
«sum transpicuitatem inducunt. 


Suppos. VII. 


« E quovis orbiculo perspicuo binae ad solem, e contrariis Orbiculi regionibus 
« coloratae fulsiones inequales attenduntur. 


A pag. 4 recto segue un capitolo intitolato: De irinis coloribus propositiones. 

In questo capitolo l’autore dimostra con osservazioni ed esperienze che i colori 
dell’iride si manifestano in qualunque globetto diafano esposto alla luce del 
sole. 

Propositio III. Universi ac singuli colorum species quae in Iride spectantur, in 
quovis globulo diaphano ad Solis aspectum attenduntur (pag. 5 verso). 

Quanto al numero delle specie di colori egli accetta la dottrina di Maurolico 
il quale nella sua opera sulla Diafani, venne modificando la dottrina di Aristo- 
tile: pag. 6 recto. : 

« Appendix. Hanc de Coloribus irinis. Doctrinam Franciscus Maurolicus Abbas 
« Messanensis lib. 2° Theorematum de Diaphanis, mirifice complexus est, ob id 
cilluc studiosos consulto. missos facimus. Nam ea quae neque ipsum, neque 
« alium quemquam deprehendisse, novimus per accuratissimas observationes di- 
« dicimus, eisdem studiosis offerimus. 


Theorema I. Propos. IV. 


« Colorum species in Iride deprehendere et explicare. Aristoteles lib. 3, cap. 3. 
« Meteorol : Triplicem Iridis colorem esse contendit. 

« Puniceum, Viridem, et Purpureum: Flavum autem non esse unum de spe- 
« cialibus coloribus, sed apparere ob permixtionem Viridis et Punicei. Dicit. n. 


« Quare si quae de Colorum apparitione dicta sunt bene, necesse est, et Tri- 


« colorem esse ipsam et his Coloribus concolorari solis: Flavus autem apparet, 
« propterea quod secusse invicem apparet. Puniceum. n. juxta viride, album ap- 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 39 








« paret etc. Maurolicus autem in 29 Theoremate. Quatuor esse Iridis Colores 
costendere nititat, videlicet Croceum, viridem, Caeruleum et Purpureum. Qua- 
«tuor autem et nos Iridis Colores esse substinemus, ut pote Ceruleum, Viride, 
« Elavum, et Purpureum, prout ex vari]js deprensionibus Luce clarius fiet puni- 
«ceum autem colorem Aristotiles nuncupat quem nos Purpureum dicimus, 
« Croceum autem Maurolicus nuncupare videtur quem nos Flavum, vel fortasse 
« Citrinum dicimus. » 

Seguono alcune osservazioni ed esperienze per meglio determinare la serie dei 
colori. 

Pag. 6, verso : 

« Praxis ad deprehendendos Irinos Colores. 


Observatio Prima. 


«Adamantem Lapillum multilaterum (qui lenticularem magnitudinem exae- 
« quet, quo major enim, eo efficacior) duc ad solis radium, nam in Pariete vel 
«in Chartae folio ex eadem solis regione aptato, universi ac singuli Colores 
« perspicue ac distincte apparebunt, videlicet Cocruleum, Viride, Citrinum, et 
« Purpureum, quibus nil ad visum jucundius. 


Observatio 11. 


« Si christallinam, seu vitream sphaerulam aut hemisphaerulam, pluribus pla- 
« nis superficiebus (Adamantina figura) elaboratam ad solis radium adoptaveris, 
« hinc inde coloratos radios, irine pulchritudine varios emicabit. 


Observatio III. 


« Applica ad solis radium sphaerulam vitream et ex eandem solis regione, 
« juxta umbrosam parietem, aut Tabellulam, (pag. 7 recto) Iridis Figuram et Co- 
« lores, si recte operatus fueris inspicies. Oportet. n. ut ad nitidissimum solis 
« conspectum, per filum perpendicularem Pilulam exponas, quae eo clariores ac , 
« distinctiores colores quo sphaerula amplior extiterit, exprimere videbitur. 


Deprehensio IV. 


«Si ad Solis radium nitidissimum, ubi per altam Fenestram intra Cubiculum 
«ingreditur, Aqua ore pleno per Fistulam vehementer insperseris, oculus, ubi e 
«regione Solis constitus fuerit, in ipso artificioso rogicidio, speciem, colores uni- 
« versos, et figurae circularis portionem Iridis conspicue videbit. 


40 DELLA VITA E DELLE OPERE 





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Deprehensio V. 


«Assume ubi desit vitrea, aut Christallina (supra dicta sphaerula perfectae 
«rotunditatis Phialam vitream, nam ubi Aqua nitidissima refertam hanc ad 
« Solis radium fulgidissimum exposueris, tunc Oculus è regione Solis juxta An- 
«gulnm reflexionis circumductus, universos ac singulos distinctim Colores Irinos 
«e Phialae dorso vibrare circumspectabit, idque eminus etiam ad multos passus 
« presentiet. Quod si rolunditate zion admodum perficiatur, esto saltem rotun- 
« ditati proxima. 

7 verso. « Equidem sphaerulam perfectae rotunditatis, digitos quatuor in dia- 
« metro continens, vitream habeo quae hastae vitreac conjuncta super ejusdem 
« materiae basim insidet. Quae quoties Aqua nitidissima repleta ad Solis con- 
« spectum exponitur, eminus etiam prospectus ignis quasi flammas purpureas 
« Croceas, virides, et caeruleas, vibrare mirabiliter apparet. » 

Segue: 


Theorema II. Propos. V. 


« Angulum primae reflezionis coloratae Lucis à Sole per Sphaerulam ad Oculum 
« exactissime deprehendere ac demonstrare. » 


Deprehensio practica IV. 


In questo paragrafo egli descrive una esperienza molto ingegnosa, per deter- 
minare l’ angolo limite del raggio che lambisce tangenzialmente la goccia, col 
raggio che traversa la intera spessezza del globettino passando pel centro e de- 
termina la grandezza di codesto angolo nella quantità di 22 gradi e mezzo; co- 


sicchè l’intero angolo dei due raggi tangenti alla goccia i quali convergono’ 


esternamente nello stesso punto del raggio centrale risulta di un mezzo qua- 
drante. « Alteruter angulorum comprehendet partes viginti duos cum semisse 
« videlicet dimidium semiquadrantis; ex quo patebit angulus quaesita reflexio- 
« nis esse dimidium semiquadrantis circa solis Axim. Universus autem angulus 
«ex utraque reflexione mistus, duplus erit, videlicet Quadrantis dimidium. Quod 
«erat explorandum. 

Deprehensio VII. 


«Cum autem solidum transpicuum quam supponimus ad Praxim orbiculari 
« figura sit: singulae autem orbiculi partes in circuitu eandem rationem ad id, 
«ad quod referentur ideo Praedius solaris reflexionis undequnque per circuitum 
«ad oculum sub eodem angulo reflectitur, ita quidem ut si ‘oculi acies per 
« eandem à solis, perpendiculari radio, inclinationem circumducatur stante or- 
« biculo transpicuo perpetuo eadem fulsione colorata afficietur quod ut etiam 
« practice consequi possumus. Vas tornatile conicae figurae ex quacumque ma- 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 41 


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« teria, (et magnitudo ejus, magnitudine apponendae sphaerulae proportione re- 
« spondeat) conficiatur, cujus concavitas angulum semirectum complectatur; ap- 
«teturque transpicuus orbiculus juxta centrum concavitatis ejus ea ratione. ..... 

9 recto. « Mox persistente vase conico, oculi acies per limbum, seu circonfe- 
« rentiam conice basis circumducatur, jam enim igneus quasi undique fulgor 
« variis tinctum coloribus fulgente sole, ex orbiculi irradiare videbitur, praeser- 
«tim ubi oculus semiclausus circumductus fuerit, caeruleum, viridem, citrinum, 
«et purpureum radium, si hinc inde tantillum ducatur, circumspectabit. Quibus 
«experimentis videre liceat angulum hujusmodi coloratae reflexionis à sole per 
« orbiculum pervium ad oculum, perpetuo dimidium semiquadrantis admittere, 
«et Radius undique in circuitum effulgere, superest ut etiam id Theorice de- 
« monstratur, disquirendum est nam undenam id fiat, ut Angulum semirectum 
« coloratae lucis reflexio admittit. 

« Digressio ad rei arduitatem demonstrandam. Quam facile est enim ita id fieri 
« cognoscere, difficillimum autem per quod ita fieri intelligere, praesertim in 
« productione iridis, cujus reconditas causas, nullus disquisite indagasse videtur. 
« Latent enim sub minimo, quod nemo excogitavit. 

9 verso. « Plurimi quidem, vel innumerabiles, scientificie de iridis natura scrip- 
« titaverunt, sed arcanas ejus causas nullus penitus explicavit, neque fortasse 
, « attinxit. Profecto Maurolicus noster maxime omnium rem ipsam attinxit, sed 
« universas causas non discoperuit, duplicis nam iridis causas, valde recunditas, 
« prorsus ignoravit, et nisi duce Natura ad id, quod accuratissime indagare co- 
«nabar, equidem appulissem, res fortasse adhuc sub tenebris delitisceret tanta 
«est enim, ingentis Naturae miraculi causarum abstrusitas, quanta mox ex ar- 
« duitate Lemmatum, quae hic apponere libuit explicabitur. 


Lemma Primum. 


« Ut autem tanti miraculi causae nos non lateant ,, cum binae fiant a quovis 
«orbiculo pervio coloratae fulsiones (prout habet septimum suppositum) cam 
« physice tum et geometrice qua ratione id fiat accuratissime disquirendum sit. 

«Quam igitur omnium radiorum è radioso corpore,-qui et infiniti esse pos- 
«sunt, emanantium, qui super quodvis planum perpendiculariter indicit, solus 
« vehementissimus; languidissimus vero qui et obliquissime *defluit, existat, prout 
« habeant corollaria secundae propositionis. Ideo omnium radiorum è sole vel 
« quovis lucido effluentium, et in ambitum cujusvis orbiculi incidentium, solus 
«is qui hinc inde rectos angulos admittit, efficacissimus evadit; atque id circo 
«maxime patulus illi aditus efficitur, ita ut universam sphaerulae crassitiem 
« penetrans directe, vel in infinitum producatur, reliquem vero, qui magis a 
« perpendiculari recedunt inefficaciores fint, et qui remotissimi sphaerulam tan- 
« gentes defluent inefficacissime...... 

Considerando i raggi estremi che incontrano tangenzialmente la sfera o glo- 

11 


42 DELLA VITA E DELLE OPERE 





betto diafano ; determina il loro punto d’ incontro col raggio centrale che non 
soffre refrazione, e gli angoli che per effetto della refrazione che codesti due 
raggi posti al limite dei raggi che incontrano il globulo formano al punto d’in- 
contro col raggio centrale, verso il quale s’inclinano per effetto della refrazione, 
angoli di cui il valore è da lui determinato in 33 gradi e 3]4 essendo l’ angolo 
d’incidenza di 90 gradi. 

Le daterminazioni degli angoli di refrazione date dall’ autore, sono fondate, 
sulle norme fornite da Maurolico nell’opera della Diafani: prout Maurolicus, Theo- 
remate X, libri I, Diaph: ostendit. 

Segue a questo primo lemma: 


Lemma II 


«Quamvis in quovis orbiculo diaphano, simplex terminus et simplicissimus 
«ambitus quae convexitas dicitur, universam substantiam complectatur, et clau- 
« dat, nihilominus cum eadem uniformis curvitas in seipsam convertatur, quaevis 
« ejus pars oppositam sibi e contraria regione, per diametrum respicit, et con- 
« formiter ab eodem, quo ad intrinsecam, et concavam superficiem respicitur. 

Segue: 

Lemma seu assumptum III. 


«In quovis orbiculo transpicuo, duo opposita haemisphaerula, tamquam duo 
« contraria et inversa specula consideranda veniunt. Nam rerum visiles species, 
«quae ab ipsis representantur, inverso modo referuntur ad visum (11 recto). 

« Siquidem ejusdem rei speciem convexa superficies colligit et in exiguitatem 
« coarctat, et concava amplificat et eamdem extendit.Idque eo magis quo sphae- 
« rula angustior fuerit, prout praeter evidentiam, Euclides, theor : 21 et 22 de 
« spaeculis, et Maurolicus theor : 29. Photismi..... ostendunt. 

« Praeterea species ejusdem obiecti, dum a convexa superficie representatur, 
« quo magis oculus a perpendiculari obiecti hinc vel inde declinat , eo magis 
« species in contrariam regionem abire videtur: e contra vero dum a concavi- 
« tate ad visum refertur: quo magis enim oculus a perpendiculari recedit, eo 
«magis rei spectrum ad ipsum colligi videtur. Quod practice observari potest, 
«et Euclides theor:*17 et 19. Maurolicus autem theor: 22 ostendere videntur.» 

Segue a codesti enunciati, una dimostrazione matematica notevole per ele- 
ganza, ma che riesce impossibile di riassumere; dalla quale l’autore deduce che 
l'angolo dei raggi che determinano una visione efficace è la metà del semiqua- 
drante dimidium semarecti. 

Inoltre egli ricerca la distanza del punto comune di concorso, dei raggi che 
segnano il limite della visione efficace, col raggio perpendicolare, e lo determina 
matematicamente. Porro concursus radi visualis cum Rudio perpendiculari fit în si- 
gno..... In quonam a centro longitudine fiat non latebit..... ubi semidiameter (orbiculi) 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 43 








__——T - 


in tres equas parles distinguatur totus recessus continebit. Partes 7 5]6 earundem. 
(pag. 12 recto). 
Segue : 
Theorema III. Propos. VI. 


« Secundariae Reflexionis , seu effulsionis coloratae Lucis Angulum in eadem 
« Sphaerula deprehendere. Praeter primariam Lucis coloratae praemeditatam ef- 
« fulsionem, à corporis Lucidi radio, per concavum spaerulae ad oculum produ- 
«cendam adest et secundaria à convexitate Orbiculi ad visum repraesentanda, 
«sed cum demonstratum sit ex tertio Lemmate, quod Lumen a convexitate col- 
«lectum et unitum convexitas extendit et extenuat fit ut multo languidior haec 
« secundaria fulsio prodeat.» La intersezione del raggio che produce la visione 
col raggio che passa pel centro del globulo « fieri in puncto a centro ipsius or- 
« biculi Part. 6, 43 1]2 quarum semidiameter habeat tres (pag. 14 recto). 


Propositio VII. 


pag. 14 recto. « Nonnisi oculi aut sphaerulae variato situ, Lucis irradiantis Co- 
« lores ad visum successive immutantur. 

« Nam cum radius coloratae lucis suam habeat latitudinem quadam ad oculi 
« motum successive colligitur, et cohibetur , diversimode visum afficiendo varis 
« inditam coloribus seipsam ostendat; necesse est ut aut oculus universam lati- 
« tudinem, ut singulos colores sentiat, percurrat; aut stante oculo, ipse orbicu- 
«lus adducatur, et reducatur per eandem videlicet colorationis latitudinem »..... 


Corollarium I. 


pag. 14 verso. « E guttulis, seu orbiculis transpicuis cadentibus, stante oculo, 
« universi ac singuli colores in ipsum irradiant. 

«An quia decidentes, dum angulum coloratae radiationis attingunt universam 
«ejus latitudinem percurrunt. » 


Propositio VIII. 

pag. 15 recto. « Ubi stante contra solem orbiculo oculus e regione solis uni- 
« versam anguli radiosi amplitudinem ad orbiculum respiciens percurreret, quater 
« coloratae lucis fulsionem praesentiret »..... 


Corollarium. 


« Idem fiat ubi stante oculo citra angulum e regione solis, orbiculus descen- 
« deret per universam anguli latitudinem. » 


. . . 0 . . 0° ° e . ® O . . CD) . . ° CD O . ° CL) ° O . . . . . 


44 DELLA VITA E DELLE OPERE 





Propositio IX. 


« Ubi plurimae ita ad invicem spaerulae perspiquae coordinantur, ut univer- 
«sum angulum, vel colorati radii spatium suppleant, stans oculus, universos ac 
« singulos irinos colores, quasi in continuum ductos, perspiciet ac sentiet. 

« Quamvis sub eodem angulo ad perpendicularem solis radium, coloratae ful- 
« siones fiant, nihilominus, quo magis oculus ab orbiculo recedit, eo magis co- 
« loratae lucis intervallum latitudinem extenditur, prout experientia perhibet. 
«Nam quo eminus iris apparet eo ampius coloratae zonulae in amplitudinem 
« extenduntur, ut nequant paucae guttulae unius zonae supplere spatium. » 


Corollarium. 


« Ex innumeris aquae guttulis ubi tumultuose vel e nubibus collapsae per 
«angulum radiosae lucis inciderint discurrentes, universi ac singuli irini colo- 
« res, tanquam si in continuum ducerentur, ad visum repraesentantur. 

«Iam ubi aqua per tenue foramen, inspersa fuerit, sicuti accidit in saltis et 
«in rotis moledinum, ad solis conspectum, irinos colores facile refert. » 


. ° . 0 ° . . . ° O . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 


° O ° . . O ° O . . . . . ° . . ° . . . . . . . . . . . . . 


Theorema IV. Propos. XII. 


pag. 17 recto. « Undequnque oculus iridem spectet, tanquam si in centro sphae- 
« rae e cujus ambitu ac diametrali situ Sol, et Iris nunquam recedant, reputan- 
« dus venit. » 


° . . 0 . . è ° ° . 0 . è . . . . . . . . . . . . . . . . . 


Theorema V. Proposit. XIII. 


« Angulum elevationis maximae cum primariae tum secundariae Iridis super 
«axim Solis, et oculi vel etiam super horizontem deprehendere. 

« Cum sit probatum ex precedenti theoremate oculum prospicientis esse tan- 
«quam in centro circuli, e cujus peripheria sol, et Iris nunquam recedunt....... 

« Dico angulem summae elevationis iridis primariae super axim esse semi- 
«rectum: universam autem iridis amplitudìnem angulum rectum complectere.... 
« Praeterea, quo ad iridis elevationem supra horizontem (pag. 18 verso). Quoties 
« iridis axis, oriente vel occidente sole, coinciderit cum plano horizontis eadem 
« erit Iridis supra horizontem elevatio quae et ab axi ad angulum semirecium. 
« At ubi sol a plano horizonti, elevatus fuerit, elevatio iridis super horizontis pla- 
«num erit supplementum elevationis solis; quod si sol tantundem super hori- 
«zontem fuerit elevatus, quamtumdem iris ab axi removetur, cum nil super- 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 45 








«sit, nullam iridis primariae signum apparebit, secundariae vero iridis aliqua 
« portio spectari poterit. 

« Nam cum angulus secundariae reflexionis major sit quam dimidium semi- 
« recti, videlicet grad. 26 ac semisse, prout constat ex Proposit. VI, angulus 
«summae ipsius elevationis prodibit grad. 53 videlicet duplum ejus . ... 


0 0» 


Corollarium I. 


« Ubi solis celsitudo super planum horizontis semiquadrantem excesserit ibi 
«nullam Iridis primariae : ubi vero gradus 53 excesserit neque secundariae si- 
«gnum prorsus apparebit. 


Propositio XIV. 


19 recto. « Quanta iridis a plano horizontis amplitudo fuerit tanta et oculi a 
centro iridis elongatio erit. » 


Propositio XVIII. 


pag.20 recto. « Ubi quivis perspicuus orbiculus per basis radiosi coni periphae- 
riam circumducatur, radium coloratae lucis in circuitum ad oculum irradiabit. » 


A 


. O . O . 0 . . . O ° ° . ° ° . O . O O ° ° O o 


Corollarium I. 


« Si orbiculus tanta celeritate per conicae basis periphaeriam circumagitaretur, 
« ut sensus ejus motum percipere nequiret , lucis tamen speciem sentiret uni- 
« versam periphaeriam, tanquam coloratae lucis obsignatam, oculus prospiceret. » 


Corollarium IL 


« Ubi totidem globuli circaumponerentur, ut universam conicae basis periphae- 
« riam sufficerent dum persisterent, eamdem circularem fulsionem ad visum 
« praestarent, quam singularis sphaerula summa celeritate circumacta. » 


Theorema VI. Propos. XXI. 
pag. 21 recto. » Ubi ad Solem nitidissimum stillicidium seu irroratio satis in 
« amplitudinem extenditur, bina prorsus iris apparebit, quarum exterior langui- 
« dior, interior splendidior fiat. 
« Siquidem per sextam hujus demonstratum fuit e quovis orbiculo duplicem 
12 


Gi 


2% 2 


2 


= 


n _ 2.2 2 2 


46 DELLA VITA E DELLE OPERE 


—_——_____. 





atque binam prodire ad visum reflexionem : languidiorem autem a superiori 
haemisphaerio : ab inferiori autem vehementiori: idcirco binae fiunt irides, 
sed quae a convexitatibus guttularum iris effulget, debilior, quae vero a con- 
cavitatibus earumdem vegetior producenda venit, verum hanc interiorem esse, 
illam exteriorem ita demonstrandum venit. 

«Cum demonstratum sit per sextam hujus angulum secundariae reflexionis, 
augulo primariae ampliorem esse, fit ut primariis et secundaris fulsionibus ad 
invicem in processu intersecentur et angustiorem sphaericitatem complectantur. » 


. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 


Corollarium I. 


pag. 21 verso. « Iris alterutra sine comite, ex defectu roris aut illumination is 
in ea regione produci facile poterit. 


Corollarium II. 


« Iris ad lumen etiam secundariam, seu a solis radium per speculum repli- 
catum, si in ipsum irroratur producitur. » 


Theor. VII. Propos. XXII. 


« Colorum seriem in iride primaria et secundaria explicare. » 

« Colorum species in iride apparentes, in primo theoremate explicavimus. Modo 
earumdem seriem accuratius deprehendîmus. 

«Quatuor autem praecipui ac primarii colores in iride ostenduntur et eorum 
series est a suprema seu convexa iridis regione flammeus seu croceus. Qui in 
criminum desinit. Hanc viridis color subsequitur, qui in ceruleum desinit, ho- 
rum spatia ad invicem aequalia, pro exltensione solaris corporis apparentis in 
ea iridis regione, ita ut quatuor solaris corporis dimetientes, quatuor nume- 
ratorum Colorum, omnem latitudinem supplerent. Ut pateat Aristotelem con- 
tendentem tres tantummodo iridis esse colores, flavum autem non esse unum 
de coloribus, seipsum decepisse. 

« Spatium, nam, illud quod purpureo colori attribuit , duplex est reliquorum 
colorum spatia, amplior nam latitudo iridis quae ab extremitate viridis ad 
«summitatem purpurei extenditur, apparet quam ea, quae ab exordio caerulei 
«ad finem viridis coloris producitur ut necessario intermedium inter viridem 
«et purpureum flavo, seu citrino cedat. Quod erat explicandum (pag. 22 recto). 


Theorema VIII. Propos. XXIII. 


« Inversa colorum series in iride secundaria, causas disquirere, ac manifestare. » 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 47 


Propos. XXIV. 


pag. 23 recto. « Universas ac singulas iridis causas ex praemeditatis compen- 
« diose explicare. 

« Hinc luce clarius universas ac singulas iridis causas intuebimur. Nam causa 
« materialis iridis est, solidi perspicui rotunditas, ac proinde globuli orbiculi 
«seu sphaerulae cujuscunque materiae sint dummodo transpicuitate pelluceant, 
«iridis materia sunt. 

« Causa efficiens, lucidi corporis in globulos perspicuos expedita radiatio atque 
« idcirco, non solum sol, sed etiam luna aut quodvis lucidum, dummodo vehe- 
« menter irradiare possit in materiam apte dispositam. 

« Causa formalis est collectae lucis in concavitatibus orbiculorum, et per varios 
«umbratiles gradus perturbatae ad visum effulsio seu reflexio ; vel coloratae 
« lucis sensatio. 

« Finalis porro causa est, signum praesentis pluviae ubi sponte a natura fit, 
« alioquin per industriam fieri poterit, est etiam ut per iridem, tanquam per 
«simulacrum pulcritudinis visibilis, homo ad colorum causas disquirendas exci- 
« tetur; eb per admirationem illorum illectus, ad intelligibilium pulchritudinem 
« contemplandam rapiatur. 


Iridis Definitio. 
« Iris nil aliud esse perhibet, nisi collectae lucis inter guttularum umbratiles 
« sinus, et sub specie incurvatae zonae variis coloribus effulgentis ad visum 
« sensatio. 
Irinum Colorum definitio. 


« Similiter irini colores nil aliud esse perhibent nisi lucis per varios umbra- 
tiles transpicui corporis sinus, transitus, vel emersio, et ejus multifaria ad visum 
« sensatio. » 


Theor. VIII. Proposit. XXV. 


« Colorum in.iride apparentium productionem explicare. 

pag. 23 verso. « Id quodin omni transpicuo umbrosum vel tenuissimum lumen 
«a vehementi lucis fulgore circumsequitur, caerulei coloris ad visum sensatio- 
«nem adducit, quod ubi paullulum lumen collectum intenditur, viridis sensa- 
« tionem reddit; postmodum ubi umbrosum migrat in claritatem, lumen vegetius 
« factum, flavi coloris, transit in similitudinem. Postremo, ubi postremae fulgi- 
« dae lucis partes, in unum coeunt, fulgor ille, igneus, croceus, vel purpureus 
«apparet. Hujusmodi vero lucis de colore in colorem trasmigratio , in concavi- 
« tatibus transpicuorum orbiculorum, evidentissima est. Esto enim. ........ 


48 DELLA VITA E DELLE OPERE 








Ed ora dopo questa copiosa serie di citazioni diligenti e testuali, dei brani che 
più mi sono parsi importanti ed opportuni, a dare un concetto abbastanza esatto 
e compiuto della teorica data dall'autore per fornire la spiegazione del fenomeno 
dell’Iride; non occorre di entrare in molte considerazioni per dimostrare che egli 
ha fornito una spiegazione completa di codesto fenomeno ottico. 

Maurolico nelle cui opere ottiche l’autore mostra di aver fatto diligenti studj 
si arrestò alla spiegazione dell’ arco interno dell’Iride, e non giunse, come tutti 
gli antichi, a determinare la causa dell’arco esteriore. 

Secondo Odierna l’ arco interno è formato dalla riflessione dei raggi i quali 
penetrano un globo diafano ed emergono formando col raggio centrale che non 
si refrange un angolo di 22° 1j2. Quando un grande numero di goccie di acqua 
cadenti in modo «continuo sono percosse dalla luce solare; si forma un cono lu- 
minoso costituito da tutti i raggi riflessi sotto codesto angolo, avente il vertice 
nell’occhio dell’osservatore, e l’asse in una retta che passa pel centro dell’occhio 
e quello del sole. 

Ma vi banno altri raggi provenienti da una riflessione secondaria, i quali danno 
anche una imagine luminosa e formano col raggio centrale un angolo alquanto 
maggiore del primo di 26° 1]2; codesti raggi riflessi da numerose goccie cadenti, 
danno origine ad un altro cono e producono l’arco esterno dell’iride più debol- 
mente illuminato, 

Codesti raggi, procedendo sotto un angolo maggiore e però intersecando i pri- 
mi, producono un arco luminoso, ove i colori debbono trovarsi in ordine inverso. 

Il centro del sole, l’occhio dell’osservatore, ed il centro dell’iride, si trovano 
sempre in una linea retta. Quando il sole è presso all’orizzonte, l’arco dell’iride 
può vedersi completo. Quando la elevazione del sole sull’orizzonte supera il se- 
miquadrante , l’ iride interna sparisce, e quando l’angolo di elevazione del sole 
eccede 53° sparisce anche l’iride esteriore. 

I molti brani qui pubblicati, del manoscritto inedito di Odierna, bastano a 
dare un concetto adeguato della importanza del lavoro; assai notevole tanto per 
la parte fisica, come per la parte matematica. 

Riuscendo impossibile di riassumere la parte matematica, era stato dapprima 
mio proposito, di pubblicare intero il testo del manoscritto; ma poi me ne di- 
stolse una considerazione storica di grave momento, che mi pare necessario di 
dichiarare. 

Il manoscritto porta la data del 1647: poichè nella copertina si legge: In- 
ceptum || mense Novembris 1617 die 5 || continuatis vicibus ad 30 dies. Ed in pie’ del- 
l’ultima pagina: Finis || explicitus die 5 Decembris. 

Ora sin dall’ anno 1611 era stata pubblicata in Venezia da Giovauni Bartolo 


l’opera sull’Iride di Marco Antonio de Dominis Arcivescovo di Spalato (1) della. 





(1) La Biblioteca Angelica di Roma in un velume di miscellanee, contiene tra altre co- 
desta opera che porta il titolo: De radiis visus 4 et lucis || in vitris perspectivis et Iride 4 


DI GIOVAN BATTISTA ODIERNA 49 


(CRCCTO = 





quale Newton ha fatto molto conto nella sua opera sull’ Ottica, lodando il De 
Dominis come colui che primo, diede una completa spiegazione del fenomeno 
dell’Iride (1). 

Si deve adunque supporre che Odierna, il quale afferma recisamente in più 
luoghi, di essere stato il primo a dare la spiegazione completa del fenomeno 
dell’Iride, abbia ignorato l’opera dell’Arcivescovo di Spalato. Avendo infatti esa- 
miînalo attentamente codesto opuscolo pubblicato a Venezia, e postolo a con- 
fronto col manoscritto del dotto Ragusano; parmi di poter affermare, che tanto 
le dimostrazioni matematiche , come altresì le considerazioni fisiche e le espe- 
rienze, sono differenti, nei due lavori che hanno per oggetto , lo stesso argo- 
mento, dell’Iride. 

Pare adunque che Odierna non abbia conosciuto l’ opera di de Dominis. Ma 
poichè essa venne pubblicata nel 1611 ed il manoscritto del nostro autore venne 
compilato nel 1647 ed è rimasto sin ora inedito, codesto lavoro, sebbene assai 
notevole, tanto per la parte matematica, come per la parte fisica ; perde molta 
parte della sua importanza, ed ho smesso quindi il pensiero di proporne la in- 
tegrale pubblicazione negli atti della nostra accademia. 

La numerosa serie di lavori che siamo venuti analizzando, o accennando; 
rende manifesto il valore di Odierna come Astronomo, Fisico, e Naturalista. 

Malgrado che fosse nato in un angolo remoto della Sicilia, ove per le scarse 
comunicazioni dell’isola coi paesi più civili, era pressochè segregato dal grande 
movimento scientifico che venne prodotto dalle scoperte di Galilei e dei suoi 
discepoli; seppe acquistare nome chiarissimo tra i suoi contemporanei. Fu grande 


Tractatus | Marc: Antoni de Dominis || Per Joannem Bartolum in lucem editus || In quo inter 
alia attenditur ratio Instrumenti cujusdam || ad clarvae videndum, quae sunt valde remota exco- 
gitati || 

Venetiis M.DC.XI. | Apud Thomam Baglionem. 

L’intiero opuscolo ha 78 pagine. 

(1) Guglielmo Libri nella sua Histoire des Mathematiques Paris, vol. 4°, pag, 148 Nota (3) 
ha riportato il passo dell’ Ottica di Newton nel quale è fatta menzione dell’ opera di de 
Dominis. 

Newton's optics London 1104, in-4, pag. 126-127 e 131, lib. I, parte 2, prop. 9. Ecco come 
si esprime su tale soggetto il grande geometra inglese : 

« This was understood by some of the ancients and of late famous Archibishop of Spa- 
“ lato in his Book De'Radiis Visus et Lucis published by his Friend Bartolus at Venice 
“ in the Year 1611, and written above twenty Years before, For he teaches there how the 
“ interior Bow is made in round Drops of rain by two refractions between them of the 
« sun’s Light and one reflection, and the exterior by two refractions and two sorts of ve- 
“ flections between them, in each Drop of Water, and proves his Explication by experi- 
“ ments made with a Phial full of Water. and placed in the Sun to make...... the Colours 
“ of the two Bows appear in them. The same explication Des Cartes hat pursued in his 
“ meteors, and mended that of exterior Bow. , 

13 


50 DELLA VITA E DELLE OPERE DI G. B. ODIERNA 











ventura che nella sede solitaria ove trascorse tranquilla la sua vita, adempiendo 
modestamente gli ufficj come Arciprete, in un piccolo comune; gli sieno perve- 
nute le opere del sommo fisico fiorentino, nelle quali seppe ispirarsi; acquistando 
quello spirito di paziente osservazione, e di diligente esperimentazione, che pose 
salde le basi della fisica moderna, e ne rese certi i princip] provando e ripro- 
vando. 

Dotato di molto ingegno, con una laboriosità che non venne meno in mezzo 
alle difficoltà le più gravi, sostenuto solamente dal suo intenso amore per la 
scienza; il suo nome varcò i confini dell’isola nativa. 

D. Domenico Plato infatti, a nome di una numerosa adunanza di astronomi te- 
nuta in Roma, gli proponeva a risolvere una numerosa serie d’importanti quesiti 
Astronomici, Fisici ed Ottici. 

Il gesuita Caramuel dotto nell’astronomia e nelle matematiche, nella sua Ma- 
thesi nova, riferendo l’opuscolo dell’Odierna, intorno alla Stella nuova e peregrina, 
parla di lui, come di uno dei più insigni astronomi del tempo. 

De Lambre nella sua storia dell'Astronomia, ha dato un ampio resoconto delle 
sue Effemeridi dei satelliti di Giove, e pubblicato una lista dei suoi lavori astro- 
nomici. 

Ma la grande rivoluzione scientifica operata dal Galilei, fece dimenticare il 
nome dell’ astronomo ragusano, il quale non seppe sciogliere del tutto i lacci 
che lo avvincevano al sistema tfolemaico; e malgrado i suoi molti lavori, come 
.fisico, e naturalista, il suo nome si venne dileguaudo, tra gli splendori della 
scienza moderna. 

In una opera insigne, pubblicata in Italia dal Riccardi, intitolata Biblioteca 
Matematica Italiana, l’ autore parlando di G. B. Odierna, e di talune sue opere; 
esprime il desiderio, che qualcuno venisse a riparare, ad una lacuna, nella storia 
della scienza; raccogliendo le notizie, intorno alla vita ed alle opere, dell’insigne 
ragusano. 

Spinto da alcuni dotti ed operosi cittadini di quel paese, che fu culla di uno 
dei più dotti uomini del secolo XVII; il quale fu ad un tempo astronomo, fisico, 
e naturalista assai valente, mi sono dedicato con amore ad illustrarne la vita e 
le opere. 

Sarò lieto se la mia scrittura, avrà, almeno in parte, adempiuto al desiderio, 
espresso dall’illustre autore della Biblioteca Matematica Italiana. 


SULLA STABILITÀ DELL’IDRATO RAMEICO 


NOTA 
DEL SOCIO DOTT. DONATO TOMMASI 


PRESENTATA ALL’ ACCADEMIA NEL MESE DI DICEMBRE 1881. 


L’idrato rameico, come è noto, è un composto poco stabile, il quale perde 
l’acqua d’idratazione con la massima facilità , specialmente quando esso trovasi 
in contatto con delle soluzioni alcaline. Questa è per l’appunto la ragione prin- 
cipale per cui riesce difficile preparare codesto composto chimicamente puro ed 
esente in particolare di solfato basico di rame, giacchè esso annerisce anche in 
presenza dell’ acqua stillata, purchè la temperatura dell’ ambiente sia per poco 
elevata. 

Diffatti per preparare l’idrato rameico avente una tinta bleu chiara ed esente 
di particelle nere, occorre impiegare due metodi diversi di preparazione: 1° Il 
metodo, che chiamerei industriale, giacchè viene generalmente impiegato nelle 
fabbriche di prodotti chimici; 2° Il metodo adoperato nei laboratorii. Il primo 
metodo consiste a precipitare una soluzione di solfato rameico con una solu- 
zione di soda o di potassa caustica evitando di aggiungere un eccesso di solu- 
zione alcalina, dimodochè resti una certa quantità di solfato rameico indecom- 
posto. Si ottiene in tal guisa un idrato rameico più stabile, ma il quale contiene 
una quantità abbastanza considerevole di solfato basico di rame. Il secondo me- 
todo sta nel precipitare una soluzione di solfato rameico diluitissima colla po- 
tassa o colla soda, ancor esse in soluzioni diluite , ed inoltre avendo cura che 
durante la precipitazione dell’idrato rameico la temperatura non s’innalzi. 

In tal modo si ottiene un idrato rameico chimicamente puro, ma molto in- 
stabile. 

Onde conoscere se la poca stabilità dell’idrato rameico dipendesse dal trovarsi 
‘ in contatto colla soluzione alcalina, col solfato potassico, o dipendesse solamente 
dalla temperatura, istituii i seguenti esperimenti. Preparai anzitutto dell’ idrato 


2 SULLA STABILITA’ 


rameico chimicamente puro ; ed a questo proposito dirò il metodo di prepara- 
zione che adoperai, giacchè in nessun trattato di chimica è detta parola di ciò. 

Sciolsi 100 grammi di solfato rameico in 2 litri d’acqua stillata. La soluzione 
fu fatta alla temperatura ordinaria (T° 10°). La soluzione fu versata in un gran 
vaso di vetro, il quale era circondato da neve. In codesta soluzione versai goccia 
a goccia una soluzione diluitissima di potassa, aggiungendovene un leggiero ec- 
cesso; durante la precipitazione dell’idrato rameico, la temperatura non s’innalzò 
mai al di là dei 7°. L’idrato rameico fu tosto raccolto sopra un filtro e, quando 
la quasi totalità della soluzione alcalina era scolata, lo si tolse con una spatola 
di legno di sopra il filtro e lo sì stemperò in 1 litro circa d’acqua stillata raf- 
freddata a 5°. L’idrato rameico venne poi nuovamente raccolto su filtro e lavato 
con acqua stillata, finchè le acque di lavaggio non contennero più nè potassa, 
nè solfato potassico. 

L’idrato rameico ottenuto in tal modo venne abbandonato a se stesso sul filtro 
in luogo fresco (7° a 10°) finchè tutta l’acqua di lavaggio fosse colata e che l’i- 
drato avesse acquistato la consistenza melmosa. 

Codesto idrato venne messo in contatto con diverse soluzioni; ed ecco ciò che 
osservai : 


1° Serie di esperimenti. 


Dopo 24 ore. 
Temperatura iniziale = 6° 
» finale= 7° 
Idrato rameico 
HO e nessun teangiamento 
+ NaHO al 20/0. . . » » 
+ NaHO all’1 0/0. . . principiava ad annerire 
NaHO al 0,25 0/0. . . l’annerimento era più accentuato 
[drato rameico 
+ SO,Na al 100/0 .. . nessun cangiamento 
+ NO;K al 10 0/0. . . » » 
+ Call, al 10 0/0. . . » » 
+ NaCl al 100/0. . . l’idrato aveva assunto una leggiera tinta verdastra 
+ C,H;0,Na al 100/0 . nessun cangiamento 
+ Zucchero al 10 0/0 . » » 


Dopo 48 ore. 
Temperatura iniziale = 6° 


» finale = 8°,5 
Idrato rameico 
+H.0. ... . . . nessun cangiamento 
+ NaHO al 20/0. .. .)era manifestamente annerito 
+ NaHO all’1 0/0. . .$il massimo d’annerimento lo si osservava nella so- 


+ NaHO al 0,250/0 . . luzione di soda più diluita 


DELL’IDRATO RAMEICO 8) 


eee e e eee rPrPr1r—rrrrrrr__0no- 








+ SO,Na al 100/0 . . messun cangiamento 

+ NO;K al 100/0. . . » » 

+ Ca0t, al-10:0/g3)l » » 

+ NaCl al 100/0. . . la tinta verde era più manifesta (1) 
+ C,H,0,Na al 100/90 . nessun cangiamento 

+ Zucchero al 100/0 . » » 


Dopo 120 ore. 
Temperatura iniziale = 6° 
» finale = 8° 
I medesimi risultati detti precedentemente, eccettuato che l’idrato rameico in 
contatto coll’acqua stillata e l’idrato rameico in contatto colla soluzione di ace- 
tato sodico, principiavano ad annerirsi. 


Dopo una settimana. 
Temperatura iniziale = 6° 
» finale = 6° 

I medesimi risultati già indicati; solamente l’ idrato rameico in sospensione 
nell’ acqua stillata erasi più annerito di quello che era in contatto colla solu- 
zione di acetato di sodio e di quello che trovavasi in contatto colla soda al 20/0 
ed all’1 0/o. La tinta dell’idrato rameico in sospensione nell’acqua era quasi la 
medesima di quella dell’idrato rameico che trovavasi in contatto colla soluzione 
di soda al 0,25 0/0. 

Ordine progressivo d’annerimento dell’idrato rameico trovatosi in contatto con 
diverse soluzioni durante una settimana. 

1° Idrato rameico + H,0 (2) 


ZIMRRO), » + NaHo al 0,25 0/0 

DE » » + NaHO all’1 0/0 

4°» » + C,H;0,Na al 10 0/0 

5°» » -|- NaHO al 2 0/0 

(Co) » + SO,Na al 10 0/0 

pie » » + CaCl, al 10 0/0 l’idrato rameico aveva conservata la sua 
SE) » + Zucchero al 10 0/0) tinta bleu e non erasi per nulla alterato. 


Onde conoscere l’influenza della diluzione della soluzione alcalina sulla stabi- 
lità dell’idrato rameico, istituii i seguenti esperimenti : 
In tre bicchieri misi delle quantità presso a poco uguali d’idrato rameico umido. 


(1) L’idrato rameico che era stato in contatto col cloruro sodico, dopo che fu raccolto e 
lavato fino a completa eliminazione del cloruro, sciolto nell’acido azotico precipitava forte- 
mente il nitrato argentico. Il che prova come l’idrato rameico si sia trasformato al contatto 
del cloruro sodico in un nuovo composto contenente del cloro. Di codesto composto verrà 
parlato in apposita Memoria. 

(2) Dopo una settimana l’idrato rameico che trovavasi sul filtro, sebbene umido, non erasi 
annerito superficialmente, ma internamente erasi alterato. 


4 SULLA STABILITA’ 


Nel primo bicchiere A versai 50 c.c. d’ una soluzione di soda al 0,40 0/0. Nel 
bicchiere B aggiunsi 50 c.c. d’una soluzione di soda al 0,20 0/0. Infine nel terzo 
bicchiere C misi 50 c.c. d’una soluzione di soda al 10 0/0. 


Dopo 48 ore di contatto ecco i risultati ottenuti : 
Temperatura iniziale = 6° 
Die finale= 7° 
(A) Idrato rameico + NaHO al 0,40 0/0; l’idrato erasi annerito. 
(B) Idrato rameico 4 NaHO al 9,20 0/0; l’idrato annerito più che il prece- 
dente. 
(C) Idrato rameico + NaHO al 10 0/0; l’idrato non erasi annerito. 
Dopo 96 ore l’idrato rameico che trovavasi in contatto colla soluzione di soda 
al 10 0/0 erasi annerito, ma non tanto quanto l’idrato rameico che era in con- 
tatto colla soda al 0,40 0/0 ed al 0,20 0/0. 


Dopo 10 giorni l’idrato rameico che era in contatto colle soluzioni della Serie 1°, 
erasi più o meno annerito ad eccezione di quello che era in contatto colla so- 
luzione di cloruro di calcio e di zucchero, il quale rimase d’un bel bleu. L’idrato 
rameico che erasi meno annerito era quello che trovavasi in contatto del sol- 
fato sodico. 


2° Serie di esperimenti. 


L’idrato rameico impiegato in codesti esperimenti fu preparato nel medesimo 
modo che fu descritto al principio di questa Memoria. 


Dopo 24 ore. 
Temperatura iniziale = 89,5 
» finale = 9° 
Idrato rameico 
+ CO;Na al 50/0. . . leggiermente bruno 
+ KCI al 100/06 . . . tinta verdastra simile al NaCl 
+ KBr al 100/0 . . . messun cangiamento 
4 KI al 10/0/0- 0. » » 
SER de ey e AZ » » 
Dopo 48 ore. 
Temperatura iniziale = 8°,5 
» finale = 8° 
Idrato rameico 
+ CO;,Na al 5 0/0. . . l’abbrunimento era più manifesto 
+ KC1 al 100/0 . . . tinta verde simile al NaCl 
+ KBr al 100/0 . . . nessun cangiamento 
+ Kl al 100/0. . . . tinta verdognola; il liquido sovrastante rende az- 


zurra una carta amidata 
+ H,0 


e 
a 


DELL’IDRATO RAMEICO 5 


e==-*--<---<-è-*&**;*&*;};}***&—<&:*==;-*>};<;*;«-*T;;*x«à«à«xz= == 





Popo 72 ore. 
Temperatura iniziale = 89,5 
» finale = 9° 
I medesimi risultati che precedentemente , all’ eccezione che l’idrato rameico 
che era in sospensione nell’acqua stillata principiava ad imbrunire. 


Dopo 96 ore. 
Temperatura iniziale = 89,5 
» finale —9° 
L’idrato rameico in sospensione nell’acqua stillata e l’idrato rameico in con- 
tatto col carbonato sodico al 10 0/0 erano divenuti più bruni; l’ultimo maggior- 
mente del primo. Quanto all’idrato rameico in contatto col cloruro, bromuro, e 
ioduro potassico non si osservò nessun cangiamento sensibile. 


Dopo 120 ore. 
Temperatura iniziale = 89,5 
» finale = 9° 
Medesimi risultati che precedentemente; solamente l’idrato rameico in contatto 
col bromuro potassico principiava leggiermente ad alterarsi. 


Dopo 168 ore. 
Temperatura iniziale = 9° 
» finale = 10° 
Medesimi risultati che precedentemente; solamente nelle soluzioni nelle quali 
l’idrato rameico principiava ad annerirsi, l’annerimento era aumentato. 
Dopo 10 giorni. 
L’idrato rameico il quale era in contatto colle soluzioni della Serie 2* erasi 
più o meno alterato; ecco l’ordine progressivo del suo annerimento : 
1° Idrato rameico +- soluzione di carbonato sodico al 10 0/0 


III » + acqua stillata 

3°» » + soluzione di cloruro potassico al 10 0/0 

4°» » + » di bromuro  » » (1) 
TI » + » di ioduro » » 


3° Serie di esperimenti. 


Dopo 24 ore., IA 
Temperatura iniziale = 8° 
» finale = 9° 


(1) In codeste soluzioni l’idrato rameico non erasi propriamente annerito, ma la sua tinta 
era divenuta più o meno verdognola probabilmente perchè l'idrato rameico aveva reagito 
sulle dette miscele generando nuovi composti chimici più stabili dell’idrato rameico stesso. 
Di codesti nuovi composti verrà parlato in una Memoria speciale. 


6 SULLA STABILITA’ 


 TSTTTFF5%Ty-yTyTFrrr]r”rxrrrrFr;------ SFTF_Se_r_ e 


Idrato rameico 


+C10;K . . . . . . nessun cangiamento 
4 S0;Mp bee » » 
+SO,Nî . . . . . . precipitato verde chiaro (1) 
+(NO;).Pb (2). . . . precipitato biancastro 
Dopo 48 ore. 


Temperatura iniziale = 8° 
| » finale —99 
Medesimi rirultati che precedentemente. 
Dopo 72 ore. 
Temperatura iniziale = 8° 
rd » finale = 9° 
Medesimi risultati che precedentemente. 
Dopo 120 ore. 
Temperatura iniziale = 9° 
ua d » finale = 10 
Medesimi risultati cho precedentemente. 
Dopo 168 ore. 
L’idrato rameico che era in contatto col solfato di nichelio, e l’idrato rameico 
che era in contatto col nitrato di piombo furono raccolti su filtri e lavati. 


Idrato rameico +- soluzione di solfato di nichelio. Il colore del precipitato è verde- 
chiaro. Il liquido separato dal precipitato consta di solfato di nichelio non con- 
tenente nessuna traccia di rame. Il precipitato verde ben lavato fu riconosciuto 
essere un composto contenente simultaneamente del rame e del nichelio , pro- 
babilmente allo stato di un solfato doppio basico di nichelio e di rame (83). 

Idrato rameico +- soluzione di nitrato di piombo. Il precipitato ha una tinta bian- 
castra. Il liquido separato dal precipitato contiene una miscela di nitrato di piom- 
bo e di nitrato di rame. 

Da quanto fu detto si può scorgere la grande influenza che esercitano talune 
soluzioni saline nel ritardare od accelerare la disidratazione dell’idrato rameico. 
In una prossima Memoria mostrerò l’influenza della quantità del sale sulla de- 
composizione dell’idrato rameico. Mi basta il dire ora che una traccia di certi 
sali è sufficiente per impedire la disidratazione dell’idrato rameico. Una soluzio- 
ne, per esempio, di solfato di manganese al 0,30 0/o basta per impedire che l’i- 
drato rameico perda l’acqua anche se vien riscaldato sino ai 100°. 


Influenza del calore sulla disidratazione dell’idrato rameico. 


In nessun trattato di chimica, che sia in mia conoscenza, è indicata la tem- 
peratura alla quale l’idrato rameico perde la sua acqua d’idratazione. Era dunque 


(1) L’idrato rameico divenne immediatamente biancastro al contatto del nitrato di piombo. 

(2) Il colore di codesto precipitato è il medesimo di quello oitenuto per l’azione dell’i- 
drato rameico sul solfato rameico. 7 

(3) Di codesto nuovo composto verrà parlato in ispecial modo in apposita Memoria. 


DELL’IDRATO RAMEICO 7 





interessante conoscere: 1. Quale è la temperatura alla quale l’idrato rameico, 
riscaldato in presenza dell’acqua, annerisce, ossia si disidrata. 2. Se la disidra- 
tazione dell’idrato rameico viene ritardata o accelerata sostituendo all’acqua stil- 
lata diverse soluzioni saline (1). 

Idrato rameico + acqua stillata. L’idrato rameico principia ad alterarsi verso i 62°; 
a 74° diviene bigio, e bruno a 77°. 

Se poi si opera sopra un idrato rameico il quale ha principiato appena a de- 
comporsi alla temperatura ordinaria, allora la sua disidratazione si effettua ad 
una temperatura più bassa. 

Idrato rameico (2) + acqua stillata. A partire dai 50° principia a divenir verda- 
stro, a 60° diviene bigio, a 64° bigio-scuro ed a 68° bruno. Al di là di questa 
temperatura la sua tinta non aumenta più in modo sensibile. 

Idrato rameico + soluzione di cloruro di calcio al 10 0/o. L’idrato rameico non 
subisce niuna alterazione allorchè viene riscaldato sino ai 100° in presenza del ‘ 
cloruro di calcio. La sua tinta passa al verde-pallido quasi bianco, ma non an- 
nerisce. 

Idrato rameico 4- soluzione di zucchero al 10 0/g. Riscaldato sino ai 100° l’idrato 
rameico non annerisce, la sua tinta dal bleu passa al verde più carico del pre- 
cedente. Codesto idrato, lavato finchè non contenesse più traccia di zucchero, fu 
nuovamente riscaldato in presenza dell’ acqua stillata onde conoscere se la sta- 
bilità dell’idrato rameico in presenza dello zucchero dipendesse : 1. dal contrarre 
collo zucchero un composto più stabile dell’ idrato rameico; 2. dal trasformarsi 
in una modificazione isomera; 3. dal trovarsi in presenza di una soluzione di 
zucchero. 

A 64° l’idrato rameico principia ad alterarsi e diviene bruno a 76°. La disi- 
dratazione dell’idrato rameico avendo luogo quasi alla medesima temperatura 
dell’idrato rameico 4- acqua stillata (77°), ed inoltre l’acqua stillata separata dal- 
l’ossido rameico fatta bollire per alcuni minuti con poche gocce di acido solfo- 
rico e indi trattata con potassa ed un po’ di solfato rameico , non ha prodotto 
la ben nota reazione del glucosio ; si è in dritto di concludere che la stabilità 
dell’idrato rameico in contatto con lo zucchero dipenda, non direi da una azione 
di presenza, ma bensi da una causa finora ignota. 

Idrato rameico +- soluzione di cloruro potassico al 410 0/g. A 55° l’idrato rameico 
assume una tinta verde-chiara; a 60° diventa d’un bel verde-pisello; a 64° prin- 
cipia ad imbrunire; a 71° diventa bruno. A partire da codesta temperatura la 
tinta bruna dell’ idrato rameico, 0, per meglio dire, dell’ ossido rameico , non 
cangia più in una maniera sensibile. 





(1) L’idrato rameico venne riscaldato in un tubo di vetro immerso nell’acqua. Il tubo era 
tenuto mediante un sostegno, dimodochè esso non toccava le pareti del bicchiere contenente 
l’acqua. Il termometro pescava nel tubo da saggio contenente l’idrato rameico. La fiamma 
del gas era regolata di tal maniera che per ogni minuto la temperatura s’innalzasse presso 
a poco di un grado. 


(2) Codesto idrato principiava appena a decomporsi alla temperatura ordinaria. 


8 SULLA STABILITA” DELL’IDRATO RAMEICO 





Idrato rameico +- soluzione di solfato sodico al 10 0/q. L’idrato rameico principia 
a divenire bigio verso i 67°; bigio-oscuro a 75°, e diviene completamente bru- 
no a 79°. 

Idrato rameico +- soluzione di nitrato potassico al 10 0/g. Verso i 74° l’idrato ra- 
meico principia ad alterarsi; a 81° diviene bigio; a 87° bigio-scuro, ed a 90° bruno. 

Idrato rameico + soluzione di acetato sodico al 10 0/o. L’idrato rameico comincia 
a decomporsi verso i 68°; diviene bigio a 74°, e bruno a 78°. 

Idrato rameico +- soluzione di clorato potassico satura alla temperatura ordinaria 
(T* 8°). A 74° l’idratc rameico diviene bigio, a 79° bigio-scuro, e bruno a 85°. 

Idrato rameico +- soluzione di carbonato sodico al 5 0/q. L’idrato rameico prin- 
cipia ad alterarsi verso i 47°, e diviene bruno a 50° (1). 

Idrato rameico + soluzione di bromuro potassico al 10 0/q. A 71° drincipia a di- 
venire verdognolo, bigio a 79°, e bruno a 85°. 

Idrato rameico 4- soluzione di ioduro potassico al 10 0/o. L’idrato rameico prin- 
cipia ad alterarsi verso i 76°, diviene bigio a 83°, e bruno a 86°. 

Idrato rameico + soluzione di soda al 10 0/q. A 62° principia a scomporsi, di- 
viene bigio a 69°, e bruno a 74°. 

Idrato rameico + soluzione di soda alli 0/o. Principia a disidratarsi a 42°, di- 
viene bigio a 76°, e bruno a 88°. 

Idrato rameico + soluzione di soda al 0,5 0/q. L’idrato rameico principia ad al- 
terarsi a 42°, ed annerisce a 84°. 

Idrato rameico + soluzione di solfato di manganese al 10 0/0. Verso i 75° priucipia 
a divenir verdognolo, ma esso conserva codesta tinta anche fino a 100°. 


Terminerò questo lavoro facendo osservare un fatto di grande importanza, ed 
il quale riesce difficile a spiegarsi colle teorie che reggono tuttora la chimica. 

L’idrato rameico possiede la singolare proprietà di porre in libertà una certa 
quantità di alcali, allorchè vien messo in contatto a talune soluzioni saline, co- 
me sarebbe, il cloruro sodico, il cloruro potassico, il cloruro di calcio, il solfato 
di soda, ecc. E, cosa strana, questo spostamento dell’alcali avviene alla tempe- 
ratura ordinaria anche quando essa è piuttosto bassa (6°)1! 

Col cloruro potassico chimicamente puro, per esempio, la reazione è, per così 
dire, istantanea; basta mettere in contatto una soluzione al 10 0/0 di cloruro 
potassico coli’idrato rameico , perchè la soluzione sovrastante acquisti una rea- 
zione manifestamente alcalina , la quale aumenta coll’andar del tempo, mentre 
l’idrato rameico si trasforma in un composto contenente del cloro, simile pro- 
babilmente al composto che si produce per l’azione del cloruro sodico sull’idrato 
rameico e del quale ho parlato avanti. Ho già istituito alcuni esperimenti in 
proposito, e tostochè avrò ottenuto dei risultati soddisfacenti non tarderò a pub- 


blicarli. 


(1) La tinta di codesto ossido rameico è più marrone e meno bigia della tinta dell’ossido 
rameico ottenuta nei precedenti esperimenti. 


CLASSE 


DI SCIENZE MORALI & POLITICHE 


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ELOGIO 


DEL CONTE ARRIVABENE 


Letto dal socio Prof. GIOVANNI BRUNO 
NELLA TORNATA DEL 24 APRILE 1881. 


__———T- 


SIGNORI ! 


Questa dotta Accademia nella tornata del 13 gennaro, deliberava di onorare la 
memoria del rimpianto e venerando uomo, il Conte Giovanni Arrivabene nostro 
socio corrispondente, e volle deferire a me il penoso incarico di scriverne lo 
elogio. 

Io ho dovuto ubbidire al gentile invito dell’ Accademia, sebbene l’affettuosa 
amicizia che io sentiva per l’ illustre trapassato, renda troppo doloroso per me 
l'adempimento di questo dovere, siccome ho provato due altre volte, ricordando 
dalla cattedra e nella Società di economia politica, della quale egli era presi- 
dente di onore, la perdita che aveva fatto l’Italia colla morte di lui. 

Giovami intanto manifestare a questo eletto Consesso, che sebbene io avessi 
cominciato ad ammirare l’ illustre Arrivabene sin dai miei primi studii nelle 
discipline economiche , pure potrei dire ben poco della sua vita trascorsa per 
molti anni in terra straniera. Allorquando mi fu dato di conoscerlo personal- 
mente in Roma, trovai in esso lui quella cordiale amicizia e quella cortesia di 
modi che erasi rivelata abbastanza nella frequente corrispondenza tenuta fra noi. 

Pertanto volendo considerarlo come patriotta esimio, come economista insigne 
e come generoso filantropo ho dovuto far larga messe nelle sue stesse memorie 
nelle quali egli narra con attraente semplicità le vicende della sua vita, e 
mi son giovato altresì di un pregevole discorso del compianto professore Dino 
Carina, messo fuori nel 1859, e che precede una raccolta di scritti morali ed 


4 ELOGIO 


economici del Conte Arrivabene: ed infine ho attinto pure parecchie notizie di 
lui nelle copiose necrologie colle quali gli è stato reso omaggio dalla stampa 
periodica e dai sodalizii scientifici e politici. 


Giovanni Arrivabene nacque in Mantova il 24 giugno del 1787 dal Conte Ales- 
sandro e dalla Contessa Adelaide Malaspina della Bastia. 

I primi anni della sua vita volsero fra gli studii letterarii. Egli non fu con- 
tento della sua giovinezza; e con rara modestia dichiarava di avere raggiunto i 
diciotto anni nel più completo e vergognoso ozio; senza quasi punto curarsi 
delle pubbliche cose, malgrado che quell’epoca fosse così piena di grandi avve- 
nimenti. 

Pure comincia dalla sua adolescenza la storia delle tribolazioni della sua fa- 
miglia. 

Nel 1806 il vittorioso esercito francese, capitanato dal generale Napoleone, 
moveva verso Mantova per. bloccarla. Il padre di Giovanni trovavasi a Vienna, e 
la madre con tre figliuoli rifugivasi in Parma presso la sua genitrice, vedova 
marchesa Malaspina della Bastia. Bonaparte fece porre il sequestro sui beni della 
sua casa, il quale poi le si tolse sotto la condizione che il Conte Alessandro fa- 
cesse ritorno in patria. 

Costituitosi e poi caduto il regno d’ Italia lo Arrivabene comincia a prendere 
interessamento delle pubbliche vicende. 

« Io vedeva, egli dice, divella una pianta, la quale invigorita dagli anni, fa- 
« vorita dalle circostanze avrebbe potuto crescere in modo da coprire di sua 
«grande ombra tutta quanta l’Italia, ed io ne sentiva vivo dolore. » 

Nel 1801 Napoleone primo Console della repubblica francese volle sostituire 
alla Cisalpina una repubblica italiana. Egli convocò a tal uopo i comizii a Lione 
pei primi giorni del 1802; furon chiamati a concorrere alla nuova repubblica 
gli uomini più cospicui per censo, per dottrina, e il Conte padre del nostro Gio- 
vanni fu scelto dalla città di Mantova a rappresentare la classe proprietaria. 

In quell’anno il giovane Arrivabene insieme al genitore e a due fratelli, par- 
tivasi da Mantova per un viaggio in Torino. 

Di là salito il Cenisio, con grandi pericoli, e traversata la Savoja, si recarono 
a Lione, dove la famiglia Arrivabene frequentava le riunioni delle persone con- 
venute ai comizil. 

Nel 1802 ritornato da Lione in Mantova giunse quivi il generale Murat, cui fu 
presentato dal padre il giovane Arrivabene; il generale mostrò desiderio di averlo 
nell’esercito, ma il genitore non volle consentirvi. 

Napoleone, divenuto imperatore dei francesi, volle farsi incoronare a Milano 
re d’Italia. La città di Mantova aspettandolo, organizzò una guardia d’onore di 
cui era stato nominato comandante un fratello di Giovanni, ed egli pure ne fa- 
ceva parte come semplice guardia. 


DEL CONTE ARRIVABENE 5 





Però la polizia ebbe sentore che nella guardia correvano sentimenti ostili al- 
l'Imperatore, e dessa fu disciolta prima ch'egli giungesse in quella città. 

Due anni appresso moriva il padre di Giovanni, e quantunque egli non avesse 
toccato gli anni ventuno venne emancipato , perchè reputato abile a reggere la 
sua fortuna. 

Nell’anno susseguente può dirsi che chiudevasi il periodo della sua giovinezza, 
e fin qui non possiamo ricordare di lui che un sonetto arcadico letto all’ Acca- 
demia Virgiliana di Mantova per la morte dell’abate Bettinelli. 

Nel 1812 il nostro Arrivabene trovandosi in casa del marchese Tullo Guer- 
rieri acquistò la prima conoscenza politica di Camillo Ugoni, con cui strinse 
un'amicizia affettuosa che durò finchè costui visse. 

Intanto egii apprende la notizia che l’esercito di Napoleone ritiravasi dalla 
Russia, e se ne attrista profondamente, perchè parevagli che questo disastro do- 
veva portare il suo contracolpo in Italia. Il vicerè Eugenio Beauharnais difen- 
devasi alla meglio in Lombardia, ma l’approssimarsi della catastrofe, decise lo 
Arrivabene di lasciare Mantova in sul finire del 1813 ritirandosi in Brescia, dove 
confortavasi della compagnia dell’ amico Ugoni e di Giovita Scalvini. Il primo 
letterato distinto che si occupava allora della traduzione dei commentari di Giulio 
Cesare, ed aveva pubblicato tre volumi delle vite di letterati illustri italiani in 
continuazione all’opera del Corniani. Il secondo anch'esso letterato e competen- 
tissimo amatore delle belle arti. 

Nel 1814 caduto Napoleone, il vicerè sciolse l’esercito, composto in gran parte 
d’Italiani, e Giovanni ritornò in patria, dove erasi lasciato libero l'ingresso agli 
austriaci, Egli li vide comparire dalla casa del marchese Guerrieri, portanti un 
ramo di bosso sull’ elmetto e ne provò, com’egli dice, profonda e dolorosa com- 
mozione. 

Da questo momento comincia per l’Italia e per l’egregio uomo un’era tram- 
basciata di foriunosi avvenimenti. 

L'Italia dopo il grande cataclisma francese del 1789 erasi rialzata moralmente 
da quello stato di atonia e di asservimento che dominava gli animi nei tempi 
anteriori, e attutiva o frenava ogni aspirazione di progresso e di libertà. Le vit- 
torie napoleoniche che meravigliavano il mondo e la costituzione del regno d’I- 
talia faceva concepire grandi speranze per l’avvenire della Penisola ; nonostante 
che sotto nomi affascinanti di repubbliche, di progresso, di libertà si nascon- 
desse un dispotismo efferato, un sistema tributario opprimente, enormi sagri- 
fizii ed ogni maniera di conculcazioni che turbavano la coscienza pubblica e se- 
minavano spesso l’abborrimento e il terrore. 

Malgrado ciò la caduta di Napoleone fu appresa in Italia con grave costerna- 
zione, perchè prevedevasi che quel bagliore di libertà che avea adusato gli spi- 
riti più eletti a liberi pensieri e a vaghe speranze doveva mutarsi nella tenebra 
di una esasperante oppressione. 

L'Austria infatti ritorna in Italia con artigli più feroci, e fortificata dalla santa 


6 ELOGIO 


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alleanza dispiega il più abominevole dispotismo sulle terre in cui comandava 
sovrana, e negli Stati sottoposti ai Principi che ubbidivano servilmente ai voleri 
dell'impero, simboleggiato dall'Aquila grifagna. 

D’allora i più ardenti patriotti che videro dileguarsi qualunque raggio di spe- 
ranza, che sentirono la dura repressione del pensiero e della parola, cercarono 
uno sfogo alle loro aspirazioni nelle società segrete, nelle congiure, nelle cospi- 
razioni, nelle rivoluzioni. 

Si organizzarono parecchie sette con modi e nomi differenti; comparvero i Rag- 
gi, i Federati, l’Adelfia, i Carbonari e tutti nell'intento di concertarsi, affin di 
abbattere le tirannie, e conquistare all'Italia l’indipendenza e la libertà. 

E qui comincia la vita politica e perigliosa del Conte Arrivabene. Fin dal 1815 
egli avea contratto amicizia con Camillo Ugoni, col conte Costanzo Luzzago, col 
Berchet , con Silvio Pellico. La Lombardia era la regione che soffriva prima di 
ogn’ altra gli effetti dei mutamenti politici, e Milano fu sempre un focolare per- 
manente di cospirazioni e il centro ove si raccoglievano i patrioti più impazienti, 
i quali mantenendo vivo lo spirito nazionale lusingavansi di liberare l’Italia dal 
giogo straniero. 

Convenivano in casa «del conte Porro gli uomini più animosi: il Gonfalonieri, 
cotanto percosso dalla sventura, il Tecchio, il Borsieri, condannato nel 1824 allo 
Spielberg, Filippo Ugoni, il Mompiani, l’Arconati, il Pecchio e con essi il nostro 
Arrivabene. i 

Fra gli atti generosi ed arditi di quest’accolta di amici fu deliberato di scri- 
vere un proclama patriottico. e diramarlo per tutta l’Italia. L’impresa fu affidata 
all’Ugoni, il quale, messo in sospetto della polizia, prese la via dell’esiglio. 

L’Arrivabene ritornato in Mantova , fu visitato nel maggio 1821 alla sua casa 
di campagna, la Zaita, dalla polizia austriaca, incaricata di rovistare tutte le sue 
carte. Ciò fatto gli fu intimato di recarsi con essa al suo palazzo di Mantova 
onde continuare quivi le ricerche delle carte, e dopo ciò condotto in prigione 
gli fu detto dal direttore di polizia essergli stato ordinato di mandarlo in Ve- 
nezia davanti alla Commissione istituita dall’imperatore per giudicare gli accu- 
sati di carboneria. 

Egli però non era carbonaro, e ciò diminuiva i suoi timori, 

Ritornato alla sua dimora, affine di preparare qualche cosa per la partenza, ei 
poteva fuggire, malgrado la presenza di un Commissario e di due gendarmi, ma 
la coscienza del sentirsi puro lo determinò a seguire le sue guardie, e recarsi 
con essi in Venezia, dove fu chiuso in uno dei piombi del palazzo ducale, e poi 
nell’isola di S. Michele in Murano. 

Io non mi fermerò a ridire l’agitazione che ad ogni istante torturava il nostro 
Arrivabene. Egli soffri un seyero interrogatorio dai giudici processanti che vole- 
vano sapere per primo s’egli avesse mai letto giornali di Napoli e la famosa can- 
zone di Rossetti. 

Un altro capo di accusa per lui fu quello di aver fondato in Mantova nel 1820 


DEL CONTE ARRIVABENE ia 








una scuola di mutuo insegnamento col disegno politico di cattivarsi l’ affezione 
del popolo e trarne partito nei futuri contingenti rivoluzionari. Quella scuola di- 
fatti era stata chiusa poco dopo il suo impianto, per ordine del governo di Mi- 
lano, il quale credeva di aver buono in mano possedendo una lettera con cui il 
benefico fondatore di quella scuola ne facea nota la chiusura ai genitori dei 
fanciulli. 

E dopo quattr’ ore di un penoso c minuto interrogatorio, da cui non poteva 
scaturire veruna reità nella vittima, il Presidente Salvotti vi mette fine con que- 
ste parole: « Pellico le ha confidato alla Zaita di essere carbonaro ; era dovere 
«in lei il denunziarlo al governo, ella nol fece, quindi ella è reo del delitto di 
« non rivelazione (1).» 

E il Conte rispondeva : non doversi denunciare o tradire l’amico e l’ospite; mi 
condannino pure, io non poteva ubbidire a queste leggi, che sono le più immo- 
rali del mondo. E tanta lealtà poteva costargli il carcere a vita con cui punivasi 
allora codesta virtù, che si chiamava delitto. 

L’illustre prigioniero passò parecchi mesi tormentato da interrogazioni penose 
e arroganti, da tramutamenti di prigioni, da sofferenze fisiche e incertezze del- 
l’avvenire, da ricordi angosciosi del suolo natio e dei suoi più cari, da notizie 
tristi e sconfortanti sulle vicende degli amici e della patria. Unico sollievo per 
lui la lettura di buoni libri facendone anche degli estratti per trovare conforto 
allo spirito trambasciato. i 

Una maggiore consolazione fu per lui l’arrivo di un prigioniero nella stanza 
contigua alla sua; era il conte Laderchi di Faenza; e dopo alcuni mesi anche 
l’arrivo di Maroncelli a cui fu conceduto di passeggiare e desinare coi due altri 
prigionieri. 

Il 10 dicembre 1821 il conte Gardani di Mantova presidente della Commissione 
istituita per giùdicare dei carbonari, ed amico ad un tempo della famiglia Arri- 
vabene, annunziò al nostro Conte con accento di gioia, che già era libero e po- 
teva uscire di prigione. 

Qualunque altro uomo a quell’annunzio avrebbe precipitosamente abbandonato 
quel duro ostello per distrigarsi dagli artigli dell’ iniquo e spietato Salvotti, e 
respirare l’aura della libertà; ma la nobiltà dell’animo dell’egregio uomo, pensò 
alla desolazione in cui sarebbero rimasti i due suoi cari amici il Laderchi e il 
Maroncelli; volle restare con essi altro giorno per consolarli, e il dì seguente 
ritornò all’abborrita prigione per desinare coi suoi compagni di sventura. 

Partiva da Venezia dopo quattro giorni per la sua terra natia, ma la gioia del 
ritorno gli veniva amareggiata dalla notizia dell’arresto in Milano del conte Gon- 
falonieri, del marchese Pallavicini e di Gaetano Castiglia. 

Egli si fermò alcuni giorni a Mantova dove fu accolto festosamente dai pa- 





(1) Questo delitto era punito col carcere a vita. 


8 ELOGIO 


renti, dagli amici, dall’intera popolazione che avea provato e ammirato gli effetti 
della sua beneficenza. Ma esso è anzioso di conoscere la sorte dei suoi compagni, 
nei rigori spiegati dal governo. E quindi nel gennaro del 1822 recossi in Milano, 
e prima fra tutti corse a far visita alla contessa Confalonieri, la quale veden- 
dolo, gli disse: Arrivabene fugga l’Italia. Queste parole rivelavano il timore del- 
l’esimia donna pel probabile arresto di tutti coloro che avessero parlato della 
rivoluzione piemontese col marito di lei. 

È nolo come in quel tempo di pace le idee liberali si alimentassero e si dif- 
fondessero in tutta Italia a mezzo delle società segrete, le quali quanto più du- 
ramente compresse tanto più fermentavano. 

Gli avvenimenti della Spagna concitarono gli animi e la Società dei carbonari 
si agita a preparare una rivoluzione simile a quella di Spagna e assicurarsi del 
favore dell’esercito. 

Nel mese di luglio 1820 scoppia quasi contemporanea la rivoluzione: in Na- 
poli il 2 e in Sicilia il 14 luglio ; ed entrambe al grido di viva la costituzione, 
inalberando il vessillo tricolore negro, azzurro e vermiglio, sotto del quale fra- 
ternizzavano soldati e popolo nell’istesso desiderio di libertà e d’ indipendenza. 

Codesti avvenimenti accesero vieppiù dappertutto lo spirito liberale e rifor- 
matore. 

Dapprima sollevaronsi i principati di Benevento e di Pontecorvo che si costi- 
tuirono in repubbliche indipendenti, mentre il torrenie rivoluzionario procedeva 
minaccioso nelle altre regioni della Penisola, dove il cavbonarismo liberale at- 
tendeva l’istante propizio per esplodere e trionfare. 

Un movimento simile a quello di Sicilia e di Napoli divampa nel Piemonte, 
i presidii di Alessandria e di Fossano insorgevano colla stessa bandiera procla- 
mando la costituzione spagnuola, e il Santarosa pubblicò a Carmagnola il primo 
manifesto di una confederazione italiana. 

La ferrea mano dell’Austria schiaccia sventuratamente le schiere liberali e ri- 
staura il potere assoluto nel Piemonte. 

La repressione fu feroce per quanto era stato grande il timore e il pericolo di 
vedere abbattuto e sconfitto il dispotismo, e le persecuzioni e le vendette co- 
strinsero i più fortunati a cercare rifugio nell’esiio in lerra straniera. 

Il nostro Arrivabene compromesso per le sue relazioni intime con lo Scalvini, 
il Mompiani, il Borsieri ed altri cospicui liberali considerati come capi e promo- 
tori delle idee rivoluzionarie in Lombardia, abbandona Milano e ritorna alla sua 
casa di Mantova col fondato presentimento che la polizia austriaca, sospettosa e 
diffidente, informata di alcune circostanze che lo riguardavano lo avesse giudi- 
cato come settario e cospiratore. 

Egli infatti manteneva corrispondenze col Niccolini e il Capponi in Toscana ed 
altre in Milano discutendo sulla rivoluzione di Napoli; ospitava in sua casa il 
Pellico e la famiglia Porro; era intimo coll’Ugoni, col Gonfalonieri, col Pecchio, 
col Mompiani; egli avea preparato i quadri d’una guardia nazionale e designato 


e O 


DEL CONTE ARRIVABENE 9 





le persone che potevano formare una Giunta provvisoria di governo in Mi- 
lano. 

Egli infine, trovandosi infermo Gonfalonieri capo dei federati di Milano, era 
stato da costoro invitato a sottoscrivere il proclama da pubblicarsi all’ ingresso 
dei piemontesi in quella città. 

Tutte queste circostanze dovevano turbare lo spirito di Arrivabene, per cui gli 
parve prudente di lasciare l’Italia, allorchè seppe l'arresto dei suoi più cari amici 
e compagni di aspirazioni politiche. 

E con lui abbandonavano la patria infelice lo Scalvini e |’ Ugoni e tutli pre- 
sero la via della Svizzera, il 9 aprile 1822. 

Si può comprendere le ambasce , i pericoli, i timori, le anzietà, i disagi, il 
cordoglio del penoso viaggio di questo gruppo dì emigranti, prima che avesse 
toccato una terra straniera. 

Giunti alla perfine a Poschiavo si dirigono per Ginevra, dove Pellegrino Rossi, 
il Sismondi ed il Bonsteten presero un vivo interesse della sorte loro. 

Intimati a partire da quella città, il Sismondi indirizzandoli al ministro in- 
glese in Berna, fe loro sperare che avrebbero ottenuto da lui un passaporto per 
la Francia e per l'Inghilterra ; il ministro si negò; e fu ventura del nome loro, 
della cagione del loro esilio volontario se l’ottennero dopo, mercè l’amicizia di 
uomini virtuosi che si adoperarono efficacemente per sottrarli da ogni pericolo. 

Il 10 agosto 1822 il conte Arrivabene giunge in Parigi col suo compagno Scal- 
vini. Distratti amendue dalle meraviglie di quella metropoli, quasi dimenticavano 
la loro infelice condizione, ma dopo alcuni giorni recatisi al gabinetto letterario 
del Galignani, l’Arrivabene legge nella Gazzetta di Milano l'atto di accusa di de- 
litto di alto tradimento diretto contro di lui e di altri otto contumaci, e l’inti- 
mazione di comparire dinanzi la Commissione di Milano entro sessanta giorni 
con minaccia di sequestro dei suoi beni se non si fosse presentato nel termine 
prescritto. 

Per salvare i suoi beni ei si rivolge dapprima al Dupin e poscia al Teste, che 
gli fu generoso di ogni sorta di aiuto, quantunque l’ Arrivabene accettasse sol- 
tanto l’opera sua come avvocato. 

Pervenne intanto la seconda citazione, dove il delitto di alto tradimento ve- 
niva per lo Arrivabene indicato nei seguenti sensi: « Avere egli fatto parte di 
«una combriccola nella quale si conchiuse che la guardia nazionale e la giunta 
«si attiverebbero nel momento dell’ invasione piemontese; che allora si procla- 
« merebbe la costituzione di Spagna e facendosi causa comune col nemico si 
«ecciterebbe la popolazione di questo regno ad armarsi contro il legittimo go- 
«verno austriaco e che si sarebbero infrattanto mandati deputati a Torino onde 
« accordarsi coi cospiratori piemontesi sulle operazioni da farsi in questo paese. 
« Essersi lo Arrivabene incaricato delle operazioni necessarie in Mantova onde 
« promuovere l’esito della cospirazione avendo anche a questo scopo sborsalo una 
« considerevole somma di denaro, » 


2 


10 ELOGIO 


Le cose asserite in questa citazione non erano tutte fondate sulla verità. ma 
il nostro Conte trovò necessario di lasciare la Francia verso la fine del 1822 e 
di recarsi in Inghilterra dove parevagli di vivere più liberamente e più sicuro. 
Di là apprese che nell’autunno del 1823 fu posto il sequestro ai suoi beni, e che 
il 21 gennaro 1824 era slato condannato in contumacia alla pena di morte. 

Codeste notizie dileguarono dal suo spirito qualunque speranza di ritornare in 
patria, e rassegnavasi a scorrere il resto della vita in terra straniera. 

E qui ponghiamo termine agli accenni concernenti le vicende politiche e tem- 
pestose dell’Arrivabene, e vogliamo adesso ravvisarlo come scrittore di cose eco- 
nomiche ed agrarie, rilevando il suo ingegno e le sue opere , le quali addimo- 
strano abbastanza l’elevatezza della sua mente e le virtù dell’animo suo. 


Trovandosi in Inghilterra, il solo paese che offriva allora agli esuli lo spetta- 
colo confortevole della vera libertà, e dove le numerose opere di beneficenza 
presentavano un esempio edificante sui mezzi di lenire la miseria delle classi 
disagiate, lo Arrivabene, disperando di vedere la patria libera e indipendente, 
attese allo studio degli espedienti, coi quali potevasi, mercè l’educazione, suscì- 
tare la virtù del popolo e mitigarne le sventure. 

L’Arrivabene contava allora 41 anni di età, e sebbene sin dalla sua giovinezza 
avesse coltivato la mente di severi studii, pure non avea pubblicato alcun la- 
Voro. 

Quattro anni della sua dimora in Inghilterra bastarono, egli diceva, ad attac- 
cargli il contaggio del lavoro. E quindi si occupò di un’opera: Sulle istituzioni di 
beneficenza della città di Londra, studiandone lo scopo e gli effetti salutari sulla 
condizione delle classi povere, e raccogliendone prezioso insegnamento. Nel 1828 
ne pubblicò a Lugano il primo volume, e sia per modestia, sia per dare al suo 
libro un facile corso in Italia, lo mise fuori senza nome; per la qual cosa venne 
attribuito dapprima a Giuseppe Pecchio, egregio storico degli economisti italiani, 
e compagno di esilio di Arrivabene. 

L’opera fu accolta con entusiasmo in Italia, ed io mi astengo dall’ esprimere 
su di essa una qualsiasi opinione, perchè sembrami assai più onorevole per l’au- 
tore di riportare qui alcune parole di un lungo articolo col quale venne giudi- 
cata dal rinomato economista Pellegrino Rossi, 

« Ecco un piccolo volume (diceva il Rossi) che noi segnaliamo con piacere al- 
l’attenzione dei nostri lettori. È questo un libro in cui si parla di filantropia 
senza declamazione e dell’ applicazione dell’ economia politica alla vita umana, 
senza considerare l’uomo come una semplice macchina o come una cifra. È que- 
sto un merito poco comune. L’autore, nel suo lungo soggiorno in Inghilterra è 
stato colpito dell’attività prodigiosa della carità privata, che si mostra sotto tutte 
le sue forme. : 

«In nessuna. parte si trovano in così gran numero fatti di tal genere da rac- 
cogliere e da osservarsi come a Londra, ed il libro che noi annunciamo ci sembra 


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DEL CONTE ARRIVABENE 11 





un’ eccellente guida per queste ricerche. Nessuno avrebbe potuto riunire in si 
piccol volume una maggior quantità di cose con più precisione e chiarezza. 

«Le considerazioni più importanti vi sono il più delle volte indicate solo da 
qualche parola, in modo tutto naturale, ma che pure colpiscono e fanno pensa- 
re. Si vede che è libro di un uomo onesto, di un filantropo illuminato, le cui 
idee sono tanto sagge e chiare, quanto l’espressione è semplice e corretta » (1). 

E svolgendo il Rossi tutto ciò che trovasi esposto in questo volume soggiunge: 
« Non è possibile offrire un riassunto del libro che abbiamo sotto gli occhi. 
Ciascuno stabilimento, ha un articolo a parte, in cui si trova quasi sempre l’ori- 
gine della fondazione, i mezzi di stabilirlo, il suo svolgimenlò, i metodi in vi- 
gore, i risultati ottenuti, gli ostacoli incontrati, la somma delle rendite e delle 
spese, il numero degli individui sussidiati, le opinioni che si sono pronunziate 
pro e contro lo stabilimento; in una parola tuttò ciò che è necessario per for- 
marsi un criterio chiaro, per riconoscere quali sieno le istituzioni meritevoli 
d’encomio, quali quelle che bisognerebbe guardarsi dall’imitare. » 

Il giudizio autorevole di Pellegrino Rossi, incoraggiò l’Arrivabene a continuare 
i suoi studii sulla condizione delle classi disagiate e sui mezzi atti a sollevarne 
la miseria. Pertanto nel 1829 visitò le colonie dei mendicanti vagabondi in Olan- 
da e nel Belgio, e ne pubblicò tosto una relazione in francese, la quale fu dopo 
recata dall'autore nella nostra favella e stampata a Lugano. Egli predisse ciò che 
poi accadde ; la difficoltà di esistenza di quegl’ istituti fondati sopra una terra 
sterile che poteva fornire ben poco sviluppo al lavoro dei coloni. 

Di questo lavoro il Pellico gli scriveva le seguenti parole, da Torino il 3 apri- 
le 1843. « Ho letto con vero gusto la tua esposizione statistica del Belgio. Oltre 
alla soddisfazione della mia curiosità, ho provato quel piacere che danno gli 
scritti dei valentuomini d’animo buono. Tutto nei tuoi persieri mi è simpatico, 
senza eccettuare il tuo cenno di amicizia al Piemonte. » 

Nel 1832 comparve in Lugano il secondo volume dell’opera sulle istituzioni di 
beneficenza; e nel medesimo anno un altro libro, scritto dapprima in francese e 
poi in italiano Sui mezzi atti a migliorare la condizione degli operai. 

In quest opera egli svolse con molta dottrina le questioni più ardue, conci- 
liando la purità della scienza economica col bisogno della carità illuminata e 
sorretta dal lavoro. L’Arrivabene in questo genere di studii precorse gli seritti 
di Villermè, del Fix, del Ducpetiaux, dell’Audizanne, del Reybaud e di molti altri 
eminenti scrittori che comparvero posteriormente. 

Nel 1833 il Parlamento inglese voleva preparare una riforma della tassa dei 
poveri. A tal uopo istituiva una commissione parlamentare nel fine di raccogliere 
notizie sull’obbietto, e della quale faceva parte l’egregio economista W. N. Senior. 
Costui si rivolse al suo amico Arrivabene pregandolo a dargli conto del modo con 





(1) Bibliothèque universelle de sciemces, ecc. Genève janvier 1829. 


12 ELOGIO 








cui la faccenda dei poveri era regolata nel Belgio. L’Arrivabene per rispondere 
adequatamente al desiderio dell’illustre amico compilò una statistica del comune 
di Gaesbeck ov’egli passando gran parte dell’anno, aveva potuto studiare siffatto 
problema. L’opera di lui fu cotanto apprezzata dalla Commissione d’inchiesta che 
venne inserita per intero negli atti del Parlamento brittannico. 

E in questo medesimo anno, seguendo il consiglio di Pellegrino Rossi, l’Arri- 
vabene attese a volgere nell’italica favella gli elementi di economia politica del 
Mill, padre del rinomato Stuart-Mill e aggiungendovi una dotta prefazione li met- 
teva in luce in Lugano. 

Intanto il Senior, confidando nell’operosità del suo amico, gli affidava il ma- 
noscritto delle lezioni di economia politica da lui stesso dettate all’Università di 
Oxford , e l’Arrivabene le volgeva in francese e le pubblicava a Parigi nel 1836 
facendole precedere del pari da una splendida introduzione. 

Nel 1847 lo Arrivabene si adopera a riunire in Bruxelles il primo Congresso 
degli economisti onde trattarvi specialmente l’argomento della libertà del com- 
mercio, il quale dopo la lega di Cobden e le riforme del Peel era il tema più 
vitale del tempo. V’intervennero i più rinomati economisti del mondo, e l’Arri- 
vabene, che aveva tanto contribuito a promuovere un tale Congresso si ebbe gli 
onori della Presidenza. 

E poscia colla cooperazione del Molinari riusciva ad organizzare la Società belga 
di econemia politica, la quale da lui preseduta e diretta acquistò ben presto una 
grande riputazione pei suoi importanti servigi resi al principio del libero cambio 
e per avere con la sua influenza liberato il Belgio della piaga economica del 
dazio consumo. 

Verso il 1839 recatosi per circostanze particolari, nel Cantone Ticino soggiornò 
parecchio tempo in Vira-Magadino dove mettendo a profitto le ore disoccupate si 
rivolse a descrivere la condizione economica di quella piccola popolazione. Un la- 
voro pregevolissimo comparve intanto nella Revue étrangére et francaise de legisla- 
tion et d’economie politique, (settembre e ottobre 1839, dal titolo: De Pétat des tra- 
vailleurs dans la commune de Vira-Magadino-Canton du Tessin. 

Questo lavoro, che poi fu riprodotto in Bruxelles nel 1840, ha lo stesso scopo 
di quello fatto pel comune di Gaesbeck ; esso contiene preziose ed abbondanti 
notizie statistiche di quel comune, ed è preceduto di una stupenda rassegna ge- 
nerale del Cantone, sulla forma del governo, sulle leggi civili e penali, I’ orga- 
namento giudiziario, le leggi militari e comunali, quelle sull’istruzione, i metodi 
per la distribuzione dei soccorsi ed altre circostanze che influiscono sulla popo- 
lazione di un comune. 

È rimarchevole la conclusione di questo lavoro, in un momento, in cui la fede 
comunista ferveva nella Francia col Saint Simon, col Furier e cento altri. « Che 
si ricerchi pure, egli diceva, l’utopia dell’ uguaglianza delle fortune, ma coloro 
che crederebbero di averla trovato non pretendano mica di imporla con la forza 


al resto degli uomini. Ciò che noi sappiamo si è che per migliorare la società 


DEL CONTE ARRIVABENE 13 


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vi ha dei mezzi conosciuti e sperimentati che giovano a temperare la situazione 
di tutti i popoli, e questi mezzi sono: la religione, la libertà, l’educazione e l’i- 
struzione, e noi facciam voti perchè coloro che son chiamati ad attuare siffatti 
mezzi lo facciano con discernimento e con perseveranza. » 

E in proscritto , a proposito di una insurrezione popolare del Canton Ticino, 
diceva queste parole: Un partito politico non avrà superiorità sopra un altro che 
per quanto si conformi più strettamente alle leggi della morale, della giustizia 
e dell’umanità. 

L'influenza dell’imposia fondiaria sul prezzo dei prodotti agricoli è una delle 
più complesse questioni della scienza, perchè vuol’essere studiata sotto il rap- 
porto economico, finanziario ed agricolo. 

Adolfo Thiers nel suo trattato sulla proprietà avea sostenuto che tale imposta 
altera il prezzo dei prodotti. L’illusire storico della rivoluzione e dell’impero, non 
avea profonde vedute sulla scienza economica, e lo Arrivabene colpito dell’ ine- 
sattezza delle affermazioni del Thiers, scrisse nel 1850 una dotta memoria sulle 
relazioni fra l’imposta fondiaria e il prezzo dei prodotti agrarì e analizzando sot- 
tilmente i fenomeni della produzione agricola, mostrò la necessità dell’imposta 
e l’errore economico del Thiers, determinando i limiti dove convenga restringere 
siffatto tributo, onde non essere di ostacolo alla divisione delle terre e al pro- 
gresso dell’agricoltura. 

Nello stesso anno l’Arrivabene dettò in francese e poscia in italiano una me- 
moria sulle industrie agricole e manifattrici considerate nei loro rapporti con la 
protezione. 

Qui l’autore dispiega tutta la sua energia ed una logica stringente a dimo- 
strare l’evidenza della dottrina del libero scambio, ch’egli chiama legge neces- 
saria per condurre la produzione all’apice della sua grandezza, per vedere la mi- 
seria più largamente soccorsa ed appagato il desiderio di una estesa e conve- 
niente agialezza. 

E adesso dirò qualche cosa della memoria sulla ieoria della rendita, pubblicata 
pure da lui in francese e poi in italiano nel medesimo anno. 

L’Arrivabene in questo lavoro prende rango fra i più eminenti economisti dei 
tempi nostri. 

Allorquando David Ricardo scrisse della rendita parve che avesse annunziato 

‘una grande verità, e fu quasi generalmente accettata dagli economisti come un 
domma economico. 

Egli avea sostenuto che soltanto l’ industria agraria somministra una rendita 
netta, oltre al profitto del capitale, e alla mercede degli operai; poichè in questa 
industria ci è un fattore, la terra, che non essendo ugualmente ubertosa ad uguali 
spese, e ad uguali estensioni, fornisce un prodotto maggiore dove presentasi più 
feconda alla mano dell’ uomo. Questo prodotto eccedente che sorpassa la tassa 
comune del profitto e della mercede fu chiamato rendita dall’inglese economista, 
facendola considerare come un privilegio della proprietà fondiaria, il quale non 


14 ELOGIO 


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ritrovasi nelle altre industrie, dove secondo lui ricavasi soltanto, la compensa- 
zione del profitto del capitale e della mercede del lavoro. 

E il Ricardo, supponendo che il dissodamento succede dalle terre più fertili alle 
più sterili, e che il prezzo dei prodotti debba sempre più elevarsi onde fornire al 
coltivatore meno felice la compensazione del profitto e della mercede, afferma che 
questo fenomeno riesce a beneficio dei proprietarî di terre migliori e a danno 
della massa dei consumatori. 

L’americano Carey, che pure non va esente di molti errori economici, attaccò 
pel primo codesta teoria, sostenendo che la coltura delle terre non cominciò dalle 
più fertili, siccome disse Ricardo , ma dalle più facili a dissodare e dalle più 
prossime ai centri di consumazione. 

Questa diversità di parole non distrusse la teoria ricardiana, poichè il Carey 
affermando che la coltura comincia dalle terre più facili o più vicine ai centri 
popolati, implicitamente riconosceva derivare la rendita dall’azione della natura 
e dalla differenza nell’ubertà della terra. 

L’Arrivabene è più felice nel combattere siffatta teoria. Egli dimostra fulgida- 
mente che l’ ineguaglianza nella potenza produttiva non è soltanto nei terreni, 
ma è una legge naturale che si rivela in tutti gli agenti materiali e immate- 
riali che concorrono alle produzioni. Che d’altronde la coltura delle terre non 
si svolge inesorabilmente dalle più feconde alle più sterili, e che la produzione 
non è sempre decrescente e in guisa da assicurare la rendita ai proprietari più 
fortunati. 

La fecondità delle terre essere invece un fenomeno variabile più o meno in- 
teso delle altre cause fecondatrici che emendano e migliorano il suolo, o che 
trasformano le condizioni concomitanti, come ie macchine, la viabilità e tutt'altro 
che può influire ad acerescere la produzione e il prezzo della medesima, mal- 
grado l’inferiorità produttiva della terra, locchè rende fallace la teoria di Ricardo. 

Egli provò conseguentemente che la rendita non è un’eccezione o un privilegio 
derivante dal monopolio della proprietà terriera, ma è invece un fatto generale che 
si riscontra in tutte le industrie dalle quali ricavasi un prodotto che fornisce un 
livello comune di profitti e di salarî, è una parte eccedente che costituisce la 
rendita dell’intraprenditore, locchè dipende da un complesso di circostanze eco- 
nomiche, morali ed intellettuali che nell’uno possono trovarsi superiori a quelle 
di un altro. 

Per tali svolgimenti la teoria della rendita di Arrivabene diviene più conso- 
lante di quella di Ricardo, la quale ha potuto influire ad eccitare le gelosie delle 
classi non abbienti, e gli odì dei socialisti contro la proprietà fondiaria. 

Su questa ‘teoria e colle medesime vedute dello Arrivabene, un economista 
francese , il Boutron, scrisse nel 1867 una memoria che meritò di essere pre- 
miata dall’Accademia di scienze morali e politiche, sezione dell’Istituto di Francia. 

È siccome pareva ch'egli avesse tenuto poco conto della dottrina esposta ugual- 
mente parecchi anni prima dall'Arrivabene, costui volle avvertire la precedenza 


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DEL CONTE ARRIVABENE 15 








del suo pensiero, in una lettera diretta al Journal des économistes, la quale com- 
parve nel fascicolo di ottobre 1868. 

Quando io pubblicai nel 1862 il secondo volume della mia opera La scienza 
dell'ordinamento sociale, vi esposi pure la teoria della rendita territoriale nel modo 
stesso con cui l’ aveva svolto dalla cattedra sin dal 1845. Io allora non aveva 
avuto la fortuna di conoscere il succitato lavoro dell’Arrivabene. Allorquando lessi 
nel giornale degli economisti la lettera di lui sul lavoro del Boutron, essa dis- 
sipò ogni dubbio sulla mia temerità di aver combattuto la teoria di Ricardo. 

