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4
LI
ATTI
DELLA
_R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DI TORINO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 1°, 1886-87
TRI
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R. Accademia delle Scienze
ATTI
DELLA
R. AGCADEMIA DELLE SCIENZE
DI TORINO
PUBBLICATI
DAGLI AGCGADEMIGCI SEGRETARI
DELLE DUE CLASSI
VOLUME VIGESIMOSECONDO
1886-87
Classe di Seienze Fisiche, Matematiche e Naturali
L:RP ART
mi YORR
:CAb
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R. Accademia delle Scienze
1886 - 87
PROPRIETÀ LETTERARIA
STAMPERIA REALE
della Ditta G. B. PARAVIA e Comp.
di I. VIGLIARDI,
ELENCO DEGLI ACCADEMICI
RESIDENTI, NAZIONALI NON RESIDENTI, STRANIERI
E CORRISPONDENTI
al L° Gennaio 1883" LE
PRESIDENTE
GenoccHI (Angelo), Senatore del Regno, Professore di Cal-
colo infinitesimale nella R. Università di Torino, Uno dei XL della
Società Italiana delle Scienze. Socio nazionale della Reale Ac-
cademia dei Lincei, Comm. «. Uftiz. ©; &.
VICE - PRESIDENTE
FABRETTI (Ariodante). Professore di Archeologia greco-romana
nella Regia Università, Direttore del Museo di Antichità, Socio cor-
rispondente dell’ Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e
Belle Lettere), Membro effettivo delle RR. Deputazioni di Storia
patria della Emilia, della Toscana, delle Marche e dell'Umbria,
Socio nazionale della Reale Accademia dei Lincei, Membro cor-
6 del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, del
R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, dell’Accademia di
Archeologia, Letteratura e Belle Arti di Napoli, della R. Ac-
3 cademia della Crusca, dell’Accademia Lucchese di Scienze, Let-
tere ed Arti, della R. Accademia de la Historia di Madrid, e
n dell’ Imp. Istituto Archeologico Germanico. Professore Onorario
» dell’Università di Perugia, Presidente della Società di Archeologia
è e Belle Arti per la Provincia di Torino, Uffiz. * , Comm. &; è,
30 av. della Leg. d’O. di Francia, e C. O. R. del Brasile.
TESORIERE
Manno (Barone D. Antonio), Membro e Segretario della Regia
“Peputazione sovra gli studi di Storia patria, Membro del Consiglio
‘degli Archivi, Dottore honoris causa della R. Università di Tiibin-
ben, Commissario di S. M. per gli affari araldici, Comm. *, e @
(Si
3,
<L
VI ELENCO DEGLI ACCADEMICI
CurIoNI (Giovanni), Professore di Costruzioni e Vice-Direttore
della R. Scuola d'Applicazione degli Ingegneri, Dottore aggregato
alla Facoltà di Scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Uni-
versità di Torino, Socio della R. Accademia di Agricoltura di To-
rino, Socio corrispondente della R. Accademia di Scienze, Lettere
ed Arti di Lucca, Socio corrispondente della R. Accademia di
Scienze. Lettere ed Arti di Palermo, Comm. *, e Gr. Uffiz. @.
Slacci (Francesco), Deputato al Parlamento nazionale, Mag-
giore nell’Arma d’Artiglieria, Professore di Meccanica superiore
nella R. Università di Torino, e di Matematiche applicate nella
Scuola d’Applicazione delle Armi di Artiglieria e Genio, Uno
dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio corrispon-
dente della R. Accademia dei Lincei, del R. Istituto Lombardo
di Scienze e Lettere, e dell’Accademia delle Scienze dell’ Istituto
di Bologna, #, Uffiz. @.
BeLLARDI (Luigi), Corrispondente estero della Società geologica
di Londra e Socio di parecchi Istituti Scientifici nazionali ed esteri.
Basso (Giuseppe), Dottore aggregato alla Facoltà di Scienze
fisiche e matematiche, Prof. di Fisica matematica nella R. Uni-
versità di Torino, &.
D'Ovipio (Dott. Enrico), Professore ordinario d’Algebra e Geo-
metria analitica, incaricato di Geometria superiore nella R. Uni-
versità di Torino, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze ,
Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei, della R. Acca-
demia delle Scienze di Napoli, del R. Istituto Lombardo di Scienze
e Lettere, Socio dell’Accademia Pontaniana, ecc., *, Comm. a.
Bizzozero (Giulio), Professore e Direttore del Laboratorio di
Patologia generale nella R. Università di Torino, Socio nazio-
nale della R. Accademia dei Lincei, delle RR. Accademie di
Medicina e di Agricoltura di 'l'orino, Socio corrispondente del
k. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, del R. Istituto Ve-
neto di Scienze, Lettere ed Arti, ecc., 4, @.
FERRARIS (Galileo), Ingegnere, Dottore aggregato alla Facoltà
di Scienze fisiche, matematiche e naturali della R. Università di
ELENCO DEGLI ACCADEMICI VII
Torino, Socio della R. Accademia di Agricoltura di "Torino, Socio
Straniero dell’Accademia imp. tedesca Leopold. Carol. dei Na-
turalisti, Professore di Fisica tecnica nel KR. Museo Industriale
Italiano, e di Fisica nella R. Scuola di Guerra, Uftiz. £&; @,
Comm. dell’O. di Frane. Gius. d'Austria.
NaccarI (Andrea), Dottore in Matematica, Socio corrispondente
dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Professore di Fisica
sperimentale nella R. Università di Torino, .
Mosso (Angelo), Dottore in Medicina e Chirurgia, Professore
di Fisiologia nella R. Università di Torino, Membro del Consiglio
Superiore dell’ Istruzione Pubblica , Socio nazionale della R. Ac-
cademia de’ Lincei, della R. Accademia di Medicina di Torino, e
Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere,
e del KR. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 4, @.
SPEZIA (Giorgio), Ingegnere, Professore di Mineralogia, e Di-
rettore del Museo mineralogico della R. Università di Torino, &.
GIBELLI (Giuseppe), Dottore in Medicina e Chirurgia, Pro-
fessore di Botanica e Direttore dell’ Orto botanico della R. Uni-
versità di Torino, @.
Accademici Nazionali non residenti
S.E. MexABREA (Conte Luigi Federigo), Marchese di Val Dora,
Senatore del Regno, Professore emerito di Costruzioni nella Regia
Università di Torino, Luogotenente Generale, Ambasciatore di S. M.
a Parigi, Primo Aiutante di campo Generale Onorario di S. M.,
Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio nazionale
della Reale Accademia dei Lincei, Membro Onorario del Regio
Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, del R. Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti, ecc. ; C. 0. S. SS. N., Gr. Cord. e Cons. &,
Cav. e Cons. &, Gr. Cr. 8, @, dec. della Med. d’oro al Valor
Militare e della Medaglia d’oro Mauriziana, Gr. Cr. dell'O. Supr. del
Serafino di Svezia, dell'O. di Sant'Alessandro Newski di Russia.
di Dannebrog di Danim., Gr. Cr. dell'O. di Torre e Spada di
VIN ELENCO DEGLI ACCADEMICI
Portogallo, dell'0. del Leone Neerlandese, di Leop. del Belg. (Categ.
Militare), della Probità di Sassonia, della Corona di Wurtemberg,
e di Carlo III di Sp., Gr. Cr. dell'O. di S. Stefano d'Ungheria,
dell'O. di Leopoldo d’Austria, di quelli della Fedeltà e del Leone
di Zé6hringen di Baden, Gr. Cr. dell’Ord. del Salvatore di Grecia,
G. Cr. dell'Ordine di S. Marino, Gr. Cr. degli Ordini del Nisham
Akid e del Nisham JIftigar di Tunisi, Comm. dell’ Ordine della
Leg. d'On. di Francia. di Cristo di Portogallo, del Merito di
Sassonia, di S. Giuseppe di Toscana, Dottore in Leggi, homoris
causa, delle Università di Cambridge e di Oxford, ecc. ecc.
BrioscHI (Francesco), Senatore del Regno, Prof. d’ Idraulica,
e Direttore del R. Istituto tecnico superiore di Milano, Uno dei XL
della Società Italiana delle Scienze, Corrispondente dell’ Istituto
di Francia (Accademia delle Scienze, Sezione di Geometria), e delle
Reali Accademie delle Scienze di Berlino, di Gottinga, ecc., Pre-
sidente della R. Accademia dei Lincei, Membro delle Società Mate- .
matiche di Londra e di Parigi, del R. Istituto Lombardo di Scienze
e Lettere, della Reale Accademia delle Scienze di Napoli, del-
l'Accademia delle Scienze di Bologna, ecc., Gr. Uffiz. &, 2; &,
Comm. dell’O. di Cr. di Port.
Govi (Gilberto), Professore di Fisica sperimentale nella R. Uni-
versità di Napoli, Membro del Comitato internazionale dei Pesi e
delle Misure, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze,
Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei, della R. Acca-
demia delle Scienze e dell’Accademia Pontaniana di Napoli, della
R. Accademia d’Agricoltura di Torino, Uffiz. &: #£, Comm. &,
e della L. d'O. di Francia.
MotrescHort (Jacopo), Senatore del Regno, Membro del Con-
siglio Superiore dell’ Istruzione Pubblica, Professore di Fisio-
logia nella R. Università di Roma, Professore Onorario della Fa-
coltà Medico-Chirurgica della R. Università di Torino, Socio della
lì. Accademia di Medicina di Torino, Socio corrispondente delle
Società per le Scienze mediche e naturali a Hoorn, Utrecht, Am-
sterdam, Batavia, Magonza, Lipsia, Cherbourg, degli Istituti di
ELENCO DEGLI ACCADEMICI IX
Milano, Modena, Venezia, Bologna, delle Accademie Medico-
Chirurgiche in Ferrara e Perugia, della Società epidemiologica
di Londra, Socio Onorario della Medicorum Societas Bohemi-
corum a Praga, della Societe medicale allemande a Parigi, della
Società dei Naturalisti in Modena, dell’Accademia Fisio-medico-
statistica di Milano, della Pathological Society di S. Louis, della
Sociedad antropolojica Espaîiola a Madrid , della Società di
Medici Russi a Pietroburgo, Socio dell’ Accademia Veterinaria
Italiana, del Comitato Medico-Veterinario Toscano, della Societe
Royale des Sciences Medicales et Naturelles de Bruxelles, Socio
straniero della Società Olandese delle Scienze a Harlem, e della
R. Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti del Belgio, dell’ Ac-
ademia Caesarea Leopoldino-Carolina Germanica Naturae Cu-
riosorum, Socio fondatore della Società Italiana d’'Antropologia
e di Etnologia in Firenze, Membro ordinario dell’Accademia
Medica di Roma, Comm. s& e Grand. Uftiz. e, Comm. dell'Ordine
di Casa Mecklenburg, e Cav. del Leone Neerlandese.
CANNIZZARO (Stanislao). Senatore del Regno, Professore di
Chimica generale nella R. Università di Roma, Uno dei XL della
Società Italiana delle Scienze, Socio nazionale della R. Accademia
dei Lincei, Comm. *, Uftiz. &; &.
BertI (Enrico), Professore di Fisica matematica nella R. Uni-
versità di Pisa, Direttore della Scuola Normale Superiore, Uno
dei XL della Società Italiana delle Scienze, Socio nazionale della
R. Accademia dei Lincei, Comm. &, Gr. Uftiz. @; &.
ScaccHI (Arcangelo), Senatore del Regno, Professore di Mine-
ralogia nella R. Università di Napoli, Presidente della Società Ita-
liana delle Scienze detta dei XL, Presidente del Reale Istituto di
Incoraggiamento alle Scienze naturali di Napoli, Segretario della
R. Accademia delle Scienze fisiche e matematiche di Napoli. Socio
nazionale della R. Accademia dei Lincei, Comm. &, Gr. Uftiz. @; &.
BaLLana pi S. RoBeRT (Conte Paolo), Uno dei XL della Società
Italiana delle Scienze. Socio nazionale della R. Accademia dei
Lincei,
> ELENCO DEGLI ACCADEMICI
SCHIAPARELLI (Giovanni), Direttore del R. Osservatorio astrono-
mico di Milano, Uno dei XL della Società Italiana delle Scienze,
Socio del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, della R. Ac-
cademia dei Lincei, dell’Accademia Reale di Napoli e dell'Istituto
di Bologna, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia (Accademia
delle Scienze, Sezione di Astronomia), delle Accademie di Monaco,
di Vienna, di Berlino, di Pietroborgo. di Stockolma, di Upsala.
della Società de’ Naturalisti di Mosca, e della Società Astrono-
mica di Londra, Comm. &;@, w:, Comm. dell'O. di S. Stanislao
di Russia.
Accademici Stranieri
HeLmHoLTzZ (Ermanno Luigi Ferdinando), Professore nella Uni-
versità di Berlino, Socio corrispondente dell'Istituto di Francia
(Accademia delle Scienze, Sezione di Fisica generale).
Dana (Giacomo), Professore di Storia naturale a New-Haven,
Socio corrispondente dell’ Istituto di Francia (Accademia delle
Scienze, Sezione di Anatomia e Zoologia).
HormanN (Guglielmo Augusto), Prof. di Chimica, Membro della
Rf. Accademia delle Scienze di Berlino, della Società Reale di
Londra, Socio corrispondente dell’ Istituto di Francia (Accademia
delle Scienze, Sezione di Chimica).
CnevreUL (Michele Eugenio), Membro dell'Istituto di Francia,
Gr. C. della L. d’O. di Francia, ecc.
Hermire (Carlo), Membro dell'Istituto di Francia, Uffiz. della
L. d’O. di Francia, ecc.
JouLe (James PREScOTT), della Società Reale di Londra.
WeElIERSsTRASS (Carlo), Professore di Matematica nell'Università
di Berlino. è
THoxson (Guglielmo), Socio Straniero dell'Istituto di Francia,
Professore di Filosofia naturale nell’ Università di Glasgow.
GeGENBAUR (Carlo), della R. Accademia Bavarese delle Scienze,
Professore di Anatomia nell’ Università di Heidelberg.
ELENCO DEGLI ACCADEMICI
CORRISPONDENTI
SEZIONE
DI MATEMATICA PURA E ASTRONOMIA
De Gasparis (Annibale), Professore d’Astro-
nomia nella R. Università di LACAN
TaRpY (Placido), Professore emerito della Regia
Università di PONS RALE TORI ORA È
BoxcomPaGxI (D. Baldassarre), dei Principi di
Piombino DIVISI at
CREMONA (Luigi), Professore di Matematiche
superiori nella R. Università di 1
Cantor (Maurizio), Professore di Matematica
nell’ Università di . 1 MOT DRORRSOT ia
SeHwarz (Ermanno A.), Professore di Mate-
matica nell’ Università di . ali
KLEIN (Felice), Professore di Matematica nel-
l'Università di . _. A
FrreoLA (Emanuele), Professore di Analisi su-
periore nella R. Università di .
BeLTRAMI (Eugenio), Professore di Fisica ma-
tematica e di Meccanica superiore nella R. Unmi-
versità di FILI, SIS01 DARTRIIOO fia TIE
CasoRaTI (Felice), Professore di Calcolo infinite-
simale e di Analisi superiore nella R. Università di
Dixi (Ulisse), Professore di Analisi superiore
nella R. Università di e ei Tage Sia
TaccHini (Pietro). Direttore dell’ Osservatorio
del Collegio Romano .
Napoli
Genova
Roma
Roma
Heidelberg
Gottinga
Gottinga
Napoli
Pavia
Pavia
Pisa
Roma
XI
xII ELENCO DEGLI ACCADEMICI
BaTTAGLINI (Giuseppe), Professore nella R. Uni-
pesa di 44 n. (00) Ae
CaraLan (Eugenio), Rrofegota emerito della
Università !di. . . ... «#0. na
SEZIONE
DI MATEMATICA APPLICATA
E SCIENZA DELL'INGEGNERE CIVILE E MILITARE
CoLLanon (Daniele), Professore di Meccanica . Ginevra
LiaGre (J. B.), Segretario Perpetuo della R. Ac-
cademia delle Scienze del Belgio: alla Scuola mili-
tare, dda, Cambre . ..°... 0. lado
Turazza (Domenico), Professore di Meccanica
razionale nella R. Università di . . . . . Padova
Narpvucci (Enrico), Bibliotecario della Biblioteca
Alessandrina di — . o. è >. cib ife
Pisari (Giuseppe). Professore di Fisica tecnica
nella Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in . . Foma
SANG (Edoardo), Socio e Segretario della Società
di Scienzeed Arti di. .. è. . +. «+ Edimborgo
CLausIus (Rodolfo), Professore nell Tniversità di Bonn
FaseLLA (Felice), Direttore della Scuola navale
superiore di Li sifiri.ib nose. (o bieseieee
SEZIONE
DI FISICA GENERALE E SPERIMENTALE
WeBER (Guglielmo), della Società Reale delle
Scienze. di. a moria È Haifa A
FECHNER (Gustayo Teodoro) . . . ... Lipsia
WARTMANN (Elia), Prof. nell'Università di . Ginevra
BLASERNA (Pietro), Professore di Fisica speri-
mentale nella R. Università di . . . . . . Roma
ELENCO DEGLI ACCADEMICI
KonLRaUscH (Federico), Professore nell’ Uni-
versità di DR n PISTA 1
Cornu (Maria Alfredo), dell'Istituto di Francia
FeLIcI (Riccardo), Professore di Fisica speri-
mentale nella R. Università di . aeree
ViLLarI (Emilio), Professore nella R. Uni-
versità di Dore RI Ap
Roiri (Antonio), Professore nell'Istituto di
studi superiori pratici e di perfezionamento di
WIEDEMANN (Gustavo), Prof. nella Università di
RiHI (Augusto), Professore di Fisica speri-
mentale nella R. Università di . ,
KircHHorr (Gustavo Roberto), Professore nel-
l’Università di
SEZIONE
XIII
Wiirteburg
Parigi
Pisa
. Bologna
. Firenze
Lipsia
. Padova
. Berlino
DI CHIMICA GENERALE ED APPLICATA
BONJEAN (Giuseppe)
PLANTAMOUR (Filippo), Professore di Chimica .
WixL (Enrico), Professore di Chimica .
Bunsen (Roberto Guglielmo). Professore di
Chimica . FAZIONI IE Ly Sriozzotoi \{{sues
MarIGNAC (Giovanni Carlo), Professore di Chimica
PeLIGOr (Eugenio Melchiorre), dell’ Istituto di
Francia . i ai So pla duri fed LC TRO
BerrHELOT (Marcellino), dell'Istituto di Francia
PareRNÒ (Emanuele), Professore di Chimica
nella R. Università di SRITÀ QISrT
K6RNER (Guglielmo), Professore di Chimica or-
ganica nella R. Scuola superiore d’Agricoltura in
FriepEL (Carlo), dell'Istituto di Francia
FreseNIUs (Carlo Remigio), Professore a
Chambéry
Ginevra
Giessen
. Heidelberg
Ginevra
. Parigi
Parigi
. Palermo
Milano
. Parigi
Wiesbaden
XIV ELENCO DEGLI ACCADEMICI
Sras (Giov. Servais) , della R. Accademia di
Scienze, Lettere ed Arti del Belgio . . . . Brusselle
BaEYER (Adolfo von). . . . .. Monaco(Baviera)
KEKULE (Augusto), Professore di Chimica nel-
l’ Università@idt. .. . ‘. . il (fori
WicLIamsoN (Alessandro Guglielmo), della Reale
Società. dit i è A a
THomsen (Giulio), Professore di Chimica nel-
l’ Università. di. ;lL cisosnefsstioa ib è niet (0opanaglien
SEZIONE
DI MINERALOGIA, GEOLOGIA E PALEONTOLOGIA
MENEGHINI (Giuseppe), Professore di (Geo-
logia; ecc. nella R. Università «di . . . . <— + eso
SrupER (Bernardo), Professore di Geologia. . Berna
KoxnIink (Lorenzo Guglielmo di) . . . . Liegi
DE Zieno (Achille), Uno dei XL della Società
italiana delle Scienze ..-.... .- li ue Ba
FavrE (Alfonso), Professore di Geologia . . Ginevra
KoxscHarow (Nicola di), dell’Accademia Im-
periale delle Scienze di .. |... ... . ... Pietroborgo
Ramsay (Andrea), della Società Reale di . . Londra
StrUVvER (Giovanni), Professore di Mineralogia
nella. R.. Università; di (panta Lafestt ine
RosenBuscH (Enrico), Professore di Petrografia
nell'Università di... . Lu. ira
NorpENsKI6LD (Adolfo Enrico), della R. Acca-
demia delle Scienze di . . . . Stoccolma
DauBréE (Gabriele Augusto), dell’Istituto di
Francia, Direttore della Scuola Nazionale delle
Miniefe sii e} srHonian/ Jr AT nitaloiee e
ZIiRKkEL (Ferdinando ), Professore di Petro-
grafimbialet ti. 0 erosnleti. foivifaott. 0h
ELENCO DEGLI ACCADEMICI
Des CLorzeAux (Alfredo Luigi Oliviero LEGRAND),
dell'Istituto di Francia Sr
CapELLINI (Giovanni), Professore nella R. Uni-
versità di
Sroppani (Antonio), Professore di Geologia e
Geografia fisica nel R. Istituto tecnico superiore di
TscHERMAK (Gustavo), Professore di Minera-
logia e Petrografia nell’ Università di .
ArzrRUNI (Andrea), Professore di Mineralogia |
XY
. Parigi
. Bologna
Milano
Vienna
Aachen
nell'Istituto tecnico superiore (tecnische Hochschule) \ (Aix-Ia-Chapetle)
ManLarp (Ernesto), Professore di Mineralogia
alla Scuola nazionale delle Miniere di Francia . Parigi
SEZIONE
DI BOTANICA E FISIOLOGIA VEGETALE
TREVISAN DE Salnt-LEoxn (Conte Vittore), Cor-
rispondente del R. Istituto Lombardo
CanpoLLE (Alfonso DE), Professore di Botanica .
GENNARI (Patrizio), Professore di Botanica nella
. Milano
Ginevra
kR. Università di Peli TA Cagliari
TuLasNe (Luigi Renato), dell'Istituto di Francia Parigi
CARUEL (Teodoro), Professore di Botanica nel-
l’Istituto di studi superiori pratici e di perfezio-
namento in . alti sita dala NL ne
ARDISSONE (Francesco), Professore di Botanica
nella R. Scuola Superiore d’Agricoltura in . . Milano
SaccaRDo (Andrea), Professore di Botanica
nelia R. Università di . Padova
HookER (Giuseppe DaLron), Direttore del
Giardino Reale di Kew ; . Londra
SacHs (Giulio von), Prof. nell’ Università di . Viirzdburg
NaEeLI (Carlo), Prof. nell’ Università di . Monaco (Baviera)
DeLPINO (Federico), Prof. nella R. Università di Padova
XVI ELENCO DEGLI ACCADEMICI
SEZIONE
DI ZOOLOGIA, ANATOMIA E FISIOLOGIA COMPARATA
DE SeLys LonecHAMPs (Edmondo). . . . Liegi
BurmEIstER (Ermanno), Direttore del Museo
pubblico “di *. 0. e, Sr 00 ON
PriLippi (Rodolfo Armando) . . . . . Santiago (Chl)
Owen (Riccardo), Direttore delle Collezioni
di Storia naturale al British Museum . . . Londra
KoELLIKER (Alberto), Professore di Anatomia
e Fisiologia . MA n. Wiirtzburg
De-SieBoLp (Carlo Teodoro). Professore di
Zoologia e Anatomia comparata nell'Università di . Monaco (Baviera)
GoLsI (Camillo), Professore di Istologia, ecc.
nella R. Università dit 2047 7) de tare nD
HaeckEL (Ernesto), Professore nell'Università
RA O E RTP E 04 SI MREZIAEI A SI
SCLATER (Filippo LuTLEY), Segretario della
Società" Zoologica «di ©, <. «0.000 en Re
Fario (Vittore), Dottore | . 0. NT RUN Ginevra
KowaLEwskI (Alessandro), Professore di Zoo-
logia nell’Università ‘di ‘| ® SHSS MRNSRRenAIO Da
Lupwie (Carlo), Professore di Fisiologia nel-
l’Università di '!!!M 1007 10, Siero
Brick (Ernesto), Professore di Fisiologia e
Anatomia nell’Università di... -. . 0. Vienna
ELENCO DEGLI ACCADEMICI XVII
CLASSE
DI
SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE
Direttore
PeyrRon (Bernardino), Professore di Lettere, Bibliotecario
Onorario della Biblioteca Nazionale di Torino, Comm. «.
Segretario Perpetuo
GORRESIO (Gaspare), Senatore del Regno, Prefetto della Biblio-
teca Nazionale. già Professore di Letteratura orientale nella
R. Università di Torino, Membro dell'Istituto di Francia, Socio
nazionale della R. Accademia de’ Lincei, Socio corrispondente della
Reale Accademia della Crusca, e della R. Accademia di Scienze
e Lettere di Palermo, ecc., Membro Onorario della Reale Società
Asiatica di Londra, della Società accademica /ndo-Cinese di
Parigi, Vice-Presidente della Società di Archeologia e Belle Arti
per la Provincia di Torino, Comm. &, Gr. Uffiz. ©: &, Comm.
dell’ O. di Guadal. del Mess., e dell'O. della Rosa del Brasile,
Uftiz. della L. d’O. di Francia, ecc.
Accademici residenti
GoRRESIO (Gaspare), predetto.
FaBRETTI (Ariodante), predetto.
PEYRON (Bernardino), predetto.
Atti della R. Accademia — Vol. XXII. 2
XVIII ELENCO DEGLI ACCADEMICI
VALLAURI (Tommaso), Senatore del Regno, Professore di
Letteratura latina nella R. Università di Torino, Membro del
Consiglio Superiore dell'Istruzione pubblica, Membro della R. De-
putazione sovra gli studi di Storia patria, Socio corrispondente
della R. Accademia della Crusca, del KR. Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti, e dell’Accademia Romana di Archeo-
logia, Comm. &, e Gr. Uffiz. e, Cav. dell’ Ordine di S. Gre-
gorio Magno.
FLEcHIA (Giovanni), Professore di Storia comparata delle
lingue classiche e neolatine e di Sanscrito nella R. Università
di Torino, Socio nazionale della R. Accademia de’Lincei, Uffiz. *,
Comm. &; £.
CLARETTA (Barone Gaudenzio), Dottore in Leggi. Socio e Segre-
tario della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria, Membro
della Società di Archeologia e Belle Arti e della Giunta conserva-
trice dei monumenti d’Antichità e Belle Arti per la Provincia di
Torino, Comm. & e @.
Promis (Vincenzo), Dottore in Leggi, Bibliotecario e Conserva-
tore del Medagliere di S. M., Membro della R. Deputazione sovra
gli studi di Storia patria, R. Ispettore dei monumenti, Membro e
Segretario della Società d'Archeologia e Belle Arti di Torino, %,
Comm. a, Gr. Uffiz. dell'O. di Francesco Giuseppe d’Austria,
Comm. dell'O. di S. Michele di Baviera e della Corona di Ru-
menia. I
Rossi (Francesco), Adiutore al Museo d’Antichità, Professore
d’Egittologia nella R. Università di Torino, Membro ordinario
dell’Accademia orientale di Firenze, a.
Manxo (Barone D. Antonio), predetto.
BoLLaTI DI SAINT-PiERRE (Barone Federigo Emanuele), Dot-
tore in. Leggi, Soprintendente agli Archivi piemontesi e Direttore
dell'Archivio di Stato in Torino, Consigliere d’Amministrazione
presso il R. Economato generale delle Antiche Provincie, Membro
della R. Deputazione sopra gli studi di Storia: patria per le An-
tiche Provincie e la Lombardia, Socio corrispondente della So-
ELENCO DEGLI ACCADEMICI XIX
cietà Ligure di Storia Patria, della Società Colombaria Fioren-
tina, della R. Deputazione di Storia patria per le Provincie della
Romagna, della Società per la Storia di Sicilia, ecc., Uftiz. +, ©.
ScHIAPARELLI (Luigi), Dottore aggregato, Professore di Storia
antica, Direttore della Scuola di Magistero e Preside della Facoltà
di Lettere e Filosofia nella R. Università di ‘Torino, Membro
del Collegio degli Esaminatori, Uffiz. , Comm. ®.
Pezzi (Domenico), Dottore aggregato e Professore straordi-
nario nella Facoltà di Lettere e Filosofia della R. Università di
Torino, @.
FERRERO (Ermanno), Dottore in Giurisprudenza, Dottore ag-
gregato alla Facoltà di Lettere e Filosofia nella R. Università di
Torino, Professore nell'Accademia Militare, Membro della Regia
Deputazione sovra gli studi di Storia patria per le Antiche Pro-
vincie e la Lombardia, e della Società d’Archeologia e Belle Arti
per la Provincia di Torino, Membro corrispondente della R. De-
putazione di Storia patria per le Provincie di Romagna, e del-
l’Imp. Instituto Archeologico Germanico, fregiato della Medaglia
del merito civile di 1* cl. della Rep. di S. Marino, &.
CARLE (Giuseppe), Dottore aggregato alla Facoltà di Leggi,
Professore della Filosofia del Diritto nella R. Università di Torino,
Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei, Comm. &.
NanI (Cesare), Dottore aggregato alla Facoltà di ‘Giuri-
sprudenza, Professore di Storia del Diritto nella R. Università
di Torino, Membro della R. Deputazione sovra gli studi di Storia
patria, a.
Berti (Domenico), Deputato al Parlamento nazionale, Pro-
fessore emerito delle R. Università di Torino, Bologna e di Roma,
Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei, Socio corrispon-
dente della R. Accademia della Crusca e del R. Istituto Veneto
di Scienze, Lettere ed Arti, Membro delle R. Deputazioni di
Storia patria del Piemonte e dell’ Emilia, Gr. Uffiz. 4, Gr.
Cord. @; &, Gr. Cord. della Legion d’0. di Francia, e dell’Or-
dine di Leopoldo del Belgio.
Atti della R, Accademia — Vol. X.XII, Q*
XX ELENCO DEGLI ACCADEMICI
Accademici Nazionali non residenti
CarUTTI DI CantoGNO (Barone Domenico), Consigliere di Stato,
Presidente della R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria,
Socio e Segretario della R. Accademia dei Lincei, Socio straniero
della R. Accademia delle Scienze Neerlandese, Socio corrispondente
della R. Accademia delle Scienze di Monaco in Baviera, della
R. Accademia Lucchese, del R. Istituto Veneto, della Ponta-
niana di Napoli, Socio onorario della R. Società Romana di
Storia patria, dell'Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Ber-
gamo, ecc., Corrispondente delle R. Deputazioni di Storia patria
Veneta e Toscana, Membro del Consiglio degli Archivi, e del Con-
tenzioso Diplomatico, Gr. Uffiz. &, Gr. Uffiz. &, Cav. e Cons. &,
Gr. Cord. dell'O. del Leone Neerlandese e dell'O. d’Is. la Catt.
di Sp. e. di S. Mar., Gr. Uffiz. dell'O. di Leop. del B., dell’O.
del Sole e del Leone di Persia, e del Mejidié di 2° cl. di
Turchia, Gr. Comm. dell’ Ord. del Salv. di Gr., ecc.
AMARI (Michele), Senatore del Regno, Professore emerito del-
l' Università di Palermo e del R. Istituto di studi superiori di Fi-
renze; Dottore in Filosofia e Lettere delle Università di Leida, di
Tubinga e di Strasburgo: Socio nazionale della Reale Accademia
dei Lincei in Roma, Socio ordinario delle RR. Accademie delle
Scienze in Monaco di Baviera e in Copenhagen; Socio straniero
dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere),
Socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze in Palermo,
della Crusca, dell’ Istituto Veneto, della Società Colombaria in Fi-
renze, della R. Accademia d’Archeologia in Napoli, delle Acca-
demie di Scienze, Lettere ed Arti in Lucca e in Modena, della
R. Deputazione di Storia patria per le Provincie Parmensi, di
quella per le Provincie Toscane, dell’ Umbria e delle Marche,
delle Accademie Imperiali di Pietroburgo e di Vienna, dell'Ateneo
Veneto, dell'Ateneo orientale in Parigi e dell'Istituto Egiziano in
ELENCO DEGLI ACCADEMICI XXI
Alessandria: Socio onorario della R. Società Asiatica di Londra .
della Società orientale di Germania, della Società letteraria e
storica di Sioux city Jowa (America), della Società geografica
italiana, delle Accademie di Padova e di Gottinga: Presidente
onorario della Società Siciliana di Storia patria, Socio della Ro-
mana, Socio onorario della Ligure, della Veneta e della Società
storica di Utrecht; Gr. Cord. #, e Gr. Croce @, Cav. e Cons. &,
Cav. dell’Ord. Brasiliano della Rosa e dell’Ordine pour le merite
di Prussia.
ReymoNnp (Gian Giacomo), già Professore di Economia politica
nella R. Università di Torino, «E.
Ricci (Marchese Matteo), Socio residente della Reale Acca-
demia della Crusca, Uffiz. &.
MINERVINI (Giulio), Bibliotecario e Professore Onorario della
Regia Università di Napoli, Segretario generale perpetuo dell’Ac-
cademia Pontaniana, Socio ordinario della Società R. di Napoli,
Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei, della Commis-
sione dei Testi di Lingua, Corrispondente dell'Istituto di Francia
(Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere), della R. Accademia
delle Scienze di Berlino, ecc.. Uftiz. ##, e Comm. @, Cav. della
L. d'O. di Francia, dell'Aquila Rossa di Prussia, di S. Michele
del Merito di Baviera, ecc.
De Rossi (Comm. Giovanni Battista), Socio straniero del-
l’Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle. Lettere) ,
e della R. Accademia delle Scienze di Berlino e di altre Accademie,
Presidente della Pontificia Accademia Romana d’Archeologia.
Canonico (Tancredi), Senatore del Regno, Professore, Con-
sigliere della Corte di Cassazione di Roma e del Consiglio del
Contenzioso diplomatico, Uffiz. &, e Gr. Uffiz. @, Comm. del-
l'Ordine di Carlo III di Spagna.
Cantù (Cesare), Membro del R. Istituto Lombardo e di quello
di Francia, e di molte Accademie, Direttore dell'Archivio di Stato
di Milano, e Soprantendente degli Archivi Lombardi, Gr. Uffiz. +
e Comm. @, Cav. e Cons. £&, Comm. dell'O. di C. di Port.,
XXII ELENCO DEGLI ACCADEMICI
Gr. Uffiz. dell'O. della Guadalupa, ecc., Officiale della Pubblica
Istruzione e della L. d’O. di Francia, ecc.
Tosti (D. Luigi), Abate Benedettino Cassinese, Socio ordinario
della Società Reale delle Scienze di Napoli, Soprantendente ge-
nerale dei monumenti sacri del Regno d’Italia, Vice-Archivista
della S. Sede.
Accademici Stranieri
MommseN (Teodoro), Professore di Archeologia nella Regia
Università e Membro della R. Accademia delle Scienze di Berlino ,
Socio corrispondente dell'Istituto di Francia (Accademia delle Iscri-
zioni e Belle Lettere).
MiLLeR (Massimiliano), Professore di Letteratura straniera
nell’ Università di Oxford, Socio straniero dell'Istituto di Francia
(Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere).
Bancrort (Giorgio) , Corrispondente dell'Istituto di Francia
(Accademia delle Scienze morali e politiche).
De Wirte (Barone Giovanni Giuseppe Antonio Maria), Membro
dell’Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere).
GRrEGoROvIUS (Ferdinando), Membro della R. Accademia Ba-
varese delle Scienze in Monaco.
MeyER (Paolo), Professore delle lingue e letterature del-
l'Europa meridionale nel Collegio di Francia, Direttore dell’ Ecole
des Chartes, Cav. della L. d’'O. di Francia.
ReuMONT (Alfredo von), Ministro plenipotenziario , Consigliere
di S. M. Prussiana.
Wu5imney (Guglielmo), Professore nel Collegio Yale (New-
Haven).
ELENCO DEGLI ACCADEMICI XXIII
CORRISPONDENTI
I. — SCIENZE FILOSOFICHE.
Renpu (Eugenio) Sedile e . Parigi
BownatELLI (Francesco), Professore di Filosofia
teoretica nella R. Università di . . . . . Padova
FERRI (Luigi), Professore di Filosofia teoretica
ella” Univeftttà nio, Db Siorsbtot i, \D UBeDi") Roma
BoneH1 (Ruggero), Prof. emerito della R. Uni-
erat id SIONISISI , (007 ONODIi Ia COR omna
II. — SCIENZE GIURIDICHE E SOCIALI.
LampeRTICO (Fedele), Senatore del Regno . /toma
SERAFINI (Filippo), Professore di Diritto romano
nella. Mbaiversità@ di (b, 0,16) Molr,(p/0n1 BIS
SerpA PiMENTEL (Antonio di), Consigliere di
Sa SMPITTO DSRUTE- IDD 17 A3T) 05 1508 7zbona
RoprIicuez DE BeRLANGA (Manuel) . . . Malaga
ScHuPFER (Francesco), Prof. nella R. Univer-
e e o i e o e NA
Cossa (Luigi), Prof. nella R. Università di . Pavia
III. — SCIENZE STORICHE.
MicHEL (Francesco) . . . . . . . . Bordeaug
Knone'(Giulio)imsil lb 10/au91 . \lonevor.) Waenna
SanGuINETTI (Abate Angelo), della R. Depu-
tazione sovra gli studi di Storia patria . . . Genova
CHamPoLLIon-FieEAac (Amato) . . . . . Parigi
XXIV ELENCO DEGLI ACCADEMICI
ADRIANI (P. Giambattista), della R. Deputazione
sovra gli studi di Storia patria . Cherasco
Dacuer (Alessandro) . .} Augias
PERRENS (Francesco) . . «Bara
Campori (Marchese Giuseppe), Presidente della
R. Accademia di Scienze, Lettere, Arti in Modena
HAULLEVILLE (Prospero DE). . . . . Brusselle
ViLLarI (Pasquale), Professore nell’ Istituto di
studi superiori pratici e di perfezionamento in Firenze
GiesEBRECHT (Guglielmo), dell’Accademia ba-
varese delle Scienze in .}} osta RE
De Leva (Giuseppe), Professore di Storia mo-
derna nella R. Università di - eat E EROE
SYBEL (Enrico Carlo Ludolfo von), Direttore
dell'Archivio di Stato in 0 a tI Aero
WaLLon (Alessandro), Segretario perpetuo del-
l’Istituto di Francia (Accademia delle Iscrizioni e
Belle Lettere) 4 ALI, . [ria Parigi
TAINE (Ippolito), dell’ Istituto di Francia Parigi
Rianr (Conte Paolo), dell'Istituto di Francia Parigi
WicLems (Pietro), dell’ Università di . Lovanio
BircH (Walter de Gray), del Museo Britan-
nico di Londra
IV. — ARCHEOLOGIA.
HENZEN (Guglielmo) . Foma
WIESELER (Federico) . Gottinga
Parma di CEsnoLA (Conte Luigi) New- York
GOZZADINI (Giovanni), Senatore del Regno Bologna
‘AWLINSON (Giorgio), Professore nella Univer-
sità di - è. site a en Oxford
FIORELLI (Giuseppe), Senatore del Regno Roma
ELENCO DEGLI ACCADEMICI
Curtius (Ernesto), Professore nell’ Univer-
sità di Labate biettol partiti
MaspERO (Gastone), dell’Istituto di Francia a
LartEs (Elia), Prof. nella R. Accademia scien-
tifico-letteraria di .
V. — GEOGRAFIA.
NeGRI (Barone Cristoforo), Console generale
di prima Classe, Consultore legale del Ministero
per gli affari esteri. cars areata È
KiePeRr (Enrico), Professore nell'Università di
PiGoRINI (Luigi), Professore di Paleoetnologia
nella Regia Università di
XXV
Berlino
Parigi
Milano
Torino
Berlino
Roma
VI. — LINGUISTICA E FILOLOGIA ORIENTALE.
KREHL (Ludolfo) SAMPERIPUO
ReENAN (Ernesto), dell’ Istituto di Francia
SOURINDRO MoHUuN TAGORE CE
AscoLI (Isaia Graziadio), Professore nella R. Ac-
cademia scientifico-letteraria di . Banfi:
WEBER (Alberto), Professore nell'Università di
KERBAKER (Michele), Professore di Storia com-
parata delle lingue classiche e neo-latine nella
R. Università di
MARRE (Aristide) Membro della Società Asiatica
Dresdu
Parigi
Calcutta
Milano
Berlino
Napoli
Parigi
VII. — FILOLOGIA, STORIA LETTERARIA
E BIBLIOGRAFIA.
FrancescHI-FERRUccI (Catterina), Corrispon-
dente della R. Accademia della Crusca
LinatI (Conte Filippo), Senatore del Regno .
Firenze
Parma
XXVI ELENCO DEGLI ACCADEMICI
ComparerTI (Domenico), Professore nell'Istituto
di Studi superiori pratici e di perfezionamento in . Firenze
Bra (Michele)... .0.00. /.. Lo
NeeroxI (Carlo), della R. Deputazione sovra
gli Studi di Storia patria . . . Novara
D’AncoNA (Alessandro), a ola R. Uni-
veratà ‘di .° LU .:17 99046 | Ra
NiGra (S. E. il Conte Costantino), Ambascia-
tore dell’ Italia i nie. Leno t. (ila e
Raina (Rio), Prof. nell'Istituto di Studi su-
periori pratici e di perfezionamento a. . . Firenze
MUTAZIONI
avvenute nel Corpo Accademico
dal 1° Gennaio 1886 al 1° Gennaio 1887
ELEZIONI
SOC
WHirney (Guglielmo), eletto Socio Straniero della Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche il 31 Gennaio 1886.
Nigra (Costantino), eletto Corrispondente della Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche (Sezione di Filologia, Sto-
ria letteraria e Bibliografia) il 14 Marzo 1886.
BoxcH1 (Ruggero) , id. id. id. (Sezione di Scienze
filosofiche).
ScHUPFER (Francesco), id, id. id. (Sezione di Scienze
giuridiche).
ELENCO DEGLI ACCADEMICI XXVII
Cossa (LuIGi), eletto Corrispondente della Classe di Scienze
morali, storiche e filologiche (Sezione di Scienze giuridiche).
Lattes (Elia), id. id. id. (Sezione d’Archeo-
logia).
RAJNA (Pio), id. id. id. (Sezione di Filo-
logia, Storia letteraria e Bibliografia).
WILLEMS (Pietro), id. id. id. (Sezione di Scienze
Storiche).
BircH (Walter de GRAIS), id. id. id. (Sezione di
Scienze storiche).
Manxo (Antonio), rieletto Tesoriere dell’ Accademia il 21 e
approvato con Decreto Reale del 31 Marzo 1886
PeyRon (Bernardino), rieletto Direttore della Classe di Scienze
morali, storiche e filologiche il 21 Novembre, e approvato con
Decreto Reale del 12 Dicembre 1886.
| {5° | ; IP ew o
MORTI.
. Gennaio 1886.
BircH (Samuele), Corrispondente della Classe di Scienze mo-
rali, storiche e filosofiche (Sezione di Archeologia).
6 Febbraio 1886.
BrancHI (Nicomede). Socio Nazionale residente della Classe
di Scienze morali, storiche e filologiche.
14 Febbraio 1886.
JAMIN (Giulio Celestino), Corrispondente della Classe di Scienze
fisiche, matematiche e naturali (Sezione di Fisica generale e spe-
rimentale).
23 Maggio 1886.
RAnKE (Leopoldo), Socio Straniero della Classe di Scienze
morali, storiche e filologiche,
XXVIII ELENCO DEGLI ACCADEMICI
20 Luglio 1886.
JourpAIN (Carlo), Corrispondente della Classe di Scienze mo-
rali, storiche e filologiche (Sezione di Scienze filosofiche).
19 Agosto 1886.
Dorna (Alessandro), Socio Nazionale residente della Classse
di Scienze fisiche, matematiche e naturali.
18 Ottobre 1886.
SiLoratA (P. B.), Corrispondente della Classe di Scienze
morali, storiche e filologiche (Sezione di Filologia, Storia let-
teraria e Bibliografia).
18 Novembre 1886,
DE CiGaLLA (Conte Giuseppe), Corrispondente della Classe
di Scienze fisiche, matematiche e naturali (Sezione di Zoologia,
Anatomia e Fisiologia comparata).
30 Dicembre 1886.
Bolssieu (G. G. M. Alf. DE), Corrispondente della Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche (Sezione di Archeologia).
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Dispensa 1°
1886 - 87.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII.
CE cononaT mato
ui dins: et diodi
i dic. A. pon debe i
— blog. @\ha noth è esa
i ostie. 116
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 14 Novembre 1886
PRESIDENZA DEL SOCIO PROF. ARIODANTE FABRETTI
VICEPRESIDENTE
Sono presenti i Soci: FABRETTI, Cossa, SoBRERO, Segretario
della Classe, Lessowxa, SaLvapori, BRUNO, BERRUTI, CURIONI,
Sracci, Basso, D’OvipIio, BizzozEerRo, FERRARIS, NAccARI, Mosso,
SPEZIA, GIBELLI.
Letto ed approvato l’atto verbale dell’adunanza precedente,
il Presidente inaugura i lavori della Classe, anno accademico
1886-87, ricordando con parole di rammarico l'improvvisa morte
del Socio Alessandro DorNnA, Direttore dell’ Osservatorio astro-
nomico di Torino, avvenuta il 19 Agosto p. p., ed invita il
Socio SIaccI a redigerne il discorso commemorativo.
Vengono presentati in dono all'Accademia, a nome dei rispet-
tivi autori:
dal Socio FABRETTI; — Rapport geologique sur les gise-
ments auriferes de la Societe des placers aurifères du Piemont,
par M. CLEMENT, Ingenieur.
dal Socio Cossa; — Materias explosivas, por Federico
M. CARULLA.
dal Socio SoBRERO; — Experiences sur la conductibilité
Electrique des gaz et des vapeurs, del Prof. G. LuvInI, e, ad
4
istanza di quest’ultimo, anche una breve notizia sopra un
Anemoscopio, del R. P. DecHEvRENS, Direttore dell’Osservatorio
di Zi-ka-wei presso Charg-Hai in China.
Tra gli omaggi inviati all'Accademia si nota pure la se-
conda edizione del libro: Teorica e pratica del Regolo. Calco-
latore per Quintino SELLA, inviata in dono dalla famiglia
dell’illustre autore.
Le letture e le comunicazioni si succedono nell’ordine se-
guente :
Ing. Giulio EmeRY; — Sulla condizione di reciprocità e
sui casiî di intensità fra curve rappresentanti una distribuzione
continua di forze parallele e curve funicolari corrispondenti,
con particolare disquisizione sulle elissoidi; lavoro presentato
dal Socio D’OviIpIO;
Dott. Francesco PorR0; — Osservazioni delle comete Finlay
e Barnard-Hartwig, fatte all’equatoriale di Merz dell’ Osser-
vatorio di Torino; lavoro presentato dal Socio STAGCI ;
Prof. N. JADANZA; — Influenza degli errori strumentali
del teodolite sulla misura degli angoli orizzontali ;
Prof. G. VicenTINI; — Sulla variazione di volume di
alcuni metalli nell’atto della fusione, e sulla dilatazione termica
degli stessi allo stato liquido ;
Dott. A. BartELLI; — Sull’effetto Thomson.
I tre lavori suindicati sono presentati dal Socio NACCARI.
Vien presentato per l'inserzione nei Volumi delle Memorie
uno Studio zoologico e anatomico del Signor Dott. Daniele Rosa ,
intitolato: Criodrilus lacuum. Il lavoro del Dott. Rosa viene
affidato all’esame d’una Commissione speciale.
La Classe, raccoltasi in seduta segreta, elegge il Socio Prof.
Galileo FERRARIS, in sostituzione del compianto Prof. DoRNA,
quale rappresentante dell’Accademia nel Consiglio di perfezio-
namento della R. Scuola di Applicazione per gli Ingegneri in
Torino.
UT
LETTURE
Osservazioni delle Comete Finlay e Barnard-Hartwig fatte
all’equatoriale di Merz dell’Osservatorio di Torino, dal-
l’Astronomo aggiunto Dott. Francesco Porro.
Nella nota sulle osservazioni di Comete, che feci la scorsa
primavera (1), io accennava alla mia intenzione di intraprendere
uno studio regolare del nuovo equatoriale di Merz e del micro-
metro filare annesso (2). Non è certamente questo il luogo di
esporre i tentativi da me ripetuti nei mesi successivi a tale in-
tento, e le cause per le quali siffatti tentativi rimasero infecondi.
Anzichè trattenere l'Accademia con giustificazioni e con recri-
minazioni, amo meglio presentare qualche risultato del lavoro
(1) Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XXI, adunanza
del 20 giugno 1886.
(2) Questo micrometro è della forma di quelli di Fraunhofer e consta di
due fili mobili fra loro paralleli, uno dei quali è governato da una vite mi-
crometrica col tamburo diviso in cento parti. Un quadrante misura le rivo-
-luzioni delia vite, che possono essere cinquanta: il loro valore medio, da
me determinato con tre serie numerose di passaggi di stelle a Sud dello zenit,
in prossimità del meridiano, è uguale a 15176. Dal costruttore Merz ho fatto
aggiungere un filo fisso perpendicolare ai primi due: tanto il parallelismo
di questi, quanto la perpendicolarità di quello furono da me rigorosamente
verificati, e risultarono soddisfacenti. Il sistema di illuminazione dei fili, ap-
plicato da Merz, mi pare poco pratico e pericoloso, dipendendo da due pic-
cole lampade a benzina, distanti pochi centimetri dall’oculare;j non ne feci
6 FRANCESCO PORRO
utile che ho potuto compiere, riprendendo il micrometro circo-
lare, del quale ho nello scritto precedente dimostrata l’appli-
cabilità al nostro refrattore.
La prima delle due Comete che io osservai fu scoperta dal
signor Finlay al Capo di Buona Speranza il 26 settembre. Annun-
ziata telegraficamente dall’Ufficio Astronomico Centrale di Kiel (1)
a tutti gli Osservatorii che con esso corrispondono, potè nella sera
del 29 settembre essere veduta a Nizza ed a Roma; e le posizioni
ivi determinate servirono al calcolo degli elementi primi dell’orbita
parabolica, sui quali fu possibile costruire un’effemeride che gui-
dasse nella ricerca dell’astro i giorni successivi. Anch'io in quella
sera, ed in parecchie altre di tempo propizio, cercai la cometa;
ma la sua posizione fra le nebbie dell’orizzonte, fortemente rischia-
rate dalla luce elettrica di piazza Carlo Felice (2), non mi per-
mise di trovarla prima del 22 ottobre. Altre due osservazioni
ne feci dipoi, il 29 ottobre ed il 9 novembre; questa anzi
dinota una deviazione abbastanza notevole dall’ultima effemeride,
dimostrando con ciò la necessità di preparare con nuove deter-
minazioni un buon materiale ai calcoli futuri, che assicurino od
escludano affatto la supposta identità della Cometa con quella
di De Vico (1844) (3). È mio desiderio concorrere a questo
che qualche prova, della quale fui poco soddisfatto. Quanto all’illuminazione
del campo, dipendente dalla lampada a petrolio fissa all’ estremità dell’ asse
di declinazione, essa è estremamente scarsa per l’oculare di minimo ingran-
dimento, assolutamente insufficiente per gli altri. Il micrometro è munito di
un buon circolo di posizione, diviso in quarti di grado, sul quale i due nonii
(diametralmente opposti e letti da microscopii) danno i minuti d’arco. Ho
determinato col dinametro di Ramsden gli ingrandimenti degli oculari an-
nessi al micrometro, ed ottenni i numeri seguenti: 207, 263, 358, 473, 738
e 1781.
(1) Questo importante stabilimento, diretto dal prof. Krueger, riceve dagli
scopritori notizia telegrafica delle più importanti scoperte astronomiche, e
la trasmette con apposito cifrario a tutti gli Osservatorii che, pagando una
quota annua, sì mantengono in corrispondenza. Dal 24 settembre l’Osserva-
torio di Torino partecipa a questa utile associazione.
(2) Il disturbo enorme che produce all’ Osservatorio questa luce dà una
pallida idea di ciò che sarà il lavoro astronomico, allorquando l’intera città
di Torino sarà illuminata elettricamente, e nella stessa Piazza Castello si
accenderanno i quattro fari giganteschi eretti intorno a Palazzo Madama!
(3) L'identità della cometa Finlay con quella di De Vico è stata messa
innanzi dal prof. Levis Boss, Americano, ed è discussa caldamente dagli
COMETE FINLAY E BARNARD-HARTWIG 7
lavoro di osservazione, perchè l’inclemente stagione e la posizione
troppo australe della Cometa ne rendono pur troppo assai rare
le buone misure.
L'altra Cometa, scoperta indipendentemente dal signor Barnard
a Nashville (Stati Uniti) il 5 ottobre, e dal dottor Hartwig a
Bamberg il giorno successivo, è un oggetto assai più cospicuo.
Un errore di cifra nel telegramma annunziante la scoperta mi
impedì di verificarla nella notte successiva, avendomi fatto rivol-
gere il cannocchiale dalla parte opposta del cielo. Anche di
questa Cometa, che si avvicina rapidamente al perielio, presento
oggi tre osservazioni, colla speranza di poterne compiere altre
nei mesi successivi. .
Nulla è mutato al metodo delle osservazioni, che esposi som-
mariamente nella nota precedente. Solo nella sera del 29 ottobre,
essendo presente all’osservazione il signor dottore Angelo Charrier,
Assistente per l’Astronomia, questi volle gentilmente coadiuvarmi,
prendendo i tempi dall’orologio, mentre io osservava. Non tutte
le osservazioni si poterono fare simmetricamente rispetto al centro
dell’anello; ciò fu in alcune impedito dalla distanza in declina-
zione fra la stella di comparazione e la cometa. Adoperai sempre
l'anello doppio, e corressi di refrazione la sola osservazione 9
novembre della cometa Finlay, per la quale siffatta correzione
era sensibile per la grande distanza zenitale.
Per facilitare la scelta delle stelle di comparazione, ho pre-
parato di giorno in giorno una carta delle regioni circostanti alla
Cometa, segnandovi il luogo di tutte le stelle che trovava nei
astronomi, senza che sinora sì sia giunti ad un risultato sicuro, essendo
insufficiente il numero delle osservazioni che si hanno di questo oggetto,
inaccessibile ai piccoli telescopii, ed invisibile nelle latitudini boreali. La co-
meta De Vico del 1844, che il signor Melhop vide, il 6 settembre di quel-
l’anno, ad occhio nudo, presso la stella 8 della Balena, dai calcoli di Leverrier
risultò identica a quella del 1770, da quelli di Laugier e Mauvais a quella
del 1585. Sarebbe stata veduta anche ne) 1678 e nel 1743, ed avrebbe un
periodo di circa 5 anni e mezzo. Secondo la Cometographie di Pingré, nel
1585 essa eguagliava Giove in grandezza, ma era meno brillante. La sua luce
smorta potevasi paragonare a quella della nebulosa del Cancro; non aveva
chioma, nè coda. Nell’anno 1844 invece la cometa presentava un nucleo bril-
lante di circa 20”, una nebulosità di 5 a 6 minuti in forma di ventaglio
luminoso, ed una piccola coda.
8 FRANCESCO PORRO
principali Cataloghi a mia disposizione. Di questi Cataloghi ado-
perai nelle riduzioni i seguenti :
1. Sroxne — Catalogue of 21441 Stars, for the epoch1880 ;
from observations made at the Royal Observatory, Cape of Good
Hope (Designato con « Stone »).
2. Goun — Catalogo de las Zonas Estelares — Resul-
tados del Observatorio Nacional Argentino en Cordoba (Desi-
gnato con « Cordoba ZC >»).
3. YARNALL — Catalogue of Stars observed at the United
States Naval Observatory (Designato con « Yarnall »).
4. WrIsse — Positiones Media stellarum fixarum in
Zonis Regiomontanis a Besselio inter — 15° et + 15° Decli-
nationis observatarum (Designato con « Wezisse I »).
5. Grant — Catalogue of 6415 Stars for the epoch 1870,
deduced from observations made at the Glascow University
Observatory (Designato con « Glascow »).
E BARNARD-HARTWIG
COMETE FINLAY
CRIVIEL 0.960 SOL RE 2 B9°11 GoalF#8 96 LIS *DISAON
no GL 0 09188 O L8SIOENEI O OONZA e C0T eoa
ERA CEI i 0090 0A | O CIC ACEA i AVO] A O ZA 17 ON OLE PEER AIA ATTO EEE)
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FRANCESCO PORRO
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COMETE FINLAY E BARNARD-HARTWIG 11
NOTE
SULL’ASPETTO FISICO DELLE COMETE
22 Ottobre. — Cometa Finlay abbastanza visibile; nebulosità
del diametro di circa due minuti, oblunga — Nucleo appena
percettibile.
29 Ottobre. -- Cometa Finlay oblunga — Traccia di nucleo
— Deboli diramazioni verso la parte posteriore della cometa,
riconosciute anche dal dottor Charrier. — Risultati non troppo
concordi dei varii confronti.
30 Ottobre. — La Cometa Barnard-Hartwig consta di una
nebulosità assai grossa (visibile anche nel cercatore), di parecchi
minuti di diametro, con forte concentrazione, e traccie di coda
nel senso del parallelo a un dipresso. Nucleo diffuso.
31 Ottobre. — Cometa Barnard-Hartwig distintamente visibile
nella nebbia che copre le stelle vicine. Tratto tratto la stella
di comparazione scompare durante le osservazioni.
8 Novembre. — Cometa Barnard-Hartwig fra le nubi. In un
istante buono noto che il nucleo è perfettamente stellare. Non
posso fare che tre confronti, ed attribuisco peso doppio al primo;
all'ultimo l'alba è già inoltrata.
9 Novembre. — Cometa Finlay estremamente debole. Subito
dopo il tramonto la luna, quasi piena, è già assai forte e di-
sturba molto l’osservazione. Appulsi incerti.
2 NICODEMO JADANZA
Influenza degli errori strumentali del teodolite sulla misura
degli angoli orizzontali, per NIicopEMO JADANZA
Nei classici trattati di Astronomia di Briinnow e di Chau-
venet la teoria dell’altazimut (teodolite) non è, per quanto ci
sembra, trattata con tutto il rigore necessario. Ciò è tanto vero
che parecchi scrittori di Geodesia che hanno seguito il medesimo
procedimento ne hanno dedotto la seguente conclusione: La
media delle misure coniugate di uno stesso angolo è indipen-
dente dagli errori residui strumentali; e tale conclusione non
è rigorosa.
Il seguente procedimento a noi pare debba essere preferito
non solo per la trattazione esatta dell’ argomento, ma anche
perchè fa vedere che gli errori di collimazione e d’ inclinazione
dell'asse di rotazione del cannocchiale possono (come per il primo
l’ha fatto osservare il Prof. Casorati) avere anche grandezze fi-
nite (*). à
Sieno :
v la deviazione dell’asse del circolo orizzontale dello strumento
dalla verticale del luogo di osservazione.
i l'errore d’inclinazione, ossia l’angolo che l’asse di rotazione del
cannocchiale fa colla perpendicolare all’asse del circolo oriz-
zontale del teodolite.
c l'errore di collimazione, ossia l’angolo di cui la linea di col-
limazione del cannocchiale devia dalla perpendicolare al
suo asse di rotazione.
(*) F. CasoratI: Sulla regola di Bessel: Atti della R. Accademia dei Lincei,
serie 2*, vol. 2°, 1875, pag. 602.
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL TEODOLITE 13
Le quantità v, 7, c, le supponiamo piccole grandezze di 1°
ordine, in modo da poter trascurare i loro quadrati ed i loro
prodotti.
Sia (fig, 1°) AMB Vorizzonte e CZ la verticale del luogo
di osservazione, Q ME sia il cerchio orizzontale del teodolite
inclinato del piccolo angolo v all’orizzonte e CP il suo asse.
Il piano che passa per le due rette CZ, CP incontra la
sfera celeste secondo il circolo massimo AQZPBE; questo cir-
colo è un circolo fisso della sfera celeste. Se O è l’oggetto che
si guarda, il verticale ZON è anche un circolo fisso e 1’ azimut
A dell’oggetto è dato dall’angolo sferico 0ZP, ovvero da NC
(supposto che l’origine degli azimut sia appunto il piano verti-
cale ZP BR). Sia K il punto in cui la parte dell’asse di ro-
tazione del cannocchiale che è a sinistra dell’osservatore incontra
la sfera celeste, e ciò mentre la linea di collimazione del can-
nocchiale è diretta all’oggetto (*).
(*) Quando si collima all’oggetto, e l’istrumento è scorretto, la linea di
collimazione non incontra la sfera celeste nello stesso punto in cui la incon-
14 NICODEMO JADANZA
Supposta questa parte dell’asse di rotazione più alta di
quella a destra ed ottuso l’angolo che la linea di collimazione
fa colla sinistra dell’asse di rotazione, indicando con d l’altezza
del punto X sull’orizzonte vero, i tre lati del triangolo sferico ZPK
saranno rispettivamente
AP =
Ae MS
PK=90°—;.
I lati del triangolo 0ZK saranno
OZ=% (zenitale dell'oggetto che si guarda)
OK= 90°+ e
ZK=90°—..
L’azimut vero del punto X (contato dal piano ZP B KR) sarà
As K04'B
e quello letto sul cerchio orizzontale del teodolite sarà
D'Ch—=a029a
essendo « ed a, le letture del circolo orizzontale corrispondenti
ai punti D, È in cui i piani PCK, PCB incontrano il me-
desimo.
La formola fondamentale della trigonometria sferica (Teorema
del coseno) applicata al triangolo sferico Z P K, coll’osservare che
si ha ZPK=180°—(a—a,)), dà
sen d= cos v sen 7 — sen vcos è cos (A— 4,) è
sen = cos v sen d + sen v cosbcos 4, .
Se nella seconda delle formole precedenti sostituiamo a sen d
il valore dato dalla prima, otterremo
cos A, cos d = sen ; sen v + cosv cos 7 cos(a— d,) .
trerebbe essendo corretto. La piccola variazione della distanza zenitale, non
ha influenza sui risultamenti. Per questa ragione, colla lettera O indichiamo
e l’oggetto ed il punto d’intersezione della linea di collimazione colla sfera
celeste.
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL TEODOLITE 15
Il teorema del seno dà l’altra
send, sen(a—a,)
COS È cos d
Poichè le quantità , i, 6, sono piccole grandezze di 1° or-
dine si otterrà dalle formole precedenti
b=1—-vcos(a—a),
cos 4 =cos (A—a ),
sen 4, =sen(a—a ),
ossia
E RESDETA |
I sali mani SER (1).
b=i-vcosla—a,) |
Dal triangolo OZXK si ottiene:
cos (90°4c)=cos send +senz cosdcos(A— A),
ovvero
— senc=cos z send +senzcosbcos(A— A ).
Quest'ultima equazione mostra che cos (A— A4,) è una pic-
cola grandezza dello stesso ordine di sen c, sen d; quindi se in
essa si pone in luogo di cos (A— 4,), sen (90°—(A— 4,))
questo seno potremo sostituire l’arco e quindi si avrà:
—c=bcose+senz(90°—(A—4,)) 3
donde
ASIA A bott
sen 2
e per le (1)
A=90°+aT—-a,+îcotz + MAM cos(a—a,) ...(2).
sen 2
la quale formola dà l’azimut dell’ oggetto guardato in funzione
delle letture fatte sul circolo orizzontale e degli errori strumentali.
Collimando ad un altro oggetto il cui azimut sia A, e la cui
distanza zenitale sia ZA sì avrà
A,:=90+a,—a,+icotz, + 9 —vcotz, cos(a,— 4, ) »
sen
4,
16 NICODEMO JADANZA
e quindi l’angolo « tra i due oggetti sarà dato da
‘ rel ll
aa a+i (cche, cot 2) +e ( - =)
sen zj senz
(3).
— v | cot 2, cos(a, — a) — cot zcos(a—a, )|
Eliminazione degli errori D’INCLINAZIONE
e dî COLLIMAZIONE
La formola (3) che dà l’angolo tra due oggetti conviene
quando l’istraumento ha una certa posizione (p. e. la posizione
destra); quale sarà la formola per l’istrumento nella posizione
sinistra, cioè quando si è fatto rotare l’alidada di 180° e colla
rotazione del cannocchiale intorno al proprio asse si sono colli-
mati i medesimi oggetti ?
Dopo aver fatto rotare 1’ alidada di 180° (rotazione che si
esegue intorno a CP) e riportato il cannocchiale a collimare al
medesimo oggetto 0, quell’estremo dell’asse di rotazione che prima.
si trovava alla destra, ora si trova alla sinistra dell’osservatore,
e quindi il punto dove questo, prolungato, incontra la sfera ce-
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL l'EODOLITE 17
leste sarà X, (fig. 2°), diverso dal punto X della fig. 1%. Sicchè
il triangolo ZPK,, avrà per lati
4Ab=p
PIRd=- 90049
ZK =90°—d :
(b' essendo l’altezza del nuovo punto X, ).
L'angolo che la linea di collimazione fa colla parte dell’asse
di rotazione che passa per K, è acuto, cioè 90°—c, sicchè i lati
del triangolo sferico ZO XK, saranno attualmente
ZK,=90°-D',
PAESI RESTA
ORO sel (6.
L’azimut vero (contato dal piano ZP B) del punto O è sem-
pre 0OZB=NCB=A; quello del punto X, sarà differente da
A, e sarà p.e. A. Sarà pure differente da a la lettura cor-
rispondente al punto D, del cerchio del teodolite, sicchè l’azimut
del punto X, letto sul circolo graduato sarà
DCR=a' —a,.
Nel triangolo ZP K, avremo dunque
sen dD'= — cosv sen7— sen v cos 7 cos (a — a) ,
È . LA
cos A cos d'= — senv seni +cos v cos 7cos(a —a,)
senA'sen(a’—a )
ope» o
così ——cosd'
donde, ricordando che v, 7, d' sono quantità piccolissime, si
deduce
A'=a'—a
o o
b'=—i—-vcos(a'—a)
e quindi il valore assoluto di 2' è differente da ..
Dal triangolo ZOK, si ha:
cos(90 — c)=cos 2 sen d'4+ sen 2 cosd'cos(A—A' ).
vo
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII.
18 NICODEMO JADANZA
x
ovvero
senc= cosz sen dD'+ sen 2 cos D' sen (9 0°— (A 20) :
e quindi
c=b'cosz + senz) Spe (4-4)! i
donde per le (4)
done (5).
Per l’altro oggetto, il cui azimut è A, e la cui distanza
zenitale è 2,, si avrà
Da. o / . LUI
A=90 +a, — a,—îcotz,— — vcot 2, cos(a, — a) -
sen 1
L'angolo « tra i due oggetti sarà dato da
a=a',—a'—i(cote,—cot 2) —c a
senz, senz
— v|cot a, cos (a', —a_) — cotz cos ( (a—a »)| da
Se si sommano le (3) e (6) si avrà:
(a—a)+(a,—a') ata,
1
a 3 — v cot 2, COS ( 3 Tm 0) c083 (a/—a,)
Li
/ 4 È
+ v cot z cos _ -4,) cos5 (a — a) ;
. . . 1 U rÌ , .
e se si osserva che gli angoli 2 (a, —@)ae 5 (a— a) sono pic-
. . . . . 1 ' 1 ' .
colissimi, e che agli angoli a (Mt E e g(0+t a)—-a, sì
possono sostituire A —90, A— 90 la formola precedente diventa
da PLS" È
= Doe ee vcotz, sen A, +vcotzsenA ...( VI:
Misurando adunque lo stesso angolo una volta col teodo-
lite nella posizione destra, un’altra volta col teodolite nella po-
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL TEODOLITE 19
sizione sinistra, la media dei due valori sarà indipendente dagli
errori di collimazione e d’inclinazione dell'asse di rotazione del
cannocchiale.
Però nella maggior parte delle misure geodetiche le distanze
zenitali degli oggetti che si guardano sono prossime a 90°, quindi
anche la parte della (7) dipendente da v è in generale una quan-
tità piccolissima sempre che si è avuto cura di rendere v una
quantità piccolissima.
In un angolo il massimo errore dipendente dalla scorrezione
v è
#:2v cot 2 SEA (9),
z essendo la più piccola delle distanze zenitali dei due oggetti.
La tavola seguente calcolata da Jordan (*) dà i valori esatti
di vcotz per diversi valori delle quantità 2 e .
Essa mostra ad evidenza quanta deve essere la cura dell’os-
servatore nel rendere orizzontale il cerchio graduato del teodolite.
.
Valori di vcotz.
DISTANZA ZENITALE #£
87° 86° 85° | 80° 70° 45°
0258 ORO, (0780 RITO 64 10”
DTS NELLO, 2002 OA TA) ci
-72 | 20.98" |26 .25 152 .90 | 1" 49"! 5’ 00"
440 | 41,96 [521049 | 1 46”) 3’ 38710" 007]
Q4 [02° 6! 42 377] 5017” 10% 557/30! 00”
eek at” 158 [10/35/21 5010 o;
(*) Cfr. W. Jorpan: Handbuch der Vermessungskunde, pag. 241.
20 NICODEMO JADANZA
II.
Se fosse v=0, la (7) darebbe esattamente
RN i a) de).
i
e questo risultamento mostra che la media dei due valori coniu-
gati dello stesso angolo rappresenta il vero valore del medesimo.
In una stazione geodetica, dopo che si è corretto l’istrumento
e lo si adopera per la misura degli angoli orizzontali, quello degli
errori residui che è più variabile è appunto v il quale può as-
sumere durante le osservazioni anche valori grandi. È quindi per-
fettamente legittima la Regola di Bessel, la quale consiste nel
trascurare (per tutta la durata di una medesima stazione) le cor-
rezioni della linea di collimazione e dell’asse di rotazione del can-
nocchiale rendendo soltanto verticale l’asse del circolo orizzon-
tale ("). Questa regola è anche vera nel caso che c ed è fossero
grandezze finite.
Infatti nella ipotesi di v—=0 le (1) diventano
A=ua—as;
o
bt
e quindi il triangolo OZK nella fig. 1° dà
— sen c = cos 2 sen é + sen 2 cos < cos (4 2) i
ossia
sen c+ cos z sen 7-+ senz cos? sen[90°— A+ 4,]=0,
donde
sen €
sen] A 90°— (a—a,)|]=cotzigi + = LEN
(*) Questa correzione si fa praticamente nel modo che segue: Si ponga la
livella in direzione della linea che unisce due viti del basamento e si centri
la bolla mediante il movimento simultaneo ed inverso di codeste due viti.
Si faccia rotare l’alidada di 180° e lo spostamento della bolla si corregga
metà colle medesime due viti del basamento e metà colle viti proprie della
livella. Si faccia in ultimo girare l’alidada di 90° e lo spostamento della
bolla si corregga soltanto colla terza vite del basamento,
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL TEODOLITE 21
Dopo la rotazione di 180° il triangolo OZK, (fig. 2°), es-
sendo il lato ZK,=90"+;, dà:
sen c = — cosz sen? + senz cos i sen [90°—(A--4)] K
donde
sen €
A—-90°—(a'-—a)|=—cotztgé——_ ...(10).
sen | (a a.)| Cu dio gra (10)
Sommando le (9) e (10) si ha
sen |A 90° (a-a,)]+sen|A4—90°— (a'—a.)| =0,
ovvero
Ù 1 1
sen[d4 90040, 24° loss 3(-a)=0 53° Se (CECRT:
L'equazione (11) è soddisfatta quando sarà soddisfatta una
delle due equazioni
Tia ) Fat
sen| 40040, 4°.|— ’ coss(a_a)=0.
Ora la seconda delle precedenti equazioni evidentemente non
può essere soddisfatta.
La prima è soddisfatta nei due casi espressi dalle seguenti
eguaglianze
U Ul
A-90°pa,— h° —0; A-90°+a,= e =180,
donde si deduce
A=90°4 SÈ ir A=27094 922 =e(19).
Però avendo scelto per origine degli azimut il piano ZPR
è valida soltanto la prima delle (12). Per un altro oggetto di
azimut A, le letture sul circolo orizzontale saranno a,» a;;
quindi per la prima delle (12) si avrà
A, =90°+
/
at g duo
Avremo dunque
. (14)
22 NICODEMO JADANZA
Ossia: Il vero valore dell'angolo tra due oggetti si ottiene
prendendo la media dei valori coniugati del medesimo anche
quando gli errori di collimazione e d’inclinazione avessero gran-
dezze finite.
Il caso che abbiamo esaminato ora e che è quello conside-
rato dal Prof. Casorati nella citata memoria non è quello che
corrisponde alla pratica. La ipotesi di v= 0 è inammissibile anche
quando l’osservatore sia stato scrupolosissimo nella correzione dello
strumento.
Sarà bene esaminare se la formola (7) è vera quando gli er-
rori c ed 2 hanno grandezze finite e v ha un valore piccolissimo.
III.
Prendiamo le formole trovate antecedentemente dalla fig. 1°
send =cosvsenz — senvcoszcos(a—a ) ,
cos 4, cosb=sené senv+ cosicosvcos(a—a ) ,
sen 4, cosb =cosisen(a—4,) .
Poichè © è una piccola grandezza di prim'ordine e d, è sono
grandezze finite, si avrà:
sen b= sen? —vcosicos(a—a)
tg(a—a
a OLI Mah (16).
cos (A — 4)
Dalla seconda equazione si ottiene
i tg 4
DA; Cee = TT —-—V t ; SOS RIS - 2
tgA,—tg(a—-a) vtg i sg
Essendo piccola la differenza tra tg A, e tg(a—a,). pos-
siamo scrivere
A-(a—-a,)
tg 4—-tg(a—a )=
g4—t6(a_a,) cos° (a—d,)
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL TEODOLITE 283
e quindi le (15) si riducono alle due seguenti :
send = sené — v cos? cos(4a— da ) Î
o
azzo RE)
A,=(a—a,)—vtgisenA, Ro
Dal triangolo ZOXK si deduce
send — A, — 90°]= cotz tgb + —"S CEE):
sen 2 cos d
Dopo la rotazione di 180° si avrà (fig. 2°)
sen d'== — senz — v cos7cos(a — @ ) (18)
4/= (da) + vigisen A, sp
sen €
PIAN RI I RSA PPT
sen[A—A, ]= cot2 tg 8 sen 2 cos d dr
Dalla somma delle (17) e (19) si ottiene
sen [A A,— 90°] + sen[A— A4,/— 90°] |
ila ‘el -senienfie 1 1 (20).
me) "= d- a) \
Ora dalla prima delle (15) e dalla prima delle (18) si de-
duce facilmente trascurando quantità di second’ordine ,
vceos(a—a, )
U
| . cosa — a)
tob=tgi — = ; Fai dg)
cos* 4 È cos è
1 1 vseni cos(a—a )
ea RI rette Sa ORE e pre
cosò cosi cos” 7
1 1 v senz cos(a — a.) .
7 . 9» 5
cos ò cos? cos 4
e quindi
7 Vv 7
te b+tgb=— 27 (cos(a—a,)+cos(a'—a,)) =
1 1 sen 2
ca raro (aa) + c08 (a' a.)
24 NICODEMO JADANZA
La (20) diventa colle precedenti sostituzioni
sen [A—A — 90°]+sen|A— A, — 90°]
PET ( \& ta |
— — — |cos(a—@ cos(a—a
cos 7 ° È
v sen € sen Z o è
— —__- [cos (a —a,) + cos(a — a.)| È
sen 2 cos° 4
ovvero
A+A, i
sen | A— 90° Leali Coi [A/'-A]
2 D o O)
, 1
= — cos (° ICE )cos CTRMASN, "pa ove + SET |
; 2 COS sen £
Il secondo membro della equazione precedente è una gran-
dezza infinitamente piccola, tale dovrà essere ancora il primo
membro, o almeno uno dei suoi fattori. E poichè il fattore
1 I: 1
008 3 (A/—A4,), che può essere sostituito dall'altro cos 3 (a'— a),
non è, in generale, infinitamente piccolo, dovrà essere infinita-
A+ i. |
mente piccolo il fattore sen [4-90 , e quindi si
dovrà avere
DAI ’
A 9
2
dalla quale, tenendo conto delle (16) e (18) si deduce
LU
frà — ge ir (21),
9 (0)
A=900PE
dove e, è un infinitamente piccolo di 1° ordine dipendente da %.
Per l’altro oggetto il cui azimut è A, si avrà analoga-
mente Rea
ACRI al uezi'efle (22),
dove e, è anche infinitamente piccolo.
Si avrà dunque in ogni caso per l’angolo a tra i due oggetti
net (aa +(a/—@')
; = ia 1)
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL TEODOLITE pa)
che è della stessa forma della (7). La quantità e, è un infini-
tamente piccolo dipendente da v e quindi:
La media delle osservazioni coniugate di uno stesso angolo
è indipendente dagli errori di collimazione e d’inclinazione qua-
lunque sia la loro grandezza.
Perchè la misura degli angoli orizzontali sia per quanto è pos-
sibile esatta, la quantità e, nella (23) dovrà essere la più pic-
cola possibile. Ciò si ottiene rendendo © piccolissimo ; quindi è
bene adoperare la regola di Bessel sempre che si vogliano fare
misure azimutali esatte.
IV.
Il risultamento precedente ci autorizza a ritenere come le-
gittima la costruzione dei teodoliti nei quali non sia possibile cor-
reggere gli errori è e c. In codesti teodoliti si richiede soltanto
la possibilità di invertire il cannocchiale per fare le osservazioni
coniugate; la quale inversione si può anche fare togliendo il can-
nocchiale dai cuscinetti, avendo cura di non invertire gli estremi
dell’asse del cannocchiale.
Quando in un teodolite vi sono gli errori residui v, è, c, (gli
ultimi due anche piccoli) è evidente che la rotazione dell’alidada
intorno al proprio asse dopo aver collimato al medesimo oggetto
non è di 180° esatti; quindi se l’istrumento ha un solo verniero
(o microscopio) la eccentricità dell'alidada non si elimina colle
osservazioni coniugate.
L'errore però che si commette è evidentemente dello stesso
ordine di quello che si farebbe in uno strumento il cui circolo
azimutale fosse provvisto di due vernieri o microscopi la cui di-
stanza angolare fosse 180°4#-e invece di 180° (: essendo una pic-
colissima quantità). Cosicchè, mentre nelle osservazioni geodetiche
importanti il teodolite dev'essere sempre fornito di due vernieri
o microscopi diametralmente opposti per la correzione della ec-
centricità dell’alidada, non sono da condannarsi quei teodoliti,
per lo più destinati ad osservazioni topografiche, il cui circolo azi-
mutale ha un solo verniero. Con questi ultimi bisogna sempre ado-
perare il metodo delle osservazioni coniugate.
26 NICODEMO JADANZA
Che se la costruzione particolare dell’istrumento non permet-
tesse l'inversione del cannocchiale, e quindi non fosse possibile ado-
perare il metodo suddetto delle osservazioni coniugate, codesto
strumento dovrà essere considerato come inservibile.
V.
La formola (2) che dà l’azimut in funzione degli errori stru-
mentali è vera se la proiezione della linea di collimazione del can-
nocchiale passa pel centr8 del circolo orizzontale.
Se il cannocchiale è eccentrico si avrà (fig. 3°)
A=A4'+6 Ao.
L'angolo 6 si otterrà dal triangolo COH, in cui CH=r è
la proiezione del segmento È di asse di rotazione del cannoc-
Fic. 32.
chiale compreso tra la verticale che passa pel centro del teodo-
lite ed il punto in cui la linea di collimazione del cannocchiale
incontra il medesimo.
Avremo dunque, indicando con D la distanza dell’ oggetto
mirato :
r sen A'
T Dsen 1"
INFLUENZA DEGLI ERRORI STRUMENTALI DEL TEODOLITE 27
e quindi, ponendo per A' il valore (2), ed osservando che nella
formola precedente si può ad A' sostituire A
A=90°+(a—a,)+?cotz + 9
sen 2
A ) rsen 4
—vcotzcos(a — a, to”
Per l’altro oggetto il cui azimut è A, e la distanza zeni-
tale è 2, si avrà:
A,=904+(a,—a,)+icotz, + ri
i, sen 2,
r sen A,
—vcotz, cos(a—-a ) ++
a AI) D, sen 1"
essendo D, la distanza del secondo oggetto.
L'angolo tra i due oggetti, quando il teodolite è a cannoc-
chiale eccentrico sarà adunque
dsl 1
a a iii ali Lu)
A senz, senz
— v (cot £, c0s (A, _@,) — cot 2 cos (a — 4o))
r send, senA
D DE
1
+
sen 1"
Dopo la rotazione di 180° dell’alidada, essendo d' differente
da d, la proiezione di & sarà r, differente da r, quindi sì avrà:
RI 1 1
a=a,j,—a —iî(cotz,—cote)—c _
senz, senz
— v [cot 2, c0s (a/— a,) — cot 2 cos (a'— 4»)|
ri {senA, senA4
sen 1"| D, D
Epperò l’errore dipendente dalla eccentricità del cannoc-
chiale non si elimina completamente (quando v è differente da
zero) prendendo la media delle osservazioni coniugate. L' in-
fluenza di tale errore sugli angoli orizzontali sarà tanto più pic-
cola quanto più piccolo sarà il valore di v.
28 GIUSEPPE VICENTINI
Sulla variazione di volume di alcuni metalli nell’ atto della
fusione e sulla dilatazione termica degli stessi allo stato
liquido, Studio sperimentale di GiusePPE VICENTINI, Pro-
fessore di Fisica sperimentale nella R. Università di Cagliari.
— Nota T°.
È noto che in generale i corpi solidi aumentano di volume
nell'atto della fusione e che solo pochi fanno eccezione a tale
regola. L'acqua, il bismuto ed il ferro diminuiscono di volume
nel passaggio dallo stato solido allo stato liquido.
Lo studio della variazione di volume che subiscono i metalli
quando cambiano di stato di aggregazione non fu eseguito finora
in maniera da poter offrire per tale fenomeno dei numeri molto
approssimati; e ciò è da ascrivere alle difficoltà che accompa-
gnano sempre le esperienze che si devono eseguire a temperature
assai elevate. Mi è sembrato però che tali difficoltà si sarebbero
potute superare per i metalli che non possiedono una temperatura
di fusione molto alta; e dopo molti e pazienti tentativi, sono
realmente riuscito a pormi in condizioni tali da poter misurare
direttamente col metodo dilatometrico le variazioni di volume che
subiscono nell’atto della fusione i metalli facilmente fusibili,
nonchè il coefficiente di dilatazione di essi allo stato liquido.
Per quanto si riferisce alla variazione di volume che accom-
pagna il cambiamento di stato dei metalli, non solo si hanno delle
incertezze sul valore di essa; ma i diversi sperimentatori si con-
traddicono fino sul segno col quale si manifesta. Darò qui un
breve sunto delle più importanti memorie.
In uno studio abbastanza recente Niess e Winkelmann (1)
giunsero alla conclusione piuttosto azzardata, che tutti i metalli
(1) F. Ness und A. WINKELMANN, Berichten d. K. Akad. d. Wiss. zu
Munchen, 4 dec. 1880. — Wied. Ann., vol. XIII, p. 43, 1881.
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 29
aumentano di volume, quando si solidificano. Questa conclusione
è appoggiata sul fatto che in generale un pezzo di metallo so-
lido, immerso in una certa quantità dello stesso metallo conser-
vato liquido a temperatura prossima a quella di fusione, dopo
esservi rimasto sommerso per qualche tempo, ritorna a galla. Il
fenomeno di galleggiamento venne unicamente attribuito alla dif-
ferenza delle densità che assume il corpo nei due stati diversi,
Niess e Winkelmann studiarono otto metalli, cioè: lo stagno,
lo zinco, il bismuto, l’antimonio, il ferro, il rame, il piombo ed
il cadmio. Ognuno di questi metalli veniva fuso in grande quan-
tità e mantenuto ad una temperatura costante, vicina il più
possibile a quella di fusione; con un cucchiaio levavano dalla
superficie della massa fusa una porzione che lasciavano conso-
lidare, e che subito immergevano nel metallo liquido.
Per i sei primi, degli otto metalli sopra menzionati, trovarono
sempre confermata quella che eglino chiamavano la esperienza
fondamentale; cioè i pezzi di metallo solido dopo essere rimasti
sommersi per qualche tempo, ritornavano a galla. Per il piombo
ed il cadmio, non ebbero effetti troppo evidenti, però sufficienti,
secondo essi, per poter stabilire che questi corpi non possiedono
comportamento diverso da quelli degli altri.
Niess e Winkelmann hanno creduto di poter trarre dai risultati
delle loro esperienze la conclusione generale che i metalli au-
mentano di densità nell’atto della fusione; e ritennero che il
fatto da essi rilevato non fu scoperto da altri, perchè non si
ebbe mai l’avvertenza di riscaldare il metallo solido sino alla
temperatura di fusione prima di immergerlo nel liquido ; ciò che
essi ottenevano col metodo di sperimentare sopra descritto.
Tenendosi sicuri della conclusione alla quale erano così arri-
vati, spinsero più oltre. le ricerche, indirizzando i loro tentativi
a determinare la grandezza della variazione di volume che ac-
compagna il cambiamento di stato di alcuni dei metalli conside-
rati; cercarono cioè di misurare il rapporto delle densità dei
metalli, nei due stati, liquido e solido. Fecero molte prove; l’unico
metodo da essi riconosciuto applicabile a tale determinazione si
fonda sul seguente. principio.
Se nell'interno di una piccola massa di metallo, ad esempio
di stagno (che secondo Niess e Winkelmann è meno denso dello
stagno fuso) si imprigionano dei piccoli pezzi di altro metallo
più pesante, si può far variare il suo peso in maniera che il corpo
30 GIUSEPPE VICENTINI
risultante abbia, sotto egual volume, lo stesso peso dello stagno
liquido alla temperatura di fusione. In tale condizione, introdotto
nello stagno fuso, deve mantenersi in equilibrio in qualsiasi
punto della massa fusa, e la sua densità misura quella del li-
quido. Ma lo stagno fuso non è trasparente ed il fatto non si
può quindi osservare. Riesce però facile, preparando dei pezzi
nel modo sovra descritto, di dare ad essi tali densità, per cui
alcuni immersi nel metallo fuso, ritornino a galla ed altri invece
si sprofondino in esso senza più riguadagnarne la superficie. Pro-
cedendo per tentativi e rendendo di poco differente la densità di
due pezzi metallici preparati in simile guisa, e tali che uno di
essi introdotto nel metallo fuso resti sommerso, e l’altro ritorni
a galla; e conoscendo i pesi dei due metalli che li costituiscono,
nonchè la densità del metallo addizionale, alla temperatura di
fusione del metallo studiato, è facile con un semplice calcolo
determinare due limiti molto vicini, fra i quali si deve trovare il
rapporto delle densità del metallo che si studia, allo stato liquido
ed allo stato solido.
È seguendo questo metodo che Niess e Winkelmann hanno tro-
; ; Re ci }
vato i seguenti valori per i rapporti — delle densità allo stato
s
liquido ed allo stato solido, dello stagno, dello zinco e del bismuto.
S
Sfapriori: uri ia — = 1,007
s
Vamcosio a » >» 1,002
S
Bene i II IO SRO <a 0497.
Ma altri ancora si sono occupati in epoca molto vicina, del
soggetto che qui ci occupa.
Th. Wrightson (1) ha cercato di determinare la densità del
ferro vicino al suo punto di fusione per stabilire se realmente
questo metallo aumenta di volume nell’atto della solidificazione.
Egli adoperò un apparecchio da lui chiamato oncosimetro, con-
sistente in una bilancia a molla, alla quale fissava delle sfere
(1) Th. WricHTson, J. of the Iron and Steel Instit., 1879. — Beibl. z. d.
Ann. Wied., vol. V, p. 188.
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 31
di ferro opportunamente preparate, che faceva pescare in una
massa di ferro mantenuto liquido alla temperatura di fusione.
Alla molla della bilancia aveva fissato un indice, che poteva trac-
ciare sopra un tamburo girevole il diagramma corrispondente alle
variazioni di volume che subiva la sfera per il riscaldamento pro-
dotto dal liquido.
Le esperienze hanno portato Wrightson a concludere che se la
densità del ferro freddo è 6,95, quella del plastico è 6,5 e
quella del fuso.6,88. Il ferro riscaldato si dilata dunque fino
al momento in cui raggiunge lo stato di plasticità. Un ulteriore
riscaldamento produce assieme alla liquefazione del metallo, una
improvvisa contrazione, facendo passare la sua densità dal va-
lore 6,55, a 6,88.
R. Chandler e T. Wrightson insieme determinarono in seguito
coll’oncosimetro e con un altro metodo, anche la densità del
bismuto liquido; e più tardi (1) pubblicarono i risultati di queste
ed altre esperienze, destinate pure alla determinazione della den-
sità di parecchi metalli allo stato liquido.
Ecco i risultati ai quali pervennero coll’impiego dell’oncosi-
metro. Essi danno la variazione di volume che subiscono i diversi
metalli passando dallo stato liquido alla temperatura di fusione,
allo stato solido alla temperatura ordinaria. Sotto la colonna
della variazione di volume i valori positivi indicano aumento di
volume; i negativi diminuzione.
METALLI ditanaso I eoldin VARIE
solido liquido volume °/
Bimbo spa asus cieigooei 9,82 10,055 + 2,30
MA A a OLA 8,80 8,217 — 7,10
Rnontt*. . cessioni. DINE 11,40 10,370 — 9,93
Beignel Fonte, 19, Menaio Degli 7,50 7,025 — 6,76
o ESATTO Le lr 7,20 6,480 — 11,20
Moto nioorg ainfesbhega. ine exe 10,57 9,510 — 11520
Ferro (n° 4 Fond. di Cleveland). 6,95 6,88 d # og
(1) W. CrÒanpLER R. et T. WriGHTSOn. — Ann. de Chemie et de Phys.
WE XXX. S. V, 1889
32 GIUSEPPE VICENTINI
Fatta eccezione per il bismuto, questi risultati contraddicono a
prima vista quelli di Niess e Winkelmann. Chandler e Wrightson
non hanno voluto accettare come definitive le conclusioni dei due
primi sperimentatori; però si credettero in obbligo di notare che
nelle loro esperienze sullo stagno, mediante l’oncosimetro, otten-
nero a temperatura prossima ‘a quella della fusione, dei diagrammi
accennanti ad un comportamento di questo metallo, simile a quello
osservato dai due fisici tedeschi. Non hanno poi voluto considerare
i loro risultati siccome contrari a quelli di Niessee Winkelmann,
osservando che questi si avevano proposto di determinare il rap-
porto delle densità dei metalli allo stato solido ed allo stato
liquido a temperature vicine il più possibile, ed eglino invece
si erano prefissi la misura della densità reale di un metallo
alla temperatura più bassa alla quale esso rimane perfettamente
liquido.
Eilhard Wiedemann (1) accenna in appendice ad una sua
nota sulla variazione di volume prodotta dal riscaldamento nei
sali idratati, che esperienze da lui fatte sullo stagno, col mezzo
di un dilatometro, gli hanno dimostrato che contrariamente alle
conclusioni di Niess e Winkelmann, lo stagno si dilata per ef-
fetto della fusione; ed in una sua pubblicazione anteriore, sulla
variazione di volume di metalli e di leghe al momento della
fusione (2), esponendo i risultati ottenuti nello studio di tali
corpi, col metodo dilatometrico già usato dal Kopp per deter-
minazioni di questo genere, fa conoscere che lo stagno passando
dallo stato solido allo stato liquido soffre un aumento di volume
misurato da 1,90 %.
In base poi al comportamento riscontrato in una lega di piombo
e zinco, ed in quattro leghe diverse di piombo e bismuto, egli
stabili che anche il piombo si deve dilatare nell’atto della fu-
sione, mentre al contrario il bismuto si contrae.
Dopo avere richiamato, con quanto precede, gli studi più im-
portanti che si sono fatti negli ultimi anni, riguardo alla va-
riazione di volume dei metalli nell’atto della fusione, passo qui
sotto a descrivere le mie esperienze sul medesimo argomento. In
questa nota mi limito a comunicare i risultati ottenuti nello
(1) Ann. Wied., Bd. XVII, s. 576, 1882.
(2) Ann. Wied., Bd. XX, s. 228, 1883.
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI dò
studio del bismuto. Accenno però fin d’ora che per lo stagno,
che ho già studiato contemporaneamente al bismuto, contraria-
mente alle osservazioni di Niess e Winkelmann ed in appoggio
a quelle del Wiedemann, ho riscontrato un notevole aumento di
volume nell'atto della fusione.
STUDIO DEL BISMUTO
Metodo Sperimentale.
Ho incominciato la serie delle mie esperienze collo studio del
bismuto, mosso anche dal desiderio di esaminare se si manifesti
nel bismuto liquido un massimo di densità.
Il metodo che a me sembra il più opportuno, e che forse è
l’unico che si presti ad uno studio abbastanza esatto della dilata-
zione dei metalli fusi, è il metodo dilatometrico. Esso vale natural-
mente per i metalli facilmente fusibili, ed è legato a difficoltà
pratiche non lievi; ragione per cui al principio delle mie ricerche
ebbi molto a dubitare della possibilità del suo impiego.
Un problema pratico da risolvere è anzitutto quello del per-
fetto riempimento di un dilatometro di noto volume, con bismuto
metallico.
Nelle prime prove mi parve di poter raggiungere l'intento,
introducendo nel dilatometro il metallo ridotto in polvere sot-
tile, la quale, raccolta nel serbatoio, può venire fusa con faci-
lità. Operando in tal maniera, rimane però nell’interno dell’ap-
parecchio una massa metallica coperta da uno strato di ossido,
che producendo delle scabrosità, non permette al metallo fuso di
aderire per bene alla superficie del vetro.
Siccome poi la solidificazione del bismuto è accompagnata dal
noto aumento di volume, così per schivare la rottura del dila-
tometro è necessario di non riempirlo completamente di metallo.
Se per caso il bismuto liquido, oltre al trovarsi nel bulbo del
dilatometro, ne riempie in parte anche il tubo, avviene che la
prima porzione di metallo che si solidifica è appunto quella con-
tenuta in quest'ultimo; raffreddandosi essa più rapidamente, causa
la sua piccola massa, rimane allora nel tubo come un tappo
solido, che si oppone alla dilatazione del metallo del serbatoio
Atti IR. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 3
54 GIUSEPPE VICENTINI
all'atto del suo cambiamento di stato, e la rottura del dilato-
metro diventa inevitabile. Riescendo perciò pericoloso il riempire
completamente di. metallo. il cdilatometro, per poterne seguire
le variazioni di volume ho voluto ricorrere dapprima al metodo
del Kopp, eseguendo il riempimento con un liquido che posse-
desse una elevata temperatura di ebollizione. Ricorsi all'uopo ad
una porzione di petrolio che bolliva a 400°, e che alla tempe-
ratura di 15° cominciava a consolidarsi.
Riscaldando un dilatometro contenente il bismuto e tale por-
zione di petrolio per liquido indicatore, sino alla temperatura di
280°, si sviluppano dalla massa del petrolio delle bollicine di
gas, che si raccolgono nel cannello, dividono la colonna liquida
in tante porzioni e la fanno oscillare continuamente.
Dubitando che questo inconveniente fosse causato dalle piccole
traccie di aria che aderiscono alla superficie del bismuto e del
vetro del dilatometro, cercai di espellerle praticando varie volte
il vuoto nel dilatometro mantenuto sempre a quella elevata tem-
peratura. Mi sono convinto però che realmente gli idrocarburi
stessi del petrolio davano dei vapori e si decomponevano, per
suisa che in nessuna maniera mi fu dato di evitare quello svi-
luppo di bolle gasose.
Cambiai di sostanza, impiegando per liquido indicatore la naf-
tilamina, la difenilamina, ed altri corpi che possiedono elevatis-
sima temperatura di ebollizione; ma nessuna fu riscontrata adatta
allo scopo.
Più tardi, rilevai dalle memorie di E. Wiedemann (1), che
egli pure seguì la stessa via, e che non potè riuscire a servirsi
di nessun liquido, per lo studio del bismuto, in causa dell’in-
conveniente qui sopra accennato. Il Wiedemann ascrive la for-
mazione di quelle bolle gasose alle piccole ‘bollicine di aria che
si sviluppano dal liquido, le quali vengono poi ingrandite dai
vapori delle sostanze impiegate. Questi vapori all’alta tempe-
ratura di cui si tratta, possiedono già una notevole tensione.
Convinto così, dopo molte prove, della impossibilità di poter
seguire il metodo di Kopp, ho dovuto ancora pensare a servirmi
di dilatometri riempiti completamente di metallo, dirigendo i miei
sforzi ad ottenere il facile e completo riempimento di essi, col
(1) E. WiEeDEMANN, Ann. Wied., Bd. XX.
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 35
bismuto allo stato liquido; e quello che molto importa, ad impe-
dire la loro rottura al momento della solidificazione del metallo.
Ecco in qual maniera sono giunto a superare questa non lieve
difficoltà.
In un dilatometro, già studiato in antecedenza per quanto si
riferisce al volume del suo serbatoio ed alla calibrazione del can-
nello, introduco mediante un filo di ferro sottilissimo, una goc-
ciolina di petrolio, e mediante una lampada a gas lo riscaldo
lentamente, sino a portarlo ad elevata temperatura. Arresto il
riscaldamento quando la porzione quasi impercettibile di petrolio,
che è rimasta esclusivamente aderente alle pareti interne del can-
nello, è trasformata in vapore. Ciò mi viene indicato dalla com-
parsa di deboli fumi nel piccolo imbuto del dilatometro. In questo
momento verso in esso la opportuna quantità di bismuto fuso, e
continuando sempre a riscaldarlo cautamente colla fiamma a gas,
aiuto la discesa del metallo lungo il cannello, con un movimento
alternativo dall’alto in basso del filo di ferro che ho sempre la-
sciato in esso. Il metallo attraversa il cannello senza aderire alle
sue pareti, in virtù delle lievi traccie di petrolio che rimangono
ancora nel suo interno.
È in questa maniera che riesco ad introdurre con facilità nel
dilatometro, la quantità di bismuto che reputo più opportuna.
È facile però introdurre o levare anche in seguito delle piccole
porzioni di metallo, in maniera da far sì che questo, quando è
tutto fuso ed assume il suo minimo volume, arrivi ancora nel
cannello graduato del dilatometro.
Allorchè il dilatometro contiene la voluta quantità di bismuto
liquido, allo scopo di permettere a questo di dilatarsi liberamente
quando si solidifica e di ovviare così alla rottura dell’istrumento,
basta usare l’avvertenza di lasciarlo raffreddare lentissimamente,
mantenendo riscaldata la parte superiore del dilatometro; in
questa si conserva allora costantemente del metallo fuso che non
si oppone all'aumento di volume della porzione più bassa che va
solidificandosi, e che obbliga appunto il bismuto liquido che le
sta sopra, ad insinuarsi lentamente nel cannello del dilatometro.
Avviene talvolta che fra il metallo ed il vetro rimangono delle
piccole cavità. Per farle sparire, basta riscaldare tutto l’appa-
recchio ad una temperatura superiore a quella della fusione del
bismuto, e scuotere il dilatometro, comunicandogli degli urti secchi,
per far salire le bollicine di aria o di vapore di idrocarburi ri-
36 GIUSEPPE VICENTINI
maste nel suo interno e ingrandite per il. forte riscaldamento .
Si è allora sicuri che tutte le volte che in seguito si fa fon-
dere il metallo, riscaldandolo anche di qualche decina di gradi
al disopra della temperatura di fusione, quelle bollicine non si
manifestano più.