Anzi soggiungo, con tutta sincerità che io provai un grande compiacimento, 
allorchè osservai che la teoria desolante e pericolosa del Ricardo era stata non 
solo confutata da un professore ignoto, ma ben pure da dune eminenti econo- 
misti, l’Arrivabene e poi il Boutron, i quali aveano del pari considerato la ren- 
dita siccome un terzo elemento del valore, distinguendola dalla retribuzione del 
lavoro e dal protitto del capitale. E questa nuova dottrina veniva approvata dal- 
l’Istituto di Francia per la parola autorevole e competente del rimpianto Ippolito 
Passy. 

E poichè ho citato il giornale francese degli economisti, debbo dire che lo 
Arrivabene, secondo l’espressione dell'illustre Garnier, era stato uno dei primi col- 
laboratori di quella dotta effemeride (fascicolo di gennaro 1881), ed io attinsi in 
questo giornale preziose idee dagli articoli di Arrivabene. E se per la teoria della 
rendita ebbi a provare il compiacimento di averla svolto coi medesimi criteri 
dell’ illustre scrittore, posso anche ricordare che parecchie volte egli fu citato 
nella mia opera, nel fine di avvalorare col suo nome qualche mia opinione che 
parevami arrischiata. 

Così a pagina 14 del primo volume messo fuori nel 1859, parlando delle varie 
definizioni della scienza economica, io soggiungeva : «Il conte Arrivabene ha de- 
plorato amaramente il vago, l’oscurità, l’incoerenza, la insufficienza sovrattutto 
delle definizioni azzardate dei maestri della scienza. » E così ancora a pag. 421 
egli è citato insieme col Dunoyer e col Woloski nella questione concernente i 
metodi per la transizione dal regime protettore a quello della libertà commer- 
ciale. 

Molti altri scritti dello Arrivabene trattano di alcune leggi ed istituzioni del 
Belgio, dov’ egli avea fatto lunga dimora dopo il suo esilio. Fra questi scritti è 
rimarchevole una memoria sul dazio consumo (octroi) e sulla sua abolizione de- 
cretata dal Parlamento, conforme alla proposta del sapiente ministro Frère- 
Orban. 

L’ Economiste francais diede il più soddisfacente giudizio di questo lavoro di 
Arrivabene, il quale fu il primo fra gli italiani che dimostrò l’importanza di sìf- 
fatte liberali riforme. 

Pregevolissimo è pure il lavoro pubblicato nel 1855 dal titolo, Dell’ economia 
rurale in Inghilterra, in Iscozia e in Irlanda. E sebbene egli imprendesse a far co- 
noscere il Saggio sull’economia rurale di codesti paesi, scritto da Leonce de Lavergne, 


16 ELOGIO 


pubblicato nel 1854, (1) pure vi aggiunse tanto del suo, che si può considerare 
come un’opera originale corredata di peregrine notizie sulle cause che hanno 
influito al progresso dell'agricoltura nella Gran Brettagna. 

Parecchie altre memorie di argomento economico, brevi ma succose, rivelano 
sempre più la costanza dei principii e la dirittura della mente di Arrivabene ed 
accrescono splendore al suo nome. 

Così nel 1856 scrisse: Delle tendenze in Europa e particolarmente nel Belgio verso 
le riforme economiche, ove dimostrò fulgidamente i beneficì della libertà commer- 
ciale. Nel giornale La Lucciola dava conto del sistema della fognatura conside- 
randolo come utilissimo a rendere asciulti i terreni troppo umidi, come pure 
di nuove macchine agrarie pella battitura del grano. Trattò della povertà e della 
miseria nel 1858; e passando a rivista una serie d’istituzioni beneficenti e filan- 
tropiche aventi lo scopo di alleviare le umane sciagure, non tralascia di racco- 
mandare il savio principio: che la carità nell'adempimento della sua santa missione 
debba guardarsi dallo spegnere o anche dal menomare nel povero il sentimento della 
propria risponsabilità. 

Nel 1859 scrisse in Bruxelles: Del superfluo. Questa memoria ha stretta rela- 
zione con quella sulla povertà e la miseria, e fa rilevare con belle dimostrazioni 
come la civiltà e l’educazione fa scomparire il lusso smodato e ridicolo, e lascia 
il superfluo che giova alla vitalità e al progresso delle industrie. 

Allorchè nel 1863 agitavasi la questione della rinnovazione dei trattati di com- 
mercio, egli diresse una lettera al senatore Scialoja, sul trattato fra l’Italia e la 
Francia dichiarandosi favorevole a queste commerciali stipolazioni, avvalorando 
la sua opinione con savie ed opportune osservazioni e coll’esperienza dei risultati 
utili di codeste convenzioni internazionali. 

Il signor Nassau William Senior commissario per le ricerche sulla educazione 
popolare in Inghilterra nel 1861 dettava un’ opera col modesto titolo: Suggeri- 
menti intorno all’educazione popolare in Inghilterra. Lo Arrivabene volle dare un 
ragguaglio di questo lavoro; ma si può affermare di averne fatto più che una 
semplice esposizione, una vera memoria originale poggiata sulle parole di Tocque- 
ville « Istruite gli uomini ad ogni costo, perchè io vedo accostarsi il tempo in 
cui la libertà, la pace e l’ordine sociale stesso non possono dispensarsi del sa- 
pere. » Lo Arrivabene passa a rassegna i metodi e le pratiche dello insegnamento 
elementare in diversi paesi e precisamente dell’ Inghilterra, e plaudendo per la 
gravità del bisogno all’intervento dello Stato, dichiarasi nondimeno avverso a 
qualunque legge obbligatoria per l’istruzione. 

Nel 1861 egli faceva una completa esposizione di un’ opera di Leonce de La- 
vergne intitolata: Economia rurale della Francia dal 1789 in poi. E qui pure il 


(1) Essai sur l’Economie rurale de l’Angleterre, de l’Ecosse, et de l’Irlande — Guillau- 
min et C. 


DEL CONTE ARRIVABENE 17 


nostro illustre Socio, con qnella nobile ed affettuosa fierezza d’italiano, confron- 
tando le pratiche agrarie della Francia, dell’Inghilterra, del Belgio, se da un canto 
è costretto a confessare l’inferiorità del nostro paese in fatto di agricoltura, dal- 
l’altro investigandone le cagioni più spiccate le fa precipuamente rimontare alle 
sue passate condizioni politiche, associandosi alle seguenti parole di Arturo Joung, 
scritte nel 1788. 

« Se l’Italia dotata di possenti magnifiche città, splendida per bellezze artistiche 
« impareggiabili, solcata da canali, tanto per la navigazione che per l’irrigazione, 
«e da stupende strade , fornita di copiose rendite pubbliche venisse ad essere 
« unita sotto un solo scettro essa prenderebbe posto fra le prime potenze d’Eu- 
«ropa » (1). 

Il Parlamento belga nel 1860 decretò l’abolizione del dazio consumo sulla pro- 
posta del sapiente ministro Frere-Orban. Nessun paese aveva allora pensato ad 
abbattere un tale ostacolo alla libera circolazione dei prodotti nazionali. 

La legge che aboliva l’octroî, per la sua importanza e per la varietà degli ele- 
menti che la informavano e la rendevano di non facile intelligenza attirò l’ at- 
tenzione di Arrivabene, il quale volle darne conto in un lavoro per quanto breve 
altrettanto sennato. 

È notevole che il ministro Frère-Orban, allorquando fu votata la legge a 18 lu- 
glio 1860, uscendo dalla Camera corse alla casa di Arrivabene per annunziargli 
la vittoria riportata, conoscendo quanto interesse egli prendeva alle riforme libe- 
rali di quel paese da lui considerato come la sua. patria adottiva. 

Un’ altra legge belga pubblicata nel 1866 sulla miseria, il vagabondaggio e i 
depositi di mendicità , diè pure all’Arrivabene l’occasione di un altro lavoro su 
tale argomento. 

Secondo le sue abitudini egli somministra le più diligenti notizie sopra il po- 
verismo nel Belgio, nell’ Inghilterra ed in altre città, e dappertutto addimostra 
l’insufficienza e il danno delle leggi che intendono a regolare e legalizzare la 
carità e le istituzioni che mirano a combattere direttamente l’indigenza. 

Gli umanitarii dei nostri tempi, che non sempre posseggono la potenza istin- 
tiva della filantropia dello Arrivabene potrebbero meditare su queste parole, colle 
quali ei conchiudeva il suo lavoro. « Non vi ha forza di leggi, non vi ha nulla 
che possa impedire la mendicità; ma possono temperarla e distruggerla le leggi 
che sanno imprimere un vigoroso impulso al progresso morale e materiale dei 
popoli, che vicendevolmente si confondono e si aiutano, e con esse le imposte 
moderate ed equamente ripartite, e poi tutti quei trovati della scienza che fa- 
cendo evidente la risponsabilità dell’individuo riescono a correggere e a mitigare 
la piaga della mendicità. » 

In tutte coteste opere l’ Arrivabene mirava sempre a indagare i rimedii per 
migliorare lo stato delle classi povere. E come dice il suo amico prof. Ranzoli ; 


(1) Voyage en Italie et en Espagne par Arthur Joung, traduction de M. Lesage. Paris, 
Guillaumin 1860. 3 


13 ELOGIO 


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è questo l’ ultimo fine delle sue fatiche, la nota dominante in tutti i suoi la- 
vori. A 

Tre anni or sono, allorchè trattavasi alla Camera dei deputati la grave que- 
stione del macinato, il senatore Arrivabene scrisse una lettera al Minghetti colla 
quale dando uno sguardo rapido sullo stato presente dell’Italia, in poche pagine 
manifestò pensieri così elevati, tanto sotto l’aspetto politico come su quello fi- 
nanziario da lasciar molto a meditare su questo difficile argomento. 

Oltrepassati i novant’ anni, imprende a pubblicare nel 1879 coll’energia e col 
brio di una mente giovane: Le memorie della mia vita. Nel primo volume vi com- 
prende il periodo dal 1795 al 1859. Egli avea sin dal 1838 dato alla luce in Bruxel- 
les, una parte di queste memorie, dal titolo: Intorno ad un’epoca della mia vita— 
Memorie di un esule — Appena comparvero esse riscossero le più favorevoli acco- 
glienze; furon tradotte in francese, in inglese e in tedesco, e il Gioberti ne dava 
il seguente giudizio in una lettera al prof. Carina. 

« Lo scritto di Arrivabene è divino ; io vi trovai un solo difetto, ed è quello 
« di vederlo così presto finito. Provai un gusto grandissimo nel leggerlo, lo stile 
« è chiaro, spontaneo, grazioso. 

« L'autore dimostra una immaginazione potente. Hai tu notato quelle gentili 
« descrizioncelle ? Io certamente ho sempre amato e stimato l’ uomo e |’ autore 
« nel nostro Arrivabene; ma ti dichiaro che dopo la lettura di quello scritto lo 
«amo e lo stimo di più.» x 

Adesso il primo volume delle sue memorie è una storia completa, è l’epopea 
della sua vita; pochi conoscono quel libro, e pochi l’ han potuto giudicare. La 
narrazione della sua vita è uno dei periodi più tempestosi della storia moderna 
d’Italia. 

Il lettore sente di trovarsi con lui nei suoi viaggi per la Svizzera, l'Inghilterra, 
la Francia, il Belgio, l'Olanda. La gran copia e l’acutezza delle sue osservazioni, 
le forme semplici e pure, i giudizi savi e coscienziosi, le sincere rivelazioni del- 
l'animo suo, la descrizione di tante vicende e di tanti costumi, la conoscenza di 
tanti uomini illustri, esercitano sul lettore un fascino così ineffabile, che giunto 
alla fine del libro pare come distaccarsi da un amico carissimo con cui sì è fatto 
insieme un viaggio lungo ed istruttivo. 

Io lo vidi a 92 anni in Roma che rivedeva le prove di stampa di questo vo- 
lume con l’attenzione e la diligenza di un giovane scrittore, e mi diceva che 
disperava di poter fare altrettanto pel secondo. 

E di fatti non potè pubblicare quest’altro volume in cui narra l’ultimo periodo 
della sua vita dal 1859 al 1877; egli sentiva il peso degli anni e dubitava di ve- 
derlo dato alla luce. 

‘ In una lettera del 20 novembre decorso scrivevami: Lavoro alla seconda parte 
delle memorie, ma temo di non poterla finire. 

Fortunatamente egli lasciò il manoscritto al suo carissimo e nobile nipote il 
conte Silvio Arrivabene, il quale lo regalerà all’Italia probabilmente dentro que- 
st’anno. 


DEL CONTE ARRIVABENE. 19 


Io non dirò di altri opuscoli e dei copiosi articoli pure importanti ch’ egli 
pubblicava sui giornali francesi e belgi che ambivano di fregiare le loro pagine 
del nome dell’eminente scrittore di cose economiche ed agrarie. 

Egli non fu certamente un genio straordinario, ma se non gli fu dato di se- 
gnalare nuovi orizzonti e d’imprimere novelle direzioni alla scienza, nella quale 
fu maestro valentissimo, pure si ebbe il genio della libertà, e della beneficenza. 
Il suo sincero e virtuoso patriottismo, la fede incrollabile nelle verità scientifi- 
che, il sentimento profondo e modesto della carità, sono tali pregi che rara- 
mente si trovano congiunti in una sola persona; un solo di questi titoli rende- 
rebbe un uomo rispettabile e generalmente ammirato. 

E di fatti il sapere di questo uomo insigne, la nobiltà del suo carattere e le 
sua sincera filanlropia gli meritarono la considerazione di tutti coloro ai quali 
fu dato di conoscerlo personalmente. 

La famiglia del conte Arconati che migrando dall’ Italia recavasi nel Belgio 
nel 1827, invitava lo Arrivabene a raggiungerla, ed essa divenne la sua famiglia 
adottiva. Ei fece stanza dapprima nel castello di Gasbeech appartenente agli Ar- 
conati, e dopo il 1829 stabilivasi a Bruxelles, dove i proscritti di tutti i paesi non 
erano punto molestati. 

A volte lasciava il Belgio pei suoi viaggi d’ istruzione nel fine di raccogliere 
notizie che potessero giovare a lenire la condizione delle classi disaggiate, e do- 
vunque recavasi acquistava intimi rapporti di amicizia con gli uomini piùillustri 
del suo tempo. 

Pertanto a lui non mancarono onoranze di ogni maniera. Egli fu Presidente 
di tutti i Congressi nei quali intervenne, ei fu presidente della Società belga di 
economia politica e di tutte quelle fondate in Italia. L’Istituto di Francia e l’As- 
sociazione nazionale pel progresso delle scienze sociali in Inghilterra lo vollero 
socio corrispondente. 

» Nel Belgio fu onorato e stimato dal governo e dal popolo. Re Leopoldo lo degnò 

della sua amicizia, malgrado ch’egli fosse un esule italiano e suddito austriaco. 
Egli lo invitava sovente alla sua menza e alle adunanze serali e quindi lo deco- 
rava dell’ordine di Leopoldo del Belgio; il popolo lo elesse Consigliere provinciale 
del Brabante. 

Nel 1852 recatosi a Torino, il Re gli conferiva un ordine mauriziano , ed il 
Conte Cavour glielo partecipava con queste parole: « Il Re ha voluto rimeritare 
le vostre opere economiche ed i servigi che in varie circostanze avete reso al 
governo. Egli ha voluto altresì dare un segno dell’alta sua stima ad un italiano 
che ha altamente onorata la patria all’estero con una dignitosa e virtuosa con- 
dotta, in epoche e circostanze critiche e difficili. » 

« Permettete che nel felicitarvi io vi dica francamente che non ho mai, dacchè 
sono ministro, firmato con maggior piacere un decreto quale fu quello che vi 
collocava sul petto una patria onorificenza. » 

Egli era già Cavaliere gran Croce del Sacro Militare Ordine Gerosolimitano , e 


20 ELOGIO 





ritornato definitivamente in patria fu decorato dell’ ordine di grande ufficiale 
della Corona d’Italia e poscia fu nominato Cavaliere del merito civile di Savoja. 

Il suo sincero patriottismo e l’amore ineffabile della libertà rispiccano dalla 
fierezza delle sue determinazioni, allorquando poteva ritornare in Italia senza 
periglio. 

Nel 1838 il governo austriaco scioglieva il sequestro ai suoi beni e gli fu ac- 
cordata l’emigrazione legale; ma egli non volle ritornare suddito dell’ Austria e 
richiedeva invece nel 1840 la naturalizzazione ordinaria belga. 

Dopo il 1848 il Piemonte, sebbene percosso dalle sciagure del 1849, era rimasto 
fermo contro l’esigenze del gabinetto aulico ; la bandiera italiana dei tre colori 
sventolava gloriosa e guardata anziosamente dai popoli e dai martiri della libertà 
come simbolo e segnacolo della redenzione d’Italia. 

L’Arrivabene spinto dal desiderio di rivedere la patria, si reca a Torino, e 
viene mandato da Cesare Balbo in Lombardia, dove lo straniero erasi fatto più 
baldanzoso dalle vittorie riportate sulla rivoluzione, e quindi sconfortato e do- 
lente il fiero mantovano fa ritorno nel Belgio. 

Scorrono pochi anni e sui colli di S. Martino e di Solferino, il 24 giugno 1859 
dischiudesi l’era nuova. 

La parte di Lombardia già sgombra dall'Austria, si prepara ad eleggere l’Ar- 
rivabene a suo rappresentante al Parlamento, Ma il Cavour per dargli un segno 
maggiore della fiducia del governo lo fa chiamare alla Camera vitalizia, dove gli 
è dato di rendere segnalati servizi al paese coll’opera e cogli scritti. Egli intanto 
geme di non rivedere la sua terra natale, perchè tuttavia calpestata dal soldato 
straniero, il quale usciva da Mantova il 12 ottobre 1866. 

Scorsero appena due giorni e l’esule vi rientrava dopo 44 anni di assenza, fe- 
steggiato dal popolo con quella amorosa ed entusiastica espansione che pochi 
uomini han provato nel mondo. D’allora una gara di affetti; il popolo tributa a 
lui tutte le onoranze elettive, e il grande patriota indaga tutti i servizi ch’ egli 
può rendere ai suoi concittadini. Il senno, la parola, gli scritti, l'influenza, la 
fortuna tutto consagra a vantaggio del suo paese. 


Eccoci all’ultima fase della sua vita, e qui vediamo lo Arrivabene alternare il 
suo tempo fra i doveri del senatore e la filantropia del patrizio. Nell’ aula par- 
lamentare la sua bandiera è la libertà in tutte le sue manifestazioni, ed egli 
spiegò tutta quella attività che sorpassava il peso degli anni suoi. Egli si ebbe 
spesso la presidenza negli uffici; fu relatore al 1861 del progetto di legge per la 
tassa di ricchezza mobile, ed avvertiva che la legge italiana a differenza di quella 
inglese dell’ income-tax colpiva di più i meno agiati, anzichè le grandi fortune. 
Nell'anno successivo propugnò la vendita dei beni demaniali. 

Nel 1861, coerente al principio della libertà industriale, sostenne da relatore 
l’abolizione del monopolio della compagnia privilegiata degli operai del porto di Ge- 
nova. 


DEL CONTE ARRIVABENE 21 


Nel 1868 difese splendidamente la ricostituzione della Provincia di Mantova, e 
nel 1871 combattè energicamente in favore del trasporto della Capitale da Fi- 
renze a Roma. 

Il Belgio voleva sottrarsi al grave tributo che pagava all’ Olanda per la navi- 
gazione sulla Schelda. Tutti i governi d’Europa aveano contribuito in uno esborso 
proporzionatamente ài rispettivi interessi. L'Italia non aveva aderito, divisando 
che il trattato non le avrebbe arrecato vantaggio. L’Arrivabene dimostrò il con- 
trario, e fu incaricato dal governo di rappresentarlo nella vertenza, e colle rela- 
zioni ch’esso aveva nel Belgio riusciva a comporla vantaggiosamente. 

Nel 1865 morto il primo Re dei Belgi, l’illustre senatore era da Vittorio Ema- 
nuele prescelto ad ambasciatore straordinario alla Corte di Bruxelles affine di 
presentare le lettere di condoglianza per la morte di Leopoldo I e di felicitazione 
al successore. In quella occasione veniva insignito dal Monarca Belga del gran 
Cordone dell’ordine di Leopoldo, e dal Re d’Italia del gran Cordone dei SS. Mau- 
rizio e Lazzaro. 

Intanto nella vita privata la sua passione è la carità e il sollievo del povero. 

Sin dalla sua giovinezza, a quell’età in cui la voluttà del piacere soverchia or- 
dinariamente le dovizie, l’ Arrivabene avea già fondato nel 1820 in Mantova la 
scuola gratuita di mutuo insegnamento. Ritornato dall’esilio vi istituisce un asilo 
d’infanzia che viene qualificato come asilo modello, dove fino all’ ultima ora vi 
si recava due volte alla settimana a distribuire colle sue mani ai bimbi dei 
graziosi regali. 

Egli era convinto che la nobiltà della sua prosapia e il pingue patrimonio gli 
imponevano il dovere di soccorrere gl’infelici. Sono le opere, egli diceva, che 
nobilitano l’uomo, non già il casato. 

Egli era perciò benefico senza limiti, nella campagna sussidiava i contadini 
poveri nelle annate sterili, e nella città gli operai che mancavano di lavoro. Ed 
egli ricusava la riconoscenza del beneficato , e soleva dire per fino non esservi 
merito a far del bene a chi si mostra grato, esservi maggior merito a farlo a chi 
non serba gratitudine. L’esser benefico era per lui una seconda natura. 

Il Maroncelli che fu compagno dell’Arrivabene nei giorni più nefasti e più pe- 
nosi della sua vita scriveva di lui queste parole : 

« Difficilmente s’ incontrano sulla terra anime più pure, più innamorate del 
bene, più abneganti di se stesse di quella di Giovanni Arrivabene; tale è il giu- 
dizio di Pellico, di Porro, di Gonfalonieri e tale è il mio; agricoltura ed economia 
politica erano soggetto speciale delle sue meditazioni, onde pervenire ai modi 
pratici che tornassero ad utilità dei più poveri (1) ». 

Ecco o Illustri Accademici l’uomo che noi rimpiangiamo ; io ho dovuto pre- 
sentarlo a voi come suol dirsi, a volo di uccello; il nostro lutto è soltanto l’eco 
dolorosa e fraterna del generale compianto d’Italia. 


(1) Addizioni di Piero Maroncelli. Alle mie prigioni — Nota 5, pag. 247 del volume — Prose 
di Silvio Pellico —. Le Monnier, 1851. 


22 ELOGIO DEL CONTE ARRIVABENE 


__ 











L’Italia durante la vita di lui non ebbe che sentimenti di ammirazione e di 
affetto; niuna censura fu giammai fatta a quest’ uomo insigne, la gelosia e la 
maldicenza nulla ebbero di addentare contro di lui; quand’ egli scompariva da 
questa terra la stampa di tutti i colori gli rese concorde il tributo della lode e 
del pianto. : 

Deve attribuirsi alla tempra e alla nobiltà del suo carattére il fenomeno unico 
più che raro di un uomo, di un esule, spogliato dai suoi beni che pure attirasi 
l’affetto e l’ amicizia sincera dei personaggi politici più illustri e dei più emi- 
nenti scienziati del suo tempo, non solo d’Italia tutta, ma dei paesi ch’ egli 
percorre. 7 

In Svizzera trova grata accoglienza nel Rossi, nel Sismondi, nel Bonsteten; in 
Francia acquista relazioni amichevoli col Say, col Lamartine, col Guizot, col Cousin, 
col Lafayette, col Destutt de Tracy, col Bastiat, col Duprat. In Inghilterra col 
Senior, con una confidenza veramente fraterna; nel club degli economisti stringe 
amistà col Took, col Mac-Culloch, col Mill, col Watley, col rinomato irlandese 
O’ Connel. Nel Belgio sua patria adottiva ricevuto come fratello dalla famiglia 
degli Arconati, diviene l’amico di Vittor Ugo e di Tocqueville rifugiatisi entrambi 
a Bruxelles dopo il colpo di stato del 2 dicembre. Fa pure conoscenza intima 
col Quetelet, col Bertinatti, con Elliot già ministro d’Inghilterra a Costantino- 
poli, col Van Buret che fu Presidente degli Stati Uniti d’ America, col Carey 
economista. americano, e con cento altre notabilità che sarebbe lungo lo enu- 
merare. 

Quest’astro luminoso scomparve il dì 11 gennaro di quest’anno, esso fu l’ul- 
timo di quella plejade rifulgente di spiriti eletti che prepararono col loro mar- 
tirio la redenzione della patria nostra. Ma pure dobbiamo dire che se lo Arri- 
vabene ebbe grandi sofferenze per lungo esilio, si ebbe pure la sua ricompenza 
dell’amore e dell’ ammirazione dei suoi contemporanei. Il Garibaldi in una let- 
tera del 28 febbraro 1875 gli scriveva: 

«È una vera fortuna per la generazione che sorge di poter contemplare nel 
venerando vostro aspetto uno dei più cospicui iniziatori della libertà italiana. » 

E sembra veramente che la Provvidenza avesse voluto conservare all’ insigne 
uomo una esistenza longeva, onde rappresentare gli eroi che gli furon compagni 
nei tormenti del dispotismo e dello esilio, e che dal 1821 immolarono sostanze 
e vita sull’altare della patria. 

Mandiamo, o Signori, l’ultimo saluto al grande patriotta, al nestore degli eco- 
nomisti contemporanei, al generoso filantropo, all’illustre superstite di centinaia 
di vittime che parve destinato a raccogliere il sospirato retaggio della libertà e 
dell’indipendenza d’Italia! 


DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


E 


DEREDRELLDTEDI GUERRA 


DISCORSO 


DELL’'AVV. PIETRO DI MARCO 


Letto all’ Accademia di Scienze e Lettere di Palermo 


NELLA TORNATA DEL 19 piceMBRrE 1875. 


È da due anni che per le cure di un illustre deputato inglese è risorta la qui- 
stione, che parea già sopita, degli arbitrati internazionali. 

In astratto nulla di più seducente dell’ordinamento di una giustizia interna- 
zionale. Anche noi vorremmo spezzata la spada e sostituirle un giudice meno 
cieco e più umano; ed il plauso fatto in tutta Europa alla proposta Richard è la 
pruova la più eloquente che questa è l’aspirazione di tutti i popoli. 

Ma in pratica l’argomento non è scevro di difficoltà, ed è sotto questo punto 
di vista che non è stato ancora studiato abbastanza. Persuadere chi è in pos- 
sesso della forza a rinunziarvi non è agevole impresa. Mille progetti sono stati 
fatti a quest’uopo; ma tutti, più o meno, hanno un vizio che li ha rosi sin dalla 
loro prima formazione, rifare cioè il mondo, e non tener conto del modo come 
sono costituite le nazioni, tutte sovrane ed indipendenti. 

Noi oggi passeremo a rassegna tutti questi generosi tentativi; vedremo quale 
di essi meriti di essere coltivato di più, e colla guida della storia vedremo sino 
a qual punto possansi spingere utilmente le nostre speranze. In un punto però 
dovremo essere sin da ora tutti di accordo, cioè che la desiderata riforma non 
ha altre armi per lottare e per vincere che l’uso dei mezzi morali; e tutti sap- 
piamo che questa via per condurre alla meta ha bisogno di perseveranza e di 
tempo. Or mentre si attendono i benefici del progresso, non è prudente consiglio 


1 


È DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 








trascurare lo studio dei miglioramenti che può subire l’attuale dritto di guerra. 
Ed oggi che spira un’ aura non del tuzto rassicurante, questo studio ci sembra 
di una importanza vitale. 


PARTE PRIMA 


Arbitrati internazionali. 


Il pensiero di volere risolvere le quistioni internazionali con mezzi più ragio- 
nevoli delle armi non è nuovo. In ogni tempo sono state anime generose che 
hanno imprecato contro la guerra; ma è sin dal medio evo che si studia per 
trovare il mezzo più acconcio per assicurare al mondo una pace durevole. 

Il primo che di bel proposito si fosse occupato di questo interessante argo- 
mento fu lo Alighieri nel suo famoso trattato de monarchia. Egli comincia dallo 
stabilire che il civile svolgimento della umanità consiste nello sviluppo intel- 
lettuale delle società umane. Questo sviluppo intellettivo, secondo lui, non può 
conseguirsi senza armonia tra le parti diverse; donde la conseguenza che sia ne- 
cessaria una pace universale. Ma questa pace non può conseguirsi che colla forma 
dell’ unità, e non potendo più egli disfare gli stati esistenti e fonderli in uno, 
concepì l’ardito pensiero di creare un potere superiore, non nel senso di annul- 
lare completamente l’autonomia dei singoli stati, ma per decidere le loro con- 
troversie, e per tutelare la pace comune. 

Niuno può cestamente niegare al concetto dantesco l’ impronta della origina- 
lità; ma per quanto è ardito altrettanto è inattuabile, si che un suo biografo, 
Cesare Balbo, l’ha chiamato strana abberrazione dello spirito ghibellino (1). Infatti 
niuno dei tanti ambiziosi conquistatori, che sono apparsi da quel tempo in qua 
nella scena del mondo, ha mai avuto la tentazione di trarne profitto per alzarsi 
sull’ordinario livello delle altre potenze. 


II. 


Dopo quasi tre secoli di silenzio, interrotto solo di quando in quando da qualche 


fugace inno alla pace, Enrico IV nel 1614 mise fuori in Francia un altro pro- 


(1) Balbo, Vita di Dante, vol. 2, cap. XI. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 3 


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getto non meno ardito. Vedendo egli scosso 1° equilibrio europeo per la sover- 
chiante preponderanza di casa d’ Austria, avvisò di ristabilirlo a suo modo col 
rifare completamente la carta geografica. Divise l’Europa in 15 stati presso a poco 
di eguale estensione e di importanza eguale. Tutti questi nuovi stati dovevano 
essere stretti da vincoli federali; ed ognuno di essi doveva nominare quattro rap- 
presentanti da formare un consiglio generale di 60 membri, il quale doveva co- 
stantemente avere sede nel centro di Europa, o in Nancy, o in Metz, o in Co- 
lonia. Sua prima operazione doveva essere quella di dettare un regolamento nel- 
l’interesse dei governanti e dei governati, per impedire da un canto la oppressione 
e la tirannia dei principi, e dall'altro le rimostranze e le ribellioni dei sudditi. Tutte 
le controversie internazionali dovevano essere decise da questo Tribunale che ei 
chiamò Senato della repubblica cristiana (1). 

Secondo il Capefighe questo progetto sarebbe stato concepito e scritto dallo 
stesso Enrico; il Sismondi la dice invece opera del suo ministro ed amico Sully (2); 
comunque sia non trovò eco neppure in quelle potenze destinate ad un ingran- 
dimento. « Strana cosa (così lo giudica lo Ancillon) era questa nuova spartizione 
«di Europa da sostituire all’antica. Il numero degli Stati che si lasciavano sus- 
« sistere, il numero di quelli che si proponea di far sorgere o ingrandire, la 
« forma di governo che loro si stabiliva, tutto sembra fatto a caso, senza po- 
« tersi supporre con quali principî fosse stato regolato questo assettamento. Se 
«questi stati fossero stati eguali e si contrapponessero, sarebbe stata inutile la 
« confederazione universale; dal contrappeso sarebbe seguita la tranquillità. Se 
«al contrario fossero stati ineguali per mezzi e per estensione, se a causa delle 
«loro differenti forme di governo alcuni tossero stati potenti altri deboli, avreb- 
« besi dovuto facilmente prevedere che i primi non si sarebbero sottoposti alla 
« decisione del supremo consiglio, ed i secondi sarebbero esposti ad un nuovo 
«modo di dispotismo » (3). 


III. 


Il secolo XVIII come fu gravido di importanti avvenimenti politici e guerre- 
schi, lo fu anclie di progettate riforme. 

Nel 1712, poco dopo la pace di Uthrecht, l’ abate di Saint-Pierre pubblicò un 
lavoro con cui proponeva una lega generale di tutti gli Stati europei ed un’as- 
semblea permanente col mandato di dirimere le controversie reciproche. Questo 
| progetto ei volle accreditare dicendolo ispirato ai principî di Enrico IV; ciò non 





(1) Capefishe, La Vighe et Enry IV, ch. XIII, pag, 498, ed. Paris 1843. 
(2) Sismondi, Storta dei francesi, parte 8°, cap. 10, vol. 22, p. 127, trad. Capologo 1841. 
(3) Ancillon, Tableau des revolutions du sisteme politique, vol. 2, p. 494 e seg. 


4 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 








ostante non riscosse alcun plauso, come niuno ne aveva riscosso il grande mo- 
narca, e Leibnizio, cui l’autore volle mandarne una copia, lo disse un ro- 
manzo (1). 

Nel 1761, mentre ferveva la terribile guerra dei sette anni, Rousseau pubblicò 
un altro progetto dello stesso tenore, corredato però da uno sviluppo degno della 
penna di quell’altissimo pensatore. Nel 1795 Kant scosso dalle sanguinose lotte 
della rivoluzione francese, e spaventato da un più fosco avvenire, tornò a par- 
lare di pace perpetua senza punto curarsi della poco lieta accoglienza fatta ai 
suoi antecessori. Poco prima dell’89 Geremia Bentham aveva scritto anche il suo; 
ma come ognun sa non venne alla luce che molto più tardi. 

Tutti questi progetti avevano un fondamento comune, la confederazione e la 
assemblea sovrana. In sostanza erano la ripetizione di quelli di Enrico, meno il 
rimpasto e la spartizione del territorio europeo; ma non perciò avevano una mag- 
giore pratica vitalità. È infatti impossibile evidentemente una lega così generale 
e perpetua. Gli Stati germanici hanno potuto confederarsi e sottostare ad unica 
dieta; ma ciò che possono pochi stati formanti per natura unica nazionalità, 
ed aventi tutti gli stessi interessi, nol possono gli altri d’indole e di razza di- 
versi. Non a torto il cardinale Dubois disse il progetto Saint-Pierre sogno d’ un 
uomo dabbene. 


IDO 


La lunga pace succeduta alla caduta del primo impero fece in Europa quasi 
dimenticare le calamità della guerra, e con essa gli studì e le ricerche per cer- 
care di allontanare la loro riproduzione. In America però cominciarono a sor- 
gere delle società che si intitolarono della pace , le quali abbandonando le an- 
tiche utopie cominciarono ad entrare in un terreno più pratico Nel 1849 un il- 
lustre economista inglese, Riccardo Cobden, tentò in Europa di risollevare la 
quistione, e volendo darle una sembianza pratica, presentò al parlamento brit- 





(1) £ Ho letto (così Leibnizio scriveva a 4 giugno 1712 a M. Grimarest) il progetto di 
Saint-Pierre tendente a mantenere una pace perpetua in Europa. Mi sovvengo della divisa di 
un cimitero con queste parole: pax perpetua, perchè i morti non si battono, ma i vivi sono 
di un altro umore, ed i più forti non rispettano i tribunali. E mestieri che tutti questi si- 
gnori diano una adeguata cauzione, e depositino nell’officio del tribunale per esempio il re 
di Francia 100 milioni di scudi, ed il re d’Inghilterra in proporzione, affinchè le sentenze 
dei tribunali possano essere eseguite sulla cauzione quando si rendano refrattari..... Ma una 
volta che è permesso di scrivere romanzi, perchè trovare cattivo che ci si premetta il ri- 
torno del secolo d’oro? , 

Leibnizio, Opera omnia, v. 5°, pag. 65, n. VI, ediz. 1768. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 5 


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tannico una mozione con la quale invitavasi la regina ad intavolare negoziati 
con le altre potenze perchè tutte le quistioni internazionali fossero sottoposte 
ad arbitramento. Questo progetto benchè non parlasse di spartimento, nè di au- 
torità imperiale, nè di lega, nè di assemblea, parve inaccettabile a Palmerston, 
e sulle opposizioni di lui fu a grande maggioranza respinto. 

Nel 1853 tornò a schiudersi il tempio di Giano, e d’ allora in poi non |’ ab- 
biamo più visto serrato che a brevi intervalli, Gli orrori della guerra sono quindi 
tornati alla mente di ognuno; ma quelle che più hanno scosso gli animi sono 
le due spaventevoli lotte combattute una in America tra gli Stati dell’ Unione, 
e l’altra in Europa tra la Germania e la Francia. Senza neppure contare gli im- 
mensi danni fatti al commercio del mondo ed alla proprietà particolare, non si 
può senza fremere guardare ai rivi di sangue che scorsero dall’una parte e dal- 
l’altra. 

Scoverta la piaga si è tornato a pensare al rimedio, ed ecco sir Richard 1’8 lu- 
glio 1873 ripetere in Londra la pruova, e riproporre alla Camera dei Comuni 
l’antica mozione di Cobden. Ma i recenti dolori fecero questa volta trovare un 
terreno più adatto, e non ostante la opposizione del ministero, la proposta fu 
accettata, ed ha già fatto il giro del mondo, tuttochè fosse stata vinta alla sem- 
plice maggioranza di pochi voti, e malgrado il ridicolo onde sin dal primo mo- 
mento l’ha trattata l’organo più autorevole della stampa inglese (1). 

Questo concetto non ha certamente nulla di comune con le idee anteriori; ma 
esso pure ha la sua parte di arcadia. In primo, non tutte le quistioni possono 
essere suscettive di arbitramento. Fidatevi infatti di sottoporre ad arbitri una 
quistione storica, una quistione che per esempio riguardi la nazionalità di uno 
stato. Ciascuno comprende che, quando pure si riuscirà a sottoporla ad un ar- 
bitramento, qualunque sarà per essere l’esito del giudizio, una nazione non vorrà 
mai rinunziare alla sua integrità naturale, e che non ostante cento giudicati 
contrarì aspetterà il primo momento propizio per riprendere con la forza ciò cui 
sente di avere diritto. In secondo luogo, difficilmente può sperarsi che le potenze 
prendano a priori impegno formale di sottoporre ad arbitri tutte le loro future 
querele, e che anticipatamente si obblighino a rispettare le decisioni dei giudici. 
Se tutto ciò non è stato possibile nei tempi andati, lo è meno oggi in cui son 
tante le quistioni vitali sulle quali difficilmente si può riuscire ad intendere. 


(1) Pochi giorni dopo che fu accettata dalla Camera dei Comuni la mozione Richard, così 
scrisse il Times: 

“ Vi sono dunque nella Camera dei Comuni un centinajo di membri che vorrebbero isti- 
tuito un tribunale per vedere definire le quistioni internazionali; ma essi chiudono gli occhi 
alle difficoltà di fare accettare la sentenza ad una nazione che rifiuti d’ubbidire. Ci si per- 
donerà dunque se non ci sentiamo inclinati a rispettare simili legislatori, e se non siamo 
solleciti a raccomandare una obbedienza immediata alla loro mozione, anche quando essa 
sia stata adottata alla maggioranza di dieci voti contro l’opinione del governo. , 


6 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


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LI 


Abbiamo gli è vero visti non è guari l’ Inghilterra e gli Stati Uniti affidare al 
giudizio di pochi arbitri la difficile quistione dell’Alabama. Tutto ciò prova che 
in quistioni già sorfe, o sorte sopra interessi o accidentali o pecuniari è ben pos- 
sibile un accomodamento, e gli esempi non sono nè pochi nè nuovi (1); ma nulla 
depone in favore degli arbitrati generali. Tutto il mondo per esempio comprende 
che la Francia quando si sentirà forte abbastanza, tenterà di riprendere le per- 
dute provincie. Or chi può mai lusingarsi che ella voglia sin da ora rinunziare 
alla spada? Anche quando accettasse il sistema degli arbitrati, appena sarà forte 
da lottare con la Germania. avrà anche il coraggio, con qualche pretesto più o 
meno legittimo, di ribellarsi al giudicato altrui. E ciò che dicesi della Francia pre- 
sente, vale per tutte le altre nazioni che in avvenire potessero trovarsi in casi 
simili, o che avessero una nazionalità a completare o interessi vitali a difendere. 


Tutto ciò ha compreso benissimo un eminente e dotto giurista italiano, il de- 
putato Mancini. Anch’ egli ha voluto libare in onore della pace; ma da uomo 
serio ha scelta la via la più pratica. Ha egli compreso che non tutte le quistioni 
possono essere materia di arbitramento, e che non è facile di potere trovare un 
sincero e simultaneo accordo di tutti i governi; e nella tornata del 24 novem- 
bre 1873 presentò alla nostra Camera dei deputati la seguente proposta, la quale 
accettata dal ministero fu votata all’unanimità : 


«La Camera esprime il voto che il governo del Re nelle relazioni straniere si 


(1) Poichè si fa grande assegnamento sull’arbitrato dell’ Alabama, quasi fosse un fatto 
straordinario, riportiamo dal Calvo, vol. 1°, $ 667, le date delle principali sentenze arbi- 
tramentali pronunziate sopra quistioni quasi simili a quella devoluta al tribunale di Gi- 
nevra. 

1. 30 novembre 1843 — Lodo del re di Russia tra la Francia e l’Inghilterra. 

2. 1 agosto 1844 — Id. della regina d’Inghilterra tra la Francia ed il Messico. 

8. 13 aprile 1852 — Id. del re dei Paesi Bassi nello interesse della Francia e della 
Germania. 

4. 30 novembre 1853 — Id. dell’ imperatore dei francesi tra l’ Inghilterra e gli Stati 
Uniti. 

5. 15 maggio 1863 — Id. del re dei Belgi tra il Chilì e gli Stati Uniti. 

6. 12 aprile 1864 — Id del senato di Amburgo tra l’Inghilterra ed il Perù. 

Ciò che veramente è nuovo e straordinario nel fatto dell’ Alabama è la scelta degli ar- 
bitri caduta sopra cinque personaggi privati appartenenti a cinque distinte nazioni. 

Gli arbitrati per contestazioni speciali giù sorte non furono neppure ignoti nel medio evo. 
Il Mongalvy traité de Varbitrage en matiere civile et commercial. n. 7, ne passa a rassegna 
un gran numero, 


E DEI DRITTI DI GUERRA 7 








adoperi a rendere l’ arbitrato mezzo accettato e frequente per risolvere secondo 
giustizia le controversie internazionali nelle materie suscettive di arbitramento; 
proponga nelle occasioni opportune d’introdurre nella stipolazione dei trattati la 
clausola di deferire le quistioni che sorgessero nella interpetrazione ed esecu- 
zione dei medesimi; e voglia perseverare nella benemerita iniziativa da più anni 
da esso assunta, di promuovere convenzioni tra l’Italia e le altre nazioni civili 
per rendere uniformi ed obbligatorie nello interesse dei popoli rispettivi le re- 
gole essenziati del dritto internazionale privato. » 

Fra le mille proposte fatte finora è questa la più pratica, la sola che coltivata 
con amore può forse produrre dei frutti. La esperienza più volgare ammaestra 
che gli stati più facilmente accedono a speciali convenzioni, e più facilmente 
ancora vi accedono quando non si tratta di quistioni vitali, per le quali ciascuno 
vucle conservata la libertà di azione. 

Questo concetto non è intieramenle nuovo. Nel 1843 si erano riuniti in Londra 
tutti i delegati delle diverse società della pace d'America e di Europa, e messe 
da canto le idee esagerate, proposero un indirizzo a tutti i governi invitandoli 
ad inserire nei loro trattati di commercio e d’alleanza una clausola con la quale 
si obbligassero ad affidare tutte le loro querele al giudizio di una o più potenze 
amiche. Questo volo, come ognun vede, scioglieva una parte della quistione, ma 
lasciava l’ altra insoluta, e non ebbe quindi fortuna. L’ indirizzo fu quell’anno 
Stesso presentato a Luigi Filippo, e tre anni dopo al presidente degli Stati Uniti; 
l’uno e l’altro pronunziarono, come è d’uso, parole rassicuranti, ma la proposta 
non ebbe sviluppo. L’eguale insuccesso toccò dieci anni dopo ad una simile pro- 
posta che nel febbraro 1853 votò il Senato degli Stati Uniti sulla mozione del 
senatore Underwood (1). 

Fu l’Italia che appena costituita volle la nobile iniziativa di entrare nel nuovo 
sentiero ; ed il 19 giugno 1861 stipolò con la Repubblica di Venezuela un trat- 
tato il cui articolo 5° è così concepito : «..... Ad evitare sì grande calamità, le 
« parti contraenti convengono che se sventuratamente venissero ad essere com- 
« promesse le loro relazioni di mutua amicizia, non potranno mai ricorrere al- 
« l’uso funesto delle armi, senza che previamente sia la quistione sottoposta al 
« giudizio di una nazione amica e neutra, la di cui decisione sarà obbligatoria. » 
Questa clausola non si vede più figurare negli altri trattati più recenti, forse 
perchè la generalità del compromesso togliendo fiducia ai risultati, fece man- 
care l’adesione degli altri contraenti. 

La proposta Mancini ha ora tolta questa seconda difficoltà. Il compromesso, 
secondo lui, non abbraccia tutte le quistioni possibili, ma quelle sole di minore 
importanza. Nè sarebbe questo un lieve progresso, perchè da un canto non tutte 
le guerre si fondano sopra interessi intransigibili; e dall’altro cominciandosi ad 





(1) Jules Le Berquier. Lignes de la paix, Revue des deux mondes, 1 settembre 1874. 


8 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 








educare gli animi a riconoscere per giudice la ragione, può forse riuscire ad 
apparecchiare un migliore avvenire. 


VI. 


Con tutto ciò, ci duole il dirlo, i risultati non ci sembrano nè sicuri nè im- 
mediati. La esperienza ci apprende che quando la guerra si vuole, essa sarà a 
costo di tutto, a costo anche di lacerare un contratto. Dove è quel potere supe- 
riore che può obbligare la parte inademplente a rispettare i patti stipolati? Dante 
fu logico quando propose un’autorità imperiale al di sopra degli altri Stati; ma 
se questo è impossibile, bisogna rassegnarsi a subire tutte le conseguenze che 
derivano dalla indipendenza e dalla sovranità degli stati. Bentham ha potuto 
minacciare allo stato refrattario la pena del bando dal seno delle nazioni civili; 
Le Berquier può vedere in questo interdetto la più severa e la più efficace puni- 
zione, in un’ epoca precisamente come la nostra, di grande movimento commerciale ; 
ma le son cose che possono ben dirsi ma non eseguirsi. La spada può quindi 
impunemente rompere quei diritti che non siano difesi da un’altra; e se le armi 
debbono stare a guardia degli arbitrafi, è chiaro che essi soli non valgono a 
nulla. 

Ed in vero, dopo la guerra di Crimea, i plenipotenziari delle sette potenze a 
nome dei loro governi, espressero il voto, che se venisse ad elevarsi serio dissenti- 
mento tra gli Stati, dovrebbero questi ricorrere, pria di venire alle armi, quando le 
circostanze il permettano, ai buoni uffici di una potenza amica. Gli altri governi non 
rappresentati furono invitati ad accedervi; ed in pochi mesi si ebbe |’ adesione 
di quaranta Stati, sì che quel voto ebbe forza di una convenzione internazio- 
nale. — Ebbene ; quante guerre, domandiamo modestamente, da quel tempo in 
qua hanno subìto l’esperimento della preventiva conciliazione ? 

Nel 1859 la quistione italiana, era la prima occasione che presentavasi, e si cercò 
di sottoporla all’arbitrato delle grandi potenze. Per le opposizioni dell’Austria il 
congresso non ebbe luogo, e le armi furono invocate per pronunziare quel ver- 
detto che la umanità e la giustizia reclamavano da lunga pezza. Ma in tutte le 
altre seguenti neppure questo vago tentativo fu fatto, ed il trattato di Parigi 
non valse nemmeno ad arrestare la guerra del 1870, la quale fondandosi sopra 
un pretesto, sarebbe stata, secondo Thiers, scongiurata col ritardo di sole 24 ore. 

Non sono dunque i trattati la garenzia della pace. La vera garenzia è piuttosto 
nei principî di giustizia, di umanità e di moderazione, di che i governi come 
gl’individui debbono essere sempre animati. Quando si sarà pienamente convinti 
che la pace è il primo bisogno dei popoli, e che la vittoria la più strepitosa non 
arriva mai a compensare i mali di un giorno, solo allora si può forse aver fede 
sugli arbitrati, perchè solo allora le convenzioni saranno onestamente e retta- 


E DEI DRITTI DI GUERRA 9 











mente eseguite. Ma questa non è opera di trattati; è lavoro lento del tempo, il 
solo che può mano mano preparare la pubblica opinione e modificare le preva- 
lenti tendenze per sostituirvi principî diversi. 

Quando nel 1851 si aprì in Londra, durante la esposizione, il congresso di tutti 
i rappresentanti delle società della pace di America collo intervento dei più im- 
portanti uomini politici della Francia e dell’Inghilterra, fu votata una calda rac- 
comandazione «a tutti i ministri di culto, a tutti gl’istitutori di giovani, agli 
« scrittori ed ai pubblicisti, d’impiegare la loro influenza per propagare i prin- 
« cipî di pace, e per isbarbicare dal cuore degli uomini gli odì ereditari, le ge- 
« losie politiche e commerciali, state sempre sorgente di guerre disastrose » (1). 
Questa sì che ci sembra la via più pratica e la migliore che ci può condurre 
agli arbitrati, perchè questa è la sola maniera che può riuscire a creare una vera 
e generale pubblica opinione. Se tutte le società che si intitolano della pace, e 
se tutti i filantropi, invece di tener dietro a vane utopie, buone solo a seminare 
il malcontento e ad aizzare le masse con promesse impossibili a realizzarsi, des- 
sero consigli di questa fatta, molti problemi sociali potrebbero risolversi da se 
soli; ma tutto ciò, giova ripeterlo, ha bisogno di perseveranza e di tempo. I co- 
nati fatti e da fare sono valsi e varranno per manienere sempre vivo il fuoco 
della riforma, ma si inganna o si illude chi spera nei risultati immediati. Si 
riuscì ad abbolire la schiavitù e la tortura; siamo già in via di abbattere anche 
il patibolo, ma quanti secoli di lotte non sono stati necessarì per preparare il 
terreno? 

Se dunque la guerra deve rimanere come una necessità sociale, uopo è esa- 
minare quali siano i suoi confini legittimi, e cercare di non farli violare. Ed è 
a questa ricerca che dovrebbero rivolgere le loro cure tutti coloro che dicono di 
avere a cuore gl’interessi dell'umanità. Non è con tentare pruove impossibili che 
si serve alla causa della civiltà e del progresso. Non sempre si può, nè sempre 
è utile tagliare di un colpo il nodo; ma non perciò devesi rinunziare alla spe- 
ranza di scioglierlo. 

È quindi opera non disutile esaminare quali debbono essere i dritti di guerra; 
e sarà questo l’argomento della seconda parte del presente discorso. 


(1) Le Berquier l. c. 
2 


10 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 





_————————_————————rrrrrr.rr.rrrrtt—t=t-t-tttt--_- 3 


PARTE SECONDA 


Dritti di guerra. 


Ni tempi antichi la guerra dava il dritto di usare tutti i mezzi possibili per 
esterminare il nemico. Erano duelli a morte in cui uno doveva necessariamente 
soccombere (1). 

Nè meno funeste erano le conseguenze della vittoria. Il vincitore aveva un 
dritto illimitato non pure sulla vita, ma anche sulle sostanze dei cittadini ne- 
mici, donde il famoso detto vae victis (2). 

Ma a misura che la civiltà andò squarciando le tenebri della barbarie, i co- 
stumi cominciarono ad ingentilirsi, e le regole della guerra cominciarono di con- 
seguenza a spogliarsi delle forme rudi onde erano prima vestite. La guerra non 
fu più riguardata come cieco ed inumano strumento di esterminio generale ; il 
vincitore cominciò a comprendere la necessità di lasciare ai vinti vita e pro- 
prietà, religione e costumi; e proseguendo di questo passo siamo ormai a tale 
che niuno più ricorda le antiche teorie da cannibali. Oggi si uccide il nemico 
o mentre combatte o mentre è in atto di offendere; oggi si può nuocere al ne- 
mico, ma con mezzi onesti e diretti (3). 


(1) Ecco quali eran le teoriche che si insegnavano sino alla prima metà del secolo scorso. 

“« Omnes vis in bello justa est, si me audias, et ideo justa, cum liceat hostem opprimere, 
etiam inermem, cum liceat veneno, cum liceat percussore immisso et igne factitio , quem 
tu habes, et ille forte non habet, denique cum liceat, ut uno verbo dicam , quomodocunque 
libuerit. n Bynckershoek, Quaestiones juris publici, 1. 1, cap. 1. 

(2) “ Quia in victum vietori licent omnia jus quoque vitae et noecis penes victorem esse 
nemo dubitaverit. , Ibid. cap. II. 

« Bona autem cum sint mobilia vel immobilia constat utroque jure belli recta posse oc- 
cupari. , Ibid. cap. IV. 

(8) « Il belligerante ha il dritto di nuocere al nemico con tutti i mezzi diretti che sono 
in suo potere, ma non può impiegare mezzi indiretti. Mezzi diretti son quelli che colpiscono 
l’avversario direttamante ed esclusivamente, che vanno sino a lui senza colpire pria gli 
estranei. Mezzi indiretti son quelli al contrario che arrivano al nemico dopo di avere col- 
pito un terzo. Era permesso all’ uomo primitivo di incendiare la capanna del suo avversa- 
rio, ma gli era proibito di mettere il fuoco alla casa del vicino pacifico a fine di farlo co- 
municare a quella. ,, Hautefeuille, Des droits et devoires des nations neutres, vol. 1, p. 121, 
edit. 1868. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 11 





Ed invero la guerra non si fa più oggi per esterminare il nemico, ma per co- 
stringerlo allo adempimento di un patto, ad astenersi da un atto qualunque, a 
rilasciare un suolo non suo, a riparare un danno o un’ingiuria. Si guerreggia 
per aver pace ad una data condizione. La guerra quindi non può dare facoltà 
illimitate come in antico, ma quelle sole che servono ad indebolire il nemico, 
e per costringerlo a cedere. È perciò che Pinheiro-Ferreira definisce ingegnosa- 
mente la guerra l’arte di paralizzare le forze del nemico. 

Una splendida applicazione di questo principio è nella convenzione fatta nel 1864, 
ad iniziativa della Russia, per proscrivere l’uso delle palle esplodenti. A che se- 
minare la strage tra le schiere rispettive, quando si può ottenere il medesimo 
risultato senza tanto spargimento di sangue? La storia ricorda, è vero, anche 
nelle guerre moderne atti di ferocia non giustificati da alcuna necessità. Fortu- 
natamente i fatti isolati non costituiscono un precedente utile; e se non vi è un 
potere superiore che può frenare la ebbrezza del vincitore, vi ha la storia che 
fa sempre le più splendide vendette della umanità conculcata. 


II. 


Un altro importante progresso che la civiltà moderna ha fatto è quello di li- 
mitare la guerra entro i suoi naturali confini. In antico la guerra involvea nel 
suo vortice non pure i governi ma i popoli stessi (1). I cittadini delle due parti 
si riguardavano allora come personali nemici; donde la conseguenza che gli’ ef- 
fetti della guerra si dovevano estendere anche contro di essi. Non solo quindi 
le cose pubbliche erano suscettibili di confisca ‘e di distruzione, ma altresì tutto 
ciò che era patrimonio particolare. 

Oggi al contrario la guerra si fa fra governi. I cittadini che rimangono inof- 
fensivi non sono in istato di ostilità. La inimicizia è fra i loro governi; e poichè 
in guerra uno stato non agisce che con gli eserciti e con le armate, son questi 
soli che debbono considerarsi come nemici, ed è su di essi e su gli strumenti 
onde si servono che sì può esercitare il dritto di guerra. 


(1) « Nel seeolo XVII la guerra si facea come nell'antichità e nel medio evo; le ostilità 
non colpivano solamente lo stato nemico, ma ancora tutti gli abitanti del territorio, qua- 
lunque fosse la loro età ed il loro sesso. Per gli uomini adulti questo barbaro dritto s 
comprende, perchè poteano fare del male, ed in realtà non mancavano di farlo. Ma come 
spiegare la uccisione deì fanciulli? 

Laurent, Des nationalites, pag. 488. 


12 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 





III. 


Queste sono le due grandi riforme che la civiltà moderna ha fatto all’ antico 
dritto; ed esse sole, se fossero onestamente e pienamente eseguite, basterebbero 
a rendere le guerre meno odiose e meno crudeli. Se elleno infatti sono opera di 
stato a stato, i particolari inoffensivi dovrebbero essere rispettati nella vita e 
nelle sostanze; se esse non tendono più a sterminare i nemici ma a paralizzare 
le loro forze, anche le cose pubbliche inoffensive avrebbero dritto all’eguale ri- 
spetto. Si può quindi in guerra distruggere un arsenale, un castello, non i pub- 
blici edifici; si può tagliare una strada ferrata o altra via che serve al nemico, 
non quelle che escono fuori l’orbita dell’azione; si può espugnare una cittè per 
indebolire il nemico, ma non per metterla al suolo (1). 

Eppure in pratica sono ben altri i diritti che si arrogano i belligeranti. Non 
ne siamo sorpresi, chè raramente la forza si fa vincere dalla ragione. Ci fa però 
meraviglia la dottrina, la quale invece di frenare le loro intemperanze, le giu- 
stifica e le incoraggia. 

Che volete che facciano i belligeranti se la dottrina, che pur dovrebbe essere 
civile ed umanitaria, dà loro selvaggi consigli? Bombardano una città? Tutto il 
mondo si leva per protestare; ma Vallet insegna che in molti casi il bombarda- 
mento è un dritto di guerra; e De Martens crede sia lecito di mandare in città delle 
bombe per incendiare i magazzini. Devastano e saccheggiano? Gli animi onesti sì 
‘rivoltano; ma Khiiber, De Martens, Wheaton e cento altri scrittori che pur si di- 
cono liberali, ammettono in principio la devastazione ed il sacco. Confiscano alla 
cieca tutta la proprietà marittima appartenente ai cittadini dello stato nemico? 
Il commercio pacifico se ne duole e muore, ma Ortolan, Hautefeuille, Gessner 
ed altri viventi giuristi chiamano questa un’operazione permessa. E mentre in- 
signi scrittori reclamano per il mare almeno le stesse regole della terra, ecco 
sorgere Hautefeuille per insegnare che non vi è né legge nè uso che esentino dalla 
confisca le proprietà terrestri (2). 


(1) In tutte le guerre una delle prime operazioni di un belligerante è quella di rompere 
tutte le comunicazioni telegrafiche che servono al nemico. Nel congresso internazionale te- 
legrafico inaugurato in Roma il 1° dicembre 1871 dal ministro Visconti Venosta, il signor 
Ciro Field, rappresentante del telegrafo transatlantico, parlò vivamente contro quest’ uso 
tanto nocivo al commercio, e ne propose l’abolizione. La proposta fu accolta dall’assemblea, 
e tutti i suoi componenti promisero d’interessarne i rispettivi governi. Non risulta però che 
questi l'abbiano sinora presa sul serio. 

V. Circolo giuridico, anno 2, p. 159. 
(2) Hautefeuille op, cit. vol. I, p. 128. 
Nell’altra più recente opera Questions de droit maritime, p. 74, lo stesso scrittore insiste 


E DEI DRITTI DI GUERRA 13 








In un vortice così profondo di contraddizioni è ben facile che si smarrisca la 
giusta via, e la esperienza giornaliera insegna che chi ha in mano la forza di 
buon grado trae profitto da qualunque pretesto per avere occasione ad impie- 
garla. Sin oggi tutte le guerre hanno avuto quello indirizzo che ai belligeranti 
Stessi è piaciuto di dare; e se non tutte sono riuscite disastrose e vandaliche, è 
dovuto alle opinioni dei duci rispettivi non tutti insensibili alle idee di pro- 
gresso. 

È necessario quindi che sia prima eliminato dal campo della scienza qualunque 
dissidio, perchè si possa pretendere dai belligeranti una condotta più razionale. 
‘Tutti sanno i grandi sforzi della Russia per ridurre a principì certi e moderati 
le regole della guerra. Il progetto da lei formulato dovette sin dal primo dì li- 
mitarsi alle sole guerre terrestri, non avendo voluto l’Inghilterra permettere che 
si parlasse delle marittime; ma in sostanza neppure per quelle si ottenne alcun 
utile risultato. Ma ciò che non hanno voluto fare i governi, lo può, anzi lo dee, 
la scienza. Ella ha già stabilito che le guerre sono opera di stato a stato; e se i 
suoi numorosi cultori volessero da questo principio fondamentale sinceramente 
dedurre tutte le logiche conseguenze, non sarebbe impossibile di vederli tutti in 
una medesima via, e di riuscire così a creare una pubblica opinione, al cui nume 
è forza che un dì o l’altro si pieghino anche i capitani i più induriti. 

Ed è a questo fine salutare che da tre anni per le cure di Gustavo Rolin- 
Jacquemyns è stato creato l’istituto di dritto internazionale composto di 50 mem- 
bri raccolti tra le più spiccate notabilità giuridiche di Europa e di America. 
Questo sapiente consesso, che nel primo anno si riunì a Gand, nel seguente 
in Ginevra, ed in quello che or volge dovevasi radunare all’Aja, ha non pure lo 
scopo di discutere sopra i temi più ardenti di attualità, ma quello altresì di 
stabilire principî certi e dettare norme sicure per fare cessare, per quanto è 
possibile, tutte le divergenze state finora ostacolo insormontabile al progresso 
del dritto. 

Ci è impossibile nel breve giro di un discorso di passare a rassegna tutti gli 
atti guerreschi, e vedere quali di essi siano compatibili col principio fondamen- 
tale che fa delle guerre una operazione esclusiva di stato. Ci limitiamo alla sola 
proprietà privata, persuasi che quando questa sarà rispettata nella terraferma e 
nel mare , le guerre avranno perduto gran parte del loro odioso carattere. La 
materia rimarrà sempre un po’ ampia; ma è in nome della sua importanza che 
domandiamo a voi, illustri soci, il sacrificio di una mezz'ora di più. 


nel medesimo assunto. “ Noi neghiamo, egli scrive, la esistenza di alcuna regola, di alcuna 
legge internazionale che abbia proclamato la inviolabilità della proprietà privata terrestre. 
Per conseguenza neghiamo la esistenza stessa del principio, perchè se esistesse, sarebbe 
stato sovente violato; e non è possibile che così numerose violazioni non abbiano provocate 
recriminazioni e speciali stipolazioni per prevenirne il ritorno. , 


14 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 





IV. 


La proprietà terrestre può essere immobiliare o mobiliare; può trovarsi nel 
suolo nemico o nel territorio conquistato ; può essere infine corporale o incor- 
porale. 

In quanto agl’immobili situati nel territorio nemico è una follia il credere 
che possano essere oggi non rispettati allo scoppio delle ostilità e durante la 
guerra. 

Niuno ignora che per principì di giustizia uno straniero ovunque si trovi può 
acquistare e possedere liberamente. Si contende oggi sino a qual punto si esten- 
dano i dritti civili, ma niuno più gli contrasta la facoltà di acquistare e di pos- 
sedere a somiglianza di un qualunque regnicolo. L’antico codice delle Due Si- 
cilie subordinava l’esercizio dei dritti civili al permesso di dimorare nel regno 
o al trattamento di reciprocità; il codice Napoleone esigeva solo quest’ ultima 
circostanza. La scienza protestò contro siffatte limitazioni; e la Francia con la 
legge del 14 luglio 1829 cancellò dal suo codice la richiesta reciprocanza, e VI- 
talia ha non è guari nel suo nuovo codice (art. 3°) anch’ ella messi alla pari 
cittadini e stranieri. 

Che uno straniero non possa acquistare dritti politici si intende bene, perchè 
l’esercizio di essi è attaccato alla qualità di cittadino. Ma i dritti civili suppon- 
gono più l’ uomo che il cittadino, ed uno straniero non lascia di essere uomo 
sol perchè più o men lungamente si allontana dal suolo natìo, e trasporta i 
suoi lari sotto altro cielo. 

Or se da un canto lo straniero ha il dritto di acquistare e di possedere, e se 
dall’altro non è personale nemico della nazione nella quale sono siti i suoi sta- 
bili, può esigere che si rispettino le sue proprietà in qualunque tempo, non 
escluso quello di guerra. La proprietà è infatti inviolabile; inviolabile per se 
medesima senza riguardo a persona. Tutto ciò che è entro ì confini di uno stato 
è sottoposto alle sue leggi; ed in tutte le legislazioni del mondo la proprietà è 
garentita, tranne i casi di espropriazione per pubblica utilità. 

Sino a parecchi secoli addietro questi immobili venivano confiscati come qua- 
lunque proprietà del nemico. Ma d’ allora in poi si cominciò a comprendere la 
esorbitanza di siffatta misura, e la proprietà immobiliare cominciò mano mano 
nella pratica ad emanciparsi da quell’uso selvaggio. Il Bynkershoek fu, a quanto 
ne sappiamo, l’ ultimo scrittore classico che in teoria ammettesse il dritto di 
conquista; ma egli medesimo confessa che ai suoi giorni la pratica delle nazioni 
aveva cominciato a calcare orme diverse. 

Venti anni dopo di lui (1758) il Vattel fu tra i primi ad elevare a principio 
il temperamento della pratica. « Colui che dichiara la guerra, egli scrisse, non 
« confisca i beni immobili posseduti nel suo paese dai sudditi del suo nemico. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 15 





« Col permettere Joro di acquistare e di possedere questi beni, egli li ha rice- 
« vuti in quanto a questi beni nel numero dei suoi sudditi » (1). 

Però ha messa avanti una eccezione che ha distrutto il merito della regola. 
«Si possono, ei soggiunge, però mettere sotto sequestro le rendite per evitare 
« che siano trasportate presso il nemico. » Ma questa eccezione non è in aperta 
contraddizione col principio ammesso ? Che altro importa il sequestro se non 
annientare del fatto la riconosciuta incolumità degl’immobili? 

Ci sorprende come addì nostri uno scrittore tedesco, Heffter, abbia potuto ban- 
dire una teorica -somigliante. Certo egli è che, senza tema di essere contraddetti, 
gl’immobili di uno straniero dovrebbero essere e sono nel fatto rispettati com- 
pletamente. Possono essere sottoposti a tasse ordinarie e straordinarie, ma solo 
a quelle che pesano indistintamente sopra tutti i regnicoli. 


V. 


Lo stesso principio deve garentire i mobili corporali, qualunque essi siano, 
che per avventura si trovino all’inizio di una guerra nel territorio nemico. Uno 
straniero che entra in uno stato e vi apre stabilimenti commerciali ha dovuto 
contare sulla fede nazionale. E quale è mai la differenza per cui gl’ immobili 
debbono essere riguardati con maggiore favore? Il dritto di proprietà è forse 
men sacro quando si parla di mobili? 

Sino a pochi secoli addietro neppure questa proprietà fu salva dalla confisca. 
Allo scoppio delle ostilità uno stato faceva prigionieri tutti i cittadini nemici 
che si trovavano entro il suo territorio, e metteva mano su tutte le loro so- 
stanze. Il Vattel fu tra i primi a gridare alla ingiustizia, e raccomandò che si 
accordasse loro un termine per uscire dal regno e per portare con se tutti gli 
effetti di cui non fossero riusciti a disfarsi (2). Questa teorica è accettata dalla 
gran maggioranza degli scrittori, ed è seguita da tutti gli stati moderni, i quali 
sono discordi solo nel termine (3). î 

In tempi in cui nè la libertà personale nè la proprietà privata erano garen- 
tite, la teoria che dava agli stranieri un termine segnava un vero progresso. Ma 
oggi in cui sì è cercato di abbattere tutte le barriere che impediscono il completo 
affratellamento dei popoli, essa è certamente un anacronismo, e ci sorprende come 
addì nostri il Vergè, scrittore tanto illuminato, non abbia saputo fare di meglio 
che « desiderare che venga generalizzato il principio riconosciuto da un gran 


(1) Vattel, Droit des gens. 1. 3, ch. V, $ 76. 
(2) Vattel, L. III, ch. IV, $ 63. 
(3) Calvo, Droît international, $ 719. 


16 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 








«numero di trattati, il quale accorda un termine di sei mesi o di un anno ai 
« negozianti della nazione nemica per ritirarsi nella loro patria » (1). 

Questo argomento, come ognun vede, si annoda a quello della libertà perso- 
nale. Tuttodì si sente ripetere che un governo ha in ogni tempo il diritto di 
espellere dal suo territorio gli stranieri, e che perciò possa farli uscire nel pe- 
riodo di guerra. Questo principio è vero tutte volte che uno straniero contrav- 
venga alle leggi locali, o che la sua presenza nuoccia menomamente allo inte- 
resse del pubblico; ma fuori di questi casi racchiude un errore. No; la sorte di 
uno straniero non può essere abbandonata così facilmente all’ arbitrio cieco ed 
incensurabile dei governanti e dei loro agenti. Un governo non è più oggi il pa- 
drone assoluto di fare tutto ciò che più gli talenta. Esso è il mandatario della 
nazione, e deve di conseguenza fare solo ciò che è nello interesse della nazione 
medesima. 

Or non può interessare ad una nazione la espulsione di uno straniero inoffen- 
sivo che si sottomette alle leggi locali. Ha invece interesse di chiamare quanti 
più stranieri è possibile, perchè infine è nello sviluppo economico e commer- 
ciale che si fonda principalmente la prosperità degli stati. Niun popolo ha inte- 
resse di isolarsi, e di sprezzare ciò che viene di là dai confini. 

Nè è punto a distinguere tra tempo di pace e tempo di guerra. Finchè i cit- 
tadini furono ritenuti solidali ai loro governi, questa espulsione era legittima, 
perchè non si deve avere in casa propria il nemico. Ma oggi che la guerra è 
opera di stato a stato, oggi che i cittadini isolati non hanno alcuna parte nelle 
risoluzioni dei loro governi, il suddito di un belligerante non è nemico dell’altro 
presso cui dimora. Per lui sarà sempre tempo di pace. Se vuolsi si esigga in 
guerra da lui una condotta più misurata; si sottomettano pure a più scrupolosa 
vigilanza tutti i suoi atti; ma tranne di ciò niuna differenza è più possibile tra 
la pace e la guerra. Purchè si astenga da ogni atto che sappia di ostile, per lui 
non ci può essere in ogni tempo altro motivo legittimo dì espulsione che quello 
desunto dalla propria condotta o dalla pubblica utilità (2). 

Le persone quindi e le loro proprietà mobiliari debbono essere inviolabili in 
tempo di guerra come in tempo di pace. Sarebbe invero una grande ingiustizia 
obbligare gli stranieri a disfarsi dei loro stabilimenti con tanti stenti creati; e 
sarebbe nel tempo stesso segnare la propria sventura, perchè il danno fatto al 
commercio straniero è il sasso che cade sulla testa di chi l’ha scagliato. 

Informato a questi principî il regno d’Italia stipolava il 19 giugno 1861 con 
la repubblica di Venezuela un trattato il cui articolo 5° è così concepito : 

«A maggiormente tutelare la sicurezza dei cittadini e sudditi rispettivi, sì 
« conviene che se per disgrazia venisse a rompersi l’amicizia tra le due potenze 


(1) Note a De Martens, Precis. de droît intern., $S 268. 
(2) Pinheiro-Ferreira Note e Vattel, 1. 2, ch. VIII, $ 100 e 114. 


E DEI DRITTI DI GUERRA ‘ 17 


« contraenti , i suddetti cittadini e sudditi residenti nel territorio dell’ altra a- 
« vranno dritto di rimanervi e di continuarvi senza interruzione di sorta l’eser- 
« cizio della loro industria, sempre che si comportino pacificamente obbedendo 
«alle leggi del paese. Gli effetti e le proprietà loro che fossero affidati a parti- 
« colari o allo stato, non potranno essere occupati o sequestrati, nè sottoposti 
«ad altro qualsiasi gravame, che non venisse egualmente imposto agli stessi 
«effetti ed alle stesse proprietà di pertinenza dei cittadini e sudditi del paese 
« nel quale risiedono. » i 

La storia del secolo XVII ci offre un esempio simile, il quale se avesse sin 
d’allora trovato imitatori, il progresso del dritto internazionale sarebbe stato in 
questa parte accelerato di molto. Carlo II re della Gran Brettagna nella guerra 
contro la Francia diede permesso ai francesi domiciliati nel suo territorio di 
seguire a dimorarvi liberamente con tutti ì loro effetti pourvu qu'ils s°Y comportent 
comme ils le doivent; e promise protezione e soccorso a coloro che di propria vo- 
lontà avessero preferito di uscire (1). Questo fatto isolato parve allora strano ed 
eccezionale; ma oggi è la meta delle nostre aspirazioni. Ed è così solo che le 
guerre possono riuscire meno esiziali di come lo erano un tempo, sì che non 
rimane che far voti con Pinheiro-Ferreira perchè dell’ antica consuetudine non 
resti più traccia pria di spirare il secolo presente (2). 


VI. 


Questi principî coprirebbero anche i beni incorporali, siano crediti contro i 
particolari, siano crediti contro lo stato (3). E questi ultimi sono pei garentiti 


(1) Vattel, L. III, ch. IV, $ 63 e 64 nota, 

(2) Note a Vattel I. c. 

(3) Heffter e Massè (droît comm. n. 139) vogliono trovare per i crediti e per tutti i dritti 
incorporali una speciale ragione che li possa garentire anche quando sia sequestrabile la 
proprietà privata nemica. # Allorquando (scrive il Massè) si sequestra un mobile corporale, 
“ il sequestro costituisce un fatto compiuto. Ma quando si tratta di crediti di azioni e di 
“ dritti sopra terzi, tutto non è consumato col sequestro o colla confisca fatta eseguire dal 
« sovrano del debitore. Questo sovrano che ha a suo favore la forza, può ben costringere 
« it debitore a pagare nelle sue mani; ma un tale pagamento non estingue il debito ri- 
“ spetto al debitore perchè questi non può riconoscere nel sovrano nemico il dritto di met- 
€ tersi al suo posto e luogo. Ogni novazione per sostituire un debitore ad un altro sup- 
« pone il consenso del creditore sostituito, e la guerra che scoppia tra due nazioni non po- 
4 trebbe mai equivalere a questo consenso. , 

Il professore Vidari (del rispetto della proprietà privata, p. 102 e seg.) ha accettata que- 
sta dottrina, la quale a noi sembra una petizione di principio. Ammesso che la guerra dia 


3 





18 I DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 





da un altro principio, la fede pubblica. Cittadini e stranieri hanno portato i! 
loro denaro allo stato nella fiducia di trovare un sicuro collocamento. Il giorno 
in cui uno stato per ragione di guerra credesse di mancare ai suoi impegni, uc- 
ciderebbe se stesso, e scuoterebbe nel tempo medesimo il credito di tutti gli 
altri, perchè niuno vorrebbe più contrattare con governi nel timore che una 
guerra potesse dare loro il pretesto di mancare alle assunte obbligazioni. 

Siffatti crediti sono stati perciò garentiti in tutte le età. Forse non è, come 
osserva il Pinheiro-Ferreira, il solo sentimento di giustizia che ha guidato i go- 
verni, ma piuttosto il proprio calcolo per non allontanare i capitalisti stranieri. 
Comunque sia, accettiamo il beneficio del fatto, senza entrare negli ascosi in- 
tendimenti che lo hanno dettato (1). 


VII. 


Ed eccovi alla proprietà privata posta nel territorio conquistato, la meglio a- 
datta a prestarsi alle più passionate declamazioni dei nostri avversari. Anche qui 
è utile la stessa divisione di mobili e di immobili, di corporali e di incorporali. 

In quanto agl’ immobili una sola idea risolve tutto il problema, ed è che la 





il dritto ad un belligerante di sequestrare e di confiscare la proprietà dei cittadini nemici 
posta nel suo territorio, il pagamento fatto dal debitore nelle pubbliche casse per ordine 
governativo, costituisce una liberazione legittima. Più logica, sebbene erronea, ci sembra la 
dottrina di Bynkershoek, il quale stabilito il falso principio della confisca, lo applica egual- 
‘mente a tutti i casi: “ Actiones utique sive credita non minus, jure gentium sunt in domi- 
nio nostro quam alia bona, et cur igitur in his jus belli sequamur, in illis non sequamur ? , 
L, 1, cap. VII. Ciò che può rimproverarsi a questa dottrina non è il difetto di logica, ma 
la mancanza di base. 

(1) £ Durante il suo soggiorno a Posen, Napoleone I supponendo che il gabinetto di 
Londra volesse confiscare i fondi del debito pubblico a danno dei francesi, ordinò al mi- 
nistro del tesoro di esaminare se, data la confisca, fosse il caso di usare in Francia lo stesso 
rigore. L'argomento, diceva l’imperatore, è delicatissimo, e non vorrei darne lo esempio; ma se 
gl’inglesi lo fanno, io debbo usare la rappresaglia. M. Mollien rispose che un atto simile gli 
sembrava contrario alla politica inglese per poterlo credere, e che da suo canto desiderava 
che il gabinetto di Londra commettesse un errore simile, perchè egli lo avrebbe reso assai 
più funesto col non imitarlo. A quest’ uopo inviò all’ imperatore la memoria di Hamilton, 
l’amico, il consigliere ed il ministro dì Washington, sulla quistione se sia più la politica o 
la morale che interdica ad ogni governo la confisca dei capitali prestatigli dai sudditi di 
una potenza con cui si è in guerra , o anche la semplice sospensione degl’interessi. Napo- 
leone non insistè più su questo argomento. » 

Chevalier, Biografie du comte Mollien, revue des deux mondes, 15 aout 1856, p. 856. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 19 


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conquista la più assoluta non fa che mettere il conquistatore nello stesso luogo 
del sovrano scacciato. 

Un belligerante può entrare nel territorio nemico per non uscirne mai più, e 
la è una conquista propriamente detta. Può entrarvi per uscirne più o men tardi 
a seconda le incerte vicende della guerra, e questa chiamasi invasione o occu- 
pazione militare. Politicamente sono diversi i diritti che l’una e l’altra attribui- 
scono al vincitore, ma in faccia ai privati costui in tutti i casi non può avere 
facoltà maggiori dell’antico sovrano. 

Nelle antiche guerre il vincitore facea suo tutto il territorio conquistato, salvo 
a restituire i terreni a sua volontà agli antichi proprietari, e a distribuirli a 
coloro che avevano presa parte più o meno attiva alla guerra. Anche nel prin- 
cipio del secolo presente il De Martens riconobbe nel vincitore il dritto d: attri- 
buirsi tanti beni particolari sia del sovrano nemico sia dei suoi sudditi, quanti ne est- 
gerebbe la sua soddisfazione; ma almeno ha fatta la grazia di confessare che nella 
pratica questo rigore non era punto seguito (1). 

Ma se le guerre sono opera di stati, come mai il vincitore può metter mano 
sulle sostanze dei cittadini? Può occupare una città o una provincia, perchè ap- 


pe 


partengono allo stato, e la guerrà dà appunto il diritto di indebolire il nemico; 
ma appena che il territorio è tolto allo stato, lo scopo è raggiunto, sì che al 
vincitore non resta che mettersi al posto del vinto sovrano. Potrà quindi, ove la 
occupazione non sia momentanea, riscuotere le imposte, imporre nuovi balzelli, 
può fare sue le proprietà demaniali, può esercitare sino ad un certo punto i 
dritti di sovranità, ma non ha quello di appropriarsi le sostanze particolari quasi 


fossero res nullius; e tra queste uopo è allogare quelle del principe spodestato (2). 
VIII. 


Ma se la guerra non dà dritto sulle proprietà particolari, dà forse quello di 
distruggerle e di rovinarle? Quante proprietà, scrive Hautefeuille, militarmente 
occupate ritornano ai loro padroni in istato di completa rovina? Se questo è, 
ei soggiunge, non è completo il rispetto della proprietà privata, nè possibile di 
completarlo (3). 

In tutto ciò è una strana confusione di idee. Il rispetto della proprietà pri- 
vata non esclude i danni inseparabili della guerra, ma solo quelli che sono frutto 
volontario di odio di brutalismo e di vendetta. La guerra ha le sue dolorose 


(1) De Martens, Precis. de droît inter. 8 280, n. 3. 
(2) Vergè, Note a De Martens, 8 282. 
(3) Hautefeuille, Questions de droît maritime, p. 75. 


20 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


_—————' 








necessità. Non riconoscerle, è lo stesso che disarmare i belligeranti ed attentare 
alla essenza dello stesso dritto di guerra. Perchè i due eserciti si possano tro- 
vare di fronte, uopo è che passino da un luogo all’altro; ed il transito più ac- 
curato di truppe produce sempre dei danni. Per isnidare un nemico trincerato 
dietro una siepe di edifici, è necessario l’uso delle artiglierie. Chi può sul serio 
in questo ed in cento altri casi simili trovare un argomento contro la proprietà ? 
Più che danno voluto, la può dirsi una sventura per quei proprietarì nel cui 
terreno si è concentrato il campo dell’azione. 

Talvolta la necessità strategica richiede lo abbattimento di un edificio, e tal- 
volta ancora la offesa e la difesa esigono la rovina e la devastazione di una linea 
più o meno vasta di territorio. Ammesso il dritto di guerra, sarebbe impossibile 
non ammettere queste conseguenze; e la storia appunto ricorda dei casi in cui 
la salute di una provincia o di un regno è dovuta all’uso di mezzi così violenti. 
San tutti lo incendio di Mosca ai tempi del I Napoleone; ma anche molto tempo 
innanzi Pietro il Grande avea salvato la Russia dall’invasione svedese con la de- 
vastazione di ùn cento leghe di territorio (1). Se questo può fare il proprio so- 
vrano, salvo il debito del risarcimento, può ben farlo il vincitore per assicurare 
le sue conquiste e la salvezza delle sue truppe. 

Questi casi di eccezione nulla quindi tolgono alla regola generale. Essi dipen- 
dono invece da un altro principio, cioè che lo interesse particolare deve tacere 
quando parla lo interesse inesorabile della guerra. Difatti non sono mai abban- 
donati al capriccio del vincitore, nè sono mai autorizzati per lievi motivi (2). 
Anche in questa parte la guerra ha le sue regole, e queste sono tracciate esat- 
tamente dal Wheaton, la cui opinione è stata fortunatamente seguita da tutti 
coloro che hanno scritto dopo di lui. i 

« Il dritto naturale autorizza a servirsi contro il nemico di un grado di vio- 
« lenza necessaria solamente per assicurare l’oggetto delle ostilità. La medesima 
«regola generale che determina sino a qual punto è permesso di distruggere la 
« persona del nemico , servirà di guida per giudicare sino a qual punto sia le- 
« gale la devastazione di un paese » (3). E poichè si può uccidere il nemico sol 


(1) Vergè, Note a De Martens, $ 282. 

(2) # I rimedî violenti non debbono essere prodigati ; si richiedono ragioni di una pro- 
porzionata importanza per giustificarne l’uso. Un principe che senza necessità imitasse la 
condotta dello Czar, sarebbe colpevole verso il suo popolo. Colui che fa altrettanto nel paese 
nemico quando nulla ve lo costringe, o per deboli ragioni, si rende il flagello dell'umanità. 
I francesi incendiarono e saccheggiarono il Palatinato nel secolo scorso (1674 e 1689): un 
grido universale si levò contro questa maniera di guerreggiare. Invano la corte allegò per 
motivo il disegno di mettere al coverto le sue frontiere; il Palatinato saccheggiato serviva 
ben poco a questo fine; non vi si vide che la vendetta e la crudeltà di un ministro duro 
ed orgoglioso. , Vattel, L. 3, ch. 9, $ 167. (8) 

(3) Wheaton, Dritto int. p. 4, cap. 2; $ 6. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 21 





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mentre combatte o mentre è in atto di nuocere, così la devastazione può essere 
permessa nei soli casi della più assoluta necessità. 

Se quindi non si può espugnare una città o una piazza importante senza ab- 
battimento di edifici, se non sì può arrestare l’impetuoso irrompere dei nemici 
senza devastare i campi e senza bruciare i ricolti, si può ricorrere a questi e- 
stremi violenti. Ma fuori di questi casi non è permesso di toccare la proprietà 
altrui, quand’ anche l’uso della violenza potesse facilitare le operazioni strategi- 
che (1). 

Il Grozio ammette la devastazione quando serve ad affrettare la pace. « Ma 
« questa regola (esclama il Laurent) è pericolosa perchè tende a giustificare i 
« mezzi col fine. Quali sono allora gli eccessi che non si giustificano? Non è 
«assai più giuridico il dire che i mezzi impiegati dai belligeranti debbono tro- 
« vare in se stessi la loro giustificazione?» (2). 

Taluni altri scrittori moderni, che sventuratamente costituiscono la maggio- 
ranza, ammettono la devastazione in linea di rappresaglia, cioè quando il ne- 
mico abbia violato le leggi di guerra. Noi crediamo invece che i cattivi esempi 
non debbono mai trovare imitatori, e che un’ azione indegna debba essere ab- 
bandonata a se stessa ed al giudizio della pubblica opinione, la quale giudica 
tutti senza tribunali di appello e non perdona ad alcuno. « La idea di rappre - 
saglia, esclama pieno di giusto sdegno il Pinheiro-Ferreira, non dovrebbe essere 
più riprodotta ai nostri giorni, e sopratutto per giustificare gli orrori che fanno 
fremere la umanità » (3). 

Non è dunque vero che la proprietà privata immobiliare non possa essere ri- 
spettata. La dev'essere per regola generale, salvi i casi eccezionali di indeclina- 
bile necessità. Si può contendere se in tutti questi casi eccezionali il proprio 
governo debba un risarcimento, come vorrebbe il Vidari (4), o solo lo debba in 
taluni casi determinati, come più sennatamente insegnano Vattel e Sandonà (5); 





(1) £ Secondo Heffter, gli usi della guerra condannano, eccetto i casi di rappresaglia e di 
precauzione, le devastazioni del territorio nemico e le distruzioni dei ricolti e delle abita- 
zioni. É a dolere che i belligeranti spesso ricorrono a questi mezzi a solo scopo di facilitare le 
operazioni strategiche. , Vergè, Note a De Martens, $ 273. 

(2) Laurent, Des nationalites, p. 491. 

(3) Pinheiro-Ferreira, Note a De Martens, $ 167. 

(4) Vidari, Del rispetto della proprietà privata, ed. 1867, p. 42 e seg. 

(5) “ Lo stato deve indennizzare i particolari delle perdite che hanno sofferto colla guer- 
ra ?'Si può vedere in Grozio che su questa quistione gli scrittori sono divisi. Bisogna di- 
stinguere due specie di danni, quelli cagionati dallo stato, e quelli fatti dal nemico. Nella 
prima, gli uni sono cagionati liberamente e per precauzione, come quando si prende un ter- 
reno, una casa o un giardino di un particolare per costruirvi una qualsiasi opera di forti- 
ficazione , o quando si bruciano: i ricolti o i magazzini per non farne profittare al nemico. 
Lo stato deve pagare questi danni. Ma altri danni sono cagionati da una necessità inevita- 


22 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


ORTO 3 








ma niuno può trovarvi la condanna del nostro principio. Che se nel 1813 la In- 
ghilterra devastò villaggi e città, e fino i pubblici edifici, non escluso il palazzo 
di governo in Washington (1); e se tre lustri addietro gli eserciti più civilî del 
mondo, quelli cioè della Francia e dell’Inghilterra, devastarono il palazzo di està 
dell’imperatore di China, ciò depone contro gli uomini, non contro la regola, 
come appunto dalla facilità di delinquere niuno può trarre argomento in pro 
del delitto. 


IX. 


DI 


Materia più importante è la proprietà mobiliare; più importante non già per 
la diversità dei principî, ma perchè più esposta ai capricci del vincitore ed alla 
rapacità delle truppe. 

Intanto uno è il principio che governa anche questa materia, quello cioè che 
le guerre sono opera di stato a stato, e che i cittadini inoffensivi non debbono 
-'spondere delle conseguenze del fallo altrui. Mobili ed immobili sono quindi 
retti da unica legge; anzi i primi sono in condizione migliore, perchè non sono 
sottoposte alle dure necessità della guerra. Si intende bene che nel caso in cui 
un edificio venga devastato, i mobili che vi si trovano corrono la medesima 
sorte; ma questi per se medesimi mai entrano nei calcoli della strategia. Pos- 
sono talvolta alcune delle cose mobili servire agli eserciti; ma allora saremmo 
nel terreno delle contribuzioni di cui or ora ci occuperemo. 

Nelle antiche guerre la conquista traeva con se il sacco delle proprietà pri- 
vate. La quale cosa dipendeva non pure dal modo come allora si intendeva la 
guerra, ma anche, e forse di più, dalla costituzione delle truppe, le quali erano 
meglio accozzaglia di gente che eserciti disciplinati. Mal retribuiti, l’unico modo 
di mantenere la disciplina era la promessa di un ricco bottino (2). 

Ma dacchè i particolari furono messi da canto, e dacchè alle antiche bande 
tennero dietro eserciti regolari e sussidiati dallo stato, il saccheggio non aveva 


bile, come per esempio i danni dell’ artiglieria in una città ripresa al nemico, Questi sono 
accidenti, sono sventure per quei proprietari che le soffrono. Il sovrano deve avervi consi- 
derazione se le sue finanze glielo permettono; ma non vi ha azione contro lo stato per per- 
dite che egli non ha cagionato liberamente. Dico altrettanto dei danni cagionati dal nemico. 
Tutti i sudditi sono esposti a questi danni; sventura a colui che ne resta colpito. , Vattel, 
L. III, ch. XV, 8 232. 
V. pure Sandonà, Corso di dritto inter. p. 353. 

(1) Il Wheaton 1. c., $ 6 fa un’ampia e lacrimevole rassegna di tutti questi atti vanda- 
lici, e riassume la corrispondenza diplomatica tenuta su questo doloroso argomento. 

(2) Laurent des nationalites, p. 468. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 23 





più ragione di essere. Eppure questa barbara usanza si mantenne come regola 
generale sino a qualche secolo addietro; ed anche oggi figura in linea di ecce- 
zione negl’ insegnamenti della dottrina. Non ci sorprende il Grozio (1), ai cui 
giorni il dritto delle genti era bambino; non il Vattel (2), il quale, è vano il 
celarlo, veniva spesso trascinato dalla corrente, l’uno e l’altro insegnanti la le- 
gittimità del sacco; ci sorprendono gli scrittori della nuova éra, che ammettono 
da un canto la distinzione tra stato e cittadini, e dall’ altro finiscono col rico- 
noscere in molti casi la legittimità del sacco delle proprietà private. 

Infatti il De Martens ed il Weaton io ammettono in due casì (3) nelle città 
prese di assalto, o in linea di rappresaglia. Il Kliber ne aggiunge un terzo (4), 
quando cioè i particolari si mostrano sediziosi ed ostili. E queste sono più o 
meno le teoriche insegnate dalla maggioranza degli scrittori. 

Toccammo più sopra delle rappresaglie. Qui ci piace di aggiungere che esse 
racchiudono una mostruosa ingiustizia, perchè tendono a fare pesare sopra in- 
nocenti la pena del fallo altrui. Che colpa hanno essi se lo esercito ha mancato 
ai propri doveri, e se calpesta le leggi di guerra? Un esercito è in guerra lo 
strumento necessario con cui uno stato agisce; è dunque tutto al più al man- 
dante che devesi chiedere ragione degli atti vietati. Si aggravi quindi se vuolsi 
la mano contro di lui nelle condizioni di pace, ma si risparmino i cittadini 
inoffensivi. Lo stato rappresenta la massa dei cittadini, ed ha di conseguenza il 
debito di tutelarli e di vendicarli al bisogno; ma i cittadini non rappresentano 
punto lo stato. È senza dubbio doloroso spettacolo vedere un belligerante calpe- 
stare le proprietà altrui; ma è più doloroso vedere ripetuto lo esempio, ed au- 
mentato il numero degl’infelici. Come nel dritto privato una violenza sofferta 
non giustifica il ricambio, così nel dritto pubblico la colpa altrui non deve le- 
gittimare le rappresaglie. 

Nè meno ingiusto ed assurdo è il sacco delle città prese di assalto. Già ognuno 
comprende che qui intendiamo parlare di città, villaggi e campagne abitati da 
pacifici cittadini, non di piazze forti o di accampamenti a forza di armi espu- 
gnati. Tutto ciò che in questi luoghi cade in mano del vincitore è sua legittima 
preda, perchè non è più proprietà privata ma proprietà del nemico. Con questa 
distinzione che tutto ciò che è di uso generale, come armi, attrezzi, munizioni, 
viveri, passano allo stato, e ciò che è di uso particolare appartiene ai combat- 
tenti, e fra essi al primo occupante (5). 


(1) Grozio, L. III, cap. V e VL 
(2) Vattel, L. III, ch. IX, $ 164. 
(3) De Martens, op. c. $ 280, n. 3. 
Wheaton, p. 4, c. 2,585 e 6. 
(4) Kliiber, op. c. $ 263. i 
(5) “ Quanto all’attribuzione del bottino gli usi di guerra distinguono le cose che hanno 
un valore immediato per i combattenti che se ne impadroniscono, come, per esempio il de- 


24 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 








Ma in quei luoghi ove dimorano pacifici cittadini, la espugnazione non dà al- 
cun dritto sulle sostanze dei particolari. Che colpa hanno essi se la guarnigione 
ha creduto di resistere a tutta oltranza? Già diremo che non è colpa difendere 
sino all’ ultimo sangue l’ onore della propria bandiera. La viltà è spregiata fin 
dagli stessi nemici. Ma quando pure una resistenza accanita potesse all’ avver- 
sario riuscire molesta, non vi entrerebbero per nulla i particolari. 

Nè diversi sono i principî nel caso preposto dal Kliiber, cioé quando i citta- 
dini impugnino le armi per respingere una invasione. Si intende bene che tutti 
quei cittadini, che per propria iniziativa prendono le armi contro il nemico in- 
vasore, perdono il dritto di essere trattati come particolari. Si disputa nella 
scienza se costoro possono essere trattati come nemici illegittimi secondo l’av- 
viso di Pe Martens e di Hautefeuille (1), o se invece debbono essere considerati 
come prigionieri di guerra in grazia della santità dello scopo, come con più fon- 
damento assumono Pinheiro-Ferreira e Sandonà (2); ma quando pure si potesse 
scegliere il partito più duro, non sarebbe mai il caso di intimare il sacco ad 
una città o ad una borgaia, perchè la colpa dei rei non deve pesare sopra in- 
nocenti. È impossibile supporre una città tutta in armi. In una stessa famiglia 
possono a fianco dei combattenti trovarsi donne, vecchi, ammalati, fanciulli, ed 
intanto secondo il Kliiber, tutti indistintamente sarebbero travolti nel vortice 
generale. 

I mobili sono quindi in tutti i casi intangibili. Ed a chi amasse l’ autorità 
dei nomi, ricorderemmo la testimonianza del più grande conquistatore dei tempi 
moderni, che al dire di Cauchy coi suoi decreti di Berlino e di Milano spinse 
alla follia il principio della confisca delle merci nemiche. Napoleone I un mese 
dopo la battaglia di Wagram, dal fondo della Germania il 22 agosto 1807 egli 
medesimo dettò al conte di Champagny una lettera per il ministro degli Stati 
Uniti, Amstrombg, le cui parole vorremmo fossero scritte nelle bandiere di tutti 
gli eserciti e di tutte le armate. 

«I mari non appartengono ad alcuna nazione ; essi sono il bene comune dei 
popoli ed il demanio di tutti. 


naro, le gioje, le armi di lusso, i vestiti trovati sopra i cadaveri o in potere dei prigionieri, 
e quelle che facendo parte del materiale e degli approvigionamenti di un esercito non sono 
di una utilità diretta ed individuale per i militari che se ne rendono padroni, come le grosse 
artiglierie, i convogli, le munizioni ecc. Le prime divengono proprietà di coloro che se ne 
impadroniscono; le seconde passano nel dominio dello stato, ed il generale se ne impadro- 
nisce nell’ interesse pubblico. Che se fuori dei casi indicati un militare si impadronisce in 
paese nemico di una cosa mobile appartenente ad un abitante, sarebbe un atto vietato dalla 
disciplina moderna, ed il bottino illecito dovrebbe essere restituito alla parte lesa.» 
Pradier-Foderé, Note a Vattel, 1. 3, chap. 9, $ 164. 
(1) De Martens, $ 271. — Hautefeuille, v. 1, p. 136. 
(2) Pinheiro-Ferreira, Note a De Martens, 1. c:.—Sandonà, op. c. p. 210. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 25 


——r————+—+—.rrrrrrrrr-stt<z"zz=—z=—=—=--<—<": _——_ T rTrrrrtttttt—t___—__——r_—r 


« Le navi commerciali nemiche appartenendo ai particolari debbono essere 
rispettate. Gli uomini che non combattono, non possono essere fatti prigionieri 
di guerra. 

« In tutte le sue conquiste la Francia ha rispettate le proprietà private. I ma- 
gazzini e le botteghe sono rimasti ai loro proprietari; essi hanno potuto disporre 
delle loro mercanzie, ed in questo stesso momento convogli di vetture carichi 
principalmente di cottone traversano gli eserciti francesi. Se la Francia avesse 
adottati gli usi delle guerre di mare, tutte le mercanzie del continente di Eu- 
ropa sarebbero state accumulate in Francia, e sarebbero divenute sorgente di 
immense ricchezze. 

«Questi sono i principî dell’ imperatore su gli usi e sui dritti delle guerre 
marittime. Allorchè la Francia avrà acquistata una marina proporzionata alle 
sue coste ed alla sua popolazione, l’imperatore metterà ancora di più in pratica 
queste massime, e farà tutti gli sforzi per renderne generale l’adozione (1). 

Dopo le parole ed i fatti di quel gran despota, niuno potrebbe onestamente 
mettere in dubbio la incolumità della proprietà mobiliare privata. Eppure, la 
Francia nel 1860, come abbiamo già accennato, abbandonò al sacco il palazzo 
particolare dell’imperatore di China, come rappresaglia dei cattivi trattamenti 
fatti dalle sue truppe ai soldati francesi, e nella guerra del 1854 gl’inglesi sulle 
rive del mare di Azof distrussero e saccheggiarono i magazzini appartenenti ai 
pacifici cittadini russi. Mentre questi atti sono stati stigmatizzati dal mondo ci- 
vile, solo Hautefeuille si è alzato per giustificarli chiamandoli esercizio legittimo 
del dritto di guerra. Non avevamo dunque ragione quando dicemmo che è la 
dottrina quella che dà ai belligeranti i peggiori consigli? 


X. 


Argomento che intimamente si annoda con la proprietà privata mobiliare è 
quello delle contribuzioni che il vincitore può imporre sul territorio occupato. 
De Martens ed Hautefeuille le dicono invalse come equivalente per riscattare la 
proprietà privata dalle devastazioni e dal sacco (2), ma è questo un errore. La 
proprietà particolare è garentita, come abbiamo veduto, dal dritto delle genti, 
quando le contribuzioni dipendono da un altro principio, dal dritto cioè che ha 
il vincitore di essere mantenuto dal territorio conquistato. « Poichè bisogna (dice 
«il Massè) che un esercito si mantenga in un paese nemico, e poichè un eser- . 
« cito che invade non può essere tenuto a pagare le spese della guerra nè ad 


(1) V. Cauchy, Droit maritime, v. 2, p. 361. 
(2) De Martens $ 280, n. 3. —- Hautefeuille, quest. de droit marit., p. 76. 


26 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 





« anticiparle, la legge della necessità permette di colpire di contribuzione il ter- 
«ritorio occupato » (1). 

Difatti le contribuzioni non dovrebbero mai essere chieste ai cittadini perso- 
nalmente , ma alla pubblica autorità, salvo a questa a sopperirvi con tutti i 
mezzi che la legge le appresta. Finchè i cittadini erano riguardati come perso- 
nali nemici, erano essi che con le loro sostanze indennizzavano il vincitore. Ma 
poichè è ora la guerra opera di governi, è lo stato che deve rispondere delle 
contribuzioni; ed è per ciò che nella guerra del 1870 vedemmo le truppe prus- 
siane, la cui moderazione non fu certo compagna del loro eroismo, rivolgersi 
alle autorità costituite, mettendo da canto i cittadini. In sostanza sono questi 
che pagano; ma pagano proporzionatamente sotto forma di dazì o di altre legit- 
time imposizioni (2). 

In un solo caso sembra sia lecito di rivolgersi ai particolari direttamente, 
nelle requisizioni dei viveri, degli animali, o di altri elementi indispensabili al 
materiale mantenimento delle truppe. Tutti gli scrittori riconoscono questo dritto, 
ma tutti danno al richiedente l’obbligo del pagamento, o in contanti o in boni 
pagabili alla esibizione. Si può, quando urge il bisogno, adoperare la forza; ma 
ottenuto lo intento, si deve inesorabilmente pagare (3). Il duca di Wellincton 
ha meritata l'ammirazione della storia, cui è passato col nome di duca dì ferro 
per la inflessibile severità con cui volea che le sue truppe pagassero ciò che 
domandavano agli abitanti. 

Non possiamo lasciare questo argomento senza osservare che il vincitore se 
da un canto ha il dritto d’imporre delle contribuzioni, ha dall’altro il debito di 
essere moderato, e di non ispingere le sue domande oltre i limiti del giusto e 
del necessario. Niuno può pagare ultra vires. La moderazione produce un doppio 
vantaggio: assicura il pagamento, e non irrita gli animi del popolo vinto. Un 
conquistatore per quanto forte sia, non deve dimenticare che ha dinnanzi a se 
cittadini incolpevoli, e che una eccessiva durezza può suscitare sollevamenti in 
massa, di cui dovrebbero, come sennatamente osserva Pinheiro-Ferreira, guar- 
darsi anche le truppe le più agguerrite. È veramente ammirando il modo onde 
imponevansi ed eseguivansi le contribuzioni nelle lunghe guerre di Luigi XIV3 
e a rossore dei tempi nostri ci piace di riferire quanto ne scrisse il Vattel, che 
non ostante le sue velleità è sempre un grande scrittore che ha resi utili ser- 
vizi all’umanità ed alla scienza. 

«Se un generale vuole godere di una riputazione senza: macchia, deve mode- 
«rare le contribuzioni e proporzionarle alle facoltà di coloro cui le impone. 
« L’eccesso in questa materia non isfugge al rimprovero di durezza e di inuma- 


(1) Massè, op. c., v. 1, n. 151. 
(2) Laurent, des nationalités, p. 462. 
(8) Calvo, $ 906. i 


E DEI DRITTI DI GUERRA 27 





«nità. Se mostra meno ferocia del sacco e della distruzione, appalesa più avarizia 
«e più cupidità. Gli esempi di umanità e di moderazione non possono essere 
« troppo spesso allegati. Se ne vide uno lodevole nelle lunghe guerre sostenute 
« dalla Francia sotto Luigi XIV. I sovrani rispettivamente interessati a con- 
« servare il paese, facevano allo inizio della guerra, dei trattati per regolare le 
« contribuzioni sopra un piede sopportabile. Si conveniva e della estensione del 
« paese, nella quale ciascuno avrebbe potuto esigerle, e della forza di queste 
«imposizioni, non che della maniera come dovevano essere riscosse. Era questo 
«il mezzo per prevenire una moltitudine di eccessi e di disordini che desolano 
«i popoli, quasi sempre a pura perdita dei sovrani che fanno la guerra. Perchè 


«un esempio così buono non è generalmente seguito? » (1). 


XI. 


I beni incorporali sono nel territorio conquistato, essi pure al coverto al pari 
di quelli di cui parlammo nel n. VI. Anche qui due ipotesi si possono presen- 
tare: crediti che un particolare può avere contro lo stato conquistatore, e crediti 
contro i sudditi di lui. 

Che uno stato non possa mancare ai suoi obblighi, è di una evidenza supre- 
ma. Non poteva mancarvi prima della conquista, non può mancarvi neppure 
dopo. Il fatto di essere egli penetrato nel suolo dei suoi creditori, nulla toglie 
alla efficacia dei suoi vincoli. 

Nè meno evidente è l’altra ipotesi. Come prima della conquista non poteva 
validamente obbligare i suoi sudditi a pagare a lui tutto ciò che questi dove- 
vano ai cittadini dello stato nemico, non può neppure farlo dopo di essa. La 
conquista e l’occupazione non alterano menomamente le relazioni di credito e 
debito dei particolari. 

Ma tutto ciò che fosse dovuto allo stato vinto, il conquistatore può esigerlo 
validamente, purchè la scadenza sia verificata. La conquista e l’occupazione met- 
tono il vincitore nel posto del vinto; e se per consentimento di tutti gli scrit- 
tori si possono riscuotere i balzelli, ed imporre dei nuovi, sì può legittimamente 
esigere il pagamento dei crediti scaduti lungo il periodo dell’occupazione. Per 
principî di dritto un pagamento è valido quando è fatto nelle mani del legitti- 
mo possessore del titolo (2). 





(1) Vattel, L. III, ch. IX, $ 165. 
(2) Calvo $ 915 a 9I7. 


28 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


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XII. 


Ed or che abbiamo veduta la proprietà privata rispettata in tutti i sensi nel 
continente, ci sia permesso di chiedere perchè la proprietà particolare marittima 
non è rispettata egualmente? Le guerre marittime lasciano forse di essere opera 
di stato a stato, o i particolari lasciano forse di essere tali? Ognun vede che i 
principî regolatori sono sempre.gli stessi. La guerra, sia che venga combattuta 
nel mare o nella terraferma, conserva sempre il suo carattere naturale. La è 
sempre opera di governo, come i particolari sono in tutti i casi completamente 
estranei alle relazioni governative. Bisognerebbe esser ciechi per non vedere la 
identità di posizione. 

Finchè la guerra dava il barbaro dritto di spogliare i particolari, nulla di più 
logico che la proprietà marittima seguisse le sorti della terrestre. Era allora 
unica regola applicata alla terra ed al mare. Ma dacchè nel continente le regole 
della guerra cominciarono ad addolcire , e si finì col rispettare le sostanze dei 
cittadini, il mare doveva cominciare per necessità ad acquistare il dritto al me- 
desimo trattamento. 0 tutto salvo, o tutto perduto. È un’assurda contraddizione 
applicare in modo diverso lo stesso principio, quasi il mare fosse insuscettibile 
di qualunque miglioramento. Si è detto che il mare sia rimasto indietro nella 
via del progresso. Ma è precisamente di ciò che domandiamo ragione; è. appunto 
ciò che ogni uomo di buon senso non sa comprendere ; el è su di ciò che re- 
clamiamo rigorosa giustizia. 

Si è parlato di differenza tra l’uno e l’altra. Ma quale? Niuna ne abbiamo sa- 
puta e potuta rintracciare; e se mai una ve n’ ha, la è tutta in vantaggio del- 
l’infido elemento, il quale per la sua speciale natura è messo al di sopra di 
tutti quei casì eccezionali in cui sventuratamente si può trovare la proprietà 
stabile. 

È infatti solo nella terraferma che può sentirsi il bisogno di occupare un edi- 
ficio per isnidare il nemico; è nelle guerre continentali che può presentarsi la 
necessità di una devastazione di terreni; è il territorio di una città o di una 
provincia che può sopportare il peso del mantenimento di un corpo di esercito. 
Nel mare nulla di tutto ciò. Nella vasta solitudine dell’ oceano una nave mer- 
cantile che solca pacificamente le onde, non costituisce ostacoli nè desta timori. 

Questa è la sola differenza che il mare e la terra presentano; ma è una diffe- 
renza tutta favorevole al mare. Imperocchè se da un canto le due proprietà deb- 
bono essere rette da unica legge, e se dall’altro la terrestre è la sola che per la 


sua natura possa essere esposta alle esigenze imperiose della guerra, ne siegue . 


logicamente che la marittima debba trovarsi in condizione migliore dell’ altra. 
Niuno vorrà da senno affermare che sol perchè vi ha casi in cui la proprietà 


E DEI DRITTI DI GUERRA 29 


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terrestre possa per circostanze speciali trovarsi fuori l’orbita della regola gene- 
rale, debba di conseguenza quella marittima essere esposta completamente alla 
mercè del nemico. La sarebbe una conseguenza assurda. 


XIII. 


Si è detto che rovinando il commercio marittimo si ferisce il nemico nel 
cuore. La stessa Inghilterra, dice Hautefeuille, non saprebbe resistere ; pria di 
lasciare consumare la distruzione del suo commercio esterno, accetterebbe le più 
onerose condizioni di pace (1). 

Sia pure; ma perchè non applicare al commercio terrestre questo tempera- 
mento che si crede così meraviglioso per imporre sopra il nemico? Importante 
è senza dubbio il commercio marittimo, ma non lo è meno quello terrestre. Vi 
ha nazioni che per la loro giacitura materiale commerciano esclusivamente per 
terra, ed oggi che il continente europeo è tutto solcato da ferrovie, il commercio 
interno si fa in grandissima parte senza l’ajuto del mare. 

Intanto questo commercio è stato religiosamente rispettato. Ma perchè rispet- 
tarlo se rovinandolo si può onestamente raggiungere lo scopo di fare piegare il 
nemico? Si è rispettato perchè non si è voluto fare pesare sopra i particolari la 
responsabilità del governo. Ma non sarebbe lo stesso nel commercio marittimo? 
La mercanzia che ha raggiunto la sua destinazione, ed è chiusa nei magazzini, 
è forse tutt'altra cosa di quella che è ancora caricata sopra la nave? Quella che 
viaggia per terra è forse più rispettabile dell’ altra che eammina solcando le 
acque? Niuno al mondo saprà trovare una differenza plausibile; ed eccoci così 
sempre ad un punto: identità di posizione e trattamento diverso. 


XIV. 


Ma è egli poi vero che la cattura delle navi particolari metterebbe uno stato 
in condizione di cedere? Ci sia lecito di dubitarne. 

Se il commercio marittimo si facesse per conto esclusivo dello stato, e se esso 
costituisse la sua sussistenza, potremmo essere forse di accordo coi nostri av- 
versarì, perchè nulla di più naturale che disseccata la fonte venga di conse- 
guenza ad inaridirsi la pianta. Ma il commercio è esclusivamente opera di par- 


SÌ 


ticolari ; lo stato ne ritrae è vero un vantaggio sotto forma di dazi, ma non è 





(1) Quest. de droit maritime, p. 94. 


30 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 





questa la sola fonte da cui egli riceve alimento. Vi ha il commercio terrestre, 
vi hanno le altre imposizioni dirette o indirette, vi hanno i beni patrimoniali, 
ed infine tutti i mezzi straordinari che più o men lungamente valgono a soppe- 
rire ai bisogni guerreschi. Dorrà certamente, lo vogliamo almeno supporre, agli 
uomini che stanno al timone della cosa pubblica, la rovina di tante famiglie ; 
ma stentiamo a credere che le lacrime di queste possano riuscire a mettere un 
peso nella bilancia governativa. Chi lo afferma e chi lo spera ignora che la ra- 
gione di stato non ha nè visceri nè sentimenti. Forse a'lungo andare lo immi- 
serimento completo riuscirebbe ad indebolire, giacchè uno stato non vive che 
nella prosperità del suo popolo; ma da un canto il commercio non si può rovi- 
nare completamente, e dall’altro lo stesso male che gli si può recare non è mai 
l’opera di un momento. 

La storia appunto ci ammaestra che tutto il danno che si può fare al com- 
mercio nulla contribuisce nell’esito finale della guerra, ed a fare piegare i bel- 
ligeranti. Chi ignora la spaventevole guerra dei 30 anni (1618-48), quella non 
meno sanguinosa della successione spagnuola (1701-13), quella detta dei sette 
anni, nella quale fu protagonista il celebre Federico II di Prussia (1757-63), e 
l’altra infine della indipendenza degli Stati Uniti di America (1778-83), nella quale 
si dilaniarono le due principali potenze marittime, la Inghilterra e la Francia? 
In tutte queste, come nelle cento altre minori, il mare non fu mai rispettato; 
anzi la corsa era a quei tempi nel suo maggiore splendore; e nella stessa terra 
non era ancora entrato quello spirito di moderazione che ha tanto distinto le 
guerre moderne. La prima precisamente fu così distrutliva che a ragione è stata 
messa al di sopra delle stesse invasioni barbariche (1); eppure tutti questi orrori 
non valsero punto a fare accelerare di ua giorno la chiusura del tempio di 
Giano (2). 

E quale danno è maggiore di quello che il famoso blocco continentale pro- 
dusse all’Inghilterra? Tutti sanno la profonda ferita che al commercio inglese 
produssero i fatali decreti di Berlino e di Milano. Immense fortune particolari 





(1) Laurent, Des nationalités, p. 466. 

(2) Nella guerra della indipendenza americana i corsari francesi catturarono 566 navi in- 
glesi del valore di L. 28,259,525 circa. A L. 14,000,000 ascende il danno fatto della marina 
militare. Nella guerra dei sette anni 637 furono i legni catturati dai francesi, e 772 quelli 
presi alla Francia dai corsari inglesi. Nella guerra della successione spagnuola molto mag- 
giore fu il danno vicendevole, ma ci mancano le cifre ufficiali. “ Però, scrive il Cauchy, 
€ troviamo nella storia degli armatori di De Martens una parola assai più significativa di 
« qualunque calcolo. Questa guerra, dice il sapiente scrittore , è forse la sola nella quale gli 
© armamenti in corsa abbiano decisa una qualche cosa. Se ne può d'altronde giudicare da quella 
“ clausola odiosa del trattato di Utrecht che impose a Luigi XIV di colmare i bacini di 
“ Dunkerque, porto che aveva arricchita la corsa ed illustrato il nome di Giovanni Bart. , 

Canchy, Du respect de la proprieté privé, p. 38. 


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E DEI DRITTI DI GUERRA sl 


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rimasero scosse; ma lo stato per molti anni raddoppiò di energia; ed è a lui che 
bisogna rendere gli onori di Vaterloo. 

La stessa guerra civile di America non ha ella sotto i nostri occhi medesimi 
mostrato a pruova di fatto come la distruzione del commercio nemico nulla in- 
fluisce? In quale altra guerra si è mai fatto strazio maggiore della proprietà 
marittima, ed in quale altra la corsa ha spiegata una maggiore ferocia? Il solo 
Alabama in soli due anni di vita cagionò un danno di 80 milioni di lire circa; 
e se si potessero calcolare i danni indiretti, si toccherebbe una cifra che forse 
parrà favolosa. Bisogna infatti considerare che il timore fa ritirare sulla terra i capi- 
tali marittimi, e negli Stati Uniti un gran numero di armatori si contentarono di 
disfarsi delle loro navi a vilissimo prezzo, anzichè arrischiarli nei mari battuti 
in tutti i sensi dai corsari del sud. Pria della guerra-erano scarsi questi baratti, 
quali sogliono essere in tutti i luoghi ed in tutte le epoche. Nell’anno che la pre- 
cesse, le navi vendute ascesero appena a 41 della portata complessiva di 13638 ton- 
nellate; dopo lo scoppio delle ostilità questo numero si accrebbe smisuratamente, 
e nel 1863 arrivò a 388 bastimenti della portata di 252279 tonnellate (1). 

Chi non sente stringersi il cuore allo spettacolo di tante fortune compromesse 
e di tanti fallimenti seguiti? Non tutti i danni sono entrati, nè potevano en- 
trare nello indennizzamento cui fu condannata ]' Inghilterra dal tribunale di 
Ginevra per la infranta neutralità; ma chi può dire che essi non siano un danno 
per gl’interessati cui non sarebbero stati esposti se la proprietà particolare fosse 
stata rispettata nel mare? 

Eppure la guerra durò quattro lunghissimi anni, e sarebbe durata ancora senza 
le ultime campali giornate che decisero dei destini del sud. Sono infatti gli eser- 
citi e le flotte che decidono delle sorti di uno stato, non la rovina del com- 
mercio marittimo (2). Se questa in qualche modo potesse contribuirvi, avrebbe 
bisogno di una lunga sequela di anni; ma non vi è guerra che dopo i meravi- 
gliosi progressi dell’arte militare possa ora vivere una vita longeva. Se non altro 
il perfezionamento degli strumenti di distruzione ha recato il vantaggio di ren- 
dere assai più brevi le lotte. Pria dunque che si arrivino a sperimentare le con- 
seguenze del male, la guerra verrebbe a cessare da se. Ma se la guerra può ce- 
dere da se medesima per le sue stesse vicende, a che allora ricorrere ad un’arma 
proscritta dalla civiltà e dalla scienza? 

Dall’altro lato non abbiamo sotto i nostri occhi esempi flagranti di guerre che 





(1) Laugel, Corsaires confederés, revue des deux monds; 1 luglio 1864. 

(2) “4 Se noi gettiamo uno sguardo sugli esempi antichi, non troviamo mai che un paese 
potente sta stato vinto dalle perdite private sofferte individualmente dai suoi cittadini. Sono le 
lotte delle armate sulla terra e sul mare che decidono delle sorti e delle querele degli 
stati. » 

Discorso di lord Palmerston alla camera di commercio di Liverpool. —V. Cauchy; op. ec. 
pag. 142. 


32 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


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non ostante la maggiore possibile moderazione contano una vita brevissima ? 
Senza parlare della guerra di Crimea e di quella del 1859, chi non ricorda quella 
che al 1866 combatterono la Prussia e l’Italia contro l’Austria? Tutti sappiamo 
l'estremo accanimento con cui fu combattuta quella guerra; ma la proprietà 
marittima e terrestre fu da tutti rispettata religiosamente. La Prussia sentì forse 
il bisogno di offendere il commercio dell’Austria per debellarla completamente, 
e per invadere gran parte del suo territorio? E nel 1870 la Germania pria di 
arrivare a catturare una sola nave francese, era già padrona di una gran parte 
del territorio nemico. 

Non è dunque vero ciò che afferma Hautefeuille che la distruzione del com- 
mercio marittimo renda più violente e quindi meno corte le guerre. La loro 
fine dipende da tutt’altre cause; e se in queste non entra la rovina dei partico- 
lari, a che creare nuove sventure, e provocare lamenti novelli? Son forse pochi 
i mali che sono inseparabili della guerra, perchè sia ao di aggiungerne altri 
di proprio capriccio e senza alcuna necessità? 


XV. 


Ed al punto in cui è oggi il dritto marittimo, parlare di distruzione di com- 
mercio sarebbe una grande follia. L’art. 1° dell’ atto del 16 aprile 1856 abolisce 
la corsa, e, come vedremo in altro lavoro, sono tre le potenze che non hanno 
voluto aderirvi. L’art. 2° rende poi insequestrabili le merci caricate sopra legni 
neutrali, e tutti gli stati hanno accettata questa sentenza. 

Or colla corsa è venuto meno il più formidabile strumento di distruzione. R1- 
marrebbe è vero la marina militare; ma il danno che può ella fare è ben mi- 
sera cosa al confronto di quello che possono recare i corsari. La stessa flotta 
inglese, che è incomparabilmente la più vasta del globo , in un eguale periodo 
di tempo non ha forse fatto tutto quel danno che produsse il solo Alabama (1). 
E quando la merce nemica può essere coverta dalla bandiera neutrale, si ha un 
mezzo sicuro per poterla mettere in salvo (2). Al più potrebbe rimanere scoperto 


(1) £# Il numero delle prede fatte in questo spazio (1778 al 1783) dai corsari usciti dai 
porti francesi, ascese a 566 navi, il cui prodotto lordo fu L. 28,259,525. Le catture fatte 
dalla marina militare attinse il valore di L. 14,000,000. Quale influenza può avere sulla 
ricchezza commerciale dell’Inghilterra un danno ridotto a proporzioni così poco importanti? , 
Cauchy, op. c. p. 40. 

(2) # I 5]12 dei trasporti che si facevano nel 1860 con navi americane, si sono fatte nel 
1863 da navi straniere ; lo che importa che quasi la metà del commercio marittimo degli 
stati del nord ha tratto profitto durante la guerra dal principio consacrato dall’art. 2° della 
dichiarazione del 16 aprile 1856, che garentisce la merce nemica sotto bandiera neutrale. » 
Cauchy, op. c., p. 48. 


tel Reacii 


E DEI DRITTI DI GUERRA 33 





o abbandonato il commercio di trasporto; però lo interesse privato saprà sup- 
plirvi con le cessioni fittizie in forma legale. E quando pure questo non fosse, 
niuno crederà seriamente che il danno di questa parte di commercio possa riu- 
scire a mettere un peso nella bilancia della guerra. 

Se dunque il danno è ridotto a così misere proporzioni, a che ostinarsi in un 
principio che non promette alcun utile risultato? Avremmo compresa non la 
giustizia ma la importanza della guerra fatta alla proprietà privata nel mare, 
finchè si avevano in mano tutti i mezzi efficaci per conseguire lo scopo. Ma 
oggi che questi mezzi sono cessati o in gran parte diminuiti, la importanza è 
venuta anche meno. Che cosa dunque rimane? Non altro che il ricordo di un 
vecchio pregiudizio, cui non tutti i pubblicisti hanno avuto finora il coraggio 
di rinunziare. 


XVI. 


Andremmo alle lunghe se tutti volessimo passare a rassegna i tentativi che 
da anime generose da un secolo si. sono fatti in pro della proprietà privata 
marittima. Qui solo ci piace di ricordare la lettera che il I Napoleone scrisse 
nel 1809 al ministro degli Stati Uniti ($ IX), e di aggiungere che anche nella 
solitudine di S. Elena, quando considerava le vicende umane non più da attore 
interessato, ma da spassionato filosofo, egli vaticinava che un dì o l’altro il mare 
sarebbe messo nella eguale posizione della terra. 

«È a desiderare che un tempo venga in cui le mie idee liberali si estendano 
«alle guerre di mare, e che le armate navali di due potenze possano battersi 
«senza dar luogo alla confisca delle navi mercantili, e senza fare costituire pri- 
« gionieri di guerra i semplici marinari o i passeggieri non militari. Il com- 
«mercio si farebbe allora sul mare tra le nazioni belligeranti come si fa per 
« terra. » (1). 

E lo stesso blocco continentale, contro cui tanto si è gridato, non ebbe lo 
scopo di trascinare la Inghilterra a rispettare la proprietà marittima ? Ugnun sa 
che la Inghilterra, incapace a vincere la Francia vittoriosa, cercò di rovinarla 
indirettamente nel commercio marittimo, e cercò del pari di rovinare tutto il 
commercio neutrale per rimanere padrona assoluta dei mari. Il sistema conti- 
nentale ebbe appunto di mira una rappresaglia la più crudele contro la superba 
Albione per obbligarla a rispettare il mare nello interesse di tutti. Il decreto di 
Berlino infatti (21 novembre 1806), che secondo Thiers fu concepito e redatto da 





(1) Memoires de Napoleon, v, 3, c. 6, $ i. 


34 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


- Si 


Napoleone, da lui medesimo, senza lo intervento di Talleyrand (1), portava nei suoi 
preliminari le disposizioni seguenti: 

« Le disposizioni del presente decreto saranno considerate come principio fon- 
damentale dello impero, fino a che l’Inghilterra abbia riconosciuto: 

« che il dritto di guerra è uno — lo stesso sulla terra e sul mare; 

«che non può estendersi nè alle proprietà private qualunque esse siano, nè 
alle persone estranee alla professione delle armi ; 

« che il dritto di blocco dev’ essere ristretto alle piazze forti realmente in- 
vestite da forze sufficienti» (2). 

Ed al nome imponente di Napoleone ci piace di aggiungere un altro non meno 
insigne sotto altro aspetto, quello di lord Palmerston. L’insigne statista il 10 no- 
vembre 1856 pronunziava nella camera di commercio di Liverpool un discorso, 
e parlando della guerra di Crimea tra le altre manifestava le cose seguenti : 

« È con soddisfazione profonda che al cominciamento di questa lotta il go- 
verno di S. M. di concerto col governo francese, ha potuto ammettere certi cam- 
biamenti ed addolcimenti alle regole della guerra, che senza diminuire il potere 
dei belligeranti verso il popolo nemico, tendono intanto a mitigare la pressione 
che le ostilità hanno per oggetto inevitabile di provvedere sulle trasformazioni 
commerciali delle contrade in guerra. Spero intanto che questi addolcimenti 
all’antico rigore del dritto pubblico stabiliti al principio di questa guerra, messi 
in pratica durante il suo corso, e ratificati dopo da promesse formali, potranno 
forse andare più lungi, e che nel corso dei tempi le regole applicate alla guerra 
terrestre potrebbero essere estese senza eccezione alla guerra di mare , talchè la pro- 
prietà privata non sia più oggetto di aggressione. Se volgiamo lo sguardo ai tempi 
passati, non troviamo un solo paese potente che sia stato vinto dalle perdite 
private dei suoi cittadini. Sono le armate e gli eserciti che decidono delle 
guerre » (3). 

È a stupire però che dopo tre soli anni lo stesso ministro rinnegava questi 
principî. Una deputazione del commercio di Liverpool, Bristol, Mancester ecc. 
presentavasi a lui per chiedere l’aiuto della potente sua voce in difesa della pro- 
prietà particolare marittima. Ed il nobile lord, dimenticando se stesso ed i suoi 
precedenti, il 8 febbraro 1860 rispose cinicamente che l’Inghilterra non avrebbe 
potuto mai rinunziare ad alcun mezzo che valesse ad indebolire i suoi nemici (4). 
Chi in questa gretta risposta può ravvisare lo statista profondo del 10 novem- 
bre 1856? Vi si ravvisa il ministro di quella nazione che non conosce e non 
siegue altra politica che quella del tornaconto. 


(1) Thiers, Histoire du consulat et de Vempire, v. 7, p. 222. 
(2) V. Cauchy, Droit maritime, v. 2, p. 403. 

(3) V. Cauchy, Du respect de la proprieté privée, p. 143. 
(4) V. Vidari, op. c., p. 206 e seg. 


E DEI DRITTI DI GUERRA 39 





Checchè di ciò, è impossibile niegare che oggidi il rispetto della proprietà 
marittima sia ormai una di quelle verità intese da tutti indistintamente, e che 
aspetta la prima occasione per essere elevata a massima generale. Nella stessa 
Inghilterra ha ella già fatti nuovi progressi. Nella tornata del 2 marzo 1866 sir 
Gregory presentò alla camera dei comuni una mozione con cui chiedeva che si 
invitasse la regina per intavolare trattative con le altre potenze per fare accet- 
tare il principio del rispetto della proprietà marittima. La proposta, dopo una 
clamorosa discussione fu respinta; ma non può dirsi perduta quella causa che 
ha per se il suffragio di tutte le camere inglesi, ed i nomi autorevoli di Cobden, 
Bright, Lindsay, Gower e cento altri del partito liberale. 


XVII. 


Il rispetto della proprietà privata marittima trae seco un altro vantaggio, an- 
ch’esso generalmente desiderato, la continuazione del commercio di mare tra i 
popoli belligeranti. Si è generalmente ritenuto finora che il cominciamento delle 
ostilità segni la fine delle relazioni commerciali tra le due nazioni, salvo una 
speciale autorizzazione. 

Abbandonata la proprietà privata alla discrezione del nemico, la interruzione 
del commercio marittimo è una conseguenza legittima. Come mai un legno può 
recarsi nelle acque nemiche se lì lo aspettano il sequestro e la confisca? (1) 
Ma estendendo al mare le regole benefiche della terra, questa ragione finisce, sì 
che la interruzione commerciale non sarebbe più che un capriccio ingiustifi- 
cabile. 

E di vero uno stato non può avere interesse di spezzare questi legami, e di 
chiudere i suoi porti ai legni nemici. Il commercio tra i due popoli è corri- 
spettivo. Rotto per l’uno, è rotto di conseguenza per l’altro, ed il danno che 
vuolsi recare al nemico, si fa nel tempo stesso al proprio commercio. Si arrivi, 
se vuolsi, a rovinare i cittadini nemici, ma si rifletta che la rovina di costoro 
trae quella dei proprì cittadini, e porta nel tempo stesso un danno non lieve 
allo stato, cui verrebbe a mancare una parte di entrate in tempi di maggiori 
bisogni. 

Ma il commercio si farà sempre non ostante il divieto, perchè non si impone 
sui bisogni dei popoli; e si fa per mezzo dei neutrali, la cui bandiera cuopre la 





(1) “Ex natura belli commercia inter hostes cessare non est dubitandum. Et quid valebunt 
commercia, si, ut constat, bona hostium, quae apud nos inveniuntur, fisco cedant? , 
Bynkershoek, qu. juris publ. 1., c. 3. 


36 DEGLI ARBITRATI INTERNAZIONALI 


—_—————————@——————m_ymy——_ymym—mtttttte——_——.-——————____ 





mercanzia. Lo scopo proposto non si raggiunge quindi neppure; al contrario si 
favorisce la causa dei neutri, i quali verrebbero così ad avere nelle loro mani 
il monopolio del commercio di trasporto a danno esclusivo dei consumatori. A 
che dunque si ridurrebbe il dritto di commerciare? Ad immiserire i sudditi delle 
due parti, ad arricchire i neutrali. 

Il primo a parlare contro questa improvvida misura fu Pabate Mably, quello 
che fù tra i primi a levare nel 1745 la voce in favore della proprietà privata 
marittima: pruova evidente che fra questi due principî esiste un’intima connes- 
sione (1). La voce di lui non trovò allora eco in Europa, ed è nei moderni scrit- 
tori che ha potuto ora trovare qualche seguace (2). Però, uopo è il confessarlo , 
si è ben lontani dal trovare uniformità di vedute. Vi ha ancora chi crede di 
seguire le antiche abitudini; e senza parlare del Wheaton, di Phillimore, e di 
altri nemici della proprietà privata, ci duole di vedere schierato tra le loro file 
un vivente giurista italiano, il professore Sandonà, egli che non è completamente 
avverso alla proprietà dei privati. « Il commercio, egli dice, ripetendo le ragioni 
già esposte da altri, implica necessariamente contratti di compra-vendita, con- 
tratti che avrebbero per se poco valore, se l’autorità giudiziaria non fosse pronta 
a comandare la loro fedele esecuzione. Or secondo le legislazioni di tutti è paesi, la 
qualità di nemico straniero produce la incapacità di essere attore 0 pure convenuto. 
E se non si può stare in giudizio, quale validità avranno i contratti? E senza 
valore, quale utilità potranno arrecare ai commercianti? » (3). 

Ignoriamo di quali luoghi, di quali tempi e di quali leggi intenda parlare. 
Sappiamo al contrario che al tempo in cui siamo, la guerra non turba meno- 
mamente la capacità giuridica dei cittadini delle due parti (4). 


(1) £ Perchè due nazioni che si dichiarano la guerra si interdicono ogni commercio reci- 
proco ? Quest’ uso è un resto dell’ antica nostra barbarie. Colla interdizione del commercio 
si vuol nuocere al nemico, e si ha ragione; ma si ha torto se con questa proibizione si fa a 
se medesimo un pregiudizio eguale a quello che vuolsi ad altri recare. Nella situazione attuale 
dell'Europa non ci è stato che con questa proibizione non si trovi ad un tratto privato di 
qualche ramo del suo commercio, e non risenta un difetto di circolazione. Le mercanzie de- 
periscono nei magazzini, languiscono le manifatture, gli operai impoveriscono, le produzioni 
si perdono per manco di consumatori, le derrate straniere aumentano di prezzo, quelle il 
cui uso è indispensabile, entrano in contrabbando malgrado tutte le proibizioni; e da tutto 
ciò risulta che allo stato verrebbero a mancare i prodotti delle dogane, e le sue rendite 
diminuiscono di conseguenza in un tempo in cui si è obbligati di fare spese straordinarie. , 
Mably, Droit public de VEurope, ed. de Genéve 1748, v. 2, p. 308 e seg. 

(2) Tra gli scrittori che hanno seguito addì nostri il Mably, ci piace di avere trovato un 
valente scrittore italiano , il professore Vidari, la cui opera “ Del rispetto della proprietà 
privata , ha riscossi meritamente gli applausi di dne egregi scrittori francesi, il Cauchy ed 
il Calvo. 

(9) Sandonà, op. c., p. 357. 

(4) “ Il nostro antico dritto pubblico francese ammetteva che durante la guerra un sud- 








E BEL DRITTI DI GUERRA IZ; 


Certo è però che nella pratica il commercio è rimasto sempre sospeso. Si è 
aspettata una parola d’incoraggiamento per entrare in una nuova via, e questa 
parola non essendo mai stata pronunziata, non si è potuto uscire dalla sfera 
delle antiche abitudini. Primo a sentire questa verità fu il terzo Napoleone, cui 
è impossibile, se si vuole essere giusti, di niegare l’alto merito di avere giovato 
alla civiltà ed al progresso del dritto internazionale. Nella guerra contro la Chi- 
na, egli col manifesto del 28 marzo 1860 dichiarò solennemente che non ostante 
la guerra i sudditi delle due parti avrebbero potuto commerciare liberamente. 
È così che le guerre possono veramente ridursi entro i confini di relazione di 
stato a stato; ed è solo così che possono riuscire meno frequenti e meno fu- 
neste, perché, come osserva il Pinheiro-Ferreira, non è permesso ai governi di es- 
sere inqiusti, quando i popoli sono uniti tra di loro (1). 


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dito di una dominazione nemica non poteva agire contro un suddito del re. — Questa era 
la massima richiamata nel 1704 dal cancelliere Pontchartrain al parlamento di Douai, ed 
applicata con un arresto di questo parlamento in data del 20 giugno dello stesso anno. 
Ma questa massima che si fonda evidentemente sopra una falsa idea del dritto e degli ef- 
fetti della guerra non potrebbe essere oggi seguita. , Massè, Droît comm., n. 144. 

Niuno comprenderà come dopo questa solenne dichiarazione abbia potuto il Massè nel 
seguente num. 145 affermare che in linea di eccezione possa uno stato belligerante niegare 
temporaneamente la capacità di stare in giudizio ai sudditi dello stato nemico che agiscono 
per la riscossione dei loro crediti, allo scopo di impedire che il numero possa dai suoi do- 
mini passare presso il nemico. Questa eccezione ci sembra contraria a tutti. i principi, ed 
in opposizione a quello proclamato le mille volte dallo stesso scrittore, cioè che la guerra 
è opera esclusiva di stati. 

Il Vidari respinge a ragione la teorica del Massè a pag. 115 dell’opera già accennata. 

(1) Note a De Martens, $ 268, 

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TOMMASO NATALE 


I SUOI TEMPI E LE RIFORME ECONOMICHE NELLA SECONDA META’ 
DEL SECOLO XVIII. 


SAGGIO 


del socio Prof. FRANCESCO MAGGIORE-PERNI 
Letto nella tornata del 23 novembre 1879. 


Tommaso Natale è tra le più belle e severe figure del secolo passato; e seb- 
bene a buon dritto non possa dirsi un intelletto altissimo ed originale, pure, per 
la vastità delle dottrine, per le svariate ragioni di studii che coltivò, per l’effi- 
cacia e l’operosità che espresse sempre a vantaggio del sapere e del progresso 
del nostro paese, non che per l’ effettiva influenza che ebbe ad esercitare nelle 
riforme che si videro sorgere allora in Sicilia, è a ritenersi un uomo, che com- 
pendia in sè i suoi tempi, e si presenta come propugnatore delle più ardite e 
salutari riforme non che negli studii, negli ordini stessi dello Stato e delle 
leggi. 

Fu un uomo completo : poeta, letterato, filosofo, giurista ed economista ; e le 
pubblicazioni che egli fece nella sua lunga carriera, non che le alte cariche che 
coprì nell’ amministrazione dello Stato, lo dimostrano abbastanza avanti negli 
studii di ogni ragione, e degno di avere un posto nella storia delle nostre riforme, 
che molte furono ed effettivamente progressive nella seconda metà del secolo XVIII. 


Il secolo decimottavo, ed in ispecie la seconda metà di esso, in cui ebbe a 
fiorire il Tommaso Natale, fu per la Sicilia un periodo di grande rivoluzione in- 


2 TOMMASO NATALE 





tellettuale, la quale progressiva e pacifica fece sentire la sua benefica influenza 
sull’ ordinamento sociale e politico dell’ Isola. Questo movimento processe dagli 
studii e dalle buone idee, delle quali nobili intelletti si fecero propagatori. 
Fra noi non furono gli enciclopedisti e quei filosofi e scrittori, la cui scuola in 
Francia con lo scetticismo e il sensualismo preparò e produsse quel terribile 
cataclisma che sconvolse la società, insanguinò la Francia e perpetuò in Europa 
la guerra distruggitrice di ogni progresso. La Sicilia non ebbe di simili bene- 
fattori; i suoi ingegni non prepararono la negazione d’ogni principio, e la così 
detta salutare onda della rivoluzione non scosse l’autorità e la libertà. 

Noi uscivamo dalla prima metà del secolo , che avea veduto la guerra della 
successione spagnuola, ove i principi col sangue e col denaro dei popoli si di- 
sputavano il retaggio di Carlo II. Noi dopo la guerra per la successione di Po- 
lonia, vedemmo cancellare il trattato di Parigi, che ci avea condotti sotto l’im- 
pero, vedemmo un re coronarsi nella nostra capitale, giurando l’autonomia della 
nazione siciliana, e vedemmo svolgersi gli elementi della potenza e della ric- 
chezza del paese per l’influenza di buone leggi che assicuravano le nostre fran- 
chigie, e di buoni intelletti che svolgevano la nostra coltura, rianimando gli 
studii e in ispecie gli storici, gli economici e giuridici, verso cui le tendenze 
dei nostri cultori di lettere erano più dirette. 

Il movimento delle riforme ebbe salde radici nell’Isola; e da qui propagossi 
per talune regioni del continente italiano. Siciliani, trai quali primissimi il Da- 
guirre e il Pensabene, passarono in Piemonte, organizzando l’istruzione, rifor- 
mando le leggi e promovendo le innovazioni che Vittorio Amedeo II e Carlo III di 
Savoja introdussero nei loro Stati. Mentre qui sotto un Borbone, che lasciò de- 
generati successori, per l’influenza della libertà e dell’ amore del natio luogo si 
svolsero gli elementi del sapere, col concorso di una aristocrazia generosa, che 
anelava le lettere, e delle chiese e degli ordini religiosi che aprivano nuovi se- 
minarii e collegi, o riformavano gli esistenti. 

Chi si fa a considerare lo stato della Sicilia a quei tempi, in relazione alle 
altre parti d’Italia, osserverà come qui i germi di un pacifico progresso e di una 
politica libertà temperata trionfassero a preferenza, in mezzo ad una società, in 
cui, quantunque la parte aristocratica ed ecclesiastica prevalessero, pure la bor- 
ghesia, appoggiata dall’elemento del potere regio, esercitava la sua influenza e i 
poteri si bilanciavano a vantaggio pubblico. Il feudalismo erasi spogliato grada- 
tamente delle sue prepotenze, la guerra feudale tra i partiti pareva spenta, e si 
preparava mano mano quel solenne e nobile sagrifizio che mezzo secolo dopo 
consumarono gli aristocratici, rinunziando generosamente ai loro privilegi. Il 
potere ecclesiastico, quantunque godesse delle immunità, non faceva sentire un 
peso opprimente; dall’ultimo auto-da-fe erano scorsi pochi anni, e fin d’allora si 
potea presagire quanto parecchi lustri dopo avveniva, l’abolizione delle loro im- 
munità, il censimento dei loro beni e lo scioglimento dell’onnipotente tribunale 
dell’Imquisizione. Aristocrazia e clericato sentivano il bisogno di adoperare i loro 
mezzi alla pubblica cultura, nè li trascurarono. 





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I SUOI TEMPI ECC. 3 


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Lo spirito d’ indipendenza nazionale, esistente in tutte le classi del popolo, e 
in nome del quale avea la Sicilia sempre combattuto imprimeva una qualche cosa 
di originale nella cultura e negli studii del paese, che tardi venne a modificare 
l’oltremarina influenza. 

Amore agli studii, generose speranze, carità di patria costituivano il patrimonio 
di quel secolo ricco di uomini che vita e sostanze operosamente impiegavano a 
vantaggio Gel sapere e al miglioramento della condizione civile dei tempi. 

Ma la rivoluzione economica e sociale — sia lecita la frase — non operavasi fra 
noi violenta e distruggitrice, calpestando dritti e rovesciando interessi. Essa pro- 
gressiva e pacifica facea sentire la benefica influenza sull’ordinamento sociale e 
politico. Procedeva da’ buoni studii e dalle buone idee; e legata alla tradizione 
non distrusse l’autorità per la libertà, ma cercò di armonizzare questi due prin- 
cipii, saldi sostegni di ogni civile società. 

La filosofia si spogliava delle pastoje della scolastica, ma non correva al ma- 
terialismo; le nuove dottrine propugnavano i principii di libertà, ma non abbat- 
tevan tutto quanto era creato in sostegno dell’ autorità; le leggi penali si spo- 
gliavano della loro ferocia, ma non giungevano all’abolizione della pena capitale; 
il feudalismo logoravasi a poco a poco, ma vi rimaneva tanto, quanto riuscì fa- 
cile ai baroni, quarantanni dopo, sacrificare i loro privileggi sull’altare della li- 
bertà del paese. Il tremendo Tribunale della Inquisizione si chiudeva per sempre, 
ma non s’insultava alla religione dei credenti; la chiesa perdeva le sue immu- 
nità, ma non le sue sostanze; i suoi beni si censivano a vantaggio dell’agricol- 
tura, ma non s’incameravano per isciuparsi dallo Stato. Insomma era il vero 
progresso che si svolgeva, il progresso legato alla tradizione, illuminato dal 
dritto, sorretto dalla ragione. 

L’opera era lenta, ma progressiva ; ed ogni riforma ; per lieve che fosse, era 
addentellata ad altra più radicale. I nostri grandi uomini non prepararono il 
grande cataclisma della rivoluzione francese del 1789, ma il grande monumento 
delle riforme, coronato dalla costituzione del 1812. 


II. 


Lo stato economico e sociale del paese dovea ridestarsi e riformarsi, e si dovea 
energicamente riparare al guasto che la influenza dei cattivi sistemi spagnuoli 
avea prodotto. Disordinata la moneta, ristretto il commercio dei grani, la pro- 
prietà mal divisa, l’agricoltura negletta, il valore delle terre avvilito, le vie di 
comunicazioni mancanti, le poche strade mal sicure, il commercio interno in- 
ceppato, l’esterno languente, le industrie decadute, le arti in corporazioni, i freni 
e i vincoli estesi, i privilegi e le privative ovunque; dacchè il potere regio, il 
comunale e il feudale aveano a gara strappato dai principi e dai parlamenti 
concessioni dannose all’universale. Ma il potere locale, e l’opera delle nuove idee 
si volsero alacremente ai miglioramenti, e leggi e procedure e monete e studii 


4 È TOMMASO NATALE 


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si riordinarono. Una Giunta così detta di Sicilia ebbe cura di ricercare i bisogni 
e di rimediarvi; a soli siciliani si volle che gl’impieghi civili ed ecclesiastici fos- 
sero conferiti, e che le rendite della Sicilia a suo proprio vantaggio si volges- 
sero, e le milizie provinciali si riordinassero , e la marina si ristorasse ad im- 
pedire le continue incursioni barbaresche. Così si prepararono i germi di un 
progresso intellettuale e materiale. Dappoichè fu in quel periodo che l’Università 
di Palermo sorse con ventidue cattedre e biblioteca e gabinetto chimico e orto 
botanico e teatro anatomico e museo e osservatorio astronomico; e quelle di Ca- 
tania e di Messina furono migliorate; e collegi di nobili e reali ospizii di bene- 
ficenza si fondarono in Palermo e in altre città di Sicilia. Così aprivasi il campo 
agli studii che trovavano ovunque pubblicità e rispetto, essendogli più che altro 
di singolare incoraggiamento il premio che ottenevano, dappoichè e cariche e 
preminenze ed onori sì davano a quanti più nel sapere si segnalavano. 

L'istruzione nella prima metà del secolo era in mano dei soli Gesuiti; indi 
Teatini, Scolopii e Seminarii vescovili vennero a far loro concorrenza, e i nomi 
di padre Gaetano Cottone teatino, del canonico Di Giovanni che riformò il Se- 
minario di Palermo, e di monsignor Testa che fece illustre quello di Monreale, 
saranno sempre con affetto ricordati nella storia della nostra Sicilia. A questi 
rispondevano monsignor Gioeni vescovo in Girgenti, il Ventimiglia in Catania, il 
Requesenz in Siracusa, il Bonanno in Patti, i quali nelle loro diocesi istituirono 
e riformarono gli studii. Nè meno de’ vescovi fecero i privati come il Fleres, lo 
Scavo, il Carì, i quali nelle loro case aprirono insegnamenti. Più tardi sorse ri- 
formata l’Accademia palermitana, e quattro licei e diciotto collegi furono istituiti 
in varie città dell’Isola, e le scuole normali, per opera del dotto De Cosmi, che 
le diresse, si videro riordinate e fiorenti. 

Nè qui si fermò l’opera salutare, ma essa si estese ancora nella fondazione di 
librerie e di accademie, a cui grandemente influirono gli aristocratici. Dappoichè 
Francesco Sclafani fondava nel 1647 a pubblico utile la Biblioteca dei PP. del- 
l’oratorio di S. Filippo Neri; il principe di Cutò e il Marchese di Giarratana apri- 
rono le proprie agli studiosi; e nel 1760 sorse, per opera del Corazza, del Serio, 
dello Schiavo e del Vanni, che le legarono i propri libri, quella del Comune, che 
nel 1775 ebbe stanza ove oggi si vede, e larghe rendite per mantenersi e mi- 
gliorarsi; nel 1782 si vide l’altra fondata dalla Deputazione degli studii, la quale 
nel 1204 fu affidata ai Gesuiti, ed oggi appellasi nazionale. Nè mancarono dei 
generosi in Messina che arricchirono di libri e resero pubblica quella del Sal- 
vatore, come in Catania se ne vide sorgere una per cura di Vito Amico, ed 
altre in altre città dell'Isola, tutte di privata fondazione e volte a pubblica uti- 
lità. 

Con tali energici mezzi gli studii risorgevano, acquistavano influenza e trova- 
vano illustri propagatori. i 

Le accademie nascevano dal bisogno di associazione, e dalla deficienza dei mezzi 
individuali a progredire; come altresì dalla viva emulazione dei nobili e dal 








I SUOI TEMPI ECC. 5 


desiderio di conoscere e farsi conoscere, onde continuare ed accrescere quel mo- 
vimento intellettuale che erasi iniziato per l’opera di grandi uomini e per l’in- 
fluenza dei tre poteri denominati la società dei tempi : il governo, gli ecclesia- 
stici, l’aristocrazia: Le accademie rispondevano ai bisogni degli studii; e siccome 
le scienze e le belle lettere trovarono dei solerti cultori, così accademie che ave- 
vano or l’uno or l’altro intento o entrambi riuniti si fondavano. 

Ma più che altro le accademie volte agli studii di erudizione e di storia patria 
ebbero lustro; non che quelle che ebbero ad intento di riformare il gusto cor- 
rotto nelle lettere umane. Palermo, che ben rappresentava l’intelligenza e il cuore 
dell'Isola, era la sede del grande movimento morale che spingeva i suoi cittadini 
e quelli delle altre città siciliane, ivi residenti; e ad essa rispondevano in qualche 
modo e Messina e Catania. 

Oggi siamo poveri di queste istituzioni sulle quali si lancia il sarcasmo come 
di cose inutili. Egli è vero che quand’esse non si volgono che a. futili studii , 
a mediocri poesie, non possono reggersi in un periodo in cui |’ associazione è 
diretta a serii lavori e a difficili ricerche, che possano interessare la storia e 
la vita di un popolo, o migliorare la di lui morale e materiale condizione. Ma 
egli è vero altresì che le accademie bene ordinate hanno reso e rendono segna- 
lato servigio alle lettere e al progresso umano, quando volgono i loro studii a 
cose di alto rilievo, a lavori che isolatamente non sì possono produrre, e in cui 
l’opera dell’associazione degl’ingegni riesce proficua alle ficerche, ai metodi, alla 
creazione o compilazione di quei monumenti del sapere, a cui la mente e la vita 
di un solo uomo non sono bastevoli. 

Varie, come fu detto, furono le accademie che sorsero nel secolo passato per 
opera della nostra operosa aristocrazia e dei nostri ingegni, i quali volevano in 
esse lavorar di concerto, e lasciar con esse non interrotta la tradizione degli 
studii. 

Fra le prime a sorgere fu quella che si adunava a discorrere di cose eccle- 
siastiche presso il Bazan Arcivescovo di Palermo, in cui acquistò fama il Mon- 
gitore. Più importante però fu la Giustinianea, fondata dal Caruso, che congrega- 
vasi in casa del principe di Resuttana a studiare materie di dritto, ed ove ac- 
quistavano nome il Pantò e lo Scavo. Quella dei Geniali si fondava nel 1719, la 
Colonia Oretea nel 1721, ed entrambe eran volte alle amene lettere e alla poesia, 
ma ben presto mancarono ; e vi successero l’Accademia dei Rassodati nel 1728, 
degli Argonauti nel 1730, ambedue nel collegio de’ Gesuiti, fondate per opera l’una 
del P. del Bono, e l’altra del P. Lupi. 

L’accademia degli Ereini però nata nel 1730 in casa del principe di Resuitana, 
in 36 anni di vita fece molti lavori, dei quali gran parte furono pubblicati, anche 
fuori dell’Isola; intenti tutti a richiamare a purezza e a semplicità le amene let- 
tere con discorsi e poesie. 

Ognora più importanti però furono le accademie che si volsero ad illustrare 
la storia e a correggere il gusto. Tra le prime si fa cenno di quella che nel 1747 


6 TOMMASO NATALE 


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il Cassinese Requesenz e il Di Giovanni fondarono, infondendo una nuova critica 
agli studii storici già deturpati di favole e di menzogne, a cui tenne dietro l’altra 
nata più tardi (1777) che ebbe a nome Nuova Società della storia del Regno di Si- 
cilia in cui s’ingrandirono Salvatore ed Evangelista Di Blasi e l'’immortale Ro- 
sario Gregorio. Spenta per difetto di uomini questa nobile Accademia si vide 
risorgere nel 1863 col nome di Nuova Società per la storia di Sicilia e dieci anni dopo 
con quello di Società siciliana per la storia patria, tuttavia in fiore. 

Ma il nobile intento di correggere il gusto nelle lettere non venne mai meno, 
per opera di scrittori di merito incontrastato; e sin dal 1718 sotto gli auspicii di 
Pietro Filangieri, Principe di S. Flavia, fondavasi l’ accademia che si disse del 
Buongusto e vi durò in sua casa sino al 1790, quando fu trasferita nel Palazzo 
Pretorio, mutando più tardi il nome in Accademia palermitana di scienze lettere 
ed arti. Ebbe ai suoi tempi utile emulazione con l’altra che fondava il Duca di 
Pratoameno nel 1742, col nome delle Scienze e delle arti e con l'altissimo scopo 
di raddrizzare la critica e il buon gusto nello scrivere; morta nel 1768, rimase 
sola quella del Buongusto che rese segnalati servigi al corretto scrivere e allo svi- 
luppo del sapere; dacchè oltre il coltivare le lettere e la poesia, nell'intento di 
riformare il gusto, ebbe a proprio scopo illustrare la storia siciliana, e più tardi 
le scienze morali, politiche ed economiche. Nel lungo corso della sua vita ebbe 
a pubblicare degl’importanti lavori e ad esercitare una efficace influenza nel pro- 
gresso del paese; era, €d è, una nobile palestra, in cui si educano e sviluppano 
gl’'ingegni siciliani. 

Nè solamente in Palermo, ma nelle principali città dell'Isola sorsero di simili 
istituti. Messina ebbe la Peloritana e quella degli Arconti; Catania quella dei Gio- 
viali e quella degli Etnei, Acireale quella dei Zelanti, Siracusa quella degli Anapet, 
Trapàni quella della Civetta, Caltanissetta quella degli Imerei, Mazzara la Selinun- 
tina; si videro ancora la Cauloniana in Pietraperzia, quella degl’ Industriosi in 
Gangi, degli Euracei in Termini, ed altre accademie fiorirono in Marsala, Tra- 
pani, Modica, Noto, Nicosia ed altre città. Era nello stesso periodo che a miglio- 
ramento della patria agricoltura si fondava a Palermo l’ accademia degli Agri- 
coltorî oretei che adunavasi in primavera in una villa del duca di Cefalà; e quella 
degli scientifici agricoltori che sorse in Partenico per opera del duca della Ferla, 
e a sodo incremento delle scienze della salute otteneva nel 1742 luogo stabile 
e dotazione l'Accademia medica fondata nel 1621, e che rese e rende tuttodì sin- 
golari servizii alla scienza. E a rendere più gaje e gentili le lettere, sorse quella 
che appellossi della Galante conversazione per opera del principe di Campofranco, 
ove fra gli altrì si adunavano il Cento, il marehese Natale, il Carì e il Contro- 
sceri; come altresì l’altra Società che nel 1735 si congregò con 15 socii in casa 
del principe di S. Vincenzo, per illustrare le cose delle Chiese siciliane. 

Queste ed altre accademie erano allora in Sicilia, le quali sebbene non aves- 
sero prodotto direttamente tutto il bene che si sperava per il traviato indirizzo, 
pure indirettamente animarono gli studii e gli impressero un movimento, che 
più tardi fu produttivo di ottimi frutti. 





I SUOI TEMPI ECC. 7 








III. 


E le scienze e le lettere e le arti presero uno sviluppo progressivo; e in si 
fatte discipline si resero celebri molti intelletti che onorarono del loro nome e 
istrussero della loro dottrina la Sicilia, facendo sentire la loro potente influenza 
nel resto dell’Italia. 

Era il periodo nel quale fiorirono le scienze naturali ed esatte, le filosofiche e 
le giuridiche; e in cui le lettere e le storie, rinnovate per critica, si distinsero. 

La botanica e lo studio delle scienze naturali progredivano; e in esse un Boc- 
cone, un Cupani, un Bonanno acquistavano celebrità non comune; mentre, in 
mezzo alla decadenza degli studii agronomici, Filippo Nicosia pubblicava un’opera 
di agricoltura, che sì prestava grandemente a svolgere la potenza produttiva delle 
nostre terre; e preparavansi in tempi in cui Paolo Balsamo dovea coi sistemi 
inglesi rinnovare la scienza agraria in Sicilia. 

Nè l’investigazione dei fenomeni naturali si trascurò; il De Quingles, il Cam- 
pailla e l’Amico si volsero a studiare l’Etna, il Giardina la Fata morgana, il De 
Bono il tremuoto, ed altri dotti varie altri ordini della storia naturale presero a 
svolgere. Ma i mezzi eran pochi e falsi i metodi; locchè influì altresì. al. poco 
sviluppo dell’astronomia e della fisica, ove però in rapporto ai tempi abbiamo 
degli uomini che in simili discipline si resero celebri; e i nomi di Sinatra, di 
Odierna, di Giuffrida, dell’Acquetta, del Barca, dell’ Olivieri e del gran meccanico 
Ferro sono però importanti in questi studit: ma chi riempì onorevolmente il - 
vuoto di un secolo fu un Agatino Daidone da Calascibetta, sommo fisico, che 
rendeasi celebre col suo èdrolitro che levò tanto rumore in Germania, e un Leo- 
nardo Ximenes, celebrato pei suoi stupendi lavori in fisica ed astronomia. 

Lo studio di queste scienze importanti al progresso delle industrie e delle 
arti fu preceduto e seguito da quello delle matematiche, ove in prima un Be- 
nedetto Castrone e un Melchiorre Spedalieri ebbero fama; ed indi si resero il- 
lustri il Vanni e il Bonomo, e più che altri Nicolò Cento celebrato maestro di 
matematiche sublimi. 

Le scienze mediche e chirurgiche, non che le chimiche trovarono in questo 
periodo un considerevole sviluppo; era l’epoca della maggior gloria dell’Accade- 
mia medica di Palermo, la quale, da fresco rinnovata, accoglieva nel suo seno i 
più insigni uomini, spandendo le sue dottrine per tutta Sicilia, e i nomi di un 
Pulcrinotto, di un Denaro, di un Tommaso Campailla, di un Giuffrida, di un 
Giuseppe Gregorio Russo sono celebrati per la medicina in tutta Sicilia, come per 
la chirurgia quelli di Antonuzzo, Controsceri, Alagna, e più che altro di Gioa- 
chino Parisi che trovava un nuovo metodo di litotomia ed inventava nuovi stru- 
menti chirurgici. Tre libri importanti allora si mostravano : l’uno di Farmacopea 
del celebre Nicolò Gervasi; l’altro di salute pubblica, sulle tracce del Parisi e 


8 TOMMASO NATALE 


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dell’Ingrassia, di Agostino Gervasi, e il terzo di Embriologia del can. Francesco 
Emmanuele Cangiamilla, che acquistava per le sue opere fama durevole in tutta 
Europa. 

Questo ammirevole impulso ed energico svolgimento mostrava la prima metà 
del secolo XVIII, e preparava il progresso delle scienze fisiche e naturali; ove in 
proseguo acquistarono gran fama per le loro opere e i loro trovati: nella bota- 
nica un Arena col suo trattato dei fiori, primo propagatore in Italia del sistema 
dei sessi, e un P. Bernardino di Ucria che rinnovava la scienza; nelle discipline 
naturali un Musumeci, un Marcellino, un Zappalà, un Bellitti, un Fichera, un 
Ferrara, e più che altro un Giuseppe Recupero col suo studio sull’Etna, il grande 
Ramondini che scopre la zurlite, e l’insigne Giuseppe Gioeni che viene in gran 
fama per varii argomenti di storia naturale; nelle scienze matematiche ed astro- 
nomiche un Guglielmo Silio, un Barone, un Marabitti e più che altri Giuseppe 
Piazzi da Valtellina che può dirsi siciliano, il quale fondava l’Osservatorio astro- 
nomico, scopriva la Cerere, riformava il codice metrico e si rendeva celebre in 
tutta Europa pei suoi lavori; nella chimica Meli, i due La Pira e Mirone acqui- 
staron fama; nella medicina Serra, Giuffrida e i riformatori Gallo, Cannata, Ca- 
stagna, Papa, Palermo, Logoteta, Mollè-Mallo ; nella chirurgia Mastiani, Salerno, 
Graffeo; ma più che altro in questi studii levarono fama in Europa il Mirone 
con le sue Meditazioni mediche e Rosario Scuderi con le sue Opere e la Introdu- 
zione allo studio della medicina. 

Le scienze filosofiche e giuridiche toccarono uno sviluppo quale competeva a 
tempi di progresso. Abbandonandosi la scolastica, e scotendo il giogo di una fi- 
losofia convenzionale, gl’ingegni spesso col furore di una reazione si diedero al 
nuovo. E fu visto un Domenico Alcamo di Palermo insegnare la filosofia di De- 
mocrito e seguirlo nella via lo scolare Gian Pietro Milazzo. 

Ma indi a poco risorse il cartesianismo, che avea avuto a capo l’ immortale 
Borelli, col Fardella e il Campailla che l’illustrarono coi proprì scritti e l’inse- 
gnarono per tutta Italia. Il sistema della filosofia nniversale del Fardella e l’ Adamo 
del Campailla sono due stupende opere in cui la filosofia cartesiana è svolta non 
con la servile imitazione di scolari, ma con la libertà di pensatori, che si di- 
scostavano in parte dalle idee del francese filosofo, per essere filosofi a lor 
volta, apprezzati non solamente in Sicilia, ma in Italia. 

Di fronte ai cartesiani che declinavano sorsero nella seconda metà del secolo 
i leibniziani, tra cui primo il Cento riputato maestro di matematiche, a cui ten- 
nero dietro il Gambino, il Fleres e il più illusfre fra tutti, il marchese Tom- 
maso Natale, che alla robustezza del pensiero filosofico unì, come il Campailla, 
la maestria del verso ilaliano e la indipendenza di filosofare nelle dottrine del 
tedesco capo-scuola. 

La filosofia del Wolfio, dell’Hume e del Locke venne dopo a pigliar posto nel 
campo del pensiero siciliano. Era epoca di lotta e di opposizione fra l’imitazione 
e l’originalità, fra lo spirito di corporazione e il desiderio di rinnovamento, e le 


I SUOI TEMPI ECC. 9 








scuole filosofiche ne risentivano influenza per esercitarla a lor volta. Ma dopo 
agli scolastici, ai cartesiani, ai leibniziani, ai sensisti era dato a Vincenzo Miceli 
creare una scuola originale, che nulla risentiva dell’influenza dei tempi, e ri- 
chiamava l’antica e nazionale filosofia ontologica, mischiata ai germi del moderno 
panteismo alemanno. | 

La riforma filosotica portò seco la riforma nelle scienze giuridiche ed econo- 
miche, di cui tanto bisogno si sentiva. Le vecchie idee dell’inquisizione e dei pri- 
vilegi cadevano sotto i colpi di scrittori che parlavano di libertà. E valenti cul- 
tori di dritto naturale e pubblico come il Fleres, il Carì, il Gaglio, il Sarri, il 
Pepi, il Natale, sorsero e si divisero il pubblico suffragio, mentre nelle scienze 
economiche un Sergio, un Requesenz, un Lanza, un Bottari ed altri si levavano 
a combattere i vieti sistemi, e a parlar di libertà in mezzo ai vincoli. 

Ma su ciò non ci fermiamo, perchè formerà in proseguo argomento di speciale 
studio; essendo che il nostro Natale a questo grande movimento ebbe parte. 

Le accademie e le scuole erano la palestra di questo rinnovamento d’idee nel 
dritto, che dal campo filosofico passarono in quello della economia, della ragione 
pubblica e civile, e delle leggi. 

Delle scienze ecclesiastiche mon è mestieri il dire; e pure esse ebbero dei va- 
lenti e dei dotti scrittori, massime in materie in cui la Sicilia ha speciali pre- 
rogative e leggi, da costituire un proprio dritto ecclesiastico; e i nomi di Caruso, 
Gravina, Burgos, Guarnera, Peci, Di Blasi, Carì, Spedalieri, Dichiara, Di Giovanni 
sono abbastanza noti pei lavori storici, critici e polemici che misero in luce. 


IV. 


Le amene lettere erano bensì in una specie di decadenza; risentivano del cat- 
tivo guasto del seicento e delle freddure del secolo che le accoglieva. Si dovea 
combattere per vincere tanti elementi di decadenza; e le accademie e le scuole 
si accinsero all’opera. Il latino era la lingua dei dotti, e il volgare quasi abban- 
donato ed usato senz’arie; ma l'accademia dei Gemiali, degli Ereini, e più che altro 
quella del Buon Gusto di Palermo contribuirono a rialzare le lettere, a raddriz- 
zare la critica, a formare il gusto. Questo movimento si partì da Palermo e si 
sparse per tutta l'Isola. Le nostre lettere a quei tempi non contano dei valenti 
scrittori e degli ottimi poeti. E pure non mancarono degli uomini che si vol- 
sero alle lettere umane; e i nomi di Campailla, Natale, Baldanza, Leanti, Casti- 
glione, Petrelli sono ritenuti di valenti letterati e di buoni poeti; nè qui si fer- 
marono, che il gusto progredendo si ebbero egregi istitutori e filologi come il 
Barone, il Grano, il Franzone, il Traverso, il De Cosmi, il Pasqualino, il De Bono; 
letterati come il Bandiera, il Zappalà , il Murena; oratori come Agneto, e Luc- 
chese; e più che altro nelle lettere e nella poesia erano e sono tuttora in fama 

2 


10 TOMMASO NATALE 








lo Scrofani, e Tommaso Gargallo, che portò alto il nostro nome nella letteratura 
italiana. Ma vi ha l’immortale Giovanni Meli, che compensa la decadenza di un 
secolo; il nome di un poeta, che, cantando nel natio dialetto le grazie della na- 
tura, sorse emulo a Teocrito e ad Anacreonte; per il che vive il Meli, e vivrà 
sempre da genio nella letteratura, non che siciliana, italiana, dai nazionali e 
dagli stranieri ammirato. 

La storia fra le letterarie discipline ebbe cultori a preferenza; dacchè il nostro 
paese ha una storia; nobile ed elevata qual si conviene a popolo libero ed ane- 
lante d’indipendenza; ha una tradizione gloriosa da tramandare alle future ge- 
nerazioni, come esempio perenne da imitare. In ciò il secolo passato non fece 
che seguire l’impulso dei secoli precedenti in questi studii, e rinnovarli al lume 
di una novella critica e di serie ricerche sugli antichi e contemporanei docu- 
menti. 

La più bella figura con cui si apre il secolo XVIII è quella dell’abate Gio- 
vambattista Caruso; critico dottissimo dava un nuovo indirizzo agli studii storici, 
Nella Biblioteca storica raccolse i monumenti della storia saracena, normanna e 
sveva, ein un’opera poderosa scrisse la Storia di Sicilia dalle origini ai suoi tempi, 
mentre con dotta memoria sosteneva l’ allora mimacciata prerogativa della Mo- 
narchia siciliana. 

Il movimento impresso da lui non si estinse; ed è a quel tempo che l’Aprile 
scriveva la Cronologia universale e il Mongitore la Biblioteca Sicula, e le Memorie 
intorno ai Parlamenti. A fama più alta si elevarono il canonico Di Giovanni, che 
scrisse dei Riti delle chiese di Sicilia, che compilò il famoso Codice diplomatico e 
ci lasciò una dotta Storia ecclesiastica della Sicilia; e monsignore Francesco Testa, 
che pubblicò la Vita di Guglielmo II, scrisse importanti memorie di dritto siculo 
e compilò il durevole monumento del nostro dritto pubblico nella raccolta dei 
Capitoli del Regno. Nè sono a dimenticarsi i lavori e le opere del Vito Amico, au- 
tore del famoso Dizionario topografico della Sicilia, e gli scritti degli illustri mes- 
sinesi Gallo, Greco e Foti. 

La diplomatica e l’antiquaria prepararono questo movimento ; e si raccolsero 
tanti documenti su cui gli storici e i pubblicisti scrissero in proseguo dotti la- 
vori; e in quest’ opera, eminentemente patriottica e salutare agli studii, ebbero 
parte illustri letterati come lo Schiavo, il Lupi, il Cianciolo, il Landolina, il Mira, 
il Cutelli e più che altri Salvatore Di Blasi cassinese. Nè mancarono dei dotti 
della aristocrazia, i quali ingenti spese erogarono a questo nobile scopo; e la 
storia ricorderà sempre un Lacillotto Castelli principe di Torremuzza e un Mon- 
signore Airoldi, le cui opere levarono tanto grido non solamente fra noi ma al- 
l’estero ancora. Queste ed altre importanti ricerche alla nostra storia preparano 
i dotti lavori del Di Blasi e del grande Gregorio. 


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I SUOI TEMPI ECC. 11 


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Le belle arti altresì ebbero in quel periodo singolare importanza. Era il secolo 
in cui l’architettura, la pittura e la scultura di concerto camminavano per ab- 
bellire colossali edificii e sontuose chiese, che la fiorente aristocrazia e la ric- 
chezza del clericato innalzavano. Non era il tempo in cui si dimandava cosa pro- 
ducesse il capitale impiegato in queste opere; e l’arte trovava in che attuarsi e 
manifestarsi. 

Tra noi, giova il rammentarlo, il decadimento dell’arte avvenne circa un se- 
colo dopo del continente italiano. La severità e profondità dei principii insegnati 
dall’Alberti e dal Leonardo da Vinci decadevano gradatamente dopo la metà del 
secolo XVI, per riuscire ai Bernini e ai Borromini. 

Anzi tutto fra noi fu l’architettura, che fin dal secolo XVII segnò i primi passi 
del barocchismo nascente , che andò sempre aumentando , lasciando sì corrotta 
eredità al secolo XVIII; mentre nella pittura e nella scultura gli artefici siciliani 
sono lontani dalle caricature degli artisti italiani del secolo XVII. Qui lo stile 
derivò nella pittura dai dipinti di due potenti ingegni Pietro Novelli e Antonio 
Catalano da Messina, pochi seguirono il fare di Wandik; e nella statuaria dai 
lavori degli ultimi Gagini e di Livolsi da Nicosia, esagerandone talvolta i movi- 
menti. 

L’architettura barocca continuò sin quasi al 1790, ed una gran quantità di 
edificii civili e religiosi furono fabbricati da potenti ingegni, con magnificenza 
non ordinaria. Ed è verso la fine del secolo che Venanzio Marvuglia, artefice di 
merito e di gusto, ripigliando gli studii sui greci e romani monumenti si allon- 
tana dalle stranezze del secolo e fa opere di merito segnalato. 

La scultura però, deviando un poco dai classici modelli, va esagerandosi per 
affettazione di movimenti e partiti di panni svolazzanti a sproposito; ma può ben 
asserirsi che sono pochi fra noi a quei tempi i lavori barocchissimi, sì abbon- 
danti nel continente sino al tempo di Canova. 

La pittura anche essa, dopo i primi quarant'anni del secolo devia un poco e 
si fa esagerata nelle forme e nelle movenze, mantenendo però gran gusto nel 
colore, come particolarmente si vede nel cavalier Gaspare Serenario che studiò 
a Roma e nella scuola di lui; ma è notevole, che l’esagerazione è sempre minore 
in quei dipintori che furono educati in Sicilia: ma verso la fine del secolo i 
trasmodamenti vanno diminuendo, e si fa via via ritorno ad un disegno più 
semplice, avvicinandosi ad un tal quale sentimento di verità nelle forme e nelle 
movenze. 

Gloria dell’isola sono in questa epoca una quantità di affrescanti, che fecero 
opere vastissime con ardire non comune e gran gusto di colorito, i quali non 
temono il paragone del Cortonese. 


12 TOMMASO NATALE 











Ma per fama e numero ed opere fatte non sono inferiori a quelli del conti- 
nente i pittori, scultori, ed architetti che illustrarono l’ Isola nostra nel se- 
colo XVIII. 

E di fatti nella pittura si resero celebri un Filippo Tancredi messinese, un 
Filippo Randazzo da Nicosia, un Giacinto Calandrucci, un Gaspare Serenario edu- 
cato a Roma, un Onofrio Lipari trapanese, un Vito D'Anna, un Giovanni Porcello, 
un Tommaso Sciacca, tutti e tre da Palermo, e i messinesi Letterio Paladino e 
Placido Campolo; i quali fiorirono nella prima metà del secolo. La seconda metà 
non mancò altresì di nobili artisti che nella pittura acquistarono nome per opere 
che tuttora ci rimangono. I principali sono: Olivio e Francesco Sozzi, Giuseppe, 
Francesco e Antonino Manno, Mariano Rossi da Sciacca, Francesco Testa da Pa- 
lermo e il più illustre fra tutti Giuseppe Velasques palermitano. 

Nè si mancò di buoni scultori: la prima metà del secolo vide fiorire Giam- 
battista Ragusa, Carlo Aprile, Vincenzo e Jacopo Vitagliano tutti da Palermo, e 
i trapanesi Fra Benedetto da Trapani, Mario Ciotta e Andrea Tipa che si distin- 
sero nel lavorare il marmo, il legno, l’avorio, lo stucco; ma celebre fra tutti è 
il palermitano Giacomo Serpotta pei suoi stupendi lavori da stuccatore. Nella 
seconda metà del secolo fiorirono la modellatrice in plastica Anna Fortino da 
Palermo, Paolo Cusenza trapanese incisore di armi e scultore in avorio e corallo, 
Francesco S. Severino da Palermo valorosc imitatore del Serpotta, e Domenico 
Ferraiolo; ma quello che si eleva su tutti è il celebre scultore in marmo Ignazio 
Marabilti palermitano, di cui, oltre molte pregiate opere, abbiamo nella villa 
Giulia la celebre statua rappresentante Palermo. 

L'architettura ancor essa conta dei valenti cultori: tra i più distinti architetti 
sono ad annoverarsi nella prima metà del secolo Tommaso M. Napoli domeni- 
cano, Giovanni Amico trapanese, fra Giacomo Amato crocifero e Filippo Iuvara 
messinese; i quali, poco più poco meno, lasciarono or delle belle opere in istampa, 
or degli edifizî e monumenti che ancor sorgono a di loro onore. La seconda metà 
vide un Orazio Fioretto architetto del vasto Albergo dei poveri, un sac. Salvatore 
Attinelli, e il celebre Venanzio Marvuglia che collo studio delle opere greche e 
romane svincolò dal cattivo gusto del secolo l’arte in cui si distinse. 

Così possiam dire che pittura, scultura, ed architettura concorsero a rendere, 
anche per le belle arti, illustre un secolo che ebbe tanta copia di uomini grandi, 
i quali energicamente si adoperarono allo sviluppo del progresso siciliano, in que- 
sto secolo di sodo e vero risorgimento in ogni ramo del sapere. 


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Erano questi i tempi, in cui nasceva e fioriva Tommaso Natale; propizii alcerto 
per un ingegno forte e versatile; tempi nei quali può dirsi che ogni ramo rina- 


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I SUOI TEMPI ECC. 13 


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scente di studii aspettasse l’opera sua per imprimervi quella serenità e dirittura 
di giudizio, quella severa e nobile critica e quell’incontrastato gusto nello scri- 
vere, che lo resero autorevole e caro nel secolo in cui visse, aggiungendo, alla 
non comune dottrina, una illuminata pratica, che il fecero degno di salire alle 
più alte cariche dello Stato e di potere l’opera sua essere efficace nelle riforme 
economiche, di cui va altero il secolo in cui visse. 

Sia che si leggano le sue opere poetiche, letterarie e giuridiche , sia che si 
studiano i suoi atti e le sue proposte nelle riforme dei tempi, trovasi sempre 
l’impronta del suo alto ingegno e del suo nobile carattere. I suoi contemporanei 
lo ammiravano, e gli egregi scrittori che di lui hanno parlato lo illustrano. 

Leggendo le stupende pagine del Prospetto della storia letteraria di Sicilia dello 
Scinà, ove in varii luoghi del Natale si occupa come letterato, come filosofo , 
come giurista; o studiando la Storia della filosofia in Sicilia del Di Giovanni, che 
eleva il nostro scrittore come a rappresentante della filosofia leibniziana in Si- 
cilia; o svolgendo il dotto e vivace Elogio che fa il nostro illustre professore Bozzo 
del Tommaso Natale, noi troviamo che tutti si accordano nell’ assegnargli un 
elevato posto nella storia del progresso intellettuale del nostro paese. 

Nato nel 1733, fin da giovine ebbe un nome nella storia delle lettere. Fu poeta 
e letterato, indi filosofo e giurista, e solo nella tarda età dispiegò la sua valentia 
nelle cose economiche. 

La esposizione da noi fatta sulla condizione intellettuale dell’ Isola ai suoi 
tempi, ben ci mostra quale si fosse Io stato della nostra letteratura. 

Corrotto il gusto; le lettere si volgevano in frivoli argomenti; la poesia delirava 
negli ultimi aneliti del seicentismo; il dettato può dirsi che non rappresentava 
per nulla il bello stile, che formava il patrimonio di pochi dotti nel continente, 
di cui taluni qui furon chiamati a restaurare il gusto delle lettere, come il Sal- 
vagnini e l’Orsini da Padova, lo Scherli da Verona, il Vecchi e l’Ugolini da Fi- 
renze, che qui scrissero e poetarono. I siciliani anche essi l’emularono, cercando 
di trattare buoni argomenti, e in uno stile nobile ed elevato sia in prosa come 
in versi. 

Si dà lode al vivace ed eloquente Francesco Carì, ai forbiti ed energici Orazii 
della Torre, all’ordinato e robusto d’Espinosa, al facile ed attico Tetamo e a tanti 
altri, come il Delfino, il Di Maria, l’Alberto Corrado della Rocca, il Calvi da Mes- 
sina, il Grano, il Barone, il Franzone, lo Sciacca, il Zappalà da Catania, gl’inse- 
gnanti del Seminario Morrealese alla cui testa il Murena, l’Emmanuele Lucchese 
da Palermo, il Drago e il Gaetani, traduttori in versi di latine e greche poesie; 
il Galfo da Modica, il Buonajuto da Trapani, il Pellegra Buongiovanni, e tanti e 
poi tanti, i di cui nomi ed i di cui scritti in versi ed in prosa si trovano. ri- 
cordati dallo Scinà. Ogni città aveva le sue accademie; e non si lasciava sfuggire 
la ben che minima occasione per leggervi orazioni, poesie latine e italiane, ed 
anco nel nostro dialetto, che allora per l’opera del De Bono, del Pasqualino e del 
Vinci ebbe vocabolario, e culti scrittori nel Giuffrida, nello Scherli e in tanti 
altri, che poi furono tutti vinti dall’immortale Giovanni Meli. 


14 TOMMASO NATALE 


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Ma chi più si distinse nel bello scrivere e nel poetare fin dai primi anni della 
seconda metà del secolo fu il nostro Tommaso Natale. Nel 1752 scriveva l’Ora- 
zione funebre in lode dell’abate Giuseppe Natoli, letta all’Accademia del Buongusto, 
e l’altra nel 1767 per Emmanuele Lucchesi Palli. I suoi Sonetti divennero tosto ce- 
lebri, e si leggono in tutte le raccolte di poesie che si pubblicarono dal 1750 
in poi; la sua filosofia leibniziana scritta in sciolti e terze rime, di puro dettato, 
di ricca immaginazione e di facile verso, lo fanno un valente poeta didattico; la 
sua traduzione dei primi sei canti dell’Illiade d’Omero, scritta prima del Monti 
e dopo il Salvini e il Ceserotti, ai quali fu riputato superiore, accrebbero la sua 
fama; e da Firenze, da Napoli, da Milano i dotti lo plaudivano, il Monti l’inco- 
raggiava. 

Lo Scinà, il severo e dotto critico della nostra letteratura, scrivendo di lui 
come letterato, ne dà sì splendido giudizio : 

« Le orazioni di Tommaso Natale sono pieni di sapere e di filosofia, gravi nello 
stile, nella dicitura corrette, e i suoi sonetti (1750), i suoi sciolti (la Filosofia 
Leibniziana, la traduzione di Omero) e le sue torze rime, (nella Filosofia Leibni- 
ziana) per la varietà dei concetti e per le immagini pittoresche poeta te lo danno 
a vedere di nobile e vivace fantasia. » 

E il prof. Bozzo nell’Elogio che di lui tessè nel 1852, in un sintetico giudizio, 
che indi egregiamente analizza, sugli scritti e le poesie del nostro Natale così si 
esprime : 

« Del bello si mostrò esimio coltivatore, elette prose scrivendo ed elettissimi 
versi, con sì corretto ed anzi nobile stile che senza fine diletta, e che frutto è 
in lui di avvedutissimo studio. » 

E mentre il tempo ha coperto di obblio i suoi compagni, gli scrittori che, 
cercando di emularlo, ai suoi tempi fiorirono, il tempo rialza la sua fama; e 
dopo tardi anni dalla sua morte, letterati, filosofi, giuristi scrivono di lui, e le 
sue opere apprezzano ; e mettono in rilievo l’efficace influenza che egli esercitò 
ai suoì tempi. 


VII. 


Letterato e poeta fu anch’egli filosofo; e se la Filosofia Leibniziana, da lui scritta, 
per la forma gli assicura un posto tra i felici verseggiatori, per la sostanza glielo 
dà più elevato e degno fra la schiera dei siciliani filosofi. 

La prima metà del secolo XVIII in Sicilia vide il filosofare aggirarsi nella sco- 
lastica, e in quei metodi che esercitavano la ginnastica del pensiero, senza per 
nulla progredire nello scoprimento della verità. I Gesuiti padroni delle scuole 
combattevano qualunque novità, e solamente era tollerato il Cartesianismo, che 
era stato in fiore nel secolo passato, per opera del Borelli, del Fardella e di Tom- 


I SUOI TEMPI ECC. 15 


maso Campailla, che il Muratori avea salutato col nome di Lucrezio italiano e 
cristiano. 

Al risorgimento della filosofia nel secolo XVII la Sicilia avea pigliato larga 
parte; e seguendo l’ indole pacata e sperimentale dei siciliani pensatori si era 
spinta libera, e senza pastoje, allo studio del vero; ma fu bensì aliena della li- 
cenza del Pomponazzo, del 'l'alesio, del Campanella, del Giordano Bruno; tenen- 
dosi più stretta all’Erizzo, al Vinci, al Galileo e a quei grandi nomini del con- 
tinente, che seppero conciliare la libertà col rispetto alle verità rivelate. 

Ma il movimento del XVII secolo erasi rallentato nel XVIII; la filosofia era 
decaduta, in modo che occorreva di un grande sforzo per rilevarla nella via della 
libertà; questa gloria devesi più che altro a Tommaso Natale. 

Giovine a 23 anni comprese la condizione dei tempi; vide lo stato negletto in 
cui trovavansi gli studii filosofici fra noi, e fecesi banditore della Filosofia Leibni- 
ziana. 

Allievo del Cento, reputato maestro di matematiche, e per ciò indirizzato alle 
dottrine del Leibnizio, scrisse in versi, a simiglianza del Campailla, la sua Pilo- 
sofia Leibniziana, della quale nel 1756 fu pubblicato il primo libro, dedicato agli 
Accademici di Lipsia, che con onore l’ accolsero, e di alte lodi lo retribuirono. 

All’apparire di questo libro la persecuzione che avea incontrato la dottrina 
del Cento si fe’ più gigante. I gesuiti, i quali aveano condannato la dottrina 
Leibniziana come avversa alla religione , e il principio della ragione sufficiente 
come nemico della libertà, si levarono contro il Natale, che con tanto ardire 
avea osato propagare velenose dottrine, ristaurando la fama del Cento, che poco 
prima di lui avea incontrato la più spietata e inesorabile censura. 

Ed è a lui che il Natale nella sua Filosofia (pag. 105) si rivolge dicendo: 


Nè temer punto quella insana turba 
Sol di tenebre amica; ella t’insulti, 
S’armi contro di te, la veneranda 
Antichità t’apponga, a lei compagno 
Jl falso zelo sotto i finti panni 
Della religion... .. 


E così segue; e in altro punto volendo poeticamente descrivere l’errore l’ad- 
dobba sotto foggia di frate (pag. 35). 


1 


Gebo Ailor sen gio 
Ad abitar nei rozzi chiostri u’ regna 
Molto da tutti venerato e culto 
E il mondo annebbia di fantasmi e fole;..... 


Non se ne volle di più; e la persecuzione giunse al colmo. 
La lotta ardeva tra il vecchio e il nuovo, tra: la filosofia convenzionale e la fi- 


Mas 


16 TOMMASO NATALE 








losofia libera; ma gli sforzi della vecchia scuola dei gesuiti furono vani. Parte 
per convinzione, parte per moda, la filosofia leibniziana del Cento e del Natale 
era da tutti seguita. I gesuiti allora si volsero al cartesianismo dei primi anni 
del secolo; ma non vi riuscirono. Essi erano stati scolastici quando il mondo era 
cartesiano , e scolastici e cartesiani quando il mondo era del Leibnizio e del 
Wolfio. 

L’opera del Natale non è essa grande, per le dottrine che contiene, quantunque 
avesse modificato, e qualche cosa aggiunto di nuovo a quanto avea insegnato il 
filosofo alemanno. L’ importanza del libro si deve ai tempi; al rumore che fece; 
all’ardire che mostrò il Natale nel combattere le vecchie dottrine e bandire le 
nuove; alla chiarezza, alla grazia e al lepore poetico con cui l’ espose; all’ in- 
fluenza che esercitò ai suoi tempi, tanto che nulla valse ad arrestare il progre- 
dire delle nuove dottrine. 

Il giorno 27 febbrajo del 1758, due anni appena dalla pubblicazione del primo 
libro della Filosofia Leibniziana, un editto della Inquisizione proibì che si potesse 
leggere o detenere il libro del Natale; obbligando ognuno a consegnare le copie 
in mano degli Inquisitori. L'autore fu acremente ripreso, e fu proibita la stampa 
degli altri quattro libri, che solo si divulgavano dopo l’ abolizione del tremendo 
Tribunale del S. Offizio. 

Questo fatto ingrandiva la fama dell’autore, rendeva popolare il suo libro, 


e le dottrine leibniziane. 


Ed è singolare, come avverte lo Scinà, che nello stesso giorno in cui il Natale 
era spaventato dai fulmini dell’Inqusizione, i Padri Cassinesi, in una pubblica con- 
clusione tenuta in Palermo nella chiesa dello Spirito Santo, difesero la dottrina 
Leibniziana. 

Il secolo era per essa; e il Cento, il Natale, il Fleres, il Gambino, Simone Iu- 
dica, Agostino Giuffrida, Carmelo Fileti, Giacomo Sciacca, Giuseppe Nicchia, e 
tanti altri per le scuole, pei collegi, pei seminarii di tutta Sicilia, e negli scritti 
e nei libri insegnavano e propagavano le opinioni del Leibnizio. Doveansi atten- 
dere parecchi anni per sorgere quell’altissimo filosofo che fu Vincenzo Miceli, vero 
novatore nella filosofia e capo di una scuola filosofica, che può dirsi siciliana. 

Tornando al Natale, avvertiamo come la sua Filosofia Leibniziana dividesi in 
cinque libri: trattando nel 1° dei principii, cioè dei diversi gradi della cognizione 
umana, della ragione determinante e del principio di contradizione; nel 2° di 
Dio in sè stesso e come autore della natura e come della grazia; nel 3° degli 
Spiriti, delle Anime e delle Monade; nel 4° del composto, della materia, delle af- 
fezioni di essa, dell’ unione della materia e dello spirito, e dell’ Universo; nel 5° 
dei doveri delle Anime riguardate assolutamente, rispetto a Dio ed in Società. 
Come si scorge egli abbracciava la filosofia tutta intera; e a 23 anni si faceva 
autore di questa immensa opera in cinque libri, di cui ogni libro stava per se, 
come uno speciale poema. 

Nè egli, come Leibniziano, fu un semplice espositore delle dottrine del grande 





I SUOI TEMPI ECC. 17 


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maestro. Accettò delle opinioni tutte quelle che a lui parvero conformi al suo 
modo di pensare; ne modificò talune, ne combattè delle altre; egli, come scrisse, 
più che lo splendore dei grandi nomi amava meglio la verità. 

Noi quì non verremo particolarizzando a dire in quali punti si dilunghi dalle 
dottrine del sommo suo autore; altri l’han fatto in ispeciali lavori; ma non possiamo 
tacere che egli, nell’innovare le dottrine di Leibnizio, abbia reso un servizio alla 
sua scuola; tanto che il dotto mio amico Prof. Di Giovanni, intrattenendosi su 
questo argomento, nel 2° libro della sua filosofia moderna in Sicilia, ebbe a scrive- 
re: « Chi tien l’occhio ai principii del Leibnizio e a questa animavversione del 
Natale non negherà certo che la monadologia leibniziana così corretta dal nostro, 
riusciva più accettabile, e non pochi servigi però rendeva il siciliano alla nuova 
scuola, che allora si propagava. » 


VIII. 


Come cresceva negli anni, così il Natale progrediva negli studii, ed allargava 
il campo delle sue meditazioni, rendendole più sperimentali e più dirette all’u- 
tile pubblico. Letterato, poeta, filosofo, fu altresì giurista e penalista. 

Il rinnovamento degli studii filosofici portò seco il ridestarsi di quelli di dritto 
naturale e pubblico sulle traccie del Grozio, del Wolfio e del Puffendorfio. Allora le 
più ardite quistioni si trattavano, e le scuole, le accademie, i nascenti giornali, 
col titolo: l’uno di Opuscoli di autori siciliani, e l’altro Notizie dei letterati, che si 
pubblicavano in Palermo, s’intrattenevano di questi vitali argomenti, che riflet- 
tevano la filosofia del dritto, il dritto pubblico e la filosofia morale. 

Gli illustri uomini che si erano distinti negli studii filosofici si applicarono ai 
nuovi. Ma la lotta tra l’antica scuola e la nuova durava tuttavia; e se questa avea 
vinto quella nella metafisica, pur tuttavia non avea potuto ancora trionfare nel- 
l’etica e nel dritto naturale. 

L’uso del latino, tanto nello scrivere, come nel disputare nelle solenni mostre, 
non si era potuto smettere; e la pubblica opinione sol riteneva dotto chi in la- 
tino scrivesse e disputasse. 

E di fatti in latino il Fleres nel 1757 e 1759 ebbe a scrivere, sebbene alla 
nuova scuola appartenesse, la sua opera di dritto naturale; e in latino altresì 
nel 1776 dettava Vincenzo Miceli, novatore ardito nel modo di filosofare, i suoi 
Istituti di dritto naturale. 

Rompere questo monopolio; popolarizzare la scienza, scrivendo e disputando in 
italiano, doveano essere i mezzi per rinnovar tutto e far trionfare la nuova dot- 
trina. 

Chi per primo e il latino e la disputa bandì fu Vincenzo Gaglio, scrivendo 
nel 1759 in italiano il suo Saggio sul dritto della natura, delle genti e della politica. 