11 metallo solido che rimane in un dilatometro riempito nel
modo descritto, assume sempre una superficie liscia, il più delle
volte di aspetto speculare, tantochè l’istrumento sembra contenere
del mercurio.
È quasi superfluo accennare, che nella descrizione ora fatta del
metodo col quale riesco a riempire il dilatometro col metallo, ho
tralasciata l’enumerazione di tanti piccoli artifici ai quali bisogna
ricorrere, e che vengono spontanei, quando si voglia porsi in buone
condizioni per le osservazioni che devono poscia ‘venire eseguite.
Una volta preparato il dilatometro, resta da superare un’altra
difficoltà: quella cioè di poterlo assoggettare al riscaldamento in
maniera da fare fondere nel suo interno il bismuto, mantenere
la colonnina metallica rinchiusa nel cannello sempre allo stato
liquido, e quindi in condizione da poter seguire le variazioni di
volume di tutta la massa metallica; e quello che più importa, far sì
che possa venire osservata la sua posizione in qualunque momento
della esperienza. Ecco come ho disposto l’apparecchio riscaldante,
per soddisfare a tali esigenze.
Nel coperchio di un vaso cilindrico di ferro (uno dei soliti
recipienti nei quali viene messo in commercio il mercurio), ho
fatto praticare tre fori: uno centrale, del diametro di 45 mm.,
ed altri due laterali, posti su di uno stesso diametro, ma molto
più piccoli. In questo vaso, riempito di paraffina, introduco, fa-
cendolo passare per il foro maggiore, un tubo di vetro di grande
diametro, chiuso alla sua estremità inferiore, e tale da sporgere
quasi per un decimetro al di sopra del vaso di ferro. Nei due
fori laterali fisso rispettivamente mediante tappi di sovero, un
termometro ed un tubo piuttosto lungo di vetro: il primo desti-
nato ad indicare la temperatura del bagno di paraffina; il secondo
a far condensare i molti vapori di questa, quando è riscaldata
ad elevata temperatura. Fra il tubo centrale di vetro e gli orli
del foro per cui esso passa, caccio a forza delle fibre di amianto
per impedire anche da questa parte, uno sviluppo troppo grande
di vapore di paraffma.
Il cilindro di ferro, che ha grosse pareti, appoggia sopra una
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 37
lampada a gas a molte fiamme; e lateralmente viene pure riscal-
dato da una seconda lampada a gas ad anello, che circonda il
vaso circa a metà della sua altezza.
Per impedire che la rapida affluenza dell’aria circostante abbia
a tenere troppo abbassata la temperatura del vaso di ferro, e per
diminuire anche la grande irradiazione, tutto l'apparecchio è cir-
condato da un ampio cilindro di grossa lamina di ferro stagnato;
dei fori praticati nella sua parte inferiore lasciano accedere l’aria
necessaria alla combustione del gas, e un coperchio di lamina di
rame chiude, ben inteso non ermeticamente, lo spazio anulare
aperto, che rimane superiormente fra il vaso interno di ferro ed
il cilindro esterno ora descritto.
È nel tubo di vetro centrale, immerso nella paraffina del reci-
piente di ferro, ed esso pure riempito della stessa sostanza, che
introduco il dilatometro assieme ad un termometro a mercurio
con pressione interna, e ad un agitatore tenuto in costante mo-
vimento. Mercè tale disposizione il cannello del dilatometro è
visibile in virtù della trasparenza della parte sporgente del tubo
di vetro. Allorquando nelle esperienze mi accorgo che tutto il
bismuto contenuto nel dilatometro è fuso, e che ha raggiunto
per questo, la sua posizione più bassa nel cannello, sollevo o
immergo maggiormente il dilatometro nel bagno interno, cioè
nella paraffina del tubo, in modo che la estremità della colon-
nina di metallo fuso sia appena visibile, e sia quindi maggiore
la parte del cannello, che pesca insieme col serbatoio del dilato-
metro nella parte più bassa del tubo di vetro centrale, che è
circondata dal bagno esterno di paraffina. Siccome la temperatura
della paraffina della parte sporgente del tubo di vetro viene ad
essere eguale a quella della parte immersa per effetto del con-
tinuo rimescolamento prodotto dall’agitatore, ne risulta che anche
il bismuto contenuto nel cannello si mantiene liquido e può se-
guire le variazioni di volume della massa metallica racchiusa nel
bulbo dell’istrumento.
Quando la variazione di volume del bismuto corrisponde ad un
aumento, non è necessaria alcuna precauzione speciale, per cono-
scere la vera posizione della colonnina metallica nell’interno del
tubo sottile; allorchè invece corrisponde ad una diminuzione di
volume, per assicurarmi che essa segue regolarmente i movimenti
della massa principale, ho l’avvertenza di scuotere di tratto in
tratto il dilatometro, oppure di premere lievemente la superficie
libera del metallo fuso con un sottile filo di ferro.
38 GIUSEPPE VICENTINI
Con un simile apparecchio riscaldante, volgendo ogni cura al
mantenimento della costanza della temperatura della paraffina del
bagno esterno, cioè osservando di continuo il termometro immerso
in essa, e regolando opportunamente le fiamme delle due lam-
pade, si può raggiungere nel bagno interno una costanza soddisfa-
centissima, avuto riguardo alla temperatura elevata alla quale si
opera. In nessun caso mi riuscì disagevole conservarla variabile
nell’intervallo di solo uno o due gradi, per 15 a 20 minuti,
tempo, che riconobbi sufficiente perchè il metallo del dilatometro
assumesse la temperatura del bagno. I risultati che comunicherò
in seguito, mostreranno la buona concordanza di valori determi-
nati in condizioni assai differenti.
Ecco come opero per ottenere i numeri che riferirò più innanzi.
Dopo aver riempito il dilatometro con bismuto liquido, ed averlo
lasciato raffreddare con tutte le cautele alle quali ho accennato,
determino il peso P del metallo, valendomi di una bilancia sensibile
al decimo di milligrammo. Noto tale peso, leggo la divisione alla
quale arriva il bismuto nel cannello, e calcolo il volume che esso
occupa nel dilatometro.
È però da farsi una osservazione. Nel momento in cui il metallo
si solidifica nel dilatometro, possiede la temperatura 7 di fusione,
ed il volume da esso occupato è quindi quello che ha il recipiente
di vetro alla stessa temperatura. La lettura che si fa della colonna
di bismuto solido nel cannello deve perciò servire a calcolare il
volume del bismuto alla temperatura 7. Conosciuto questo volume
ed essendosi determinato il peso del metallo, si ha subito la den-
sità D. del bismuto solido alla temperatura di fusione.
Tenendo conto di esperienze fatte fra 0 e 100° sulla dilatazione
del vetro da me adoperato e del modo col quale varia la dilata-
zione del vetro coll’aumentare della temperatura, ho creduto di
poter assumere nei calcoli per coefficiente medio di dilatazione
cubica del vetro fra 0° e temperature prossime a quella della
fusione del bismuto, il valore X—=0,000030. Non lo ho determi-
nato direttamente per ciascun dilatometro allo scopo di rispar-
miare un tempo grandissimo, in causa del numero molto grande di
dilatometri che sono esposti alla rottura durante il loro riem-
pimento col metallo.
I risultati che voglio ottenere, cioè il valore della variazione
della densità del bismuto per effetto del cambiamento di stato, ed
il coefficiente di dilatazione di questo metallo allo stato liquido,
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 39
non possono essere alterati notevolmente da un piccolo errore
nella grandezza del coefficiente di dilatazione del vetro.
Che il bismuto solido nell’interno del dilatometro non abbia
alla temperatura ordinaria un volume eguale a quello del dila-
tometro, lo dimostra il fatto che allorquando il metallo, subito
dopo solidificato continua a raffreddarsi, si fanno generalmente
sentire ogni qual tratto dei crepitii speciali, come se il vetro si
spezzasse. Questi crepitii si rendono ancora più sensibili se si cerca
di accelerare il raffreddamento del dilatometro, avvolgendolo ad
esempio improvvisamente con un panno, e comprimendovelo at-
torno colla mano. Io credo di male non appormi, ritenendo che tali
rumori sieno prodotti dall’improvviso distaccarsi della superficie
del bismuto dalle pareti del dilatometro, quando il primo assume
per effetto del raffreddamento un volume minore di quello del
dilatometro, che è costituito da sostanza il cui coefficiente di dila-
tazione è molto più piccolo di quello del bismuto.
Per determinare la densità del bismuto allo stato liquido,
porto il dilatometro nel bagno di paraffina, e quando il metallo
è tutto fuso, e sono certo che la colonnina liquida del cannello
ha seguito rigorosamente la diminuzione di volume di tutta la
massa metallica, cerco di conservare costante la temperatura del
bagno per un periodo di tempo variabile dai 15 ai 20 minuti.
Durante esso osservo mediante un cannocchiale, e noto, di tre
in tre minuti, la posizione del bismuto nel cannello, la tempe-
ratura del bagno, misurata con un termometro il cui bulbo si
trova vicino al serbatoio del dilatometro, ed a metà della sua
altezza, ed in fine la temperatura media e la grandezza della
colonna sporgente del termometro stesso.
Coi valori delle altezze osservate della colonnina di bismuto,
calcolo la posizione media di essa, corrispondente alla tempera-
tura media ietta sul termometro e corretta per lo spostamento
dello zero e per l’errore prodotto dalla colonna sporgente.
In generale i valori che registro in seguito risultano da espe-
rienze composte di quattro determinazioni; ed ecco come:
Eseguisco una prima determinazione a temperatura prossima
ai 290°; quindi lascio abbassare la temperatura sino presso ai
270° per farne una seconda. Risalgo alla temperatura di 290°
per poi ritornare ai 270°, compiendo così altre due determina-
zioni a temperature pressocchè eguali alle prime. Dei due valori
che ottengo dalle osservazioni fatte separatamente per le due
differenti temperature, prendo rispettivamente la media.
40 GIUSEPPE VICENTINI
Resta per tal maniera determinata la posizione alla quale ar-
riva il bismuto liquido nel dilatometro a due temperature di-
verse # e #. Calcolando il volume del metallo a queste tempe-
rature, e conoscendo il suo peso, ho subito le densità D e D'
del bismuto liquido alle due temperature # e #.
Note le densità D e D', basta ricorrere alla formola
DCP.
ni (#—1)D'-—(t—-7)D
dove 7 indica la temperatura di fusione del bismuto, per avere
il medio coefficiente di dilatazione x del bismuto liquido fra le
due temperature # e #.
Siccome la temperatura # è generalmente presa vicina il più
che è possibile, alla temperatura 7 di fusione del bismuto, così
si può ritenere approssimativamente il valore di « eguale al co-
efficiente medio di dilatazione fra 7 e #'.
Mi è facile allora avere anche la densità D, del bismuto li-
quido, alla temperatura di fusione, la quale mi viene data dalla
espressione
EDI +ta(i-3)].
Ricavata così la densità D, del bismuto liquido alla tempe-
ratura di fusione, ed avendo già ottenuta antecedentemente la
densità D. di esso, allo stato solido, ma alla stessa temperatura
t, posso colla loro differenza calcolare quale è la variazione per-
centuale A che subisce la densità del bismuto nel passaggio dallo
stato liquido allo stato solido; variazione che misura pure quella
del volume nel passaggio inverso, dallo stato solido allo stato
liquido,
Da quanto ho così esposto, si vede che mi sono messo in
condizioni da eseguire delle esperienze che permettono una
esattezza ben maggiore di quella alla quale potevano aspirare
Niess e Winkelmann da una parte, Chandler e Wrightson dal-
l’altra.
Non sarà qui inutile di dire, che alla fine di ogni esperienza
volendo conservare il dilatometro riempito di bismuto e desti-
narlo ad altre serie di determinazioni, è necessario levarlo dal
bagno di paraffina, mentre il metallo è ancora fuso, per lasciarlo
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 41
raffreddare, come già dissi lentamente, e mantenendo fuso il
bismuto del cannello fino alla completa solidificazione di quello
del serbatoio; unico mezzo per schivare la rottura dell’istrumento.
Ecco i valori ai quali sono pervenuto colle mie esperienze, le
quali, per ragioni che appariranno da quanto segue, ritengo utile
dividere in tre serie distinte.
RISULTATI DELLE ESPERIENZE
I Serie.
Le esperienze qui registrate furono da me eseguite con due
dilatometri differenti nel Laboratorio di Fisica della R. Università
di Torino, e rappresentano le prove che ho fatte per vedere se
il metodo corrispondeva allo scopo prefissomi.
Il bismuto adoperato in queste determinazioni era puro; ma
di esso non ho potuto determinare la densità alla temperatura
ordinaria; il che avrebbe servito ad indicare a un dipresso il
suo grado di purezza. Di questo bismuto non ho nemmeno de—
terminato con apposite esperienze la temperatura di fusione. Sic-
come però la temperatura minima alla quale ho potuto osservarlo
allo stato liquido nel dilatometro, mi risultò di 268°, così tengo
questo numero come un valore molto probabile di 7.
Do anzitutto il significato dei simboli che qui sotto adopero,
e che in parte sono già noti.
W.) rappresenta il volume del dilatometro a 0°, fino alla di-
visione n» del cannello;
w indica il volume di una divisione del cannello del dilato-
metro a 0°;
Pm) rappresenta il peso del bismuto, che allo stato solido riempie
il dilatometro sino alla divisione #. del cannello ;
t e t sono le temperature alle quali vengono determinate le
densità
D e D' del bismuto liquido;
42 GIUSEPPE VICENTINI
D. rappresenta la densità del bismuto solido alla temperatura
di fusione e
D. la sua densità allo stato liquido ed alla stessa temperatura ;
a è il coefficiente medio di dilatazione del bismuto liquido, per
l'intervallo di temperatura da t a #;
A indica la variazione procentuale che avviene nella densità
del bismuto nel passaggio dallo stato liquido allo stato
solido.
DILATOMETRO I.
Wo — 6,3788 cm? i Nb D'ZRO0Z1
w == ALITO i 20405 D'= 9,9965
Pay =64,3840 g.
D.= 9,711 a=0,000108
D;'=0025 fps
‘ DiLAatoMETRO II.
Wy= 801027 cm t=271°,8 D=10,031
w = 0,00794 » — 294,8. D'=10,004
Pg =81,2610 g.
.= 9,712 «=0,000118
— 10,035 A=8,22
I numeri che qui sopra si riferiscono alle densità alle due
temperature # e #, rappresentano le medie dei valori ottenuti fa-
cendo tre determinazioni alla temperatura # e due determinazioni
alla temperatura #; e ciò per ambidue i dilatometri.
II Serie.
Le esperienze che si trovano raccolte in questa serie, come
quelle della successiva, le ho eseguite nel Laboratorio di Fisica
della R. Università di Cagliari. Queste furono fatte impiegando
del bismuto del commercio, somministrato come puro. Di esso
determinai la temperatura di fusione, la quale, come media di
parecchie determinazioni, mi riuscì eguale a 260°,4, La densità
di questo bismuto, alla temperatura ordinaria risultò eguale a
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 43
9,890; valore troppo elevato per poter ritenere il metallo ve-
ramente puro. Ecco i risultati avuti :
DiLaTtoMETRO III.
Wi = 4,210 cm’ t=271°,0 D=10,057
w = 0,00249 » #—288,8. D'=10,038
477410 \g.
— 9,772 a=0,000108
CIVITA
AS 7 ro 10087
Wia=: 48142. cmî i 7
t SOS D'=10,040
w = 0,00249 »
Pin =48,8671 g.
Do: 9546 a=0,000118
104074 IERT=2197
DIiLATOMETRO V.
Wes, = 4,7558 cm? t—- 269,6 D=:10,059
w 0700252 >» t#—-290 ,3 D'=10:034
P(612) =48,2539, g.
DI I98765 a=0,000121
TRA =33503
DiLATOMETRO VI.
Wi. = 48403 cmî (026555! 0 D={10098
w = 0,00252 » => 29306 D'= 10,023
Pin) =48,9691 g.
D_ = 95750 a=0,000124
DI: 40,06% pA=812
III Serie.
Il dubbio che le impurità del bismuto adoperato nelle ante-
cedenti esperienze potessero avere una influenza sensibile sul fe-
nomeno studiato, mi spinse a ripetere le prove con bismuto puro.
Devo alla gentilezza del professore G. Missaghi, direttore del Labo-
ratorio di Chimica di questa Università, se ho potuto disporre
44 ‘ GIUSEPPE VICENTINI
di una certa quantità di bismuto veramente puro, da lui stesso
preparato.
Tale bismuto ha la densità di 9,804, a 24°,6, riferito al-
l’acqua come unità, alla stessa temperatura. Il valore medio della
densità del bismuto in base alle determinazioni dello Schroder
e del Matthiessen (1) è infatti 9,80.
La temperatura di fusione dello stesso bismuto, mi risultò
eguale a 270°,9, con un termometro a mercurio (a pressione
interna di gas), il quale alla temperatura di 238° era stato
confrontato con un termometro ad aria. La temperatura di fu-
sione del bismuto fu trovata dal Person con un termometro ad
aria, eguale a 266°,8, e con un termometro a mercurio 270,5.
La stessa temperatura determinata dal Rudberg è 268°,3 (2).
DiLratoMETRO VII.
Wi,g= 47926 cm t=276°7 D=9,9935
w = 0500249 i 3000) D'= 9,9674
Proiy= 484548 &
D.=:I6%1 es 000112
D..=10,000 A 329
DiratomeTRO VIII.
Wa = 41965 cm? F= 971,8 0A
w = 0,002498 » i 289 D'= 9,995
ANSE
D.= ‘9,688 a=0,000112
D°=10,0160C£A=5532:
Raccolgo qui presso in una sola tabella i risultati ottenuti
colle varie sorta di bismuto; e calcolo per ognuna di esse i va-
lori medii dei risultati avuti coi singoli dilatometri.
Nella prima colonna sono indicati i numeri che contrassegnano
i dilatometri impiegati; nella seconda la temperatura 7 di fu-
sione del metallo studiato, e nella terza la sua densità D alla
temperatura ordinaria. Nelle due successive colonne vengono re-
gistrati i valori D, e D. delle densità del bismuto solido e li-
(1) (2) LanpoLt und BòrnstEIN. — Physikalisch-Chemische Tabellen.
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 45
quido alla temperatura di fusione. Sotto A si hanno i valori della
variazione procentuale della densità del bismuto nel passaggio
dallo stato liquido al solido ; ed infine sotto 4 il medio coefficente
di dilatazione del bismuto liquido fra 7 e 290° allo incirca.
Eni Z608°
9,711 | 10,025) 8,13 0,000108
10,035] 3,22 0,000118
bl
——
Eco
4
(a
DO
|
Valori medi. | 9,7115| 10,030) 3,18 0,0001138
|
INI. Logge ras 9,772 | 10,069) 2,96 0,000108
IV. | 9.776 | 10,074] 2,97 | 0,000118
V. | 9,765 | 10,070 3,03 | 0,000121
VI | 9 |
,750 |10,064| 3,12 0.000124
Valori medi. | 9,766 | 10,069) 3,02 0,000118
|
Wieche2:700,9 | 9,804 | 9,671 | 10,000) 3,29 0,000112
VILE 9,683 | 10,016) 3,32 0,000112
Valori medi. | 9,677 |10,008| 3,305 | 0,000112
Se si considerano i valori che danno la densità D. del bi-
smuto solido alla temperatura di fusione, si vede che sono pres-
sochè eguali per la prima e per la terza qualità di metallo; i
valori medi essendo rispettivamente 9,71 e 9,68. Anche la va-
riazione procentuale A della densità, che ha luogo all’atto del
cambiamento di stato, è di poco diversa per queste due sorta di
bismuto; in fatto per la prima qualità si ha A = 3,2, e per
la seconda A = 3,3. Quanto al coefficiente di dilatazione « è
da considerarsi assolutamente eguale nei due casi.
46 GIUSEPPE VICENTINI
Il bismuto impiegato nella seconda serie, mostra invece di
comportarsi diversamente da quello adoperato nelle altre espe-
rienze. Come ho già notato esso possiede una densità maggiore,
ed i valori di A (3,0) e di 2 (0,000118) sono alquanto diversi
da quelli ottenuti per le altre qualità di metallo.
Volendo stabilire, in seguito ai risultati delle mie esperienze,
dei numeri che diano la densità del bismuto tanto liquido che
solido, alla temperatura di fusione, nonchè il coefficiente di di-
latazione di questo metallo allo stato liquido, io stimo preferibili
i risultati della terza serie di esperienze, come quelli eseguiti col
bismuto perfettamente puro; essi sono i seguenti:
Densità del bismuto solido riferita all'acqua come
unità, alla temperatura di 24°... | «0. . D=9/804
Densità del bismuto solido alla temperatura di
fusione: 4 - . D,= 9,68
Densità del lo gal ra i ui
rabura . |. 1 DE=T9,01
Variazione DCO della Adnsità i) paesaghio
dallo stato liquido al solido . . . A'=9d3B
Coefficiente medio di dilatazione del bismuto O 1
fra” T ‘e‘’3005S 1% (800, E VORO RT
Nelle esperienze fatte colle diverse qualità di bismuto, ho ri-
scontrato che quando si lascia raffreddare lentamente il metallo
fuso, esso incomincia ad aumentare di volume solo alla tempe-
ratura di fusione. Il bismuto assume quindi la sua massima den-
sità allo stato liquido ed alla temperatura di fusione.
Se in base al valore di A registrato più sopra si calcola l’in-
fluenza della pressione sulla temperatura di fusione del bismuto,
si trova che per l'aumento di pressione di un’atmosfera la sua
temperatura di fusione si abbassa di 0°,0034,
Confronto dei risultati ottenuti
con quelli di antecedenti determinazioni.
È ora utile fare un paragone dei risultati che ho ottenuti
con quelli degli altri esperimentatori.
Niess e Winkelmann, seguendo il metodo che ho descritto al
principio del presente scritto, fecero le loro determinazioni ope-
rando sopra un chilogrammo di bismuto fuso, nel quale intro-
VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 47
ducevano dei pezzi dello stesso metallo zavorrati nel loro in-
terno con pezzi di platino.
Il metodo seguito dai due fisici presenta, non v'è dubbio,
delle incertezze per quanto si riferisce alla temperatura della
massa fusa, e, quello che più importa, anche alla vera causa del
fenomeno del galleggiamento del metallo solido sul fuso. Tut-
tavia, i due sperimentatori hanno trovato per il bismuto dei ri-
sultati che si accostano a quelli ai quali io pure sono pervenuto.
Per questo metallo hanno stabilito colle loro esperienze, che
Fia
il valore del rapporto D delle densità del bismuto liquido e
solido alla temperatura di fusione è compreso fra i limiti asse-
gnati dalla disuguaglianza
Dis
ile ala D <1,0497.
n
Se io calcolo lo stesso rapporto coi valori che ho determinato
per D.=D., ottengo
DD
e 24054
D è]
T
Non è però inutile osservare che i due fisici tedeschi hanno
operato su bismuto impuro, perchè alla temperatura di 13° esso
aveva la densità 10,20, che è molto lontana da quella 9,80
del metallo puro.
Chandler e Wrightson hanno studiato del bismuto che alla
temperatura ordinaria aveva la densità 9,82.
Coll'’impiego dell’oncosimetro hanno trovato per la densità del
bismuto liquido il valore 10,055; numero alquanto superiore a
10,01 che è quello da me determinato. La differenza però si
mostra in un senso che è giustificato dalla maggiore densità del
bismuto solido studiato dai due fisici inglesi.
Il numero 3,3 che secondo le mie esperienze dà la variazione
procentuale della densità del bismuto al cambiare di stato di
aggregazione, non può venire confrontato col numero 2,3 dato
per la stessa variazione da Chandler e Wrightson, perchè essi
non hanno confrontato le densità del bismuto liquido e del bis-
muto solido alla stessa temperatura.
Dal Laboratorio di Fisica della R. Università di Cagliari, luglio 1886.
48 ANGELO BATTELLI
Sull’effetto Thomson, Studio sperimentale di ANGELO BATTELLI.
W. Thomson nella sua teoria meccanica delle correnti ter-
moclettriche (*) fu indotto ad ammettere, che in una coppia ter-
moelettrica, oltre alle forze elettromotrici esistenti ai punti di
contatto dei due metalli diversi, esista pure una forza elettromo-
trice in ogni sezione di ciascun metallo, quantunque omogeneo,
dovuta soltanto alle differenze della temperatura nello stesso me-
tallo. Dopo una lunga serie d’ingegnose ricerche, che sono mi-
nutamente descritte nelle Philosophical Transactions dell’anno
1856, il Thomson riescì a porre fuor di dubbio l’ esistenza di
quella forza elettromotrice.
Dopo di lui, nel 1867, Le Roux (**) pubblicò più estese e
complete esperienze su tale soggetto, eseguite con metodo diverso
e più semplice.
Non istarò a descrivere le esperienze di Le Roux perchè si tro-
vano ben riportate nei migliori trattati di Fisica, nè trascriverò
i valori relativi dell’effetto Thomson da lui ottenuti pei vari me-
talli, perchè si trovano nei medesimi trattati.
Dopo Le Roux, i signori John Trowbridge e Charles Bingam
Penrose (***) studiarono l’effetto Thomson sul carbone e sul ni-
ckel, specialmente su quest’ultimo, per vedere se l’effetto rima-
nesse alterato dalla magnetizzazione.
Ma Le Roux tentò nella memoria sopracitata di ottenere an-
che una misura in valore assoluto dell’effetto Thomson, usando
a tal uopo la lega di bismuto e di antimonio detta bismuto di
Becquerel. Egli ammetteva che, dentro certi limiti, le variazioni |
di temperatura fossero proporzionali al calore sviluppato; e trovò
così che nel bismuto di E. Becquerel la variazione di tempera-
tura dovuta all’effetto Thomson, per la corrente da lui adoperata,
era 14, dell’effetto calorifico Joule. Mettendo allora l'asta in un
750
calorimetro, e facendo passare la stessa corrente, misurava le ca-
(*) Proceedings of the R Society of Edinburg, dec. 1851.
(**) Ann. de Chimie et de Physique, 4"* série, t. X, p. 201.
***) Philosophical Mag., vol. XV, s. V, pag. 440 (1882).
SULL'EFFETTO THOMSON 49
lorie sviluppate nell’asta e da queste deduceva il valore dell'effetto
Thomson. Come vedesi, il metodo di Le Roux non consentiva in
questa misura una grande precisione; perciò ho creduto interes-
sante di intraprendere nuove ricerche su tale argomento.
Ho scelto a quest’'uopo fra i metalli il cadmio, perchè è fra
quelli che presenta un effetto più grande, e tra quelli la cui massa
è più omogenea. Ho formato due aste di cadmio puro, perfetta-
mente uguali, della lunghezza di 30 cm. e del diametro di 5 mm.
Queste aste erano ricoperte nel loro mezzo per la lunghezza
di 5 cm. con una vernice isolante « base di coppale, la quale
resisteva a temperature superiori ai 200°, e alle stesse tem-
perature proteggeva perfettamente le aste dal mercurio in cui
dovevano essere immerse. Siccome però ad alta temperatura fa-
cilmente si screpolava, così, appena data la prima mano di
vernice, ricoprivo il tratto con un nastro sottilissimo di seta. In
tal modo la vernice riempiva gli interstizi della tela, e si evitava
quindi ogni pericolo di screpolatura, rimanendo pur sempre sot-
tilissimo lo strato isolante. Nell’istesso tempo ho verniciato pure
un'estremità di ciascun’asta, lasciando scoperta l’altra estremità.
Le due aste passavano poi longitudinalmente in due vaschette di
lamina sottile di ferro perfettamente uguali, lunghe 4 cm. lar-
ghe 0°*,8 ed alte 1°,5 le quali occupavano i tratti di mezzo
delle aste. I fori per cui passavano le aste erano ermeticamente
chiusi con piccoli anelli di sughero immasticati con biacca, perchè
nelle vaschette dovea porsi del mercurio. Siccome mi era ne-
cessario conoscere in ogni asta le temperature dei punti corri-
spondenti alle due estremità della vaschetta, così in ciascuno di
questi punti avevo fissata una saldatura di una coppia termoelettrica
formata da fili sottili di ferro e pakfong, stringendola fra due strati
di vernice ; mentre l’altra saldatura veniva tuffata in un bicchiere
pieno di petrolio, in cui era immerso un termometro. I fili di queste
coppie potevano immergersi a piacere in due bicchierini di mercurio,
i quali erano in comunicazione con un galvanometro ordinario (G.
Le due estremità verniciate delle aste penetravano per 5 cm.
in un recipiente A ove si poneva del ghiaccio fondente, e le al-
tre due estremità penetravano in un altro recipiente B, ove per
mezzo di vapori si otteneva pure una temperatura costante. (Que-
ste ultime estremità erano congiunte insieme, per mezzo di due
torchietti, da un grosso filo di rame; mentre altri due torchietti
fissati dall'altra parte delle aste, ove cominciava la vernice, ser-
vivano a metterle in comunicazione coi reofori di una pila.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 4
50 ANGELO BATTELLI
In ciascuna delle due vaschette ho posto una uguale quan-
tità di mercurio, in modo che giungesse a coprire le aste e vi
ho poi tuffate rispettivamente le due estremità di una pila termo-
elettrica formata di due coppie ferro-pakfong, avendo avuto cura
di coprirle colla vernice e col nastro di seta che avevo adoperato
per le aste di cadmio. I fili della pila erano congiunti con un sensi-
bilissimo galvanometro di Thomson, del quale nel corso di queste
esperienze di tratto in tratto ho determinato la sensibilità, ed ho
trovato come media di molte determinazioni, che per la differenza
di un grado fra le temperature delle estremità della pila, si otte-
neva nella scala del galvanometro una deviazione di 942 divisioni.
Si trovavano inoltre nelle vaschette due agitatori che erano
formati di lamina sottilissima di ferro, affinchè, quantunque aves-
sero piccola capacità termica, potessero generare nella massa del
mercurio una grande agitazione.
Era necessario per le mie esperienze conoscere con esattezza
l'equivalente in acqua di ogni vaschetta insieme col mercurio colla
punta della pila termoelettrica, coll’agitatore e col tratto di asta
che verano contenuti. Era necessario inoltre che il valore del-
l'equivalente fosse lo stesso per ciascuna vaschetta. Perciò ho
fatto dapprima le rispettive determinazioni dei due valori, ed ho
aggiunto poi nella seconda vaschetta quella piccola quantità di
mercurio che era sufficiente per rendere il suo equivalente uguale
a quello della prima.
Per fare queste determinazioni, ho usato un’asticella di ferro,
unita per mezzo di un filo pure di ferro ed un bastoncino di legno.
Collocavo l’asticella in una stufa di Bunsen, nella quale cir-
colavano vapori d’acqua bollente. Quando l’asta di ferro ne aveva
assunta la temperatura, accostavo la stufa alla vaschetta e per
mezzo del bastoncino di legno trasportavo rapidamente l’asta di
ferro dalla stufa nella vaschetta e la tenevo immersa nel mer-
curio, per mezzo dello stesso bastoncino, e frattanto ponevo in mo-
vimento l’agitatore.
Nell’istesso tempo un’altra persona osservava il galvanometro
di Thomson, a cui per queste determinazioni avevo applicata una
derivazione, essendo troppo intensa la corrente che doveva attra-
versarlo rispetto alla sua sensibilità; e quindi lo avevo per questo
caso anche nuovamente graduato.
Siccome si era cercato precedentemente con esattezza il ca-
lore specifico dell’asta di ferro adoperata, così avevo tutti i dati
per calcolare gli equivalenti in acqua delle due vaschette.
SULL'EFFETTO THOMSON tip
Resi poi uguali nel modo sopra indicato i due equivalenti, il
loro comune valore ricavato da parecchie determinazioni, mi ri-
sultò uguale a 155", 4.
E s'introdusse nei calcoli sempre questo valore determinato
alla temperatura dell'ambiente, quantunque nelle esperienze delle
misure dell'effetto Thomson, la temperatura delle vaschette fosse
più elevata di quella dell'ambiente. Poichè, secondo le esperienze
di Winkelmann (*), il calore specifico del mercurio può ritenersi
costante entro certi limiti di temperatura; e secondo esperienze
che si stanno facendo in questo laboratorio di fisica, le varia-
zioni del calore specifico del ferro e del cadmio sono così piccole,
da potersi nel mio caso affatto trascurare.
Ora, se si chiude il circuito della pila idroelettrica, quando
nelle aste il passaggio del calore è allo stato permanente, noi
avremo in ambedue le vaschette un effetto calorifico; e precisa-
mente nell’una avremo un effetto a®-+d%, nell'altra aè@—di,
essendo ? l’intensità della corrente, a e d due costanti; la diffe-
renza ci dà 207, che è il doppio dell’effetto Thomson per quella
data intensità di corrente. E siccome le due vaschette hanno lo
stesso equivalente in acqua, così il valore di 25 si otterrà
senz'altro moltiplicando tale equivalente per la differenza di tem-
peratura indicata dalla pila termoelettrica.
Per quanto mi studiassi di avere due aste di cadmio ben
omogenee, tuttavia non potevo lusingarmi di essere riuscito per-
fettamente nell'intento; e siccome le piccole eterogeneità che po-
tevano esistere, davano luogo ad effetti Peltier, che alteravano il
valore dell’effetto Thomson, così ho cercato di toglierne l’influenza,
seguendo in questo il metodo di Le Roux. Cioè dopo aver fatta
nna prima serie di terminazioni, invertivo le aste, ponendo nei
vapori le estremità che prima erano nel ghiaccio, e viceversa.
Allora se si rappresenta con e il valore dell’effetto Thomson
in ciascuna delle due aste, con e la somma di tutti gli altri ef-
fetti termici invertibili nell'asta AB, e con e' la stessa somma
relativa all'asta A' B,
A 1° posizione BB B 2° posizione A
vapo|ri ghiaccio vapo|ri ghiaccio
A' B' Bb’ A'
(*) Poggendorf's Ann., CLIX, 152 (1876).
52 ANGELO BATTELLI
si ottiene. con l’apparecchio nella prima posizione,
in AB l’effetto e+e Fer anirasi
gio a SRI della corrente
effetto indicato dalla pila immersa nelle vaschette =2c+e+ e.
E così si ha:
in AB Veffetto —e—-e per l’altro
DSi ; senso
» AB » +cs+e \della corrente
effetto indicato dalla pila immersa nelle vaschette =—- 2e—e— e.
La differenra dei due effetti, o l’effetto totale è
EEE e
Invece con l'apparecchio nella 2° posizione si avrà un effetto
totale dò — dieeBe=9 e.
E facendo la somma dei due numeri è e 0' si otterrà:
Lo =Be
Questo procedimento è per certo molto esatto nel mio caso,
in cui le eterogeneità sono piccolissime.
Non essendo però unico scopo del mio lavoro l’ ottenere la
misura dell’effetto Thomson in valore assoluto, ma anche il ri-
cercare come esso varii al variare dell'intensità della corrente e
della temperatura, ho diviso lo studio in due parti:
1° Determinazione dell’effetto Thomson per correnti di di-
versa intensità.
2° Determinazione della legge, secondo la quale, al variare
della temperatura, varia l’intensità del fenomeno.
Ho fatto quindi le prime esperienze facendo bollire acqua
nel recipiente B, così che le estremità congiunte delle due aste
erano avvolte dai vapori, ai quali era permessa l'uscita attraverso
un foro del coperchio. In una esperienza preliminare, dopo alcune
ore da che i vapori si sviluppavano, ho cominciato ad agitare il
mercurio nelle vaschette, e quando il passaggio del calore ebbe
raggiunto lo stato permanente, ho determinate le temperature esi-
stenti nelle aste alle estremità delle due vaschette, immergendo
successivamente i fili delle rispettive coppie termoelettriche nei
SULL’EFFETTO THOMSON 58
due bicchierini di mercurio che conducevano al galvanometro or-
dinario G. Poi ho fatto passare attraverso alle aste, per l’inter-
vallo di 10 minuti primi, una corrente d’intensità uguale a quella
che volevo usare per le prossime determinazioni. Alla fine di que-
sto intervallo ho determinato nuovamente le temperature esistenti
nelle aste alle estremità delle due vaschette: e siccome le varia-
zioni erano molto piccole e sensibilmente uguali in ambedue le
aste, così potevo ammettere che, quando la corrente fosse passata
per 20 minuti (come io facevo poi nelle successive determinazioni)
l’effetto ottenuto in questo intervallo fosse lo stesso, che se io
avessi mantenute nelle aste le temperature di quelle sezioni sem-
pre uguali a quelle determinate dopo 10 minuti da che passava
la corrente.
Nelle susseguenti esperienze, le quali servivano direttamente
alla misura dell’ effetto Thomson, lasciavo anche sviluppare per
alcune ore il vapore, agitando il mercurio nelle vaschette, e quando
si vedeva la macchia di luce del galvanometro a riflessione suffi-
cientemente ferma sulla scala, determinavo pure le temperature
esistenti nelle aste alle due estremità delle vaschette, in modo
che esse fossero non solo rispettivamente uguali nelle due aste, ma
che inoltre in tutte le esperienze queste temperature si mante-
nessero uguali a quelle osservate prima del passaggio della cor-
rente, nell’esperienza preliminare sopracitata. E ciò facendo pene-
trare di più o di meno, secondo il bisogno, l’una o l’altra asta
nel recipiente A o nel recipiente 5.
Allora si cominciava ad osservare di 30 in 30 secondi la
macchia di luce sulla scala del galvanometro per lo spazio di 20
minuti primi, seguitando sempre a mantenere agitato il mercu-
rio delle vaschette. Dopo ciò, si faceva passare la corrente attra-
verso alle aste per altri 20 minuti; e mentre si leggeva di 30
in 30 secondi la posizione della macchia di luce sulla scala del
galvanometro Thomson, si notava pure di minuto in minuto, per
mezzo di un terzo reometro già graduato, l’intensità della cor-
rente che attraversava le aste. E finalmente, interrotto il circuito,
sì continuava ad osservare di 30 in 30 secondi la posizione della
macchia di luce sulla scala per lo spazio di altri 20 minuti
primi, non avendo mai interrotto, durante tutta l’esperienza, il
movimento del mercurio nelle vaschette.
Così arrecando la dovuta correzione allo spostamento pro-
dotto sulla scala nell’intervallo del passaggio della corrente me-
54 ANGELO BATTELLI
diante gli spostamenti ottenuti in uguali intervalli prima e dopo
il passaggio, potevo ricavare la deviazione totale. della macchia
sulla scala, la quale mi dava la variazione di temperatura av-
venuta fra le due estremità della pila termoelettrica. Di poi in-
vertivo la corrente, e ripetevo l’esperienza.
Fatto così un certo numero di determinazioni, invertivo le aste,
avendo cura di verniciare le estremità che nelle esperienze pre-
cedenti erano scoperte e di scoprire quelle che erano verniciate.
La corrente che si faceva passare attraverso le aste era gene-
rata da due coppie Bunsen. |
. Nella seguente tabella si trovano i risultati di sez esperienze
fatte colle aste nella prima posizione e di altre sei fatte colle
aste nella seconda posizione. Nella colonna controsegnata con N,
vi sono i numeri d'ordine delle esperienze; nella colonna # le in-
tensità della corrente in unità del sistema C. G. S.; nella co-
lonna 4 le deviazioni osservate sulla scala a cui si è apportata
la debita correzione; nella colonna @ le differenze di tempera-
tura calcolate fra le due vaschette; nella colonna L il prodotto
di tale differenza per l'equivalente in acqua di una vaschetta con
ciò che vi è contenuto.
In ciascun'asta le temperature dei punti alle due estremità
della vaschetta, dopo dieci minuti che passava la corrente, erano
in ogni esperienza di 63°,5 e di 42°,5.
Apparecchio nella prima posizione.
ni i rt ! ui ? Ser H
1 0,31 11 0,0113 OLI de
9 0,30 TC e e 0,186 |8
3 0,3 10 | 0,0106 0,163 | £
4 0,29 11 | 00118 0,174 o
5 0,381 9 | 0,0095 0,146. | .S
6 0,31 13 | 0,0188 0,212 | è
media 0,303 - | cei 0,176
SULL EFFETTO THOMSON
(979)
Segue Apparccchio nella prima posizione.
N i ge, pi L |
della scala 5
7 0,30 to eo Sb le=S0L212
8 0,30 213 |-0,0138 | —0,212 {8
9 0,32 uo li 00 4005105168 A
10 0,30 LIGA PT ee va
11 0,31 a se i 938 Ki
12 0,29 impre goa Limena
media | 0,303 = Dee — 0,189
Apparecchio nella seconda posizione.
1 0,28 | 12 0,0122 0,186
9 0,33 11 0,0113 OTen Es
3 0,30 8 0,0085 0,129 | a
4 0,31” 10 0,0106 0,163 \ &
5 0,32 8 0,0085 (6 2/0 Al È SE
6 0,32 9 0,0095 0,146 | =
media 0,310 — — 0,1545 |
7 0,29 — 14 |- 0,0148 | — 0,228 |
8 0,29. |:.,-12,,|-0,0122... —0,186 ..].g
9 pegpueli cda'fg | 0,0138 0,212 | ci
10 0:90; |A, -0,0148, li, — 0,228 \E
11 rag: iohogg oliepgsn buco gta i È
12 0.920rh 110 ;| — 00106 .l —104163 \
media | 0,298 —. | _ — 0,213 )
56 ANGELO BATTELLI
In queste tabelle ho dato il segno (—) ai valori di A, @ e
L nel caso in cui la corrente è nel 2° senso, per indicare che
allora si ha un effetto opposto a quello che si ha col 1° senso
della corrente.
Nel fatto, se si prende in considerazione una delle due aste, si
ha sviluppo di calore, quando la corrente elettrica va nello stesso
senso della corrente termica, e assorbimento nel caso contrario.
Se rappresentiamo con L,, L,, Ly, L, i successivi valori medii
di L in queste quattro serie di esperienze, per quello che si è
detto antecedentemente, si deve avere
Sele IS A
indicando con e, il calore sviluppato corrispondentemente all’effetto
Thomson, mentre la corrente : passa nell’asta per 20 minuti primi
fra due sezioni che differiscono di 21° nella temperatura.
E perciò il calore sviluppato per tale effetto nell’asta in un
secondo, mentre l’unità di corrente passa fra due sezioni che dif-
feriscono fra loro di 1° nella temperatura, sarà
da LTL EOLO
84.21. 1200
Ora, il valore medio di 7 è uguale a 0,303 per cui avremo
0 ; o
0-17 6 +0,1893R0}15-49 #0 28480000]
8x0,303x21x1200
3G=
Le Roux, nella memoria sopra citata sperimentando sul pak-
fong, ha trovato che l’effetto Thomson è molto prossimamente
proporzionale all’intensità della corrente. Haga (*) in uno studio
recente sull’effetto Thomson nel mercurio ha trovato anche per
questo metallo sufficientemente verificata tale proporzionalità.
Nell’eseguire questa verificazione per il cadmio, usando cor-
renti di diversa intensità, io ho avuto cura che in ogni caso men-
tre il passaggio del calore era allo stato permanente, e dopochè
la corrente passava per 10 minuti primi le temperature relative
alle due estremità delle vaschette, fossero in ogni asta di 63°,5
e di 42°,5 come nelle esperienze precedenti. Cosicchè sperimen-
tavo in condizioni al tutto identiche alle primitive.
Le tabelle seguenti dànno i risultati delle esperienze.
(*) Ann. de l École Polytechnique de Delft. 10° liv., pag. 145 (1884).
————_> ———————————_——_——_—_—__—_——_—__—_lbl"r.._________-— |], -rF_—_—_—_—_—_—_—_—_____- “*%
media
Uto» 0 ID
(er)
media
SULL’ EFFETTO THOMSON
Apparecchio nella prima posizione.
A
ip divisioni
della scala
— 17
— 18
— 18
Ù)
in gradi
— 0,0180
ZIO O]
SAI
— 0,0244
— 0,0233
— 0,0233
0,5245
57
(dere o fe — se Se a °° _ _ _—eekss&_,_____——r—
osuaos ol [eu 27 uaJ.109
A)
— 0,294
— 0,294
— 0,376
— 0,359
— 0,359
- 0,3265.
Apparecchio nella seconda posizione
0,52
0,52
0,54
0,54
0,51
0,50
0,522
21
20
18
22
18
0,0223
0,0212
0,0191
0,0233
0,0191
0,0223
0,333
0,326
0,294
0,359
0,294
0,333
0,323
osues 6 [2U 07uaI1109
— i, e
So...
osues pj ]2U 97uaII09
—
58 ANGELO BATTELLI
Segue Apparecchio nella seconda posizione.
Ù | din ia Dai ET |
7 0,50 + d'6 il 20008 - 0,260; |
8 0,50 248 ||.2@/0191 0,294 | S
9 0,52 10.) 00008 — 0,309 È
10 0,49 —-22 |—-0,0233 — 0,359 ) £
11 0,50 = 19.1 |0,020% — 0,309 È
12 0,49 = 46.11 00160 02600 5
| media 0,50 — —. — 0,2985 ,
Donde si ricava il valore
9
pl PB Rot 033694 298 +4: 2088 — 0,000012185.
8x0,518x21x1200
Il valore ottenuto per e in questo caso è molto prossimo al
precedente, se si considerano le difficoltà di questi esperimenti; e
può quindi ritenersi che, variando l'intensità della corrente fra
0,3 e 0,5 unità assolute (C. G. S.), resti avverata la propor-
zionalità fra la corrente stessa e l’effetto Thomson.
Fu aumentata ancora l'intensità della corrente, e si otten-
nero i seguenti risultati: i
Apparecchio nella prima posizione
| N | n in O. e rp L ca ee
| della scala n Sia
1 0,81 25 25 | (00865 dia ,0265 | © 0,408: |
2 0,80 27 0,0287 | © 0,442 | 5
3 0,84 29 00233 0,860, | È
4 0,85 24 0,0255 0,393 ) È
5 0,84 23 0,0245 0,877 J
6 0,81 22 0,02338 |: 0,359 Ì
media 0,825 _ — 0,390 i
SULL'EFFETTO THOMSON
Segue Apparecchio nella prima posizione.
in RA
della scala
0,79
0,79 E 2 26
0;85, .lir24
0,85 — 29
0,83 | -:25
paid | 33
(ICE nr
0,80 92
0,80 23
0,79 21
0,78 27
0,81 23
0,82 20
0,80 nia
0,82 — oa
0,83 MA
0,80 _ 23
0,79 — 22
0,80 __ 24
0,80 _ 28
0,807 RR
0
in gradi
— 0,0276
— 0,0276
— 0,0255
— 0,0308
— 0,0265
— 0;0245
0,0233
0,0245
0,0223
0,0287
0,0245
0,0212
— 0,0223
— 0,0255
-— 0,0245
— 0,0233
— 0,0255
— 0,0245
L
-—- 0,425
— 0,425
— 0,393
— 0,474
— 0,408
— 0,377
—- 0,417
Apparecchio nella seconda posizione.
|
= e pe
osuas pi [RU 9} uaI109
osuas sj [9U 9) ua1109
osuas 9% [PU e}ue1109
60 ANGELO BATTELLI
Da cui
0,390+ 0,417 +0,371+ 0,374
a i —0,000009469.
8x0,812x21x1200 i +
Questo valore di e è alquanto discosto dai precedenti; ma
deve considerarsi che nel presente caso i disturbi che potevano
aversi nelle esperienze a cagione del calore Joule, sono ingranditi
d’assai pel forte aumento nell’intensità della corrente; il che ap-
parisce anche manifesto dalla minore concordanza dei singoli ri-
sultati in ciascuna tabella. Perciò mi pare che anche a questo
caso sì possa estendere la proporzionalità fra l’intensità della cor-
rente e l’effetto Thomson.
Per misurare l’effetto Thomson a temperature maggiori, mi
era necessario mettere nel vaso B un liquido che bollisse a tem-
peratura più elevata. Ho scelto per questo del petrolio che era
stato precedentemente distillato; e affinchè il suo punto d’ebol-
lizione non potesse variare, ho saldato al recipiente B un coper-
chio, a cui era adattato un tubo refrigerante, nel quale entrando
il vapore del petrolio, veniva condensato e ricadeva quindi nel
recipiente.
In queste nuove condizioni ho fatto esperienze usando tre cor-
renti successive della stessa intensità di quelle usate nelle condi-
zioni anteriori: e facendo passare la corrente pure per lo spazio
di 20 minuti primi.
Si avevano in ciascun’asta nei punti corrispondenti alle due
estremità della vaschetta, le temperature di 124°,1 e 92°,7, dopo
10 minuti primi dacchè passava la corrente.
Ecco i risultati delle esperienze :
GUT pull 00 LO n
6
media
media
SULL'EFFETTO THOMSON 61
Apparecchio nella prima posizione.
io |a |ta 4 |
0,30 19 0,0202 0,311
0,32 18 0,0191 0,294 fs
0,31 20 0,0212 0,326 È
0,30 17 0,0180 0,277 5
0,30 18 0,0191 0,294 | =
0,28 19 0,0202 0311, 18
0,303 <A 2a 0,302
0,32 Sita e 00208 VE
0,32 Calia e
0,31 —22., ll 100222 — 0,359 È
0,2 fici — 02008, i) ai \ a
0,27 2g t9|i2=09 0a Pico 0od pile
0,31 ili 100 AVI | =
0,303 di ai —0,813
Apparecchio nella seconda posizione.
0,31 22 0,0233 0,359 ©
0,31 16 0,0169 0,260 |s
0,30 19 0,0202 0,311 5
0,30 18 0,0191 0,294 \&
0,29 22 0,0233 05959. | "E
0,30 19 0,0202 os11 |É
0,303 = ce 0,316
-
62 ANGELO BATTELLI
Segue Apparecchio nella seconda posizione.
N | i iu i i Lor L i
dato
7 0,81. {SL 8.1. Love)
8 0,28 2079 | 20, 020p È
9 0,30 “| "2°22;|2%,0238 ‘LL o0,659 |.3
10 0,29 ‘| ®%9 | L'oos02 (ll Lo,sit } &
11 0,29 | —17:|-0,0180 | 0,77 | £
12 0,30 “PS 9 | | L00200 ER \
media | 0,295| © — = _0,8108%
Da cui
.20,302+0,313.+-0,316.+0,8105 __ (90001369.
8x0,301x31,4x1200
Ho fatto poi esperienze con la seconda corrente (di 0,520
unità all'incirca) avendo cura che in ogni asta le temperature
alle due estremità della vaschetta fossero di 124°,1 e 92°,7,
dopo 10 minuti primi dacchè passava la corrente.
Apparecchio nella prima posizione.
I
N | a wc $ I
dele vert in gradi |
1 | 0,52 3 0,0340 0,524
2| 0,53 36 0,0382 0,588 2
3 | 0,50 30 0,0318 0,490 | 3
4 0,51 | 31 0,0329 0,507 }) &
5 | 0,49 3 0,0318 0,490 È
6 0,52 34 0,0361 0.556 |8
media 0,513 — —_ 0,526
asce
SULL'EFFETTO THOMSON 63
Segue Apparecchio nella prima posizione.
—=. —— __ _ —eaae éaiÀ——_— _ ____._eETÒE+”-
i. | | gt La vid | ù |
7 0,51 | — 9a dlgs | 24
i 08 0,50 82 |-0;0340 — 0,524 | 2
9 ili caglio A
10 0,52 — 30 li 08 — 0,490 \ e.
11 0,52 —-29 |=0,0308 = (dra -
12 0,50 Lane ii (RUS 10 — (5072 | -
Peet =
Apparecchio nella seconda posizione.
1 0,50 | 34 0,0361 0,556 |
9 0,51 | 35 0,03715 0,572 I è
3 0,51 30 0,0318 0,490 | è
4 0,52 31 0,0329 0,507 i
5 0,51 30 0,0318 ouod |lE
6 0,50 | 32 0,0340 0,524 | -
media | 0,508 i — 0,523
70.0 -0,51 — 29 |-0,0308 I OIATI |
8 0,51 D_tog: | 2400297 Lg4b® |d
9 0,50 D_09+ | | L00329 )_ 04507 | È
10 0,52 Dfo4 || L00861 — 0,556 \ 3
ti 0,52 — 31 |—-0,0329 ! —0,507 (È
12 0,48 | —30 |—0,0318 ‘| — 0,490 | i
media 0,507 —_ sea — 0,4985
64 ANGELO BATTELLI
Da cui
0,526+0,5205 + 0,523 + 0,4985
= PIT
; 8x 0,510 x31,4x1200
il quale valore è molto concordante col precedente.
Infine con la corrente di 0,80 unità circa ho ottenuto i se-
guenti risultati :
Apparecchio nella prima posizione
N | i in ORI Ù | L |
dela in gradi
1 0,82 51 0,0541 | 0,833
9 0,84 50 0,0531 O8ds. ie
3 0,80 52 0,0552 | 0485051
4 0,83 51 0,0541 | 0,833 ) È
5 0,80 53 0,0563 0,866 | £
6 0,80 48 0,0510 o,785 |8
media 0,815 — _ 0,831
7 0,80 —46 |-0,0498 | —0,751 |
8 0,80 —48 || -=0,0510) Ja 0,288 | gi
9 0,79 — 50. | | =#0/0598 — 0,818) f
10.| 0,80. —52 |—0,0552 de —0,850;\
1 0,79 48 | 0,0510 «L00785: |
12 0,80 746 || =0,0488) dg. ES0irat -
media 0,794 _ _ — 0,790
SULL'EFFETTO THOMSON 65
Apparecchio nella seconda posizione.
N | i in sani i 9 | L |
della scala in gradi
1 0,81 | 46 0,0488 0,751
2 0.92 50 0,0531 G,8;18n NS
3 0,82 | paso Ros QUOo52 0,850 È
4 0,80 48 0,0510 0,785 }) &
5 0,83 48 0,0510 0,785 n
6 0,81 46 0,0488 0,751 | 3
media 0,815 — —_ 0,790 |
7 0,84 I: pi 058500)
8 0,84 L=5i0, ‘&0£-0,0531 - 0,818 | e
9 0,82 STI — 0,833 | £
10 0,82 | —46 |—0,0488. | —0,751 \s
11 0,82 RO 0,0488 AUTO ‘
12 0,82 46 ISS SORTI ;
media | 0,827 de = — 0,792)
Da cui
e 0,831+0,790+0,790+ 0,792
=0,00001307.
8x0,813x31,4x 1200
Il qual valore può anche ritenersi molto concordante con
quello ottenuto nei due casi precedenti. Si può quindi conclu-
dere che veramente l’effetto Thomson nel cadmio sia proporzionale
all'intensità della corrente che lo produce.
Quanto alla variazione dell'effetto Thomson colla temperatura,
secondo l'ipotesi di Tait, si ammette che l’effetto stesso sia pro-
porzionale alla temperatura assoluta.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. a)
66 ANGELO BATTELLI
In queste esperienze io ho veramente determinato l’effetto
Thomson medio fra certi limiti di temperatura, ma posso tuttavia
ammettere che ognuno di quei valori da me trovati rappresentino
l’effetto vero alla temperatura che è media fra le due tempe-
rature limiti.
E allora nel cadmio il valore dell’effetto Thomson, quando
l’unità di corrente passa da una sezione alla temperatura di 53°,5
ad un’altra temperatura di 52°,5 (le quali temperature sono
equidistanti da quelle delle sezioni estreme nella 1° serie d’espe-
rienze), sarà uguale a 0,000011215 piccole calorie (media dei
tre valori trovati colle tre correnti diverse).
Quando poi l’ unità di corrente passa da una sezione alla
temperatura di 108°,9 ad un’altra alla temperatura di 107°,9,
(le quali temperature sono equidistanti da quelle delle sezioni
estreme nella seconda serie d’ esperienze), il valore dell’ effetto
Thomson è uguale a 0,000013403 piccole calorie.
Ora se si scrive la proporzione
(273+53):(273+108°,4)=0,000011215:
si trova per x il valore 0,000013121, il quale è molto pros-
simo al valore vero dell’effetto Thomson, che secondo l’espe-
rienza, corrisponde alla temperatura di 108°,4. Dentro il limite
di queste esperienze pare dunque che sia verificata l’ ipotesi
di Tait.
Tuttavia ho creduto necessario, per avere una verificazione
di qualche importanza, di sperimentare a temperature molto
più elevate. Per questo non m'’era necessario mutare il liquido
nel recipiente B; bastava che io introducessi maggiormente le
aste nello stesso recipiente, poichè il petrolio bolliva vicino
ai 300°.
Nelle nuove condizioni le temperature alle due estremità della ‘
vaschetta in ciascun’asta erano di 263°,5 e 222°,0,
UU HH DV DN _mi
6
media
media
SULL’ EFFETTO THOMSON 67
Apparecchio nella prima posizione.
A
| MEIN cala in AP | È O
0,31 34 0,0361 0,556 |
0,30 36 0,0382 | 0,588 | $
0,32 32 0,0340 | 0,524 | È
0,33 15, 0,0350 | 0,539 ) 2
0,31 32 0,0340 | © 0,524 i
3,30 36 0,0382 | 0,588 5
Ndr] Poe DAMER EI bada
0,32 | Sy 95 PS0087 1a = 07
0,30 Be dt 0,0 88 MESE fa
0,30 IL 2 90/0861 — 0,556 È
0,31: | (82% 050340 «|r=0,524: \g
0,30 TONI PVI Li "3
0,30 i 8gpiliz=0,085001 | 0,590 =
0,315 a a — 0,5505 |
Apparecchio nella seconda posizione.
ICI OR ENNMBI 0,0361 0,556 |»
0,30 | 35 0,03715 | 0,572 {sg
AL i i 0,0340 0,524 | £
0,33 | 32 0,0340 0,524 \g
0,31 34 0,0361 0,556 | =
0,30 33 0,0350 0,539 |8
0,807 == chi SII: 71:
68 ANGELO BATTELLI
Segue Apparecchio nella seconda posizione.
* i |a | i grati Nr. L NRG
7 0,30 A_igg 00 USO 5A 20,539 |
S 0,30 | —34 e 0361 - 0,556 | 8
9 0,82 ‘imagen 2‘; o aac
10 0,32 l85 os d 0,572 | -
0) 0,33 — 32 |—0,0340 | — 0,524 ì
12 0,31 — 82 | 0,0840 DO8 EEA E
— |
da — 0,5505 /
Da cui
__ 0,553+ 0,5505 + 0,545 + 0,5505
no 8x0,309x41,5x1200
— 0,00001786 .
Si può ritenere che questo sia il valore dell’effetto Thomson
quando l’unità di corrente (0. G. S.) passa da una sezione alla
temperatura di 248°,25 ad un’altra alla temperatura di 242°,25
(le quali temperature sono equidistanti da quelle che avevano le
sezioni estreme durante le esperienze). Ora è bene confrontare
questo valore con quello che si è ottenuto fra limiti di tempe-
ratura differenti da questi, quando però si faceva passare per
le aste la stessa corrente di 0,810 unità; e perciò scriveremo
la proporzione
(273+53):(273+242,75)=0,000011991:2;
da cui x—=0,00001897; il qual valore, a dir vero, è alquanto
discosto da quello ottenuto coll’esperienza; ma tuttavia, atteso il
gran numero di piccoli errori inevitabili in queste esperienze, mi
sembra di poter affermare che per il cadmio si avvera l'ipotesi
di Tait, della proporzionalità fra l’effetto Thomson e la tempe-
ratura assoluta.
Allora si potrà esprimere il calore sviluppato per l’effetto
Thomson nel cadmio, quando una corrente é passa da una sezione
SULL’ EFFETTO THOMSON cane
a una temperatura # a un’altra a una temperatura #-1, mediante
la formola
(2).... e=0,000000036787(273+#) piccole calorie.
Le Roux nella memoria sopra citata ha trovato che nel bis-
muto di Edmond Becquerel, l’ effetto Thomson sviluppava una
piccola caloria per minuto, quando l’unità di corrente passava da
una sezione alla temperatura di 100° a una sezione alla tempe-
ratura di 0° La corrente impiegata da Le Roux come unità
depositava per minuto 18,314 di rame, ed equivaleva per con-
seguenza a 68 ampère, ossia a 6,8 unità assolute (C. G. S.). Con-
siderando questo valore trovato da Le Roux come rappresentante
il valore che corrisponde alla temperatura media fra 100° e 0°,
si deduce che l’effetto Thomson, pel passaggio dell’unità di cor-
rente (C. G S.) da una sezione-a 49°,5 ad un’altra a 50°,5,
sviluppava in un secondo 0,0000245 piccole calorie. Ora, per le
esperienze stesse di Le Roux i valori dell’effetto Thomson nel
bismuto di E. B. e nel cadmio stanno come 73 a 31; e perciò
pel cadmio il valore assoluto dell’effetto Thomson fra quelle due
sezioni, pel passaggio dell'unità di corrente del sistema (C. G. S.),
sarebbe uguale a 0,000010404 piccole calorie.
Se si calcola colla formola (2) il valore dell’effetto Thomson
a 50°, si trova uguale a 0,00001188 piccole calorie.
Chiudo questo studio rendendo le più vive grazie al Chia"
Prof. Naccari, che mi porse mezzi e consigli per eseguirlo.
Dal Laboratorio di Fisica dell’Università di Torino.
15 Agosto 1886.
Il Direttore della Classe
ALFONSO Cossa.
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71
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Dispensa 2*
1886 — 87.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII.
È. EnonaTo È
<Poi RINO =
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 28 Novembre 1886
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE PROF. ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, LESsonA, SALVADORI, BRUNO,
BERRUTI, Basso, D’Ovipio, Bizzozero, FERRARIS, NaccaRI, Mosso,
SPEZIA.
A nome dei rispettivi autori sono presentati in dono all’Ac-
cademia le seguenti pubblicazioni:
Dal PRESIDENTE,
Quattro fascicoli del « Bullettino di bibliografia e di storia
delle Scienze matematiche e fisiche » pubblicati dal Principe
B. BoxcomPagnI, dal mese di agosto 1885 al gennaio 1886;
Un opuscolo del Sig. E. CATALAN, contenente alcuni cenni
biografici sul matematico Torinese Savino REALIS:
dal Socio D’Ovipio, una memoria di H. G. ZEUTEN « Sulle
superficie di 4° ordine con conica doppia », tradotta dal da-
nese pel Prof. Gino LORIA;
74
dal Socio Basso, « Sul potere emissivo delle scintille elet-
triche e sul vario aspetto che esse presentano in alcuni gaz »;
Ricerche del Prof. Emilio VILLARI, Socio corrispondente dell’Àc-
cademia.
Le letture e le comunicazioni si succedono nell’ordine se-
guente :
« Sulla legge dei numeri pari nella Chimica »; del Prof.
Icilio GuAREScHI, lavoro presentato dal Socio Cossa;
« Ricerche intorno alla specie del genere Gordius »; Nota
del Prof. Lorenzo CAMERANO, presentata dal Socio LESSONA.
Iì Socio SALvADORI, anche a nome del Socio condeputato
Lessona, legge una sua Relazione sopra la Memoria del Dott.
Daniele Rosa, che ha per titolo « Studio zoologico ed anato-
mico sul CrIODRILUS lacuum ». La Classe accogliendo le con-
clusioni della Relazione, approva la pubblicazione della Memoria
del Dottor Rosa nei volumi delle Memorie accademiche.
Lo stesso Socio SALVADORI, presenta uno scritto del Dott.
Alessandro PortIs, costituente la seconda parte della sua Me-
moria intitolata: « Contribuzione alla ornitolitologia italiana »,
che viene affidato ad una Commissione speciale.
75
LETTURE
Sulla legge dei numeri pari nella chimica, Memoria del Pro-
fessore ICILIO GUARESCHI
Molti chimici nello stabilire la formola di un composto or-
ganico non tengono in considerazione certe regole o meglio leggi
fondamentali, la trascuranza o non conoscenza delle quali con-
duce necessariamente a risultati erronei.
Accade non di rado che si danno formole di composti or-
ganici contenenti gli atomi di idrogeno in numero dispari, e se
la sostanza è azotata o clorurata, ecc., la somma degli atomi di
idrogeno, di cloro o d’azoto forma un numero dispari. È proprio
il contrario di ciò che deve essere. È contrario alla legge empi-
rica data da Gerhardt e Laurent verso il 1845 e che si può
denominare « legge dei numeri pari »; ed è evidentemente in
disaccordo col principio della valenza degli elementi.
Devesi notare che questa inesattezza non si osserva mai pei
composti bene studiati e dei quali è conosciuta la costituzione chi-
mica od almeno che sono seriati, cioè classificati in serie omologhe.
Sceglierò molti esempi di formole erronee fra i tanti casi che
io ho osservato e poi riassumerò l’accennata legge di Gerhardt
e Laurent. Spero che questa mia nota riuscirà non affatto inutile.
Io avevo già fatto qualche osservazione a proposito della Gel-
semina nel Suppl. annuale dell’Enciclop. Chim., 1886, pa-
gina 133 e Amnali di Chim. e Farmacologia, 1885, vol. II,
pag. 342, ed all’articolo Ostrutina nell’Enciclop. Suppl. e Compl.,
vol. II.
Polstorff e Schirmer (1), ed in un successivo lavoro Pol-
storff (2), danno alla conessina, alcaloide scoperto nella Wrightia
antidysenterica R. Br., la formola 0° H® N. Questa è eviden-
(1) e (2) Berichte d. deut. Chem. Gesell., 1886, XIX, pag. 78 e 1683; Gaz,
Chim. Ital., 1886, pag. 102; Journ. of Chem. Soc., 1886, pag. 372 e 901.
76 ICILIO GUARESCHI
temente inesatta e deve essere C°° 7?! N oppure C°*° H!° N quando
non si debba raddoppiare e scrivere con C°'H N*; ma non è
intenzione degli autori sopracitati che la formola 0°° H?° N sia rad-
doppiata perchè scrivono nel modo seguente i sali ed altri derivati
dell’alcaloide: cloridrato C'*? H® N: HCl+H?0; cloroaurato (C*
H®N-HCl- AuC®?+34 H° 0; cloroplatinato (C'* H®N- H CI)?
Pt0044*%H°0; joduro di metilconessina C'° H® (CH?) NJ
+1} H?O; picrato C°° H®© N° C° H°(NO°f:0H4- H°O, ecc.
Warnecke (1) assegna alla Wrightina (ritenuta da Polstorf
e Schirmer come identica colla conessina) la formola C! H!5 N,
la quale non è anch’essa esatta come la precedente e come le
seguenti, perchè la somma degli atomi di idrogeno e d'azoto è
un numero dispari mentre dovrebbe essere pare.
S. W. Gerrard (2) stabilisce per la Gelsemina la formola
CH" NO? e descrive dei sali corrispondenti a questa formola.
Max Hagen (3) ha estratto dai semi del lupino azzurro (lu-
pinus angustifolius) un alcaloide, la lupanina, alla quale dà la
formola 0! H?® N°0 e così la rappresenta in tutti i sali, ben
cristallizzati, che descrive: cloridrato C'° H®° N° 0, H C1+2H?0;
solfocianato C'® H® N° 0, HSCN+}4 H°0;il composto col clo-
ruro di metile C> H® N? 0, CH®°CI14+2 H?0, ecc. La formola
C' H* N°0 concorderebbe forse meglio colle analisi fatte dal-
l’autore.
L’ostrutina, sostanza cristallina estratta da Gorup-Besanez (4)
dalla radice dell’imperatoria ostruthium, è rappresentata colla
formola C!4H" 0° ed i suoi derivati acetilico e bromurati, colle
formole pure erronee 0! 4! (C° H° 0) 0°, C4 H!4 Br 0° e
C4 H" Br 0°. Ai composti cogli acidi cloridrico e bromidrico si
danno le formole Cl! H° 0°, HCl e C4H" 0°, H Br.
Stahlschmidt (5) trovò nel polyporus igniarius, un acido che
(1) Berichte, 1886, XIX, pag. 60.
(2) Pharm. Journ. and Trans. (3), T. XIII e Momit. Scient., 1883, pag. 483.
(3) Liebig”"s Annalen d. Chemie, 1885, T. 230, pag. 367; Bull. Soc. Chim.,
T. 46, pag. 478; Gaz. Chim. app., 1886, pag. 125.
| (4) Berichte, 1874, pag. 564; Liebig's Ann., T. 183, pag. 321; Wurrz,
Diction. de Chim., II, pag. 1007; FeHLING's, Handwòrterbuch d. Chem. vol. IV,
p. 930; Wars, Dictionary of Chemistry Suppl., pag. 1449; ScaMIDT, Hand. d.
Pharm. Org. chem., Il, pag. 1093; Gaz. Chim. Ital., 1875, pag. bl.
(5) Liebig's Ann., T.187, pag.177 e T. 195, pag. 355; Jahresb. f. Chem., 1879,
pag. 907; LapeNBURG’s, Handwort. d. Chem., vol. Il, pag. 31; ScHMIDT, loc.
cit.,, pag 1105 e Husemann-HiLaer, Die Planzenstoffe, 22 ed., 1884,Fpag. 288.
LEGGE DEI NUMERI PARI NELLA CHIMICA 77
denominò acido poliporico e scrisse con 0° H° 0? e il derivato ace-
tilico con C° H°(C* H? 0) 0° ed il nitroderivato con C*H° (NO?) 0;
preparò inoltre dei sali, l’etere metilico che formulò con 0° H50?. CH?
e l’etere etilico. Dall’acido poliporico ottenne l’acido idropolipo-
rico C° H° 0* e un composto C!° H°0 del quale descrisse anche
un derivato argentico C!° 7° 490. Per l’azione del clorato po-
tassico ed acido cloridrico ottenne due altri composti: 08 7° 072 0
e C°H'CO0 e da questo ultimo il sale sodico 0° H5 Na CR0.
Tutte queste formole sono addirittura inammissibili. Beilstein (Hand.
d. org. etem.) raddoppia senz'altro la formola dell’acido polipo-
rico e lo scrive con C'8H!40'. Ma sappiamo che l’acido poli-
porico dà per ossidazione acido benzoico e per distillazione con
polvere di zinco del benzol, ed è quindi più probabile la for-
mola in C° che non in C'5. Se si scrive con 0° HS 0° diventa
un isomero degli acidi cinnamico ed atropico e l’isomeria in questo
caso si spiega difficilmente; si noterà che l’acido poliporico col-
l'idrogeno nascente dà l'acido idropoliporico come gli acidi cin-
namico e atropico danno gli acidi idrocinnamico e idroatropico.
Inoltre i due acidi isoatropici che si rappresentano con 0! 1719 04
non danno acido benzoico, ma bensì acido ortobenzoibenzoico e
antrachinone. Il punto di fusione molto elevato farebbe ammettere
per l'acido poliporico la formola in 0°.
Comunque sia, la formola C°H° 0? e le altre che se ne sono
derivate devono essere corrette. Sono necessarie delle esperienze
in proposito.
Kriikenberg (1) dà alla corneina la formola 0° H*# N° 03
e la spirografidina è rappresentata dallo stesso autore colla for-
la ve PON (2);
Ritthausen (3) diede alla vicina, estratta dalla vicia sativa,
la formola C* H! N°306; la quale, se è esatto il rapporto tra
16 e 3, deve essere raddoppiata e scritta quindi con CH N50"
come già fece osservare Henninger.
La convicina è rappresentata da Ritthausen con 01° 714 N° 0?
+H?°0 (4).
(1) Berichte, XVII, pag. 1846; Bull. Soc. Chim., 1885, T. 44, pag. 387;
Gaz. Chim. app., 1884, pag.
(2) Chem. Centralbil., 1884, pag. 538.
(3) Berichte, IX, pag. 301 e Wurrz, Diction., vol. III, pag. 680.
(4) In BEILSTEIN, loc. cit., pag. 1983 e ScHMIDT, loc. cit., pag. 983 e Jahresb.
f. Chem., 1881, pag. 1018.
78 ICILIO GUARESCHI
Naylor (1) assegnò alla Rymenodictionina, alcaloide estratto
dall’hymenodictylon excelsior, prima la formola C* H' N? che
poi cambiò in C* 7 N°,
Liverdsige (2) dà alla piturina la formola 09H*N.
Stenhouse e Groves danno alla xantorocellina la formola
C% H'"N°0° e ad un prodotto di trasformazione della picroro-
cellina l’altra 04° N° 0? (3).
Dragendorff e Podwissotzky (4) diedero alla sehlerocristallina
ed alla schleroxantina, trovate nella segala cornuta, la formola
CHI!
Per la parillina Fliickiger (5) propose una delle due for=
mole»: 0A H9:0! 104 HP,
L'aconitina, secondo Duquesnel, ha la formola CH NO,
formola ammessa poi da molti autori (6); e Paul e Kingzett (7)
estrassero dall’aconito del Giappone una base cristallizzata che
rappresentano colla formola O*H*NO?. La jerviva è scritta da
Tobien (8) con O? Hf N? 03 e inoltre il cloridrato ©” H!"" N° 03,
HCl ed il solfato con CH" N*0, H?S0'.
Glénard (9) da all’emetina la formola C° H® NO?.
(1) Pharm. Journ. and Trans. (3), 1883, T. XIV, pag. 311 e XV, 1884,
pag. 196; Berichte, 1883, pag. 2771. Una sostanza amara che si trova insieme
all’alcaloide è rappresentata con C® H" O? (loc. cit.).
(2) Mon. Scient., 1881 (3), T. XI, pag. 774 e Wurtz, Diction. de Chim.
Suppl., pag. 1289.
(3) Bull. Soc. Chim., T. XXIX, pag. 72; Wurtz, Diction. Suppl., pag. 1283;
Jahresb. f. Chem., 1876, pag: 900 dal Lon. R. Soc. Proc., 25, p. 60.
(4) FeHLING's, Handwòrt. d. Chem., IV, pag. 541; Scamipt, loc. cit., 1I,
pag. 1070. Però nei Jahresb., 1876, la schlerocristallina e la schlerorantina
sono scritte con (10 77109 04,
(5) FenLING’s, Handwòrt., IV, p. 1156, dall’Arch. de Pharm. (3), T. X,
pag. 532. La formola C* HS 0!8 è corretta dal redattore del Jahresb. f. Chem.,
1877, pag. 908 in CH 088,
(6) Ann. de Chim. et de Phis. (4), T. 25, p. 151; LAuBENHEIMER; 0rg.
Chem., 1884, pag. 846; Warrs, Dictionary Suppl., III, p. 23; RicaTtER, Org.
Chem., 1880, p. 795 e traduzione italiana, 1883, pag. 640; LApENBURG, loc.
cit. WRIGHT dimostrò sin dal 1877 che l’aconitina di Duquesnel era impura
e diede la formola (3% N0!?; non notò il rapporto erroneo 401 (Journ.
of Chem. Soc., 1877 e Mon. Scient., 1878, p. 859).
(7) Vedi HiLcer-Husemann, Die Pflanzenstoff, 2° ed., p. 629.
(3) In DRaGENDORFF, Analyse Chim. des vegétaue, 1885; Wars, Diction.
of Chem., 3° Suppl., p. 2100 e Jahresb. f. Chem., 1878, pag. 908.
(9) Ann. de Chim. et de Phys. (5), T. VIII, pag. 249...
LEGGE DEI NUMERI PARI NELLA CHIMICA 79
Hilger (1) ammette per la esperidina la formola 0! H° 0° e
ne spiega la decomposizione coll’acido solforico diluito, mediante
l'equazione seguente :
0% H?® 0° + H? O— C6 H" 06 sa C* H! 08.
È vero che altri chimici hanno poco dopo dimostrato che la
sostanza esaminata da Hilger era impura e fu stabilita la for-
mola C°° 7° 0! ma già solamente osservando le formole con H?®
e H" si avrebbe preveduto che esse erano inammissibili.
Fliickiger e Buri (2) danno ad un prodotto rosso che otten-
gono dalla kosina coll’acido solforico concentrato, indifferente-
mente la formola C0*H?0!° oppure C**H4°0!, Coll’amalgama
di sodio sulla kosina ottengono un olio ed una sostanza amorfa
alla quale assegnano la formola 0° H°0?.
O. Leppig (1882) rappresenta il tannino del famnnacetum vul-
garis con CH" 08! (3).
Rob. Schiff (4) trattando la stricnina con acido nitrico ot-
tenne un acido che rappresenta con 0° H! N40”,
Zwenger e Kind (5) diedero alla solanina la formola
C* H° NO" ed alla solanidina Valtra CPH'NO; ma Kraut (5)
fece osservare che la somma dell'azoto e dell'idrogeno era un
numero dispari e propose la formola CH NO”.
La veratrina cristallizzata è rappresentata da Schmidt e
Koppen (6) con C* H° NO? e ne descrivono alcuni sali; così
pure il suo isomero.
(1) Berichte, 1876, pag. 30.
(2) Jahresb. f. Chem., 1874, pag. 900 dall’Arch. d. Pharm. (3), T. 5,
pag. 193.
(3) Jahresb. f. Chem., 1882, pag. 1175 dal Pharm. Zeits. f. Russl., T. 21.
(4) Gaz. Chim. It., 1878, pag. 83; Berichte, 1878, pag. 1250 e in LapEN-
BURG, Handwéòrt., I, pag. 334.
(5) Ann. de Chem., T. 118, pag. 129 e T. 123, pag. 341, citato in LADEN-
BuRG, Handwort., I, pag. 316 e Kraur in GwmELIN, Hand. d. Org. Chem., VII,
p. 2074.
(6) Berichte, 1876, T. IX, p.1117, e LAUBENHEIMER, Lehr. d. Org. Chem.,1884,
pag. 845. Questa formola è corretta in 082 H‘° NO° nei Jahresb. f. Chem. di
FirTica, 1878, pag. 906.
(7) Berichte, 1880, pag. 1998, dal Pharm. Journ. a. Trans. (3), T. X,
pag. 909 e 1013; Jahresb. f. Chem., 1880, pag. 1077 e Jahresb., 1881, pag. 1022,
dal Pharm. Zeits. f. Russl., XX, pag. 180; Journ. of. Chem. Soc., 1880, pag. 718;
FenLING’s, Handwòrt., IV, pag. 753; ScamipT, Pharm. Org. Chem., II, pag. 1138.
80 ICILIO GUARESCHI
Alla melantina Greenish attribuisce la formola (7) C°° H?3 07,
ma nel Wurtz, Diction. Suppl., pag. 1003, è trasformata in
C4° H 04. Non sappiamo quali siano i fatti che hanno auto-
rizzato a fare questo raddoppiamento.
Secondo Greenish la melantina si può scindere in glucosio
ed in una sostanza la melantigenina, che egli scrive con C!4 H?3 0°
e dà quindi l’equazione seguente:
20 7733 DIE H* O— C4 H?3 OE C$ H*? 08.
L'ossipeucedanina è scritta con CH! 0° (1).
Cross e Bevan per l’azione del cloro sulla juta ottengono un
composto 0834407! 06; inoltre, sciogliendo il corpo C°? H®' 03,
estratto dall’esparto, nell’acido acetico, poi trattando con clorato
potassico ed acido cloridrico, ottengono il derivato O? H®3 C14 02° (2).
Kohler (3) dà il nome di acido neurolico ad un composto
C> H® Po),
G. Fischer (4) dà ad una nuova materia colorante, ottenuta
ossidando l’ortoamidofenolo, la formola 0° 41° N30?.
Portuis (5) assegna ad un composto ottenuto dall’azione del
percloruro di fosforo sull’epicloridrina la formola © H!° 013 08.
Dal legno di palissandro Terreil e Wolff (6) estrassero una
sostanza alla quale diedero la formola ©* H?! 0°.
Quando non era ancora ben conosciuta la pilocarpina e gli
altri alcaloidi del Jaborandi, Kingzett diede all’alcaloide del
Jaborandi la formola C° H® N*04 (7).
Bungener (8) ad una sostanza amara cristallina estratta dal
luppolo assegna la formola CH 04.
(1) HiLGER-HusEMann, loc. cit., pag. 952.
(2) Journ. of Chem. Soc., T. 38, pag. €68, e in BeiustEIN, Org. Chem.,.
2? ediz., vol. I, pag. 866; Berichte, 1880, pag. 1999, dal Chem. News, T. 42,
pag. 77.
(3) FeHLING's, Hand., IV, pag. 742.
(4) Berichte, 1879, pag. 1208.
(5) Berichte, 1879, pag. 1356.
(6) Bull. Soc. Chim., T. 33, pag. 456. i
(7) Journ. of Chem. Soc., T. 32, pag. 367, citato nel WarTs, Dictionary,
3° Suppl., pag 1141; vedi anche Jahresb. f. Chem., 1876, pag. 833.
(8) Journ. de Pharm. et de Chim., T. XI, pag. 616 e Journ. of Chem. Soc.,
1884, pag. 1366, dal Bied. Centr., 1884, pag. 431.
LEGGE DEI NUMERI PARI NELLA CHIMICA 81
Dall’acido sacculmico col clorato potassico ed acido cloridrico
si ottiene la tricloroossisacculmide C! H*C18 0° e coll’acqua di
bromo la sesquibromoossisacculmide C* H' Br® 0"! (Sestini) (1).
Lo stesso fatto si osserva in molte formole-di albuminoidi o
loro derivati. Da alcuni si rappresenta l’emoglobina di cane con
064 H!°% N! Fe S°0"° (Hiifner) (2). Knop (3) rappresenta un
derivato bromurato degli albuminoidi con (°° Br° N° 0,
Secondo Bleunard (4) la sostanza costituente il corno di cervo
possiede la formola CH N0% e colla barite si decompone
nel modo indicato dalla equazione seguente:
(153 H3° N47 088 sb 13.H*0—= 7 NH34 3 OWOECE C? H* 0?
BE: 1 ;5 C? H* 0! ct (150 /H39% N90 0%.
La quale equazione evidentemente non può stare perchè la
somma degli atomi d'idrogeno e d'azoto che si trovano nel se-
condo membro è appunto 328 +47, cioè un numero dispari.
Eguale osservazione si può fare all’equazione colla quale
Schittzenberger (5) rappresenta la decomposizione della fibroina
coll’acqua di barite; in questo caso si ha secondo Schitzenberger:
C© HI N 0% +24 H®?0=0,5 C° H°0‘+ H?C0*
Ai dg C* H'* 0% SNH°+4 C8 HA N?! 083.
Equazione questa che può sussistere solamente a condizione
che si lasci il rapporto H! : N?! il che è contrario a quanto
si sa per tutti i composti ben definiti.
Tante altre formole di albuminoidi sono simili alle prece-
denti (6).
Fra le sostanze la cui formola non è in armonia colla legge
dei numeri pari ricorderò ancora: la cascarillina (7) C° H° 0';
(1) Gaz. chim. ital., 1882, pag. 294 e 301.
(2) Gas. chim. app., 1885, pag. 162.
(3) Jahresb. f. Chem., 1879, pag. 871.
(4) Comptes rendus, T. 89, pag. 953 e Jahresb., 1879, pag. 879.
(0) Comptes rendus, 1875, T. 81, pag. 1191 e Jahresb., 1875, pag. 883.
(6) ScHUTZENBERGER, Comptes rendus, 1878, T. 86, pag. 767: e Bull. Soc.
Chim., 1878, T. XXX, pag. 568.
(7) Berichte, 1873, pag. 1051 e Bull. Soc. Chim., T. XXI, pag. 84.
82 ICILIO GUARESCHI
la miroxocarpina (1) C* H® 0°; la nataloina (1) CH" 0";
la curagao-aloina (2) C°H" 0° e la gardenina (3) la quale
si scrive ancora da molti con 0° H°0?.
E. Masing (4) esaminando la resina di larice ottenne un com-
posto fusibile a 125° al quale diede la formola 0% H? 05 ed
un altro corpo O°° H8 04,
Miescher (5) diede alla nucleina la formola 0°° H'° N° P3 0*.
Heckel e Sclagdenhaufen (6) danno al principio amaro tro-
vato nel Bonduc la formola 0! H! 0°.
La licaconitina C® H® N° 0542 H°0 secondo Dragendorff
e Spohn (7) colla soda caustica fornisce una base (CH N° 0°),
3H°0 (licoctonina di Hibschmann). Si comprende difficilmente come
dalla licaconitina con CH?! si passi facilmente alla base con _H!
ammettendo pure che abbia la formola doppia 0°4H%N*0!4 (8).
Con ricerche posteriori furono corrette alcune delle formole
sovraindicate, ma senza far cenno della legge dei numeri pari.
Tralascio di citare tanti altri casi simili di formole deter-
minate anche prima del 1870. Molte di queste formole, eviden-
temente inesatte, sono poi ammesse senza alcuna osservazione in
molti trattati e dizionari di chimica, come abbiam visto nella bi-
bliografia sopracitata. Che ciò fosse possibile in altri tempi prima
delle osservazioni di Gerhardt e Laurent si capisce, come ad
esempio quando Ortigosa rappresentava la conina con C0*4!N
(formola che Gerhardt corresse prima con CS H! N e poi con
(1) SteNHoUSE in FEHLING, loc. cit., IV, pag. 548 dall’Arch. d. Pharm., T. 77.
(2) In DRAGENDORFF, Analyse Chim. des vegdiaue, 1885, pag. 244 e 246.
(3) StTENHOUSE e Groves, Journ. of. Chem. Soc., 1877, pag. 55, e SCHMIDT;
loc. cit., pag. 1108. Però in una successiva memoria stabilirono la formola
CY H'2 08 (Berichle, 1879, pag. 1397).
(4) Jahresb. f. Chem., 1875, pag. 861, dall’Arch. d. Pharm. (3), T. VI,
pag. Ill.
(5) Verhand. d. naturfor. Gesell.in Base, 1874, T. I, pag. 13$, in WuRTZz,
Traité de Chim. biolog., p. 142. WurTz, (loc. cit.), ha fatto giustamente os-
servare che N° P® non possono essere uniti ad un numero impari di idrogeno.
(6) Comptes rendus, 1886, e Annali di Chimica e di Farmacologia, 1886,
T. IV, pag. 320.
(7) Pharm. Journ. a. Traus. (3) t. 15, pag. 104 e Annali di Chimiea e
di Farmacologia, 1885, t. I, pag. 85
(3) Si noterà che la base analizzata da Dragendorff e Spohn, conteneva
nientemeno che da 0,39 a 8,08 p. 100 di cenere. Ciò è fatto osservare nel
Jahresb. f. Chem. 1884, pag. 1399.
LEGGE DEI NUMERI PARI NELLA CHIMICA 83
C* H°° N) oppure Liebig che rappresentò la conina con 0" H°° NO;
ma ciò non deve più essere oggi.
Gerhardt (1) e Laurent (2) formularono le loro osservazioni
come segue:
« Dans toute substance organique, la somme des atomes
de Uhydrogène, de l’azote, du phosphore, de V’arsenie, des mé-
taux et des corps halogènes, doit étre un nombre pair ».
Secondo i pesi atomici allora ammessi (C=6, ecc.) la somma
degli atomi d’azoto e d’idrogeno doveva essere divisibile per 4
e l’ossigeno ed il carbonio in numero pari. Coi pesi atomici at-
tuali (C—=12, ecc.) gli atomi di carbonio, ossigeno, ecc. pos-
sono essere in numero pari o dispari.
Fu in seguito a queste osservazioni che Gerhardt e Laurent
corressero un gran numero di formole di composti ossigenati,
azotati, fosforati, ecc.; fra gli altri ricordiamo il fosfuro d’azoto
o fosfam che si rappresentava con PN? mentre Gerhardt (3)
dimostrò essere PHN?; la leucina che si scriveva con CH"? NO?
per la quale fu stabilita la formola CH! NO? e divenne così un
omologo della glicocolla e della sarcosina (4); di moltissimi alca-
loidi furono corrette le formole da Laurent e Gerhardt (5) non solo
riguardo agli atomi di idrogeno ma anche per gli atomi di carbonio.
Tenendo conto delle osservazioni precedenti e del principio
della valenza degli elementi noi possiamo per maggior chiarezza
esporre le proposizioni seguenti:
1) Nei composti idrogenati od idroossigenati il numero degli
atomi di idrogeno è sempre pari.
(1) Annales de Chimie et de Phys.(3), T. VII, pag. 143, e Traité de Chim.
org., T. IV, pag. 599.
(2) Ann. de Chim. et de Phys. (3), T. XVIII, pag. 268, e Methode de
Chimie, pag. 57).
(3) GeRHARDT, Recherches sur les combinaisons du phosphore avec l’azote
(Ann. de Chim. et de Phys. (3), T. XVIII, pag. 188).
(4) LauRENT e GERHARDT, Sur la composition de la leucine (Ann. de Chim, et
de Phys. (3), T. XXIV, pag. 321).
(5) LAURENT e GERHARDT, loc. cit. e Ann. de Chim. et de Phys. (3), T. XVIII,
pag. 277. Veggasi anche la memoria Sur les combinaisons melloniques in Ann.
de Chim. et de Phys. (3), T. XIX, pag. 85; Sur la composition des alcalis
organiques et de quelques combinaisons azotées (LAURENT, Annales de Chim. et
de Phys. (3), T. XIX, p. 359), e Sur les acides amidés et sur le sucre de gé-
latine (LAURENT, ivi, T. 23, pag. 110).
84 ICILIO GUARESCHI
Ad esempio: terebentene C° H"; propilene C* HS; alcool
C* HS; fenolo C6H°0; santonina C°H" 03, ecc.
2) Se l’idrogeno è sostituito con un alogeno la somma degli
atomi d’idrogeno e dell’alogeno deve essere sempre un numero pari.
3) Se il composto è azotato o contiene del fosforo, arse-
nico, antimonio, o un metallo mono, tri o pentavalente oppure
residui monovalenti (N0°), (SO? H), ecc., la somma degli atomi
di idrogeno con quelli dell'altro elemento ‘o gruppo sostituente
deve essere sempre un numero pari. Ad esempio: etilfosfina
C*H°PH*, etilamina C*°H°NH?, urea CH' N°0, ossido di ca-
codile [As(CH®}} O, fenato sodico C° H° ONa, nitronaftalina
C° H"(NO*), acido benzolbisolfonico C* H*(S0* H)?, ecc.
4) Se la sostanza contiene idrogeno e contemporaneamente
alogeni, fosforo, ecc., anche in questo caso la somma degli atomi di
idrogeno, azoto, alogeno, ecc., deve essere sempre un numero pari. Ad
esempio: fribromoacetamide CBr?- CONH?, cloruro di arsenmetile
CH? As CR, clorobromonitrofenolo C9 H* C1- Br: NO*: OH, ecc.
Riassumendo, possiamo formulare la legge di Gerhardt e
Laurent nel modo seguente:
« La somma degli atomi o gruppi a valenza dispari (mono,
tri, pentavalenti) che si trovano in una molecola deve essere
sempre un numero pari ».
Ciò, naturalmente, si può dedurre tenendo conto della tetra-
valenza del carbonio ed in generale degli elementi a valenza pari.
Fra i composti minerali fanno eccezione a questa legge i
permanganati Me Mn 04 ed il biossido d’azoto, se non si vo-
gliono ammettere le formole doppie Me° Mn? 05 e N°0* (1).
Visti i moltissimi casi nei quali questa regola o non è adope-
rata od è dimenticata, ho creduto di far cosa utile col richiamare
su di essa l’attenzione dei chimici, i quali, in alcuni dei casi da
me citati, potrebbero forse trovare soggetto per muove ricerche.
Ammetto però volentieri che per qualcuna delle tante for-
mole inesatte da me più sopra indicate la formola data non sia
che l’espressione del più semplice rapporto atomico fornito dal-
(1) In una recentissima nota, Raoult stabilisce che i permanganati di
potassio e di sodio hanno veramente le formole X Mn 04 e Na Mn0'+3H?0
(Bull. Soc. chim. 1886 fasc. del 20 dic. pag. 805). Alcuni avevano ammesso
pel permanganato potassico la formola KH Mn0*, ma Raoult dimostra che
questo sale non contiene idrogeno,
LEGGE DEI NUMERI PARI NELLA CHIMICA 85
l’analisi elementare oppure che l’inesattezza sia dovuta ad errore
di stampa e questo in quei pochi casi nei quali non ho potuto
esaminare le memorie originali o quando non furono ottenuti dei
derivati nei quali si mantiene egualmente l’inesattezza.
Torino, R. Università, novembre 1886.
RELAZIONE intorno alla memoria del Dott. DANIELE Rosa,
intitolata: « Studio zoologico ed anatomico sul Crio-
drilus lacuum ».
In questo lavoro l’autore si è proposto di studiare il Crio-
drilus lacuum sotto l’aspetto zoologico ed anatomico collo scopo
di fissarne la posizione sistematica.
Il Criodrilus lacuum è un oligocheto lumbriciforme che vive
nel limo in fondo alle acque ferme o di lento corso.
Scoperto nel 1845 dallo Hoffmeister presso Berlino, esso
non venne più ritrovato altro che trent'anni dopo dal Panceri
presso Pavia; ultimamente venne segnalato nell’Austria e nell’ Un-
gheria; l’autore ne ricevette esemplari da Treviso e lo ritrovò
poi abbondante a Moncalieri.
L’anatomia del Criodrilus non venne studiata altro che ul-
timamente dal Vejdovsky e solo in parte e su individui non
adulti, e però la posizione sistematica di questa forma è tut-
tora incerta; il Vejdovsky ne fa una famiglia distinta Cr7odr?-
lidae, che mette fra i Lumbricidi edi Pontodrilidi, V’Oerley ne
fa una sottofamiglia Criodrilinae, equipollente a quella delle
Lumbricinae, le quali sottofamiglie sono per lui immediate di-
visioni degli oligocheti terricoli; la maggior parte degli autori
colloca il Criodrilus fra i lumbricidi.
Nei caratteri esterni ed interni del Criodri/us, e sopratutto
in quelli presentati dall’apparato riproduttore, che nella sistema-
tica degli oligocheti è della massima importanza, l’autore rico-
nosce una rassomiglianza grandissima fra il detto verme e le Al-
lolobophora foetida Sav., turgida Eisen, e simili, che sono le
forme più semplici fra i nostri comuni lombrichi,
86
Dei caratteri citati come differenziali, alcuni sono. dall’ au-
tore negati, altri attribuiti all’adattamento.
Le particolarità più importanti che distinguono il Criodrzlus
dai comuni lombrichi stanno nella mancanza. delle borse copula-
trici (receptacula seminis) ed in quella del clitello e dei tuber-
cula pubertatis.
Per l’autore queste differenze si riducono ad una sola, la
mancanza di borse copulatrici, poichè dallo esame dei comuni
lombrichi egli riconosce l’esistenza di una relazione costante tra
lo sviluppo del clitello e dei tubercula pubertatis ed il numero
delle borse copulatrici, e però è naturale che, ove queste non
esistono, scompaiano anche le altre parti sopradette.
Quanto alla mancanza delle borse copulatrici l’autore non la
considera come carattere sufficiente per separare il Criodrilus dai
lombrichi, perchè tale mancanza è un’eccezione a quanto si osserva
non solo nei lombrichi, ma in tutti gli oligocheti, cosicchè tanto
varrebbe separare il Criodrilus da questi ultimi, la qual cosa
sarebbe assurda. Per l’autore l’assenza delle borse copulatrici è
una di quelle aberrazioni che si incontrano qua e là in tutti i
gruppi del regno animale e che non influiscono mai sulla posi-
zione sistematica della forma in cui si verificano.
La conclusione del lavoro di cui riferiamo è la seguente:
« Il Oriodrilus ha i suoi più prossimi parenti nelle specie del
genere Allolobophora (A. turgida Eisen e simili); esso appar-
tiene allo stesso phylum dei veri lumbricidi, dei quali però è
una forma estremamente modificata ».
L'autore propone in fine di creare pel Criodrilus una sotto-
famiglia Orzodrilinae appartenente, come le lumbricinae, alla fa-
miglia delle lumbricidae in stretto senso.
Il lavoro è accompagnato da una tavola con 14 figure ana-
tomiche ed istologiche.
I sottoscritti considerano il lavoro del D'". Rosa come una
importante contribuzione allo studio dei vermi e ne propongono
alla classe la lettura per l’inserzione nelle Memorie.
MICHELE LESSONA.
T. SALVADORI, relatore.
87
Ricerche intorno alle specie italiane del Genere Gordius,
del Dott. LORENZO CAMERANO
I Gordius sono animali poco noti ancora sia rispetto alla
loro anatomia, sia rispetto ai loro costumi e alla loro classi-
ficazione, tanto che molto spesso anche in trattati di zoologia
recenti si trovano inesattamente caratterizzati. È incerta anzi
la loro posizione fra gli altri vermi; è incertissima poi la loro
filogenia.
Pare che il primo Autore che abbia fatto menzione di que-
sti animali sia stato Alberto il grande (1). Da questo Autore
a noi molti altri naturalisti hanno trattato dei Gordius (2) più
o meno estesamente. La massima parte tuttavia degli Autori si
limitò a menzionarli dicendo qualche cosa dei loro costumi e
spesso confondendoli con altri vermi a loro simili nell’aspetto
generale. I dati quindi di molti Autori antichi sono al tutto in-
servibili.
Linneo stesso fu poco felice a questo riguardo e lo stesso si
dica di parecchi Autori posteriori a lui. Per trovare cognizioni
un po’ più chiare e sicure è d’uopo venire fino ai lavori di
Charvet (3), di Siebold (4) e sopratutto di Dujardin (5) il quale
delimitò in modo chiaro e preciso il genere Gordius nei limiti
in cui si intende anche oggi.
Dopo il Dujardin molti Autori hanno scritto sui Gordius
come Diesing, Baird, Meissner, Siebold, Schneider, Miobius, Gre-
(1) De animalibus, lib. XXVI, pag. 105.
(2) IL ViLLor, ha dato una bibliografia dei Gordius, quasi completa nella
sua: Monographie des dragonneaux (Archives de zool. exper. et gén., vol. III,
con 8 tavole, 1874).
(3) Observ. sur deux espèces du genre dragonneau, etc. (Nouv. Ann. du
Mus., vol. I]I, pag. 37, 1834).
(4) Helmint., Beitr. Archiv. fur Naturg., 1Il, vol. 2, 1837.
(9) Mem. sur la. structure anatomique des Gordius, ece. (Ann. Sc. Nat.,
22 serie, vol. XVIII, pag. 129, 1842).
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII.
ni
88 LORENZO CAMERANO
nacher, Linstow e recentissimamente al tutto Daniele Rosa e
Vejdovski ed io avrò ripetutamente occasione di citare le opere
di questi Autori nel corso di questo lavoro.
Un Autore moderno merita un cenno speciale, il Villot al
quale si deve la Monografia dei Gordius già citata e che è
ancora l’unico lavoro generale recente, sopra questi animali. Esso
è tuttavia criticabile in molti punti.
Molto meno numerose e molto meno importanti sono le pub-
blicazioni riguardanti i Gordius italiani. Esse sono essenzialmente
le seguenti:
U. ALprovanpi — De animalibus ‘insectis, libri septem.
Lib. VII, cap. X, pag. 720, figure a pag 765.
Le figure e le incisioni sono al tutto inservibili e indecifrabili.
A. DE BacouNIN -- Memotres sur les Gordius d’eau douce
des environs de Turin — Mémoires de l’Académie Royale des
Sciences de Turin. Années MDCCLXXXVIII-LXXXIX, 1790,
pag. 23-42, tav. XII.
Questo Autore quantunque segua le idee di Linneo rispetto
al genere Gordius e quindi comprenda in questo forme di vermi
che non hanno nulla a che farvi; descrive tuttavia dei veri Gor-
dius da lui trovati nel contorno di Torino, ed anzi pare che
le sue descrizioni si riferiscano a due specie: una facilmente ri-
conoscibile pel Gordius tolosanus Dujard., e l’altra probabil-
mente riferibile al Gordius tricuspidatus o gratianopolensis
degli Autori (1). — Il Bacounin ha distinto chiaramente i sessi
e riferisce numerose esperienze ed osservazioni sui costumi e sulla
vita dei Gordius. Il suo lavoro merita per varii rispetti di es-
sere consultato.