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18 TOMMASO NATALE 


Libro, che sebbene presenta il vizioso sillogizzare delle scuole, pure per i suoi 
principii, l’ordine e la chiarezza fu detto aureo dai giornalisti di Berna. 

Rotte le pastoje dell’antico, animosi si slanciarono nella nuova via. La lingua 
italiana, parlando agli italiani, fu d’allora la lingua dei dotti novatori, rimanendo 
l’uso del latino a quelli, che, o seguendo gli antichi sistemi, o non volendo 
rompere la tradizione del luogo ove scrivevano, non accettarono l’italiano. 

Questo fatto dell’uso del volgare nelle scienze filosofiche, fu un vero progresso; 
fu un’affermazione della nazionalità, un mezzo di popolarizzare la scienza e di 
assicurare il trionfo del rinnovamento degli studi1. 

Il metafisico Gambino dettava in volgare, e nel 1767 pubblicava in Napoli, le 
Leggi di collisione del dritto naturale, riportando lodi dal Fermey e dal Genovesi; 
ed altri scrittori si occupavano or di questo or di quell’altro argomento di etica 
e di dritto naturale; trai. quali bisogna ricordare Rosario Arfisi che scrisse 
nel 1771 i Fondamenti dell’enestà naturale, libro assai lodato ai suoi tempi. 

Ma l'antica scuola dei Gesuiti mal tollerava il ridestarsi degli studii di etica 
e di dritto sulla base delle: nuove idee; e il P. Giovambattista Guerini scriveva 
nel 1769 in latino un opuscolo de? principi del dritto naturale e delle genti e delle 
regole dei doveri cristiani, levandosi, sotto l’egida del Suarez, contro il Puffendorfio, 
il Tomasio e il Buddeo, scrittori della nuova scuola. Gli applausi raccolti furono 
immensi; erano gli ultimi aneliti di un vecchio sistema, che pur trovava dei so- 
stenitori, che nel nuovo vedono sempre un pericolo per la società. 

In mezzo a tutti questi scrittori di filosofia del dritto, appartenenti alla nuova 
scuola , si levò il nostro Tommaso Natale, scrivendo un commento sul para- 
grafo 11 del dritto della guerra e della pace del Grozio (1773). 

Egli con lucidezza e dottrina venia a dare il suo voto su una quistione di 
dritto naturale che allora agitavasi. Era ammesso da tutti l’ immutabilità dei 
principii di giustizia, che, anteriori ad ogni volontà, hanno fondamento nella na- 
tura e nelle eterne idee dell’intelletto divino. 

Ma domandavasi, se inducevano obbligazione, antecedentemente alla volontà 
di un superiore. Fu per la negativa il Puffendorfio; il Guerini e il Gambino, giu- 
risti siciliani, debolmente sostennero che inducevano una piccola obbligazione. 
Il nostro Natale fu decisamente per l’affermativa, ed energicamente la sostenne; 
dimostrando come prima della legge e della volontà del superiore vi ha una 
vera perfetta ed interna obbligazione ad eseguire i principii immutabili della 
giustizia. 

E se in fatti nelle civili società vi è la legge del superiore che impera ed or- 
dina l'esterna obbligazione, mercè una sanzione, egli è per supplire a quanti 
difettano nel conoscere i motivi regolatori delle azioni. 

In simil modo il Natale, dirò con lo Scinà, «si piacea di sottoporre a doveri 
e ad obbligazioni l’ateo, l’uomo che vive senza superiore, e il superiore mede- 
simo che non sia ad altri subordinato. » 

In questi studii levossi emulo a lui un Antonio Pepi; e per lunghi anni e in 
ogni più ardua quistione si trovarono di fronte. 


I SUOI TEMPI ECC. 19 





Allievo del De Cosmi fu Antonio Pepi da Castronuovo. Avido di gloria, pubblicò 
molti scritti, tra i quali quello contro di Diderot nella quistione di Monpertuis 
intorno alla formazione dei corpi organici (1779). 

Nello stesso anno si levò contro il medico Giovanni Carbonajo da Girgenti, nella 
quistione : se era lecito tirare a brani un feto morboso sì, ma vivo, quando 
senza di ciò e madre e figlio dovessero perire. Il Carbonajo sosteneva non esser 
lecito, il Pepi sì; la quistione dal campo morale e medico passa a quello di dritto 
naturale; molti vi presero parte; le dottrine di Loke e di Camberland vennero in 
esame, e la vittoria rimase al Pepi. Indi levossi contro il Bayle e gli enciclopisti, 
che avevano calunniato gli antichi popoli come atei e spinozisti (1777); e il fa- 
ceva con tanta erudizione e con uno stile acre, animato e con una frase alla 
francese da rendersi attraente e dilettevole. 

Ma il lavoro, che gli avea dato fama e conciliato la riverenza degli uomini dei 
suoi tempi, era stato il trattato dell’inequalità naturale degli uomini, che pubblicato 
in Venezia nel 1771 fu poì ristampato in Palermo nel 1772. Egli attacca viru- 
lentemente il Rousseau, le sue dottrine e la sua irreligione, addimostrando l’ine- 
qualità degli uomini fin nei dritti che ha, e nei doveri a cui è tenuto. Egli 
combattendo con eccesso, cadeva nel paradosso; ma in lui non difettava nè la 
critica. nè lo spirito; sicchè la sua opera riuscì applaudita: insomma egli ripro- 
duceva il sistema di Pitagora, che vuole il governo in mano dei sapienti; le 
plebi a servire. Gli Opuscoli di autori siciliani e Le notizie dei letterati furono la 
palestra ove il Pepi e il Natale si distinsero; in questa prima raccolta ripubblica 
il Natale le sue Riflessioni sull'efficacia delle pene, e in essa il Pepi ripubblicava 
il suo Trattato dell’inequalità naturale degli uomini, nelle Notizie dei letterati il Pepi 
stampava la sua lettera intorno alla disputa, se siano preferibili gli autori antichi 
ai moderni, stando pei primi (1772), e nello stesso giornale il Natale pubblicava 
la nota sul Grozio di cui parlammo; quivi stesso si leggono i bellissimi Saggi 
sopra Vuso della critica del Pepi e le Riflessioni preliminari sopra i discorsi del Mac- 
chiavelli intorno alla prima deca di Tito Livio, del Natale, che lo Scinà giudica 
scritte con tanto sugo e maturità, che li pajono dettati dallo stesso [Segretario 
fiorentino. 

Furono essi che più si distinsero a quei tempi negli studii politici e morali. 
Ebbero lo stesso intento, ma diversi i mezzi, diverse spesso le idee, sempre lo 
stile. Teorico e vivace il Pepi, posato e sperimentale il Natale; l’uno brillava per 
amore alla religione , l’altro ai costumi; l’uno scriveva focoso con stile e frase 
alla francese, l’altro pacato, con le forme dei classici italiani. La novità ammaliò 
i nostri, e il Pepi fu preso a modello di scrivere, tanto, che fuvvi un momento 
in cui la gloria di questi parea soverchiare quella del Natale. «Ma questo trionfo 
fu momentaneo, scrive lo Scinà, e la gloria del Natale rinasce oggi più bella, 
perchè comincia a rifiorire il gusto fra noi, e i buoni scrittori della nostra lingua 
sono in riverenza. » Che dir delle idee e dell’influenza esercitata nelle riforme 
delle leggi? Il Natale in questa parte è l’uomo più avventuroso dei suoi tempi. 


20 TOMMASO NATALE 





È ammirevole al certo lo svolgimento degli studii di filosofia del dritto che 
in breve tempo veggiamo spinti e favoriti da tanti scrittori; all’idea di dritto, 
tenne dietro quella di dovere; e gli studii di etica, ispirati ad una libera filosofia, 
divennero comuni anche nelle scuole secondarie, nelle quali, all’ espulsione dei 
gesuiti, la spiega degli Ufficii di Cicerone fu resa obbligatoria; nè mancarono 
degli scrittori che si occupassero di morale tra i quali un Giuffrida, un Gaetani, 
un Garajo (1776). 

Ma fra tutti alto levossi il famoso giureconsulto Gaetano Sarri, che fin dal 1770 
ebbe a scrivere una stupenda dissertazione, nella quale esamina la morale degli 
antichi filosofi, discute sui moderni e disegna un abbozzo degli ufficii umani, 
che derivando dal dritto naturale, tutti tra loro si legano e connettono. 

È egli fra gli etici e gli scrittori di dritto pubblico e civile il più illustre; fu 
da giovine professore di filosofia morale; e percorrendo tutti i gradi della magi- 
stratura, finiva giudice della Gran Corte. 


IX. 


Gli studii di dritto pubblico e di ragion civile risentivano la influenza del gran 
progresso che erasi fatto in quelli della filosofia del dritto; erano per così dire 
la parte sperimentale e positiva dei grandi principii che si erano sostenuti. 

La prima metà del secolo avea veduto i Longo, i Perlongo e i Landolina, dot- 
tissimi giureconsulti che con la loro scienza aveano raddrizzato l’applicazione delle 
leggi e favorito le riforme; ma poco o nulla avean pubblicato per le stampe; e 
gli studii forensi avean pochi libri, che li mantenessero in fiore. Fu primo nel 1744 
Carlo Napoli che pubblicava la sua bella dissertazione sulla Concordia fra i dritti 
baronali e demaniali; dottissima scrittura di dritto pubblico, in cui le più belle 
dottrine si mettevano in vista, e che produsse una rivoluzione nel nostro foro, il 
quale allora scuotendo le antiche forme, si avviò a trattare le quistioni di dritto, 
non sulla sola e sterile autorità, ma appoggiandosi alla ragion civile. 

I fratelli Pantò con le loro lezioni di dritto civile, i giureconsulti Alessandro 
Testa e Filippo Corazza, che dilungandosi dell’ antica scuola, misero in voga il 
Cujacio, contribuirono grandemente al progresso del dritto pubblico e civile; nei 
quali studii si elevarono un Nicolò Gervasi con le sue Disseriazioni sulle leggi di 
Sicilia; un Francesco Emmanuele, Marchese di Villabianca con le sue otto dotte 
memorie, che intitolò : Notizie storiche sugli antichi Uffiziù del Regno di Sicilia; un 
Michele del Giudice col suo discorso sul Titolo di Re di Gerusalemme; un Rosario 
Bisso colla sua dissertazione nella quale imprese a dimostrare la ragion civile 
doversi ricavare dalla giustizia naturale, e con l’altra sulle due prime consulta- 
zioni di Cujacio; un Francesco Beltrano coi suoi Elementi di dritto privato siculo. 
Ma a fama più alta e duratura si elevò, per la robustezza della mente, per la 


I SUOI TEMPI ECC. 21 








copia della dottrina, per la varietà dell’erudizione, il giureconsulto Gaetano Sarri, 
di cui parlarono, come filosofo. 

Amico del Natale, fu il vero suo emulo, ed amico carissimo; egli fu grande 
nello studio della ragion pubblica e civile, come il Natale lo fu nella filosofia e 
nel giure penale. Il Sarri lesse più memorie di dritto pubblico che levarono 
tanto grido, e che poi nel 1786 furono pubblicati in due volumi dal figlio Gio- 
vanni, che li annotò, col titolo: Gius pubblico siculo; la cui prima parte conteneva 
i cinque capitoli della successione reale; e la seconda due dissertazioni, l’una del 
padre sulla inaugurazione, proclamazione , prestazione del giuramento di omaggio e 
fedeltà, coronazione e della solenne funzione della sacra unzione degli Augusti Mo- 
narch di Sicilia, e l’altra del figlio dei titoli e regni dei quali si augurano i sovrani 
di Sicilia; e la terza comprendeva lavori sui governi politici e sulla legislazione an- 
tica e moderna. 

Tanto splendore di scienza, e tanti lavori di ragion pubblica e civile portarono 
una completa riforma negli studii legali, nella giurisprudenza dei nostri magi- 
strati e nel retto uso d’ interpretare le leggi, e di difendere i litigi. Allora an- 
darono in bando i libri del Muta e del Giurba, che la ragion civile non ricava- 
vano dalla ragion naturale, ma basavano tutto sull’autorità dei savii, senza dire 
il perchè; e la loro incontrastata autorità scadde nel foro. Si cercavano ragioni, 
non opinioni; si voleva pensare e dimostrare, non provare col convenzionalismo 
degli autori che godevano autorità, ma risalendo ai principii, investicando lo 
spirito delle leggi con la storia, la critica, la filosofia dei tempi. 

Questa grande rivoluzione nei principii e nella pratica della legislazione pub- 
blica e civile facea sentire il bisogno della riforma delle leggi; e molte voci si 
levarono. Anzitutto fu Vincenzo Gaglio, che nel suo Saggio sopra il dritto della 
natura (1759), scriveva: « Ora sarebbe da desiderarsi che si facesse, mercè l’au- 
torità del sovrano, qualche riforma di tante opinioni opposte che si trovano nei 
libri dei nostri legisti; onde venisse a determinare in quali procedono o no le 
tante innumerabili e scabrose quistioni, che veggiamo tutto dì agitarsi nei tri- 
bunali, con grande dispendio dei poveri liticanti. » 

A lui si unirono tutti i giureconsulti novatori, tra i quali il grande professore 
di dritto Rosario Bisso; ed è memorabile il decreto del Fogliani del giorno 8 
luglio 1767 a lui diretto, col quale le riforme si promettevano; ma non vennero 
all’attuazione, pel timore del nuovo, e poscia per le minaccie della francese rivo- 
luzione. 

Ma l’opera dei dotti proseguiva, e sono rimarchevoli delle grandi pubblicazioni 
che si fecero in seguito nelle materie di dritto naturale pubblico e civile ; che 
prepararono le grandi riforme dei primi anni del secolo XIX. 

Nel dritto naturale e politico sono rimarchevoli le Istituzioni di giurisprudenza 
naturale del Controsceri, scritte nel 1788, e il Catechismo dell’uomo e del cittadino 
che lo stesso giurista pubblicava nel 1794; Della libertà e dell’ uguaglianza degli 
uomini e dei cittadini di Sebastiano conte di Ayala da Castrogiavanni , scritta in 


22 TOMMASO NATALE 





francese, e poi tradotta in italiano nel 1793. Ma l’opera che onora una genera- 
zione, si è quella dei Dritti dell’uomo di Nicolò Spedalieri, pubblicata nel 1791; 
con la quale conciliava la libertà alla religione, e rigenerava i sudditi in citta- 
dini, con quello stile enfatico che risente dell’entusiasmo e della declamazione 
propria dei tempi. 

Nel dritto civile, senza attendere ad opere di minor pondo, come le Istituzioni 
Giustinianee di Nicola-Amedeo Balsamo del 1784; le Istituzioni di dritto romano 
siculo di Antonino Garajo del 1789; il Codice Siculo, ove delle costituzioni dei ca- 
pitoli, delle prammatiche si ragiona, di Domenico Maria Giarrizzo del 1779; le 
Prammatiche sanzioni del Regno di Sicilia di Francesco Paolo Di Blasi, opere tutte 
scritte in latino, ci fermeremo a segnalare l’opera in sette volumi che nel 1798 
pubblicava in latino Francesco Candini col titolo: Codice del dritto siculo accademico 
e forense, nel quale egli offriva un prospetto che per ogni materia conteneva 
quasi un compendio di tutto il dritto pubblico e privato della Sicilia, additando 
le più importanti leggi. A cui tennero dietro i lavori di dritto del Rocchetti, 
scritti in lingua volgare; tra i quali primeggia la sua grande opera: Ordine dei 
giudizii civili. 

Nel dritto pubblico, a tutti gli splendidi lavori da noi accennati dal Caruso al 
Sarri, bisogna aggiungere la più grande opera con cui si chiude il secolo XVIII, 
cioè la Storia del dritto pubblico del dottissimo Rosario Gregorio, che pria con 
l’Introduzione alla storia del dritto pubblico e poi colle sue Considerazioni sulla storia 
di Sicilia elevava il superbo monumento del nostro dritto pubblico, facendo opera, 
che se non ha più fama di quella del Giannone, ha certo più merito. 


È singolare però, che in mezzo al grido delle riforme che chiedevansi alle leggi 
civili, e in mezzo al grande movimento negli studii di dritto naturale e pubblico, 
nè una voce si levò, nè alcuna riforma dai giureconsulti si chiese per il dritto 
penale, che più che altro richiedeva l’opera e l'influenza delle nuove idee e degli 
studii di dritto naturale. Servi i giureconsulti alle vecchie pratiche, e distratti 
dalle leggi civili, non pensarono alle penali. Una sola voce si levò potente nei 
primi anni della seconda metà del secolo, una sola voce di filosofo e di filan- 
tropo. Questa voce, che echeggiò in Sicilia per mezzo secolo, finchè le riforme 
furono proclamate dal nostro Parlamento, fu quella di Tommaso Natale. 

Quale era lo stato delle leggi penali e della pratica criminale ai tempiin cui 
scrisse il nostro filosofo? 

Noi non dobbiamo certamente dilungarci per presentarlo. La giustizia penale 
era sotto l’influenza del passato. Varii i fori; la procedura lunga, inquisitrice, fe- 
roce; le disuguaglianze e le immunità leggi; la tortura regina delle prove; le 


I SUOI TEMPI ECC. 23 


pene feroci e non efficaci; il dritto di grazia, non sempre opportuno, soleva 
miticare l’acerbità delle pene; il secolo XVIII fu nella sua prima metà, come il 
secolo precedente. 

Questo impasto di contradizioni ed immanità applicato di magistrati feroci, 
fiscali, tal volta corrotti, costituiva il dritto e la procedura penale, non regolati 
da principii, non indiretti a scopo, non sostenuti dai rigorosi dettami del dritto; 
era la vendetta sociale piuttosto che l’espiazione della colpa; erano nuovi delitti 
che si commettevano per ristabilire l’equilibrio rotto dai delitti; era spesso l’ar- 
bitrio e il pregiudizio che la necessità della difesa sociale. 

In questo stato obbrobrioso di cose, la Sicilia era uguale al continente italia- 
no. E le stupende pagine del Verri, del Beccaria, del Filangieri, che pennelleggiano 
la condizione degli uomini sotto l’impero di queste leggi penali, possono appli- 
carsi a noi, ne sono la fedele dipintura. Eppure questa procedura inquisitrice e 
feroce, queste pene pesanti e sanguinarie, questo condannar spesso e tremendo 
non esercitavano alcuna influenza salutare; i delitti erano più frequenti e la so- 
cietà sotto questo rispetto trovavasi in uno stato morboso. 

Tuttavia la voce dei filantropi e dei filosofi non si era elevata a richiamare 
al dritto e all’umanità; ma ben si presagiva; dacché il rinnovarsi degli studii di 
filosofia e di dritto dovea portare a questo glorioso trionfo. 

Primo a levare la sua voce in Italia contro questo stato mostruoso ed anor- 
male del giure e della procedura penale fu il nostro Tommaso Natale nel 1759, 
che emulò Beccaria; ma restò vinto della popolarità del libro del filosofo mila- 
nese, che lo dettò con solenne efficacia e con uno stile entusiasta e declamatorio. 

Egli scrisse, con l’umile e modesta forma di lettera al giureconsulto Gaetano 
Sarri, le sue Riflessioni politiche intorno all'efficacia delle pene minacciate, che videro 
per la prima volta luce nell’ 8° volume dei Miscellanei di varia letteratura , che 
pubblicava in Lucca Giuseppe Rocchi; indi con giunta si pubblicarono nel to- 
mo XIII degli Opuscolî di autori siciliani nel 1772, e infine nello stesso anno 
comparvero a solo, con l’aggiunzione di una nuova lettera, nella quale impugna 
l'opinione del Beccaria che esclude totalmente la pena di morte, e quella del 
Linguet «he la vuole frequente. 

Tre edizioni in pochi anni, a quei tempi, in cui la Sicilia era quasi lontana 
dal consorzio delle altre nazioni, mostra l’importanza del libro, la sua opportu- 
nità, l’ avidità che si ebbe a ricercarlo; dacchè trattava la più vitale quistione 
dei tempi. 

Affrontare un intero sistema, combatterlo, proporre i mezzi per rendere efli- 
caci le pene, migliori gli uomini, più giusti i giudici fu alcerto un ardito con- 
cetto; massime in tempi, in cui i giureconsulti erano legati ai vieti sistemi; tanto 
che non mancò chi contro lui scrivesse a sostenere e difendere l’uso della {or- 
tura; fu questo un Vincenzo Malerba, professore di economia civile all’ Univer- 
sità di Catania. \ 

Ma la dottrina e la calma frase del Natale vinse tutti. E se le leggi penali non 


24 TOMMASO NATALE 





si modificarono, cominciarono le più inumane tanto nella procedura che nel pu- 
nire a cadere in disuso, o a rimanere inefficaci, sia per le frequenti grazie e 
commutazioni di pene, sia per le benigne sentenze dei magistrati, che applica- 
vano sovente, come scrisse il La Mantia, pene arbitrarie inferiori alle legali, ma 
pur sempre severe ove si pongano in confronto con le odierne. La forma dei 
giudizii si migliorarono, per le nuove Istruzioni, e per l’ esempio lodevole delle 
riforme toscane, e divenivano più ragionevoli e moderate nella pratica. 

L’azione delle nuove idee si facea sentire da per tutto; le aspirazioni a mag- 
giori guarentigie per l’ifimocenza e maggiore proporzione nelle pene crescevano 
sempre; ed era riserbato alla rappresentanza nazionale, al rifarsi della costitu- 
zione, riformare la magistratura e promettere un nuovo codice penale , che fi- 
nalmente si otteneva nel 1819; nell’anno stesso in cui moriva Tommaso Natale, 
il filosofo e il riformatore del secolo XVIII. 

Oggi, dopo 122 anni, con tanto progresso nella scienza criminale, con tante 
riforme nei codici penali, con tanta umanità nelle leggi, e con tante dotte 
opere, che il mondo scientifico ci presenta, parlare del libro di Tommaso Na- 
tale, delle sue idee, delle proposte di riforma non ha alcerto grave importanza. 
Ma bisogna riportarsi a quei tempi, per potere apprezzare l’opera filantropica del 
nostro filosofo; ai tempi prima del Beccaria e del Filangieri; dacchè oramai è 
provato, che le Riflessioni politiche intorno all'efficacia delle pene, furono scritte pri- 
ma, che comparisse l’aureo libro dei Delitti e delle pene. (Vedi Scina’, Prospetto della 
Storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, capitolo 2.°) 


XI. 


Il Natale comincia dal chiedere : « quale sia la cagione, che non ostante. la 
troppo severità delle pene che le leggi minacciano e la frequenza ed esatta ese- 
cuzione di esse; si commettono pur non di meno con tanta frequenza delitti 
così enormi e così inumani ? » 

Donde rileva, che non nelle troppo severità delle pene, nella loro frequenza 
sta il segreto dell’ efficacia di esse, bensì, egli dice « nel saperle adottare e di- 
spensare, quantunque meno severe fossero e meno spesse. Anzi sostengo, che 
il supplizio della morte non è forse il mezzo più adatto per prevenire ed estir- 
pare i delitti, ed imprimere nei sudditi quella necessaria idea di timore e di 
spavento, perchè si astenessero di commetterli, come che si giudichi e sia effet- 
tivamente il maggior male, che possa minacciarsegli. » 

Questo concetto cardinale dà l’intonazione al suo scritto. 

Egli non si parte dall’idea astratta dell’uomo, e dalla idea assoluta della pena; 
egli non mette a base il contratto sociale, come il Beccaria, ma il bisogno di 
migliorare e condurre alla virtù gli uomini, in modo che la pena non ha nulla 


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I SUOI TEMPI ECC. 25 





di assoluto, ma tutto deve essere relativo, non solamente ai delitti che si com- 
mettono, ma più tosto agli uomini che li compiono; giacchè le pene « producono 
lo stesso effetto che gli sperimentati medicamenti nel nostro corpo. » 

L'uomo tende per natura alla società. Ma superiore a questa tendenza è l’amor 
di se; in modo che i fini umani invece di tendere al bene pubblico, tendono 
«a ricercare il nostro particolare bene meglio, che l’altrui; » ed osserva, che che 
ne dicono il Grozio, il Puffendorfio, il Cumberland, «che i principii della società 
non si deducono che per lunghi e penosi raziocinii, i secondi al contrario ognuno 
li trova ricercando per poco dentro se stesso.... » 

« Ecco dunque la ragione, che l’uomo, che considerato in sè stesso sarebbe 
una molto perfetta creatura, diviene per così dire cattivo, quando che si giudica 
relativamente alla società. » 

Sta nella lotta dell’interesse privato e del pubblico la dinamica che spesso 
produce il delitto; quando si commette un’azione che a sè par utile, agli altri è 
dannosa. E la società abbonda di questi uomini, che sia per difetto organico, 
come accidentale sono incapaci di dilettarsi del buono e del virtuoso, e turbano 
la pace della società col delitto; « perchè eglino non conoscendo altro bene se 
non che il loro proprio (e quest’uno poco ragionevolmente ed esattamente) non 
sanno curare l’altrui in nessun modo, nè vengono a moderare le. passioni e i 
desiderii loro, nè cercano di adottare le loro azioni ad una certa e determinata 
regola, che gli dirigga, ed onde vuole essere situata la vera norma dell’ umana 
condotta. » ; 

A premunirsi dagli effetti di sì funesta posizione, la società ha stabilito delle 
leggi, che sono delle regole per limitare e determinare a pubblico bene, ch'è anco 
il privato, le umane azioni; ed evitare una delittuosa collisione d’interessi. Queste 
leggi mutano, si perfezionano col mutare e migliorare della società; « e la ragione, 
egli dice, non ha fatto in ciò altra cosa che seguitare ed imitare il piano e l’o- 
riginale della natura. » 

Ma quali effetti producono queste leggi che la società ha fatto ? Esse non ob- 
bligano persuadendoci che sono un maggior bene per noi; ma perchè minacciano 
una pena, che sarebbe per noi un gran male; quale minaccia, e lo stesso timore, 
egli scrive, « che suole meravigliosamente esprimere lo spirito nostro è un ri- 
medio molto potente, perchè le passioni che ci portano a mal fare, ci stimolino 
meno, e sieno meno efficaci ed attive. Ed ecco le pene necessariissime perchè gli 
uomini possano vivere pacificamente in società. » 

Per venire a questa conclusione, egli percorre una lunga via col sistema spe- 
rimentale, ed esamina molte opinioni di dotti che al suo tempo erano preva- 
lenti; opinioni che consideravano l’uomo in astratto, non come è, ma come do- 
vrebbe essere, e in ispecie quelle del Cumberland e del Bayle. 

Esaminata la natura e la necessità delle pene, passa alla loro applicazione, per 
renderle efficaci. Egli non trova altro scopo in esse che o l’emendazione del delin- 
quente 0 l esempio altrui, perchè temendo la stessa pena mon si caschi negli stessi 

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26 TOMMASO NATALE 


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delitti ; e ne scarta qualunque altro, combattendo le opinioni vigenti ai suoi 
tempi. 

Questa relatività nel principio e nello scopo delle pene, dovea produrre i suoi 
effetti nell’applicazione : sicché ne deduce, che « nello stabilire le leggi penali 
deve aversi sopra ogni altra cosa riguardo alla costituzione del governo, all’in- 
clinazione ed indole dei sudditi, al diverso ceto delle persone, e finalmente nel- 
l’esecuzione di esse si dee riguardare la natura dei delitti, e secondo ciò propor- 
zionarli. » 

Egli disviluppa queste modalità, a cui le leggi debbono conformarsi; combatte 
gli scrittori che non le accettano; mostra i danni dell’ allontanarsi da queste 
norme; e nell’edizione del 1772, dopo divulgato il libro del Beccaria, combatte, 
e con poco successo, l’uguaglianza delle leggi, che egli vuole diverse in rispetto 
ai ceti; dacchè il penalista milanese si partiva dal concelto del pubblico danno, 
e il nostro dall’essere la pena non una vendetta dei delitti commessi, ma come una 
medicina di essi. 

È questa la parte più debole del libro del Natale. Ma egli s’ innalza quando 
combatte i disordini nelle leggi e nella pratica criminale, che ben disviluppati 
riduce ai seguenti: 1° ai processi, alle inquisizioni, al ritardo delle esecuzioni; 
2° alla mancanza di proporzione tra il delitto e la pena; 3° alle esenzioni ed ai 
privilegi tanto ecclesiastici che civili che godono i delinquenti; 4° alle immora- 
lità dei processi e alla corruzione nei giudizii per parte degli ufficiali e dei giu- 
dici. E desidera ardentemente che simili disordini, che modificano l’efficacia delle 
pene, cessassero. 

Intorno alla pena capitale ei la discute a lungo; combatte la sua frequenza, 
come il Beccaria combatte la sua esistenza; dicendo: che nella sua estremità e 
violenza si racchiude certamente la sua debolezza; e quindi io vedo, egli scrive: 
1° che manca con essa il mezzo di proporzionare la pena al delitto; 2° che non 
produce negli animi di quelli, cui spesso suole cadere simile capitale condanna, 
quell’effetto ch’è necessario produrre. Non dovea fare che un passo, per procla- 
mare l’abolizione della pena di morte, e nol fece; e volle che fosse usata con 
prontezza, di rado cd in una straordinaria maniera; e della sua opinione fu il Fi- 
langieri. 

La pena di morte fu il suo obbiettivo; e dopo la pubblicazione dei delitti e delle 
pene, egli scriveva una lettera al Sarri sul sistema del Beccaria intorno alla pena 
capitale, ed agli opposti sentimenti del signor Linguet giureconsulto francese; e com- 
batte l’uno che ne vuole la totale abolizione, e l’altro che non teme la sua fre- 
quenza. 

La tortura condanna energicamente, sebbene abbia la debolezza di tollerarla 
come pena; come mezzo di prova la dice inumana ; non essendo lecito sforzare 
chiunque a confessarsi reo di sua propria bocca; e dovendo una tale confessione 
riputarsi come nulla, perché forzata dalla violenza dei tormenti; e perchè per mezzo 





I SUOI TEMPI ECC. 27 





x 


di essa « chi è veramente reo si vede divenire innocente, e reo chi’ in tutti i 
conti è innocente. » 

In grazia di quanto sennatamente scrisse, giova perdonargli s’egli fra le pene 
non condannasse quelle, che come avanzo di barbarie il progresso dei tempi ha 
bandito, cioè l’ignominia, il marchio, l’amputazione; che egli ammise come mezzi 
per proporzionare la pena al delitto. 

Qui terminano le dottrine penali, che abbracciano la massima parte del libro 
del Natale ; nel resto si occupa dell’ educazione e delle riforme ad introdursi; 
dacchè il malamente operare viene dalla storta maniera di pensare; e di conseguenza 
egli trova in una buona educazione l’azione preventiva ai delitti; dacchè le pene 
possono castigare il delitto, non già sostener la virtù. Ma quali sono le sue idee in 
questo argomento? Avremo occasione di dirne appresso. 

Tornando al sistema penale delle riflessioni intorno all’efficacia delle pene del Na- 
tale, diremo che questo libro, scritto prima dei delitti e delle pene dal Beccaria, ha 
certo un gran merito. E furono questi giuristi che primi in Europa levarono a 
principii il giure penale; che condannarono gli abusi, il ritardo e la corruzione 
nei processi, le immunità e i privilegi, la enormità delle pene e la loro spro- 
porzione ai delitti, la tortura e le feroci esecuzioni. Dopo di loro la pratica cri- 
minale s’ingentilisce; e più tardi i-codici si conformano a sensi più umani, ispi- 
randosi ai principii. 

E qui non posso tralasciare dal notare uno stupendo raffronto che il dotto Scinà 
istituisce tra il Natale e il Beccaria: « Ambidue questi filosofi, egli scrive, con- 
dannano la pratica dei tempi, e avevano in mente la dignità della umana natu- 
ra. Ma il Beccaria considera l’uomo in astratto, più come può essere, che come 
è; e cortese egli è nei vizii e nei delitti, d’un’equità che a prima vista t’incanta, 
perchè ti pare bella e benefica. Il Natale all’inverso vede l’uomo come è, e l’a- 
mor proprio, che è a lui connaturale, come la radice infetta che lo dispone al 
vizio e fallo nel vizio durevole; però nel punire è alquanto severo, sulle prime 
ti scosta, e poi tuo malgrado ti vince. Ma l’uno e l’altro si convengono, che la 
efficacia delle pene non deriva nè dalla loro severità, nè dalla loro frequenza. 
Il Beccaria recasi a ciò per amor dell’ umanità e per qualche metafisico ragio- 
namento, e il Natale per l’esperienza, e per la cognizione dell’uomo, che a ca- 
gione della frequenza ed atrocità delle pene inferocisce di più, e poi nel mal fare 
sì ostina. Il Beccaria inoltre considera le pene soltanto come vendetta dei de- 
litti, e però le vuole in proporzione ai delitti e in tutti uguali. Ma il Natale a 
queste considerazioni aggiunge quella di medicina pei delinquenti, e di esempio 
per gli altri. » (Opera citata, cap. II). 

Certamente non mancheranno di coloro che in questo parallello troveranno 
un’esagerazione in pro del siciliano Natale; forse vi è; ma in oegni modo resterà 
sempre che il libro del nostro, se ebbe minor fortuna, è però di un merito in- 


contrastato, che assicura al suo autore la fama di filosofo e di riformatore del 
giure penale. 


28 TOMMASO NATALE 





XII. 


Tommaso Natale, come avvertimmo, può a buon dritto dirsi una gloria del 
secolo passato; fu un uomo completo, poeta, letterato, filosofo, giurista; con tanta 
copia di studii e di dottrina non poteva non essere un economista, massime in 
tempi, in cui questa scienza, quantunque nascente in Sicilia, era necessaria a 
quanti pigliavano parte al governo dello Stato, e in cui più che distinta fonde- 
vasi alla scienza del dritto, e si manifestava sotto l’umile, e pur abbastanza ele- 
vato ufficio, di progetti e di riforme, a migliorare lo stato economico del regno. 

Che il Natale sia stato un operoso cultore delle cose economiche, lo attestano 
le alte cariche che egli coprì nell’amministrazione finanziaria e commerciale dello 
Stato; le riforme che egli propose e introdusse in questo ramo della vita dei po- 
poli; i corretti pensieri e gli elevati concetti in questa disciplina, che trovansi 
sparsi nelle varie sue opere; il giudizio che di lui porta il sommo Gregorio, che 
gli fu contemporaneo, il quale il disse uomo di lettere dotto e delle cose economiche 
intendentissimo. Ma di lui, bisogna pur dirlo, non esiste alcuna opera o scritto di 
materia economica, su cui portare il nostro esame scientifico ; e bisogna ricor- 
rere ai fatti economici che egli studiò, alle leggi che mercè l’opera sua furono 
a pubblico bene promulgate, e che portano impresso il saggio pensiero di chi li 
concepiva ed attuava. i 

Il colbertismo era allora prevalente; le idee fisiocratiche spuntarono più tardi; 
e i nostri economisti, sotto l’impulso di quel sistema, contemperato dai bisogni 
speciali di un paese eminentemente agricolo, scrivevano e propugnavano le ri- 
forme. 

Emmanuele Sergio nel 1762 scriveva di cose economiche, mentre era sol noto 
in Italia il libro di Genovesi; e da colbertista intendea tutto volgere a beneficio 
delle manifatture e del commercio, che quasi mancavano. Egli combatte con co- 
raggio leggi, abitudini, pregiudizii; e in mezzo agli errori del sistema, si senti- 
vano ripetere delle grandi verità e delle libere idee. Domandava le strade di cui 
mancavamo , il commercio che era spento, le manifatture di cui difettavamo, 
l'abbattimento delle barriere, il commercio interno, la sicurezza del commercio 
esterno, il minor costo per le produzioni industriali, la riduzione dei dazii sul 
consumo dei generi di prima necessità, la libera esportazione, l’abolizione delle 
corporazioni di arti. Erano idee nuove che doveano preparare le riforme; e la 
loro popolarizzazione fe sì che al 1779 si fondava nella nostra Università la cat- 
tedra di economia politica col Sergio a professore, che fu quarta in Europa, 
terza in Italia. 

Nè fu solo in questa opera; lo seguirono i messinesi Era, Bottari e Guerra che 
professavano le stesse idee; il Giarrizzo, il Silio, il La Loggia, l’Averna, il Pietro 
Lanza Principe di Trabia, che si volgevano al setificio, al lanificio, all’agricol- 





I SUOI TEMPI ECC. 29 


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tura e pastorizia siciliana, propugnando le idee tendenti a rialzare lo stato de- 
caduto delle industrie. E in mezzo a questo grande movimento, delle idee ardite si 
erano messe avanti in rapporto ai pregiudizii dei tempi. Si propugnò l’abolizione 
di ogni balzello e l’imposta unica sulle rendite, l’abolizione delle immunità da- 
ziarie sulle terre dei baroni e degli ecclesiastici, la libera circolazione degli uo- 
mini e delle merci, il censimento dei beni delle chiese. 

A questo movimento negli studii economici, il Tommaso Natale pigliava parte, 
come col Sarri, col Gaglio, col Napoli, e su tutti elevandosi, si era fatto centro 
di quel moto riformatore delle leggi, richiamandole al rigore del dritto, e spo- 
gliandole della durezza di cuì allora erano improntate. 

Le pubblicazioni da lui fatte e le dottrine sostenute aveano ingrandito il suo 
nome; egli si popolarizzava e diveniva illustre. Caro ai grandi Vicerè Caracciolo e 
Caramanico, frequentava la loro corte ed era valevole consigliero in tutte le ri- 
forme che si fecero sotto questi arditi e novatori governanti. 

Egli era fra gli uomini che guidavano, non fra coloro che si lasciano condurre» 
e con gli scritti, con la parola, con l’esempio, con la ferma volontà concepiva e 
sosteneva le riforme pur troppo necessarie a rilevare il nostro stato economico. 

Già, pria che egli fosse sceso nell’ arena di pubblicista, delle riforme si eran 
fatte. Nel 1739 era sorto il supremo Tribunale di Commercio, che con la doppia 
qualità di amministrativo e giudiziario da una parte avvisava alle fabbriche, alle 
privative, alle franchigie doganali e quanto interessasse il commercio, e dall’altra 
decideva le controversie tra i commercianti; e fu sì onnipotente che il Parla- 
mento nel 1746 dimandò che se ne diminuisse il potere, e l’ottenne. Un tratto 
di pace e di navigazione erasi nel 1739 fatto con la Sublime Porta, ed altro 
nel 1741 con la reggenza di Tunisi, onde il commercio estero essere al coverto 
della pirateria; e consoli si videro in tutte le città marittime a sostenere i dritti 
dei commercianti e della marineria siciliana, i cui legni uscivano dai nostri can- 
tieri. Il Supremo Magistrato di salute riformavasi nel fine di garentire meglio la 
vita dei cittadini dalle contagiose melattie, che allora decimavano le popolazioni, 
e un nuovo Tribunale nel 1746 era sorto a giudicare dei controbandi. Avvisando 
alla beneficenza, si riformava il Conservatorio del Buon Pastore, e sorgeva V im- 
menso monumento dell’Albergo dei poveri; si istituiva e regolava la esposizione, 
creando la Giunta dei projetti; si proibivano i giuochi di azzardo; si riformava il 
lusso dei funerali, e si cercava dare un riparo al commercio frumentario, che 
mentre da una parte avea reso i nobili proprietarii debitori di oltre 5 milioni 
di lire, dall’altra affamava la popolazione con gli alti prezzi (1747); era creata in 
Messina per l’opera del governo una grande compagnia di commercio; e pochi 
anni dopo (1759) nell’interesse del cambio e della pubblica fede si diedero ener- 
gici provvedimenti a riparare al manco di valore delle monete di oro dette. finici, 
rifacendo il danno che il commercio aveane risentito sui beni di coloro che delia 
coniazione doveano rispondere. 

Tutto ciò, mentre da una parte migliorava la pubblica economia dell’ Isola, 


30 TOMMASO NATALE 





dall’altra s’incoraggiava gli studii, oramai legati alla riforma, e dava importanza 
agli uomini che vi si versavano, incoraggiando i giovani a mettersi su questa 
nobile via, colma di onori e di care gioje; dacchè erano gli. ucmini della scienza 
che governavano il paese. Filosofi, giuristi ed economisti stavano alle alte cariche 
dello Stato, che amministravasi non da singole autorità, ma da incorrotta e sa- 
piente magistratura. 

Al 1760 saliva al trono Ferdinando I sotto la tutela del grande ministro di 
Carlo III Bernardo Tanucci, che trovò in Sicilia, più che nel napolitano, un. ter- 
reno facile alle riforme, ed uomini che più che accoglierle le promuovevano e 
caldeggiavano e dentro e fuori il Parlamento. 

Da questo periodo al 1812 fu sempre un progredire, uno dote di riforme 
economiche che i nostri Parlamenti, i nostri magistrati, i nostri pubblicisti pro- 
movevano ed attuavano; e se talune mancarono, non a noi, ma alle influenze del 
continentale governo, devesene attribuire la colpa. 

Del commercio esterno ebbesi cura principale, e il Supremo Tribunale che vi 
invigilava facea ogni sforzo acciò la marineria siciliana ripigliasse il suo impero; 
nel 1761 popolavasi l’Isola di Ustica e a pubbliche spese fortificavasi, e quattro 
anni dopo quella più vasta di Lampedusa, ricovero di pirati africani che infesta- 
vano ì mari e rovinavano il traffico, alla cui sicurezza e guarentigia non rispar- 
miavasi nulla. Ed allorchè nel 1766 alle navi sicule toccò nei porti di Francia 
una visita di rigore e gravosa al commercio, il governo non esitò a protestare, 
ed ordinare per mezzo del Supremo Tribunale di Commercio che le navi francesi 
avessero lo stesso trattamento in Sicilia. Così la fiducia risorgeva, lo spirito com- 
merciale ridestavasi, e nello stesso anno, con pubblica pompa, si varavano dal 
cantiere di Palermo due grandi legni, convenientemente equipaggiati ed armati. 

Alla migliore divisione della proprietà territoriale, allora in gran parte nelle 
mani degli Enti ecclesiastici, e per cui decaduta era l’agricoltura, spuntò nel 1771 
la famosa prammatica della ammortizzazione, per la quale, richiamando le anti- 
che leggi di Federico imperatore, si proibì agli Enti e Luoghi pii ecclesiastici di 
acquistare terreni e di poterne ricevere sotto qualunque titolo; dichiarando come 
non avvenuti gli atti che portassero vendite, donazioni, testamenti di proprietà 
immobiliari, aggiungendo che i beni di cui tuttavia non fossero in possesso ri- 
manessero proprietà degli ultimi possessori secolari; al che è d’aggiungere l’altra 
del 1775 sull’ abolizione dei conventi di pochi frati, i cui beni s’incamerarono 
dallo Stato, ed indi si censirono, passando le rendite a vantaggio della istruzione 
e del culto, 

La legge provvidenziale dell’ammortizzamento impediva il concentrarsi avvenire 
della proprietà in mani abbastanza ricche e poco produttive; immobilizzava però 
quella che avevano acquistata; essa riparava ad impedire un maggior danno, 
ma non toglieva quello che disgraziatamente esistiva. Il compimento di questa 
legge dovea essere quella del 1792; l’ammortizzazione dovea essere legata con la 
censuazione; e debbesi a Tommaso Natale l’altissimo pensiero di sostenere e far 


I SUOI TEMPI ECC. S1 





tradurre in atto il censimento dei beni delle chiese, dividendo così la pro- 
prietà terriera, rendendola più produttiva, elevando il coltivatore a proprietario, 
ed accrescendo da una parte la rendita della chiesa e dall’altra la pubblica ric- 
chezza, col rinnovare l’agricoltura e accrescere l’impiego del lavoro e del capitale 
sulla terra. 


XIII. 


Ma pria di venire al censimento dei beni, non solamente della chiesa, ma dei 
comuni, mi sia permesso di far cenno di altre importanti riforme economiche 
che gli scrittori, tra cui il Natale, sostenevano e i nostri Parlamenti e i nostri 
Rettori vollero decretare ed attuare. 

Esisteva in Sicilia, è omai oltre un secolo, il sistema di appaltare le imposte. Il 
pubblicano è spietato nel riscuoterle; le spese gravavano funeste sui contribuenti, 
e l'opinione pubblica ribellavasi a questi orrendi modi: il Parlamento del 1766 
chiese che i dazii fossero esatti direttamente dalla R. Corte, non per mezzo di 
barbari affittuari; nobile risoluzione! E pure, chi dovea dire, che dopo un se- 
colo noi ci dovremmo trovare nelle medesime condizioni, di fronte agli stessi 
abusi? ciò che dal Parlamento siciliano fu condannato nel 1766, veniva istaurato 
dal Parlamento italiano nel 1872. 

Nel 1767 erano espulsi i Gesuiti che avevano in mano la pubblica istruzione, 
e le loro vistose entrate, amministrate da apposita Giunta, si volsero a vantaggio 
della istruzione e dei pubblici lavori. 

Era una nobile gara quella che animavasi per l’immegliamento degli studì. Nel 
1871 si aprivano i collegi della istruzione secondaria; ma mancava ancora e la 
istruzione elementare e la complementaria; i metodi erano erronei e l’ ufficio 
dell’insegnante era in persona non rispondente al nobile ministero. La opinione 
pubblica però ‘sorretta dagli scrittori cominciava ‘a riconoscere l’importanza della 
istruzione, e maturava la riforma di essa in rapporto ai tempi. E il Marchese 
Natale sin dal 1772 scriveva (nelle Riflessioni politiche): La matura ci produce uo- 
mini non cittadini; quindi la necessità dell’ educazione civile. Le regole dell’equità, 
della probità, dell’ onestà e della giustizia è necessario che si abbraccino non 
solamente, perchè se ne tema la forza, ma ancora per un intimo attivo senti- 
mento. L'educazione deve svolgersi a norma della natura, e deve risvegliare e 
coltivare in noi quei veri principii di virtù, che la natura ha seminato dentro 
l’anima nostra; deve rettificare e bene indirizzare le nostre inclinazioni, in modo 
-che divenga un abito tutto ciò che si acquista per via di una retta conoscenza. 

Egli attacca l’ educazione e l'istruzione dei suoi tempi; tra noi, dice, non si 
conosce il vero e retto metodo di educare i nostri figliuoli, onde divenissero 
utili membri della società; il male viene dall’insufficienza delle persone che e- 


32 TOMMASO NATALE 





ducano e del non proporzionare l’ educazione alla condizione delle persone in 
particolare e in generale a quella del paese. Alte idee, di cui oggi si potrebbe 
trar profitto. 

E con coraggio tutto suo tirava contro i pedanti e contro i frati, allora dati 
all'istruzione; i primi, egli scrive, fanno divenire insipidi srammaticucci, e non 
concependo l’uomo e la società, opprimono e rendono sterili e infruttuosi gli 
allievi; i secondi cioè i preti e i frati, faranno se volete uomini devoti e vir- 
tuosi, ma per vivere nei chiostri, non per stare in società; faranno se volete 
degli scienziati, ma di quella scienza che non serve al cittadino. 

Indi tuona contro l’istruzione atea e razionalista, contro l’ istruzione materia- 
lista propria dei tempi e degli scrittori che precedettero in Francia il 1789. Questa 
istruzione non dà che idee false; non presenta che l’uomo astratto, l’uomo che 
non si trova in società, e fa dei visionarii e dei rivoluzionarii: bisogna seguir 
la natura, conoscere i vizii per ischivarli, e sopra tutto il governo deve lasciar 
libertà nell’ istruzione: non troppe minuzie, non forzare la natura, non inibire, 
perchè spesso la proibizione affeziona a ciò che si proibisce. 

Queste idee ho riassunto da 40 pagine del citato scritto del Natale; idee che 
tuttavia son fresche, perchè vere e degne di essere eseguite; e si badi che questo 
scrivevasi oltre un secolo addietro. 

E le sue idee fruttarono, nel 1779 sorgevano le scuole elementari in tutti i 
numerosi conventi dell’ Isola; e sono stupende le istruzioni che sull’oggetto comu- 
nicava al superiori di ogni Ordine il dotto Monsignor Airoldi allora giudice della 
R. Monarchia; e gradatamente si proponeva la riforma dell’insegnamento che ebbe 
luogo nel 1786 per opera del dottissimo abate De Cosmi. Nello stesso anno 1779 
sorgeva l’ Accademia degli studii, che indi nel 1790 divenne Università, dotata 
di cattedre in ogni ramo del sapere, e su cui sedettero i più dotti e grandi uo- 
mini di cui era ricca la Sicilia nostra, sotto la direzione della Suprema Depu- 
tazione degli studii, di cui il marchese Natale fece parte. 

Nè l'istruzione soltanto. Nel 5 aprile 1778 la rappresentanza nazionale al Par- 
lamento votò otto grandi arterie di vie rotabili per una estenzione di oltre a 700 
chilometri, e ne stabiliva i fondi per donativi, la manutenzione con le barriere; 
e ciò nell’ interesse di svolgere ed agevolare l’interno commercio. Tante strade 
un secolo addietro non erano state votate da alcun governo. Il paese si sarebbe 
rigenerato; e se oggi dopo un secolo non si vedono per intero costrutte, non se 
ne incolpi il paese, ma la sua perduta autonomia. 

Chi si fa a considerare le ardite riforme e le coraggiose proposte del Parla- 
mento, resterà certamente edificato nel vedere di che furono capaci i siciliani 
di quei tempi. 

Nel Parlamento del 1781 si aboliva l’odioso monopolio dei tabacchi, come no- 
civo all’ agricoltura. e alle manifatture; che vedemmo sotto la libertà italiana 
ripristinavasi nel 1875; nel 1781 si restituivano onze 150,000 a coloro che ave- 
vano comprato la tratta dei grani, per inaugurare idee più libere; e nello stesso 


RE VR 


I SUOI TEMPI ECC. 33 


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anno si aboliva in Palermo il prezzo fisso del pane, primo passo per il libero 
paneficio. D’allora comincia a vedersi la libera estrazione dei grani, che produce 
ricchezza ed impedisce le carestie; ed onde aggevolare il commercio, i legni di 
guerra furono destinati a scortare la marina mercantile. 

Pal lato economico i colpi alla feudalità furono potenti e risoluti. Nel 1782 
fu dato ai vassalli il dritto di lavorare anche fuori il territorio baronale; nel 1788 
erano sollennemente aboliti i dritti angarici, che costituivano tanti monopolii e 
privilegi a vantaggio dei signori, e a danno del libero commercio e della libertà 
del lavoro; e un anno dopo veniva proibita la contrattazione dei servizii perso- 
nali a tempo determinato, che costituita una volontaria servitù personale; nè fu- 
rono risparmiate le altre istituzioni che infrenavano il lavoro e lo rendevano pri- 
vilegiato e improgressivo, dacchè anche i consolati delle arti furono aboliti e il 
lavoro fu libero a tutti. 

E tutto ciò compivasi tra gli applausi degli scienziati, che vedeano il frutto 
delle loro dottrine. 

Una riforma chiama l’altra. Nel Parlamento del 1786 il braccio demaniale 
alza la testa; e il terzo stato pacatamente parla pel popolo. Esso domanda una 
rettifica di censimento per isgravare le università dalle imposte dirette, e chiede, 
fra l’opposizione dei baroni e del braccio ecclesiastico, un regolare cafasto, acciò 
i tributi fossero divisi ugualmente, e i grandi signori e la chiesa possessori 
delle terre non ne fossero esenti. I baroni si oppongono; e chiedono una legge 
contro il lusso, che il braccio ecclesiastico e demaniale respingono, come nociva 
al commercio; e la legge proposta da questi pel ritorno del monopolio del ta- 
bacco è oppugnata dai nobili come dannosa all’agricoltura e al libero lavoro. 
Gl’urti d’interessi diventano fautori di beni e fomite di più generose riforme, 
che si consumarono in proseguo, per parte della nobiltà, che rappresentava al- 
lora la classe culta del paese. Ma baroni, clero, terzo stato furon sempre d’accordo 
nel fare il bene dei popolo, e nel mantenere le prerogative della rappresentanza 
del paese; come mostrarono nel 1782, quando sotto il Vicerè Caracciolo napoli- 
tano, che mal tollerava le siciliane istituzioni, si voleva, che il Parlamento si ap- 
pellasse Congresso; e contributo, i donativi che si votavano pel mantenimento dello 
Stato, quasi a mostrare che venissero da spontanea largizione del popolo. 


Il feudalismo era stato colpito ; il commercio rialzato e avviato a libertà ; il 
lavoro svincolato dai privilegi e dai monopoli; la chiesa frenata nei suoi acquisti 
immobiliari; le strade , veicolo di ricchezza , votate; bisognava pensare ad una 
migliore distribuzione della terra per dare uno svolgimento all’agricoltura, in un 

5) 


54 TOMMASO NATALE 








paese eminentemente agricolo, in cui la terra non dava quanto la sua potenza 
produttiva poteva offrire alla pubblica ricchezza. 

Il Colbertismo piegava; e le idee fisiocratiche spuntavano e ottenevano favore 
fra noi; e gli scrittori le sostenevano come più consentanee alle condizioni del 
paese. 

Non che la Chiesa, i Comuni erano possessori d’ immensi latifondi, o abban- 
donati o mal producenti, e in ispecie quest’ultimi aveano vasti fondi lasciati a 
vantaggio dei comunisti, ove nessuno lavorava, ove tutti portavano il saccheggio, 
non producendo alcuna rendita, o magra, alle municipalità. 

Il pensiero venne prima per il censimento dei beni dei Comuni, nel 1787; cinque 
anni dopo si pensò a quelli della Chiesa. Il primo concetto fu un pensiero fi- 
scale. Un Giovanni Pomar da Corleone propose al governo di censire le terre co- 
munali inculte e mal producenti, incamerando le rendite a vantaggio del Regio 
Erario. Il Tribunale del Patrimonio lo rigettò come ingiusto; ma, come esso con- 
teneva il germe di una grande riforma, la censuazione delle terre, fu coltivato, 
e produsse. 

L’uso dell’enfiteusi era antico in Sicilia; e segna il passaggio tra la proprietà 
serva e la libera, tra la miseria e lo squallore della campagna, e l’attività e la 
produzione. 

Al marchese Natale debbe la Sicilia riconoscenza per avere sostenuto il censi- 
mento dei beni dei comuni e della chiesa; nobile pensiero nato a rigenerare il 
paese. 

Egli da economista, e avvalendosi del suo sapere e del credito che avea presso 
il governo e il popolo, scriveva in quel torno una dotta memoria, con la quale 
mostrava i vantaggi della censuazione in rapporto all’agricoltura e ai proprietarî 
dei fondi censiti. La sua voce autorevole trovava eco per ovunque; il suo pensiero 
svolgevasi praticamente ed utilmente, ed è impresso nelle famose istruzioni del 5 
dicembre 1789, per la censuazione da farsi dei fondi e tenute di terre che si possiedono 
dalle Università del Regno, che il governo volle che da lui fossero scritte; e a ren- 
dere più degna la sua persona, era nominato Maestro razionale del Real Patrimonio, 
e membro della Giunta per la censuazione. 

Questo fatto importante per la vita del Natale, e che lo costituisce un econo- 
mista abile nell’attuazione dei proposti sistemi, è accertato da due grandi uomini 
il Gregorio e il Palmeri. L’uno scrivendo sulla proposta censuazione loda la legge, 
e aggiunge: « l’incarico di eseguire e condurre a termine questa grande e bene- 
fica operazione è stato dato al marchese Natale, Maestro razionale del Real Patri- 
monio, uomo di lettere dotto, e delle cose economiche intendentissimo. » L’altro, 
il Palmeri, in una lettera al cavaliere Cesare Airoldi intorno alla censuazione dei 
beni comunali di Sicilia, scrive: « Nei primi anni del governo del principe di Ca- 
ramanico vicerè in Sicilia, il marchese Natale, Maestro razionale del Tribunale 
del Real Patrimonio fece il progetto di dare a censo tutti i beni posseduti dai 
Comuni e dagli ecclesiastici, e pubblicò una memoria intorno a ciò; » ed indi, 


I SUOI TEMPI ECC. Bia) 


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ispirato ad idee diverse da quelle sostenute dal Natale e dal Gregorio, si fa a 
combattere il censimento, educato come egli era alle idee inglesi del latifondo, 
e nemico di ogni sminuzzamento di proprietà; in ciò seguendo le idee, che un Ca- 
millo Gallo e Gagliardo avea esposto sullo stesso argomento, in un discorso al- 
l'Accademia del Buon Gusto nel 1800. 

Noi non vogliamo entrare in questa discussione che si agitò allora, e forse 
anco oggi divide le opinioni: se lo sminuzzamento della proprietà sia un bene; 
ma vogliamo constatare come debbesi al Natale questo concetto di censire i beni 
dei comuni e della chiesa, concetto a cui la Sicilia debbe il rinnovarsi della 
sua agricoltura, e che d’allora ad oggi non è stato mai abbandonato; che anzi è 
a ritenersi il miglior mezzo di vivificare l’industria agraria, legando il coltiva- 
tore alla terra, e accrescendo il valore produttivo dei fondi, e di conseguenza la 
pubblica ricchezza. 

Le istruzioni fatte dal Natale nel 1789 ben risposero allo scopo. Il concetto ne 
è semplice; ma svolto con tali considerazioni economiche, che a buon dritto lo 
dimostrano un valentissimo economista. I posteri lo hanno coperto di obblio; nè 
mai una parola si è rivolta a questo benefattore della nostra vita economica; 
ma i suoi contemporanei gli tributarono il dovuto onore; tanto che il dotto Di 
Blasi, nella sva Storia di Sicilia, celebrando il vivente Natale, pone, accanto alla 
sua opera sull'efficacia e necessità delle pene, le istruzioni sulla censuazione dei beni 
comunali. 

Ma cosa contengono queste istruzioni? Il concetto a cui miravano si era: ele- 
vare il colono a proprietario; spargere la popolazione per la campagna, e creare 
delle nuove agglomerazioni in vaste estenzioni di terreno, ove il lavoro umano 
non si era giammai applicato; svolgere l'agricoltura cotanto negletta a quei tempi, 
e sciogliere la promiscuità dei dritti sulle terre, che per ciò stesso non sì col- 
tivavano e miglioravano. Ad attuarlo si sanzionarono le seguenti disposizioni. 
(Istruzioni 5 dicembre 1789, in 32 articoli, ristampate nel 1843 nella prima parte 
delle disposizioni per lo scioglimento della promiscuità). 

Le terre comunali infra quattro miglia dalle popolazioni agglomerate si devono 
dividere in piccoli lotti sino a quattro salme, a misura delle circostanze e della 
abilità delle persone, alle quali dovranno concedersi; quelle al di là di quattro 
miglia in partite sino a dieci salme, o più, in rapporto alla distanza, qualità 
delle terre, numero delle persone che concorrono, cercando di conciliare che ogni 
lotto si avesse terra di ogni qualità e produzione. Le sorgive di acqua restavano 
per l’uso comune dei coloni e del bestiame. La stima delle terre fatta da buoni 
periti, che fissavano il canone da pagarsi alla comunità ai 15 di agosto di ogni 
anno. Non calore di asta, dovendo sollevare i coloni; ma il bussolo fra i con- 
correnti, dovendo preferire la gente abile ed atta alla coltura, e fra questi i na- 
turali della rispettiva località. Alle persone ricche di capitali possono concedersi 
solamente quelle terre, che abbisognano di grandi spese per renderle atte a cul- 
tura, col dovere di riconcederle dopo, di tempo, in tempo, così migliorate, in pic- 
coli lotti. 


36 TOMMASO NATALE 





Le migliorie eran d’obbligo, sotto pena della devoluzione, fra quattro anni nelle 
terre vicine, con la piantagione delle vigne e degli oliveti; nelle lontane con altri 
benfatti, dovendo tassativamente la Giunta determinare il capitale d’impiegarsi 
in migliorie. 

E a far che sorgessero, come sorsero in proseguo, comuni rurali, si lasciavano 
in mezzo ai fondi quattro salme o più di terreno, in luogo adatto per sorgervi 
le abitazioni dei coloni, e della gente destinata alla cultura, giusta un piano e 
disegno determinato; ciò dovea praticarsi in quattro anni, mercè l’ajuto delle co- 
munali amministrazioni, che doveano mutuare ai più poveri. 

Raccolto un numero di venti capi di famiglia, il Comune dovea erigere a sue 
spese una chiesetta rurale e stabilirvi il culto e la istruzione. Qualunque persona 
avea il dritto di fabbricare delle case per suo conto o per affittarle , ottenendo 
gratuitamente il terreno; e ciò nel fine di render possibile la formazione dei co- 
muni rurali, i quali sino al 1864 godevano della esenzione della tassa sui fab- 
bricati. 

Fu abolito il dritto di pascolo nell’interesse dell’agricoltura, e quello di ven- 
dere e succoncedere per impedire con questa forma il concentramento della pro- 
prietà. 

La censuazione dovea farsi da speciali delegati del governo, assistiti da periti, 
ed ajutati dalle comunali amministrazioni, alla cui presenza dovea farsi il sor- 
teggio trai concorrenti enfiteuti, quando il numero delle persone abili e richise- 
denti superasse i lotti a censirsi. Le spese contrattuali a carico degli enfiteuti. 
I reclami e i dubbi da decidersi dal Ministro, a cui i delegati, settimana per set- 
timana, dovevan render conto delle fatte censuazioni. 

Agli stessi principii fu ispirata la censuazione dei beni ecclesiastici di Real 
Patronato, promossa dallo stesso Tommaso Natale, ed approvata con dispaccio 
del 3 novembre 1792. 

Questa legge accettò il sorteggio per le terre vicine all’ abitato , e solamente 
volle il calore dell’ asta tra abili e ricche persone con precedenza invitate per i 
grandi lotti e distanti, nel fine di togliersi ogni sospetto di parzialità, e non 
pregiudicare i giusti dritti della Chiesa e del Fisco. I possessori ecclesiastici dei 
fondi si dovevano udire, nello scopo di mettere la Giunta in posizione di bene 
eseguire il censimento; i canoni non dovevano essere al di sotto delle rendite 
che davano i fondi, e il censimento doveva promuovere il sorgere di nuove po- 
polazioni e l'aumento di esse. 

Se qualche storico, così di volo, accenna alla benefica censuazione dei be»i 
comunali, niuno si occupa di quella dei beni ecclesiastici; e fu ritenuto che non 
si fosse siammai attuata; tanto che il decreto del 19 dicembre 1838, che la ri- 
chiama in vigore, nei suoi considerandi la dice sapiente determinazione, che le vi- 
cende dei tempi impedirono mettersi ad effe!to. 

Ma non è così; essa ebbe in parte esecuzione. Una Giunta di cui il Natale fu 
componente si mise all’opera e molti censimenti si fecero. Basta per tutti quello 


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I SUOI TEMPI ECC. 37 


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delle terre in montagna di Gallo dell’Arcivescovo di Palermo censite nel 1794, i 
cui effetti furono, che questi fondi di salme 291, i quali alla Mensa non produ- 
cevano che la scarsa entrata di lire 1300, gli assicurarono, censiti, oltre lire 6000, 
e sorsero 102 proprietari in altrettanti lotti, che ora si mostrano vegeti di ri- 
gogliosa produzione, e formano la sussistenza di numerose famiglie. 

Nè meno produttiva di questa censuazione era stata l'altra dei beni comunali 
pei proprietarii dei fondi. Basta far notare, come il comune di Mazzara, che rica- 
vava lire 395 annuali da 215 salme di terre, censite ne ebbe 1504, creando 131 
proprietarii; quello di Marsala che da 600 salme traeva lire 408 annuali e ne 
ebbe lire 1825, elevando a proprietarii 150 braccianti; Termini da 68 salme di 
terra senza rendita ne ebbe lire 565, formandosi 60 proprietarii. Tacciamo degli 
altri comuni; ma giova avvertire come migliaia di lavoratori divennero proprie- 
tarii, nuove popolazioni e comuni rurali sorsero, l’agricoltura divenne rigogliosa 
attorno i comuni e le nuove abitazioni, la produzione crebbe e il lavoro non 
venne più a mancare alla classe agricola. Aggiungiamo altresì, come i buoni ri- 
sultati di questa censuazione spingesse i privati a dare ad enfiteusi parte delle 
loro terre, mutando i servi e i coloni in enfiteuti. E allora per una triplice a- 
zione la proprietà terriera e l’agricoltura ebbero incremento. 

Queste leggi che da circa un secolo i nostri padri fecero ed attuarono, comin- 
ciarono a dare sì felici effetti, interrotti dalle vicende dei tempi, che nel 1812 
il Parlamento siciliano le votava per tutti i beni ecclesiastici ; nel 1838 Ferdi- 
nando II le richiamava in vigore; e in tempi a noi più vicini, Garibaldi le pro- 
clamò da Salemi; la prodittatura ne formava una legge a 18 ottobre 1860; e il 
Parlamento italiano nel 1362 promulgava la legge della censuazione dei beni ec- 
clesiastici in Sicilia e l’attuava completamente, ispirandosi alla sapienza dei no- 
stri maggiori, producendo immensa utilità alla popolazione e alla agraria indu- 
stria. E se nell’ odierna censuazione ebbero a lamentarsi dei difetti inerenti a 
simili lavori, egli fu, perchè si dilungarono in parte dalle antiche leggi, le quali 
meglio risposero allo scopo, come viene accertato dagli storici, che sull’ oggetto 
non ebbero a levare un lamento. Fu errore non averla proclamato per tutta Italia 
al 1866; e doveva al certo far peso sì splendito precedente; mentre il sistema 
della vendita col prezzo a rate, spogliò lo Stato e i comuni d’immense ricchezze, 
gettò sul mercato una quantità di terre superiori alla richiesta, e ne avvilì il 
valore. Con la legge dell’enfiteusi gl’interessi dello Stato e dei privati si sarebbero 
assicurati, la proprietà si sarebbe meglio divisa, e di maggior utile sarebbe tor- 
nato allo sviluppo dell’industria agraria e al sollevamento delle popolazioni ru- 
rali. 

La Sicilia debbe essere riconoscente alla memoria di Natale, per la proposta 
che egli nel 1787 sosteneva della censuazione dei beni dei comuni e della chiesa, 
non solo per quanto egli fece; ma per quanto dopo di lui e sulle sue orme è 
stato fatto. Egli portò una rivoluzione nella divisione della proprietà terriera non 
solo, ma nel costituirla in modo, da permettere più tardi con profitto le riforme 


38 TOMMASO NATALE 





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delle finanze del Regno, mercè un regolare catasto e l'imposta sulla terra. Ma 
l’utile che portò all’ agricoltura e alla pubblica ricchezza ha ben altro valore. 
Gli effetti benefici più che allora, oggi si risentono; e la gran mente del Gregorio 
li presagi, quando, dopo aver chiarito gl’immensi utili della censuazione, conchiu- 
deva con le seguenti parole: « Adunque le cose sono ora condotte a termine, 


che tolti via gli ostacoli e moltiplicate le proprietà, egli è immancabile che l’a- 
gricoltura siciliana sia al più presto in ottimo stato di perfezione ridotta. » 


XV. 


Nè questi soli, sono i servizii che prestò il marchese Natale al paese e all’am- 
ministrazione dello Stato, nella parte economica, colla sua dottrina e colla sua 
valevole autorità ; che importanti furono altresì quelli che egli ebbe a rendere 
nella qualità di consigliere di Stato, di Maestro razionale del Real Patrimonio, 
carica che egli sostenne per lunghi anni; ed anco come consigliere del Supremo 
Magistrato del commercio, componente la Giunta delle Regie Poste, del Catasto 
del Regno, di Ammortizzazione, deputato dell’Università di Palermo e degli Studî 
del Regno. Cariche egli ebbe come uomo dottissimo e valente ministro. 

Chi si fa a considerare la costituzione del regno di Sicilia a quei tempi, può 
ben formarsi l’idea dell’importanza delle cariche che occupava il Natale. 

Ai grandi dignitari dello Stato, dei tempi Normanni e Svevi, erano succedute 
delle magistrature. Il Comite o Gran Contestabile che amministrava la guerra e la 
milizia, il Grande Almirante che reggeva le cose navali e marittime, il Gran Can- 
celliere che sovraintendeva alle materie civili, il Maestro giustiziere che invigilava 
all’amministrazione della giustizia e punizione dei delitti, il Gran Camerario che 
avea la direzione e il maneggio del denaro pubblico, il Gran Sinîiscalco che am- 
minlstrava la Real casa, e giudicava tra le persone di corte, non esistevano più; 
di taluni restava il nome, senza l’autorità. Filippo II e successivi principi vi ave- 
vano fatto succedere magistrature, i cui presidenti avevano autorità illimitata. 

E fu al certo un progresso questa riforma, fatta col consenso del Parlamento; 
dacchè all’ individuo succedeva il corpo, e al posto della grandezza e della ric- 
chezza, la scienza e la dottrina. 

La Gran Corte col suo presidente ebbero l’amministrazione della giustizia, in- 
vece del Maestro Giustiziere; al Gran Camerario successe nell’ amministrazione 
dell’ Erario il Tribunale del Patrimonio; la Giunta dei Presidenti della G. Corte 
e del Patrimonio con il consultore del governo assistivano, alla forma dei legati 
presso î pretori romani, il Vicerè su tutte le cose che ‘appartenevano al governo 
dello Stato, insieme a pochi ministri consiglieri di Stato. 

Il Tribunale del Concistoro , che rappresentava l’ antico della Sacra coscienza 
del Re, composto da un Presidente e da quelli della Gran Corte e del Patrimonio, 





I SUOI TEMPI ECC. 39 








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non che da proprii giudici, decideva in appello delle cause sentenziate nei Tri- 
bunali dello Stato, appello, che prima portavansi direttamente alla conoscenza del 
Sovrano. 

Gli avvocati fiscali erano addetti presso ogni Corte o Tribunale, e rappresen- 
tavano il rigor della legge. 

Di questi magistrati di cui abbiamo fatto cenno componevasi la Gran Corte del 
Principe, o,come dopo si disse, il Sacro Consiglio; suprema autorità giudiziaria, con- 
sultiva ed esecutiva dello Stato, che nell’assenza dei Vicerè e dei presidenti del 
Regno esercitava il sovrano potere. 

Dei magistrati superiori dipendevano da questi supremi in ogni ordine della 
vita economica, amministrativa e giudiziaria della nazione. 

Completava infine l’organismo dei poteri dello Stato un altro corpo, che fu la 
Deputazione del Regno. I deputati del Regno, eletti ad ogni chiudersi di Parla- 
mento, e di esso rappresentati tra una legislatura ed un’altra, avevano fra le prin- 
cipali incumbenze quella di dividere equamente fra i contribuenti i votati do- 
nati, e di esigerne le quote; e l’altra altissima, di far conservare dal governo pure 
ed intatte le immunità e le franchigie delle libere istituzioni dello Stato. 

Così il potere legislativo , esecutivo e giudiziario erano in permanenza, non 
rappresentati da individui, ma da magistrature e corpi, in cui il vigore e la scienza 
presiedevano , e la giustizia e la buona amministrazione trovavano guarentigia. 

Del Tribunale del Patrimonio, dicemmo, fece parte sin dall’anno 1789 il mar- 
chese Tommaso Natale, come uno dei Maestri razionali. Erano essi gli ammini- 
stratori del pubblico Erario, e i consultori e giudici nelle cose economiche e fi- 
nanziarie; e dopo il Presidente, a cui si addossò la somma delle cose, come al 
Gran Camerario cui successe, non vi era autorità e dignità maggiore di quella 
dei Maestri razionali, o come pria dicevansi Maestri camerarii o dei conti, che da 
quattro portava re Filippo II a sei, dei quali tre nobili e tre giureconsulti, oltre 
ai soprannumeraril. 

Il Tribunale del Patrimonio rappresentava allora quant’oggi il Ministero delle 
Finanze, dell’agricoltura e commercio, e anco dei lavori pubblici; e i Maestri ra- 
zionali erano a reputarsi de’ veri ministri, e ne avevano spesso il nome. 

L’ essere stato prescelto il Natale a questo officio, da convinzione, come egli 
fosse finanziario ed economista. E dei quattro ufficii, in cui il Tribunale era par- 
tito, toccò a lui il più difficile e per cni si richiedeva maggior copia di studii 
economici. Ti 

Egli ebbe il secondo, e direggeva e trattava: le regie tande di tutta l’Isola, 
al dazio surrogato al dritto proibitivo del tabacco, la Tesoreria generale, le Fisca- 
lità ordinarie, gli assenti di Regia Corte, le Poste, la Regia Zecca (1). 


(1) Gli altri tre ufficii trattavano le seguenti materie : 
1. L’ufficio di protomedico del Regno. La Milizia urbana. Quartieri e provvisioni dei 


40 TOMMASO NATALE 








Sebbene questo fosse l’ufficio che egli di proposito reggeva; pure non gli man- 
carono delle altre nobili ed elevate cariche, di cui dicemmo; cariche a lui toccate 
per la vasta dottrina e per la speciale conoscenza della economia politica. 

Il che, mentre torna a di lui onore, torna altresì ad onore del paese e del go- 
verno, che ebbe rispetto a sì grand’ uomo, e nobile indirizzo di volere la scienza 
là, ove erano gravi cose a diriggere, importanti interessi a garentire. 

E qui giova accennare ad altro fatto, per mostrare il rispetto al merito. Quando 
nel 1766 fondavasi in Palermo una importante fabbrica di majoliche, con privativa 
e franchigia, il Tribunale supremo del commercio e delle industrie vi delegava 
alla sorveglianza l'economista Vincenzo Emanuele Sergio. 

Chi volge .lo sguardo alla storia economica e politica di quei tempi vedrà 
quali compagni il Tommaso Natale si avesse avuto, e con lui, e prima di lui, nelle 
alte magistrature di cui abbiamo fatto parola, accolta delle più distinte celebrità 
nelle scienze giuridiche ed economiche. 

E il Tommaso Natale fu tra i più valenti; e in tuttii suoi ufficii portò il con- 
tingente di severi studii e la religione «del dovere. 

Il suo voto era sì autorevole che le sue opinioni ed avvisi trasmutavasi in 
legge; e si adoperò sempre di armonizzare gl’interessi del Fisco con le esigenze 
delle popolazioni; attenendosi alla giustizia ed ai principii del dritto. 

E qui ci piace rammentare una Rappresentanza della Giunta della censuazione 
di Sicilia che porta il suo nome, e fu data alle stampe; in essa sostiene la vali- 
dità della censuazione delle terre dette della Gangia di Aci Reale, contrastata dal Co- 
mune; essa porta la data del 2 gennaio 1796, e al 2 aprile dello stesso anno, il 
suo parere era legge. 

Egli esercitò ! alta autorità che gli fu conferita, sino all’ abolizione della 
magistratura, di cui facea parte. 

Ispirandosi ai sani principii della filosofia e della economia sociale li applicava 
al governo e alla politica. Preoccupandosi delle idee dei suoi tempi, che portarono 


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castelli. Le fortificazioni. Il munizioniere del Real Palazzo. I munizionieri del Regno per i 
viveri, polvere e salnitro. 

2. Le segrezie e dogane di tutto il Regno, inclusa ancora la gabella delle carte di giuoco 
e la gabella della seta ed olio. Il maestro segreto. Le tratte del Regno. La tratta della seta 
di Palermo e Messina. La gabella dello zucchero, pescespada e carte da giuoco di Messina. 
La collettoria della marina. La collettoria di ferro ed acciajo di Messina. I controbandi e 
le furtive estrazioni delle dogane e delle collettorie. Il Porto franco di Messina. Il maestro 
Portulano, ossia tratte di frumenti, orzo, legumi, ed amministrazione ‘dei regi caricatori, in- 
clusi i controbandi e le furtive estrazioni per detto officio. 

8. L’azienda gesuitica , incluso il ministro di Messina per quell’abolito collegio, e suoi 
aggregati. Il rettore del seminario di Modica. I segreti e commissionati del Regno per detta 
azienda. Il curatore dei fondi gesuitici in Partinico ed i regi depositari per detta azienda. 
L'azienda dell’abolito 1° Officio. Le elemosine del principe delle Asturie. 


I SUOI TEMPI ECC. 41 





agli eccessi della rivoluzione francese, pensava alla plebe, di cui paventava lo sca- 
tenarsi, non essendo trattenuta da buoni costumi e d’ amore al lavoro; e sin dal 
1772 scriveva: « Or due rimedii potrebbero in qualche modo rettificare il co- 
stume ed il pensare della inculta plebe: la religione e l’ occupazione. La prima 
è attivissima ad introdurrre negli animi loro certe massime di onestà, di giu- 
stizia, di carità; la seconda li toglie dall’ ozio e dal bisogno, onde nasce la mag- 
gior parte dei disordini in uno Stato. Perchè l’ ozio gli abbandona liberamente 
in preda alla loro sregolata ed ineducata fantasia; il bisogno li spinge al pro- 
caccio e all’ interesse; quindi la mala fede, l’ ingordigia e con essa molte altre 
conseguenze nocive. Ed egli si può francamente dire, come massima sperimen- 
tale in politica, che quando vi ha universale occupazione in uno Stato, vi ha. 
parimente ricchezza fra i cittadini, e la ricchezza produce per lo più tranquillità 
e buoni costumi. 

Gli avvenimenti che si succedettero in Sicilia dal 1798 al 1812 lo trovarono al 
suo posto: amico delle pacate riforme, e nemico delle rivoluzioni violente. Egli 
era amante delle franchigie siciliane; l'antica costituzione e gli ordini ammini- 
strativi in cui visse e in cui ebbe parte non ultima, lo convinsero che quel si- 
stema di cose, suscettivo di miglioramenti, si avrebbe dovuto rispettare, non an- 
nullare; creando pur si voglia qualche cosa di meglio, che non avea il suggello 
della secolare tradizione, che costituisce un dritto invulnerabile. E veramente le 
nostre antiche istituzioni nella loro-rozzezza erano improntate alla massima li- 
bertà; e il trovarsi il governo in tutte le sue parti nelle mani di elette e dot- 
tissime magistrature, era un pregio che non si riscontra nelle altre costituzioni, 
ove l’arditezza e la fazione impone e governa. 

Al 18312 il marchese Natale era vecchio ; a 79 anni non potea pigliar parte a 
quel movimento riformatore , che tutto cancellando, tutto ad un tempo creava; 
annullando un ordine governativo, che avea resistito onorevolmente ed efficace- 
mente per circa otto secoli all’ invadente dispotismo di sette dinastie straniere, 
che con religioso rispetto giuravano e mantenevano le nostre franchigie. 

Il 1812 fu un progresso nell’ordinamento liberale del regno; ma fu altresi una 
riforma radicale, una rivoluzione che facevano gli stessi poteri dello Stato. Il 1815 
non trovò le secolari e libere istituzioni, che tutte le dominazioni avevano con 
riverenza rispettato, ma una bambina costituzione che vigeva da tre anni; can- 
cellarla fu l’opera di un istante, in quei momenti di violenza e di spergiuri. E 
allora il dispotismo potè senza contrasto assidersi sovrano al posto di quella 
nuova libertà, che avea annullato le nostre secolari franchigie. Colla libertà ca- 
deva l’indipendenza della nazione; e s’iniziava quella incessante lotta di quaran- 
tacinque anni, che riuscì a ristaurare la libertà, cancellando senza ragione il nome 
della Sicilia. 










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CLASSE DI LETTERE E BELLE ARTI 


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DEL VOLGARE 


USATO DA PRIMI POETI SICILIANI 


E DEL CARATTERE DELLA LORO PORSIA (1). 


« Videtur Sicilianum Vulgare sibi famam prae aliis 
adsciscere, eo quod quicquid poetantur Itali Sicilianum 
vocatur, et eo quod perplures doctores indigenos inve- 
nimus graviter cecinisse, puta in Cantionibus illis : 


Ancor che l’acqua per lo foco lassi; 
et 


Amor che longamente m'hai menato. 


... Quod si vulgare sicilianum accipere volumus, scilicet 
quod proditur a terrigenis mediocribus, ex ore quorum 
judiciam eliciendum videtur, praelationis minime di- 


gnum est: quia non sine quodam tempore profertur, 
ut puta ibi: 


Traggemi d’este focora, se teste a bolontate. 


Si autem istum accipere nolumus, sed quod ab ore 
primorum Siculorum emanat, ut in praeallegatis Can- 
tionibus perpendi potest, nihil differt ab illo, quod lau- 
dabilissimum est, sicut inferius ostendemus. , 


Dante, De vulgari Eloq. L. 1, c. XII. 


La Critica contemporanea non tiene in conto autorità alcuna; e perchè possa 
sbizzarrirsi a suo modo tira anche un velo innanzi alle più venerande figure che 
per secoli hanno raccolto il rispetto di molte generazioni. Oltre che in tempi 
quando il diritto ed il giusto si giudica alla stregua del numero, e i voti si con- 
tano e non si pesano, chi più grida ad opprimere colla sua la voce degli altri 
si reputa avere da parte sua la ragione; e se più voci cantano a coro, non v’ ha 
più dubbio alcuno che la ragione s’appartenga a loro, e il torto a chi non può 
superare per tono o per numero quella forza di voci e concordanza di toni. Oggi, 





(1) Discorso letto alla R. Accademia di Scienze e Lettere di Palermo nella tornata di 
giugno 1879. 


4 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


a dirla col linguaggio del tempo non v’ha solamente una questione siciliana am- 
ministrativa, o politica e sociale, siccome ci dicono; bensì evvi pure una que- 
stione siciliana in letteratura; e si è scritto e si scrive da più parti d’Italia quasi 
una piccola biblioteca speciale (1), per oppugnare e annullare un antico diritto 


(1) V. BarroLi A., Di una nuova opinione intorno al Contrasto di Ciullo d’Alcamo (inser. 
nella Rivista Europea). — In., Storia della Letteratura Italiana, v. 1I, Firenze 1879. — Bon, 
Delle origini della poesia popolare italiana, Padova 1878. — BorcoonosI, Degli antichi Rima- 
tori Italiani nel Propugnatore, an. VII, 1875.—Carx, Ciullo d’Alcamo e gli imitatori delle Ro- 
manze e pastorelle provensali e francesi (Estr. dalla Nuova Antologia, 1815).—In., Ancora del 
Contrasto di Ciullo d’Alcamo (estr. dalla Rivista Europea, Fir. 1876). —IL Contrasto di Ciullo 
d’Alcamo ristampato secondo la lezione del cod. Vaticano ete. da Alessandro d’Ancona (Estr. 
dal Giorn. di filologia romanza, v. II). — Chi fosse il preteso Ciullo d’ Alcamo (Rivista Europea, 
XII, 2). Cavazza, Sull'ipotesi del prof. Caix (nella Eassegna Palermitana, 1° maggio 1879).— 
Corazzini, Una quistione su la Storia della lingua. Bologna 1875.—Ip., Del Contrasto di Ciullo 
d’Alcamo, Bologna 1876 (estr. dal Propugnatore..—D’Axcona, I Contrasto di Ciullo d’ Alcamo 
ristampato secondo la lezione del Codice Vaticano 3793 con commenti ed illustrazioni. Bol., 
R. Tip. 1875 Estr. dal vol. Le Antiche Rime volgari secondo la lezione del codica vatica- 
no 3793 pubblicate per cura di A. D’Ancona e D. Comparetti, v. I. (Coliezione della Reale 
Commiss. pei testi di lingua). — De BLasts, Vita e opere di Pier della Vigna. Nap. 1861. — 
De Hassek, L'età, la lingua, la paternità del Contrasto d'Amore attribuito a Ciullo d’ Alcamo, 
Trieste 1379.—Dx MartIo, Le lettere in Italia prima di Dante, Inspruk 1871. — De Saxcris, 
Storia delle Lettere Ital. v. I, Nap. 1870.—- Dr Giovanni V., Cronache siciliane dei sec. XIII, 
XIV e XV, Bologna 1365.—Ip., Sull’uso del Volgare in Sardegna e in Sicilia nei secoli XII 
e XIII, Palermo 1868.—Ip., La Lingua volgare e i Siciliani, Firenze 1869.— D’Ovipio, Della 
questione della nostra lingua e della questione di Crullo d’ Alcamo, Risposta al prof. Caix (nel 
vol. Saygi Critici, Nap. 1879). — Frosina Cannella, Schizzo Critico intorno a Ciullo d’Alca- 
mo etc. Palermo 1869.— Ganvani, Alcune vecchie e nuove Osservazioni sulla Cantilena di Ciullo 
d’Alcamo, Modena 1870.—Gaspary ApoLr, Die sicilianische Dicterschule des XII Jahrhts (La 
Scuola poetica siciliana del secolo XIII), Berlino 1878. — Giupici, Florilegio dei Lirici più 
insigni d’Italia, Fir. 1346.— Storia della Letteratura italiana, v. I, Fir. 1855.— Grion, IZ Ser- 
ventese di Ciullo d’Alcamo, Esercitazione critica, Pad. 1858.—Ip., Il Serventese di Ciullo d’Al- 
camo, Scherzo comico. Bologna 1871. — Impriani V., Lettere al Comm. Zambrini (Propugna- 
tore, IV, 1871.—La Lumia; Storia della Sicilia sotto Guglielmo il buono. Fir. 1865. — Monaci, 
Sulla strofa del Contrasto di Ciullo d’Alcamo (Rivista di Filologia Romanza, II). — Mussaria, 
Sul Serventese di Ciullo nella Rivista Ginnasiale. Milano 1858.—Nanxucei, Manuale della Let- 
teratura del primo secolo ete. v. 1, Fir. 1856. — Pagazo V., Origine della lingua Italiana in 
Sicilia nel Propugnatore, INI. Bol. 1371. — Pasquini Pier Vincenzo, Della Unificazione della 
Lingua in Italia, Mil. 1863 e Fir. 1869. — Pirrà, Nuovi Giudizi su Ciullo d’Alcamo e il suo 
Contrasto (estr. dalle Nuove Effemeridi siciliane, Palermo 1875).— Rama Pio, Lettera nel Pro- 
pugnatore, IV. 1871.— SanriLiepo P., Storia della Letteratura Italiana, v. I. Palermo 1859.— 
Vico Lionardo, Disamina sulla Canzone di Ciullo d’Alcamo, Pal. e Catania 1858,—Ip., Ciullo 
d’Alcamo e la sua Tenzone, Comento. Bologna 1871 (Propugnatore III). — In., Appendice alla 
Disamina e al Comento della Tenzone di Ciullo, Alcamo 1879.— SertenBRINI, Lezioni di Lette- 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA bj) 


e una sentenza che la Sicilia ha tenuto in suo favore da più di cinque secoli; 
in ossequio forse al novello diritto di disfare tutto l’antico eziandio nella storia 
delle nostre lettere, e però accusando di fanatico municipalismo gli scrittori si- 
ciliani che tuttavia vogliono sostenere il primato della Sicilia nel primo secolo 
della letteratura Italiana, ai quali non si risparmiano ingiurie quando occorre , 
quasi fosse delitto difendere una gloria patria, perchè questa patria si chiama 
Sicilia. Anzi, perchè Dante è stato il giudice che sentenziò a suo tempo in fa- 
vore della Sicilia, anche Dante si è detto ignorante o ingannato, o per lo meno 
non autore del libro de Vulgari eloquentia (1), nel quale si-legge la sentenza del 
primato siciliano nell’uso del volgare illustre, sino a credersi dal buon fiorentino 
che i posteri non avrebbero altrimenti chiamato il Volgare @lustre che siciliano. 
« Factum est ut quicquid nostri praedecessores vulgariter protulerunt, sicilianum 
vocatur: quod quidam retinemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt 
(c. XII). » .... Hoc enim usi sunt Doctores illustres, qui lingua Vulgari poetati 
sunt in Italia, ut Siculi, Apuli, Tusci, Romandioli, Lombardi et utriusque Mar- 
chiae viri (c. XIX).» 

Questa sentenza, o Signori, che i Siciliani furono primi ad usare il volgare 
illustre, data dal padre della letteratura Italiana, e confermata dal Petrarca, e 
indi dai più illustri scrittori e storici della letteratura Italiana, è già fortemente 
oppugnata dalla critica contemporanea, intesa a spogliare la Sicilia, per amore 
di storica verità, del primato nell’ uso del volgare illustre, e a cancellare per 
sempre quel fur già primi che disse de’ poeti siciliani il Petrarca, ritenendo so- 
lamente si voglia, o non si voglia, e quivi eran da sezzo. I poeti siciliani, si dice, 
scrissero non nel volgare illustre, che non potevan conoscere, ma nel volgare 
loro nativo, cioè nel dialetto dell’isola: e se Dante disse che il volgare usato da 
essi « nihil differt ab illo quod laudabilissimum est; » cioè dal volgare èllustre , 
aulico, cardinale, latino, del quale usì sunt Doctores illustres « ut Sicuri, Apuli, Tusci, 
Romandioli, Lombardi, et utriusquae Marchiae viri, » fu un errore di Dante il. 
non avvertire le composizioni siciliane essere state ridotte in forma illustre dai 
trascrittori toscani. Onde è da esser corretto il suo giudizio, e l’opinione antica 
in favore de’ siciliani, ai quali nè può concedersi quest’ uso innanzi agli altri 
poeti del continente italiano, nè manco può vantarsene l’ originalità innanzi ai 
trovatori di Provenza, di cui i Poeti di Sicilia sono imitatori, stante chè la loro 
arte « è arte schiettamente e nudamente provenzale (2). » La questione siciliana 





ratura Italiana, v. 1, Nap. 1866.—TruccuI, Poesie inedite di dugento autori,v. I. Prato 1346. — 
Zamsenti, IV Serventese di Ciullo d’Alcamo, traduzione. Ver. 1871. 

(1) Questo benedetto libro , dice il D'Ancona, “ all’ Italia ha fatto tanto male dividendo 
gli animi e eccitando gli sdegni alle quistioni pettegole, quanto bene ha fatto la Divina 


Commedia, unendoli etc. (p. 304). Chi avrebbe mai detto a Dante che il suo libro doveva 
essere creduto dì danno all’Italia! 


(2) V. BartoLi, Storia della Letter. Ital., v. II, p. 165. Fir. 1879, 


6 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI 


è risoluta pertanto contro la Sicilia, in questi termini precisi, cioè «la forma 
delle poesie siciliane non è arrivata a noi genuina, dal loro dialetto originale 
esse si trasformarono a poco a poco, lentamente, nel dialetto toscano (1); » le 
poesie dialettali della Sicilia presero forma toscana, quando nell’ultimo ventennio 
del secolo XIII, la cultura italiana fu quasi esclusivamente cultura toscana, e 
in questa nuova forma ‘le conobbe Lante, in questa nuova forma sono perve- 
nute fino a noi (p. 186). » Da ciò la tentata restituzione de’ componimenti sici- 
liani di quel secolo XIII alla primitiva forma dialettale; e il riscontro d’altra 
parte co’ rimatori provenzali a provarne l’ imitazione, «imitazione che qualche 
volta si limita al concetto, e qualche altra volta giunge fino a copiare addirit- 
tura la frase (2). » E quest’ argomento intorno alla forma del volgare usato dai 
poeti siciliani, alla loro restituzione nel dettato primitivo, e alla imitazione della 
scuola siciliana, nata decrepita perchè imitava un’arte in decadenza, ammanie- 
rata e secentistica molto prima del secento (3), sentiamo tuttodì ripetersi da 
storici e critici contemporanei della nostra letteratura; quando pur ci si dà come 
lite finita quella per la quale tuttavia da essi stessi si scrive e si ragiona con 
molto calore contro i paladini, come chiamano noi siciliani, della vecchia musa 
sicula, i quali vogliono sostenere « un vecchio errore che poteva essere perdo- 
nabile cento anni indietro, ma che oggi è smentito da troppi fatti per essere 
ancora sostenibile (BARTOLI p. 161). >» 

Onde è, o Signori. che prima di chiudere per sempre la bocca innanzi a tanta 
luce di critica, voi mi concederete che per poco io v’intrattenga delle ragioni e 
dei fatti accampati contro i paladini del primato siciliano nell’ uso del volgare 
illustre, trattando appunto in questo discorso, quasi come continuazione di altro 
discorso sull’ uso del volgare in Sicilia ne’ secoli XIII e XIV, e di altri lavori 
sul proposito (4), del volgare usato dai primi Poeti siciliani, e del carattere della 
loro poesia. 

Che i poeti insulari siciliani non poterono usare il volgare illustre , siccome 
tortamente credettero Dante e il Petrarca, prima che fosse stato usato nel con- 
tinente e specialmente in Toscana, la cui parlata fu appunto il volgare illustre 
di tutta Italia, è tenuto come un articolo, non più per la sua saldezza discuti- 
bile, da illustri critici e cultori della patria letteratura, quali il D'Ancona, il Co- 
razzini, il Bartoli, e con essi il D’Ovidio e il Caix, il Tallarigo ed altri contem- 


(1) V. BarroLI, op. cit., p. 110. 

(2) V. BARTOLI, op. cit., p. 112. 

(3) V. BartOLI, op. cit., p. 16%. 

(4) V. Sull’uso del volgare in Sardegna e in Sicilia ne’ sec. XII e XIII — La Lingua Vol- 
gare e i Siciliani— Della Prosa Volgare in Sicilia ne’ secoli XIII, XIV e XV.—Di alcune Cro- 
nache Siciliane de’ secoli XIII, XIV e XV — ne’ due volumi Filologia e Letteratura Siciliana 
pubblicati nel 1871. 





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E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 


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poranei scrittori, che rappresentano, si dice, la nuova scuola critica, a petto della 
vecchia, che non vagliava molto le cose, e poco o nulla metteva in esame an- 
tichi pregiudizii: gli scritti de’ quali o dati fuori in periodici letterarii o in libri 
a parte, io, credo siano già noti a quanti di voi seguono questi studii e si ten- 
gono informati della storia della letteratura contemporanea, la quale non fa 
meno rumore all’uopo delle questioni politiche o morali, ogni dì nuove e poste 
a far crollare da ogni parte l’ antico edifizio della vecchia Europa. « I siciliani, 
dice il Corazzini, non avevano una Letteratura italica da imitare, nè modelli nel 
volgare illustre a cui ravvicinare le poesie loro. Ciò non pertanto, sarebbero 
sorte come per incanto in Sicilia e in altre parti lontanissime, e tra genti di 
parlari diversi, cpere in una lingua unica, prima scritta che parlata, intesa do- 
vunque e non viva in alcun luogo! Miracolo che io lascio volentieri a chi lo 
vuole per darmi tutto alla ricerca del vero. Dalle poesie di questi antichi sici- 
liani non abbiam noi nessun indizio de’ loro studii, donde attingessero pensieri 
e forma? apparisce chiaro: dai Provenzali che furono imitati in tutte le altre 
parti d’Italia.» E quanto alla lingua segue a dire: « È molto strana cosa l’am- 
mettere il dialetto negli scrittori dell’Italia superiore e centrale, in Fra Bonvesin 
da Riva, in Giacomino da Verona, in Francesco d’Assisi, in Jacopone da Todi, e 
negarlo ne’ siciliani: in questi più lontani, divisi dal mare doveva essere pene- 
trata la lingua che ancora non avevano appreso le provincie limitrofe alla To- 
scana. » Il prof. Corazzini non concede che possa darsi una letteratura o una 
lingua nazionale prima che una nazione abbia « un centro intellettuale impor- 
tante» o « prima che uno de’ dialetti fosse generalmente conosciuto, ossia che 
da scrittori di vaglia non fosse fatta palese tutta la sua bellezza. Codesto fatto, 
segue a dire, non mi pare probabile innanzi gli ultimi anni del secolo XIII per 
due ragioni; e per la decadenza de’ siciliani causata dal governo tirannico degli 
Angioini, e per la perfezione data all’idioma toscano o se volete dell’Italia cen- 
trale, dai grandi Toscani, e per avere Firenze preso il posto di Palermo e di Na- 
poli (1).» Nelle quali parole, onde il Corazzini conchiude « sono sempre più con- 
vinto che gli antichi siculi non scrissero e non potevano scrivere in altro idio- 
ma che nel loro nativo, almeno quelle poesie che di loro ci restano (p. 60), » 
l’autore si crede che prima di esserci una letteratura italica, o modelli nel vol- 
gare illustre, i siciliani non potevano usare il volgare illustre, nè cominciare 
una letteratura nazionale; e come i siciliani, così nemmeno altri di altre parti 
d’Italia. Ma se prima che una cosa abbia cominciamento fa uopo che ci sia, come 
sarebbe stata mai possibile una letteratura Italiana, e l’uso del volgare illustre, 
non esistendo l’una nè adoperandosi l’altro, innanzi che fosse cominciata la let- 
teratura, e usato il volgare? Per aversi una letteratura e una lingua illustre, non 





(1) V. Una Questione sulla storia della lingua, Lettera del professore F. Corazzini al com- 
mendatore F. Zambrini. Bologna 1875. 


8 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


° 


dialettale, il Corazzini domanda la esistenza bella e buona e della letteratura e 
dell’ idioma illustre. A me pare che sia questo un circolo vizioso, come dicono 
gli antichi logici, stante che la quistione è delle origini o del primo comincia- 
mento, e intanto si dice che i siciliani non potevano cominciare la letteratura 
nazionale, nè usare la lingua illustre, perchè la letteratura predetta non esiste- 
va, e l’idioma illustre nazionale non era stato innanzi usato! Ragionandò di 
questo modo, i primi, dato che non siciliani, non sarebbero mai stati primi, nè 
manco se Toscani, innanzi ai quali non ci sarebbe stata nè la letteratura, nè la 
lingua illustre. E poi forse i siciliani non sono razza italica, come la toscana e 
l’umbra, o l’appula e la marchigiana; ne’ quali anzi meglio che altrove durò il 
sangue siculo insieme col nome, e la favella, non estinta giammai nè sotto i 
Greci e Romani, né sotto i bizantini e i musulmani? lo non so capire perchè 
da essi non poteva aver cominciamento la letteratura nazionale, e l’uso del vol- 
gare illustre; ma da altri popoli italici sì, e specialmente se dalla media Italia. 
Ci è bisogno, dirà il Corazzini, di un centro intellettuale importante. Ma la Corte 
Normanna ove si usò il titolo di Rex Italiae, e ove convenivano da tutte parti 
belli favellatori e dicitori di ogni condizione, e la Corle Sveva, in cui un Impe- 
ratore di Germania e re de’ Romani, raduna attorno a se gli uomini più dotti 
di Occidente e di Oriente, non era bastante centro intellettuale da potervi aver 
cominciamento la letteratura nazionale e il volgare illustre chiamarvisi, siccome 
si chiamò, aulico e cortigiano? La fama di Sicilia nacque, cel dice Dante, dalla 
sua Corte, e specialmente per gli illustri eroi Federico Cesare e il ben nato 
Manfredi « propter quod corde nobiles, atque gratiarum dotati, inherere tanto - 
rum. Principum majestati conati sunt ita quod eorum tempore quicquid excel- 
lentes Lalinorum enitebantur, primitus in tantorum Coronatorum aula prodibat. 
Et quia regale solium erat Sicilia, factum est, ut quicquid nostri praedecessores 
vulgariter. protulerunt, Sicilitanum vocatur. » Se dunque perchè possa nascere 
una letteratura nazionale e sì usi un volgare illustre , non dialettale, occorre 
un centro intelletivale importante , nessun centro intellettuale più importante era 
in Italia, a testimonianza di Dante, rispetto alla Corte di Sicilia; e non faceva 
bisogno aspettare gli ultimi anni del secolo XIII, quando la Sicilia era caduta 
sotto il giogo straniero degli Angioini o avvolta nella feroce guerra del Vespro. 
Il Bartoli, che ora sta pubblicando una storia critica della nostra letteratura; 
consente col Corazzini, e non concede punto agli scrittori siciliani che i nostri 
poeti del 1200 abbiano adoperata una lingua illustre, « che si sarebbero fabbri- 
cata (dice), io non so veramente intendere nè come, nè quando..... Come intendo 
anche meno ciò che asserisce un altro moderno, il quale c’insegna che la lingua 
nobile, uscita di Sicilia, sì riparò în Toscana. Una lingua che emigra, che si ri- 


x 


para, che fugge da un paese all’altro, è un fenomeno maraviglioso (1). » Questo 





(1) V. Storia della Letteratura Italiana, II, p. 176. 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 9 


detto che la lingua uobile uscita di Sicilia, sì riparò in Toscana, è mio, o Signori, 
e lo ripeto ora coll’ autorità dello stesso critico prof. Bartoli, il quale a p: 181, 
v. II, ha scritto, dopo le parole citate di p. 176, « dobbiamo ricordarci che quei 
primi monumenti della poesia sicula cortigiana’, quando venne a finire la cul- 
tura che gli aveva prodotti, trovarono rifugio nel paese appunto che di quella 
cultura si fece erede, cioè nella Toscana, tanto è vero che essi sono arrivati a 
noi tutti in manoscritti toscani, tanto è vero che in Toscana sorse (come ve- 
dremo) una scuola poetica imitatrice de’ siculi.» Fra la mia frase si riparò in 
Toscana, e questa del Bartoli trovaron rifugio nella Toscana, che si fece erede 
della cultura siciliana, sì che vi sorse una scuola poetica imitatrice de’ siculi, non 
credo ci sia differenza di sorta; tranne che io dissi della lingua nobile usata da 
siciliani, e il Bartoli dice de’ monumenti della poesia sicula cortigiana; i quali mo- 
numenti non trovaron certo rifugio in Toscana, che si faceva erede della coltura 
siciliana, come monumenti dialettali, il che sarebbe stata strana cosa, bensì co- 
me monumenti scritti in una lingua che poteva essere imitata da’ Toscani, vale 
a dire nella lingua mobile, illustre, cortigiana, ch’era il volgare da Dante proposto 
a tutti gli Italiani e detto Latino, «quod totius Italiae est. » E che il Bartoli 
non avrebbe mai fatto imitare da Toscani i Siculi poetanti nella forma dialet- 
tale, si può argomentare da questo che egli dice che il dialetto siciliano del 
secolo XIII si parlava e si scriveva « simile a quello che si parla oggi, un dia- 
letto che non ha niente da fare colla supposta lingua illustre (p. 176). » Sareb- 
bero stati più che pazzi que’ Toscani del secolo XIII, gli attempati contempo- 
ranei del giovine Dante Alighieri, ad imitare poeti che avevano usato un dialetto 
che non aveva niente che fare colla lingua illustre; la quale secondo il Bartoli 
e compagni, era appunto il Toscano, che in nulla avrebbe avuto bisogno d’imi- 
tare un dialetto così barbaro o strano alle sue forme, nobili e illustri. Se non 
intende il Bartoli come il volgare illustre, usato prima in Sicilia, uscendo di 
Sicilia si sia riparato e perfezionato in Toscana, ci faccia intendere egli come i 
Toscani abbiano creduto di dover imitare i siciliani, i quali, avendo scritto se- 
condo la sua senienza in linguaggio dialettale, avevano usato una forma che 
«non ha niente che fare colla supposta lingua illustre. » La Toscana non fu 
erede della cultura siciliana nella scienza o nell’arte, ma nella poesia: e poteva 
ereditare ella forse la poesia dialettale, facendosi così il volgare illustre imita- 
‘ tore ed ereditiero del dialetto, e di una forma che non era italica e nazionale, 
bensì speciale di un paese e di un tempo ? Se i poeti aulici del dugento scris- 
sero in un volgare che non era il volgare illustre, bensì il dialetto siculo, al- 
lora fu il dialetto siciliano reputato superiore al toscano, e i componimenti vol- 
sari non furon detti siciliani per l’ uso del volgare comune fatto illustre in Si- 
cilia da’ siciliani, ma pel merito del dialetto siculo, nel quale si scriveva da iutti 
i rimatori che precedettero Dante, e quindi dalla scuola bolognese e toscana. 
Io non credo che il Bartoli voglia accettare questo supposto, fuori del quale non 
resta che consentire a quello che per secoli si è ripetuto ; cioè, che il volgare 


10 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 





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illustre fu prima usato in Sicilia, e dopo i siciliani che già fur primi vennero 
i poéti della scuola bolognese e toscana a perfezionare la novella poesia e il no- 
bile idioma. Non era adunque la lingua che da Sicilia emigrava in Toscana, ma 
era l’esempio de’ siciliani che s’ imitava in Toscana; era la lingua che, da vol- 
gare fatta illustre, dalla Corte di Sicilia si ritirava nel Palazzo del Comune in 
Toscana, e dall’aula regia ne’ parlamenti de’ popolani, dal castello del barone 
nella bottega delle arti, e nel banco dei mercatanti. E che la Toscana accettava 
da Sicilia i canti nella forma stessa illustre, e non dialettale, che avevano avuto 
in Sicilia, il mostran bene le citazioni che fanno il Villani della canzone patria 
messinese del Vespro, e il Boccaccio della canzone elegiaca di Lisabetta, tutte e 
due in forma illustre e non dialettale: nè si dirà così essere state ridotte dallo 
storico e dal novelliere toscano, i quali non avrebber curato di cercare dei versi 
solamente intesi in Sicilia, se già scritti nel dialetto, per ornare o il racconto 
storico o la gaia novella scritta nella forma più nobile che avesse presa la prosa 
volgare in quel secolo XIV. Non vorrà dire l’egregio professore Bartoli che siano 
nati in forma dialettale lo stupendo e tenero lamento della fanciulla abbando- 
nata di Odo delle Colonne (Rime antiche volg. p. 69); e lo strambotto siciliano, e 
la Ciciliana pubblicati dal Carducci (Canti e Ball. p. 52 e 56). 

Se non che, e il Corazzini e il Bartoli e il D’Ovidio vengono ai fatti, e il pri- 
mo ci ha dato saggio della restituzione all’ antica e primitiva forma dialettale 
delle vantate poesie, secondo noi scritte da’ poeti di Sicilia nel volgare illustre 
e cortigiano; forma più nobile dell’altro volgare plebeo e popolano, che pur ebbe 
i suoi canti e il suo uso, giusta la distinzione fatta da Dante nel passo messo 
ad epigrafe di questo discorso, e da me altra volta citato e comentato in rispo- 
sta al saggio e all’ intendimento del mio illustre amico , il prof. Corazzini (1). 
Dante scriveva il libro della Volgare Eloquenza, secondochè hanno notato il Balbo, 
il Giuliani e il Boéhmer (2) tra il 1304 e il 1308; cioè appena mezzo secolo dopo 
che si fanno fiorire i Poeti siciliani della Corte di Federico, qualcuno de’ quali 
Dante nato nel 1265 aveva potuto o conoscere di persona, o sentir poetare nelle 
rime che giungevano sino a lui nel cuore di Toscana. 

Or, senza esservi stato di mezzo tutto quel tempo che i propugnatori della 
trasformazione della forma dialettale delle Poesie siciliane in linguaggio illustre 
per opera di trascrittori toscani sono costretti a supporre, avvisando che « dal 
loro dialetto originale esse si trasformarono a poco a poco, lentamente, nel dia- 
letto toscano » (BARTOLI, v. 2, p. 180); il grande Fiorentino, che non si avvide 
di questa trasformazione avvenuta ai suoi tempi, e non ebbe l’occhio così pene- 
trante, nè l’orecchio così delicato, siccome la critica de’ nostri tempi cioè di sei 





(1) Vedi sopra Sulla stabilità del Volgare Siciliano dal secolo XIII al presente. 
(2) V. Bauso, Vita di Dante, L. II, c. V.—Giuuiani, Opere latine di Dante Allighieri, v. I, 
p. 126 e segg. Fir. 1878. 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 11 





secoli dopo, notò nel suo libro due forme ben distinte ne’ rimatori siciliani, 
cioè la nobile e la volgare, o la illustre e la terrigena, l’aulica e la popolana, 
per ragione che « molti dottori indigeni (e non sono toscani, o bolognesi, o mar- 
chigiani in Sicilia) troviamo aver cantato gravemente, come nelle Canzoni: 


Amor che l’aicqua per lo foco lassi, 


Amor che longamente m’hai menato; 


e altri terrigeni mediocri hanno usato un cotal volgare non degno di preferenza 
e lento nella pronunzia, come : 


Traggemi d’este focora — se t’este a bolontate. 


Nè questo intendiamo accettare, ma quel volgare uscito dalla bocca de’ princi- 
pali siciliani, autori delle canzoni citate; il qual volgare appunto non differisce 
da quello che è lodevolissimo » (L. I, c. 12). E così tranne il primato che dava 
ai siciliani, questa stessa distinzione faceva l’Alighieri nel volgare bolognese, il 
quale appunto gli suonava all’ orecchio mentre scriveva si crede in Bologna il 
suo libro, avvertendo che il volgare bolognese simpliciter non era quello che chia- 
mava aulico e illustre, benchè assai superiore ad altre parlate municipali; ma 
da esso si scostarono (il che non avrebber fatto se fosse stato il volgare illustre) 
e il massimo Guido Guinicelli, e Guido Ghisleri, e Fabricio e Onesto, che furono 
dottori illustri, le cui rime furono dettate nel volgare illustre, cioè in parole 
«quae quidem a mediastinis Bononiae sunt diversa (de V. Elogq. L. I, c. XV, 
p. 44).» Onde è che quello che fecero i Bolognesi era stato già fatto dai Sicilia- 
ni; e intanto la testimonianza di Dante va accettata senza scrupolo per la scuola 
di Bologna, va combattuta e rifiutata pe’ Poeti di Sicilia, de’ quali si è dubitato 
se pur sapessero il latino, quando l’un di loro dettò in latino la famosa guerra 
di Troia che fu volgarizzata da più di un antico, e posta fra’ testi di nostra lin- 
gua, e col greco e il saracinesco era il latino la lingua officiale de’ diplomi, e 
in latino si traducevano sotto gli occhi di Federico e di Manfredi opere greche 
ed arabe che l'Imperatore regalava alle Università di Bologna e di Parigi (1). 
Nè manco si vuol credere, quando si tratta de’ Poeti siciliani, quello che fu al- 
lora scritto contro Bonaggiunta Urbiciani di Lucca, cioè che questi si vestiva 
delle penne del Notaro, (BARTOLI, op. cit. p. 278) cioè di Jacopo da Lentino, quello 
stesso Jacopo notaro, che per Dante era stato già causa al esso Bonaggiunta di 





(1) V. HuiLLarp-BréHoLurs, Ivtroduct. a 1 histoire diplomat. de VEmpereur Frédéric II, 
p. XXVI. Paris 1859. 
2 


12 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 








non aver preso il dolce stil novo delle nuove rime, e della bella Canzone Donne 
ch’avete intelletto d'amore (Purgat. XXIX). Troppo strana cosa, nella supposizione 
de’ nuovi critici, un lucchese poetante in dialetto siciliano, o vestito delle penne 
del Notajo, che pure sarebbe stato vecchio stile per Dante, ma conveniente ad un 
toscano, quasi non altro volgare ci fosse stato da usare in Toscana, fuori del 
dialetto siciliano! E nondimeno una siffatta supposizione si è volula portare a 
dimostrazione, col fatto della restituzione nelle forme dialettali siciliane di alcune 
di quelle poesie del secolo XIII; ed abbiamo pertanto il saggio datone dal Co- 
razzini, ed accettato almeno come principio, e direi come cosa indubitabile, dal 
Bartoli, dal D'Ovidio e da altri scrittori e critici contemporanei, fra quali ha 
molta autorità il D'Ancona, cui si deve insieme al prof. Comparetti la pregevo- 
lissima edizione delle Antiche Rime volgari secondo la lezione del Codice Vaticano 
3793, pubblicata nella collezione di Opere inedite o rare della R. Commissione 
pe’ Testi di lingua (v. 1, Bologna 1875). 

Eccoci adunque o signori, al fatto della pretesa restituzione nella forma dia- 
lettale delle antiche Rime siciliane, giusta il saggio del prof. Corazzini: al quale 
si potrebbe a priori pur rispondere, siccome altra volta risposi, che com’egli ha 
reso in siciliano il volgare illustre de’ poeti del dugento, così noi potremmo 
anche dar forma siciliana alle rime di Dante e di Petrarca, e però poter soste- 
nere che, se i Poeti antichi siciliani non usarono il volgare illustre, bensì il 
dialetto, anch’essi in dialetto siciliano poetarono i rimatori toscani, nè esistette 
fuori del volgare siciliano, non illustre, ma dialettale, altra lingua di poesia sin 
dopo Dante e Petrarca. Anzi dal saggio delle parlate italiche dato in occasione 
del centenario del Boccaccio, anche potrebbe esser detto, accostandosi più di altre 
parlate alla forma illustre del Boccaccio le parlate siciliane, che in volgare sici- 
liano fosse stato scritto il Decamerone, nel quale senza dubbio molte voci ancor 
si leggono che sono vive nel nostro parlare, di cui dovette essere intendente il 
Certaldese tanto quanto era consapevole di storie e di casi avvenuti in Sicilia. 

Il Corazzini così procede nel suo saggio. Nelle rime del Notaro da Lentini ab- 
biamo secondo la forma illustre, 


E non è in presgio laudare 
Quel che sape ciascuno. 

A voi, Della, tale dono 
Non vorria apresentare : 


e altrove, 


Lo vostro amor ch'è caro 
Donatelo al notaro 
Che nato è da Lentino. 


I quali versi sono restituiti al primitivo dialetto siciliano, 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 13 


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E no è in presio laudari 
Chiddu sapi ciascanu. 
A vui, bedda, tal dunu 
Nun vuria apresentari. 


Vostru amuri, ch’è caru 
Dunati a lu nutaru 
Chi natu è da Lentinu. 


Gi è data in questi pochi versi come forma dialettale siciliana, 


E no è in pregio laudari 
Chiddu sapi ciascunu; 


e intanto non è nè è stata mai forma dialettale questo è in presio laudari, forma 
tutta nobile e illustre; nè un siciliano del dugento avrebbe potuto mai scrivere 
chiddu, non conoscendosi allora altro che il killu, Kellu, il quale cedette in questa 
Sicilia occidentale al chiddu d’oggi non più che dal secolo XVI a noi. Nè un si- 
ciliano potrà mai accettare come forma dialettale quest'altra: Chu natu è da Len- 
tinu; non dicendosi altrimenti nel dialetto che Chi nasciu a Lentini. In un s0- 
netto dello stesso Jatopo da Lentino il verso 


Si che lo dotti chi è malvascia in core 
andrebbe restituito secondo il Corazzini in questa forma siciliana, 


St chi lu dotti chi a malvascia in cori: 
forma che è integralmente la illustre, e per nessun verso siciliana, non essendo 
dei nostro dialetto la frase aviri malvasia in cori, per dire essere di malvagio a- 
nimo, invece della quale forma non siciliana il dialetto dice aviri malu cori; nè 
i nostri vocabolarii siciliani da’ più antichi ai più recenti del Mortillaro e del 
Traina registrano la voce malvasia in senso di cattiveria, malvagità, bensì come 
nome di uva, e di vino che viene da Lipari. Nè mai sarà verso siciliano l’altro 


a È i 5 i SUN, 
. Ca u cominzari un mostri fiur ’è amaru, 
che si fa rispondere al verso del sonetto, 


Cal cominciar no’ mostri fior d’amaro 


Non è affatto del dialetto nostro il dire di mustrariî o aviri sciurìi d’amaru per 
significare essere ben amaro, disgustoso , sì in senso proprio, e sì in figurato. Si 


14 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI 


dice di una persona essere questa lu 4xiurî, per esempio, di li galantuomini, lu 
aiuri di lì picciotti, se ragazzo o ragazza, e lu xiuri di l'età, ma vuol dirsi così la 
eccellenza della persona, in bontà, in onestà, in bellezza, cioè nelle buone qua- 
lità dell'animo o del corpo, o l’esser nel fior dell’ età, della giovinezza, e non 
altro. Similmente non può rispondere in siciliano « qua] più ti serve a fede » 
del volgare illustre, a questo Chiddu chi ti servi a fidi del Corazzini; perchè, oltre 
non essere del dugento il chiddu, non si dice, nè è conforme alla natura del dia- 
letto, serviri a fidi, per dire essiri fidili, ovvero nun fari mancanza. Se non che, 
il saggio del Corazzini dà ridotte dal volgare illustre nella forma dialettale quat- 
tro lunghe canzoni che sono di Jacopo da Lentino, di Tommaso di Sasso da Mes- 


sina, d’Inghilfredo siciliano, che si crede di Palermo, quasi scegliendo le parlate 


principali dell’ Isola dalle sue città principali Messina,“Catania, Palermo. Ma il 
restauratore per quanto ingegnoso ha creduto che mutando la e in è, la 0inu, 
la d in n, lalind,lasinc, la gli in gghi, già ne sarebbe uscito bello e buono 
quell’antico siciliano che i trascrittori toscani o della media Italia avevano vol- 
tato nel volgare illustre italiano. Io vi leggo, o signori, una strofa per Canzone 
della riduzione vantata, e basta il leggervela per farvi dire che tutt’ altro che 
forma del dialetto siciliano, sarà bensì la forma illustre che si contende ai Poeti 
siciliani, supponendo quello che nè la logica, nè il fatto può sostenere per ra- 
gione alcuna, contro le testimonianze e la storia del secolo stesso XIII e se- 
guenti XIV, XV e XVI, quando scriveva quel Giambullari, riveritissimo come 
scrittore e storico, ma in quanto che sostenitore del primato siciliano, riguar- 
dato come meno che sciocco e bambogio, non degno di fede, nè di maggior va- 
lore degli scrittori siciliani, o sognatori, o maestri di arzigogoli, e ridicoli pala- 
dini di una causa perduta e di una nobiltà cui sono mancati i titoli del vecchio 
blasone. La prima stanza del notar Jacopo è così ridotta : 
' 

Amannu lungamenti 

Disiu, ch’eu vi vidissi, 

Qual’ura ch’eu piacissi, 

Com’eu valissi—a vui donna valenti, 

Maravighiusamenti. 

Mi sforzu, s’eu potissi 

Ch’eu cotantu valissi 

Chi a vui parissi— meu affari piacenti. 

Vurria beni serviri a piacimentu, 

La u’ tutt'ho piaciri, 

E convertiri,—lu meu parlamentu 

A zò ch’eu sentu. 

Pri l’intendanza de le mei paroli 

Veggiati com’u meu corì si doli. 


elia Lug 


en) 


E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 15 





Vi sarete tosto avveduti come di siciliano non c’è che l’u e li, l’eu e lo 20, 
terminazioni e forme pur comuni in quel secolo e anche dopo a poeti non sici- 
liani, ma e toscani e d’altre parti d’Italia. L’ew per io, e il zò per ciò sono leo 
antico e il z0 stesso usato da Cecco Angiolini e da Fino di M. Benincasa di Arezzo, 
e da Nori de’ Visdomini, e da messer Prenzivalle Dore, o Semprebene da Bolo- 
gna, i quali non sono siciliani; e se invece di dogghia, accogghiu, cordogghiu, vog- 
ghiu, credute dal Corazzini forme siciliane del dugento, si fosse posto così come 
nel dugento, trecento e quattrocento si disse, nè si poteva dire altrimenti, cioè 
dogla, accogla, cordoglu, voglu, che si pronunziavano doglia, accogliu, cordogliu, vo- 
gliu, tali quali si trovano nella forma illustre; a me pare non sì riduca ad altro 
la pretesa riduzione, se non a ripetere come volgare dialettale siciliano quello 
stesso che per secoli si è detto volgare illustre italiano, e Dante disse ‘aulico, 
cortigiano, latino, del quale appunto usarono i dottori siciliani, bolognesi, toscani, 
preferendolo al volgare de’ terrigeni secondo l’uso che quivi tennero i siculi, 
donde il suo nome per l’Italia di ciciliano. 

Nè diversa è condotta la riduzione della canzone di Tommaso di Sasso, la cui 
prima strofe è la seguente: 


L’amurusu vidiri 

M’a’ misu a rimembranza 

Com’eu lungamenti — all’avvinenti 
Au tantu ben volutu, 

Ch’eu non purria taciri 

La gioi e l’allegranza, 

Chi mi duna suventi. 
Allegramenti — su da lei vedutu. 
A zò mì riconfortu 

E merzedì li cheru, 

C’a si m’accolga senza dimoranza. 
Pir ch’eu non fussi mortu 

Lu so visaggiu alteru 

Mi si mostra piacenti pri pletanza. 


Non c’è nulla che non sia del volgare illustre, parole e frasi, tranne le ter- 
minazioni in v, che possono ugualmente essere in 0, e nulla mutare del lin- 
guaggio e delle forme poetiche del componimento del vecchio poeta messinese; 
il cui canto nel volgare illustre corre nelle forme stesse che si dicono siciliane 
e dialettali, quando sono italiche ed illustri, nobili e cortigiane. 


L’amoroso vedere 
M’'ha miso a rimembranza 
Com’io già lungiamente 


ide 


16 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


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All’avvenente — ho tanto ben voluto. 
Ch’io nom porìa taciere 

La gran gioi’ e l’ allegranza, 

Che mi dava sovente. 
Allegramente — son da lei veduto. 
A ciò mi riconforto, 

E mercede le chero, 

Ch’a sè m’accolga senza dimoranza. 
Perch’io non fosse morto 

Lo suo visaggio altero 

Mi si mostra piacente per pietanza. 


Le due forme la illustre e la siciliana della riduzione sono le medesime: anche 
l’avvinenti, la dimoranza, il visaggio, il cheru, il da lei, che se è del volgare illu- 
stre, non è punto dell’antico siciliano, che avrebbe detto ad illa, a quilla, ad ipsa, 
e non mai a lei, come non chiddu per killu, non nudd’autru per nixiun altru, nè 
biddizza per billicza, nè speni per spiranceza, e simili. 

Nel volgare illustre così canta Inghilfredi secondo la lezione del Corazzini : 


Uno disio d’amore sovente 

Mi ten la mente; 

Tener mi face, e miso m'ha in erranza. 
Non saccio, s'io lo taccia, 

O dica neente 

Di voi più, gente: 

Non vi dispiaccia; tant’ ho dubitanza 
Ca s’eo lo taccio, vivo in penitenza, 
Chè Amor m’intenza, 

Di ciò, che può avvenire 

Porìa rimanere in danno, 

Che porìa sortire a manti, 

Se lor è detto guardisi davanti. 


La riduzione del Corazzini non ripete che le stesse forme, sotto nome di forme 
dialettali siciliane, quando contrappone a’ versi riferiti questi altri : 


Unu disiu d’amuri, chi suventi 

Mi ten menti, 

Timiri mi fa e misu m’à in erranza; 
Non sacciu, s' eu lo taccia o dica nenti 
Di vui chiù genti; 

Non vi dispiaccia, tant’ho dubitanza, 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA aUt 








Ca s’eu lu tacciu vivu in penitenza 
Chi l’amuri m’intenza 

Di zò che può avviniri 

E in danno rimaniri 

Chi purria sortiri....... a manti (1) 
Si a loru è dettu guarditi davanti. 


Tutto è del volgare illustre; nè sono forme siciliane il mè ten menti, il misu 
m'à in erranza, il tant’ho dubitanza, il l’amuri m'intensa, che il Corazzini ha rite- 
nute nella sua riduzione come forme del siciliano antico usato dal poeta, che è 
nel numero degli aulici e cortigiani, e avrebbe per la nuova critica usato il vol- 
gare popolano e mediocre, non illustre e nobile, detto da Dante. 

Il Conte Baudi di Vesme oppose molte difficoltà al tentativo del Corazzini, e 
fra le altre ragioni filologiche e storiche disse che qualche cosa avrebbe dovuto 
restare se la primitiva forma fu ridotta al linguaggio illustre per opera de’ tra- 
scrittori toscani, dell’antica maniera dialettale propria dei siciliani; dal quale do- 
cumento avrebbe potuto essere sostenuta o no la riduzione nella forma primi- 
tiva. Ed il Corazzini ed altri trovarono subito la risposta nel frammento di poesia 
siciliana edito dal Barberi, e in una canzone intera di Stefano protonotaro, il 
quale i nuovi critici sopra uno sbaglio di trascrizione hanno mutato in Stefano 
di Pronto notaro, o ignorando o fingendo d’ignorare che il protonotaro sia stato 
fino al 1815 un ufficio importantissimo nel Regno di Sicilia, essendo il Cancel- 
liere dello Stato e il Conservatore degli Atti pubblici, donde il nostro antico Ar- 
chivio dei Protonotaro del Regno (2), e la strada detta del Protonotaro in Palermo, 
e ritenendo il di Pronto come 0 cognome o appellativo di città, che non è mai 
esistita in Sicilia. 

Questa Canzone di Stefano Protonotaro, data da Giammaria Barbieri come tale 





(1) Questo marti, che s’interpetra molti, non è d’ origine siciliana, tranne non sia stato 
usato dalle colonie Jombarde e francesi. 

(2) Il Testa nella Dissertazione De Magistratibus Siculis, tra gli altri magistrati pubblici 
del Regno sotto i Normanni così dice del Protonotaro: “ Erat praeterea Protonotarius, seu 
Logotheta, ad quem pertinebat non solum cura electionis magistratuum municipalium, et 
tabellionum; verum etiam supplices libellos, Principi oblatos, excipere, et ad eum referre, ac 
quod ille decernerat, rescribere, omniumque legum, ac reliquorum publicorum actorum ta- 
bulas conficere. ,, V. Capitula Regni Sicilie; t. I, p. XXIII, Pan. 1741—In un atto della Im- 
peratrice Costanza, che deve essere, dice l’Huillard—Bréholles, del 1194, Filippo di Matera 
è nominato Protonotarius Regni Sicilia; e nel 1249 Protonotario del Regno era Pietro delle 
Vigne quando cadde in disgrazia di Federico (Vedi Dx CHERRIER, Storia della lotta de’ Papi 
e degl’Imperatori della Casa di Svevia, vol. II, pag. 335, traduzione italiana, Palermo 18362). 
Altrove citai dai Capitoli del Re Martino dal 1402: « Lu Protonotaru et Segritariu, ciasqui- 
dunu spacciaranno sullumodo li litteri spectanti a loru officio, comu su notati et declarati 
in li Pandecti antiqui. , V. Testa, Capit. Regni Sicil., t. I, p. 179. 


18 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 





che non soffri la trasformazione nel volgare illustre, siccome tutti gli altri com- 
ponimenti della scuola siciliana del dugento, va riferita dal Corazzini per riba- 
dire il suo proposito, e comincia così: 


Pir meu corì allegrari 

Ki multi longiamenti 

Senza alligranza, e 10i d’amuri è statu 
Mi ritorno in cantari, 

Ca forsi levimenti 

Da dimuranza turneria in usatu, 

Di lu troppu taciri. 

E quandu l’omu è rasuni di diri 
Ben di’ cantari e mustrari allegranza. 
Ca senza dimustranza 

Ioi siria sempri di pocu valuri; 
Dunca ben de’ cantar ogni amaduri. 


Nella quale prima strofa, tranne la grafia e le terminazioni in v, che accusano 
un trascrittore siciliano, nulla avvi della forma dialettale; chè non si dirà mai 
siciliano il dire: Mi ritorno in cantari — Da dimuranza turniria in usatu— Dunca 
ben de’ cantar onni amaduri, insieme con altre forme delle stanze seguenti, come: 
Homo, che havissi in alcun tempu amatu — Cusì mè dulci mia donna vidiri — K° eu 
leì guardandu metu in ublianza — Tutraltra mia intendanza (1) — Sulu chi fussi a 
la mia donna agratu—Ki quandu mi rimembra di sou statu—Homu acquistau d’amur 
gran beninanza etc. Nè il toi che il siciliano legge gioi, l’esti per l’è, il pir per per, 
il plu per più, il diyu per digiu, divu, il ki per che, il ken per che in, il sou per suo, 
fanno essere siciliana, cioè scritta nel volgare dialettale, una canzone che ha lin- 
guaggio, maniere e suono tutto del volgare illustre. Gioî in genere mascolino si 
ha in un poeta anonimo del Saggio di Rime illustri inedite del secolo XIII (Ro- 
ma 1841); esti ed este per sei ed è si ha in Bartolomeo Maconi e in Bonaggiunta 
Urbiciani, ed in gran copia negli scrittori del dugento, secondo avvisa il Nan- 


x 


nucci (2); plu per più è nel Trattato delle Virtù morali presso l’Ubaldini, Tavola 





(1) Seguono nella lezione del Corazzini questi due versi: 


Si ki instanti mi feri sou amuri 
D’un colpu, ki inananza tutisuri. 


L’ultimo verso è inintelligibile se non si legga, 
D'un colpu, ki m’amacza (o m’amansa) tuti l’uri. 


(2) V. Analisi critica de' verbi italiani, p. 454. Firenze 1843. 





licet n 











E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 19 








ai Documenti di amore; digiu che vale deggio, usato da quasi tutti i primi poeti 
toscani per debbo, è lo stesso che aggio per ho, saccio per so usati da molti, dal 
Barberino, e fin dal Boccaccio (Ninf. 279); il soa per sua si legge nella Vita di 
Cola di Renzo (cap. XXXVIII); come l’en per in in.infiniti esempì, e il pir per 
per, e il ki per che sono più della pronunzia siciliana, che forma speciale del 
dialetto. 

Ma mettiamo a riscontro questo esempio di poesia dialettale siciliana, con 
poesie senza dubbio ritenute illustri di poeti toscani, lette nella grafia degli an- 
tichi codici. Il Crescimbeni, che si occupò eziandio della Ortografia antica nelle 
Poesie volgari, riferisce nel vol. 1°, L. VI de’ suoi Comentarii intorno all’Istoria 
della volgar Poesia, la lezione di alcuni codici secondo la loro antica grafia ; e 
però troviamo in una Canzone di Baldo Fiorentino: « Chome faraggio Deo — El 
meo volere — lo meo coraggio — dolghosa pena — seo faccio fallanza — etc. » (1); 
non altrimenti che di altri codici della Chigiana veduti da esso il Crescimbeni; 
o come abbiamo dal codice Vaticano nelle rime edite dal D’Ancona e Compa- 
retti, di Neri de’ Visdomini, di Neri Poponi, e specialmente di Messer Osmano, 
che sarebbe il Castra fiorentino di Dante, a petto a cui le rime siciliane, che si 
vogliono scritte in dialetto, sono de’ più eleganti versi che avrebbe scritto il 
Petrarca, leggendo in Neri de’ Visdomini: « E non agio speranza — C’aver possa 
alegranza mai nè bene — Questo è gièlosia — Malvascio pensamento — Sì che con- 
ven ch’io metta in ubrianza — Fina gioi e allegranza e dulcie amore — Oi bon 
cominzamento — Dunqua, como faragio ? In tal distin moragio ?» E in Neri Po- 
poni: « — fa l’orgolglio bassare — » E nell’anonimo di n. XCIX : « Cominzo senza 
rima — semo un, con carne ed unglia — Che più mi pura — cu l’aqua la spun- 
za — cambra (la ciambra de’ siciliani da’ Normanni al secolo XV) —». 0 come 
nel n. GC: «— E quando mi sovene— la gio’, che mi donao — Gietto un grande 
sospire — » e-— « volire — avire — falluta — scanosciente — Del vostro onor mi 
pesa — Che tanto este abassato —Lo danno e lo dannagio — De lo suo segnora- 
gio — Amor so’ ’n gio’ di vui — »: tutte parole e rime della forma che ne’ poeti 
siciliani si dice dialettale, e ne’ non siciliani nobile e illustre. Nè parlo poi delle 
rime, che ne’ più antichi non sono sempre conservate, contentandosi delle asso- 
nanze, così come qualche volta si trova ne’ componimenti de’ nostri siciliani; 
pigliando da ciò pretesto, anzichè argomento, di un’ antica o primitiva forma 
perduta sotto la trascrizione toscana; essendo ciò stato bene avvertito da altri, 
e ben noto agl’ intendenti. Chè la non esatta corrispondenza della rima negli 
antichi poeti del secolo XIII fu bene avvertita sul proposito dal prof. Monaci, al 
quale ha risposto il D’Ovidio, ma in modo mi pare da raffermare l’ avviso che 
gli antichi non ebbero per la rima la scrupolosità de’ poeti moderni ; tanto da 





(1) Vedi sul proposito le Poesie Guelfe e Ghibelline pubblicate dal De Cherrier sopra il 
codice stesso Vaticano 3703, nella sua Storia cit. v. III. Documenti n. 10, 11, 13. La grafia le 
rende spesso non intelligibili. E potrei citare eziandio il Canzoniere Palatino 418 di Firenze. 


3 


20 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 











dover dire egli il D’Ovidio che « quanto ai poeti di scuola sicula non nativi di 
Sicilia, ei si trovano in una contraddizione affatto speciale. Il loro volgare na- 
tivo li tirava da una parte, l’esempio de’ poeti siculi, che pure un certo relativo 
primato in quella scuola. avevano, li tirava dall’altra; e quindi in fin del verso, 
dove il bisogno della rima li faceva essere meno scrupolosi, oscillavano talvolta 
tra le forme loro proprie e le forme date loro a prestito da’ siculi (Saggi Critici, 
p. 506). ». E se questo per Pietro delle Vigne, il D’Ovidio il nota pure per Jacopo 
Mostacci pisano, e per l’autore della poesia che ha il n. LXXXV nella stampa 
del D'Ancona, e dev’essere o di un Genovese, o di un Bolognese ; sì che anche 
pe’ poeti non siciliani il D’Ovidio propone di ripristinare nella rima la forma 
sicula, « quante volte ripristinando la forma sicula, la rima che or ne’ codici 
apparisce imperfetta ritorni perfetta (p. 508). » Io non capisco più se si parli, 
come pare, della forma sicula dialettale, o della forma sicula illustre; poichè se 
le rime siciliane furono ridotte al volgare illustre da’ trascrittori, come mai i 
poeti non siciliani, toscani e bolognesi, usavano le rime dialettali siciliane? seri- 
vevano i non siciliani, che intanto si dicono appartenere alla scuola sicula , nel 
dialetto siciliano, ovvero nella lingua illustre ? e se in questa, e non nel dia- 
letto, nel quale si vuole che abbiano scritto i poeti siciliani, come mai usavano 
le rime dialettali de’ siciliani ? Tanta potenza d’imperio avevano i siciliani usanti 
il loro dialetto, da tirarsi dietro toscani e bolognesi? Debbo confessare di non 
capire questo modo di restaurazione , il quale applicato a un quadro o a una 
statua, farebbe quel quadro o quella statua anzichè di un’epoca e di un paese, 
riuscire di un’altra epoca e di un’altro paese. Il D’Ovidio trova qualche difficoltà 
a far rimare, cercando la forma siciliana, amuri e curi perchè si rispondessero 
amore e core ridotte al volgare illustre, stante non si conoscere in siciliano que- 
sta forma curi, ma cori, nè cusa, per cosa, da rispondere ad amurusa, come sì 
rispondono nel volgare illustre cosa e amorosa: ma ricorre a forme inorganiche 
che poterono usarsi; non negando « che nelle poesie non veramente sicule le 
rime sicule son mescolate ad altre non sicule (p. 508). » Il che importa essere 
quello uso de’ tempi, e non aver luogo a restituzione , quando quelle rime son 
nate così come si trovano e ne’ poeti siciliani, e ne’ non siciliani. In Arrigo Testa 
da Lentino leggiamo secondo la lezione del D'Ancona, 


Ma lo fino piacimento 
Di cui l’amor disciende 
Solo vista lo prende: 


riducendo la voce e la rima disciende nella forma siciliana discindi o discinni, si 
deve far rispondere ad essa la voce e rima prindi o prinni, che non è siciliana, 
e dovrebbe fare pigla, per leggere piglia: ma tra discinni e pigla non c’è più rima. 
In altra strofe dello stesso poeta abbiamo legna e ispengna; e riducendo sicilia- 
namente legna in ligna, non possiamo avere ispigna, che in siciliano vale ripigliare 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 21 








il pegno, non spegnere il fuoco che si dice astutare, con voce antica usata pur da 
Dante in una sua canzone ; sì che senza la voce ispegna del volgare illustre, la 
voce legna non avrebbe avuta rima corrispondente. Nel Notaro Giacomo abbiamo 
in rime servidore, amadore, core; ma riducendo l’ultima in curi per rispondere a 
servituri, amaturi, cangia il senso, perchè curî sono le cure, e core è il cori. Così 
in messer Prenzivalle bolognese il D’Ovidio vuole che si faccia rispondere al 
mattino di forma siciliana, invece di sereno, che non rima, la voce serino (p. 507): 
ma io non so che i nostri antichi abbian potuto dire serino per sirenu; e così se 
si toglie vio che è siciliano, e si fa vedo, veggio, del volgare illustre, non rima 
più con disio: tanto non si posson toccare quelle rime primitive ch’ erano co- 
muni nell’uso di quel secolo, o per la lingua che sì scriveva e parlava, o perchè 
molte forme siciliane si credevano poter convenire al volgare illustre; sì che il 
per te non ajo abento di Ciullo faceva dire a Rugieri d’Amici o a Buonaggiunta 
da Lucca «— Si ca ’1 meo cor n’abenta — » e a Compagnetto da Prato « —Non 
mi lascia avere abento — » frase purissima siciliana. 

E però se questi e non altri sono gli esempii e i saggi di restituzione del- 
l’antico dialetto e delle rime che avrebbero usato i poeti siciliani del dugento, 
ai quali secondo la nuova sentenza -a torto si è finora attribuito l’ uso del vol- 
gare illustre in quel secolo XIII, e prima che l’avessero usato gli scrittori del- 
l'Italia media, e singolarmente i Toscani; quantunque questi abbiano imitato i 
Siciliani fin nelle rime; si può conchiudere per questa parte, o signori, che i 
nuovi critici hanno rafforzato stupendamente la testimonianza e la sentenza di 
Dante, toscano e poeta nell’idioma illustre superiore a tutti, che « quicquid no- 
stri praedecessores vulgariter protulerunt, sicilianum vocatur; quod quidem reti- 
nemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt.» Nè voglio credere che 
sarà per l’avvenire ripetuta ciecamenie e senza esame, quasi fornita di evidenza 
e di prova irrepugnabile, una sentenza che è stata data ci pare con molta fa- 
ciltà, se non con leggerezza, per arbitrio di giudizio, anzichè per ragione di fatti 
e studio di documenti, dai quali per contrario esce prova opposta che sostiene 
col fatto la verità delle antiche testimonianze. Fra le quali non sono certo da 
tenere in non cale quella del Colocci, amoroso raccoglitore di codici nel se- 
colo XVI, il quale pur oggi s’invoca contro il nome di Ciullo, e l’altra dell’Al- 
lacci, che il primo raccolse per le stampe da’ codici Barberini e Vaticani i Poeti 
antichi, fatti stampare dall’Accademia Messinese della Fucina in Napoli nel 1661, 
con quella del Crescimbeni che ristampò e accrebbe la raccolta Allacciana nella 
sua storia della volgar. Poesia, e del Tiraboschi che ci diede la storia più co- 
piosa ed erudita della Letteratura Italiana. L’Allacci non mette in dubbio alcuno 
che la poesia italiana, cioè illustre, abbia avuto sua origine in Sicilia, e che i 
toscani imitarono i siciliani, secondo il detto chiarissimo del Giambullari che 
i toscani ridussero a pulitezza il loro idioma imitando que’ di Sicilia (A); ma ci 





(1) Vedi 72 Gello etc. p. 243. Mil. 1827. Col Giambullari consente il Castelvetro nel cre- 
dere che le rime italiane ebbero origine dalla lingua usata da’ Siciliani (V. Giunte al L. 1° 


22 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 





piace di riferire quello che ebbe lasciato scritto il Colocci ne’ suoi Mss. « huomo, 
dice l’Allacci, in simili materie intendentissimo » cioè, che « i siculi impararono 
da loro la lingua Italiana, e ricordandosi della ode Greca, e seguitando i nostri 
latini nelle rime, cominciarono a fare Odi pur così senza forme eleganti, e fa- 
cevano Distichi come quelli che di sopra abbiamo detto de’ Romani di quindici 
sillabe, quanto li Politici Greci, ma più alla misura de’ Romani. Et io non trovo 
alcuno, se non Cielo dal Camo, che tanto avanti scrivesse, e questo noi lo chia- 
meremo Celio. Costui adunque fu celebre poco dopo la ruina di Gotti, e scrisse 
in lingua Italiana. Così, scrisse in un dialogo siciliano. 


Virgo beata ajutami chio non perisca a torto. 
Rosa fresca aulentissima, che vieni inver l’estate 
Gli huomini ti disiano pulcelle e maritate. » 


Nel quale passo se troviamo Cielo letto per Ciulo, cangiato dal Colocci in Celio, 
ne è data ragione dall’Allacci in quel gusto del secolo XV di ridurre a nomi 
classici antichi i moderni; siccome sì sa che fecero de’ loro nomi il Pontano, il 
Sannazzaro, il Leto, i nostri Siciliani Giano Vitale e Lucio Marineo, ed egli stesso 
il Colocci che prese nome di A. Colotius Bassus (1). Che poi l’Allacci non poteva 
supporre i poeti siciliani avere poetato nel loro dialetto nativo, e que’ di Bologna 
e dell’ Italia media nel volsare illustre o toscano, ce ne dà argomento la sua 
raccolta , nella quale nella forma stessa si leggono i poeti di Sicilia e quelli di 
Bologna e di Toscana, nè l’Allacci, nè l'editore Accademico della Fucina, detto 
l’Occulto (e sappiamo essere stato Giovanni Ventimiglia messinese, che stampò i 
Poetì dell’ Allacci nel 1661, e fu l’autore del dotto libro Dei Poeti siciliani (2), 
stampato in Napoli nel 1663, nella stamperia stessa dell’Alecci), mutarono parola 
o forma; facendoci anzi sapere che i Codici Barberini in cartapecora erano anti- 
chissimi, e la copia fatta tirare dall’Allacci era stata fedelissima, perocchè, scri- 





delle Prose del card. Bembo, p. 169). Che “se, dice il Perticari, all’ultima altezza fu solle- 
vata per lo ingegno e il valore toscano, sia lode a que’ mirabili Fiorentini che tanto ope- 
rarono; ma non si tolga il loro diritto ai Siculi che già furono i primi. » V. Difesa di Dante, 
e. XXIII. 

(1) V. ALLacci, op. cit. Pref. p. 25. Il Colocci nacque a Jesi, studiò in Napoli col Ponta- 
no, fu segretario di papa Leone X, e Vescovo di Nocera; e morì a Roma nel 1547, lasciando 
molte raccolte nella Biblioteca Vaticana. Il Salvini notando che con lui fu confuso qualche 
volta il Poliziano, lo disse di Sicilia. V. Sarassi, Vita del Poliziano, prem. alle Poesie Ital. 
di M. Angelo Poliziano, Mil. 1825. 

(2) Quest’opera restò imperfetta, e ne fu pubblicato il solo Libro primo che tratta “ Dei 
poeti bucolici e dell’origine e progresso della poesia nell’isola di Sicilia. , È dedicato alla 
Accademia della Fucina, e doveva l'opera giungere sino ai tempi dell’ autore. Vi abbonda 


molta erudizione greca e latina. 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 23 





veva l’Allacci stesso al nostro Accademico con lettera del 30 luglio 1660: « chi 
l’ha copiati, l’ha copiati con l’istesso tenore del parlare, l’istessa ortografia, l’i- 
stessa articolazione, e per non moltiplicar parole, li ha disegnati e non scritti.» 
Al che aggiunge l’Occulto, « abbiamo osservato ancor noi la stessa puntualità 
nello stamparli, non appartandoci per quanto ci è stato possibile nè meno in un 
apice del testo mandatoci dall’Allacci, perchè così que’ curiosi che non possono 
a lor talento studiare i codici Barberini, ne possano almeno avere una copia 
fedele e sicura; e per questo ci siamo astenuti di correggere eziandio le più chiare 
e manifeste scorrezioni, affinchè ognun sappia ì difetti non che altro del cod. 
originale, e ,non venghi deluso dall’importuna carità degli stampatori, i quali a 
mio giudizio s'hanno preso molta licenza nel pubblicare le scritture non mai 
stampate, alterandole dalla forma loro originale..... Con lasciare intatta quest o- 
pera abbiamo lasciato intatto e libero a ciascuno il proprio giudizio, sì che 
possa leggere e correggere a suo talento senza impedire colle nostre correzioni 
quelle de’ migliori di noi » (1). 

Parole di tanto sapere e giudizio nella materia, che non so se oggi potrebbe 

-esser detto e fatto di meglio in tanta sapienza critica, come si dice, e dotta pra- 

tica nel metter fuori antichi testi; i quali almeno nella prima stampa bisogna 
sieno riprodotti come per fotografia; o come se si avesse il codice stesso sott’oc- 
chio con «l’istessa ortografia ed articolazione » (2). 

Ora tra Ja forma riferita della Canzone di Stefano Protonotaro, come forma 
dialettale sicula, e non illustre e toscana, e le poesie de’ due maestri principali 
della scuola Bolognese e Toscana, Guido Guinicelli e Guido Cavalcanti, tali quali 
erano riprodotti da’codici romani nella raccolta uscita fuori in nome dell’Allacci, 
io non trovo differenza alcuna: e però se illustre è stata detta e tenuta la forma 
de’ due Guidi, non meno illustre è la forma del poeta messinese, riferito a prova 
della forma dialettale di quegli antichi poeti siciliani della Corte di Federico. 

Così si legge nell’Allacci a pag. 376, questo sonetto di Guido Cavalcanti; 


Madonna la vostra belta enfolio 
Si li mei ogli che menan lo core 
A la battaglia ove l’anzise amore 
Che del nostro plaser armato usio. 

Si che nel primo esalto, che asalio 
Passo dentro la nocte e fu signore 
E prese l’alma che fuzia di fore 
Pianzendo di dolor che vi sentio. 


(1) V. Poeti antichi etc, p. 70, 71. 
(2) V. ALtacci, Op. cit., p. 70. 


24 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


e e e e e e e ee] ] ©] er” _ 





Pero vedete che vostra beltade 
Mosse la folia unde il cor morto 
Et a me ne convien clamar pietate. 
Non per campar ma per aver conforto 
Ne la morte crudel che far mi fate 
Et o rason se non vinzesse il torto. 


E di Guido Guinicelli a pag. 378 di essa Raccolta abbiamo: 


Nui provamo ch’in questo ciecho mondo 
Ciascun si vive in angososa dogla 
Ch’ in onne aversita ventura l tira. 
Beata l’alma che lassa tal pondo 
E va nel ciel dove e compita zoglia 
Zuglioso 1 cor for de corrotto e d’ira. 
Or donqua de ch’el vostro cor sospira 
Che ralegrar sede del suo migliore . 
Che Dio nostro signore 
Volse da lei come avea 1 angel detto 
Fare il ciel perfetto 
Per nova cosa onne sento la mira 
El ella sta davante a la salute 
Et in ver lei parla onne vertute 


A me non pare che il trascrittore, forse lombardo, abbia mutato la natura 
de’ due componimenti, restati sempre nella lingua illustre, così come il compo- 
nimento di Stefano Protonotaro, benchè alterata la parte fonetica ed ortografica 
dalla mano e dalla parlata dialettale del trascrittore. 

Il Carducci ha pubblicato da un codice magliabechiano una ballata che ha il 
titolo di Ciciliana, ed ha quanto più vi si può desiderare di carattere siciliano 
nel concetto e nel verso: ma non è punto nella parlata o nella forma dialettale, 
bensì nella illustre e comune ai dottori di Dante, quantunque sia una felice imi- 
tazione della Tenzone o Contrasto del vecchio Ciullo, sì che al dir del D’Ancona, 
«appartiene al ciclo stesso, al quale spetta anche il canto di Ciullo (p. 267).» 
Parlano la donna e l’amante: i 


Donna 
Lèvati dalla porta: 


Lassa, ch’or foss’io morta 
Lo giorno ch’i t’amai! 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 25 





Lèvati dalla porta, 
Vatten alla tua via; 
Chè per te serìa morta, 
E non te ne ancrescerìa. 
Parti, valletto, partiti 
Per la tua cortesia : 
Dè, vattene ora mai. 


Amante 


Madonna, ste paraule 
Per dio non me le dire, 
Sai che non venni a càsata 
Per volermene gire. 
Lèvati, bella, ed aprimi 
E lasciami trasire; 
Poi me comanderai. 


Donna 


Se me donassi Trapano, 
Palermo con Messina, 
La mia porta non t'àpriro, 
Se me fessi regina. 
Se lo sente maritamo 
O questa ria vicina, 
Morta distrutta m’ài ecc. 


Nelle stanze appresso c’è la voce scurta, 


Se la scurta passassenci 
Serìa stretto e legato 


che è proprio la sciurta de’ nostri antichi, la scolta dell’italiano, compagnia di 
guardia notturna in Sicilia sin da antichi tempi, sì che le università o municipii 
avevano gli ordinamenti del maestru xiurteri, che si disse anche in tempi a noi 
più vicini, maestro di ronda e rondiere (1). E in un componimento senza titolo, 
che nella raccolta del Carducci segue a questa Ciciliana col n. XIX, si legge: 


(1) In una nota al c. LVI de’ Capitula di re Giacomo riferiti al 1288, così sul proposito 
de’ maestri di «urta avvisava il Testa: “ Surta et surterti significant excubias escurrentes et 


26 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


Figliola se’ de garbi, 
Saggia palermitana e amorosella, 
E morirò per tia, 
Quando ti vesti la verde gonnella 
Conveneti l’anella etc. (1). 


Ora del Garbo si dicevano in Palermo certi mercatanti Giudei, e forse divenne 
appellativo di tutto un ceto di commercianti in panno, sia del borgo Amalfita- 
no, sia della Loggia de’ Genovesi e Catalani, i quali tenevano quella parte della 
città di oggi che ancor sì dice la Loggia presso a Sant’ Andrea e a S. Eulalia, 
che erano le chiese degli Amalfitani e de’ Catalani; a sinistra del Cassaro, il quale 
era nel 1312, siccome sì rileva da un privilegio di Federico Aragonese, quasi 
tutto abitato dai Giudei (2); nè vha dubbio che, siccome la ballata Ciciliana do- 
vette esser composta in Trapani, i versi di quest’altra ballata furono dettati da 
rimatore palermitano ; e intanto nè la prima, nè la seconda ballata, che erano 
più o meno imitazione della Tenzone del poeta Alcamese, si diranno mai da chi 
ha fior di senno essere state dettate nel volgare dialettale, e non nel volgare 
illustre e nobile, pel quale poterono conservarsi in codici toscani, come in co- 
dici toscani fu conservata la Canzone di Lisabetta, già pubblicata per intero dal 
Fanfani e dal nostro Lionardo Vigo nelle Nuove Effemeridi siciliane dell’aprile 1870, 
sopra il codice Laurenziano N. 32. Pluteo 45, e però un po’ diversa nella lezione 
dalla stampa datane in Firenze nel 1568; sulle quali due edizioni del 1568 e del 
Fanfani la diè fuori il Carducci nella sua raccolta citata di Cantilene e Ballate 
stampata nel 1871. Della Ciciliana dice il D'Ancona che «conserva qua e là spe- 
cialmente nelle rime, le forme originarie insulari; » ma non volle dire di essere 
un componimento nel dialetto dell} Isola. Così il Vigo e il Carducci (p. 50) no- 
tarono o come poco conveniente a una donna, o d’imbrogliata sintassi, il dire, 


Davanti all’uscio mi sare’ jaciuto 
Per la mia grasta guardare : 


e appunto in questa forma si ha per me il certo segno che la canzone nacque 
in volgare illustre, e non dialettale; che nel dialetto sarebbe stato detto mi 





nocturnas, ipsosque vigiles nocturnosque custodes; unde profectum est, quod nos vulgari 
sermone dicimus Sciurta,, V. Capitula Regni Siciliae, t. I, p. 34. Pan. 4741, “ Mastru di 
xiurta.,, Spat. ms. praefectus vigiliae nocturnae. Capu runna., V. Pasquatino, Vocab. Sic. 
t. III. Ne’ Capitoli delle nostre città il mastru wurteri si trova nominato fin dal secolo XIV. 
(1) V. Carpucci, Cantilene e Ballate, Strambotti e Madrigali dei secoli XIIIe XIV, p. 52-55. 
Pisa 1871. ; 
(2) V. De Vio, Privilegia Panhor. p. 43. Pan. 1706. 


E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 27 





sarei coricata, o curcata, senza rispondere alla rima raputo, la quale voce nem- 
meno sarebbe del dialetto, come non sarebbe mai forma dialettale questa, 


e doneriagli un bacio in disianza. 


Le quali due ballate uscite di Sicilia (1) e accolte in Toscana, del modo stesso 
come dal Boccaccio era citata nell’aurea sua prosa la Canzone della povera Lisa- 
betta, ci richiamano per la imitazione, che ne facevano, al Contrasto di Ciullo 
d’Alcamo; uno degli antichi monumenti di lingua volgare sul quale si è dispu- 
tato ai nostri tempi quanto sovr’ altro monumento letterario non mai. E la di- 
sputa hanno sostenuto e sostengono non solo scrittori siciliani e continentali 
d’Italia; ma pur di fuori Italia, e specialmente di Germania. Onde, ci fermeremo 
altro poco eziandio sulla lingua del famoso Contrasto, contraddetto pure alla Si- 
cilia, si come è contraddetto e il tempo in che si fa fiorire da’ siciliani il poeta, 
e la patria e fin la esistenza, tentando qualcuno di far uscire il Da Camo da 
Iacomo, o dal Camo come foggia di vestire e abito usato, e fare scomparire il 
Ciulo, Ciullo, Cielo, e Celio, quasi un di più o un prefisso senza ragione di essere 
rispettato. Sulla lingua del Contrasto sono fino a tre opinioni, cioè, che sia si- 
ciliana; che sia mista di pugliese, lombardo, toscano, provenzale , e latino ; che 
sia tra il dialetto e la lingua illustre per quello che ritiene dell’antica o primi- 
tiva forma, e per le modificazioni che ricevette da’ trascrittori toscani. Diversi 
sono pure i giudizii rispetto al carattere del componimento , se popolare o no; 
se da giullare o da cavaliere ; e diversissimi i pareri quanto al poeta e al suo 
nome, e all’età in cui cantava della rosa fresca aulentissima, che gli aveva messo 
nel petto ardenti focora di amore. 

Pel Colocci che primo parlò di Ciullo, e per l’Allacci che primo raccolse dai 
codici romani la famosa canzone citata da Dante, che appunto si pubblicava nel 
volume dei Poeti antichi offerti all'Accademia Messinese della Fucina, Ciullo dal 
Camo « scrisse in lingua Italiana, o pur mistigando la Italiana » secondo il Co- 
locci; e per l’Allacci « non scrisse in lingua Tosca raffinata e purgata, ma sici- 
liana e quella de’ suoi tempi (v. Poeti antichi, p. 22, 34)». I critici contempo- 


(1) Altra poesia siciliana è il rispetto dato dal Carducci al n. XXXVII, pag. 59 del suo 
libro; nel quale rispetto è nominata la Camiola Turingia, che non venne in mente al Car- 
ducci, e la fata Morgana. Il Fazello, ed altri storici non Siciliani, come il Costanzo, riferi- 
scono la storia della generosa donna messinese, che riscattò col suo denaro Orlando d’A- 
ragona caduto nelle mani di Roberto di Napoli nella battaglia di Lipari, a patto che la 
sposasse; e quando Orlando già libero, mancò alla fede data, e il Tribunale lo condannava 
a sposare la Camiola, giunto il dì delle nozze, Camiola rinfacciò Orlando in presenza di 
tutti della sua ingraditudine, e rifiutò ella quelle nozze, “ chè non voleva haver per marito 
un’huomo sì da poco e così svergognato. ,, V. FazzLLo, Deca II dell’Istoria di Sicil. L. IX 
pag. 790. Venet. 1574. 


4 


28 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 








ranei sono anche essi di diverso avviso. Il D'Ancona si fa questa domanda: 
«qual sarà l’ idioma nel quale fu scritto il Contrasto? » E risponde: « Distin- 
guiamo, anzitutto, la forma che il canto ha ne’ codici da quella che dovette a- 
vere originariamente. Imperciocchè a noi non par dubbio che sua propria forma 
debba essere stato quell’ idioma soltanto che un cantore siciliano poteva ado- 
prare : l’idioma, cioè, che usarono poi gli anonimi autori del Tuppi tuppi, e del 
Multi vuci e di tutte altre tradizionali poesie insulari, liriche o narrative (p. 285); » 
e a conferma cita « un fatto assai rilevante, cioè la canzone di Stefano Protono- 
tario di Messina e il frammento del Re Enzo, primamente scoperti da G. M. Bar- 
bieri, i quali sono in pretto volgare siciliano (p. 289)». Il Bartoli pensa che il 
poeta popolare, « tentò d’ingentilire il proprio dialetto, con tutto quel più che 
egli potè di forme letterarie già ricevute, già consacrate dall’uso (p. 151)»; e il 
Galvani che Ciullo usò una lingua, non pretto dialetto siculo, « ma consparsa di 
municipalismi normanno-siculi, e per conseguenza da non dirsi aulica ed illu- 
stre (Osser. p. 5 e 6) ». Il Corazzini poi ci dice che l’idioma del. Contrasto di Ciullo 
è «quello degli altri poeti siculi, o almeno non molto peggiore, e se ad alcuno 
può apparir tale non contrasteremo, ma ben col prof. Caix pensiamo di avere 
tutte le buone ragioni per giudicarlo idioma di una poesia d’arte, e infarcito di 
provenzalismì e francesismi assai più di tutte le altre poesie sicule (Del Contrasto 
di C. Aîc., p. 6)»; onde il Caix, pel quale Cielo dal Camo non è Ciullo d’ Alcamo, 
e non scrisse siciliano, ma pugliese, sostiene contro la elaborazione successiva del 
Bartoli, che il Contrasto « potè esser scritto fin dalla sua origine qual ora lo ab- 
biamo » e l’autore fu un poeta di Corte che volle imitare un genere popolare 
francese, « studiandosi coll’usare modi, parole, e forme plebee, di riprodurne la 
rozza semplicità e naturalezza, senza saper del tutto schivare le frasi e i modi 
della scuola, e rivelando, nell’uso delle voci francesi, lo studio de’ modelli stra- 
nieri (v. Ancora del Contr. di C. d’'Alcamo, p. 4, 15). » Al quale avviso ha risposto 
il prof. D’Ovidio e contro l'imitazione voluta trovare dal Caix nel Contrasto delle 
Pastorelle francesi, benchè il Canto, quantunque d’indole popolare, si possa dire 
lavoro di arte; e contro la lingua usata in esso, che non è pugliese, secondo ha 
detto il Caix, ma siciliana, provandolo per uno studio minuto sulle voci e frasi 
in esso adoperate; quantunque se già questo Contrasto «non riuscisse ad essere 
toscanizzato al punto a cui lo furono le poesie sicule cortigiane, subì pure sotto 
la penna de’ trascrittori toscani un notevole travestimento alla toscana ». Donde 
l’attuale forma della poesia di Ciullo, per ragione che «il siculo, toscaneggiato, 
viene ad sssumere in parte l’aspetto di quel dialetto che sta appunto in mezzo 
tra siculo e toscano , il napoletano (Saggi critici, p. 466-515)... ma il siculo ori- 
ginario del Contrasto giace certamente in fondo al testo toscaneggiante del. co- 
dice vaticano (p. 517) ». Io non posso, o signori, pigliare in esame speciale questi 
diversi giudizii così tra loro opposti; ma riferendo per ora solamente la prima e 
seconda strofe del Contrasto, credo si possa da voi discernere per chi stia o no 
la ragione. 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 29 








Il. poeta, popolano o cavaliere che sia stato, apostrofava la sua donna : 


Rosa fresca aulentissima c’apar ’nver la state 
Le donne ti disiano, pulzelle e maritate; 
Traimi d’este focora, se t’este a bolontate; 
Per te non aio abento notte e dia, 

Pensando pur di voi, madonna mia. 


E la donna rispondeva: 


Se di mene trabalgliti, follia lo ti fa fare: 

Lo mar(e) pot(e)resti arompere avanti e semenare : 
L’abere d’esto secolo tut(t)o quanto asembrare : 
Avere me non poterla esto monno; 

Avanti li cavelli m’aritonno. 


Così ha letto il D'Ancona il codice vaticano, che ha una lezione più corretta 
del codice che servi all’Allacci, e fu della Biblioteca Barberini (1). Or in queste 
due strofe tutto è siciliano, ma non dialettale, siccome si ha nel c'apar ’aver la 
state, e nella madonna mia, e nella forma illustre Avere me non poterìa esto monno: 
nè si dica che questo appunto sia il segno della mano toscana portata nel com- 
ponimento, poichè un trascrittore o un letterato toscano non avrebbe lasciato 
Per te non aio abento notte e dia, nè se di mene trabalgliti, nè due volte l’avanti, 
che sta prima per anzi, siccome si sente tuttodì in Sicilia e non per prima, o 
innanzi avv. di tempo, e poi per piuttosto, come fu usato dal Boccaccio (G. IV, 4), 
nè l’arritonno, che vale mi rado, come ancor oggi nel popolo cozzu tunnu, vale 
festa rasa, e aviri travaghiu pir qualcunu vale aver premure, cure, pene, soffrirne 
dispiaceri. 

Che poi nel secolo che poetava Ciullo non poteva affatto dirsi capiddi, ma ca- 
pilli o cavilli, siccome in tutte le scritture siciliane de’ secoli XIII e XIV sino 
al XV e XVI, sel sa bene chi ha studiato sulle scritture la sostituzione della d 
alla I, della c o sc alla x, e della challa &, e simili, avvenuta specialmente nella 
Sicilia occidentale da tre secoli in qua. 

In altra delle strofe dice la donna: 


K’eo mene pentesse davanti foss’io aucisa 
Ca nulla bona femina per me fosse ripresa 
(o riprisa). 


(1) Vedi la lettera dell’Allacci del 2 Nov. 1660 all’Accademico Occulto della Fucina, che 
è il dotto Giovanni Ventimiglia, il quale fece la prefazione ai. Poeti Antichi, a p. 69. 


30 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 











’Er sera ci passasti, correnno ala distesa 
(o distisa). 
A questi ti riposa, canzoneri: 
Le tue para(b)ole a me non piacci(i)on(o) gueri. 


È una delle strofe di difficile lezione nel terzo e quarto verso: ma è sempre 
siciliana la lingua, e non pugliese, lombarda o provenzale, che si voglia; e le 
nostre donne dicono tuttavia chi fussi auccisa! e nun vogghiu essiri riprisa, e bona 
fimmina, e canzoneri a chi è uso cantar di notte sotto le finestre di donna amata 
o per se, o per altri. 

Nè pertanto questo che è siciliano è difforme dal volgare illustre , sì come è 
data la lezione nelle stampe finora, e potrebbe meglio correggersi, leggendo i 


due versi 3° e 4°, 


Er sera ci passasti, coremo’, a la distisa: 
Acquistati riposo, canzoneri: 

invece di 
Er sera ci passasti, correnno ala distesa; 
A questi ti riposa, canzoneri. 


Colla correzione proposta va il senso, si trova una voce che risponde al pa- 
dreto, padre tuo, in coremo’, core mio, espressione antica e viva nella bocca del 
nostro popolo, sì a significato di amore, e sì a senso ironico; e vanno finite le 
molte osservazioni sul correndo, cantando, coreando, e sulla distisa, e sul a questi. 
Il passasti, coremo’, ala distisa, vale: ci passasti, cuore mio, fermandoti a lungo 
cantando; e però acquistati riposo, cioè or ti riposa, stante le tue parole non pia- 
cermi gran fatto. E in questa strofe non si sente nemanco la mano toscana, chè 
la rima gueri è voluta dal canzoneri, voce ancor viva in Sicilia, e I’ auccisa del 
primo verso porta con se la riprisa e distisa, che il cod. Vaticano legge ripresa 
e distesa, e per noi di Sicilia a la stisa, a distesa, alla distesa, vale continenter a- 
gere, come avvisa il Pasqualino. Sarebbe anche buona lezione il cantando a la 
distesa o coreando come propose il Vigo: ma non vorrebbe dire, siccome ha cre- 
duto il D'Ancona, cantando a squarciagola, bensì cantando lungamente, per molto 
tempo: chè non era canto quello di Ciullo da farsi a squarciagola, sì che l’avesser 
potuto sentire il padre e i fratelli della donzella, la quale consiglia il canzoneri 
di non farsi cogliere da’ suoi fratelli, tanto che questi risponde : 


Se ’n tuoi parenti trovami, e che mi pozon(o) fare? 
Una difemsa metoci di dumilia (a) gostari, ; 
Non mi tocàra padreto per quanto avere à ’m Bari: 
Viva lo ’mperadore, graz’ a Deo! 

Intendi, bella, questo (che) ti dico eo? 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 31 





La quale stanza, o Signori, se per la lingua non è differente dalle prime, cioè 
non pugliese, non lombarda, né provenzale, ma siciliana e quale l’avrebber po- 
tuto scrivere i poeti di Bologna e di Toscana del secolo XIII e XIV; è appunto 
delle più importanti del Contrasto per la difesa e gli agostari e Bari, che vi son 
nominati, e hanno dato tanto argomento alla critica rispetto alla scena del Con- 
trasto e al tempo del poeta. Scena, la quale in tutt’altro luogo potè esser posta 


dal poeta, tranne che a Bari, se si tien mente alle parole della donna, 
Sengnomi in Patre e ’n filio ed i(n) Santo Mateo! 


nelle quati parole il nominar Santo Mateo dopo il Padre e il Figlio della Trinità, 
è argomento che nel luogo della scena era Santo patrono San Matteo, secondo 
il costume che i santi patroni vanno nominati dal popolo tosto dietro al nome 
di Dio; e intanto patrono di Bari era San Nicola, nè una donna barese avrebbe 
mai invece del suo santo protettore invocato il patrono di altre città, come di 
Salerno, o d’altro luogo di Sicilia. E della difensa e dell’ agostaro parleremo più 
sotto; per conchiudere ora da questi esempi che il Contrasto composto in sici- 
liano, ma con arte che innalzava il volgare popolano alla imitazione del volgare 
illustre, è restato quale appunto il giudicò Dante, cioè uno de’ componimenti 
‘in lingua siciliana mediocre, e non di dottori; vale a dire un componimento che 
per la lingua usata e le forme adoperate sta in mezzo al volgare plebeo e al 
volgare aulico e nobile, alla parlata de’ terrigeni e al sermone che per Dante era 
lodevolissimo, e da dirsi latino, perchè di tutta Italia e usato da’ dottori. Senza 
questo carattere mediocre non avremmo nel componimento parole prettamente 
siciliane , che non si trovano ne’ componimenti de’ poeti aulici, nè l’avrebbero 
imitato poeti toscani come Ciacco dell’ Anguillara, Urbiciani, e Bonaggiunta, il 
quale diceva alla sua donna « Maritate e pulzelle, Di voi so ’nnamorate; » e il 
primo, al dir del Carducci, faceva appunto parlare l’amante e madonna « su ’1 te- 
nore del sirventese di Ciullo» (1) sino ad accennare anche alla intonazione del 
Contrasto; siccome Bonaggiunta ne usa molte voci e maniere, e il fiore aulente, 
e feruto, e simili, sì che ti pare un siciliano quando canta ad esempio — ch’ eo 
disio Di ciò che crio — în voi gentil criatura, — non diversamente che Semprebene 
di Bologna, in questi versi — Ed ave tai bellezze, ond’ eo desio, E saccio e crio — 
che follia lo tira — Chi lauda il giorno avanti che sia sira: parole e forme tutte 
siciliane , così come del volgare illustre usato in Toscana e a Bologna. Nè solo 
il lucchese Bonaggiunta, ma Paganino di Sarzana e Pucciandone Martelli da Pisa 
hanno motte e dia, e il dimino come in Ciullo, siccome Albertuccio della Viola ha 
rosa aulente, e Dante da Majano la fresca rosa; e non mancano le rime e le voci, 
e la forma de’ verbi de’ nostri antichi ne’ migliori della scuola toscana e bolo- 


(1) V. Cantilene e Ballate ece., p. 12. 


32 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 








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gnese, usando Bonaggiunta dormuto e arriccuto, e aggio e saccio, e innamura, e 
tanto este abassato, e Pacino Angiolieri fino a una voce che si è creduta del solo 
dialetto siciliano, cioè sfagione, istaciuni, per dire assolutamente l’està, la state; 
sì che non si trova nel Vocabolario della lingua Italiana in questo senso del- 
l’Angioleri, che è il senso che ha nel nostro dialetto (1). 

Onde è che, se i poeti aulici scrissero nel volgare illustre, e non ha fonda- 
mento il credere che i componimenti della scuola siciliana siano nati in forma 
dialettale e indi ridotti per mano toscana nella forma illustre, il Contrasto di 
Ciullo invece nacque e si è conservato nella forma siciliana, ben a ragione detta 
mediocre, perchè tra mezzo al volgare plebeo e al volgare aulico, e più atta a un 
canto popolare quale fu il Contrasto, in cui le forme della più antica poesia si- 
ciliana venivano meglio conservate che non nella canzone cortigiana, tanto da 
aver veduto anche i critici meno sospetti nel Contrasto non solo un saggio ri- 
mastoci di poesia popolare indigena, che ci attesta l’esistenza di una poesia di 
popolo, anteriore alla scuola cortigiana del periodo svevo cioè anteriore alla in- 
troduzione del provenzalismo, e tale che ci mostra qual sarebbe stato in Sicilia 
lo sviluppo della maniera indigena, se la Corte non lo avesse impedito col vol- 
gersi di preferenza ai modelli cavallereschi, secondo ci dicono il D'Ancona e il 
Bartoli, e il Settembrini, dopo il nostro Giudici e il Sanfilippo; ma Ciullo, al dire 
del De Sanctis «è l’eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa 
al tempo delle Crociate, e che aveva avuta la sua espressione anche in Italia, e 
massime nella normanna Sicilia; » sì che la sua lingua, per l’illustre critico, non 
è dialetto siciliano, ma già il volgare com’era usato in tutti i trovatori italiani, 
ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia. » 
E ciò, stante che «in Sicilia , segue a dire il De Sanctis, troviamo appunto un 
volgare cantato, e scritto, che non è più dialetto siciliano, e non è ancora lingua 


(1) Maravigliar mi fate 
Donna, quando v’avviso: 
Sofferon gli occhi la veduta appena, 
Tanta è la chiaritate 
Ch’esce dal vostro viso 
Che passa ogn’altra bellezza terrena, 
E lo veder m’allena, 
Ed attuta ed affrena 
A somiglianza di spera di sole, 
Quand’uom per istagion guardar lo suole. 
Di ciò si duole—il mio cor, c'ha volere 
Di voi vedere, 
E guardar non vi puote quant’ei vuole. 


V. Nannucci, Manuale della Letter. del primo secolo della lingua Itol. 2 ed., v. 1, p. 219. 
Firenze 1856.‘ : 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 33 





italiana, ma è già, malgrado gli elementi locali un parlare comune a tutti i ri- 
matori italiani, e che tende più a scostarsi dal particolare del dialetto, e dive- 
nire il linguaggio delle persone civili.... La Sicilia divenne il centro della coltura 
italiana. Fin dal 1166 nella Corte del normanno Guglielmo II convenivano i tro- 
vatori italiani. Sotto Federico II l’Italia colta aveva la sua capitale in Palermo. 
Tutti gli scrittori si chiamavano siciliani » (1). 

E se ciò per la lingua usata nel Contrasto, e pel suo carattere, l’uno e l’altro 
tanto distanti dal linguaggio e dallo spirito de’ poeti aulici, cioè del periodo 
svevo, sì che il Contrasto « è uno de’ Canti più antichi dell’arte popolare (Bar- 
TOLI);» ed « è ben difficile che trovisi un altro esempio così notevole, così dif- 
fuso e così caratteristico della prima forma della nazionale poesia (D’AnconA); » 
quale sarà mai l’età del poeta, senza dubbio siciliano, e perocchè è esistita sin 
da’ tempi musulmani una città che si chiama Alcamo, e tuttavia si sente tra noi 
il nome di Ciullo, Ciuddu, Ciuzzu, °Nciulo, °Nzulu, (vezzeggiativi finali di Vicen- 
ciullo, Vicenciuzzu, Vicenzulu) non senza ragione detto Ciulo del Camo, e Ciullo 
d’Aleamo? La critica contemporanea consente cogli scrittori siciliani che «la poe-. 
sia di Ciullo, nella sua incondita semplicità, nella sua ingenua rozzezza, a niuna 
altra assomiglia e fa razza da se... Ciullo cantò in un tempo lontano egualmente 
dalle prime informissime prove, e dagli ultimi raffinamenti : e, così com'è, questa 
poesia suppone necessariamente tutto « un ciclo poetico » dietro di se (D'Ancona, 
De SancTIS), » ma, soggiunge, dalla rozzezza di Ciullo non si deve inferire, sic- 
come pretendono i siciliani, l’antichità del poeta : « Ciullo è più rozzo perchè se- 
guace d’altra maniera di poesia, popolare, non cortigiana (D’Ancona, pag. 261, 
nota). » Il che sarebbe lo stesso di dire che Ennio sia stato dei tempi di Augu- 
sto, benchè i suoi versi ritraggano la rozzezza de’ tempi degli Scipioni. Non si 
dubita per nulla che Compagnetto da Prato, Saladino da Pavia, Fredi da Lucca, 
Paganino da Serzana, Pucciarello e Maestro Migliore da Firenze, Messer lo Abate 
da Napoli, Dante da Majano, Ciacco dall’Anguillara, e i nostri Jacopo da Lentino, 
Mazzeo da Messina, Ranieri, e Ruggerone da Palermo, siano proprio delle città, 
delle quali portano il nome. Ma sì dubita per opposto, anzi si nega, che Ciullo 
dal Camo, o d’Alcamo sia di Alcamo; quasi non bastasse la composizione araba 
d’el camo, o d’al camo, }Alkamah di Edrisi e d’Ibn Djobair, e la tradizione sola- 
mente in Alcamo di una casa di Ciullo, di antica fabbrica, rifatta nel secolo XVI, 
e nuovamente pochi anni sono sotto gli occhi nostri (sufficiente a signore, e non 
una bicocca, come l’ha detto il sig. De Bon, senza punto averla veduta, nè anche 
in disegno); o l’ essersi creduto dagli eruditi Alcamesi del secolo passato che 
Ciullo fosse stato della nobile famiglia Colonna, nella quale è assai antico il 
nome de’ Ciulli, quasi per tradizione dell’antico poeta, non plebeo, nè pezzente, 
siccome il predica la nuova critica, ma in condizione di poter mettere una difesa 


(1) V. Storia della Letterat. Ital. 2.* ed., vol. 1, p. 6. 


ol DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 





di duemila agostari, e di presentarsi a donna che poteva vantare monticelli di 
perperì d’oro, e di essere stata cercata da marchesi e giustizieri, i quali pur eb- 
bero il suo rifiuto, sì come anche al poeta fa sentire che poco apprezza le sue 
mill’ onze di aviri, patrimonio ragguardevolissimo a que’ tempi, quando il feudo 
poteva costare anche di venti e di dieci onze di rendita (1). Or sono queste mil- 
lanterie, ci dice il Bartoli, prese sul serio e alla lettera da’ siciliani (pag. 130): 
e sia. Il castiello e la forte magione e le correnti vicine, sono o una capanna o 
un bugigattolo o una taverna e le correnti il rigagnolo di una strada o l’acqua 
sporca del taverniere, se Ciullo è stato anche detto « un D. Giovanni da taver- 
na; » e così i titoli di madonna e di cavaliere, sono l’ironia scambievole de’ due 
amanti popolani, e i perperi e le mill’onze nomi vuoti di significato, come nomi 
di pompa i marchesi e i giustizieri che per la ripulsa ne sarebbero andati molto 
fieri: ma donde mai, domanderemo noi, i nuovi critici hanno attinto i docu- 
menti che la donna del Contrasto sia stata una femmina da trivio (D’ANCONA, 
p. 213), e il poeta un pezzente, o per lo meno « un uomo e una donna del volgo 
(BARTOLI, p. 129)?» Nella Sicilia Normanna, quando s’innalzavano Cattedrali e 
Palagi di marmo e di oro, non si poteva essere poeta e nobile signore ? ovvero 
furono anch’essi uomini di volgo e pezzenti Stefano Protonotaro, Jacopo da Len- 
ntii, Guido Giudice e Oddo delle Colonne, o Ranieri e Ruggerone da Palermo con 
Inghilfredi, i cui nomi accennano al casato normanno, e però della baronia del 
Regno ? E una donna che minaccia di chiudersi in monastero, sarà davvero 
donna del volgo, quando i monasteri erano per le donne e le fanciulle di sangue 
nobile, sì da aver potuto con esse convivere ed educarsi la normanna Costanza 
che fu sposata ad Errico di Germania, e, secondo la tradizione, la Rosalia Sini- 
baldi, che fu di sangue regio ? I due versi ultimi che chiudono il Contrasto sono, 
si dice, di donna di poco pudore: ma non si è avvertito che l’ amante dopo il 
giuramento su’ Vangeli è già moglie; che prima di arrendersi dice, 


SIN adomanami a mia mare e a mon peri; 
Se dare mi ti degnano, menami alo mosteri, 
E sposami davanti dela jente 

E poi farò le tue ’comannamente. 

So non ale Vangelie, chomo ti dico, jura, 
Avere me non puoi in tua podesta; 


e il canzoneri risponde, 


Sovr’esto libro juroti, mai non ti vegno meno. 


(1) V. GaraorIo. Consideraz. sopra la Storia di Sicilia. L. II, c. IV, ove è riferito dall’I- 
sernia: “ feudum communiter est in Regno de 20 unciis annuis:, ma se la rendita non ve- 
niva da terre “ poteva contarsi come feudatario ed obbligato al servizio militare chi pur 
godesse di onze 10 annuali per qualsiasi altra ragione. , 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 39 


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Allora la donna chiama il cavaliere meo sire; e aggiunge, 


Sono ala tua presenza, da voi non mi difenno 
S’eo minespreso àoti, merzè, a voi m’arrenno. 


Ma il Vangelo non poteva essere pronto in mano del cavaliere, si dice da’ cri- 
tici, nè s'avrebbe potuto tenere in petto così grosso volume (GRION); e « certo 
Ciullo non ce l’aveva: ma per assicurare la sua donna, omai del resto vicina ad 
arrendersi, se ne vantava, e si poneva la mano sul petto, al luogo dove doveva 
essere, se ci fosse stato (D’AncoNA, p. 217). » Se Ciullo aveva o no con se il libro 
de’ Vangeli nol so io che non mi trovai presente alla scena: ma che non ce 
l’avesse perchè non poteva portare în seno così grosso volume, ci fa maraviglia 
a leggerlo, quando si sa che i primi Cristiani potevano portare in seno gli E- 
vangeli, senza essere il grosso volume che diciamo oggi Messale, e si avevano 
fra i libri liturgici a parte gli Evangeliarit, che servivano ai diaconi, e contene- 
vano ora il testo completo e per ordine de’ Vangeli co’ passi indicati da esser letti 
alla messa, ora, i più moderni, spesso una raccolta di passi staccati e appropriati 
all’ordine delle domeniche e delle feste (1). Che anzi potrei mostrare un codice 
del sec. XIII, che contiene tutta la Bibbia, il quale si avrebbe potuto portare in 
seno da Ciullo, senza avvedersene nessuno. È il giuramento sul Vangelo, onde 
la donna è vinta, che la fa cedere al cantore, divenuto suo sîre, e così più for- 
tunato de’ conti, cavalieri, marchesi e giustizieri, che indarno la domandarono 
del frutto del suo giardino, prima di far cogliere il quale senza essere moglie 
si avrebbe fatta tagliare la testa, o si sarebbe gettata in mare al profonno (2). E 
pur questa donna è una femmina volgare (Garx), e il poeta che giura su’ Vangeli 
un D. Giovanni da taverna, quasi il giuramento religioso del secolo XII fosse il 
giuramento politico del secolo XIX E .pure l’ indole stessa del componimento e la 
natura dei contendenti non ci danno a vedere, ci si dice, «se non caratteri vol- 
gari e persone di volgo (D’AnconA, p. 228)!» 

Quanto poi all’età del poeta, attesa la defensa e gli agostari nominati, si ritiene 
come finita una questione che tuttavia è sotto lite, anzi è stata ripresa con mag- 
gior vigore coll’ultimo scritto pubblicato dal Vigo pochi giorni prima di morire 
(Alcamo 1879). A rispondere agli scrittori siciliani e non siciliani che hanno vo- 
luto la cantilena di Ciullo scritta prima che morisse il Saladino, cioè negli ul- 
timi anni del secolo XII, e non verso la metà del secolo seguente, il prof. D'An- 
cona ha trattato dottamente della defensa e dell’ agostaro e di Saladino in tre 


(1) V. MartIGny, Dictionnaire des Antiquités Chrétiennes ate. p. 4832-33. Paris 1877. 

(2) Che il Contrasto finisca col matrimonio fu pur notato dal prof. V. Pagano, (V. Pro- 
gugnatore, III, p. 158), benchè non crediamo affatto il Canto di Ciullo sia stato un epitala- 
mio per le nozze regali di Enrico Imperatore e di Costanza: o, secondo il Grion, per le 
nozze di Caterina figlia naturale di Federico II col Marchese del Carretto. 


5) 


à 


36 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 





discorsi o appendici che seguono le chiose fatte al Contrasto di Ciullo nel volume 
delle Antiche Rime volgari secondo il Codice Vaticano 3793, sopra citato; conchiu- 
dendo dal titolo XVI delle Costituzioni di Federico, De Defensis imponendis, pub- 
blicate nel 1231, e dalla coniazione dell’ agostaro riferita dal cronista Riccardo 
di San Germano allo stesso anno 1231, che « se la defensa fu istituita dalle leggi 
del 1231, la poesia di Ciullo dev'essere posteriore a cotest’anno (D’ANCONA, p. 333); 
e che « Federico II avendo fatto coniare gli agostari nell’anno 1231, la poesia 
che li menziona non può essere anteriore a cotesto anno (p. 348); » che in un 
documento « non storico, ma poetico » il nome di Saladino è titolo, siccome quello 
di Soldano, che vale per nome di dignità di principato (p. 370), e non sono per- 
sonaggi storici contemporanei al poeta sopra cui debba farsi tanto rumore « per 
un misero d (D'Ancona, p. 365) » che potrebbe correggersi se non in au, in appi, 
«quando ci paresse che a sciogliere il nodo della controversia fosse necessario 
ricorrere a correzione del testo (D'Ancona, p. 361).» Onde il Bartoli ebbe a dire: 
«il grande e terribile argomento sul quale si fondano alcuni per creare un pe- 
riodo letterario siculo normanno, è quell’ha del Saladino: troppo povera cosa 
invero per dar luogo ad un effetto sì grande. » «Sull’età sua (cioè di Ciullo) in- 
torno alla quale elevarono strane pretensioni varii scrittori siciliani, oggi non è 
più da stare in dubbio,... esso appartiene ai tempi di Federico II (1). » A queste 
conclusioni, che si tengono inespugnabili, come « punto, dice il Bartoli, messo 
oramai fuor di questione (p. 125), » io «redo abbiano dato contrario argomento 
essi stessi i critici citati, quando non pel misero 4 del Saladino e del Soldano, 
che è ne’ versi 


Se tanto aver donassimi quanto a lo Saladino, 
E per ajunta quanto a lo Soldano, 


sì che mostra il poeta accennare ai due nominati come viventi, e però che poe- 
tava non dopo del 1193; ma per l’indole stessa del componimento han dovuto 
dire, che la poesia di Ciullo non assomiglia ai componimenti aulici della Corte 
di Federico, e il poeta « cantò in un tempo lontano egualmente dalle prime in- 
formissime prove, e dagli ultimi raffinamenti (D'Ancona, p. 260);» che innanzi 
a Federico ci fu in Sicilia una poesia indigena popolare, e Federico « si fece 
centro di una scuola che trasportò la nuova arte dalla piazza alla corte; » tanto 
che «è curioso il trovare in mezzo ad una canzone di maniera affatto cortigiana 
versi che non hanno nulla che fare col rimanente, e che ricordano invece la 
forma popolare, riconferma dell’esistenza di un’arte indigena del volgo, preesi- 
stente alla scuola che tolse a modello i Provenzali » (2). Non cito altri passi ba- 





(1) V. presso D'Ancona, p. 3 73, e Storia della Letteratura Italiana, 2. ediz. v. II, p. 123 


ediz. cit. 
(2) V. Bartoli, Storia della Letter. cit., v. II, p. 172, 184. 





RT TEO 7 TO 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 37 








stando questi, che sono del D’Ancona e del Bartoli, a dimostrare se siamo o no 
noi siciliani a voler fondare sopra un a un periodo letterario siculo normanno. 
Questa letteratura, indigena, anteriore all’ imitazione provenzale, preesistente a 
Federico, della quale è un saggio e un avanzo la cantilena di Ciullo , la quale 
non appartiene affatto alla scuola cortigiana, debba o no esser chiamata siculo 
normanna, se innanzi allo splendore della Corte Sveva non ci fu che il Regno 
Normanno? A noi siciliani, che crediamo non avere ancora perduta la logica, 
pare di sì; nè quindi possiamo facilmente ritenere come finita la questione della 
defensa, dell’agostaro, e del Saladino, per le sole ragioni finora addotte dal D’An- 
cona, contro ai molti argomenti che dal Colocci, e dall’Allacci, da Apostolo Zeno, 
dal Muratori, dal Tiraboschi, e da’ più recenti e nostri Palmeri, Emiliani Giu- 
dici, Amari, Sanfilippo, La Lumia, Vigo, si raccolsero sul proposito. Per la defensa, 
creduta solamente istituita la prima volta dalle Costituzioni di Federico nel 1231, 
il Vigo pubblicava prima di morire una lettera del prof. Ed. Boehmer dell’Uni- 
versità di Strasburgo, uno de’ dotti tedeschi che più si occupano di storia e fi- 
lologia italiana, nella quale lettera è detto che «evidentemente nella Costitu- 
zione imperiale la parola si usa come parola ben conosciuta: (1)» onde è che 
poteva bene essere o una consuetudine, o un ordinamento de’ tempi normanni, 
stante nel proemio delle sue Costituzioni lo stesso Federico avvisare: «In quas 
precedentes omnes Regum Siciliae sanctiones et nostras (quas servari decerni- 
mus) jussimus esse trasfusas » (2). Come si può sostenere che la defensa non sia 
passata nelle Costituzioni Imperiali dalle Sanzioni più antiche (3) e dalle con- 
suetudini del Regno, nelle quali molte cose furono accettate dal diritto franco e 
longobardo? E però è assai vacillante questa parte della critica contro le pretese 
degli scrittori siciliani che vogliono sia stata scritta la Cantilena di Ciullo un 
trentotto anni prima del tempo, che le si vuole assegnare dal D'Ancona e dai 


LI 


critici citati. Nè per altro verso è meno vacillante l’altro argomento fondato 


(1) V. Vico, Appendice alla Disamina e al Comento della Tenzone di Ciullo d’Alcamo, p. D4. 

(2) Così il Testa nella sua Dissertazione De ortu et progressu Juris Siculi, che va premessa 
ai Capitula Regni Siciliae, t. 1, p. XIV € Leges Nortmannorum Regum, nempe Rogerii I, 
Gullelmi I et Gullelmi II, suis coniunetae, exemplo Imperatorum Theodosii, et Justiniani, 
ut in unum codicem colligerentur, curavit Imperator Fridericus ex strenua Svevorum gente 
prognatus, ‘qui jure Constantiae matris in Regnum Siciliae successerat. Hujus rei conficien- 
dae negotinm dedit Petro de Vineis, doctissimo, ut illis temporibus, Jureconsulto et Judici 
magnae Curiae; quo ipse consiliario, et ab epistolis utebatur. Ubi opus absolutum fuit, has 
leges, sive constitutiones, ut inseriptae fuerunt, in conventu Melphiensi Fridericus ratas ha- 
buit, sc in publicum ab omnibus servandas proposuit anno 1231. , 

(3) Vedi nel La Lumra, Za Sicilia sotto Guglielmo il buono, V Appendice che tratta del co- 
dice Vaticano delle antiche Costituzioni di Sicilia esaminato dal Merlcel, nella quale Appen- 
dice si riferiscono le Costituzioni di re Guglielmo contenute in quel Codice, e comprese nelle 
Costituzioni* Fridericiane. 