F. 0. ScorrEcAGNa — Considerazioni sopra una specie di
Dragoncello (Gordius aquaticus Linn. Gmel.) Milano coi tipi
Lambertini 1840 — idem in Gazzetta di Milano 10 agosto 1840.
In questi lavori l’A. parla di un Gordius che egli crede appar-
(1) Il BacouniN, dice a pag. 25: « Sur la quantité de gordius que j’ai
examinés au microscope, jen ai vu quelques-uns, qui au milieu de cette
fourchette avaient un corps noir, lisse, saillant et oblong (fig. 5). Je ne sais
quel est l’usage de ce corps qui est peut-étre une partie de l’insecte, quoi-
qu’on ne le voie que dans très-peu d'individus ».
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 89
tenga al Gordio acquatico Gmelin e che egli chiama Dragoncello
di Lonigo 0 Leoniceno.
G. BaLsamo CRIVELLI — Storia del genere Gordius e di un
nuovo Elminto Autoplectus protognostus. Memorie del R. Isti-
tuto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti, vol. II, 1845. (La
memoria del B. Crivelli venne letta il 20 luglio 1843)
È questo un lavoro, per quanto riguarda i Gordius pura-
mente storico; come dice l'A. stesso: « Il Dujardin (1) nell'introdu-
zione alla sua Memoria espose la storia di quanto fu fatto sovra
i Gordii, la quale avendo io trovata molto incompleta, mi sono
preposto riformarla con quelle aggiunte ed osservazioni che ho
creduto opportuno introdurvi per meglio illustrare l'argomento. »
In questo lavoro il Balsamo Crivelli critica il precedente dello
Scortecagna il quale rispose col lavoro che segue:
F. 0. Scorrecagna — Analisi della Memoria intitolata —
Storia del genere Gordius e di un nuovo Elminto ecc. —
Nuovi Annali delle Scienze Naturali di Bologna. Serie III, vo-
lume III, pag. 150, 1751.
In questo nuovo lavoro, lasciando in disparte la parte riguar-
dante puramente la polemica dell’A. col Balsamo Crivelli tro-
viamo che lo Scortecagna dà al Gordius descritto precedentemente
una denominazione nuova colle seguenti parole: (2) « Che se
tale denominazione non piace, ciò non pertanto viene sostituito il
nome specifico derivato dal greco ed è di Gordios melanoxros
brakis, cioè Gordio nerognolo breve. Ammesso questo nuovo vo-
cabolo a questa specie, servirà per la distribuzione sistematica
del genere Gordio siccome una nuova separata specie dalle altre
specie rinvenute, e di quelle che fossero in seguito per rinve-
nirsi, giacchè non venne peranco ben bene stabilita la sistema-
zione di questi individui. L'A. dà poi inoltre la diagnosi seguente:
« Gordius aquaticus Linn. Gmel. — (G. filiformis, 5 pollicum
longitudine nigredine praeditus, ore rotundato, intestino mediano,
ano duabus papillis, finito, in quarum medium tuberculum verpae
consimile ».
E facile vedere da quanto è stato detto che anche questo
lavoro è oggi al tutto inservibile.
(1) Pag. 4.
(?) Pag. 152.
90 LORENZO CAMERANO
. BaLsaMo CRIVELLI — Risposta all’Analisi della Memoria in-
titolata Storia del genere Gordius ecc. — Nuovi Annali di
Scienze Naturali di Bologna, ser. III, vol. IV, pag. 73. 1851.
In questo lavoro l’A. dice « (1) Chiederò poi se il Gordio
del sig. Scortecagna è o non è una nuova specie? Nella sua
Analisi, inserita negli Annali di Storia Naturale nel fascicolo di
febbraio, dice ch’egli propone di chiamarlo Gordius melanoxros
brakis (così trovasi stampato), e nel dare poi la frase specifica
a questa premette il nome sistematico di Gordius aquaticus ».
Qualche cenno sui Gordius in generale si trova in varii la-
vori riguardanti la medicina, qualche cenno pure si trova in
alcuni catalogi faunistici, ma essi si riducono alla menzione no-
minale pura e semplice del Gordius aquaticus (2). Il che oggi
non è sufficiente per poter sapere con sicurezza quali siano le
specie osservate dagli Autori.
Il primo lavoro veramente importante, quantunque limitato
a due specie, riguardante i Gordius italiani, è quello del Dottor
D. Rosa. — Nota intorno al Gordius Villoti, n. sp. e al G.
tolosanus Duj. Atti Reale Accademia delle Scienze di Torino,
vol XVII, 1882 (3).
Da quanto precede risulta adunque che i lavori utili per la
fauna italiana sono essenzialmente quello del Bacounin e quello
del Rosa.
Gli altri debbono essere lasciati in disparte e le loro specie
non si possono citare in sinonimia nè del G. aquaticus Linn.
Gmel. come ha fatto il Diesing (4) nè di qualunque altra specie.
(1) Pag. 74.
)2) Così ad esempio il Pavesi, Materiali per una fauna del Cantone Ti-
cino (Atti Soc. Ital. Scienz. Nat., vol. X.VI, 1873, pag. 25), menziona il Gordius
aquaticus, V. Siebold. Lo stesso sì dica del Gordius aquaticus Duj. citato
dal Bettoni (Prod. Faun. Bresciana, pag. 259, Brescia, 1884).
Il PeRRONCITO nel suo recente lavoro: Osservazioni fatte alle Terme di Vi-
nadio (Annali R. Acc. di Agricoltura di Torino, vol. XXVIII, 1885, pag. 190),
riferì al Gordius impressus Schneider tre esemplari di Gordius da lui tro-
vati nella località anzidetta. Avendomi gentilmente il Professore Perroncito
concesso di esaminare i suoi Gordius ho verificato che essi non hanno nulla
a che fare colla specie dello Schneider e che appartengono invece al comune
Gordius Villoti Rosa.
(3) Ricorderò ancora Fiori e Rosa, Un caso di parassitismo di Gordius
adulto nell’uomo. Regia Accademia di Medicina di Torino, 1881.
(4) Revision der Nematoden (Sitzung. Natur. Wissen, Wien, 1861, pag. 600).
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 91
La distinzione specifica dei Gordius è oggi ancora intricatis-
sima poichè poco si sa sul valore dei caratteri e quindi non è
possibile il subordinarli.
La struttura interna. a quanto pare è poco variabile e ci si
presenta a un dipresso la stessa nelle parti più importanti anche
nelle specie che ci sembrano essere esternamente più discoste fra
loro.
È d’uopo quindi servirsi dei caratteri esterni. Questi sono
essenzialmente :
1° La struttura della cuticola.
2° La forma delle estremità anteriore e posteriore del
corpo.
3° Le armature genitali.
4° Le dimensioni.
5° La colorazione.
Quantunque Dujardin, Meissner e Siebold (1) avessero già
parlato delle differenze della cuticola di alcune specie è tuttavia
merito del Villot di aver applicato pel primo estesamente questo
carattere alla differenziazione delle specie di Gordius.
Il Villot intende tuttavia l’integumento dei Gordius in una
maniera che non è sostenibile. Egli chiama epidermide lo strato
esterno e derma lo strato fibrillare sottostante il quale come è
noto, è molto spesso nei Gordius ed è formato da molti strati
di fibrille sovrapposti.
Senza entrare ora in maggiori particolari a questo riguardo:
dirò che io credo si debbano invece intendere : l’epidermide del
Villot come lo strato cuticolare esterno e il derma del Villot
come lo strato cuticolare interno. La vera epidermide è formata
dallo strato cellulare sottostante che il Villot considera appar-
tenere al sistema nervoso.
Ciò premesso io debbo far osservare che lo strato euticolare
interno presenta un carattere comune a tutte le specie da me
osservate e che molto probabilmente si trova in tutti i Gordius,
carattere che venne dal Villot poco esattamente interpretato. Il
carattere consiste in linee che appaiono chiare o scure secondo
si abbassa o si innalza il tubo del microscopio, le quali si in-
(1) Opere citate.
92 LORENZO CAMERANO
crociano fra loro delimitando dei rombi più o meno ampi. Il
Villot (1) dice: « Épiderme lisse divisé en losanges par des li-
gnes saillantes, obliquement croisées ». Queste linee, come già
fece osservare il Rosa (2) non sono punto rialzate: esse sono
invece incavate, sono veri solchi dovuti all’inflettersi delle fibrille
dei piani costituenti lo strato cuticolare interno. Per convincersi
di ciò è d’uopo isolare colla dilacerazione un brano dello strato
stesso ed esaminarlo con ingrandimenti assai forti. (ob. 4 imm.
om. e ocul. 3 e 4 Zeiss).
Vi sono specie come il G. Villoti Rosa ed altre nelle quali
queste linee sono più facilmente osservabili; ma io le ho osser-
vate, anche nel G. tolosanus, Du). nel G. De Filipii Rosa, ecc.
Non credo quindi che la mancanza o la presenza di esse
possa essere carattere specifico molto importante. Le dimensioni
dei rombi delimitati dalle linee stesse, sembrano essere, entro a
certi limiti, abbastanza fisse per ciascuna specie.
Nello stesso strato cuticolare interno si trovano pure in al-
cune specie delle raggrinzature le quali si estendono spesso anche
allo strato cuticolare esterno e che osservate al microscopio hanno
l’aspetto di spazi oscuri limitati da linee chiare: sono questi spazi
che il Rosa (3) chiama impropriamente areole.
I caratteri forniti dallo strato cuticolare esterno sono i più sicuri.
Importantissimi pure sono i caratteri della forma dell’ estremità
anteriore e posteriore del corpo e delle armature genitali.
Il carattere delle dimensioni presenta campo a molte discussioni.
Il Villot (4) dice: « Les dragonneaux, n’ayant plus, lorsqu'ils
sont arrivés à l’état adulte, qu'un intestin atrophié, dépourvu
d’ouverture buccale et d’osophage, ne prennent certainement
aucun aliment solide; mais l’eau qui les baigne de toutes parts
et qui imbibe tous leurs organes peut facilement, si elle est
chargée de principes nutritifs, servir à leur alimentation. D’ ail-
leurs il est probable que, sous leur forme parfaite, ils n’ ont
plus besoin de prendre aucune nourriture ».
Che nei Gordius facienti vita libera ci sia una nutrizione
tegumentale non mi pare cosa sostenibile sia per la struttura
(1) Op. cit. pag. 49.
(2) Op. cit. estr., pag. 6.
(3) Op. cit. estr., pag. 4.
(4) Op. cit., pag. 64.
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 93
dell’integumento, sia anche perchè in generale questi animali vi-
vono in acque limpide, fredde (les eaux provenant de la fonte
des neiges, dans lesquelles ils vivent ordinairement..... dice il
Villot stesso) e poverissime di sostanze nutrienti.
Appena l’animale è giunto al suo completo sviluppo l’aper-
tura boccale si chiude e la prima parte del canal digerente su-
bisce un processo di degenerazione il quale si estende a poco a
poco anche agli altri tessuti circostanti. L'animale adulto dà opera
soltanto alla riproduzione: compiuta la quale generalmente muore:
simile in ciò ad un grande numero di insetti nei quali pure si
osserva un atrofizzarsi dell’apparato digerente nello stato perfetto.
Io credo quindi che dopo l’atrofizzazione della bocca le di-
mensioni dei Gordixs non possono più variare che in limiti assai
ristretti o forse non variano affatto.
Credo però che in una data specie si possano avere individui
adulti di dimensioni variabili: ma non tuttavia fra limiti troppo
distanti, e che ciò dipenda da condizioni individuali sia negli
stadii di vita parassitaria, sia forse anche dai primi momenti di
vita libera.
Ciò premesso mi pare che gli individui privi di apertura
boccale si debbano considerare come adulti, almeno fino a prova
contraria, e che i caratteri che essi presentano debbano avere
importanza di caratteri specifici.
Anche la colorazione, quantunque poco varia nei Gordius,
può fornire qualche carattere specifico non disprezzabile.
Io debbo avvertire in ultimo, che, rispetto alle regole di no-
menclatura, ho seguito quelle della Associazione Britannica non
essendo persuaso dell’utilità di introdurre i cambiamenti proposti
e messi in pratica dal Villot nella sua monografia.
Gen. GORDIUS (partim) Linnro.
Linneo stabilì il genere Gordixs con questa caratteristica
« corpus filiforme, aequale, laeve (1) Gmelin separò dal ge-
nere Linneano alcune specie e ne formò il genere ilaria (2);
pel genere Gordius egli conservò la diagnosi di Linneo.
(1) Systema Naturae, edit. XJI, 1767, vol. I, pars. II, pag. 1075, gen. 275.
(2) Systema Naturae, vol. I, pars VI, pag. 3039 e pag. 3082, Anno 1788,
94 LORENZO CAMERANO
Gli Autori posteriori ora seguirono Linneo, ora G@melin ed
io non li menzionerò qui (1) tanto più che nulla aggiunsero di
realmente importante alle cognizioni che già si avevano.
È d’uopo venire fino al Dujardin (2) per trovare una deli-
mitazione più esatta del genere Gord:us. Il Dujardin stabilì alle
spese di questo il genere Mermzs.
Colla formazione dei generi ilaria e Mermis, il genere
Gordius rimase ben delimitato e quale si intende ancora oggi.
Alla frase data dal Linneo si aggiunse: os terminale, extremitas
caudalis maris apice furcata, apertura genitali ad basim fur-
cationis, pene proprio nullo, extremitas caudalis feminae in-
tegra aut bi - vel tricuspis, apertura genitali in apice caudali
vel ad basim cuspidum (3).
Il genere Gordius conta oggi numerose specie: il Villot nella
sua monografia ripetutamente citata ne descrisse 34.
Due altre ne menzionò lo stesso Villot nella seduta del 18
maggio 1884 della Società di Scienze Naturali del Sud-Est.
Una specie descrisse il Rosa (4), tre altre specie descrisse
recentemente il Linstow (5). Due altre specie descrisse in questo
stesso anno il Vejdovsky (6). Si arriva in complesso a poco più
di una quarantina di specie.
È d’'uopo osservare tuttavia che parecchie di queste specie
sì conoscono soltanto per mezzo di descrizioni insufficienti. Io
credo che sia d’uopo collocare fra le species inquirendae tutte
quelle che non vennero sufficientemente descritte. Così ad esempio :
(1) Si veda la storia del genere Gordius esposta minutamente nelle opere
già citate del Balsamo Crivelli, del Villot ed anche in Dujardin (Ann. Se.
Nat., ser. 22, vol. XVIII, 1842, pag. 129).
(2) Memoire sur la structure anatomique des Gordius et d’un autre Hel-
minthe le Mermis, qu'on a confondu avec eux. (Ann. Se. Nat., 2° ser., vo-
lume XVIII, 1842, pag. 129.
(3) MeIssnER e SreBoLp, Beitrdge sur Anatomie und Physiologie der Gor-
diaceen (Zeit. fiùr Wiss. Zool., vol. VII, 1856, pag. 142. — Diesine, Revision
der Nematoden Sitz. der Ahad. Wiss. Wien, XLII, 186), pag. 599). — VILLOT,
Op. cit., pag. 45.
(4) Nota intorno a una nuova specie di Gordius di Tiflis. Atti R. Acc. Se.
di Torino, vol. XVI, 1881.
(5) Nemat. Tremat. u. Acanthocephalen, ges. v. Prof. FEDTSCHENKO (Ar-
chiv. f. Naturg, 1883, pag. 299).
(6) Zur morphologie der Gordiiden, (Zeit. fùr Wiss. Zool., vol. XLIII,
pag. 370, 1836).
"- A
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 95
le specie seguenti: Gordius lineatus Leidy, Gordius robustus
Leidy, G. chilensis Blanchard, G. incertus Villot, G. crassus
Grube, G. gemmatus Villot (1). Di parecchie altre specie la de-
scrizione, malgrado i lavori del Villot, dovrebbe essere rifatta ed
accompagnata da disegni esatti.
Gordius tolosanus DujArpIn.
(2)
Gordius tolosanus DusarDpIin — Sur les Mermis et les Gordius
— Ann. Sc. Nat. 2 ser., vol. XVIII, pag. 146 (1842)
— Diesing. Systema Helminthum, vol. 1I, pag. 106, 112
(1851) — Villot. (3) Monogr. des dragonneaux, (Archiv. di
zool. Exp. vol. III, pag. 55, tav. 1, fig. 6; tav. II fig. 11
(1874). — Rosa e Fiori. Un caso di parassitismo di (Gor-
dius adulto nell’uomo; giornale della R. Accad. di Medi-
cina di Torino (1881) — D. Rosa. Atti R. Ac. Sc. di
Torino, vol. XVII (1882) — Vejdovsky, Zur. Morphologie
des Gordiiden, Zeit. f. Wiss. zool. vol. XLIII, pag. 370,
tav. XV e XVI. (1886).
Gordius aquaticus Berthold — Ueber den Bau des Wasserkal-
bes — Abhand. Kén, Ges. Wiss. Gottingen, vol. I, 1843,
pag. 1, tav.
(1) In questo gruppo di animali è assolutamente indispensabile che le
descrizioni delle specie siano minute e complete e che ad esse si uniscano i
disegni opportuni. In modo diverso le descrizioni sono generalmente inser-
vibili.
(2) Come già ho detto nella parte bibliografica una delle forme di Gordius
descritte dal Bacounin (Mem. R. Acc. Sc. di Torino, anno 1790) è da riferirsi
a questa specie.
(3) ViLLoT (op. cit., pag. 55) dice: « Ce Dragonneau a été signalé pour
la première fois, par M. Charvet (Observ. ete. Nouv. Ann. du Muséum, vo-
lume III, pag. 45, 1834) sous le nom de Dragonneau de Risset ». Non so
su quali argomenti il Villot fondi questa sua asserzione poichè dalla descri-
zione del Charvet non è possibile dire a quale specie moderna il suo Dra-
gonneau de Risset si debba riferire. Il DusarDIN stesso del resto non tenne
conto alcuno della descrizione del Charvet. ll Diesing ‘Syst. Helmuint., pag. 106)
mette, non si sa con quale fondamento, il Dragonneau di Risset, sinonimo
del G. gratianopolensi e ne fa una var. gracilior. Lo stesso Diesing più tardi
(Revision der Nematoden, pag. 600) lo fa invece sinonimo del G. seta Muller.
96 LORENZO CAMERANO
Gordius subbifurcus Siebold, Stettiner entom. zeit pag. 296,
(1848) — Diesing Syst. Helm. vol. II, pag. 90, 27 (1851)
Meissner, Anat. und Physiol. der Gordiaceen. zeit. f. Wiss.
zooli vol: VIE ‘pag: 59) tav. TI IV fe 40695;
10, 12, (1856) — Siebold, ibidem, pag. 148 — Die-
sing, Revision d. Nematoden. Sitz. Akad. Wiss. Wien. vol. 42,
pag. 602 (1861) — Schneider, Monographie der Nema-
toden, pag. 180, tav. XIV, fig. 2 (1866) — Grenacher,
zur Anatomie der Gattung Gordius, zeit. f. Wiss, zool.
vol. 18, pag. 322, tav. XXIV7 fig. 71308):
a) 20 esemplari, Contorni di Torino, 1886.
1) 1 » dall’intestino umano, Torino (Dott. G.
M. Fiori).
ea » Lanzo (L. Camerano).
dj... » Moncalieri (L. Camerano).
e) il » Rocchetta Tanaro (Dott. F. Sacco)
giugno 1886.
Pie » Grenoble (avuto in comunicazione
dal conte A. Ninni al quale venne
spedito dal sig. Villot).
L’estremità anteriore nei maschi è nel suo margine estremo
quasi tronca e appena arrotondata. Essa è assottigliata spiccata-
mente rispetto al corpo. Lo stesso si dica per le femmine.
L'estremità posteriore nei maschi è biforcata: i lobi sono
corti e relativamente larghi; essi sono spiccatamente più corti
del diametro trasversale del corpo misurato all’altezza dell’aper-
tura cloacale. I lobi sono divergenti e il loro margine interno è
diritto o leggermente convesso.
Nelle femmine l’estremità posteriore è tronca obliquamente
ed è solcata: le parti laterali al solco sono un po’ rigonfie:
l'apertura cloacale è aperta nel solco, ma verso la parte ven-
trale.
Lo strato cuticolare nel Gordius tolosanus è notevolmente
diverso nei due sessi. Esso è areolato. Le areole nei maschi hanno
contorno rotondeggiante ma un po’ irregolare; sono un po’ con-
vesse e di color giallo-brunastro più o meno scuro; esaminate
con forti ingrandimenti si presentano irregolarmente rugose alla
superficie.
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 97
La loro grandezza varia da 7 a 17 micromillimetri di lar-
ghezza. Di tratto in tratto senza ordine preciso, con una mag-
gior abbondanza nella parte ventrale e sui fianchi, che non sul
dorso, fra queste areole se ne osservano altre molto più grosse
e di forma variabile (1), esse presentano nel mezzo un cerchietto
chiaro, brillante e sono; come dice benissimo il Villot, ombeli-
cate, talvolta gli ombelichi sono due e talvolta anche tre nella
stessa areola.
Queste grosse areole, che si possono considerare come for-
mate dalla unione di parecchie delle areole più piccole, hanno
larghezza variabile fra 20, 30 ed anche 33 micromillimetri.
Fra le areole piccole e fra queste e le grandi tutto all’intorno
vi è un solco dovuto alla sporgenza delle areole stesse: in questo
stanno asperità granuliformi o peliformi assai brillanti, con dispo-
sizione poco regolare ora in una serie sola ora in due o tre.
(Non ho mai potuto osservare nei miei esemplari solchi così
larghi come quelli disegnati da Villot, op. citat. fig. II, tav. II.
Al disopra ed in prossimità dell'apertura cloacale vi è un
fascio di appendici a mo’ di peli di lunghezza variabile (fino a
28 micromillimetri) e di forma irregolare; ora biforcati, ora
divisi in tre o quatto rami. Sotto l’ apertura cloacale, la
quale ha essa pure allo intorno varie serie di peluzzi, stanno
molte papille spiniformi alte da 10 a 12 micromillimetri le
quali si estendono sul lato interno dei lobi fin quasi all’ apice
di questi.
La femmina ha lo strato cuticolare esterno coperto di areole
analoghe alle piccole areole del maschio e di grandezza variabile
da 5 a 12 micromillimetri. I solchi interareolari e i granuli
brillanti sono come nei maschi. Qua e là fra le areole alcuni
cerchietti più scuri e più grandi indicano i prolungamenti che
attraversano lo strato fibrillare sottostante della cuticola prove-
nendo dallo strato cellulare sottostante. Mancano le areole grosse
e i rivestimenti pelosi dei maschi.
Nei maschi la colorazione è generalmente più scura che nelle
femmine: il collare bruno che tien dietro alla calotta chiara
dell’estremità anteriore è poco spiccato e si fonde spesso col
(1) Il disegno che dà il Villot dello strato cuticulare esterno di questa
specie nella sua ripetutamente citata Monografia dei Gordius è poco felice.
Di
8 LORENZO CAMERANO
color bruno scuro del corpo. Questo è più scuro posteriormente
che anteriormente.
Le femmine sono giallastro chiare con collare bruno poco
spiccato e con una macchia bruna circondante l’apertura cloa-
cale e continuantesi in due fascie, dorsale e ventrale, le quali
si sfumano in breve colle tinte del corpo.
DIMENSIONI.
Maschi — Lunghezza da m. 0,14 a m. 0,21. — Lar-
ghezza m. 0,0007.
Femmine — Lunghezza da m. 0,13 a m. 0,17. — Lar-
ghezza m. 0,001.
Questa specie è la più comune nel contorno di Torino. Buone
figure di questa specie si hanno nello Schneider, nel Meissner e
Siebold e nel Rosa. (Vedi sinon.).
Gordius alpestris nov. sp.
Gordius alpestris. Villot in schedis.
a) 2 esemplari, Vallone della Veggia (Biellese) a 1500 metri
circa sul livello del mare, 1886. (L. Camerano).
b) 1 esemplare Aizy-Sur-Noyare, avuto in comunicazione dal
Conte A. Ninni al quale venne spedito dal Villot.
L’estremità anteriore del corpo ha il margine estremo ar-
rotondato, più spiccatamente nei maschi che nelle femmine. Il
capo viene assottigliandosi verso la parte anteriore, più nelle fem-
mine che nei maschi. La calotta anteriore non è distinguibile per
la forma dal rimanente.
L’estremità posteriore dei maschi è biforcata con lobi poco
divergenti e col margine interno arcato. Non vi è lamina post-
cloacale. Al disopra dell’apertura cloacale vi è una serie di peli,
piegata ad angolo; i lobi della biforcazione sono verso l’interno
abbondantemente provvisti di piccole protuberanze spiniformi.
Nelle femmine l'estremità posteriore è arrotondata; l’apertura
cloacale è collocata quasi al centro ed è circondata da un anello
bruno , il quale si sfuma in una macchia bruno-ferruginosa.
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 99
Lo strato cuticolare esterno è simile nei due sessi; esso è
areolato; le areole hanno margini spesso rettilinei; le areole sono
trasparenti assai e misurano generalmente in lunghezza 21 o 20
micromillimetri, e in larghezza 16 o 18 o 20 micromillimetri.
Gli spazi interposti fra le areole variano in larghezza da 1 a 2
micromillimetri. Negli spazi interposti stanno qua e là dei pic-
coli rialzi peliformi assai brillanti.
La colorazione dell’animale è biancastra, leggermente gial-
liccia senza collare bruno alla estremità anteriore; ve ne è una
traccia piccolissima nelle femmine. La colorazione dell’ estremità
posteriore delle femmine è già stata indicata.
DIMENSIONI.
Maschi — Lunghezza m. 0,134. - Larghezza m. 0,0004.
Femmine — Lunghezza -m. 0,170, m. 0,140 — Lar-
ghezza m. 0,0004.
Il corpo molto assottigliato anteriormente, la mancanza di
collare bruno e la struttura dello strato cuticolare esterno fa-
ranno riconoscere facilmente questa specie.
Gordius Violaceus Bairp.
Gordius violaceus — Baird, New Entoz. British Museum (Proc.
zool. Soc. part. XXI, 1858, pag. 20-3, Annulosa, tav. XXX,
fig. 3 — Ann. nat. hist., 2 ser. XV, 71). — Diesing, Revis,
d. Nematoden, Sitzung. Akad. Wiss. Wien, 1860, pag.
604-13 —. Villot, Monogr. Dragon. Arch. zool. Exp.
vol. III, pag. 60. - 28 (1874) — Soc. Science nat. du
Sud-Est, Séance 18 mai 1884, Proc. Verb.
a) 2 esemplari £ e 9 Grenoble (avuti in comunicazione
dal signor conte A. Ninni, il quale li ricevette dal
sig. Villot).
Io non ho trovato ancora questa specie in Italia, tuttavia
credo probabile vi si trovi, perciò avendo avuto occasione di
esaminare due esemplari di Grenoble ho creduto bene di dare
il disegno delle estremità anteriori e posteriori del maschio e
100 LORENZO CAMERANO
della cuticola, tanto più che questa specie è poco nota e la
diagnosi originale e le figure del Baird non bastano per la sua
sicura caratterizzazione.
Io non descriverò minutamente questa specie: dirò solo che
essa è distinguibile facilmente dalle altre specie a cuticola areo-
lata per la sua mole, lunghezza da 30 a 40 cent., superiore a
quella del G. tolosanus, del G. Preslii, del G. alpestris, ecc.
per la forma appuntita dell’estremità anteriore: per l’estremità
posteriore della femmina la quale è un po’ rigonfia ed è bian-
chiccia e non macchiata come nel G. tolosanus e finalmente per
la forma, per le dimensioni delle areole della cuticola e per
la disposizione dei solchi e dei granuli interareolari, come si può
vedere nella figura unita a questo lavoro; inoltre non vi sono
nei maschi le areole più grosse come in quelli del G. tolo-
sanus.
Gordius Preslii VEJDOvSKY.
Gordius Presliù Vejdovski, zur Morphologie der Gordiiden —
Zeitsch. Wiss. zool. vol. XLIII, 1886, pag. 371, tav. XV
6, -XNI
a) 5 esemplari Ò presi dal signor conte A. Ninni nel
marzo 1884 a Treviso.
b) 3 » 9 come sopra.
L’estremità anteriore è arrotondata : la parte anteriore, quella
che costituisce la calotta chiara è più stretta del rimanente e
tende ad appuntirsi anteriormente a mo’ di lobo. Questo carat-
tere è più spiccato nelle femmine che nei maschi.
Nelle femmine la parte dell’estremità anteriore che tien dietro
alla calotta chiara si presenta alquanto rigonfia.
La coda dei maschi è biforcata all'estremità: i due rami
sono poco divergenti e sono lunghi circa tre decimi di millimetro.
L'apertura cloacale dista dalla biforcazione un decimo di milli-
metro o poco più.
Nelle femmine l’estremità caudale è arrotondata e 1’ apertura
cloacale è collocata nel mezzo.
La cuticola è areolata con qualche leggera differenza fra i
due sessi,
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 101
Nei maschi la cuticola presenta areole di lunghezza varia-
bile da 12 a 20 micromillimetri e di larghezza variabile da 5
a 10, vale a dire che le areole sono in complesso spiccatamente
più lunghe che larghe.
Le areole sono separate fra loro da spazii chiari, larghi circa
2 micromillimetri.
Le areole sono contornate da numerosi e piccoli rialzi granuli-
formi (bòrstschen Wejdoysky), i quali raramente si scostano dal con-
torno immediato delle areole e non arrivano a misurare in altezza
un micromillimetro. Di tratto in tratto in mezzo alle linee chiare
spuntano prolungamenti più grossi e più lunghi (porenkanile Wej-
dovsky), i quali misurano appena poco più di due micromillimettri.
Nella regione caudale si notano numerosi e piccoli rialzi spi-
niformi coll’ apice rivolto verso l’estremità della coda; i quali
sono più ravvicinati ed abbondanti al disotto dell'apertura cloa-
cale e nella parte interna dei due rami della biforcazione, so—
pratutto verso la loro base.
Al disopra della apertura cloacale comincia una serie di se-
tole la quale si prolunga dai due lati fino alla base di ciascun
ramo della biforcazione descrivendo da ciascun lato una curva
parabolica. Le setole hanno lunghezza e forma varia: le più
grandi misurano da 10 a 14 micromillimetri; altre sono appun-
tite, altre si dividono all’apice irregolarmente in due o tre pro-
lungamenti a un dipresso come nel Gordius tolosanus Dujar..
Nelle femmine le areole della cuticola hanno in generale una
lunghezza variabile da 12 a 20 micromillimetri ed una larghezza
variabile da 17 a 18 micromillimetri; esse sono cioè più roton-
deggianti che nei maschi. Le linee chiare che separano le areole
misurano in generale 3 micromillimetri circa di larghezza.
Piccoli e numerosi rialzi granuliformi non solo contornano
come nei maschi le areole, ma riempiono quasi intieramente gli
spazii chiari interareolari. Di tratto in tratto spuntano anche qui
prolungamenti più lunghi.
La colorazione non è notevolmente diversa nei due sessi. La
calotta anteriore è biancastra ed è nettamente separata dal ri-
manente del corpo.
Dopo la calotta viene una fascia bruno-scura, la quale si
sfuma a poco a poco col bruno più chiaro della colorazione del
corpo che si mantiene costante fino alla regione caudale dove si
inscurisce alquanto nei maschi. i
102 LORENZO CAMERANO
Nelle femmine da me esaminate il bruno del corpo è un po”
più chiaro che non nei maschi.
Gli esemplari da me esaminati presentano le dimensioni se-
guenti :
Maschi — Lunghezza totale: a) m. 0,135
» » dI; > S05IN
» » c) » 0,12
» » d) » 0,158
» » e). » 0,105
Larghezza . BRAMA dl AI Ue
Femmine — Lunghezza totale: a) m. 0,16
» » d) » 0,14
» » c) » 0,167
Larghezza a metà del corpo m. 0,0007.
Habitat. Treviso, (contorni di Praga).
Il Gordius Preslii venne descritto dal Wejdovsky nell'opera
sopra citata, sopra esemplari raccolti nei contorni di Praga.
A questa specie io ho creduto di dover riferire gli esemplari
di Treviso inviatimi dal conte A. Ninni quantunque la descri-
zione e le figure date dal Wejdovsky non corrispondano ad essi
in tutti 1 punti esattamente.
Anzitutto debbo far osservare che la descrizione del Wej-
dovsky non corrisponde esattamente alle figure che il Wejdovsky
stesso disegnò nel suo lavoro.
La figura 4 (tav. XV) che rappresenta la cuticola areolata
porta fra le areole poche e fra di loro distanti, setoline; mentre
invece secondo la descrizione gli spazi chiari fra le areole sono
rivestiti fittamente di setoline alte mm. 0,006, le quali nei
preparati di superficie appaiono come punticini nettamente
contornati.
Nella figura 2 della stessa tavola, che rappresenta l’estremità
posteriore del maschio visto dal disopra, si trova segnata con
margini ben netti nel punto dove comincia la biforcazione, sotto
l'apertura cloacale, una lamina a mezzaluna colla concavità ri-
volta in alto. Nel testo non vi è cenno alcuno sopra questa
struttura, che se esistesse realmente sarebbe carattere, come noto,
importante nella distinzione specifica dei Gordius, Forse si tratta
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 103
di un errore di disegno, poichè la curva della lamina non è
quale si suole osservare nei Gordixs provvisti di questa parte.
Fra i maschi da me esaminati e quelli descritti dal Wej-
dovsky si nota ancora una differenza nella posizione della cloaca
rispetto al punto dove comincia la biforcazione essendo la prima
ne’ miei esemplari più vicina a questi ultimi che non in quelli
del Wejdovsky.
Malgrado queste ed altre piccole differenze ho creduto bene,
come già dissi sopra, di considerare gli esemplari di Treviso
come appartenenti al Gordius Presti, poichè i caratteri princi-
pali della forma dell’estremità anteriore e posteriore, della man-
canza di areole speciali, più grosse nei maschi, delle dimensioni,
del sistema di colorazione, ecc. concordano sostanzialmente.
Gordius tricuspidatus (L. Durour) (1).
Filaria tricuspidata Léon Dufour, Observ. sur une nouvelle
espèce de vers du genre F%laria, Ann. Sc. Nat. ser. I,
vol, XIV, pag. 228, tav. 12, C (1828), — Ibid., ser. II,
VOLSENtRi, pae, "Y,. (100.2):
Filaria Grylli bordigalensis, Siebold, Stettin. Entom. zeit.
p. 154, (1842).
Gordius Grylli bordigalensis, Diesing, Syst. Helmint, pag. 95,
1a ao Maud fi tegi gh)
Gordius gratianopolensis, Diesing, Syst. Helmint pag. 106. n.
113 (1851), (non var. graczlior, vide G. tolosanus Dujard.
nota).
Gordius tricuspidatus, Meissner, Zeit fur Wiss. Zool,, vol. VII,
pag. 49 e seg. — Siebold, Ibidem. pag. 143-3 (1856) —
Diesing, Revision der Nemat. Sitz. Akad. Wiss. Vienna
136dE pag. (603;1m. TOP o
Gordius Dectici albifrontis, Syst. Helmint., pag, 96, num. 57
(1851).
(1) Ho già fatto osservare nella parte bibliografica che una delle forme
descritte dal Bacounin (op. cit., 1788) deve molto probabilmente essere rife-
rita a questa specie. Appartiene pure a questa specie il Drugonneau du Claix
del Charvet (op. cit., pag. 38, 1834).
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII, 8
104 LORENZO CAMERANO
Gordius tricuspidatus var. spiralis, Diesing, Revision der Ne-
mat. Sitz. Akad. Wiss. Vienna, pag. 604 (1861).
Gordius gratianopolensis, Schneider, Monograph. der Nematoden.,
pag. 181, n. 4, tav. XIV, fig. 1 (1865) — Villot, Mo-
nograph. des Dragonneaux, Arch. de zool. Exp., vol. III
(1874), pag. 58.
Io non ho avuto occasione di esaminare alcun esemplare
italiano di questa specie. Io tuttavia la menziono in questo la-
voro poichè secondo le parole del BACOUNIN (op. cit.), e secondo
il DIEsING questa specie esisterebbe in Italia.
Del Bacounin già ho detto ripetutamente; il Diesing ha nel
suo Systema Helminthum, pag. 96, n. 57 e nella sua Revi-
sion der Nematoden, pag. 604 (op. citat.) le parole seguenti :
Gordius tricuspidatus var. spiralis.... Habitaculum, Decticus
albifrons: in abdomine, in Sicilia (Joh. Natterer).
In quanto poi al nome che la specie in-discorso deve portare
dirò che non credo si possano accogliere le conclusioni del Villot.
(Monogr. d. Dragon. op. citat. pag. 58) il quale dice che si
deve adottare il nome di Gordius gratianopolensis. Il nome
più antico è quello di Filarzia tricuspiduta L. Dufour, come si
può vedere dalla sinonimia sopra esposta. La diagnosi data dal
Dufour è sufficiente per far riconoscere la specie, quindi la de-
nominazione del Dufour ha incontestabilmente diritto alla priorità,
purchè bene inteso si vogliano seguire le regole di una buona
nomenclatura.
Gordius Villoti Rosa.
Gordius aquaticus Villot, Monograph. d. Dragonneaux, Archiv.
d. zool. exp. et Gén., vol. III, pag. 49, 1874.
Gordius Villoti Rosa. Nota intorno al Gordius Villoti e al
G. tolosanus. Atti R. Acc. delle Scienze di Torino, vol.
XVII, 1882 (1).
(1) Ho lasciato in disparte tutti gli altri Gordius aquaticus, i quali non
sì possono, come già dissi sopra, mettere in sinonimia, nè di questa nè di
altre specie perchè hanno diagnosi al tutto insufficienti.
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 105
a) 1 esemplare maschio. Lago del Cenisio (dal dottore
Fedele Bruno).
b) » » femmina. Rivasco in Val Formazza, (L.
Camerano).
c) >» » maschio. Saint-Egrère, Francia. (Esem-
plare tipico mandato dal Villot al Conte
A. Ninni che gentilmente me lo inviò
in comunicazione).
(1) A » femmina giovane (presenza di apertura
boccale). Rivasco in Val Formazza
(L. Camerano).
L’estremità anteriore del capo è arrotondata; la calotta chiara
non è distinta dal rimanente del corpo da nessun restringimento.
Nei maschi l’estremità anteriore è leggermente rigonfia : nelle
femmine questo carattere pare meno spiccato.
L’estremità caudale dei maschi ha i due rami della bifor-
cazione notevolmente divergenti fra loro: ciascun ramo essendo
lungo a un dipresso come la larghezza dell’animale. I due rami
sono alquanto ricurvi verso l’esterno in modo che la biforcazione
presenta come una arcatura interna, Il corpo dell'animale si re-
stringe alquanto alla base della biforcazione. L'apertura cloacale
è quasi a contatto della lamina a tetto che sta sopra al prin-
cipio della biforcazione.
Nelle femmine l'estremità caudale è semplice e arrotondata,
leggermente solcata in direzione antero-posteriore. In questo solco
in posizione quasi centrale è collocato il foro cloacale.
Lo strato cuticolare (1) esterno è liscio nel senso che non
ha struttura areolare. Esso appare, esaminato con ingrandimenti
sufficienti (ob. C. oc. 4, Zeiss) e in preparati con glicerina, fina-
mente granuloso e qua e là con piccolissimi prolungamenti a
mo’ di peluzzi (alti 2 micromillimetri e mezzo circa e larghi
alla base 1 micromillimetro appena).
Lo strato cuticolare esterno partecipa alle increspature dello
strato cuticolare sottostante, il quale in questa specie si mostra
tutto increspato, il che dà in molti punti l'apparenza ottica di
vere areole limitate da linee chiare. Lo strato cuticolare esterno
(1) Épiderme di ViLLoT, op. cit. pag. 49.
106 LORENZO CAMERANO
essendo sottilissimo e intieramente trasparente lascia vedere al
disotto una serie di linee ora chiare ora oscure, secondo che si
allontana o si avvicina l’obbiettivo del microscopio, le quali si
incrociano fra loro in modo da delimitare dei rombi. Queste li-
nee sono dovute ad una sorta di inflessione che subiscono le fi-
brille dei varii piani dello strato cuticolare interno, come già dissi
precedentemente. I rombi sono in generale notevolmente grandi
e misurano fino a 90 micromillimetri e 37 micromillimetri nelle
loro due diagonali. Se ne trovano tuttavia dei più piccoli aventi
80 micromillimetri di lunghezza e 20 di larghezza. Le linee che
delimitano i rombi misurate quando appaiono chiare al micro-
scopio hanno circa 5 micromillimetri di larghezza.
Nelle femmine l’integumento ha in complesso l’istesso aspetto
che nei maschi; le linee sopra dette e l'apparenza areolare sono
forse un po’ più spiccate.
Nei maschi al disopra del principio della biforcatura vi è
una lamina a tetto. Sui rami della biforcazione ed anche qua
e là intorno all'apertura cloacale e sul corpo vi sono delle pic-
cole sporgenze a mo’ di peli un po’ più grossi o di piccole spine.
Anche nella femmina se ne osservano alcune sparse qua e. là
pel corpo verso la regione inferiore.
L'individuo che il Rosa (op. citat.) descrive come una gio-
vane femmina di questa specie, parve anche a me realmente tale
poichè presenta traccia di apertura boccale ed il corpo è anel-
lato fin presso il capo. Nella struttura dell’integumento non dif-
ferisce menomamente dalla femmina adulta.
Gli esemplari da me esaminati non presentano fra loro. no-
tevoli differenze di colorazione.
Nei maschi dietro la calotta chiara del capo vi è un anello
bruno-scuro, non molto intenso, il quale si sfuma in una tinta
bruno-chiara che occupa il corpo per ia lunghezza di tre mil-
limetri circa; la stessa colorazione bruna si estende lateralmente
in due fascie che discendono lungo il corpo, fondendosi insieme
a poca distanza dal capo e rendendo così uniformemente bruna
la colorazione dell’animale. Sul dorso e sul ventre a partire dal
secondo collare bruno si nota una tinta bruno-gialliccio chiara
che discendendo in basso a poco a poco si va perdendo.
L'animale, esaminato anche con una lente semplice, lascia
vedere molte piccole macchie giallognolo-chiare, a contorno spesso
indeciso, sparse irregolarmente qua e là: queste si osservano su
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 107
tutto il corpo fino alla biforcazione caudale. Non ho osservato
alcun cerchio bruno intorno all'apertura cloacale: la lamina
postcloacale è bruno scura: nella parte interna e superiore della
biforcazione vi è una tinta bruna intensa.
Nella femmina il color generale è bruno, il collare è bruno
scuro e le striscie laterali sono poco distinte; lo stesso si dica
della macchiettatura chiara.
Nel giovane la colorazione è quale venne indicata dal dot-
tore Rosa (op. citat.), vale a dire il corpo è giallo chiaro con
un collare bruno bene spiccato; mancano le fasce brune laterali.
Le dimensioni degli esemplari esaminati sono :
Maschi — a) (esemplare tipico del Villot) - Lunghezza
totale m. 0,38 - Larghezza 7 decimi di millimetro.
5) (Lago del Cenisio) - Lunghezza totale m. 0,58
- Larghezza 1 millimetro circa.
Femmine — a) (Rivasco) Lunghezza totale m. 0,60 - Lar-
ghezza 1 millim. circa.
b) juv. (Rivasco) Lunghezza totale m. 0,09 - Lar-
ghezza }4 millimetro.
Il Gordius Villoti Rosa, presenta questioni di sinonimia e
di nomenclatura molto complesse. Il Rosa considera come sino-
nimo della sua specie quella che il Villot (op. citat.), descrisse
col nome di G. aquaticus Dujard. Il Villot dietro esame dei
preparati di integumenti inviatigli dal Dottor Rosa come gentil-
mente mi comunica lo stesso Dottor Rosa, così scviveva a que-
st'ultimo (16 ottobre 1885): « Votre G. Villoti correspond très
exactement à ce que j'ai décrit dans ma Monographie (p. 54)
sous le nom de G. subareolatus; mais je suis bien convaincu
aujourd’hui, gràce à la comparaison de plus d’une quarantaine
d’individus de tout àge et des deux sexes, que le G. subareo-
latus et le G. aquaticus de ma Monographie ne représentent
que des états différents de développement d’une seule et mème
espèce. Le G. aquaticus représente l’état jeune et le G. sub-
areolatus (votre G. Villoti), l’état vieux ».
Il Villot (1) descrive il suo G. aquaticus riferendolo a quella
specie che Dujardin (2) descrisse col nome di G. aquaticus.
(1) Op. cit., p. 49.
(2) Op. cit., p. 142.
108 LORENZO CAMERANO
Ora, chi primo introdusse nella scienza il nome di G. aqua-
ticus fa Linneo (1), colla seguente diagnosi :
Genere Gordius — Corpus filiforme, aequale, laeve.
Sp. G. aquaticus — G. pallidus, catremitatibus migris.
Questa diagnosi come si vede non è sufficiente per caratterizzare
alcuna specie di Gordius ed è oggi al tutto impossibile di sapere
quale forma Linneo abbia voluto indicare col nome di G. aquaticus.
Gmelin, Lamarck, Cuvier, ecc. non ci forniscono maggiori
ragguagli in proposito.
Il Dujardin (2) ha descritto per primo in modo abbastanza par-
ticolareggiato una specie che egli indicò col nome di G. aquaticus
riferendola evidentemente alla specie Linneana, senza tuttavia
dare le prove che la sua specie corrisponda realmente a quella de-
signata da Linneo, cosa del resto che egli non avrebbe potuto fare.
La descrizione del Dujardin è abbastanza minuta e si rife-
risce ad un individuo adulto, come lo fanno credere le parole
seguenti: « La téte, étudiée avec soin par des coupes MAnENeTRSO,
me parut o réellement imperforée ».
Il Dujardin non fa cenno della lamina chitinosa Srcata
posta al disotto dell'apertura cloacale.
Questo fatto unito alla piccolezza relativa (lung. 174 mill.) e
all’essere l’animale adulto mi fanno dubitare fortemente che il
G. aquaticus Dujardin sia una specie diversa dal G. aquaticus
Villot (3).
Meissner (4) che venne dopo ha descritto e figurato col
nome di G. aquaticus un maschio ed una femmina che non è
facile sapere con sicurezza che cosa sono.
Certamente che il maschio di Meissner non corrisponde al
maschio del G. aquaticus descritto dal Villot e non corrisponde
neppure a quello descritto dal Dujardin poichè ha la cute areo-
lata: esso probabilmente è una specie diversa al tutto. In quanto
alla femmina si riconosce in essa qualche carattere affine a quella
dell’aquaticus del Villot, come ad esempio nella forma della
coda (5), ma la cosa è molto incerta.
(1) Sys. Nat., XII ed., pag. 1075.
(2) Op. cit., pag. 1/42, 1842.
(3) Il Rosa (op. cit.) aveva già espressa la stessa idea.
(4) Op. cit.
(5) Op. cit., tav. III, fig. 3. In quanto alla fig. 12, che rappresenta il capo
il MEISSNER, non dice se esso sia del maschio o della femmina. Non è pos-
sibile di giudicare con sicurezza del sesso dal semplice esame della figura.
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 109
Come si vede adunque neppure dalle descrizioni del Meissner
non è possibile ricavare una diagnosi sicura del G. aquaticus.
Il Villot in ultimo nell’opera ripetutamente citata descrive
un Gordius aquaticus riferendolo a quello di Dujardin; ma con
una diagnosi, come si è già detto sopra, ben diversa.
Il Villot per primo considerò per G. aquaticus una forma
con lamina chitinosa sotto Vapertura cloacale dei maschi.
In conclusione si ha:
Un Gordius aquaticus Linn. sul quale non è possibile dir
nulla.
Un Gordius aquaticus Dujard.
Un Gordius aquaticus Meissner.
Un Gordius aquaticus Villot. (1).
Lasciando in disparte il G. aquaticus di Linneo, troviamo
gli altri tre che hanno i caratteri differenziali seguenti:
G. aquaticus Dusar. | G. aquaticus MEISS. | G. aquaticus VILL.
Cute liscia. Non indica fra le Cute liscia.
specie da lui descritte
Il Dujardin non differenze nella cute.
Con lamina chi-
menziona la presenza tinosa sotto l’aper-
della lamina chitinosa Non parla e non | tura cloacale dei
sotto l'apertura cloa- | disegna lamine alcune | maschi.
cale dei maschi. sotto l’apertura cloa-
cale dei maschi.
Le stesse cose si
possono dire per la
diagnosi data dal
Siebold, Zeit. fiir
Wiss., Zool., vol. 7,
po dE2.
(1) Senza contare il Gordius aquaticus GruBE indicato dal Linstow,
(Archiv. fiir Nat. 1877, p. 3), e il Gordius aquaticus GmeL., pure indicato
dallo stesso Linstow (Archiv. fur Nat 1884, p. 137).
110 LORENZO CAMERANO
Da tutto questo si vede come non sia assolutamente possi-
bile identificare con sicurezza nè i (Gordius aquaticus di Du-
jardin, di Meissner, di Villot, con quello di Linneo nè i (Gor-
dius sopra citati fra loro. Anzi vi sono varie ragioni per riconoscere
in essi parecchie forme distinte.
Io credo quindi, per togliere la confusione che si ha attual-
mente nel genere Gordius in causa di questi vari G. aquaticus
indecifrabili, sia conveniente abbandonare interamente questo
nome.
La forma descritta dal Rosa col nome di G. Villoti cor-
risponde esattamente al Gordius aquaticus descritto dal Villot
il quale è certamente adulto, poichè il Villot gli dà la dimen-
sione massima di 89 centimetri.
Nel brano della lettera del Villot al Dottor Rosa sopra ci-
tata egli riunisce al suo Gordius aquaticus il suo G. subareo-
latus (1) e crede che quest'ultima specie rappresenti lo. stato
vecchio della precedente e che lo stesso si debba dire del G.
Villoti Rosa.
Ora pare difficile che il Gordius aquaticus di Villot il quale
misura sino ad 89 centimetri, sia un giovane poichè esso supera
di molto in lunghezza quella dell'esemplare più grande, data dal
Rosa al suo G. Villot, vale a dire la lunghezza di 60 centi-
metri.
D'altra parte la diagnosi del subareolatus del Villot nella
quale non si parla nè della presenza, nè della mancanza della
lamina chitinosa posta dopo l'apertura cloacale dei maschi, nè si
danno limiti precisi di dimensioni non concede di accettare senza
nuovo esame l’opinione sopra espressa del Villot.
Io ho avuto occasione di esaminare un tipo del Gordzus
aquaticus Villot che questi inviò al conte A. Ninni, ed ho tro-
vato che esso corrisponde in tutto agli esemplari descritti dal
Rosa.
Io credo, dirò per conchiudere, che la denominazione di
Gordius aquaticus, debba essere per maggior chiarezza abban-
donata, e che quindi, come già fece il Dottor Rosa, al Gordius
aquaticus di Villot ci si debba dare un altro nome che in questo
caso dovrebbe essere di Gordius Villoti, Rosa.
(1) Op. cit., p. 04.
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS IL
Gordius Perronciti n. sp,
a) Un individuo (incompleto), Gran Sasso d’Italia dal
signor Camillo Gibelli.
dD) » » Italia, avuto dal Prof. Perroncito, 1886.
L'’estremità anteriore è bruscamente assottigliata ed ha il suo
margine estremo arrotondato.
L’estremità posteriore è arrotondata con un leggero solco
mediano nel quale si apre l’orifizio cloacale. Il corpo ha lo stesso
diametro trasversale a cominciare dal restringimento del capo
fino alla estremità posteriore.
Lo strato esterno cuticolare è liscio, vale a dire non ha
struttura areolare. Esso presenta qua e là alcune prominenze a
mo’ di peluzzi. Lo strato cuticolare inferiore è notevolmente
spesso e presenta linee delimitanti rombi aventi diagonali di 112
e di 62 micromillimetri circa. Inoltre è spiccatamente increspato.
Le increspature sono allungate e sono evidentissime, apparendo,
secondo si innalza o si abbassa l'obbiettivo del microscopio, ora
come spazi chiari limitati da linee oscure, ora come spazii oscuri
limitati da linee chiare.
La colorazione è giallo-bruna, uniforme. La calotta chiara
dell’estremità anteriore è nei due esemplari da me esaminati ap-
pena visibile; poco spiccato pure è il colletto bruno che tiene
dietro ad essa e non è distinta da margini netti dal rimanente
del capo.
DIMENSIONI.
Femmine a) Lunghezza m. (?) - Larghezza m. 0,0017,
esemplare incompleto.
» 6) Lunghezza m. 0,56 - Larghezza m. 0,0015.
Io non ho potuto, disgraziatamente esaminare maschi di que-
sta specie: tuttavia le femmine sopra descritte mi paiono ap-
partenere ad una specie distinta da quelle descritte fino ad ora
sia per la forma del capo, sia per la mole e pel rapporto del
diametro trasversale con la lunghezza del corpo.
Questa specie è affine al Gordius Villoti per la struttura
degli strati cuticolari: ma se ne scosta pei caratteri sopra men-
zionati e per la mancanza di macchiettature chiare sul corpo.
112 LORENZO CAMERANO
Gordius Rosae nov. sp.
a) 8 esemplari Vallone della Veggia (Biellese) a 1500
metri circa sul livello del mare, 1886. (L. Ca-
merano).
L’estremità anteriore è assottigliata, il suo margine estremo
è arrotondato; l’assottigliamento è spiccato sopratutto nelle fem-
mine le quali hanno il corpo un po’ più largo dei maschi. La
calotta chiara è appena distinta da un leggero restringimento
dal resto del corpo. L’assottigliamento comincia poco dopo il
margine inferiore dell’anello nero.
L’estremità caudale dei maschi ha i lobi della biforcazione
spiccatamente più corti della larghezza del corpo, misurata al li-
vello dell’apertura cloacale: essi hanno il loro margine interno
notevolmente arcato. Il corpo è appena ristretto alla base della
biforcazione.
L’estremità caudale delle femmine non è gran fatto diversa
da quella delle femmine del G. Villoti e del G. Piolti.
Nei maschi lo strato cuticolare esterno è liscio; vale a dire
non ha struttura areolare, esaminato con sufficienti ingrandi-
menti (oc. 2. ob. 9 secco Hart. ob. E. oc. 4 Zeiss) esso appare
coperto di piccoli granuli più o meno allungati; ma meno fitti
che nel G. Pioltii.
Le linee che nello strato cuticolare inferiore delimitano dei
rombi sono assai spiccate. I rombi hanno diagonali di 62 e 100
o di 85 e 112 micromillimetri circa, in complesso essi sono più
grandi di quelli del G. Pz0/#? ed anche di quelli del G. Villoti.
Qua e là, ma sopratutto verso la regione caudale, spuntano
fuori i prolungamenti dello strato inferiore cellulare i quali sono
tuttavia meno numerosi che nel G. Piolt.
Non vi sono notevoli differenze fra i due sessi negli strati
cuticolari.
Nei maschi al disopra della biforcazione caudale sta una la-
mina a tetto: sul prolungamento dei due apici inferiori di essa
stanno pochi peluzzi.
Nei maschi dietro la calotta chiara vi è un anello nero il
quale si continua in due fasce laterali assai spiccate che pro-
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS £13
cedono lungo il corpo fin quasi all'estremità caudale: il rima-
nente del corpo è giallastro, bianchiccio, od anche un po’ bru-
nastro; intorno all'apertura cloacale, ad una distanza eguale ad
una volta e mezzo circa il diametro dell'apertura stessa si osserva
una macchia bruno-scura disposta ad ellisse, come indica la figura
unita a questo lavoro; la lamina a tetto è bruniccia. In alcuni
individui le fascie laterali e quella che circonda l’apertura cloa-
cale sono meno appariscenti e la tinta generale del corpo è più
bianchiccia.
Le femmine hanno in complesso la stessa colorazione dei
maschi: salvo la macchia circumeloacale.
DIMENSIONI.
Maschi — Lunghezza m. 0,025 - m. 0,018 - Larghezza
da 7 decimi di millimetro ad un millimetro.
Femmine — Lunghezza m. 0,016 — m, 0,014 - Larghezza 7
decimi di millimetro.
Il Gordius Rosae è specie affine al Gordius Villoti e al
Gordius Pioltit; ma è facilmente distinguibile da queste due
specie per la forma del capo, dei lobi della biforcazione dei
maschi e per la colorazione.
Esso presenta pure una certa affinità (stando alla diagnosi
del Villot) al G. subareolatus di questo autore il quale tuttavia
nella descrizione (1) non fa cenno della lamina a tetto dei
maschi e dice l’estremità anteriore « tronqueée » Si veda del
resto, rispetto a questa specie ciò che è detto a proposito del
G. Villoti.
Gordius Pioltii nov. sp.
a) 4 esemplari contorni di Cesana Torinese a circa 1917
metri sul livello del mare, 1886 (dal Dottore
G. Piolti).
L
L’estremità anteriore è arrotondata; la calotta chiara è di-
stinta dal rimanente da un restringimento spiccato nei maschi;
(1) Monogr. drag. (op. cit.) pag. 54.
114 LORENZO CAMERANO
nelle femmine questo restringimento manca. Nei maschi al re-
stringimento sopradetto tien dietro un tratto notevolmente ri-
gonfiato: nelle femmine ciò sì osserva in grado minore.
L'estremità caudale dei maschi ha i lobi non divergenti;
questi sono lunghi a un dipresso come la larghezza dell'animale,
misurata al livello dell’apertura cloacale. I due lobi sono con-
nessi nella loro parte interna. Il corpo si restringe spiccatamente
alla base della biforcazione.
L’apertura cloacale dei maschi e l’estremità posteriore delle
femmine sono, a un dipresso, come nel Gordius Villoti. 11 solco
terminale della femmina è tuttavia nel G. Pioltii più spiccato.
Nei maschi lo strato cuticolare esterno è liscio nel senso che
non ha struttura areolare; esaminato con ingrandimenti suffi-
cienti (oc. 2, ob. 9. secco. Hart. - ob. E. oc. 4, Zeiss.), esso
appare fittamente granulosa con granuli di varia grandezza: in
una sezione ottica questi granuli appaiono come ineguali rialza-
menti dello strato cuticolare esterno.
Riescono spiccate assai, per la trasparenza dello strato cuti-
colare esterno, le linee dello strato cuticolare inferiore le quali
si incrociano in modo da limitare dei rombi aventi diagonali di
24 e di 38 micromillimetri circa.
Qua e là, talvolta nel punto di incontro delle linee sopra
menzionate, tal altra in mezzo agli spazi rombici, si osservano
degli spazi ovali, granulosi, più chiari, i quali coincidono spesso
colle macchiettature chiare dell’integumento e che corrispondono
a rialzi dello strato cellulare sottostante della pelle i quali spor-
gono al difuori attraversando gli strati cuticolari. Gli spazi in
questione misurano generalmente una larghezza di 5 o 6 mi-
cromillimetri e una lunghezza di 14 o 15 micromillimetri. La
loro altezza è varia e può giungere anche a 4 o 5 micromil-
limetri.
Non ho trovato differenze notevoli rispetto all’integumento
fra i due sessi, salvo che nelle femmine da me esaminate le
granulazioni erano più fitte che nei maschi.
Nei maschi al disopra del principio della biforcazione vi è
una lamina a tetto. Nella parte interna dei lobi caudali vi sono
numerosi peluzzi di mole assai piccola.
Nei maschi dietro la calotta chiara vi ha un colletto nero
lungo come la larghezza del capo, il quale si sfuma in due fasce
laterali bruno. La parte interna dei lobi caudali è bruna, la
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS IS
parte esterna e inferiore dei lobi stessi è' bianchiccia. Il corpo
ha colore complessivamente bruno. Colla lente si scorgono nu-
merose macchiette ovali, a margini ben netti di color chiaro.
Non vi è cerchio bruno intorno all’apertura cloacale dei maschi.
Le femmine presentano a un dipresso lo stesso sistema di
colorazione dei maschi.
DIMENSIONI.
Maschi — Lunghezza m. 0,114 a m. 0,105 - Larghezza 5
decimi di mill. circa.
Femmine — Lunghezza m. 0,095 a m. 0,142 - Lar-
ghezza 5 decimi di millimetro.
Il Gordius Pioltii è specie affine al G. Villoti dalla quale
tuttavia è facilmente distinguibile sia per la mole, sia per la
struttura dell’integumento, sia anche per la forma dell’ appen-
dice caudale dei maschi. Giudicando dalla diagnosi dello Schnei-
der (1) il G. Polti sarebbe affine anche al G. setiger di questo
Autore. Ma quest’ultima specie merita di essere studiata di
nuovo (2).
(1) Monogr. d. Nemat., pag. 178, tav. XIII, fig. 9.
(2) Mentre questo lavoro era in corso di stampa il Dottor A. Borelli mi
portò da Nizza marittima tre Gordius presi nel contorno della città. Essi
sono riferibili a questa specie; ma hanno una colorazione bruna, un po’ più
intensa di quella degli esemplari di Cesana Torinese.
116 LORENZO CAMERANO
SPIEGAZIONE DELLE FIGURE
Fic. 1 — Estremità anteriore del Gordius Pioltii n. sp. 9
(ob. C. oc. 2 Zeiss.).
» 2 id. id. » n. Sp. Ò
(ob. C. oc. 2. Zeiss).
» 8 — Estremità posteriore del —» Presti Veyd Ò
(ob. C. oc. 2 Zeiss).
AE dl id. » Pioltt n. sp. Ò
(ob. C. oc. 2. Zeiss.)
» o — Estremità anteriore del » Preslii Veyd.
(ob. C. oc. 2. Zeiss.).
rp 60°; id. » Preslii Veyd. 9
(ob. C. oc. 2. Zeiss.)
» 7 — Estremità posteriore del » Rosae n. sp. È
(ob. C. oc. 1. Zeiss.).
» 8— id. anteriore del » Rosae n. sp. è
(ob. A. oc. 1. Zeiss.).
» 9 — id. id. ». AB0OSGE Ma BP 2
(ob. A. oc. 1. Zeiss.).
> 10 — id. posteriore del» alpestris n. sp. È
(ob. A. oc. 1 Zeiss.).
al = Guidi anteriore del » alpestris n.spò
(ob. A. oc. 1. Zeiss.).
» 12 — id. id. » alpestris n. sp. 9
(ob. A. oc. 1. Zeiss.).
(1) Le figure vennero disegnate alla camera lucida col tubo del micro-
scopio chiuso e tenendo la carta del disegno all’altezza del piattino del mi-
croscopio per le figure nelle quali è indicato il microscopio di Zeiss, e sul
tavolo da lavoro per quelle nelle quali è indicato il microscopio di Hartnak.
Gli animali intieri e gli strati cuticulari vennero esaminati in glicerina.
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25
26
27
SPECIE ITALIANE DEL GENERE GORDIUS 117
Estremità posteriore del Gordius alpestris n. sp. 9
Parte anteriore del
Estremità anteriore del
id.
posteriore del
(ob. A. oc. 1 Zeiss.).
» Perronciti n. sp. L
(grandezza naturale).
» violaceus Baird. Ò
(ob. A. oc. 1. Zeiss.).
» violaceus Baird È
(ob. B. oc. 1. Zeiss.).
Strato articolare esterno del » —tolosanus Dujard. 9
id.
id.
id.
id.
id.
id.
id.
id.
id.
id.
(ob. 9. sec. oc. 2. Hart.).
Gordius tolosanus Dujard. è
»
»
(ob. 9. sec. oc. 2. Hart.).
Preslii Veyd. Ò
(ob. 9. sec. oc. 2. Hart.).
Preslii Veyd. Ò
(ob. 9. sec. oc. 4 Hart.).
Preslii Veyd. 9
(ob. 9. sec. oc. 2. Hart.).
violaceus Baird. Ò
(ob. 9. sec. oc. 2. Hart.).
alpestris n. sp. Ò
(ob. 9. sec. oc. 2. Hart.).
Perronciti n. sp. 9
(ob. 9. sec. oc. 2 Hart.).
Pioltii n. sp. È
(ob. 9. sec. oc. 2. Hart.).
Margine laterale del corpo del Gordius Piolti n. sp. 9
in sezione ottica (ob. 9 sec. oc. 2 Hart.).
Strato cuticolare esterno (visto di sbieco del Gordius
Preslii Veyd. (ob. 9. sec. oc. 2 Hart.).
118 GIULIO EMERY
Sulla condizione di scambievolezza (*) e sui casi d’ identità
fra curve rappresentanti distribuzione continua di forze pa-
rallele e curve funicolari corrispondenti, con particolare
disquisizione sulle Clinoidi; per l’Ingegnere Giunio EMERY,
Memoria presentata dal Socio D’Ovipio nell’adunanza del
14 novembre 1886.
Se abbiamo nel piano un sistema di forze parallele distri-
buite con legge di continuità, possiamo in generale rappresentare
graficamente l’insieme di queste forze mediante un diagramma.
A tal uopo si sogliono assumere nel piano medesimo. due assi
ortogonali, di cui quello delle ordinate parallelo alla direzione delle
forze; ciò posto, immaginando l’asse delle ascisse diviso in tanti
elementi eguali fra loro, si può determinare per ciascuno di questi
la risultante delle forze le cui linee d’azione lo incontrano, indi
sulla linea d’azione di ciascuna risultante segnare un punto che
abbia ordinata proporzionale al quoziente della grandezza di
essa risultante divisa per la lunghezza dell'elemento. Al limite,
quando le lunghezze degli elementi si assumono infinitesime (**),
(*) Ho evitata la parola più ovvia reciprocità, per non dar luogo ad
equivoco col significato speciale che essa ha acquistato nella geometria.
(**) Se si sommano le forze a partire da quella che incontra un dato
punto e procedendo nel verso delle ascisse positive, questa somma P, misura
della risultante delle forze, le cui linee d’azione passano fra il primo punto
ed un altro che ha l’ascissa x, può supporsi espressa in funzione di «,
talchè sia P=F(x). Stabilito quindi che un numero = di unità di forza,
siano rappresentate dall’unità di misura superficiale, sarà y= 195 l’ordi-
E
nata cercata. Nel caso più generale delle coordinate oblique di cui andremo
1. -dP
a dire, assumeremo y= ———
=sen« da
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 119
la serie dei punti così determinati segna la curva del diagramma
in parola; tal è quella per esempio che nello studio dell’equilibrio
delle travi si denomina curva dei carichi unitarii o semplicemente
curva del carico. La curva può essere rappresentata da un’ e-
Lg
quazione y= f(x), ed ogni quadratura n) dx misura la risul-
Vi
tante delle forze le cui linee d’azione incontrano l’asse delle
ascisse fra i punti x, e x,, la quale risultante passa eviden-
temente pel baricentro dell’area rispondente a quell’integrale.
In termini più generali possiamo anche assumere assi coordi-
nati obliqui, serbando sempre l’asse delle y parallelo alla direzione
delle forze; benvero conviene rappresentare con y il rapporto
tra la risultante delle forze incontranti un elemento dell’ asse
delle ascisse e la proiezione dell’ elemento medesimo sulla
perpendicolare alla direzione delle forze. Ciò posto, se & in-
dica l’angolo compreso fra le direzioni positive degli assi, e
y=f(x) è l'equazione del diagramma ottenuto, la quadratura
La
sen 2.| f(x) dx conserva le proprietà di sopra mentovate.
d
Come ad ogni sistema di forze concentrate corrispondono una
infinità di poligoni funicolari, così vi sono infinite curve funicolari
per ogni sistema di forze continuamente distribuite. Dato in coordi-
nate ortogonali il mentovato diagramma, avente per equazione
y=f(x), è noto come le corrispondenti curve funicolari riferite ai
medesimi assi siano rappresentate complessivamente da una certa
equazione v=%€() (dove v è l’ordinata) contenente tre costanti
arbitrarie, la quale si ricava da quella del diagramma mediante
la relazione differenziale
Sabon er Mat
Palloni ),
da Di
ri
1 ROSE e
dove — indica una costante arbitraria. Riesce 'poi agevole veri-
a
ficare che la stessa relazione sussiste senz'altro nel caso degli
assi obliqui, quale poc'anzi lo abbiamo definito (*).
(*) Di fatti, se per l'origine delle coordinate oblique si conduce un no-
vello asse delle ascisse, perpendicolare alla direzione delle forze , si ha*
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII, 9
120 GIULIO EMERY
SCAMBIEVOLEZZA.
Quello che ora ci proponiamo è di vedere se e quando fra le
curve funicolari rappresentate dall’ equazione differenziale 1, ossia
d° v
Tai (x), ve ne possa essere alcuna che presa a sua volta
per diagramma della distribuzione delle forze, ammetta fra le
corrispondenti curve funicolari quella del primitivo diagramma,
ossia y=f(x). Quando tal fatto si verifichi, diremo, giusta l’e-
nunciato, di avere due curve in relazione scambievole come dia-
gramma delle forze e curva funicolare. La condizione a tal uopo
necessaria e sufficiente si è quella manifestamente che la (1) e
l’altra
dEgy spal
I ne ORGSi (BY,
ove n è una costante ‘arbitraria, riescano simultanee. Ne con-
segue immediatamente
a ab! i
onde appare subito che le soluzioni si dividono in due classi,
secondo che a e d siano assunti di segno identico o contrario.
È ; o'
chiamando 2’, y’, v le muove coordinate, x = nai y=y'—@'cotga,
v=v' —x'cotg. Si avrà intanto, giusta le stesse teorie onde emana la (1),
dd
era» (9), essendo P come nella nota precedente, e # una costante
arbitraria, che rappresenta la componente della tensione funicolare secondo
’ e d? v! Ì d2v A . x
l’asse delle ascisse 2’. Ora ii vole pill il diagramma è rappre-
dP
sentato in coordinate oblique si ha: i Sai gg (y' -2'cotga);
2 2
quindi ritornandosi alle coordinate oblique la (9) dà ai 2 y, ove
ponendo a= RE si ricade identicamente nella (1). Peraltro, stante la
x
definizione di = data nella nota precedente, si può sempre assumere e=1.
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 121
CLASSE I.
Sia in primo luogo ab >0, poniamo ab= M', avremo
deg Cl
dai i
L’integrale generale si ottiene sotto la forma
I XA
E Bi x x
=ceM+c,e M+ c,coo -—-+c,sen— Ddgr(4
Y 1 2 3 M 4 M \ ),
ove €, €: €, 6, Sono quattro costanti arbitrarie, quindi
per la (2),
b Ea ue x so
v=—-|ceMtc,e M—c,cos-—c,sen—}) ...(5).
( l 2 3 M 4 3) ( )
Adunque, notando che % è una quantità arbitraria positiva
o negativa, si vede che ogni curva rappresentata da una equa-
zione della forma (4) avrà i chiesti rapporti di scambievolezza
con altre curve dello stesso genere, le quali abbiano un’equazione
della medesima forma, differente soltanto nei valori delle costanti ;
e ciò inquantochè il coefficiente di x resti lo stesso, e quelli dei
quattro termini trascendenti conservino fra loro gli stessi rap-
porti di grandezza assoluta, però i due primi o i due ultimi ab-
biano cambiato il segno. Si scorge d’altronde chiaramente che
rinnovando sui coefficienti della 5 queste modificazioni, si può
ritornare alla (4).
Casse II.
N* d' 4
Sia ora ab<0, poniamo dba onde = -
l’integrale generale è
ove i e indicano quattro costanti arbitrarie. Se si pone
c c. c c
-=tangy, ——=4, -<=tangf, -=%k,
Cc. c
cos, (3
to
(co)
n
=
Pea
122 GIULIO EMERY
LI
il che è sempre possibile, l’ultima equazione va messa sotto la
forma più semplice
y=reFsen (745 )+re “sen (6+5) SEO),
quindi per la (2)
2 I X
vi= ehe cos (745 )_k "cos (#45)
2b 7 x % -; x x
=" e (3 608 7_ cen — e e 1008 7a senz) |
Anche qui tenuto conto che la d può essere qualunque, po-
sitiva o negativa, si vede come dalla (6) si passi alla (7) ag-
(7).
giungendo o togliendo egualmente da 7 e { la quantità 5 ed
applicando ai due termini del 2° membro coefficienti di grandezza
qualunque, i quali conservino tra loro rapporto eguale ma di
segno contrario a quello che passa fra i corrispondenti della prima
equazione. È pure manifesto qualmente, con lo stesso procedimento
operando sulla seconda equazione, si possa ritornare alla prima.
Le due famiglie di curve rappresentate rispettivamente dalle
equazioni generali (4) e (6) sono evidentemente sole a potere
dar luogo ai casi della scambievolezza che ci occupa.
Due curve così corrispondenti, sia della prima sia della
seconda famiglia, presenteranno costantemente, riguardo alle qua-
drature, una interessante pro-
prietà, che passo ad esporre bre-
vemente. Siano ?,%, un arco
della curva che ha per ordi-
nate y=f(£), vv, un arco
della curva che ha per ordinate
v=@(x). Se indichiamo con )
l’angolo formato con l’asse delle
ordinate dalla tangente alla
prima curva, con p. quello for-
mato similmente dalla tangente
alla seconda curva, con x come
prima l’angolo compreso fra le direzioni positive degli assi coor-
dinati, avremo :
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 1283
ei — hi dal + cotg & cotg = 3 iL t
Cc 7 (0) 3 (6) a, ——— — Cc A.
Ora, stante la equazione (1), la quadratura «,Y)%%, avrà per
espressione
La 2
x
sen 4 pivomaf Fiona senz |d2
ee:
f
1 Ti T
= a sen? a (cotgp,— cotgp., ) ,
1
e la quadratura «,0,0%,; stante la (2),
Ca La
2
senz |vda=dsenz a(cotg i), — cotg ),) .
Ci Li
A queste formole risponde una semplice costruzione geometrica:
prendiamo sull’asse delle ascisse OH=a (*) e tiriamo HM pa-
rallela all’asse delle ordinate; supponiamo condotte le tangenti
alla curva v,v, nei punti v, e v, e dal punto O conduciamo
Oi,; Oi, rispettivamente parellele a queste tangenti, indi da %,
ed: è, intersezioni con la HM conduciamo % 1: %0 Jo perpendi-
colari all’asse delle ordinate; l’area del palle into dg TI
sulta equivalente ad ,Y,%s %,, poichè 7%, sota sena, €
ed ij=Va sen x (cotg Po — cotg pi, ). Prendendo le mosse da
un’altra distanza OK= Vo e dalle tangenti in y, ed y,, sì può,
con identico procedimento, ottenere la quadratura di ,v; 0g %,.
Se a=bd il secondo rettangolo ha la stessa base del primo. Si
comprende anche agevolmente ciò che diventa il procedimento
quando le due curve si confondano in una sola, caso che vedremo
tra poco qualmente si verifichi.
Senza ricorrere peranco alle equazioni precedenti, il descritto
procedimento geometrico di quadratura può desumersi sempli-
(*) Questa quantità è sempre reale, perchè la radice va estratta dal va-
lore assoluto. Nel caso di a negativo, il segno — resta proprio della quadra-
tura e trova la sua spiegazione, in quantochè stante la (1) dove le ordi-
nate y sono positive si ha in tal caso cotg u,< cotg wi, .
124 GIULIO EMERY
cemente dalla considerazione del tonografo, in modo analogo
a quanto ha indicato il Prof. Padelletti (*) per la rettificazione
e la quadratura della catenaria. Imperocchè se la tensione in
un punto qualunque del cordone v,v, simmagina decomposta
in due forze una parallela, l’altra perpendicolare ad Oy, il va-
lore costante della seconda è asen®z, ovvero sta alla distanza
stabilita fra Je parallele Oy ed HM come Va sena: 1. Per con-
seguenza le rette 07,, Oi, rappresentano alla stessa scala rispet-
tivamente le tensioni nei punti v,v,, e la 2,9 rappresenta alla
stessa scala la differenza fra le componenti parallele all’asse delle
y delle medesime tensioni. Ora questa differenza è eguale alla
somma delle forze esterne tutte parallele all’asse delle y che
sollecitano il cordone fra i punti v, e v,, somma per ipotesi
eguale alla quadratura %,Y)%>%,; dunque
du %o dra Voh Be: 1 Sa x
SUP 2,Y;Y%, asen’x Va sena Lobaggi
laonde SUP XY; Ysta = Xi
IDENTITÀ.
La relazione scambievole diverrebbe identità qualora le due
curve rappresentate dalle equazioni y=f(x),v=%(%) coincides-
sero, confondendosi in una sola, ossia "risultasse identicamente
f@=9(1).
Osserviamo in primo luogo”che nessuna curva di quelle clas-
sificate nella famiglia II può condurre a simile risultato, e di
fatti nessun valore particolare finito delle costanti arbitrarie può
rendere identici i secondi membri delle equazioni (6) e (7).
Bensì le equazioni (4) e (5) possono dare identicamente y= v
in due casi particolari ; all'uopo basta in fatti che si verifichi
una delle combinazioni seguenti :
(*) Dino Padelletti, Sulla teoria dei poligoni e delle curve funi-
colari. Giornale di Matematiche del prof. G. Battaglini. Napoli, 1876,
volume XIV, pag. 33.
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 125
Abbiamo in tali casi una curva funicolare che riesce a se
medesima diagramma della distribuzione dei carichi, ossia una
curva che è funicolare rispetto ai carichi diretti parallelamente
all'asse delle ordinate e distribuiti proporzionalmente alle qua-
drature della curva medesima. E notando che le nostre equazioni
abbracciano la condizione generale di coordinate oblique, potremo,
facendo astrazione dagli assi, dire in altri termini: che vi sono
tali curve funicolari da stare in equilibrio sotto l’azione di forze
parallele siffattamente distribuite che la somma delle forze ap-
plicate ad una porzione qualunque della curva sia proporzionale
all’area del quadrilatero mistilineo compreso fra la curva mede-
sima ed una retta invariabile (generalmente obliqua alla dire-
zione delle forze) e limitato lateralmente dalle rette condotte
dai punti estremi della porzione di curva che si considera, pa-
rallelamente alla direzione delle forze.
Poichè sia identicamente y=v e b=a la (2) dà
2
SII, RIRIARRPA a TIA
d'ala
e di fatti le due equazioni particolari, che si ottengono dall’in-
trodurre alternativamente le condizioni (8) e (9) nella (4) (0
nella 5), corrispondono proprio ai noti integrali generali cui dà
luogo la (10) secondo che sia è positivo o negativo. Quelle due
equazioni comprendono quattro distinte specie di curve; l’inte-
resse che queste possono presentare nella statica applicata fa
sì che non riesca ozioso lo entrare in qualche particolare a loro
riguardo.
I. a=b=M?®>0 Clinoidi.
Poichè b>0, la equazione (10) fa vedere che la curva ri-
volge costantemente all’asse delle ascisse la sua convessità. In-
troducendo intanto nella (4) la condizione (8) si ha
XL XL
y=c,eY4 ce n È DA! (11).
Questa equazione può rappresentare tre specie di curve, le
quali sono state comprese dal Heinzerling (*) sotto il nome
(*) V. Zeitschrift fur Bawwesen. Berlino, 1869 e 1872. - Le denomina-
126 GIULIO EMERY
generico di clinoidi. Per abbreviare le diciture, m'è convenuto
introdurre nella distinzione due nomi novelli.
Gi aa
1° cc, >0. Meneclinoide. Poniamo —
5 c e
2
Il
(as)
|
Il
|a
2
onde c, oa l'equazione (11) diventa
= eu) =
Si può poi trasportare parallelamente l’asse delle y (il che
non altera il diagramma delle forze), cambiando x in ax —M%;
così l’equazione assume la forma
= ba
y=3(e840 1) ’
VET 5 .-(12).
ovvero x=M( sa =M(—
h yFVy_R
Appare subito che da questa equazione i valori reali di y hanno
tutti il segno di %. Per brevità di termini riterremo in quello
che segue positivo tal segno; il cambiare segno ad /% equivale
a cambiarlo ad y, cioè a riprodurre verso le ordinate negative
una curva identica e direttamente sovrapponibile alla prima;
adunque con i soli valori positivi di % la (12) comprende pure
tutte le figure possibili di meneclinoide. Le ordinate della
curva variano da % ad co, le ascisse da — co a + 00; a ciascuna
ascissa corrisponde una sola ordinata, a ciascuna ordinata cor-
rispondono due ascisse. Queste nella posizione cui risponde l’e-
quazione (12) sono eguali e di segno contrario; l’asse delle y
è dunque diametro rispetto alle corde parallele all’asse delle x e
passa pel punto della curva che ha l’ordinata minima 4h. Da
questo punto la curva si protende all’infinito in due versi, re-
stando compresa rispetto agli assi entro due angoli adiacenti,
zioni poi di cataclinoide ed anaclinoide sono relative al modo di-
verso come due archi di clinoide vengono combinati per formare arcate
equilibrate, ma esse non importano distinzione nella specie geometrica delle
curve.
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECO. 1:27
e rivolgendo costantemente la concavità all’asse delle ordinate.
Chiamando ), come sopra, l'angolo formato dalla tangente alla
curva con l’asse delle ordinate, « l’angolo compreso fra le di-
rezioni positive degli assi, si ha:
cotg ) = cotg a + isla ld (ee M
sena dx «2 Msena\ 0;
VER
Ri ra
telesi È)
Msena
adunque ) varia da 0 a 180°. La curva non ha centro, nè
asintoti, nè punti d’inflessione. Ponendo nell’equazione precedente
cotgà—=0, si ha
VI+ M? costa — Mcosa
x= Ml h
> Y = VRR+ M? cos a FRAGAI
onde appare che la curva ha sempre un punto che chiameremo
vertice, ma un solo, nel quale la tangente è perpendicolare
all'asse delle ordinate ossia alla direzione delle forze esterne.
Quando siano date l’ordinata minima % sull’asse delle ordi-
nate, e le coordinate «= ZL, y=' di un altro punto qualunque
della curva, si può dalla (12) determinare il valore di M, che è
L L
(Fey be gilalali (#1; |CHE= RA): Il vector (dA),
h
dove è indifferente assumere l’uno o l’altro segno, poichè in ogni
modo le equazioni (12), sostituendo, diventano
x
i _3|\{(F+VE-=R DE, A]
"E? 4 2 SUE.
pla Vi RR) l
((F+VF°2R)—[h
x=L
Nel caso particolare delle coordinate ortogonali, il diametro
risulta perpendicolare alle corde bipartite, epperò la curva rap-
128 GIULIO EMERY
presentata dall’equazione (12) offre una figura simmetrica (*)
ed è anzi la sola curva simmetrica (aclinoide del Hein-
zerling) che vi abbia tra le clinoidi tutte, quali sono comprese
dall’equazione (11) (**). In tal caso, l intersezione dell’asse
(*) Questa forma soltanto è considerata nella nota da me aggiunta alla
versione italiana della 12 ediz. del Handbuch der Ingenieur Wissenschaften,
versione impresa a pubblicare dall'editore Leonardo Vallardi, sotto il titolo
Enciclopedia delle Scienze dell’Ingegnere. Vedasi. al volume II, parte 1°,
pag. 190 e 191.
(**) La meneclinoide simmetrica, ovvero ortogonale, si avvicina più della
parabola alla vera curva delle gomene dei ponti sospesi a palco orizzontale,
poiche dà luogo a tener conto del peso dei tiranti di sospensione. Infatti se
P indica il peso dell’unità lineare di tirante, 0 la distanza fra i tiranti
successivi, £ la joro lunghezza variabile, @ il carico proveniente dal palco
per unità lineare orizzontale; il carico complessivo della gomena raggua-
gliato all’unità lineare orizzontale è £ + @, ossia proporzionale a è + 2
Se dunque assumiamo per asse delle ascisse una orizzontale sottoposta al
[)
piano del palco per 2, avremo il diagramma della distribuzione delle forze
rappresentato dalla curva della gomena.
Neanche ciò tuttavia.è perfettamente esatto, poichè si ottiene a patto di
trascurare la distribuzione speciale del peso proprio della gomena. In linea
digressiva, voglio pure accennare alla vera curva teorica dei ponti sospesi,
LI LS LI . . . |P. . .
la quale non è né parabola nè clinoide. Se poniamo P_i chiamiamo 9Q
il peso della gomena per unità lineare sviluppata, ed assumiamo per asse
delle ascisse la orizzontale di sopra definita , onde y= 3 + 33: la equa-
zione differenziale di tal curva è:
d2y ds
ta 7PY+4133 ire,
x
dinotando # una costante arbitraria. Ora è notevole come un integrale parti-
colare di questa si riscontra nell’equazione della catenaria,
IIC CXA
Mm m m 3
V=pe E
dove c sia una costante arbitraria, ed m una delle radici dell’equazione
pm?+qm—t=0; il quale fatto lasciavasi pure prevedere dalle note pro-
prietà geometriche e statiche della catenaria. Peraltro si può compiere
una prima integrazione della (I), cominciando dal porre er onde la (I)
diventa e Y=pyraVI+I tanta dI;
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 129
delle ordinate con la curva determina proprio il punto in cui
la tangente riesce perpendicolare all’asse medesimo , e di fatti
essendo cosa=0 risulta dalle (18) x =0, y=%. Come caso
h
M
simmetrica comprende la catenaria; e ciò si poteva già in-
tuire dal fatto che la catenaria, avendo la proprietà di stare in
equilibrio sotto l’azione di forze parallele uniformemente distri-
buite sul suo sviluppo lineare, offre pure l’altra proprietà di avere
le quadrature proporzionali agli archi corrispondenti.
Considerando poi la nota proprietà della parabola, come curva
funicolare, si prevede di leggieri che le diverse meneclinoidi rap-
presentate dall’ equazione (12), per successivi valori crescenti di
h, tendono ad assumere sempre più estesamente nel loro tratto
iniziale la forma parabolica; di fatti la (12) si può scrivere:
più particolare, rispondente ad -—-=--1, questa meneclinoide
x = Ml hoby= ht pe
)
laonde finchè % rimane grandissimo rispetto ad y—/ si ha sen-
| Reg Ch) >
sibilmente e al(1|2®, )=aya ta 1
è (7
quindi introducendo altra variabile ausiliaria
-
-
ia onde Y=pV#y-1,
si ba dalla (II),
ie dz CERI DIA CI A t3dz
C3+ yFay P qQRi 3 y - pxqits?
"TY igm
VI lea Y 2 vpi —;
da? m d
Monia ol === I £-V I+TR=0 ..... fo 008)
UE ed
ViTa
è l’equazione differenziale di prim'ordine della curva cercata. Peraltro tal
curva non ha ulteriore relazione coll’argomento principale, e quindi lascio
che dalla :IIl) altri cavi qualcosa se il puote.
130 GIULIO EMERY
rta - è (4
2° ee,<0. Tressiclinoide (*). Poniamo +=—e*,
5 } e
Eten /Lililaio 4 À 2
#35: onde c, FT l'equazione (11) diventa
e di ci
hi fZno 08 SEE
Rei ata o
e, trasportando parallelamente l’asse delle y, sicchè la primitiva
origine acquisti l’ascissa %_M, si ha
le faz “tas
y=3 (ee sf ’
u(t=VY+ CR e h
h —y* V Va 4 n°
Si vede subito che in questa curva x ed y variano da —c0
a +00; nella sua integrità essa richiede dunque che il sistema
delle forze esterne presenti una inversione di senso. A qualunque
valore dato di 7 corrisponde un solo valore reale di «, il quale è
dato dal segno superiore o da quello inferiore del radicale, secondo
che % sia positivo o negativo. A valori di y eguali e di segno
contrario corrispondono valori di x eguali e di segno contrario
fra loro, i quali poi hanno ciascuno segno identico o contrario
a quello del corrispondente y, secondo che IM è positivo o ne-
gativo; ad «= 0 corrisponde y=0. La curva passa dunque per
l'origine e da qui si distende all’ infinito in due versi opposti,
occupando fra gli assi due angoli cpposti al vertice e costituendo
due porzioni identicamente sovrapponibili; talchè se dall’origine
si conduce una retta ad un punto qualunque della curva, questa
retta prolungata in verso opposto incontrerà sempre un altro punto
della curva egualmente distante dall’origine. Si ha poi
..-(16).
Up==
Y & HE
cotg = cotg a+ pr (ef+e Di
> st)
= cotg a + £ Di
oa M sen a Y_h°
dove il radicale, venendo in luogo d’una quantità positiva, non
ha doppio segno; è quindi agevole riconoscere che la curva ri-
\*) Tpiro (fut. rpiyw) cambio, mi muto.
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 131
volge costantemente all’asse delle ordinate la concavità, non ha
asintoti, ha centro all'origine delle coordinate, presenta quivi un
punto d’inflessione ma non può riuscire tangente all'asse delle
ascisse.
Se Mhcosa>0 la curva è compresa negli angoli acuti for-
mati fra gli assi; ricade invece negli angoli ottusi se M/cosa< 0.
Nel primo caso cotg x e sono dello stesso segno, epperò
)
M sen & i
le espressioni (17) di cotg ) sono somme, ) non può essere retto;
nel secondo caso queste espressioni sono differenze, epperò ) po-
trebbe passare per 90° purchè fosse M°cos° 2 Z /; di fatti egua-
gliando a zero il 1° membro della (17) viene
+V M? costa — h°— M cosa |
h
—VM°cosa—h°—M cos
h
x=M(l
? (18),
EMI , y=+VMPcosta— n
espressioni le quali, subordinatamente al verificarsi simultanee le
due preenunciate condizioni, forniscono per x due valori reali eguali
e di segno contrario ed altrettanti per y, indicanti due punti della
curva equidistanti dall'origine, nei quali la tangente è perpendico-
lare all’asse delle ordinate. Pertanto se #== — M cos « i due punti
si confondono in uno proprio all'origine delle coordinate, ossia
coincidente col punto d’inflessione. Adunque, secondo i casi, la tres-
siclinoide può avere due vertici, o nessuno, o due riuniti
evanescenti nel punto d’inflessione.
3° c(c°= 0. Logaritmica. Essendo nulla una delle co-
stanti, si tolgono gli indici inutili e l'equazione (11) diventa
c
gici
dove c ed M possono essere ciascuno positivo o negativo. La curva,
offrendo la sua ben nota forma, ha ascisse varianti da -- 0 a +00,
ed ordinate varianti da 0 ad co od a— co secondo che c è positivo
o negativo ; essa ha per asintoto l’asse della x nel verso positivo 0
nel verso negativo, secondo che M è negativo o positivo; non ha
punti d’inflessione e rivolge all’asse delle y prima la convessità e
poi la concavità intersecandolo alla distanza e dall’origine. La
curva scorre rispetto agli assi in due angoli adiacenti, il verso in
132 GIULIO EMERY
cui si avvicina all’asintoto ricade nell’ambito dell'angolo acuto o
di quello ottuso secondo che Jc cos 7 è negativo o positivo. L’in-
clinazione della tangente rispetto all’asse delle y varia da 0 ad « o
da 4 a 180°, secondo che Me è positivo o negativo; di fatti
Ni
eM— cotga +
M sen %
Y
cotang ) = cotg a + Cep
sen 2
onde si vede. che un limite di cotang ) è cotg x, mentre l’altro è
+ 00 0 — co a seconda del segno di 3; . Se quindi cMcosae>0,
) non può essere retto, lo può essere invece quando c Mcosa<0 :
le coordinate del rispettivo punto di tangenza sono allora
>, Mcosa
y=- Mcosa, s*M[- 2°
€
Le tre curve così definite trovano applicazione alla figura de-
gli archi equilibrati (*), all'uopo è necessaria la soluzione di un
problema geometrico, cioè: dati l’angolo degli assi, le coordinate
di un punto della curva nel quale la tangente dev'essere perpen-
dicolare alla direzione delle forze, e quelle di un altro punto della
curva, determinare la curva intera. Pure questo problema non
sembrami che sia stato sufficientemente approfondito, dal Hein-
zerling nè da altri; per ciò credo utile discorrerne alquanto.
(*) Si vede agevolmente (dalla ventura equazione 20, trasformando le coor-
dinate in rettangolari e ponendo pur mente al segno della prima derivata,
che: se una retta parallela alla direzione delle forze passa pel vertice
d’una clinoide (che abbia vertice) e se un’altra retta perpendicolare alla
prima incontra da ambo i versi la stessa curva; dei punti d’incontro sarà
sempre più vicino alla prima retta quello situato da quel verso, nel
quale la seconda va divergendo dall’asse (primitivo) delle ascisse.
Ciò premesso se si considera una meneclinoide, o una logaritmica che
abbia vertice, o metà di una tressiclinoide che abbia vertice (spezzata nel
punto d’inflessione’, e s'immagina, che una di queste curve roti intorno al-
l’ordinata che passa pel vertice, ne consegue una superficie di rivoluzione
della quale ogni sezione meridiana consta come di due curve una abbrac-
ciata dall’altra, aventi comune l’asse di simmetria e la tangente al vertice.
Di queste curve l’esterna corrisponde all’anaclinoide del Heinzerling,
l’interna alla cataclinoide. In un caso particolare la prima non esiste
ed è quando la curva rotante sia quella tressiclinoide che ha i vertici con-
fusi nel punto d’inflessione. In un altro caso le due curve si confondono in
una e con la stessa generatrice ed è quando questa sia la meneclinoide
simmetrica, che l’Heinzerling chiama aclinoide,
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 133
Si può sempre prescegliere anticipatamente l’asse delle ordi-
nate sì che passi pel primo dei detti punti, questo allora avrà
l’ascissa nulla; chiamiamo H la sua ordinata, e siano £=L,
y=' le coordinate del secondo punto. Ritornando alla equa-
zione generale (11) le coordinate del primo punto vi debbono sod-
disfare identicamente, laonde si ha
i crt 6, F
d Y c toa CT
Inoltre: la' ‘stessa (11) da —=Lesr* 22 60 #. noichè
pp) dati M cati
dunque nell’anzidetto punto la tangente dev'essere perpendicolare
all’asse delle ordinate così vuol essere identicamente
Mcosa=c,—c;.
Adunque:
H_- Mcosa CI
dios a 4 (oa sn
2 2 19):
H*°— M°cos° a \ PALI
Cl, —— i
quindi la (11) diventa
SE a AI 00),
2 2
e si vede che la curva può essere meneclinoide, logaritmica, o tressi-
. . . . ==
clinoide, secondo che abbia a risultare MM? così & = H°. Se
=>
cosa=0, si ha sempre una meneclinoide simmetrica, se H—0
si ha sempre una tressiclinoide con i vertici riuniti nel punto di
inflessione.
Per la determinazione di M si nota che la (20) dev’ essere
soddisfatta ancora identicamente dalle coordinate del secondo punto,
laonde
) 5 E E
L
2P_H\e4e #4 Moosalei= e #)_0 DEAD:
ossia
L L
rr ": —= = == = = Mi tnie_ ——=T"FFrFPFTTT=>==y=y= =>vw|] ==
(EEVE°— H°+ M° cost ola VE?=H*4 M*cos°x ...(22).
H- Mcosa H4#- Mcosa
134 GIULIO EMERY
Queste equazioni sono di forma trascendente tale da non po-
ter somministrare alcuna espressione generale di MM, salvo nel
solo caso che sia cosz= 0. In questo caso si ha, come già detto,
la meneclinoide simmetrica, la (22) diventa identica alla (14), poi-
chè effettivamente per la (19 3') =, e dalla (20) si ricade
nella (15) in coordinate ortogonali.
In generale pertanto occorrerà risolvere per tentativi la (21)
o la (22). Interessa perciò in prima riconoscere quante soluzioni
vi possano essere nei singoli casi. Innanzi tutto appare manife-
sto che se un certo valore MM, soddisfa alla (22) vi soddisferà
pure il valore — M,, mentre d’altronde il segno di M è senza in-
fluenza sulla (20); lice dunque limitarsi a considerare i valori posi-
tivi di M. Resta a sapersi se di questi un solo o più possano sod-
disfare alla (21); a ciò indagare poniamo per brevità T- Ve ;
Lcosa=p, la (21) si potrà scrivere :
È eVi— e7V3
0—=—2F+H(e"+e-WG)2w Va
e sviluppando le esponenziali nella nota serie che è convergente
per qualunque valore finito di 2 viene :
— FUH I OAV
pla DREI p+(H oe D) 2.8. z| |
É ..(28).
p 2 p 2°
ai .
+(# cir tell “ai
Attesa la convergenza della serie, si può sempre con esattezza
considerarne un numero di termini non infinito, purchè indefinito,
per conseguenza la (23) ha tutte le proprietà di un'equazione alge-
brica. A ciascun valore di 2 radice reale e positiva di quest’e-
quazione corrispondono due valori reali di M eguali e di segno
contrario; e siccome abbiamo visto che il segno di M non in-
fluisce sulla (20), così il numero delle curve soddisfacenti ai dati
del problema sarà proprio quello delle radici reali e positive (*)
i) È ben vero che valori immaginarii di M darebbero pure, posti
nella (20), una curva reale; ma questa non avrebbe le proprietà delle clinoidi
essendo la sua equazione diversa per tipo dalla (11) e con funzioni circolari.
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 135
della (23). Le soluzioni nulle della (23) vanno pure rigettate,
dando M=o0, con che la (20) svanisce.
Essendo arbitrario il verso delle ordinate positive, riterremo
H sempre positivo. Il prodotto Lcose ossia p può essere quindi
positivo o negativo a seconda dei dati del problema. Quanto ad
F esso può anch’essere positivo o negativo e terremo conto di
ambo i casi; però nelle applicazioni pratiche Y trovasi sempre
rivolto nello stesso verso di /, ossia positivo. Ciò premesso os-
serviamo nella (28) che se il coefficiente della prima potenza di
2 è positivo lo saranno egualmente tutti i coefficienti delle potenze
superiori; se invece quel primo coefficiente è negativo potranno
esserlo pure, ma decrescenti di valore assoluto, quelli di un certo
numero delle potenze immediatamente successive, però, salvo nel
caso di H—0, questo numero sarà sempre limitato, sicchè una
certa potenza di z essendo l’ultima ad avere coefficiente nega-
tivo, la seguente avrà coefficiente positivo o nullo e tutte le ul-
teriori avranno coefficienti positivi. Epperò, salvo nel caso di
H=0 e p>0, il secondo membro della (23) assume sempre segno
positivo quando pongasi 2 =co. In conseguenza, richiamando le
proprietà generali delle equazioni algebriche ed il teorema di
Cartesio, avremo
Numero delle radici
reali positive
della (23) .
0, 0
Se H-t #0", sa Aaa
ossia Lcosa =3H, e se bri dot N 1
ossia F>H—Lcosa
(o=H =p>0;, A l
H>0, ae RES ia LEI
onde Lcosa>3H, n
e se ria où 1
se H-t<0, ossia F>H —Lcosa
| —E—-p>0
e se ,
| H_ 05, RL a :
onde Lcosa>0, va
e se I —F-p=0, -
ossia F>— Lcosa
Di sei casi così distinti, i soli che nelle applicazioni agli ar-
chi equilibrati possano occorrere sono il 2° ed il 4°, anzi con F
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 10
136 GIULIO EMERY
sempre positivo ; a questi casi si vede come risponda sempre una
ed una sola curva; la quale secondo i valori particolari dei dati
può riuscire meneclinoide, logaritmica o tressiclinoide. Al 8° ed
al 5° caso non corrispondono che tressiclinoidi.
Per la ricerca numerica del valore di M, se cosa=0 si ha
L log e
log (F+VF*T H?) —logH°
legni iis F H
li 1 —Va=—, — =-=9,_ua=90R,
caso diverso, ponendo v = } M Lcosa p Lcosz
si darà alla (22) la forma
) i | 1
p==(10(10g (0+]/0-043)-tg(0+2)| 1. (24).
Questa equazione darà il valore di v mediante procedimento per
falsa posizione; la forma data al secondo membro vale ad evi-
tare di operare su immaginari; si debbono quivi dei doppii
segni associare i superiori o gl’inferiori. La tabella che segue dà
direttamente dalla (22) M= in
per diversi valori di © e di v i corrispondenti di — ed alcuni
0
di ® somministrati dalla formola
Due "4 e) le'— e?
galere) gg
la quale risulta identicamente dalla 24 ; così, dati che siano
D® e 0, si può scorgere a mezzo di questa tabella a quale nu-
mero intero debba v essere prossimo. L'estensione della tabella
è sufficiente ai casi occorrevoli nelle applicazioni (e già i
valori negativi di TH riescono evidentemente estranei a questo
campo ). Quante volte poi sia accertato che v debba riu-
scire inferiore a 0.5, si potrà pure averne un primo valore
dD_-0+1
approssimato mediante la formola v= {/ 6 , ossìa
309041
F-H4L cos | sa
= Ve BESTARO la quale è ricavata dalla (23) tra-
scurandosi le potenze di 2 superiori alla prima, cioè quelle di
superiori alla terza.
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, TCC. 137
10] 1.02| 1.43 3.58| 9.730 26.63] 72.73) 198.35] 540.48
2] 0.61] 096| 2.86| 8.40) 23.90] 6679) 184.90] 509.15
1] 0.09) 0.37 1.951 = 6.73) 20.49] 59.37] 168.09) 469.99
1/,|- 0 96|— 0.81 0.14) = 339] 13.66] 44.53) 134 48| 391.65
1/|-4 08|— 4.33/— 5.30|— -6.63|— 6.80] 0.01 33.62) 156.66
1/3 |- 7.21|— 7.86|— 10 75|-— 16. 65|— 27. 27|— 44 51|— 67. 24|/— 78.33
7/10 |- 9. 29|— 10 21[— 14.37/— 23.33|— 40. 92|— 74 19|— 134 48|— 234.99
0|Fo| F©°| F© Fo F Fo Fo Fo
—"/io| 11.55] 13.30] 21.90] 43.46] 95.53| 222.62) 537.90| 1331.63
— 1g] 9.47) 10.94| 18.27) 36.78] 81.89) 192.93) 470.66] 1174.96
—1/,| 6.34| 7.42] 12.83) 26.76 61 42] 148.41] 369.81| 939.97]
—1,| 3.21] 3.89) 7.39) 16.75) 40.95) 103.89] 268.95) 704.98
A LT 22/120 5. AB 3a Av13}-1,89:.05] 233,33, 2626,,65
—2| 1.65) 2.13) 467 11.74) 30.729) 81.63] 218.52 587.48
—10| 1.23] 1.66] 3.94 10.40) 27.99) 75.69) 205 08| 556.15
—100| 1.14) 1.55 3.78] 10.10] 27.38| 74.36| 202.05] 549.10
0 |- 0.93|— 1.02| — 1.44| — 2.33] — 4.09/— 7.42/— 13.45|— 23,50
0 |- 1.04|— 1. 18| — 1 81| — 3.34| — 6.82|— 14.84|— 33.62|— 78. 33
—!/10|-1-15|— 1.33) — 2.19] — 4.35] — 9.55|— 22. 26|— 53. 79|- 133 16
|
138 GIULIO EMERY
Si può anche determinare v a mezzo di procedimento gra-
fico; a tal uopo si assumano due assi ortogonali e portando come
ascisse successivi valori di v si costruisca la curva ad ordinate
positive 4 data dall’equazione
s=log(0+|/ 00% =) = log (0-2) ;
v° v
oppure da
1 ( 1
% = log (0 + ai _tog(0 + foro 3) ’
indi per l’origine delle coordinate si conduca una retta formante
1
con l’asse delle ascisse l’angolo che ha per misura arc tang fo
= arc tangloge= arc tang 0.4343, ossia l’angolo di 23°28';
l’ascissa del punto d'intersezione di questa retta con quella curva
sarà il cercato valore di .(*). E
Trovato v, si ha M dalla relazione M <a: La tensione ne]
e L* sen &
vertice della curva è data quindi da t=esentaM*°=-——,
v
dove e ha il significato detto nella nota alla prima pagina.
Pel tracciamento della normale ad una clinoide può riuscire
vantaggioso il seguente procedimento: si determini prima la quan-
tità 4 talchè + 4°=-— H?+M?cos°z, e con l’aiuto di questa
sarà agevole a costruirsi geometricamente l’espressione della sotto-
M cosa ® Vi H°4+ M° cosa
normale 7= y __—_—_—__————-
M <= cosa Y y— H°+ M? cos x
Quanto al raggio di curvatura , si ha, stante la (10),
M?sen® 4
y sen)
=
II. a-b_--—M°<0.
(*) Tale procedimento è notevolmente più semplice di quello proposto dal
Heinzerling in Schaffer e Sonne. Handbuch der Ingenieur- Wissenschaften,
2* ed. Lipsia 1886, vol. II, parte I, cap. II, $ 12, pag. 145) per trovare di-
rettamente la componente orizzontale della tensione.
SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA, ECC. 139
La equazione (10) fa vedere che la curva rivolge costante-
mente all’asse delle ascisse la concavità. Introducendo nella (4)
la condizione (9) si ha
* 2,
y= 0008 77 + 80077 Gad (25).
Questa equazione può rappresentare una sola specie di curve,
qualunque siano i valori di c, e c,.
4° Sinusoide. In effetti, qualunque sia il rapporto fra queste
so Ce
costanti, vi è sempre un angolo tale da darci tangy == 5
c, SHE i
= e, la (25) divent
cos 7 Vette, (25) nà
ponendo quindi j=
—=jsen{y+ si
y= 3 Se Y M ’
e trasportando l’origine lungo l’asse delle x per M É _ i si ha
—igi 608 = 26
Vi 4C08 io aa (26).
In tale posizione l’ordinata massima ricade sull’asse delle y, il
quale risulta diametro rispetto alle corde parallele all’asse delle x.
Se invece l’asse delle ordinate dovesse passare pel punto in
3 ; È s dy
cui la tangente gli è perpendicolare, cioè dove 1 + cosa=0,
x
punto la cui ordinata è J=)j°— M?cos°« e che diremo ver-
tice, si avrà
y=Tc0s 1 — Mcos a sent Lo ZI).
Se della curva sono dati il punto che ha l’ordinata massima
j ed un altro punto, l'equazione (26) permette agevolmente di
determinare M; se invece è dato il vertice ed un altro punto,
la determinazione di M richiede una ricerca per tentativi nu-
merici, sempre che non sia cosu= 0.
140 GIULIO EMERY - SULLA CONDIZIONE DI SCAMBIEVOLEZZA ECC.
Chè se a=90°, J ed j si confondono, e così la (26) con
la (27), e si ha la sinusoide ortogonale o simmetrica (*).
Altro non aggiungo circa le proprietà ben note della sinu-
soide; credo pure non vi sia interesse teorico nè al momento uti-
lità pratica a diffondersi su questa curva in maggiori particolari.
(*) Per questa in particolare, la proprietà di rappresentare ad un tempo
una distribuzione di carico e la funicolare corrispondente è stata opportu-
namente rilevata dal prof. Udalrigo Masoni nelle sue Considerazioni sui
solidi elastici ad asse rettilineo inffessi da un carico obliquo a questo asse.
Napoli 1885, Atti del R. Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali eco-
nomiche e tecnologiche, serie III, vol. 1V.
Il Direttore della Classe
ALFonso Cossa.
i; a,
tea n vil
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Eri Vga
De SLI
vi mi
TOT
NES
ipa
SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali.
ADUNANZA del 28 Novembre 1886... ....,. 0. Pag.
Guareschi — Sulla legge dei numeri pari nella chimica . . ....
Lessona — Relazione intorno alla Memoria del Dott. DANIELE Rosa,
intitolata: Studio zoologico ed anatomico sul Criodrilus lacuum
Camerano — Ricerche intorno alle specie italiane del Genere
Gordws: 0 de a LR e SN AI ANTE
Emery — Sulla condizione di scambievolezza e sui casi. d'identità
fra curve rappresentanti distribuzione continua di forze paral-
lele e curve funicolari corrispondenti, con particolare disqui-
sizione sulle Clinoidi
73
85
87
118
;
vi
ATTI
DELLA
R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DI TORINO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 3‘, 1886-87
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R. Accademia delle Scienze
141
CLASSE
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Dispensa 3°
1886 - 87.
Atti IR. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII
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143
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 12 Dicembre 1886
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE PROF. ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, SOBRERO, LESSONA, SALVADORI,
Bruno, BERRUTI, CurIonI, SrAccI, Basso, D’OvipIio, BIZzozERO,
FERRARIS, NACccARI, Mosso, SPEZIA.
Le letture e le comunicazioni si succedono nell’ordine se-
guente :
« Alcuni teoremi sui coefficienti di Legendre ». Nota del-
l’ Ingegnere Ottavio ZAanorTI-BIANcO; presentata dal Presidente;
Nuove osservazioni delle comete Finlay e Barnard-Hartwig
all’Equatoriale di Merz dell’ Osservatorio dell’ Università di
Torino » ; Nota del Dott. Francesco Porro, presentata dal Socio
SIACCI;
« Sul calcolo di certe travi composte »; Nota dell’ Inge-
gnere Professore Camillo GuipI, presentata dal Socio CURIONI.
Il Socio BizzozerRo, presenta inoltre un lavoro del Dottor
Livio VINCENZI: « Sui vizii congeniti del cuore », il quale viene
affidato ad una Commissione speciale.
144 FRANCESCO PORRO
Il Socio SaLvapori, anche a nome dei condeputati Soci
Lessona e BELLARDI, legge una sua Relazione sopra una me-
moria del professore Alessandro PoRtIs, intitolata: « Contribu-
zione alla Ornitolitologia italiana, parte 2°, che viene in se-
guito approvata dalla Classe per l'inserzione nei volumi delle
Memorie.
Infine il Socio Sracci, adempiendo ad un incarico avuto pre-
cedentemente dalla Classe, legge un suo discorso in commemo-
razione del compianto Socio Alessandro DOoRnA.
LETTURE
Nuove osservazioni delle comete Finlay e Barnard-Hartwig
all’equatoriale di Merz dell’ Osservatorio della R. Università
di Torino; Nota del Dott. Francesco Porro, Vice-Direttore
dell’ Osservatorio stesso.
Ho l’onore di presentare una seconda serie di posizioni delle
due Comete ora visibili, determinate mediante il micrometro cir-
colare a due anelli, annesso al nostro refrattore di trenta cen-
timetri. Non credo conveniente ritardarne la pubblicazione, es-
sendo viva fra gli astronomi la questione dell’orbita di questi
importanti corpi celesti, alla quale queste mie misure possono
portare non ispregievole contributo. Al quadro dei risultati farà
seguito, secondo il solito, la descrizione dell’ aspetto fisico delle
comete, ed alcune stime fotometriche del nucleo di ciascuna di
esse, comparato con qualche stella vicina.
19)
14
E BARNARD-HARTWIG
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COMETE FINLAY E BARNARD-HARTWIG 147
Posizioni medie delle Stelle di comparazione.
* x 1886,0
Ò
1|19148m 55,54| — 24°
2|19 52 12,71|—98
8|19 51 88,97) —28
4|19 57 15,85) — 28
5|20 15 55,29] — 22
6|20 11 23,57) —22
to 18 54,05) —22
8|20 18 52,99) —22
9|920 81 48,41|—21
10 | 20 86 85,83|—21
1112 56 8018| +11
1219 28 48,24| 413.£
18 |18 38 28,42|+14
14. e |
15|18 80 40,85| +14
16|18 85 11,84| +14
iu
1886,0
Autorità
0° 9', 6
33 40,7
398 5,8
32 389,1
42 25,3
Da ping ri
9 18,8
148,9
23 29,4
190,4
Ì
12 51,9
42 87,0)
17/18 51 18,82) + 14 59 25,4]
113 (2 Cordoba Z. C. 1788 + Tac. |
chini 934).
Cordoba Z. C. 2120.
Cordoba Z. C. 2094,
Cordoba Z. C. 2308.
Yarnall 8826.
Lamont 486.
Lamont 517.
Tacchini 956.
1], (Yarnall 8953 + Lamont 566).
Lamont 585.
| e Virginis - Berliner Jahrbuch.
| Weisse I, Hora XIII 857.
| Weisse I, Hora XIII 550.
D. M. + 14° 2641.
Weisse I, Hora XIII 493.
Weisse I, Hora XIII 575.
Weisse I, Hora XIII 855.
|
|
|
(REA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
148 FRANCESCO PORRO
NOTE
Le osservazioni sono tutte corrette per l’influenza del moto
proprio delle Comete in ascensione retta, desunto dalle Effeme-
ridi di Lamp e di Krueger, nei Numeri 2753 e 2755 delle
Astronomische Nachrichten. I cataloghi adoperati furon, oltre a
quelli indicati nella nota precedente, i due seguenti:
A Catalogue of 1001 southern stars for 1850, 0, from
observations by signor P. Tacchini, at Palermo, in the years 1867,
1868, 1869. — By rev. father Hagen, S. J., and Edward S.
Holden. Designato con « Tacchini ».
Verzeichniss von 5563 telescopischen Sternen nòrdlich
von + 15° und siidlich von — 15° Declination — XIII Supplement-
band zu den Annalen der Miinchener Sternwarte. Designato con
« Lamont ».
Ogniqualvolta le osservazioni furono fatte a meno di venti
gradi dall’orizzonte, e la differenza di declinazione fu superiore a
due minuti d’arco, calcolai rigorosamente le correzioni di refra-
zione in entrambe le coordinate.
Durante il tempo compreso dalle mie osservazioni, la Cometa
Finlay non presentò sensibili modificazioni nel suo splendore e
nella sua forma, che si mantenne sempre globulare, con nucleo
alquanto eccentrico (verso la parte anteriore), nebulosità irrego-
lare, e molto debole e smorta. Il 19 Novembre la Cometa com-
parve nel campo del refrattore insieme con una stellina, che nelle
carte di Chacornac è segnata di duodecima grandezza, non meno
di un quarto d’ora dopo che si era resa visibile nel crepuscolo
della sera una stella di dec:ma, ed anche la sera successiva una
stella di undecima (sempre secondo Chacornac) fu visibile parecchi
minuti prima.
La Cometa Barnard-Hartwig, la quale già il 14 Novembre
era bella e luminosa, benchè la Luna fosse nella fase massima,
comparve il 19 nel refrattore con due code ben distinte, note-
volmente inclinate alla radice, e sempre più visibili nelle sere
successive. Ne feci parecchi disegni, i quali si accordano benis-
COMEDE FINLAY E BARNARD-HARTWIG 149
simo fra loro, indicando la coda minore diretta quasi esatta-
mente nel senso del movimento diurno, e tendente di sera in sera
a perdersi. Il 21 Novembre la Cometa è visibile ad occhio nudo :
la stimo maggiore di v Bootis, ma notevolmente minore di 4 Boo-
tis: lo splendore della testa sarebbe adunque compreso fra la
terza e la quarta grandezza. Anche il 23 Novembre la ricono-
sco minore di 4 Bootis, guardandola senza occhiali, in guisa che
al mio occhio miope non appaia diverso il suo aspetto da quello
della stella, e, come consiglia il prof. Schiaparelli, in un binoc-
colo da teatro fuori di fuoco. Nel binoccolo si vedono benissimo
le radici delle due code. Il 24 Novembre la cometa mi sembra
tanto nel refrattore, quanto nel binoccolo, assai più brillante:
la coda si protende per un lungo tratto, ed il capo non sembra
punto inferiore a 7 Bootis. Senza occhiali anzi lo stimerei su-
periore a questa stella, mentre. non vedo affatto 7 e v Bootis.
Nell’equatoriale la chioma riempie tutto l’anello piccolo; il nu-
cleo grosso non ha più la definizione stellare dei giorni scorsi.
È manifesto che fra il 23 ed il 24 è avvenuto un notevole cam-
biamento nelle condizioni fisiche dell’astro.
Torino, 12 Dicembre 1886.
RELAZIONE intorno alla Memoria del Dottore ALESSANDRO
PortIs, intitolata: Contribuzioni alla Ornitolitologia ita-
liana. Parte Il.
La Memoria del Dott. Portis, intitolata Comtridbuzioni alla
Ornitolitologia italiana, è la seconda parte di quella che collo
stesso titolo egli pubblicò or sono due, anni nei volumi di questa
Accademia.
In questa seconda parte vengono presi in esame i fossili di
nuove località italiane, delle quali talune già note per aver fornito
avanzi di uccelli, ed altre no.
Così, essendo il lavoro ordinato secondo la maggiore o minore
antichità del deposito, da cui i fossili ornitici provengono, noi
troviamo che della località Sinigaglia vengono illustrati quattro
150
fossili appartenenti: due all’ordine delle gralle (un Z’otanus sca-
rabelli ed un Iallus dubius) e due a quello dei Passeres (una
Stitta senegalliensis ed un’ Alauda gypsorum).
Un'altra allodola, Alauda major, ci viene pure descritta,
proveniente da Gabbro in Toscana, e così pure impronte di piedi
e di piume della medesima località, ed altre piume del Siniga-
gliese e dell’ Anconetano.
L'autore ricorda inoltre un antico ornitolite di Licata in
Sicilia, già descritto dal Milne-Edwards, e cita sommariamente
i caratteri di sei uccelli trovati nel pliocene toscano e da lui
illustrati sotto i nomi di Fuligula aretina e di F. sepulta, mentre
gli altri quattro vengono riferiti ai generi Fulica, Numenius ,
Falco ed Uria.
Infine, dopo aver segnalato qualche altro avanzo ornitico ter-
ziario meno importante, l’autore passa a discorrere di quelli qua-
ternari e ci da notizia dei fossili ornitici noti finora di tre di-
versi luoghi italiani, cioè del pertugio della Volpe nel Comasco,
della Torbiera della Cataragna nel Veneto e della terramare del
Castellaccio nell’Imolese.
Termina il lavoro coll’ Indice delle opere e delle Memorie
speciali consultate nella preparazione ed estensione della Memoria,
che è accompagnata da una bella Tavola con 18 figure di gran-
dezza naturale.
È mestieri ammettere col nostro autore che lo stato attuale
dei fossili studiati ne rende lo studio molto difficile e la deter-
minazione di qualcuno di essi, e specialmente della Sitta senegal-
liensis, non al tutto sicura, tuttavia l’autorità che il Dott. Portis
ha acquistato nei lavori paleontologici è tale da dare sicurezza che
egli si è avvicinato quanto più era possibile al vero, e però la
vostra Commissione è lieta di proporre alla Classe la lettura della
sua Memoria.
Torino, 12 Dicembre 1886.
MicHELE LESSONA
T. SALVADORI, relatore.
LUIGI BELLARDI
Alcuni teoremi sui coefficienti di Legendre, Nota di OTTAVIO
ZanoTtTI Branco Ingegnere.
I.
Se;-P.(4). Po (1). P,(L), sono le armoniche zonali super-
ficiali o coefficiemti di Legendre (*) della variabile u= cos? e
dell'ordine indicato dal loro indice, e se n è un intero positivo
qualunque, dico che si ha:
in __ 93n dd
(sen 6) 5 51
i
P,(L)+ a È, (1)
Vale a dire (sen g)*”, per » intero e positivo, è sempre esprimibile
a mezzo di una serie finita di armoniche zonali superficiali di
ordine pari.
Si ha infatti dalla trigonometria
8) 1 1
(sen 6)* “a cos 20 += cos 40:
e dalla teoria delle funzioni P, in generale, per # pari,
cosm9= B! pi (1) +3" P._s (0) +. ...0+
nella quale è
im—(i—2){ jm—(i—4){...(m—2)m°(m+2)...jm4(i+2){
SOR er i
i im—-(i+1){ }m—(i-1){...(m—1)(m+1)...(m4(£+1))
(*) Per questi nomi e per le altre denominazioni date alle funzioni qui con-
siderate ed alle loro analoghe, vedi le opere seguenti: FERRERS, An elemen-
tary treatise on spherical Harmonies and Subjects connected with them. Lon-
don, 1877, p. 3. — ToDHUNTER, An elementary treatise on Laplace’s Functions,
Lame’s Functions and Besset’s Functions. London 1875, pp. 1 e 2. — ZANOTTI
Branco. I Problema meccanico della Figura della Terra esposto secondo i
migliori autori. Torino 1880, pp. 151-52.
152 OTTAVIO ZANOTTI BIANCO
Da questo fatto m=0,2,4, si ha
coso =D (@=a,
1 4
cos 20 = -3P()+ Pd),
si 16 64
cos4ì=—-=-P, ()= Pet Ph) :
Sostituendo questi valori, nell'espressione trigonometrica già scritta
di (sen 0)!, si ha:
SL 6
8
(sen 6) = (Mt Pl), Sd)
formola, che fu data, senza dimostrazione, da Ferrers nel 1877.
Elevando la (1) alla potenza n, si ha:
9 o (”
(seno): 2° ca P.,()+37P, (2) | 0. Vba nabl)
VOTI
sen? non è esprimibile in serie finita di armoniche zonali su-
perficiali, come risulta dalla nota espressione
senî=")1_L P.(p)-...-(2i+1) =
= de Leee È
4)
i essendo un numero pari: da questa se 6=90°,
1;8le 1) ee Fa
4. i(i-2)-A..i(0-2) =
n=4 EP. i)
nella quale, sostituendo alle funzioni P i loro valori corrispon-
denti a #—= 90°, si ha un'espressione di 7, molto facilmente cal-
colabile. I detti valori delle funzioni P si hanno facilmente dalla
formola generale:
P.(p)=A4; pi + Aj.9 me “| ansatas +4,
ALCUNI TEOREMI SUI COEFFICIENTI DI LEGENDRE 158
nella quale per è pari è:
(22—-1)(26—-3)..... (+1)
3 CRE LAZIO D
7A ___(26—-3)(26—5) AI. i 1)
Ci dg ((-2)x2 i
n __ (26—5)(24—7) tartine (di — 3)
"E al SIATE) (i- 4A) x4x2
È ‘(i -1)(î-8)..... 1
sagre lt di Prmriui ?
30 63
Ps(h)=358° Prob) = 356° ecc.
È facile il vedere che sen®9 non è esprimibile in serie finita di
armoniche zonali superficiali; ciò invece è sempre possibile per
2
(sen0)®", giacchè sen*9 = = (1 — P, (1) ) , e quindi
9 n
sen?” 9 — gn (1 => bs (1))" .
II.
Richiamo ora alcune proposizioni della teoria delle armoni-
niche zonali superficiali, delle quali dovrò far uso in seguito.
Colle notazioni adottate si ha:
+I
(1) f pP.,(b)da=0,. m<n,
can |
154 OTTAVIO ZANOTTI BIANCO
+1
(II) Tag (EA IENE
2
+I
(III) IP. \li n e
lac ii 2Qn+1
Legendre le ha dimostrate nel 1784 pel caso di m ed # pari,
e per m ed n qualunque nel 1789 (*).
Dimostrerò ora che
(IV) J P,.(0) P, (4) P. (0) dn =0
=
per tutti i valori di m, n. r, tranne per quelli, che son tali, che
m+n+r=20, e di più, che ciascuno dei tre numeri sia, o
minore della somma degli altri due, od uno eguale a tal somma
Questa proposizione fu enunciata, ma non dimostrata da SCHMIT
nel 1858 (**). Eccone la dimostrazione :
F. NEUMANN ha dimostrato che,
P,(0)P,()=Za,P,(u) (#*), ---(1)
(*) Recherches sur la Figure des planètes. Mémoires de l'Académie de Paris,
1784 (stampate nel 1787) pp 370-389. Al principio di questo lavoro havvi .
la nota seguente: « La proposition qui fait l’objet de ce Mémoire, étant de-
montrée d'une manière beaucoup plus savante et plus générale dans un Mé-
moire que M. de la Place a déjà publié dans le Volume de 1782, je dois
faire observer que la date de mon Mémoire est antérieure, et que la propo-
sition qui parait ici, telle qu’elle a été lue en juin et juillet 1784, a donné
lieu a M. de La Place, d’approfondir cette matière, et d’en présenter aux Géo-
mètres, une théorie complète ». Questa memoria fu letta all’ Accademia di
Parigi il 7 luglio 1784. — Swite des Recherches sur la Figure des Planètes,
Mémoires de l’Académie de Paris, 1789 (stampate nel 1793) pp. 372... 454.
A piedi della pagina 372 leggesi la scritta seguente. « On trouve dans un
Mémoire de M. de la Place, imprimé à la tète de ce volume, des recherches
analogues aux miennes. Sur quoi j'observe que mon Mémoire à été remis
le 28 aoùt 1790, et que la date de celui de M. de la Place est postérieure »,
**) Études sur une classe de Fonctions employées en Mécanique Celeste,
Recherches sur les Fonctions de Legendre. Bruxelles, 1858.
(***) Beitrdge zur Theorie der Kugelfunctionen, Leipzig, Teubner, 1878,
ALCUNI TEOREMI SUI COEFFICIENTI DI LEGENDRE L55
nella quale p, quando n = mn, prende tutti i valori, n—wm,
n_-Mm+2,n-Mm+4,...n+m. HEINE (*) ha dato al risultato
di NEUMANN la forma seguente. Si ponga in generale
den: (29—-1)
î (4) = ’
B4RO: ecrrar (29)
m+n+p=2t,
si avrà a, dall’equazione
__ 2P+1 $b(i-m)Y(£-n)p(£—p)
“PTZI1I 4 (8) i
Moltiplico ambi i membri della (1) per una funzione P,(p.), tal
che il suo ordine » non sia uguale a nessuno dei valori che può
prendere p nello sviluppo di NEUMANN, ed integro rispetto a {.,
fra —1 e +1. Allora tutti i termini della somma, che sta al
secondo membro saranno della forma
+I
a, P;() P,(L) dp
=
e quindi, poichè in essi p è sempre diverso da , essi saranno
tutti nulli in virtù della (II), e sarà colle dette condizioni,
+
v) f P_. (0) P,(u) P,(v)du=0.
1
Moltiplicando invece ambi i membri della (1) per una funzione P,
il cui ordine sia uguale ad uno dei valori di p nello sviluppo
di NEUMANN ed integrando rispetto a 1 fra —le +1, i ter-
mini della somma, che sta al secondo membro, che contengono
due armoniche zonali superficiali d’ordine diverso, s'annulleranno
tutti per la (II), e rimarrà solo quello che contiene due funzioni P
d'ordine eguale, ed in virtù della (III) sarà, se quest'ordine è p:
il Pm(0)P,(p) P,(p)du=
(VI) |
__2 4(-my(-nd(f—p)
_ 26#+1 W (8)
mi
(*) Handbuch der Kugelfunctionen, Zweiter Band, p. 371,
156 OTTAVIO ZANOTTI BIANCO
In questa come appare dalla dimostrazione è
2i=MmM+n+p,
e ciascuno di questi tre numeri intieri m, », p è minore, od
anche uno eguale, alla somma degli altri due.
ScHMIT nella sua già citata memoria, aveva già, fin dal
1858, dato, sotto una forma molto più complicata, la proprietà
espressa dalla (VI). ApAms (*), trovò quest’espressione stessa nel
1873 e ne pubblicò la dimostrazione nel 1878. FERRERS la
scoperse indipendentemente nel 1874, e la pubblicò ma senza
dimostrazione nel 1877 (**). TopHuNTER (***), nel 1878, ne
diede pure una dimostrazione. HEINE nel 1881 accennò alla for-
mola (VI) senza dimostrarla (****) e cita, per comunicazione avuta
da CAyLEY, ADAMS e FERRERS, ma tace di TODHUNTER e SCHMIT.
III.
Riprendo ora l’espressione
n 5 (2+1)1.8...((—1)1.8...(7—3)
O=-(1-_P.()-...° —————« E)...
de | gt2(2) sit) 4. ei
nella quale % è un numero intiero pari qualunque. Ram-
mento, che
cos 0=p,
(*) Apams, On the expression for the product of any two Legendre’s
coefficients by means of a series of Legendre’s coefficients, Proceedings of the
Royal Society of London, XXVII, 1878. (10 gennaio, 20 luglio) pp. 63-71.
**) FERRERS, An elementary treatise on Spherical Harmonics. London, 1877,
p. 156.
*, TopHUNTER, Note on Legendre?s coefficients, Proceedings of the Royal
Society of London, vol. XXVII, 1878, pp. 381-83. Su questa memoria e su
quella già citata di Apams, riferì CayLey nel Jahrbuch tiber die Fortschricte
der Mathematik, pel 1878.
(*#***) Heine, Handbuch der Kugelfunctionen, vol. II, p. 371, 1881.
ALCUNI TEOREMI SU} COEFFICIENTI ,DI LEGENDRE 15Y
e moltiplico ambi i numeri dell’ultima espressione per P, (Lp) dp,
ed integro rispetto a Lf. fra — 1 e +1: si avrà
+
finora
="
I +I El
| P, (tt) di = il VA TA EA (DICI MAROTTA _ |
ui] —]
(2i4+-1)1.3...(i—1)1.3%..(i—3)
a
+
(042) 2.4... d(0—- N E (PE (1) ls;
a
Ora se n è dispari, esso sarà differente da tutte le 7 che sono
pari, ed in virtù Cella (I) e (II) si annulleranno tutti i termini
e sarà,
+
| senG. P, (1) dp=0 .
Ci
Se » è pari si annulleranno pure tutti i termini, tranne quello
che contiene due funzioni P d'ordine eguale, sia questo », per
la (III) sarà, n essendo ora un’indice generale,
+1
Lee)
G.P.,(1)dp=—1
sen 9. P,, (1) dp T3.4...n(n+2)2.4...n(n—2)
—l
Si ha:
P 1
= 3 (1+2P, (2),
donde
1—-p°=sen°9= = (1— EE)
Suppongo ora, che m ed » siano due numeri tali che m+n+2= 2%,
e che in quest’ultima espressione ciascuno sia minore della somma
degli altri due, od anche uno eguale a questa somma, e molti-
Atti R. Accad., - Parte Fisica — Vol. XXII, 12
158 OTTAVIO ZANOTTI BIANCO
plico l’ultima equazione in /, per P, (2) P,(Y)Ap. ed integro fra —1
e -- 1, sarà
SI +I +1
2 2
| sen°9P,(p)P (0) du= 3 f Pa(1)Pm (1) du— 3 J P,(0)Pu(t)Po(0) dp :
- to) Za
donde per le proprietà espresse dalle equazioni (II) e (VI),
f sen? GP, (1) Po (u)da=— TI METEO OOCn (a)
=
nella quale è in generale,
se m=, avremo applicando le (III) e (VI)
+1
4 o b(m_-1)
20\P_(u)l'al4y aa le Be b
j 30 (Pal) rari IR MOR
—]1 i
essendo 25'—=2(m +1)
Da quanto precede, per essere,
1- p°=sen°@ ,
si ha subito applicando la (II)
a (2) du= Tee : (e)
cos°6 P, (p) P 3(20+1) (0)
bari
ui
Gi
ed applicando la (III)
ELI]
1 9 U(m—- 1)
20\P_(u)ldu= — eta
foco m (12) | sel 3(2m+1) 3(20-+1)g(m-F1) (9)
21
Sommando la (a) colla (e) e la (2) colla (d) si ottengono nelle
due somme le due note equazioni di LEGENDRE. Sottraendo la (a)
dalla (c), e ricordando che:
cos°0 — sen°0=c0s29 ,
ALCUNI TEOREMI SUI COEFFICIENTI DI LEGENDRE
159
sì ha:
i) 8 4(—-2)y(c-mg(—n)
o c_-m)p(7—-n
cos 20 P, (L. (udi= — — T_T 4. (e
J Car) 4(9) =
Colla sottrazione della (0) dalla (4), si ha parimenti:
+1
| i 9 PU dl 1)
6) (3% PAPA IE SAM E CO
i a i Sean) Se Ds) * Ù)
1
IV.
La teoria dei coefficienti di Legendre, fornisce l’espressione :
dd (2n) (an (27) (2)
cos 2n0—= B. P_(L)+B PAT a 1 O ce (0) nia
moltiplico ambi i membri di essa per P. (Lu) ?d p., î essendo un
numero intiero pari ed s un numero qualunque = », ed integro
rispetto a /. fra — 1 e +1, sarà:
“+1
I cos 2 n.9 }P. (1) du=
=
44 +1
pf sa (1) P, (1) PAL+-B o f Pino (2) | P, (0) Pdu+.
sl
1
+1 +I
3 +259/ P.(u)} P. (2) (dp ad, RCA iP. (11) du:
al
che in virtù delle equazioni (III) e (VI) diventa:
+1
fenent)e, (a) da BO PROLE, IA
n _ 25+2n+1 (ST)
1
i 2° $(-nt1lg(—1)2
pen i LI A
Tier toni L(s+n—1) sa
i
; (22) 2 e(e-i)) e(3 ) BE i
eb: (Giri DE AE; dem pei
(i
160 OTTAVIO ZANOTTI BIANCO
In questa si ha in generale, 7 essendo come si disse un numero pari:
n—(i-2){}2n—(i-4){...(2n—2)(2n)?(2n+2)..(2r+(i—2))
12
)
;2n-(i+1)| \2n—(i1){...(2n—1)(2n+1). ..|2m+i+1]
BE (2i4+1)
Facendo n= 1, in queste espressioni si ha subito la formola (f)
del paragrafo precedente. Si ha pure
2n (2n) (2n) (2n)
£oo 9 sà A, 2, (f1) di A, 2(n-1) Pirito (23) DE Agg E (1) "a e
a e Nine
nella quale si ha in generale
(2n—-1+2)(2n—- 144)... 060. 2n
(Qn+i+1)(2n+iT—1)...(2n+3)(2n+1)"
Come già feci prima, moltiplico ambi i membri dell’espres-
sione di cos" 9, per } P,(u) (*dp, s essendo un numero intiero qua-
lunque = », ed integro rispetto a 1 fra — 1 e +1, sarà:
+1 5
Il cost" 9} P.(p){° du— al P_.(0) } P. (1) {Pdu+
A°9—(2i+1)
+2 -+1
(27) 9 (27 i i Ì
i] P.n_n (2) P,(0)| du + 402.) Ping (0) j PI(2) (dl
sia; +
AE | Poi Ba) ef \ P_(1)?a pl
Questa equazione, tenendo conto delle (III) e (VI), diventa
+I
9 { ie ) I<
f 000 |P () TE du 4 CI SOA
n 2654+-2n+1 d(S+m)
4 41) 2 p(sun+1)}U(n—-1){°
1-1) 254-2n—-1 d(s+n— 1) io
4 40” 2 d(s—n+2)ig(n—-2)f?
2) 25+-2n—- 8 d(S+n— 2) PA
2
7 )
#(-2)}t(3)
5 2 i 2 “AZ F 2
ea) | AMO St
color fi — pri ; 3
++ #(5+) 2s+1
ALCUNI TEOREMI SUI COEFFICIENTI DI LEGENDRE 101
In questa facendo n=1, si ha la formola (d) già ottenuta pre-
cedentemente.
V.
Dalla trigonometria si ha:
| 1 nol 2n 2n 2n
sen?*@= | _ )- )co2s4 cos4@=zgà. a
2° }2 n n— 1 n_-2
Te 1): ! i |eos id Lit (1)"e0s 208, :
In questa, le quantità fra le parentesi rotonde sono tali, che in
generale si ha:
2 3 I Re do rl Eri)
(1°) Qn2n-12n—-22n—-3 2n-q+1 2n!
q 1
Ora, si sa esprimere in funzioni armoniche zonali superficiali
cos? per ogni valore intiero di 2, e noi lo vedemmo per ‘ pari,
che è appunto il caso attuale Potremo pertanto esprimere in tal
guisa cos20, cos40,...cosi9,....cos2n9, e sostituirle nella
formola che da sen?” @, che otterremo così espresso in una serie
finita di armoniche zonali e sarà:
È 1 [1/2 2n n
sn 0= sor | 5 ( )-( ) B°) P, (p) +B° i
x n COZZA
2n 5 into)
+(, >) ) BO P.(2)+B P_(1) +50 Te
2% \; 20 © 6) ©
“Fi ì 3 jb, Pia, Ed) Be ED Ad, pers 5 (9)
iI
2n \
SETS OLI RE, |} BP, (a) + BP, Lera
; 2
2/
2(n1—-1) 2(2—1)
RBL (M+ BP (2) +...+-50%) |
162 OTTAVIO ZANOTTI BIANCO
I coefficienti B di questa formola si ottengono dall’ espressione
generale B;©* scritta nel paragrafo precedente, facendo variare
n da 1 fino ad n, e per ognuno di questi valori di n, facendo
prendere ad ; i valori di tutti i numeri pari, compresi fra O
e 2n inclusivamente.
Osservo che nell’ultima espressione scritta non vi è alcuna
funzione P d’ordine superiore a 2»; moltiplico ambi i membri
di essa per P,(u) dp, s essendo un numero pari superiore a 2%,
oppure un numero dispari qualunque, ed avrò integrando rispetto
a p. fra i limiti —1e +1
+1
P;(u)sen*0du= 0.
=
giacchè per la (II), tutti i termini del secondo membro, conte-
nendo due funzioni P d’ordine differente si annullano.
Se s è pari ma =2n, si annulleranno nell’integrazione
tutti i termini, tranne quello che contiene la P d’ordine eguale
ad s ed avremo:
a 2n \
Po ( Venrsoplia cho e Pi pipi s|, s<2n
sl A pini Leek s \n-3)
eZ ox Z
+1
e pari | P+(p) mon" Gg = o ses=2%.
zn 9g enzA 2n+41 2n
—1
Ad esempio si ha:
+ 1 +1
4 32
S00P È files é Lau =_—- ’
fe o (2) dp ne fi GP.(p) dp TO
Zi Tu
+1
16
46 se:
fer GP. (2)du= 75 ;
Suppongo ora che sia s 2 » e moltiplico ambi i membri del-
l’espressione (9) per } P,(u){*d, ed integro rispetto a p. fra
1—-e4+1, avrò:
ALCUNI TEOREMI SUI COEFFICIENTI DI LEGENDRE 163
+1
2n lo 1 1 2n 9
fucriotato[1(2) fot
pala .{ 2n +1
BI | P, (1) ii 1) sf P.(1) 12.) ('aa
n_T—_-=
9 } A
= 4 =D
n —
;f2n 1 È Pre |
BSC(1) ridi BI | P.ta) dt VEE (pe) 0] dp.
n (21) a \ i 2 n (2n) È : 2
+(—1)" B P ())P.(0{ de+4 (1 5 [|P dp. .
2(n-1),/J 2(n—-1) 0
1 } 1
Da questa, raggruppando i termini che moltiplicano lo stesso
integrale, ed applicando i teoremi di LEGENDRE e di ScHMT e
FERRERS già tante volte adoperati, avremo:
OTTAVIO ZANOTTI BIANCO
x 0 0a 1 1 1/2n 2n À
fuori
n
2n ca
+(- 1) B®|( NESS Ap ape
n
mn=2 1-8 a
A orettaf ato
1. 4(s-3){4(3){° î va (4) (21)
2 È B SI
T254+7 L(543) ava Ra Li = o,
pid 3) I4(5){. a
EEA Cai n.
s+? Ù a
vls+i) | a
MO: 2n \
= - (i+-2) (2 n)
+(-1) î TR E
ee |
e 00: IN Pg e Dex $ rana ALZO
(2n)
I :
25+2n+1 (54 n) | $ |
che per s = » ci permette di avere numericamente il primo mem -
bro. Da questa, fatto n=1 ottiensi la (6) alla quale già si
giunse più sopra per altra strada.
ALCUNI TEOREMI SUI COEFFICIENTI DI LEGENDRE 165
Si ha dalla teoria delle armoniche zonali superficiali :
1 d'(u°-1)
2".n! dp.
P, (1) =
, essendo 1 = cos$
a mezzo di questa espressione, potremo, avendo riguardo ai ris
sultati ottenuti nel presente scritto, avere i valori dei seguenti
integrali :
ve 2 sa im 9
ctf dp , senÈ Seli intia Nest) i gio rd) du.
I dp" du" dp" [
-
Pala (2 1)( Te) adi 1)
Gaepi die 1) du. , cos” 9 \a"(_1) (°_ lia (da ,
I dp” i AZ du y tea
—1 ?,
\ d'(
Mea 1)1° a "(2 1)\\d"(2-1)
così $ Di du. , cos 25 (ET lato (di i
dp." \ egg r® pu" du”
23 "i
sa (2 1)(° 1
cos 25 dead) (dia lang CEI dp. ,
du” ii dp
= <q
È a'(u2—1) \(a(2-1){}
| cos?” 9 E sad vr vo) ALE 3601 du,
È De dp." \ i
—1 Pa
Torino, Dicembre, 1886.
160 C. GUIDI
Sul calcolo di certe travi composte ;
Nota dell’ Ing. Prof. C. Guipi
4. Scopo di questo scritto è di mostrare come dev’ essere cal-
colato il momento flettente a cui può resistere una trave composta
di più travi sia pure eterogenee, come ne mostrano esempi le
Fig. 1, 2, 3 e 4 qui annesse, nell’ ipotesi che il collegamento
fra le travi componenti non sia così perfetto da impedire lo scor-
rimento che ha luogo fra esse durante la flessione. Da questo
calcolo sì possono dedurre importanti osservazioni sul miglior modo
di utilizzare la resistenza delle travi componenti.
Biase Biz:
<--------474---------->
2. Supponiamo, per fissar le idee, che si tratti di una trave
composta di due sole travi eterogenee. Indichiamo con M il mo-
mento flettente massimo a cui può resistere la sezione trasversale
della trave composta, con M, il momento flettente che viene sop-
portato da una delle due travi, con £, il modulo di elasticità del
materiale di cui essa è formata, con /, il momento d’inerzia della
sua sezione trasversale rispetto all’asse neutro baricentrico; indi-
chiamo poi con M,, E,, I, le stesse quantità per l’altra trave.
Le due travi restando, durante la deformazione, a contatto in ogni
loro punto, i raggi di curvatura delle loro curve elastiche, in cor-
SUL CALCOLO DI CERTE TRAVI COMPOSTE 167
rispondenza di una sezione trasversale qualunque della trave com-
posta, sono eguali. D'altra parte, dietro quanto si è supposto al
n° 1, dobbiamo ritenere che le due travi s’inflettano come se fossero
indipendenti; ciò conduce all’equazione
M, se M,
BA Pa POI,
ossia
(1) Mi — EI
ANI M. E, £
la quale stabilisce il rapporto delle due parti del momento flet-
tente MM sopportate dalle due travi (1).
3. Ora se s'indica con c, lo sforzo unitario sopportato dalla
fibra che ha la distanza massima v, dall'asse neutro nella sezione
trasversale della prima trave, si ha, come è noto,
O pp a
vi
e similmente per la seconda trave,
DIE dis dada :
oo
quindi la (1) può anche scriversi
v_ GE
en 3a
2 Zina]
Da questa equazione si deduce che affinchè gli sforzi unitari
massimi c, e 7, possano raggiungere ambedue simultaneamente i
valori %,; /, dello sforzo unitario massimo ammissibile (carico di
sicurezza), nel qual caso la resistenza delle due travi si trova uti-
lizzata nel miglior modo, è indispensabile che le distanze v, e %,
stiano nel rapporto
k E
(5).0 00 — = 2
Vo tb E,
(1) Cfr. WinkLER, Vortrdge tiber Brickhenbau, Querconstruktionen.
168 CE IGUIDI
Se questa condizione è soddisfatta, si calcoleranno M, ed M,
colle due equazioni di stabilità
1
(1 PES M_=+,
(6) ii
IRR b
(7 TRES Ma
Vo
con che resta determinato il momento M=M, +, a cui può
resistere la trave composta.
Supponiamo invece che risulti
kE, È
kE,
si deduce allora dalla (4) che raggiungendo o, il valore %,, re-
sterà c, inferiore a %,. In tal caso si dovrà dunque deli M,
per mezzo della (7) i si dedurrà poi M, dalla (1): risulterà
c,<lk,, ossia la resistenza della prima trave sarà soitanto par-
zialmente utilizzata; e ciò perchè la soverchia rigidità della seconda
trave in confronto a quella della prima, impedisce a questa d’in-
flettersi quanto potrebbe senza che fosse oltrepassato il carico di
sicurezza.
Finalmente se risulta
v
Le
(1°) RESA x =
si calcolerà MM, per mezzo della (6) ed in seguito colla (1) si
troverà M,; in tal caso risulterà c,<%, ossia la resistenza della
seconda trave sarà soltanto utilizzata in parte.
4. È molto semplice estendere queste considerazioni al caso
di una trave composta di più di due travi, p. e. di tre. In questo
caso avremo, mantenendo le solite denominazioni,
M Move: ROD
1 3
Elio) 7 10m
Lì 1
mentre il momento flettente totale a cui potrà resistere la sezione
composta sarà M==M +.4,4+M,. Dalle (10) deduciamo le due
equazioni
DE: (EE Mei
sc» Pe e = === * 00. ba),
Ma); Mi vd a M, E,I, pr
SUL CALCOLO DI CERTE TRAVI COMPOSTE 169
dalle quali si passa poi alle altre
[59 A eta DR se 2A,
usiniog E, mosito E,
e come conseguenza
Meit.. sd
Va 34,
Affinchè 0,, 7), 7, possano raggiungere contemporaneamente i
valori %,, %,, % del carico di sicurezza, devono essere soddisfatte
le due equazioni
duo. ei pig sig ir
vr ehoyt v, ky E,
2 3 3
in tal caso si calcoleranno M,, 4, ed M, colle equazioni di
stabilità
(18).. M= Da La
pa Fo A Cee ari 7
Il 2
CASZUE
3
e la resistenza delle tre travi sarà utilizzata al massimo grado.
Che se però una soltanto o nessuna delle (16) e (17) è sod-
disfatta, sarà facile riconoscere, come nel caso di una trave com-
posta di due, quali sono le due travi o quale la trave per la
quale c può raggiungere il valore %; per queste o per questa si
calcolerà il momento flettente colla formola di stabilità, l’altro
o gli altri due momenti flettenti si ricaveranno dalle (11) e (12).
ESEMPI.
5. Per la trave composta rappresentata nella Fig. 1 indi-
cando coll’indice 1 le quantità relative alla trave di ferro e col-
l’indice 2 quelle relative alla doppia trave di legno, si ha (assu-
mendo come unità il centimetro)
t RS 3
a kg ic) > ra‘
I=S700%, I,={3(10-17,4 — 9-15 )=1859,
Il
o=8,7, E=18-:103,
1
ee al 9p15i= 2581,
, 2359 15° 2581
= (095) 3 Bo » LO? ;
170 C. GUIDI
ani peg ipy i 70051
uindi bce 21 mentre —- 86200
n ug kE, x 00000
cosicchè ha luogo la disuguaglianza (9) e perciò si ha dalla (6)
__700-1859
M = 149575 #0 _ 1496/68
Da 8,7
mentre dalla (1) si ricava
1,1:2531
M,=1496 — 124°"
di 18-1859
Lo sforzo unitario massimo sopportato dalla trave di legno
vien dato dalla (3)
1 124007,
CEE
° 2591
che risulta circa la metà di-%,; in questa trave composta, la
resistenza delle due travi di legno a causa della loro piccola
altezza viene adunque utilizzata circa per metà.
Il momento totale a cui può resistere la trave composta è
dato da M=M +M,=1496+124=1620*89,
INS Sh Fia. 4.
[ie
-95 ->
=
0
+---g5-----X---W,
6. Per la trave composta rappresentata nella Fig. 3 (arma-
mento dei tramways con rotaje americane e sottoposte longherine
SUI CALCOLO DI CERTE TRAVI COMPOSTE 173
di legno) indicando ancora coll’indice 1 gli elementi relativi alla
rotaia e coll’ indice 2 quelli relativi alla longherina si ha (in
centimetri)
n ="700%- 04 =59%, os S:0as-agEe— 1805
e io 25, EL 108
| a MIEI CR
ana n re —___t__ 6 ez _——________________— y <- _—_
- v 12,5 e OC
cosicchè ha luogo la disuguaglianza (8) e perciò si ha dalla (7)
70:9774
M,=—————— =" 5473 kgem _—_ 54 kgra
; 12,5 Hesse 547
e applicando poi la (1)
18: 59
M —547 — __ _ 544sm
i i;bx9774 0%
Lo sforzo unitario massimo sopportato dalla rotaia, secondo
la (2) risulta
ai 5400 3,35 _
307 ;
59
%
come si vede, la resistenza della rotaia a causa della sua poca
rigidità rispetto a quella della longherina di legno, viene utilizzata
appena per metà.
7. La Fig. 4 rappresenta una trave composta (impiegata so-
vente sui nostri ponti in ferro) risultante di una rotaia in acciaio
e di una longherina di legno racchiusa fra due longherine di
ferro. Apponendo l'indice 1 agli elementi relativi alla rotaia ,
l’indice 2 a quelli della doppia longherina di ferro e l’indice 3
agli elementi della longherina di legno, si ha colle dimensioni
indicate nel disegno ed assumendo al solito il centimetro come
unità —
k=2000, I=993, E,=20:105, o;=6,55
k,=700, I,=2-1971=3942, E,=18-105, o,—9,5
k,=60, I,=3882, E,=1,1-105, 0,=8,95
172 C. GUIDI - SUL CALCOLO DI CERTE TRAVI COMPOSTE
gig! of 65651 I via E, 2000 ER
ndi += nre ——°—- —__=-,
Ri ap) ale ie (E È oe,
o10n9,6 kE, 70006, Bai
"01° =s5 ° © Ed 00-a801gR
Si ha dunque in quest’ esempio
o _hE x o KE.
v, dei Yo Vedo
si deve perciò dapprima calcolare M, colla (19), cioè
700 - 3942
M.=
Pu e e O) 409 Se
7 9,5
In seguito si ha dalla (11)
20 -993
M=2 ocio 2 gg.
; 905 7373942 ia
e dalla (12)
1,1:3882
T,=2905 ——__= na]
M, 905 78/3042 174
Il momento totale a cui può resistere la sezione composta
risulta quindi
MI > MSOMI PRIME
Lo sforzo unitario massimo ©, sopportato dalla rotaia e
quello 7, sopportato dalla longherina di legno sono dati dalle
Mv, 81300-6,55
= Ds | Si
salvi fine ggg” 15 Sd
M,v, 17400:8,35
io — pre == te de 37
Od E, 3882 i
dalle quali apparisce quanto poco vengano utilizzate in questa
trave composta la resistenza della rotaia e la resistenza della
longarina di legno.
——__—_——_ > — _____
178
Commemorazione di Alessandro Dorna:
del Socio F. SIACCI
Il 19 agosto di quest'anno cessava di vivere Alessandro Dorna,
e la nostra Accademia perdeva in lui un socio antico e valo-
roso, l’Università di Torino un egregio professore, l’Osservatorio
astronomico un operoso direttore, le scienze matematiche un
cultore esimio, i colleghi un amico carissimo.
Alessandro Dorna nacque in Asti il 18 febbraio 1825; ivi
fece i primi studi, e in questa Università si laureò, nel 1848,
ingegnere idraulico. All’esercizio lucroso dell'ingegneria, il Dorna
preferì lo studio delle matematiche pure e dell’astronomia, cui
lo chiamavano le sue inclinazioni e il consiglio e la simpatia del
Plana, che gli fu maestro; e che, apprezzando di quest’allievo
l’intelligenza e l’operosità, lo propose nel 1850 per l'insegna-
mento della meccanica razionale all'Accademia militare.
Morto il Plana nel 1865, il Dorna fu scelto a succedergli
nella Direzione dell’Osservatorio astronomico di Torino, e nomi-
nato in pari tempo professore d’astronomia nella R. Università.
I mezzi dell'Osservatorio erano allora assai più scarsi che non
adesso, ed egli ne promosse subito un primo incremento, amplian-
done i locali, migliorandone il materiale scientifico, aumentan-
done il personale, e nel 1866 cominciò la pubblicazione di quel
Bullettino dell’Osservatorio, che si stampa per cura della nostra
Accademia e che giunge ora al suo ventesimo volume.
Malgrado la povertà de’ suoi mezzi, l’ Osservatorio astrono-
mico di Torino produsse, sotto la direzione del Dorna, parecchi
lavori assai pregevoli ed utili, fra cui noteremo il Catalogo delle
634 stelle principali visibili alla latitudine media di 45° colle
coordinate delle loro posizioni medie per l’anno 1880, ac-
compagnato da un atlante di 12 carte, in cui le stelle sono
projettate stereograficamente di due in due ore siderali, coi cir-
coli paralleli di declinazione di dieci in dieci gradi.
Nel 1874 il Dorna fece parte della spedizione italiana a
Muddapur nelle Indie orientali per l’osservazione del passaggio
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 13
174 F. SIACCI
di Venere sul disco solare. Nel 1882 studiò di nuovo in Torino
lo stesso passaggio, e le sue osservazioni e deduzioni, registrate
nelle Memorie degli Spettroscopisti Italiani, furono , tra altre
pochissime, riconosciute esatte.
Quando nel 1874 si costituiva in Torino un Consorzio tra
Provincia e Comune per dare incremento all’ Università e agli
Istituti che ne dipendono, il Dorna, con pratiche perseveranti,
riuscì a conseguire una migliore sistemazione dell’ Osservatorio,
che tanto stavagli a cuore; e i suoi amici ricordano la sua gioia,
quando la specola ottenne un equatoriale di Merz con obbiettivo
di 30 centimetri e quattro metri e mezzo di distanza focale.
L'Osservatorio di Torino, unico nel Piemonte, è tuttavia ancora
ben lungi da quel che dovrebb’essere; e finchè infaustamente ri-
poserà su quel castello, per quante spese vi si facciano, non sarà
mai degno di Torino e del Piemonte.
L’astronomia non fu la sola parte delle scienze matematiche,
a cui si applicò. Gli Annali di Matematica di Roma, il Gior-
nale di Matematica di Napoli, e più di tutti gli Att e le Me-
morie dell’Accademia delle Scienze di Torino contengono molti
lavori di matematica pura ed applicata, specialmente di mecca-
nica. Per gli allievi dell’Accademia militare scrisse un Trattato
di Meccanica razionale, che non fu una semplice compilazione,
ma opera lungamente pensata ed ebbe più edizioni.
All’Accademia militare insegnò 36 anni, ed ebbe discepoli
quasi tutti gli attuali uffiziali dell’Artiglieria e del Genio, che lo
ricordano con rispetto e gratitudine.
Sentendosi omai stanco e non ben ristabilito da una recente
gravissima malattia, prodottagli da una caduta per le difficili scale
dell’Osservatorio, domandò riposo al Ministero della Guerra. Libero
da una parte de’ suoi doveri scolastici, desiderava di consacrare
ormai tutte le sue forze all’Astronomia. Ma nel medesimo giorno
in cui all'Accademia militare perveniva il Decreto che accoglieva
la sua domanda, le giungeva la notizia della sua morte improv-
visa, avvenuta la sera del 19 agosto nella sua villa a S. Pietro
non lungi dalla Sagra di San Michele.
Alessandro Dorna apparteneva alla nostra Accademia dal 1869;
al R. Istituto Lombardo dal 1867, e alla R. Accademia dei Lincei
dal 1872. Ebbe molti incarichi scientifici ed amministrativi, fra
cui noteremo, oltre la ricordata missione astronomica nell’India,
la reggenza della Cattedra di Geodesia alla Scuola di (Guerra,
COMMEMORAZIONE DI ALESSANDRO DORNA 175
ed il Consiglio direttivo della Scuola degli Ingegneri di Torino,
presso cui rappresentava la nostra Accademia.
Alessandro Dorna fu una bella mente; e se nell’Astronomia
non salì ai sommi gradi, la causa è da ricercarsene nella troppo
lunga povertà dell’Osservatorio, e forse anche nella moltiplicità
delle sue mansioni.
Alessandro Dorna fu anche un forte carattere ed un cuore
eccellente. Della sua indole semplice, gioviale, generosa serbe-
ranno grato ricordo tutti coloro che lo ebbero maestro benevolo
e premuroso, e quanti gli furono colleghi ed amici. Chi scrive
ebbe, forse più di tutti, a sperimentare la sua bontà, e glie ne
serba gratitudine incancellabile.
PUBBLICAZIONI DEL PROF. ALESSANDRO DORNA
Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino.
Memoria sulle pressioni sopportate dai punti d'appoggio di un
sistema equilibrato ed in istato prossimo al moto, vol. XVIII
(1857).
Catalogo delle 634 stelle principali visibili alla latitudine
media di 45°, colle coordinate delle loro posizioni medie
per l’anno 1880, ed atlante di 12 carte contenenti le dette
stelle proiettate stercograficamente sull’orizzonte di 2 in 2
ore siderali coi circoli paralleli di declinazione di 10 in
10 gradi, vol. XXVI (1871).
Descrizione degli strumenti e dei metodi usati all'Osservatorio
di Torino per la misura del tempo, vol. XXVII (1873).
Indicazioni, formole e tavole numeriche pel calcolo delle effe-
meridi astronomiche di Torino, vol. XXXI (1879).
Applicazioni dei principii della meccanica analitica a problema.
Quattro Note. Vol. XXXI (1879).
Nota quinta intorno alle funzioni elittiche ed agli integrali
elittici di prima specie, vol. XXXII (1880).
Sulla rifrazione : Interpretazione matematica dell’ ipotesi con
cui DomENICO Cassini determinò la rifrazione astronomica,
e teoria esatta che risulta libera da ogni supposizione arbi-
traria sulla costituzione dell'atmosfera per una proprietà di
questa, che non era ancora stata indicata, vol. XXXV (1883).
176 F. SIACCI
Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino.
Nota sulla media aritmetica nel calcolo di compensazione, vol.
IV (1869).
Lettura di uno scritto intitolato: « Observation sur l’essaim
d’etoiles filantes du 12 au 14 novembre 1869 >», vol. V,
(1869).
Sulla formola barometrica del Conte di Saint-Robert, vol. V,
(1870).
Sull'importanza scientifica di Soperga e della Sacra di San
Michele per l'Osservatorio di Torino e sulle loro rispettive
differenze di livello, vol. V_ (1870).
Tavola logipsometrica, vol. V (1870).
Introduzione al Catalogo delle 634 stelle principali visibili
alla latitudine media di 45°, ecc., vol. V (1870).
Presentazione di una nota intorno ai Leoneidi ed ai Perseidi,
vol. VI (1870).
Lettura di un lavoro sulle osservazioni meteorologiche dell’ Os-
servatorio di Torino, vol. VI (1871).
Intorno ad alcune osservazioni sul diametro solare, vol. VIÉ,
(1872).
Intorno all’aurora boreale del 4 febbraio 1872, vol. VII (1872).
Sulle carte celesti della Reale Accademia delle Scienze di To-
rino, vol. VII (1872).
Intorno alla priorità delle scoperte ed a qualche osservazione
di aurore boreali e di perturbazioni magnetiche in riguardo
alle supposte vicendevoli azioni elettro-magnetiche del Sole
e dei pianeti. Stelle cadenti. Rondoni, vol. VII (1872).
Presentazione di tavole di misure termometriche, vol. VIII
(1873).
Sulle altitudini della strada ferrata delle Alpi, vol. IX (1874).
Rettificazione di formole, vol. IX (1874).
Effemeridi del Sole, della Luna e dei principali pianeti cal-
colate per Torino in tempo medio civile di Roma per l’anno
1378, vol. XII (1877).
Annunzio di un'ecclisse lunare, vol. XII (1877).
Sulla cometa osservata il 7 aprile 1877 a Milano, vol. XIT
(1877).
PO I°
COMMEMORAZIONE DI ALESSANDRO DORNA LEN
Maniera di trovare le formole generali pel calcolo della pa-
rallasse nelle coordinate di un astro, con alcune semplici
relazioni di trigonometria piana, vol. XIII (1878).
Sullo strumento dei passaggi, tascabile, di Steiger e sulle
equazioni fondamentali da cui dipende luso di esso e degli
strumenti dei passaggi in generale, vol. XIV (1879).
Della determinazione del tempo collo strumento dei passaggi,
trasportabile, vol. XIV (1879).
Nuovo materiale scientifico e prime osservazioni con anelli
micrometrici all'Osservatorio di Torino, vol. IX (1884).
Prime osservazioni con anelli micrometrici all'Osservatorio di
Torino. Nota sulla determinazione dei raggi degli anelli
micrometrici con stelle, vol. XIX (1884).
Sulla possibilità che il vulcano di Krakatoa possa aver proiet-
tato materie fuori dell'atmosfera, vol. XIX (1884).
Osservazioni dell’eclisse totale di Luna del 4-5 ottobre 1884,
state fatte in Torino nel Palazzo Madama dalla Specola
dell’Università, vol. XX (1885).
Breve notizia delle osservazioni astronomiche e geodetiche ese-
guite nel 1885, all’ Osservatorio della I. Università di
Torino, nel Palazzo Madama, per iniziativa e a spese
della Commissione del Grado, vol. XXI (1886).
Sulla mira meridiana dell’ Osservatorio di Torino a Cavoretto,
e formola per dedurne la posizione dalla sua altezza e
dalle costanti dello strumento dei passaggi, vol. XXI (Tre
note) (1886).
Nozioni intorno all’equatoriale con refrattore Merz di 30 cen-
timetri d'apertura e metri 4 }%4 di distanza focale, vol. XXI
(Quattro note), (1886). :
Presentazioni di effemeridi astronomiche meteorologiche del-
l'Osservatorio di Torino, vol. X-XXI (1885-1886).
Annali di Matematica pura ed applicata.
Memoria intorno ad alcune questioni di matematica, Roma,
1860.
Sopra un teorema di geometria. Roma, 1860.
178 F. SIACCI - COMMEMORAZIONE DI ALESSANDRO DORNA
Giornale di Matematica.
Sulla catenaria di uguale resistenza. Napoli, 1863.
Sulla dimostrazione del parallelogrammo delle forze. Napoli,
1864.
Sulla stabilità dell'equilibrio. Napoli, 1864.
Sulle trasversali nel triangolo. Napoli, 1865.
Nozioni teoriche sull’attrito. Napoli, 1865.
Memorie della Società degii Spettroscopisti italiani.
Circostanze del passaggio di Venere del 1374 calcolate per la
linea di Madras-Calcutta. Palermo, 1874.
Il passaggio di Venere sul Sole, osservato a Muddapur il 9
ottobre 1874 Palermo, 1875.
Altre pubblicazioni.
Note sur la distribution des pressions dans les sistèmes elas-
tiques. Turin, 1858.
Tavole delle latitudini e longitudini rispetto a Roma dei comuni
delle provincie di Alessandria, Cunco, Genova, Novara e
Torino. Torino, 1867.
Elementi di meccanica razionale (3 edizioni). Torino, 1865,
1873, 1885.
Lezioni di astronomia e di meccanica celeste, lit. (Parecchie
edizioni).
Il Direttore della Classe
ALronso Cossa.
V7:9
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 26 Dicembre 1886.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE PROF. ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, SoBrERO, LESsonAa, BRUNO,
Sracci, Basso, D’Ovipio, BizzozERo, NACCARI.
Le letture si succedono nell’ordine seguente :
Il Socio Bizzozero, anche a nome del condeputato Socio
Mosso, lesse una sua Relazione sopra un lavoro del Dott. Livio
VINCENZI « Sui vizi congeniti del cuore », che viene in seguito
approvato dalla Classe per l'inserzione nei volumi delle Memorze.
Il Socio Bruno presenta per la consueta pubblicazione nel
Bullettino annesso agli Atti i seguenti lavori dell’Osservatorio
astronomico di Torino, eseguiti dal professore Angelo CHARRIER,
Assistente dell’Osservatorio stesso :
1° Osservazioni meteorologiche fatte nei mesi di Gennaio,
Febbraio, Marzo, Aprile, Maggio e Giugno 1886, colle rispet-
tive medie decadiche e mensili ;
2° Diagrammi di dette osservazioni;
3° Riassunti mensili.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. - 14
180
LETTURE
RELAZIONE sul lavoro del Dott. Livio VINCENZI,
Sui vizi congeniti del cuore.
A contributo dei vizi congeniti del cuore lA. descrive tre
casi assai differenti l’uno dall'altro, e dei quali uno gli venne
offerto da un caso clinico assai interessante a lui occorso; gli
altri vi furono gentilmente dati a studiare dal chiarissimo Prof.
v. Recklinghausen, presso il quale l’intero lavoro venne ultimato.
Dal 1° risultano alcuni fatti degni di nota, e cioè:
Che la stenosi gravissima verificatasi all’ostio polmonare non
devesi, come nella pluralità dei casì, considerare quale causa del
difettoso sviluppo dei setti, essendo nel caso in esame ben evi-
denti le valvole semilunari polmonari, che formansi quando già
il septum inferius è iniziato.
Che l’unico ventricolo trovato non devesi ritenere per destro
o per sinistro, ma deve essere considerato come ventricolo pri-
mitivo, che per un’unica valvola mettesi in rapporto col canale
auricolare, il quale in questo caso è rappresentato dall’ unica
orecchietta riscontrata.
Che il conservarsi della cava sinistra devesi al mancato svi-
luppo del sinus reuniens.
Dal 2° caso:
Che l’impedito sviluppo del septum ventriculorum nella sua
porzione anterio-superiore, come il rapporto primitivo dell’aorta
rispetto all’orificio polmonare, condussero a rendere assai angusto
il ventricolo destro, e a rendere imperfetta la separazione dei
due ventricoli.
181
Che la stenosi del cono polmonare devesi a difetto nella
parte posteriore del setto anteriore (Rokitansky).
Che la posizione anomala dell'aorta rispetto alla polmonare
fu causata da deviazione del septum trunci.
Dal 3° possono dedursi le seguenti conclusioni :
lo]
Il difettoso sviluppo del ventricolo destro devesi ad un’in-
fiammazione primitiva delle vele della tricuspide.
Il sostituirsi della polmonare in gran parte alla funzione del-
l’aorta è spiegato dalle condizioni più favorevoli, nelle quali si
trovava la polmonare a ricevere il sangue dal ventricolo sinistro. .
Che la stenosi aortica, come la deviazione del septum irunci
non sono primitive, ma secondarie, e all’endocardite valvolare
destra, e alla posizione anomala della polmonare.
La Commissione osserva che il 1° di questi casi venne già
descritto dall’A. due anni fa. Tuttavia essa ritiene giustificata
la sua pubblicazione nella presente memoria, perchè la descri-
zione fattane venne ritoccata in più punti, l’interpretazione no-
tevolmente modificata, ed inoltre i dati da esso forniti vengono
messi a raffronto con quelli risultanti dalle altre due osservazioni.
La Commissione propone che di questa memoria venga data
lettura all'Accademia.
Torino, 26 dicembre 1886.
G. BizzozeRo, Relatore
A. Mosso.
182 A. CHARRIER
Lavori dell’Osservatorio astronomico di Torino,
eseguiti dal Prof. Angelo CHARRIER
Osservazioni meteorologiche fatte nei mesi di Gennaio, Feb-
braio, Marzo, Aprile, Maggio e Giugno 1886, colle rispet-
tive medie decadiche e mensili.
Diagrammi di dette osservazioni ;
Iiassunti mensili.
RIASSUNTO DELLE OSSERVAZIONI.
Gennaio 1886.
La media delle altezze barometriche osservate in questo mese
è 31,85; essa è inferiore di mm. 7,90 al valor medio delle
altezze barometriche osservate in Gennaio negli ultimi vent'anni.
— Le variazioni dell'altezza barometrica furono ragguardevoli.
— Il seguente quadro contiene 1 massimi e minimi delle altezze
barometriche osservate.
Giorni del mese. Massimi. Giorni del mese. Minimi.
l'e; #2 42,36 Fred OSE 37,46
Africano 43,62 ge 21,39
ISLA Le 38,90 20 SE 18,28
LIE ATER 3158 20. 31,60
Il valor medio della temperatura è 4-0°,7; inferiore di 0°,2
alla media temperatura di Gennaio dell’ultimo ventennio. Le tem-
perature estreme + 7°,9 e -—7°,1 si ebbero nei giorni 3 e 20.
— Si ebbero otto giorni tra pioggia e neve, e l’altezza dell’acqua
raccolta nel pluviometro fu di mm. 45,0.
Il quadro seguente dà il numero delle volte che spirò il
vento nelle singole direzioni :
NONNE NE ENE E ESE SE SSE S SSW SW WSW W WNW NW NNW
4.206. 4 004 1 1 6% CSR:
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE 183
Febbraio 1886.
La media delle pressioni barometriche osservate nel mese
è 38,26. Essa è inferiore di mm. 0,86 alla media pressione
barometrica di Febbraio degli ultimi vent’anni. -- Si ebbe una
ragguardevole variazione della pressione nella prima decade; nelle
due successive le variazioni furono leggerissime. --- I valori estremi
delle pressioni osservate sono dati dal seguente quadro :
l®]
Giorni del mese. Massimi. Giorni del mese. Minimi.
Mio... 31,56 DA ATTI A 25,67
Set di 53:05 na 37,44
CRT 40,90 LI SIAE IRE e 84,32
Le temperature estreme — 38°,5 e + 9°, 4; si ebbero la prima
nel giorno 7, la seconda nel giorno 27; la temperatura media
+2°,7 è inferiore alla media temperatura dell’ultimo ventennio
di. 2°,2.
Dieci furono i giorni con precipitazioni acquee, e l'altezza
dell'acqua caduta fa di mm. 37,3. — La frequenza dei singoli
venti è data dalla tabella seguente :
NOME NE ENE E ESE SB SSE S SSW SW WSW W WNW NW NNW
Ve n Rep 10, AI 290, i
Marzo 1886.
Le variazioni della pressione barometrica furono ragguarde-
voli nelle due prime decadi. Il valor medio 37,75 è superiore
di mm. 2,50 al valor medio della pressione barometrica del
mese di Marzo degli ultimi vent'anni. — I valori estremi osser-
vati sono:
(norni del mese. Massimi. Giorm del mese Minimi,
area 38,00 OA 19,54
IRR 44,63 To 27,21
A VR: - 47,44 20 RA: MA 41,48
184 A. CHARRIER
La temperatura media + 7°,6 è inferiore di 0°,5 alla tem-
peratura media di Marzo degli ultimi vent'anni. La temperatura
minima del mese — 3°,2 si ebbe nel giorno 11; la massima
+ 20,5 nel giorno 80.
In sei giorni si ebbe pioggia e l’acqua caduta raggiunse l’al-
tezza di mm. 64.
Il quadro seguente dà la frequenza dei singoli venti :
NO NNE NE ENE E ESE SE SSE S SSW SW WSW W WNW NW NNW
4 BRIN AA SII RAI GORE
Aprile 1886.
Il valor medio delle altezze barometriche osservate in questo
mese è 35,96, e supera di mm. 1,73 la media delle altezze
barometriche d'aprile dello scorso ventennio. — Le variazioni
delle altezze barometriche furono considerevoli, come si può ri-
levare dalla seguente tabella :
Giorni del mese. Minimi. Giorni del mese. Massimi.
pericanao W. 44,84 ES io 49,35
PA AMET ARRE al 35,44 la Regni 40,05
ToOsa, ee 25,00 19 o 36,48
do egg. 29,57 108 mano SI 36,29
Zi) RR NE 80,61 24 43,06
eat 30,52
La temperatura variò fra +3°,5 e + 20°,6; la prima fu
la minima del giorno 11; la seconda la massima del giorno 28.
— La media della temperatura fu +4 12°,7, inferiore di 0°,1
dalla media temperatura d’Aprile degli ultimi vent’anni.
i Si ebbero diciassette giorni con pioggia, e l’altezza dell’acqua
caduta fu di mm. 189,5.
Nel quadro seguente è dato il numero delle volte che spirò
il vento nelle singole direzioni.
NONNE NE ENE E ESE SE SSE S SSW SW WSW W WNW NW NNW
8 40 27 5 42 4 2 4 4 (3.56 SR
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE 185
Maggio 1886.
Il valor medio della pressione barometrica dello scorso Maggio
(37,64) supera di mm. 1,73 il medio della pressione baro-
metrica di Maggio dell’ultimo ventennio.
La pressione barometrica variò considerevolmente nella se-
conda decade. La tabella seguente ne contiene i valori estremi.
Giorni del mese, Massimi. Giorni del mese. Minimi.
1 35,09 APRO 31,41
un 0: 43,32 7 35,85
CNR) Pi 40,78 Ro del 23,47
dad) spiga sh. 27 35,01
La temperatura ha per valor medio +17°,5; superiore
di 0°,7 al medio di Maggio degli ultimi vent'anni. La minima
temperatura + 7°, 3 si ebbe il giorno 6; la massima 29,3 il
giorno 22. — Si ebbero nove giorni piovosi, e l'altezza dell’acqua
caduta fu di mm. 56,1.
La tabella seguente dà la frequenza dei venti.
NO NVE NE ENE E ESE SE SSE S SSW SW WSW W WNW NW NNW
BASSO E FO: E 0 AT E E 0 3
Giugno 1886.
La pressione barometrica variò poco nelle due prime decadi
del mese. Il suo valor medio 34,04 è inferiore di mm. 2,483
al valor medio di Giugno degli ultimi vent'anni.
Il seguente quadro ne contiene i valori estremi.
Giorni «el mese. Massimi. Giorni del mese. Minimi.
1 IVES i SONA IRE 38.605 Gra 28,83
SR 448 De SIRO 29,58
1A AT 35,45 e St,E9
da ene 36,82 FARSI OP dra 25,60
713 RR e eg 42,97 CURA 34,25
186 A. CHARRIER
La temperatura media del mese fu di + 20°,2 inferiore di
+ 1°,1 alla temperatura media di Giugno degli ultimi vent’anni.
La massima temperatura + 27,7 si ebbe il giorno 3; la minima
+11,8 il giorno 20.
Si ebbero diciassette giorni con pioggia, e l’acqua caduta rag-
giunse l’altezza di mm. 98,2.
Il seguente quadro dà il numero delle volte che spirò il vento
nelle diverse direzioni.
NO NNE NE ENE E ESE SE SSE S SSW SW WSW W WNW NW NNW
4. 96290 9 12 Goa 7 6 7 Re a
Il Direttore della Classe
ALFonso Cossa.
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SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali.
ADUNANZA del 26 Dicembre 1886... ....... 0... Pag.
Bizzozero — Relazione intorno alla Memoria del Dott. Livio Vincenzi,
Sui visi. congeniti del cuore ‘cdi ag AN A »
CgHarRIER — Lavori dell’Osservatorio astronomico di Torino . .. . »
i Pi er sn —= 2° von
179
180
182
AL FI
R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DI TORINO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 5°, 1886-87
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R. Accademia delle Scienze
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CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 9 Gennaio 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO PROF. ARIODANTE FABRETTI
VICEPRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, LESsona, BERRUTI, CURIONI,
Siacci, Basso, Bizzozero, NACccARI, Mosso.
Il Presidente partecipa la morte del Dott. Conte Giuseppe
DE CiGaLLA, Socio Corrispondente (Sezione di Zoologia, Anatomia
e Fisiologia comparata), avvenuta il giorno 18 novembre scorso
a Santorino (Grecia).
Tra i libri presentati in dono vengono segnalati un opuscolo
del Dott. Giuseppe FINESCHI, intitolato: « Saggi sull’Eziologia »,
ed un esemplare del Bullettino della Società geologica italiana,
vol. IV, 1885, inviato in dono all'Accademia dal Prof. Ca-
PELLINI, Presidente della Società stessa.
Le letture e le comunicazioni si succedono nell’ordine se-
guente:
. « Specie nuove o mal conosciute di Arion europei », del
signor Carlo PoLLONERA, lavoro presentato dal Socio LESSONA.
« Sull’attrito interno dei liquidi ». Nota dei signori pro-
fessore S. PAGLIANI e Dott. E. OpponE, presentata dal Socio
NACCARI.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII, 15
C ECONOMATO ©
<& iris
188 CARLO POLLONERA
« Ricerche sopra le proprietà di alcuni composti ammo-
niacali del platino. Memoria del Socio Cossa.
« Sugli organi nervosi terminali muscolo-tendinei in con-
dizioni normali, e sul modo di comportarsi in seguito al
taglio delle radici nervose e dei nervi spinali; Ricerche del
Dott. Alfonso CattANEO, presentate dal Socio BizzozERo. Questo
lavoro essendo destinato per le Memorie, viene affidato all’esame
di una Commissione speciale.
Specie nuove 0 mal conosciute di Arion europei,
di CARLO PoLLONERA
Da oltre due anni mi sono dato a studiare in particolar modo
questo intricatissimo genere di molluschi terrestri, ed ho potuto,
in grazia di alcuni benevoli corrispondenti, radunare un discreto
materiale di studio. Tuttavia quasi nulla avendo potuto avere dalla
penisola iberica, non mi trovo ancora in grado di pubblicare un
lavoro complessivo sugli Arionidi europei, come sarebbe stato mio
desiderio; mi limito perciò in queste poche pagine a riferire il
risultato delle mie osservazioni sopra alcune specie soltanto.
Prima di entrare nell’argomento mi sento in dovere di rendere
grazie pubblicamente alle gentili persone che mi. procurarono
il materiale extra-italiano che mi servì per questi studi; esse
sono il Dott. Pini di Milano, dal quale ebbi le specie di Svezia
che egli aveva ricevuto dal Dott. Westerlund; in Germania i
Dott. Simroth e Borcherding, ed in Francia i signori Brevière,
Bavay e Deladerrière. Questi ultimi due specialmente mi invia-
rono ripetutamente nel corrente anno degli Arionidi vivi da Brest
il sig. Bavay, e da Valenciennes il signor Deladerrière, procu-
randomi così il mezzo di poterli studiare nel modo più proficuo.
Convinto che l’unico mezzo di sbrogliare la intricata matassa,
che s'è formata nella sistematica di questo genere, possa offrir- ‘
celo lo studio dell'anatomia, mi sono rivolto più specialmente a
queste ricerche.
In questi ultimi anni il signor Simroth di Lipsia, trattò
ripetutamente dei Limacidi ed Arionidi europei in parecchie brevi
SPECIE NUOVE O MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 189
comunicazioni ed in un diffuso lavoro pubblicato nei Zeztsehrift
fiir Wissenschaftliche Zoologie di Siebold e Kélliker, 1885, col
titolo: Versuch ciner Naturgeschichte der deutschen Nacktsch-
necken und ihrer europiischen Verwandten. Anch'esso dà una
larghissima parte all’anatomia in questi suoi lavori, ma ciò mal-
grado non posso convenire con lui nè nell’idea che esso si fa
della specie, nè sugli aggruppamenti che esso propone.
Nel succitato lavoro (pag. 290) il signor Simroth divide gli
Arion in due gruppi. Monatriidi chiama quelli nei quali l’atrio
inferiore (borsa comune) rivestita di ghiandole gialle resta la sola
parte comune degli organi maschili e femminili; e Diatriidi quelli
nei quali l’ovidotto, prima di sboccare nell’atrio inferiore, forma
un rigonfiamento che è quasi un secondo atrio, superiore. In questo
fatto il signor Simroth vi ravvisa il processo filogenetico delle
specie di questo genere, e traccia il seguente albero genealogico.
Monatriidae.
A. minimus
A. subfuscus Diatriidae.
A. brunneus . empiricorum
A. bourquignati A. hortensis
A. timidus
Questa divisione è, a mio parere, completamente illusoria, ed
il signor Simroth fu certamente indotto ad esagerare il valore
di tale carattere dell’ovidotto, dall’aver limitato il suo esame
alle poche forme germaniche dei gruppi degli A. rufus (empi-
ricorum) ed hortensis. Un semplice sguardo alle figure degli
apparati sessuali delle specie di cui sto per trattare dimostrerà,
meglio di qualunque descrizione, che tanto nel gruppo del-
lA. hortensis, quanto in quello dell’A. empiricorum, vi sono
specie Monatriidae e Diatriidae. Così, per esempio, delle quattro
specie nelle quali ho dovuto spezzare VA. Rortensis auct. due
sono diatriidae: gli A. hortensis Fer. e A. celticus Poll. e
due monatriidae, cioè gli A. alpinus Poll. e A. nilssoni Poll.,
190 CARLO POLLONERA
inoltre VA. Brevièrei Pollonera, specie dai malacologi confusa
coll’A. rufus è monatriidae, mentre gli A. rufus e ater sono
le specie più visibilmente diatriidae. Da queste poche parole e
dalle figure 21 a 31 della mia tavola, mi sembra sufficiente-
mente dimostrato che la divisione degli Arion europei data dal
signor Simroth, non è basata su caratteri valevoli.
Tra le specie di Arion che finora ho potuto esaminare sono
riuscito a distinguere quattro gruppi abbastanza nettamente cir-
coscritti, come è esposto nel modo seguente:
— | Animale grande, muco
O i 1° Gruppo
o ‘o 0 ] t
E È incoloro 0 Riza dA
Sai giallognolo.
SIRIA
2 | 5 £ è | Animale mediocre, muco | 2° Gruppo
DS pes giallo vivo. \ dell'A. subfuscus.
fd
a I
< |_-_ > | Animale piccolo, dorso | 3° Gruppo
FASSA rotondo. ( dell'A. hortensis.
Sas
ss à Animale piccolo, dorso 4° Gruppo
ox sa carenato. dell'A. Bourguignati.
Rispetto all’apparato sessuale le specie finora da me osser-
vate dei gruppi 2° e 4° sono tutte monatriidae, quelle dei gruppi
1° e 3° sono monatriidae o diatriidae ; i primi 2 gruppi però sono
caratterizzati dalla posizione della borsa copulatrice (receptaculum
seminis) che è dal ramo secondario del ritrattore dell’ovidotto più
o meno strettamente congiunta all’ovidotto in prossimità del
punto in cui il canale deferente inferiore sbocca nella matrice.
Il dente centrale della radula ha 3 aculei ed i campi me-
diani 2 in tutti gli Arion; però mentre i gruppi 3° e 4° (Pro-
lepis) conservano quasi sempre l’aculeo secondario ben distinto
tanto nei campi laterali che nei marginali, nei gruppi 1° e 2°
(Lochea) l’aculeo secondario nei campi laterali scomparisce o si
fonde coll’aculeo principale diventando una semplice dentellatura
di questo, e riappare soltanto talvolta nuovamente distinto in
alcuni denti marginali.
Una specie francese tuttavia fa eccezione a questa regola,
ed è VA. rubiginosus Baudon, che esternamente sembrerebbe
SPECIE NUOVE O MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 191
appartenere al gruppo dell'A. subfuscus (Lochea) mentre ha
una radula di Prolepis; disgraziatamente non potei esaminare
nessun individuo adulto, cosicchè nulla posso dire dei caratteri
dell’apparato sessuale.
I. Gruppo dell'A. 7°/us.
Arion Da-Silvae, n. sp.
F16..8;:9, 10 e 29.
= ? A. ater, Morelet. Moll. Portugal., 1845, p. 27.
A. (in alcool) dorso valide et crebre verrucoso, clypeo
amplo, gibboso, postice truncato, apertura pulmonea parum
antica; fovea caudalis parvula. Supra ommnino nigrum; solea
olivacea, zonula media pallidiore, extremitate antica albida ;
margo pedis niger lineistransversis atrioribus; caput et tentacula
migra. Long. 40, lat. 11 mall.
Hab. Il Portogallo.
Le lineette nere del margine esterno del piede non si pos-
sono scorgere distintamente che sullo spigolo della suola dove
incomincia la tinta più chiara, perchè tanto il margine del
piede quanto il dorso ed il cappuccio sono di un nero inten-
sissimo.
Confrontato coll’ A. ater L. di Svezia (Malm, Limacina Scan-
din., pl. 1, f. 1), VA. Da-Silvae è molto più piccolo, ad apertura
respiratoria meno anteriore, ed a verrucosità del dorso molto
più serrate le une contro le altre.
L'apparato sessuale poi si allontana notevolmente da quello
degli A. ater e rufus per la guaina della verga conica, molto
più lunga, ingrossata inferiormente, molto attenuata superior-
mente ed a canale deferente molto più lungo ; inoltre l’ ovidotto
non presenta una dilatazione così voluminosa e tondeggiante come
in quelli, ma ha una dilatazione ben visibile, meno grande e
più oblunga. L'apparato sessuale dell’A. Da-S7lvae somiglia assai
a quello dell'A. hisparnicus Simroth (Jahrb. Malak, Ges., 1886.
192 CARLO POLLONERA
p. 21, t. 1, f. 2), altra specie portoghese, ma questa specie è
assai più piccola misurando soltando 29 millim.: in alcool, ed
inoltre ha la suola interamente nera anche nella zona mediana.
Ho dedicato questa specie al distinto malacologo portoghese
signor I. Da Silva e Castro, il solo nella sua patria che si sia
occupato dei molluschi terrestri nudi.
Arion Brevièrei n. sp.
Fra. 28 e 36.
A. hibernus? Mabille, Brevière, Z'ubl. des. Limaciens des
envir. Saint-Saulge, p. 1, in Journ. Conchyl., 1881 (non A. hi-
bernus Mabille, Rev. Zool., 1868).
A. corpore elongato, cylindrico, postice attenuato, rubigi-
noso-purpurco ad marginem pedis pallidiore ; rugis dorsalibus
eriguis, parum clongatis ac perspicuis; margo pedis albidulo-
rubiginosus lineolis nigris transversis; collum sordide albi-
dulum, tentacula maiora nigra; solea albida umicolor. Animal
vivum umicolor videtur esse ut A. hibernus, quum in alcool
mersatur duae zonae obscurae in tergi et clypei lateribus ap-
parent. Differt praeterea ab. A. hiberno masore statura; 70-
75 mill. pro 50.
Hab. Saint-Saulge (Nièvre) in Francia.
Questa specie era dal signor Brevière (al quale sono lieto
di dedicarla) riferita dubitativamente all’A. hibernus Mabille
dei contorni di Parigi, facendo notare la grande differenza di
statura tra la forma tipica (50 mill.) e questa (70-75 mill.),
ma egli non osservò le fascie scure che appaiono allorchè l’ani-
male è immerso nell’alcool. Questo fatto osservai più volte in
parecchie varietà di A. subfuscus, che mentre l’animale era vivo
parevano unicolori, si dimostravano zonate allorchè l’animale era
immerso nell’alcool.
Nello stato giovanile l’ A. rufus presenta frequentemente
delle forme più o meno fasciate o bicolori, ma allo stato adulto
è sempre unicolore e senza la benchè minima traccia di fascie.
Tra le specie di questo gruppo finora descritte il solo A. lu-
sitanicus Mabille conserva le fascie anche adulto.
SPECIE NUOVE 0 MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 1983
L'A. Brevièrei oltre che per la presenza di fascie, differisce
dall’A. rufus per la statura minore, per la suola unicolore,
per le rugosità del dorso più serrate, e più brevi, ed infine
per l'apparato sessuale, che si distingue per la mancanza totale
del fortissimo ingrossamento dell’ovidotto chiamato dal Simroth
atrio superiore, e per il forte rivestimento di ghiandole gialle
che avviluppa la borsa comune (atrio inferiore di Simroth) sino
al punto in cui vi si immettono gli organi maschili e femminili ;
infine la borsa copulatrice non è tenuta così strettamente ade-
rente all’ovidotto dal ramo secondario del legamento di questo.
Questa specie è invernale, trovandosi essa per tutto 1’ in-
verno a cominciare da ottobre pei tempi umidi e meno rigidi.
Ne ricevetti 3 esemplari dal signor Brevière della forma tipica,
ed uno della seguente varietà.
Var. NIGRA, Brevière in schedis.
Aliquantulum minor, ommino nigricans, obscuriores zonae
fere non spectabiles.
Hab. Saint-Saulge (Nièvre) in Francia.
II. Gruppo dell’A. sudfuscus.
Non posso condividere l'opinione di quasi tutti gli autori
tedeschi, i quali fanno una sola specie di tutte le varie forme
di questo gruppo, e non posso adattarmi a considerare identici
specificamente animali così diversi tra loro per statura e modo
di colorazione.
In questo gruppo la massima parte delle forme è ornata di
due fascie longitudinali sul dorso e sul cappuccio; queste fascie
sono più marcate e più frequenti nei giovani che negli adulti
(poichè sovente col crescere dell'animale esse si perdono), e nelle
specie piccole più che nelle grandi, cosicchè le forme grandi ed
unicolori si possono considerare come derivate dalle specie fa-
sciate e più piccole, come mi sembra pensi il signor Simroth;
e questa opinione è ancora avvalorata dalla frequenza di stadi
giovanili fasciati nell’A. rufus (la specie unicolore per eccellenza)
e dal trovarsi fascie confuse e poco visibili negli A. lusitanicus
194 CARLO POLLONERA
e Brevièrei, nei quali sussisterebbe ancora il carattere atavico
delle fascie dorsali. Assai spesso oltre le fascie laterali, la parte
mediana del dorso e del cappuccio è di una tinta più scura,
la quale talvolta suddividendosi in due fa apparire 1’ animale
quadrifasciato.
Talvolta ancora il dorso è sparso di macchiette scure irre-
golari, ma anche questo è un modo di colorazione poco fre-
quente. Le lineette scure trasversali del margine esterno del
piede sono più o meno visibili in quasi tutte le specie di questo
gruppo. Il muco è sempre giallo.
La specie meglio conosciuta di questo gruppo è VA. sub-
fuscus Dreparnaud, il quale ne ha data una buona descrizione
ed una figura mediocre alquanto esagerata nella grossezza. Il
colore fondamentale di questa specie, varia dal grigio al nero
intenso, passando per varie gradazioni di giallo, ranciato e ca-
stagno, ma non è mai nelle gradazioni del rosso. La forma
tipica è scura nella parte centrale del cappuccio e del dorso
con una fascia scura ben decisa. da ambo i lati; il margine
esterno del piede è grigio con lineette nere trasversali. Io potei
osservare questa forma nella colorazione grigia ed in quella bruno-
giallastra su esemplari mandati vivi dal signor Brevière da Port-
S'°-Marie (Lot et Garonne) in Francia, e mi sembra concordare
perfettamente coll’A. Mabillianus Bourguignat (1) del diparti-
mento dell’Aube; ricevetti pure la corolazione ranciata da Va-
lenciennes (nord), ma in questa il margine esterno del piede
era giallognolo come nell’A. subfuscus delle Alpi.
Come dalle colorazioni grigie e giallognole è insensibile il
passaggio a quelle ranciate e brune, e da queste alle nere, così
per leggerissime gradazioni si passa dalle colorazioni a fasce a
quelle unicolori che furono descritte col nome di A. Gaudefroyi
Mabille (2). La varietà nera me la mandò da Port-S'*-Marie, il
signor Brevière; questa si distinguerà. dalla var. NIiGRA del-
lA. Brevièrei, descritta più sopra, per la sua colorazione di
(1) Mollusques nouv. litig. ou peu connus; fasc. VI, Janvier, 1866, p. 173,
pl. XXIX, f. 1-4; non A. Mabillianus Baudon, Trois. cat. moll. dép. Oise
in Journ. Conchyl., 1884.
(2) MABILLE, Hist. Mal. bass. Paris, p. 12, 1870, Limac. francais in Ann.
de Malacologie, n. 2, pag. 110, 1870. — JoussEAUME, Faune malac. envir.
Paris, in Bull. Soc. Zool. France, 1876, p. 28(Limaa Gaudefroyi) pl. INI, f. 6-7.
SPECIE NUOVE 0 MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 195
un nero meno intenso e più freddo sul dorso, pe’ suoi fianchi
più pallidi, pel margine del piede grigio-chiaro sul quale spic-
cano bene le lineette nere trasversali e per le fascie del dorso
e del cappuccio più visibili; anatomicamente poi l’apparato ses-
suale non lascia alcun dubbio.
Parecchie altre forme aftini all’A. subfuscus furono descritte ;
dirò delle tre che potei osservare, esse sono l'A. aggericola Mabille,
A. Pollonerae Pini ed A. Pegorarii Lessona e Pollonera.
Dell’A. aggericola Mabille (1) possiedo due esemplari in
alcool di Port-S'°-Marie, mandati dal signor Brevière; esso è
delle dimensioni dell’A. subfuscus, al quale somiglia moltissimo,
il mezzo del dorso e del cappuccio è scuro e le fascie laterali
sono alquanto sfumate; forse un accurato confronto dell’animale
vivo con VA. subfuscus, potrà farvi ravvisare caratteri differen-
ziali che non è possibile scorgere allorchè essi hanno soggior-
nato qualche tempo nell’alcool. Le sole differenze che potei
trovare tra queste due specie sono anatomiche; nell’apparato
sessuale dell’A. aggericola la borsa copulatrice è tenuta meno
strettamente vicina all’ovidotto dal retrattore di questo, ed il
percorso dell’ovidotto dalla borsa comune al punto in cui il
canale deferente inferiore sbocca nella matrice è molto più lungo
che nell’A. subfuscus. La radula poi dell’A. aggericola manca,
nei campi laterali, completamente dell’aculeo secondario, che si
vede sempre nell’A. subfuscus, avvicinandosi così per questo
carattere alle specie del gruppo dell’A. rufus.
Il signor Pini descrisse col nome di A. Pollonerae (2) una
forma vicinissima all’A. subfuscus, dalla quale si distingue per
maggiore statura (lung. 70-80 mill. viva) per l'apertura respi-
ratoria un po’ più anteriore e per la quasi totale mancanza di
lineette trasversali scure sul margine esterno del piede: inoltre
questa specie è confusamente quadrifasciata. Fu trovata presso
Intra in Piemonte.
Il signor Simroth è nell’errore allorchè parlando dell'A. Pe-
gorarti ‘3), che egli considera semplice mutazione dell'A. sub-
(1) MagiLLe, Hist. Mal, bass. Paris, p. 16, 1870, et Ann. Malac., 1870
p. 113.
(2) Pini, Novità Malac. in Atti Soc. Ital. Scienze Nat, 1884.
(3) Lessona e PoLLONERA, Monogr. Limac, ital. in Mem. Ace. Sc. di To-
rino, p. 62, 1882.
196 CARLO POLLONERA
fuscus, dice che il carattere distintivo su cui è basata è la dispo-
sizione in 4 zone della tinta scura del dorso e del cappuccio.
Questo non è che un carattere secondario, ma le differenze
fondamentali stanno nella rugosità del dorso e del cappuccio,
più minuta nell’ A. Pegorarii; nella tinta fondamentale rosso
rugginoso e non gialla o ranciata, nel margine esterno del piede
grigio, mentre nell’ A. subfuscus esso è sempre bianchiccio 0
giallognolo e sempre assai più chiaro; oltre a ciò un altro
carattere distintivo ce lo presenta la radula, nei campi margi-
nali della quale oltre il piccolo dentino che si osserva nel-
lA. subfuscus alla base dell’aculeo principale (che è l’aculeo
secondario ridotto a minime proporzioni), si osserva un secondo
dentino che cessa soltanto nelle 5 o 6 ultime serie.
Queste sono le forme grandi di questo gruppo che io ho
potuto osservare negli Arion francesi ed italiani, e che io credo
per maggior chiarezza della classificazione di dover separare spe-
cificamente dalle forme piccole dello stesso gruppo. Ma prima
di passare all’esame di queste ultime, debbo far notare che anche
tra gli A. subfuscus che ricevetti da Vegesack presso Brema,
dal Dott. Borcherding, ho potuto nettamente separare due forme
ben distinte quanto a statura (1). La forma più grande, seb-
bene sia sempre un po’ più piccola che VA. subfuscus della
Francia meridionale e delle Alpi, pure credo possa ancora ascri-
versi a questa specie; essa è sempre gialla o ranciata ed ornata
di fascie poco marcate, che in alcuni esemplari pallidi non si
vedono affatto, allorchè l’animale è vivo, ma compaiono (sebbene
debolissime) appena questo abbia soggiornato nell’alcool. La forma
piccola invece è sempre a fascie più marcate, e mi sembra ri-
spondere perfettamente al Limar fuscus di Miller; di questa
si ha una eccellente figura in Malm (loco cit.) tav. 2, fig. 4,
ed anch'esso la riferisce alla specie di Miller, cosicchè io credo
si possa a questa conservare il nome di A. fuscus Miller; le
lineette trasversali del margine esterno del piede sono assai poco
marcate in entrambe queste forme della Germania settentrionale.
(1) Queste due forme vivono pure ben distinte nella Scandinavia come si
può vedere chiaramente nel lavoro di Malm (Skandinavisha Land-Sniglar ,
Goteborg, 1868, il quale sotto il nome di Prolepis fuscus figura molto bene
nella tav. 2, fig. 3 la forma grande (A. subfuscus Drap.) e nella fig. 4 quella
piccola (A. fuscus Mull..
SPECIE NUOVE O MALI CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 197
È. questa una forma essenzialmente nordica che non ho mai ri-
cevuto dalla Francia nè dalle Alpi italiane, dove è rappresentata
dal mio A. Stabilei (1) di Maccugnaga ai piedi del Monte Rosa,
e che forse non è che una varietà dell’A. fuscus a dorso con-
fusamente quadrifasciato, a zone laterali assai più scure ed a
margine del piede molto più distintamente lineolato di nero.
Il 16 aprile 1886 il signor Bavay mi mandò da Brest
alcuni individui, tra i quali uno solo adulto, di una forma di
Arion assai affine all’A. fuscus di Vegesack, ma il muco che
trasudavano dal dorso era incoloro, ed immersi nell’alcool emet-
tevano dal muso e dalla parte anteriore del cappuccio un muco
giallo-vivo e dal resto del corpo bianco; le fascie laterali erano
più nettamente segnate; i tentacoli superiori ed il disopra del
collo bruno-unicolori, mentre nell’A. fuscus il collo è assai più
pallido ed i tentacoli più scuri e grigio-plumbeo. L'apparato
sessuale è come negli A. fuscus e subfuscus. È questa forma
da considerarsi come specie distinta o come semplice varietà del-
lA. fuscus? Io non mi sento in grado di decidere questa que-
stione, perciò presento le figure fatte da me sugli animali vivi
di Vegesack e di Brest (fig. 14 e 15), designando quest’ultimo
col nome di :
Arion Bavayi, nova species ?
Fic. 15.
A. minute rugosum, postice attenuatum ; sordide ochraceum,
medio fuscatum, utrinque nigro-fasciatum; lateribus albidum ;
clypeo minute granuloso, ochraceo, medio fusco, utringue zonula
nigricante, antice aurantiaco ; collo tentaculisque superis fuscis :
pedis margo albido-flavescens, transverse nigro-lineolatus ; sole
albido-flavescens. Longit. max. 53 mil. Mucum sine colore €
tergo emittit (qui, quum in alcool mersatur, lacteum fit), ct
e solea, e capite atque e clypei anteriore parte flavum.
Hab. Brest (Finistère) in Francia.
(1) C. PoLLonERA, Elenco dei Moll. terr. viventi in Piemonte, p. 28; in
Att. Ace. Sc. di Torino, 1885.
198 CARLO POLLONERA
Altre due forme da me osservate si collegano strettamente
coll’A. fuscus, ma contrariamente all’opinione del dottor Simroth
le ritengo specie distinte ; esse sono l'A. brunnevs Lehmann (1)
e VA. flavus Nilsson (2).
L'A. brunneus è una forma esclusivamente germanica a cap-
puccio sparso di larghe macchie scure sfumate senza traccia
alcuna di fascie, mentre il dorso interamente scuro lascia intra-
vedere talvolta, sebbene confusamente, le fascie laterali. Questo
non accade mai negli A. subfuscus e fuscus, nei quali per poco
che siano accennate le fascie dorsali, queste si ritrovano sui
lati del cappuccio.
L'A. flavus poi è una specie delle dimensioni del fuscus,
interamente gialla e al tutto priva di fascie sul dorso e sul cap-
puccio e di lineette trasversali scure sul margine esterno del
piede. La citata figura 5 di Lehmann rappresenta una colora-
zione pallida di questa specie, mentre la fig. 5 % è molto pro-
babilmente quella di un giovane dell'A. rufus. L'A. campestris
Mabille (3) è una colorazione tendente al ranciato dell'A. flavus.