98 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 





sulla coniazione degli agostari riferita da Riccardo da San Germano nel dicem- 
bre del 1231. Il Cronista stesso ci fa sapere che nel mese di giugno 12341 « Con- 
stitutiones novae, quae Augustales dicuntur, apud Melfiam, Augusto mandante, 
conduntur, » le quali indi si pubblicavano nella stessa Amalfi nef mese di ago- 
sto: « mense augusto..... Constitutiones Imperiales Melfiae publicantur. » Gli ago- 
stari non vengono coniati se non nel mese di dicembre: « Mense decembri..... 
Nummi aurei, qui Augustales vocantur, de mandato Imperatoris in utraque Sicla 
Brundusii et Messanae cuduntur.» Indi nel mese di giugno del 1232 è notato 
dal Cronista: « Mense Junii quidam Thomas de Pando civis Scalen. novam mo- 
netam auri, quae Augustalis dicitur, ad S. Germanum detulit distribuendam per 
totam Abbatiam, et per S. Germanum, ut ipsa moneta utantur homines in em- 
ptionibus et venditionibus iuxta valorem ei ab Imperiali providentia constitutum, 
ut quilibet nummus aureus recipialur, et expendatur pro quarta unc. sub poena 
personarum et rerum in Imperialibus litteris, quas idem Thomas detulit, anno- 
tata. Figura Augustalis erat habens ab uno latere caput hominis cum media 
facie, et ab alio aquilam.» Sono questi i due passi su’ quali va sostenuta la non 
esistenza dell’agostaro innanzi alla coniazione del 1231. Ma innanzi tutto, io non 
so più intendere come si possa pubblicare una legge che voglia soddisfatte le 
pene pecuniarie in moneta (1), che alla pubblicazione della legge non esiste; 
stante le Costituzioni essere state pubblicate nell’ agosto, e gli agostari essere 
stati battuti nel dicembre (2). Le Costituzioni suppongono che i popoli avessero 





(1) Gli agostari sono appunto nominati nel titolo XIII delle Costituzioni, che è: Si quis 
mulieri violentiam patienti et clamanti non succurrerit ; ove è detto: “ Quod si non fecerit, 
quatuor augustales in poenam tam nocive desidie camere nostre componat., E l’Huillard- 
Brèholles annota: “ Prima nunc de hac aurea moneta mentio. Eamdem tamen non ante 
mensem decembrem hujus anni 1231 memorat Riccardus de S. Germano. » V. Hist. Diplo- 
mat. Imperat. Fredericî II, ete. t. IV, P. I, p. 25. Paris 1854. 

Il D'Ancona ha creduto (p. 356, n. 2) che io mi avessi riferito a questo titolo delle Co- 
stituzioni Fridericiane a proposito di sostenere che il Viva, o vive, l’Imperatore , di Ciullo, 
non debba essere inteso di Federico; e mi oppone una considerazione del De Blasis sul va- 
lore della pena minacciata in questo titolo. Ma io intendeva sostenere il mio avviso sulla 
pena minacciata nel titolo XXIII, e non su questa del titolo XIII, che si è citata. Nè era 
poi difficile lo scorgere lo sbaglio del 1221 invece del 1231; onde debbo io qui correggere 
la nota (2) di p. 7 del vol. 1.° Filologia e Letteratura Siciliana, ove è detto sull’autorità del 
Muratori che la Giunta alla Cronica di S. Germano, riferita dal Vergara, dava battuto l’a- 
gostaro nel 1221; essendo quella Giunta così detta il passo stesso del Cronista che si legge 
sotto l’anno 1231; siccome con ragione ha fatto rilevare il D'Ancona, correggendo lo sbaglio 
preso dal Muratori, per poca considerazione sul passo riferito dal Vergara. 

(2) Il Grion ha prevenuto questa obbiezione dicendo che Riccardo “ è cronista, annalista 
se vuolsi, ma non iscrive effemeridi, o epimenidi; in fine dell’anno 1231 annota: si coniano 
gli agostari a Brindisi e Messina, non dice che s’ incominciarono a coniare in Dicembre, 
tutt'al più che anche alla fine dell’anno si continuavano a coniare, come si sarà proseguito 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 39 


già notizia della moneta, nella quale dovevano essere soddisfatte le pene inflitte 
in esse Costituzioni: ne è detto nelle Costituzioni che quella moneta allora non 
esisteva, ma si sarebbe provveduto col coniarla quanto più presto: avvertenza 
del resto che non sarebbe stata degna nè del compilatore delle Costituzioni che 
fu il dotto Segretario imperiale Pietro delle Vigne, nè della mente non comune 
dello stesso Imperatore. Di più, ì passi del cronista debbono intendersi riferen- 
dosi agli altri passi che accennano a coniazione di monete fatte da Federico, e‘ 
prima e dopo che sono notati gli agostari. Ora leggendo all’ anno 1239 « Impe- 
riales novi cuduntur Brundusii» ognuno crederà senz’altro che appunto in quel- 
l’anno gl’imperiali nuovi fossero stati da Federico sostituiti ai vecchi; e intanto 
noi sappiamo dallo stesso Cronista che per lo innanzi gli imperiali nuovi erano 
stati coniati nel 1236: « Hoc annu jussu Imperatoris Brundusii novi Imperiales 
cuduntur, et veteres cassati sunt;» e questi Imperiali qui detti veteres battuti 
nel novembre del 1225, non erano altro che i danariî novi: « Denarii novi, qui 
Imperiales vocantur, cuduntur Brundusii, et veteres cassati sunt:» del modo 
stesso come nel 1221 aveva fatto coniare in Amalfi i tarì nuovi, in sostituzione 
degli antichi, « Tareni novi cuduntur Amalphiae ». Federico coniò tari nuovi, 
danari nuovi, e Imperiali nuovi (1); e con tutta ragione dobbiamo anche credere 
agostari nuovi; ciò che volle dire il- cronista con quel notare « novam monetam 
auri, quae Augustalis dicitur:» il che confermano gli archeologi avvisando co- 
me l’agostaro non sia stato altro nel conio che una ripetizione del nummo aureo 
antico, il nome stesso che dà all’ agostaro Riccardo da S. Germano. « Metallo, 
modulo, tipo, lavoro, tutto nell’agostaro, dice il Longpérier, pare copiato dagli 
aureì imperiali dell’ antica Roma (2).» E però non nuovo l’agostaro di Federi- 


negli anni seguenti fino ‘alla morte di Federico e non più.,, V. Propugnatore, an. IV, P. I, 
pag. 115. Ma Riccardo conduce la sua narrazione per anni e per mesi, e se nota la pub- 
blicazione delle Costituzioni in Amalfi mense Augusto (Constitutiones Imperiales Melfiae pu- 
blicantur) quando aveva notato sopra “ mense junùi..... Constitutiones novae, quae Augustalis 
dicuntur, apud Melfiam, Augusto mandante, conduntur; , non senza ragione è notato: 
“ mense Decembri.... Nummi aurei, qui Augustales vocantur, de mandato Imperatoris in u- 
traque Sicla Brundusii et Messanae cuduntur. », Sì che dal giugno 1231, che sono compilate 
le Costituzioni, sino che nel giugno 1232 si distribuisce in San Germano, ove le Costituzioni 
si pubblicavano mense februario , la nova moneta o il nuovo agostaro, passa un anno, sul 
quale, con questa precisione di mesi usata dal Cronista, non facilmente avrebbe dovuto 
passare il prof. Grion , i cui scritti sono sempre pieni di molta erudizione. La cronica di 
Riccardo va per anni e mesi, e non è lecito non tenerne conto in una questione di date 
storiche. 

{1) Il D’Ancona crede (p. 237) che gl’Imperiali del 1236 siano gli stessi che gli Agostari 
riconiati ; donde si spiegherebbe la varietà di tipo: ma Imperiales son detti i denarii novi 
coniati in novembre 1225, e non gli agostari del 1231. 

(2) V. Encyclop. du XIX siècle, cit. dal D'Ancona, p. 337.‘ 


40 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 








co (1) nè pel nome, nè pel tipo, fu moneta nuova pel nuovo valore attribuitole 
da Federico, siccome si rileva dal passo così minuto del Cronista, nel quale, se- 
condo che notò a proposito il Sanfilippo, la parola novam di Riccardo « non ri- 
guarda il nome, sibbene il valore. » Nè debbasi credere di poco momento il fatto 
che la Costituzione XLV che è nelle pubblicate da Federico nel 1231, nella quale 
è nominato l’agostaro, è stata rivendicata appunto a re Guglielmo I, dall’Huil- 
lard-Brèholles e dal duca di Luynes, sì che fu scritta, « prima che fosse nato 
Federico » dice il Vigo (2); cosa non ignorata dal D'Ancona, il quale nota esser 
vero che la Costituzione s’intitola dal re normanno, ma non vi si fa menzione 
alcuna dell’ agostaro , e però crede che i copisti, « per strano errore, alla legge 
cui precede il nome di Guglielmo aggiunsero il brano ove si ricordano gli ago- 
stari (p. 345).» Il quale strano errore de’ copisti ci pare sottosopra come l’a del 
Saladino, che fu errore o figura poetica di un canzoneri, che pur sapeva dello 
difensa, e secondo il Caix avrebbe pur saputo a mente le pastorelle francesi, se 
potè dire alla sua donna quel Rosa fresca aulentissima , che è tutta imitazione 
provenzale (1). A sapere un siciliano che esistono delle rose fresche e odorose, 
alle quali può esser comparata una donzella, bisognava invero apprenderlo da 
provenzali; tanto è esotico questo fiore alle campagne e ai giardini di Sicilia! 

E continuando contro Ciullo, com’ è possibile, si dice, il farlo vivere contem- 
poraneo al Saladino, cioè prima che finisse il secolo XII, quando Alcamo era a- 
bitato da musulmani, e non da cristiani, secondo la testimonianza d’Ebn Djobair 
che appunto viaggiava in Sicilia nel 1184-85? Facendo questa obbiezione non 
nuova, nè molto debole finchè fu creduto che l’Alcamo presente fosse nato ai 
tempi di Federico Svevo verso il 1222, o di Federico Aragonese verso il 1332, 
cita il D'Ancona quello che io scrissi nel 1866 sul proposito, sostenendo che il 
viaggiatore arabo dovette fermarsi nell’ Alcamo presente, o non salire la città 
ch’era sul Bonifato, viaggiando da Palermo per Trapani; e osservando in opposto 
il D'Ancona che l’Alcamo vecchio musulmano fosse stato sul Bonifato, e 1’Al- 
camo nuovo sia la presente città del basso, ove sarebbero stati fatti scendere i 
musulmani dell’alto nella insurrezione domata del 1222; onde l’Alcamo cristiano 
sarebbe posteriore all’età di Ciullo, che fu poeta cristiano e non arabo, e però 
non del 1193, ma ben fiorito dopo il 1231 sotto Federico. 

Quando scriveva io quel passo citato riguardante il passaggio per l’Alcamo 
abitato da musulmani del viaggiatore Ebn Djobair, la storia delle origini di Al- 
camo era un po’ confusa, e la città presente del piano era creduta una nuova 
Alcamo succeduta nel secolo XIII o XIV alla vecchia Alkamak, già esistente 
nel 912, quando nella sollevazione di Palermo contro il Governatore mandato da 





(1) Sotto Federico Aragonese nel 1330 le multe si comminavano in agostari, e intanto 
l’agostaro era morieta del regno svevo, siccome sotto Federico imperatore poteva essere del 
regno normanno. V. De Vio, Privil. Panhorm. p. 108. Pan. 1706. 

(2) V. Appendice alla Disamina e al Gomento della Tenzone di Ciullo d' Alcamo, p. 45. 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA È 41 


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Al-Mahadi in luogo di Alì, il governo della città fu tenuto da Khalil signore di 
Alcamo (saheb-al Khams-ou-Koms), che fu ucciso in Palermo nel 913, forse, se- 
condo l’avviso del Casiri, per la carica che esercitava (1). Ma dopo gli studii che 
raccolsi nel volume delle Notizie storiche della Città di Alcamo seguite dai Capitoli, 
Gabelle «e Privilegi della stessa città, e pubblicai nel 1876, non è più da dubitare 
che VAI Kamak musulmano esistette sempre dove è l’Alcamo presente, e che 
furono ben distinte la città del piano, al Kamak, al-Khams (beleda o mensil) e la 
terra Bonifati del monte così sotto gli arabi, come sotto i Normanni (2), gli Svevi 
e Aragonesi, fino a quando nel secolo XV la terra Bonifati venne meno, e i pochi 
abitanti si raccolsero certamente nella città del piano, del cui territorio fece 
parte il vecchio territorio del Bonifato. Ma se Ibn Djobair ci lasciò scritto che 
in Al-Kamach fu consolato di trovarsi in mezzo a suoi correligionarii, e la terra 
avea delle moschee e mercato, s'intende sempre della terra che oggi è l’Alcamo 
presente, è pur saputo che nel 1231, cioè quarantasette anni dopo che vi pas- 
sava Ibn Djobair, l’antica beleda musulmana era terra cristiana, sì che il Beato 
Angelo di Rieti compagno di San Francesco, vi fondava un convento di Frati 
francescani (8), se pure non si tiene come più antica, e del secolo stesso XII, 
secondo le tradizioni e gli scrittori municipali Alcamesi, l’antica chiesa, che fu 
parrocchiale, di S. Maria della Stella, consacrata da Goffredo Vescovo di Mazara 
nel 1313. La beleda, o mensil arabo, al Kamach, fu costituito da più borghi, che 
si distinsero sino a tempi recenti con nomi diversi; e però nessuna difficoltà 
che Ibn Djobair, si fosse fermato per la notte che vi passò in uno di quei bor- 
ghi abitato sovratutto da musulmani, quando negli altri borghi potevano abitare 
cristiani (4), nè dovevano questi esser pochi se fra pochi anni fu edificato tra 
loro un convento, e nel I270 vi si raccolsero, fuggendo la peste scoppiata in Tra- 
pani, i soldati francesi che ritornavano dall’impresa di Tunisi, cioè da una guerra 
impresa contro i musulmani di Africa. Giullo adunque poteva bene, siccome fu 
detto dall’Amari, trovarsi in Alcamo giovinetto e cristiano, quando nel 1184 vi 
passava Ibn-Djobair, sospirando alla vista delle nostre floridissime città e delle 


(1) V. Novairo, Storia di Sicilia nella Nuova Raccolta di scritture e documenti intorno alla 
dominazione degli Arabi in Sicilia, p. 283. Pal. 1854, e GregorIO, Rerum Arabicar. Ampla 
Collectio, p. 13, 44. Amari, Biblioteca Arabo-Sicula, v. 1, p. 183 “ Biùnifàt ,, Bonifato, p. 223 
“ Alqamah , Alcamo (sec. XII). 

(2) Vedi il diploma di Guglielmo II del 1182 detto il Zollo riportato dal Lo Giudice nei 
Privilegi ete. della Chiesa di Monreale, p. 14, e le nostre Notizie Storiche di Alcamo, p. 14-16. 

(3) V. Pirri, Sicilia Sacra, Not. Eccles. Mazar. VI. 

(4) L’Alkamah era dentro i confini che nel 1093 il Conte Rugero assegnava in diocesi a 
Stefano vescovo di Mazara, e rispondeva nel mezzo dei due confini nominati dal diploma, 
perchè posti nella linea del mare, cioè Calathamet (presso Castellamare) e Calathubi (vici- 
nissimo ad Alcamo da settentrione, e castello oggi abbandonato). Possiamo credere che an- 
che nell’Alkamah non ci fossero stati cristiani, siccome ne’ luoghi vicini ? 


492 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


bellezze naturali dell’Isola, che Dio l’avesse potuto ritornare ai musulmani e al 
culto del Profeta. Che se poi non potrà essere dell’età di Ciullo, la casa che in 
Alcamo si chiama per antica tradizione Casa di Ciullo, attesa la sua architettura, 
che non pare poter risalire, pur sotto i rifacimenti del secolo XVI, e i più re- 
centi di questi ultimi anni, più in su del secolo XV o XVI; non pertanto la tra- 
dizione prova qualcosa, cioè che Alcamo sola fra tutte le città di Sicilia sì è ri- 
tenuta patria del vecchio poeta, il quale poteva bene aver là, vicino al Castello, 
nel cui spiazzato di oggi fu una chitatella, fabbricata da Guarneri di Ventimiglia 
«davanti lu Castellu, in lu quali planu a suo principio eranu casi di Boni ho- 
mini di Alcamu, ed ora esti in tuttu disfacta» siccome si legge ne’ Capitoli del 
1398 (1); nè la creduta dalla tradizione è una bicocca, siccome piacque di chia- 
marla al De Bon, senza averla veduta, bensì una conveniente dimora con atrio, 
fonte, e scale, di ricca famiglia. 

Pertanto, se il componimento di Ciullo, appartiene per se stesso a un ciclo 
poetico anteriore alla scuola aulica di Federico; se la defensa è data come cosa 
nota dalle stesse Castituzioni del 1231, e però il poeta poteva ben conoscerla 
dalle antiche Consuetudini del Regno, nelle quali molte cose furono accettate 
dal diritto in vigore sotto i re Normanni, de’ quali Federico raccolse nelle sue 
le antiche Costituzioni che avevano forza di leggi del Regno (2); se gli agostari 
sì trovano nominati nelle Costituzioni stesse del 1231, quando anche non sì vo- 
glia che siano stati nominati nella Costituzione di Guglielmo, già prima di es- 
sere battuti nel dicembre di quell’anno, e del resto si sa dal cronista medesimo 
Riccardo che Federico coniò tarì nuovi, danari nuovi, e più volte gli imperiali 
nuovi, sì che potè coniare un agostaro nuovo; nè altro che questo si vuol dire 
dicendoci il Cronista: « Nummi aurei, qui Augustales vocantur, cuduntur » e « no- 
vam monetam qauri, quae augustalis vocatur,.... » del modo stesso come dice ta- 
reni novi, danari novi, stante chè l’agostaro di Federico non fu che riconiazione 
dell’antico agostaro o nummo aureo con diverso valore ; io non saprei intendere 
per quale ragione Ciullo non abbia potuto scrivere anteriormente al 1231, cioè 
sugli ultimi anni del secolo XII, e però si debba correggere l’a del verso, 


Se tanto aver donassimi quanto à lo Saladino, 


il quale moriva nel 1198; e così il Saladino debba esser preso come titolo e di- 
gnità, a guisa de’ Faraoni, e de’ Cesari, e non storicamente, come persona indi- 
vidua la fama del cui valore e delle cui ricchezze doveva essere molto sparsa in 
Sicilia. Non intenderò mai che ad altri trent’ anni e più, quanti ne sarebbero 





(1) V. Notizie storiche della Città di Alcamo, p. 49. 

(2) “ Falso quas nos Regni Constitutiones vocamus, Imperiales Constitutiones appellantur, 
nam hae non solum Friderici Imperatoris, sed et Rogerii, et utriusque Guilelmi leges com- 
plectuntur, » Testa, Capitula Regni Siciliae, proem. p. 4, t. I. Pan. 1741. 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 43 





passati da Saladino alla Cantilena di Ciullo, ritenuta posteriore al 1231, qualcuno 
potrà dire in Italia «non mi vinceresti, se pure avessi il valore che ha il re 
Vittorio Emanuele:» e porto questo esempio, perchè il Grion e il D'Ancona, ri- 
petendo, senza citarla, una opinione del Crescimbeni (1), vogliono che il nome 
di Saladino era restato popolare come il fondatore della potenza della dinastia 
degli Aiubiti «che da lui ebbe valore e nome (D’AnconA, p. 370)» e perehè il 
Bartoli ha creduto che per un a non si debba ancora stare in dubbio che Ciullo 
s’appartenga a’ tempi di Federico (2), siccome sostenne in favore del suo Fol- 
cacchiero il De Angelis contro del Tiraboschi , e de’ più antichi, i quali, com- 
preso anche il Crescimbeni, ritennero che « assai diversa dalla lingua purgatis- 
sima di Guido è la lingua rozzissima di Ciullo dal Camo, il quale, secondo l’Al- 
lacci, fiori negli ultimi anni del secolo precedente (3). » Il Contrasto di Ciullo, 
o signori, è anteriore alle Canzoni della Corte sveva, come anteriori saranno la 
defensa e l’agostaro alle Costituzioni di Federico; se in queste furono raccolte le 
sanzioni de’ re precedenti (4); Ciullo potè vivere sotto Federico, e fin dopo il 1231, 
se non morì giovane, ma il suo Canto è del tempo di Enrico Imperatore , sic- 
come abbiamo altrove sostenuto, e sostengono i nostri scrittori contemporanei, 
il Giudici, l’Amari, il Sanfilippo, il Vigo, il La Lumia, del quale Imperatore pare 
aver seguito le parti e le fazioni in Italia, se a segno di non temere del padre 
e de’ fratelli della donna, con baldanza rispondeva nei suoi infocati versi : 


Se i tuoi parenti trovanmi, e che mi posson fare? 
Viva, (o vive) lo Imperadore, graz’a Deo. 


Saranno arzigogoli, esagerate pretensioni di noi di Sicilia, che non sappiamo in- 
gollarci la portentosa applicazione del transformismo darwiniano al nome patrio 


(1) V. Istoria della Volgar Poesia, L. I, p. 3. Roma 1698. 
(2) € Io non mi lascierò mai indurre, dice in contrario il Pasquini, nell’opinione del Cre- 
scimbeni, il quale giudica insignificanti per assegnare il tempo della Canzone, le parole 


Se taut’aver donassimi quant’ha lo Saladino etc. , 


V. Del’unificazione della, lingua in Iltalia, Libri tre, L. 1°, pag. 44. Firenze 1869. 

(3) V. Cresciuseni, Comentariù intorno alla Istoria della Volgar Poesia, L. 1, c. IV. Ro- 
ma 1702. 

(4) L’Ancona opina (p. 333) che la invocazione del Papa, cioè la defensa che pur si trova 
nelle Costit. March. Anconit., posteriori alle Costituzioni Fridericiane del 1231, vi sia stata 
ammessa dalle Costituzioni Imperiali: ma io credo anzi che sia questo argomento che la 
defensa era cosa più antica delle Costituzioni di Melfi; chè non pare ammissibile che i Papi 
avessero accettata una creazione legislativa di Federico, mutando la invocazione dell’Impe- 
ratore in invocazione del Papa (ut per invocationem papae vel sui legati vel rectoris pro- 
vinciae se defendant, etc.), o del legato, o del rettore della provincia. Potevano. volentieri 
accettare una Costituzione normanna, ma non una disposizione di leggi sveve, ordinata da 
un principe ritenuto nemico della Chiesa. 


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44 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI 


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di Ciullo, il quale non sarebbe stato in principio secondo la scoverta del pro- 
fessore Caix che Iacomo pugliese, trasformato sotto la penna de’ copisti, per se- 
lezione grafica, in da Camo, sì che un nome proprio divenne a mano a mano una 
città di Sicilia, e si credette la Cantilena o Tenzone o Contrasto di origine sici- 
liana, quando nacque da bocca pugliese: ma noi ci tenghiamo tanto, quanto i 
nuovi tritici non siciliani tengono a togliere alla Sicilia la gloria di essersi u- 
sato prima in Palermo e in Messina il volgare illustre, che indi fu di tutta Ita- 
lia. E quando siffatti arzigogoli hanno l’autorità di Dante e di Petrarca, per non 
dire d’infiniti e di tutta la severa tradizione letteraria Italiana; quando negli 
studii recenti hanno l’ assenso di persone competentissime straniere, crediamo 
che debbano essere rispettati, nè far torto a nessuno se ci compiacciamo delle 
parole di Dante, e fra gli ultimi grandi Italiani, del Monti, il quale potè scri- 
vere senza passione: « siamo debitori ai siciliani, che di favella essendo greci 
essi stessi, agevolmente poterono dare al comune volgare romano le greche ter- 
minazioni, e fermare il principale carattere dell’Italico, e aver il vanto (che che 
si cianci in contrario) di esserne i veri fondatori. Sulle tracce de’ siciliani altri 
poi l’abbellirono e l’educarono a maggior civiltà e gentilezza, ma nol fondarono, 
non ne furono i padri (1); » se ripetiamo con un nostro storico: « fissare la 
forma grammaticale ed illustre, la forma che dovea farsi e restare nazionale e 
comune, sostituendola alle trivialità ed ai varii e peculiari caratteri del proprio 
e degli altri dialetti; tale fu dal 1150 al 1250 il compito di quei padri primitivi 
della poesia e della lingua » (2). 

E ora, o signori, è da dire, prima di conchiudere , del preteso provenzalismo 
de’ nostri antichi Rimatori, cioè del carattere della loro poesia. Il prof. Caix ha 
rinnovata la vecchia tesi del Crescimbeni, del Ginguenè, del Leo e del Faurviel, 
massime rispetto a Ciullo; e il Bartoli col Carducci e il D’Ovidio l’ha sostenuta 





(1) V. Proposta etc. I poeti de’ primi secoli della lingua Italiana. Pausa II, sc. 2. Il Cre- 
scimbeni, niente amico ai siciliani avvisa che i comentatori del Petrarca, esponendo il che 
fur già primi del Trionfo d’Amore, “ tutti concludono che i siciliani furon primi nel rimare, 
e furon poi superati dagl’Italiani, la qual sentenza, se non si dice, che i siciliani poetarono 
nella stessa lingua, che gl’ Italiani, ella apparisce data al bujo, perciocchè è contraria al 
testo del Petrarca, il quale tra i Poeti Italiani annovera anche i siciliani, e all’ erudizione, 
dalla quale abbiamo che pel decimoterzo secolo i siciliani componevano nella medesima 
lingua, colla quale adoperavano gl'Italiani. , E aggiunte altre ragioni conchiude: “ chiara- 
mente apparisce che i siciliani furono i primi, che poetarono volgarmente, cioè coll’ istessa 
Lingua, colla quale poscia poetarono gl’Italiani, il cantar dei quali anche in tempo di Dante 
si chiamava siciliano, come egli stesso afferma nel Trattato della Volgare Eloquenza.,» 
V. Comentarii intorno alla Storia della Volgar Poesia, vol. 1, pag. 2, 3. Roma 1702. Non du- 
bita poi il Crescimbeni, che sia un argomento di anteriorità questo “ che assai diversa dalla 
Lingua purgatissima di Guido è la Lingua rozzissima di Ciullo dal Camo, il quale, secondo 
l’Allacci, fiorì negli ultimi anni del secolo precedente (p. 11)., 

(2) V. La Lumia, Studii di Storia siciliana, v. 1, p. 227. Palermo 1870. 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 45 


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con molta sicurezza per tutti i Rimatori della scuola siciliana, i quali non sa- 
rebbero stati altro che tardivi imitatori della poesia Provenzale, la quale già de- 
clinava nel paese suo nativo (BartoLI, v. II, p. 162-63-64), quando i siciliani 
modellandosi sopra di essa, adoperavano una «arte schiettamente e nudamente 
provenzale (p. 165):» stantechè: « chi ponga a riscontro, dice il Bartoli, le poesie 
della scuola siciliana’ colle provenzali, troverà che quelle sono una imitazione 
di queste: imitazione che qualche volta si limita al concetto, e qualche altra 
giunse sino a copiare addirittura la frase (p. 162).» Sentenza che passa le pre- 
tensioni stesse del Crescimbeni, e de’ due critici e storici francesi, il Ginguenè 
e il Fauriel. Nella Tenzone o Contrasto di Ciullo il prof. Caix scorge una stu- 
diata imitazione o ripetizione delle Pastorelle francesi, con avviso contrario al 
D'Ancona e al Bartoli, che vi scorgono un esempio di poesia indigena, apparte- 
nente a una scuola anteriore a quella de’ poeti aulici di Federico: nel quale 
monumento di antica poesia il nostro Paolo Emiliani Giudici sin dal 1846 per 
«l’assoluta assenza dello spirito cavalleresco, del frasario della galanteria » avreb- 
be voluto stabilire il primo periodo dell’italica poesia; periodo che avrebbe un 
carattere veramente nazionale, appunto per la predetta dissomiglianza da’ com- 
ponimenti de’ provenzali, e per quella inartificiata venustà, la quale, fatta astra- 
zione di certe forme viete, di talune parole affatto disusate , di parecchie allu- 
sioni a cose già spente, varrebbe ben mille volte i carmi forbiti ed armoniosi 
de’ poeti di corte di Federico II (1).» Il prof. Caix l’ ha inteso diversamente. Il 
canto amebeo greco non poteva più continuare ad essere imitato in Sicilia, per- 
chè la lingua greca, ci dice, vi st spense: quando tutti sappiamo che città di 
greca favella durarono indomate fin settantanni dopo cominciato il dominio a- 
rabo nell’ isola, e sotto Rugero re ì vescovi sermonavano in greco, come greco 
all’entrare in Palermo trovò Rugero Duca l’arcivescovo Nicodemo, e in greco si 
scrivevano iscrizioni e diplomi sotto il regno Normanno fino agli Svevi. Onde 
meglio che dalle antiche tradizioni, l’esempio di canzoni a dialogo pel Caix venne 
dalla Provenza, ove si fermò nella Tenzone, imitata appunto dal canto di Ciullo, 
Se pure sia stato un siciliano. «I letterati siculi, segue a dire il prof. Caix, che 
considerano con troppa sicurezza la poesia come cosa loro propria, non si con- 
tentarono di esagerarne i pregi, e di trovarvi, con molte altre belle cose le im- 
magini « dell’araba poesia; » ma vollero farne un monumento del secolo XII, an- 
teriore ad ogni saggio volgare delle altre provincie, indizio di un risveglio let- 
terario indigeno che daterebbe dai Normanni » (2). Ma, secondo lui, « il contrasto 
avviene tra una fanciulla del contado ed un uomo di ragguardevole condizione, 
penetrato durante l’assenza de’ parenti, nella casa di lei per sedurla;.... la poesia 
di Ciullo per quanto singolare, non è unica nel suo genere :» e dopo averci 





(1) V. Florilegio dei Lirici più insigni d’Italia, Disc. p. 19, 20. Firenze 1846. 
(2) V. Ciullo d’Alcamo e gli imitatori delle romanze e pastorelle provenzali e francesi. II. 


46 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


ninni 








messo innanzi il tessuto di alcune Pastorelle e alcuni luoghi di esse riscontrati 
con passi del Contrasto di Ciullo, conchiude : Ognuno vede nelle pastorelle fran- 
cesi sia rappresentata la stessa scena, che nel Contrasto di Ciullo e in quelli 
affini di Osmano e di Ciaccio. È una scena di amore tra una villana e il poeta 
(almeno ne’ due primi) che cerca sedurla. Gli stessi argomenti, le stesse lusin- 
ghe nell’uomo, e le stesse arti e minacce nella donna. Lo scioglimento è pure, 
come in gran parte delle pastorelle , favorevole ai desiderii del poeta. La scena 
però è per Ciullo la casa della donna, non l’aperta campagna. Però anche nelle 
pastorelle francesi, e meglio poi nelle romanze, se n°ha esempio... Vi è un’altra 
differenza apparente da eliminare. Il cavaliere francese trova la pastorella nel- 
l’uscir fuori a cavallo per diporto; di ciò non è fatta aperta menzione in Ciullo, 
ma è detto che il poeta era passato la sera innanzi « correndo alla distesa, » che 
non avrebbe senso se non si supponesse il poeta a cavallo (III). » E come nella 
canzone italiana si raccolsero molti casi della romanza francese; « questo eclet- 
tismo poetico, segue il Caix, raggiunge il suo massimo grado in Ciullo, il quale 
raccoglie e intreccia parecchi de’ più notevoli episodii delle pastorelle francesi, 
senza poter naturalmente evitare l’oscurità e le incongruenze (V); » chè « Ciullo, 
non solo si attenne come i Provenzali, alla pura forma della tenzone, ma volle 
anche sforzarla alla rappresentazione di una scena piuttosto complessa, e riuscì 
molto più oscuro e confuso.» E però nel Contrasto ci sono tutte le reminiscenze 
della scuola, che ora è detta siculo-provenzale; e Ciullo è un poeta d’imitazione 
provenzale, non l’autore di un canto indigeno siciliano, che pel Caix dovrebbe 
piuttosto dirsi pugliese, perchè così sia spianata la via a trovare in Ciullo d’Al- 
camo il suo Jacomo, che fu pugliese, e di età più tarda del supposto poeta Al- 
camese. 

In questa quistione del pastorellismo del Contrasto e del provenzalismo e puglie- 
sismo di Ciullo, io., come siciliano, lascio meglio la parola ai non siciliani, e 
niente sospetti; chè, nè il Bartoli, nè il D’Ovidio hanno fatta buona al Caix que- 
sta imitazione provenzale del Contrasto di Ciullo, non vedutavi nemmeno dal 
Crescimbeni, da cui il prof. Caix pare avesse ereditato non il titolo di custode 
d’Arcadia, ma il suo filoprovenzalismo. 

Il Crescimbeni a provare quanto bene fecero i siciliani del dugento a togliere 
da’ Provenzali il modo di poetare in lingua volgare, porta l’argomento dei com- 
ponimenti «rozzi, sciocchi, ed affatto incolti (del tempo precedente alla imita- 
zione provenzale) come dimostra la cantilena di Ciullo da Camo, da Dante rifiu- 
tata come cosa vile e plebea » (1): e il Galvani stesso, il quale dice che gl’Ita- 
liani «non ebbero vere pastorette, » la /enzone provenzale, come il Contrasto di 
Ciullo fa derivare (così come il D'Ancona combattuto dal Caix) dall’antico canto 





(1) V. Comentarii intorno alla Istoria della Volgar Poesia, vol. 1, L. I, pag. 3 e 4. Ro- 
ma, 1702. 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 47 





amebeo , o dal canto alternato, « amant alterna Camoenae » (1) di Teocrito o di 
Virgilio, e prima dell’antichissimo Dafni: le pastorette poi somiglia alle antiche 
egloghe. « Le Pastorette, dice il dotto scrittore, non sono che un caro dialogo fra 
il Poeta, quasi sempre Cavaliere, e in ricche robe, ed una pastorella, per lo più 
pecoraja, che al ridosso della via per la quale passa il Trovatore cavalcando, 
pastura agnelli; oppure con un garzonetto pastore che si lamenta della sua in- 
namorata. Se così è, il Poeta gli dice ch'egli taccia, e si stimi felice ; egli lo è 
infatti poichè non sa come la sua donna sappia tormentare. Se accade poi con 
villanelle, egli le descrive così belline, e in atti così leggiadri, che sembra di- 
mentico della sua prima fiamma, ma vi si vede però un dire diverso; mentre la 
dama viene toccata con parlari eccessivi, ed appassionati, con colori artifiziosi e 
sublimi; queste sono semplicemente, e quasi senza passione veruna. La loro in- 
genua bellezza è manifestata non altro, ed elleno insomma non possono essere, 
che un breve disvagamento pel Trovatore troppo compreso e distretto dalla sua 
donna. Spesso colla contadinella si lamenta d’ amore, più spesso di ciò la ri- 
chiede, raro è che l’ottenga, quasi sempre ella negandolo dà via ad un dialogo 
stretto, ed espedito: si lamenta tal fiata la giovinetta che di rado venga a ve- 
derla, tal fiata essa dice ch’egli è troppo ricco, e che non ne potrà essere vera- 
mente riamata, che perciò non ardisce di amarlo, che se il Trovatore troppo vi- 
vamente la richiedesse di amore, nomina ella VP amata del Poeta, ed a questo 
nome niun altro amore gli può rimanere nell’animo » (2). Ora, quale riscontro 
tra questo componimento provenzale, secondo ce l’ha delineato il Galvani, e il 
famoso Contrasto di Ciullo, che noi siciliani ostinatamente diciamo siciliano e 
alcamese ? Oltre a ciò, ci si dice che il più in voce fra i Provenzali per le sue 
paslorette o pastorelle sia stato Giraldo Riquiero; e di costui si trova in alcuni 
manoscritti a testimonianza del Galvani, che la prima pastorella sulla Tosa sia 
del 1260, la seconda del I262, la terza del 1264, e la quarta del 1267 (3): sì che 
siamo dieci o diciassette anni dopo la morte di Federico, quando certamente 
nemmeno più viveva Ciullo d’Alcamo, se pur non ebbe vita secolare. Quanto poi 
avessero a fare le pastorelle di Giraldo Riquiero, e di Gavodano il vecchio e di 
altri, col Contrasto siciliano, è facile il vedere da questo che ci piace riferire di 
una delle più belle pastorelle di Giraldo: 


Gaya pastorelha Gaja pastorella 
Trobei l’autre dia Trovai l’altro dì 
En una ribeira In una riviera 
Que per cant la belha Che per caldo la bella 
Sos anhels tenia Suoi agnelli tenea 


(1) V. Osservazioni sulla Poesia de’ Trovateri, ete., p. 66-80-127. Mod. 1829. 
(2) V. Op. cit., XVII, p. 119. 
(3) V. Gavani, Op. cit., p. 123, 


48 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI 














Desots un ombreira : 
Un capelh fazia 

De flors, e sezia 

Sus en la fresqueira. 
Pessendey en guia 
Que s’amor volia 

En calque maneira; 
Ylh fon prezenteira, 
Sonet me primeira. 


Dis li: poiria 

De vos solatz traire, 
Pus m°’etz agradiva? 
Ylh dis que queria 
Amic de bon aire, 
Nueg e jorn pessiva. 
Toza, ses cor vaire, 
E senes estraire 


Di sotto un’ombria. 
Un capello facea 

Di fiori, e sedea 

Sù in la frescura, 
Discendei in guisa 
Che suo amor volea 
In qualche maniera. 
Ella fu presentissima 
Appellò me primiera. 


Dissi le: potrei 


Di voi solazzo trarre, 

Poi mi siete aggradevole? 
Ella disse che cercava 
Amico di bonaire 

Notte e giorno pensiva. 
Tosa, senza cuor vario 

E senza estrarre (1) 


M’auretz tan quan viva. 
Senher, be s pot faire etc. 


M'avrete tanto quanto viva. 
Signore, ben si puote fare etc. (2). 


E così «scorrendo le moltissime pastorelle raccolte dal Bartsch, sotto delle 
piccole e insignificanti varietà si trova costantemente lo stesso fondo » sì che 
per la diversità sostanziale del Contrasto i riscontri cercati non hanno agli occhi 
nostri, dice il Bartoli, il valore che ad essi vuole attribuire il prof. Caix » (3). 
Se non che il D’Ovidio ha oppugnato al Caix con lungo e dotto discorso questa 
imitazione pretesa in Ciullo sino alle parole, tranne quella del cavallo e del pa- 
store Robin delle Pastorelle, che mancano nel Contrasto siciliano ; e ha potuto 
conchiudere ; « possiamo dire interamente fallito il tentativo del Caix, di ricon- 
nettere il Contrasto di Ciullo colle Pastorelle francesi» e che «sien mere sue 
illusioni le coincidenze che egli ha creduto di scorgere tra il Contrasto di Ciullo 
e la Pastorella propriamente detta » (4). 

Intanto, se non si può sostenere per Ciullo, il cui Canto appartiene, si con- 
fessa, a un periodo di letteratura popolare anteriore alla scuola aulica di Fede- 
rico, la imitazione provenzale non può negarsi, si dice, negli altri Poeti Sici- 


(1) Così annota il Galvani: “ Ho voluto render la lettera, estraire è verbo, e vale allon- 
tanare, ritirare ecc. quì l’infinito fa le veci del sostantivo significando: e senza tormene più 
dall’amor vostro » p. 130. 

(2) V. Ganvani, Opera cit. p. 129-30. 

(3) V. Storia della Letteratura Italiana, 4, II, p. 134-145. 

(4) V. Saggi Critici cit. p. 487-488. 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 49 











liani del dugento; e rinnovando le opinioni e i giudizii del Crescimbeni, del Gin- 
guenè, del Leo, e del Fauriel, il Bartoli ha chiamato la scuola poetica della corte 
di Federico «Scuola Siculo-Provenzale; » e cominciando dalla Corte di Guglielmo, 
afferma come cosa provata (forse perché l’asserì il Fauriel) che «li buoni dici- 
tori in rima d’ogni condizione e li eccellentissimi cantatori » di Jacopo della 
Lana e del Buti, erano « poeti delle due lingue volgari che avevano già nel XII 
secolo una letteratura ampiamente sviluppata, cioè francese e provenzale: » fatto 
per nulla accennato dagli storici e scrittori contemporanei, da’ quali piuttosto 
si sa (e cita il passo lo stesso Bartoli) che Guglielmo fu ammaestrato nelle pri- 
mizie dell’arte de’ versi e nelle lettere da Gualtero Offamilio, inglese, e da Pietro 
di Blois, chiamato dalla regina Margherita per la educazione del figlio, non ot- 
tenne che il beneficio di più compiuta scienza (1); nè Ugone Falcando ci parla 
di poeti stranieri venuti alla Corte di Palermo sotto Guglielmo I, nè ci sono 
documenti che sotto i normanni e specialmente sotto Guglielmo II, di casa nor- 
manna, ma nato in Sicilia ed educato alle lingue officiali latina, greca ed araba, 
sia stato in Corte lingua officiale il francese, secondo che ha asserito il Fau- 
riel (2), per potere spiegare la testimonianza del Buti in favore dell’ influenza 
de’ Poeti provenzali in Sicilia. « Nel 1166, dice il Fauriel, sotto il regno di Gu- 
glielmo I, il francese era ancora l’idioma della Corte di Paiermo.... Dal 1166 al 
1189, sotto il regno di Guglielmo II, regno prospero e pacifico, vi furono a quel 
che sembra, alcuni inizii di cultura poetica alla corte di Palermo. Ciò almeno 
risulta dalla testimonianza di Francesco Buti, uno dei commentatori di Dante.... 
Quali erano questi eccellenti poeti di cui parla Francesco ? A qual nazione ap- 
partenevano ? in qual lingua scrivevano ? in siciliano (il Fauriel crede che « il 
neolatino del paese al secolo X doveva essere già siciliano »), in italiano, in pro- 
venzale, in francese ? A queste dimande nulla può rispondersi di positivo , ma 
“possono ammettersi due sole ipotesi. Se vi furono al secolo XII poesia e poeti 
in una Corte, dove il francese era la lingua officiale , bisognava delle due cose 
l’una, o che questa poesia fosse in lingua francese, o che fosse 1’ unica poesia 
allora conosciuta ed in voga fuor de’ paesi in cui era nata, cioè la poesia pro- 


venzale. Non è verisimile il credere che questa poesia fosse in lingua siciliana, 





(1) Pietro de Blois ci fa sapere come siano stati obbligati duramente gli stranieri che si 
trovavano in Corte, a lasciare la Sicilia, fra quali egli che pur era stato per un anno pre- 
cettore del Re: e invitava i pochi restati in Sicilia a fuggire una terra, che ricordava con 
odio, anzi che persuadersi egli a ritornarvi. Ricorda pertanto con dolore ed orrore: “ Tri- 
ginta et septem animae cum Domino Stephano Siciliam sunt ingressae, omnesque in morte 
comprensi sunt, practer me et magistrum Rogerium Normannum , virum litteratum, indu- 
strium et modestum , Epist. ad Richard. Syracus. Episcop. presso Caruso, Biblioth. Sicula, 
t. I, p. 492. Pan. 1723. E però non mi pare tempo di Provenzali alla Corte di Guglielmo II, 
e molto meno di Tancredi, e di Errico Imperatore. 

(2) Leggasi in contrario Amari, Storia dei Musulm. di Sicilia, v. LI, L. VI, e. V. 


50 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


o italiana » (1). Ho dovuto riferire, o signori, tutto il passo sul proposito dello 
scrittore francese, a far notare come la sua ipotesi che alla Corte di Guglielmo 
ci sia stata poesia francese , o provenzale, sia fondata sopra un’ asserzione, che 
nessuna testimonianza storica o documento sostiene, cioè che alla Corte di Pa- 
lermo si parlasse allora il francese; quando gli atti pubblici si scrivevano o in 
greco, o in latino o in arabo, o trilingui, e radunandovisi tanta gente di paesi 
diversi di Europa e di Oriente, latini, greci, ebrei, arabi, cavalieri normanni, e 
uomini di arte e di scienza, inglesi, tedeschi, francesi, italiani, non poteva par- 
larvisi che il latino, siccome nell’ amministrazione della Casa Regia dovette es- 
servi in uso l’arabo, essendo per lo più, come per la pubblica finanza (2), arabi 
gli ufficiali che vi sopraintendevano (3). Ricorda il Fauriel molti de’ dotti Pro- 
venzali alle corti de’ signori Italiani del 1162 fin verso il 1265; e nota la dimora 
in Italia di Bernardo di Ventadorno, di Cadenetto, di Rambaldo di Vagheira, e di 
Pietro Vidale, i quali non scesero nel mezzogiorno d’Italia; nè cita altro che Gu- 
glielmo Figueira, come uno de’ poeti provenzali accolti alla Corte di Federico (4). 
Nessun provenzale si conosce con certezza storica essere stato alla Corte Nor- 
manna, anzi se diamo fede alle Vite dei Poeti Provenzali scritte da Giovanni di 
Nostra Dama, tradotte dal Crescimbeni, e poste innanzi al volume secondo dei 
suoi Comentarii, nè anco Guglielmo Figueira , che visse secondo fu scritto dal 
Nostradamus, «al tempo che la Sede Pontificia fu trasportata in Avignone » (5) 
cioè nel 1303, poteva essere stato accolto alla corte di Federico, o essersi rifu- 
giato, secondo il Bartoli, pe’ suoi « terribili serventesi contro il papato » alla 
corte palermitana (pag. 159). » Il Millot, autore della storia letteraria de’ Trova- 
dori pubblicata in Parigi nel 1774, nota che Folchetto di Romans sia anch'egli 
stato alla corte di Federico II, come a quella del marchese di Monferrato, e del 
signor del Carretto (6), argomentandolo dalle Cobole di Ugo di, Bersiè scritte a 
Folchetto, mentre dimorava di là dal mare. Ma questo Folchetlo di Romans nella 
Giunta alle Vite de’ Poeti Provenzali del Nostradamus fatta dal Crescimbeni sopra 
notizie «cavate dai Mss. Vaticani, e altronde » si dice fiorito in tempo del Poeta 





(1) V. FaurieL, Dante e le origini della lingua e Letter. Ital. IX Lezione, Scuola Siciliana, 
vol. 1, p. 247, 248. Pal. 1856. 

(2) La Lumia, La Sicilia sotto Guglielmo il buono, c. I e II 

(3) Ibn Diobair ci fa sapere nel suo Viaggio che le ancelle del palazzo anche sotto il se- 
condo Guglielmo erano tutte musulmane, e musulmano il sovrintendente all’opificio regio 
delle seterie , tanto che ne’ momenti del tremuoto del 1170 le donne e i paggi musulmani 
invocavano dentro il Palazzo di Palermo Allah e il suo Profeta, senza che dal re ne fos- 
sero impediti. Tutti e due i Guglielmi usarono per divisa, alamah, una sentenza in arabo, 
come se fossero principi musulmani. 

(4) V. FaurIEL, op. cit., VII Lezione, v. 1, p. 200-207. 

(5) V. Comentarti ete. v. II, P. 1, p. 112. 

(6) V. presso Tirasoscni, Stor. della Letter. Ital. t. IV, p. 521. Milano 1823. 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA ol 
Blancasso (p. 198), il quale nelle Vite del Nostradamus si fa fiorire «al tempo 
di Carlo II re di Napoli e Conte di Provenza, col quale egli andò all’ acquisto 
del Regno (p. 131) » e si fa morire intorno all’anno 1300, cioè mezzo secolo dopo 
di Federico ; sì che la sua dimora alla corte di Federico riesce poco probabile 
cronologicamente (1), o forse al più non fu che colla Crociata di Federico in 0- 
riente, non già in Sicilia. 
Nel libro delle Cento Novelle o Novellino leggiamo (nov. 20 o 17) di Federico, , 
che la gente che avea bontade veniva a lui da tutte le parti.... Trovatori, sona- 
tori, e belli parlatori, huomini d’arti, giostratori, schermitori, d’ogni maniera 
genti:» ma sono sottosopra le stesse parole che nel Buti si leggono dette di re 
Guglielmo e della sua Uorte, cioè: « quivi erano li buoni dicitori in rima d’ogni 
conditione; e quivi erano gli excellentissimi cantatori, quivi erano persone d’ogni 
solazzo, che si può pensare, virtudioso et honesto (c. XX Purgat.);» e nessuna 
testimonianza precisa ci danno di Poeti Provenzali o stranieri alla corte nor- 
manna o sveva. Gl’Italiani che poetarono in provenzale o non vennero nel mez- 
zogiorno, ovvero dimorarono alla corte angioina di Napoli; come Messer Miglior 
degli Abati di Firenze, e il genovese Percivalle Doria, che fu « governatore e po- 
«destà di Avignone e di Arly per Carlo I re di Sicilia, » poeta di spiriti guelfi, e 
autore di un canto contro Manfredi; e morto a Napoli nel 1276 (2). Poi, già è 
notato dal Bartoli che « nell’ Italia nordica i trovatori accorrono direttamente 
dalla Provenza, e sembra loro di ritrovarvi un’altra patria: affini i dialetti alla 
loro lingua, le stesse piccole Corti feudali, continue le relazioni fra i due paesi, 
non dissimile la natura degli abitanti, il clima, gli usi. Invece minori tutte 
queste affinità tra la Provenza e la Sicilia. Quivi altre genti, più calde, d’imma- 
ginazione più fervida, che hanno qualche cosa del greco e dell’arabo. Quivi una 
| gran Corte, una corte di dotti, a capo de’ quali sta il grande incredulo del se- 
colo XIII.... E quivi che cosa trovano i poeti della Provenza? Trovano un idioma 
armonioso, ampiamente vocalizzato, sonoro, parlato da un popolo di subite pas- 
sioni, dai gesti animati, dalla parola abbondante, facile, che sgorga con impeto 
dalle labbra; un idioma che il popolo adopera già ne’ suoi canti, di cui riempie 

_l campi e le vie cittadine; un idioma che si è fatto strada alla Corte, che qual- 
che poeta ha già tentato di ripolire nel suo verso (Op. cit. t. II, p. 160-61). » 
E intanto l’erudito storico della letteratura italiana, dopo questa premessa che 
dovrebbe a tutt’altro concludere, ci dice che le poesie della scuola siciliana sono 
imitazione sino a copiare addirittura la frase, oltre il concetto, delle poesie pro- 
venzali: ci dice che il Notar Giacomo verseggiò sulla falsariga di Perdigon d’Al- 


(1) La storia de’ poeti provenzali è molto confusa, e il Tiraboschi già notava inverosi- 
miglianze e sbagli storici, non solo nel Nostradamus, ma pur nel Millot, seguito dal Cre- 
scimbeni, e dal Quadrio. Assai più accurati sono gli scrittori del nostro secolo francesi o 
tedeschi. 

(2) V. TrraBoscai, Storia della Letterat. Ital., t. IV, p. 528, 


hi 


52 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 








vergna, che Stefano di Pronto (?) copiò Riccardo di Barbezieu, Guido delle Co- 
lonne imitò Gaucelmo Faidit, Pier delle Vigne Pons de Capduelh, Jacopo da Len- 
tino Bernardo di Ventadorn, e lo stesso Federico il Faidit. «Insomma V’arte dei 
poeti della scuola che si formò in Sicilia attorno a Federico II, è arte schietta- 
mente e nudamente provenzale. Essi non muovono un passo al di fuori delle 
teorie cavalleresche; non hanno una individualità loro propria ; calcano rigida- 
mente le orme della scuola poetica di Provenza (p. 165)». La Sicilia è una se- 
conda Provenza; quando ci si è fatto sapere la poca affinità tra la Provenza e la 
Sicilia; quando ci si è detto che qui le genti, le imaginazioni avevano qualche 
cosa del greco e dell’arabo, un idioma armonioso, adoperato dal popolo ne’ suoi 
canti, salito sino in Corte, e certamente non per essere allora scritto ne’ diplomi 
e negli atti de’ Parlamenti, ma per servire ai canti e alle gajezze letterarie della 
Corte! Io non intendo affatto, o signori, tutto questo, tranne il caso che nessuna 
coltura fosse stata sino alla pretesa venuta de’ Provenzali in Sicilia, e la sua 
Corte fosse stata Corte feudale di qualche Signore longobardo, e non Corte regia e 
imperiale succeduta alla coltura e allo splendore orientale degli Emiri, i quali se 
avevano in Palermo trecento moschee in cui s’insegnava la scienza musulmana, 
non impedivano che monaci e presbiteri di rito greco componessero inni sacri 
ed omelie greche, tanto che appena posate le armi i due primi Guiscardi, e indi 
il primo re Rugero, non altrimenti scrissero i loro decreti che nel greco tuttavia 
vivo nelle popolazioni dell’Isola, ovvero nel latino e nell’arabo, che vi si parla- 
vano insieme a un volgare plebeo, che pur di quando in quando comparisce 
nel mezzo delle voci e delle frasi de’ tre linguaggi officiali, ed indica quello che 
più difficilmente si mula cioè la contrada, e il confine dei luoghi, o i nomi di 
persone e i cognomi di famiglie. In Palermo, città trilingue, (1) sotto i Normanni 
e gli Svevi fu una coltura letteraria e scientifica superiore per le sue tradizioni 
a quella della Provenza, e i dottori siciliani che tuttavia sentivano giungere al 
loro orecchio le modulazioni arabe, non cessate sotto Federico che pur volle che 
i sudditi musulmani non dimenticassero la loro lingua materna, disponendo 
che maestri greci e giudei insegnassero la lingua araba ai fanciulli arabi nati 
in Sicilia (2); e come Federico oltre il latino sapeva il francese, il greco e l’a- 
rabo, così non pochi siciliani parlavano anch'essi l’arabo, e dall’arabo e dal greco 
voltavano in latino opere mediche e filosofiche; col canto rimato latino e il dolce 
verso greco, non avevan bisogno per rimare la favella che veniva ammessa in 
Corte d’imparare da’ Provenzali l’arte del verso, le imagini, il suono o il conte- 





(1) Così la chiamava Pietro d’Eboli verso la fine dei secolo XII : 
Urbs foelix populo dotata trilinqui. 


E Palermo, se non la popolazione trilingue, ritenne sempre il titolo di città felice. 
(2) V. HuinLarp-BrenoLLES Introduct. è l’histoire diplomatig. de Frédéric Il, p. DXL. 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 53 





n 


nuto delle loro canzoni, cioè l’amore. Quando prima della Corte Sveva si ha una 
poesia popolare e una coltura tale della favella volgare, da potersi bene riferire 
ad essa il Contrasto di Ciullo, non credo affatto ci sia bisogno di andare sulla 
falsariga della poesia di un altro popolo, inferiore per coltura e per splendore 
di civiltà e di stato, perchè si possan avere de’ componimenti poetici in una 
lingua che già è sulla bocca del popolo, siccome si scorge dai diplomi sparsi di 
voci volgari (1), e non aspettava che l’arte, per pigliare forma illustre sulle lab- 
bra dei dottori. Io non dico con questo che i siciliani non ebbero notizia dei 
Provenzali, e che forse qualcuno di questi non potè trovarsi o alla Corte Nor- 
manna, o alla Sveva di Palermo; ma è tutt’altro il dire che i Poeti di Federico 
non sono che schiettamente e nudamente imitatori de’ provenzali, de’ quali calcano 
rigidamente le orme, sì che «tutti quei difetti che già si trovano nella poesia 
provenzale si ripetono esagerati, ingigantiti nella poesia sicula (p. 108) » o nella 
scuola poetica siculo-provenzale, siccome la chiama il Bartoli. 

Il Ginguenè, che dopo il Quadrio, così come il Villemain pur riconosce nei 
Provenzali argomenti e forme della poesia degli Arabi, vuole che da’ Provenzali 
avessero i siciliani appreso l’ arte di poetare nella favella italica, e il Leo ne 


(1) Colgo qui l’occasione di notare su questo proposito del volgare usato in Sicilia già 
sotto i Normanni, e chiaro e netto in molti luoghi di diplomi greci e latini del secolo XI 
e XII, quanto segue: 

Il prof. Ed. Boehmer venuto in Palermo, volle esaminare le pergamene greche dell’ Ar- 
chivio della Cattedrale di Palermo coi transunti in volgare, che per diversi giudizi si son 
riferiti alla prima metà del secolo XII, cioè al regno di Rugero re, e per qualcuno sono 
stati materia di dubbi proponendosi uno studio accurato della grafia, e un esame di fatto 
delle ragioni che fecero credere al Morso, essere il transunto volgare sincrono all’atto greco 
“o certamente d’antichissima data, e dell’inizio della Jingua volgare (Morso, Palermo antico, 
pag. 407). , Il Boehmer raffrontando i caratteri con una traduzione dell’arabo fatta fare a 
Xamet Mindininj ambasciatore arabo nel 1506, e rilevando la trascrizione in fotografia (*#), 
ha trovito che il transunto volgare dei due atti greci è dello stesso carattere della tradu- 
zione del 1506: e però la creduta antichità di quei due transunti in volgare del secolo XII 
non può più essere sostenuta. E in vero che i caratteri siano gli stessi non è a dubitare; 
ma la lingua usata ne’ transunti non risponde alla lingua di altre scritture dei principi del 
secolo XVI, anzi vemmeno a quella di un secolo innanzi e più. Nel volume primo Filologia 
e Letteratura siciliana, p. 2517-58, io ripubblicai i due transunti secondo la lezione del Morso, 
e nello stesso volume vi sono documenti volgari in prosa degli ultimi del trecento alla fine 
del quattrocento, senza dire delle prose della fine del duecento e prima metà del trecento 
pubblicate e nel volume delle Cronache siciliane dei secoli XIII, XIV e XV (Bologna 1865), 
e nell’opera citata; il raffronto colle quali scritture fa dire che il volgare de’ transunti in 
parola sembra assai più antico. 

Chi avrà sott'occhio i testi citati darà da sè il giudizio. 


(#) V. Eomonische Studien herausgegeben von En. Bonner, haft. X, pagine 159-162. Stras- 
sburg etc. 1878. 


54 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI 





trova la spiegazione nell’essere stata madre di Rugero re Adelaide, nata marchesa 
di Monferrato , la cui corte frequentavano i trovatori di Provenza, siccome ben 
si sa di Bernardo di Ventadorn, che dimorato alla corte di Bonifacio, passò collo 
stesso in Terrasanta, e lì periva insieme col valoroso Marchese. Ma quest’ în- 
fluenza provenzale in Sicilia, fu assai minore, secondo lo stesso Leo, delle altre 
parti d’Italia, ove pur si poetò in provenzale, sì che i Siciliani, per natura spe- 
ciale del paese, si appropriarono l’arte straniera e tosto ne fecero una cosa loro 
propria ed indigena. Anche nel Leo ci è un po’ d’imbarazzo a trovare proven- 
zali in Sicilia, e a spiegare come nel resto dell’Italia la poesia provenzale è col- 
tivata nella lingua stessa straniera, quando in Sicilia le canzoni che si vogliono 
prettamente imitate da’ provenzali usano il volgare siculo, che più tardi si disse 
italico, e tosto fanno dimenticare, imitandole bolognesi e toscani, le rime Pro- 
venzali, creando una nazionale poesia e con essa la letteratura Italiana. 

Si dice poi che Rubert da Bec Crespin espulso da Guglielmo il Conquistatore, 
fu in Sicilia a visitare i suoi concittadini. e trovò nella Reggia di Palermo canti 
e suoni, arpî e viole (1), il che avvenendo prima che fossero saliti in fama i Pro- 
venzali, è testimonianza che già alla Corte Normanna di Sicilia sì coltivasse una 
poesia non provenzale, bensì io credo di differenti linguaggi, cioè latina, araba, 
e volgare, onde usci appunto un po’ adulta la poesia volgare della scuola aulica 
del regno Svevo. 

Se non che questo argomento che riguarda la influenza de’ poeti Provenzali 
sopra i poeti Siciliani del primo secolo della nostra letteratura, è stato larga- 
mente e dottamente trattato da’ nostri scrittori di storia patria, il Palmeri e La 
Lumia, e da’ due che hanno dato due pregevoli storie della Letteratura Italiana, 
il Giudici e il Sanfilippo, il quale specialmente vi dedica gran parte del Libro 
primo della sua Storia esaminando con molto acume le opinioni del Ginguenè, 
del Leo, e del Villemain sul proposito (2). E però io mi rimetto alle opere loro, 
le quali avrei voluto fossero state meglio consultate dagli scrittori non siciliani, che 
sostengono la tesi contraria sia rispetto al tempo e all’uso del volgare in Sicilia, 
sia rispetto al provenzalismo della scuola poetica siciliana. Solamente aggiungo 
che a detta del Fauriel taluni generi di poesia lirica usati da’ Provenzali sem- 
brano non essere altro che imitazione dello stesso genere di poesia usato dagli 
Arabi di Andalusia; sì che tra la maouhasco araba e la canzon amorosa del tro- 
valore provenzale c° è molta rassomiglianza non solo nel fondo, ma pur nella 
forma (di coppie simmetriche); ed è difficile non riconoscere nelle ispirazioni 
dei trovatori « un qualche leggero soffio delle ispirazioni degli arabi:» che anzi 
uno de’ generi lirici de’ trovatori, di cui è maggiormente probabile avere i Pro- 





(1) V. Giupici, op. cit. v. 1. 
(2) V. PaLmeri, Somma della Storia di Sicilia, e. XXVIII. — La Luma, Storia della Sicilia 


sotto Guglielmo il buono. — Grupici, Storia della Letteratura Italiana, v. 1.— SanFILIPPO, Storia 
della Letteratura Italiana, v. 1. Palermo 1859. 








E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 55 





venzali presa la forma generale degli arabi, è quello delle fenzoni (1). » Ora se 
Ciullo e i siciliani avevano in casa propria l’esempio della tenzone e della can- 
zone di amore araba nella poesia degli arabi di Sicilia, favorita pur alla corte, 
mezzo musulmana, de’ re normanni e svevi di Sicilia, «ai quali, dice l’Amari, 
forse avvenne d’ascoltare lo stesso giorno de’ poeti arabi e de’ poeti siciliani, e 
di largire agli uni come agli altri una manata di tarì d’oro (2),» perchè debba 
dirsi che i siciliani imitavano da’ Provenzali che l’ avevano appreso dagli arabi 
di Spagna, quello che non era estraneo al loro paese, e si doveva più che in 
altro conservare nella. poesia popolare, colla quale la nobile e illustre ha sempre 
attinenze? I Provenzali poterono bene portare la loro arte nell’ Italia superiore 
e media; ma per la Sicilia non c’era questo bisogno, quando il zezel e le Kaside 
arabe de’ poeti musulmani di Butera e di Trapani, celebravano pur i Normanni 
e i palagî vittoriosi di Palermo, e i giardini ne’ quali torna ridente îl mondo, e le 
fonti co’ lioni che buttan acque di paradiso, e le arance mature dell’isola che sembran 
fuoco che arda su rami di cristallo, e le palme de’ due mari di Palermo, alle quali 
il poeta innamorato dice: « o palme de’ due mari di Palermo! che vi rinfreschino 
continue, non interrotte mai, copiose rugiade : godete la presente fortuna, con- 
seguite ogni desio, e che dorman sempre le avversità! »; siccome altro poeta mu- 
sulmano di Mehdin, Ibn Bescrùn, esclamava in lode di re Ruggero in altra Ka- 
rida di riscontro a quella di Abd-er-Rahman di Butera: « Evviva la Mansuria, 
tutta splendente di bellezza, col suo castello saldissimo di struttura, elegante di 
forma; con le eccelse logge... Che qui s’innalzi (sempre) in sua gloria Ruggiero, 
re de’ cesarei. E goda lungamente le dolcezze della vita, ne’ ritrovi che fan suo 
diletto (3) ». 

Fra la scuola siciliana e la provenzale ci sono è vero molte rassomiglianze, e 
trovatori provenzali e poeti siciliani poterono trovarsi insieme alla Corte di Pa- 
lermo: ma la rassomiglianza viene sovratutto dalla rassomiglianza e parentela 
di tutte le lingue neolatine o romanze fra loro, siano anche stati antichi vol- 
gari latini, che in quel periodo di tempo s’innalzavano a lingue letterarie; e tra 
provenzali e siciliani particolarmente da quel soffio d'ispirazione o d’intonazione 
araba che passava nel loro canto volgare pel contatto degli arabi delle due parti 
di Europa, la Spagna e la Sicilia, ove la letteratura araba non si estinse sotto 
i Normanni, e popolazioni interamente arabe vi durarono per tutto il regno 
degli Svevi. A differenza poi de’ Provenzali, per le diverse condizioni storiche, 
noi non abbiamo in Sicilia nè la canzone cavalleresca, nè il romanzo proven- 





(1) V. Histoire de la Poesie Provengale etc. t. III, p. 335-36. Paris 1846. 

(2) L’Amari nota che “legame tra le poesie neolatine e le arabiche sembrano i metri 
delle morvascehe e de’ zegel ,. V. Storia de’ Musulmani di Sicilia, v. II, p. 889 e 890. (Fi- 
renze 1872). E più sopra parlando di questi componimenti Mowascehdt e Azgial, riferisce 
una ballata, zegel, di un poeta arabo siciliano dei secolo duodecimo (v. III, p. 742-743). 

(3) V. Amari, op. cit., v. III, p. 746-761. 


56 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


zale, francese, inglese o tedesco (1), perocchè non avemmo cavalleria, e l’epica 
fu trattata nel latino del tempo, che ricordava la tradizione classica, riuscendo 
intanto più storia narrata in metro che poesia con macchina eroica, quella che 


fu scritta per volontà de’ due Ruggeri da Goffredo Malaterra ne’ versi frammisti 


alla sua Storia della Conquista, e da Guglielmo Appulo nel poema de’ Fatti dei 
Normanni in Puglia, Campania, Calabria e Sicilia (2). Solamente l’amore si sfo- 
gava nel linguaggio volgare e nella canzone dell’arte novella, la quale nella rima 
seguiva l’ elegia latina e gli epitalamii per la morte e la nascita dei Principi e 
dei Re, al che non si reputava degno il linguaggio volgare; della guisa stessa 
che più tardi il Petrarca cantò di amore in rime volgari, ma il poema dell’A- 
frica, onde si prometteva fama immortale scrisse nel verso eroico latino. Che se 
poi si considera che sulla fine del secolo duodecimo Raimbaldo da Vaqueiras 
componeva il suo famoso descort in più lingue, fra le quali l’italiana; e che 
sulla fine dello stesso secolo fiorivano Gaucelm Faydit, ed Ugues de Bersie e 
Folquet de Romans, i quali pare tutti e due essersi trovati nella Crociata di Fe- 
derico II (3), questi illustri provenzali anche maestri poterono esser compagni 
a qualcuno dei nostri, che seguiva l’Imperatore in Oriente, siccome pare di Rug- 
gerone da Palermo, leggendo la canzone sotto il suo nome che fu dettata dopo 
il ritorno da Soria, ove aveva lasciata la sua donna. E però se bene è detto dal 
Fauriel che le prime poesie italiane scritte uscirono dalla Sicilia, benchè non 
si sappia persuadere come siano state scritte in un volgare che ancora non aveva 
supremazia letteraria in Italia, qual fu il volgare detto toscano (4), non ci par 





(1) Federico era lieto di aver potuto avere pel mezzo del Secreto di Messina il romanzo 
intitolato Palamedes, appartenuto a maestro Giovanni Romanzori; il quale romanzo crede 
l’Huillard-Bréholles essere stato quello “intitulè aujourd’ hui Guiron le Courtois s. V. In- 
troduct. à Vhist. diplomat. de Fredéric II, p. DXLII. 

(2) V. Caruso, Biblioth. histor. Sicula, t. l, p. 87 e 159. 

(3) Si attribuiscono meglio al Barbarossa, che al nostro Federico, i versi provenzali che 
vanno sotto il nome di Federico Imperatore, e si credono composti nel 1154 in Torino. Abzi 
l’Huillard Brèholles fa questa domanda: € Frédéric II éerivit-il aussi dans l’idiome du Lan- 
guedoc et de la Provence ? L’authenticité des pièces en langue romane qui loi sont attre- 
buges est-elle bien établie ? C’est ce que nous n’oserions décider d’après les monuments 
fort altérés qui nous restent ,. (V. Introduct. è l’histoire diplomatiq. de V Empereur Prédérie II 
p. DXLI). Probabilmente Enzo e Manfredi poetarono eziandio in provenzale; ma nulla ci è 
restato di questi componimenti in lingua straniera, che se furono, dovettero essere ben po- 
chi; benchè di Enzo dica il Diez di essere stato uno de’ migliori trovatori del suo tempo, 
e in molta fama certo di poeta, se il Salimbeni il dice cantionum inventor, (cit. dall’Haillard- 
Bréholles. Op. cit. p. DXLIII). 

(4) V. FaurIeL, op. cit. t. III, p. 297. Avrebbe dovuto avvertire il dotto professore fran- 
cese che quel volgare illustre allora usato da’ Poeti della Corte di Federico non si era 
chiamato ancora toscano, bensì era detto siciliano dagli stessi Toscani, come Dante; ed era 
appunto il siciliano illustre superiore al volgare plebeo, che restò in linguaggio dialettale 
dell’Isola. 


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DÀ: 





E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA D7 








detto ugualmente bene che questi saggi di poesia italiana, cominciati in Sicilia 
erano non altro che imitazioni de’ canti provenzali, rozze e servili, e fatte a sop- 
piantare in Italia la poesia straniera donde appunto derivavano (1): e ciò perchè 
la scuola siciliana a cominciare da Ciullo, è contemporanea ai più illustri tro- 
vatori provenzali, che uscirono o furono noti fuori di Provenza. Nè si può con- 
cedere che in Sicilia quanto a lingua ci sia stata una letteratura normanno- 
sicula, della maniera come ci fu in Inghilterra l’anglo-normanna, attesa la in- 
feriorità in coltura de’ normanni che venivano di fuori, ai siciliani, greci, latini, 
o arabi, ch’erano eredi di un’antica coltura, la quale non lasciò mai l’Isola bar- 
bara. Bisantini, latini e arabi composero sotto i normanni quella coltura spe- 
ciale siciliana, che tuttora ci è manifesta da monumenti d’arte che ci restano, 
come la Chiesa dell’Ammiraglio, la Cappella Palatina, il Duomo di Palermo e 
l’altro di Monreale, ne’ quali ti vedi raccolte tre arti o tre civiltà composte in 
una, che chiami arte siciliana del secolo duodecimo, uscita da mani bizantine, 
latine ed arabe, non senza l’ajuto qualche volta, come nelle ‘porte di bronzo di 
Monreale, dell’arte italiana. Fu per questo che se nell’Italia superiore si poetò in 
provenzale da trovatori Italiani, nessuno de’ Poeti siciliani scrisse nella lingua 
de’ provenzali, e la poesia che corre sotto nome di Federico Imperatore va piut- 
tosto riferita dai più al primo Federico che al secondo, figlio della siciliana Co- 
stanza. Si vogliono i Siciliani imitatori de’ Provenzali ne’ componimenti poetici, 
ma non si dicono imitatori de’ Provenzali quanto all’uso che fecero di un vol- 
gare nobile invece del dialettale, siccome fecero appunto i Provenzali per la 
lingua da loro usata; la quale era totalmente separata, dice il Fauriel, da’ dialetti 
parlati dalle popolazioni, era una lingua letteraria (2), diversa dalla plebea ; del 
modo stesso come il volgare nobile, aulico , cortigiano usato da’ Poeti siciliani, 
fu diverso dal volgare plebeo, tanto, quanto è diverso nei modi e negli abiti il 
cittadino dal campagnolo, il popolano dal signore, benchè appartenenti alla stessa 
nazione e abitanti lo stesso paese. E come le popolazioni di una medesima re- 
gione, benchè usino accento diverso nella parlata, e spesso voci speciali e forme 
locali, non sono pertanto che popolazioni appartenenti alla stessa nazione, così 
i volgari usati da’ primi che ne fecero lingue scritte, cvvero un volgare innal- 
zato a lingua illustre sopra le parlate plebee di una regione, si somigliano tutti 
nelle fattezze, atteso aver l’origine nello stesso sangue, sì che si vede sul vol- 
gare illustre e le parlate plebee l’aria della stessa famiglia e i lineamenti dello 
stesso padre. Onde quel credere che in certi componimenti, come nel Contrasto 
di Ciullo ci sia « miscidanza » di parlate diverse italiane; quando non c’è che la 
forma primitiva di uno de’ volgari italici, che forse riteneva più che altri del- 
l’antico italico, sì che fu facile a poeti nati in Sicilia o accorsi nell’ Isola , dal 


(1) V. FaurizL, op. cit, t. I, p. 49. 
(2) V. FaurieL, Hist. de la Poésie Provengale ecc. t. III, ch. XXXIX, p. 277. 


58 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


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volgare plebeo levarsi all’ uso di un volgare illustre; il quale, indi a poco per 
opera principale degli scrittori toscani, fu lingua di tutta Italia, « totius Ita- 
liae » e forma nobilissima del pensiero novello e della seconda civiltà del Bel 
Paese (1). 

Epperò quale letteratura straniera, ovvero quale poesia provenzale doveva in 
Sicilia essere soppiantata dai Poeti siciliani, che cantavano i primi nel volgare 
italiano? Meno la cavalleria, siccome è stato detto, la Sicilia era nelle stesse 
condizioni che fecero nascere in Provenza la novella poesia nel volgare romanzo 
dei trovatori; e non occorreva che fosse giunta a vecchiaja la poesia provenzale 
perchè la scuola siciliana si appigliasse a un arte decrepita, s’ animasse di uno 
spirito oramai vecchio e agonizzante, nè avesse altro merito che « un repertorio 
di frasi » così che « levata la frase non trovate più nulla (BARTOLI, op. cit. t. IL 
pag. 166-167). » È vero che il prof. Bartoli quasi correggendo le parole citate, 
indi soggiunge a pag. 172 del suo libro, che mentre i poeti della scuola siciliana 
tutti si rassomigliano tra loro « è curioso il trovare in mezzo ad una canzone 
di maniera affatto cortigiana versi che non hanno nulla che fare col rimanente, 
e che ricordano invece la forma popolare, riconferma dell’esistenza di una arte 
indigena del volgo, preesistente alla scuola che tolse a modello i Provenzali (pa- 
gina 172).» Ma, ci è altro io credo che decrepitezza, che semplice frase e non 
più, in questa strofe, ad esempio, del Notaro Jacopo : 


Donna, eo languisco, e no’ so qual speranza 
Mi dà fidanza — ch'io non mi diffide : 
E se merzè e pietanza in voi non trovo 
Perduta provo — lo chiamar merzede; 
Che tanto lungiamente ò costumato, 
Palese ed in cielato, 
Pur di merzè cherire 
Ch’ i’ non saccio altro dire; 
E s’altri m’adomanda ched’ agio eo, 
Eo non so dir, se non: merzè per Deo. 


Ovvero in quest'altra dello stesso poeta: 





(1) Si è notato che perdèra, tocàùra, degnàra, mòvera , usate da Ciullo siano appunto una 
forma di condizionale non siciliana, bensì pugliese, non avvertendo che queste parole non 
sono del condizionale, ma sì del futnro come è usato dai siciliani, e che se pur non si vo- 
glia mettere l’accento sull'ultima vocale finale, si tratta di trasposizione, o di accento riti- 
rato, come in altri esempi, o di non uso di accento, come fu frequente ai nostri antichi, 
che dissero plachira per piacirà, sirra per sirrà, andira per andrà, forra per fora , parra 
per parrà, e simili. 


Sd 


E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 59 





Avendo gran disìo, 
Dipinsi una pintura, 
Bella, a voi similgliante; 
E quando voi non vio 
Guardo in quella figura (1). 
E par ch’io v’agia avante. 
Sì com’om, che si crede 
Salvarsi per sua fede, 
Ancor non à davante. 

Così m’arde una dolglia, 
Com’om, che ten lo foco 
Alo suo seno ascoso; 

Che quanto più lo ’nvolglia, 
e Allora arde più loco, 

E non pò stare inchioso : 
Similemente eo ardo, 
Quando passo e non guardo 
A voi, viso amoroso. 


Mazeo di Ricco da Messina così parla alla moglie: 


Donna, se mi mandate 
Lo vostro dolze core 
Inamorato siccome lo meo, 
Saciate in veritate 
Ca per veracie amore 
Immantinente a voi mando lo meo, 
Perchè vi degia dire 
Com’eo languisco, e sento 
Gram pene per voi, rosa colorita; 


(1) Seguo qui la lezione del D’Ancona, benchè una trascrizione dello stesso codice Vati- 
cano 3793 fatta dal Matranga, scrittore della Vaticana, per commissione di Agostino Gallo 
verso il 1845, e che io ho sott'occhio, legga, 


Guardo quella pintura: 

e più sotto non 
Ancor non è davante, 

ma, e meglio, 

Ancor non va davante. 


Più esatta mi pare la lezione del codice Palatino di Firenze, ora dato fuori nel Propu- 
gnatore di Bologna, anno XIV, dispensa 4° e 5*, 1881. 


8 





60 DEL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 
PREIS RRLLIRREIEEILLELLIEEEIGELSLRIIIICIEARSSAACNASCASSI ASS SASA 





E non agio altra vita, 
Se non solo un talento 
Com’io potesse a voi, bella, venire. 


E Rugierone di Palermo così dolcemente conchiude una sua Canzone : 


Kanzonetta giojosa, 
V’a la fior di Soria, 
A quella, ch’à in presgione lo mio core; 
Dì a la più amorosa, 
Ca per sua cortesia 
Si rimembri del suo servidore: 
Quelli, che per suo amore va penando 
Mentre non faccio tutto il suo comando, o 
E priegalami per la sua bontate 
Che la mi degia tener lealtate (1). 


Non mi sembrano queste « frasi senz’altro; » se pur frasi senz'altro non debba 
dirsi il Canzoniere del Petrarca, e se vuoi anche quello di Dante. 

Pertanto , il carattere della poesia di Ciullo (che è cosa tutta singolare, e di 
un’arte più antica) e de’ Poeti della Corte di Federico, è più che altro siciliano; 
più popolare e schietto nel primo, più cortigiano e artificiato ne’ secondi. Il Con- 
trasto dell’Alcamese è un componimento nè tutto popolare, nè tutto aulico; poi- 
chè se da una parte ci senti il vigore, la spontaneità e la freschezza del canto 
del popolo, d’altra parte ci si scorge una cotal nobiltà in certe forme che s’ac- 
costa di quando in quando alla Canzone della Corte, e però alla forma del vol- 
gare illustre signorile (2) e propria de’ poeti aulici di Federico e di Manfredi. 
Le Canzoni de’ poeti aulici, o de’ Doctores di Dante, hanno quell’ aria che pote- 
vano e dovevano avere a una Corte, che non è più la Corte novella e militare 





(1) Così nella stampa del D’Ancona e Comparetti: in quella dell’ Allacci, — £ Che a mi 
degia tenere lealtate , — che mi pare da preferire. 

(2) Il D’Ancona si accorge che non può esser bene sostenuto l’assunto dell’ uso del vol- 
gare dialettale e non illustre; e avverte che pur il dialetto siciliano, usato da’ primi nostri 
poeti nelle loro poesie fu “ridotto tuttavia a forma più eletta, e per la natura de?’ senti- 
menti artificiosi che in quelle esprimevansi, e per la condizione signorile de’ cantori stessi, 
e per l’efficacia de’ modelli provenzali: , tanto che le rime de’ siculi e pugliesi furono amo- 
revolmente “ ospitate in Toscana, e specialmente in Firenze.... tenute in pregio come primi 
saggi di quell’idioma volgare onde già il mezzo d’Italia accordavasi il vanto (pag. 294). , 
Le quali parole io non saprei intendere, senza il supposto che le poesie de’ siciliani siano 
state appunto scritte nello stesso volgare, cioè nel volgare illustre, “ del quale già il mezzo 
d’Italia accordavasi il vanto. n 


E DEL CARATTERE DELLA LORO POESIA 61 








de’ normanni, ma una Corte che viene dopo la caduta di una gloriosa dinastia 
che aveva avuto il buon Guglielmo, e l’ardito, ma sfortunato, Tancredi, la cui 
memoria Errigo Imperatore tentò affogare nel sangue degl’innocenti figli e dei 
baroni e prelati che parteggiarono per l’ultimo rampollo di Casa Normanna. Era 
una grande Corte politica, piena di sospetti e d’invidia, di poca fede e astuta, 
sì che fa meraviglia come in mezzo alle ambascerie , ai trattati, alle questioni 
ora di politica e di religione, ora di scienza e di mista legislazione ed ammini- 
strazione, ora di libertà municipali ed ora di diritti e privilegi della Corona, 
abbiavi la poesia gaja ed amorosa tenuto quel posto che vi tenne, quasi sì tro- 
vasse in piccola corte di marchesi o di duchi sollazzevole e spensierata. Senza 
le tradizioni della Corte normanna e l’ esempio degli arabi; senza i voluttuosi 
giardini, le immense peschiere, e gli orientali kioschi della Cuba e della Zisa, 
della Fawarah e di Mimnerno ; regie delizie che circondavano Palermo, al dir 
dell’arabo viaggiatore Djobair, come vezzosa collana di perle adorna il collo di 
una fanciulla; io credo non avremmo avute le poesie della Corte di Federico: e 
dal cielo, dalla natura, dagli usi, dalle tradizioni, che tanto si accostano all’o- 
riente, quanto si scostano da’ paesi d’Europa, dalla sua posizione geografica e 
morale tra l'Occidente e l’Oriente, diede appunto la Sicilia ai suoi Poeti del se- 
colo XIII quel carattere singolare che si sente nelle loro composizioni di una 
cotale mollezza, la quale si ha eziandio ne’ canti de? Provenzali non estranei al. 
ritmo e all’arte degli arabi andalusii. E però non mi vorrà credere il prof. D’An- 
cona (Antiche Rime volgari, p. 258) davvero impacciato a sostenere il mio asserto 
che ci sia negli antichi poeti nostri e in Ciullo qualcosa che ricordi l’araba poe- 
sia, se appunto la Tenzone dell’ Alcamese (1) è un componimento già usato dai 
poeti arabi, prima che da’ provenzali, e se l’araba poesia tuttavia si sentiva pei 
monti occidentali di Giatu, di Mirabuth, di Kalataeltiraz, di Rayah, della nostra 
Isola, quando Ciullo cantava la sua Rosa fresca aulentissima, ai piedi del vicino 
e vago Bonifato. 

E ora che ho finito per la questione letteraria, io debbo dire chè non so per 
qual ragione taluni' han voluto a fine politico oppugnare questo primato che i 
siciliani sostengono de’ loro poeti, non di merito, bensi di tempo. Si vuole igno- 
rare che nè le lettere, nè l’arte qui in Sicilia si ebbero interruzione dai Bizan- 
tini agli Arabi, e dagli Arabi ai Normanni; sì che non passò affatto sopra l’Isola 
quella che altrove si disse barbarie. 

La Sicilia fino alla Corte sveva, che fu centro dell’Italia ghibellina, ebbe una 
civiltà sua propria, e gli svevi trovarono la sua città capitale trilingue e centro 


(1) Che Ciullo da Camo sia stato una trasformazione di Jacomo pugliese , abbiamo letto 
essere stato pur respinto da un dotto tedesco, il Meyncke, il quale iu un articolo degli ul- 
timi numeri del Magazin fin die Literatur des Auslandes (n. 16-17): non accetta affatto la 
ipotesi del prof. Caix. 


62 DEL VOLGARE USATO DA” PRIMI POETI SICILIANI 





di commerci tra l’Oriente e l’Occidente, come di usi e di coltura diversa dal resto 
di Europa, e dalle altre principali città d’Italia, dalle quali pur aveva tanto dif- 
ferente l’aspetto materiale, più orientale che europeo (1). Ora l’antico Regno di 
Sicilia non è più, perocchè è sorto il nuovo Regno d’Italia: i suoi Ammiragli 
non tornano da Tiro, da Corinto, da Costantinopoli, e da Tripoli ricchi di oro e 
di monumenti d’arte, e con compagnie di tessitori di seta, onde impiantare i 
maravigliosi opificii del Regio Palazzo di Palermo. I suoi Re non intervengono 
più mezzani di pace tra Papi e Imperatori Germanici, non sono più temuti dai 
Soldani di Egitto e dagli Imperatori di Costantinopoli, non apprestano più nu- 
merose navi al passaggio de’ Crociati in Terrasanta; nè le sue galee combattono 
più nel Bosforo, a Lepanto, a Trafalgar. Non c’è più un potentissimo Imperatore 
che si chiama Carlo V, che sente il dovere di giurare nel Duomo di Palermo 
gli antichi Capitoli e Privilegi del Regno, e nell’atto di questo giuramento fu 
rappresentato nella statua di bronzo di Piazza Bologni. Ma ci si permetta tut- 
tavia dinnanzi alle torri dell’antica Reggia di Palermo, che vide le pompose am- 
bascerie di Papi e di Soldani, e le ricche spoglie di Oriente fare orgogliosi di 
loro potenza i suoi Re; che sentì risuonare per le sue sale il canto di amore 
nella novella lingua d’Italia; poter ricordare le innocenti glorie di un tempo che 
fu: chè quantunque nella miseria sia doloroso il ricordo del tempo felice, pur 
nella memoria del passato i popoli trovano nutrimento alle speranze dell’avvenire. 


Pror. Vincenzo Di GIOVANNI. 





(1) Vedi il Viaggio d’Jbn Djobair, Ugo Falcando, Historia Siciliae, presso Caruso Bibhot. 
hist. Sicula, t. 1, e De CHeRrRIER. Storta della lotta de) Papi e degl’Imperatori ete. v. I, L. II, 
ediz. cit. L’arabo viaggiatore del secolo XII notava della città di Palermo, “ magnifica ed 
elegante, , che “ Uno de’ punti di somiglianza che questa città ha con Cordova è il Kasar, 
città antica in mezzo alla città nuova. Vi si vedono magnifici palazzi con torricelle che si 
slanciano nell’aria a perdita di vista, e che abbagliano colla loro bellezza. » E il De Cherrier 
parlando dell’entrata dell’Imperatore Arrigo in Palermo nel 20 novembre 1194 dice: “I Te- 
deschi, abituati alle loro città fangose, alle loro case di legno, arredate senza alcun fasto, 
non si stancavano dall’ ammirare i vasti edifizii, i moreschi palagi, le vie ben selciate, le 
fontane zampillanti, che facevano di Palermo una delle più belle città di que’ tempi (L. II, 


pagina 237). 


ne deced 


LA CRITICA 


DI ALCUNI PERIODICI ITALIANI 


INTORNO AL DISCORSO SUL VOLGARE USATO DA’ PRIMI POETI SICILIANI 


RISPOSTA 


DEL SOCIO VINCENZO DI GIOVANNI 


Letta nella tornata del 28 dicembre 1879. 


Quand’io nel giugno passato leggeva a quest’ Accademia palermitana un mio 
discorso sul volgare usato da’ primi Poeti siciliani e sul carattere della loro poesia, 
pigliando in esame i giudizi e le opinioni di taluni contemporanei specialmente 
Italiani sul proposito, non credeva che la critica tenesse brevetto di privativa in 
Italia a favore di certi scrittori e in disfavore di altri, sottoposti a multa ove 
non volessero rispettare gli ordini stabiliti da’ maggiorenti. Se io non ritenni 
sentenze e conclusioni che a me parvero non fondate, rispettai credo, per l’ur- 
banità che sovratutto è dovere degli scrittori e di chi parla in pubblico, le per- 
sone, che spesso dissi e illustri e dotte, e onorevolissime. Ma non essendo io uno 
degli appaltatori o degli amministratori della. privativa critica, i giornali che 
servono ai critici del continente, si sono sfuriati contro le esagerazioni e le su- 
perbe pretensioni regionali dei siciliani, e la Rwista Europea, la Nuova Antologia, 
la Rassegna Seltimanale di Roma, tutti e tre dello stesso colore letterario c poli- 
tico, hanno svelato ai lettori Italiani come i Siciliani vogliano tuttavia primeg- 
giare almeno per la loro storia, con malfondato orgoglio e aperta ignoranza ; e 
come in ispecie gli scritti miei di filologia e letteratura siciliana sieno privi di 
vera critica, pieni di un malinteso sentimento regionale e di passioni locali, e 1’ au- 
tore senza prudenza nell’ accettare certe sentenze e venire a certe conclusioni, 
piena la testa di fantasmi che gli offuscano il giudizio, e non abbastanza fornito 
delle cognizioni necessarie per discorrere degnamente della materia. Non resta 
dopo questo che il parce sepulto! Ma mi sarà certo consentito dagl’ imparziali, 
che come breve giunta al discorso precedente , io rivedessi per poco le critiche 


2 LA CRITICA DI ALCUNI PERIODICI ITALIANI 








fatte al mio lavoro, e accennassi qualcuna delle risposte che potrei dare agli il- 
lustri critici che han voluto serbare l’anonimo, se pure non sarà reputata tempo 
perduto una difesa quando la condanna pare di essersi stabilita @ priori. 

La prima a far balenare i fulmini contro il mio nuovo volume di Filologia e 
Letteratura siciliana in colpa di due discorsi che fra gli scritti che contiene sono 
il primo e l’ultimo del volume, fu la Rivista Europea nella dispensa del 15 ago- 
sto; seguì la Nuova Antologia col suo fascicolo del 15 settembre, e fece ai due 
coro più sonoramente la Rassegna Settimanale col suo numero de’ 12 ottobre. Coi 
quali periodici io non posso confondere il Giornale Napoletano, che pur dissen- 
tendo da molte mie conclusioni sul proposito, dava il suo avviso con gentilezza 
e urbanamente, non senza dar lodi al mio volume, e sottoscriveva l’articolo il 
prof. D’Ovidio, uno degli scrittori di cui ebbi io a parlare nel mio discorso; nè 
vi parlo de’ tre o quattro giornali palermitani che tennero conto del mio libro (1), 
o de’ dotti stranieri che lo hanno giudicato senza passione e senza pregiudizii. 

La Rivista Europea del 15 agosto (anno 10, v. XIV, fasc. III, pag. 6141 e seg.) 
annunzia con articolo di proposito nella Rassegna bibliografica e letteraria il mio 
volume, e singolarmente il discorso sul volgare usàto dai primi Poeti siciliani e 
sul carattere della loro poesia. Ma l’articolo nulla ha di critica, e contiene uno 
sfogo di bile contro chi non fa di cappello alla novella critica, e contro me che 
toccai un po’ di vivo nella passione che per taluni si mette in cosa che possa 
tornare a discapito della Sicilia, quasi l’ombra dell’Isola adugiasse il continente. 
Ci dice il critico che è tempo di finirla con questi guaiti mafiosi, e crede che 
sostegno della novella critica sia l’insulto, non sottoscrivendo intanto il suo ar- 
ticolo che colle iniziali N. N. Ma siccome per l’avviso dato di ritornare sulle mie 
teorie in un prossimo fascicolo, la critica del libro è tuttavia in sospeso; nè le 
ingiurie si meritano punto risposta in questione o letteraria o scientifica; io mi 
passo della Rivista Europea, e m’intrattengo meglio sugli altri periodici sopra 
indicati. c 

Molto temperato sembra a prima vista il critico della Nuova Antologia; poichè 
dà lode ai Siciliani del merito innegabile di avere sempre promosso con uno 
zelo indefesso lo studio delle loro memorie e tradizioni, e dice che non si può 
che ammirare il sentimento che li muove a mettere nella miglior luce le bene- 
merenze e i titoli della Sicilia all’ universale considerazione per la parte impor- 
tante che ebbe nella storia del risorgimento italiano, sopratutto nella letteratura. 
Essi cioè i siciliani, «hanno però, si soggiunge, nello stesso tempo il torto di 





(1) Debbo ringraziare specialmente per le gentili parole usate nel giudicare il mio libro 
i due scrittori della Rivista bibliografica fatta dalla Scuola e famiglia, 1 settembre 1879, e 
dalla Nuova Gazzetta di Palermo, 12 agosto 1879.11 più lungo articolo sul mio libro e sulla 
questione in discorso, è uscito nel Propugratore di Bologna, anno XII, disp. 4 e 5 di que- 
stanno; e ringrazio eziandio il suo autore, ch’è l’egregio prof. Luigi Gaiter, delle benevoli 
parole scritte sul proposito. 


PR POT) 
n °° ì 


RISPOSTA 5) 


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esagerare codeste benemerenze, e d’accampare pretensioni e di ripetere e rican- 
tare teorie che la critica ha oggi messo definitivamente da parte. Questo difetto 
è anche in questo nuovo libro del prof. Vincenzo Di Giovanni. » E qui fa distin- 
zione di una parte ottima e sana, che gli studiosi accetteranno con gratitudine del 
mio libro, e di altra, che è il primo e l’ultimo degli scritti raccolti nel volume, 
non buona, sfornita de’ lumi della critica contemporanea, erronea e confusa, 
meschina, sino a scrivere Cadonetto invece di Cadenet, Rambaldo di Voghera in- 
vece di Vagheiras, Riccardo il Barbieren, invece di Riccardo di Barberin, e darci 
un poeta Blancasso, e dire che Bernardo di Ventadoun sia passato e morto in Ter- 
rasanta col marchese Bonifazio. Nè queste sono tutte le scempiaggini del mio 
scritto. Ce ne è altra maggiore, e sarebbe l’argomento, non della sola stabilità, 
come crede il critico, ma della antichità del siciliano, che consisterebbe , sog- 
giunge il critico, citando alcune mie parole « nell’antichissimo sangue siculo che 
non è venuto mai meno nel grosso della popolazione siciliana insieme al suo 
linguaggio!» Dunque, esclama il critico dell’Antologia, il siciliano data già dal 
tempo de’ siculi, e non è di fondo e di organismo latino? Preferiamo dire di non 
intendere, piuttosto che attribuire all’A. siffatta enormità; ma è certo che anche 
più sotto egli scrive: «Il sangue siculo e così il linguaggio non si spense mai 
nell'isola, nè co’ Greci, nè co’ Romani, nè cogli Arabi.» E nota per segnare l’e- 
norme granchio storico etnografico queste parole «non si spense mai » in corsivo. 
Mi oppugna una semplice conghettura sulla voce zancla e marina, che io misi 
innanzi ; e qui finisce tutta la critica del mio libro , riferendosi per quanto ri- 
guarda la influenza de’ provenzali sa’ nostri poeti antichi al lavoro specialmente 
del Gaspary, nel quale, dice, era già data la risposta ai miei argomenti in con- 
trario. 

Il critico della Nuova Antologia, o signori, comincia colle correzioni ortogra- 
fiche, fingendo di non essersi accorto che quelli erano sbagli tipografici, alcuno 
de’ quali corretto nell’errata corrige in fine del volume, non dissimili dagli sbagli 
che sono pure nel suo articolo, segnando che a pag. 398 si dica Riccardo è Bar- 
berien, quando vi si legge Riccardo il Barbezieu corretto nella errata corrige in 
Riccardo di Barbezieu, come doveva appunto essere stampato; nè era gran cosa 
un 0 per e in Cadenetto, e un o per a in Voghera, come fu ridotta la voce Va- 
queiras nella traduzione italiana del Fauriel, o come fu sempre scritto in buono 
italiano dal Crescimbeni; nè un delitto il leggersi di Ventadon invece di Venta- 
dorn, o Ventadorno come a pag. 395; mentre con ragione fu notato lo scambio 
di Bernardo di Ventadorno con Rambaldo di Vaghera dicendo dell’andata oltre- 
mare del trovatore col marchese Bonifazio : sbaglio che quanto al nome, dondechè 
sia venuto, 10 correggo volentieri. 