Queste sono le specie del gruppo dell'A. subfuscus delle quali
ho potuto osservare individui adulti; qualunque sia la loro sta-
tura esse hanno sempre maggiori affinità col gruppo dell'A. rufus
che non con quello dell'A. Rhorternsis, era quindi molto più ra-
gionevole la classificazione di Moquin Tandon che comprendeva
lA. subfuscus nel suo sottogenere Lochea che non quelle dei
signori Malm, Westerlund e Kobelt che lo trasportano al sot-
togenere Prolepis. Del resto con gli A. Brevièrei e aggericola
il passaggio tra i due gruppi, di cui ho parlato sinora, è quasi
insensibile.
Riassumo quello che ho detto sulle specie di questo gruppo
nella seguente tabella.
(1) LreHMann, Die leb. Scheneck. u. Musch. d. Umgeg. Stettins, 1873, p. 20.
— PoLLonERA, Ueber ein. Arion aus. d. Umgeg. Bremens, in Abbandl. Na-
turwiss. Ver. Bremen, 1884, p. 62, fig. 1-2.
(2) NiLsson, Hist Moll. Sueciae, 1822, p. 5. — LEHMANN, loc. cit., p. 24,
tav. 2, fig. 5 (non 93»).
(3) MaziLLe, Limac. d'Eur., in Rev. Zool., 1868, p. 135. — Limace. frangais,
in Annales de Malacologie, 1870, p. 109.
SPECIE NUOVE 0 MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 199
A. SPECIES MAIORES.
x Radulac dentes lateralium zonarum aculeo minore carentes.
A. aggericola MABiLLe.
Hab. I dipartimenti dell’Aisne, Seine-et-Oise e Nièvre in
Francia.
B. Radulae dentes lateralinm zonarum aculeo minore mu-
miti, qui in harum zonarum interiore parte, aculeo maiore
maiscetur quamquam semper pervisibilis manet.
A. Pegorarii Lessoni e PoLLONERA, Fig. 12 e 13.
Rufo-nigricans, confuse quadrifasciatus; pedis margo
obscure griseus, migrolineolatus; long. max 75 mill.
Hab. Étrouble in Val d’Aosta (Piemonte).
A. Pollonera Pu.
Maior (long. max. 80 mill.), confuse quadrifasciatus ;
pedis margo pallidus, flavescens, lineolis transversis obsoletis.
Hab. Intra sul Lago Maggiore (Piemonte).
A. subfuscus Drapr. — A. Mabillianus Bourc.
(Grriseus, flavescens, aurantiacus, castaneus, plus minusve fu-
scatus, utrinque fascia nigra: pedis margo pallidus, cinerascens
vel flavescens, transverse nigro-lineolatus. Long. 70-75 mill.
Hab. La Francia, la Germania, il Belgio, la Svezia ? e le
Alpi italiane.
Var. atripunctatus Dumont et Mortillet (1).
Dorso nigromaculato.
Hab. Le Alpi della Savoia e del Piemonte e la Germania
del Nord.
Var. Gaudefroyi = A. Gaudefroyi Mabille, fig. 16, 17, 18.
Unicolor vel fasciis inconspicuis.
Hab. La Francia e le Alpi del Piemonte.
Var. migricans mihi.
Omnino nigricans, zonis lateralibus atrioribus: pedis margo
griseus migro-lineolatus.
Hab. Saint-Saulge nella Francia meridionale.
(1) Dum. et MoRrt., A. cinctus var. atripunctatus, Moll. Savoie, 1857, p. 7.
200 CARLO POLLONERA
B. SPECIES MINORES.
A. fuscus Miill. = Prolepis fuscus Malm, tav. 2, f. 4.
Flavescens vel aurantiacus, dorso et clypeo medio fuscatis utrin-
que nigro-fasciatis; pedis margo pallide flavus, transverse plus
minusve nigrolineolatus ; tentacula nigra. Long. max.40.55 mill.
Hab. La Germania e la Scandinavia.
Var. Boettgeri, Pollonera, fig. 14.
Dorso nigromaculato.
Hab. I contorni di Brema nella Germania del Nord.
Var. Stabilei, Pollonera = A. Stabilei, Poll.
Confuse quadrifasciatus, zonis lateralibus atrioribus ;
pedis margo distinetius nigro-lineolatus.
Hab. Maccugnaga in Val Anzasca (Piemonte).
A. Bavayi PoLLonERa, Fig. 15.
A. fusci similis, sed postice magis attenuatus; tentaculis
fuscis; muco dorsi albido. Long. max. 53 mill.
Hab. Brest in Francia.
A. brunneus LEAMANN.
Clypeus maculis fuscis nebulosis obscuratus, fasctis carens ;
dorsum fuscatum , interdum confuse zonatum. Long. max.
40-45 mill.
Hab. La Germania centrale e settentrionale.
A. flavus Nilsson = A. Campestris Mabille.
Ommnino flavus, absque maculis vel fasciis; pedis margo
flavescens unicolor, lineolis nigrescentibus nullis; caput et ten-
tacula nigra. Long. max. 40 mill.
Hab. La Germania e la Francia settentrionale.
IIT. Gruppo dell’A. horferxsis.
Per togliere qualche poco della enorme confusione che regna
sulle specie di questo gruppo è necessario tornare ad esaminare
le descrizioni e le figure primitive date dal fondatore della specie
tipica, il Ferussac.
Nella sua grande Histoire Naturelle generale et particulière
des Mollusques Terrestres et Fluviatiles (Paris, 1819) alla pa-
SPECIE NUOVE O MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 201
gina 65 il Ferussac descrive il suo A. hortensis colla seguente
frase : « D’un noir foncé ou bleuàtre, orné de petites bandes lon-
gitudinales grises. Bords du plan locomoteur orangés » pl. 2
(per errore 12), f. 4-6. Dopo la frase latina esso cita la va-
rietà «. griseus umicolor; fasciis migris, fig. 6. Passando alla
descrizione più particolareggiata, dopo aver parlato della forma
e delle rugosità, esso dice : « Toute cette limace est d’un noir
foncé ou bleuàtre. Deux fascies longitudinales grisàtres, bien di-
stinctes, ornent la cuirasse et le dos. Et comme cette cuirasse
est aussi bordée de gris, et que les còtés du corps sont pàles,
cette limace semble ètre partagée en sept bandes alternativement
noires et grises, qui sont plus marquées sur la cuirasse. Cette
décoration est encore augmentée par la belle couleur orangée
ou vermillon des bords du plan locomoteur. Quelquefois, sur les
plus vieux individus, cette couleur est simplement jaunàtre ou
pàle, et tout le corp est d’un gris nébuleux sur lequel les bandes
sont peu distinctes. Le plan locomoteur est jaune ou orangé ;
le pied proprement dit est pàle. Lorsque l’animal est contracté,
ce pied est d’une couleur très éclatante, et les fascies du corps
sont plus prononcées ». Aggiunge ancora qualcosa di altri ca-
ratteri, ma non una parola di lineette scure sul margine del
piede, delle quali non vi è traccia nelle belle fig. 4 e 5 della
tav. 2 che rappresentano la sua forma tipica che egli dice ab-
bondare nei contorni di Parigi.
Dall'esame accurato delle parole e delle figure del Ferussac
se ne deve conchiudere che VA. hortensis è una specie scura,
con due fascie chiare sul dorso e sul cappuccio, al di sotto di
queste da ciascun lato una fascia nerastra nettamente limitata
superiormente e sfumantesi inferiormente nel fianco di colore pal-
lido; la suola è gialla ; il margine esterno del piede giallo, ran-
ciato o rosso, sempre privo di lineette trasversali scure ; testa
e tentacoli superiori neri. Muco giallo.
Oltre le due succitate figure di Ferussac, c'è quella data dal
Simroth (Nacktschn. europ., tav. VII, fig. 42) che rappresenta
molto bene questa specie, sebbene il margine esterno del piede
sia un po’ troppo scuro.
Il signor Deladerrière mi mandò da Valenciennes 12 esem-
plari vivi di questa specie che corrispondevano benissimo alla
descrizione di Ferussac, e che misuravano nella massima esten-
sione 35 mill.; alla fig. 23 io dò la figura della parte inferiore
202 CARLO POLLONERA
dell'apparato sessuale di uno di questi esemplari, esso è quasi
identico a quello descritto e figurato dal Simroth (l. c., tav. XI,
fis. 17) dell'A. hortensis della Germania, cosicchè anch’io ri-
tengo questo per il vero A. hortensis Ferussac.
A parer mio debbono pure far parte di questa specie gli A.
pelophilus e distinctus Mabille ; il primo è così descritto dal
suo autore: (1) « Cette espèce diffère de l’Rortensis par son
corps noir; par ses bandes très-foncées : par la marge de son
pied d’un rouge vif; par la forme de ses rugosités, etc... Hab.
dans les environs de Paris ». La colorazione rossa del margine
del piede è già citata dal Ferussac pel suo %ortensis tipico,
tutta la diversità si riduce quindi ad una colorazione più scura
nel pelophilus, carattere troppo lieve per potere stabilir su esso
una distinzione specifica. L'A. distinetus (2) è così caratterizzato
(Ann. Malac., 1870 p. 119): « Differe de l’hortensis par sa
taille plus petite : par sa coloration d’un gris jaunàtre ; par ses
rides dorsales à peine allongées ; par l’absence de linéoles tran-
sverses sur les bords du pied. Hab. Sèvres ». Queste poche
linee provano che il signor Mabille ritiene che VA. Rortensis
Ferussac abbia il margine del piede lineolato di scuro, il che
vedemmo che non è; per contro egli ritiene l'A. leucopheus
Normand (3) come sinonimo dell'A. hortensis; ma, come giu-
stamente fece osservare il dottor Baudon (4), bastano le parole
< dessous du pied blanchàtre; mucus incolore » per escludere
ogni idea di identità tra le due forme.
Moquin-Tandon ed altri autori hanno ritenuto come sino-
nifno dell’A. hortensis il L. fasciatus Nilsson (5) di Svezia;
ma la frase seguente : « Dorsum teres, linea longitudinali media,
pallida, subelevata » dimostra esser questo sinonimo dell'A.
Bourguignati Mabille, che io ritrovai tra gli Arzon svedesi che
il Dottor Pini aveva ricevuto dal Dottor Westerlund col nome di
A. hortensis. Tuttavia siccome il Nilsson confonde altre specie
(probabilmente l’A. fuscus Mill.) nella sua descrizione, così credo
(1) A. pelophilus Mabille (= L. fasciatus Kick. Moll. Brab., p. 4, 1830),
Ann. de Malacologie, 1870, p. 117.
(2) MaBiLLE, Arch. mal. in Rev. et Mag. zool., 1868, p. 137. — Ann. de
Malac., 1870, p. 119.
(3) Normanp, Descr. de six limaces nouv. obs. aux envir. de Valenciennes,
1852, p. 6.
(4) Baupon, Trois catal. Moll. Dep. de l’Oise, 1884, p. 6.
(5) Nirsson, Mist. Moll. Sueciae, 1822, p. 3.
SPECIE NUOVE 0 MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 203
debba conservarsi il nome dato dal Mabille che primo distinse
nettamente la forma adulta di questa specie dalle altre affini.
Il Ferussac nel Supplement à la famille des. Limaces
(juillet, 1823), che fa seguito al già citato lavoro, a pagina
96 «, aggiunge al suo A. hortensis una nuova varietà con questa
sola frase: « y. Griseo-rufus; fasciis nigris; margine rufescente.
Alpicola, nobis, pl. VIII, A, fig. 2, 3, 4. Had. les Alpes.
Comm. Charpentier ». (1). Ma anche in questo caso credo si
debba trascurare la denominazione del Ferussac (come è già stato
fatto per quella di Nilsson), perchè mentre la fig. 4 rappresenta
indubbiamente LA. Bourguignati, la fig. 3 dà un'idea assai
giusta dell’hortensis delle Alpi piemontesi, ma è in disaccordo
colla descrizione, poichè il margine del piede è leggermente gial-
lognolo e non rufescente. Ora avendo io trovato nella forma
piemontese differenze anatomiche notevoli, credo bene distinguerla
dall'A. hortensis col nome di
Arion alpinus n. sp.
Fic. 25-26.
? A. hortensis Fer. var. Alpicola (partim) Fer. 1. c., t. VITI
A. f. 3 (tantum).
A. hortensis Lessona e Poll., Monogr. Limac. Ital., 1882,
pagot009, tav. KIT, f. LL,
A. hortensi sinilis, sed dorso crassior verrucoso; elypeo
paululum minore; fasciis lateralibus minus latis, inferne non
evanescentibus; limacella fere perfecta (2). Animal griseo-fla-
vescens ; dorso clypeoque medio fuscatis, utrinque nigro-zonatis ;
pedis margo flavus nunquam lineolatus; solea flava; caput
et tentacula nigra. Mucus flavus. Long. max. 35 mill.
Hab. Le Alpi del Piemonte e della Lombardia, e probabil-
mente anche quelle francesi e svizzere.
(1) Queste tre figure furono riprodotte dal sig. Bourguignat nella Malac.
de la G.de Chartreuse, 1864, tav. I, fig. 9, 10, 11, mutando solamente la co-
lorazione della fig. 9 (fig. 2 di Fer.) che fece uguale alla fig. 11 (fig. 3, Fer.)
mentre in Ferussac è uguale alla fig. 4 (fig. 10, Bgt.).
(2) A. hortensis Lessona, Arion del Piemonte, p. 9, fig. 3, 4, 6,7,19, 21,
in Atti Acc. Sc, di Torino, 1881.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 16
204 CARLO POLLONERA
L'apparato sessuale differisce notevolmente da quello dell'A.
hortensis per la borsa comune grande, larga, e rivestita da un
forte strato ghiandolare giallo; per la guaina della verga più
volte ripiegata, fortemente ingrossata prima del suo sbocco nella
borsa comune, ed a canale deferente breve; pel collo della borsa
copulatrice pure ingrossato prima del suo sbocco nella borsa co-
mune; infine per l’ultima parte dell’ovidotto brevissima e non
assottigliata superiormente.
Esternamente si distingue per le rughe del dorso più grosso-
lane e più larghe, pel cappuccio un po’ più piccolo e per le
zone nerastre laterali non sfumate inferiormente sui fianchi.
Inoltre in essa si trova una limacella quasi perfetta (special-
mente nei giovani), quale non si trova mai nell’A. hortensis.
Arion Nilssoni n. sp.
Fic. 31 634
Prolepis horlensis Malm, Skandinaviska Land-Sniglar, 1868,
pag. 49, tav. 2, figsb,
Differt a praecedente, statura valde majori (long. max.
55 mill.), clypeo breviori, rugis angustioribus.
Hab. La Svezia.
Nell’apparato sessuale si avvicina assai più all’A. alpinus
che all’A. hortensis, ma ne differisce per la borsa comune più
piccola e meno larga; per la guaina della verga assai più lunga,
meno ingrossata presso il suo sbocco ed a canale deferente molto
più lungo; per la borsa copulatrice in forma di berretto frigio,
a collo meno ingrossato presso lo sbocco e con un altro leggero
ingrossamento verso la sua metà.
L'esame delle figure rende superfluo il confronto coll’appa-
rato sessuale dell’A. hortensis.
Arion celticus n. sp.
Fic. 11, 22, 33 e 37
A. horlensis affinis: dorsum mediocriter rugosum; clypeus
minute granulosus; olivaceo-nigricans, utrinque nigro-zonatum,
minutissime aureo-punctatum, lateribus pallide-griseis nigro=
variegatis; solea pallide-flava; pedis margo pallide flavus im-
perfecte grisco-lincolatus; caput et tentacula nigricantia. Mucus
soleac et pedis aurantiacus. Long. max. 30 mill,
SPECIE NUOVE 0 MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 205
Hab.I contorni di Brest (Finistère) in Francia.
Vicinissimo all’A. hortensis, ne differisce per le lineette o
macchiettature grigio-chiare del margine esterno del piede (tal-
volta tuttavia appena visibili), per le sue dimensioni un po’ più
piccole, ma sopratutto pei caratteri degli organi sessuali e della
radula. Dal confronto delle figure si vede come la borsa
comune, l’ovidotto, la guaina della verga, la borsa copulatrice
ed il suo collo siano ben diverse da quelle dell'A. Mhortensis.
Come in quest’ultima specie, ho trovato sotto il cappuccio del-
VA. celticus una minutissima polvere calcare, e nessuna traccia
di limacella. Nell’alcool prende una colorazione bruno-rossastra
ben diversa dalla colorazione cinerognola dell’A. hortensis.
Questa specie sembra assai abbondante nei contorni di Brest
(donde ne ricevetti buon numero di individui dal signor Bavay)
dove sembra sostituire VA. hortensis, come VA. alpinus lo s0-
stituisce nelle Alpi italiane.
Rispetto alla radula queste quattro specie, così intimamente
congiunte, presentano alcune differenze. Negli A. «alpinus e
Nilssoni la base d’inserzione dei denti centrale e dei campi
mediani è più lunga che la base riflessa col suo aculeo, invece
negli A. hortensis e celticus essa è più breve. Nelle prime due
specie l’aculeo secondario si conserva ben distinto dall’aculeo
principale in tutti i campi, e non scomparisce che negli ultimis-
simi marginali, mentre nelle altre due specie nei campi latero-
marginali l’aculeo secondario si fonde col principale, diventando
una semplice dentellatura di questo come accade nell’A. subfu-
scus. Nell’A. celticus questa dentellatura dell’aculeo principale
dopo essersi innalzata alquanto, torna a discendere verso il basso
dell’aculeo, e negli ultimi denti marginali torna a formare un
aculeo secondario indipendente; nell’A. Rortensis invece essa si
innalza meno, poi torna ad abbassarsi, ma non torna più indi-
pendente, e negli ultimissimi marginali scompare.
Pei caratteri della radula dunque gli A. hortensis e celticus
accennano ad una tendenza verso il gruppo dell'A. subfuscus,
mentre gli A. alpinus e Nilssoni si avvicinano all’A. Bour-
gquignati.
A questo gruppo appartiene pure l'A. verrucosus Brevière (1)
(1) Brevière, Tableau des Limaciens des env. de Saint-Saulge (Nièvre) in
Journ. Conchyl., Octobre, 1881, pl. 13.
206 CARLO POLLONERA
che vive nei dipartimenti della Nièvre e del Puy-de-Dòme nella
Francia centrale, molto bene descritto e figurato nel citato la-
voro. Tanto per l’apparato sessuale come per la radula, si pa-
lesa più prossimo all’A. alpinus che all’A. hortensis; ma pei
caratteri esterni è facilmente riconoscibile alla sua statura mi-
nore (20-25 mill.), all’aspetto più delicato, alla pallidezza della
suola e sopratutto alle sporgenze verrucose dei tubercoli dorsali.
Al gruppo dell'A. hortensis appartiene ancora l'A. nterme-
dius (1) dei contorni di Valenciennes nella Francia settentrionale
descritto da Normand con queste parole: « Animal gris-jaunàtre
pàle. Extrémités, surtout la postérieure, d'un beau jaune d’or,
Cotes, blanchàtres, marqués antérieurement de quelques petits
points noirs, un peu espacés en ligne près du bord du pied.
Téte, cou et tentacules gris-foncé ou noiràtres. Plan locomoteur
d'un beau jaune d'or pàle, à l’exception de la partie médiane.
Bouclier légèrement granuleux. Mucus jaune. Limacelle blanche,
opaque et rugueuse. Longueur de l’animal 15 à 20 milli-
mètres >.
Moguin-Tandon lo considerò come sinonimo dell’A. flavus
Miiller, e più tardi nel 1867 Mabille con molta ragione gli
restituì il suo grado di specie, ma ebbe il torto di collocarla
nel genere Geomalacus; il Dott. Heynemann infine nel Catalogo
dei Molluschi europei del Kobelt la considera come un giovane
dell'A. empiricorum.
Io ricevetti ripetutamente dal signor Deladerrière da Valen-
ciennes, e specialmente dal « bois de Raismes » nei contorni di
questa città, dei piccoli Ari0», alcuni dei quali corrispondono
perfettamente alla descrizione di Normand; l'esame anatomico
di essi li dimostrò perfettamente adulti, malgrado la loro pic-
colezza (16-18 mill.), cosicchè la supposizione del Dott. Hey-
nemann è evidentemente erronea; solamente osservai che la co-
lorazione di essi non si limitava a quella notata dal Normand,
ma variava dal giallognolo pallido al bruno intenso ; inoltre fre-
quentemente il dorso ed il cappuccio erano più scuri nel mezzo
e presentavano da ciascun lato una fascia leggermente segnata,
ed infine mancavano qualche volta i piccoli punti neri al di
sopra del margine del piede. Come accade sempre negli Arion
le fascie diventavano più visibili allorchè l’animale era immerso
1) NormanD, Descr. de six limac. nouv., ete., 1892, p. 6.
SPECIE NUOVE O MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 207
nell’alcool. Confrontati questi animali con la descrizione, le figure
ed alcuni esemplari autentici, in alcool, dell'A. (Geom.) Mabilli
Baudon, mi convinsi che questo non è che la forma pallida e
fasciata dell’A. infermedius, della quale specie debbono pure
far parte i Geomalacus hiemalis Drouet, e G. Bourguignati
Mabille; io credo dunque che la sinonomia di questa specie si
debba stabilire nel modo seguente :
Arion intermedius Norman.
EG. 5.
A. intermedius, Norm., Descr. six. lim. nouv., 1852, p. 6.
Geomalucis intermedius, Mabille, Rev. Zool., 1867, p. 57.
» Bourguignati, Mabille, Itev. Zool., 1867, p. 58.
» hiemalis, Drouet, Moll. Cote-d'Or, 1867, p. 27;
» Baudon, Limac., du Deép. de l’Oise, 1871, pl. 2,
f. 2-4.
» Mabilli, Baudon, Limac. Oise, 1871, p. 11, pl. 1,
f. 8-12.
A. Mabillianus, Baudon, Trois. catal. Moll. Oise, 1884, p. 8.
- Il signor Bavay mi mandò pure questa specie dall’Ile Mo-
lène (Finistère).
Nell’animale vivo non ho potuto osservare la posizione del-
l'apertura sessuale, ma in quelli in alcool si vede assai bene:
essa è posta a seconda della diversa contrazione del corpo, sia
immediatamente al di sotto dell'apertura respiratoria, sia legge-
rissimamente più innanzi, precisamente come lo osservai nei due
esemplari di A. minimus (1) che devo alla gentilezza del signor
Simroth (fig. 6). Nè a ciò soltanto si limita la somiglianza tra
queste due specie, poichè oltre la statura, la colorazione e l'aspetto
simili, trovai in entrambi l'apparato sessuale identico, ed in un
giovane A. minimus una piccola limacella rudimentale più solida
ancora di quella da me trovata nell’A. intermedius (fig. 7).
Molto probabilmente un accurato studio di confronto di queste
due specie potrà condurre alla riunione di esse in una sola. Ap-
profitto di questa circostanza per dichiarare che lA. minimus
è un vero Arzon e non ha nulla a che fare con gli Ariuneulus
del Piemonte, riservandomi a dimostrarlo in un altro mio lavoro.
(1) A. minimus, SiMROTH, Vers. Naturg. deuts. Nacktschn., 1885, p. 289,
tav. VII, fig. 41 = A. flavus CLESSIN (non A, flavus Nilss.), Deut. Excurs.
Moll. Fauna, 1884, p. 116.
208 CARLO POLLONERA
Un'altra delle specie francesi dal Dott. Heynemann dichiarate
stadi giovanili dell'A. empiricorum è VA. tenellus Millet (1).
Io non ne vidi che esemplari non ancora adulti, ma il signor
Baudon in una lettera dei 15 marzo 1886 mi scrive a proposito
di questa specie: « Il commence à se montrer à cette époque
(le mois de Mai) dans la forèt de Hez et c’est aussi peu de
temps après qu'il commence à pondre des ceufs diaphanes, gros
comme un petit grain de pavot ». Provato lo stato adulto di
questo Arzon, bisogna anche ammettere la validità della specie,
poichè non è possibile identificarla con nessun'altra dello stesso
genere.
IV. Gruppo dell’A. LS0wurgquignati.
Questo gruppo si distingue dal precedente per la serie me-
diana delle rughe del dorso più elevata dalle altre, in modo che
il dorso appare lievemente carenato. Pei caratteri della radula
e dell'apparato sessuale si accostano agli A. alpenus e Nelssoni.
Oltre il L. fasciatus Nilsson, io credo si debba mettere
come sinonimo di A. Bourguignati anche lA. leucophaeus
Normand; infatti se nella sua descrizione accennasse alla carena
essa converrebbe perfettamente alla specie di Mabille, ma come
passò inosservata a tanti altri malacologi questa carena, così non
è improbabile sia accaduto lo stesso a Normand. Ma quello che
mi fa quasi certo di questa identità è che nei ripetuti invi di
Arion mandatemi da Valenciennes dal signor Deladerrière al
solo A. Bourguignati si potevano adattare i caratteri dell’A. lew-
cophaeus ; tuttavia la descrizione di questo essendo troppo in-
completa, il nome dato dal Mabille deve avere la preferenza.
Arion Bourguignati MABILLE.
Fia. 24.
(S
Limax fasciatus, Nilsson (partim), Hist. Moll. Sueciae, 1822, p. 3.
Avion hortensis, var. Feruss. Hist. Moll., 1823, pl. 8 A. fig. 4.
> leucophaeus, Norm., Descr. six. lim., 1852, p. 6, (de-
scrizione insufficiente).
(1) MiLLer, Moll. Maine-et-Loire, 1859, p. 11. — BourGuIGNAT, Moll. now».
lit., VI, 1866, p. 175, pl. 29, fig. 5-7. — Baupon, Limac. Oise, p. 7, pl. 1,
f. 4-7.
SPECIE NUOVE O MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 209
Arion hortensis var. grisea, Bourg. Malac. Gr. Chartr., 1864,
pil, fin 10.
>» Dupuyanus, Bourg. Malac. Gr. Chartr., 1864, p. 30,
pl. 1, f. 1-4 (pullus).
>» Bourguignati, Mabille, Rev. et Mug. Zool., 1868, p. 138.
— Baudon, Limac. Oise, 1871, p. 9, pl. 3, f. 6-9, —
Simroth, Naturg. deut. Nacktschn., 1885, p. 287, t. 7,
f. 37-39.
Hab. La Francia, la Germania, la Svezia, ed in Piemonte
le valli della Dora Baltea e del Malone.
x. Var. Neustriacus = A. Neustriacus, Mabille, 1. c., p. 188.
Griseo-rubescens, fasciis brumneis, pedis margo lineolis
nullis vel fere inconspicuis.
B. Var. Miser mihi. Pallide cinereus vel albidus, pedis
margo lineolis nullis vel fere inconspicuis.
Ho già dato il disegno della radula e dell’apparato sessuale
di questa specie nella Monografia dei Limacidi italiani a pag. 65.
Qui torno a figurare una parte dell’apparato sessuale per faci-
litare il confronto con quello dell'A. subcarinatus. La borsa co-
mune è di una forma allungata che non si riscontra in alcuna
delle specie più sopra esaminate, è tutta ricoperta dal rivesti-
mento ghiandolare: la borsa copulatrice, a collo mediocre, è piri-
forme, assai allungata ed assottigliata alla sua estremità libera.
Arion subcarinatus Pot.
RIGNZio
A. subcarinatus, Pollonera, Elenco dei Moll. terr. viv. in Pie-
monte, p. 19; in Atti Acc. Sc. Torino, 1885.
Praecedenti similis, statura tamen maiore, clypeo minore,
carina debiliore. Long. in alcool 20, clyp. 8 mill.
Hab. Rosazza nella Valle del Cervo in Piemonte.
Non posso dare nessun particolare sulla colorazione e sul
muco di questa specie, non avendola potuto osservare viva. So-
miglia assai alla precedente, della quale forse non è che una
varietà locale; debbo notare però che mentre il suo apparato
presenta le differenze che sto per accennare, quello dell’A. Lowr-
guignati del Piemonte trovai perfettamente uguale a quello degli
individui francesi di Brest e di Saint-Saulge. Nell'A. subeari
210 CARLO POLLONERA
natus la borsa comune è più grande e di forma più irregolare ;
la guaina della verga forma presso il suo sbocco un gomito
angoloso che non si osserva nell'A. Bourguignati, infine la borsa
copulatrice è a collo più sottile e molto più lungo, ed in forma
di cappuccio con un prolungamento più sottile e in direzione
laterale e non terminale come nell’A. Bourguignati.
La conclusione di questo mio breve studio è che l'esame
anatomico dimostra che le specie di Ar/on in Europa sono molto
più numerose di quello che credano molti malacologi, poichè se
anche tutte le specie finora stabilite non sono ammissibili, siamo
tuttavia già molto lungi dalle 3 sole che il Westerlund ammette
nella sua Fauna Europaca.
A
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA
Arion intermedius, NORMAND.
Fre. 1-5 (Valenciennes).
Fia. 4. Colorazione pallida; fig. 2, Suola; fig. 3, Colorazione
bruno-scura; figura 4, Colorazione bruno-chiara;
fis. 5, animale in alcool molto ingrandito.
Arion minimus, SimrotH.
Fi. 6-7 (Lipsia).
> 6. Parte anteriore del corpo (in alcool) molto ingrandita ;
fis. 7, Limacella di un individuo giovane.
Arion Da-Silve, POLLONERA.
Fia. 8-10 (Portogallo).
> 8. Animale in alcool, di grandezza naturale; fig. 9, Cap-
puccio veduto dal di sopra; fig. 10, Parte ante-
riore della suola.
Arion celticus, POLLONERA.
Fic. 11 (Brest).
» 44. Animale ingrandito, non completamente. disteso.
Arion Pegorarii, Lessona E POLLONERA.
Fic. 12-13 (Valle d’Aosta).
» 42. Parte anteriore del corpo, veduta di fianco; fig. 18,
Animale di grandezza naturale.
SPECIE NUOVE O MAL CONOSCIUTE DI ARION EUROPEI 211
Arion fuscus, Miitt.
Fic. 14 (Vegesack).
Fic. 14. Animale (var. Boettgeri PoLL.) completamente disteso,
di grandezza naturale.
Arion Bavayi, POLLONERA.
Fia. 15. (Brest).
>» 45. Animale di grandezza naturale, completamente disteso.
Arion subfuscus, Drar.
Fra. 16-18 Gr. S. Bernardo).
>» 46. Individuo giovane delle var. Gaudefroyi Mabille ;
fis. 17, Individuo adulto della stessa varietà di
grandezza naturale, non completamente disteso;
fig. 18, Parte anteriore dello stesso veduta di fianco.
Arion brunneus, LEHMANN.
Fia. 19-20 (Karlsbad).
>» 49. Animale in alcool, ingrandito ; fig. 20, Cappuccio dello
stesso individuo veduto dal di sopra.
Organi sessuali.
» 24. A. verrucosus, Brevière (Saint-Saulge); fig. 22, A cel.
ticus Poll. (Brest); fig. 23, A. hortensis, Fer. (Va-
lenciennes); fig. 24, A. Bourguignati, Mabille,
(Aosta); fig. 25 e 26, A. alpinus, Poll. veduto
da due parti (Rivarossa Canavese); fig. 27, A. sub-
carinatus, Poll. (Rosazza); fig. 28, A. Brewvièrei,
Poll. (Saint-Saulge); fig. 29, A. Da-Svae, Poll.
(Portogallo); fig. 30, A. minimus, Simroth (Lipsia) ;
fig. 51, A. Nzlssoni, Poll. (Svezia).
Radule.
» 2. A. hortensis, Fer. (Valenciennes); fig. 33, A. celticus,
Poll. (Brest); fig. 34, A. Nilssoni, Poll. (Svezia):
fis. 35, A. aggericola, Mabille (Saint-Saulge) ;
fig. 36, A. Brevièrei, Poll. (Saint-Saulge).
Mandibole.
» 37. A. celticus, Poll. (Brest); fig. 38, A. Nilssoni, Poll.
(Svezia).
DO
peer
DO
S. PAGLIANI ED E. ODDONE
Sull’ attrito interno nei liquidi ;
Nota dei signori S. PAGLIANI e Dott. E. OpponE
In uno studio sperimentale precedente fatto da uno di noi
col dottore A. Battelli sull’attrito interno nei liquidi (*), si era
giunti al risultato, che le soluzioni acquose degli alcoli presen-
tano un massimo nel coefficiente di attrito, che questo massimo
non corrisponde alla stessa ricchezza procentica a tutte le tem-
peratare, che questa ricchezza procentica, a cui corrisponde il
massimo, aumenta (**) col crescere della temperatura e che non
esiste relazione generale fra le ricchezze procentiche delle solu-
zioni dei diversi alcoli, alle quali corrisponde il massimo di at-
trito interno alla stessa temperatura, e la composizione chimica.
Mentre invece Graham (***) avendo trovato che la massima
durata della traspirazione nelle soluzioni di alcool etilico corri-
spondeva, alla temperatura di 20°, alla composizione C°H°0+3H?0,
in quelle di acido acetico a C? H' 0° + H? 0, in quelle di acido
nitrico a 2 7N0°+3 H? 0, in quelle di acido solforico a
H?S0O'4 H?0, ne aveva dedotto esistere una relazione fra il
massimo di attrito e la composizione chimica.
Delle ricerche, pubblicate posteriormente alle più sopra accen-
nate da K. Noak (****) nel maggio 1885, ne hanno confermato
pienamente i risultati. Noak, avendo studiato la influenza della
temperatura e della concentrazione sulla fluidità nei miscugli
(#) Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XX, p. 615 adu-
nanza dell'8 marzo 1885.
(**) Nella nota suaccennata a pag?. 621, 626 e 632 venne stampato per
errore diminuisce invece di aumenta.
(***) Chem. a. phys. res., 1861, pag. 600.
(****) K. Noak, Wied. Ann. XXVII, 289, 1886. Festschrift der 38 Versam-
mlung deutschen Philologen und Schulminner, gewidmet vom Lehrcollegium
des Gymnasium su Giessen, Mai 1885, pag. 53.
SULL’ATTRITO INTERNO NEI LIQUIDI 15
di liquidi, trovò che nelle soluzioni dell'alcool etilico essa pre-
senta un minimo, il quale non corrisponde alla stessa composi-
zione percentuale ‘alle diverse temperature, ma questa va pre-
cisamente diminuendo col crescere della temperatura, e le sue
esperienze furono estese fino a 60°. Anche i risultati numerici
da lui ottenuti sono molto concordanti con quelli trovati in
quelle prime ricerche.
In una breve serie di determinazioni abbiamo voluto veri-
ficare se anche per le soluzioni degli acidi si presenta lo stesso
fatto dello spostamento del massimo di attrito colla temperatura.
I due acidi da noi studiati, furono l'acido acetico e l'acido
nitrico, le cui soluzioni, come già si disse, furono pure speri-
mentate da Graham, soltanto però alla temperatura di 20°. È
vero che per le soluzioni di acido acetico si hanno già delle
determinazioni di Wykander (*), il quale si era già occupato
della stessa questione; ma, eome già si disse nella nota sopra
accennata, i suoi risultamenti presentano tali irregolarità, da non
potere veramente considerarla come da essi risolta.
Le nostre esperienze erano già terminate, quando nel n° 8
degli Annali del Wiedemann di quest'anno, trovammo pubblicata
una memoria di K. Noak, il quale pure aveva avuto l'idea di
studiare le soluzioni di acido acetico, come aveva già fatto per
quelle di alcool etilico. In essa trovammo che egli giunse agli
stessi risultati, ai quali noi pure eravamo arrivati: nelle nostre
ricerche; che cioè il massimo coefficiente di attrito per le so-
luzioni di acido acetico è presentato da quella che ne contiene
circa 77 per 100, come già aveva trovato pure Graham per la
temperatura di 20°; che la ricchezza procentica, a cui corrisponde
il detto massimo, è la stessa per tutte le temperature, che non
sì osserva cioè spostamento nel massimo, come per i miscugli
alcoolici. Avendo poi anche confrontati i risultati numerici, da
noi ottenuti, con quelli del Noak e trovatili concordanti, cre-
diamo inutile di riportare i primi, tanto più che i limiti di
temperatura entro i quali il Noak ha determinata la fluidità
delle dette soluzioni, sono più estesi, cioè fra 0° e 60°. Ci li-
miteremo quindi ad esporre le determinazioni fatte sulle solu-
zioni di acido nitrico.
*) Lund Physiogr. Sàllsk, /ubelschrift, 1878, Beiblatter, II, 8.
214 S. PAGLIANI ED E. ODDONE
L'apparecchio da noi adoperato è quello già descritto nella
accennata Nota, e modificato nel modo indicato nella seconda
nota sull’attrito delle soluzioni dei gas (*), per spostare il li-
quido nel recipiente, in cui avviene l’efflusso dei liquidi. Quando
si operava cogli acidi concentrati si disponevano dall’una e dal-
l’altra parte del recipiente due bottiglie di Wolf con entro acido
solforico per diseccare l’aria che serviva- a produrre l’efflusso.
La formola adoperata per calcolare il valore del coefficiente
di attrito è quella di Poiseuille, modificata da Hagenbach, quan-
tunque qui la correzione, dovuta al secondo termine, fosse pres-
sochè trascurabile, essendo stato in tutte le determinazioni il
tempo d’efflusso piuttosto grande.
Nelle tabelle seguenti raccogliamo i risultati ottenuti.
Soluzioni di acido nitrico.
Soluzione n° 4 - HNO' puro. Pre Lo0na 00
el por 7 eek wai
Îi a pe | |
| «ite RT |
0° 461816027 12/0:,00008501 16100440080 a RAD A
0° |46.18|602" .2 i i 1567
0° |45.98|603"..8 2317|16°.80 45.93 409" .8 1564
—_—_—_—_—_—_—_——t_— || | —_—_—_—_—_——____—_—
0° medio 1 =0.00002320 16°.78 medio 4=0,00001568
Il
. . . . LU
Da questi dati si calcola la seguente espressione per %,
espresso in dine fra 0° e 17°
0.02275
===
gin E iO
(*) PagLiani e BattELLI, Sull’attrito interno dei liquidi , Nota seconda,
Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, Vol. XX, aprile 1885.
Soluzione n° 2 - HNO® 72,85%
SULL'ATTRITO INTERNO NEI LIQUIDI
P.a; = 45MRaL0}
46.2
46.2
146.22
medio = 0.00003341|16°.82
Soluzione n° 8 - HNO? 71,24%
864° .5
£63°.1
867".00.00003348 16°.82 46.
3339) 16°.82 46. 30
3335|16°.82 46.
mo
Donde si calcola fra 0° e 17
30
0.03276
UN
TISEO.09338#'
557° .70.00002138
ma"
(
.2
.4
DÒ
554
medio 4 = 0.000021405
2148
2138
|
|
P_s1h4500a. 05
p
46.51
46.46
146.51
medio g = 0.00003353
0.00003358
3956
3344
(GR
p
16°.87 46.16
16°.87'46.41
16°.88 46.86
16°.87
Quindi si calcola fra 0° e 17°
; 0.053288
ni
TI+0.03337?
T
560
5)
5)
a u È 6
502
SZ NAIPALO
9 L/
n
0.00002158
VEBER
2157
medio <= 0.00002156
216 S. PAGLIANI ED E. ODDONE
Soluzione n° 4 - HNO® 67,82% P.s.=1,434a 0°
| | Tel ii
A p RI | Ù (Poag p 46 Ù
15°.84/46.14|589".3/0.00002269
0°.08|46.54 897" .00.00003490;
.8
0° 46.56 896° 3491/||15°.96 46.69/580".5 2262
0°.04/46.44 896" .0) 3478|116°.00/46.94/577".1 2261
0°.04 medio a =0.00003486||15°.93, medio «= 0.00002264
Donde si calcola fra 0° e 16°
>, 0.08422
liTT20 0323680
Soluzione n° 5 - HNO® 66,6 % P.s. = 104058" P5°
|
io p 1h n | t p Dv 4
|
|
|
0° [46.73 908°.0 0.00003547|16°.43/46.73 578".2/0.00002255
0° |46.68 909" .7 3549 16°.44/46.73/580".0 2262
| |
IUS 46.38 912.0 . 35836]116°.44/46. 73 SINO 2250
| —_l hei SSA esi -
0° medio 7 = 0.00003544/16°.44 medio 7 = 0.00002256
Donde si calcola fra 0° e 17°
vi ARE
"a5*TEE0 034784!
0°
4 0°
” 0°
"0°
SULL'ATTRITO INTERNO NEI LIQUIDI 217
Soluzione n° 6 - HNO®? 64,3%
Pi s'S H4546010w108
5° sue © n SNO + ie i RO A
| |
50.57/858".20.00003628)16°.31
50. 67|856%.7| 3629 |16°.37
50.87/855".0] 3636||16°.45
| La SLI
|
medio 7—=0.00003631 (16°.37
Donde si calcola fra 0° e 16°.5
0.03560
Soluzione n° 7 - HNO® 61,56 %
51.39|821°.0/0.00003527|18°. 3bi
51.41|821".6
51.39/821".0
pa 1
I
3531||18°. 30
3527) 18°. 401
medio 7 = 0.00003528|/18°. mul
Donde si calcola fra 0°°%e 18°
0.03459
=
p 000 4
51.30|552°.1|0.00002363
51.35|549°.4 2554
51.32|549°21 2352
medio 7 = 0.00002356
14+0.03305f0
51.64 511".80.00002204
51.74/511%.0 2205
5 64 510° .0| 2196
medio 7 —=0.00002202
140.03285f#"
Soluzione n°
PA
0°
0°.05|46.
0° 01
Donde si calcola fra 0° e 18°
Soluzione n° 9 - HNO? 53,9%
t°
0°.08|46.
0°
10°
46.
46.
0°.01
'w
PÉ
|
odi ZO 00003359 [RTR 88
776°
medio 7 = 0.00003002
;1867"
1863"
862”
Tot È
.4
.6
VA
2
S.
8 - HNO® 58,1%
0.00003361,
3360
3356 |
0.03295
140.0353335
Una
n
o 0-onnsn 105
3001
3007
PAGLIANI ED E. ODDONE
P, s,= l360a a?
17°.86|46.16|548".4
|17°.88 46.46|544"..0
17°,88|46. 66(541":0
medio 7 = 0.00002105
P: sì = 20800
116°.57/46. 531505-. 3/0. 0000208 3|0.00002083|
116°,60/46.30° los 7 2081
|
16°.60 AI .0 2080
16%09
medio 7 = 0.00002081
Donde si calcola fra 0° e 17°
0.02945
0,=
14-0.02668#
SULL’ATTRITO INTERNO NEI LIQUIDI 219
Per mezzo delle formole di interpolazione sopra indicate si
possono calcolare i valori di 4° per le dette soluzioni di acido
nitrico alla temperatura di 10°. Nella seguente tabella si tro-
vano raccolti questi valori e quelli per la temperatura di 0°,
HNO* Li
% 0° a 10°
100,0 0,02275 0,01770
12,85 0,03276 0,0245060
(1,24 0,03288 0,02465
67,82 0,0383422 0,02579
66,6 0,03475 0,02584
64,3 0,03560 0,02676
61,56 0,03459 0,02604
58,1 0,03295 0,02470
93,87 0,02945 0,0235324
0 0,01775 0,01309
Si vede adunque come anche le soluzioni di acido nitrico
presentano un massimo nel coefficiente d’attrito, il quale non
corrisponde alla stessa composizione centesimale alle diverse tem-
perature. Costruendo graficamente i valori sopraindicati e quelli
ottenuti dal Graham, dalle curve che si ottengono, si deduce
che mentre alla temperatura di 20° il detto massimo corrisponde
alla soluzione contenente 69,6 % di acido nitrico, a 10° corri-
sponde alla composizione 64,4 %, a 0° alla composizione 63,4 %.
Si vede quindi che anche per le soluzioni di acido nitrico,
come per quelle degli alcoli, la ricchezza centesimale in H.NO?
della soluzione alla quale corrisponde il massimo del coefficiente
di attrito, aumenta col crescere della temperatura, per cui si può
dedurre che ad una data temperatura, non si avrà più un mas-
simo, ma il coefficiente di attrito di tali soluzioni andrà au-
mentando in modo continuo col crescere della quantità di acido
in esse contenuto.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 17
220 S. PAGLIANI ED E. ODDONE - SULL'ATTRITO, ECC.
Il diverso comportamento delle soluzioni di acido nitrico e di
acido acetico si può spiegare con ciò che la composizione delle
soluzioni del primo acido sia meno stabile alle varie temperature
che quelle del secondo, che tendano a formarsi nelle prime delle
nuove combinazioni. Diffatti si sa che la luce decompone l’acido
nitrico, dando luogo alla formazione di perossido di azoto ed ossi-
seno, mentre l’acido si colora in rosso, e che soltanto le soluzioni
di acido nitrico di densità uguale od inferiore ad 1,30 non si
colorano alla luce. Ora le soluzioni da noi studiate, hanno tutte
una densità superiore alla detta. La produzione poi di sostanze
gassose ha anche per effetto di aumentare il coefficiente di at-
trito dei liquidi (*), quindi si comprende come il massimo di
quel coefficiente corrisponda a soluzioni, che contengono sempre
più acido col crescere della temperatura.
Laboratorio di Fisica del R. Istituto Tecnico di Torino,
Dicembre, 1886.
(*) PaGLIANI e*BatTELLI, Sull’attrito interno nei liquidi, Nota seconda,
Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, Vol. XX.
221
Ricerche sopra le proprietà di alcuni composti ammoniacali
del platino; Memoria del Socio A. Cossa
I.
Cloroplatinato di platosodiammina e cloroplatinito
di platinodiammina.
In una breve notizia preliminare, comunicata all'Accademia
dei Lincei il 3 maggio 1885 (1), ho accennato che lo studio
della memoria di Quintino Sella sulle forme cristalline di al-
cuni sali del platino, che ho dovuto intraprendere per redigere
la commemorazione sui lavori scientifici dell’illustre cristallografo
italiano, mi ha suggerito l’idea di accingermi a nuove ricerche
sulle proprietà di alcuni dei derivati ammoniacali del platino.
Incomincio la pubblicazione delle ricerche eseguite con questa
nota, la quale comprende i risultati relativi ai prodotti che si
ottengono quando si fa agire il tetracloruro di platino sul clo-
ruro di platosodiammina.
Da principio fui obbligato ad impiegare molte cure nel pu-
rificare il platino che doveva servire come materia prima nelle
mie indagini, giacchè il platino delle capsule, dei crogiuoli ecc.
usati nei laboratorii di chimica contiene, oltre ad iridio, quantità
relativamente grandi di rame e di ferro, la cui eliminazione
completa riesce non difficile, ma richiede molto tempo. In seguito
ho potuto avere del platino sufficientemente puro dalla fabbrica
di prodotti chimici della Ditta Kahlbaum in Berlino. Ho l’ob-
bligo di ricordare che il Ministero della Pubblica Istruzione,
ed il Direttore del R. Museo Industriale Italiano di Torino,
agevolarono i miei studi fornendomi con assegni straordinari i
mezzi per acquistare un mezzo chilogrammo di platino.
(1) Rendiconti. Serie IV, Vol. 1°, pag. 318.
232 ALFONSO COSSA
In questa nota e nelle successive, adopererò per i derivati
ammoniacali del platino, la nomenclatura adottata da Cleve (1),
il quale è senza dubbio il chimico che ha più diffusamente e
profondamente trattato di questo capitolo assai interessante della
chimica generale.
I. Reiset nelle sue ricerche sopra le basi platiniche-ammo-
niacali (2), ha affermato che quando si aggiunge ad una solu-
zione di cloruro di platosodiammina un eccesso di tetracloruro
platinico, si depone una materia rossa, pesante, cristallina, co-
stituita da cloroplatinato di platosodiammina Pt (NH,), CI,
Pt CI,. Invece, sempre secondo lo stesso autore, quando il clo-
ruro di platosodiammina è in quantità eccedente rispetto a quella
del cloruro platinico, si forma una materia verde egualmente
formata da un cloroplatinato, ma contenente due molecole di
cloruro di platosodiammina (P?(NH,), 04,),, Pt CI,.
P. T. Cleve (8) ha dimostrato in modo evidente che la
materia verde ottenuta da Reiset è costituita da sale verde del
Magnus (cloroplatinito di platosodiammina) mescolato probabil-
mente a cloruro di platinodiammina (cloruro del Gros). Provò
inoltre che il sale rosso non è costituito da cloroplatinato di pla-
tosodiammina, ma bensì dal suo isomero, il cloroplatinito di plati-
nodiammina | Pt? C1,(NH,), CI,, Pt C1,], basandosi sulla possibilità
di ottenere il sale rosso del Reiset direttamente per sintesi, com-
binando il cloruro di platinodiammina (cloruro del Gros) col cloruro
platinoso o con un cloroplatinito alcalino; e sul fatto che il sale
rosso del Reiset trattato col nitrato d’argento, dà origine a cloro-
platinito d’argento ed al clorodinitrato del Raewsky.
Secondo Cleve poi il cloroplatinato di platosodiammina non
può esistere perchè il cloruro platinico si scompone convertendo il
sale di platosodiammina nel corrispondente sale di platinodiammina.
II. Le asserzioni di Cleve sono esattissime per quanto esse
s riferiscono alla costituzione dei due sali descritti da Reiset;
ma studiando accuratamente le reazioni che avvengono tra il
(1) On ammoniacal Platinum Bases. Mem. della R Acc. delle Scienze di
Svezia, 1871, Vol. X.
(2) Ann. de Chim. et de Phys. 3° Serie Vol. IX (1844), pag. 417.
(3) Nova Acta Soc. Scient. Upsaliensis. Serie 3* Vol. VI, mem. V?, pa-
gina 27 (1866).
COMPOSTI AMMONIACALI DEL PLATINO 223
tetracloruro platinico od il cloroplatinato sodico ed il cloruro
di platosodiammina, mi sono convinto della possibilità di ottenere
un vero cloroplatinato di platosodiammina. Questa possibilità è
sfuggita a chi mi ha preceduto in queste ricerche forse perchè
si sono considerati solamente 1 fenomeni che avvengono quando
si fanno tra loro reagire le soluzioni calde dei due sali ora no-
minati.
Dalle numerose esperienze che ho eseguito, risulta che quando
si aggiunge alla temperatura ordinaria una soluzione, per quanto
è possibile neutra, di tetracloruro di platino o meglio di cloro-
platinato sodico ad una soluzione di cloruro di platosodiammina
(cloruro della prima base, del Reiset), sì forma sempre un corpo
insolubile di colore giallo, amorfo, avente la composizione e le
proprietà del cloroplatinato di platosodiammina. Questo corpo
in tempo più o meno lungo alla temperatura ordinaria, imme-
diatamente a quella dell’ebollizione, si cangia:
a) In cloroplatinito di platinodiammina (cloroplatinito
di Cleve), quando i due corpi reagenti, cloruro platinico e clo-
ruro della prima base del Reiset, sono impiegati in quantità
equimolecolari, oppure predomina il cloruro platinico.
b) In sale verde del Magnus e cloruro di platinodiam-
mina (cloruro del Gros), allorchè delle due sostanze impiegate
predomina in quantità il cloruro di platosodiammina.
La formazione del cloroplatinato di platosodiammina è su-
bordinata soltanto alla temperatura e non dipende affatto dalle
quantità reciproche delle materie prime adoperate, e nemmeno
dal grado di concentrazione delle loro soluzioni acquose. A
conferma di quanto asserisco, trascrivo i dati numerici delle mie
esperienze, le quali si possono dividere in due gruppi; cioè in
quelle eseguite alla temperatura ordinaria (A), coll’intento di
produrre il cloroplatinato di platosodiammina, ed in quelle fatte
a temperature relativamente alte (5).
224 ALFONSO COSSA
A.
Esperienze con quantità equimolecolari (1).
Esper. }* — Grammi 14,:5 di cloroplatinato sodico Sciolti
| in 500 cm).
» 8,77 di cloruro del Reiset di acqua
» 2° — Grammi 5,86 di cloroplatinato sodico in
| | 90 cm$.
» 3,60 di cloruro del Reiset di acqua
» 3' — Grammi 13,9) tetracloruro di platino in
100 cmî.
» 14,46 di cloruro del Reiset \ di acqua
Esperienze con numero diseguale di molecole.
Esper. 4° — Grammi 1,42 ( 2 mol.) di cloroplatinato sodico in
40 cm8.
» 0,43 ( 1 mol.) di cloruro di Reiset | di acqua
» 5* — Grammi 7,10 (10 mol.) di cloroplatinato sodico | in
î 20 cm.
» —018(1 mol.) di cloruro di Reiset | di acqua
» 6% — Grammi 1,42 ( 1 mol.) di cloroplatinato sodico in
i | 50 cmî.
» 8,77 (10 mol.) di cloruro di Reiset di acqua
» 7% — Grammi 6,95 (10 mol.) di tetracloruro di platino in
100 cm'.
» 0,72 ( 1 mol.) di cloruro di Reiset di acqua
» 8° — Grammi 0,69 ( 1 mol.) di tetracloruro di platino in
| 100 emS.
» 7,23 (10 mol.) di cloruro di Reiset di acqua
In tutte queste esperienze, eseguite a temperature comprese
tra 15° e 20° gradi, si ottenne come primo prodotto il corpo
(1) I pesi molecolari del cloroplatinato sodico (Na, PtCl, 6ag), del clo-
ruro della 1* base del Reiset (Pt (NH,), C7,, ag), del tetracloruro di platino
(Pe Cl,) stanno tra loro come i numeri: 570,28; 351,04 e 335,78.
Pi=194,30; 0=15,96.
COMPOSTI AMMONITACALI DEI PLATINO 225
giallo amorfo, che per i motivi che addurrò in seguito ritengo
formato da cloroplatinato di platosodiammina. Nelle prime cinque
esperienze e nella settima, questo corpo, dopo un tempo vario
alla temperatura ordinaria, si è cangiato nel cloroplatinito di
platinodiammina (cloroplatinito di Cleve). Nelle esperienze 6°
ed 8°, si è trasformato in un miscuglio di sale verde del
Magnus, e di cloruro della base del Gros, che si poterono se-
parare quasi completamente approfittando dell’insolubilità del
primo di questi due corpi nell'acqua bollente.
Se il rapporto differente nel quale furono impiegati i corpi
reagenti non ha influito sul prodotto immediato della reazione,
esso però ha esercitato una influenza sui limiti di tempo entro
i quali il cloroplatinato deila prima base del Reiset si conserva
senza trasformarsi nel cloroplatinito della base del Gros. Il
cloroplatinato ottenuto nelle prime tre esperienze si conservò
inalterato per un tempo più lungo di quello osservato nelle
esperienze nelle quali eccedevano in quantità il tetracloruro di
platino od il cloroplatinato sodico.
Esperienza 9°. — Mescolando due soluzioni riscaldate a
94° gradi, e contenenti rispettivamente in 60 cm} d’acqua mo-
lecole eguali di tetracloruro di platino (grammi 2,07) e di
cloruro del Reiset (grammi 2,167) non si forma immediata-
mente alcun precipitato: la soluzione coloritasi in rosso carico,
raffreddandosi depone il cloroplatinito di Cleve in cristalli di-
stinti (1).
Esperienza 10°. — Due soluzioni riscaldate a 95° e con-
tenenti l'una in 60 cm? d’acqua grammi 4,14 (1 mol.) di
tetracloruro di platino, e l’altra in 120 cm d’acqua grammi 8,67
(2 mol.) di cloruro di Reiset, producono appena mescolate un
(1) Questi cristalli esaminati col microscopio polarizzante sono costituiti
da prismi monoclini. Essi presentano un dicroismo marcato; il raggio che
vibra parallelamente all’asse del prisma è colorato in rosso, e apparisce co-
lorito in giallo aranciato quello che vibra in una direzione normale alla
precedente,
226 ALFONSO COSSA
precipitato di colore verdastro, il quale esaminato al microscopio
risulta composto di cristalli verdi di sale verde del Magnus, e
di una polvere cristallina costituita da cloruro di Gros.
Esperienze 11° e 12°. — In ambedue queste esperienze,
nelle quali si mescolarono due soluzioni riscaldate a 60° gradi
e contenenti, in 60 cm' di acqua, molecole eguali di tetraclo-
ruro di platino (grammi 4,14) e di cloruro di Reiset (gr. 4,32),
si ottenne il precipitato giallo di cloroplatinato di platosodiam-
mina, il quale mantenuto per dieci minuti alla temperatura
di 70 gradi si trasformò integralmente nel cloroplatinito rosso
di Cleve.
Esperienza 13%, — Mescolando due soluzioni riscaldate al-
l'ebollizione e contenenti, come nelle esperienze precedenti, mo-
lecole eguali dei due sali, ma in grado diverso di concentrazione,
cioè grammi 4,14 di tetracloruro di platino in 200 cem? di
acqua e grammi 4,32 di sale del Reiset in 80 cm? di acqua,
non si ottenne immediatamente il sale giallo: ma il cloroplati-
nito di Cleve, depostosi per il raffreddamento, era in cristalli
molto più distinti di quelli formatisi nell’ esperienza 9°.
Isperienza 14%. — Versando l'una nell’altra due soluzioni
bollenti, che contenevano, l'una grammi 4,14 di tetracloruro
di platino (1 mol.) in 100 cm? di acqua, l’altra grammi 8,67
(2 mol.) di cloruro del Reiset in 350 cm3 di acqua, dopo
qualche tempo si depone prima il sale verde del Magnus in
cristallini prismatici di un colore verde cupo fortemente dicroici,
e poscia una polvere bianco giallognola formata da cristalli pic-
colissimi dimetrici di cloruro del Gros, la di cui composizione fu
comprovata determinando le quantità di platino e di cloro.
Queste esperienze provano quanto ho affermato nel principio
di questo paragrafo. Dalle esperienze 10° e 11° risulterebbe inoltre
che il limite massimo di temperatura* alla quale può ancora
ottenersi il cloroplatinato di platosodiammina si trova verso i
60° gradi. ;
III. Il cloroplatinato di platosodiammina che servi per tro-
varne la composizione centesimale, fu ottenuto facendo reagire
soluzioni acquose diluite raffreddate a 0° gradi e contenenti
molecole eguali di cloroplatinato sodico e di cloruro di plato-
sodiammina. ll precipitato fioccoso giallo fu immediatamente rac-
colto su di un filtro e lavato completamente per aspirazione
con acqua raffreddata, ed essiccato nel vuoto sull’acido solforico.
COMPOSTI AMMONIACALI DEL PLATINO PA
l precipitato secco esaminato al microscopio non presentava
alcuna traccia di trasformazione.
Grammi 1,1487 fornirono grammi 0,6660 di platino,
Grammi 0,230 diedero col metodo di Vohlardt gram. 0,0725
di cloro.
Dalla combustione di grammi 0,2542, si ebbe un volume
di azoto corrispondente a grammi 0,0216.
Pertanto in cento parti in peso:
Composizione teorica
Pi(NH,),Cl,, Pi CI,
Pi 57,97 58,09
To; 31,57 31,72
N 8,49 8,37.
IV. È evidente che il cloroplatinato di platosodiammina ha
teoricamente una composizione centesimale eguale a quella del
cloroplatinito di platinodiammina. Pertanto la sola analisi chi-
mica non fornisce alcun criterio per stabilire la sua struttura
molecolare; giacchè rimane sempre il dubbio che il corpo amorfo
giallo che ottiensi a bassa temperatura, possa essere un /son:ero
fisico del sale rosso cristallino che si ottiene direttamente a
temperature superiori ai 60° gradi, o nel quale esso si trasforma
spontaneamente a poco a poco anche alla temperatura ordinaria.
Per asserire sicuramente che il corpo giallo da me ottenuto, è
realmente un cloroplatinato della prima base del Reiset, è ne-
cessario ricorrere a qualche reazione che dimostri nel corpo in
questione la presenza del tetracloruro di platino e del cloruro
di platosodiammina. Per risolvere il quesito proposto è chiaro
che non si può trar partito dell’azione che il permanganato po-
tassico deve esercitare sul corpo giallo sospeso nell’ acqua leg-
germente acidulata con acido cloridrico, perchè la quantità di
permanganato potassico scolorita da un dato peso del corpo giallo
è eguale in ambedue le ipotesi possibili sulla sua struttura mole-
colare. Invero la quantità di cloro che si richiede per convertire una
molecola di cloroplatinato di platosodiammina nel sale corrispon-
dente di platinodiammina, è precisamente eguale a quella necessaria
per trasformare in cloroplatinato una molecola di cloroplatinito
di platinodiammina. Si aggiunga a ciò che l’azione del perman-
ganato potassico sopra il corpo giallo sospeso e non disciolto
228 ALFONSO COSSA
nell'acqua acida, non è completa alla temperatura ordinaria e
si compie solamente a temperature alle quali il sale giallo si
trasforma nel cloroplatinito di Cleve.
Si trova invece, a mio parere, una soluzione facile ed ele-
gante del problema proposto studiando come si comporta il sale
giallo quando lo si lascia in contatto con una soluzione di clo-
roplatinito potassico. Se il sale giallo è realmente un cloropla-
tinato di platosodiammina dovrebbe per l’azione del cloroplatinito
potassico dare origine, per doppia decomposizione, a cloroplatinito
di platosodiammina (sale verde del Magnus) ed a cloroplatinato
potassico.
Pi(NH,), Cl,, PtC1,+(KC1),, Pt CI,= Pt(NH.), Ct, PiCI,
| (KON)
L'esperienza ha confermato questa previsione. Mescolai due
soluzioni raffreddate a 0° gradi e contenenti l’una grammi 2,85
(una molecola) di cloroplatinato sodico cristallizzato e l’altra
grammi 1,90 (poco più di una molecola) di cloruro della prima
base di Reiset cristallizzato. Il deposito giallo amorfo fu subito
raccolto su di un filtro e quindi lavato con acqua fredda fino
ad eliminazione totale del cloruro sodico. Il precipitato fu quindi
versato in una capsula ed agitato continuamente con una soluzione
acquosa fredda di grammi 2,07 di cloroplatinito potassico. Imme-
diatamente il precipitato cominciò a colorirsi in verde e dopo mez-
z'ora la trasformazione era completa. Aggiunsi nuova acqua e
riscaldai all’ebollizione per sciogliere il cloroplatinato potassico.
La materia verde raccolta su di un filtro, lavata completamente
ed essiccata, pesava grammi 2,86; essa era omogenea, ed esa-
minata al microscopio, presentava la forma ed il dicroismo carat-
teristico del sale verde del Magnus (1); colla calcinazione lasciava
un residuo di platino puro corrispondente a 64,86 per cento. Il
liquido filtrato, evaporato a secchezza, lasciò un residuo che pe-
(1) Il sale verde del Magnus si presenta colla forma di minuti prismi ret-
tangolari colorati in verde cupo quando l’asse maggiore del prisma coincide
colla sezione principale del Nicol, e quasi incolori in una posizione normale
alla precedente.
COMPOSTI AMMONIACALI DEL PLATINO 229
sava grammi 2,40 e che esaminato al microscopio, risultò com-
posto di ottaedri isotropi di cloroplatinato potassico ; colla calci-
nazione (in un miscuglio di carbonato di sodio e d’acido ossalico)
questi cristalli lasciavano un residuo, che lisciviato fornì una
quantità di platino puro corrispondente a 39,53 per cento. La
determinazione approssimativa dei prodotti ottenuti in questa
reazione conferma che essa avviene nettamente nel modo indi-
cato nella equazione suesposta; infatti teoricamente con grammi
1,75 di cloruro di Reiset; 2,85 di cloroplatinato sodico e 2,07
di cloroplatinito potassico si avrebbero dovuto ottenere grammi
2,99 di sale verde del Magnus e grammi 2,42 di cloroplatinato
potassico.
Non ritengo che si possa ragionevolmente obbiettare alla
interpretazione da me proposta per spiegare i risultati ottenuti,
che eguali risultati si potrebbero avere da quest’altra reazione :
Pt C1,(NH,),C1,, PtCI,+ (K C1),, PtCi,=
Pi(NH,), Cl,, PtCI,4+(KC1);; PiCI,.
In primo luogo non è logico l’ammettere che il cloroplati-
nito di platinodiammina, il quale si forma appunto per la ri-
duzione del cloruro platinico o del cloroplatinato di sodio, possa
facilmente perdere metà del proprio cloro per trasformare in
cloroplatinato il cloroplatinito potassico. D'altra parte l’espe-
rienza mi ha dimostrato che alla temperatura ordinaria il clo-
roplatinito rosso di Cleve rimane inalterato in presenza di una
soluzione di cloroplatinito potassico, mentre a quella temperatura
la trasformazione del cloroplatinato giallo si compie in un tempo
brevissimo. È solamente quando si tiene per molto tempo alla
temperatura dell’ebollizione il cloroplatinito rosso di Cleve, in
contatto con una soluzione di cloroplatinito potassico che può
avvenire la declorurazione parziale del sale di platinodiammina con
formazione di piccole quantità di sale verde del Magnus e di
cloroplatinato potassico.
Si può pure argomentare che il sale giallo da me ottenuto
non è un isomero fisico del cloroplatinito di Cleve dal fatto che
quando si aggiunge una soluzione di cloroplatinito potassico ad
una soluzione fredda di cloruro di platinodiammina si ottiene
sempre immediatamente il sale rosso di Cleve.
230 ALFONSO COSSA
V. Le mie esperienze accennate nel paragrafo II, confermano
la giusta previsione di Cleve, che allorquando si fa reagire il
cloruro platinico con un eccesso di cloruro di Reiset al sale verde
del Magnus, trovasi associato il cloruro di platinodiammina.
Credo che si possa rettamente interpretare la formazione di
questi due corpi, ammettendo che il cloroplatinito di Cleve, pro-
dottosi direttamente alla temperatura dell’ebollizione, o per suc-
cessiva trasformazione del cloroplatinato giallo, prima si scinda
in cloruro della base di Gros e cloruro platinoso, e poi il clo-
ruro platinoso si combini col sale del Reiset in eccesso per for-
mare il sale verde del Magnus; in modo che la reazione finale
può essere rappresentata dalla equazione seguente:
PiCl,(NH,),CI,, PtClh,+ Pi(NH,), CL
— Pt(NH;), PtCI;+ Pt C1,(NH;)j0:
La determinazione approssimativa della quantità dei prodotti
ottenuti nelle esperienze nelle quali si è cercato di separarli e
di raccoglierli il più completamente che fu possibile, concordano
sufficientemente colle quantità calcolate in base alla formola
suesposta.
SALE DEL MAGNUS CLORURO DEL GROS |
Quantità Quantità i
n nre pone Pri sd cosa zzz)
trovata calcolata trovata calcolata ||
Esperienza 10° It8, 3,68 2,07. 2,16
» 14° 1,21 1596 4,45 4,92
Si hanno risultati eguali facendo agire direttamente il clo-
roplatinito di Cleve col cloruro di Reiset. Due grammi di clo-
roplatinito di platinodiammina preparato per l’azione del cloro-
platinito potassico sul cloronitrato del Gros, fatti bollire con
una soluzione di grammi 1!,50 di cloruro del Reiset, fornirono
grammi 1,67 di sale verde del Magnus, quantità che differisce
appena di un decigrammo da quella indicata dalla teoria.
COMPOSTI AMMONIACALI DEL PLATINO 231
VI. Nel paragrafo precedente per spiegare la reazione che
si manifesta tra il cloroplatinito di Cleve ed il cloruro della
prima base del Reiset, ammisi che il primo di questi due corpi
si scompone nei due cloruri che lo compongono. L'esperienza
giustifica questa ipotesi; basta infatti sottoporre per breve tempo
il cloroplatinito di Cleve alla temperatura dell’ ebollizione in
presenza di acqua leggermente inacidita con acido cloridrico,
perchè la scomposizione accennata sia completa. Il sale rosso si
scolora trasformandosi in una polvere bianco giallognola cristal -
lina che ha la composizione e tutte le proprietà caratteristiche
del cloruro di Gros. Il liquido invece si colora in rosso bruno,
e convenientemente concentrato dopo l'aggiunta di cloruro po-
tassico, fornisce del cloroplatinito di potassio puro. Questa scom-
posizione non è molto probabilmente accompagnata da formazione
di altri prodotti, come risulta dalla determinazione approssima-
tiva della quantità di cloruro. di Gros che si può ottenere per
l’azione dell’acqua bollente da un dato peso di cloroplatinito di
Cleve.
Due grammi di cloroplatinito di Cleve ottenuto per l’azione
del tetracloruro di platino sul sale verde del Magnus, scomposto
per l’azione dell’acqua bollente inacidita leggermente con acido
cloridrico, fornì grammi 1,14 di cloruro di Gros, mentre la
teoria ne indicherebbe grammi 1,20.
Due grammi di sale della prima base del Reiset cristalliz-
zato, tenuti per mezz’ora alla temperatura dell’ebollizione con una
soluzione acquosa contenente grammi 3,50 di cloroplatinato sodico,
fornirono grammi 2,25 cioè il 97,8 per cento della quantità
teorica di cloruro di Gros. Da questa seconda esperienza risulta
ancora che quando si vuole preparare il cloroplatinito di Cleve,
partendo da quantità equimolecolari di cloruro di Reiset e di
tetracloruro di platino, non bisogna prolungare di troppo l’ebol-
lizione, onde impedire la scomposizione del prodotto che si vuole
ottenere.
Il Direttore della Classe
AtFronso Cossa.
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SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali.
Adunanza del ‘9 Gennaio 1887 0. 0 Pag 187
PorLoneRA — Specie nuove o mal conosciute di Arion europei. . » 188
PacLIANI e Oppone — Sull’attrito interno nei liquidi. . . .. . MTA DI
Cossa — Ricerche sopra le proprietà di alcuni composti ammoniacali »
NB. A questa dispensa va unita la Tav. I relativa alla Me-
moria: Ricerche intorno alle specie italiane del Genere Gordius,
del Dott. L. CameRANO, inserita nella disp. 2% (1886-87).
n i.
ATTI
DELLA
R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
BESTORENO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 6°, 1886-87
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R. Accademia delle Scienze
238
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 23 Gennaio 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO PROF. ARIODANTE FABRETTI
VICEPRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, LEssona, Bruno, BERRUTI,
Basso, D’Ovipio, Bizzozero, FERRARIS, NACCARI, Mosso, SPEZIA.
Fra le opere pervenute in dono all’Accademia vengono av-
vertiti i numeri 15, 16, 17 e 18 del Bollettino dei Musei di
Zoologia ed Anatomia comparata detla Regia Università di
Torino.
Il socio BizzozERo, condeputato col Socio Mosso, legge una
sua Relazione sopra un lavoro del Dottor Alfonso CATTANEO
« Sugli organi nervosi terminali muscolo-tendinei in condi-
zioni normali e sul loro modo di comportarsi in seguito al
taglio delle radici nervose e dei nervi spinali »; che viene in
seguito approvato dalla Classe per l'inserzione ne’ volumi delle
Memorie.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII. | 18
»_EGONOWAIO 25)
lè rangse”
LI
LETTURE
RELAZIONE sul lavoro del Dott. ALronso CATTANEO: Sugli
organi terminali nervosi muscolo-tendinei in condizioni
normali e sulle loro alterazioni in seguito al taglio delle
radici nervose e dei nervi spinali.
La presente Memoria si può considerare come un comple-
mento di quella, pubblicata nei nostri volumi, in cui il profes-
sore Golgi dava conto della sua scoperta di nuovi organi nervosi
nel corpo dell’uomo e dei mammiferi superiori, ai quali dava
nome, pei loro rapporti anatomici, di organi muscolo-tendinei.
Il lavoro che ci sta dinanzi è diviso in due parti.
Nella 1°, dopo un cenno storico ed un’esposizione dei me-
todi di indagine, descrive gli organi muscolo-tendinei normali,
la loro forma, i rapporti colle lamine tendinee e coi muscoli, la
loro struttura ed il rivestimento endoteliale di cui sono forniti,
il modo di terminazione delle loro fibre nervose, la circolazione
sanguigna; ed accenna all’accidentale ma non infrequente loro
rapporto con le clave od i corpuscoli pacinici e coi fusi musco-
lari di Kiihne.
Nella 2° dimostra sperimentalmente che la loro terminazione
nervosa è in relazione colle radici sensitive del midollo spinale
e non con quelle motrici; e descrive le loro alterazioni in se-
guito al taglio dei nervi spinali.
ì 235
L'autore ha istituito le sue ricerche nel Laboratorio del
nostro S. C. Prof. Golgi. Ciò è sufficiente malleveria della loro
serietà; i risultati ottenuti sono importanti, e quindi noi non
dubitiamo di proporre la lettura di questa Memoria nella pre-
sente seduta.
A. Mosso.
BizzozeRo, Relatore.
Il Direttore della Classe
ALFONSO Cossa.
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«SIONI OAAVONSICI
SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali.
ADUNANZA del 23 Gennaio 1887. . ....... aa e RY,
Bizzozero — Relazione sul lavoro del Dott. Alfonso CATTANEO: Sugli
organi terminali nervosi muscolo-tendinei in condizioni normali
e sulle loro alterazioni in seguito al taglio delle radici nervose
e-dtbj: mervi spingli 4%; =. su San ava Peg RT TR EE »
298
234
ATTI
R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DECELORENO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 7°, 1886-87
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R, Accademia delle Scienze
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 6 Febbraio 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE PROF. ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, SoBRERO, LESSONA, SALVADORI,
Bruno, BERRUTI, Basso, D’Ovipio, BizzozERo, FERRARIS, NACCARI,
Mosso, SPEZIA, GIBELLI.
Letto ed approvato l’atto verbale dell’adunanza precedente,
il Presidente ricorda con parole di vivo rammarico la inattesa
morte del Socio CurionI. Incarica quindi il Socio BERRUTI di
redigere il discorso commemorativo.
Tra i libri presentati in dono vengono segnalati: 1° il volume
II dei « Melanges mathematiques » del Socio Corrispondente
E. CaraLan; 2° due Memorie del Socio Corrispondente Prof.
Augusto Rini, delle quali una è intitolata: « Stud: sulla po-
larizzazione rotatoria magnetica », e Valtra: « Sui fenomeni
che si producono colla sovrapposizione di due reticoli e sopra
alcune loro applicazioni ».
Viene letta una lettera della Presidenza dell’Accademia di
Scienze ed Arti di Agram, la quale annunzia la commemora-
zione che colà avrà luogo il 14 del mese corrente del centenario
della morte di Ruggero BoscovicH.
Atti RR. Accad, - Parte Fisica — Vol. XXII. 19
238
Le letture si succedono nell’ordine seguente :
IMustrazione della Cyphella endophila Cesati del Dott.
Oreste MarmtiROLO, presentata dal Socio Prof. GIBELLI.
« Nuovi risultati sulle rigate algebriche di genere qua-
lunque », del Dott. Corrado SEGRE, presentati dal Socio Prof.
D’OvipIO.
« Sui Molluschi dei terreni terziarii del Piemonte e della
Liguria; Monografia delle Mitridi » 2° parte, del Socio Prof.
BELLARDI.
Questo lavoro, che fa seguito ad altro dello stesso autore
già prima d'ora pubblicato, viene dalla Classe approvato per
l'inserzione nei volumi delle Memorie.
Vengono pure presentati per la consueta pubblicazione nel
Bollettino annesso agli Atti, i seguenti lavori dell’ Osservatorio
astronomico di Torino, eseguiti dal Professore Angelo CHARRIER:
1. Osservazioni meteorologiche fatte nel 2° semestre del-
l’anno 1886;
2. Riassunti mensili :
38. Diagramma di dette osservazioni per ogni mese;
4, Riassunto annuale.
LETTURE
Illustrazione della Cyphella endophila Cesati ;
del Dott. ORESTE MATTIROLO
Nell'anno 1881, dal compianto Professore Vincenzo Cesati,
ricevevo un interessante fungillo da lui raccolto in Napoli sui
fusti fracidi di PAytolacca divicu Lin., e mi impegnavo a stu-
diarne l'intima struttura a complemento e rettifica della primi-
tiva descrizione datane circa il 1865 dall’illustre autore al n. 1518
della Collezione Rabenhorst « Fungi Europaei ».
Oggi, dopo sei anni, adempio finalmente all'obbligo contratto,
e con animo riverente dedico alla memoria del compianto bota-
nico l'illustrazione della sua Cyphella endophila, nella speranza
che il mio qualunque lavoro possa avere qualche interesse pel
micologo, e servire a far meglio conoscere i confini di un in-
teressante genere di Funghi, di diagnosi difficile per la piccola
dimensione delle specie che lo compongono.
_Il genere Cyphella di cui i membri erano anticamente con-
fusi sotto generi diversi, venne riconosciuto e stabilito da Elia
Fries (1) nel 1823 e da lui posto nell’ordine dei cupulati in se-
guito alle Pezizae, fra le Stictis e le Solenie. Nelle opere po-
steriori lo stesso autore ritolse questo genere dal gruppo delle
Pezizae per porlo prima fra i Funghi Tremellinci (2) e per
classificarlo poi definitivamente, riconosciutone il modo di spori-
ficazione, fra gli Hymenomycetes Thelephorei (3), coi quali con-
cordano tanto i caratteri morfologici quanto la maniera di svi-
(1) E.Fries, Systema Mycologicum, vol.1I, 183. Lund., pag.29 e 201.
(2) E.FRIES, Systema orbis vegetabilis (cit).
(3) E. FRIES, Epicrisis systematis mycologici. Upsal, 1836-38, pag. 566.
_ Hymenomycetes Europaei. Upsal, 1874, pag. 661.
240 O. MATTIROLO
luppo; posizione già riconosciuta naturale da Léveillé (1) (1841)
e conservata ancora dai moderni classificatori (2).
Il Léveillé particolarmente appoggiandosi a che le specie pic-
cole del genere Cantharellus Adans. (C. muscigenus Bull. -
C. bryophilus - O. retirugus Bull.) presentano nella consistenza,
nella struttura, nella stessa disposizione delle spore, molte ana-
logie colle Cyphelle, vorrebbe che queste ultime fossero avvici-
nate al genere Cantharellus (3), dal quale soltanto essenzialmente
differiscono per le lamine e le pieghe imeniali. La sola presenza
di queste è già, a mio avviso, sufficiente carattere per. determi-
nare una separazione netta tra questi due generi (4) e per
mantenere le Cyphelle ad imenio levigato in vicinanza ai Corti-
cium ed alle Thelephore coi quali pure esse presentano comuni
importantissimi caratteri e numerose forme di passaggio.
La Cyphella endophila Cesati, quale si incontra nel Napo-
litano particolarmente sul tessuto corticale dei rami morti e già
fracidi della Phytolacca dicvica Lin. è rappresentata da un fun-
gillo gregario; da una associazione cioè di un numero indeter-
minato di minutissimi individui disposti in serie più o meno re-
golarmente (V. Tav. fig. 1).
Ciascuno di questi individui, tra i quali i meglio sviluppati,
i giganti della specie, non sorpassano la lunghezza di 1 milli-
metro (5) forma un tutto separato, un apparato fruttifero, com-
pleto, proveniente dal micelio (6) continuo, bissoide, feltrato (fra-
(1) LéveiLLé, Espèces nouvelles de Champignons. Ann. Scien. Nat., serie II,
tomo XVI, 1811, pag. 239. -
(2) (. Wintner. RaBenHorsT, Kryplogamen-Flora, Die Pilze, 1 Abth,,
pag. 322.
(3) La parentela tra il genere Cyphella ed il genere Cantharellus è già
d’altronde anche espressa dal Fries nel 1823 (System. Mycol., vol. II, p. 201)
« Genus a forma tv ynpz)n dictum a Pezizis veris certe diversissimum et ad
Pileatos speciatim Cantharellos accedit, praecipu? singulare cupula cernua
unde in hymenio semi-infero mox sporidia Pileatorum more secedunl ».
{4) L’uno dei quali (Cantharellus) ad imenio infero in tutte le specie, l’altro
ad imenio supero (Cyphella), che diventa infero in certi casi, solo perchè il
corpo fruttifero, sviluppandosi, si fa pendulo.
(5) Per quanto mi fu dato conoscere dalle descrizioni nei Manuali di
Micologia, poche Cyphelle hanno dimensioni uguali a quelle della C. endophila
Ces. Le Cyphelle: nivea Fuckel, abieticola Karst., filicina Karst., solenoides
Karst., se hanno press’a poco uguali dimensioni alla nostra, ne differiscono
poi per molti altri riguardi.
(6) Il micelio ha circa 3 microm, di diametro.
ILLUSTRAZIONE DELLA CYPHELLA ENDOPHILA CESATI 241
gile se secco), di color ferrugineo, che si espande e vive sopra i
predetti rami di Phytolacca.
Sviluppo dei ricettacoli fruttiferi. — I corpi fruttiferi della Cyphella
endophila Ces. si svolgono dal micelio (almeno per quanto mi
fu dato osservare non avendo potuto far delle colture) come si
svolgono in generale i funghi a basidil.
Nelle ricerche fatte sopra disparati esemplari (1), nè i fi-
lamenti micelici, nè i giovanissimi stadii iniziali rappresentati da
glomeruli, di ife strettamente intrecciate lasciavano scoprire traccia
alcuna di apparato sessuale o di qualsiasi altra disposizione re-
lativa ad un atto sessuale presumibile.
I glomeruli dapprincipio non lasciano nemmeno scorgere una
regolare disposizione delle ife che li compongono; ma a poco a
poco svolgendosi, e mentre i primitivi fili scuri del glomerulo,
provenienti dal micelio fondamentale, formano il punto basale
del pedicello, si originano da questi nuovi filamenti che si di-
rigono verticalmente in alto disponendosi in modo da formare
una specie di cilindro cavo aperto superiormente (V. Tav.,
fis. 2, 8). Alla superficie interna si forma il tessuto imeniale,
mentre alla parte esterna un’altra serie di elementi dà luogo al-
l'involucro corticale.
I numerosissimi corpi fruttiferi che in questo modo si svol-
gono dal micelio, si dispongono perpendicolarmente al substratum
che li porta, senza contrarre aderenze fra di loro: gli uni agli
altri avvicinati, senza ordine apparente in un numero grandis-
simo, tanto che in esemplari bene sviluppati ho potuto contare
5, 6, 8 individui nel solo spazio di un millimetro quadrato.
I corpi fruttiferi, sono sferici in principio di sviluppo, quindi
si fanno cilindrici muniti di un’apertura superiore, che è con-
tratta, puntiforme nel maggior numero dei casi, ma che non ra-
ramente si presenta anche un po’ allargata (V. Tav., fig. 7).
Il cilindretto di color biancastro (per cui va distinta l’en-
dophila dalle altre congeneri) (2) nella cui cavità si contiene
(1) Oltre agli esemplari ricevuti direttamente dal compianto prof. Cesati
di Napoli, ho esaminato ancora le specie contenute al N. 1513 delle collezioni
RABENHORST « Fungi europaei » esistenti nei Musei botanici di Strassburg,
Roma, Pavia, gentilmente concessimi per esame dai Professori A. De Bary,
R. PiroTTA e P. BaccaRINI.
(2) Per quanto ho potuto osservare, la sola Cyphella solenioides Karsten
{Mycolog. Fenn., pars III. Helsingfors 1876, pag. 325, presenta una forma
242 O. MATTIROLO
l’imenio, va attenuandosi verso la base in un pedicello, da cui
partono numerosi filamenti di color ferrugineo.
Il colore biancastro del complesso delle ife corticanti è dato,
come vedremo, da deposito di ossalato di calce, mentre il co-
lore scuro delle ife esterne del pedicello, proviene dal colore
proprio ai filamenti micelici dai quali ha origine il concettacolo
fruttifero (V. Tav., fig. 5, 0).
Il piccolo cilindretto della Cyphella endophila esaminato alla
lente in principio di sviluppo appare bianco in tutto il tratto
imeniale, ferrugineo invece nel tratto basale; poi il color bianco
del cilindro si fa leggermente roseo per assumere definitivamente
un color biancastro leggermente ocraceo quando lo sviluppo suo
è completo.
Imenio — L'imenio della Oyphella endophila Cesati è para-
gonabile a quello delle altre congeneri (nivea Fuck., villosa Pers.,
ampla Lév., Currey Berk., ochroleuca Berk.) ed ha tutti i ca-
ratteri di quelli proprii alle tipiche Thelephoreae (Hypoenus spec.)
poichè in esso non si incontrano quegli organi particolari cono-
sciuti dai Micologi coi nomi di Cistidii (Lév.), Corpi del Micheli
(Corda) (1) così frequenti invece in molte specie di vicini generi
Corticium Pers., Stereum Pers., Hymenochaete Lév.
L’imenio che tappezza tutta la cavità del cilindretto frutti-
fero (V. Tav., fig. 5, 6, 7) è affatto liscio, formato da uno
strato non interrotto di fili aventi dimensioni alquanto maggiori
di quelli che formano il corpo stesso del fungillo, disposti per-
pendicolarmente all’asse del ricettacolo.
cylindracea vel digitaliformis, mentre in generale tutte le Cyphelle descritte
dagli autori hanno il ricettacolo fruttifero di forma cupulare, campanulata,
sferica o raramente appianata, in molti casi stipitato e pendulo. Per riguardo
alle forme che distinguono le Cyphelle dai generi vicini, potrebbero fra le
Ciphelle ragionevolmente trovar posto alcune specie annoverate finora fra i
Corticii, e fra queste il noto Corticium amorphum Pers.
(1) Borsten, Haarbildungen, De Bary, Morph. Biolog. der Pilze, 1884,
pag. 327. WinTER, loc. cit., pag. 318. LéveiLLé, loc. cit., volume V, serie III,
pag. 150; II serie, tom, VIII, ecc. A questi elementi che impropriamente sono
conosciuti sotto il nome di Cistidi, finora fu accordata poca attenzione. Studi
particolari da me fatti in proposito (e non ancor compiuti), mi convinsero
dell’interesse grandissimo che potranno avere questi organi, particolarmente
in riguardo alla distinzione delle differenti specie di questi generi così uni-
formi nella loro struttura
4
lia=Tori
ola» lorino
1Ss
val
dis
OLO
5
4
fatti T
x
ILLUSTRAZIONE DELLA CYPHELLA ENDOPHILA CESATI 243
I basidii non differenziati nell’imenio e tra i quali non è
dato osservare distinte parafisi (come si osserva in molte altre
Thelephoreae pure mancanti dei veri corpi del Micheli (cist/d%1)
(Corticium ad es.) tappezzano tutta la cavità del cilindretto e
portano, come nelle altre Cyphelle descritte, quattro spore sopra
quattro distinti sterigmi (V. Tav., fig. 9).
Spore. — Le spore (1) sono numerosissime e riempiono quasi la
cavità imeniale. Hanno forma presso a poco ovoidea con apice
appuntato, mediante il quale stanno in continuazione collo
sterigma.
La loro colorazione ocraceo-subferruginea (V. Tav., fig. 8)
è diversa assai dalla colorazione propria alle spore delle altre
Cyphelle. Le dimensioni desunte dalla media delle misurazioni
variano da 7 a 9 micromillimetri nell’asse longitudinale maggiore ;
e sono di 5 a 6 microm. nell’asse trasversale maggiore incrociato
col primo.
Le spore sono munite di episporio resistente e nelle sezioni
si staccano facilmente e scorrono nel liquido del preparato.
La struttura descritta, ed i basidii tetraspori, escludono quindi
completamente il dubbio espresso dal Cesati con queste parole (2)
Num sub ipso lateat quaedam Peziza Tapesia Autorum quis
mihi dicet? e resta così dimostrata ed assicurata la posizione
da assegnarsi alla Cyphella endophila Ces.
Strati subimeniale e corticale» — Mentre lo strato subime-
niale non presenta all'esame alcunchè di particolare (V. Tav.,
fig. 5, 6, 7) essendo, come nel maggior numero di funghi for-
mato dallo intreccio dei filamenti che vanno ai basidii, lo strato
corticale invece lascia scorgere particolarità (meno evidenti in
altri congeneri) che meritano qualche parola di menzione.
Le ife, che formano la parete del cilindretto, decorrono lon-
gitudinalmente, continuandosi con quelle del pedicello e mentre
le più interne vanno a costituire l’imenio, le più esterne ser-
randosi strettamente come le prime l’una contro all’altra, for-
mano così la corteccia del ricettacolo, nella quale già durante
i primi stadii di evoluzione, si osservano depositi di ossalato di
(1) Trovai solamente descritte due specie di Cyphelle a spore lutescenti
l’una (C. digitalis Alb. et Schwein), a spore brune l’altra (C. muscicola Fr.).
(2) RaBENHORST, Fungi Europaei (Exic.), N. 1513). ®
21°: SUINI O. MATTIROLO
calce, che vanno ivi aumentando sino a che il fungillo abbia
raggiunto il suo completo sviluppo (V. Tav., fig. 5, 6, 7).
L’ossalato di calce al quale in parte si deve il colore bian-
castro opaco proprio al ricettacolo fruttifero, sì trova quivi sotto
due forme; sotto l'aspetto di granulazioni cioè, e di aggregati
cristallini irregolari cristallograficamente male definiti, i quali (de-
positati nelle ife superficiali o fra di esse) costituiscono un in-
volucro esterno al cilindretto; involucro che troviamo abbozzato
in altre specie (C. nivea Fuck.) ma che qui (nelle sezioni spe-
cialmente) (1) si dimostra evidentissimo (V. Tav., fig. 5, 6,
# 03 Ci
Dalla superficie esterna ricoperta così dal deposito cristal-
lino, sporgono a mo’ di peli numerosissime le terminazioni dei
filamenti micelici rigonfiati, clavati alla loro estremità (V. Tav.,
fig. 4) aventi la superficie ricoperta, granulata pel deposito di
numerosi granuli diversamente sviluppati di ossalato di calce.
Questi peli, più o meno numerosi che un po’ diversamente
foggiati, in generale si incontrano in quasi tutte Je specie del ge-
nere (2), dànno alla superficie esterna del cilindretto fruttifero della
Cyphella endophila Ces. un aspetto villoso che concorre a con-
ferire al fungillo quel particolare colore ocraceo non splendente
che gli è proprio.
La Cyphella endophila Ces. la cui descrizione può adattarsi
(fatte poche varianti particolarmente in riguardo alla forma ed
alle dimensioni) (3) a tutti i rappresentanti del genere, trove-
rebbe posto naturale fra le specie caulicole minime, in vicinanza
alla O. nivea di Fuckel e alla vi0losa di Persoon, dalle quali
mentre conserva importanti caratteri comuni, va esattamente
distinta.
Regio Orlo Botanico di Torino,
6 Febbraio 1887.
(1) Nelle figure i depositi di ossalato di calce sono riprodotti in scuro.
(2) Come nella C. nivea Fuck., Currey Berk., villosa Pers., e in molte
altre; e non mancano anche nel gen. Corticium.
(3) Mentre quasi tutte le Cyphelle hanno dimensioni minime, troviamo
alcune specie che fanno eccezione alla regola generale; ad. es. la C. digitalis
Alb. et Schwein. può raggiungere anche 12 cent, mentre la C. infundibuli-
formis Fries. e la C. Rubi Fuck. hanno dimensioni di circa 7 centimetri.
[N°
ILLUSTRAZIONE DELLA CYPHELLA ENDOPHILA CESATI 45
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA
_———TCrETETZ__ErC—_.T__T_Cr__- -
Fia. 1. Aspetto generale della Cyphella endophila Cesati. — Le
punteggiature indicano i ricettacoli fruttiferi.
> 2. Giovane ricettacolo in via di sviluppo (ingrand. circa 40).
» 3. Cyphella endophila Ces. matura (ingrand. id.).
» 4. Filamenti con granulazioni di ossalato di calce sporgenti
dalla superficie esterna del cilindretto fruttifero (in-
grandimento circa 450).
>» 5. Particolari della sezione trasversale della porzione imeni-
fera. I. Imenio sul quale si osservano i basidii,
S. Strati subimeniale e corticale. 0. Depositi di os-
salato di calce.
(Ingrand. circa 450).
» 6. Sezione trasversale della porzione imenifera.
H. Imenio. — Ss. Spore.
O. Filamenti con granulazioni di ossalato di calce.
C. Cristalli (deposito di).
T. Tessuto subimeniale.
(Ingrand. circa 100).
» 7. Sezione longitudinale del ricettacolo intero. P. Filamenti
scuri basali. (Spiegazione delle parti c. s. ingrand. c. s.)
>» 8. Spore (ingrand. 450 circa).
» 9. Basidio tetrasporo (ingrand. circa 750).
246 ‘ CORRADO SEGRE
Nuovi risultati sulle rigate algebriche di genere qualunque ;
di CorRAaDO SEGRE
“In una memoria intitolata echerches generales sur les
courbes et les surfaces reéglées algebriques, che verrà pubbli-
cata nei Mathematische Annalen, mi sono occupato, per quanto
riguarda le rigate algebriche di genere p di qualunque. spazio,
di alcune questioni generali che per i casi di p=0 e p=1
avevo già risolto in lavori sulle rigate razionali ed ellittiche com-
parsi negli Atti di quest'illustre Accademia (vol. XIX e XXI).
Mi pare perciò opportuno l’enunciare qui brevemente alcuni dei
principali risultati ottenuti, tanto più che ragioni di salute mi
fanno ritardare la pubblicazione della suddetta memoria.
In questi enunciati le rigate considerate si suppongono sempre
di genere p e di ordine n non minore di 4p; questa restri-
zione non è sempre necessaria, come si vedrà in quella memoria;
qui la faccio solo per semplificare gli enunciati. oltre supporrò
sempre esclusi i coni.
1. (Le rigate di genere p > 0 appartenenti ad S, _p 41 SONO
coni). — Le rigate di genere p>1 appartenenti ad S, _, hanno
una retta direttrice doppia. — Le rigate di genere p>2 ap-
partenenti ad S,_p-1 hanno una conica doppia, oppure una
retta direttrice doppia 0 tripla, od infine (se p=3) una curva
semplice piana del 4° ordine. — E così via.
2. In generale: Una rigata appartenente ad S,_p-i+1
dove 0 <i<p, contiene sempre una curva direttrice apparte-
nente ad un S,, dove h<i, e il cui ordine (tenendo conto
della sua multiplicità) è =i+h. — Se 2i=p e quella curva
è semplice, 1 moduli di tale rigata non possono essere gene-
rali. — Nel caso più generale che possa presentare tale rigata,
cioè quando i+ 1 qualunque delle sue generatrici sono indi-
pendenti, si ha h=i e la rigata è iperellittica, avendo per
RIGATE ALGEBRICHE DI GENERE QUALUNQUE 247
curva direttrice doppia una curva razionale normale d’ordine
i appartenente ad un S;. Va solo eccettuata la rigata appar-
tenente ad S,_:,+:, cioè il caso estremo di i=p— l: per
tale rigata il caso più generale è quello in cui vi sia una
curva direttrice semplice di genere p e ordine 2p—-2 appar-
tenente ad un S,_
3. Le rigate appartenenti ad S,_.p+1 danno colle loro
proiezioni tutte le rigate d’ordine n, genere p degli spazi in-
feriori.
Questa proposizione riduce lo studio delle rigate appartenenti
a spazi inferiori, per esempio di quello dello spazio ordinario,
specialmente per quanto riguarda la geometria delle curve trac-
ciate su esse, a quello delle rigate appartenenti ad S,_.,41-
Citerò qui soltanto la seguente conseguenza:
5% | i Va dh
4. Ogni rigata contiene curve direttrici d'ordine = — og”
oi
Le curve minime delle rigate d'ordine » e genere p danno
col loro ordine un nuovo criterio di classificazione di queste. Nel
caso più generale, a seconda che n+p è pari od impari, le
1
curve minime sono oo curve d'ordine ovvero un certo
nei
numero finito di curve d’ordine 9
pd, t20vale-risp.:172,4) (*).
(numero che per
Tralascio per brevità risultati relativi a quelle particolar:
rigate che contengono due curve i cui ordini »,7' sono tali che
mm =n.
Torino, Gepnaio 1887.
(*) Pei conì di genere p ed ordine n> ?2p—2 le curve minime sono una
o0—-p+! lineare di curve d’ordine n. In un tal cono vi sono poi. on-p+5
curve d’ordine n+1| eduna tal curva è individuata dandone n—p +? punti
qualunque e la generatrice del cono che le è tangente nel vertice.
248 A. CHARRIER
Riassunto delle osservazioni meteorologiche fatte nel secondo
semestre dell’anno 1886, nell’Osservatorio astronomico di
Torino, dall’Assistente Prof. A. CHARRIER.
Luglio 1886.
Ta media delle pressioni barometriche osservate in questo mese
è 37,17, di poco differente dalla media delle pressioni osservate
in Luglio negli ultimi vent'anni. — Le variazioni della pressione
non furono numerose e generalmente furono lente. — Il quadro
seguente dà i valori massimi e minimi della pressione.
Giorni del mese. Massimi. Giorni del mese. Minimi.
3. QI 43,87 | plz 80,98
Ttime duci: 42,98 dir i 30,96
Ma 00 AI LA a 27,50
3 roth 41,683
La temperatura ha per valor medio + 24°,0, uguale al
valore medio della temperatura di Luglio dello scorso ventennio.
— Le temperature estreme + 15°,7 e 4 32°,5 si ebbero nei
giorni 1 e 20.
Otto furono i giorni con pioggia, e l’altezza dell’acqua ca-
duta fu-di mm. 22,0.
Il seguente quadro dà la frequenza dei venti nelle singole
direzioni.
NO ONNE NE FENE E ESE SR SSE S SSW SW WSW W WNW NW NW
{017 32 {0 10-4 26068 1 4°C
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE 249
Agosto 1886.
La media delle altezze barometriche osservate in questo mese
è 37,08; essa supera di mm. 0,33 la media delle altezze ba-
rometriche osservate nell'ultimo ventennio. — Le altezze estreme
osservate sono contenute nel seguente quadro.
Giorni del mese. Minimi. Giorni del mese. Massimi.
il PI INN ARIE 33,59 e cata, 43,01
E O 31;74 ber: 39,50
11 LE 33,39 Pelati oa 38,34
0) RIOT 32,12
La temperatura variò fra + 29°,9 e +14°,9: temperature
avute nei giorni 11 e 18. -- Il valor medio + 22°, 3 è infe-
riore di 0°, 4 al valor medio delle temperature osservate in Agosto
negli ultimi vent'anni.
Dodici furono i giorni con pioggia, e l’acqua raccolta nel
pluviometro raggiunse l'altezza di mm. 85,4.
Il quadro seguente dà la frequenza dei venti.
N ONNE NE ENE E ESE SE SSE
daei
SSW SW WSW W WNW NW NW
34:53 40-77 i
$
bero gegio dea e)
Settembre 1886.
La pressione barometrica ha in questo mese per media 39,87,
che supera appena di mm. 0,08 la media delle pressioni ba-
rometriche osservate in Settembre nell’ultimo ventennio.
Le pressioni estreme osservate sono date dalla seguente ta-
bella:
Giorni del mese. Massimi. Giorni del mese. Minimi.
3 RIVIERA 42,99 ER e 94,89
dis n sd 44,35 IA dra. 29,26
250 A. CHARRIER
La temperatura in questo mese ha per media + 20°,1; essa
supera di 1°,3 la media temperatura di Settembre degli ultimi
vent'anni. — La massima temperatura + 28°,4 si ebbe nei giorni
1 e 2; la minima + 11,1 nel giorno 28. — Dieci furono i
giorni con pioggia, e l'altezza dell’acqua caduta fu di mm. 65,1.
Il seguente quadro dà la frequenza dei venti nelle singole
direzioni.
NO NNE NE ENE E ESE SE SSE S SSW SW WSW W WNW NW NW
QU FF 2.40 han 7 13 eo
Ottobre 1886.
In questo mese le altezze barometriche osservate hanno per
valor medio 38,11; valore che supera di mm. 1,05 il valor
medio delle altezze barometriche osservate in Ottobre negli ul-
timi vent'anni. — I valori massimi e minimi osservati sono i
seguenti :
Giorni del mese. Mimi. Giorni del mese. Massimi,
i RE DISCO AU - CINE 43,81
en 95,83 12-00 41,41
i e: SO | 34,68
Wo VO 18,68 20 e 38,73
PI) IRNERIO 32,00 DR 47,07
MEO A DIZT dI9 ae 48,80
La temperatura massima 4 23°, 0 si ebbe nel giorno 3; la
minima + 5°,7 nel giorno 17. — 11 valor medio della tempe-
ratura +13°,8 supera di 1°,1 il valor medio delle temperature
osservate in Ottobre negli ultimi vent'anni.
Si ebbe pioggia in tredici giorni e l’acqua caduta raggiunse
l’altezza di mm. 178.
Nel seguente quadro è registrata la frequenza dei singoli
venti.
NO NNE NE EVE E ESE SE SSE S_ SSW SW WSW Wo WNW NW NNW
10.12.23 3 Sd DL VET Se
OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE 251
Novembre 1886.
La pressione barometrica media di questo mese è 37,98;
superiore di mm. 0,98 alla media pressione di Novembre degli
ultimi vent'anni. — Essa ebbe variazioni abbastanza considerevoli,
che si possono rilevare dal quadro che segue:
Giorni del mese. Minimi. Giorni del mese. Massimi.
er. 45,03 Dr E, 47,26
(SES TER 29,98 Son, 32,45
DR; CASA, atene: 35,05
Nerd: e; 29,49 POR re 41,90
ZERI o: 37,80 PI, ARS RR LO
PIA (8 CY A AR PRE 39,84 DO cede, 47,89
La temperatura media + 7°,4 supera di 1°,1 la media della
temperatura di Novembre dello scorso ventennio. — La tempera-
tura massima -+14°,4 si ebbe il giorno primo del mese; la
minima — 0°,3 il giorno 26.
Si ebbero dieci giorni piovosi, e l’altezza dell’acqua caduta
fu di mm. 94,2.
La frequenza dei venti è data dal seguente quadro:
NONNE NE RENE E ESE SE SSE S SSW SW WSW W WNW NW NNW
SAMO A OT e 0 9 20, ROSI
#
Dicembre 1886.
Le altezze barometriche osservate hanno per media 33,19.
Questo valore è inferiore di mm. 4,19 alla media delle altezze
barometriche osservate in Dicembre negli ultimi vent'anni.
Molte furono le variazioni dell’altezza barometrica, ed alcune
anche considerevoli, come si può scorgere dalla tabella seguente:
Giorni del mese. Minimi. Giorni del mese. Massimi.
PL RN VARO 24,54 SE 39,82
a e 27,20 RR i!
Sei 18,10 | PESTE RR 38,68
DIE dS:28 LA RN 38,79
Woo 25049 1 SRI a RO 86,04
Za di < 19,46 22 ST,17
Med lho SO 26 40,85
252 A. CHARRIER - OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE
La temperatura massima + 8°,3 si ebbe nel giorno 13; la
minima — 7°, 3 nel giorno 28. — La media +2°,2 è infe-
riore di 0°,3 alla media temperatura di Dicembre degli ultimi
vent'anni. —- Si ebbero otto giorni piovosi ed uno con neve.
L'acqua caduta raggiunse l'altezza di mm. 33,8.
1l quadro seguente dà la frequenza dei venti.
NONNE NE ENE E ESE SE SSE S SSW SW WUSW W WNW NW NNW
3 W.lé e 1 0. È 0 6.416 0 dea
Il Direttore della Classe
ALvronso Cossa.
SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali.
ADUNANZA del 6 Febbraio 1887... . . i... Pag. 237
MarriRoLo — Illustrazione della Cyphella endophila Cesati . . .. » 239
Segre — Nuovi risultati sulle rigate algebriche di genere qualunque » 246
CÒargiER — Lavori dell’Osservatorio astronomico di Torino... » 248
N. B. La Tavola che accompagna la Memoria del Dottore
O. MaTtTIROLO, pag. 239, si pubblicherà in una pros-
sima dispensa.
— __T__
ATTI
R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DI TORINO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 8°, 1886-87
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R, Accademia delle Scienze
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 20 Febbraio 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO PROF. ARIODANTE FABRETTI
VICEPRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, LESSONA, SALVADORI, BRUNO,
Basso, D’Ovipio, Bizzozero, FERRARIS, NACCARI, SPEZIA, GIBELLI.
Si legge l’atto verbale dell'adunanza precedente che viene
approvato.
Tra i libri presentati in dono vengono segnalati i seguenti:
1° « Bibliotheca mathematica » pubblicata da Gustavo
Ernestròm, Stoccolma, 1886 ;
2° « Rassegna dei Milabridi della Fauna europea e
regioni finitime, per Flaminio BAUDI » ;
3° Diversi opuscoli del Dott. F. SAcco, fra cui il se-
guente: « Nuove specie terziarie di Molluschi terrestri d’acqua
dolce e salmastra del Piemonte ».
Le letture si succedono nel modo che segue:
« Determinazione della latitudine della stazione astro-
nomica di Termoli, mediante passaggi di stelle al piano ver-
ticale » : Nota del Dott. F. PorRo, presentata dal Socio Cossa
a nome del Socio SIaccI.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 20
f
e" “ga
SC ECONOMATO. si
@ TORINO
254
« Sulla fusibilità dei minerali ». Nota del Socio SPEZIA;
« Studio geologico dei dintorni di Voltaggio » ; del Dott.
F. Sacco, presentato dal Socio SPEZIA.
« Sopra due punti della « Theorie der bintiren algebrai-
schen Formen » del CLeBscH; Nota del Socio E. D’OvIpio.
« Integrazione per serie delle equazioni differenziali li-
neari ». Nota del Dott. Giuseppe PEANO, presentata dal Socio
D’ Ovipio.
« Una questione di ottica ed un apparecchio per raddriz-
zare le immagini nei cannocchiali terrestri » ; Nota del Pro-
fessore N. JADANZA, presentata dal Socio NACCARI.
255
LETTURE
Determinazione della Latitudine della Stazione Astronomica
di Termoli mediante passaggi di Stelle al primo verticale;
Nota di FRrANcESco Porro
La presente determinazione, eseguita mediante osservazioni
di passaggi di stelle al primo verticale, forma parte di una serie
di operazioni ordinate nell'autunno 1885 dalla Commissione
Geodetica Italiana, allo scopo di fissare astronomicamente il
punto più boreale italiano dell'arco di meridiano che da Capo
Passaro corre attraverso a tutta l’Europa, ed è oggetto precipuo
degli studii e delle misure che sì istituiscono dall’ Associazione
Internazionale per la misura dei gradi dell'Europa Centrale.
A tali operazioni io partecipai per incarico del prof. G. V. Schia-
parelli, direttore dell’Osservatorio Reale di Milano; ed ebbi la
fortuna di dipendere in quell’occasione dal dottor Michele Rajna,
astronomo dell’Osservatorio medesimo, il quale, colla sua singo-
lare perizia in siffatto genere di lavori, cooperò non poco al
felice esito dell’opera mia.
Lo strumento da me adoperato è il notissimo trasportabile
di Repsold a cannocchiale spezzato, appartenente alla Commis-
sione Geodetica Italiana, ed indicato con (C) nell’ « Elenco degli
strumenti posseduti od utilizzati » dalla predetta Commissione (1).
Sono ormai tante le operazioni cui tale ottimo istrumento ha
servito, che reputo assolutamente inutile ripeterne la descrizione,
data più volte nelle Pubblicazioni della Commissione dai pre-
cedenti osservatori. Il reticolo constava di 21 fili di ragno, a
gruppi di tre ciascuno, simmetrici rispetto al filo di mezzo, ed
illuminati da una lampada ad olio, sospesa all'asse di rotazione
dell’istrumento, sul braccio opposto all’oculare.
L’istrumento era collocato sopra un robustissimo pilastro in
(1) Allegato B al processo verbale delle sedute della Commissione Italiana
per la misura dei gradi, tenutesi in Firenze il 14 e 15. giugno 180.
256 FRANCESCO PORRO
muratura, costrutto da alcuni soldati del Genio, sotto la dire-
zione del Dott. Federigo Guarducci, ingegnere geografo all’Isti-
tuto Geografico Militare, il quale fece pure la riduzione dal
centro di questo pilastro, sorgente nel mezzo di una vasta cam-
pagna, al segnale trigonometrico sulla vecchia torre di Termoli,
distante dalla nostra stazione 284,51 metri verso NNW.
Il valore di una parte del livello fu determinato rigorosa-
mente dal dottor Rajna e da me nell’anno stesso delle - osser-
vazioni, sopra un eccellente esaminatore dei livelli, costrutto dal
signor Leonardo Milani sul modello di Pulkova, e collocato alla
Specola di Brera, sopra una robusta mensola di granito infissa
nel muro della sala dei quadranti murali. Queste misure, che
concordano abbastanza con quelle fatte negli anni precedenti
dallo stesso Rajna, dal professore Celoria e dal signor Struve,
diedero i seguenti risultati:
Data, Valore di una parte. Lunghezza della Bolla, Temperatura centigr.
12-22 febbraio led o) AIR SE
18 aprile 1 ,5540 38,4 + 12,8
27-28 luglio 1 ,5015 MAO, + 26,0.
Rappresentando questi valori colla formula
_a+b(1—359,0),
il dottor Rajna trova i seguenti valori delle costanti a e d, e
dei loro errori probabili :
a= 1",5300+0,0043
b= +0 ,0046+0,0008.
Nel corso delle osservazioni di latitudine, dal 3 al 28 di
ottobre, la temperatura si è sempre mantenuta regolare, benchè
le condizioni atmosferiche abbiano presentato cambiamenti no-
tevoli; nelle ore notturne, la lunghezza della bolla, desunta
dalle livellazioni, oscillò sempre fra 35 e 38 parti. Ho creduto
quindi conveniente adottare un valore unico per tutte le osser-
vazioni, e cioè il valore
SÌ
3
Ut
a)
=
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 257
corrispondente alla lunghezza media 36,5 della bolla. Tale nu-
mero è indubbiamente molto preciso, nè le massime escursioni
della temperatura possono averlo aumentato o diminuito di una
quantità superiore ad alcuni millesimi di secondo. D'altra parte,
ebbi cura nel corso delle operazioni di tenere la inclinazione
dell’asse piuttosto piccola, e di far sì che la somma totale delle
inclinazioni positive osservate non differisse molto da quella delle
inclinazioni negative, come dimostrano i seguenti numeri:
Somma delle inclinazioni positive. = 30,562
Somma delle inclinazioni negative = 23 ,407.
La differenza è di soli 7' 155, che ripartita sopra trenta-
cinque osservazioni, non avrebbe alcun effetto, anche ammesso un
errore nel valore di una parte.
Il livello fulasciato permanentemente appeso all’asse orizzontale
di rotazione dell’istrumento, e fu letto con molta frequenza durante
le ore di osservazione. Si è preferita l'inversione dell’ asse al-
l'inversione del livello per le ragioni esposte dal dottor Rajna
nella sua Determinazione della latitudine degli Osservatorit di
Milano e di Parma (1), avendo anche la pratica successiva
di differenti osservatori confermata la superiorità di quel metodo
sull’antico. Non meno di quattro letture del livello si eseguirono
col cannocchiale puntato a ciascuna stella; una cioè prima, l’altra
dopo il passaggio a ciascun verticale: e nel caso di stelle assai
vicine al zenit l'osservazione più lunga, ed il passaggio più lento
della stella fra i fili permisero sempre di sorvegliare le possi-
bili variazioni accidentali di questo elemento, mediante letture
intermedie. Nè si ommise l’altra precauzione raccomandata di
invertire una volta la posizione dei guanciali, sui quali riposa
l’asse di rotazione, di guisa che il guanciale che in una parte
delle osservazioni era al Nord, si trovò poi al Sud e viceversa.
Questa inversione fu eseguita il giorno 11 ottobre, cosicchè 19
stelle furono osservate nella prima, 16 nella seconda posizione
dell’istrumento.
Ecco ora i risultati desunti da tutte le letture, donde ap-
pare il regolare andamento e la sempre limitata grandezza del-
l’inclinazione durante tutto il corso delle operazioni.
(1) Pubblicazioni del R. Osservatorio di Brera, n. XIX, pag. 5.
©
FRANCESCO PORRO
OD
a)
I periodi nei quali è divisa ogni sera sono determinati dalle
inversioni; ed è bene avvertire che seralmente si fece al prin-
cipio ed al termine delle osservazioni un'inversione per il livello.
258
*QJEUOZzi1o Asse jap IOIZEMIJDUI A][op 0Ipend)
8822 07 9°3 «
cog' Ba |09°8 8‘I <
Toga (ET S'I «
Ugo De El L°6G < PO 0—- oi,
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106 04 EF Lt « (0% 201°) i 6°I
060° Lt | 0°7 QI Tz sIqQONO | EL T- pP'eEc
mos ge 8% 03 « Spa: di- 0°
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179 3 183 LT 91900 | 9F6° 0— SR ela
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Sol ate | cei « po = 0°I
eee | SR'6E O IGN | DI 05, PARI
QUOIZBUI]OU] | 210 TV e} e] QUOIZEUI[]DU] | 210 O[[W | 9.10 J[?(
«
«
9100730
«
9100730
.
9100330
«
«
9100710
«
«
21909Y0
“eq
Dai numeri contenuti nell'ultima colonna del quadro prece-
dente, ho dedotto le inclinazioni spettanti a ciascuna stella, e
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 259
le ho introdotte nel calcolo della latitudine risultante da cia-
scuna.
Quanto agli altri errori istrumentali, ho potuto riconoscere
che la loro influenza non è sensibile sopra la latitudine; e ciò
emerge facilmente dall'assenza di un andamento qualsiasi nelle
latitudini dedotte dalla medesima stella a diversi fili, e dai con-
fronti fra sera e sera. Per ottenere la maggior esattezza possi-
bile, ho applicato a tutte le latitudini la correzione suggerita
dall’Albrecht (1);
de=—0,000273 d°cosg sind sec(0—0),
4
dove d rappresenta la differenza, espressa in secondi di tempo,
fra l’angolo orario della stella sul filo di mezzo a verticale est
ed a verticale ovest.
Il dottor Rajna volle ‘che io seguissi il metodo di Bessel,
anzichè quello di Struve, per avere la possibilità di compiere
un numero maggiore di osservazioni in tempo relativamente più
breve. Potei così osservare quasi tutte le stelle a 21 fili: ma
ciò non aggiunse grande precisione ai risultati, avendo io otte-
nuto valori egualmente buoni della latitudine da stelle osservate
ad un numero assai minore di fili. È quindi erroneo, a creder
mio, il basare sull’accordo dei fili la determinazione dell’error
probabile del risultato, ed illusoria la estrema riduzione che
tale errore subisce sopra una massa abbastanza grande di os-
servazioni.
Fu mia cura di alternare le inversioni, in guisa che una
medesima stella non fosse osservata sempre nella medesima po-
sizione del circolo: così se una stella era osservata una sera a
circolo nord, verticale est, circolo sud, verticale ovest, cercai
possibilmente di osservarla un’altra sera nelle posizioni opposte
del circolo, sempre quando ciò non risultasse di danno ad altre
più efficaci precauzioni. Il numero delle osservazioni a verticale
est circolo nord è di 16, e di 19 quello delle osservazioni a
verticale est circolo sud.
In ogni caso si è invertito lo strumento fra l’ osservazione
a verticale est e quella a verticale ovest; tutte le osservazioni.
nelle quali non si avesse la stella osservata ai medesimi fili in
posizione invertita nei due verticali, furono respinte. Respinsi pure
(1) Astronomisch-Geoddtische Arbeiten in den Jahren 1881 und 1882.
260 FRANCESCO PORRO
due osservazioni troppo discordanti dalla media, avendole rico-
nosciute erronee per cause perturbatrici notate nel registro d’os-
servazione.
I passaggi furono sempre stimati col metodo della vista e
dell’udito, prendendo il tempo sopra un buon cronometro Frodsham
di proprietà della Commissione, che era ogni sera almeno due
volte confrontato direttamente col pendolo, collocato nella casa
di abitazione adiacente alla stazione astronomica. Essendosi adot-
tato il metodo di Bessel, era necessario che l'andamento di questo
pendolo fosse rigorosamente conosciuto; ed a ciò provvide il
dottor Rajna, con una serie numerosa di osservazioni ad un istru-
mento universale di Repsold, collocato nel verticale della stella
polare. In ogni determinazione del tempo furono osservate almeno
due stelle orarie, una in ciascuna posizione del circolo; e si passò
dai tempi del cronometro a quelli del pendolo mediante con-
fronti cronografici, contemporanei alle osservazioni. In base al-
l'andamento del pendolo così riconosciuto, si dedusse la corre-
zione del pendolo stesso, e quindi quella del cronometro per
ciascuna delle comparazioni dirette o cronografiche dei due oro-
logi. E poichè tali comparazioni erano abbastanza numerose, non
fu difficile ricavarne la curva rappresentante l’andamento degli
errori del cronometro sera per sera, dalla quale si dedussero con
srande precisione le correzioni corrispondenti ad ogui ora intiera.
La determinazione di latitudine si basa sopra 35 osserva-
zioni di 13 stelle; e se il numero di queste può sembrare so-
verchio, mentre altri osservatori avrebbero preferito accumulare
le osservazioni sopra un numero minore di stelle, io credo che
il metodo da me seguito abbia giovato a rendere più esatto il
risultato finale, diminuendo le incertezze dovute ai valori delle
declinazioni adoperate. Naturalmente i materiali incompleti ed
eterogenei dei quali ho dovuto appagarmi per dedurre queste
coordinate, e fors'anche la disgrazia di essermi imbattuto in pa-
recchie stelle non bene determinate, e dotate di un forte moto
proprio, mi hanno obbligato a presentare parecchi risultati non
troppo sicuri; ma non è da ritenersi che questi possano eser-
citare un'influenza veramente dannosa sul risultato finale.
Tre di queste stelle, y Andromedae, o Andromedae e 6 Perse,
appartengono al Catalogo Fondamentale di Auwers (1), del quale
‘1) Publicationen der Astronomischen Gesellschaft, n. XIV.
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 261
è riconosciuta l’indiscutibile superiorità sugli altri consimili, risul-
tanti dalla discussione di Cataloghi di Osservazione (Boss, Safford) ;
ne dedussi perciò immediatamente l’ascensione retta e la decli-
nazione apparente per le sere d’osservazione dalle Effemeridi
pubblicate nel Berliner Astronomisches Jahrbuch per il 1885,
al Capitolo: Mittlere und Scheinbare Stern-Oerter, applicando
solamente alle declinazioni la correzione dovuta ai piccoli ter-
mini lunari di corto periodo, dei quali era sensibile 1’ influenza
sulla seconda, e talora anche sulla prima cifra decimale.
Non così facile fu la determinazione dei luoghi apparenti
occupati dalle rimanenti 10 stelle: 23 Andromedae, v Andro -
medae, 39 Andromedae, v Andromedae, 7 Andromedae, 55 An-
dromedae, 727 BAC, 12 Persei, 1305 BAC e 16 Lacertae.
Quanto all’ascensione retta, necessaria col metodo di Bessel per
il calcolo degli angoli orarii, ritenni sufficientemente esatto de-
durla da quella data nel primo catalogo di Radcliffe (1845).
Ottenni così le ascensioni rette medie per il 1885,0, e le ap-
parenti per le singole sere d’osservazione, che risultano dal quadro
seguente:
Ascensioni rette delle Stelle fondamentali.
y Andromedae * | 6 Persei
1885,0 Tron 0548" 38850, 3097412279
Ottobre 4 bb 22) Oitobrex 21 46,15
» 5 Be, ki lei S099 46,17
» 6 95,20
» 8 99,90
» 23 55,46
o Andromedae
1885,0 22° 56% 375,862
Ottobre 4 41,80
pio st6 41,67
catia: 41,66
x Udo 41,57
262 FRANCESCO PORRO
Ascensioni rette delle Stelle di Radcliffe I.
| |
* AR 1845,0 | AR 1885,0. | AR apparente
|
23 Andromedae | 0% 5° 28655 | 0% 7%32°,71 | Ottobre 17 0% 737,02 |
v Andromedae | 0 41 17,05) 0 43 28,28] » 3 0 43 32,76
| Prg > 32,77
Sl 32,78
8
39 Andromedae | O 54 12,73 056 .26.831|, > dr ROS 43
v Andromelae | 1 27 43,24] 130 3,54/| » 3.130 8,14
> 16 8,27
». 22 8,91
7 Andromelae| 1 31 27,06 1 33 47,52| » 6 1 33 52,12
n= 5 52,14
pesg 52,22
Bed 52,22
Met; 22 52,26
| 95 Andromedae | 1 44 0,92 1 46 23,73 | >». da d 46 28032
Prati: 28,34
(iN9)
fel
[ta |
ns
find
DO
00
Est
(R2ZIBAO ‘2 1312786 >» 3 2 15 45,81
è
[12 Persei ‘| 2 32. 29.14| 2 34 5955] Sali
|1305 BAC| 4 7 25,36 410 10,55 UU SA 40106
22 51 12,92
CO
|
|
|
| 16 Lacertae 22 49 19,65 | 22 51 8,65 »
|
|
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 263
Di gran lunga maggiore è il grado di esattezza che mi sforzai
di raggiungere nelle declinazioni apparenti delle stelle, perchè
un errore di queste si porta per intero sulle latitudini, e non
può essere in verun modo eliminato. Scelsi pertanto per ciascuna
stella i valori della declinazione dati dai più importanti cata-
loghi, e trasportai colla precessione annua rigorosamente calco-
lata tutte le declinazioni all’epoca media 1885,0, tenendo conto
del termine dipendente dalla terza potenza del tempo, nell’ap-
plicare le posizioni determinate innanzi al 1810. Poscia ridussi
tutti i valori così trovati al sistema medio di Auwers, e da
questo a quello del Catalogo Fondamentale, che è pur quello
del Catalogo di Pulkova, 1865, applicando le correzioni siste-
matiche date dallo stesso Auwers nel volume LXIV delle Astro-
nomische Nachrichten e nell’introduzione al Catalogo Fonda-
mentale (1). Avendo così ottenuto per ciascuna stella un sistema,
per quanto è possibile, uniforme di declinazioni, determinate a
molti anni di distanza, ne dedussi il valore più probabile della
declinazione 1885,0 e del moto proprio, risolvendo per ciascuna
stella col metodo dei:minimi quadrati un sistema di equazioni
della forma
òo=x— (1885,0—t)y,
dove 0 è la declinazione 1885,0 da me desunta come dissi
precedentemente, x la declinazione più probabile risultante dal-
l'insieme dei cataloghi, y il moto proprio annuo, e # l’epoca
media delle osservazioni di declinazione. Per la determinazione
dei pesi spettanti a ciascun catalogo, si è seguito l’avviso di
di Argelander nelle Osservazioni di Bonn (tomo VII, pag. 45),
attribuendosi il peso oa alle declinazioni risultanti da una sola
dl
osservazione, il peso a quelle risultanti da due, il peso 1 a
1
quelle da tre a dieci, il peso 1+ a quelle da dieci a quin-
dici, il peso 2 a quelle da almeno quindici osservazioni.
(1) Per i Cataloghi di data posteriore queste correzioni sono pubblicate nel
Vierteljahrsschrift der Astronomischen Gesellschaft; il Catalogo di Pulkova è
già ridotto al sistema di quello del 1865, e quello di Respighi presenta una
differenza trascurabile, come dimostra in esso il chiarissimo suo autore.
264
FRANCESCO PORRO
I quadri seguenti riassumono i risultati di tutte queste ope-
razioni: la loro significazione è resa chiara da quanto si è detto,
nè altro mi resta se non avvertire che le posizioni delle zone
osservate a Bonn ed a Lund per la Società Astronomica (tut-
tora inedite), mi furono comunicate gentilmente dai professori
Schoònfeld e Dunèr.
Declinazioni delle Stelle fondamentali.
y Andromedae 6 Persei o Andromedae
1885,0 41°%46'38" 15| 1885,0 40°30'41",96| 1885,0 41°%42'28",97
Ottobre 4 48,84) Ottobre 21 48,41) Ottobre 4 57 ,26
» 5) 49,05! » 22 48 DO, >#0 LO 99 ,59
» 6 49 .,26| » 7 99 , (8
age 49 ,63, > 28 60 ,60
DIRO 52 ,78 I
Declinazioni delle Stelle non fondamentali.
23 ANDROMEDAE
Catalogo Epoca t Osserr. Peso 0 1885,0 Oss.-Cal.
AIR Re i Sr3 EL Î
Fundamenta | 1755 | 1756+ | 4| 1]|40°24'18",75 — 0",09
Groombridge | 1810 | 1809,9 8) og! 13,974 2,10
Taylor 1835 | 18354 Bi 3.320 FE Ode
Armagh I 1840 1841,77 Sh BATTONARO88
Radcliffe I 1845 1846,2 5) ] 6,84 ra 15
Pulkova 1850 1847,02) 4 ] 5 ,40-|=:1,18
Yarnall 1860. | 1353-82. 502 0 1
Glascow 1870 1863,79 Da nd 4,40 |(— 0,06
Greenwich | 1864 | 18672} 5 1 304 [250638
Respighi (TROZON SES 4A 2 2,89 lat ,05
Bonn AGZ | 1875 1878,30 | Da 2,69 +0 ,06
| |
Groombridge
Taylor
Greenwich
Armagh I
Pulkova
Radcliffe I
Bonn AGZ
Respighi
Fundamenta
Argelander
Taylor
Armagh I
Greenwich
Radcliffe I
Pulkova
Radcliffe II
Yarnall
Respighi
Bonn AGZ
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI
» ANDROMEDAF
O Catalogo
|
Fundamenta
| 1840,72|
t
1756 |
1807,5
1835 +
1840,0
1845,76
| 1846 +
| 1846,9
| 1872,24 |
1873,6
| 1876,31
(OA |
15
39 ANDROMEDAF
ISO ON clin Vi a a IN
1756+- | 1
1808,9 6
1835+ | 4
IS4e:0;, |; 17
1842,51e. 5
1846,04, 4
SAS: A
Ls g2:S0g, 2
| 1876,44| 15
»v ANDROMEDAF
| 17564 |-4|
ESSO EEA
isp 1055)
ez 35 5
1845,0 | 14
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1849,79| 4
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1876,82| 16
J'888,35.1\0/2
NITTI TON
10
| 9
10
9
00 00 ‘O 00 O 00
37
Ha Ur Ur Ut UU
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\40°27'10",7
[40043361
3Ù,
Ut
2
SD 0 N > I
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Osserr. | Peso| 3 1885,0
2060 FRANCESCO PORRO
7 ANDROMEDAE
Catalogo | Epoca f asse. | Peso | ò 1885,0. |Oss.-Call
Groombridge | 1810 | 1808 + 3 1.| 3995940",09.|.— 0",50
Taylor 1835 18 ate 4 1 40 ,39 (+0 ,48
Armagh I 1840 | 1835/95. 5/1 39 ,27.|— 0,68
Radcliffe I 1845 | 1845,3 Salad | 39 ,69|+0 ,06
Pulkova 1855 | 1848,90,| 444ad 39 ,98 |+0 46
Greenwich 1864 | 1866,8 | 17 AL 39 ,57 |+-0 ,54
Yarnall 1860 | 1874,9 3 1 38.70 |-_.0:. 108
Respighi 1875 | 186,824 161-024 38,95 |+0 ,18î
Lund AGZ. | 1875 | 188181] 2 | 38 ,04 |—0 ,59)
55 ANDROMEDAE
Fundamenta | 1755 | 1756+| 3| 1]|40° 9'42°,88 |+-0,574
Groombridge | 1810 | 1811,0 6 ii 41,19 —0 710
Taylor WA835 | 1895 A Lasa 41:20 0508
Armagh I 1840:.|:11842;04.|1.2 657 41,76 {+0 ,09]
Radcliffe I 1845 | 1845,6 3 1 41,68 (+0 ,04|
Pulkova 18550. 1845894 04 1 492,381 |4 0,674
Glascow 1870 | 1860,92| 4 #9 41,63 |+-0 ,10|
Greenwich 1864 | 1866,9 USE 42 ,38 (+0 ,89 |
Respighi 1875] 1876.937600 41,04 | 0,310
Bonn AGZ 18750): 188001] 2,0240 4 41 ;18:/— 0,200
Ì |
707 BAG
Groombridge | 1810 | 1811,0 6 1.|40°52L307,64,/4:0313
Radcliffe I 1845 | 1844,2 4 1 30) 1542244 .88
| Armagh I 1840848 MO gra 1 28,29. |—.0 26
Pulkova 1855 | 1849,84| 4 1 29.51 | 102
Greenwich 1864 | 1867,9 5) 1 37. 0.7 | = 0448
Glascow 1870 | 1874,06| 6 1 25,95 |—1,,48
Bonn AGZ. |.1875 | 1874,32. 2a % 26::71L.| 046
| Respighi 1875 1876,79| 16 2 27 ,39.|4-0.,30
I
Catalogo
Fundamenta
. Groombridge
. Taylor
Armagh I
Greenwich
Radcliffe I
Greenwich
Pulkova
Greenwich
Respighi
Lund AGZ
Groombridge
Radcliffe I
Greenwich
Bonn AGZ
Respighi
Glascow
Î
Fundamenta |
Groombridge
Struve
Taylor
Armagh I
Pulkova
Radcliffe I
Yarnal]l
Greenwich
Bonn AGZ
Respighi
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 2607
12 PERSEI
t Osserr. | Peso O 1885,0 |Oss.-Cal.
|
Wizb6s- "La (Sl F0049" 48094 | 01134
1810/0 |-<6 1 38,38 |+0 ,00
1835+ | 4 1 3.64. | =0!402
1839,02| 6 ||. 1 33,14 [+0 ,24
FRA dI e SZ -E OS
| 1847,0 & 4 È 33 ,09 (+1 ,69
1849,0 02.01 30:64. |=04/38
i850,35. | F.4 | i ago d).79
1967902 (9744 27,98 +0 ,53
1876,83| 16.) 2 26,25 |4+0 ,48
E Le 25,60 |+0 ,64
| | |
1305 BAC
1811,0 IRE 4512/02 |4E 0,09
1844,8 4 1 26,09 |— 0,08
1867,0 Ar pesa 22
dS71,0 739 e 26,09 (+0 ,51
FETI. UR, 2 26 ,05 |+0 ,56
137624 | 4 1 34° 46 | 1,02
16 LACERTAF
756 E 3 1 | 40059'25" 14 |4-0",08
1809,2 6 7 DATO 0
1830,0 5 1909 Ddr 93 LOI
1835 + de 59,39 0,76
BS4AID. ore] 94:62 [4-0 304
184647 | 4 1 4571 |FOTO
L84712 Boch 25,49 |+0 ,98]
1853,7 3 1 dh 13/061
1866,2 Ci IF 801 (2:04.65
1872,32 | 2 EA 24,00 |—0 ,42
1876,79| 18 | 2 QAS DA | — ONG
FRANCESCO PORRO
68
x
2
Le equazioni di condizione formate con questi elementi, mi
condussero ai seguenti valori definitivi delle declinazioni medie
1885,0, e dei rispettivi movimenti proprii, ammessi rettilinei ed
uniformi:
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‘ST0°0 =" 24A0X
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160° 0- |IFS' 8£ 69 68 |9Bpeworpuy i
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.
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 269
Il quadro seguente esibisce le declinazioni apparenti, calco-
ate in base alle declinazioni medie ora scritte, mediante le for-
mule e le costanti diurne del Berliner Jahrbuch, avato riguardo
ai termini di corto periodo dipendenti dal movimento della luna
ed al moto proprio fra il 1885,0 e l’epoca delle osservazioni :
datata REA Mii RA
La mancanza di spazio mi obbliga a rimandare l’esposizione
completa dei risultati delle mie osservazioni di latitudine ad una
memoria più estesa, che sarà pubblicata dalla Commissione Geo-
detica Italiana. Qui non posso che presentare i valori definitivi
della latitudine, calcolata cogli elementi sopra enumerati e colle
distanze dallo zenit risultanti dalle osservazioni, avendo assunto
come valor provvisorio della latitudine stessa
g= 42° 0' 15%,25,
che ebbi da un calcolo preliminare dell’osservazione di 7 An-
dromedae ottobre 8, e che mi risultò assai prossimo al vero.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 21
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STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI
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dI FRANCESCO PORRO
Se si riuniscono i 35 valori della latitudine così ottenuti,
attribuendo a tutti indistintamente egual peso, se ne ricava la
media aritmetica
= 42° 0' 15",356+0",079.
Questo sarebbe il valore della latitudine da assumersi nel-
l'ipotesi che gli errori delle declinazioni adottate fossero trascu-
rabili in confronto a quelli provenienti dall’osservazione. Ora
questa ipotesi è ben lungi dal vero; ed è facile riconoscere che
alcune di queste stelle, e segnatamente 39 Andromedae, 55 An-
dromedae, 727 BAC, 1305 BAC (quelle appunto che danno i
valori più discordi per la latitudine) lasciano sussistere una con-
siderevole incertezza nelle declinazioni concluse dalla discussione.
Fortunatamente le divergenze prodotte da queste stelle si com-
pensano mutuamente, e la media generale è assai vicina ai va-
lori dedotti da stelle meglio determinate, sopratutto dalle tre
fondamentali.
Ciononostante sarà bene fare una indagine più minuta sulle
diverse cause che possono aver influito sul valore della latitu-
dine; e dapprima vedremo se un andamento siasi verificato nelle
medie serali. Abbiamo
il 3 ottobre una media di 15,193 da 3 stelle
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Se di qui non appare un andamento sistematico di sera in
sera, emerge invece a prima vista una differenza notevole fra i
valori del primo periodo (dal 3 all’8) e quelli del secondo (dal
16 al 283): e, quando si ricordi che l’11 ottobre si è fatta
l'inversione dei guanciali su cui poggiava l’asse di rotazione del-
l’istrumento, non sembra fuor di luogo attribuire a questa in-
versione il cambiamento avvenuto. La media delle 19 osservazioni
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 273
fatte nella prima posizione dei guanciali dà 15,014, quella
delle 16 fatte nella seconda 15,762. Benchè la differenza sia
considerevole, è lecito supporre sia eliminato ogni suo effetto
dalla quasi eguale distribuzione delle osservazioni nelle due
posizioni dei guanciali.
Quanto all’effetto della posizione del cerchio nei due verti-
cali, vale a dire della direzione apparente del moto della stella
nel campo, è alquanto minore. La media delle 16 osservazioni
a verticale est circolo nord, verticale ovest circolo sud, è uguale
a 15,094, quella delle 19 a verticale est circolo sud, verticale
ovest circolo nord è uguale a 15,575. Anche qui il numero
quasi uguale delle osservazioni nell’una e nell'altra posizione
dell’istrumento permette di non tener conto dell’influenza di
questo notevole divario, che manifestamente è analoga a quella
già notata dal professore Celoria nell’osservare a questo strumento
medesimo passaggi meridiani di stelle orarie e polari (1). Ciò
dimostra d'altra parte l’inferiorità del metodo di Bessel rispetto
a quello di Struve, nel quale la perfetta simmetria dà modo
di eliminare assolutamente questa causa d’errore.
Essendoci così assicurati sulla possibilità che le diverse cause
perturbatrici del risultato siano fra loro compensate, grazie alle
precauzioni adottate nell'osservare, possiamo accingerci con con-
fidenza a discutere il risultato delle osservazioni, ammettendole
tutte di uguale bontà, perchè, siccome si è detto, non par le-
cito attribuire a ciascuna un peso dipendente dal numero dei
fili osservati.
Per valutare rigorosamente l’effetto della incertezza nei va-
lori delle declinazioni adottate, seguii il metodo indicato dal
professore Schiaparelli, ed esposto nella citata memoria del dot-
tore Raina, sulla latitudine di Milano e di Parma. Formando
le medie dei valori di © dedotti separatamente da ciascuna stella
e chiamando con v la differenza fra ciascuna di queste medie
ed i valori che entrano a costituirla, ebbi l’errore medio di una
osservazione dalla formula
(1) Vedansi a questo proposito le differenze di longitudine, nelle pubblica-
zioni del R. Osservatorio di Milano.
274 FRANCESCO PORRO
dove m esprime il numero totale delle osservazioni, e % il nu-
mero delle stelle osservate. Nel presente caso
Zvv=:6,96, m=35 k=dd5
dunque
G=ase 05.62:
Con questo valore di e dedussi l’error medio x di una de-
clinazione, necessario per esprimere le inverse dei pesi da asse-
gnare a-ciascuna stella, o, ciò che è lo stesso, i quadrati degli
errori medii della latitudine dedotti da ogni stella. Questo pro-
cedimento mi condusse per tre approssimazioni successive al valore
02080
essendosi per prima approssimazione presa la media di tutte le
latitudini date dalle varie stelle, senza riguardo ai pesi, e non
differendo la terza dalla seconda se non di tre unità della terza
cifra decimale.
Segue il quadro delle latitudini date dalle singole stelle coi
rispettivi pesi.
Stella Osservazioni Latitudine Peso
23 Andromedae 1 42° 0° 16200412694
y Andromedae 4 15 ,348 2,801
39 Andromedae 1 16 ,200 1,684
v.Andromedae 3 VO 19020408
t Andromedae 6 15 902% 021
55 Andromedae 2 14 190 2,294
727 BAC 2 16 ,820 2,294
12 Persei 2 15,320 2,294
1305 BAC dl 14 ,700 1,684
16 Lacertae 2 14,890 2,294
Andromedae 5 15 ,8342 2,933
o Andromedae 4 15 ,340 2,801
8 Persei 2 15 ,420 2,294
STAZIONE ASTRONOMICA DI TERMOLI 275
Facendo la media di queste latitudini, a ciascuna attribuendo
il peso rispettivo, e calcolando l’errore probabile del risultato
colla formula
Vr *
il che vale quanto porre uguale ad 1° l’error medio corrispon-
dente all’unità di peso, si ottiene il seguente valore definitivo della
r=0,6745
Latitudine della Stazione Astronomica di Termoli
= 42° 0,45”,385 = 0",422 .
Riducendo al segnale trigonometrico questo valore, cogli ele-
menti forniti dal dottor Guarducci, e colle dimensioni besseliane
dello sferoide terrestre, abbiamo
o = 42° 0' 29",734 + 0,122.
Sulla fusibilità dei minerali ;
Nota di Giorgio SPEZIA
In un precedente lavoro (1) io ebbi occasione di accennare
al vantaggio di usare per la fusibilità dei minerali maggiore
temperatura di quella che si ottiene col cannello. Detto carat-
tere ha una certa importanza nella determinazione di essi sebbene
il grado ne sia indicato solo approssimativamente.
Sino ad ora nelle opere mineralogiche, le quali trattano la
parte descrittiva dei minerali, la fusibilità fu sempre riferita alla
temperatura massima fornita dal cannello ferruminatorio ed il
grado alla scala di Kobell.
Perciò vi ha una serie di minerali che sono detti infusibili,
i quali, se si distinguono per la loro infusibilità dai fusibili, non
(1) Cenni geognostici e mineralogici sul gneiss di Beura , 1882. Atti Acc.
Torino, vol. XVII.
276 GIORGIO SPEZIA
si distinguono più per lo stesso carattere fra di loro, come sa-
rebbero a cagione d'esempio frammenti di Quarzo, di Fenachite,
di Corindone incoloro o di Leucite.
A me parrebbe quindi utile che i mineralisti estendessero il
carattere della fusibilità anche ai minerali infusibili al cannello
ordinario adoperando altre sorgenti di maggior calore.
E proporrei di indicare un grado maggiore di fusibilità ri-
ferendola anche al cannello ad aria calda ed al cannello a gas
ossigeno, adoperando in entrambi come combustibile il gas-luce.
Coll’impiego di tali sorgenti calorifere non si potrà certa-
mente ovviare all’incertezza di determinazione che s'incontra nel
cannello ordinario, quando si è al limite della minima fusibilità (1),
per la differente temperatura che si può ottenere, dipendendo
questa dalla quantità d’aria immessa nella fiamma nell’unità di
tempo, e perciò dal diametro del forellino alla punta del can-
nello e dalla forza polmonare individuale di ciascun operatore.
Ma ad ogni modo si avrà sempre una maggior temperatura e
si potrà indicare un più alto grado di fusibilità.
Credo inutile dimostrare, essendo nota, l'enorme differenza di
temperatura che si ha adoperando come comburente ossigeno puro
invece di aria.
Dimostrerò invece quella che esiste fra il cannello ordinario
e quello ad aria calda col quale si hanno già notevoli differenze
nella fusibilità dei minerali.
Da esperienze che io feci col cannello ordinario, imprimendo
all'aria una pressione corrispondente ad una colonna di 30 mil-
limetri di mercurio, ho potuto formare un globulo di fusione
sulla punta di un filo di platino del diametro di millim. 0,24.
Il filo di platino deve essere posto in modo che per un certo
tratto la lunghezza di esso coincida coll’asse della fiamma ; il
che si ottiene piegando il filo ad angolo retto, immergendo un
lato nella fiamma e tenendo l’altro in mano.
Io credo poi che la pressione colla quale l'operatore può
continuare senza stancarsi non deve essere superiore ai 30 milli-
metri di mercurio.
Per l’esperienza con l’aria calda io presi un cannello di
Fletscher rendendovi circolare con un foglio di platino l’aper-
(1) A cagion d’esempio la calamina (idrosilicato di zinco) in alcuni trat-
tati è ritenuta per infusibile, in altri per difficilmente fusibile,
SULLA FUSIBILITÀ DEI MINERALI 277
tura ovale per l'uscita del gas e ponendovi una punta di pla-
tino come al cannello ordinario per l’aria, e poi soffiando colla
bocca alla stessa pressione di 30 millimetri di mercurio, ottenni
il globulo sopra un filo di platino di millimetri 0,40 di dia-
metro.
L'aria in detto cannello, prima d’arrivare alla fiamma di gas,
passa per un tubo a spirale che avvolge quello diritto adduttore
del gas, ed è riscaldato al calor rosso oscuro. La parte del tubo
a spirale sottoposta al calore ha, calcolandola svolta, la lun-
ghezza di 30 centimetri, ed il diametro interno di 3 millimetri :
il diametro del forellino della punta di platino era di mill. 0,38.
Ho poi ripetute le due dette esperienze di paragone adope-
rando lo stesso cannello Fletscher per avere identiche tutte le
condizioni, e facendo la prima esperienza senza riscaldare l’aria,
e la seconda col sottoporla al calore. I risultati ottenuti dimo-
strarono la stessa differenza di temperatura.
Per le esperienze col cannello ad ossigeno usai lo stesso
cannello Fletscher senza riscaldamento, facendo passare pel tubo
dell’aria l’ossigeno puro mediante tubo unito ad un gasometro,
nel quale mantenevo la pressione di circa 25 millimetri di mer-
curio. Volendo, si può aumentare la temperatura riscaldando an-
che l’ossigeno.
Le esperienze da me fatte non si estesero a tutti i minerali
dichiarati infusibili al cannello ordinario, ma ad una parte di
essi operando su frammenti di cristallo pei minerali cristallizzati.
Altri potrà completare l’esperienza.
Alla fusibilità ho aggiunto naturalmente un cenno sui pro-
dotti di essa perchè caratteristici per distinguere alcuni minerali.
E noto sin d’ora come sia sorprendente la facilità colla quale
alcuni minerali cristallizzano quando allo stato di fusione si tol-
gono repentinamente dal calore. E con un ingrandimento di 36
diametri e talvolta con la sola lente si può osservare distinta-
mente la struttura cristallina sulla superficie della massa globulare.
Perciò, adoperando sorgenti di maggior temperatura anche
pei minerali difficilmente fusibili al cannello ordinario, si possono
talvolta osservare in piccola scala le modificazioni molecolari dei
minerali fusi. Per esempio: facendo fondere col cannello ad os-
sigeno una scheggia di serpentino di Snarum io potei col micro-
scopio facilmente osservare, sulla superficie della massa fusa e
rapidamente raffreddata, molte prominenze cristalline, ciascuna
278 GIORGIO SPEZIA
delle quali presentava un vertice di quattro faccie, disposte con
simmetria rombica, analoghe a quelle ottenute dal Cossa (1) col
serpentino di Favaro.
In alcuni casi al cannello con aria calda sperimentai sia colla
fiamma ossidante (FO), che con quella riducente (FR). E noto
che per fiamma riducente non adoperai la bianca suggerita pel
cannello ordinario come molto riducente per il carbonio sospeso
in essa, e che si ottiene con debole corrente d’aria e mante-
nendo la punta del cannello quasi fuori della fiamma, ma feci
uso dell’azzurra interna, la quale possiede ancora facoltà riducenti
per l’ossido di carbonio, il quale è attivissimo quando la ridu-
zione necessita un'alta temperatura.
I seguenti minerali furono sperimentati prima tutti al can-
nello ad aria calda e poi gl’ infusibili o difficilmente fusibili a
questo, li sottoposi al calore del cannello ad ossigeno.
Cannelio ad aria calda.
Molibdenite.— Infusibile alla FO, alla quale prende un colore nero
violaceo e consuma; parimenti infusibile alla FR.
Zincite. — Infusibile alla FO ed alla FR annerisce e si fonde
assai difficilmente sui bordi.
Corindone. — Infusibile.
Menaccanite. — Infusibile alla FO ed alla FR fonde facilmente
in massa nera di splendore metallico.
Quarzo. — Infusibile.
Zircone. — Infusibile.
Cassiterite. — Alla FR i bordi della scheggia si smussano e si
arrotondano non per fusione ma per consumo, e
si forma un deposito bianco sulle pinzette (2).
(1) Ricerche chimiche e microscopiche su roccie e minerali d’Italia. To-
rino, 1881.
(2) Lo stesso risultato si ottiene facilmente, sebbene con minore intensità,
anche al cannello ordinario; ed io ritengo, che il consumo del minerale ed
il deposito successivo sulle pinzette provenga da riduzione della Cassiterite
e successiva rapida ossidazione dello stagno. In ogni caso tale modo di com-
portarsi della Cassiterite al cannello non credo permetta di dirla inalterabile,
come è scritto in molti antorevoli trattati di mineralogia.
SULLA FUSIBILITÀ DEI MINERALI 279
Rutilo. — Alla FO non fonde, ma annerisce un poco, ed alla
FR segna assai difficilmente un principio di fusione
in smalto nero.
Anatasio. — Come il Rutilo.
Brookite. — Come il Rutilo.
Pirolusite. — Alla FO prende colore rossastro, ma non fonde,
alla FR fonde in smalto nero (1).
Brucite. — Diventa bianco opaco, ma non fonde.
Diasporo. — Segna un principio di fusione in vetro bolloso incoloro.
Opale jalite. — Diventa prima bianco opaco screpolandosi in
minuti frammenti i quali, senza fondere, acquistano
ai bordi la trasparenza.
Crisoberillo. — Infusibile
Spinello balascio. — Infusibile.
Spinello violaceo (d’Aker). — Infusibile.
Spinello pleonasto. — Infusibile.
Gahmnite. — Infusibile.
Franklinite. — Fusibile in smalto nero.
Cromite. — Infusibile.
Hausmannite. — Infusibile alla FO, e fusibile in smalto nero
alla FR.
Parisite. — Prende un colore rossastro opaco, ma non fonde.
Alluminite. — Fonde difficilmente in vetro bianco.
Alunite. — Diventa trasparente e d’aspetto vetroso ai bordi senza
che questi mutino forma.
Columbite (di Craveggia). — Fonde facilmente in smalto nero.
Wavellite. — Un frammento fibroso fonde assai difticilmente in
smalto bianco sulla punta delle fibre in cui si di-
vide pel calore.
Childrenite. — Fonde facilmente (2).
Ciamite. — Imbianca, ma non fonde.
Sillimanite. — Infusibile.
Topazzo. — Fonde difficilmente ai bordi in vetro bianco.
Staurolite. — Fonde assai difticilmente in smalto nero senza for-
mare globulo.
Tormalina rosea. — Fonde in smalto bianco.
Gadolinite. — Fonde in smalto bruno.
.
(1) Tale fusione si può ottenere anche col cannello ordinario.
(2) Fonde difficilmente al cannello ordinario, come già asserì Brush.
280 GIORGIO SPEZIA
Olivina (colore verde chiaro). — Infusibile.
Condrodite (di Norwich). — Infusibile.
Cerite. — Alla FO ingiallisce poi annerisce sui bordi, e alla FR
fonde in smalto bruno.
Calamina. — Fonde facilmente in smalto bianco.
Fenachite. — Infusibile.
Dioptasia. — Alla FO non fonde, ma annerisce, ed alla FR è
parimenti infusibile, ma prende un colore rossastro.
Leucite. — Fonde in vetro incoloro.
Cloropale. — Annerisce ai bordi senza fondere.
Perowskite. — Infusibile.
Cannello ad ossigeno.
Molibdenite. — Fonde in massa nera spandendo fumi bianco gial-
lastri e formando deposito bianco cristallino sulla
pinzetta.
Zincite. — Fonde facilmente in massa nera con deposito sul
frammento stesso di lamine esagonali giallognole
trasparenti.
Corindone armofane. — Fonde in globulo giallo rossastro a su-
perficie cristallina.
Corindone rubino. — Fonde in globulo roseo che ha superficie
cristallina con dendriti di romboedri. Il colore roseo
appare dopo il raffreddamento.
Quarzo. — Fonde facilmente in vetro incoloro.
Zircone. — Diventa bianco opaco, ma non fonde, e gli spigoli
rimangono distinti. Solamente col riscaldare l’ossi-
geno ho potuto ottenere una fusione superficiale in
smalto bianco.
Cassiterite. — Consuma rapidamente formando deposito cristallino
bianco, che al microscopio si presenta costituito sia
da cristalli aciculari prismatici terminati da piramidi
acute, incolori e con splendore adamantino, sia da
aggregati cristallini prodotti da accrescimenti pa-
ralleli di ottaedri.
Rutilo. — Fonde facilmente in smalto rossastro, e con difficoltà
lascia sul frammento un deposito giallo cristallino.
asenità etici
SULLA FUSIBILITÀ DEI MINERALI 281
Anatasio. — Come il Rutilo.
Brookite. -- Come il Rutilo.
Brucite. — Imbianca, consuma sui bordi, ma non fonde.
Diasporo. — Fonde facilmente in massa quasi incolora a su-
perficie cristallina.
Opale jalite. — Fonde facilmente in vetro bolloso.
Crisoberillo. -- Fonde facilmente in globulo verde oscuro che
raffreddandosi cristallizza e assume struttura polie-
drica per minuti cristalli aciculari che s'intrecciano.
Col cannello a ossigeno riscaldato potendosi avere
più fluidità di maggior quantità di sostanza, vidi
che cristallizzando emergevano dalla superficie delle
lamine di circa un millimetro di lunghezza.
Spinello balascio. — Fonde in globulo bianco roseo a superficie
cristallina per dendriti di ottaedri.
Spinello violaceo (d’Aker). — Fonde in globulo nerastro con
bellissime dendriti di ottaedri.
Spinello pleonasto. — Fonde in globulo nero lucente a super-
ficie cristallina.
Gahnite. — Fonde in globulo biancastro a superficie cristallina.
Cromite. — Fonde difficilmente in smalto nero a superficie rugosa.
Parisite. — Fonde facilmente in smalto giallo.
Cianite. — Fonde facilmente in smalto bianco.
Sillimanite. — Fonde facilmente in smalto bianco.
Topazzo. — Fonde facilmente con forte ribollimento in globulo
biancastro a superficie rugosa.
Staurolite. — Fonde facilmente con forte ribollimento in globulo
nero.
Olivina. — Fonde facilmente in vetro nerastro.
Fenachite. — Fonde facilmente in massa bianca a superficie
rugosa.
Dioptasia. — Fonde facilmente in smalto rossastro.
Cloropale. — Fonde facilmente in smalto nero.
Perowskite. — Fonde in vetro giallastro.
Da dette esperienze mi sembra che il vantaggio che si ot-
tiene sia tale da suggerire nella descrizione dei minerali anche
la fusibilità al cannello ad aria calda e ad ossigeno. Perchè se
la temperatura del cannello ordinario restringe a pochi i mine-
rali infusibili, tuttavia ve ne sono ancora fra questi di quelli,
282
GIORGIO SPEZIA - SULLA FUSIBILITÀ DEI MINERALI
che si distinguono per il loro differente grado di fusibilità riferito
a più alta temperatura, e pei relativi prodotti di fusione.
Infatti credo siano prova del mio asserto i seguenti esempi
di confronto.
Aria calda.
Quarzo jalino. — Infusibile.
Zircone incoloro. — Infusibile.
Leucite. — Fusibile.
Topazzo incoloro. — Assai dif-
ficilmente fusibile.
Rutilo. — Infusibile.
Staurolite. — Assai difticilmente
fusibile.
Crisoberillo. — Infusibile.
Olivina. — Infusibile.
Ossigeno.
Fusibile in vetro incoloro.
Diventa bianco opaco, ma non
fonde.
Fusibile con forte ribollimento.
Fonde in smalto rossastro.
Fonde in smalto nero con ribol-
limento.
Fonde e si raffredda formando
un aggregato cristallino.
Fonde in smalto nero.
A me pare quindi che, se la fusibilità dei minerali può essere
tenuta in considerazione come un carattere per la loro determi-
nazione, non vi sia ragione di fare un gruppo di minerali in-
fusibili, come avviene adoperando il cannello ordinario, e di non
tener conto della fusibilità a maggior temperatura.
283
Sopra due punti della « Theorie der biniren algebraischen
Formen » del Clebsch; Osservazioni di E. D’Ovipro.
L’opera del CLEBSCH: « Theorie der biniren algebraischen
Formen » ha reso segnalati servigi ai cultori della teoria delle
forme e delle sue applicazioni geometriche, e molti è ancora in
grado di renderne. E però mette conto di esaminarla con pon-
derazione, e di rilevare anche quei punti nei quali essa presenta
qualche lacuna od inesattezza. Io mi propongo di indicare due
di questi punti, suggerendo le modificazioni che valgono a for-
tificarli contro ogni obbiezione. L’uno riguarda una nota formola
del GoRDAN in un caso particolare, l’altro la discussione delle
soluzioni di una equazione biquadratica.
Nel $ 7 l'Autore, dopo aver dimostrata la formola del
Gorpan, che dà lo sviluppo di una forma a due coppie di va-
riabili x, %,, Y,Y, secondo le potenze ascendenti del determi-
minante (xy) =, Y, — %,Y; enuncia il seguente teorema, dovuto
allo stesso GORDAN:
Se una forma è simmetrica rispetto a due coppie di va-
riabili x, X,,Y}Ya: nello sviluppo di essa secondo le potenze
del drain (xy) delle due coppie, moltiplicate per delle
polari di forme contenenti una sola delle due coppie, entre-
ranno solo termini con potenze pari di quel determinante.
Nella dimostrazione è asserito che i coefficienti delle singole
potenze di (2y) sono simmetrici rispetto alle x ed alle y. Ma
ciò è chiaro solo pei coefficienti delle potenze pari.
Infatti, se f=f(x,%,; y,;) è la data forma, la quale nella
ipotesi HE è dello stesso ordine n nelle x e nelle y, si ha
== A"D"[4+a,(2y) ARTICO RE a, (2y) Pina D*-*0°f4 Paso
+a, (cy Q"f.
284 E. D’OVIDIO
dove
1/00 d © 1/0y 00
Ao=-{—- —— , D =_-{7,% PI
SAI” be da dio %) dr (57, Fui sca) i
" pu\dady, dad
© essendo una forma di ordine p. nelle x e di ordine v nelle y,
e dove inoltre le 4 sono costanti dipendenti solo da ».
Ora il 1° termine A"D"f(x,%,, 41%), scambiandovi le x
con le y, diviene D" A”"/(YY,; %,%,); e siccome la f è sim-
metrica rispetto alle x ed y, così è facile vedere che esso non
ha mutato valore. Siccome poi pel detto scambio Q/7 si muta
in — Qf, così 2° non muta, e però il coefficiente del 3° termine,
a, A"? D"7?0?f, si trova nelle stesse condizioni del 1°. E lo
stesso dicasi dei coefficienti dei successivi termini di posto dispari.
Ma il coefficiente del 2° termine, @, A”7!D"7!0f, per lo
scambio delle x con le y diviene — a, D"7!A"7!Qf, e non si
scorge che questa espressione equivalga alla primitiva. Tuttavia
possiamo dimostrare che questo coefficiente è nullo.
«Infatti, essendo 27 funzione alternata delle x,y, essa con-
terrà il fattore (2y), e potrà porsi
Of=(2y)f ;
dove f, è una forma di ordine n —2 nelle x e nelle y, simme-
trica rispetto ad esse. Ora si ha
Di fai a | = i Dr: |D(eg)-f,+ (24) Df,|
= D'-:((ey) Df,| S=iohela = D|(2y) DEAf|=0 .
Dunque nello sviluppo di f mancherà il 2° termine (*).
E siccome
prtan Dpef
(1y)°
è una forma nelle stesse condizioni della proposta /; così nel
05 AT? D'IOT+- (YARD
(*) Debbo questa dimostrazione all’egregio Prof. G. Loria, al quale avevo
fatto notare l'imperfezione del ragionamento del CLEBSCH.
OSSERVAZIONI AL CLEBSCH 285
suo sviluppo mancherà il 2° termine, onde nello sviluppo di /
mancherà il 4° termine. E lo stesso avverrà dei successivi ter-
mini di posto pari.
Così il teorema è pienamente dimostrato (*).
Accanto al precedente teorema è utile porre quest’altro :
Se una forma a due coppie di variabili xxx, Y}Ys è al-
ternata rispetto a queste due coppie, nel suo sviluppo secondo
le potenze ascendenti di (xy), moltiplicate per delle polari di
forme contenenti una soltanto delle due coppie, entreranno solo
potenze dispari di (xy).
Infatti, allora f è divisibile per (24), e il quoziente è una
forma simmetrica rispetto alle x ed alle y, nel cui sviluppo
entreranno quindi solo potenze pari di (27); conseguentemente
nello sviluppo di / entreranno solo potenze dispari di (27).
Iah
Nel $ 44 il CreBscH si occupa della risoluzione della equazione
Q(2))=
a pix -1j),
cui dà luogo la forma di 4° ordine
f=a, x +40,x°2,+6a,x x + 40,2% +0, e
= eee
quando si ponga
H=: (a bia bi Ep È —_ ih 4 SI
=(ab)', j=(aH)=(ab)(ac) (be),
TIA ER AN TESS,
x
x
tÀ
L’Autore suppone che i coefficienti di f, e quindi anche /,j, £è,
siano reali, e che sia
R=g(i0—65°)=Z0,
sicchè le tre radici
x) =m,m,m'"
(*) Il Gorpan (Math. Ann., III) dimostra altrimenti la sua formola e il
teorema in quistione, partendo dalla notazione simbolica /= rx” sy”.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII,
9
DO
286 E. D'OVIDIO
sono distinte; e pone la relazione di CAYLEY, cioè
—2T°=0(H,-f),
sotto la forma
—2T°=(H+mf)(H+m f)(H4m' f).
Qui l'Autore dice che i tre fattori del 2° membro sono
quadrati perfetti, come il 1° membro, poichè in generale essi
sono a due a due privi di fattori comuni, altrimenti anche 7
e f avrebbero fattori comuni.
Ora si può obbiettare: non esser evidente che la presenza di
un fattor comune a / e f sia incompatibile con l'ipotesi l = 0.
Per rispondere a questa obbiezione, osserviamo che, se H
e f hanno un fattor comune, sarà gi lecito assumere come
tale x,, ed allora sarà a,0 e VI 2(a,a,— 4, >) —0, onde
a,=0; quindi sarà #=6a,°, GS e inaante h=0%
nce osserviamo che allora foi ia 5: e che, essendo
4H H}=2(a,a,— a,a,)= 0,6 H, “Hy= (aa, +20,4,— 34,5)
E a, > xche H nai il Hani 2% ?; ma nè f nè H hanno il
fattore BS , finchè 4, non è nullo. ITS
Se f e H hanno un fattor lineare comune, questo sarà
fattore due volte in entrambe, e R sarà nullo.
In conseguenza, l'ipotesi & = 0 implica che f e H non ab-
biano fattori comuni, e quindi che
H-bwmf , H4wf, Hog
siano tre forme non identicamente nulle e prive di fattori comuni
a due di esse, e quindi ancora che 7 non sia identicamente nulla.
Soltanto adesso si può porre
H+mf=—-2%, H+mf=-2%4, H+m'f=—-2%,
0, 6, y essendo forme quadratiche, le quali a due a due non
hanno fattori comuni.
Verso la fine del S 45 l'Autore vuol provare, benchè troppo
tardi, che fe H non a: fattori comuni per R = 0. Ma egli
appoggia la sua argomentazione sulle forme 0, 4, y, mentre per
definir queste ha già supposto f e H prime fra loro.
(ui è opportuno ricordare che il criterio enunciato in fine
del $ 47, per distinguere il caso in cui l'equazione f=0 ha
OSSERYAZIONI AL CLEBSCH 287
quattro radici reali da quello in cui ne ha quattro complesse,
è errato; ma fu subito rettificato dallo stesso CLEBSCH (*), e poi
perfezionato dal NoetHER (**). Eccone l’enunciato completo :
Quando R è positivo, le radici dell'equazione £=0 sono
distinte, e possono darsi due casi:
1° che sia contemporaneamente H negativo e H°--Li f?
positivo per una (e quindi per ciascuna) coppia di valori reali
non entrambi nulli di x,x,: allora le radici sono reali;
2° che non sia contemporaneamente H negativo e H° —Ljf°
positivo: allora le radici sono complesse.
Il Noether ne deduce il teorema:
Se le radici dell'equazione £=0 sono reali e distinte, quelle
della H=0 saranno complesse (***).
Poichè, egli osserva, se le radici di /=0 sono reali e di-
stinte, H sarà negativo per tutti i valori reali di x,.4,, e però
H=0 non sarà soddisfatta da valori reali di #, :%,.
Il teorema inverso non sussiste.
III.
Veniamo al $ 48, che è dedicato allo studio del caso R—=0.,
L'Autore, visto che allora può assumersi
, "
’ mem =
Mmi=="2
s.|s.
(*) Vedasi l’errata-corrige in fondo al volume.
(**) Vedasi la nota a pagina 226 della traduzione tedesca della « T'heorie
des formes binaires » del ch.° Prof. Faà pr Bruno.
Avverto che tutte le osservazioni che vado facendo sull’opera del CLeBscn
valgono anche per la citata traduzione di quella del Fai pi Bruno, poichè
ivi è riprodotta l’analisi del CLEBscH senza modificazioni.
Lo stesso dicasi delle «Vorlesungen uber Geometrie» di CLEBSCH-LINDEMANN.
(#**) Il CLEBscH presuppone noto, in base ai $) 29 e 41, che R è il di-
scriminante di f (anzi di xf+)ZM, per x} diverso da mm’, m"). Ma la
discussione che egli svolge nei $) 44 e seguenti regge indipendentemente dal
conoscere che sia il discriminante di /; anzi può servire a dimostrarlo.
Volendo regolarsi secondo questo intento, bisognerà portare in ultimo posto
questo teorema del NoeTHER, poichè il suo enunciato presuppone noto che È
è il discriminante di /.
288 E. D’'OVIDIO
dice che quindi sarà £=y, e introduce senz'altro questa ipo-
tesi nelle varie formole e relazioni svolte nei SS precedenti, nei
quali era A Z0.
Ma una tale argomentazione manca di base; poichè l’esistenza
delle funzioni 4, y e delle altre formole e relazioni dianzi esposte
si fondava sull’ipotesi f£.=0. Adunque, benchè le conclusioni
dell'Autore siano esatte, pure è necessario tenere un altro pro-
cedimemento per giungere ad esse. Ciò facendo, avrò cura altresì
di meglio definire i caratteri dei singoli sotto-casi.
Sia dapprima £&=0, senza che sia nullo 7 e quindi neanche j,
e senza che sia 7 identicamente nullo.
Allora la relazione — 2 7*=Q(H,—f), che è vera sempre,
diviene
—2T°=-=(H+mf)(H+ mf).
Essa mostra che 4- mf, 44 m'f non sono identicamente nulli,
e che — (H+mf) è un quadrato; cosicchè può assumersi
H+mf=-2@,
g=%, essendo una certa forma quadratica a coefficienti reali,
la quale si può calcolare mediante una divisione od una estra-
zione di radice quadrata, essendo
>, H4$mf
Valero ca 2
Ma non si scorge immediatamente che anche / 4-m'f sia
un quadrato, e meno ancora che sia un biquadrato.
A ciò si perviene osservando che, l’Hessiano di x/+-) H essendo
0000 + ARIE alb ca
|» —— per z:A=m radice doppia di Q—=0,
dx 04
sarà l’Hessiano di 4 -|- m'f identicamente nullo; è però 47 4- m'f
sarà un biquadrato (giusta il teorema: Se H=0, f è un diqua-
drato 0 è nulla, e viceversa; teorema che il CLEBSCH dimostra in
fine del S, ma che può invece portarsi in principio con la relativa
dimostrazione).
ed annullandosi
OSSERVAZIONI AL CLEBSCH 289
Porremo dunque
i a w
H4tmf=— 28%,
E-È, essendo una forma lineare; la quale si potrà calcolare
mediante l'estrazione di una radice quarta o di due radici quadrate
H4&m'f
n
Indi osserveremo che la 4° spinta di H+ mf su H+ m'f è
(HH )4(m+m)(aH)'+mm (ab)', ossia LG
2
successive da —-
(*), ossia zero;
onde sarà zero anche la 4* spinta di — 24° su — 24, cioè
4[(pE)°]; e però sarà (gé)?=0, vale a dire ‘che e conterrà
il fattore È ; cosicchè potremo porre
I CI
g= En,
=%, essendo una forma lineare.
Potremo poi assumere
con che sarà fissato il segno che avevamo lasciato ambiguo nelle
due espressioni di .
Ciò posto, la 1° spinta di H+ »f su H+ m'f è
(m-m')(aH)a,°H,}, ossia (m—m')T, ossia 2(m—m')&%
ed a questa equivarrà la 1° spinta di —-24° su —25', che è
4(0E)0,-0E*, ossia 4(eÈ)o,-È
dunque avremo la relazione
(palo, =i(m-m')E (**).
Di qui segue
(PE)(e0)p, =i(m—-m)(Ego,=—1(m—-m')È,
(*) Poichè, com'è noto, (HH')i:=2, m+ n'=i , mm'=—
(**) Questa relazione prerde il posto della (g91)o, L= ‘(m—-m') jx e delle
analoghe, relative al caso R= 0, date dal CLEBscH FSM $ 45 ed abusivamente
applicate quando R=0. Cade anche la dimostrazione delle relazioni
1
An=0, «.-3 Ao=—-3(M_m)(m-m"),.
290 E. D’'OVIDIO
onde
'
VE=(09')(£E)ox +(9'0)(7'8)0.
= (27)|(p8) e. — (P8)o.]= (098,
e però (non essendo È identicamente nulla)
—i(m_-m
9
9
ci rta l a .
CREARE UO
fn
cosicchè 0 non è un quadrato, e per conseguenza $ e 7 sono due
forme distinte.
Nulla vi è a ridire sulle formole :
5 ) î È 9 DI
f=3 = n°) ,
y,
H_=-—-45°(2 E24 n°)
- ) ] 9 4 n b . . 9
:f4+)H=3-®|(i- 22) (i+) a].
9)
Soltanto farò un'osservazione: Poichè H-+mf=_—2é8!,
segno di H+ mf si conserva lo stesso per tutte le coppie di
valori reali di #,, (non entrambi nulli). Secondo che H+ m'f
è negativo o positivo (ovvero: secondo che 774 m'f ha i coefficienti
di posto dispari negativi o positivi), i coefficienti di E saranno
numeri reali o numeri reali moltiplicati per Vene e 1 coefficienti
di 4 nel 1° caso saranno numeri reali, nel 2° numeri reali
22
moltiplicati per (V- io Quanto a &°—x°, esso nel 1° caso si
scinde in due fattori a coefficienti reali é +, É—; e nel
2° caso prende la forma (E + ca, Lesa ponendo É = i)
n= (V- I
lineari È‘, 4; sicchè allora ona si scinde in due fattori a coeffi-
). e quindi essendo reali i coefficienti delle forme
cienti complessi coniugati, É + x doo : E -g'V_1 (oltre V_1).
Per 2&°-+-x° avverrà il contrario.
Dunque:
Se è nullo BR, senza che siano nulli i, j, e senza che sia
identicamente nullo T; la equazione £=0 avrà una radice
doppia reale, che sarà doppia anche per la H=0 e sarà
quintupla per la'T= 0. Le altre due radici della £=0 possono
OSSERVAZIONI AL CLEBSCH 291
essere reali e distinte 0 complesse, secondo che jf -—i1H ha
segno dii per una e quindi per ciascuna coppia di valori reali
x, x, (00 altrimenti: secondo che j£—iH ha i coefficienti di
posto dispari del segno di i o del segno opposto); e le altre
due radici della H=0 saranno rispettivamente complesse 0
reali e distinte. Quelle e queste saranno poi armoniche ri-
spetto alla radice multipla cd alla rimanente radice di'T=0.
EVO
Sia ora *R—=0, senza che sia nullo 7 e quindi neanche ] ;
ma sia 7 identicamente nullo.
Allora la relazione
cor —-0(H.—f)=(H4mf)(Htmf)f
mostra che H non è identicamente nullo, e che uno dei due
H+ mf, H+ m'f è identicamente nullo, sicchè H e f hanno
gli stessi fattori. Ma si è dimostrato innanzi che ogni fattore
comune a f e H è almeno doppio in f; e d’altra parte f non
è un biquadrato, altrimenti 7 sarebbe nullo, come pure si è
dimostrato innanzi. Dunque / sarà il quadrato di una forma
quadratica che non è un quadrato.
Posto
9 DI rx2
e=gl=Vf, r=(99),
si ha
IMRE Oni DEE SO i 2
uan progettano rie)
e quindi
H=(av°afo, —tra=re-t1rq=iîrq,
onde risulta identicamente nullo 74 m' f.
292 E. D'OVIDIO
Raccogliendo i risultati ottenuti, concludiamo :
Se è nullo R senza che siano nulli i, j, e se inoltre è
nullo identicamente 1; l'equazione f=0 ha due radici doppie,
‘he possono essere reali e distinte o complesse coniugate, se-
condo che f ha il segno opposto a quello di j o lo stesso per
una e quindi per ciascuna coppia di valori reali di x,x, (od
altrimenti: secondo che £ ha i coefficienti di posto dispari del
segno opposto a quello di j o dello stesso segno). Allora Î è
il quadrato di una forma quadratica. Ed H differisce da f
solo per un fattor costante; e precisamente risulta identica-
mente nullo jf —1H.
Quando H non differisce da f£ che per un fattor costante,
allora, e solo allora, f è il quadrato di una forma quadratica.
al
Ed ora sia R=0 con =0 e j=0; e suppongasi che 7
non sia identicamente nullo, e quindi neanche H.
L’Hessiano di 7 è 1(2jf—<H), che attualmente è identi-
x
camente nullo: è però #7 è un biquadrato: pongasi
4
H=
DA
Allora sarà (a) =]j=0; dunque f e 4 hanno comune il
fattore É, e quindi anche &?.
Posto
si ha
onde (£v)°=0 (essendo /=0). Ne segue che v ha il fattore È,
e quindi può assumersi
E facile dedurne
T=3(n8)
p . be . .
onde apparisce che (4£) non è nullo, ossia che % è diversa da $.
OSSERVAZIONI AL CLEBSCH 293
Viceversa: dal supporre H biquadrato segue che i e j sono
nulli, e T non è identicamente nullo.
Infatti, essendo 2i*—(HH'}!=0, sarà <=0; ed essendo
identicamente nullo 1° Hessiano di 7, cioè 5 (2jf- :H), sarà
fin Sarà pai T-_H°,
Concludiamo :
Se sono mulli i,j ec quindi R, e se non sono identica
mente nulli H e T; l’equazione f=0 ha una radice semplice
reale cl una radice tripla reale, che è quadrupla per la H= 0
e.sestupla per la T=0.
Potrebbe da ultimo supporsi f#=0 con #=0 e j=0, ed
insieme supporsi identicamente nullo 7", e quindi 7.
Ma abbiamo già veduto che / è un biquadrato o è nullo
quando 7 è identicamente nullo; e viceversa.
Torino, Febbraio 1887.
Integrazione per serie delle equazioni differenziali lineari ;
Nota di Giuseppe PEANO
4. Lo scopo principale della presente nota è di dimostrare
il seguente
Teorema. Siano
da
pet ua D
io annata nr ata
di
da
2 x
7 = 4g, 4 daga + + nn
dit
dr.
sa (29 x} + Gi Ch | Zuin "
294 GIUSEPPE PEANO
» equazioni differenziali lineari omogenee (prive di secondo
membro) fra le » funzioni «,%,..., della variabile #, e in cui
i coefficienti 4,, siano funzioni di # continue in un intervallo
p=ztZq,
Si sostituiscano nei secondi membri delle equazioni differen -
ziali proposte, al posto di x, ... #,, costanti arbitrarie a, 4,...,
(n, e, dopo averli moltiplicati per d?, si integrino da #, a #,
essendo #, e # compresi nell'intervallo (p,g); si otterranno »
funzioni di #, che chiameremo a,’ ay... 0,
Si sostituiscano nei secondi membri delle equazioni differen -
ziali date al posto di x,...,, rispettivamente os a,, e, dopo
averli moltiplicati per d#, sì integrino da t, a t; sì otterranno
n nuove funzioni di # che chiameremo d,', PRE LAO
Si sostituiscano nei secondi membri delle equazioni date al
posto delle x le a', e si integrino da t, at; si otterranno le
. . w m DI x .
funzioni a, ,...0, . È così via.
n *
Le serie
ata, +a, +0, +...
y " I
A, +4, + a, +4, +...
f' " UZi
a, +, ba, +0, +.
sono convergenti in tutto l'intervallo (p,9); le loro somme, che
diremo x, 4g; «3% 5 SONO funzioni di # che soddisfano alle equa-
zioni dei proposte, e che, per #=#,, assumono i valori
presi ad arbitrio @,4,... , .
Si ha così I° ei generale delle equazioni date espresso
mediante serie convergenti finchè sono continue le funzioni %;; date ;
i termini di queste serie si ricavano dalle ,;; colle sole opera-
zioni di addizione, moltiplicazione ed integrazione; inoltre la
convergenza di queste serie, paragonabile a quella dello sviluppo
di e”, è in generale sufficientemente rapida per servire utilmente
nei calcoli.
2. Per dimostrare la proposizione precedente, ed altre ana-
loghe, è pressochè indispensabile introdurre alcune notazioni, basate
sui numeri complessi di specie qualunque, che permettono di sem -
plificare di molto le scritture.
è te St
EQUAZIONI DIFFERENZIALI LINEARI 295
Diremo numero complesso di specie » l'insieme di » numeri
reali. Il complesso formato dai numeri @,, 4, , ... @, si indicherà con
[a,3 05) ... An]; quando non occorra di mettere in evidenza i nu-
meri reali che compongono il complesso, lo si indicherà con
una lettera sola &a—=|d,.03: «, 4]
Due complessi a=|[d,...a,) e b=[b, ...b,] di specie » di-
consi eguali se i numeri che li compongono sono ordinatamente
eguali. Quindi l'eguaglianza a —=b fra due complessi importa le
n eguaglianze fra numeri reali a, =bd, ... G,=b7 -
Essendo a=[a,, ... @,], e b=[b,; ... 6,] due complessi di
specie n, porremo, per definizione della loro somma,
n
a+b=[a,+0,, Gn +da]-
Si ricava a +b=b+a; a+(b+c)=(a+b)+€, ossia
l’addizione dei numeri complessi gode delle proprietà commutativa
e associativa dell’addizione dei numeri reali.
Essendo a=[,...., @,]) un complesso di specie », e % un
numero reale, definiremo per loro prodotto
ka=|ka,,;k0, xx kag|-
Si deduce (£K+7)a=%ka+%'a; 4(a+b)=%a4%b, ossia
il prodotto d'un numero reale per un complesso è funzione di-
stributiva dei due fattori.
Dalle definizioni precedenti risulta determinato il significato
dell'espressione
ba-khbacka,-bes:
ove %: }' lk'... sono numeri reali, e a, a', a"... sono complessi
della stessa specie. Essa rappresenta un numero complesso della
medesima specie.
decadi, Ve 0, a Lo ae
W_0-0,.....0,1|x.ognisnumero- complesso, xe), 4, + Sp]
sì può esprimere mediante la somma
XX It do bedda
Se alla scrittura a — b si attribuisce il significato a +(—1)b,
a sti) 4 =>>2 1
e ad 7° ore li è reale, il significato nt: restano pure de-
t (7
296 GIUSEPPE PEANO
finiti la differenza fra due complessi ed il quoziente d’un com-
; a
plesso per un numero reale; e si ba (a-b)+b=a; ka :
h
Definiremo il modulo d’un complesso x=|[}%,... #,] col-
l'uguaglianza °
ila 2 CAVIAR
mod = La} ba,
il radicale prendendosi in valor assoluto.
Si dimostra facilmente che
mod (a +b) = mod a+ mod b,
mod (Xa) = modkxmod a,
ove a e b sono complessi, /% è un numero reale, e mod% è il
suo valor assoluto.
Diremo che il complesso variabile x= |, ... €,] ha per limite
il complesso a=[a"-. @,]7 sele SR)
lim x,=0,. Si deduce che ‘se’ lim x.= alito mod ea 0%
e viceversa.
Essendo definiti per i complessi la somma ed’ il limite, si
può estendere alle serie a termini complessi la definizione di
convergenza. Si dimostra che una serie a termini complessi è
convergente, se è convergente la serie formata coi loro moduli.
Se x=|[x,, x, ...,] è un complesso funzione della variabile
reale #, potremo ad esso estendere le definizioni di derivata e
di integrale. Si ricava
dx __{da, dx, dito
db 444% do (n
L L L L
t
V
(xdi= | fe, di, [audi MEI fanae] :
ti È,
t
U
(oppure si possono assumere queste eguaglianze per definizione
della derivata e dell’integrale d’un complesso).
Si dimostra che, se £,<8,;
t t
I 1
mod e: at=| (mod x)dt.
78 t
(e)
EQUAZIONI DIFFERENZIALI LINEARI 297
3. Diremo trasformazione lincare d'un complesso l'operazione
per cui ad ogni complesso x=[x,; #3; ... #,] si fa corrispondere
un nuovo complesso (2 Lt 4 AnCns Cyd +%99% +.
IR ICI IO + nn Ca], tale che i numeri
che lo compongono sono funzioni lineari omogenee dei numeri che
compongono il complesso x. La trasformazione lineare considerata
dipende dagli n° coefficienti ,;; noi la indicheremo collo schema
t4
\ e bon “hi
0, SIUSI, Ad,
\ Zi è) Zina) SR, Ann
Quando non occorra di mettere in evidenza i coefticienti della
trasformazione, essa verrà indicata con una lettera sola 4, {},...
Se x è un complesso, e 4 una trasformazione, con «x inten-
deremo il nuovo complesso ottenuto eseguendo su x la trasfor-
mazione %.
Si dimostra che
Se x ed y sono numeri complessi, x una trasformazione li-
neare, si ha
a(X+y)=4x+ cy.
Viceversa, se zx è un complesso funzione del complesso x tale
che z(x+y)=%&x+#+zy, e inoltre che col tendere di x verso
x), sia lim zx=%zx,, allora il complesso 4x si può ottenere
operando su # con una trasformazione lineare.
Due trasformazioni lineari 4 e (3 diconsi eguali, sc, qualunque
sia il complesso x, si ha 2x=ffx. Si deduce che se a=f},
ciascheduno degli n° coefticienti in 4 è eguale al corrispondente
in (?. Affinchè una trasformazione 4 sia eguale ad un numero 7
è necessario e sufficiente che tutti gli elementi dello schema di %
che stanno sulla diagonale principale siano eguali a %, e gli
altri siano nulli.
Essendo 4 e { due trasformazioni lineari, il numero com-
plesso «x + fx si può ottenere eseguendo su x una nuova
trasformazione lineare, che si indicherà con a+; sicchè per
definizione si ha
(2+B)x=zx+fx.
298 GIUSEPPE PEANO
\-Purveslianaezze
eng reg re e ia er a i tv gn
dz LI
| a ml C/o alifie ce ga Cin t (din
fà }
sarà a Pe ha cale in Re. de (i
[è |
Zni Ga {n toe 0 00 an + Bar }
Se sul complesso x si opera prima colla trasformazione «,
poi colla {, si ottiene il complesso fax, che si potrebbe pure
ottenere operando su x con una trasformazione sola f 4. Se « e ff
rappresentano le trasformazioni indicate dagli schemi precedenti,
la f« sarà rappresentata dallo schema
; là e e Te e 9 \
Pa Zan tPio Za tte Za Pa Ze t Pio %oo tan Zna 3 ul
TRAMA e; 2 t e
Co rag Uolter Zi , Poi Grart Bolsa Cna $; .
. . . » . . . . . . . . . . . . . . .
Alla trasformazione (3% si dirà il nome di prodotto delle due
trasformazioni % e 3.
Così resta definito il significato d’un’ espressione qualunque
formata con numeri reali e con trasformazioni lineari combinati
fra loro mediante le operazioni di addizione e moltiplicazione ;
essa rappresenta una trasformazione lineare. Per queste opera-
zioni sussistono le seguenti identità
a+B= B+a, «+(B+y)= (+4 %n
Fo NPRRZE NI DE x
2(B+p)=eB+ey, (a+8)7=27+87:
se « è una trasformazione, /% un numero reale, si ha ka=<&%;
ma, essendo «e } due trasformazioni qualunque, non è più in
generale 2 =} «.
Sia x un numero complesso di specie n, 4 una trasforma-
D)
4 0 mod(2x)} .. ì
zione lineare. Il rapporto le aa è il rapporto di due forme
(mod x)°
omogenee di secondo grado in ,%,...,, che sono i numeri
* . NI 2,
reali che compongono x; il denominatore #f+2°,+...+%,° è
forma definita positiva: il numeratore è positivo o nullo; quindi
per note proposizioni di calcolo, quel rapporto diventa massimo
RE n
EQUAZIONI DIFFERENZIALI LINEARI 299
per un certo sistema di valori di 2,4}... 4, cioè per un certo
complesso x; questo massimo è positivo o nullo; alla sua ra-
dice quadrata daremo il nome di modulo della trasformazione 4;
(mod (zx)?
quindi si ha = (moda),
(mod x)?
ossia mod zx = (mod 2) (mod x).
Questa diseguaglianza può servire come definizione di mod %,
ove si intenda che il primo membro non sia mai maggiore del
secondo, e che, per un valore di x il primo eguagli il secondo.
Si dimostra che
mod (z+ (3) = mod « + mod {2
mod aB= — mod % mod {3 }
Il modulo d'una trasformazione è funzione dei coefficienti di
questa trasformazione, finita se questi sono finiti e continua.
Diremo che una trasformazione variabile 4 ha per limite %,
se, qualunque sia il complesso x si ha lim «x=%, x. Si deduce
che se lim z=%,, tutti i coefficienti nello schema di 4 debbono
avere per limiti i corrispondenti di %,. Definito il limite d’una
trasformazione, si può definire la convergenza d’una serie i cui
termini sono trasformazioni lineari. Si deduce che una serie i cui
termini sono trasformazioni è convergente se è tale la serie for-
mata coi moduli dei termini.
Se % è una trasformazione funzione d’una variabile reale 7,
potremo ad essa estendere le definizioni va derivata e di integrale.
Lo
Si deduce che, se £<%;, nà ( edi = = =) (mod 2) dt;
Cigs ten ya Î
se AZIO >. si ha
| Ani D Ann RIA
dz, d'aîn
dp dt ETRE a (2a
da .
dE vile e (adi=<. . ?°
dani dUnn i Î ea dt [en dt
300 GIUSEPPE PEANO
4A. Premesse queste notazioni, pongasi
ARE |
n Fa SZ
Lg n + è AI gelati. Gore
Le equazioni differenziali proposte sono rappresentate dalla
sola equazione
dx
LAZ
di
Sia a-=[a,... a,) un complesso costante preso ad arbitrio ;
posto
L t 1
a) gal ai faa'di ronda e
1A È È,
i numeri reali che costituiscono a,a',... sono appunto i nu-
meri a, ...0,, @, «. @n , .. introdotti nell’enunciato del teo-
rema.
Poichè le funzioni %,;;, sono continue e finite nell'intervallo
(p, 9), altrettanto avverrà di mod&; quindi, detto M' il mas-
simo valore di mod« in questo intervallo, si deduce
t-t MSc E
moda — M mod © moda, moda —< in moda, ...
M mod (£— #,)|?
moda Prese eng moda, n...
p!
Ora la serie
M' mod (f— t M mod (#— t,)}
moda + x Giai moda Lat 08 (te moda +...
è convergente equabilmente in tutto l'intervallo (p,9), ed ha per
somma eM©=%) moda. Quindi la serie
(*) pETTRERE a-pa-pa, Tor Lsu
EQUAZIONI DIFFERENZIALI LINEARI 301
1 cui moduli sono minori dei termini della serie precedente è
pure convergente; e sono convergenti le serié reali
ata +4, + a
ti, +0, +0, +...
Le derivate dei termini della serie {*) sono
(RO o ARE E
che formano la serie (*) moltiplicata per 4; quindi questa serie
è pure convergente e di convergenza equabile; pertanto, se si fa
Natal L'alfps
si deduce dx
dt
ossia dx
n
dit i
—oat4ea+oa' +...
vale a dire x soddisfa effettivamente all’ equazione differenziale
proposta. Se si fa poi t=f, si ha a'=0, a"—0,... e quindi
x=a. Così risulta dimostrato il teorema.
Sostituendo nello sviluppo x=2+2-+a"+... ad a', a",... i
loro valori, la serie che dà x si può mettere sotto la forma
x=(1 +fedt+ [zatfaat+{zatf2at|zat+ Ji
in cui gli integrali sono estesi da #, a #.
5. Se le % sono indipendenti da #, cioè le equazioni differen-
ziali proposte sono a coefficienti costanti, fatto #,=0, si ricava
(21? (20f
n +)
x=(1+0+ ù
e se si conviene di rappresentare con e*, anche quando « è un
i a
complesgo qualunque, la somma della serie 1- + “ia ALT:
l'integrale dell’equazione differenziale proposta diventa
=
Atti R. Accad, - Parte Fisica — Vol. XXII, 23
302 GIUSEPPE PEANO - EQUAZIONI DIFFERENZIALI LINEARI
Un’equazione differenziale lineare omogenea d'ordine » con-
tenente una sola funzione è, com’ è noto, riduttibile ad un sistema
di equazioni lineari di primo ordine; applicando a queste la serie
precedente si ritrovano gli sviluppi dati da Sturm (Cours d’Ana-
lyse, 614), dal Caqué (Journal de Liouville, 1864) e da Fuchs
(Annali di Matematica, 1870).
L’integrale delle equazioni differenziali lineari non omogenee
dx,
ee aa + Arata +
dit
da,
di = Ct ea” api
sì può ottenere, com'è noto, dall’integrale delle stesse equazioni
in cui alle p si sostituisca 0. Se, oltre alle convenzioni prece-
denti, si fa
P=[p1:---: Pal:
le equazioni differenziali proposte sì riducono a
dx
dit
= de a
Indicando con e la somma della serie già considerata
age [aat+ (2at(2at4 Ve
in cui gli integrali si prendono da #, 2 #, e con «7! la serie
analoga in cui gli integrali si prendono da # a #,, l'integrale
dell'equazione differenziale proposta, il quale per #=#, assume
il valore a, è dato da
t
x=ea+s| e nas
t
0
Le trasformazioni ed e7! soddisfano alla condizione «e7!= 1.
®
303
Una questione di ottica ed un nuovo apparecchio per raddriz-
zare le immagini nei cannocchiali terrestri; Nota del Prof,
NIcoDEMO JADANZA
Il signor Hermann Brockmann in un articolo inserto nel
Central Zeitung fiir Optilk und Mechanik N° 1,1887, avente
per titolo: Zur theorie der dioptrisch-katoptrischen Systeme
und, ecc., fa alcuni appunti al signor Angelo Battelli, il quale
in una nota: Sulla propagazione della luce in un sistema ca-
tadiottrico, tradotta nel suddetto giornale: Central Zeitung
1885, N° 24, dice che un sistema catadiottrico ha due punti
principali, due fuochi, due distanze focali, ecc.
Il signor Brockmann invece dice che un sistema catadiot-
trico agisce perfettamente come uno specchio sferico e quindi
ha un solo fuoco, un solo punto principale, ecc.
In questa nota ci proponiamo di far vedere che un sistema
catadiottrico non agisce (in generale) come un semplice specchio
CUTVO.
ll
La questione di cui si tratta è una questione puramente
geometrica.
Indichiamo con È e &, le ascisse dei punti coniugati (og-
getto ed immagine) in un dato sistema diottrico; tra codeste
ascisse vi è la nota relazione data da Gauss:
o, ciò che è lo stesso ,
LEE -— aE—-bE+c=0 tig gt.
304 NICODEMO JADANZA
la quale mostra che tra oggetto ed immagine vi è corrispon-
denza univoca, o, in altri termini, che le due punteggiate so-
vrapposte (serie di punti £ e serie di punti £,) sono omografiche.
Se ora immaginiamo uno specchio sferico facente seguito al
sistema diottrico, lo specchio darà di ciascun punto é una im-
magine &* e fra &, e $* esiste, come è noto (*), una relazione
della forma:
ke, 5: E* — a, (E; + E*)+ cone deal):
L'azione adunque del sistema catadiottrico sarà espressa dalla
relazione tra & e É* che si ottiene eliminando la È, tra le (1)
e (2). Codesta relazione è :
(aj, — alk,)EE&—-(ke-aa)E&— (a b—-ck,)é*+(bc,—a,c)=0
ovvero
Tn CEIEK 3 IOTESG e"
ke 68 —aggé—bh,6* +c,=0 NERO)
La (3) è della forma (1) e non della forma (2) (in gene-
rale): quindi un sistema catadiottrico ha due fuochi, due punti
principali, ecc., e perciò non agisce come uno specchio sferico.
La equazione (2) che appartiene agli specchi sferici mostra
che le due punteggiate (oggetti ed immagini) sono in involu-
zione. I punti doppi di questa involuzione sono appunto i punti
principali e nodali. Se i punti principali coincidono in un solo
(vertice dello specchio), se i due punti nodali coincidono col
centro, non è errore il dire che in uno specchio vi sono due
punti principali, due punti nodali ecc. Anzi, per la trattazione
generale di tale argomento, bisogna appunto dire così.
Agli specchi sferici sono applicabili le costruzioni geometriche
che si adoperano per i sistemi diottrici in generale e che si tro-
vano in tutti i trattati di Fisica, e poi le altre proprie delle pun-
teggiate in involuzione che noi abbiamo dato nella nota citata.
(*) Cfr. N. Japanza : Sui punti cardinali ecc. (R. Accademia delle Scienze
di Torino, vol. XX, 1885). Questa Memoria si trova tradotta nel Central-
Zeitung 1885, a pagina 13.
UNA QUESTIONE DI OTTICA 305
Le distanze focali principali in uno specchio (quando esse
si contano nel senso indicato da Gauss) sono eguali e di segno
contrario, e quindi i due fuochi principali coincidono in un solo.
Adunque (sempre per la trattazione generale dell'argomento)
non è errore il dire che gli specchi hanno due fuochi i quali
coincidono col punto centrale della involuzione.
In questo modo si vede la perfetta analogia tra gli stru-
menti 0t#c:, sieno essi d/ottrici, catottrici ovvero cata-diottrici.
La riflessione della luce dev'essere considerata come un caso
particolare della rifrazione.
3.
Il caso delle punteggiate in involuzione non si presenta sol-
tanto negli specchi sferici ma anche nei sistemi diottrici. Eccone
un esempio che è di grandissima importanza.
Proponiamoci di costruire un sistema convergente composto
di due lenti convergenti i cui fuochi coincidano (le lenti si sup-
pongono infinitamente sottili).
Le formole che dànno la distanza focale e le coordinate dei
punti cardinali, sono:
DI,
(oi= =
p, +0, — 4
À
perg chi fede rio Pap \ (4)
O,+ Pa — dA 7 pt A !
pra (E
RE Ia FE pen
" gtg, A “fe A
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I 2
Qt 9a À + Ps —À
oyyero
DI DI
Qi + 05 —F*-F,:
Qi Pod c
e poichè si ha
306 NICODEMO JADANZA
sarà A=V29,%, Litio).
Si voglia dippiù che la distanza focale di esso sistema sia eguale
a quella della prima lente componente, cioè a %,, dovrà essere
A=9; inati.(6)
e quindi = 2%, NT).
i
Le formole (4) diventano in questo caso:
Pep
AZIO E*= ES Ma)
E-k*=k 2 — REA
I punti d’isometria inversa sono dati da
E; ii ipa see rg)
e coincidono, il primo col secondo punto principale del sistema
composto, il secondo col primo punto principale.
Il sistema composto che ora abbiamo indicato è rappresen-
tato dalla figura annessa.
Nella parte inferiore sono segnati i punti cardinali delle due
lenti M, N infinitamente sottili, nella parte superiore i punti
cardinali del sistema composto.
UNA QUESTIONE DI OTTICA 307
I punti principali sono distinti, i fuochi coincidono nel mezzo
della seconda lente, e questo punto è il punto centrale della
involuzione.
La involuzione in questo caso non ha punti doppi, poichè
il punto centrale (7°, F*) è interno a ciascuno dei segmenti
E, E, EE* che unisce due punti coniugati. Descrivendo il
circolo avente per diametro £, £,* , questo taglierà la perpen-
dicolare all’asse SY S° nei punti S, ,S° che sono i punti da
cui tutti i segmenti che uniscono i punti coniugati sono visti
ad angolo retto.
Il coniugato di un punto A si ottiene descrivendo un cir-
colo passante per A e pei punti S S'; sarà quindi il punto A*
dove quel circolo taglia l’asse del sistema.
Il sistema composto di due lenti che ora abbiamo esami-
nato è utile come apparecchio di raddrizzamento nei cannoc-
chiali terrestri. Con esso si ha il massimo accorciamento pos-
sibile compatibile con la formazione della immagine reale data
dall’obbiettivo fuori del sistema di raddrizzamento.
La immagine dell'oggetto si verrà a formare sulla lente M
in È, ; il sistema la capovolgerà e la presenterà in E,*, sicchè
la distanza tra la immagine diritta e la rovescia sarà eguale
a 2 ©,. Adoperando una semplice lente di distanza focale @,
quella distanza è uguale a 4 9, , mentre adoperando il sistema
formato da due lenti aventi amendue la medesima distanza fo-
cale g, essa sarebbe eguale a 3 ©, .
Tutto ciò si rende manifesto esprimendo le coordinate dei
punti d’isometria inversa £,, E; in funzione dei punti cardi-
nali delle due lenti componenti e delle loro distanze focali.
Essendo
E=4E-20; E*=E*4+20
sl avrà
E,=E, + i) i ELE Val i et (10).
+99 dA prt99 — A
Volendo che l’immagine dell’oggetto data dall’ obbiettivo si
formi effettivamente in E; , questo punto al più potrà coincidere
con E, , cioè col vertice della lente M, quindi dovrà essere
A=29, POLIS):
308 NICODEMO JADANZA - UNA QUESTIONE DI OTTICA
Le equazioni (5) e (11) danno anche, come la (6),
=? 9a
Ponendo A=-0 =2, nella espressione
40 0,— A°
e TEIL ZE
+99 d
come abbiamo detto innanzi.
Quando la immagine dell'oggetto non si forma effettivamente
innanzi l’apparecchio di raddrizzamento, allora il cannocchiale
terrestre può essere della medesima lunghezza ed anche più corto
del cannocchiale astronomico avente il medesimo obbiettivo (*).
(*) Cfr. N. Japanza: Nuovo metodo per accorciare i cannocchiali terrestri
(R. Accademia delle Scienze di Torino, Vol. XXI, 1886).
Il Direttore della Classe
Arronso Cossa.
— —Mee="—-
SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali.
ADUNANZA del 20 Febbraio :1887 |... 0a IS
Porro — Determinazione della latitudine della stazione astronomica
di Termoli mediante passaggi di Stelle al primo verticale. . .
Spezia — Sulla fusibilità dei minerali... ... ..
o Lat), è Mia de
D’Ovipio — Sopra due punti della « Theorie der bindren alge-
braischen Formen » del Clebsch .....\. 4. »
Prano — Integrazione per serie delle equazioni differenziali lineari . »
JapaNZzaA — Una questione di ottica ed un nuovo apparecchio per .
raddrizzare le immagini nei cannocchiali terrestri
» 253
255
216
283
293
303
ATTI
R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
bi LO RINO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 9°, 1886-87
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della li. Accademia dell: Scienze
CLASSE
DI
SCTENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 6 Marzo 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, SoBRERO, LESSONA, BRUNO,
BeRRUTI, Basso, D’Ovipio, Bizzozero, NaccaRrI, Mosso, SPEZIA,
GIBELLI.
Vien letto l’atto verbale dell’ adunanza precedente, che è
approvato.
Tra i libri offerti in omaggio all'Accademia vengono segna-
lati 1 seguenti:
1° « Bullettino di bibliografia e di storia delle Scienze
matematiche e fisiche », pubblicato dal Principe B. Boncom-
PAGNI ; fascicoli di febbraio e marzo 1886;
2° Due lavori del Prof. Domenico RAGONA, intitolati :
l’uno « Il barometro registratore Richard « e l’altro « Nuove
formole relative alla risoluzione dei triangoli sferici. »
Le letture si succedono nell’ordine che segue :
« Sul parassitismo dei tartufi e sulla questione delle My-
corhize » ; Nota del Dott. 0. MaTTIROLO, presentata dal Socio
GIBELLI.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 24
SC ECONOMATO 05
Se n > = a /
TORIKO.
eni
310 MATTIROLO
« Sulle clorobromonaftaline »; Memoria di I. GUARESCHI
e P. BIGINELLI, presentata dal Socio Cossa.
« Sugli acidi glicolici dell’ ossisolfobenzide »; Nota dei
Dott. G. Daccomo e A. RAMATI, presentata dal Socio Cossa.
Vengono pure presentati, per la consueta pubblicazione nel
Bollettino, annesso agli Atti dell'Accademia, i seguenti lavori
dell’Osservatorio astronomico, eseguiti dal Prof. Angelo CHARRIER:
1° Osservazioni meteorologiche fatte alle 8 antimeridiane
nel primo ed ultimo trimestre, alle 7 antimeridiane negli altri
due, all’1 pomeridiana (tempo medio di Roma) per i due tele-
grammi giornalieri dell'Ufficio centrale di Meteorologia di. Roma
nell’anno 1886;
2° Rilievo di osservazioni meteorologiche orarie dei re-
gistratori Hipp (barografo e termografo), per gennaio, feb-
braio e marzo 1886.
LETTURE
Sul parassitismo dei Tartufi e sulla questione delle Mycorhize,
Nota del Dott. OrEstE MATTIROLO
Dai tempi antichi ai giorni nostri furono sempre oggetto di
discussioni appassionate le opinioni in parte stranissime, e le ri-
cerche intese ad accertare la natura ed i rapporti di origine e
di sviluppo delle Tuberacee propriamente dette. Oggi finalmente
dopo i lavori di M. Boudier (1), G. Gibelli (2), M. Reess (3),
(1) M. Boupier, Du parasitisme probable de quelques espèces du genre
Elaphomyces. Bull. Soc. Bot. de France, Vol. XXIII, pag. 115, 1876.