Nella pagina ove nel mio discorso fu stampato Cadeneito e Rambaldo di Vo- 
ghera, e Bernardo di Vantadorno , io citava un luogo del Fauriel, cioè la lezio- 
ne VII, vol. 1, pag. 200, 207; e però lo scambio di lettere nella stampa non po- 
teva essere che errore tipografico; nè poi si fece il grande rumore, quanto ne ha 


4 LA CRITICA DI ALCUNI PERIODICI ITALIANI 





voluto fare il critico della Nuova Antologia, se il Tassoni chiamò Rambalto Va- 
chero, il Rambaut de Vaqueras o de Vachera dei codici fiorentini e vaticani, e V’U- 
baldini disse Bernardo de Vantador, come il Redi del Vantador, e il Tassoni di 
Ventadorno, il Bernard de Ventadour, o de Ventador degli antichi storici proven- 
zali, e de Ventadorn de’ moderni scrittori; o se il Cadenet de’ codici della Lauren- 
ziana, e il Chatenet del vatic. 3208, fu chiamato Cadanetto dal Redi, come il Ri- 
chart de Berbezieux degli antichi, e de Barbezieu dei moderni, ora va detto nei 
codici de Barbesin, e de Barbassil, sì che il Redi il chiamò di Berbesin, e il Tas- 
soni di Berbezil, e il Crescimbeni di Berbesino (1). Non so poi che cosa voglia 
dire il critico maravigliato di trovare nel mio scritto citato un poeta Blancasso. 
Crede forse non sia esistito un poeta provenzale di questo nome? ovvero che ne 
sia sbagliata la trascrizione? Questo Blancasso, così chiamato, è l Enblancatz, 
l’Enblancacet de’ codici vaticani, il Blanchacet del Redi, il Blancazet dell’Ubaldini, 
il Biancastro del Gravina, il Blancasso e Blacasso del Crescimbeni (2), il Blacasset 
e il Blacatz del Gaspary (p. 49, 50, 58), che il critico deve conoscere a punta di 
dita; se tutti e due i nomi non sono della stessa persona come fu creduto, ma 
del padre Blacantz, e del figlio Blancazet, Blancacet, Blancasset. Sia stato il padre 
o il figlio, ne pianse la morte il famoso Sordello di Mantova ne’ versi che co- 
minciano: 


Blagner vol sen Blakas en aquest leugier son 
Ab cor trist e irat, e en ay ben razon. 


E quanto ai dati storici di questo Blancasso io citava un luogo del Crescim- 
beni a proposito di Folchetto di Romans: non senza non avvertire in nota, ta- 
ciuta dal critico, che inverosimiglianze e sbagli storici si trovano non solo nel 
Nostra-Dama, ma pur nel Millot, seguito dal Crescimbeni e dal Quadrio (v. p. 397). 
Si tace eziandio che non accettando io l'influenza de’ provenzali, nel modo come 
si pretende da’ nuovi critici, nondimeno avverta che « fra la scuola siciliana e 
la provenzale ci sono è vero molte rassomiglianze; e trovatori provenzali e poeti 
siciliani poterono trovarsi insieme alla Corte di Palermo: ma la rassomiglianza 
viene sovratutto dalla rassomiglianza e parentela di tutte le lingue neolatine e 
romanze fra loro, siano anche stati antichi volgari latini, che in quel periodo 
di tempo s’innalzavano a lingue letterarie; e tra provenzali e siciliani particolar- 
mente da quel soffio d’ ispirazione o d’intonazione araba che passava nel loro 
canto volgare pel contatto degli arabi delle due parti di Europa, la Spagna e la 
Sicilia, ove la letteratura araba ‘non si estinse sotto i Normanni, e popolazioni 
interamente arabe vi durarono per tutto il Regno degli Svevi (p. 406). » 





(1) V. Vite de? Poeti Provenzali etc. Annotazioni p. 52, 59, 174. 
(2) V. op. cit. pag. 131. 


RISPOSTA 5 





Se non che sovra questo arsomento dell’ influenza provenzale il critico sì ri- 
ferisce al libro del Gaspary, che crede essermi stato del tutto ignoto; e bisogna 
contentarlo. Ora che cosa dice appunto il Gaspary, col quale l’altro critico della 
Rassegna Settimanale ha detto io accordarmi quanto alle conclusioni, tranne nel 
modo come va trattato da entrambi lo stesso argomento ? Il Gaspary consacra 
tutto il capitolo II del suo libro alla influenza de’ provenzali sopra i poeti ita- 
liani e però siciliani, e fa i raffronti trai versi di Perdigon e di Jacopo da Len- 
tini, di Ricardo de Barbezieu e di Stefano Protonotario, di Gaucelm Faidit e di 
Guido delle Colonne, (p. 34-39) così come si trovano presso il Bartoli che pur si 
riferisce al libro citato del dotto tedesco (t. II, p. 162 e seg.). Ma sono raffronti 
che possono farsi fra tutti i poeti del mondo, fra indiani, greci, latini, francesi, 
italiani, spagnuoli, tedeschi, etc., perchè sono somiglianze e concetti che na- 
scono dapertutto dove c’è poeti e lingue umane; e non concludono ad altro che a 
quelle rassomiglianze che io appunto affermava nel mio discorso. E così se il 
Gaspary dice nel cap. I che la poesia novella comincia in Italia anche usando 
la lingua de’ Provenzali, questo il dice per l’Italia superiore, nella quale dimo- 
rarono molti de’ trovatori provenzali, e non per la Sicilia, ove fu usato poetando 
il volgare italiano. Che se nota essere stato presso l’Imperatore Enrico in Sicilia 
insieme col marchese Bonifazio, Rambaldo de Vaqueiras; in quei momenti che 
il feroce Enrico faceva perire nel sangue e nei supplizi gli ultimi rampolli della 
dinastia normanna, e baroni e prelati che n’erano stati sostenitori, ovvero asse- 
diava in Caltabellotta ajutato da’ capi de’ Crociati tedeschi e italiani, la vedova 
di Tancredi e il piccolo Guglielmo III, nessuno poteva pensare alla poesia pro- 
venzale: e Rambaldo vi passava per la Crociata, o la spedizione di Costantino- 
poli, dalla quale più non ritornava; nè Pietro Vidal fu altrove che in Malta; nè 
è certo se Guglielmo Figueira fu presso l’imperatore Federico in Sicilia, ovvero 
in Toscana o in altre parti d’Italia, ove spesso e non poco pur dimorava il capo 
de’ ghibellini Italiani. Sopra questa accoglienza trovata da Guglielmo de Figueira 
presso Federico, il Gaspary cita il luogo stesso che io citava del Fauriel (v. Dante 
et les origines de la langue et de la littérature italiennes , I, 266); ma non so dove 
sia detto quello che dice il Bartoli, cioè che Guglielmo di Figueiras si rifugiava 
alla Corte palermitana, quando nel Fauriel solamente si legge che Guglielmo Fi- 
guera fu de’ refugiati presso Federico, e faceva ne’ suoi versi virulenti contro la 
Corte di Roma «i votì più ardenti pel trionfo dell’ Imperatore Federico II, che 
lottava con quella Corte (v. trad. Ital. cit. v. 1, p. 207). Se questa che si trova 
nel mio discorso sia poca conoscenza dell’argomento, il lascio dire al critico della 
Rassegna, il quale dimenticava di aver letto pur nel mio discorso questo periodo 
di pag. 402 : » Io non dico con questo che i Siciliani non ebbero notizia dei 
Provenzali, e che forse qualcuno di questi non potè trovarsi o alla Corte Nor- 
manna, o alla Sveva di Palermo; ma è tutt’altro il dire che i poeti di Federico 
non sono che schiettamente e nudamente imitatori dei provenzali, dei quali calcano 
rigidamente le orme (BartOLI, p. 108). E così saran contenti tutti e due i critici 

9 


6 LA CRITICA DI ALCUNI PERIODICI ITALIANI 


__ 





dell’ Antologia e della Rassegna, i quali mi rimandano per pietà come a peren- 
toria autorità al libro del dotto critico tedesco. 

Sul fatto poi del sangue siculo restato nella popolazione siciliana, il critico è 
così valente in storia siciliana, da non sapere che quando i Greci giungevano in 
Sicilia i Siculi avevano un re Iblone che aiutò i compagni del megarese Lar- 
mide a fondare Megara Ibla ; e da ignorare le guerre di Ducezio re dei Sicoli 
contro i due più potenti Stati greci dell’Isola, Siracusa ed Agrigento, sino a sten- 
dere il suo dominio da Noe a Mozia, e anche morto lasciar tanto forti quei bar- 
bari da far disputare a Siracusa da Trinacia città principale de’ Siculi l'egemonia 
dell'Isola e il dominio sì delle città sicule e sì delle grecaniche, le quali furono 
sempre divise di lingua e di civiltà, finchè non cadde demolita da’ Siracusani 
nell’olimpiade 85 (Drop. Sic. L. XII, 7) l’emula città rappresentante della popo- 
lazione indigena; la quale non potendo altro serbò almeno suo nome e linguag- 
gio, tanto da far chiamare Siculi tutti gli abitanti dell’isola, e più tardi siciliano 
il volgare da essi usato dopo scomparse le favelle greca, romana, araba, le quali 
dominarono la sicula, ma senza poterla spegnere. Il Brunet de Presle nella sua 
dotta Memoria sullo stabilimento delle colonie greche in Sicilia fa bene notare, 
colle testimonianze degli antichi, che molte città greche furono fondate sopra 
città tenute precedentemente dai Siculi o da Sicani, Elimi o Fenici, come la 
stessa Siracusa, Leonzio, Taormina, Megara, Agrigento, Messina, Camarina, Seli- 
nunte, Segesta, ed altre: e avverte che «il dirsi una città essere stata fondata, 
non sempre fa supporre uno stabilimento in luogo inabitato; noi sappiamo anzi 
che quasi tutte le città che i Greci dicono di aver fondate ricevettero soltanto 
da loro una nuova forma, ma erano già prima occupate da Sicoli. Quindi questi 
popoli, che ai tempi di Dionisio il vecchio abitavano ancora le alture sopra Nasso 
e i luoghi circostanti, imposessandosi in seguito di Tauromenio, dicevano di non 
far altro che ricuperare la eredità paterna, di che i Greci l’avevano spogliato (1).» 
Questa sollevazione degli antichi abitanti del paese contro i nuovi, intesa a ri- 
pigliare gli antichi possedimenti su’ Greci, portò Ducezio re dei Sicoli a cacciare 
i Greci da molte città già grecizzate (458 av. G. C.) e da’ territori che tenevano 
in possesso, sì che solamente dopo la sua morte, e dopo la caduta di Trinacia, 
poterono i Greci reputarsi sicuri in Sicilia, imponendo gravi tributi sopra i Si- 
coli soggiogati, ma non distrutti. 

Furono città di origine Sicula nell’Isola, Zancle, Tauromenio, Nee, o Mene, la 
patria di Ducezio, Morganzio, Xifonia, Ibla, Geleata, Centuripe, Xutia, Neto, E- 
chetla, Palica, Inessa o Icnesa, Agirio, Assoro, Erbita, Alesa, Abacena, Calacta, 
Mitistrata, Galaria, Imacara ed altre (2). Oltre a ciò nelle guerre degli Ateniesi 
in Sicilia, e dei Cartaginesi, Diodoro nota o i passaggi o le scorrerie ne” fenimenti 


. (4) V. Droporo, L. XIV, c. 88. — Brunet pe Prese, Mem. cit. p. IL, $ VII, p. 52. — Ar- 
roupi, La Sicilia abitata da’ Sicani e da’ Sicoli. — InrriGILA, Sopra Ducezio condottiero dei Si- 
culi; nelle Memorie su la Sicilia, v. II, e del Capasso. Pal. 1840. 

(2) V. NATALE, Sulla Storia antica della Sicilia, vol. I, discorsi VI, VII, VIII. Nap. 1843. — 
Honm, Geografia antica di Sicilia. Città de’ siculi. Pal. 187). 


RISPOSTA 7 





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de’ Siculi, i quali si frapponevano ai luoghi occupati da Greci o da’ Cartaginesi, 
e si stendevano largamente, se da Iccara volendo Nicia recarsi per terra a Ca- 
tania, dovette aver passaggio pe’ tenimenti Siculi dall’ occidente ad oriente del- 
l’Isola. In una statistica che è stata tentata della popolazione che abitava la Si- 
cilia ne’ tempi antichi, troviamo che i Siculi sono rappresentati dalla conside- 
revole cifra di 150,000, a 200,000 (1). 

E però il critico meravigliato di tanta enormità che mi fece dire che l’antichis- 
simo sangue Siculo non venne mai meno nel grosso della popolazione siciliana 
insieme col suo linguaggio , fa meravigliare piuttosto della sua o semplicità o 
ignoranza dell’argomento , tanto che non sa nemmeno che trilinque fu detta la 
Sicilia, perocchè insieme vi si parlarono il greco, il punico, e il siculo (2), che 
era il linguaggio detto barbaro da Greci, affine a quello degli Opici, o Osci, o 
latini o itali, dello stesso sangue dei Sicoli, secondo si ha da una delle Epistole 
attribuite a Platone. Pertanto, che nel grosso della popolazione dell’Isola sia re- 
stato sempre l’antico legnaggio siculo o italo antichissimo , come disse Tucidide 
dopo di Antioco siracusano, e fu appunto la gente che i Greci chiamavano bar- 
bara, io l’affermava con l’autorità di tutti gli storici antichi, moderni e contem- 
poranei; anzi nella pagina stessa ove sono le parole citate dal critico, io rife- 
riva un lungo passo dell’Amari; come in altro luogo aveva riferito insieme con 
altra autorità le parole del Perez, che «il fondo indelebile del dialetto siciliano, 
e le sue più essenziali caratteristiche, siano dovuti a que’ popoli di razza anti- 
chissima italiana passati in Sicilia avanti la fondazione di Roma;» parole dette 
dall’illustre autore insegnando letteratura Italiana nell’Istituto di Firenze (3). E 
se i due citati sono siciliani, come siciliano Antioco, e così Diodoro, che riferisce 
le guerre de’ Siculi contro le colonie greche nell’Isola; non siciliani erano Tuci- 
dide, e Platone, il primo de’ quali ci fa sapere che pure ai suoi tempi le genti 
barbariche dell’Isola minacciavano la esistenza delle città greche, che erano già 
state floride per potenza e coltura; poichè i Siculi passati dall’Italia in Sicilia da 
tre secoli prima dei Greci, tenevano ancora nell’ isola i luoghi mediterranei (4), 
e rivolti a Settentrione; (Ducipipe, L. VI); e li chiamava barbari, come li dice an- 
che con Pausania, Scilace più chiaramente: «In Sicilia gentes barbarae sunt 





(1) V. Sulla popolazione del’antica Sicilia di G. BeLoca, nella Rivista di Filolog., II , pa- 
gina 545, e segg., 1874. 

(2) Il sig. Corrado Avolio crede che ne’ luoghi stessi abitati antichissimamente da’ Siculi 
resti ancora qualcosa a studiare della loro pronunzia e di voci speciali non comuni a tutte 
le popolazioni dell’Isola. V. Uno studio intorno al sottodialetto Noticiano nelle Nuove Effeme- 
ridi siciliane, Sec. serie, v. 1, p. 128-201. Pal. 1874. 

(3) V. Sulla importanza della parola, e sulle origini della lingua italiana , tre lezioni di 
Franorsco Perez ete. Estratte dal corso del 1860, p. 71. Pal. 1860. È molto importante l’a- 
nalisi che l’autore fa delle caratteristiche del dialetto siciliano riscontrate co’ segni dell’an- 
tichissimo linguaggio italico volgare o plebeo indicati dagli antichi scrittori latini. 

(4) Il dott. Julius Schubring ha notato recentemente in un suo studio sulla Sicilia, i 
luoghi abitati da’ Siculi del centro dell’ Isola. 


8 LA CRITICA DI ALCUNI PERIODICI ITALIANI 








istae : Elymi, Sicani, Siculi, Phoenices, Trojani. Atque hi quidem sunt barbari; 
praeter eos vero etiam Graeci eam incolunt. (In Eliacis). » Lo stesso notano Dio- 
nigi di Alicarnasso, e Strabone, distinguendo i Greci delle marine da’ barbari 
de’ luoghi montani; e concordando con moltissimi altri, le cui testimonianze ri- 
ferisce in fonte il Cluverio nella sua opera Sicilia antiqua, L. I, p. 21-31. (Lugd. 
Bat. 1619). 

Non si sono certamente introdotte oggi ne’ frammenti di Epicarmo e di So- 
frone, voci di origine non greca, bensi di origine sicula e affini al latino, se- 
gnate da dotti, e talune riferite dal Cantù nella Dissertazione sull’origine della 
lingua Italiana; tantochè fin dai tempi del Muratori fu creduto che ne’ volgari 
italici moderni sì conservassero molti vocaboli dell’ antichissimo idioma (certa- 
mente il siculo o italico che è lo stesso, secondo gli antichi, e i moderni Niebhur 
e Mommsen), il quale i Romani non poterono far perdere del tutto (1).» 

Io sapeva bene che le lingue sono un organismo che continuamente va svol- 
gendosi, ma trattando della stabilità del volgare siciliano dal secolo XII al pre- 
sente, non poteva intendere se non che già il siciliano era bello e formato sin 
da quel secolo, siccome antichissimo e usato nella sua sostanza dal grosso della 
popolazione siciliana e indigena, diversa dalle colonie greche e romane, e da’ do- 
minatori arabi o dagli ufficiali governanti e baroni Normanni, svevi, angioini, 
aragonesi o spagnuoli. Potrei indicare sul proposito una pergamena del 1101, 
nella quale il notaro usa il greco, e le parti si soscrivono in latino con cognomi 
volgari: sì che in un solo documento già abbiamo l'uso di tre lingue, e col 
greco e latino la testimonianza della coesistenza del volgare. Onde se sotto i Nor- 
manni Palermo si disse città frilingue, e ne’ loro diplomi si leggono voci che ap- 
partengono al volgare, non v'ha dubbio che questo volgare, di cui si ha vestigi 
pur sotto gli arabi, doveva venire da uso antico, o dalla popolazione indigena, 
che fu sempre il grosso della popolazione siciliana. 

Il critico poi della Rassegna settimanale di Roma esordisce col dire i miei vo- 
lumi di filologia e letteratura siciliana « notevoli per copia di nuovi documenti 
messi a luce; » ma soggiunge subito che «disgraziatamente vanno privi di vera 
critica; » intendendo certamente della critica a suo modo e de’ suoi pari, che 
hanno preso per lorò il privilegio della nuova critica in Italia. Ad esempio in- 
fatti della mia leggerezza o imprudenza critica, porta l’annunzio dato del trovarsi 
esistente in Alcamo sulla fine del secolo XVI il libro Ciceronis Hortensius, tale 
quale si legge nel Catalogo che della sua libreria lasciava scritto di sua mano 
il Bagolino con data de’ 21 novembre 1597. Il critico così ragiona sulla mia leg- 
gerezza : « Secondo il Di Giovanni, il famoso libro di Cicerone, del quale si la- 
menta la perdita, sarebbe esistito in Sicilia alla fine del secolo XVI (il critico 
mi fa dire del secolo XVII), dapoichè un codice col titolo Ciceronis Hortensius, è 


(1) V. Dissert. ant. Ital. XXXIII. — Mrcani, L'Italia avanti il dominio de’ Rom., v. 1, p. 319, 
fr. 1852. — Pernz, Lezioni cit. p. 59 e segg. 


RISPOSTA 9 





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menzionato in un cataloghetto di manoscritti posseduti dall’Alcamese Bagolino... 
Ma prima di annunziare al mondo questo fatto un po’ strano (e strano infatti 
doveva parergli che in pieno secolo decimosesto si possedesse e poi si perdesse 
un libro di Cicerone), egli avrebbe dovuto accertarsi cha l’Hortensius accennato 
nel catalogo fosse davvero l’opera ciceroniana di egual titolo. Ora il sig. Schenks 
ha dimostrato nel Philologus che nel medio evo citavasi comunemente col titolo 
di Hortensius il secondo libro dei Primi Accadenvci di Cicerone, nel quale Ortensio 
è uno dei principali interlocutori. Se il Di Giovanni avesse cercato da sè, o in- 
terrogato gl’intendenti della materia, ei non sarebbe caduto in sì grossolano e- 
quivoco. » 

Prima del critico della Rassegna Settimanale, questo dubbio mi fu fatto in 
maggio dal dotto prof. Usener di Bonn, e pubblicamente lo avvisò nell’Athenaeum 
Belge di Brusselle del 15 luglio , il prof. P. Thomas (1). Ma sopra qual titolo i 
critici hanno ritenuto che il famoso libro di Cicerone fosse esistito sino al se- 
colo XI? Le indicazioni riferite non sono diverse da quella che ho trovato nel 
catalogo di Bagolino, nel quale non si legge se non Ciceronis Hortensius, e niente 
altro. Leggiamo difatti nella Storia della letteratura Romana del Bahr, vol. III, 
pag. 80 (Tr. 1850) non essere altro che queste le testimonianze della esistenza 
del libro in Francia e in Germania nel secolo XI e XII: « Ermanno Contratto, 
frate di Reichenau (4 1054), ne parla sul suo letto di morte: « videbar mihi ex 
memoria et scientia, qua orationem solemus dominicam, Hortensium Tullii Gi- 
ceronis lectitando et mox relectitando vigilanter percursitare etc. (v. Vita Her- 
manni a Bertholdo conser. t. 1, p. 248, ed. Ussermann). Nell’inventario de’ libri 
donati da Filippo Vescovo di Bayenn all’ Abbazia di Bec in Normandia (nel se- 
colo XII) tra gli altri scritti filosofici di Cicerone si nomina anche Ad Hortensium 
liber 1 (v. Ravarsson, Rapport sur les bibliothéques de l’Ovest, p. 393).» Or non c’è 
altro nei passi citati che il titolo, così come si ha nel catalogo del Bagolino: e 
pure con quel semplice titolo si è creduto all’ esistenza nel secolo XI e XII del 
libro perduto di Cicerone; ma non si deve ora credere affatto al Catalogo del Ba- 
golino, nel quale si legge lo stesso titolo, e pel quale sono io caduto in grosso- 
lano equivoco, non avendo interrogato gl'intendenti della materia , fra quali certa- 
mente egli il critico della Rassegna! 

Nel catalogo si legge : Ciceronis Epist. famil.—Epistolae ad Atticum. — CiceRONIS 
Hortensius. — Ad Herennium etc. Perchè debba credersi che col titolo Ciceronis 
Hortensius non si debba altro intendere che il libro II dei primi Accademici, e 
non già l’Horfensius, così come il chiamò Cicerone; mentre non chiamò mai Hor- 
tensius quel libro degli Accademici, che si conosce generalmente col titolo di 
Lucullus? 


(1) L’Atheneum Belge del 1 giugno 1379, n. 11, pubblicava tradotta iu francese la mia 
lettera sull’Hortensius; e quell’illustre professore dell’ Università di Brusselle ne pigliava 
argomento alle sue osservazioni pubblicate nel num. 14, del 15 luglio. 


10 LA CRITICA DI ALCUNI PERIODICI ITALIANI 








Il critico dice, prima di dare l’annunzio che ha dato, il Di Giovanni doveva 
accertarsi che l’Hortensius accennato nel catalogo fosse stato davvero « l’opera ci- 
ceroniana di egual titolo:» ma per accertarmene avrei dovuto avere innanzi, 
non un semplice catalogo, ma o delle citazioni, o il codice stesso; e allora già 
‘avremmo avuto scoperto il famoso libro, ovvero non ci sarebbe stato bisogno di 
dare l’avviso che credetti dover dare fondato solamente sul catalogo lasciatoci 
dal Bagolino. Non si sa capire poi perchè l’esistenza del codice in Alcamo sa- 
rebbe stata strana cosa, come strano eziandio che in pieno secolo decimosesto 
si possedesse e poi si perdesse un libro di Cicerone. Io non ci veggo nulla di 
strano, se pur Alcamo non sia nell’ Australia; nè difficile cosa potersi perdere 
un’opera, ridotta forse a un solo codice, se pur ai tempi del Petrarca andò per- 
duta dello stesso Cicerone l’opera De Gloria, che ebbe in mano il Petrarca, do- 
natagli da Raimondo Superanzio, e nessuno più sa dove sia andata, dopo che fu 
presso del Giustiniani o dell’Aliconio, secondo si racconta. La narrazione del Pe- 
trarca sulla sorte del codice (1) non dice che fu distrutto, e però potrà tuttavia 
esistere: ma nè il Petrarca stesso allora, nè altri ha più saputo dove si trovi. 

E quale argomento c’è per dire che il codice del Bagolino col titolo Ciceronis 
Hortensius doveva essere tutt’ altro che l’opera perduta, anzi doveva essere il li- 
bro II de’ primi Accademici che porta il titolo Lucullus? Nessuno: è un sem- 
plice sospetto fondato più che altro sulla creduta impossibilità di potersi trovare 
in Alcamo nel secolo XVI un’opera di Cicerone, della quale da quattro secoli 
non si aveva più notizia. Ma è questa la critica salda e accurata de’ miei cri- 
tici? Io nol crederò punto con tutta la loro profonda dottrina nella materia. 

Gli accenni poi a Ciullo, e alla questione della forma nella quale furono scritte 
le antiche poesie de’ Poeti siciliani, fanno vedere come al critico mancava sotto 
il terreno, pur compiangendomi che io non abbia capito i luoghi combattuti e 
le asserzioni, ch’ egli chiama validi argomenti, degli avversarì; e per uscita mi 
domanda un agostaro vecchio anteriore al 1231, come se sapendo già dalla Cro- 
nica di S. Germano che Federico coniò tarì nuovi, danari nuovi, e imperiali nuovi, 
egli avesse pronti nel suo scrigno i tarì vecchi, i danari vecchi, gl’imperiali vec- 
chi! E sapete come risponde all’ argomento di fatto che l’ agostaro è nominato 
nelle Costituzioni Imperiali già pubblicate innanzi al dicembre del 1231, quando 
si dice: «Nummi aurei, qui Augustales vocantur, de mandato Imperatoris in 
utraque sicla Brundusii et Messanae cuduntur?» Ecco le parole stesse del cri- 
tico. « Più saldo argomento parrebbe quello addotto a p. 371, che cioè gli ago- 
stari dovettero esser coniati prima del 1231, perchè la legge che obbliga il pa- 
gamento in quella moneta è dell’agosto, e la coniazione fu fatta solo in dicem- 
bre. Certo questa osservazione è acuta, e quando troviamo che il Di Giovanni 
usi di questi argomenti, dobbiamo render giustizia al suo ingegno. Tuttavia nella 
storia antica o recente e di tutti i paesi si potrebbero trovare esempì di fatti 


(1) V. Epist. Senil.. L. XV, Ep. I, ad L. de Penna. 


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RISPOSTA 14 








consimili. Abbiamo visto nella formazione del regno d’Italia, essersi in più luoghi 
ordinato l’uso della nuova moneta decimale ancor non coniata o non abbondan- 
temente messa in circolazione. » Questa risposta rafforza il mio argomento cioè 
che gli agostari del 1231 erano agostari nuovi, che con nuovo ragguaglio sup- 
plivano gli antichi, come il tarì nuovo suppliva il tari vecchio, il danaro nuovo 
il danaro vecchio, e più di una volta l’ imperiale nuovo l’imperiale più antico. 
La moneta decimale esisteva prima che nel 1860 se ne ordinasse l’uso nelle parti 
d’Italia recentemente annesse all’antico Regno sardo; e la nuova coniazione era 
richiesta pel bisogno cresciuto da più numerosa popolazione che doveva usarla; 
di guisa che finchè non ce ne fu copia sufficiente, fu lasciata a servirsi dell’an- 
tica moneta ragguagliata alla decimale già esistente, e non mai da coniarsi in 
futuro. Nell'esempio poi che aggiunge della carta moneta, è scambiato il valore 
- della moneta colla materia, e non fa punto all’uopo (1). 

Finalmente, non accetta il critico come testo siciliano il Libro Troiano che si 
conserva in bel codice del secolo XIV nella nostra Biblioteca Comunale, e me- 
ravigliato esclama: quando mai furono forme siciliane queste pesso , pofensia, 
bellessa, giovana , pregate e abbandonate per pregati e abbandonati , risbrandite per 
risplendé e simili? Pubblicando taluni capitoli del nostro codice che non si leg- 
gono nella Guerra di Troia secondo la lezione pubblicata , io dissi e nel vol. I, 
e nel III, della Filologia e letteratura siciliana che il codice dovette uscire di mano 
siciliana, ma è da esser notato tra i documenti di lingua illustre che offre la 
Sicilia per quel secolo XIV, se pur non sia della fine stessa del secolo XIII (pa- 
gina 49). Il che non vuol dire che il dettato del codice sia in dialetto siciliano. 
Provava poi che era uscito di mano siciliana con questi esempi di puri sicilia- 
nismi, come lassorno adormentata a Medea, feci signore a Giasone, nave caricata, 
la ingiulia, levato cui per tranne, eccetto, era stracquata, cuori consate, unde, nel 
modo stesso che è in tutte le scritture siciliane del secolo XIII e XIV: ma ag- 
giungeva «non essere il testo nel volgare plebeo, bensì nel volgare illustre più 
o meno comune a tutti i paesi d’Italia.» Nè so invero come il critico mi fa dire 
che il dialetto siciliano sia nello stesso tempo volgare illustre, quand’io non dico 
se non che nel volgare siciliano si conservarono le forme primitive del volgare 
illustre, e nell’ uso che se ne fece da’ nostri scrittori fu per taluni molto acco- 
stato alla lingua nobile, sì che è da distinguere quanto al siciliano il volgare 
plebeo dal nobile, nel quale si scrissero cronache e storie e libri morali che 
tanto si accostano alle forme e maniere della lingua nobile e comune a tutta 


(1) Come dell’agostaro anche della defensa si è domandato un documento anteriore a Fe- 
derico , cioè al 1231, che è la data della Costituzione De Defensis imponendis. Il Boehmer 
aveva notato che nella Costituzione citata “la parola si usa come parola ben conosciuta; » 
e già in un Diploma greco del 1177-78 ora pubblicato dal prof. Salinas si legge appunto 
la parola Tùv vopixd» degevalwva usata nel senso stesso di Ciullo, secondo il contesto e le pa- 
role che seguono nel diploma , in cui con caratteri greci è mantenuta la parola legale la- 
tina. V. Archivio storico siciliano, N. S. avno VI, p. 13, 15. Pal. 1881. 


12 LA CRITICA DI ALCUNI PERIODICI ITALIANI 


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Italia. Basta aprire la Conquista di Sicilia di fra Simone da Lentini, e il libro 
delle Virtù e dei vizi, che sono del secolo XIV, perchè si abbia documento incon- 
trovertibile del fatto da me notato. 

Quanto poi alla Veronica Lazio io la dissi poetessa creduta anteriore a Ciullo, 
e non riferii che il passo del Bagolino, il quale il critico credette esser mio, fa- 
cendomela chiamare altra Saffo, così come la dice il Bagolino; e non volli se 
non aggiungere alla tradizione che se n’ha in Alcamo la testimonianza del passo 
di uno scritto inedito del Bagolino. Non era certamente questa ragione pel cri- 
tico di avvisare ch’io voglia fare di Alcamo la patria dei miracoli » e ch’io creda 
alla casa detta volgarmente di Ciullo; quando per opposto io scriveva che quella 
casa non risalirà forse al di là del secolo XV, o XVI, ma è nella parte antica 
della città, e confinante al «planu, in lu quali planu a suo principio erano casi 
di Boni homini di Alcamu; » sopra le quali fu fatta una chitatella, che già nel 1398, 
vuol dire due secoli dopo che viveva Ciullo era in tutto disfacta, (v. p. 379). La 
casa non sarà stata di Ciullo, ma lì proprio poteva bene essere la casa di Ciullo, 
se ci si concede ancora che il poeta della Rosa fresca aulentissima sia stato d’Al- 
camo, e non un pugliese, o un tale d’incerto paese, e solamente detto dal camo, 
dalla forma singolare di abito che portava. 

Il Ciullo o Celio, o Cielo, taverniero, vanitoso, pezzente come il vogliono i nuovi 
critici, sta facendo voltare il cervello a qualcuno, il quale ci perderebbe anche 
un occhio a trovarne il battesimo in Puglia, se ha il bel piacere di stampare 
ipotesi e metterli in giro come verità irrefragabili, a corso forzoso, secondo la 
frase bene trovata dal D’Ovidio (1); ed io non ci torno più sopra, finchè il povero 
Ciullo è in mano di chi più può a spogliarla fin del luogo natale, anzi fin del 
nome che ebbe o dai suoi genitori o dai suoi contemporanei. 

Non rispondo, con ragione, alla censura che riguarda la forma del mio scritto, 
quando si dice che non sia forma italiana il far seguire al verbo sapere la par- 
ticella di, o come riempitivo, o come locuzione ellittica, secondo i tanti esempi 
che si hanno ne’ buoni scrittori di nostra lingua. Nè credo in materia letteraria 
dover trattare delle pretensioni regionali, delle quali con maligno vezzo si vuol 
fare un delitto a chi null’altro si può imputare. 

Sia pigliata la mia professione di fede letteraria di qual modo si voglia, quanto 
alla fede politica io non so di essere italiano se non perchè sono siciliano. Non 
conosco un’Italia senza le parti che la compongono, nè un italiano che non sia 
nato in una delle regioni italiche, o provincie che si dicano, l’amore delle quali 
è amore all’Italia. Non crederò mai che sarà caldo di amore, in fatti, e non in 
parole per la patria comune, chi non sente amore pel suo luogo natale, per la 
sua provincia, per la storia e le tradizioni del nome che porta dalla nascita, 
quando questo nome è illustre per gloriose memorie, nè il tempo per mutare 
di secoli ha potuto cancellarlo dalla storia della civiltà umana. 


(1) V. Giornale Napoletano, etc. sett. 1879, p. 89. 


SULLA PUBBLICA MORALITÀ 
E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 


(IN PROPOSITO DI UN PROGETTO DEL SIG. STEFANO PIETRO ZECCHINI) 


DISCORSO 


Del Socio Ab. Prof. VINCENZO CRISAFULLI 


Letto nella tornata del 21 novembre 1880. 


Questo illustre consesso ebbe, è qualche tempo, la bontà di commettere a me 
l’esame di un progetto, che gli era stato presentato dal signor Stefano Pietro 
Zecchini, nello scopo di promuovere la pubblica moralità. 

Se con qualche ritardo vengo a rassegnarvi il mio còmpito, ho tanta fiducia 
nella vostra benevoglienza, che nemmeno stimo opportuno di esporvi le ragioni 
di mia giustificazione, consapevoli, come siete, che un argomento di così alta 
importanza, e che può riguardarsi di una attualità sempre palpitante, debba essere 
trattato con tutta maturità, e con quella tranquillità che a’ grandi argomenti si 
conviene. 

Il nome dello Zecchini è ben conosciuto nella repubblica letteraria. Il buon 
Tommaseo ne fa bello elogio (1). Quello illustre filologo, il cui Dizionario dei 
sinonimi italiani ha tanto vantaggio arrecato allo studio dell’italica favella, loda, 
senza gelosia di mestiere, lo Zecchini, autore anch’egli di un Dizionario di quel 
genere, nel quale si permette talvolta fare delle osservazioni al pensiero ed alla 
critica del Tommaseo. 

Lo Zecchini, benchè abbia svolto argomenti di diverso tema, ed ora abbia trat- 
tato delle pubbliche imposte, or di soggetti politici, ed abbia financo scritto 
delle tragedie e delle commedie , ed abbia pur trattato di scienze fisiche e na- 
turali; pare che con predilezione di affetto siasi dato alla istruzione della gio- 


(1) Dizionario di estetica, vol. 2, v. Zecchini. 


2 SULLA PUBBLICA MORALITÀ" 





ventù, ed alla educazione del popolo, giacchè furono a cotali cure consacrate le 
molte fatiche del suo intrapreso letterario ministero (1). 

Nell'ultima sua opera Dio, l'universo e la fratellanza di tutti gli esseri nella erea- 
zione, opera lodatissima dal Bersezio, ha fatto mostra di un ingegno poderoso, e 
di un tesoro di cognizioni che veramente sorprende per la sua ricchezza. Egli ha 
avuto il coraggio di misurarsi con gli uomini che oggi godono la popolarità 
scientifica, come il Biichner ed il Moleschott, e con molta critica e spesso con 
buoni principii ha trattato i più grandi problemi intorno a cui la scienza oggi 
si affatica, Dio — la creazione — la intelligenza — la materia — l’uomo etc. 

Un uomo che si è consacrato alla scienza, ed alla educazione, è ben naturale 
non poter frenare i suoi sdegni alla vista della immoralità, che trionfante 
minaccia di travolgere il retto sentire e con esso le rette norme del giudicare. 
Egli ha dunque presentato a questa Accademia (e so di averla presentato anche 
ad altre) una rappresentanza diretta al Ministero della Pubblica istruzione, nella 
quale lamentando con tutta la gravità e senza spirito di partigiana politica , lo 
scadimento della morale pubblica in Italia, sollecita il Governo a provvedere, 
che, almeno nella crescente generazione, venga restaurata la pubblica morale 
educazione. 

Crede l’autore che a tal’opera sia necessario un libro, che serva di guida pe- 
dagogica, nel quale si debba esporre un sistema o metodo pratico di pubblica 
morale educazione «combinando, per quanto sia possibile, la pubblica con la do- 
mestica, di modo che l’una venisse a coadjuvarsi con l’altra » 

A cotesto scopo egli vorrebbe che si indicesse un concorso, del quale egli 
espone l’andamento, e le forme; e che gli scritti, con tutte le consuete guaren- 
tigie della segretezza, si esaminassero da una Commissione, all’ uopo scelta dal 
Ministero, la quale dovrebbe indicare qual fosse il migliore in merito. Tal libro 
dovrebbe essere stampato a spese del Governo, e venduto, a tenue prezzo, agli 
allievi ed a’ maestri ed alle maestre. Lo scrittore ha dichiarato essersi astenuto 
dallo indicare alcuna norma, perchè ha creduto di dover lasciarsi libertà pie- 
nissima a’ concorrenti di scegliere il punto di partenza, e le vie da seguire, li- 
bero ognuno di cogliere quel che meglio credesse, purchè onesto, da ogni si- 
stema filosofico, politico, religioso, economico. 

Per incoraggiare poi la pratica della moralità, vorrebbe, che sì costituisse un 
fondo, detto della pubblica educazione, e che su tal fondo si distribuissero , con 
tutta la massima solennità, de’ premi, in ogni anno, a’ giovanetti di 18 anni, ed 
alle giovanette di anni 16, figli di campagnuoli, di braccianti, di operai, che fos- 
sero di buona notoria condotta, ed appartenessero ad un comune, nel quale ri- 
sultasse dalla statistica giudiziaria non essersi commesso reato. Scende a parti- 


(1) I cenni biografici e delle opere dello Zecchini possono leggersi nel Dizionario diogra- 
fico degli scrittori comporanei pubblicato dal De Gubernatis. 





E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 3 





colareggiare come debba farsi la distribuzione de’ premi, e come debba costi- 
tuirsi, impinguarsi il fondo della educazione, e come impiegarsi le rendite ; le 
quali cose possono da chi ne abbia vaghezza leggersi per disteso nella scritta, 
che è stata depositata sul tavolo della Presidenza. 

È questo in succinto il progetto del signor Zecchini, al quale io non posso 
che fare grandissimo plauso, pel nobile intento che egli si propone di conse- 
guire, la restaurazione della pubblica moralità. 

Intanto io mi permetterò di rassegnare alcune considerazioni su di un argo- 


mento di così alta importanza. 


UD 
pi 


Che la pubblica moralità in Italia abbia bisogno di essere efficacemente rav- 
vivata, è un fatto di cui noi tutti siamo pur troppo dolorosamente convinti. Oltre 
quello che ne sappiamo dalle cronache cotidiane de’ nostri giornali, questo Di- 
sogno ci viene in ogni anno solennemente rilevato dalla autorevole voce di quei 
magistrati, che hanno per ufficio il grave compito di tener ragione delle delin- 
quenze, e i rintracciare le torbide fonti, d’onde ebbero il triste loro nascimento. 

Non è questo il luogo di sciorinare la statistica delle colpe. In queste aule, 
che sono la sede del vero e del bello, non dovrebbe arrivare la tetra nube che 
si alza dalle morte gore ove si impaluda il delitto. 

Eppure io vi prego di permettermi, che alcune cifre vi presenti e taluni con- 
fronti, che da dati statistici ufficiali mi è stato dato raccogliere. 

In Italia avvengono 400 mila reati all’anno. 

La popolazione carceraria è in media di 80 mila detenuti. 

Il bilancio finanziario della delinquenza tocca, se non supera, gli 80 milioni 
all’anno. i 

Confrontando i soli omicidii che avvengono in Italia, con quelli degli altri 
paesi, si ha: 

In Francia e nel Belgio il numero degli omicidii qualificati, è tre o quattro 
volte più piccolo che fra noi. Gli altri omicidii discendono anche di più. 

L’Italia ha tre volte più di omicidii che l’Austria. 

Quattro volte di più che la Prussia. 

Cinque volte di più che la Svezia. 

Dieci volte di più che l’Irlanda. 

Quattordici volte di più che la Danimarca. 

Sedici volte di più della Inghilterra. 

Ognuno che legge cotali cifre di colore cotanto oscuro, sentesi spinto a do- 
mandare, se in Italia sieno o manchino le leggi! 


Le leggi sono, o Signori; ma quello che manca è piuttosto il sentimento della 


4 SULLA PUBBLICA MORALITA’ 





moralità : l'imponenza del dovere è un sentimento così illanguidito e sì fioco, 
che non arriva a far rispettabile la stessa legge penale, nè a far sentire 


quel duro camo 
Che dovria tener l’uom dentro a sua meta. 


Sin da’ primordi della formazione della grande nazionalità italiana, si avvertì 
il bisogno di far rianimarsi la pubblica moralità. E riputandosi che tal difetto 
fosse un triste retaggio de’ passati governi, si ebbe speranza, che, scosso il giogo 
delle oppressioni politiche, la virtù della stirpe latina avrebbe ripigliato il suo 
elaterio, come molla per lungo tempo compressa, a cui si dia la libertà dello 
scatto. E si sperò che la libertà politica avrebbe restaurato, senza dubbio, la 
moralità della giovane nazione. 

Le istituzioni politiche hanno, senza fallo, su’ costumi una grande influenza. 
Le libere istituzioni, come già osservarono Filangieri, e recentemente il Naville (1), 
sviluppano in un popolo il sentimento della dignità personale, come le istituzioni 
tiranniche servono a degradar l’uomo. Le istituzioni di giustizia, svolgono il 
sentimento di giustizia nelle popolazioni, come le istituzioni ingiuste fan na- 
scere ed alimentano il sentimento della oppressione. Le istituzioni di pace pro- 
vocano la mutua benevoglienza, come le istituzioni di guerra alimentano l’osti- 
lità, l'odio, e tutte le malvagie passioni. Le istituzioni politiche hanno, non vi 
ha dubbio, una grande efficacia, e possono favorire il bene ed il male; ma è e- 
vidente che non sono esse mica la radice del bene e del male. Accordare ad 
esse un potere morale assoluto, conchiude il Naville, è un errore nel quale ca- 
dono que’ filosofi, che appunto chiamansi politici. 

Sotto alle politiche istituzioni sono gli uomini, e se essi sono maligni, voglia 
Iddio che col volger del tempo non si rendano prive di effetto le stesse politiche 
istituzioni, e non si corrompano. Esempio ce ne siano le grandi repubbliche, e 
le grandi monarchie, nel cui seno fiorirono una volta e le arti, e le scienze, e 
le forme più miti di libere istituzioni. 

Corrotta la morale, avvizziscono le nazioni più grandi, benchè forti, e benchè 
ricche. Cartagine povera, ma sobria fu rivale di Roma. Quando arricchitasi coi 
suoi commerci e con le sue piraterie, smise la sua sobrietà, cadde sotto la spada 
di Scipione che la distrusse. Sparta finchè fu ossequente alle severe leggi di Li- 
curgo, fu invincibile. Quando l’agiatezza e la corruzione entrò ne’ suoi abitanti, 


: (1) Le Probleme du mal. Disc. 3. 


IDG 


E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 5) 





dovette curvarsi sotto il giogo straniero. Roma finchè fu povera e morale, fu 
grande. La Repubblica Romana che dava a’ suoi soldati pane ed acqua e cipolle, 
dette leggi a tutto il mondo e fu grande. Quando sotto gl’Imperatori ebbe ric- 
chezza e lusso, ebbe la corruzione, e fu vinta da’ soldati di Alarico e di Odoacre, 
poveri ma sobri, e quindi forti. 

Noi confessiamo non aver saputo giammai comprendere, quale importanza po- 
litica e pratica abbia potuto darsi a quella massima, che pure spesso venne an- 
nunziata da’ nostri politici, che la libertà sia rimedio e freno a se stessa. In uno 
stato di pura natura, che la libertà della propria difesa possa utilmente contrap- 
porsi alla libertà, che altri si arroghi, di violare i dritti dell’altrui personalità, lo 
comprendiamo; ma in uno stato civilmente sociale, che la libertà possa correg- 
gere gli abusi che provengono dal mal uso della stessa libertà, già degenerata 
in licenza, confessiamo che non può entrare ne’ nostri convincimenti. 

Fortunatamente non tardò molto, ed i politici italiani dovettero confessare di 
aver riposto malamente nella libertà politica le belle speranze della pubblica mo- 
ralità. 


$ 3. 


Giulio Simon ebbe già detto «essere la nazione più civile quella che abbia 
maggior numero di scuole ». Filangieri aveva pur detto « essere la pubblica istru- 
zione, per un popolo che sorge a libertà, l’unica guarentigia per conservarsela, 
e l’unica arma per racquistarla, perduta. » 

Si credette di aver trovato nella pubblica istruzione il vero ed efficace mezzo 
per restaurare nel popolo, recentemente sorto a libertà, il sentimento della mo- 
ralità. E si moltiplicaron le scuole, la pubblica istruzione si rendè accostabile a 
tutti, si diffuse nelle classi più basse della società, ed ovunque si sentirono ri- 
petere le splendide formole: « L'ignoranza è la madre del delitto.» «Ogni scuola 
che si apre è una prigione che si chiude. » 

Noi tutti che per gran parte della nostra vita appartenghiamo alla generazione 
che tramonta, dovemmo sentire quegli augurî che si facevano, que’ vaticinì del 
prossimo ritorno della pubblica moralità; e ne godemmo, quantunque fosse a noi 
rivolta una gran parte di quello umiliante linguaggio, con cui si dipingeva lo 
stato di brutale ignoranza in cui si dicevan tenute le popolazioni d’Italia, e special- 
mente quelle del mezzogiorno. E permettetemi, o Signori, che io alzi oggi, che 
l'occasione mi si presenta, la voce, per protestare contro un tal linguaggio che 
sanguinosamente ci insulta. Qualunque sia stata la già caduta oppressione poli- 
tica, in quest’Isola non mancarono mai i cultori della scienza, e de’ liberi veri. 
Fu servo chi volle avvilire la propria coscienza, e non seppe anche nel servaggio 
conservare illesa la propria dignità: nè mai l'ignoranza potè colle sue dense 


6 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





ombre spegnere, nella pupilla dell’intuito delle nostre popolazioni, la virtù visiva, 
che per beneficio di natura, ci è propria. 

Ma, o Signori, credete voi che davvero la pubblica istruzione sia un mezzo ef- 
ficace per restaurare o promuovere la pubblica moralità ? 

Sarei indegno di parlare in questa aula del sapere, se disconoscessi essere 
l’istruzione uno de’ primi e più vivi bisogni, che l’uomo sente di dovere ad ogni 
costo di soddisfare. 

Il disse già Cicerone, che ammise come innata la bramosia dell’ apprendere: 
«Est innatus in nobis cognitionis amor et scientiae — Omnes trahimur et du- 
cimur ad cognitionis et scientiae cupiditatem » (1). 

Voglia il cielo che l’ uomo velesse ed operasse secondo il retto che alla pro- 
pria intelligenza si rivela! Ma è questo il difficile che pur sì rimpiange nella 
civil società. Ognun che conosce il processo psicologico che bisogna compiersi 
perchè un vero, che tutto circondato di luce si appalesa all’ umano intelletto, 
possa dalla volontà essere abbracciato , e da questa imposto a norma degli atti 
suoi volitivi; ognun che conosce quante difficoltà si incontrino, perchè quel vero 
dell’ordine intellettuale divenga un dovere, e l’uomo operi come deva, e non come 
gli piaccia; comprenderà qual debole appoggio possa la sola e nuda istruzione ap- 
prestare alla restaurazione della moralità. 

Io non citerò in proposito le parole gravissime di Monsignor Dupanloup, che 
nettamente distinse il campo della istruzione da quello dell’ educazione e della 
moralità. L’autorità di quel gran filosofo, perchè cattolico, potrà a qualcuno 
sembrar sospetta od esagerata. Ma ricorderò invece l’autorità del Seymour, Pre- 
sidente della associazione carceraria di America; l’autorità del Messedaglia, e fi- 
nalmente quella del Lombroso, nome così simpatico alla scienza moderna, e che 
non risparmia fatiche pel progresso delle più astruse ricerche, ne’ segreti delle 
coscienze , delle prigioni, e de’ manicomî. Tutti concordemente assicurano che 
«la istruzione deve andar considerata come una forza piuttosto, che come una 
ragion morale: forza (come è la sanità, il denaro, la robustezza) che può indi- 
rizzare al bene, e che può pure indirizzare al male, e che può riuscire indiffe- 
rente. » 

Non vi ha dubbio che la vita intellettuale, come chiamò Degerando quella dello 
scienziato, dispone per lo più l’ uomo alla moralità. Uomini esercitati a’ criteri 
del vero, riescono più facilmente a domare le passioni brutali, e naturalmente 
ripugnano dal ravvoltolarsi nelle tortuose e sterili vie del delitto. E bisogna con- 
fessare, che tra gli scienziati, come notò il Lombroso, son pochi i tributi che si 
son dati alla colpa. Con rincrescimento e con dolore si annovera il nome del 
più grande filosofo del secolo XVII, Francesco Bacone, che, trascinato dalla am- 
bizione, si rese colpevole d’infamanti azioni. Infelice 1 


(1) Cicer. 4 e 5 de Fin. 





E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 7 





... nec te Apollinis infula texit. 


Che direm poi di quella cultura che non è proprio scientifica, ma letteraria 
ed artistica? 

Il Lombroso, nella sua recente opera Il delinquente, registra a centina]ja i uomi 
di letterati, artisti, e poeti, in cui non sì avverò quel detto di Orazio 


Ingenuas dedicisse artes 
Emollit mores, nec sinit esse feros. 


Che dir, dopo ciò, di quella elementare istruzione, qual’ è il saper leggere e 
scrivere e far de’ conti, che è appunto quella che si può apprestare alle inferiori 
classi del popolo, in cui a preferenza si ba bisogno di promuovere la moralità? 

Io confesso che non ho potuto mai farmi ragione, come da cosiìffatto modesto 
e tenue genere d’istruzione siasi potuta sperare la restaurazione della pubblica 
moralità nelle masse; non ho poluto mai comprendere come la semplice cogni- 
zione delle lettere, o del suono onde si intitola un oggetto, ed anche le nozioni 
de’ grandi progressi tecnologici, possano accrescere il peculio della morale. Queste 
cognizioni (dice con tutto il coraggio il Lombroso) possono a loro volta, invece, 
essero un valido strumento del maleficio, creando nuovi crimini, che più facil- 
mente possono sfuggire a’ colpi della legge. 

Il Ducpetiaux fu nel 1832 nel Belgio uno de’ più grandi promotori della pub- 
blica istruzione, per sostenere quel principio, che il legislatore non ha dritto a 
punire la colpa, se non abbia adoprato ogni mezzo per prevenirla, che è un teo- 
rema che oggi ha incontrato ne’ nostri pubblicisti le più vive simpatie , per la 
soluzione del problema sociale. 

Eppure, appena ebbe quello scrittore statuito la massima, che «l'ignoranza è 
la madre del delitto » si affrettò a dichiarare, che per istruzione non intendeva 
egli solo la letteraria, ma siìibbene la morale, giacchè, senza questa, l’altra non 
è solo incompleta, ma è più sovente un male che un beneficio. 

Ma si dirà, che presso noi la letteraria istruzione non va scompagnata dalla 
morale, giacchè al contadino ed all’operaio, mentre sì dispensa la prima, non si 
tralascia di apprestare un corredo di buone massime per essere onesti cittadini, 
e divenire un giorno buoni padri di famiglia. 

È questo un bene senza meno; ma mi si permetta di osservare, che cotesto 
corredo di morali precetti, che vien consegnato agli allievi, non fa che andar là 
dove vanno i precetti che lor si consegnano per la grammatica, e per l’aritme- 
tica, e non si affidano che teoreticamente allo intelletto. 

Oh! i precetti morali non all’intelletto bisogna affidarsi, ma incidersi nel sen- 
timento. La ragione, diceva Segur, semplicemente disegna, il sentimento incide. 
Ed è perciò che gli antichi filosofi della Grecia non si contentavano di una sem- 
plice esposizione della loro dottrina, ma organavano le loro scuole, come a so- 


8 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





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cietà, a setta, e non si contentavano di far apprendere le loro teorie intelletti- 
vamente, ma-curavano che fossero da’ loro discepoli poste in pratica, e che le 
loro azioni alle consegnate dottrine si uniformassero. Il maestro oggidì, inse- 
gnato teoreticamente il precetto morale, non invigila, per fermo, se gli allievi 
lo mettano in pratica, e mentre per le regole grammaticali egli si adopra a cor- 
reggere i compiti, pe’ precetti morali si può aver la sicurezza che non senta il 
dovere di apportare, a’ trasgressori, alcun rimprovero che li corregga. 

La semplice istruzione adunque non è un fattore di moralità; e col fatto han 
dovuto i nostri statisti convincersi, come siano fallate tutte le speranze che in 
essa avevano riposto, e che non si è avverato di essersi chiusa una prigione con 
l’apertura di una scuola novella. 

Nè io qui voglio svolgere il concetto degli autori testè citati, che la istruzione 
talvolta fa male almeno in talune classi. Una istruzione superficiale tende spes- 
sissimo ad accrescere l’ orgoglio, la vanità, la burbanza, specialmente se si la- 
sciano impunemente nelle mani di cotesta gente, i libri, che più che ad istruire, 
tendono a pervertire e l’intelletto ed il cuore. 

Io non insisto su cotesto argomento, sicuro come sono, che ognun di voi vor- 
rebbe risparmiato il dolore di sentirsi ripetere ciò che si vorrebbe non esser co- 


stretto a confessare. 


8 4. 


LI 


Un aliro spediente a cui si è ricorso per la restaurazione della pubblica mo- 
ralità, è il poter delle leggi. 

Ognun conosce quello che avvenne in Sparta, quando si ebbe la certezza che 
l’armata spartana aveva toccato in Leuttra una sanguinosa sconfitta. All’annunzio, 
che stavano per rientrare in città gli avanzi di quella truppa valorosa, corse ad 
essi incontro mesta ed addolorata la popolazione. Ma che avvenne? Le madri 
che avevano la certezza di ritrovare fra’ reduci i propri figliuoli, movevano loro 
incontro desolate e con la fronte dimessa, come se ad esse fosse avvenuta una 
gravissima sventura : le altre che avevan saputo essere la loro prole rimasta sul 
campo di battaglia, correvano liete al tempio, ringraziando gli Dei, come se aves- 
sero ricevuto un privilegiato favore. 

Oh potenza delle leggi spartane! esclamerà qualcuno, che ben conoscendo la 
schiettezza di quelle anime fiere, non può in quelle madri supporre un infin- 
gimento, una simulazione. Potenza delle leggi! arrivare sino a sconvolgere gli 
affetti del cuore, e del cuore di madre, e farli andare a ritroso della natura! 

Eppure tutti i filosofi riconoscono, che cota’ prodigiosi effetti non alle leggi de- 
vono attribuirsi, ma alla possanza della educazione. 

A che valgono le leggi senza il costume? Il disse già Orazio: 


E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 9 





Quid leges sine moribus 
Vanae proficiunt? (L. 3, Od. 24). 


Le leggi spartane sarebbero riuscite inefficaci, se que’ legislatori, non avessero 
all’autorità delle stesse preparato il sostrato della educazione, e quindi della mo- 
ralità. Io non ho bisogno di accennare filosofiche dimostrazioni, ed autorità per 
dimostrar ciò che è nella coscienza di tutti. « Queste voci, dice il Mamiani, dritto 
«e dovere, pinizione, espiazione, imputabilità, e somiglianti, perdono qualunque 
« proprio ed intrinseco significato, quando nol derivino dal senso morale co- 
«mune, e dalla comune ed assoluta legge morale.» La qual legge morale è ap- 
punto il grande, nobile e necessario elemento che deve promoversi con la edu- 
cazione. 

Io convengo che l’azione della legge è per natura sua anche educativa, e che 
come essa attinge dalla morale la sua forza, riesce, con l’azione sua perenne e 
minacciosa, ad esercitare la sua azione pedagogica sulla umanità. Ma nessuno 
vorrà mettere in dubbio, che inal si consiglia quel legislatore che tutta voglia l’o- 
pera della moralità affidare alla legge, trascurando di promuovere l’ educazione 
e la moralità con que’ mezzi che sono esclusivamente propri per ottenerla. In- 
terrogato uno ne’ più celebri tesmofori della Grecia, come avesse ottenuto, che 
nel suo stato tanta civiltà regnasse, mentre poche eran le leggi, e scarsissimi i 
tribunali; egli che tanta opera avea posta nell’educazione del popolo, rispose, che 
sua cura era stata quella di rendere impossibile il delitto, e quindi l’opera delle 
leggi e del magistrato era divenuta completamente superflua. 

È celebrata la risposta di Senocrate, quando, interrogato anch’ egli, che cosa 
avessero appreso, dopo tanto tempo, gli scolari alla sua scuola, rispose: « A fare 
spontaneamente quello che avrebbero dovuto fare, costretti dalla legge. » Ut sponte 
facerent, quod per leges facere cogerentur, » come ci riferisce Cicerone. 

Fa meraviglia come oggi, in un secolo in cui tanto onore si vuol rendere alla 
ragione, alla libertà, e, direi quasi, allo spontaneo svolgimento de’ sentimenti, 
si voglia, ciò non pertanto, accordare all’ azione delle leggi tanta efficacia, da 
vommettere ad essa la missione della pubblica educazione. La scuola de’ politici 
(lo confessiamo a malincuore) ha oggi la prevalenza. Par che oggi si voglia dire: 
A che tanta cura per le braccia dell’ operajo, se abbiamo delle macchine così 
perfette nella moderna meccanica, da poter fare a meno del lavoro e dello sforzo 
dell’ operajo? Se abbiamo un corredo di leggi così ben organate, che nessuna 
umana azione sfugga dalla loro previsione e dalla loro azione , a che occuparci 
della moralità degli individui ? Questo sistema degrada molto la umanità. Quali 
guarentigie può aver l’ordine e la pace, se non sono nelle convinzioni e ne’ sen- 
timenti de’ cittadini? Voi conserverete i dritti, proteggerele l'ordine e la tran- 
quillità esteriore della società; ma voi non avrete nessuna parte nella direzione 
del pensiero, e de’ sentimenti, che sono le sole basi solide del rispetto de’ dritti, 
dell’ ordine, della pubblica pace. Vi appartiene la sola forma esteriore della so- 


2 


10 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





cietà, ma non il fondo della società stessa, di cui la società non è che la ma- 
nifestazione. { 

La moltiplicità delle leggi, disse con molta sapienza Tacito, non è segno di 
civiltà, ma di corruzione in un popolo: « Corruptissima republica , plurimae 
leges. » 

E disse il vero. La moltiplicità delle leggi accenna un tal decadimento nello 
intelletto, da non poter esso conoscere da sè la verità del dovere, e la norma teore- 
tica delle azioni, ed aver bisogno della voce della guida che gl’indicasse il cam- 
mino. Ed accenna un pervertimento tale della volontà, da aver questa bisogno, 
come cavallo riottoso, dello sprone e della minaccia di una pena, per contenersi 
nei limiti del dovere. 

L’uno e l’altro di tali bisogni segnano, nel termometro della civiltà, il mas- 
simo grado dello scadimento psicologico e morale di una popolazione. 

Voi vedete infatti, o Signori, che leggi minuziose e particolareggiate si im- 
pongano a quelle classi, in cui il legislatore non può porre molta fiducia nell’in- 
telligenza, nelle buone disposizioni degl’individui: esempio ne siano i codici e i 
regolamenti militari, che valer devono per persone, che, venute dai campi e dai 
bassi fondi delle città, non si fa torto loro a presumerle bisognose di guida e di 
incitamenti alla pratica de’ loro novelli doveri. 

Noi chiamiamo barbari i nostri maggiori, perchè non avevano leggi, o ne ave- 
vano pochissime. I Romani vissero tanto tempo senza leggi, e poi non ebbero 
che le poche leggi delle dodici tavole. Dovremmo esser più giusti. Forse cotestoro 
avrebbero maggior ragione a rivolgere a noi quel rimprovero, se vedessero gli 
immensi volumi delle legislazioni di Europa, che possono ben dirsi «onus mul- 
torum cameelorum ». 

I nostri antenati invece di leggere sulle tavole di bronzo le norme de’ loro 
doveri, Aere firo minantia verba, come ben definì Ovidio le leggi, le leggevano 
nel proprio cuore e nella propria coscienza: Animo inscriptae leges circumferuntur 
a civibus, come disse Isocrate. 

Si moltiplichino le leggi pur quanto si voglia, è impossibile che tutte si de- 
terminino e sì rendano giuridicamente imputabili le possibili umane azioni. Una 
grandissima immensa parte delle umane azioni resterà sempre sotto il potere 
della legge morale, alla cui restaurazione è mestieri che alla fine intendano gli 
sforzi del pubblico potere. 

Quello che abbiam detto delle leggi in generale, io intendo, o Signori; appli- 
care anche alle leggi penali più particolarmente, che sono appunto quelle leggi 
in cui tanta fiducia si suole, dalla scuola politica, riporre, pel bramato scopo 
della moralizzazione. Il carattere essenziale di coteste leggi, dice il Jourdan (1) 
è di reprimere il delitto; il più gran merito sarebbe di prevenirlo. Voler sosti- 


(1) La justice criminelle en France, tit. 1, pag. 24. Bibl. util. 


E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA © 11 





tuire all’azione repressiva della pena la sua azione preventiva, ciò importerebbe 
non solo compromettere la doppia azione della pena, ma fare del condannato un 
puro mezzo, per ottenere l’altrui correzione. La pena non esiste che a condizione 
di ferire: pressochè mai essa ripara il male che essa non ha punto impedito. 
E sventuratamente si vede crescere spesso il male anche a lato del colpevole 
punito. La moralità è un progresso: e le leggi penali, come disse Montesquieu (1) 
non hanno avuto altro di effetto, che quello della distruzione. 

Sarebbe ben triste quella società che fosse costretta a riporre nelle prigioni e 
negli ergastoli la speranza della propria moralità| 

Non negando, come sopra dicemmo, l’influenza delle leggi sulla pubblica mo- 
ralità, non potremo meglio formare il nostro voto, che con le parole del Naville 
«Miglioriamo le macchine, e fortifichiamo le braccia: allora tutto andrà bene : 
o, per tradurre questa figura, sforziamoci di seminare e di coltivare i germi del 
‘bene nell’ anima de’ nostri simili e nella nostra, per ottenere degli uomini in- 
telligenti e di buona volontà » (2). 


$ 5. 


La moralità non può ottenersi che con la educazione. Se Archimede potè dire: 
«Da ubi sistam, coelumque terramque movebo ». Leibnizio disse con pari verità: 
« Chi è padrone della educazione, può cangiare la faccia del mondo ». I costumi 
si impongono alle leggi: essi, come disse Plauto, son capaci di rendere ineffi- 
caci, inutili le leggi più rigorose e più sante. 


SMS NIMONES 
Leges perduxerunt jam in potestatem suam. 

Eae miserae etiam 

Ad parietem sunt fixae clavis ferreis, ubi malos mores 
Adfigi, nimio fuerat aequius (Plauto in Trinummo). 


Di ciò avvedutasi la pubblica opinione, è oramai da qualche tempo in qua, 
che si son viste tutte le cure e governative e private rivolgersi a promuovere 
la educazione, mercè l’opera della pedagogia. Si sono fondate cattedre, si sono 
riformati in miglior modo ed i pubblici ed i privati istituti, si sono aperti asili 
infantili, e di recente abbiam visto sorgere ì giardini d’infanzia, ne’ quali tanta 


parte si è riposta di liete speranze per l’avvenire della novella generazione. 


A questo ultimo espediente si è rivolto Io Zecchini, il quale per tale oggetto 


(1) Esprit des lois, Liv. XXV, ch. 12. 
(2) Naville, op. cit., disc. 3. 


12 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





propone che si pubblichi un libro brevissimo di pubblica educazione, e si allet- 
tino con premì i giovani ad incamminarsi pel sentiero della virtù. 

L’Ahrens moveva un vivo rimprovero alle moderne legislazioni, per avere tra- 
scurato la pubblica educazione, che è un elemento così necessario per tutti i 
legami di ogni civil società, e per l’osservanza delle stesse leggi civili. 

Io credo che tal rimprovero sia alquanto ingiusto, ed inopportuno. 

Confrontando le legislazioni antiche con quelle che sorsero dopo il Cristiane- 
simo, si rileva, senza dubbio, che i legislatori antichi furono molto più solleciti 
che i legislatori cristiani nello occuparsi della pubblica educazione. 

Dove si trovano presso, questi ultimi, tutti quegli ordinamenti legislativi che 
erano e presso i Greci e presso i Persiani, per regolare gradatamente la educa- 
zione della gioventù ? 

Ma a chi considera più attentamente l’argomento, si fa chiaro, che se gli an- 
tichi tanto accuratamente provvidero alla pubblica educazione, fu ciò perchè il 
Potere dello Stato assorbiva allora l’individuo, e lo governava in tutte le rela- 
zioni che avesse potuto avere con se slesso , con gli altri, con Dio. L'individuo 
non esisteva, ma era un atomo che veniva inconscientemente travolto nella tur- 
binosa azione di quell’immenso Ente che si chiamava Stato. La moralità, e quindi 
l'educazione, era una delle più rilevanti mansioni a cui doveva lo Stato soddi- 
sfare. 

Il cristianesimo però arrecò una profonda riforma, restituendo ad ogni uomo 
la propria individualità. Lasciando che allo Stato si subordinasse una parte 
delle sociali relazioni, ne riserbò molte altre alla individuale coscienza, a cui 
si rivelava la legge morale, che era stata dal cristianesimo ricondotta e restaurata. 

Essendo la legge morale un deposito affidato al Potere della Chiesa, dovettero 
ì legislatori cristiani lasciare, che liberamente essa svolgesse la sua azione edu- 
catrice, donde venne quella cessione, che al signor Ahrens sembra da parte dei 
governi, una negligenza, od una colpevole dimenticanza. 

Ma caduta in sospetto oggi la Chiesa, nè volendosi più dallo Stato lasciarle in 
mano la moralizzazione de’ popoli e l’educazione , è stato da ciò probabilmente, 
che un decadimento da un qualche tempo in qua si sia veduto nella pubblica 
moralità. È stato un interregno, in cui l’azione della Chiesa si attenuò, e non 
si raffermò per anco quella dello Stato, il qual periodo non può che aver pro- 
dotto de’ danni. L’uomo naturalmente rifugge da tulto ciò che gli si comanda; 
qualunque imperio, lo irrita, e quello della legge morale è il primo a cui l’uo- 
mo vuolsi naturalmente sottrarre. Abbandonato a sè senza guida, la moralità ne 
ha scapitato. In una terra abbandonata crescono facilmente l’erbe cattive. 


Mores mali quasi herba irrigua 
Succreverunt uberrime; 


disse Plauto (in Trinummo). 


ae 


E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 13 


Lo Stato, ha oggi a se ripreso il compito della pubblica educazione. Dopo esau- 
riti i mezzi enunciati di sopra, ed inutilmente tentatili, ha oggi ricorso alla e- 
ducazione. Ecco ritornata in grande onoranza la pedagogia, che, sino a poco 
tempo innanti, era da Tommaseo, da Gino Capponi, e da altri poco benevolmente 
riguardata. 

Nessun potrebbe di un tal officio negare, o tenere in poco conto l’importanza 
e la nobiltà. Cicerone voleva che i pedagoghi fossero ugualmente amati che le 
nutrici. Isto enim modo nutrices et paedagogi maxime erunt diligendi (De amicit. c. 20). 
Seneca aggagliava a’ filosofi il pedagogo, e si lagnava che distinzione tra essi si 
facesse: « tamquam quidquid aliud sit sapiens quam humani generis paedagogus » 
(Seneca Epist. 89). Nè dispiaccia che io porti la testimonianza di un dottore della 
Chiesa, S. Giovanni Crisostomo, che, molto prima de’ tempi nostri, ebbe rilevata 
la grande missione della pedagogia. «Quid majus quam animis moderari, quam 
adolescentulorum fingere mores? Omni certe pictore, omni certe statuario, cae- 
terisque hujusmodi omnibus excellentiorem hunc duco, qui juvenum animos fin- 
gere non ignoret». (Hom. 60, in cap. 18, Matt.) 

Oggi la pedagogia ha reclamato la sua riabilitazione , e forse con un po’ di 
pretensione. 

Essa non si contenta del modesto compito che gli assegnava Varrone, di ad- 
destrare co’ suoi precetti, e con l’ assiduità delle sue vigili cure, le facoltà del- 
l’allievo: Paedagogus instituit. 

Essa non vuol limitarsi, come dovrebbe, a sviluppare la facoltà, siccome suona 
la parola educazione , quasi che vada cavando fuori — educit — le buone disposi- 
zioni, o che le avvii al loro cammino educare quasi diucere, o ducatum praestare. 
Essa riguardando piu il fine che deve conseguire, che l’opera che deve prestare, 
disdegna la mansione artistica che le è assegnata, di istituire, e che vale adde- 
strare, come faceva il maestro di lira con Socrate, quando gli insegnava a muo- 
vere sulle corde del dolce istrumento le dita, già rendute ritrose dalla vecchiaja, 
Jam senex institui lyra non erubescebat, come dice Quintiliano (Lib. 1, cap. 27). 
Ma, vuole invece creare, quasi direi, le facoltà, o creare, per meglio dire, il tipo 
morale invece di insegnare la gioventù ed avvezzarla a copiarlo, con facilità e 
con esattezza. 

Ed è oggi questa la pretesa esagerata della pedagogia. Che si direbbe di colui 
che chiamato ad insegnar l’arte di copiare un’ antica scrittura cufica, o cunei- 
forme, si permettesse di ritoccare la scrittura stessa, e desse licenza agli allievi 
di alterarne le linee e gli apici che loro riuscisse difficile di ricopiare? 

Oggi a’ cultori di questa, altronde nobilissima disciplina, piace di esagerarne 
siffattamente l’eccellenza, da metterla a capo di tutta l'enciclopedia dello scibile; 
e vi ha chi non dubita di asserire di dover la pedagogia sovrastare alla psicologia, 
alla logica, alle scienze sociali, giuridiche, ed economiche, alla fisiologia, alla a- 
natomia, alla chimica. Egli è naturale, che, avendo tutte coteste scienze mol tis- 
sima attinenza con l’uomo, che anzi essendo tutte fatte per provvedere a’ varì 


14 SULLA PUBBLICA MORALITÀ’ 





bisogni dell’ uomo, possono tutte essere chiamate a dare i’opera loro al perfe- 
zionamento intellettuale, morale, e fisico dell’uomo stesso; ma sarebbe veramente 
strano se un perfetto pedagogo tutte tali scienze dovesse conoscere e professare, 
e peggio ancora se tutte dovessero insegnarsi al giovinetto che venga posto sotto 
la tutela della pedagogia. La pedagogia non deve, per sua missione crear l’uo- 
mo , ma coltivarlo. E ci sovviene quello che avvenne a Democrito, quando ri- 
tirato nelle sepolture di Abdera sua patria, volea meditare, senza distrazioni, 
sulla struttura del mondo: un borghigiano a sfatare quel matto concetto del fi- 
losofo, gli appose alla porta questo scritto: « Non è dell’uomo fabbricar la terra, 
ma coltivarla!» 

E non senza sorpresa oggi si vede, come ne’ riordinamenti della pubblica istru- 
zione, qualche filosofo abbia cominciato le sue disquisizioni dal bisogno di sta- 
bilirsi qual sia il tipo dell’uomo: se debba scegliersi quello dell’antica Grecia, o 
quello di Roma, o l’uomo alla Moleschott, o l’uomo del Cristianesimo! 

Troppa confusione! ci basterebbe che ci si dessero uomini che sappiano fare 
quel che devono fare! che sieno onesti, non facciano male, anzi, che ritengano 
il male come un impossibile, giusta il voto di un santo Re della Francia. In 
somma hasta leggere nel proprio cuore, come vi leggeva Cicerone, e si trova 
l’uomo morale di cui tutti sentiamo il bisogno. 

È perciò che quando il signor Zecchini disse di lasciare a’ concorrenti la li- 
bertà di scegliere il punto di partenza, e le vie per arrivare allo scopo, non deve 
intendersi, che nel plausibile senso, di scegliere quelle vie che meglio conduces- 
sero allo scopo di formar uomini onesti e virtuosi, e non già di lasciar loro la 
facoltà di proporci novelli tipi di novella foggia di moralità. 


$ 6. 


Accertato che il compito delle rinascenti premure in ordine alla pubblica mo- 
ralità, essere deve non di ricercare, quasi che perduto fosse, il tipo della mora- 
lità, ma di procurare il modo come allettare ed abituare gli uomini a praticare 
ed esprimere quel tipo, ed a sentire il freno della legge morale, vengo ora più 
da vicino al progetto del signor Zecchini. 

1. Io non voglio qui esaminare se libri pedagogici, nello stretto senso, sì tro- 
vino in Italia e fuori per sopperire alla bisogna. Nella patria di Vittorino da 
Feltre forse non mancano parole autorevoli, piuttosto mancar potranno chi vo- 
gliano sentirle. Comunque ciò sia, mutate essendo oramai le condizioni politiche 
e sociali, dovendo l’educazione accomodarsi anche al carattere delle popolazioni, 
che spesso al contatto di novelle istituzioni si modifica, non saprei biasimare 
che un concorso si indicesse, anche per risvegliare l’analisi delle presenti nostre 
condizioni, e proporzionare i metodi educativi a’ nuovi sensi che possono essersi 





E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 15 


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ingenerati od immegliati nelle popolazioni. Anzi sarei di avviso, che la cifra del 
premio, dallo scrittore proposta pel migliore scritto in lire 1000, si elevasse a 
lire 6000 ed anche a più, se con un prezzo o con un premio potesse degnamente 
compensarsi un beneficio di tanta importanza per l’umana famiglia e per l’Italia. 

2. Lo scrittore vorrebbe che il ritratto dalla vendita del libro, che sarà appro- 
vato, si deponesse, detratte le spese, in un fondo, che dovrebbe essere impin- 
guato dalla contribuzione de’ diversi Ministeri, e delle Provincie, e dalle possi- 
bili largizioni che da’ buoni cittadini si potrebbero sperare. 

Questo progetto arieggia il celebre istituto che in Francia fu fondato dal ba- 
rone Giov. Battista di Montyon nel 1782 sotto il titolo premio alla virtù. Questo 
istituto è affidato all'Accademia di Parigi, che in ogni anno dispensa, con una 
solennità delle più festevoli ed imponenti, i premî a coloro che avessero com- 
piuto virtuose azioni. Checchè ne abbiano detto i francesi, è un’ opera che, se 
non da loro, è dagli stranieri grandemente lodata. Giacchè ancora non è sorto 
fra noi un filantropo, che abbia pensato di dare alla virtù quel premio, che 
quaggiù le manca; io stimo lodevole il progetto dello Zecchini, che almeno il 
Governo prenda l’iniziativa a mostrare, che esso anche ha un premio pel virtuoso, 
come ha una pena pel colpevole. 

3. Ma è decoroso che alla virtù si dia un premio? 

È già noto che Solone e Platone, come ci dice Cicerone, pensarono dovere una 
repubblica, ed in generale, ogni Stato, poggiarsi su queste due basi: premio, e 
pena. 

E Giovenale disse : 


Di Quis enim virtutem amplectitur ipsam, 
Praemia sì tolias? (Satyr. 10). 


Ma non ostante così solenne precetto, noi in fatto troviamo, che sin dalla stessa 
più remota antichità, vi ha un codice penale pe’ colpevoli, non però un codice 
remuneratorio per gli onesti (1). 

Bentham e Condorcet, per quanto razionale fosse il concetto di un premio da 
darsi alla virtù, lo contrastarono vivamente, e da ultimo contrastollo anche il 
Biichner come un colossale egoismo inventato per accreditare la esistenza di una 
vita futura | 

A’ due primi ha già risposto il Gioja nell’opera del Merito e delle ricompense; 
all’ultimo ha risposto lo stesso Zecchini nell’opera di sopra accennata Dio e Vu- 
niverso. 

Io confesso che trovo ben ragionevole il premio dato alla virtù. La virtù è un 





(1) Le ragioni deila mancanza di un codice remuneratorio sono state svolte da Spedalieri, 
Dritti dell’uomo, lib. 3, cap. VIII, IX. 


16 SULLA PUBBLICA MORALITA” 








atto che costa un sacrificio, uno sforzo, che esce dall’ ordinario, e quasi si ri- 
guarda come un’opera non obbligatoria. Gli antichi accordavano le corone, l’o- 
nore delle statue, de’ banchetti, e de’ privilegi non agli uomini semplicemente 
onesti, ma a coloro che avessero renduti segnalati servizi alla patria. I loro atti 
non erano riputati grandi, se non perchè avevano costato a chi li compiva, un 
sacrificio. 

Chi fa il proprio dovere può dirsi di aver fatto un sacrificio? Se voi offrite 
una mancia ad un popolano che vi porge la.borsa che vi era caduta, voi cor- 
rete rischio di incontrare un disdegnoso quanto onesto rifiuto, sentendovi dire: 
Signore, io non ha fatto che il mio dovere! L’ onesto popolano è stato da voi 
mortificato, credendo voi di ricompensarlo. Egli si ritiene più che soddisfatto, se 
voi non fate altro che un sorriso. Egli non si arrende a riceversi un onesto com- 
penso, che quando sa voler voi come indennizzarlo del disagio, e forse delle 
spese sofferte per raccogliere la vostra borsa, per conservarla, per andare in 
traccia di voi, e per aver quindi sottratto un qualche tempo al lavoro, d’onde 
egli ricava per se e per la sua famiglia il pane della giornata. È a questo solo 
titolo che egli si potrà arrendere ad accettare la vostra ricompensa. 

L’idea di un compenso quindi, come la propone lo Zecchini, da darsi a colui 
o colei che per un anno non altro abbian fatto, che contenersi nella osser- 
vanza del proprio dovere, e della onestà, che dicesi, negativa, non parmi ra- 
zionale. 

Nè si dica, che come alla colpa si assegna la pena, così all’onestà debba asse- 
gnarsi il premio. 

La colpa è un atto a dir vero straordinario, il colpevole contravviene al suo 
dovere, ed esce quindi dall’ordinario, ed oltre a ciò esso turba l’ armonia delle 
parti, con cui è in contatto; ed è ben ragione che sia lui sottratta una parte di 
quei beni che avrebbe goduto, se fosse rimasto nel suo stato normale. Si gitta 
via, o si porta alla fucina quel pezzo, che nella macchina non adempie al suo 
dovere, e turba e ritarda il libero movimento dei pezzi che sono ad esso in con- 
tatto; i pezzi che adempiono al loro ufficio, si lasciano al posto loro, nè, se aves- 
sero di sè coscienza, reclamerebbero una rimunerazione. 

Se il signor Zecchini avesse proposto un premio per quel padre, per quella 
madre, che, pur togliendosi dalla bocca il pane, avessero procurato la cultura 
della loro prole; se egli avesse proposto il premio per quella giovinetta che ri- 
gettando le proposte d’infamia, avesse conservato, anche tra gli stenti della po- 
vertà, il suo candore; se avesse proposto un premio per quello sciagurato, che 
con una vita esemplare fosse giunto alla più nobile riabilitazione, e avesse fatto 
dimenticare l’uomo vecchio con le opere di chi sì rinvergina al pentimento; io 
troverei molto filosofica la sua proposta, perchè si premierebbe lo sforzo straor- 
dinario che han dovuto fare costoro, nella lotta contro la miseria, contro la se- 
duzione, contro le perverse tendenze. 

L’istituzione di Montyon se è pregiata all’estero, non è molto ben vista alla 





E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 17 


Francia. La Convenzione l’ebbe abolita, ed anche oggi il Laroque (1) ne parla come 
di una istituzione ridicola! Qual credete voi che sia di tal disprezzo l’ origine ? 
Si colorì e si colorisce quel disprezzo con dire, che l’istitutore di quel premio era un 
legittimista; ma la vera ragione è, perchè si crede disonorata con essa la Francia; 
la Francia di Pascal e Bossuet, che, con la scuola francese , dicono la virtù es- 
sere qualche cosa di ordinario, e non tengono ragione degli sforzi che costi l’e- 
sercizio della virtù, ma dell’ abituale osservanza della stessa. Ed i francesi sti- 
maronsi disonorati, nel vedere darsi un premio a ciò che non era altro, che lo 
adempimento del dovere. 

Qual vergogna non ricadrebbe su noi, se lo straniero potesse dire, che in Italia 
si dà un premio quando può trovarsi un uomo.... anzi che dico? un giovane, 
una donzella onesta? essere una rarità cotesta da doverlesi attribuire un. pre- 
mio, una ricompensa! Se abbiamo delle colpe, se abbiamo delle sciagure fra noi; 
non si faccia una sì pubblica confessione. Non si porga allo straniero, da noi stessi, 
il fango che quegli poi gode di gettarci nel viso. Essere soggetto ad un male, 
può essere una sventura; ma sentirselo rinfacciare dagli altri, è un oltraggio. 

4. Il signor Zecchini propone che i premì siano per ora di lire 100, e soggiunge 
che potranno accrescersi secondo la capacità del fondo. 

To devo notare, che Rousseau e Filangieri sono contrarì ai premì in denaro. 
L’oro materializza la virtù, ed alimenta le passioni più basse. 

Considerando però, che quel premio in danaro debba, come propone lo scrit- 
tore, convertirsi in un certificato di rendita , il pericolo segnalato da’ due cen- 
nati scritlori sembra schivato, poichè quel piccolo reddito, che desta rimem- 
branze sì care, può servire come una tenue dote alla donzella per un onesto col- 
locamento, e come un embrione di capitale per l’industria dell’artigiano. 

o. Il signor Zecchini ha limitato il premio alla classe degli operai, de’ lavo- 
ranti, de’ campagnuoli. Pare che egli creda essere sole coteste classi le bisognose 
di moralità. Ma crede egli, che la corruzione alberghi solo nell’officina dell’ope- 
rajo, e nella capanna del contadino, e che da lì s’innalzi alla casa del proprie- 
tario, ed alla magione del titolato? 0 non è al contrario che gli agi di una vita 
molle, e le aure di tiepida voluttà, che si respirano nelle sfere più alte, sieno la 
cagione della corruzione delle basse classi del popolo? L’avoltojo non discende 
che dall’alto per ghermire la preda, che tranquilla ed inconscia dimora nel basso. 
To crederei che il premio con maggior ragione dovesse stabilirsi per que’ giovani 
e quelle giovani che appartenessero a famiglie più elevate, per allettarli alla 
pratica di quella moralità, che spesse volte prendono a gabbo, e facilmente di- 
spregiano. L'esempio de’ grandi, diceva Montesquieu, è una tacita ed efficace le- 
gislazione per le classi del popolo. 

Comprendo che a malincuore il figlio o la figlia di un proprietario, di un alto 


(1) Zenovation religieuse. Paris 1864, pag. 21. 


13 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





funzionario, stenderebber la mano a riceversi il premio, che fosse loro stato at- 
tribuito, di una carta di cento lire; e difficilmente si riuscirebbe a far loro com- 
prendere non esser quella un valore, ma un attestato di lode. Epperò créderei 
di doversi stabilire una seconda categoria di premì, non differentemente da 
quella che gli antichi Greci e Romani avevano assegnato pe’ maggiorenti, come 
sarebbero le distinzioni, i privilegi ed altri simili attestati di mera onorificenza. 

Queste considerazioni, ove fossero riputate meritevoli di accoglienza, io pro- 
porrei, che venissero significate all’ autor del progetto, per apportarvi le debite 
modificazioni. 


Io sono ai termine del mio discorso: permettete, o Signori, che io lo chiuda 
con una generale considerazione. 

Le libere istituzioni, la pubblica istruzione, la forza e l’autorità delle leggi fu- 
rono i primi argomenti a’ quali si confidò la grande e necessaria opera della 
moralizzazione delle nostre popolazioni. Per nostra sventura non corrispose l’ef- 
fetto alle grandi nostre speranze, ed a’ nostri bisogni. 

In seguito, quasi disperando di correggere la generazione presente in cui vi- 
viamo, ci slanciammo alla generazione futura, sperando, che, avviata la gioventù 
crescente al sentiero della virtù, avesse potuto sentire, cresciuta, la santità del 
dovere, e quindi far godere alla società avvenire i frutti di quella vera civiltà» 
che da noi non si potè conseguire. Ecco ravvivata l’opera della pedagogia, ecco 
moltiplicati gl’istituti di educazione. 

Ma un principio, permettete che il dica, non ho visto invocare in tutti questi 
per altro utilissimi e nobilissimi propositi, il principio religioso. La moralità! 
Ma havvi popolo, havvi nazione, che, sentendo il bisogno della moralità, non 
abbia avuto ricorso al principio religioso? Ed a che altro hanno mai mirato le 
religioni se non alla moralizzazione della umanità? E, lasciando pur da parte le 
antiche religioni, a che altro è diretta la religione cristiana, al cui impero l’I- 
talia non ha voluto mai finora sottrarsi, se non a rendere morale l’ uomo, e 
quindi socievole e civile? Ma pel momento, non essendone il caso, lasciando 
anche da parte il dogma religioso, che ci fa ben conoscere come alla restaura- 
zione della moralità sia stata tutta rivolta la grande opera della Redenzione. La 
storia non ci manifesta che tutte le cure della umanità, tutte le leggi, tutte le 
istituzioni, tutti gli ordinamenti, non ad altro hanno sempre mirato, che a con- 
seguire questo altissimo scopo la moralità? E può credersi oggi, che con un li- 
bretto da pochi soldi e di poca mole, possa ottenersi uno scopo, al cui consegui- 
mento è d’uopo, che siano coordinati tutti gli elementi che costituiscono e man- 
tengono la civil comunanza? Oh se si potesse con mezzi puramente artificiali 





E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 19 


ottenere, non sarebbe mancata l’antichità ad avercene lasciato qualcuno! Quello 
che costantemente ci è affermato sin da’ primi Tesmofori, da primi generosi che si 
diedero all’opera di incivilire i popoli, è questo, che senza il principio religioso 
non si ha sentimento di dovere, e quindi inefficaci riescono le leggi sociali, e la 
educazione, e gli stenti amorevoli ed assidui della pedagogia. 

Io non ho bisogno di ricordare quello che già disse Plutarco, essere cioè men 
difficile il fabbricare una città nell’aria, che costituire uno Stato senza religione. ‘ 

Aristotile nella sua politica (7. c. 8.) metteva tra i primi uffici di una repub- 
blica la cura delle cose divine. Primum est curatio rerum divinarum. 

Scapiterebbe al fermo la legge, ed ogni ottima istituzione, se ottime, come 
esse pretendon di essere, non curassero l’ottimo, che è Dio. Così diceva Diogene 
Stoico « Deus enim quod optimum est, ab optimo coli, et quod imperat ab im- 
perante. 

E Senofonte ci dice di Ciro, essere stato solito così ragionare cioè, che se tutti 
i sudditi fossero timorati di Dio, si asterrebbero dal commettere cattive azioni, 
e contro loro stessi e contro Dio. « Ratiocinabatur, si omnes familiares Dei me- 
tuentes essent, minus eos aut inter se aliquid illicitum patraturos, aut in ipsum 
(Xenoph. Paed. L. 3).» 

E Cicerone, fra’ latini, osò gloriarsi, che sol con la religione erano i Romani 
arrivati a quell’altezza di gloria, che li rese padroni del mondo. « Non callididate 
aut robore, sed pietate ac religione omnes gentes nationesque superasse ». (Orat. 
de arusp. respons.). 

Nè vi spiaccia che a conferma di questo concetto di Tullio, vi arrechi la te- 
stimonianza di un autore non sospetto, quale è Machiavelli. Nei suoi discorsi 
sulla prima deca di Tito Livio, parlando della religione de’ Romani, non dubita 
di dover darsi la preferenza a Numa Pompilio, sopra lo stesso Romolo fondatore 
«il quale (Numa Pompilio) trovando un popolo ferocissimo e volendo ridurlo 
nelle obbedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa 
necessaria a volere mantenere una civiltà, e la costituì in modo, che per più 
secoli non fu mai tanto timore di Dio in quella Repubblica; il che facilitò qua- 
lunque impresa che il Senato e quelli grandi uomini romani disegnassero fare ». 

L’autore del Principe, lo sappiamo, va in nome di scettico, e sventuratamente 
ha dato nome ad una scuola di politica, che suona infingimenti e slealtà. Ma 
l’autorità che di lui abbiamo riportata, si riferisce ad un fatto storico, nel cui 
apprezzamento non influiscono le qualità soggettive dello scrittore. E poi, benchè 
egli volesse la religione come un artificio di governo, egli rende sempre un tri- 
buto di omaggio al principio religioso, giacchè se la stessa religione esterna e 
quasi la ipocrisia ha tanto valore, da contenere i popoli, che sarà quando si pro- 
fessa di cuor sincero, e si protegge il principio religioso ? Le false religioni, di- 
ceva Voltaire, giovano talvolta come la vera: come in tempi calamitosi la moneta 
falsa fa le funzioni e le veci della vera. 

E la ragione ne è pur troppo evidente. La legge morale, la cui osservanza ognun 


20 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





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desidera e vuole che sia restaurata nelle civili adunanze, come principio vivifi- 
catore di tutta la legislazione, e di tutti gli ordinamenti sociali, è qualche cosa, 
che ognuno, per quanto la senta nella propria coscienza, comprende e si avvede 
che non è stata fatta da lui stesso. Quante volte il colpevole vorrebbe distrurre 
quella norma, di cui nella sua coscienza sente la voce che gli rimprovera di a- 
verla trasgredita? E quanto si attenta l’infelice di volerla annientare col reiterar 
delle colpe, e con cadere da abisso in abisso, tanto più si avvede che la colpa, 
e la trasgressione di quella legge, non ha servito ad altro che a renderne più 
minacciosa, più autorevole, più straziante l’autorità. 


Nihil est miserius, quam animus 
Hominis consciens (Plautus in Mustellania). 


E Seneca: « Infixa est nobis ejus rei aversatio, quam natura damnavit ». (Ep. 98). 

Onde l’oratore romano, bellamente disse: « Conscientiam a Diis immortalibus 
accepimus, quae divelli a nobis non potest (Pro Cluent.). 

Se l’autore di cotal legge è fuor di noi, se non dipende dal nostro volere 
il mutarla, il riformarla , il sopprimerla; se niuna legge umana ha il suo vero 
imperio, se non ritrae da quel trono, ove la legge morale si asside, il benepla- 
cito e l'approvazione; non è egli vero che molto si debba a cotal legge, e che 
essa non sia altro che Dio, e che quindi la società, che senza legge star certa- 
mente non può, sia di natura sua, ed essenzialmente religiosa ? 

Eppure, o Signori, la società oggi credesi sufficientemente garentita, quando 
non solo negletto, ma disprezzato, e rejetto il principio religioso, si affida al 
magistrato, ed a’ ministri della forza materiale. 

Non così la pensava Touqueville, il quale riconosce dal rispetto che in Ame- 
rica si ha per la religione , la floridezza e la grandezza di quelle popolazioni: 
«Ivi, come egli dice, la religione cristiana conserva tuttavia il più grande im- 
pero sulle anime , e si confonde con tutte le abitudini nazionali, e con tutti i 
sentimenti che la patria fa nascere : ivi il Cristianesimo non regna come una 
filosofia che si adotta dietro esame, ma come una religione che si ammette senza 
discuterla, ivi chi osasse ripudiare alla scoperta tutte le credenze, sarebbe egli 
stesso ripudiato dalla società, e condannato a vivere isolato in mezzo ad essa. 
(Touqueville, Della Democrazia în America) ». 

Egli è vero, che in quelle contrade anche oggidi la moralità comincia a desi- 
derarsi; ma d’onde ciò viene se non da ciò stesso, che il sentimento religioso si 
sia anche colà a poco a poco intiepidito ? Egli è dunque sempre pur vero, che 
ove il sentimento religioso sussista, le civili istituzioni non iscapitano mai, anzi 
si invigoriscono. Sottratto un tal salutare principio, la moralità resta scossa, nes- 
suna sanzione o rispetto avranno i dritti e le obbligazioni, la società sarebbe 
popolata di altrettanti esseri che somiglierebbero l’Achille descritto da Orazio: 
Impiger, iracundus, inexorabilis, acer, che non riconoscerà doveri, jura neget sibi nata, 








E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 21 





n 





nè altrimenti vorrà cosa arrogarsi, che con le armi e con la forza, nil non arro- 
get armis. Quanta vita sapreste voi assegnare ad una società, che fosse da uo- 
mini di tal genere popolata? Vi affidereste di assicurarne, anche per un’ora, la 
pace, l’ordine, e la tranquillità? 