(2) G. GiBeLLI, La malattia del Castagno. Osservazioni ed esperienze,
1875-79. Boll. Comizio Agrario di Modena, 1879. — Nuovi Studi sulla ma-
lattia del Castagno detta dell’Inchiostro. Mem. dell’Acc. delle Scienze di Bo-
logna, serie IV, tom, IV, 1883.
(3) M. Reess, Veber den parasitismus von Elaphomyces granulatus. Sitz.
SUL PARASSITISMO DEI TARTUFI Si
B. Frank (1), P. E. Miller (2), la questione dal campo delle
ipotesi gratuite, pare finalmente portata in quello dei fatti accer-
tati da positive osservazioni; ma è ben lungi ancora dall’essere
risolta, attese le difficoltà gravissime che mantengono avvolte
nel velo del mistero la biologia di questi esseri originali.
In questa condizione di cose, ogni nuovo fatto accertato,
deve avere importanza, e deve essere preso in considerazione se
si vuole giungere a stabilire un piano di ricerca che possa con-
durre alla soluzione del difficile problema.
Epperò, quantunque per deficienza di adatti materiali estre-
mamente difficili a procurarsi nelle volute condizioni (3), io non
abbia potuto seguire la evoluzione completa del fatto che torma
argomento di questa nota, tuttavia reputo non privo di interesse
un cenno sopra una serie di osservazioni [che ho speranza di
poter completare] che mi permettono già fin d’ora di assicurare,
come alcune Tuberacee stanno in intima dipendenza, proven-
gono cioè da speciali micelii rizomorfici (4) esattamente pa-
ragonabili a quelli conosciuti parassiti delle radici di molte
piante, noti ai botanici specialmente per i lavori del Professore
G. Gibelli e di M. Rees, indicati oggi col nome di Mycorhize
dato loro dal Frank.
Non ho ancora potuto esattamente seguire sotto al micro-
scopio i filamenti in tutto il tragitto dalla Radice al Tuber,
essendo essi estremamente fragili perchè già fracidi nei Tartufi
maturi (5); ma pure avendo stabilito da una parte la dipen-
phys. med. Soc. zu Erlangen, 10 Mai, 1880. — Veber Elaphomyces und son-
stige Wurzelpilze. Bericht. Deut. Bot. Gesell., 18859, Vol. II, Heft., 7. —
Weitere Mittheilungen iiber Elaphomyces granulatus. Bericht. Deut. Bot. Ges.
1885, Vol. III, Heft. 11.
(1) B. Frank, Ueber die auf Wurselsymbiose beruhende Ernahrung ge-
wisser Baiime durch unterirdische Pilze. Berich. Deut. Bot. Gesell. 1885,
Vol. III, Heft. 4. — Ueber di Mycorhisa der Baime. Forstliche Blitter.,
Heft. 5, 1886 (Non ho potuto consultare questo lavoro).
(2) P. E. MiLLer, Bemerkungen iber die Mycorhisa der Buche, Bot.
Centrall., n. 14, 1886, pag. 22. — Studier over shovjord, ece. (non consultato)
Tidsskrift vor skovbrug. Bd. Ill, 1878, a questi vanno aggiunti i lavori di
KAMIENSKI e GRosGLIK a me noti solo per referati.
(3) Specialmente nella stagione invernale, quando i tartufi sono maturi.
(4) Dei quali rappresentano gli organi riproduttori.
{5) I soli che mi fu concesso esaminare, perchè appena nel periodo di
maturanza possono essere avvertiti dai cani ammaestrati.
312 ORESTE MATTIROLO
denza dei fascii rizomorfici col tessuto del Tuber, e d'altra parte
avendo pure accertata la continuità di questi stessi fascii [de-
correnti in ogni senso nel terreno circostante al peridio] coi
micelii periradicali (1) e per conseguenza colle radici che stanno in
vicinanza al Tuber e riscontrata quindi indubbiamente la loro
reciproca identità, mi credo autorizzato alla proposizione so-
praenunciata.
Naturalmente con questo, dopo quanto si sa oggi sulle ri-
zomorfe [appartenenti a funghi diversissimi] io non intendo
menomamente affermare che tutte indistintamente le Mycorhize
debbano avere corpi riproduttori analoghi a quelli del genere
Tuber; che esse, date speciali condizioni, non possano vivere senza
sviluppare corpi riproduttori; nè voglio qui entrare in merito
alla recente questione della Simbiosi di Fran}; a me basta ac-
centuare il fatto osservato, che cioè il micelio rizomorfico pro-
veniente da alcuni Tuber, sta in diretta relazione con micelii
parassiti di alcune radici.
Così il parassitismo dimostrato da Boudier e Reess per il
vicino genere Elaphomyces, e in modo puramente teorico già
ammesso da secoli da molti coltivatori e botanici per le Tube-
racee in genere, sarebbe dimostrato senza tema di arrischiate
induzioni anche per le specie del genere Tuber.
Premesse queste considerazioni, ecco intanto la descrizione
dei fatti osservati.
I.
È conosciuta come caratteristica proprietà del uber exca-
vatum Vittadini, a cui dà il nome, una caverna centrale più
o meno ampia e regolare, formata da una depressione del pe-
ridio che sì ripiega in dentro, la quale sta in comunicazione
coll’esterno per mezzo di una apertura facilmente visibile, che
mette in una insenatura imbutiforme del peridio.
In questa escavazione anfrattuosa (2), che riconobbi pure
(1) Noto qui subito a scanso di ripetizioni che le figure date da GIBELLI,
FRANK, MULLER di questi micelii sono identiche a quelli da me osservati.
(2) Stupendamente riprodotta nella tavola VI annessa alla classica opera
del TuLasne « Fungi Hypogoei » e nella tav. I, fig. VII della Monogrophia
Tuberaccarum di VirTADINI
SUL PARASSITISMO DEI TARTUFI 518
caratteristica di una nuova specie di Tuberacee , il uber la-
pideum Nobis (1) affine al 7. excavatum Vitt. ; ho osservato
{[ specialmente distinte nel 7. /apideum|] invece dell’indumento
lanoso ricordato dal Tulasne, numerosi filamenti neri, visibili
anche ad occhio nudo, i quali l’attraversavano in ogni senso, e
che esaminati al microscopio apparvero formati da filamenti mi-
celici bruni, diritti o leggermente ondulati, riuniti per la loro
lunghezza in fasci come quelli che costituiscono le Rizomorfe
comuni in molti generi di Funghi (2).
Le ife componenti detti fascii, hanno colore brunastro se
isolate, mentre assieme riunite danno alla Rizomorfa la colora-
zione nera caratteristica. I filamenti presentano frequenti divi-
sioni sulle quali si osservano le così dette unioni a fibbia | Sch-
nallenverbindungen|. La comunicazione fra le due cellule contigue
attraverso all’ansa della fibbia è aperta nel maggior numero di
casi, chiusa invece nei modi descritti in un numero relativa-
mente minore di dette unioni.
Le osservazioni condotte in modo speciale sopra i filamenti
rizomorfici meno sviluppati, lasciano riconoscere con facilità tutti
gli stadii successivi di formazione, che appaiono analoghi a quelli
già descritti dal Brefeld (3).
Osservo però qui di passaggio, che in alcuni filamenti e spe-
cialmente in quelli aventi maggiori dimensioni, ricoperti da gra-
nulazioni minute di ossalato di calce, la formazione di dette fibbie
sembra aver luogo un po’ diversamente dalla maniera descritta,
perchè la comunicazione intercellulare pare attuarsi per un sem-
plice distacco di quel tratto di parete che sta di fronte al sipario
divisorio (4). Non avendo però seguito la evoluzione di queste
unioni a fibbia, mi limito ad accennare il fatto, il quale con-
fermerebbe il dubbio già espresso al riguardo dal De Bary (5).
(1) Di questa specie raccolta in territorio di Alba (Piemonte) favoritami
dal Sig. Belli Saverio, assistente al R. Orto Botanico, nel Gennaio 1887 e di
altre nuove specie italiane pubblicherò fra breve una descrizione illustrata.
(2) A. De Bary, Vergleichende Morph. und Phys. der Pilze, 1884, pag. 30.
(3) BreFELD, Botanische Untersuchungen tiber Schimmelpilze, Heft. III,
1887, Basidiomyceten.
(4) Su questi casi non è possibile infatti osservare le traccie delle pareti
divisorie che si dovrebbero riconoscere come nelle altre.
(5) De Bary, Vergleich. Morph., loc. cit., pag. 3. Le figure date dal MULLER,
loc. cit. confermerebbero la mia osservazione, essendo identiche a quelle da
me osservate.
314 ORESTE MATTIROLO
Comunque possa essere, per noi importa rilevare come carattere
costante [carattere già osservato da Miller e Gibelli] di queste
rizomorfe la presenza delle Schnallenverbindungen, le quali,
mentre generalmente sono ritenute proprie ai micelii dei Basi-
diomiceti sarebbero invece in questo caso caratteristiche di un
micelio appartenente ad un Ascomicete tipico.
Dalle Rizomorfe partono lateralmente numerose ramificazioni
che formano un capillizio abbondante nella accennata cavità e nel
terreno circostante al peridio, come osservai in alcune Tuberacee
[T. ercavatum Vitt. — T. lapideum Nob. — T. Borchii Vitt.).
Stabilita così la natura di questi fascii e fili rizomorfici si
trattava di determinare in quale relazione si trovassero per rap-
porto al tessuto del Tuber nella cavità del quale si osserva-
vano. A questo fine, esercitando dapprima delicatamente un
movimento di trazione sopra uno dei fascii più sviluppati, mi
avvidi che doveva essere in diretta comunicazione col tessuto del
Tuber, perocchè assieme, tutta una porzione del peridio si poteva
agevolmente sollevare. Stabilita così macroscopicamente la reci-
proca relazione, passai all’esame microscopico, il quale mi con-
fermò la perfetta continuità di queste due formazioni.
I filamenti rizomorfici provengono indubbiamente dallo pseudo-
parenchima del peridio, in numero grandissimo, e nei Tuber relati-
vamente giovani esaminati | 7. excavatum (1) Vitt.|, formano dap-
prima tutto attorno al peridio da cui provengono un rivestimento
micelico filamentoso, che si continua poi coi fascii rizomortfici.
1 fili che si trovano in contatto immediato del peridio, man-
tengono [nei giovani esemplarij ancora i caratteri dei comuni
filamenti micelici trasparenti, ma appena riuniti in fascio assu-
mono quelli conosciuti proprii alle Rizomorfe.
Questa caratteristica continuazione si osserva solo in giovani
esemplari, mentre in quelli perfettamente maturi la continuazione
è più difficile ad osservarsi, poichè i filamenti del rivestimento
peridiale, come nelle rizomorfe, avendo subito trasformazioni
ulteriori divengono fragili e si staccano con somma facilità. Ra-
gione per cui, spappolandosi poi nel terreno sono esportati con
esso, 0 vi si perdono assai facilmente, lasciando l’osservatore in
presenza di una superficie peridiale liscia, la quale formò appunto
il principale ostacolo allo studio dei rapporti di questi funghi.
(1) Di questa specie avevo numerosi esemplar'e
SUL PARASSITISMO DEI TARTUFI 315
Aggiungo che i filamenti i quali avvolgono il peridio, quando
non sono ancora riuniti in fascio, presentano curvature caratte-
ristiche, [7. Borchii — excavatum — lapideum), trasparenti dap-
prima diventano col tempo anch'essi brunastri.
Riassumendo , dimostrano le precedenti osservazioni, che le
Rizomorfe o come dir si voglia le Mycorhize [ 7. excavatum,
lapideum| stanno in diretta continuazione col tessuto del corpo
riproduttore del Tuber e che da questo si espandono in ogni
direzione nel terreno circostante.
Stabilita così la relazione fra le Rizomorfe ed il corpo ri-
produttore, si trattava in seguito di riconoscere l’ origine, e le
eventuali relazioni di questo apparato vegetativo. Come ho già
accennato, disponevo in questo inverno di materiali poco adatti,
non raccolti da me direttamente, ma ricevuti da volgari cerca-
tori di Tartufi, i quali malgrado le mie proteste si vantavano
di fornirmi materiale accuratamente pulito e lavato, quale as-
solutamente non potevo usufruire nelle presenti ricerche. Pure
casualmente ebbi alcuni Tartufi | 7. Borchi Vitt.], ancora ay-
volti da densi strati terrosi, nei quali si trovavano impigliate
numerose radici la cui diretta provenienza non mi fu possibile
stabilire, quantunque la disposizione degli elementi ed i prepa-
rati di confronto potessero lasciar credere dovessero appartenere
a piante cupulifere.
Esaminate queste radici coperte da Mycorhize, sopra di esse,
nei rapporti indicati da Gibella e Fran], senza difficoltà os-
servai numerosi filamenti rizomorfici analoghi perfettamente a
quelli che avevo veduto provenire dal tessuto del Tuber, muniti
essi pure di unioni a fibbia [Schnallenverbindungen |. Questi
filamenti nei modi ricordati da G7dell? e da Frank, davano ori-
gine a numerose rizomorfe anch'esse identiche a quelle che avevo
veduto provenire dai Tuber, tanto che era in modo assoluto
impossibile distinguerle dalle prime; e dippiù nel terreno che
stava applicato al peridio, osservai nuovamente numerose le ri-
zomorfe ed i filamenti, notati sempre delle caratteristiche pro-
prietà sopra segnate.
316 ORESTE MATTIROLO
Ricordo ancora, come oltre alle radici munite di rizomorfe ne
incontrai pure altre le quali dalle prime assai diverse per colore e
per forma, stavano in vicinanza al Tartufo, ma erano libere assolu-
tamente da micelii e mantenevano inalterati i loro apici vegetativi.
Nel terreno poi si potevano distinguere i fasci rizomorfici
quasi tutti ridotti a frustoli e si riscontravano sulle ife le cur-
vature caratteristiche che avevo riscontrato nei filamenti che com-
ponevano il rivestimento micelico nei 7°. crcavatum e lapideum.
Queste brevemente riassunte, sono le osservazioni che ho po-
tuto fare nel volgere di questi mesi invernali (1).
Ho osservato la continuità delle Rizomorfe col tessuto del
Tartufo, e d'altra parte mi sono assicurato della continuità
delle stesse Rizomorfe coi micelii parassiti delle radici, mi
credo quindi autorizzato a ritenere come continue queste due
produzioni identiche, e quindi ad ammettere ragionevolmente
il parassitismo delle specie esaminate.
La capitale obbiezione fatta specialmente dal Chatin [La
Truffe, Paris 1869, pag, 30 e 31], alla teoria del parassitismo
dei Tartufi; che cioè questi ascomiceti non sieno mai stati os-
servati in una diretta continuità colle radici, cade pure col fatto
osservato, che i Tartufi, non si sviluppano già direttamente dalle
radici, ma sono in dipendenza delle rizomorfe, le quali a loro
volta sviluppandosi sulle radici, da queste si espandono nel suolo
circostante dove trovano condizioni adatte allo sviluppo del corpo
fruttifero.
3.
Non è qui naturalmente il caso di discutere le varie opi-
nioni dei cercatori di Tartufi accuratamente raccolte dal 7ulasne
e dal Chatin; e senza entrare in particolari [confermati da una
pratica secolare] noti a tutti i coltivatori, sulle relazioni che
esistono tra lo sviluppo, il taglio, la mancanza di certe piante
determinate, e la relativa presenza o mancanza dei Tartufi tra
(]) Epoca poco adatta a questo genere di osservazioni essendo gli esem-
plari già maturi. Spero però di poter fare nuove ricerche in estate quando
ì tartufi nei luoghi segnalati in quest'anno, non abbiano ancora raggiunto
il loro completo sviluppo e per conseguenza sieno le rizomorfe ancora sal-
damente attaccate al peridio.
SUL PARASSITISMO DEI TARTUFI 917
le radici; senza parlare insomma di quelle pratiche empiriche
le quali ora regolano il piantamento e la coltivazione delle piante
a radici tartufifere, pratiche che tutte evidentemente e in modo
ovvio e razionale si spiegherebbero ammettendo il parassitismo
dei Tartufi; mi faccio ancora lecito accennare in appoggio a
queste ricerche oltre i lavori [già ricordati] di Boudier e Reess
dai quali è confermato un consimile parassitismo nel vicino ge-
nere Elaphomyces, anche i fatti recentemente osservati dal
Frank (1), al quale unitamente a Gdelli, dobbiamo le notizie
scientifiche di maggiore importanza sopra le manifestazioni mi-
celiari ipogee.
Il Frank (2) [incaricato dal Ministro di fare studi sulla possi-
bile coltivazione dei Tartufi in Germania], persuaso, dopo i la-
vori di Rees, che le Tuberacee dovessero vivere quali parassite
delle radici, osservava già solo incidentalmente molti dei fatti
che ho potuto constatare.
I. Che le Rizomorfe provenienti dai micelii radicali si
svolgono molto più numerose nei punti in cui si trova un Tar-
tufo, formando ivi un sistema di fasci riccamente anastomizzati
di cui facilmente si riesce a stabilire la continuità colle radici
delle Cupuliferae. [loc. cit. pag. 130-131, Fig. 7].
II. Straordinariamente numerose si osservano le Mycorhize
in quei punti del terreno dove si sviluppano Tartufi, cosicchè i
Tartufi maturi si trovano rinchiusi dentro un intreccio serrato
di Mycorhize. [Pag. 135].
III. Anche la rigorosa dipendenza tra la presenza dei
corpi fruttiferi dei Tartufi e la presenza di piante viventi è un
fatto che si deve accentuare. [Pag. 144].
IV. Le Mycorlhize che si incontrano in una regione in
cui mancano i Tartufi, non si possono differenziare da quelle
che si osservano nelle regioni in cui essi si trovano, solamente
quivi tanto le mycorhize quanto i micelii da esse provenienti sì
osservano in maggiore quantità. [Pag. 141].
Colla conferma di questi fatti, io non intendo però ammet-
tere, senza prove ulteriori, la identità fra tutte le Mycorhize
(1) Loc, cit.
(2) Come è noto il FRANK nel suo lavoro si occupa essenzialmente della
relazione di Simbiosi, che secondo il suo modo di vedere si stabilisce fra le
Mycorhizae e le radici delle Cupuliferae.
318 ORESTE MATTIROLO - SUL PARASSITISMO DEI TARTUFI
delle cupulifere e di molte altre piante, ed i micelii rizomorfici
osservati nelle Tuberacee, essendo io convinto della assoluta im-
possibilità in cui ci troviamo per ora di stabilire caratteri dia-
gnostici e differenze sicure fondandosi sulle proprietà morfolo-
giche dei micelii.
Ma d'altra parte non si deve credere che i micelii debbano
sempre e necessariamente fruttificare, perchè mancando date con-
dizioni, è noto pure come molti micelii possano vegetare senza
fruttificare.
Per ora limitiamoci a segnare unicamente il fatto che al-
cune rizomorfe parassite delle radici, perfettamente simili a
quelle indicate dal Franl col nome di Mycorhize, danno, în
condizioni non ancora definite, origine a corpi riproduttori 0
Tartufi { T. excavatum Vitt., lapideum Nob.|]. Alle future
osservazioni lascieremo la risposta ai numerosi quesiti che na-
turalmente ancora si parano dinanzi. Il campo di ricerca è vasto
ed una ricca messe di nuovi fatti non deve tardare certamente
ad essere raccolta.
In conclusione, pur riconoscendo le numerose lacune (1) ine-
vitabili in queste prime ricerche, io mi sono deciso a farle di
pubblica ragione onde eccitare i botanici allo studio biologico delle
Tuberacee le quali vanno tuttodì acquistando coi metodi di coltura
già introdotti specialmente in Francia (2), una importanza econo-
mica veramente enorme quale risulta dalle statistiche ufficiali (3).
Necessariamente la conoscenza del parassitismo che lega i
Tartufi alle piante esclude la possibilità di una vagheggiata
coltura indipendente, ma potrà servire a dettare norme razio-
nali che regolino il piantamento delle Tartufaie dalle quali cer-
tamente il paese ricaverà sempre un duplice vantaggio, ottenendosi
colla raccolta del prezioso ascomicete anche la ricchezza concessa
da un utilissimo rimboschimento di molte plaghe improduttive
quale da molti anni si è verificato in alcune provincie francesi.
R. Orto Botanico di Torino
6 gennaio 1887.
(1) Specialmente per quanto ha rapporto alla determinazione delle radici.
(2) Piantamenti ordinati di quercie a radici tartufifere.
(3) Secondo i dati forniti dal Chain, il valore dei tartufi raccolti in
media annualmente in Francia [186!] rappresentava. già una somma di
Lire 15881000!
319
Sulle clorobromonaftaline ;
Memoria di I. GuAREScHI e P. BIGINELLI
In seguito alle esperienze che io ho fatto (1) sulla trasfor-
mazione di molti derivati della naftalina in ftalidi sostituite, era
interessante di studiare sotto questo aspetto anche i derivati
clorobromosostituiti e così stabilire la costituzione chimica di
alcuni di questi, essendo in altro modo non facile determinare la
posizione del cloro e del bromo che trovansi contemporaneamente
in un composto.
Il signor Biginelli sotto la mia direzione ha preparato ed
analizzato alcuni nuovi clorobromoderivati e di questi ne furono
studiati i prodotti di ossidazione.
Mi piace osservare che questo lavoro era terminato sin nel
luglio 1886 e ne feci cenno nei Berichte d. deut. Chem. Gesell.
1886, pag. 1154 (2) ed il signor Biginelli se ne valse in gran
parte per preparare la sua Tesi di laurea in Chimica e Farmacia.
Poco dopo H. E. Armstrong e S. Williamson (3) bromu-
rando l'acido 1,4 cloronaftalinsolfonico ottennero una bromo-
cloronaftalina fusibile a 67° ch’essi giustamente ritengono iden-
tica con quella da me accennata nei Berichte.
Pubblico ora questa prima parte delle ricerche fatte nel mio la-
boratorio sulle clorobromonaftaline; descriverò in altra nota l'acido
clorobromoftalico ed i derivati che si hanno dalla {8 cloronaftalina.
Sulle clorobromonaftaline sostituite non si hanno che al-
cune osservazioni di Clève (4) il quale per l’azione del perclo-
(1) GuarEscHI, Mem. della R. Ace. delle Scienze di Torino, t. XXXV, e
LieBIG'S, Ann. d. Chem. t. 222, pag. 282; Atti della R. Acc. delle Scienze,
die. 1885; Berichte A. deut. Chem. Gesell. 1886, t. XIX, pag. 1155; Atti del
R. Istit. Lomb., 1886, vol. XIX.
(2) Atti R. Acc. delle Scienze di Torino, die. 1885.
(3) Chem. Centralbl. 1887, pag. 117.
(4) Bull. Soc. Chim. de Paris, t. XXVI, pag. 540.
320 I. GUARESCHI E P. BIGINELLI
ruro di fosforo sul cloruro dell'acido bromonaftalinsolfonico (pre-
parato dall’acido % nitronaftalinsolfonico, sostituendo NO? con Br)
ottenne una monocloromonobromonaftalina @, = %, in aghi incolori
fusibili a 115°.
Era interessante di preparare le monocloromonobromonaftaline
per vedere se per ossidazione si comportano come i corrispon-
denti derivati bibromo e bicloroderivati.
Facendo agire il bromo sull’a monocloronaftalina, si dovreb-
bero ottenere prodotti identici a quelli dell’azione del cloro sul-
l’x monobromonaftalina. L'esperienza ha dimostrato esatta questa
supposizione.
Studiando l’azione del bromo sull’x monocloronaftalina ab-
biamo ottenuto due clorobromonaftaline C!° H° C7 Br delle quali
una fusibile a 66-67° e l’altra a 119°-119°,5. Le stesse due
clorobromonaftaline furono ottenute per l’azione del cloro sull’&
monobromonaftalina.
Tenendo conto di questi fatti e dei prodotti d’ ossidazione
delle sostanze ottenute abbiamo potuto stabilire con abbastanza
sicurezza la costituzione delle due monocloromonobromonaftaline.
Dividiamo in quattro capitoli il presente lavoro:
1) Azione del bromo sull’4 monocloronaftalina.
2) «x monobromo 4 monocloronaftalina fusibile a 66-67°;
clorobromonaftochinone e clorobromoftalide corrispondenti.
8) Azione del cloro sull’z monobromonaftalina.
4) x monocloroamonobromonaftalina fusibile a 119°-120°
e suoi prodotti di ossidazione. Residui fusibili a 54°-55°
sA
Azione del bromo sull’ monocloronaftalina.
La monocloronaftalina impiegata ci fu fornita in parte dalla
fabbrica Schuchardt, era incolora e fu rettificata raccogliendo
la porzione bollente entro limiti ristretti; in parte fu preparata
in laboratorio col metodo Rymarenko (1).
Si fece agire il bromo a molecole uguali sulla « monoclo-
ronaftalina; cioè per 27 gr. di x monocloronaftalina sì impie-
(1) BeiLsTEIN, Hand. d. Org. Chem. 1% ediz., II, pag. 1201.
SULLE CLOROBROMONAFTALINE IZI
garono circa 26 gr. (circa 9 c. c.) di bromo e per 834 gr. circa
10 cc. Mediante imbuto a chiavetta si fece cadere a goccie il
bromo sulla « cloronaftalina. La reazione è molto viva e bisogna
far agire il bromo a poco a poco. Si sviluppa H Br e in ul-
timo dei vapori rossi di bromo; a questo punto il prodotto
solidifica in massa bianco-rossiccia per un poco di bromo in ec-
cesso. Si ottiene un poco più della quantità teorica di prodotto
grezzo. Il prodotto fu esposto all'aria per scacciare l’eccesso di
bromo, poi schiacciato al torchio per toglierne un poco di ma-
teria oleosa e finalmente fu sciolto in alcol caldo fra 30-40°;
dalla soluzione alcolica si depositano dei bei cristalli aghiformi
e fragili disposti a stella, fusibili a 66-67”. Questo punto di
fusione non varia anche dopo ripetute cristallizzazioni e dopo
sublimazione.
Dall’alcol madre si hanno prodotti che fondono sopra 67°.
Dopo numerose cristallizzazioni e coi soliti artifizi basati sulla
diversa solubilità e sulla più o meno facilità a sciogliersi pron-
tamente, si riuscì a separare delle tavole splendenti rettangolari
fusibili a 119°-119°,5 di una clorobromonaftalina isomera. Anche
questo punto di fusione non varia dopo ripetute cristallizzazioni.
Nei residui si ebbe una frazione fusibile 54-55° che per
cristallizzazione frazionata non fu possibile scindere in prodotti
fusibili a diversa temperatura. Vedremo però più innanzi che
questa frazione 54-55° è una miscela contenente della clorobro-
monaftalina fusibile 66-67° e probabilmente anche quella fu-
sibile 119-119°,5.
Nell’azione del bromo sull’x monocloronaftalina il prodotto
più abbondante è la clorobromonaftalina fusibile 66-67°; ve-
dremo che invece per l’azione del cloro sulla 4 monobromo-
-
naftalina predomina l’isomero fusibile a 119-119°,5.
TE
Paramonocloromonobromonafialina, Paraclorobromonaftochinone,
Paraclorobromoftalide.
Paramonocloromonobromonaftalina. — Il composto fusibile
a 66-67° ottenuto nella precedente operazione, diede all’analisi
i risultati seguenti :
322 I. GUARESCHI E P. BIGINELLI
I. Gr. 0,3335 di sostanza fornirono gr. 0,6165 di C0°
e 0,081 di H?0.
II. Gr. 0,3867 di sostanza fornirono 0,7151 di CO? e
0,0842 di H° O.
III. Gr. 0,4615 di sostanza fornirono gr. 0,634 di Ag
C+ Ag Br.
Da cui la composizione centesimale seguente:
I II III
C° =50,41 50,43 _
i - 2,69 2,42 _
ant — 33,15
CI= — _ 14,71
Il cloro e bromo furono trovati sapendosi che Ag Cl + Ag
bri= 891,5.
Questi numeri corrispondono sufficientemente alla composi-
zione di una clorobromonaftalina 0! 45 C7 Br per la quale si
calcola:
Ci== 49570
H= 48
bes= 31
(Cer 14570
Questa monocloromonobromonaftalina fonde a 66-67° e bolle
verso 304° (non corr.). È solubile nell’alcol, etere ed acido
acetico; 1 parte di sostanza si scioglie a 18°, 8 in 47 p. di
alcol a 92 p. 100. Volatilizza col vapor d’alcol nella propor-
zione di 0,1 gr. per 100 ce. di alcol a 92 p. 100. Sublima
pure in aghi.
Ossidata con acido cromico fornisce un clorobromonaftochi-
none e la clorobromoftalide; perciò deve contenere gli atomi
di cloro e di bromo nel medesimo nucleo benzinico; inoltre es-
sendosi ottenuta sia partendo dall’x cloronaftalina quanto dal-
l’z bromonaftalina ne viene di conseguenza che deve avere gli
SULLE CLOROBROMONAFTALINE 323
atomi Cl e Br nella posizione para cioè deve essere (z,—,)
e rappresentata dalla formola :
CI
Paraclorobromonaftalina
\
Br
La sostituzione di un atomo di cloro con un atomo di bromo
ha in questo caso poca influenza sul punto di fusione; infatti :
Parabicloronaftalina C!° 45 C7° fonde a 67°-68°.
Paraclorobromonaftalina 0° 7° 07 Br fonde a 66°-6 7°.
Parabibromonaftalina C! H°5 Br? fonde a 82°.
Paraclorobromo « naftochinone C H' Br CI 0°. — Si ottiene,
insieme alla clorobromoftalide, ossidando la clorobromonaftalina
precedente con acido cromico.
È conveniente operare su 5 gr.. di clorobromonaftalina ogni
volta. Secondo l’equazione seguente:
C H° CIBr +2 Cr 0%= Cr 0° +.H*0 + C° H* CI Br 0°
si avrebbe dovuto impiegare circa 4 gr. di acido cromico, ma
in questo caso abbiamo osservato che la maggior parte della
sostanza resta inalterata. Ne abbiamo invece impiegato più del
doppio della quantità richiesta dall’equazione precedente.
Si sciolsero 5 gr. di clorobromonaftalina in 100 cc. di
acido acetico glaciale e 10. gr. di acido cromico in 200 cc. di
acido acetico glaciale e le soluzioni furono mescolate. La reazione
incomincia a freddo, ma si fa più viva e completa scaldando
a b. m. Dopo circa }4 ora di riscaldamento il liquido è di un
bel verde smeraldo. Si versa in circa 8 volumi d’acqua e si
raccoglie il clorobromonaftochinone su un filtro. Nel liquido verde
filtrato si trova la clorobromoftalide che fu separata come sarà
detto più innanzi.
Il precipitato fioccoso giallo rimasto sul filtro si ricristallizza
dall’alcol, dal quale si ha in lunghi aghi gialli fusibili a 166°,5-167°.
324 I. GUARESCHI E P. BIGINELLI
Il prodotto puro analizzato diede i risultati seguenti:
I. Gr. 0,2642 di sostanza diedero grammi 0,315 di Ag
CI+ Ag Br e per 0,300 di miscela argentica, per l’azione di
una corrente di cloro secco, subirono una perdita di gr. 0,040.
II. Gr. 0,3585 di sostanza fornirono 0,5897 di CO? e
ge. 0,0547 di*”0!
Da cui la composizione centesimale seguente :
I II
Cc e dla
i 1,69
Br — 28,66 —
Ch — Mei
Deducendo il cloro e il bromo dalla miscela del cloruro e
bromuro d’argento ed essendo Ag CI + Ag Br = 331,5 si
avrebbe :
DBae= 28070
CiE= 1270
Questi risultati conducono alla formola di un clorobromo-
naftochinone pel quale si calcola:
Cee 44,19
Ha=:01,4%
CI" 19307
Br = 29,46
Questo clorobromonaftochinone cristallizza in aghi setacei,
d'un giallo d’oro, fusibili a 166°,5-167°. Sublima pure in aghi
che fondono alla stessa temperatura. È solubile nell’alcol e nel-
l’etere. La sua soluzione alcolica concentrata trattata con solu-
zione alcolica pure concentrata di anilina o di paratolnidina 0
di fenilidrazina si colora in un bel rosso.
SULLE CLOROBROMONAFTALINE 325
A questo clorobromonaftochinone spetta probabilmente la
formola: co co
ra:
| Paraclorobromoznaftochinone
at
NIZOLIEN
Br 00
Paraclorobromoftalide C* H' CI Br 0°. — Questo inte-
ressante composto si forma insieme al clorobromoznaftochinone
nella indicata reazione. Il liquido verde filtrato dal clorobromo-
naftochinone fu evaporato a secco ed il residuo ripreso con poca
acqua e filtrato. Rimase sul filtro una polvere quasi bianca che
fu lavata con poca acqua. Il liquido filtrato fu di nuovo eva-
porato ed il residuo trattato con acqua fornì ancora un poco
di polvere bianca cristallina. Queste due porzioni di sostanza
bianca furono trattate con una soluzione di 2 a 3 grammi di
soda caustica nella quale si sciolsero completamente dando un
liquido ranciato. Acidulato il liquido con acido cloridrico s’ebbe
un bel precipitato cristallino quasi bianco, che raccolto, lavato
ed asciugato fu cristallizzato dall’alcol a 92 p. 100, scolorando
con carbone. Se ne forma circa il 15 p. 100. Il prodotto puro,
fusibile a 179°,5-180° diede all’analisi i risultati seguenti :
I. Gr. 0,162 di sostanza diedero 0,2185 di Ag Cl 4 Ag
Br, e calcolando secondo Ag Cl + Ag Br = 331,5 si ha: CI
= 0,0234 e Br—=0,0527.
II. 0,2182 di sostanza fornirono 0,3197 di CO? e gr.
0,0368 di H°0.
III. Gr. 0,1874 di sostanza diedero 0,2753 di CO? e
0,033 di H°O.
IV. Gr. 0,2976 di sostanza fornirono 0,4304 di CO? e
0,0466 di H°0.
Da cui la composizione centesimale seguente:
I II III IV
Tapi 39.92 40,06 39,44
Fis 1287 05 AR
Br = 32,53 n È al
CI = 14,44 _ e sa
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 25
326 I. GUARESCHI E PF. BIGINELLI
Per la clorobromoftalide 0° H* 07 Br 0° si calcola;
C = 38,80
He 1:61
Votg, = 32,92
Che=14,94 .
Si nota nelle analisi un eccesso di carbonio specialmente
nelle due prime in cui il prodotto non era perfettamente bianco.
La clorobromoftalide si depone dall’alcol in bei cristalli ta-
bulari romboedrici, brillanti, fusibili a 179°,5-180°. Sublima.
Si scioglie poco nell’acqua. Non dà reazione colorata col fenolo
ed acido solforico. Ha tutti i caratteri dei composti simili che
si ottengono dalla parabibromonaftalina e dalla parabicloronafta-
lina. Questo composto deve avere senza dubbio la formola:
Ci Br
N CH* CH?
210, oppure da 0
co /
Br CI
e deve denominarsi paraclorobromoftalide.
Si noterà che il punto di fusione di questa clorobromofta-
lide è intermedio fra quello della bicloro e della bibromoftalide
scoperte da uno di noi (1).
Parabicloroftalide C$ H' C/° 0° fonde a 163°.
Paraclorobromoftalide C%.H' 07 Br 0° fonde a 179°,5-180°.
Parabromoftalide C* H*' B,° 0° fonde a 188°-189°.
IC
Azione del cloro sulla z-monobromonaftalina.
L'z monobromonaftalina impiegata fu in parte preparata in
questo laboratorio per l’azione del bromo nella naftalina sciolta
nel solfuro di carbonio e bolliva a 175-176° (non corretto);
in parte venne acquistata dalla fabbrica Trommsdorff.
(1) Ossidando la bromonitronaftalina di Julin, fusibile a 85°, ho ottenuto
un prodotto che probabilmente è una bromonitroftalide e che descriverò in
una prossima nota. (I. GUARESCHI).
SULLE CLOROBROMONAFTALINE 327
Nell’ 4zmonobromonaftalina, a freddo, fu fatta passare una
corrente di gas cloro sino ad ottenere un aumento di peso dal
16 al 18 p. 100. In principio dell'operazione, essendo la cor-
rente di cloro abbastanza forte, la reazione è molto viva e la
temperatura s’ innalza sino a 120°. Bisogna allora diminuire
la corrente di cloro e far in modo che il termometro segna
sotto 100°. Durante l’operazione si ebbe sempre regolare sviluppo
di gas acido cloridrico. Ottenuto il peso voluto (ad esempio 64-
65 gr. per 55 gr. di z monobromonaftalina impiegata) si cessa
la corrente e si lascia raffreddare. La massa solidificata si lasciò
alquanto a sè per lasciar sviluppare il gas cloridrico; poi entro
lo stesso matraccio fu distillata. Nel principio della distillazione
si sviluppa un poco di bromo e molto acido cloridrico prove-
niente dalla decomposizione di prodotti d’addizione. Il termo-
metro sale rapidamente a 287° e sì mantiene fisso per un certo
tempo. Questa porzione si solidifica completamente per raffredda-
mento. Separatamente si raccolsero le porzioni bollenti 287-305°,
305-320° e come residuo s’ebbe una sostanza quasi nera che an-
ch’essa solidificò e dopo compressione al torchio s'ebbe bianca
come le altre porzioni. Questi prodotti furono cristallizzati se-
paratamente dall’alcol. Dalle tre ultime porzioni si ottenne es-
senzialmente una sostanza cristallina polverulenta, pesante e
fusibile 105-114°; dalla prima invece si ottennero dei bei cri-
stalli lunghi, aghiformi, flessibili, fusibili 100-1053° e una pic-
cola parte in cristalli pure aghiformi, ma duri e simili a quelli
della paraclorobromonaftalina, che fondevano 59-62°.
Riunite tutte le frazioni che fondevano sopra 105° s’ebbero
per successive e numerose cristallizzazioni delle belle lamelle,
sottili, leggiere, splendenti che fondevano costantemente a 119°
PISO
Le varie porzioni che fondevano 59-62° furono ricristalliz-
zate molte volte e fornirono dei bei cristalli aghiformi, lunghi,
splendenti, disposti a stella, fusibili a 66-67° ed in tutto simili
a quelli della paraclorobromonaftalina. L'identità con questa fu
stabilita non solo pel punto di fusione, per la forma cristallina.
per l’analisi e pei prodotti di ossidazione, ma anche per la
solubilità.
1 p. di clorobromonaftalina fusibile 66-67° proveniente dal-
l'azione del bromo sull’4 cloronaftalina si scioglie in 48 p. d’alcol
(a 92 ‘/) alla temperatura di 18°,8 e la clorobromonaftalina
328 I. GUARESCHI E P. BIGINELLI
fusibile 66-67° ottenuta per l’azione del cloro sull’a monobro-
monaftalina si scioglie in 47 p. di alcol (a 92 °/,) a 189,8.
Un dosamento di carbonio e idrogeno diede il risultato se-
guente:
Gr. 0,4349 di sostanza fornirono 0,8007 di CO? e 0,1029
di H°O.
Da cui:
C 60,21
H =MW02562
Per C!° H° CI Br si calcola:
CIE=S49,70
H=962 48
Non resta dunque dubbio sulla identità dei due prodotti.
IV.
Clorobromonaftalina fusibile 1419°-149°,5.
I cristalli lamellari fusibili a 119°-119°,5 ottenuti nell’ope-
razione precedente sono identici con quelli fusibili egualmente
a 119-119°,5 ottenuti per l’azione del bromo sulla « cloro-
naftalina e sono isomeri col prodotto fusibile a 66-67°.
I cristalli ottenuti per l’azione del bromo sull’ cloronafta-
lina diedero:
I. Gr. 0,419 di sostanza fornirono 0,7567 di C0° e
gr. 0,0968 di H?0.
II. Gr. 0,3925 fornirono 0,535 di cloruro e bromuro
d’argento.
Da cui: I II
ee ADI (Ie
bi a
bri e
SULLE CLOROBROMONAFTALINE 329
I cristalli ottenuti dall’azione del cloro sull’4 monobromo-
naftalina diedero:
I. Gr. 0.400 di sostanza fornirono 0,7154 di CO° e
gr. 0,0863 di H°0.
II. Gr. 0,837 fornirono 0,4583 di cloruro e bromuro
d’argento.
Da cui: I II
Ci. 3= 48,80 —
Hi 440 _
Br= — 32,604
CI= — 14,66
Questi risultati conducono alla formola della clorobromo-
naftalina C'° H° CI Br, per la quale si calcola:
C.0e=1149,66
chie 2748
far33,12
CE=14. 690
Questa clorobromonaftalina cristallizza in lamelle sottili, splen-
denti, fusibili a 119-119°,5. Non sublima senza scomporsi in
parte. Si scioglie nell’alcol meno della paraclorobromonaftalina:
1 p. si scioglie in 200 p. d’alcol (a 92 ©) a 16°. Volatilizza
col vapore d’alcol; 0,2272 di sostanza sciolta in 40 ce. c. di
alcol ed evaporata la soluzione lasciò un residuo che pesava so-
lamente 0,0828. È circa 6 volte meno solubile nell’acido ace-
tico che non la paraclorobromonaftalina.
Per vedere in quale nucleo si trovano il cloro e il bromo
in questo composto si ossidò con acido cromico nello stesso modo
indicato per la parabromocloronaftalina.
Si sciolse 1 p. di sostanza in circa 60 volte il suo peso
d’acido acetico glaciale e si mescolò con circa 8 volte il suo
peso di acido cromico sciolto in 20 volte il suo peso d’acido
acetico; è meglio operare su piccole quantità cioè circa 2-3 gr.
di sostanza con 7 a 8 gr. di acido cromico. Dopo riscaldamento
a b. m. si ha un liquido verde che si versa in 8 volte il suo
volume d’acqua. Precipita una piccola quantità di sostanza bianca
cristallina che lavata bene, e sciolta nell’alcol, poi decolorata si
depone in belle lamelle fusibili a 117°-119°,5 e che aveva i
330 I. GUARESCHI E P. BIGINELLI
caratteri della clorobromonaftalina inalterata. Non si trovò traccia
di un composto chinonico.
Il liquido verde fu evaporato a secco ed il residuo trattato
con poca acqua si sciolse completamente senza lasciare nemmeno
traccia di residuo di ftalide. Il liquido fu riscaldato con soluzione
di soda e carbonato sodico; filtrato l’idrato cromico si acidulò il
liquido giallo, filtrato, con acido solforico poi si estrasse ripe-
tutamente con etere sino a che un saggio di questo non lasciava
più residuo. Distillato l’etere s'ebbe un residuo cristallino quasi
bianco, che fondeva, così grezzo, a circa 180° sviluppando bol-
licine gassose: fu sciolto nell’acqua, scolorito con carbone e per
evaporazione diede dei lunghi aghi bianchi, duri e fragili, disposti
a ciuffi, fusibili a 183-184°. La soluzione ha reazione acidissima.
Questo acido per sublimazione dà un anidride in aghi fusibili
a 122-123°. All’analisi diede i risultati seguenti:
Gr. 0,1980 di sostanza fornirono 0,142 di cloruro d’argento.
Da sant trovato calcolato
per C5 H? CI (COOH)
Cloro 17,74 17,70
Quest'acido ha dunque la composizione e tutti i caratteri
dell’acido <cloroftalico ottenuto da uno di noi (1) ossidando la
bicloronaftalina fusibile a 107°,5.
I fatti sovra descritti dimostrano che nella clorobromonafta-
lina fusibile a 119-119°,5 il cloro ed il bromo si trovano in
due nuclei diversi; e per il suo modo di formazione cioè par-
tendo da « cloro e da 4% bromonaftalina deve contenere i due
atomi alogenici in posizione 4. Perciò non è possibile per questa
clorobromonaftalina che una delle due formole seguenti:
II
Ci Br
(1) GuarescHI, Sulla ydicloronaftalina e l’acido ortomonocloroftalico, Atti
R. Acc. delle Scienze, t. XXI e Berichte d. deut. Chem. Gesell., 1886, t. XIX,
pag. 134.
SULLE CLOROBROMONAFTALINE 891
Ma Clève afferma di aver ottenuto una C!° 7° 07 Br fusibile
a 115° in aghi splendenti, la quale avrebbe la formola «' =
cioè la I, quindi bisogna concludere che la nostra clorobromo-
naftalina fusibile a 119° abbia la formola 2'-=%' cioè la II.
Sarebbe utile uno studio più completo della clorobromo-
naftalina di Clève per vedere se veramente è isomera colla nostra.
Prodotto fusibile a 54-55°. — Nell’azione del bromo sul-
l’x cloronaftalina dopo separata la clorobromonaftalina fusibile
a 66-67° si ottengono delle frazioni fusibili sotto 66° e da queste
se ne ottenne una piccola quantità che fondeva costantemente
a 54-55. Il dosamento degli alogeni dimostrò che aveva la com-
posizione di una clorobromonaftalina :
Gr. 0,3985 di sostanza fornirono 0,551 di cloruro e bromuro
d’argento corrispondente a 0,0590 di cloro e 0,1329 di bromo.
Da cui:
trovato calcolato per
C!° H° Cl Br
Br ='33,30 SD412
CI = 14,80 14,70
Questo prodotto ossidato con acido cromico nelle identiche
condizioni descritte precedentemente fornì del clorobromonafto-
chinone fusibile a 166-167° e della clorobromonaftalide fusibile
179°,5-180°, identici coi prodotti d’ossidazione ottenuti dalla pa-
raclorobromonaftalina; si ottenne solamente una piccolissima quan-
tità di un acido che non si è potuto caratterizzare. Questo prodotto
fusibile 54-55° contiene dunque della paraclorobromonaftalina
probabilmente mescolata con clorobromonaftalina fusibile 119-
119°,5 la quale essendo più facilmente ossidabile resta distrutta.
È da notarsi che la clorobromonaftalina fusibile a 119°%,5 ab-
bassa molto il punto di fusione della parabromocloronaftalina,
quando vi è mescolata. Una miscela di 1 p. di clorobromonaftalina
fusibile 119°,5 con 7 a 8 p. di paraclorobromonattalina fusibile
66-67° cristallizzata dall’alcol fornisce degli aghi corti (simili a
quelli che fondono a 54-55°) che fondono a 57-59°.
Accade lo stesso quando si mescola la bibromonaftalina fu-
sibile 131°,5 con quella fusibile a 82° (1).
(1) Ricerche sui derivati della Naftalina, Mem. R. Acc. delle Scienze di
Torino, 1883, p. 7.
332 I. GUARESCHI E P. BIGINELLI - SULLE CLOROBROMONAFTALINE
Non abbiamo spinto più innanzi l'esame della porzione fu-
sibile a 54-55° avendo poca quantità di prodotto.
Da queste ricerche risulta che nell’azione del bromo sul-
l’amonocloronaftalina si formano due prodotti isomeri, ma pre-
valentemente quello nel quale il bromo va nello stesso nucleo
ove è il cloro cioè il prodotto para; nell’azione del cloro sul-
l'x monobromonaftalina si formano gli stessi due isomeri, ma il
cloro entra di preferenza nel gruppo non contenente il bromo
ed anch'esso va in posizione «.
Per ossidazione con acido cromico della paraclorobromonafta-
lina si ha chinone e ftalide; per ossidazione del prodotto con
CI e Br in nuclei diversi non si ha chinone nè ftalide.
Ossidando con acido cromico la clorobromonaftalina C* H*
C1C° C* H° Br è il gruppo C* H' Br che resta più facilmente
ossidato e si forma l’acido « cloroftalico 0* 4° CI C° (COOH).
Non è privo di interesse osservare, come si vedrà meglio in
un lavoro che uno di noi pubblicherà sull’azione del bromo sulla
naftalina e sulla monobromonaftalina, che per l’azione del bromo
sulla naftalina, sulla « monobromonaftalina, sull’ monocloro-
naftalina e per quella del cloro sulla « monobromonaftalina, si
formano due prodotti isomeri, uno «— %, cioè para e che fonde
a bassa temperatura e l’altro 2, =@, e che fonde a tempe-
ratura più alta:
Cc H% XxX?
a 0% ai
Biréomo DSC A dio 8920 191%5
BrIMO ROSE” Ba. 00. 890 eg t1055
Bromo ES (e ee LETO
Cloro: CH" Bri...:.. 67° 119%,
Ora in questo laboratorio si prepareranno e studieranno i
bromocloroderivati della {? cloronaftalina.
Torino — R. Università — Febbraio 1887.
Sugli acidi glicolici dell’ossisolfobenzide:
Nota dei Dott. G. DAccomo e A. RAMATI
L'ossisolfobenzide sta al fenolo come la solfobenzide alla
benzina :
; C°H5 > C5H'OH
S0°< ops SO°< corr OH
Solfobenzide Ossisolfobenzide.
Glutz (1) l’ottenne scaldando a 160-170° due parti di fe-
nolo con tre di acido solforico ordinario. Annaheim (2) la pre-
parò scaldando per 5-6 ore a 190° parti uguali di fenolo e
d’acido solforico; si versa poi il liquido rosso porpora ottenuto
in 3-4 volumi d’acqua e si agita: l’ossisolfobenzide si depone
sotto forma di aghi lanceolati che si purificano con successive
cristallizzazioni e col carbone. Annaheim modificò in seguito questo
processo adoperando 2 molecole di fenolo per una d’acido sol-
forico e scaldando per circa 4 ore in un bagno ad olio a 180°.
Quando il liquido è completamente raffreddato, lo si versa nel-
l’acqua e si agita, poscia si fa bollire e si filtra a caldo: per
raffredjdamento cristallizza l’ossisolfobenzide. La reazione succede
secondo quest’equazione :
C°H*0H
2 C°CH°0H4 H"S0°%= ;, 90° Goo OH
Roe PETOTE
L’ossisolfobenzide cristallizza nel sistema ortorombico ed ha
un peso specifico di 1,3665 a 15°. Guareschi osservò che per
l’azione del permanganato potassico essa fornisce acido solforico,
(1) Ann. d. Chem. u. Pharm., 1868, t. 147, pag. 52.
(2) Journ. f. prakt. Chem., 1871 (1), t. 1, pag. 8; e t. 2, pag. 385, in
KoLBe, Das Chem. Laboratorium der Universitàt Leipzig, 1872, pag. 249 e
432; Berichte d. deut. Chem. Gesell., 1873, t. VI, pag. 1306, e Ann. d. Chem.
u. Pharm., 1874, t. 172, pag. 28
394 G DACCOMO E A. RAMATI
ossalico e carbonico. Ha proprietà di un acido debole; è solubile
nell’alcool, nell'etere, negli alcali e nella glicerina concentrata,
da cui riprecipita diluendo con acqua. Si scioglie senza scom-
porsi nell’acido solforico concentrato, scaldando però pare che si
trasformi in acido fenolsolforico.
L'’ossisolfobenzide necessaria per le ricerche descritte nella
presente nota, fu preparata seguendo il metodo d’Annaheim.
Siccome però anche dopo il trattamento ripetuto col carbone
animale, il prodotto era sempre un un po’ colorato, venne sciolto
nell’ammoniaca diluitissima, precipitando poi frazionatamente me-
diante l'acido cloridrico diluito. Colle prime porzioni precipita
quasi tutta la materia resinosa insieme a poca ossisolfobenzide
e da ultimo si ottiene un prodotto che dalla soluzione acquosa
bollente previamente scolorita con poco carbone animale, si de-
pone in begli aghi, perfettamente incolori.
Si può pure avere con facilità un prodotto puro operando
come segue:
La miscela d’acido solforico e fenolo, dopo compita la rea-
zione, viene versata nell'acqua: si lascia raffreddare e si filtra
per separare l’acido solforico ed il fenolo che non presero parte
alla reazione; dalla materia solida deposta si separa meccani-
camente quasi tutta la parte resinosa ed il prodotto rimanente
dopo un paio di cristallizzazioni è sufficientemente puro.
L’ossisolfobenzide così ottenuta fondeva a 234° ed all’ana-
lisi diede questi risultati:
Gr. 0,3858 di sostanza fornirono gr. 0,8154 di CO? e
or. 0,1454 di #20.
Da cui calcolando per 100 si ha:
ì C*HF0H
trovato calcolato per SO Foa 10H
H 4,10 2000)
Non è ancora ben stabilito con sicurezza se il gruppo S0°
nell’ossisolfobenzide è nella posizione para; i prodotti di decom-
posizione di alcuni derivati dell’ ossisolfobenzide potranno forse
contribuire a risolvere tale questione.
SUGLI ACIDI GLICOLICI DELL'OSSISOLFOBENZIDE 305
I.
AZIONE DELL’ ETERE MONOCLORACETICO SULL’OSSISOLFOBENZIDE
IN PRESENZA DELLA SODA CAUSTICA.
Furono ottenuti degli acidi glicolici aromatici sia partendo
dall’acido fenico, sia da molti altri fenoli, specialmente per l’azione
dell'acido monocloracetico o del suo etere etilico, in presenza
della potassa o della soda caustica; era quindi interessante ve-
dere se si osservava la stessa reazione in un composto contenente
due ossidrili in due gruppi fenolici legati dal radicale SO* e se
si produceva un solo derivato oppure due contemporaneamente,
ed a questo scopo si tentò l’azione dell’etere monocloracetico
sull’ossisolfobenzide in presenza di un eccesso di soda caustica.
Ottenemmo in realtà due acidi glicolici ben definiti di cui
il primo ha la composizione.
soi. OCH*® COOH
CO HEOCH=E00H
Lo chiameremo quindi acido solfonfenilglicolico ; il secondo
è l'acido ossifenilsolfonglicolico ed ha questa formola:
>, -C°H'0CH*C00H
SO°< 0 H:0H
Il modo di preparazione di questi due acidi è il seguente:
In un pallone a. lungo collo si introducono 5 grammi d’os-
sisolfobenzide e 30 di etere monocloracetico ; si scalda a bagno
di sabbia fino ad avere una soluzione limpida, poi si aggiungono
50 gr. di soluzione di soda caustica della densità di 1,30. Suc-
cede subito una viva reazione, la temperatura si innalza note-
volmente ed il liquido entra in ebollizione violenta; calmata un
po’ la reazione si continua a scaldare per circa mezz'ora, dopo
di che si diluisce con acqua e si acidifica con acido cloridrico
diluito. Precipita un denso magma bianchissimo che si raccoglie
sul filtro e si lava accuratamente. Questo precipitato è costituito
da una miscela dei due acidi.
Infatti analizzato dopo una semplice cristallizzazione dal-
l’acqua, diede i risultati seguenti:
Gr. 0,3689 di sostanza fornirono gr. 0,7160 di CO? e
S415 di H°0.
336 G. DACCOMO E A. RAMATI
Da cui calcolando per 100, si ha:
C—=052,94
li= 4,261.
Per l’acido solfonfenilglicolico si calcola 52,45 di C e 3,82
di H, per l’ossifenilsolfonglicolico 54,57 di C e 3,90 di AH.
La miscela appare ancora più evidente dall’analisi dei sali
di bario e d’argento. Si ottiene il sale di bario, sciogliendo il
precipitato formato dall’acido cloridrico, nell’acqua e facendo
poi reagire la soluzione col carbonato di bario. Il sale d’argento
si ha per precipitazione dal sale di ammonio, mediante il nitrato
d’argento,
Ecco le analisi dei due sali:
1° Gr. 0,5485 di sale baritico secco fornirono gr. 0,2230
di Ba S0!.
2° Gr. 0,3995 di sale baritico secco diedero gr. 0,1600
di Ba SO!.
3° Gr. 0,4450 di sale argentico secco fornirono gr. 0,1480
di 4g metallico.
Da cui calcolando per 100, si ha:
trovato
= — rete __ —_ lee ee)
E RI II
Ba= 24,12 23:50 _
Ag= se la: 33,24
calcolato
SF UNI P_i
pel sale dell’acido pel sale dell’acido
C°H:0CH° COOH C*H*0CH* C00H
SO? SO?
<c©H' 0A? COOH <com OH
Ba=27,34 18,24
Ag= 37,24 26,02 .
La separazione dei due acidi si può fare in due modi di-
versi; si può cioè trasformare il prodotto greggio in sale di bario
facendolo reagire col Ba CO* e quindi cristallizzare frazionata-
SUGLI ACIDI GLICOLICI DELL’OSSISOLFOBENZIDE DO
mente; si depone prima il solfonfenilglicolato di bario come
meno solubile e nelle ultime acque madri rimane l’ossifenilsol-
fonglicolato di bario. Si possono pure ottenere i due acidi se-
parati facendo cristallizzare frazionatamente il prodotto greggio
dall’alcol diluito (50 p. 100), oppure anche dall'acqua, ma il
primo metodo è da preferirsi.
Acido solfonfenilglicolico.
È ben cristallizzato in aghi minutissimi, incolori, lucenti, si
scioglie pochissimo nell'acqua fredda, più nella calda; è solubi-
lissimo nell’alcool, quasi insolubile nell’etere; fonde a 227° in un
liquido paglierino. La soluzione acquosa ha reazione acida mar-
catissima e scompone i carbonati; neutralizzata con ammoniaca
dà le seguenti reazioni che sono anche comuni all’ossisolfobenzide :
col nitrato d’argento, precipitato bianco
coll’acetato di piombo, precipitato bianco
col cloruro ferrico, precipitato rosso-carneo
col solfato di rame, precipitato azzurro chiaro
col solfato di chinina, precipitato bianco.
Non precipita nè col cloruro mercurico nè col solfato di
stricnina.
L'analisi dell’acido diede i seguenti risultati:
I. Gr. 0,3239 di sostanza fornirono gr. 0,6209 di CO?
e'.er.1:0,19380di' H°0. |
II. Gr. 0,2532 di sostanza diedero gr. 0,4863 di CO? e
gr. 0,0918 di A°0.
III. Gr. 0,5080 di sostanza fornirono grammi 0,3318 di
Ba SO*.
Calcolando per 100 parti, si ha dunque:
trovato
pen’ = en
II III
a 52,26 52,38 =
H= ,23 4,02 RS
398 G. DACCOMO E A. RAMATI
Questi numeri concordano sufficientemente colla formola
CH 0CH*C00H
SO re ian
CH" OCHE COOH
per la quale si calcola:
CC pal 0 92,45
dal » 3,82
S » So
Dell’acido fenilsolfonglicolico, preparammo i seguenti sali:
C° H*0CH*C00
CH OCHSC00
Si ottiene facendo reagire a caldo l'acido libero col carbonato
baritico. È ben cristallizzato in aghi splendenti, contenenti 5 mo-
lecole di acqua; già stando all’aria perde una parte dell’acqua
di cristallizzazione trasformandosi in una polvere bianca; infatti
la determinazione dell’acqua di cristallizzazione nel sale appena
preparato ed asciugato all'aria, dà 15,12 per 100 d'acqua; dopo
un giorno non dà più che il 12 per 100 circa e dopo parecchi
giorni la perdita è anche maggiore; per avere però il sale
completamente anidro è necessario portarlo alla temperatura di
190-195°. È poco solubile nell'acqua fredda, un po’ più nella
bollente; pochissimo solubile nell’alcool.
La determinazione della sua solubilità nell'acqua fornì questi
risultati :
I. Gr. 45,7201 di soluzione satura alla temperatura di
16°,2, evaporata a secco in cassula di platino, lasciò gr. 0,5578
di residuo secco.
II. Gr. 24,8398 di soluzione satura bollente evaporata
come sopra lasciò gr. 0,5467 di residuo.
Sale di bario SO? & a NE VERSO E LA 0 100
Da icui
100 p. d’H?0 a 169,2 sciolgono p. 1,23 di sale.
100 p. d’H?0 bollente sciolgono p. 2,25 di sale.
La determinazione dell’acqua di cristallizzazione diede :
I. Gr. 1,0331 di sale a secco all’aria, scaldato a 190-
195° fino a peso costante, perdette sr. 0,1562 d’acqua.
II. Gr. 1,4864 di sale scaldato come sopra perdette
pr:*0/22604 tdi 80:
SUGLI ACIDI GLICOLICI DELL OSSISOLFOBENZIDE
(1a)
ot
No)
Calcolando per 100, si ha:
trovato
I II
HO = PE.La I:92h)
;, > C°H'0CH®C00 puoo
Calcolato per SO° < C6H'0CH?C00 Re ie A4-5H< 0
16,22
Fu anche determinato il bario e si ebbe:
I. Gr. 0,5519 di sale secco fornirono gr. 0,2527 di
Ba SO!.
II. Gr. 0,4670 di sale secco fornirono gr. 0,2184 di
Ba SO'.
Per 100 parti si avrebbe dunque :
trovato
er calcolato
I II
Ba= 26,90 27,00 27,34
AC H°O0GCHE C00A |
Sale d’argento SO° << C*H' 0CH? Odd Si prepara
neutralizzando con ammoniaca la soluzione dell’acido e preci-
pitando con nitrato d’argento. È una polvere cristallina quasi
insolubile nell'acqua fredda, la quale si altera prontamente alla
luce; all’analisi diede:
I. Gr. 0,5415 di sostanza fornirono gr. 0,1240 di Ag
metallico.
II. Gr. 0,4115 di sostanza fornirono gr. 0,1495 di Ag
metallico.
Da cui calcolando per 100, si ha:
trovato
—_—y 7°
I II |
Ag EIN AR: 37,24
calcolato
340 G. DACCOMO E A. RAMATI
1 3 SO'H*0CH°C00
Sale di magnesio Sad cHn'0cH1°000 YI+ 8 H°0.
Si ha per doppia decomposizione del fenilsolfonglicolato di bario col
solfato di magnesio. È un sale ben cristallizzato in piccoli prismi
contenenti 6 14 molecole d’acqua che perdono in parte a. 100°,
ma che non diventano perfettamente anidri che a 200°. È molto
solubile nell'acqua anche a freddo, pochissimo nell’alcol.
La determinazione dell’acqua di cristallizzazione diede:
Gr. 0,9823 di sale asciugato all’aria, scaldati successi-
vamente a 100-150-200°, perdettero gr. 0,2216 di H°O.
Da cui:
trovato calcolato
H?O p. 100 22,55 22,40
Una determinazione di magnesio, fornì questi risultati:
Gr. 0,7607 di sale anidro diedero g. 0,0811 di Myg0.
Per 100 parti si avrebbe dunque :
trovato calcolato
Mg = 6,38 6,18
©°H°0CH"C00
Sale di zinco 80° < C°H*0CH? doni Zn42H*0. Fu
preparato per doppia decomposizione come il precedente. È dif-
ficilmente solubile nell’acqua anche bollente da cui cristallizza in
lamelle madreperlacee, untuose al tatto, molto simili nell'aspetto
al valerianato dello stesso metallo: contengono 2 molecole d’acqua
di cristallizzazione che perdono completamente a 200°, infatti:
Gr. 0,8138 di sale, scaldati successivamente a 100-150-200°
fino a peso costante, perdettero gr. 0,0652 di acqua.
Calcolando dunque per 100 si ha:
trovato calcolato
Hu 8,02 7,04
La determinazione dello zinco diede:
Gr. 0,7486 di sale secco fornirono gr. 0,1392 di Zn 0.
SUGLI ACIDI GLICOLICI DELL’OSSISOLFOBENZIDE 341
Da cui:
trovato calcolato
4n p. 100= 14,92 15,15
Acido ossifenilsolfonglicolico.
Trasformando in sale di bario il prodotto greggio ottenuto
dall’azione dell’etere monocloracetico sull’ossisolfobenzide e cri-
stallizzando frazionatamente rimane, come fu detto più sopra,
nelle ultime acque madri, il sale di bario di quest’acido. Si
purifica l’ossifenilsolfonglicolato di bario con successive cristalliz-
zazioni dall'acqua, previa scolorazione col carbone animale e ri-
discioltolo nell’acqua bollente, si scompone coll’acido solforico
diluito. Il liquido limpido filtrato, da cui si separò il solfato
di bario, depone per raffreddamento l’acido libero cristallizzato
in magnifiche squame madreperlacee.
L'acido ossifenilsolfonglicolico fonde a 204-205° in un li-
quido incoloro ; è discretamente solubile nell’acqua anche a
freddo comunicandole reazione nettamente acida, è solubilissimo
nell’alcol anche molto diluito; si scioglie pure nell’etere. La
soluzione acquosa scompone i carbonati, e trattata coi reattivi
già accennati per l’acido solfonfenilglicolico, fornisce le stesse
reazioni.
L'analisi dell'acido libero diede questi risultati :
I. Gr. 0,19783 di sostanza essiccata a 100° fornirono
gr. 0,3950 di CO? e gr. 0,0704 di H°0.
II. Gr. 0,2458 di sostanza essicata pure a 100° diedero
gr. 0,1813 di Ba SO' corrispondenti a gr. 0,02489 di solfo.
Calcolando dunque per 100 parti si avrebbe:
trovato
E II
C=- 54,60 SI
iHi= 3,96 _
Ss = 10,13
Atti R. Accad, - Parte Fisica — Vol. XXII. 26
342 G. DACCOMO € A. RAMATI
È 6H‘O0CH* COOH
Per la formola ,SO* DE DE S si calcola su
100 parti
C 54,5
H 3,85
SUT0:95
Di questo acido preparammo i seguenti sali:
C°H'0CH*C00
CH OH
Si ha per l’azione diretta dell’acido sul carbonato di bario. È ben
cristallizzato in grossi prismi facilmente solubili nell’acqua anche
a freddo e contenenti 6 molecole e mezza d’acqua di cristalliz-
zazione, che perde alla temperatura di 120-125°.
All’analisi diede :
I. Gr. 1,0600 di sale asciugato all’aria, scaldato a 120-
125° sino a peso costante perdettero gr. 0,1411 di acqua.
2
Sale di burio (50°< ) pa+o,H0.
Da cui:
trovato calcolato
H?0 p. 100= 13,81 13,47
II. Gr. 0,9189 di sale anidro fornirono gr. 0,2797 di
Ba SO' corrispondenti a gr. 0,16446 di Ba metallico.
Si ha dunque per 100 parti:
trovato calcolato
Ba= 17,90 18,24
C*H*0CH*C00\
CH‘ 08 )a19+7r20.
Si ha per doppia decomposizione del sale di bario col solfato di
magnesio. È ben cristallizzato in piccoli prismi facilmente solubili
nell’acqua anche a freddo, e contenenti 7 molecole d’acqua di
cristallizzazione che perdono completamente alla temperatura di,
120-130°. All’analisi diede :
Sale di magnesio (s@<
I. Gr. 0,9455 di sale asciugato all’aria, scaldato a 120-
130° perdettero gr. 0,1576 di H°0.
SUGLI ACIDI GLICOLICI DELL’OSSISOLFOBENZIDE 343
Quindi per 100 parti si ha:
trovato calcolato
Hei 16,66 16,49
Il. Gr. 0,7879 di sale anidro fornirono grammi 0,0516
di Mg 0.
Da cui:
trovato calcolato
Mg p. 100= 3,93 3,76
Il.
AZIONE DELL’ ACIDO MONOCLORACETICO SULL’ OSSISOLFOBENZIDE
IN PRESENZA DELLA SODA CAUSTICA
Abbiamo voluto sperimentare se adoperando l’acido mono-
cloracetico invece dell’etere, si ottenevano gli stessi risultati ed
a tal uopo abbiamo fatto reagire 5 grammi d’ossisolfobenzide
con 25 gr. d’acido monocloracetico, operando nelle stesse con-
dizioni già descritte per l’etere monocloracetico. Dopo mezz’ ora
di ebollizione, si lasciò raffreddare il pallone, si diluì con acqua
e si trattò con acido cloridrico, ma il precipitato ottenuto era
in gran parte costituito da ossisolfobenzide inalterata, alla quale
era mescolata una piccolissima quantità di acido ossifenilsolfon-
glicolico fusibile a 205°.
Infatti un dosamento di carbonio ed idrogeno diede questi
risultati :
Gr. 0,1962 di sostanza essiccata a 100° fornirono gr. 0,3942
deco” ger.-0,07L10 di H?°0.
Da cui:
trovato calcolato
Cpt 54,78 Ao
T5h se 4,083 3a)
Si ripetè l’esperienza, avendo cura di continuare l'ebolli-
zione per oltre un’ora ed anche in questo caso si ottenne una
344 G. DACCOMO E A. RAMATI - SUGLI ACIDI GLICOLICI, ECC.
miscela di ossisolfobenzide inalterata e di acido ossifenilsolfon-
glicolico, in quantità però un po’ maggiore della prima volta,
Riassumendo si può rappresentare colle due seguenti equa-
zioni la reazione che succede tra l’etere monocloracetico, l’ossisol-
fobenzide e la soda caustica:
C°-H*OHBRCH"CI
SOT +1 tento
C°H*0HW#EC00C°H6
C°H'0CH*COONa
=: 807008 +C*H°0H+4NGCEH?0.
OSH*OH.
+ 2 NaO0H
_ _C*H'OCH*COONa CH?CI
A ss _+ 2 Na0H
C6H‘0H COOC*H>
C°H'OCH*®COONa
— SO? +C*H>°0H+NaCt+4+-H°0.
< C6H'O0CH*COONa
TE
La reazione cioè avviene in 2 tempi; si forma prima dell’acido
ossifenilsolfonglicolico, il quale per l’ulteriore azione dell’ etere
monocloracetico e della soda si trasforma in acido solfonfenil-
glicolico. Adoperando l’acido monocloracetico invece dell’ etere,
succede solo la prima fase della reazione.
Torino — R. Università
Laboratorio del Prof. Guareschi.
Il Direttore della Classe
ALFronso Cossa.
tai,
RI SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche 6 Naturali.
&
ADUNANZA: del 6. Marzo 180. Sa Pag. 309
MartIROoLo — Sul parassitismo dei Tartufi e sulla questione delle
MYOOFDIZO:n: n e Set 7 ARROE 0 4 CINA OL AOIO O AE » 30
GuarescHI e BiGrneLLi — Sulle Clorobromonaftaline . ... . ... n°319
Daccomo e Ramati — Sugli acidi glicolici dell’ossisolfobenzide. . . » 333
ATTI
DELTA
h. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
D'I:TO RINO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 10’, 1886-87
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della Ik. Accademia delle Scienze
-—_ =
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 20 Marzo 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, SoBRERO, LESSONA, SALVADORI,
Bruno, Siacci, Basso, D’OvipIo, BizzozeRo, FERRARIS, NACCARI,
Mosso, SPEZIA, GIBELLI.
Vien letto l’atto verbale dell'adunanza precedente che è ap-
provato.
Tra le opere pervenute in dono all'Accademia vengono in
modo speciale segnalate molte pubblicazioni del Socio Prof. Carlo
GIACOMINI, le quali versano quasi tutte sopra argomenti di Ana-
tomia umana.
Le letture si succedono nell’ordine seguente :
« Espirazione attiva ed inspirazione passiva »; Memoria
del Dott. V. Apucco, presentata dal Socio Mosso.
« Terza cd ultima serie di osservazioni delle Comete Finlay
e Barnard-Hartwig all’equatoriale di Merz dell’Osservatorio di
Torino » : Nota del Dott. F. PoRrRo, presentata dal Socio SIACCI.
« Sul fenomeno Thomson »; Nota seconda del Dott. A. BAT-
TELLI, presentata dal Socio NAccARI.
Intorno alla morfologia differenziale esterna ed alla
nomenclatura delle specie di Trifolium della sezione Amoria
Presl., crescenti spontanee in Italia » ; Nota critica del Socio
GrgELLI in collaborazione col Dott. S. BELLI.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. Pai
n MA DEL
346 VITTORIO ADUCCO
LETTURE
Espirazione attiva ed inspirazione passiva. — Ricerché fatte
dal Dott. VittoRIOo Apucco, Assistente presso il Laboratorio
di Fisiologia della R. Università di Torino.
CaPITOLO I.
Esperienze che dimostrano l'intervento di una forza attiva
nella espirazione normale.
I fisiologi sono generalmente d’accordo nello ammettere che
la espirazione calma e tranquilla si compia in modo passivo : cioè
che le pareti del torace, dopo di essere spostate dal loro stato
di equilibrio per mezzo delle forze muscolari, che compiono l’in-
spirazione, ritornino passivamente alla posizione primitiva durante
la espirazione. Le cause, che produrrebbero l’espirazione, sareb-
bero l’elasticità del tessuto polmonare, l'elasticità ed il peso delle
pareti toraciche, del diaframma, delle pareti, e dei visceri addo-
minali e dell’aria contenuta in essi.
Solo Ficx sostenne che l’espirazione sia sempre un fatto attivo (1).
(1) A. Fick in un recente lavoro si esprime nei seguenti termini sul
meccanesimo della espirazione, riassumendo le idee già da lui esposte nel
suo Compendio di Fisiologia: « Osservando attentamente il mio respiro mi
« convinsi che i muscoli intercostali interni entrano in attività ad ogni
« espirazione. Io credo che, anche nella respirazione affatto tranquilla, la
« espirazione sia un atto prodotto da contrazione muscolare. A questo riguardo
« parmi abbia un valore molto dimostrativo il fatto che si può interrompere
« volontariamente l’espirazione. I movimenti respiratorii, lo si sa, possono
« essere interrotti volontariamente in qualsiasi fase. Supponiamo ora che nel
« respiro calmo la espirazione sia, come generalmente si ammette dopo le
« ricerche classiche di DonpeRs sopra il meccanismo respiratorio, unicamente
« dovuta alla elasticità dei tessuti, distesi dall'azione dei muscoli inspiratorii.
« In queste condizioni l’arresto della cassa toracica, durante una espirazione
calma, potrebbe s.lamente aver luogo per mezzo di una tensione attiva
: dei muscoli inspiratori. Vale a dire che l’arresto del respiro durante
-
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 547
LucIanI (1) ritiene che nell'uomo in condizioni normali le espi-
razioni si compiano passivamente; nel cane invece l’espirazione
avverrebbe sempre con l’intervento più o meno attivo dei muscoli
dell'addome.
Se l’espirazione fosse un movimento passivo essa dovrebbe
compiersi più rapidamente e durare meno della inspirazione. In-
fatti tutti quei fattori, i quali costituiscono altrettante resistenze,
quando si tratta di dilatare la cavità del torace, agiscono in
senso favorevole alla espirazione. Invece nella veglia l’inspirazione
è più breve della espirazione.
Si può obbiettare che nella respirazione normale l’aria in-
contra maggiore resistenza nelle corde vocali durante l’espirazione
che non durante l’inspirazione, perchè nella inspirazione la rima
vocale subisce una dilatazione. Contro tale obbiezione sta il fatto
che la disposizione delle corde vocali è cosifatta da opporre minor
resistenza all'aria che esce dal torace (2). Inoltre Mosso (3) ha
trovato che nel sonno i rapporti di durata fra l'inspirazione e
l’espirazione si invertono, specialmente per il torace. Infine, e
questo è l'argomento più valido contro il dubbio sopra esposto,
anche negli animali con la trachea tenuta aperta con una grossa
cannula ho constatato assai spesso che l’espirazione dura più della
inspirazione.
« l’espirazione non sarebbe la inibizione di un impulso nervoso che parte
« dal centro e va ad un gruppo muscolare, ma sarebbe il principio di un
« nuovo impulso centrale diretto ad un gruppo di museoli di azione anta-
« gonista, Secondo il mio modo di vedere è molto facile distinguere nel
« sensorio queste due forme di impulsi nervosi centrali. (Iuibizione cioè di
« un impulso in atto e sviluppo iniziale di un nuovo impulso). Io sono certo
« che, quando si arresta il respiro nei corso di una espirazione, è una ìnì-
« bizione di un impulso nervoso in corso che si compie, e non una tensione
« dei muscoli inspiratori destinata a fermare l’accasciamento elastico dei
« polmoni e della cassa toracica ». (Vedi A. Fick, Einige Bemerhungen uber
den Mechanismus der Athmung. Festschrift des Vereins fùr Naturkunde zu
Cassel, 1886).
(1) L. Luciani, Delle oscillazioni della pressione intratoracica e intraad-
dominale. Studio sperimentale. Archivio per le Scienze mediche, 1878, vol. IT,
pag. 177-224; 301-352.
(2) I. RosentHaL, Die Physiologie der Athembewegungen und die Inner-
vation derselben. Hermann Handbuch der Physiologie, Bd. IV, th. II, p. 222.
(3) A. Mosso, Sul polso negativo e sui rapporti della respirazione toracico
e addominale nell'uomo. Archivio per le Scienze mediche, vol. JI, 1878.
pag. 437.
48 VITTORIO ADUCCO
Ho fatto parecchie volte la seguente esperienza. In un cane
colla tracheotomia iniettavo una buona dose di curare, dopo
aver scritto il respiro normale del torace e dell'addome. Appena
avvenuta la morte, scrivevo nuovamente il respiro, dilatando
il torace e l’addome dallo esterno, e regolando le escursioni in
modo che non fossero più ampie di quelle normali. Confron-
tando la espirazione normale con quella che ho detto e che si
potrebbe chiamare espirazione cadaverica, si vide sempre che que-
st'ultima era rappresentata da una linea ripida quasi verticale,
mentre alla normale corrispondeva una linea talora più, talora
meno inclinata sopra l’ascissa. Il che prova che l’espirazione di
un animale appena morto (e nel quale, quindi, entrano unica-
mente in funzione il peso e la gravità) è più rapida dell’espi-
razione di un animale vivo. Nell’animale vivente adunque deve
entrare in scena un fattore attivo.
Nella esperienza ora descritta abbiamo studiata l’espirazione
di un cane nel quale si era eliminata ogni possibilità di inter-
vento attivo. Ma noi possiamo fare l’ esperienza opposta. Cioè
possiamo studiare |’ espirazione di un cane al quale si tolgono
man mano i principali fattori passivi della medesima fino a lasciare
unicamente-la gabbia toracica, e dimostrare così che l’espirazione
si può compiere senza l’intervento di tutte queste forze elastiche.
Io mi convinsi di questo fatto in molti cani. L'esperienza riesce
molto meglio se si tratta di un cane dissanguato lentamente o
di un cane profondamente avvelenato con l’idrato di cloralio a
forti dosi. Su questi animali la temperatura si abbassa notevolis-
simamente e, quando l’animale è molto freddo, si possono com-
piere degli atti operatori gravissimi senza che esso soccomba.
In queste condizioni anzi si può sopprimere più o meno com-
pletamente la funzione respiratoria, e il cane continua a vivere.
il cuore a pulsare, i muscoli a contrarsi, se stimolati. Sopra degli
animali così freddi che la temperatura segnava appena 27°, ho
scritto il respiro toracico con un timpano a bottone, mentre il
cane, per ciò che riguarda la parte meccanica del respiro, era in
condizioni si può dire normali. Poi aprii largamente l’ addome
con due tagli in croce, come si usa per le autopsie, e spostai
i visceri addominali verso il bacino in modo da lasciar libero
completamente il diaframma. Il taglio trasversale arrivava fino
alla colonna vertebrale.
Scrissi a questo punto un nuovo tracciato del re:piro.
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 349
Avevo con questa operazione escluso l’azione delle pareti addo-
minali e dei visceri intestinali o per meglio dire l’azione della pres-
sione addominale, e quella dei gaz contenuti nelle intestina che,
secondo Beau e MaIssiat, avrebbero una azione importantissima
nel produrre l’espirazione. Il tracciato del respiro toracico scritto
in queste condizioni non offrì notevoli variazioni da quello scritto
con le pareti addominali intatte. La espirazione specialmente subì
pochissime modificazioni.
Assicuratomi di questo fatto aprii largamente il diaframma a
destra ed a sinistra. La mano introdotta attraverso alla apertura
del diaframma nel torace sentiva i polmoni flosci e raccolti contro
la colonna vertebrale molto in alto. I movimenti respiratorii con-
tinuarono. Il cuore non sì arrestò. Si avevano così dei movimenti
respiratorii ‘nutil.. La parte chimica della funzione respiratoria
era soppressa, rimaneva la parte meccanica: ma anche qui man-
cava l’elasticità polmonare, quella del diaframma e quella del-
l'addome. L’espirazione in questo animale, se si compieva, doveva
avvenire per opera o della elasticità e del peso delle pareti costali
o per attività di muscoli espiratorii speciali.
Se, come vuole P. BERT, l’espirazione è una funzione da at-
tribuirsi specialmente alla elasticità del polmone, avremmo dovuto
osservare nel nostro cane che l’ espirazione si compieva meno bene
di prima, mancando uno dei suoi fattori principali. Invece, anche
dopo l'operazione dell'apertura del diaframma, l’espirazione con-
tinuò a farsi benissimo.
Inoltre, se osserviamo i tracciati 4, 0, c, d della fig. 1° (1) che
rappresentano delle forme di escursioni respiratorie presentate dal
cane dal momento in cui si aprì il diaframma fino alla morte,
ci parrà subito più probabile la supposizione che la espirazione
si compia per opera di un’ azione muscolare. È inammissibile che
l’espirazione possa subire così profonde modificazioni, se essa è
dovuta alla elasticità ed al peso delle pareti toraciche, che in
un intervallo di tempo così breve, quale è quello decorso nella
nostra esperienza, non possono cambiare. Evidentemente vi è un
elemento che è suscettibile di manifestare la sua attività in modo
diverso in periodi di tempo anche relativamente vicini.
Da queste esperienze risulta che la espirazione avviene egual-
mente bene anche quando manchino la elasticità ed il peso del
(1) l tracciati, che si trovano nella tavola in fine del lavoro, vanno letti
da sinistra a destra.
350 VITTORIO ADUCCO
diaframma, del polmone, delle pareti e dei visceri addominali con
i gaz contenuti.
Se si suppone che l’espirazione sia un fatto dovuto alla ela-
sticità ed al peso delle parti spostate dalla inspirazione, vien
naturale il pensiero che la espirazione sarà più rapida se si aggiunge
qualche cosa che aumenti la somma di queste forze.
Perciò ho fatto le seguenti esperienze:
18 Esperienza. Ad un cane, che aveva una cannula nella tra-
chea, aprii largamente l'addome. Con un timpano a bottone scrissi
i movimenti del torace ed ottenni un primo tracciato, Fig. 2°.
Subito dopo scritto questo tracciato, passai intorno al torace
del cane numerosi giri di un tubo di gomma, in modo che il
tubo fosse mediocremente teso. Raccolsi un nuovo tracciato della
respirazione del torace con lo stesso metodo, Fig. 3°.
Se si paragonano i due tracciati si vede subito che l’espirazione
non diventò molto più rapida anche aggiungendo una forza che
agisse nello stesso senso dell’elasticità e del peso delle pareti
toraciche. Se si tira una linea orizzontale, che passi per la base
del movimento respiratorio, e poi dall’apice della inspirazione sì
abbassano su questa linea delle perpendicolari, sì potrà misurare
la durata di ogni inspirazione e di ogni espirazione. Limitiamoci
alla misura delle espirazioni in 7 atti respiratorii. Quando il torace
del cane funziona senza l'aggiunta del tubo, le espirazioni durano
rispettivamente dei tempi che stanno fra loro come
la
8 85 le e
Dopo l’aggiunta del tubo le espirazioni durano dei tempi che
stanno fra loro come
»
6b-4,5—6— 5,5 —
(n)
|
Sd
|
Sì
Da questi numeri si vede che sopra 7 atti respiratorii, in 4 l’'espi-
razione ebbe la stessa durata tanto con il tubo elastico quanto
senza. Delle 7 espirazioni fatte col tubo stretto intorno al torace
le due prime sono più brevi di quelle fatte senza il tubo. Mi
pare che questo fatto possa aiutarci a spiegare il meccanesimo,
per mezzo del quale le forze espiratorie si mettono tosto in con-
dizione di impedire il troppo rapido accasciarsi del torace. Dopo
aver stretto il laccio intorno al torace, l'altezza della curva pneu-
mografica aumentò. Questa maggiore dilatazione del torace au-
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 351
mentava le forze passive espiratorie sia per la maggior dilata-
zione in sè e per sè, sia per la maggior tensione del tubo di
gomma elastica. Ciò nulla meno, come si vede dai numeri che
ho riportato, l'espirazione non subì la modificazione, che si sarebbe
potuto aspettare.
Si può ripetere questa esperienza mettendo sul torace dei
pesi, i quali nella inspirazione saranno sollevati e nella espira-
zione contribuiranno ad abbassare le pareti del torace. Ecco come
erano disposte le cose.
2% Esperienza. Uno di noi si coricava sopra un materasso
posto su di un tavolo. Gli si poneva sul torace una larga e ro-
busta fascia, lunga in modo che oltrepassasse appena la linea
ascellare media. Questa fascia aveva ad entrambe le estremità
un grosso anello di ferro; a ciascun anello si annodava una
robusta corda. All’altra estremità della corda un uncino. Affinchè
l'apparecchio stesse ben fisso sul torace tenevo sempre attaccato
agli uncini un peso di )4 Kg. che veniva a cadere ai lati della
tavola. Inoltre perchè l’apparecchio potesse seguire i movimenti
respiratorii e non li impedisse soverchiamente per l’attrito contro
i margini del tavolo, disposi, a livello delle corde, una carrucola,
fissandola al tavolo in modo che la corda scorresse liberamente.
Sopra la fascia attaccai con della ceralacca alcuni tappi,
nei quali avevo precedentemente impiantato uno spillo. La punta
dello spillo si doveva poi configgere nel bottone del timpano. In
questa maniera la membrana elastica del timpano doveva seguire
esattamente tutti 1 movimenti del torace. Sull’addome posi un
pezzo metallico che portava un tappo con spillo nel centro per
fissare il bottone del timpano.
Alcuni pesi di 5 e 10 Kg. erano pronti per essere attaccati
agli uncini contemporaneamente da una parte e dall'altra. Nel
signor Bosio Emilio, d'anni 20, studente di medicina, dopo aver
disposte le cose in questo modo, scrissi la respirazione del torace
e quella dell'addome, Fig. 3°.
Misurando la durata della inspirazione e la durata della
espirazione toracica ed addominale in queste curve e facendo delle
medie, si trova che l’inspirazione sta alla espirazione come 10, 5
sta a 12, 2 pel torace, come 10 sta a 12, 6 per l'addome.
Tutto l'atto respiratorio dura 22, 6 nell’addome 22, 7 nel torace.
Poi attacco contemporaneamente 10 Kg. per parte. Il torace
così deve sollevare 20 Kg. di più nella inspirazione. L’espira-
352 VITTORIO ADUCCO
zione invece è aiutata da un peso di 20 Kg. che agisce nella
stessa direzione del peso e della elasticità delle coste.
Ottengo la forma di respiro della figura 5°.
Eseguendo le stesse misure anche per questa curva si ha
pel torace il rapporto 9,5 :10,7 per l'addome il rapporto
9,7 :12,5. L'atto respiratorio dura 22,2 per l’addome, 20, 2
pel torace.
Aggiungo altri 10 Kg. per lato. Ora il torace solleva un
peso di 40 Kg. in tutto nella inspirazione. L’espirazione invece
è favorita da un peso di 40 Kg.
Scrivo la respirazione toracica ed addominale ed ottengo un
tracciato analogo ai precedenti, Fig. 6°.
Qui il rapporto tra inspirazione ed espirazione è pel torace
11: 13,5, per l'addome 12, 5 : 15. Un intero respiro dura
27,5 per l'addome 24, 5 pel torace
Confrontando tra di loro i tracciati ottenuti senza peso, e con
un peso di 20 Kg. e con un peso di 40 Kg. oppure esaminando i
numeri che indicano la durata media della espirazione in rap-
porto con quelli che rappresentano la durata media della inspi-
razione, si vede che nell’insieme ogni atto respiratorio è diventato
più breve dopo l’aggiunta di un peso di 20 Kg. e che, aumen-
tando questo peso fino al doppio, l’atto respiratorio diventò più
lungo. Il rapporto però tra le singole fasi del respiro si con-
servò presso a poco inalterato perchè tanto l’inspirazione quanto
l’espirazione diventarono più brevi dopo l'aggiunta di 20 Kg.,
più lunghe del normale dopo l'aggiunta di 40 Kg.
Questa esperienza venne ripetuta sopra parecchie persone con
lo stesso risultato.
Si potrebbe pensare che la maggiore durata della espira-
zione dipendesse da una resistenza opposta all’aria che esce dal
torace, oppure che fosse da attribuirsi ad impulsi volontari. Ma
tutti coloro, sui quali venne fatta questa esperienza, sentivano
che l’espirazione si compieva indipendentemente dalla volontà, e
che niuna resistenza veniva opposta dalle vie aeree.
Il fatto che l’intero atto respiratorio e le sue due fasi, con-
siderate isolatamente, diventarono più brevi, caricando il torace
con un peso di 20 chilogrammi, più lunghi adoperando un peso
doppio, mentre a priori parrebbe che avrebbero dovuto durare
di meno tanto nell’uno quanto nell’altro caso, è difficile da spie-
garsi. È questo, certamente, un fenomeno assai complesso e che
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 399
richiederebbe di essere analizzato meglio di quello che io finora
non feci.
3° Esperienza. Ho pure fatta la stessa esperienza sopra un
cane. Il cane era legato sopra un apparecchio di contenzione. In
tutto il resto le cose erano disposte come per l’uomo.
Nel cane senza pesi ebbi la forma di respiro riprodotto dalla
figura 7°.
Dopo aver caricato il torace con un peso di 10 Kg. per
parte, cioè con un peso di 20 Kg. in tutto, il respiro prende
la forma rappresentata dalla fig. 8°.
Raddoppio il peso sul torace. Ora il cane solleva nella in-
spirazione 40 Kg. La curva del respiro sì modifica nella forma,
come si vede dalla fig. 9°.
Basta dare un'occhiata a queste tre figure per accorgersi come
anche nel cane l’espirazione subisce solo delle leggere modifica-
zioni nella durata, quando sì aggiunge un peso, che agisce nella
stessa direzione del peso e della elasticità del sistema espiratorio.
Ho misurato la lunghezza delle singole inspirazioni ed espirazioni
ed i numeri trovati confermano il fatto.
Il torace, adunque, impiega, per ritornare a posto, presso a
poco lo stesso tempo, sia quando agiscono solamente le forze sue
proprie, sia quando si aggiunge una nuova forza che si sommi
alle altre. :
Le esperienze fatte sull'uomo e sul cane, caricando il torace
di pesi, che agiscono nello stesso senso delle forze espiratorie ,
provano che la espirazione non è un fatto soltanto passivo, dovuto
alla elasticità ed al peso del torace e del polmone. Se fosse
altrimenti ogni peso posto sul torace dovrebbe accelerare la ca-
duta delle pareti toraciche nella espirazione.
Abbiamo visto che si può aprire l'addome, che si può ta-
gliare il diaframma senza che l’atto espiratorio subisca variazioni
notevoli. Se l’espirazione può avvenire senza il concorso della
elasticità polmonare, del diaframma, delle pareti addominali, delle
intestina e dei gaz intestinali, bastando che siano ancora intatti
e coste e sterno e muscoli intercostali, bisognerà egli attribuire
questo movimento solo alla elasticità ed al peso delle pareti
toraciche oppure ricorrere ad un altro fattore?
Per rispondere a questa domanda ho fatto la seguente espe-
rienza. Ad un cane aprii, durante la narcosi cloroformica, lar-
gamente l'addome fino alla colonna vertebrale, avendo cura di
354 VITTORIO ADUCCO
produrre la più piccola perdita di sangue possibile. Poscia fissai
nella quinta costa di destra e nella quinta costa di sinistra, ‘a tre
dita trasverse dalla cartilagine costo-sternale una vite, alla quale
era attaccato un forte filo munito di un uncino alla estremità
libera. Ciascun filo passava sopra una carrucola fissata a lato
del torace all’altezza del punto di impianto della vite.
Svegliatosi il cane, si sospendevano dei pesi uguali ai due
uncini. Per l’azione di questi pesi, le pareti del torace dovevano,
a livello della quinta costa, essere trascinate in fuori e la cavità
del torace dilatarsi. Cioè era favorita l’inspirazione.
Nella espirazione, cioè quando il torace si restringeva, doveva,
perchè essa avvenisse, essere sollevato questo peso.
Se le forze espiratorie, qualunque essere fossero, o attive o
passive, non erano capaci di sollevare quel dato peso, il torace
sarebbe rimasto dilatato. Si poteva quindi stabilire con sufficiente
esattezza quale fosse il massimo peso che le pareti del torace
erano capaci di sollevare, quando, cessata l’inspirazione, si ab-
bassavano. Si misurava così lo sforzo espiratorio.
Con un peso di Kg. 1 (74 Kg. per lato) il torace a livello
della quinta costa eseguisce delle escursioni di m. 0,007. Con
un peso di Kg. 2 (1 per lato) le escursioni toraciche erano di
m. 0,005. Infine con un peso di Kg..3 (1 14 per lato) le escur-
sioni erano di. m. 0,004. È
Poniamo a lato di ciascun peso un’asta verticale graduata
in centimetri con lo zero della graduazione in alto, e leggiamo
sopra di essa quale è il punto più alto a cui viene sollevato
il peso.
A destra il peso di Kg. 1% viene sollevato fino alla divi-
sione 31,7; a sinistra. fino. a 29,9.
Stabilita così l'altezza alla quale veniva sollevato il peso di
Kg. 1/!/,, si fece morire rapidamente il cane, iniettandogli una
dose abbondante di curare. Appena morto il cane erano possibili
tre casì:
a) O il peso veniva sollevato ad un'altezza più grande, cioè
il torace si era depresso:
5) O rimaneva alla stessa altezza;
c) Oppure si abbassava, cioè il torace si era dilatato.
Nel nostro caso, avvenuta la morte del. cane si trovò, subito
dopo, che il peso di destra si era abbassato di m. 0,006, quello
di sinistra di m. 0.002, Naturalmente, essendosi fatta l’osser-
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 355
vazione immediatamente dopo la morte, era escluso il sospetto
che si potesse trattare di fenomeni dovuti alla rigidità cadave-
rica. Per mezzo di questa esperienza da una parte sappiamo quale
peso abbiano potuto sollevare le forze espiratorie nel vivente ed
a quale altezza, dall'altra sappiamo pure che, appena cessata
la vita, questo stesso peso non potè più essere tenuto sollevato
alla stessa altezza di prima.
Siccome l’altezza a cui venne tenuto il peso nell’ animale
morto ma non ancora rigido, ci dà la misura dello sforzo che
possono esercitare il peso e l'elasticità delle pareti toraciche,
noi possiamo stabilire un confronto col peso sollevato nel vivo,
e dire se la forza sviluppata nell’atto espiratorio del vivente sia
maggiore o minore od eguale.
Poniamo il caso che sia maggiore, allora bisognerà conclu-
dere che il di più deve attribuirsi a qualche cosa di diverso
dalla elasticità e dal peso delle pareti toraciche.
L'esperienza, che ho sopra riferita, mi pare dimostri in modo
chiaro che le forze espiratorie, le quali agivano sopra la quinta
costa, erano capaci di vincere una resistenza di Kg. 14, mentre
il peso e la elasticità delle pareti toraciche da sole non ne
erano capaci.
La stessa esperienza, ripetuta in un cane con le pareti addomi-
nali intatte, diede lo stesso risultato. È quindi confermato che
nell’animale vivente l'atto espiratorio non può ritenersi dovuto
unicamente alla elasticità ed al peso delle pareti toraciche, delle
pareti addominali e del contenuto addominale.
Un modo più semplice di misurare lo sforzo della espirazione
è quello di paragonare la pressione positiva espiratoria di un
respiro normale con quella di un respiro prodotto artificialmente
in un cane curarizzato. La esperienza per risolvere tale questione
era disposta nel seguente modo.
Il cane era solidamente legato sull'apparecchio di contenzione
di Rothe. Gli si faceva la tracheotomia e nella trachea si im-
piantava una cannula che ne avesse il calibro. La cannula per
mezzo di un tubo di gomma era messa in comunicazione con
una delle branche di un tubo di vetro a tre tubulature. La
seconda tubulatura comunicava con un manometro -a mercurio,
munito di galleggiante e penna scrivente. La terza tubulatura
era libera. Intorno al torace ed intorno all'addome era allac-
ciato un pnenmografo di Marey, nuovo modello, che trasmetteva
356 VITTORIO ADUCCO
i suoi movimenti ad un timpano registratore. Il galleggiante del
manometro scriveva sopra il foglio affumicato di un motore di
Baltzar a velocità piccolissima.
La punta della penna del timpano registratore scorreva contro
un’asta graduata in millimetri di guisa che cera facile conoscere
l'ampiezza in mm. delle singole fasi inspiratorie ed espiratorie
del respiro nel torace e nell’addome.
Così disposte le cose, mentre il cane respirava tranquillamente,
chiudevo col polpastrello del dito pollice rapidamente ed erme-
ticamente la tubulatura libera del tubo a tre vie all’apice della
inspirazione, quando il torace stava per abbassarsi. Nel momento
in cui chiudevo l’imboccatura del tubo leggevo sull’asta graduata
quanto si fossero sollevati il torace e l’addome sopra l’ascissa.
L’aria che veniva cacciata dal torace faceva sollevare il galleg-
giante del manometro, che tracciava una linea verticale sul ci-
lindro. Questa rappresentava la pressione espiratoria positiva di
un cane, il torace e l’addome del quale nella inspirazione cor-
rispondente si erano innalzati sopra l’ascissa di una quantità nota.
Feci in questo modo numerose esperienze, avendo cura che
ciascuna esperienza avvenisse dopo un riposo di qualche minuto.
Restava così determinata numericamente e graficamente la pres-
sione espiratoria di un cane (nel quale erano state eliminate con
la tracheotomia le resistenze variabili opposte dalla laringe, dalla
faringe, dalla bocca e dalle cavità nasali), per una data espan-
sione inspiratoria del torace e dell'addome.
Esaurita questa prima parte della esperienza, curarizzai il
cane con una forte dose di curare. ]l respiro si arrestò rapida-
mente. Allora innestai sulla tubulatura libera una siringa di
grande capacità. Chiudevo con le dita il tubo di comunicazione
col manometro. Insufflavo dell’aria nei polmoni finchè la penna
del timpano registratore non mi avesse indicato che il torace e
l'addome si erano dilatati di una quantità corrispondente alla
dilatazione del torace e dell'addome in una delle precedenti espe-
rienze. Allora fermavo lo stantuffo della siringa, aprivo la co-
municazione col manometro ed ottenevo così la grafica della
pressione espiratoria di un torace che sì deprime unicamente per
il peso e per la elasticità sua e delle parti vicine.
Le pressioni espiratorie, ottenute in questo modo, erano molto
più alte di quelle, che si avevano quando il cane respirava nor-
malmente. La ragione di questo fatto è la seguente: Mentre in
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 357
un cane vivente ad una dilatazione determinata del torace cor-
risponde una certa quantità di aria inspirata, nel cane, appena
morto, per ottenere una dilatazione eguale, bisogna insufflare una
quantità di aria quattro o cinque volte maggiore. Naturalmente
quest’aria si trova in uno stato di forte compressione, e, aprendo
la comunicazione col manometro, avremo una pressione espira-
toria molto maggiore.
Che sia necessaria una quantità così grande di aria si capisce
se si pensa alle resistenze che deve vincere per togliere le pareti
del torace e dell'addome dalla posizione di riposo (1). Questa
esperienza dà un'idea dello sforzo che si fa nella inspirazione.
L'esperienza, adunque, fatta in questo modo non dava più
la misura della pressione espiratoria.
Per ovviare a tale inconveniente pensai di dilatare il torace
e l'addome dal di fuori. Perciò impiantavo nella parte posteriore
dello sterno una vite. Facevo trazione sulla vite in alto ed in
avanti, imitando il movimento dello sterno nella respirazione
normale. Quando avevo ottenuto una dilatazione eguale ad una
delle precedenti od anche maggiore, chiudevo la via libera del
tubo a forchetta, e lasciavo andare la vite. Allora il torace e
l’addome si accasciavano per proprio peso e il manometro se-
gnava la pressione.