Qual ordine si può trovare nella società, se ne è escluso il principio religioso? 
Non vi è ordine sociale, dice Lamennais, senza gerarchia sociale, senza potere, e 
senza sudditi; senza il dritto di comandare ed il dovere di obbedire. Or fra es- 
seri uguali, egli non esiste naturalmente nè dovere, nè dritti, nè soggetti, nè 
poteri, nè per conseguenza è possibile l’ordine, e giammai non si costituirà so- 
cietà con solamente uomini. Bisogna che l’uomo sia per primo in società con 
Dio, per potere essere in società co’ suoi simili (1). 

Or nell'epoca nostra quale è mai il principio sotto gli auspici del quale si vuo- 
le moralizzare e ricostituire la società? Voi ben conoscete quanto siam lontani 
da quei principì, che la filosofia e la storia ci additano come i fattori della civile 
società; quindi risparmiate a me il rincrescimento di dovere discendere a con- 
fessioni che ci addolorano. 

Qual moralità vorreste sperare di ottenere, se già la distinzione tra la colpa e 
la virtù, è quasi cessata? Se il colpevole non è che un essere esquilibrato, e se 
il virtuoso non è che un essere nello stato di sanità e di equilibrio? Qual mo- 
ralità vorreste voi sperare, se tutto dipende dall’organismo, e se le bozze crimi- 
nose trascinano fatalmente alla colpa? Anche il cane ed il leone ha le sue bozze, 
o Signori, anche essi hanno le zanne e gli artigli: eppure si riesce a domarli, a 
superare la forza da cui sono fisiologicamente determinati! Solo l’ uomo non è 
dunque dimesticabile? Solo l’uomo esser deve lo inconsciente atomo, che è ir- 
resistibilmente trascinato, pur sapendo di potere non lasciarsi trascinare? 


88 


Nè migliori sono gli auspici sotto i quali si vorrebbe da qualcuno inaugurare 
la istituzione della pedagogia. 

Tutti coloro che ad educare la gioventù lasciarono de’ precetti, tutti concor- 
demente ci insegnarono, dovere la educazione prendere le mosse dal principio 
religioso. Per non parlar degli antichi, basta leggere il Rosmini, il Rayneri, il 
Tommaseo, il Lambruschini, l’Allievo, il Parravicino, ed altri per rilevarne l’im- 
portanza. Come potrà il fanciullo rispettare, quando sarà grande, la legge mo- 
rale, se non si educa sin da’ primi suoi anni a rispettare la legge e l’autore di 
ogni legge, Dio? Convien forse aspettare che sia traboccato il torrente delle pas- 


(1) Essai sur l’indiff. Chap. X. 


29 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





CICLISTI BENSI RO 


sioni, per mettervi un argine? Sarebbe egli il vero tempo di cominciare a par- 
lare di una severa morale ad una giovane, quando avrà contratto l’abito di ri- 
muovere tulto ciò che potrebbe costringerlo? Di provarsi a porre catene alla gio- 
ventù, allorchè avrà già gustato il piacere di averle rotte? 

Tutti raccomandano che if principio religioso si insinui nell'animo dell’uomo 
sin dalla primissima età: se i sentimenti del bambino sono per l’ordine, per la 
tenerezza, pel piacere, perchè non cominciare a fare innalzare da que’ teneri 
labbri un inno di grazie a quell’ Essere supremo, da cui emana l’ordine, la te- 
nerezza, e tutta la famiglia di que’ piaceri casti e confortevoli, che devono allie- 
tare la vita di questo piccolo re della natura? Tutti i pedagogisti più illustri, 
che ben san leggere ne’ cuori della gioventù, hanno raccomandato, che al paro 
della istruzione cammini e si svolga il sentimento della religione, giacchè senza 
religione non vi ha solida moralità, nè vera libertà. «I lumi della intelligenza, 
diceva il sullodato Ducpetiaux, quando sono violati da’ lumi della coscienza, sono 
fallaci e funesti..... La religione è un mezzo così possente di educazione, che un 
istitutore saggio e sperimentato può farne un uso di cui non avrà mai a do- 
lersi ». 

I fanciulli sentono, sin da’ loro primi anni, la forza de’ motivi religiosi im- 
piegati a proposito, con discrezione e riserva. Le considerazioni di cotal genere 
producono in generale sull’ anima de’ fanciulli delle impressioni favorevoli alla 
loro dociltà e per conseguenza al loro progresso. 

Una esortazione, una censura da cui le idee religiose non siano bandite, a- 
vranno più virtù che le rimostranze del tutto umane. Un ricordo religioso ri- 
chiamato a proposito, un detto religioso pronunciato in un momento in cui il 
fanciullo è agitato, turbato, e già presto ad incollerirsi, bastano per calmarlo, 
per farlo rientrare in se stesso, per risvegliare il sentimento morale, e per por- 
tare l’attenzione di lui alle idee che gli comandano la fedeltà al dovere. (De l’état 
de l’instruction en Belgique, vol. 1, pag. 171) ». 

Così parlava nel 1838 uno dè’ più illustri filosofi e statisti del Belgio. Nè credo 
che oggi la natura umana siasi cangiata, giacchè anche oggi lo stesso Spencer, 
filosofo positivista, trasformista ed evoluzionista, parlando della educazione in- 
tellettuale, morale e fisica, non ha difficoltà di immedesimare la scienza e la 
religione, e di dire, che « lungi che la scienza sia irreligiosa, come tanti lo cre- 
dono , egli è l’ abbandono della scienza che è irreligioso ». La vera scienza e la 
vera religione, dice Huxley, sono due sorelle gemelle che non possono separarsi 
senza cagionare la morte dell’una e dell’altra». 

Oggi, o Signori, come per transazione, si consente da taluni, che al pensiero 
del fanciullo si riveli l’esistenza di un Dio impersonale ed astratto. È questa la 
più fatale, la più funesta delle ipocrisie. La vita del fanciullo comincia da’ sen- 
timenti: sono questi i primi che il pedagogo deve mettersi in mano, e guidare 
dolcemente a buona via. L’ha detto or ora uno de’ più bravi pedagogisti d’Italia, 
il Prof. De Castro, venuto fra noi ad inaugurare i giardini d’infanzia. 





E L'ISTRUZIONE PUBBLICA IN ITALIA 23 


Or qual sentimento può destare nel fanciullo un Dio impersonale ed astratto? 
Anche nei giovani adulti, e negli uomini più provetti, qualunque sia la severità 
della loro morale, e la potenza del loro ingegno, e la sensibilità del loro cuore, 
non riuscirà mai, che si sprema una lagrima, o che si desti un sentimento per 
una sventura impersonale, per un dolore astrattamente conceputo. I sentimenti 
non sono prodotti, che da oggetti od immagini individuali; il pretendere il con- 
trario sarebbe un’assurdità. 

Eppure, o Signori, il Dio che si vuol rendere amabile o temibile a’ bambini, 
è un Dio astratto ed impersonale! ed il cuor del bambino, che tutto vuol ve- 
dere sensibile come sensibile gli è la madre con le sue carezze; il fratellino con 
la sua tenerezza; deve tenersi lontano da quel tesoro di sentimenti che la reli- 
gione dispensa a chi l’avvicina e l’ascolta ! 


$9. 


Signori — Chi volge uno sguardo a’ mille sistemi di filosofia, di etica e di 
scienze sociali, sente per un momento un conforto, perchè pare che tutti cotesti 
sistemi accennino alla febbrile smania che si ha, di arrivare per la più sollecita 
e sicura via allo scoprimento del vero. Ma no, lasciate che lo dica: tutti cotesti 
sistemi, che di giorno in giorno si moltiplicano, pare che abbiano per iscopo lo 
sfuggire l’incontro del vero. 

La storia della filosofia sarebbe al certo di minor volume, se non fosse stata, 
e non fosse tuttavia costretta a raccogliere e registrare tanti sistemi, che sven- 
turatamente non sono altro, che la negazione più audace delle verità più incon- 
trastabili. L’immaginazione umana non è stata così feconda a foggiare poemi e 
romanzi, come feconda ed inesauribile è stata, ed è tuttavia, nel plasmare sistemi 
filosofici. Ogni assurdo trova libero il campo nel dominio delle scienze specola- 
tive, perchè vien garantito da quel magico prestigio, quale è il progresso. « Ne- 
scio quomodo, (ebbe ad esclamar Cicerone) nihil tam absurdum dici potest, quod 
non dicatur ab aliquo philosophorum. » 

Oggi a tutte le scienze specolative, sieno morali, sieno sociali, è stato irrazio- 
nalmente sottratto il fondamento che ne assicurava la certezza, e ne regolava lo 
avviamento ed il cammino, quale è la metafisica. 

Di quanto disprezzo non è stata, questa regina del pensiero, coperta dalla 
scuola moderna, come dal Biichner, dallo Schopenhauer, dal Feurbach, dal Comte, 
che in una sola parola comprese tutto il suo sistema, quando disse: « I cieli 
non raccontano più la gloria di Dio; essi non raccontano che la gloria di Newton 
e di Laplace! » i 

Guai a quegli Stati che ispirar volessero i loro ordinamenti sociali, le loro 
leggi, ad una filosofia, che non altrimenti, che per amaro sarcasmo, appellasi 


24 SULLA PUBBLICA MORALITA” 





razionalismo. Quello che si sottrae, diceva lo stesso Louis Blanc, alla Sovranità di 
Dio, si presta alla mannaja del carnefice! 

Anche gli antichi Greci ammetteano la irresistibile possanza del fato; ad esso 
la religione consacrava i suoi riti, e quegli illustri tragèdi ne facevano il Deus 
ex machina de’ loro più ammirati capolavori. Eppure le leggi sociali di quella 
nazione non si ispirarono a que’ concetti, e punirono il delitto, senza tener conto 
della scusante della fatalità. 

E la stessa Germania e la stessa Inghilterra lasciano che i loro moderni evo- 
luzionisti si sbizzarriscano nelle scuole, ma si guardano dall’ aprire alle costoro 
teoriche il varco delle Camere legislative, e delle aule governative. 

Sventuratamente anche in Italia il limpido suo cielo è offuscato dalle nubi 
del Nord, che su tutto si stendono, sulle arti, sulle scienze , sulla educazione, 
sulla famiglia, sulla società. 

Noi che abbiamo raccolta l’ eredità de’ Platoni, conservataci da S. Agostino, 
da S. Tommaso, dall’Alighieri,e da tutta la scuola italiana, possessori di tante 
ricchezze, le vorremmo abdicare per metterci alla balia di una scuola che non 
è rallegrata dal sorriso de’ cieli, ma intenebrata dalla eterna notte del Nord? 

Biichner ha detto: Dove andiamo? i filosofi italiani si sono alzati : vorranno essi 
seguirlo ? 

Ma dove ci condurrà quel novello Mosè? ci condurrà alla sconfessione della 
scuola italiana: e noi che abbiam respinto lo straniero da’ nostri confini, avremo 
il vigliacco coraggio di dargli alloggio nel nostro pensiero, nelle nostre scuole» 
nelle nostre arti, e nell’armonia de’ nostri carmi e de’ nostri musicali concenti? 

Non temano gl’Italiani, se dall’orgoglio di cotesti filosofi dottrinarii sien tac- 
ciati come poveri di spirito. No: non è con la ricchezza dello spirito, ma con la 
ricchezza del cuore che bisogna provvedere a’ veri bisogni della società. E la scuola 
italiana tutta ordine, musica e poesia, non ha mancato mai al suo còmpito di 
promuovere la vera civiltà delle popolazioni. 








ALCUNE POESIE 


LETTE DA’ S0CJ NELL’ ANNO ACCADEMICO 1879-80 





ALCUNE POESIE PEI SOCJ 3 


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VESPERARUM SICILIENSIUM 


POETICA COMMENTATIO. 


Longum superbis edite turribus 

- Sonum, rubescens nascitur Hesperus 
Sacra aera! percussis et auris 
Assonuit fremebunda virtus. 


Immane fatum luctibus horridum 
Oris Sicanis acrins incubat; 
Sonum date, et casus repenti 
Vertite funereos triumpho! 


Injuriosis hausta doloribus 
Sicana tellus turbida conflagrat, 
Exempla, Northmannique Regis 
Usque memor benefacta quaerens. 


Irritat iras Gallicus insolens 
Linguis lacessens cuncta dicacibus, 
Gestitque fatalem nefandis 
Flagitiis maculare terram. 


Quid non scelestis abstrahit unguibus? 


Contundit omnes, omnia et arrogat; 
Nec templa Divorum superbas 
Sancta queunt cohibere cristas. 


Galli petulci turpia vis jubens 
Effraenis urbis luxuriat viis; 
Et Virgo ceu mitis columba 
Turpe fugit tremefacta monstrum. 


Tot pulsa damnis Gens Sicula impotens 


Irae furorem pectore combibit, 
Excussa dum probris, suisque 
Luctibus exoriatur ultrix. 


ODE. 


Stat Corradini Spiritus infremens; 
Saevique manes Manfredii increpant 
Tot saeva perpessos, sacrumque 
Pro Patria injiciunt furorem. 


Inulta alit Costantia flebilis 
Vulnus per artus immedicabile, 
Patrisque fortunas revolvit 
Sollicitis agitata curis. 


Longis ab oris pervigil, anxia 
Casus Triquetrae prospicit improbos, 
Fixa haeret, obtutuque pendit 
Fata novis revoluta rebus. 


Compesce sensus o Pia concitos! 
Te vota signant! Stella Aragoniae 
Iam luce praefulgens per axem 
Alma plagis Siculis renidet. 


Vis urget audax motibus arduis 
Quo plus repressa eo magis insilit; 
Motusque maturans supremos 
Consiliis, animoque pollens 


Unus tot ausis Prochita praevalet. 
Arcana perstant credita Patribus; 
Mens una sic omnes vel unus 
Spiritus intus agit, movetque — 


Mira arte cantus faedera Principum 
Orditur audax, gratiam et aucupat, 
Plebisque ferventis potenti 
Imperio moderatur iras. 


4 | 
Qualis sub Aetna vis furit ignea 
Praeclusa, magno murmure et extuat, 
Audita sunt longe profundis 
Viscera detonuisse bombis; 


Ruptisque dein fornacibus exilit 
Circum nigrantem explosa per aerem, 
Et visa agros late fluentis 
Ignivomis rapuisse et urbes; 


Aeque laborant concita pectora, 
Ignemque caecum vis alit acrior, 
Qui major assurgit, frementem 
Jamque nequit cohibere flammam. 


At si praeurens desuper indita 
Favilla semen porrigat igneum, 
Tunc flamma crebrescens eundo 
Per Siculas volitaret oras. 


Oreti ad undas gramine floreo 
Qua laxa cives corda resolverent 
Festisque laetantes diebus 
Ebiberent cupidi levamen; 


Qua effusa ducunt agmina virginum 
Laetas choreas, sertaque colligunt 
Gaudentque per campos nitentem 
Floribus implicuisse crinem, 


Instat Druheti torva salacitas 
Incontinentes injiciens manus, 
Quum turpe dedignata probrum, 
Versa ruit furibunda Virtus. 


Faedum puellae dedecus inditum 
Poseit cruoris prima piacula; 
Hac fonte derivata clades 
Funeribus cumulata fluxit. 


En vocis ictu Gallica concidit 
Diffracta cervix, indocilis furor 
Qua venit, aspexit, peremit 
Fulmine corripuit trementes, 


ALCUNE POESIE 


Stratosque Gallos. Non pietas subest 
Nulli pepercit flammeus impetus, 
Sontesque et insontes nefasto 
Exitio perimuntur uno. 


Montano ut amnis flumine turgidus 
Si forte fractos diruat aggeres 
Effusus hinc late per agros 
Omnia vorticibus retorquet; 


Intemperatus sic furor irruit, 
Acri et Triquetram turbine concutit, 
Commota quae tractim dehiscens 
Turpe parat gremio sepulcrum. 


Condit sub umbris irrevocabilem 
Vesper cruenta luce tyrannidem; 
Nox volvit aerumnas, tegitque; 
Sole novo recreata ridet 


Tellus, et aether purior emicat; 
Cruor cruorem luxtrat et expiat 
Jucunda Libertas ruinis 
Exoritur meliore flamma. 


Melos puellae solvite gratius, 
Virosque vernis spargite floribus, 
Qui nomen inspectent per aevum 
Sole sub occiduo renascens. 


O matre pulchra filia pulchrior, 
Quam vis trementem gallica pertigit. 
Aeterna te laurus manebit, 

Sicelides celebrentque famam! 


Musa o duarum disjice gentium 
Iras repostas, faedus et integra! 
Quas stirpe concretas eadem 
Stringat amor, socielque Virtus. 


Casus nefastos, saevaque funera 
Nunc corde lapsa oblivio contegit; 
Utramque sic gentem potenter 
Nexus amicitiae revincit. 


CanoNIcus Proressor BENEDICTUS MAROTTA. 


al bntce, 


DEI S0CJ 


Tu sei lo mio maestro e il mio autore 

Tu sei solo colui da cui io tolsi 

Lo bello stile che m’ha fatto onore. 
Dante, Inf. c. I. 


BXAMETRI, 


O tu formosa formosior orta parente, 
Quae linguas inter, potuit quas gignere sermo 
Corruptus latii, majori laude renides, 
Tu cuinam dulces veneres, cui robora debes? 
Dantes qui primus lingua fuit usus equestri 
Nobiliore aliis, genuit quos itala tellus, 
Uni accepta refert Magno sua cuncta Maroni. 
Heu cur nostra recens ingrato corde juventus 
Audet uti vita functam contemnere. Matrem! 
Si non ore, suis vivit sat florida scriptis, 
Quae non ulla quidem poterit superare vetustas, 
Sculpta ubi Romanae Mejestas cernitur urbis 
Quae cum jure suam dedit orbi ediscere linguam, 
Foecundam prolis vel in ipsa morte parentem. 
Non ita senserunt illi, queis jure superbit, 
Itala terra viri, fama super aethera noti, 
Inclyta qui decimi non interitura Leonis 
Occiduis nunquam mandarunt saecula chartis. 
Hi vigili cura assueti pallescere libris, 
Aurea sermonis latii quos protulit aetas, 
Hoc semper memori volventes mente tenebant: 
Ramus ut e trunco praebente alimenta revulsus 
Languet et emoritur, sic itala lingua parente 
Cernitur abscissa ingenvas amittere formas, 
Et ruere in pejus, constanti ut proditur usu. 
O Mons Regalis, nomen tibi grande decusque 
Si gessisse datum, si saepius alma Panormus 
Progeniem latii lingua tibi mittit alendam, 


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ALCUNE POESIE 


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Sermoni hoc debes, qui floruit usque, latino. 
Murena italicis veniens accitus ab oris, 

Quae tam nobilibus creverunt postea plantis, 
Primaeras fixit radices, Auspice Testa, 

Qui Praesul verbis et scriptis subdidit acres 
Ingeniis stimulos, doctosque eduxit alumnos. 

Sic nostra Urbs, nitidis cingens sua tempora sertis, 
Nomine athenarum meruit tunc jure vocari. 
Umbrae nunc etiam hic magnae volitare videntur 
Vatum, Regalis quos Mons hanc misit in aulam, 
Praesulis illius formosius ornamentum: 

Nasceus, vestri decus olim insigne lycei, 

Ille et Sicelidis quatuor quae tempora Musae 
Aemulus in latiam potuit vertisse Camenam, 
Carusus latio nulli sermone secundus, 

Castilia haud impar puri modulamine cantus, 
Pizzutus vestras qui mulsit callidus aures, 
Linguae utriusque simnl sermones doctus et acri 
Ingenio praestans, qui flebilis occidit Urbi; 

Post hos De Carolus, quem luxit docta Panormus 
Ante diem raptum latiis Graecisque camenis, 
Atque alii cunctos quos edens longior essem. 
Vos precor o clari socii, ne forte putetis 

Ferre meae patriae tumido me pectore laudes. 
Haud mens ista mihi; solum me publica movit 
Utilitas, semel ut Sapiens Sicana juventus, 

Si verum decus affectat, contemnere cesset 
Sermonem, claros italos qui reddidit unus. 

Haec tandem discat, praestantem carpere laudem 
Italico sermone illos modo posse, latina 

Qui soliti a teneris atque exemplaria graeca 
Nocturna versare manu, versare diurna. 


Pror. Can. JosePH VAGLICA. 





DEI SOCJ 





LA BELLEZZA IDEALE 


Oh non lasciarmi! e del tuo divo incanto 

De l’elette tue forme vereconde, 

Celeste imago, che m’inviti al canto, 

Non lasciarmi a le lacrime ingioconde. 

Dal tuo sorriso, dal pudor tuo santo 
Un’arcana speranza mi risponde; 

E l’affanno de l’alma è men crudele 

Se hai un accento pietoso a le querele 


Con gli occhi non ti vidi: e pur sì bella, 
Pur così viva il mio pensier ti finse, 
Che ’1 seren del tuo viso e la favella 
Innamorato artefice non pinse. 
Quel lume, onde nel cielo arde la stella, 
La purissima tua fronte ricinse, 
E appar così come da un aureo velo, 
Albor di luce, che s’accoglie in cielo. 


Pimmi: perchè a la spirtal veduta 
D’un’insueta gioia ’1 cor mi brilla? 
Perchè la lingna mi s’arresta muta 
Se gli occhi affiggo ne la tua pupilla? 





Come foglia dal calice caduta, 

O come fiamma che più non scintilla, 
Se t’allontani nè temo, nè spero 

E vanisce nel dubbio il mio pensiero. 


Ma se ritorni con la tua parola 
D’ogni beltà superna animatrice, 
La mente, che i remoti astri sorvola, 
Giunge dove a mortale occhio non lice: 


Là ti sento, ti adoro arbitra sola, 


Ora Laura ti appello, or Béatrice, 
Or col nome di lei, che nel divino 
Pensier raggiò dell’angelo d’Urbino. 


Oh non lasciarmi! E scendi a l’intelletto 
Ne la fulgida tua forma celeste! 
Vano sogno non sei se tanto affetto, 
Se tant’ansia d’amor l’alma m’investe. 
Tu, luce, che dipingi ogni concetto, 
Tu, esemplo onde l’idea si plasma e veste, 
Tu maestra nei numeri e nei carmi.... 
Divina imago, no, mai non lasciarmi. 


UGo ANT. AMIGO. 





ALCUNE POESIE 


UNA VISITA A CEFALU 


Salvete, io vi riveggo, o piagge amene, | 
E le vostre tepenti aure respiro! 
Ai verdeggianti colli, a le serene 
Plaghe del cielo, al mar lo sguardo giro. 
Qua l’onde immensurate, agresti scene 
Là sul pendìo delle montagne ammiro; 
E fin sull’erta, sull’estreme alture 
Campi, vigneti e d’alberi folture. 


Io vi riveggo coll’istesso affetto 
Di pellegrin che torni al suol natio : 
Voi richiamate al bel tempo diletto 
Dell’amor, dell’infanzia il pensier mio. 
Quanta spirate dal sereno aspetto 
Aura di pace! qual soave obblio ! 
Qual senso arcano che m’invoglia al pianto 
E in me ridesta l’armonia del canto! 


Delle sere di april, chi la divina 
Estasi, il riso adombrerà ? Scintilla 
Ampio, stellato il ciel, sulla marina 
Di tremolante luce Espero brilla; 
Nereggia la campagna e la collina, 
E sol per la silente aura tranquilla 
S’ode interrotto un gracidar di rane, 





Un fragor di cadenti acque montane. | 


Sublime scena! che all’accesa mente 
Riviver suol quand’io, sotto l’ombrosa 
Pergola mia, godo fissar sovente 
Sul declinar la stella luminosa. 

E su questo veron, teneramente 
Sollevar la pupilla desiosa 

(Forse di me pensando) in ver la stella 
Veggo bionda e modesta verginella. 


Modesta verginella, angelo caro 
A me più della vita, amor, ben mio, 
Nel cui sorriso, nel cui pianto imparo 
Quanto esultar, quanto soffrir poss’io. 
Leggiadro fior cui l’aura mite e il chiaro 
Seren del tuo bel ciel rende il natîo 
Vigor, l’olezzo che mi fa beata, 
Terra da me, quanto la patria, amata. 


T’amo nel raggio che la dolce figlia 
Bacia dal colle in sul mattin sereno; 
Nel queto mar cui fisa ognor le ciglia 
E un pensier volge al suo natal terreno; 
T’amo nel ciel che l’orchio suo somiglia, 
T’amo nell’aura che le molce il seno; 


T’amo nel riso degli aprici monti, 


Nella pompa regal de’ tuoi tramonti! 


CoNcETTINA RAMONDETTA FILETI. 





DEI SOCJ 


UN SALUTO ALLA SICILIA 


Aprile 1830. 


O mar che ti colori 
Del più limpido Sol d’Italia mia, 
Là ’vè lo Xifia per novelli canti 
Di eletto ingegno, fa obbliar gli antichi 
Delle Sirene, ed i sognati orrori 
E i vortici di Scilla ai naviganti, 
Io mi figuro le tue piagge, e l’alme 
Città, che il fortunoso 
Flutto rinserra, e cupido lo sguardo 
Vede Messina, che a un mio caro pegno 
Con le rose di Cipro un amoroso 
Serto prepara, e mi gioisce il core; 
E par che la fragrante 
Aura ne spiri, e l’ale 
Par che alla fantasia m’inpenni amore. 


O cedri, o aranci, o gemme 
Del rugiadoso albore, 
Fioriti colti, e piante 
Fronzute, a voi sorrida 
Sempre Favonio amante. 
O ben, Sicilia, ogni più dolce cura 
Posto ha in te la natura: 
Che se questa talora imperversando, 
Come noverca, stampa 
Orme su te di sdegno, 
Le scosse della terra, e l’atra vampa 
Etnea son come segno 
Della tremenda maestà di Dio, 
Che passa in mezzo ai venti: 
Passa: ed, oh!, forse allora 
Si risveglia nell’uom la creatrice 
Scintilla, e insieme un immortal desio. 
Per quel desìo non arse 
Catania il tuo Bellini, onde ancor sento 
Quaggiuso l’ineffabile concento 


(2°) 


9 


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10 ALCUNE POESIE 


Che mi rapisce e l’alma imparadisa ? 
Se angiolo ei parve sotto umano velo, 
O quale ora l’accoglie astro felice, 
Quai note insegna nel gioir del cielo ? 


Come l’augello torna 
Dopo error vago al sospirato ramo, 
Così, come a dolcissimo richiamo, 
La mente vola con soave affetto 
Palermo, a te, cara gentile e bella, 
Entro soglia devota io qui talora 
Traggo a mirar la fossa 
D’Enzio, re giovinetto, 
Nel cui labbro l’italica favella 
Suonò, nascendo, e forte in cor commossa 
Dico: o Palermo, della lingua nostra 
Col puro accento, che parlò d’amore 
Coglievi il primo fiore! 
Poi, del popolo tuo le ardite prove 
Tutte ripenso, e un fremito m’assale, 
E par ch'io senta l’ora 
Del Vespro, e il grido orrendo: mora, mora ! 
Con letizia festosa or col pensiero 
Penètro i tuoi recessi: 
Veggio, sacra a Sofia, l’ara votiva, 
E ascolto il verso, quale un giorno usciva 
Dalla divina idea 
Del fuggiasco Alighiero; 
Quel verso che rimena 
Sovra l’itala scena 
Il corruccio ed il pianto 
Onde già vinse la palestra elea 
Euripide; rifulse 
Eterna l’arte greca al par del Sole 
Per la nostra Camena 
Quello splendor fra noi risorge ancora : 
E l’arte greca te, Palermo, onora. . 


Salve Sicilia: e tu Palermo, siedi 
Per grandi opre reina: 
Te degnamente l’universo inchina. 


TropoLinDa FRANCESCHI PIGNOCCHI. 


DEI SOCI 





LAMENTO DI CARLOTTA VIGO” 


ALLA TOMBA DELL’ILLUSTRE SUO GENITORE 


LEONARDO VIGO CALANNA. 


ELEGIA. 


Solo un’alma di più nel di caduto 
Fra noi brillava, e pure il Mondo intero 
Parmi deserto e d’ogni luce muto. 


La gleba ahi, ti coprì del cimitero, 
O padre mio! Con te nella tua bara 
Han rapito il mio core e il mio pensiero. 


E questa aura d’Aprile altrui sì cara, 
Che blandì per tradir tutta mia spene, 
Oh quanto è a me più d’ogni verno amara! 


Molcer da pria sembrò l’aspre tue pene, 
Rinnovellar sembrò l’egro tuo frale, 
E poi t’uccise e spense ogni mio bene. 


Ma, se il tuo fato alla mia gloria l’ale, 
Al mio gioîr troncò, perchè non caggio 
Pur teco ? In vita il rimaner che vale ° 


S'io del tuo sole altro non fui che un raggio, 
Perchè lasciarmi? Ogni fulgor sen porta 
L’astro del di, se compie il suo viaggio. 


11 


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ALCUNE POESIE 


Orfana e sola, chi più mi conforta? 
Ride qui l’Etra; ma quel riso è scherno; 
Chè a me di vita ogni cagion fu morta! 


Orfana e sola! Dell’amor materno 
Ogni séave, ogni pietosa cura 
Fin da la culla mi negò l’Eterno! 


Chè il dì ch’io nacqui a me la madre abi! fura, 
A lei la vita, al secolo un portento 
Di virtù, di bellezza e di sventura. 


Per chi la vide, oh quanta invidia sento! 
In ira è al Ciel chi della propria madre 
Ignora il volto e l’amoroso accento. 


E tu, che mi nudristi e alle leggiadre 
Opre mi fosti ognor duce, fratello, 
Amico, ahi tu pur m’abbandoni, o padre! 


Ma sulla pietra del tuo muto avello, 
Se l’eco sol risponde ai miei lamenti, 
Perchè m’assido e piango e a te favello? 


Sia ch’io torni, o che vegli, o m’addormenti, 
Sempre, o padre, sei tu da me lontano 
Quanto la luce de l’eteree menti ! 


Ahi! dopo un dì chiedo baciarti invano, 
Come quando morente e pur sereno 
Stringevi al cor la mia trepida mano. 


Darti mia vita, o morir teco almeno 
Bramai; tu mi baciasti e radiante 
Volò la tua grand’alma al Nume in seno. 


Ma sull’urna l’alloro e la fiammante 
Rosa e il candore del virgineo giglio 
Porrò; chè fosti ognor de’ fiori amante! 


Fiori, leggiadri fior’ sul tuo giaciglio 
Porrò; nè d’uopo di rugiada avranno 
Sparsi del pianto che m°’inonda il ciglio! 


| DEI SOCJ 

E onor di lauri e carmi a te daranno 
Quante Sicilia nutre alme pietose, 
E l’ossa tue nell’urna esulteranno. 


Chè a te sul labbro, se le carte ascose 
Di Clio trattavi, o di Maron la tromba, 
Sublimi accenti amor di patria pose; 


Nè con piuma di cigno, o di colomba 
Movea tua strofa; ma fulmineo volo 
Fu d’aquila, o di tuon ch’alto rimbomba. 


Inni e corolle del trinacrio suolo 
Ti recherò, memore ognor di quanto 
A me dicesti fra il sorriso e il duolo: 


« Figlia, ama i fiori e delle Muse il canto1 


Ben trista è l’alma che di lor non gode; 
Ai carmi, ai fior’ nasce virtude accanto. 


È gemma il fior delle terrene prode, 
E l'inno è voce di gagliardì Spirti, 
Onde s’eterna degli Eroi la lode.» 


In questi sensi favellarmi udirti 
D’Aci sovente e Galatea la lieta. 
Cerula sponda e le ciclopie sirti. 


E, come il mio desir nel tuo s’acqueta, 
Adornerò con queste note i marmi, 
Che innalzerà Sicilia al suo poeta: 


« Nacque sull’Etna; amor cantando ed armi 
Ebbe cor pari al suo natio vulcano; 
Alla patria sacrò gli affetti e i carmi. 


Chi non lo piange non ha cor sicano!» 


Palermo, 27 Aprile 1879 (#). 


Giuseppe DE SPUCHES. 


(#) Altre si stamperanno nel volume di seguito. 


13 


COMUNICAZIONI ED ESTRATTI 


PHILIPPO PARLATORE 


PANORMITANO 
ARTIS MEDICAE CONSULTISSIMO 
DE RE BOTANICA UNIVERSA 
SECULO XIX LABENTE 
DIARIIS OPERIBUS EDITIS 
PRAESERTIM ITALICA FLORA 
PERICULIS EXCURSIONIBUS 
OPTIME MERITO 
QUOD LEOPOLDUM II MAGNUM HETRURIAE DUCEM 
ET FLORENTIAM PATRIAM ALTERAM 
SIBI DEVINXERIT 
BOTANICES DISCIPLINIS IN R. ATHENAEO TRADENDIS 
MUSEO HUJUSMODI DIRIGUNDO 
QUOD AMPLISSIMO HERBARIO INSTITUTO 
AMOENAM FLORUM URBEM 
PAMPHYTON TERRARUM ORBIS FECERIT 
VALETUDINI COMMERCIIS DOCTORUM CONVENTIBUS 
EUROPA AMERICA AUSTRALIA ACCURRENTE 
PROSPECTURUS 
ACADEMIA PAN. SCIENTIARUM LITERARUM ATQUE ARTIUM 
i SOCIO PRAESTANTISSIMO 
COMMUNI SICULORUM COMMODO 
BIBLIOTHECAM PRIVATAM 
TESTATO OBSIGNANTI 
ANTEQUAM FLORENTIAE FATO CONCEDERET 
JUSTA MOERENS SOLUTURA 
HOS TITULOS D. 
V. KAL. MAJAS AN. MDCCCLXXIX. 


COMUNICAZIONI ED ESTRATTI 15 


IN TUMULUM 


PHILIPPI PARLATORE 


DISTICHA 


URBS SICULUM GENUIT, JUSSIT FLORENTIA CIVEM, 
SED COLUIT TELLUS ITALA OPIMA PARENS, 


ERRORES STUPUIT VARIOS EUROPA, LAPONUM 
CUM TULIT ARCTOO VISERE IN ORBE PLAGAS. 


QUOT DECORA ATQUE VIRIS EXCUSA NUMISMATA DOCTIS 
VIRTUTI RETULIT PROEMIA PARTA SUAE! 


NATURAE ET SOPHIAE RECTUM MEDITATUS AMOREM 
USQUE VIRENS ABIIT CULTOR IN ELYSIUM. 


Gan, Joser® MonTALBANO S. A. 


16 COMUNICAZIONI 


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Lettera del Prof, Ugo de Meltzl in occasione della sua nomina a socio 
dell’Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Palermo. 


Xalpew Xeyw tòv "Tbongoy Aegrovxme Taddtidos reeopuv, ic ’Axadnplas Havoppltns 


\ayrpotatov rpostàmny. 


O doyuwyv mpeofirare xa ceuvorare | 

Edxet duadnula you Eyew tx duyne iuòv uèv fiv, dc duvatòv tayiota. AMA dà do- 
tadplas tivde Boov Baov dbitwy, tà zatiuovta Tpdocw td vuv perà yapds. 

Atm i Erionpordmn tir por yevopevn Eratper Epuò, aviiyestar od puòvov tiv fipuiv ra- 
padedopivwv Adpyatwv ypappdrwy ii EXAdd0g (eneidi ye xaì helyes èv oByrpn pèv YAdoon 
torti dpros A xadg, èv yeppavizii Sì Helle , coda’ tori cò gog!) dAlà za cy ypappdrwy 
sal tiv yAboswy, dv tepimerd tori puiypr Tod viv Ev ci co EpredozAsovg Tarplò.. Bobdopar 
tolvuy rapetvar del puetà rdons omovdne Tn yAwoon dperepi (Ti xadij xa toT6 ypdjppuaot 
dpertpors , cefdopiaov “eos. Mdvov ydp Tide dd cîua “euì rapiyerv ds dvdpa duadnulas 
dpetepne delws dyovta xai mpdscovta. 

T4Xda 8Ì Bozet por ci cososta zaì covaden cuuîi cyedòv ‘edeyydpevos dì dvaraMospevos 
d Adyoc ’ezetvos dAiatog: 

Iuxvoy dxdvipaw, oraviws è Eotpwpevn &vbare 
"Atparde Eoti Blow, y'ot dì Bapatpov dpos. 


Carmina latina et graeca Josephi De Spuches. 
Panormi 1877, p. 79. 


Hoò mote yîic dv ln yopos TI paXdoy « ravopuos » Atv avdpi tive, dg TY .ToMTOY 
adoviwy duoverv voplter tò Ti dyariv TedOG, #) M mode Ev Tm Ti Mepoegovne deac Tarplò,; 


x x , AP, DI a »I _ a _- -_ T [HESS 
Nat ny TAOEGL |LOL Eye [LETA AXAELVOU TLVOG TWYV ITOLNTUY Ep[LavIXuwYy 


Und herrlich wohn ich, wo den feuerkelch, 
Mit geist gefillt bis an den rand, bekrànzt 
Mit blumen, die er selber sich erzog, 

Gast freundlich mir der vater Aetna beut. 


Holderlin, Der Tod des Empedokles. 
(Gedichte. Stuttgart u. Tiibingen 1826, p. 206). 


ni SISI 5) 
Nov di xutà tòv tod EpredoxAsove Eefoymwratov Adyov: 
dî xal tpic tò xaddv, *) 
A x , Col x Dal , ” SNEN 
Nap te nat miotiv adele xai adrig Mequyv ele del Toga. 


"Ev KAaudwordàer Tîc OÙyyaplas, 
1878, die xxxr m. Decemb. 
Ò Upetepog 
Oùyw Ae MERA, 
PAVACAS: 


*) Schol. Plat. Gorgias ed. Steph. p. 498, i. f. (Siebenkees anecd. graec. Norimb. 1798, 8, p. 33). 








ED ESTRATTI 17 


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Addizioni alla grammatica latina, comunicate all'Accademia dal socio 
Dott. Ermanno Buchholtz di Berlino. 


I. Delle glosse. 


Per la cognizione della morfologia latina è molto da imparare coll’aiuto delle 
glosse antiche, il che fu mostrato eccellentemente da G. Loewe nel suo Prodro- 
mus corporis glossariorum latinorum, Lps. 1876. Trovai confermato in questo 
libro qualche punto dei miei Priscae latinitatis originum libri tres, Ber. 1877, 
‘e toccato ancora e in parte esposto questo e quello che io aveva preferito di 
passar con silenzio in quella mia opera. Eccone un esempio, che mi par impor- 
tante. 

Secondo due glosse gli antichi intendevano fuat per faciat, fuet per faciet— 
peccato che non sappiamo dove, in che libro. Così si legge nel Prodr. del Loewe 
p. 363: 

fuat: faciat (cod. Leid. 67 F° f 56v d; cod. Voss. Fol. 82; cf. glossarium Sa- 
lomonis: fuat fiat prosit erit faciat, quae glossa contaminata praeter alias con- 
tinet has duas glossas: fuat: faciat et fuat: pro sit). 

fuet: faciet (cod. Leid. 67 F? f 567 d; cod. Voss. 82; gloss. Sal. glossis 
subiectum). 

E che ne giudica il Loewe di queste due glosse ? In primo luogo che sono 
genuine e buone. Secondo, che la priore, fuat : faciat si potrebbe prendere per 
antica sì ma pure erronea da correggere in fuat: sit, ma che vi si oppone il 
fuet dell’ altra che non si dovrebbe congiungere colla radice fu = esse. Questo 
argomento poi a me non par fermo, anzi credo, caso che mai si trovasse un 
fuet = erit (e le iscrizioni ci mostrano fuet= fuit), non sarebbero però da sprez- 
zarsi quelle due glosse. Terzo dice il Loewe che in queste due glosse lemma e 
spiegazione paiono essere della stessa radice; come siano a dare queste forme 
coll’u duam duint addues, così essere quelle nostre forme coll’ u alle altre coll’a, 
accresciute della lettera c, mancante ancora in fio. E questo mi pare egregio e 
verissimo. Perchè fieri e fiere, come dicevano ancora gli antichi, fu senz’ altro 
lo stesso che il posteriore facere, giacchè la distinzione dell’intransitivo, dell’at- 
tivo, del passivo non è tanto antica. E quanto alla mancanza del c possiamo pa- 
ragonare questo che si trova nello stesso libro del Loewe p. 172 viere: vincere 
e p. 402 viere apud antiquos pro vincire ponebatur, e viendis: id est flectendis 
hoc est modulandis carminibus, e l’Enniano (Sota I, Varro Il. V. 62) ibant malaci 
viere Veneriam corollam. Forse anche Vitoria, che ha una iscrizione arcaica, si 
deve congiungere piuttosto con quel viere che con vincere. Sarà dunque verisi- 
mile che ci sia stato anche un faere o fare e difficile il credere che nelle mo- 
derne forme di questa fatta il c sia fognato o cambiato, e lo stesso nelle antiche 


3 


18 COMUNICAZIONI 
ci iii ie IEEE II 
forme umbriche : feitu fetu feetu= facito. Nel latino feci poi conosceremo una 
forma più vicina a fi che a fa, potendo la lingua di quello che c’era scegliere 
per soddisfare al bisogno di distinzione ; fici, che hanno le iscrizioni tarde 
(p. e. gut appo R. Fabretti 390, ma anche C. 929 vivos sibi ficerat), forse fu mu- 
tato in feci. Nei composti, adficio adfecio, lasceremo di parlar d’un debilita- 
mento dell’a, ma diremo che l’antico fi come più comodo fu mantenuto. Se ab- 
biamo poi fic fec fac, ma non fuc o foc, ci possiamo maravigliare un momento: 
ma non è necessario che tutto quello che può essere ci sia ancora. 

Ma torniamo a vedere il secondo punto nel giudizio del Loewe sopra queste 
due glosse. La somiglianza di fuat fuet= faciat faciet con fuat egli sia e con 
fuit egli fu, la diremo con lui esterna e fortuita ? Io credo di no. La lingua a- 
doperando pochi mezzi crea e fa tanto e tanto. E si badi un poco alla somi- 
glianza interna, cioè nella significazione di tutti e due quei gruppi di forme. 
Riesce probabilissimo che accanto a quei fuat fuet=-faciat faciet ci sia stato an- 
cora un fuit= fecit, che fuit sia stato non meno un egli fece, che un egli fu, 
anzi che fu proprio ‘egli fece’, poi ‘egli fu fatto’, finalmente ‘egli fu’. Il verbo 
osceno futuere, congiunto da tutti con fui, non è che un’altra formazione della 
stessa radice che facere, posto da Petronio nello stesso o simile senso. Fut col 
senso di essere c'è ancora in futurus e in ‘futaverunt: fuerunt’ appo Placido. 


II. Di Ennio. 


Il più strano fenomeno della gramatica e letteratura latina è senz’altro la tme- 
sis o divisione delle parole di cui ragionano i gramatici e ne recano ancora 
gli esempi i più importanti. Eccoli. Primo di Virgilio Georg. III 381, septem 
subiecta trioni; secondo di un innominato (Consentii ars. p. 391 K.) conque tu- 
bernalem, ‘pro contubernalem..... quo Lucius (il Cramer e l’ Hertz Lucilius ) in 
metro crebro utitur’; anche Ausonio ed Eug. Toletano dicono che Lucilio (v. l’ed. 
di L. Mueller p. 128) adoperava spesso questo artifizio ; terzo di un innominato 
(Pompeii comm. p. 309 K.) Elio nam gabalus; quarto di un innominato, per il 
quale si prende Ennio (Donati ars gramm. p. 401 K., Pomp. comm. p. 310 K.) 
saxo cere comminuit brum; quinto (Don. p. 401 K., Pomp. p. 310 K.)di un in- 
nominato, che vogliono essere Ennio ma non lo accetta il Koch Ex. p. 2, Massili 
portabant iuvenes ad littora tanas. 

Si fa menzione ancora del circum dea fudit di Virgilio, En. I, e di cose si- 
mili, poco maravigliose, che vengono superate in bizzarria dai primi due, non 
che dagli ultimi di quei cinque esempi. Perchè sappiamo benissimo che septen- 
trio e septentriones sono in verità due parole, cioè i sette buoi da arare, ma 
pure quando abbiamo septemtrio in singolare l’unificazione è bella e fatta, giac- 
chè septem, se non segue il sostantivo in plurale, non può stare da se. Che se 


ED ESTRATTI 19 





troviamo di quelle lingue che hanno per regola di por sempre in singolare il 
sostantivo col numerale, giacchè il numero celo dice abbastanza il numerale, e 
se il parlar moderno d’Italia ha dugento trecento per ducenti trecenti, tutto 
questo non farà al caso. Ma può darsi che Virgilio da quell’ amatore del parlar 
arcaico che era, forse seguendo qualche autore antico, abbia posto qui trioni per 
trionibus, siccome la formazione e l’uso del plurale non appartiene all’età an- 
tichissima, dimodochè lo stesso Plauto l’ha di rado anzi che no. Comunque sia, 
non vorrei porre Virgilio fra quei poeti medioevali citati dal Mueller, che par- 
lando della tmesis di Lucilio tagliano e dividono le parole a piacere. Il meno 
strano di quei cinque esempi sarà sempre quel conque tubernalem (di Lucilio), 
un poco anche simile al Virgiliano circum dea fudit ed a questo Luciliano che 
ha Nonius 287 29: Lucilius lib. XXX iuratam se uni, cui sit data deque (codd. 
adaequae) dicata. Lo stesso caso ci somministrano oltre Omero spesso le antiche 
iscrizioni latine che ci mostrano staccata mediante un punto la preposizione di 
un composto : com. parascuster nella Bantina, ob. venerit, ad. tributus ecc. nella 
lex Iulia mun., ed anche que sta tante volte da se: eide que probavit. Nè manca 
il caso contrario come la stessa lex Iulia ha insinatum, insenatum, inintegrum, 
dimodo che dobbiamo giudicare col Mommsen (U. D. 226) tutte le preposizioni 
alle parole seguenti essere state legate d’un vincolo assai leggiero e tenue. 

Anche il quinto esempio però , quel Massili tanas, io lo prendo indubitata- 
mente per ragionevole, non vi suppongo veruro scherzo fatuo o stracciamento 
per bisogno di metro. Ed ecco come. La città di Massilia senza il pronominale 
suffisso della prima declinazione deve essere stata chiamata Massili, appunto co- 
me sappiamo i nominativi del singolare Clodios Clodio Clodi — e come ancora il 
Petrarca disse Pistoi per Pistoia: dimodochè la prima metà non avrebbe nè fe- 
rita nè margine. Il tanus a um poi, come l’abbiamo in Panormitanus e simili, 
mi è un aggettivo derivato da tam = così, là, da paragonarsi con tantus, talis e 
con una glossa nel Prodromus del Loewe ‘tos: tantos’ e lo traduco: tale, uno 
di quel luogo. È vero, non sappiamo che ci sia stato un tale tanus come parola 
da se. Ma si può paragonare che tor, l’ultima parte di senator, imperator, si 
trova nelle iscrizioni separato, come nella lex Iulia sena-torem, e che in una 
iscrizione antica nella Sylloge del Garrucci n. 557 si legge .nperato-ribus, dove 
il ribus pare quasi un sis o eis. 

A questo vacillamento degli antichi, se questa e quella parte della lingua par- 
lata fosse una sola parola o due, se aggiungiamo ancora che si scriveva poco, 
capiremo come potessero dividere qualche volta le parole falsamente e senza 
ragione. Così par diviso bene nel Senatusconsultum de Bacanalibus adie sent e 
comprome sise, ma meno bene inceider etis; si preferirebbe inceide retis, forse 
anche conpromesi se per il secondo. Essendo tutti allora in questa incertitudine, 
finchè col progresso dello scrivere le divisioni s’abolivano del tutto, anche i poeti 
in grazia del verso avranno partito qualche volta meno accuratamente. Che di- 
remo del cere brum? Cereb rum, uscendo l’una e l’altra parte nella labiale lo- 


20 COMUNICAZIONI 





cativa che si deriva da fi o bi, sarebbe diviso bene; la prima parte sarebbe la 
forma antica della parola, colla piena significazione, la seconda il suffisso pro- 
nominale del tempo posteriore, cioè sum =eum ovvero id, cf. necerim = nec 
eum appo Festo. In grazia del verso il poeta fu costretto di porre cere per cereb 
e davvero poteva affatto gittare la lettera b, ma la tradizione vuol che abbia 
preferito di divider male, acciocchè avessimo intera la parola cerebrum. Cere 
comminuit rum sarebbe stato ragionevole, e forse l’ha scritto Ennio ed il brum 
si deve agli espositori, ma forse si deve imputare ad Ennio ed al suo tempo, 
che poteva aberrare ad una divisione meno buona. M’è difficile il credere que- 
st’ultimo, perchè le stesse iscrizioni non hanno cose tanto strane, potendosi di- 
fendere ancora con qualche successo quell’etis e sise del Senatusconsultum de 
Bacanalibus. Col nostro cererum potremmo paragonare delle forme plautine : vo- 
lu(n)tatem, volu(p)tatem, poichè anche queste lettere poste in parentesi proven- 
gono dal fi o Di. Se abbiamo in qualche iscrizione meno antica, come pare, di- 
visa col punto sillaba da sillaba (v. Wilmanns Ex. 381) ed anche lettera da let- 
tera (Eph. ep. III, p. 113 d.e.o= deo), questo, s'intende, non ha che fare col 
nostro caso. 

Quell’Elio nam gabalus, che appartiene come si vede all’epoca degl’imperatori, 
non è che imitazione di quegli esempi antichi, fatta nel bisogno del metro e 
forse per alludere al nome di Helios cioè Sole. 

Bene dice Servio ad Aen. I 412 di questo uso: tolerabile est in sermone com- 
posito: ceterum in simplici nimis est asperum, quod tamen faciebat antiquitas. 
Noi contro i grammatici, che ci hanno il termine tmesis, sostenendo che è in- 
tegra e sana l’una e l’altra parte, non crederemo neppure una arozotz 0 muti- 
lazione della fine, quando sì tratta di quelle parole monosillabe che si trovano 
nell’esito di qualche esametro Enniano. Gli esempi sono questi. Replet te laeti- 
ficum gau (Aus. ed. V); divum domus allisonum cael (ivi); endo suam do (ivi, 
Charis., Diom., Mar. Victorin., Probus, Consentius). Cominciamo col do. Che l’ul- 
tima sillaba di domiì si deriva dal bi o fi, si vede da dubenus = dominus appo 
Festo; da questa forma locativa che rimase poi per dire ‘in casa’ vennero, sog- 
giungendosi oi e se, le altre forme della parola. Come dunque si poteva gittare 
l’ m finale dell’accusativo, così anche quello che ci pare essere della stirpe, es- 
sendo della stessa origine. Come c’è poi famul (Ennio appo Non. 110), facul e 
simili forme, così sarà stato cael o cail prima che gli fosse soggiunto o ofi omi 
ovvero um. E gau sarà stata la forma più antica e più semplice prima che vi 
fossero soggiunti i pronomi di ed um. Senz’ altro sarebbe stato facile a quegli 
antichi lo scrivere gau e poi ancora dium o dia. Anche cael um, se um o omi 
era un pronome, si poteva scrivere, ma più facile cae lum. Che anche l’l è suf- 
fisso pronominale non necessario al senso della parola, giacchè c’ insegna Paulo 
89 che cohum sia stato lo stesso che caelum. Meno buona mi pare sarebbe stata 
la scrittura do mum per domum. 

E qui fo punto, per dire ancora due parole sopra le sillabe finali desinentì 


du 


ED ESTRATTI 21 


in m, le quali Ennio col tono del ritmo ha lunghe, ma anche brevi quando son 
fuor del tono ritmico (ictus). Per causa del caso priore disse il Buecheler (nel 
Grundr. der lat. Decl.), che nel secondo l’ m è da cancellare e che poi l’iato alla 
greca opera l’abbreviazione della sillaba finale aperta. Nel secondo libro delle 
mie Origines adottai questa spiegazione, riserbando però come pure possibile 
quell’altra, cioè che l’ m rimanesse e l’abbreviazione s’attribuisse al ritmo. Oggi 
è da tutti accettata quella spiegazione del Buecheler (v. il mio Bericht ùber 
Metrik 1872-1877 in Bursians Jahresb.), la quale credo che si deve lasciare. Che 
non pare esser d’Ennio l’abbreviar le sillabe finali aperte coll’aiuto dell’ iato, e 
poi gli antichi avevano la legge (v. Pr. I. or. III) che le sillabe finali lunghe 
potessero essere per brevi quando non ci cadesse sopra il tono ritmico, princi- 
palmente in metri che avessero bisogno di molte sillabe brevi come l’anapestico 
e il dattilico. Eccone gli esempi di Ennio (ann.): 

275 miscent inter sese inimicitiam agitantes. 

525 cum illud quo iam semel est imbuta veneno. 

308 qui tum vivebant homines atque aevum agebant. 

336 insignita fere tum milia militum octo. 

486 dum quidem unus homo Romanu(s) toga superescit. 

Il cum nel 525 cancella il Vahlen come venuto quà dalle parole antecedenti : 

ut Ennius cum ait; 308 corregge agitabant. 


III. Delle iscrizioni. 


Già nel terzo libro delle mie Pr. I. or. proponendo le leggi dei versi saturni 
io aveva suspicato che questa e quella parola dagli antichissimi Latini si poteva 
dividere in due, e secondo questa ragione in una iscrizione di P. Scipione, che 
comincia ‘quei apice’, io aveva diviso licui set e sup(e)ra ses, e forse ho fatto 
bene. Ma atteso alla scarsezza di tali esempi mi viene adesso il dubbio che non 
sia piuttosto da correggere il quibus in quîs e facile in facul: 


quis sei in longa licuiset tibe utier vita, 
facul facteis sup(e)rases gloriam maiorum. 


Se io leggo suprases trisillabo invece di superases, abbiamo anche la preposi- 
zione supra e invece di infra si legge nell’iscrizione C. 1166 che comincia L. 
Betilienus’ infera. Così c'è ancora C. 1258 leibravit invece di leiberavit, e lo stesso 
Virgilio scrisse dextera per dextra. Anche la divisione censue re proposta da me 
nel Sc. de Bac. non è necessaria; possiamo leggere : 


ita exdeicendum censuere neiquis eorum. 


9) COMUNICAZIONI 





Quanto poi alla misura di tempestatebus colla penultima lunga che fu pro- 
posta dallo Spengel e adottata da me, credo che diverrà più propenso a crederla 
vera e buona, chi avrà riscontrato le iscrizioni della Sylloge del Garrucci n. 501, 
502, 503 e n. 500, 506. Quelle tutte e tre esibiscono niente altro che le parole 
‘Retus Gabinius C. S. Calebus fecit’ (salvo che la prima ha Gabinio per Gabinius 
e fecite per fecit, la terza anche Gabinio e fecte, cose delle quali ora non si tratta); 
e queste sono le altro dune: 'L. Canoleios L. f. fecit Calenos’, ‘C. Gabinio T. N. Ca- 
leno’. La similitudine fra le iscrizioni dell’uno e dell’altro gruppo è grande, e ci 
viene subito in mente, che Calenos o Calenus ed ancora Calenum, l’altro nome 
per Cales, si deve derivare da Calebus o Calebos e che la vocale della penultima 
di questo locativo o ablativo è non meno lunga che quella di Calenus e Cale- 
num. E se abbiamo altrove ibus ed inus, sarà la stessa cosa. Superfluo dire che 
b diventava m, ed m si cambiava in n. Se abbiamo Calebus desinente in us, ma 
Caleno Calenos, questo, s'intende, fa niente: abbiamo anche protrebibos = pro 
tribubus Eph. ep. 1876 p. 218. 

Oltraciò non mancano delle vestigia che lo fanno probabile tutte le sillabe 
nella lingua latina ab origine essere state parimente lunghe : ioubeo, impeirator, 
faceiu, Vergeilia, Vaarius ecc. nelle iscrizioni, ed Ennio ha ann. 440: 


nos sumu(s) Romani qui fuimus ante Rudini. 





Sull'esegesi del Consigliere A. Invidiato al num. 3, art. 193, Codice Civile, 


L'avvocato consigliere Agostino Invidiato ha fatto omaggio alla nostra Acca- 
demia di una sua Esegesi al num. 3 dell’art. 193 del Codice civile, prescrivente che 
il figlio naturale anche nei casi in cui il riconoscimento è vietato avrà sempre 
azione per ‘domandare gli alimenti, se la paternità o maternità risulti da espli- 
cita dichiarazione scritta dei genitori. 

L’egregio giureconsulto comincia dal ricordare come in tutte le. legislazioni, 
accanto al rispetto per le giuste nozze , siasi manifestato l'aborrimento di con- 
giungimenti colpevoli per adulterio o per incesto. Alla prole di siffatte unioni 
disdetta ogni ricerca della sua origine; ai genitori disdetto di riconoscerla; nie- 
gala ogni relazione di famiglia; vietata, in omaggio alla pubblica moralità, qual- 
siasi manifestazione di turpi fatti a cui una prole nefasta deve la vita. 

E segue accennando a quel sentimento di compassione per cui sorse in ogni 
tempo la quistione alimentaria, onde genitori colpevoli non si francassero dal- 
l’obbligo di alimentare figliuoli, che venuti al mondo per rea libidine aveano 
dritto di vivere. i 

Il Codice Napoleone, dice l’autore, fu il primo ad elevare a dettato di legge il 


ED ESTRATTI 23 





diritto agli alimenti dei figli adulterini o incestuosi, pur mantenendo e la proi- 
bizione di ogni indagine sui loro parenti e l’inefficacia di riconoscimenti volon- 
tari. E parve una contraddizione il dare da un canto entità giuridica alla pater- 
nità criminosa, vegnente da adulterio o da incesto, e d’altro canto nasconderla 
contro qualunque rivelazione o coatta o spontanea. Chè ciò valea creare il di- 
ritto, e niegare l’azione giuridica; volere il fine e disvolere ì mezzi. 

La dottrina e la giurisprudenza sì affaticarono a comporre quella apparente 
antinomia, imaginando dei casi nei quali una vergognosa paternità risultava da 
fatti autentici, che per necessità di cose riuscivano alla conseguenza di una 
prole adulterina o incestuosa. Per esempio, il caso di un matrimonio, sciente- 
mente contratto, nullo per bigamia o per vincolo di parentela tra’ conjugi, di cui 
nonpertanto esistevano figlinoli, riconosciuti sotto le parvenze di una prole le- 
gittima. In questo ed in casi simiglianti rispettavasi ad una volta il divieto delle 
turpi indagini e delle scandalose confessioni, ed attuavasi il diritto degli alimenti 
in favore dei figli. 

Ciò che in Francia fece il Codice Napoleone, fecero nell’ ex reame delle due 
Sicilie le leggi civili del 1819; e la dottrina e la giurisprudenza seguirono lo 
stesso indirizzo, di segnare come regola il divieto di disoneste manifestazioni, e 
come caso di eccezione l’azione giuridica degli alimenti. 

Fu il Codice Albertino del 1838, continua il dotto giureconsulto, che diede ef- 
ficacia al riconoscimento dei genitori per obbligarli ad alimentare la prole, co- 
munque nata da condannate unioni. E sulle orme del Codice Sardo è venuto 
l’art. 193 del Codice Italiano a prescrivere con più corretta formola che la di- 
chiarazione esplicita dei genitori, in iscritto, dà azione ai figli naturali per ot- 
tenere gli alimenti, non ostante la colpevole origine ed il vietato riconosci- 
mento. 

Premessa questa esposizione, il chiaro giureconsulto viene a fermare il signi- 
ficato esatto di tale disposizione, con la scorta dei lavori preparatorii e delle re- 
lazioni officiali. Quel che importa è di ben definire ciò che sia la esplicita dichia- 
razione cui accenna l’articolo che si vien comentando. L’autore dimostra che la 
dichiarazione esplicita è la dichiarazione completa, che sola da sè attesti il fatto 
della paternità criminosa e le persone cui essa riguarda. Lo esplicito esclude 
qualunque ricerca di supplimento. Coloro che a titolo di figli adulterini o ince- 
stuosi domandano gli alimenti, non hanno dritto che a leggere la dichiarazione 
dei pretesi parenti; e se ciò non assolve il debito della pruova, e richiede inda- 
gini ulteriori, per affermare , se altro non fosse , la identità delle persone, il 
favore della legge si allegherebbe fuori di luogo. Così non si mette mano a 
completare la storia di turpi relazioni; si accetta soltanto quel fatto che è di- 
chiarato , rispettando ad un tempo e la pubblica moralità ed i diritti della 
natura. 

Tale, in sunto, è il tema dottamente discorso dal signor Invidiato nella sua 
pregevole monografia. È a far voti che la giurisprudenza non si dilunghi dai 


24 COMUNICAZIONI 


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termini dell'art. 193, quali l’autore gli ha intesi, e non voglia trovare una di- 
chiarazione esplicita dovunque si possa raccogliere un convincimento della col- 
pevole paternità. Vuolsi la certezza indubitata, e vuolsi leggerla nella dichiara- 
zione dei genitori, senza argomentazioni e senza comenti. In questa materia il 
pendio è ben facile se non si guarda che all’interesse delle parti. Posti a fronte 
figli incolpevoli, che domandano di mantenere la vita, e genitori doppiamente 
colpevoli, della nascita e dell'abbandono, il cuore soggioga l’intelligenza, e crea 
i facili convincimenti, per tenere come chiaro ed esplicito ciò che in parte è un 
mistero. Non bisogna allo interesse sociale sovrapporre la privata utilità. Il ri- 
gore delle leggi contro il prodotto di aborrite unioni è tutela ai costumi; ed è 
sempre colpa che la passione dell’uomo allenti quel freno che la legge ha posto 
a salvaguardia della virtù dell’onore e della pace delle famiglie. 

In Francia è un antico ed eloquente proverbio « Dio ci salvi dall’ equità del 
parlamento ». E come non dovrebbero nelle aule della giustizia scolpirsi le pa- 
role del poeta «qui vive la pietà quando è ben morta! » 


Socio Vincenzo DI Marco. 


Sul manuale del Dott. T. Flogaito di Dritto Costituzionale. 
‘Eyeroldov Zuyrafuamzod Atzalov dTd Osodwoov N. DAoyxitov. Atene, 1879. 


Riesce gratissimo trovare la scienza politica nella lingua di Platone, Aristotile 
e Demostene, e vedere come in Atene facciano nuovi progressi la scienza e la 
civiltà. Il giureconsulto Teodoro Flogaito facea cortese dono a questa Accademia 
di Scienze di un suo Manuale di Diritto Costituzionale. 

È un volume di pagine 396 destinato ad una breve ma completa esposizione 
del diritto costituzionale. Costretto ad esaminare le idee e i sistemi europei del- 
l’ordinamento degli stati e della politica costituzionale, l’A. ha saputo con molto 
giudizio adoperare la lingua ellenica classica per quanto gli è stato possibile, e 
in ciò arreca ai lettori una viva soddisfazione. Usa poi i nomi moderni nel modo 
che più si avvicina alle voci o frasi della lingua antica. 

Una introduzione precede il lavoro, accennando le norme fondamentali con 
opportune definizioni, distinguendo il governo in monarchico e poliarchico. Ri- 
corda le mutazioni di governo nell’antica Grecia. Poi accenna i tempi moderni, 
e specialmente le riforme dopo la gloriosa rivoluzione del 1821, il governo di 
Ottone, le riforme del 1843 e le presenti condizioni del regno ellenico. Dividesi 
poi il manuale in due parti (Tumua). Nella prima in sei capitoli sono ampia- 





ED ESTRATTI 25 


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mente trattate le politiche libertà, e distintamente sono esposti i caratteri e le 
funzioni del potere legislativo , esecutivo e giudiziario, con ampio svolgimento 
speciale sulle Camere dei Deputati e del Senato, sul Consiglio di Stato, sul Potere 
reale, indicandone le nobili attribuzioni secondo la scienza moderna. 

Nella parte seconda molto più breve, in tre capitoli tratta dei limiti del po- 
tere, e delle libertà private o individuali e delle libertà comunali, talchè si ad- 
ditano per ogni argomento le norme e garentie costituzionali che la scienza mo- 
derna ha proclamato in Inghilterra, in Francia, in Germania, nella Spagna ed 
in Italia. 

È degno di nota che dell’Italia si fa appena qualche volta menzione pel nuovo 
ordinamento. Sono talvolta citati Beccaria, Filangieri, Romagnosi e Brusa. 

Base del manuale è il dritto costituzionale francese, secondo le note opere di 
Constant, Hello, Sismondi ed altri. Sono pure desunti varii principii da opere in- 
glesi. Si fanno frequenti comparazioni delle leggi costituzionali di Francia, Ger- 
mania e Inghilterra con le greche odierne. 

Moderato dimostrasi l’egregio scrittore, e vediamo adoperato ogni studio per 
‘contenere nei giusti limiti le teoriche costituzionali, senza quella esagerazione 
che sventuratamente altera i puri principii della scienza e le norme fondamen- 
tali della società, quando gli scrittori politici lasciansi predominare o dal senti- 
menlo monarchico prevalente a danno delle politiche libertà, o dalle popolari 
‘garentie eccedenti ogni giusto confine con pericolo dell’ordine sociale e di quella 
‘libertà che si vorrebbe oltremodo estendere. Da tali eccessi rifugge il greco fi- 
losofo, ed invoca opportunamente gli esempi delle Carte costituzionali dei varii 
stati europei a sostegno delle giuste teoriche. 

Pregevole è pure questo greco manuale, perchè opportuna e frequente vi si 
trova l’ applicazione dei principii al diritto costituzionale greco vigente, talchè 
riesce in varie parti anco di pratica utilità per l’esposizione e retta applicazione 
della nuova costituzione ellenica. 

Lodando l’egregio Autore, auguriamo alla gloriosa stirpe ellenica sempre mag- 
«giori progressi e lieto avvenire. 


Socio Vito La MANTIA. 


L'inchiesta sulla marina mercantile. 


L’avv. Mario Corrao, socio della nostra Accademia, non avendo potuto pre- 
‘sentarsi alle sedute della Commissione d’Inchiesta per lutto di famiglia, inviò 
4 


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Ro 


26 COMUNICAZIONI 








al presidente onor. Boselli la seguente memoria, che ha poi comunicato all’Ac- 
cademia. 


Signori, 


Al punto dove è arrivata l’inchiesta sulla marina mercantile, nulla potrei dire 
che non sia stato detto e ripetuto altrove. Non pertanto credo che non sarà del 
tutto inutile fermare l’attenzione sui quesiti del questionario che mîrano alla 
ricerca dei provvedimenti adatti per sollevarla dallo stato di decadenza in cui 
versa. 

Restringendo lo studio su questo terreno, mi sembra di avvicinarmi allo scopo 
pratico dell’inchiesta, e per farlo con brevità seguirò il metodo sintetico, non 
perchè quello categorico del questionario non sia logico ed ordinato; ma perchè 
colla sintesi potrò meglio raccogliere a gruppi i vari quesiti su ciascun provve- 
dimento e rispondervi collettivamente. Ù 

Io parto da due criteri fondamentali: 

1. Che la marina mercantile italiana può migliorare positivamente nelle sue 
condizioni tecniche, economiche e morali mercè opportuni provvedimenti, purchè 
si eviti di crearla artificiosamente a forza di eccessivi incoraggiamenti o di com- 
prometterla con espedienti pericolosi. 

2. Ghe la scelta dei provvedimenti dee versare su quelli che possono spie- 
gare un’ azione diretta o indiretta al suo benessere, sia richiamando i capitali 
al rinnovamento del materiale navale, sia eliminando gli ostacoli di indole fi- 
scale ed economica, sia riformando la legislazione marittima ed il regolamen- 
tarismo nello scopo di renderli più agevoli agli interessi della navigazione e più 
previgenti a quelli del commercio. 

Colla scorta di siffatii criteri non è difficile discernere, tra le varie proposte 
di provvedimenti che vennero fatte prima e nel corso dell’inchiesta, quelle che 
debbono ovviarsi come dannose e quelle che meritano di adottarsi come utili. 

Comincierò dalle prime. 

Una delle proposte che si è intesa ripetere da qualche tempo in Italia e che 
la vostra Commissione ha udita in parecchi luoghi, è quella che condanna la 
vela all’ ostracismo come mezzo di navigazione che non ha più ragione di esi- 
stere di fronte alla crescente espansione del vapore. È questa una proposta esi- 
ziale, figlia di una profezia falsa od esagerata, che fa d’uopo combattere per ar- 
restarne tra noi le sue conseguenze dannose; ed io lo farò come posso, rispon- 
dendo ai quesiti dell’interrogatorio segnati coi num. 27 e 28, coi quali è solle- 
vata opportunamente la questione dell’avvenire della marina a vela. 

In quanto al primo dei detti quesiti, credo fermamente che oltre all’alta pesca 
ed al traffico di costa, è riservata alla marina a vela una larga corrente di com- 


ED ESTRATTI i 27 


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mercio, sia da sola sia in concorrenza col vapore. Ed invero alla vela non potrà 
mancare l’ esclusivo trasposto di quelle mercanzie inadatte al vapore, come le- 
gname, petrolio, ossa, marmi e tutti i prodotti di poco valore e di grande vo- 
lume: nè le potrà venir meno l’esercizio di quelle lunghe navigazioni nelle quali 
non converrebbe al vapore d’intervenire per l’immenso consumo del combusti- 
bile. Nè questo è tutto: ma essa troverà posto nelle stesse linee percorse dal 
vapore, sempre quando pel segreto della speculazione converrà al commercio la 
destinazione per ordine, onde poter far proseguire il bastimento per quel porto 
ove più si presta il mercato alla merce navigante; ciò che non potrebbe farsi 
col vapore, il quale ordinariamente percorre un itinerario determinato caricando 
a colleggio nei punti che tocca. 

Perlochè la vela sostenuta da tante risorse non può disparire dal mare, come 
non è scomparsa in molti anni di lotta col vapore, tanto che durante l’ultimo 
decennio il suo tonnellaggio generale si è mantenuto sul medesimo piede di 
circa quindici milioni tonnellate. Or se è vero che nelle cose umane il passato è 
criterio di rivelazione dell’ avvenire, non può dubitarsi che essa è destinata a 
conservarsi nei limiti della sua ragione di essere di fronte al vapore. Certamente 
è impossibile determinare a priori cotesti limiti; ma verrà tempo in cui si sta- 
bilirà da sè un equilibrio di proporzione tra la vela e il vapore in ragione dei 
bisogni del commercio. 

Riguardo all’ altro quesito, cioè se nelle lunghe navigazioni come quelle del 
Capo di Buona Speranza e del Capo Horn l’attuale materiale italiano a vela possa 
competere col vapore, o se invece sieno necessari grossi velieri in ferro, rispondo 
che non è dubbio essere i velieri in ferro migliori di quelli in legno, sia per la 
velocità del cammino, sia per la maggiore capacità della stiva, sia per altri per- 
fezionamenti tecnici, per cui è bene raccomandarli ai nostri armatori ; ma non 
sino al punto di ritenere inadatte per altre navigazioni le nostre moderne co- 
struzioni in legno, le quali a giudizio degli uomini competenti, sono pregevoli 
per solidità, sveltezza di forme e poco costo. 

Un'altra proposta non meno dannosa è quella dei premi di mavigazione ad 
esempio della Francia. Qui è d’uopo di fare una confessione. Anch’io fui parti- 
giano di tal provvedimento al primo annunzio del progetto della legge francese 
votato alla Camera; ma dopo il Congresso degli armatori italiani in Camogli, ove 
furono chiesti premi di navigazione non solo pei viaggi di lungo corso, ma an- 
che per quelli del piccolo cabotaggio in ragione della durata di armamento, co- 
minciai a riflettere sui pericoli di un tal sistema ed a temere seriamente se 
desso potesse servire a creare una marina fittizia per navigare non in vista dei 
noli, bensì dei lucri del premio; talchè perdei la fede del mio convincimento e 
mi schierai cogli oppositori della proposta dei premi di navigazione, ritenendola 
dannosa all’avvenire della nostra marina mercantile. 

Ed ora son lieto di questa mia conversione; perchè dalle osservazioni fatte dal 


28 COMUNICAZIONI 





signor Perin alla Camera francese si rileva come sorgono in Francia società di 
armatori con programmi brillanti allo scopo di sfruttare il premio conceduto 
dallo Stato alla navigazione, assicurando i capitalisti che nei dieci anni della 
sovvenzione legale vi sarà un minimum di rimunerazione del 9 o 10 per cento , 
senza tener conto dei profitti del nolo messi da costoro in seconda linea! 

Lasciamo dunque alla Francia questo sperpero del pubblico denaro; noi faremo 
opera prudente di non seguirla sulla via pericolosa dei premi di navigazione, 
molto più che abbiamo in proposta altri provvedimenti efficaci pel miglioramento 
della nostra marina a vela ed a vapore. Con ciò ho risposto ai quesiti dell’ in- 
terrogatorio segnati coi numeri 30 e 53. 

Una terza proposta gravissima per le sue funeste conseguenze è stata diretta 

contro l’istituzione della cassa Invalidi da parecchi armatori, i quali ne doman- 
dano l’abolizione o la trasformazione in società di mutuo soccorso, senz’ obbli- 
gatorietà del contributo, che varrebbe lo stesso dell’abolizione, atteso il carattere 
poco previdente della gente di mare. 
È singolare che di una istituzione propria della marineria retribuente, se ne 
facciano reclamanti gli armatori sol perchè essi sono obbligati dal codice della 
marina mercantile a rispondere del pagamento della retribuzione dovuta dai loro 
equipaggi. Però cotesti armatori hanno dimenticato che nel salario convenuto 
cogli equipaggi vi è compensata la rata di retribuzione mensile alla cassa, talchè 
se per avventura venissero sgravati dall'obbligo del pagamento come desiderano, 
dovrebbero subito aspettarsi da parte dei marinari la domanda di un aumento 
proporzionato del salario. Ed allora essi senza nulla guadagnare avranno contri- 
buito a distruggere un’istituzione benefica nel momento in cui progredisce, con 
grande soddisfazione della marineria, specialmente nelle circoscrizioni di Napoli 
e di Palermo, ove la prosperità delle casse ha permesso di elevare quasi al dop- 
pio le tariffe delle pensioni e dei sussidi annui. 

Alla inconsulta proposta degli armatori, altre se ne sono ventilate non meno 
dannose alla istituzione, cioè la fusione delle singole casse regionali propugnata 
da quella di Genova, ed il frazionamento in tante piccole casse compartimentali 
affidate alle capitanerie di porto. Il danno di tali proposte è evidente, perchè 
colla fusione si confondono gli assi patrimoniali delle casse più prospere con 
quelle meno prospere a detrimento di una gran parte della marineria e si crea 
un accentramento che rende difficile l’azione amministrativa della stessa; e col 
frazionamento in casse compartimentali amministrate governativamente, si di- 
strugge quell’ autonomia che ha resa prospera la istituzione e si impone una 
soverchia ingerenza autoritaria nella gestione di un denaro di privata benefi- 
cenza. 

Non dico che nulla debbasi fare per migliorare la parte regolamentare, con 
obbligare l’armatore a versare la retribuzione ad ogni disarmo di ruolo e con 


disgravarlo della responsabilità nei casi in cui non è possibile rivalersi dal ma- 


T_T IMRE 


ED ESTRATTI 29 


rinaro disertore o in refazione; ma distruggere l’ istituzione con riforme incon- 
sulte sarebbe errore grandissimo. Epperò la risposta al quesito di num. 21 si 
riassume in due parole: riformate il regolamento, ma non toccate la legge del- 
l’istitnzione, che è una delle più belle memorie dell’immortale Cavour. 

La quarta ed ultima proposta pericolosa è l’abolizione del libero esercizio di 
cabotaggio, invocata come provvedimento protezionista dalla nostra marina mer- 
cantile. È questo un errore. Vero è che la chiusura dei nostri porti al cabotaggio 
delle marine straniere, farebbe cessare la concorrenza che subisce il nostro na- 
viglio negli scali del littorale del Regno; ma una volta cancellata nei nuovi trat- 
tati internazionali la clausola della reciprocità del cabotaggio, la marina nazio- 
nale non incontrerebbe lo stesso trattamento nei porti stranieri? Ora io consi- 
dero questo rimedio come una arma a doppio taglio pericolosa, colla quale 
mentre difendiamo la nostra marina di cabotaggio dalla concorrenza straniera 
nei porti del Regno, offendiamo non solamente la nostra marina di lungo cor- 
so e di gran cabotaggio sulle coste estere, ma bensì il commercio nazionale 
negli scali del nostro littorale, privandolo del beneficio dei noli prodotto dalla 
concorrenza. i 

Adunque rispondendo al quesito di num. 7 opino che, sotto il punto di vista 
del commercio e della navigazione, i trattati di perfetta assimilazione delle ban- 
diere estere e del libero esercizio del commercio di scalo e di cabotaggio, con- 
chiusi dal governo italiano colle nazioni estere sulla base della reciprocità, sono 
incensurabili; ma che non fu saggio consiglio quello di aver convenuto colla 
Francia il reciproco esercizio di cabotaggio della navigazione a vapore a condi- 
zioni impari, cioè illimitate sulle nostre coste e ristrette per le francesi a quelle 
sole bagnate dal mediterraneo, in spreto del principio di uguaglianza e di giu- 
stizia. 

Eliminate coteste proposte erronee e pericolose, passo ora allo esame dei prov- 
vedimenti che credo indispensabili al risorgimento della nostra marina di com- 
mercio. 

Questi si possono dividere in due gruppi, cioè provvedimenti diretti ed indi- 
retti; ma sì gli uni che gli altri esercitano un’ azione generale a vantaggio 
della marina a vela e a vapore, meno di due di carattere speciale ma compen 
sativo.. 

Appartengono al primo gruppo: 

1. Premi di costruzione per bastimenti a vela e a vapore. 

2. Riduzione di tasse a favore della marina a vela e a vapore. 

3. Concessione di linee sovvenzionate alle compagnie di vapori. 

4. Noleggi dei trasporti governativi alla navigazione libera a vela e a 
vapore. 

Appartengono al secondo gruppo: 

1. Fondazione di un grande stabilimento siderurgico. 





30 COMUNICAZIONI ED ESTRATTI 


. Trasformazione dei cantieri navali. 

. Modifiche all’insegnamento degli istituti nautici. 

. Riforme alle leggi e regolamenti marittimi e sanitari. 
. Mutamento di dipendenza dei servizi marittimi. 

. Istituzione di un consiglio della marina mercantile. 


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(Lo sviluppo di questi provvedimenti si legge nell’ Economista di Firenze ai 
numeri 389 e 390, e nella seconda e terza dispensa del Giornale della Società di 
economia politica di Palermo, nei quali periodici è stata riprodotta la intiera 
memoria). 





R. OSSERVATORIO DI PALERMO 


RIASSUNTI METEOROLOGICI 




















































































































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2 RISTRETTO DELLE OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE ESEGUITE NEL REAL 
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Gennaio .. ... 764,42 | 1|755,42 (739,80 9205) (93% 012; AG 21 || WSW | 93/45,11 S 
Febbraio... .. 760,94 | 9 |752,29 [734,75 |22,25|| 23,6 |25| 13,26| 6,7 26 || WSW |12,9|524| W 
Marzo siete rà 166,66 | 9 |755,37 |(41,34| 24 || 243 |21| 13,19] 6,0 9 || WSW | 9,2|614| N 
ADI o oe 760,60 | 1|751,20 (742,70) 12 || 285 |21| 15,96) 8,5 Ti WSW |12,8 
Maggio... ... 760,52 | 23 |754,53 |747,80 9 |(35,5 |31| 16,64 89 15 W 9,3 
Giugno... ... 760,20 | 3 |756,64 751,00 | 17 || 325 |17| 22,s6| 141 4 || ENE 4,9 
igloo oe TO SÌ 05001 751R601 1221313 510235924 652 7 NE 6,2 
Agosto... ... 158,96 | 29 {755,20 [751,45 | 16 || 31,8 |19| 26,05| 18,8 1 || ENE 9,3 
Settembre . . . . ||758,49 !2.3/755,29 |751,14| 17 || 34,0 7| 24,11] 16,4 !28,30)| WSW | 6,4 
Ottobre... ... 163,03 | 13 | 756,46 |745,50| 16 || 26,2 | 16| 18,67| 10,3 24 NE 10 
Novembre . . . . ||[765,50| 5|755,40|744,60| 29 || 27,4 | 3] 15,73) 72 8 || WSW |11,6 
Dicembre. .... 770,93 | 29 759,08 |744,10 1012350 5 pu 1,4 9 [|WSW.W}) 8,8 
Medie . . . ||762,45 755,20. | 745,48 28,22 (12489593 WSW | 8,7 
mm 
Massimo . . . 710,93 
) mm 
Medio ....6$ generale del barometro . .. 755,20 Escursione barometrica annua = 36,18 
Minimo. ... 734,55 
Massima forza del vento = Km 61,4 alla mezzanotte del 6 marzo. 





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OSSERVATORIO DI PALERMO NEGLI ANNI 1879 E 1880 9 
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y879.10.11.12.14.15.16.18.19.21. 116,36 || 4.9.20.21. 9: 9.10. 8.9. 
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Massimo . .. 35,5 
Medio. .... spago del termometro . ., 17,72 Escursione termometrica annua = 341 
Minimo... . 1,4 


4 RISTRETTO DELLE OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE ESEGUITE NEL REAL 


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Minimo 
Direzione 
della forza massima 








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Data del massimo 
Medio 
Minimo 
| Data del minimo 
Massimo 
| Data del massimo 
Data del minimo 
Predominante 
Forza media 
Forza massima 
Volume medio 























1880 
mm mm mm 


Gennaio ..... 161,64 7 |760,67 |752,29 


km 


0) 
15|| 17,5 |30]| 9,75 38,9 | SE ||765|M 





Febbraio... .. 763,22 | 3 |757,00 [748,88|28|| 218 |23| 11,83 29,7| ssw |lco5\We 


Marzo età 165,51 | 10 |758,69 |744,39 49,7 | SSW 





Aprile |. 761,88 | 14 |754,03 [745,41 60 | 10] NE |100|42,7| s 











Maggio... ... 765,09 | 25 |753,32 [742,41 9,0 |11,12 wsw |82|23,7|wNW 





Giugno. i 760,27 | 9,10|756,25 [752,26 10,7 | 1| NE |7,8|276| nW 





Luglio ...... 759,50 | 19 |T756,47 [752,63 15,3 Il NE 6,1|245| NE 


Agosto... ... 758,36 |26,27|754,27 |749,81 34,9| SW 


Settembre . .. .||763,95! 1 |757,18 |752,17 134 | 29) NE 24,5 | NNW 


168 | 12) NE ve 
300) W 





Orale so 7161,€0| 27 S901 ELE 10,2 | 27 || WSW 


Novembre . . . . ||[(66,86| 30 |758,37 [746,55 74 3 || WSW | 6,7|39,8|] SW 


Dicembre. .... 165,69 | 7,8 |759,04 |751,76 


mm 
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Medie . ... ||763,28 756,83 |749,15 






































mm 
Massimo .. . (67,64 | 
mm 
Medio ....X generale del barometro . .. 156,93 Escursione barometrica annua.= 25,23 





Minimo. ... 742,41 200 <M. 


Massima forza del vento = Km 49,7 alle 9 pom. del 29 marzo. 





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OSSERVATORIO DI PALERMO NEGLI ANNI 1879 E 1880 





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Il Socio Direttore 


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LIBRI VENUTI IN DONO ALLA R. ACCADEMIA 


nell’anno 1831. 





OmsonIi Prof. Giovanni. Denti d’Ippopotamo da aggiungersi alla fauna fossile del 
Veneto. Venezia, 1880. 

PrirLips EnRrIco Junior. Note intorno ad un denaro di Augusto. Filadelfia, 1880. 

Di Pietro SANTA Dr. ProsPERO. Sulle prigioni cellulari. Parigi, 1858. 


» » Missione scientifica nella Corsica. Parigi, 1864. 
» » » del mezzogiorno della Francia. Par. 1874. 
» » Sulla climatologia teorica e pratica. Parigi, 1865. 
» » Gli ospizj marini e le scuole rachitiche. 1878. 
» » Igiene ed educazione della prima infanzia. 1879. 
» » Giornale d’igiene, vol. V, n. 2. Parigi, 1880. 


De Nino Giuseppe. Vita ed opera di Giuseppe Mastropasqua. Giovinozzo, 1880. 
Pozzi SamueLE. Biografia di Paolo Broca. Parigi, 1880. 
Banpiera Dr. AnceLo. Fior di mestizia. Palermo, 1873. 
Voon B. Giorgio. Intorno ad Enrico Hartshorne. Filadelfia, 1880. 
ZanELLA Prof. Gracomo. Elogio di A. Palladio. Milano, 1880. 
CurionI Prof. Giovanni. Arte di fabbricare, volume IV. Torino, 1880. 
» » Raccolta di progetti di costruzioni. 
» » Tavole annesse al sopradetto, vol. IV, d. 4. Torino, 1880. 
VoLpiceLLa Scipione Prof. Cav. (Socio) Di G. B. Del Tufo illustratore di Napoli nel 
secolo XV. Napoli, 1880. 
Horck F. La questione de l’alcoolisme. Bruxelles, 1881. 
VircHow RopoLro. Sulle trichine. Bruxelles, 1866. 
Urso Dr. ANTONINO. Gastrotomia. Palermo, 1881. 
» » Alcool e pulmonite. Palermo, 1873. 


8 
Gucino Prof. Giuseppe. Procedura civile romana. Palermo, 1873. 


» » Istituzioni di diritto romano. Napoli, 1873. 
» » Dritto di Regno, Palermo, 1878. 
» » Possessio in solidum e compossessio. Palermo, 1879. 


Agassiz Prof. Luic1. Relazione de’ banchi di corallo della florida. Cambridge, 1880. 

Toparo MaLato Prof. SaLvatore. Livia. Palermo, 1879. 

FinoccHiaro Comm. CamiLLo. Discorso sulla distribuzione dei premj 1880-81. 
Palerrfio, 1881. 


» » Sulriordinamento delle scuole serali industriali, 1880. 
Statistica internazionale .di banche d’emissione (Francia). Roma, 1881. 
Idem Asutria, Belgio, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, Spagna. Roma, 1881. 


Hucuet-La Tour. I. A. Mayor. Provincia di Manîloba e territorio di Nord Ovest. 
Canadà, 1878. 


» » Corso di studj. Montreal, 1877. 

» » . Programma (Dominion Exhibition). Canadà, 1880. 
» » Esposizione scolastica del Canada. 1880. 

» » Annuario di Villa Maria. Montreal, 1878-79. 

» » Supplemento. Montreal, 1879. 


BanpierAa Cav. AncgeLo. Rivista Italiana 1881. Palermo, 1881. 

Acassiz Prof. ALessanpRO. (Socio) Bollettino zoologico, volume VIII, n. 2. Cam- 
bridge, 1880. 

Russo Onesto Avv. MicueLE. Riordinamento giudiziario e riforme amministrati- 
ve. Palermo, 1879. 

Curioni Prof. Grovanni. Sull’equazione de’ momenti inflettenti. Torino, 1880. 
» » Sulla macchina da esperimentare la resistenza dei ma- 

teriali da costruzione. Torino, 1880. 
MinistERO DI AGRICOLTURA. Libro genealogico de’ cavalli di puro sangue in Ita- 
lia. Roma, 1880. 

» » Annali di statistica, S. 2, vol. 17 e 18. Roma, 1880-81. 

Giorpano Dr. MicHzeLE. Le singole forze della natura. Torino, 1880. 

PoniropuLos Prof. EuseBIo. Saggio di botanica. Atene, 1880. 

Carici IepoLiTo. Sulla determinazione cronologica del calcare-selce piromaca e del 
calcare compatto marnoso nel S. E. della Sicilia. Roma, 1880. 

Mistero DI AGrIcoLTURA. Istruzioni scientifiche di Arturo Issel. Roma, 1881. 

Statistica delle società di mutuo soccorso. Roma, 1880. 

Zone Prof. EmiLio. Le formule del triangolo sferico. Firenze, 1881. 

Zuria Prof. Giuseppe. Le funzioni perturbatrici nella teoria dei pianeti. Cata- 
nia, 1881. 

BartoLiNI Prof. G. B. La legge teorica del rapporto tra la tenzione e la tempe- 
ratura del vapore acqueo. Roma, 1881. 

FinoccHiaro Comm. GCamiLLo. Sull’ ordinamento delle scuole serali industriali. 

Palermo, 1881. 
StRAZzERI Sac. EmiLio. Uomini illustri di Taormina. Catania, 1880. 





TA LI ROTTA VETO TE ET TETI 


lì 
L; 
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vi 
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Ù 





9 
Caraneo Ing. A. Avvisatore elettrico ferroviario. Pavia, 1881. 
MinisteRo DI AGRICOLTURA. Statistica de’ debiti comunali. Roma, 1880. 
RieHIi Avv. Augusto. Memorie legali. Verona, 1880. 
» » Atto conclusionale. Verona, 1880. 
RopLKorer Prof. L. Studj botanici (Cupania). Firenze, 1878. 
TepescHi Vincenzo. Lettere sulla Sicilia. Catania, 1880. 
» » Guida dell’Etna. Roma, 1880. 
Mr. MorcaLpi MicHELE. (Socio) Una bolla di Urbano II e i suoi detrattori. Nap., 1880. 
PacizzoLo Gravina Vincenzo. (Socio) I Vanni di Pisa. Palermo, 1881. 
Ministero DI AGrIcoLTURA. Annali di statistica n. 24. Roma, 1881. 
» » Bilanci comunali pel 1879. Roma, 1881. 
PaHLoGoITIs Troporo. Trattato di dritto costituzionale. Atene, 1881. 
Ministero DI AGrIcoLTURA. Annali di statistica, S. 2, vol. 20, 23. Roma. 
» » ‘Movimento .di navigazione de’ porti del Regno. An- 
no XIX. Roma, 1880. 
Rapporto annuale statistico delle mine e de’ minerali della Nuova Gallia del 
Sud 1878. Nuova Gallia del Sud, 1879. i 
Lo stesso pel 1879. Ivi, 1880. 
Mappa e pianta topografica. Ivi, 1880. 
Verbale della Società Malacologica, Aprile 1880. Bruxelles, 1880. 
Giornale T. XII. Bruxelles, 1877. 
Memorie dell’Accademia Imperiale, T. XXVII, e T. XXVII, 13. Pietroburgo, 1880. 
Bollettino degl’Ingegneri di Jalisco. Guadalajara, 1881. 
Rapporto dell’ assemblea legislativa della Nuova Galles del Sud, Luglio 1880. 
Australia 1881. 
Giornale della Società reale di Nuova Galles del Sud 1879, vol. XIII. Australia, 1881. 
Memorie dell’Accademia delle scienze. Istituto di Bologna, T. fT1. Bologna, 1881. 
Atti della R. Accademia de’ Lincei. S. 2, vol. V, VI, VII. Roma, 1880. 
La stessa. Transunti, vol. V, n. 13, 14. Roma, 1880. 
Annali della Società Entologica del Belgio, T. XXIII. Bruxelles, 1881. 
Memorie della società delle scienze naturali di Cherbourg, T. XXII. Parigi, 1879. 
Annali della Società Malacologica del Belgio, T. XIII. Bruxelles, 1878. 
Rendiconto dell’Accademia delle scienze fisiche e matematiche, f. 4. Napoli, 1881. 
Giornale della Società Geologica di Jreland, vol. V. Edimbourg, 1880. 
Rendiconto dell’Istituto lombardo, vol. XIV. Milano, 1881. 
Archivio della Società di scienze esatte e naturali, T. VI. Harlem, 1880. 
Bollettino dell’Istituto Nazionale di Ginevra, T. XXIII. Ginevra, 1880. 
Atti della Societa Toscana di scienze naturali. Pisa, 1881. 
Bollettino dell’ Accademia di Pietroburgo. Scienze, T. XXVII. Pietroburgo, 1881. 
. Memorie degli Spettroscopisti Italiani, vol. X. Roma, 1881. 
Bollettino decadico dell’Osservatorio di Moncalieri. Torino, 1881. 
Bollettino meteorologico (come sopra) febbraro e marzo, ottobre e novembre. 
Torino, 4881. 


10° O 
Bollettino mensuale (come sopra), vol. I, n. 11. Torino, 1881. 
Osservatorio del Ministero, vol. V. Messico, 1881. 
Atti della Società Italiana di scienze naturali, vol. XXIII. Milano, 1881. 
Processi verbali della R. Accademia di Dublino, vol. lI. Dublino, 1880. 
Transazioni della stessa Società, vol. XXVIII, n. 1. Dublino, 1880. 
Archivio del Museo Nazionale di Rio Janeiro, vol. III, 3, 4, 1878. Rio Janeiro. 
Memorie dell’Accademia di Agricoltura di Verona, vol. XVII, f. 1, 2. Verona, 1881. 
Memorie dell’Accademia di scienze e lettere di Montpellier, T. VI, f. 4. Montpel- 
lier, 1880. 
Società promotrice di belle arti. Saggio del 1880. Torino, 1881. 
Accademia della Crurca. Vocabolario, vol. IV, f. 2. Firenze, 1880. 
Annali dell’Osservatorio di S. Fernando. Anno 1880. S. Fernando, 1881. 
Annali del Ministero del fomento della Repubblica Messicana. Anno IV. Mes- 
sico, 1881. È 
Rendiconto dell’ Accademia di scienze fisiche e matematiche. An. XX, f. 6. Na- 
. poli, 1881. 
Atti dell’Accademia Reale. Anno 1876. Stockolm, 1876 e 1879. 
Tavole corrispondenti ai dett. volumi. Stockolm. 1879. 
» Memorie della R. Accademia Svedese delle scienze. Stockolm, 1878-1879. 
Supplemento alle memorie, 1879. 
Bollettino della R. Accademia, n. 34. Stockolm, 1879. 
Biografia dei membri. Stockolm, 1879. \ 
Capor Prof. Luici. Sugli Insetti, specie Eschinina. Cambridge, 1881. 
Atti della Società toscana di scienze naturali, vol. V, f. 1. Pisa 1881. 
SBarBARO Prof. Luigi. L'ideale della democrazia. Parma, 1881. 
Mancini Prof. Lusi. Riordinamento di studj. Fano, 1881. 
Bollettino di geologia e geografia, V. VI. Washington, 1881. 
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» La nostra scrittura e le sue fasi in Sicilia (nello stesso). 

» Elenco de’ feudatarj siciliani sotto re Federico II Ara- 
gonese (nel Propugnatore). 

» Isidoro La Lumia, la sua vita e i suoi scritti. Paler- 
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Comentar] dell'Ateneo di Brescia pel 1881. Brescia, 18S1. 




















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| TIPOGRAFIA DEL GIORNALE DI SICILIA — 
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