Le pressioni espiratorie ottenute in questo modo furono sempre
minori di quelle che si avevano nel cane normale; si ebbero delle
pressioni minori anche dilatando maggiormente la cavità respi-
ratoria, cioè anche allontanando di più le pareti del torace e
dell'addome dalla loro posizione di riposo.
La pressione espiratoria è minore quando le pareti, che cir-
condano la cavità del torace, agiscono unicamente per il proprio
peso e per la propria elasticità, come avviene in un cane appena
(1) Le resistenze, che la inspirazione deve vincere, sono considevoli. In-
fatti la dilatazione del torace prodotta dalla inspirazione ha per effetto :
1° Uno allontanamento delle pareti ossee del torace dalla loro posizione
di riposo;
2° Una dilatazione del polmone ;
3° Uno spostamento dei visceri addominali (fegato, milza, stomaco,
matassa intestinale) e delle pareti addominali;
4° Una compressione dei gaz intestinali;
5° Una diminuzione della pressione endotoracica.
593 VIITORIO ADUCCO
morto, al quale si dilata la cavità del torace per mezzo di una
forza che agisce dall'esterno. È maggiore quando l’animale è
vivo e respira normalmente. Bisogna quindi dire che nella espi-
razione normale interviene un elemento attivo. Altrimenti la dif-
ferenza nella pressione espiratoria non sarebbe spiegabile.
Riepilogando i risultati ottenuti possiamo dire che nella espi-
razione normale la durata, la pressione esercitata, il lavoro ese-
guito sono maggiori che nella espirazione cadaverica; e che,
siccome nella espirazione cadaverica agiscono soltanto gli elementi
passivi, i quali agiscono nella espirazione normale, di necessità
bisogna ammettere nella espirazione normale l'intervento di un
elemento attivo, tanto più che essa non è notevolmente modifi-
cata dalla aggiunta di forze passive, che operino nello stesso
senso di quelle già esistenti.
CapitoLo II.
Inspirazione passiva.
Qualche volta si può già riconoscere con l'occhio e con la
mano che l’espirazione è attiva. In tali casi basta mettere un
apparecchio registratore sul torace e sull’addome per ottenere dei
tracciati evidenti. I casi più dimostrativi sono quelli nei quali
si ha una ‘nspirazione passiva e tutto l’atto respiratorio si compie
per opera della espirazione.
Riferisco alcune di queste osservazioni.
Osservazione 1°. — ?%, 85. Ad un cane tracheotomizzato
sì iniettano nella giugulare a più riprese 3 gr. di idrato di
cloralio.
Dapprima il respiro è periodico remittente, poi diventa inter-
mittente con lunghe pause. L’espirazione è violenta nel torace e
nell’addome. Dopo l’ultima iniezione la forma del respiro cambiò
affatto. Le pareti toraciche erano completamente inattive. I mo-
vimenti dell'addome erano così forti che trascinavano le pareti
del torace. Il respiro si compieva tutto a spese dell'addome del
quale il torace seguiva i movimenti. Stringendo fra le dita i
muscoli retti anteriori dell’addome li sentivo indurirsi, irrigidirsi
nella espirazione, e sfuggire violentemente verso la colonna ver-
tebrale. In questo movimento le pareti laterali dell'addome si
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 359
dilatavano. Le espirazioni addominali non avevano tutte la stessa
energia. Ce n’era alternativamente una energica ed una debole.
Ponendo un timpano a bottone sullo sterno ed un altro sulla
linea alba ho raccolto il tracciato riprodotto nella fig. 10.
L'atto respiratorio si compie per mezzo della espirazione addo-
minale (dei muscoli retti). Il centro inspiratorio è paralizzato.
Si vede dai punti di repere (R) che il torace segue esattamente i
movimenti dell’addome. La contrazione dei muscoli retti addo-
minali del cane deve diminuire la capacità della cassa toracica
in tutta la sua estensione. Infatti nel cane il muscolo retto del-
l'addome, come me lo hanno dimostrato numerose dissecazioni,
si inserisce anteriormente per mezzo di un fascetto muscolare al
margine posteriore della nona cartilagine costale, quindi, per
mezzo di una lamina tendinea splendente, larga da tre a quattro
centimetri, alla parte interna delle cartilagini costali anteriori,
partendo dalla ottava ed infine per mezzo della estremità ante-
riore di questa lamina, alla prima costa per l'estensione di
2 cm. 4 circa.
Osservazione 2°. — © 86. Un fatto analogo ebbi occasione di
osservare in un cane, che aveva ricevuto nella vena giugulare 2 cc.
di una soluzione di cloridrato di cocaina al 2%. Il cane, subito
dopo l'iniezione, presentò delle forti convulsioni toniche, che cede-
vano solo al cloroformio. In uno dei periodi di calma provocati
dall'uso del cloroformio comparve la inspirazione passiva. Il cane
espirava fortemente deprimendo l'addome ed il torace. Poi ad-
dome e torace ritornavano in sito e questo movimento costituiva
l’inspirazione.
Poteva darsi che il torace fosse paralizzato e che si depri-
messe per effetto della contrazione del diaframma. Questa pos-
sibilità però venne tosto esclusa giacchè alla depressione del
torace si accompagnava pure una depressione dell’addome ed
inoltre, fatto che toglieva ogni dubbio, il deprimersi del torace
corrispondeva ad una forte emissione di aria dalla trachea. Un’al-
tra prova che il centro inspiratorio era inattivo è questa :
bastava una leggera pressione della mano sul torace per impe-
dirne il movimento di ascesa. Quando l’inspirazione è attiva,
neppure con dei pesi considevoli si può impedire la dilatazione
del torace.
Osservazione 3°. — i 86. In un cane tracheotomizzato si
inietta del curare nella vena giugulare. Mentre si sta attenti
360 VITTORIO ADUCCO
per aspettare il momento di fare la respirazione artificiale, il
tipo respiratorio cambia e diventa, per così dire, negativo.
Le pareti laterali dell’addome si contraggono fortemente e
cacciano l’aria dalla trachea, e contemporaneamente il torace si
deprime. Dopo il torace ritorna in sito. Tutto il meccanesimo
della inspirazione sta nella elasticità delle pareti del torace.
Anche nei primi minuti della respirazione artificiale gli unici
movimenti muscolari che si osservano di tanto in tanto sono delle
contrazioni dei muscoli laterali dell'addome, che hanno effetto
espiratorio.
Osservazione 4°. — % 86. In un cane immerso nella nar-
cosi cloroformica si ha una forma di respiro intermittente con
delle lunghe pause. Questo respiro presenta la particolarità che
il primo movimento respiratorio a comparire, dopo l’apnea, non
è una inspirazione ma una espirazione che abbassa fortemente le
pareti del torace e quelle dell’addome. Dopochè torace ed ad-
dome si sono così abbassati ritornano a posto, e questo secondo
movimento costituisce l’inspirazione.
Continuando l’esperienza, dopo 17 minuti, il respiro riprese
la forma che si considera come normale.
Osservazione. 5°. — 4 86. Cane tracheotomizzato. Iniezione
di 5 gr. di idrato di cloralio al 50 % nella giugulare. Dalle
ore 3.55 alle 4 presenta una forma di respiro in cui la posi-
zione di riposo del torace è all’apice della inspirazione ed alla
base della espirazione. Cioè, se si parte da una pausa, si vede
che il primo movimento ad avvenire è un abbassamento forte
del torace che fa sollevare l'addome. Un foglio di carta o la
mano posti davanti alla cannula tracheale dimostrano che, du-
rante questo movimento, l’aria esce dal torace. Poi il torace si
risolleva e l’addome si riabbassa. Il foglio è tirato verso la
trachea.
L’inspirazione è passiva: l’espirazione è così violenta che ad
ogni colpo espiratorio protrude la mucosa anale. Scrivo un intero
foglio di tale forma di respiro, mettendo un timpano a bottone
sul torace ed un altro sull’addome. I tracciati confermano pie-
namente ciò che si era osservato, Fig. 11.
Inoltre il tracciato fa vedere nella pausa una serie di piccoli
movimenti, che corrispondono alle contrazioni cardiache.
Se si confronta questa figura con la figura 10 si riconosce
subito la grande differenza che vi è tra luna e l’altra. Nella
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 361
figura 10 il torace è passivo, l'addome attivo: nella figura 11
invece il torace è attivo, l'addome passivo.
Allo stato descritto di paralisi inspiratoria tenne dietro una
forte attività del centro inspiratorio, che durò 15 minuti circa.
Si fece un’altra iniezione di 2 gr. di cloralio. Produsse grande
rarefazione del respiro, paralisi inspiratoria e tendenza al periodo.
Questo alternarsi di periodi di attività e di paralisi del centro
inspiratorio si ripetè parecchie volte nel corso dell’ esperienza.
Durante la paralisi inspiratoria il centro della espirazione era
molto attivo.
Nei periodi di attività inspiratoria ho raccolto dei tracciati
di cui riferisco un pezzo, perchè si veda la grande differenza tra
la forma di respiro espiratorio o negativo e la forma comune,
Fig. 12. ,
Dalle esperienze che ho riferite risultano i seguenti fatti:
Talora i centri della inspirazione cessano di mandare ai loro
muscoli l'impulso al movimento. Il centro della espirazione allora
agisce isolato, e dimostra veramente la sua attività. L’inspira-
zione si compie per opera della elasticità delle pareti toraciche,
depresse al disotto della loro posizione di riposo. Quando si ottiene
con un mezzo qualunque la paralisi del centro inspiratorio, e che
il centro espiratorio continua a funzionare, la funzione del respiro
si compie egualmente e non compaiono segni di asfissia.
In condizioni normali, cioè durante l’attività dei due centri,
la curva, che rappresenta i movimenti del torace, nell’inspira-
zione si innalza al disopra della ascissa e l’aria penetra nel pol-
mone; nell’espirazione ritorna all’ascissa e l’aria esce dal polmone.
Invece, quando il centro della inspirazione è paralizzato, l’atto
respiratorio comincia con una espirazione che abbassa il torace
al disotto dell’ascissa e finisce con una inspirazione durante la
quale il torace ritorna all’ascissa. Vale a dire: In condizioni
normali l'atto respiratorio si compie al disopra della ascissa (po-
sitivo): quando il centro inspiratorio è inerte, l’atto respiratorio
si compie al disotto della ascissa (1) (negativo).
(1) L’ascissa, parlando di respiro, rappresenta la posizione normale del
torace nel riposo, cioè quella posizione nella quale la somma algebrica di
tutte le forze che agiscono sulle pareti toraciche è eguale a zero.
RosentHaL, In Hermann’s Handbuch der Physiologie, Bd. IV, th. II,
pag. 177-178.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 28
362 VITTORIO ADUCCO
Quando il centro della inspirazione non funziona più, il re-
spiro può compiersi per l’azione espiratoria o dei muscoli ante-
riori dell'addome o dei muscoli laterali dell'addome o dei muscoli
espiratori del torace (1).
Ciascuno di questi tre gruppi di muscoli espiratori può agire
di per sè, indipendentemente dagli altri, oppure possono associarsi
ed agire di conserva.
Questa forma di respiro, che non mi risulta sia stata osservata
e descritta finora nell’uomo e negli animali superiori, venne am-
messa come teoricamente possibile da RosENTHAL (2).
Negli animali articolati, poi, si può dire che è la regola come
hanno dimostrato le bellissime ricerche sperimentali fatte da FELIX
PLATEAU sopra i movimenti respiratorii degli insetti (3).
CapitoLO III.
Modificazioni della espirazione.
E un fatto constatato che, durante la veglia, l’inspirazione
è più breve della espirazione, invece nel sonno l’inspirazione è
più lunga. È così caratteristica questa modificazione del rapporto
(1) Ho studiato queste tre forme di espirazione in un lavoro sopra l’espi-
razione forzata che pubblicherò quanto prima.
(2) RosEeNTHAL, Die Athembewegungen. — In Hermann’s Handbuch der
Physiologie, Bd. IV, th. II, cap. VIII.
(3) FeLix PLATEAU, Recherches expéerimentales sur les mouvements respi-
ratoires des insects. Mémoires de l’Académie Royale des Sciences, des Lettres
et des Beaux-Arts de Belgique, tome XLV, Bruxelles 1884, di 219 pagine.
Riferisco alcune righe del lavoro di PLaTEAU dove è riassunto lo stato della
questione. A proposito dell’Hydrophilus piceus, nel quale non trovò alcun
muscolo di azione inspiratoria dice a pag. 46: « La mancanza di muscoli
« inspiratori conduce ad una conclusione interessante. Una serie di autori,
« basandosi sopra questo fatto anatomico, hanno ammesso con ragione che
« nella maggior parte degli articolati a respirazione tracheale, l’espirazione
« sola è attiva ed ha luogo per l’influenza di contrazioni muscolari, mentrechè
« l’inspirazione è un fenomeno puramente passivo. L’inspirazione è fatta
« dall’addome che riprende il suo volume primitivo per l’elasticità dei te-
« gumenti e del sistema tracheale. In altri termini il meccanismo della
« respirazione dell’idrofilo e di numerosi altri insetti (fanno eccezione gli
« imenotteri, i friganidi, gli acridii) è esattamente l’opposto di quello che
« sì osserva nei mammiferi, nei quali l’inspirazione è dovuta all’azione di
« muscoli speciali, cioè è attiva, mentre l’espirazione calma è semplicemente
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 363
reciproco, che esiste tra i due atti respiratorii , che basta per
assicurarci se uno dorma profondamente (1).
Io volli sapere come si modificasse nel sonno la pressione
positiva espiratoria e la pressione negativa inspiratoria.
Di notte feci coricare C. A. nel laboratorio, dopo avergli
applicata sul volto una maschera di guttaperka, che teneva er-
meticamente, avendola fatta aderire con del mastice da vetrai.
La maschera è munita di un grosso tubo di ottone che ha presso
a poco il diametro della trachea di un uomo. Un tubo a tre
vie è in comunicazione da una parte con la maschera, dall’altra
con un manometro a mercurio, dalla terza è libero. Il mano-
metro. scrive sopra un cilindro infumato.
Io voleva scrivere l’altezza della pressione negli atti respi-
ratorii calmi e normali e non quella di un’ inspirazione o di
un’espirazione forzata (2).
Raccomandavo a C. A. di respirare con le narici, tenendo la bocca
chiusa. Quindi, ora al principio della inspirazione ora al principio
della espirazione, chiudevo la terza via, cioè la via libera, del
tubo di congiunzione fra la trachea ed il manometro. Poi lo
lasciavo addormentare e, quando ero ben sicuro che il sonno era
profondo, ripetevo l’esperienza nello stesso modo. Naturalmente
la prova non si poteva ripetere molte volte, perchè ben presto
C. A. si svegliava. Con queste esperienze trovai che nella veglia
la pressione negativa inspiratoria aveva un valore medio di
mm. 5,6 di Hg., la positiva espiratoria un valore medio di
mm. 1,37; nel sonno per l’inspirazione ottenni una media di
4,5, per l’espirazione una media di 3,1. Nella veglia adunque
la pressione positiva espiratoria è minore che nel sonno; la pres-
sione negativa inspiratoria è maggiore (3).
« passiva ed è da riferirsi alla elasticità polmonare ed al rilasciarsi dei
a muscoli inspiratori ».
(1) A. Mosso, Sul polso negativo e sui rapporti della respirazione ad-
dominale e toracica nell'uomo. Archivio per le Scienze mediche, anno II,
fase. 4", 1878, pag. 437.
(2) Si sa che gli sforzi espiratorii dell’uomo sono capaci di produrre una
pressione positiva superiore alla pressione negativa che può essere prodotta
dalla inspirazione. SeELIG (Ueber der Athmungsdruck des Kaninchens,
Pfliiger's Archiv. XXXIX, pag. 237-241) trovò che nei conigli avviene il
fatto opposto.
(3) I valori della pressione positiva espiratoria e negativa inspiratoria nella
veglia corrispondono a un dipresso con quelli ottenuti da DonpERS (Zeitschr.
364 VITTORIO ADUCCO
Sullo stesso individuo ho fatte altre ricerche durante il sonno
per vedere come si modificassero i movimenti del respiro au-
mentando le resistenze ad uno degli atti espiratorii.
Adattavo la maschera in modo che chiudesse esattamente e
la mettevo in comunicazione per mezzo di un grosso tubo di
gomma con una delle branche di un tubo a forchetta. Le altre
due branche di questo tubo andavano l’una ad una valvola di
Miller inspiratoria, l’altra ad una valvola di Miiller espiratoria.
La valvola inspiratoria era molto più ampia dell'altra. Due tim-
pani con bottone poggiavano l’uno sull’addome, l’altro sul torace,
sostenuti da un lungo bastone di piombo (1). Essi trasmettevano
i movimenti dell’addome e del torace a due timpani a leva
egualmente sensibili, che scrivevano sopra un cilindro infumato.
Quando l’individuo era profondamente addormentato, scrivevo
alcune linee di respirazione normale, quindi aumentavo la pres-
sione nella valvola espiratoria, aggiungendo in essa delle quantità
note di acqua, senza aggiungerne in quella inspiratoria.
La resistenza in più, che si introduceva nella valvola espi-
ratoria, non poteva superare i 2-3 cm. di acqua.
C'era però da temere che, per l’aumentata resistenza nella
valvola espiratoria, non avvenisse che la corrente dell’aria espi-
rata si facesse strada anche nella valvola inspiratoria.
Per ovviare a tale inconveniente si aumentò, come dissi, la
dimensione in larghezza della valvola inspiratoria senza alterare
il diametro dei tubi.
Paragoniamo, ora, le figure 13 e 14 (vedi tavola) che ven-
nero prese da tracciati raccolti la notte del 30 novembre 1885
mentre C. A. dormiva profondamente. Nella figura 13, che rap-
presenta la forma del respiro normale, sì vede che la linea discen-
dente della grafica addominale va discendendo uniformemente
fino all’ascissa. Nella figura 14 in cui sì aggiunse dell’ acqua
nella valvola espiratoria si vede subito che l’altezza della curva
f. rat. Med., IIl, ed Hermann's Handbuch, Bd. IV, th. II, pag. 222). —
EwaLp, con altro metodo, che mi sembra meno esatto, trovò che la pressione
inspiratoria è alquanto minore della pressione espiratoria (J. R. EwaLp,
Pfliger®s Archiv., XIX, pag. 461, 1879 ed Hermann'’s Handbuch, Bd. IV,
th. JI, pag. 223).
(1) A. Mosso, La respirazione periodica e la respirazione superflua 0 di
lusso. Estratto dalle Memorie della R. Accad. dei Lincei, anno CCLXXXII,
1884-85, pag. 50.
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 305
del torace diminuisce. Oltre a questo fatto si vede pure che la
linea discendente dell'addome, cioè nella espirazione addominale,
la quale prima aveva una inclinazione uniforme e senza acci-
dentalità, presenta verso il terzo inferiore come un arresto, che
sì manifesta con una maggiore orizzontalità della linea.
Se si osserva la curva del respiro toracico si vede che la
linea discendente o espiratoria in complesso non ha subìto al-
cuna modificazione notevole sia nella durata, sia nel decorso.
Da questa esperienza io credo di poter conchiudere che la
espirazione del torace, anche quando si compie nelle condizioni
della massima calma e della massima tranquillità, come appunto
avviene nel sonno, è un fenomeno attivo. Questo fenomeno è
dovuto ad una azione muscolare, la quale è capace di superare
una certa resistenza, e ciò senza che la forma, il decorso e la
durata del movimento risultante abbiano a subire una alterazione.
Invece nelle condizioni normali le pareti dell'addome sono passive
nella espirazione, come lo sono nell’inspirazione. Una resistenza
che si opponga al movimento di discesa delle pareti addominali
deve modificarlo, giacchè questo movimento è dovuto unicamente
al fatto che le pareti addominali, scostate dalla loro posizione
di riposo, tendono pel proprio peso e per la propria elasticità
a ritornarvi. Cessata l’inspirazione le pareti addominali ricadono
con una velocità, con una energia che per sè non può aumentare
nè diminuire. In queste condizioni una resistenza, che si oppone al
movimento, non potrà essere vinta che a scapito della velocità.
Le modificazioni che l’espirazione può subire nella forma ,
nella durata e decorso sono molto frequenti.
Nel corso di questo lavoro ho raccolto molte osservazioni ,
le quali dimostrano che l’espirazione è un atto che dipende in
modo intimo dallo stato del sistema nervoso.
Riferirò alcune di queste osservazioni.
Osservazione 1°. — Il primo caso che ebbi occasione di
osservare è quello di una cagna alla quale da parecchi giorni
non si dava nè cibo, nè bevanda. Dopo 5 giorni di digiuno
l’animale era ridotto ad uno stato di grande emaciazione. Non
era più in grado di muoversi e giaceva sul fianco. Aveva una
temp. rettale di 27,9, 23 pulsazioni in 30", 6 resp. in 60°.
Si raccoglie il tracciato della respirazione toracica col pneu-
mografo di Marey.
Nella figura 15 è riprodotto un atto respiratorio del torace.
366 VITTORIO ADUCCO
La linea discendente rappresenta l’inspirazione, che è lentissima,
mentre l’ espirazione è molto rapida e si può paragonare alla
espirazione cadaverica.
Per rianimare il cane gli si inietta dell’acqua calda e del
latte nello stomaco, gli si danno dei pezzetti di carne, e lo si
adagia in un luogo caldo.
Alcune ore dopo la temperatura si è rialzata a 34, 2. L’a-
nimale si regge in piedi e cammina barcollando. Sta molto.
meglio. Scrivo la respirazione toracica prima con un pneumografo
di Marey, poi con un timpano a bottone applicato sulla parete
laterale del torace.
Riporto un pezzo di quest’ ultimo tracciato, in cui si vede
scritto anche l'impulso cardiaco. Nella fig. 16 si vede che la
linea della espirazione è di gran lunga meno ripida che nel trac-
ciato precedente. Il torace si accascia lentamente. L’espirazione
dura più della inspirazione. Negli animali profondamente denu-
triti e indeboliti, nei quali l’attività funzionale dei centri ner-
vosi va a poco a poco spegnendosi, si osserva che il centro
inspiratorio ha ancora una azione energica, quando già il centro
espiratorio non funziona più. "Tutta l’espirazione è passiva. Mano
mano che l’animale va rimettendosi in forze si osserva pure che
rientra in azione il centro espiratorio e l’espirazione diventa più
lenta e dura più dell’inspirazione.
Osservazione 2*. — Talora l’espirazione si compie in due
tempi. Nel primo tempo è rapida, nel secondo tempo è lenta (1).
Ho potuto osservare questo fatto in un cane morente.
Per estirpare il fegato ad un cane, mentre respirava ancora,
si aprirono le pareti addominali con un taglio a croce, e si
esportò il fegato. Allora aprii largamente il diaframma. Il cane
faceva sempre dei movimenti respiratorii. Nelle condizioni in
cui si trovava questo animale, dato che l’espirazione fosse sem-
plicemente passiva, si sarebbe dovuto osservare, dopo la dilata-
(1) Secondo A. Fick l’espirazione sarebbe più lenta, quando viene abban-
donata alle sole forze elastiche. « Se arrestiamo il respiro nel decorso di una
« fase espiratoria, possiamo accorgerci, osservando attentamente, che il resto
« del movimento espiratorio avviene lentamente. Si può pure premeditata-
« mente lasciare che tutta l’espirazione si compia per mezzo delle forze
« elastiche. In tal caso essa dura così a lungo che il numero dei respiri
« diventa insufficiente ...» (Vedi A. Ficg Lavoro citato). Dalle mie ricerche
risulta invece che l’espirazione è più lenta quando è attiva.
ESPIRAZIONE ATTIVA ED INSPIRAZIONE PASSIVA 3607
zione del torace, una specie di caduta delle pareti toraciche
nella posizione primitiva. Invece l’espirazione si compiva in modo
molto meno semplice. C'era un primo tempo nel quale le pareti
toraciche cadevano rapidamente; un secondo tempo nel quale
sì accasciavano con maggiore lentezza, come se fosse necessario
vincere una resistenza più grande.
Osservazione 3". — Riferisco un’altra esperienza nel corso della
quale si osservarono in modo assai spiccato gli stessi fenomeni.
Si tratta di un cane con la trachea aperta al quale si sono
iniettati nella cavità dell'addome parecchi grammi di idrato di
cloralio in soluzione al 25%. Le pareti addominali di questo
cane erano così inerti che ad ogni espirazione del torace esegui-
vano una serie di oscillazioni digradanti, quali sono rappresen-
tate nella figura 17.
Durante l’inspirazione toracica (25) l'addome si deprime (4 d'),
nell’espirazione prima si solleva rapidamente (5'c'), poi si abbassa
fino a metà dell’altezza alla quale si era innalzato (c'd), poi
si alza ancora a metà dell’altezza della quale si era abbassato
(de): infine fa ancora alcune piccole oscillazioni.
Le pareti addominali di questo cane sono così inerti e cede-
voli che l'impulso cardiaco, non molto energico, produce un evi-
dente polso negativo addominale. Ad ogni sistole l’addome si
deprime per sollevarsi nella diastole successiva.
Mi sono fermato alquanto sopra questo fatto, perchè di-
mostra che nel cane l’addome può essere affatto passivo, il che,
secondo LucIANI, non avverrebbe mai.
Mentre l'addome era affatto inerte e come paralitico , nel
torace avevano luogo dei movimenti molto energici. L’espirazione
attirò in modo speciale la nostra attenzione. Essa si compieva
in due tempi. Se osserviamo la figura 17 della tavola si vede
subito che la linea discendente dell’espirazione toracica è formata
di due porzioni di cui l’una ripida e quasi verticale (AB) l’altra
meno ripida ondulata e lentamente digradante verso l’ascissa
(BC). Il tracciato venne ottenuto ponendo un timpano a bottone
sopra una delle pareti laterali del torace presso l'ascella, dove
il fenomeno era più evidente, ed un altro timpano simile sulla
linea alba addominale.
Accostando l’orecchio od un foglio di carta alle narici del
cane si sentiva o si vedeva distintamente che la seconda parte
dell’espirazione si compieva in più riprese.
368 VITTORIO ADUCCO - ESPIRAZIONE ATTIVA, ECC.
Per dimostrare sempre più la inerzia delle pareti addominali
ho cambiato di posto i timpani. Ho portato il timpano addominale
sulle parti laterali dell'addome ed il timpano toracico sullo sterno.
Ottenni il tracciato di cui la figura 18 rappresenta una parte.
In questa figura le due curve si corrispondono esattamente.
Da a in d si ha nel torace inspirazione ©
a' » d » nell’addome abbassamento
db » c >» nel torace 1° periodo espiratorio
b' » c >» nell’addome o sollevamento rapido
c' » c >» nell’addome oscillazione add.
c » d » nel torace 2° periodo espiratorio
c" » d' » nell’addome innalzamento
d » a >» nel torace ultima espirazione
d' » a' > nell’addome immobilità.
Chi volesse spiegare nei due tracciati raccolti in questa espe-
rienza la forma della espirazione, potrebbe fare varie supposizioni.
Appunto perciò mi astengo da ogni considerazione ulteriore
Queste diverse forme di espirazione ed altre, che per brevità
non ho riferito, dimostrano che la fase espiratoria del respiro è
un fenomeno intimamente legato a delle modificazioni profonde
nella funzionalità dei centri nervosi.
CONCLUSIONI.
1° L’espirazione calma non è un fenomeno passivo: in essa
si può dimostrare la partecipazione di fattori, che agiscono atti-
vamente.
2° Mentre il torace, normalmente, prima si dilata (inspi-
razione) e poscia ritorna alla posizione di riposo (espirazione),
talora il tipo respiratorio assume una forma ed un decorso che
è proprio l’inverso ; il torace prima si restringe (espirazione) e
poscia ritorna alla posizione di riposo (inspirazione). In questi
casi l’inspirazione è passiva e l’espirazione sì può compire o per
mezzo dei muscoli del torace o per mezzo dei muscoli anteriori
dell’addome o per mezzo dei muscoli laterali dell'addome.
Fig. 16
we
b
UT
A A ETA : à Sg i cati 4 È
VApucco - Espirazione attiva ed inspirazione passiva
28; do Vea Fig.6
b
Fig.9 Fig.10
Fig. 2 Fig.7 Fig. 8
Fig.3
Fig. 13
ARIA VO e ro A
Torino, Lit, Salussolia
Sul fenomeno Thomson ;
Nota seconda di ANGELO BATTELLI
I risultati che ottenni dalle esperienze sull’effetto Thomson
nel cadmio (*), mi hanno incoraggiato a continuare lo studio
per altri metalli, onde cercare di giungere a qualche conclusione
generale sull'andamento dello stesso effetto al variare dell’inten-
sità della corrente e della temperatura.
Le nuove sostanze su cui ho sperimentato sono: il ferro,
l’antimonio, il bismuto, il palkfong e la lega (10 Bi+1,S8 in
pesi) detta bismuto di E. Becquerel.
La disposizione dell’apparecchio e le cautele usate sono esat-
tamente le stesse, che ho riferite nel precedente lavoro. Ho sti-
mato però sufficiente far passare attraverso i metalli due sole
correnti di diversa intensità; mentre per alcuni di essi, invece
che a tre sole temperature, ho sperimentato a quattro tempe-
rature differenti.
Ferro.
Le aste di ferro (come pure quelle degli altri metalli studiati)
avevano dimensioni uguali a quelle di cadmio.
L’equivalente in acqua di ognuna delle due vaschette, che
servivano da calorimetri, insieme al tratto dell'asta di ferro in
essa immerso e agli altri accessori, fu trovato uguale a 158", 9,
come media di quattro determinazioni.
Le correnti elettriche adoperate avevano intensità uguali a
quelle usate pel cadmio, e si facevano passare egualmente per
venti minuti primi.
Per giungere poi a valori meglio paragonabili, ho avuto
cura che in ciascuna serie di esperienze, le estremità di ogni
vaschetta avessero le stesse temperature, che avevano nel caso
(*) Atti dell’Acc. delle Scienze di Torino, vol. XXII, pag. 48.
370 ANGELO BATTELLI
del cadmio, misurate sempre dopo dieci minuti dacchè passava
la corrente elettrica.
I risultati si trovano nelle tabelle che seguono. In esse però
sono riportate solamente le medie dei risultati delle singole espe-
rienze: nella prima colonna i numeri I e II stanno a indicare
che le aste si trovano rispettivamente nella prima o nella se-
conda posizione; nella seconda colonna i numeri 1 e 2 indicano
che la corrente andava nel primo o nel secondo senso; nella
colonna N vi è il numero delle esperienze fatte, nella colonna #
l'intensità media della corrente in unità del sistema assoluto
(C.G.S.), nella colonna Z la media dei prodotti dell’equivalente
in acqua di una vaschetta per le differenze di temperatura otte-
nute fra le due vaschette nelle varie esperienze. Dividendo per 10°
i numeri contenuti nell’ultima colonna si ha il calore e espresso
in piccole calorie, che sarebbe stato sviluppato in un secondo,
mentre l’unità di corrente fosse passata fra due sezioni (dalla
più calda alla più fredda) che avessero differito fra loro di un
grado di temperatura.
Nella 1° serie di esperienze si aveva
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta in ciascun’asta . 63°,5
quella ‘della. 2% è (CER
dopo dieci minuti dacchè passava la corrente elettrica.
N i VE gg 1
I 1 5 0,350 0,154
2 5 0,330| — 0,155
SA loi ili BO E
(og dal SA
| 2 5|0,835| — 0,137
1:| 1 5|0,821| 0,386
2| 6|0,820| —0,398
Led CA0R Coi MRO PRE
in | 08 0;8220:001050
5.:|.0,822| —0,373
SUL FENOMENO THOMSON D71
Se si prende in considerazione una delle due aste, si ha svi-
luppo di calore quando la corrente elettrica va nel senso con-
trario della corrente termica, e si ha invece assorbimento di
calore nel caso che le due correnti abbiano lo stesso senso ; ossia,
come è già noto per le esperienze di Le Roux, il trasporto del
calore nel ferro è negativo.
I due valori di : sono abbastanza concordanti fra loro. Essi
hanno per media: —9,2284.107°.
Ho fatto poi la misura dell'effetto Thomson nel ferro fra
limiti di temperatura più elevati, come nel cadmio; talchè sì
aveva, dopo dieci minuti dacchè passava la corrente,
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta in ciascun’asta . . . . . = 124°,1
Quellasdella! net ae enne
I due valori di e ottenuti con le due diverse correnti, sono
discretamente fra loro concordanti e la loro media è uguale a
i A i O e
Ammettendo, come ho fatto pel cadmio, che i valori trovati
dell’effetto Thomson rappresentino i valori veri di tale effetto alla
temperatura che è media fra le temperature delle sezioni estreme,
si avrà per la temperatura di 53° il valore — 9,2284,107%, e per
572 ANGELO BATTELLI
la temperatura di 108°,4 il valore — 12,151,107°. Ora, se-
condo l’ipotesi di Tait, si ammette che l’effetto Thomson sia
proporzionale alla temperatura assoluta, e quindi se si scrive la
proporzione
(273 +53):(273+108,4)=—9,2284.1075:x,
si ottiene x=—=-10,/97_d400
il quale dovrebbe corrispondere alla temperatura di 108°,4.
Questo valore però è alquanto più piccolo di quello che si ot-
tiene coll’esperienza.
Ho innalzata ancora la temperatura delle aste in istudio ,
in modo che era
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta. in ciascun’asta. . se nf an 00
quella della 2° siii MR:
N î L CJ
1 6 | 0,381 0,561
2 6 | 0,326 | — 0,564
le de
II 1 6 | 0,328 0,560
2 5 | 0,326 | — 0,558
I 1 5 | 0,820 1,37
2 60 | 0,818|.-1,45
— |i_i di ehi Lab)
II 1 5. | 0,816 1,42
2 5 | 0,818 | — 1,28
Si ottiene per media dei due valori di e: —17,072.107°. Si
può ritenere che questo sia il valore dell’effetto Thomson, quando
l’unità di corrente passa da una sezione alla temperatura di
243°,25 ad un’altra alla temperatura di 242°,25, (le quali
temperature sono intermedie fra quelle che avevano le sezioni
estreme durante le esperienze).
Il valore che, seguendo l'ipotesi di Tait, si ricava per questi
limiti di temperatura dalle esperienze fatte quando le due sezioni
SUL FENOMENO THOMSON 373
estreme erano alle temperature di 63°,5 e 42°,5, è x =—14,
600.107-5; il qual valore è molto più piccolo di quello ottenuto
coll’esperienza.
Lo stesso valore dedotto colla solita proporzione dalle espe-
rienze, in cui le due sezioni estreme erano alle temperature
di 124°,1 e 92°7, è x, =-216;431.107-$; il quale è di po-
chissimo minore di quello ottenuto coll’esperienza.
Nel ferro ho potuto spingermi a temperature più elevate
che nel cadmio, ed ho fatta una quarta serie di esperienze,
quando era
la temperatura della 1° estremità della ya-
schetta ini ciascun’asta ©. . UU... = 331,5
quelladella 22,1 e alli ea DA, HI.
Però mi sono limitato ad usare la sola corrente di circa
0,330 unità.
N i L ES LO
- 2.1. 5.| 0,330,] — 0,780
IAA PROD LIA RIDE E AREE
i «1:|-15:|10,329.|. 05782
2] 5 | 0,827|— 0,795
Questo valore di s si può riguardarlo, come nei casì prece-
denti, quale valore vero dell’effetto Thomson alla temperatura
di 308°,25, che è media fra le temperature delle sezioni estreme.
Ora, se si ricava tale valore dalle esperienze fatte tra 63°,5 e
42°,5, si ottiene x = —16,454.10-5; il quale valore è molto
più piccolo di quello ottenuto direttamente coll’esperienza.
Se poi lo si ricava dalle esperienze fatte tra 124°,1 e 92°,7,
si ottiene x,=—18,518.107°, che è pure molto più piccolo di
quello ottenuto coll’esperienza.
E se finalmente si ricava tale valore dalle esperienze, in cui
le sezioni estreme erano alle temperature di 263,5 e di 222°,0,
si ottiene x,= —19,240.107°, il quale è ancora alquanto mi-
nore di quello ottenuto coll’esperienza.
Da queste determinazioni si deduce, che nel ferro il feno-
meno Thomson è proporzionale all'intensità della corrente: ma
374 ANGELO BATTELLI
non è esattamente proporzionale alla temperatura assoluta. E.
invero 1 valori dati dalle osservazioni si mostrano alquanto più
grandi di quelli che si ottengono dal calcolo ammettendo tale
proporzionalità.
Antimonio.
L’antimonio era del più puro che vien fornito dalla fabbrica
Trommsdorff.
L’equivalente in acqua di ognuna delle vaschette insieme al
mercurio, alla punta della pila termoelettrica e del tratto di
asta che vi era contenuto, fu trovato uguale a. 15f", 1, come
media di quattro determinazioni.
È già noto che il trasporto elettrico del calore nell’anti-
monio è positivo.
Nella prima serie d’esperienze era
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta ‘în ciascun’asta |. | ©. | =
quella della; 2î.. inca Bee Se
Le temperature delle estremità delle vaschette nell’antimonio
furono sempre determinate dopo dieci minuti dacchè passava la
corrente elettrica, come nel cadmio e nel ferro e in tutte le
altre sostanze sottoposte allo studio.
N i 16 caga i Dic
o ni
2 6 0,322 | — 0,365
ibi pt a nti d ib Saro 239,077
Il 1 6 0,323 0,386
D 0 0,325 | — 0,376
i 6 | 0820| 0.884
2 6 0,811) — 0,822
por fue 10) rsrdzo fil: So | Ati LUI Mali ROPTRORI 20,156
SUL FENOMENO THOMSON A
Quantunque non molto concordanti questi due valori di &,
sì può ritenere tuttavia che l’effetto sia proporzionale all’inten-
sità della corrente, osservando che nell’antimonio può avere qualche
influenza sulle esperienze la cristallizzazione del metallo.
La media è uguale a 21,6165.10°.
Ho messo poi nel recipiente B a bollire del petrolio, e ho
disposto per modo le aste che si aveva
la temperatura della 1% estremità della va-
sehetta--in-ciascun’asta-;-—-.-_;___-—__=;124%
quella; della ”a2ip to Ural gate o 27,
| N 0) L ETT90
I 1 6 | 0,806 0,660
2 6 | 0,300 0,642
28,549
1 6 | 0,810 | 1,66
2 6 | 0,806 | — 1,58
Mrs nio Piper ologiii cala sta ao ITR 0 Li ZACAPO SENT
dol 004018050 ,) 1184
DL sO TI
I due valori di e, fra loro abbastanza concordanti, hanno
per media: 27,878.1075. Il qual valore si può ritenere come
valore vero dell'effetto Thomson alla temperatura di 108°,4.
Se. si ricava il valore dell'effetto Thomson a questa tempe-
ratura, seguendo l’ipotesi di Tait, dal valore trovato per lo stesso
effetto a 53°, si ottiene x—=25,290.107%, il quale è discre-
tamente concordante con quello ottenuto direttamente coll’espe-
rienza.
Ho studiato poi il caso in cui era
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta, im ciascun'asta | pen ga (in |! .a4=/2685
quella. ‘-della.,2%— | t6,0-4.0 1 E—=1222%0
376
ANGELO BATTELLI
=
rr:
e;
CISL.
E,
e 210%
37,754
35,240
I due valori di e così ottenuti concordano abbastanza fra
loro, ed hanno per media: 36,497.107%, che si può considerare
come il valore vero dell’effetto Thomson alla temperatura di
242°,75.
Si può ricavare il valore di tale effetto corrispondente a
questa stessa temperatura, seguendo l’ipotesi di T'ait, dal valore
che esso ha alla temperatura di 53°; e si ottienex, =34,198.1079,
che si discosta di poco dal valore dato dall’esperienza.
Si può anche ricavare il valore dell'effetto Thomson a 242°,75
dal valore che esso ha a 108°",4, e si ottiene x,=37,691.1079,
che è vicino al valore che dà l’esperienza direttamente.
Ho fatto ancora una quarta serie di esperienze, essendo
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta in ciascun’asta .
quella della 2
N
do
Sito
1/6
ie
a
ic MPa SII,
= ROS
o O
SUL FENOMENO HOMSON 377
Volendo ricavare il valore dell’effetto Thomson a 308°,25 (che
è la temperatura media fra le temperature di 331°,5 e 285°,0
delle sezioni estreme) dal valore che esso possiede a 53°, se-
guendo l’ipotesi di Tait, si ottiene x, =38,541.107°.
Ricavandolo dal valore che possiede a 108°,4, si ottiene
in PNT SI Ale
E finalmente ricavandolo dal valore che possiede 242°,75.
si ottiene x, =41,130.107°.
Il valore di : dato dall’esperienza è alquanto discosto dal
valore di x,; ma è invece molto prossimo agli altri due valori,
%, @ %,; mi pare quindi di poter concludere che anche in questo
caso si avvera la proporzionalità fra il valore dell'effetto Thomson
e la temperatura assoluta.
Risulta inoltre dalle esperienze fatte che l’effetto Thomson
nell’antimonio è pure proporzionale all'intensità della corrente :
si potrà quindi esprimere il valore di tale effetto quando una
corrente 7, espressa in unità del sistema (C.G.S.), passa per 1° da
una sezione alla temperatura # a un’altra alla temperatura #-1,
mediante la formola : è
e=7,081.107° (273+4)% piccole calorie * ..(1).
Basandosi sull’esperienza fatta da Le Roux nel bismuto di
E. B., e sulla relazione da lui trovata fra l’effetto Thomson in
questa lega e l’effetto Thomson nell’antimonio, si ricava come
valore assoluto di tale effetto nell’antimonio, pel passaggio del-
l’unità di corrente del sistema (C.G.S.) durante 1”, da una sezione
a 50°,5 a un’altra a 49%,5,
e =21,480.107° piccole calorie.
Se si calcola colla formola (1) il valore dell'effetto Thomson
nell’antimonio, facendo #—=50°,5, si ottiene
e=12,870.1075 piccole calorie.
Per l’antimonio adunque il valore da me trovato e quello
che si ricava dalle ricerche di Le Roux, dentro i limiti di tem-
peratura in cui egli ha sperimentato, vanno molto d'accordo.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 29
378 ANGELO BATTELLI
Bismuto.
Il bismuto, di cui si fecero le aste, era anche del più puro
che venga fornito dalla fabbrica Trommsdorff.
L'equivalente in acqua di ognuna delle vaschette di mer-
curio, insieme al tratto di asta in essa immerso e agli altri
accessori, era uguale a 16", 0.
È già noto che il trasporto del calore nel bismuto è negativo.
Nella 1° serie d’esperienze era
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta ini ciascun'asta» 0000 cllab palo 4695
quella della 2° "te se
1 8 | 0,306 0,191
. dui 00,802 So
IRA i Vr — 12,634
ip 89,302 E 0
2° 8 |.0,204|=-@198
È 6 | 0,810) 0,526
gus [0,813 061
è La — 12,682
sì DIL "6 L08134 506
ul 640840] — 00580
I due valori di e sono fra loro concordantissimi, ed hanno
per media: —12,658.1079.
A cagione della bassa temperatura di fusione del bismuto
ho fatta un’altra sola serie di esperienze, essendo
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta in ciascun’asta. . . . . .= 124°,1
quella della 2344. apo L=
SUL FENOMENO THOMSON 379
0,307
0,362
È 2] 6 | 0,305|— 0,312
in 1| 6|0,808| 0,825
2 6 | 0,302|— 0,317
È 1] 6|0,810| 0,894
2] 6 | 0,809] — 0,902
i La BADA ASTA MALE
2 6 | 0,809 | — 0,898
Anche questi due valori di e sono molto concordanti fra di
loro, ed hanno per media: —15,009. 1079.
Questa media può anche ritenersi come il valore vero del-
l’effetto Thomson alla temperatura di 108°,4.
Volendo poi ricavare il valore dell’effetto Thomson alla stessa
temperatura di 108°,4 dal valore che esso ha alla temperatura
di 53°, seguendo l'ipotesi di ‘T'ait, si ottiene
e=—14,810.105°,
valore che è identico a quello ottenuto coll’esperienza, quando
l'intensità della corrente era di 0,304; e molto prossimo alla
media dei valori dati da tutte le esperienze insieme.
Risulta quindi dimostrato, che dentro i limiti di queste ri-
cerche, l’effetto Thomson nel bismuto è proporzionale alla tem-
veratura assoluta e all’intensità della corrente; e si potrà espri-
mere il calore che corrispondentemente ad esso si sviluppa in 1",
quando una corrente d'intensità < espressa in unità del sistema
(C.G.S.) passa da una sezione alla temperatura # a un’altra a
una temperatura #-1, mediante la formola:
e=—3,909.10-5(273+t)% piccole calorie ...(2).
Dall’esperienza sopra citata di Le Roux, si ricava come valore
assoluto dell'effetto Thomson nel bismuto, pel passaggio dell’unità
-380 ANGELO BATTELLI
di corrente del sistema (C.G.S.) da una sezione a 50°,5 a un’altra
a 495;
e=— 10,404.107° piccole calorie.
Se invece si calcola colla formola (2) il valore dell’effetto
Thomson nel bismuto, facendo #= 50°,5, si ottiene:
s,=—12,645.107° piccole calorie.
Pakfong.
L'equivalente in acqua di ciascuna vaschetta di mercurio,
insieme al tratto di asta in essa immerso e agli altri accessori,
era uguale a 155,6.
È già noto che il trasporto elettrico del calore nel pakfong
è negativo.
Nella prima serie di esperienze era:
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta in ,ciascun'astaz. corato Li RA
quella «della» 285 ei0le» Î{ stmeoni 1002049855)
N 7 SE E 10°
I 1 Sai 0,140
2 8.|] 0,304) —,0,129
9 der — i tela I
II 1 Sar 0,136
2 8.1.0,305.|) — 0;154
A AAA SENI AIR ERA RI ZI E RI RI PI I LI DA III CI II
i 1| 6|0,810| 0,312
Fl106 ‘ls 0381610308
a Li Ao sedia i MELE
SOLA fe I
2 6 | 0,812|— 0,262
Questi due valori di : sono alquanto discordanti fra loro;
come pure non sono molto concordanti i singoli valori di L; ma
ciò deve attribuirsi in grandissima parte alle influenze estranee
SUL FENOMENO THOMSON 381
che potevano alquanto alterare deviazioni così piccole, come quelle
che in tal caso venivano prodotte nel galvanometro. I due valori
di e hanno per media: — 8,113.107°.
Ho poi sperimentato essendo
la temperatura della 1° estremità della va-
Schettar«ina ciascunvasta. le. 0 > L=) 1240
quella; «della tare cora (CO poi 92°
N
I 1 6 | 0,302 0,224
2 6 | 0,306 | — 0,220
parc ih DI n — 9,630
Il 1 6 | 0,305 0,232
2 6 | 0,307 |— 0,209
I 1 6 | 0,808 0,601
2 6 | 0,809 | — 0,593
DADI: ire i > — 9,739
II Il 6 | 0,80€ 0,574
| 2 6 | 0,811] — 0,607
Questi due valori di e sono concordanti fra di loro, ed
hanno per media: — 9,6845.107° Il qual valore può rite-
nersi anche come valore vero dell'effetto Thomson alla tem-
peratura di 108°,4.
Ricavando il valore di tale effetto alla stessa temperatura
di 108°,4, dal valore che esso ha alla temperatura di 53°, se-
guendo l’ipotesi di Tait, si ottiene x=-—9,4917.1075, valore
assai vicino a quello ottenuto coll’esperienza.
In seguito fu esperimentato essendo
la temperatura della 1° estremità della va-
Schettar um ciascumfantar. IMI 0. 18 126910
9
quela ne ee e 4209200)
382 ANGELO BATTELLI
N | aaa Pre e.10%
È 1 6 | 0,304 | 0,432
2 6 (430 — 0,426
Die] pilo fricrralco Lbf. collafer pi
*% 1 6 | 0,302 0,442
9 6-|'0/303°|.— 00420
; | 1 6 | 0,807 1,20
9 6-|/0-209-| 016
Lit ilentaita Lala cli diazgine Ma A
si 1 6 | 0,808 1,23
Questi due valori di e sono molto concordanti fra di loro,
ed hanno per media: -14,458.107-5; la quale può essere con-
siderata come valore vero dell’effetto Thomson a 242°,75.
Secondo l’ipotesi di Tait, si ottiene per valore dell’effetto
Thomson a 242°,75, ricavato da quello a 53°, z,=—12,836.107°,
il qual valore è alquanto più piccolo di quello ottenuto coll’e-
sperienza, ma tuttavia da esso non troppo discosto.
Invece ricavando il valore dell'effetto Thomson a 242°,75,
dal valore che esso ha a 108°,4, si ottiene z,= — 13,096, che
è sufficientemente vicino al valore ottenuto coll’esperienza.
Finalmente ho sperimentato, essendo
la temperatura della 1% estremità della va-
schetta in ciascun’asta. LL ll. =188135
quella «della ‘2% «| 06. Mete
| NES, {0° [DIADE DE
p| to 6 0808 0,510
2 6 | 0,304! — 0,492
EA DE IMA TE — 15,164
ce 16° 0,304| 0,527 |
2| 6 | 0,306 | — 0,523
SUL FENOMENO THOMSON 383
Si può ritenere questo valore di e come il valore vero del-
l’effetto Thomson alla temperatura di 308°,25.
Se l’effetto Thomson alla stessa temperatura di 308°,25 lo
si ricava dal valore che possiede a 53°, si ottiene a=— 14,
465.10-5, che è discretamente prossimo al valore dato dall’e-
sperienza.
Se lo si ricava dal valore che possiede a 108°,4, si ottiene
x,=—14,759.107, che è assai vicino a quello ottenuto col-
l’esperienza.
Se finalmente lo si ricava dal valore che possede a 242°,75,
si ottiene x, =—16,294.107°, che è abbastanza vicino a quello
dato dall’esperienza.
Notando che le divergenze talvolta avveratesi fra i risultati
nel pakfong debbono essere attribuite in grandissima parte all’in-
fluenza di cause esterne sulla piccolezza del fenomeno in questo
metallo; mi pare di poter concludere che l’effetto Thomson nel
pakfong è proporzionale alla temperatura assoluta e all’intensità
della corrente.
Allora si potrà esprimere il calore dovuto all’effetto Thomson
quando una corrente 7, espressa in unità del sistema (C.G.S.).
passa per 1° da una sezione alla temperatura # a un’altra alla
temperatura #— 1, mediante la formola :
e=—2,560.107*(273+#)% piccole calorie ...(3).
Ammettendo fra i valori dell’effetto Thomson nel pakfong e
nel bismuto di E.B. la relazione trovata da Le Roux, e pren-
dendo per valore assoluto di tale effetto in quest’ultima lega il
valore trovato dallo stesso sperimentatore: si ricava come valore
assoluto dell’effetto Thomson nel pakfong, pel passaggio del-
l’unità di corrente del sistema (C.G.S.) durante 1", da una se-
zione a 50°,5 a un’altra a 49°,5,
e =— 8,390.107° piccole calorie.
Se si calcola colla formola (3) il valore dell’effetto Thomson
facendo #=50°5, si ottiene:
e,=— 8,2816.1075 piccole calorie,
il quale è concordantissimo col precedente; sebbene probabilmente
il pakfong da me usato era diverso da quello usato da Le Roux.
coandlai
584 ANGELO BATTELLI
Bismuto di E. B. (pesi 10B:+ 180).
In questo caso ciascuna delle vaschette di ferro col mercurio
e le parti dell'apparecchio in essa contenute, aveva un equiva-
lente in acqua uguale a 168%,2.
Come è noto, il trasporto elettrico del calore in questa De
è positivo.
Nella prima serie d’esperienze era
la temperatura della 1° estremità della va-
schetta “in'‘’ciastun’asta’’’ otroRiovp 9t SR0 SN
quella, »della 2% —... gi ie
DO N; end Ls clan |
2 ire ld esa
1 li, 6030 pe pri |
2 |. 6 {0,305 | —0,511 |
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9 Fee ie 6 | 0,302|- 0,517.
I 6 0,810 1,36
2.4 ab 0300 SA
aj 31,722
roc] ATIDÎI 6: 10811 3
2 6 0,809 1,19
|
Questi due valori di e sono discretamente concordanti, ed
hanno per media: 32,608.1075.
Anche in questa lega, a cagione della sua bassa temperatura
di fusione, ho dovuto limitarmi a fare un’altra sola serie di
esperienze, essendo
la temperatura della 1* estremità della va-
schetta in ciascun’asta'. 0.0 (0... e = 240
quella .della, 2% Caovif Re sten ana Ae
SUL FENOMENO THOMSON 385
: È RN OSO 56
DARORia E of30 501709
200-408 PSI A PAIINTTA E 40,081
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e di sil sb METTO TE
"i Lil oaGse4 OS 2331
Dal, nOn Bh 0 li La
Ì |
Questi due valori di e sono discretamente fra loro concordanti,
ed hanno per media: 39,524.107°; la quale può ritenersi come
il valore vero dell'effetto Thomson alla temperatura di 108°,4.
Ricavando il valore dell’effetto Thomson a questa stessa tem-
peratura di 108",4, dal valore che esso possiede a 53°, si ottiene
x=38,149.107-9, che concorda con quello ottenuto colla esperienza.
Dai risultati di queste determinazioni risulta che nel bismuto
di E.B. l’effetto Thomson è proporzionale alla temperatura asso-
luta e all’intensità della corrente. Perciò il calore sviluppato corri-
spondentemente all'effetto Thomson in 1°, quando una corrente ‘ ,
in unità del sistema (C.G.S.), passa da una sezione alla tem-
peratura # a un’altra alla temperatura #1, potrà esprimersi
mediante la formola:
e=10,002.107°(273+#)% piccole calorie ...(4).
Dall’esperienza più volte citata di Le Roux risulta che il
calore sviluppato corrispondentemente all’effetto Thomson in 1’,
quando l’unità di corrente del sistema (C.G.S.) passa da una
sezione alla temperatura di 50°,5 a un’altra alla temperatura
di 49°,5, è uguale a 24,50.107° piccole calorie.
Se invece si calcola: colla formola (4) il valore dell’effetto
Thomson, facendo #=50°5, si ottiene: 32,357.107° piccole ca-
lorie; il qual valore è invero molto superiore a quello ottenuto
da Le Roux.
386 ANGELO BATTELLI - SUL FENOMENO THOMSON
Conclusioni.
Dalle esperienze riferite in questa memoria e in quella che
la precede, si deduce:
1° Che per tutte le sostanze sottoposte allo studio |cadmio,
ferro, antimonio, bismuto, pakfong, lega (10 Bi +1Sd in pesi) |,
l’effetto Thomson è proporzionale all'intensità della corrente.
2° Che per tutte queste sostanze l’effetto Thomson è pro-
porzionale alla temperatura assoluta, fatta eccezione del ferro.
nel quale i valori dati dall'esperienza sono superiori a quelli
che si ottengono col calcolo, ammettendo tale proporzionalità.
Ne segue, che in queste sostanze, tranne nel ferro, si può
esprimere il calore sviluppato in un secondo, per effetto del fe-
nomeno Thomson, quando una corrente d’intensità < passa da
una sezione alla temperatura assoluta 7 ad un’altra alla tem-
peratura 7 —1, mediante la formola:
EI Arta IA
E se si esprime e in piccole calorie, e < in unità del sistema
(C.G.S.), si hanno, nelle varie sostanze, per a i seguenti valori :
CAGMIIO: e e 3080
ADONE 7,081.10-3
basato... 0 Le e E
palkfone . ©... Ue Ae
bismuto di E. B.. °° * et MIDO
Questo studio venne eseguito nel Laboratorio diretto dal
Prof. A. Naccari, e ne rendo quindi al mio Maestro i più sin-
ceri ringraziamenti.
Torino, marzo 1887.
387
Terza ed ultima serie di osservazioni delle comete Finlay e
Barnard-Hartwig all’equatoriale di Merz dell’ Osservatorio
di Torino; Nota di FRANcESCO Porro.
Le presenti osservazioni, eseguite secondo il solito al Re-
frattore equatoriale di Merz mediante un micrometro circolare
da me già descritto (1), abbracciano il periodo di tempo com-
preso fra il 23 novembre ed il 23 dicembre 1886, durante il
quale potei determinare solo cinque posizioni della cometa Finlay,
e tredici della Barnard-Hartwig. Il numero delle posizioni da
me determinate nel 1886 a questo istrumento ammonta adunque
complessivamente a 57, e cioè (2)
Uer della: Gometar Fabry au. era (1886 I);
Quattro della Cometa Barnard . . . . (1886 II),
Quattro della Cometa Brooks prima . . (1886 V),
Diciotto della Cometa Finlay . . . . (1886 d),
Venticinque della Cometa Barnard-Hartwig (1886 e),
risultato abbastanza soddisfacente, attese le condizioni dell’istru-
mento e la sua inopportuna collocazione. A questa ultima causa
vuolsi attribuire se non ho potuto seguire, come era mio desiderio,
la Cometa Barnard-Hartwig nel dicembre, quando per il suo ra-
pido movimento verso Est essa divenne visibile nelle prime ore
della sera. Un tentativo fatto la sera del 13 dicembre mi convinse
che per la nebbia e per la luce diffusa io avrei fatto opera vana.
Ecco adunque senz'altro il quadro delle mie osservazioni,
calcolato al modo consueto, e colle consuete avvertenze relative
al moto proprio delle Comete in Ascensione retta, ed alla Re
frazione. Essendo la Cometa Barnard-Hartwig uscita dal campo
del primo catalogo di Weisse-Bessel, adoperai il secondo, che va
da +15°a +45".
(1) Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino, vol. XXI, adu-
nanza del 20 Giugno 1886.
(2) Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XXI, adunanza
del 20 Giugno 1886; vol. XXII, adunanze del 14 Novembre e del 12 Di-
cembre 1886.
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388
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Posizioni medie delle Stelle di comparazione.
2 1886,0 è 1886.0 Autorità
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1 | 201 88» 485,72] — 20° 48' 56”, 7 | Washington Zon. 190, N. 283 (1).
2|20 45 44,67|—20 413,4| Lamont 1298 (2). |
3|20 56 16,81) — 19 41 47,1| Yarnall 9198.
4|23 8 25,08|— 6 39 48,7] 1/ (Stone12060 + 2 Yarnall 1023)
Ù .
5128 9 47,46 — 6 19 5, B. Z., 105 (4).
6
6 | 13 57 27,99) +15 27 23,6] Weisse II, Hora XIII, 1229. |
14 7 15,59] +16 11 58,5| Weisse II, Hora XIV, 107.
CON 0a]
14 22 49,94! + 16 38 19,6] Weisse II, Hora XIV, 454-455.
14 5 15,19] + 15 49 45,1 Weisse II, Hora XIV, 61.
ill 10] 14 24 14,64] + 16 39 a
Weisse II, Hora XIV, 482 (5). |
11|14 24 80,54/+16 48 5,9! Weisse II, Hora XIV, 487-488. |
| 12|14 44 1,69] +17 17 30,8| Weisse II, Hora XIV, 924-925. |
|
13 | 14 44 56 ,84| + 17 16 44,9] Weisse II, Hora XIV, 937. |
l4 | 15 48 88,60] + 17 57 14, 4| Weisse II, Hora XV, 1176. |
|
Ì
(1) Washington Astronomical Observations, for 1870.
(?) Questa stella a mio giudizio è di settima grandezza, come nella Durchmuste-
I rung; invece le carte di CHacornac la danno di ottava, e Lamont di ottava in nona.
È (3) 9 Aquarii. Moto proprio in è = —0",19 per anno, dedotto dal Catalogo di STONE.
(4) Astronomische Nachrichten, N. 2767.
(5) La differenza di declinazione fra questa stella e la precedente, che dal Catalogo
di \Vrisse risulta eguale a 1’,4, in Durchmusterung sarebbe di 1',8. Mi par quindi
lecito attribuire in gran parte ad un errore del Catalogo il notevole divario fra le
declinazioni della Cometa dedotte da queste stelle in una medesima osservazione.
390 FRANCESCO PORRO
Note sull’Aspetto fisico delle Comete.
Cometa Finlay.
Il 26 novembre questa Cometa mi sembra aumentata di
splendore; aureola larga, chioma folta. L’aspetto generale rimane
invariato; anche il 23 dicembre noto la forma oblunga ; nel
senso Est-Ovest non è più larga di un minuto d’arco.
Cometa Barnard-Hartwig.
Dopo il cambiamento notevole avvenuto fra il 23 ed il 24 no-
vembre, e sommariamente descritto nella precedente nota, la
Cometa continuò a svilupparsi, principalmente nella coda poste-
riore. Il 26 novembre noto che la coda anteriore continua a
diffondersi ed a diminuire di splendore e di lunghezza; invece
la maggiore, posta più verso Nord-Ovest, si allunga, staccandosi
dal capo con leggiera incurvatura (visibile solo nel refrattore), e
proseguendo diritta. La coda anteriore non oltrepassa la stella 10,
ed è quindi inferiore ad un minuto e mezzo di tempo. Invece
l’altra si segue sicuramente sin oltre z Boots, che a 16° 50" del
tempo medio di Torino è esattamente sul lembo anteriore, mentre
sul lembo posteriore, un poco più al Sud, si trova una bella
stella rossa, di sesta a settima grandezza, che assai probabil-
mente è Weisse II, Hora XIV, 188. La stella 11 è sull’asse
di simmetria delle due code, mentre la 10 è sul lembo interno
(boreale) della coda minore, e la 9 poco al Sud del lembo
esterno (australe) prolungato. Tutte queste osservazioni sono fatte
nel cercatore di Fraunhofer, con ingrandimento minimo; nel bi-
noccolo da teatro la coda si vede bene sin presso ad Arturo;
lo splendore del capo mi par compreso fra x e 4 Bootis, che
Heis fa di terza grandezza entrambe, ma che a me sembrano
disuguali, forse perchè a diversa altezza sull’orizzonte. Nel mi-
erometro circolare il nucleo presenta un getto in forma di ven-
taglio, emanante in direzione opposta alle code, e più brillante
nella parte opposta alla coda più lunga. Questo getto o settore
COMETE FINLAY E BARNARD-HARIWIG 359]
è inviluppato da una chioma, che alla sua volta degrada in
un'atmosfera a contorno parabolico, uguale per intensità lumi-
nosa alla materia delle code.
Tutte queste apparenze sono confermate nella notte del 28 ; la
Cometa è notevolmente maggiore di 7 Bootis, doppia stretta le
cui componenti sono rispettivamente di quarta e di quinta gran-
dezza; nel crepuscolo chiaro del mattino la chioma ed il settore
sono ancor visibili, ed il nucleo è appena inferiore alla stella
DM+17°2783, che è più vicina alla settima che alla sesta
grandezza.
Il 4 dicembre l’aspetto generale non è molto diverso; il settore
si vede a stento e con poca precisione, presentando forse più
chiara la parte opposta alla coda anteriore. Ad occhio nudo la
Cometa è notevolmente più grossa di {3 Serpentis (terza gran-
dezza); la coda maggiore si prolunga nel binoccolo sin oltre
Serpentis, verso y Coronae.
Il Direttore della Classe
Arronso Cossa.
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Lo
395
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 3 Aprile 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: SoBRERO, LESSONA, SALVADORI, BRUNO,
BeRRUTI, Basso, D’OvipIio, FERRARIS, GIBELLI.
Vien letto l’atto verbale dell'adunanza precedente che è ap-
provato.
Il Socio Cossa fa giustificare la sua assenza motivata da ra-
gioni di ufficio.
Fra i libri presentati in omaggio all’ Accademia vengono
segnalati 1 seguenti:
« Sur l'action du chlorure de methyle sur la benzine ortho-
dichlorce en presence du chlorure d’ aluminium »; del Socio
Corrispondente C. FRIEDEL in collaborazione col sig. J.-M. CRAFTS.
« Esperimenti sulla resistenza dei laterizi ullo schiaccia-
mento »; e « Esperimenti sulla resistenza delle pietre alla
flessione » del Prof. Federico Farancora, Maggiore del Genio.
Le letture si succedono nel modo che segue:
« Trifolium Barbeyi »: Nota del Socio G. GIBELLI, in
collaborazione col Dott. S. BELLI.
« Rilievi di osservazioni orarie dei registratori Hpr : (Baro-
grafo e termografo, 2° trimestre 1886) »; lavoro dell’Assistente
Prof. Angelo CHARRIER, presentato dal Socio Bruno, per la con-
sueta pubblicazione nel Bollettino annesso gli Atti.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, X.XII. 30
394 G. GIBELLI ET S. BELLI
LETTURE
———»>
Trifolium Barbey novam speciem
digessere G. GIBELLI et S. BELLI
DESCRIPTIO,
Planta annua, nana, pusilla, pulviniformis, in orbem pro-
strata, ad summum diametrum octo centimetrorum metiens.
Radix tenuis, parce ramosa, fibrillosa.
Saulis caespitosus, ax1 praecipuo ad collum brevissimum re-
ducto: ex eo prodeunt ramuli multi cito iterato ramulosi, pro.
longitudine crassiusculi, teretes, farcti, hirto-pilosi, ramusculis
axillaribus appropinquatis, contortis, decumbentibus.
Folia radicalia et inferiora e caespitis orbe proeminentia,
petiolis longissimis, sulcatis, hirto-pilosis, in superioribus longi-
tudine decrescentibus, numquam tamen, etiam in involucrantibus,
deficientibus: quisque ramulus in axilla folii folium alterum sterile
gerit: duo suprema quasi superposita involucrum sistunt.
Stipulae pro latitudine longiusculae et ideo lineares, mem-
branaceo-scariosae, nervosae, glabrae, margine ciliato, totae
apertae, tantum cercine basilari tenuissimo amplexicaules, caudis
brevibus, dentiformibus, ciliatis.
Foliola equaliter petiolulo brevissimo munita, oblongo-cu-
neato-obovata, apice rotundata et vix erosula: quo ad ambitum
omnia parcissime mutabilia, utraque pagina hirsuto-pilosa.
Pedunculi ita abbreviati ut capitula florum, stipulis foliorum
duerum approximatorum (false oppositorum) involucrata, termi-
nalia appareant (revera pseudo-terminalia).
Flores subsessiles et sine bracteolis sunt, non numerosi,
20-25 ad maximum, in apice pedunculi congesti, ut capitulum
subrotundum axi fere carere videatur.
Calyx in anthesi tubuloso-obconicus , in fructu auctus ,
turbinato-campanulatus : tubus externe villosus, vigintinervis ,
TRIFOLIUM BARBEYI N. SP. 395
faucibus annulo dense piloso-villoso obsitis, dentibus basi quin-
quenerviis late triangularibus, in mucronem subulatum hirsuto-
pilosum productis, tubo brevioribus, inferiore interdum vix longiore.
Corolla rosea, calyce duplo longior, unguibus petalorum om-
nium cum tubulo staminorum coalitis, in fructu marcescens.
Vexillum limbo oblongo-ovato, basi truncato, apice ro-
tundato, nervis exilibus percurso, cum ungue, e ceteris petalis
evecto, palam infurnibuliformem ettingit. Alae nonnibil breviores,
semihastatae, obtusae, laeviter instar S contortae, auricula brevi
rotundata praeditae; carinae cultriformes, acie caedente convexa.
Staminorum filamenta alternatim longiora et breviora, me-
dianum aliquantulum apicem versus elatius, antherae oblongo-
ellipticae.
Ovarium subsessile, obconicum, stylus medianus valde pro-
ductus, ad apicem versus paululum incrassatum, stigmatiferum,
ovulum unicum.
In fructu calyx, faucibus dilatatis, annulo pilorum obsitis,
non tamen obstructis, turbinato-campanulatus; corolla marcescens,
tandem elabescens: legumen antice in operculum cartilagineum
per dehiscentiam dissilientem incrassatum, quandoque per suturam
superiorem se aperire tradit; postice membranaceum, monosper-
mum: semen subrotundum, laeve, badium.
Species haec manifeste ob calycem 20-nervem, faucibus
annulo pilorum (non calloso) cinctis, ob petalorum ungues cum
cuniculo staminorum cohaerentes, ad sectionem Lagoporum Koch,
et ob capitula pseudo-terminalia foliis duobus approximatis in-
volucrata, ad illam £utriphylorum Godr., referri patet. —
Propter florum fabricham aftinis 7. lappacceo L.; quae species
tamen ter maior, ramis flagelliformibus, pedunculis plus mi-
nusve elongatis, axi capituli conico-cylindrico evidenter producto,
tubo calycis exterius glabro, dentibus subulatis tubo ipso duplo
longioribus (ita ut capitulum fructiferum dipsaciforme appareat),
tandem toto coelo diversa.
Trifolium pallidum W. et Kit. (flavescens Tineo) quamvis
nostro valde affine, tamen statim distinguitur calyce decemnerve,
dentibus tubi longitudine, nec non demensionibus omnibus plu-
ries majoribus.
Primo intuitu nostra species faciem 7. congesti Guss.,
praebet. Sed istud inspectione vix diligentiori, propter foliola eximie
cuneato-obcordata, stipulas late-ovatas caudibus triangularibus,
calycis dentes subulatos, in fructu tubo ipso duplo longiores,
caeteris characteribus relictis, statim distinguitur.
Tandem trifolium nostrum ad 7. hirtum All. accedere vi-
detur: quod tamen dentibus calycis vix basi dilatatis, longe
subulatis, tubo duplo longioribus et in fructu non campanulato-
turbinato, vexillo lanceolato acuto, stipula suprema involucrante
aphylla, nec non tota facie diversum, cum illo confundere nequit.
Species haec crescit in cultis insulae Karpathos mari Agei
(inter Cretam et Rhodum) ubi dominus Pichler anno 1883, et
dominus Forsite-Maior anno 1886 mense Iunio legerunt, tra-
dideruntque clarissimo viro William-Barbeyo. Qui heres musei
botanici perillustri Boissierii, eiusque scientiae botanicae eximius
prosecutor, nobis hanc speciem a caeteris multis discriminandam,
describendam et in systhemate inserendam humanissime protulit.
Qua de re, et propter eius munificentissimam liberalitatem
in comunicandis thesauris rei herbariae musei sui, summopere ad
nostram monographiam 7r/foliorum instruendam pretiosis, animo
gratissimo, speciem hanc novissimam, nitidam inter permultas
erumpentem, ipsius nomini dicamus.
396 G. GIBELLI ET S. BELLI - TRIFOLIUM BARBEYI N. SP.
EXPLICATIO TABULAE.
Fic. a. Planta magnitudine naturali.
>» . Ramuli duo cum tribus capitulis (*/,).
» c. Flos in anthesi (*/,).
>; Calyx in flore, MO (Co
>» e io apertum (*/,).
Di):
> 9g. Carina (°/ ).
» h. Staminorum fasciculus longitudinaliter dimidiatus (9/ ).
> ‘. Pistillum (8/ ).
> %. Calyx fructifer, a latere visus (8/,).
> I. Calyx fructifer apertus, intus visus (5/,).
> m. Legumen maturum cum stilo (*/,).
> oi, Semen, (°/;).
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Tav. VI.
Formazione ofiolitica Liguriano Tongriano Tongriano Aquitaniano Langhiano
(preterziaria) “Banchi oftrlitici Flysch e Calcare inferiore superiore
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FEDERICO SACCO _ STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO
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Equidistanza fra le curve : metri
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Lin.F! Doyen,Tarino
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Studio geologico dei dintorni di Voltaggio,
del Dott. FEDERICO Sacco
: presentato nell'adunanza del 20 Febbraio 1887
In vista di uno studio generale che intendo di fare sui terreni
terziari del Piemonte e della Liguria settentrionale, nella scorsa
estate ebbi a soggiornare qualche tempo a Voltaggio i cui din-
torni presentano, nei terreni miocenici, eocenici e preterziari che
li costituiscono, fatti così interessanti che io credo opportuno di
farne sin d’ora una sommaria descrizione cominciando dai terreni
più antichi e salendo sino ai più giovani.
Serpentina (Preterziaria).
I terreni più antichi che affiorano nelle vicinanze di Vol-
taggio sono costituiti da una grande massa di roccia serpenti-
nosa che compare nella parte S. O. dell’unita carta geologica e
costituisce una regione molto accidentata, brulla, poco abitata e
con numerose cime oltrepassanti i 1000 metri d’elevazione, fra
le quali il M. Tobbio è specialmente notevole per l’ampio pa-
norama che si osserva dalla sua punta.
Molto incerta è l’età a cui si deve attribuire questa roccia
serpentinosa poichè, mentre il Prof. Taramelli (1) la suppone
precarbonifera, il Mazzuoli e l'Issel (2), che ebbero occasione di
esaminarla più minutamente, la credono triassica inglobandola nel
(f) T. TARAMELLI, Osservazioni fatte nel raccogliere alcuni campioni di
Serpentini. Boll. Soc. Geol. Ital, Vol. I, 1882.
2) A. IsseL e MazzuoLi, Nota sulla sona di coincidenza delle formazioni
ofiolitiche eocenica e triassica nella Liguria occidentale, Boll. R. Com. Geol.
Ital., 1884.
398 FEDERICO SACCO
Trias inferiore o Buntersandstein, ed infine il De Stefani ac-
cennando alle serpentine di Voltri e Sestri Ponente che stretta-
mente si collegano con quelle di Voltaggio, ora in esame, le
riferisce all’Eocene (1).
Occupandomi in questo lavoro specialmente dei terreni ter-
ziari non credo di dovermi fermare su tale questione nè sui
numerosi modi di presentarsi della roccia serpentinosa, ciò che
sarebbe opportuno in un lavoro d’indole più generale; non posso
però fare a meno di esprimere il dubbio che la zona ofiolitica
in questione sia piuttosto paleozoica che non triassica, perchè
mi parve collegarsi meglio colle roccie schistose paleozoiche che
non coi calcari triassici, i quali in lembi staccati si vedono ap-
poggiarvisi verso Ovest.
Qua e là la zona ofiolitica in discorso presenta traccie di
minerali auriferi ed altre mineralizzazioni meno importanti e poco
estese.
Liguriano.
Il piano Liguriano di Mayer sì presenta nella regione in
esame sotto diverse forme, fra cui le principali sono: Serpentina,
Calcare e Flysch.
Serpentina.
Sebbene sino al giorno in cui mi recai a perlustrare geolo-
gicamente i contorni di Voltaggio avessi solo avuto occasione di
studiare le serpentine paleozoiche delle Alpi Piemontesi e fossi
in certo qual modo allevato alla scuola del Gastaldi sull’ anti-
chità delle serpentine appenniniche, tuttavia sin dalla prima
escursione che feci nella regione in esame, osservando i banchi
serpentinosi interstratificati agli schisti argilloso-talcosi ed ai
calcari eocenici, non potrei più dubitare della loro eocenicità e
li inclusi senz'altro nel piano Liguriamno, accordandomi in tal
modo perfettamente colle opinioni emesse da Issel e Mazzuoli e
distaccandomi anche dall'idea del Mayer che crede queste serpen-
(1) Estratto della conferenza sulle Serpentine, Boll. Soc. geol. Ital., Vol. I,
p. 21, 1882.
STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO 399
tine anteriori all'Eocene, pur supponendo egli nuove fusioni e nuovi
espandimenti ofiolitici durante l'epoca del 7'ongriano inferiore
e superiore, dell’Aguitaniano, dell’Elweziano inferiore e supe-
riore e del Tortorniano (1), ciò che invece io non sono punto
inclinato ad ammettere, almeno dietro i fatti finora osservati.
Ma se queste serpentine terziarie nel loro andamento stra-
tigrafico e nel loro modo di presentarsi si distinguono in gene-
rale abbastanza bene da quelle antiche, dove però vengono tra
loro a contatto, come per esempio, nel rio di Acquastriata, tale
distinzione non riesce sempre facile.
In generale si può dire che le serpentine eoceniche, rispetto
a quelle antiche, si presentano meno dure e meno compatte, sono
di una lucentezza più grassa, talora con svariati colori sfumanti
gli uni negli altri, spesso di un color verde-erba più spiccato e
più vivo, meno ruvide al tatto, a frattura più facile e più sca-
gliosa, naturalmente con eccezioni in un caso e nell'altro; in
complesso poi la formazione ofiolitica eocenica costituisce nella
regione in esame rilievi molto minori e meno accidentati che non
quelli della formazione ofiolitica più antica. Infine le serpentine
eoceniche sono in generale assai più mineralizzate che non quelle
antiche, ed infatti vi troviamo non di rado giacimenti di Cal-
copirite, di Pirite, di Magnetite, ecc.
Sapendo che accurati studî sulle roccie ofiolitiche di queste
regioni erano già stati fatti dall'Issel e dal Mazzuoli e sperando
che tali studi vengano presto pubblicati con una carta alla scala
almeno di 1 a 50.000, io mi limitai, per inquadrare l’unita
carta geologica, a segnare i principali banchi serpentinosi che
veggonsi comparir tra le roccie eoceniche e che in generale pa-
iono allineati, come in complesso gli strati che li racchiudono,
dat Ha, No0.
Di questi banchi ofiolitici alcuni, come quelli di M. Lago-
scuro, sono assai sviluppati quantunque di varia potenza nel loro
percorso visibile, spesso intrecciandosi cogli strati eocenici e pre-
sentandosi irregolarmente suddivisi, altri invece, come quelli più
vicini al paese di Voltaggio, appaiono solo come piccole lenti non
sempre facilmente reperibili.
Oltre ai banchi serpentinosi che con un allineamento ad un
(1) C. Mayer, Sur la carte géologique de la Ligurie centrale, Bull. de la
Soc. géol. de France, 3° Série, l'ome V, 1887.
400 FEDERICO SACCO
dipresso N. 0. — S. E. si vanno ad adagiare, con interstrati
calcarei, sulla formazione ofiolitica antica, notasi anche uno
spuntone ofiolitico di color verde erba, presso C. Rivera, isolato
in mezzo al F/ysch, ma che probabilmente fa parte di una lente
serpentinosa interstratificata agli argillo-schisti liguriani.
Nel passaggio tra i banchi ofiolitici ed i calce-schisti si
trova talora per certi tratti la roccia serpentinosa infranta e
cementata da materiale calcareo per modo da costituire una ofi-
calce, come presso i molini di Voltaggio, degna di essere escavata.
Piuttosto strettamente collegate colle serpentine sono certe roccie
cristalline, a varie modificazioni locali, appellate anfimorfiche
dall’Issel, le quali osservansi rappresentate anche nella regione
in esame, specialmente poco a Nord dei molini di Voltaggio.
Debbo poi notare ancora, riguardo alle serpentine di queste
regioni, come lo spuntone ofiolitico indicato dal Sismonda nella
sua carta geologica presso il paesello di Carrosio, non sia per
me altro che un conglomerato-breccia, costituito bensì di elementi
serpentinosi ed a pasta serpentinoso-calcarea, ma rappresentante
“la parte superiore del Z'ongriano ?nferiore.
Infatti se a primo aspetto la roccia compatta; nerastra, su
cui è fondata una parte del paese di Carrosio, e che forma
qualche rilievo nelle vicinanze, può essere presa come Serpen-
tina in posto, se si esamina un po’ minutamente vedesi com-
posta di elementi rocciosi più o meno brecciosi o rotondeggianti ,
di varie dimensioni e fortemente cementati fra di loro.
Resterebbe però ancora il dubbio che si tratti di una oficalce
almeno eocenica. Ma internandoci nel profondo burrone che esiste
ad Ovest di Carrosio , possiamo osservare assai bene come gli
elementi di questa roccia sono ben stratificati, cioè non sono altro
che il solito conglomerato (passante talora a breccia con enormi
frammenti di Serpentina) del Zongriano inferiore ad elementi
serpentinosi collegati da cemento calcareo, formando così un
passaggio tra i conglomerati esistenti ad Est, costituiti in gran
parte di elementi calcarei fortemente cementati, e quelli esistenti
ad Ovest, costituiti essenzialmente di materiali serpentinosi ma
spesso disaggregati per scarsità di materiale calcareo cementante;
fenomeni tutti che sono in diretta relazione colla natura lito-
logica delle prossime regioni montuose, rappresentate general-
mente da calcari e calceschisti eocenici ad Est e da Serpentine
antiche ad Ovest.
È
9
STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO 401
Calcare.
Lungo la linea di contatto tra le roccie eoceniche e le
serpentine antiche si presenta nei dintorni di Voltaggio, per
estensioni più o meno grandi, una roccia calcareo-dolomitica ,
di color grigio-cenerognolo, talora brecciosa, venata, talvolta
con inclusioni steatitose, a stratificazione spesso confusa, e che
nell’assieme ricorda assai certi calcari mesozoici delle Alpi Ma-
rittime (1).
Gli egregi geologi Issel e Mazzuoli che nei sovraccennati la-
vori, come pure in altre Memorie (2), ebbero già ad occuparsi
di questo calcare di Voltaggio, lo considerarono come triassico
e lo parallelizzarono al Muschelkalk.
Quantunque io non abbia fatti gli studi, accuratamente ese-
guiti invece dai prelodati geologi, sui calcari di Madonna del
Gazo, di M. Torbi e di M. S. Carlo che sembrano sincroni con
quelli di Voltaggio. tuttavia per ciò che ebbi ad osservare nei
dintorni di quest’ultimo paese, sarei invece del parere che tali
calcari siano eocenici e racchiudibili nel Liguriano.
Questa mia opinione, che però è affatto personale, riposa sui
seguenti fatti: 1° anzitutto che questi calcari in certi casi, come
per esempio, al Castello di Voltaggio, sono separati dalle ser-
pentine antiche per mezzo di potenti banchi di serpentina eoce-
nica interstratificati agli schisti eocenici; 2° che l’ andamento
generale degli strati eocenici includenti le masse calcareo-dolo-
mitiche in questione non presentano per lo più quegli speciali
disordini stratigrafici che dovrebbero invece esistere se tali calcari
fossero spuntoni di terreno antico sporgenti fra le roccie eoce-
niche; 3° inoltre in certi casi, come per esempio nel rio Frasso,
ho potuto constatare come queste masse calcaree sono stretta-
mente collegate ed alternate con argilloschisti che per facies,
struttura ed andamento stratigrafico, credo assolutamente inclu-
dibili, non in terreni triassici, ma nel tipico Y/ysch eocenico;
(1) Nelle mie note di campagna trovo che, in seguito alla prima visita fatta
ai calcari di Voltaggio, li indicai come « frammentari, grigiastri, somiglianti
ai calcari triassici ».
(2) L. MazzuoLi ed A. IsseL, Sulla sovrapposizione nella riviera di ponente
di una zona ofiolitica eocenica ad una formazione ofiolitica paleozoica, Boll.
della Soc. geol. ital. Vol. II, 1883.
402 FEDERICO SACCO
4° al fondo del rio Frasso, fra i calcari in esame, ebbi ad osservare
uno spuntone ofiolitico che ha piuttosto l'aspetto delle serpen-
tine terziarie che non di quelle antiche; 5° infine se le masse
calcaree in questione fossero realmente triassiche, non compren-
derei perchè trovinsi solo lungo la linea di contatto fra le roccie
antiche e quelle eoceniche, che sono alle prime discordantemente
sovrapposte. e non ne esistano anche lembi isolati sulla estesa
formazione ofiolitica antica. come si verifica più ad Ovest verso
Dego. Cairo, ecc., dove osservansi numerosi lembi isolati di cal-
care che credo veramente triassico.
Io ritengo quindi, sino a positiva prova contraria, che i cal-
cari dei dintorni di Voltaggio siano eocenici e che il loro faczes,
antico direi, dipenda solo dalle particolari condizioni che hanno
accompagnata la loro deposizione. Sarebbero quindi anche eocenici
i calcari del Gazo, del M. Torbi e di S. Carlo.
Questi calcari vengono escavati su vasta scala come pietra
da calce sia tra Voltaggio ed il rio Morsone, sia specialmente nella
valle Frasso, sia anche infine in un breve tratto della parte alta
della valletta di S. Pietro sboccante nella valle Lardona.
Una placca di questo calcare esiste pure nel vallone di Acqua-
striata, poco sopra la cascina Acquastriata.
Noto ancora come presso Voltaggio ed in rapporto colle
roccie calcaree esiste una sorgente solforosa usata come acqua
medicinale.
Oltre ai calcari di Voltaggio, sulla cui età esistono le diver-
senze di opinione sovraccennate, sono a notarsi nella unita carta
geologica la presenza di banchi calcarei, certamente eocenici
(liguriani), nella valle della Scrivia ad un dipresso tra Villa-
vecchia presso Ronco Scrivia e Pietrabissara.
Questi banchi calcarei, che rappresentano i noti calcari
alberesi. qua e là racchiudono le tipiche impronte di Helmin-
thoidea labyrinthica Heer, si presentano in complesso inclinati
verso Nord-Est circa, ma spesso poi sono eziandio ripiegati ,
drizzati quasi ‘alla verticale od anche rovesciati. Begli esempi
di ripiegature in piccola scala si possono, ad esempio. osservare
presso la Scrivia di fronte a Pietrabissara.
Esistono poi ancora nella valle di Lemma banchi calcarei
eocenici diversi sia da quelli a/beresi di val Scrivia sia da quelli
a facies antico delle vicinanze di Voltaggio; sono calcari com-
patti, di color vario, per lo più brunastri, stupendamente
STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO 403
stratificati, spesso rizzati alla verticale. talora passanti ad ipo-
ftaniti ed osservabili specialmente tra Voltaggio ed i Molini di
Voltaggio.
Flysch.
Un altro rappresentante dell’eocene nella regione in esame,
indicando solo però i facies più spiccati, è il Z/ysc/ costituito
da schisti argillosi e talcosi, passanti a calceschisti, di colore
generalmente grigio-plumbeo, talvolta con sfumature azzurrognole
o violacee, spesso con lenti pieghettate o frantumate di arenaria,
di quarzo e di calcare interstratificate.
Il Flysch forma rilievi poco accidentati, a morbidi pendii,
rivestiti spesso di praterie, solo talora intersecati da profondi
burroni che mettono a nudo gli schisti grigio-lucenti.
Questo facies del Liguriano comincia a presentarsi nella
valle della Scrivia specialmente a Sud del Colle Piazzi, svilup-
pandosi poi estesissimamente verso mezzogiorno per modo da
costituire gran parte della catena dei Giovi, donde le grandi
difficoltà incontrate nel sostegno e manutenzione delle gallerie
quivi scavate in detta roccia che, oltre ad alterarsi rapidamente,
ad imbeversi d’acqua, ed a ridursi in poltiglia, resiste pochis-
simo alla spinta delle masse laterali e sovrastanti: spinta resa
soventi molto irregolare e localmente spesso potentissima a causa
delle sovraccennate lenti calcareo-arenacee o quarzitiche, sparse
qua e là negli argilloschisti.
Ad Ovest della valle Scrivia il #/ysc/ con varia inclinazione,
in complesso verso Nord e Nord-Est, ma spesso contorto, va a
costituire la valle Traversa e passa per tal modo nella valle di
Lemna, quivi assumendo una direzione ad un dipresso da S. E.
a N. O., presentando i suoi strati pressochè verticali. offrendo
ripetuti interstrati ofiolitici e collegandosi con calceschisti e cal-
cari compatti, finchè viene ad appoggiarsi sulla Serpentina antica,
precisamente lungo una linea diretta da Sud-Est a Nord-Ovest
all'incirca.
Nelle vicinanze di Voltaggio spesso gli schisti del. F7yseh
prendono un color rosso vinato o giallo verdastro, per cui paiono
far quasi un passaggio ai serpentinoschisti, indicando, a mio
parere, essersi deposti in condizioni alquanto speciali ed un poco
simili a quelle che accompagnarono la formazione dei banchi
serpentinosi i quali infatti trovansi quasi sempre poco lontani.
404 FEDERICO SACCO
Tra il facies a calcare alberese e quello inferiore ad argillo-
schisti vi è un passaggio abbastanza graduale per mezzo di ri-
petute alternanze di banchi calcarei biancastri ed argillosi grigio-
plumbei con aspetto grafitoide.
Tongriano inferiore.
Sulle serpentine antiche e sulle formazioni liguriane si ap-
poggiano verso Nord, sempre alquanto discordantemente, depositi
in massima parte conglomeratici ad elementi calcareo-serpentinosi
e fortemente cementati verso Est, ed invece prevalentemente ser-
pentinosi e meno cementati verso Ovest, naturalmente con una serie
di passaggi osservabili nelle località intermedie che stanno ad un
dipresso nella parte centrale della unita carta geologica; anche
una certa gradazione nella forza di cementazione sì osserva pure
tra gli strati più antichi e quelli più recenti di questo piano
oligocenico.
Non sono rari, specialmente nella parte superiore affatto di
questo piano, i resti fossili, su cui non credo opportuno di sof-
fermarmi ora, accennando solo che essi servono assai bene a
precisarci l'età del terreno che li racchiude. Qua e là i resti
vegetali accumulatisi in maggior numero diedero luogo a banchi
lignitici di poca importanza; così per esempio, presso Crovara
Superiore in val Morsone.
L’inclinazione generale degli strati tongriani è piuttosto
regolare verso il Nord-Ovest, ma per lo più non molto forte;
esistono tuttavia locali irregolarità stratigrafiche che non alterano
però l'andamento generale della formazione in esame.
Nella valle della Scrivia i conglomerati tongriani costituiti
in massima parte di elementi calcareo-serpentinosi tolti alla for-
mazione liguriana, vengono utilizzati su vasta scala come ma-
teriale di costruzione, e famosi a questo riguardo sono special-
mente i dintorni di Pietrabissara, perchè quivi i conglomerati in
questione scendono al fondo della valle e sono quindi più co-
modamente utilizzabili, mentre più a Sud, a causa dell’antica
erosione acquea, costituiscono attualmente sul Liguriano solo
una specie di mantello più o meno potente, elevato spesso di
oltre 300 metri sul fondo della vallata. A questo riguardo spesso
però esistono delle fortissime varianti, per modo che si può supporre
STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO 405
come, allorquando si deposero i conglomerati fongriani, la for-
mazione liguriana, ed a maggior ragione le serpentine antiche
esistenti ad Ovest, costituissero una regione non già pianeggiante
ed a dolce pendio verso Nord, ma bensì abbastanza accidentata
per curvature ed erosioni; quindi alquanto irregolarmente do-
vette verificarsi la deposizione dei conglomerati oligocenici.
Questo fatto, assieme ad altre considerazioni d’ indole più
generale, ci rendono avvertiti esistere un //atus abbastanza no-
tevole tra i terreni /iguriani della regione in esame ed il 7'on-
griano inferiore.
La potenza della formazione fongriana inferiore è molto
varia a seconda le diverse località, anche per le ragioni sovrac-
cennate; in certe regioni pare che oltrepassi anche i 300 metri,
mentre in altri è ridotta a sottili lembi irregolari, talora isolati
come ad esempio, quello di Fiaccone, dove la placca fongriana
nella parte sua occidentale presenta i grossi elementi che la co-
stituiscono sparsi irregolarmente sulla roccia eocenica, per modo
da simular quasi un residuo morenico.
Riguardo alle placche conglomeratico-brecciose del Zongriano
inferiore applicantesi alla formazione ofiolitica antica, debbo
notare come non ne sia sempre facile la distinzione dalla roccia
serpentinosa in posto, spesso molto alterata e ridotta superfi-
cialmente a cassere che si potrebbero talora anche interpretare
come residui di breccie serpentinose tongriane; queste difficoltà
di delimitazione, che derivano appunto dall’essere per lo più le
breccie fongriane solo un impasto (formato a breve distanza dal
punto d’origine dei materiali) di elementi tolti alle formazioni
rocciose antiche, si presentano specialmente nelle vicinanze del
M. Tobbio.
I conglomerati fongriani (spesso però passanti a vere breccie,
talora ad enormi elementi, per modo da avvertirci della vici-
nanza della roccia serpentinosa in posto) per lo più di un color
verdastro più o meno scuro, si presentano talora, negli spaccati
naturali, di color azzurrastro violaceo, per alterazione dei ma-
teriali serpentinosi che li costituiscono, come si può assai bene
osservare, ad esempio, in diversi punti nel rio Morsone e nel
rio Roverno.
Sulla destra della Scrivia, quasi di fronte al paesello di
Creverina, i calcari alberesi sopportano una placca di Zongriano
inferiore conglomeratico, di cui alcuni grossi frammenti abba-
406 FEDERICO SACCO
stanza distanti dalla massa principale non ho creduto di dover
segnare sulla carta, perchè incerto se si tratti di lembi residui
in posto, oppure di pezzi discesi in basso.
Noto ancora come alla base del 7ongriano esiste in certe
località, come tra la Cresta di Cravara ed il fondo di val Mor-
sone, nelle vicinanze di C. Biscaelli, al fondo della valle Piola
sotto la Cresta Pantaleo, al Bric Roccon presso C. Ronco, ecc.,
una breccia calcarea, costituente un banco grigio-biancastro di
varia potenza, abbastanza sviluppato, appoggiantesi talora diret-
tamente sulla serpentina antica.
Questa breccia calcarea, già in altri tempi utilizzata presso
C. Biscaelli come pietra da calce, senza una accurata osser-
vazione potrebbe essere presa per roccia in posto, mentre a mio
parere, non è altro che una breccia fongriana fatta alle spese
di qualche distrutto o mascherato lembo calcareo probabilmente
eocenico.
Quanto all’ elevazione raggiunta dai depositi fongriani in
discorso essa varia moltissimo secondo le località, giacchè mentre
li vediamo abbassarsi sotto i 250 metri presso Carrosio, li ve-
diamo invece oltrepassare gli 800 metri al M. Refin (821), al
M. Porale (835), al M. Alpe (841), al M. Lanzone (804), ece.,
e sollevarsi poi sin quasi ai 900 metri alla Cresta di Casti-
glione.
Anche la grossezza degli elementi che costituiscono i con-
glomerati del Zongriano inferiore è sommamente variabile; in
generale si possono notare delle lenti di enormi ciottoloni fram-
mezzo al banchi conglomeratici ad elementi di mediocre grossezza ;
il masso più colossale che potei sinora misurare in quest'orizzonte
geologico trovasi nella val Carbonassa, 500 metri in linea retta
ad Ovest di C. Beno; esso ha un massimo diametro di 8 metri
ed un volume di circa 200 metri cubi.
Ancora alla base affatto del Zongriano inferiore osservasi
in certe località, specialmente presso Creverina in val Scrivia,
presso C. Beno, CU. Scietti, ecc., in val Carbonassa, nel rio Pa-
garnino ed altrove un banco di varia potenza, breccioso-con-
glomeratico, ad elementi serpentinosi riuniti da una pasta verdastra
pure serpentinosa per modo che esso, sia di color nerastro quando
compatto ed alterato, sia di color verdastro quando in sfacelo,
ricorda molto bene la Serpentina in posto, per cui può facilmente
trarre in errore, È i
STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO 407
In certe località i lembi tongriani sono applicati alla roccia
serpentinosa in modo che paiono sottostanti ad essa, così per
esempio nel rilievo che esiste immediatamente ad Est di C. Acqua-
fredda in val Morsone, la placca conglomeratica fongriana è
applicata così verticalmente alla parete rocciosa di Serpentino
preterziario in posto, che in certi punti questo strapiomba sul
Tongriano il quale parrebbe quindi più antico della formazione
ofiolitica.
La regione costituita dall’orizzonte esaminato si presenta per
lo più silvestre, talora quasi impraticabile, con non rare sorgenti,
con una innumerevole quantità di massi rocciosi sparsi sulla
superficie del terreno, spesso con pareti a picco, con monoliti
abbastanza grandiose, con belle cascate d’acqua, ecc.
Ho già sovra accennato come tra il Tongriano inferiore ed
il superiore sianvi banchi di passaggio costituiti da alternanze
di marne, sabbie e ghiaie, ma è specialmente dalle falde set-
tentrionali di M. Brogie verso Ovest che questi banchi divengono
più potenti e si vanno, direi, individualizzando coll’assumere
un facies proprio prevalentemente arenaceo ed un color grigio-
giallastro particolare; pel paleontologo è poi grandissima l’im-
portanza di questi banchi di passaggio, poichè sono essi che
forniscono la massima parte dei fossili fongriani, quantunque
letti arenacei a numerose Nummuliti, Orbitoidi, ecc. incontrinsi
pure qua e là fra i banchi conglomeratici del 7ongriano n-
feriore, anche alla sua base.
Tongriano superiore.
.
Nella regione in esame il Z'ongriano superiore è rappre-
sentato da banchi di marna grigio-verdastra, poco compatta, per
modo da costituire sovente regioni molto accidentate, soggette a
continue variazioni per scorrimenti, frane, ecc., per cui la via-
bilità ne è spesso difficile.
Però nella parte superiore di questo orizzonte geologico veg-
gonsi sovente alternarsi banchi arenacei resistenti a quelli mar-
nosi, per modo da costituire un graduale passaggio al sovrastante
Aquitaniano, come si può bene osservare specialmente tra il
paese di Rigoroso, il M. Vignazza e la CU. Colombara,
408 FEDERICO SACCO
I resti fossili sono scarsissimi in queste marne fongriane,
riducendosi per lo più solo a Zoophycos là dove esse passano
ai conglomerati inferiori.
Il Tongriano superiore tanto sviluppato a Nord della regione
in esame, quivi invece va rapidamente restringendosi per modo
da esser talora ridotto, come a Carrosio e Mornese, ad una sottile
striscia, ciò che deriva probabilmente dalla grande vicinanza del
rilievo roccioso appenninico contro cui si appoggiano le forma-
zioni mioceniche.
Il passaggio tra il piano superiore e quello inferiore del
Tongriano, come ebbi già ad accennare, avviene per lo più
abbastanza gradualmente per mezzo di un’alternanza di letti e
lenti arenaceo-conglomeratiche fra gli strati marnosi, ed è preci-
samente in questi banchi di transizione che ebbi a rinvenire fossili
in maggior quantità, tanto nella regione in esame quanto altrove
‘in Piemonte.
L’inclinazione degli strati è abbastanza regolare verso il Nord
Nord-Ovest.
Aquitaniano.
Sopra le marne fongriane, e talora per mezzo dei sovrac-
cennati passaggi, si vengono ad appoggiare banchi arenacei più
o meno potenti, più o meno cementati, talora fossiliferi, che dal
Mayer (1) vennero considerati come 7ongriano superiore, mentre
io credo invece di doverli includere nell’ Aquitaniano inferiore.
I fatti su cui fondo questo modo di vedere, per ora però
affatto personale, sono specialmente + seguenti: 1° i banchi are-
nacei in questione, che in certi punti si presentano abbastanza
individualizzati, come ad esempio, presso Carrosio, in generale
invece si distaccano bensì abbastanza nettamente dalle marne ton-
griane, ma si collegano strettamente coi sovrastanti banchi sab-
biosi dell’Aquitaniano; 2° il facies littorale di questi banchi
arenacei concorda assai meglio con quello di natura simile del-
l’Aquitaniano che non col facies di mare abbastanza profondo
del Tongriano superiore; 3° i banchi in questione, potenti tra
(1) C. Mayer, Sur la carte geologique de la Ligurie centrale (V. ante).
PT,
STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO 409
Rigoroso e Carrosio, si vanno verso Ovest e verso Nord di molto
riducendo e talmente innestando coi banchi sabbioso-arenacei
aquitaniani, che ne riuscirebbe affatto illogica e soventi impos-
sibile la separazione: 4° spesso nell’ Aquitaniano vero, a breve
distanza dai banchi arenacei in questione, e da essi separati solo
per mezzo di poco potenti strati sabbioso-arenacei, osservansi,
come ad esempio tra C. Colombara e M. Vignassa, altri banchi
arenacei talmente simili a quelli inferiori che non sarebbe na-
turale di attribuirli a due piani geologici diversi; 5° infine l’as-
sieme della fauna di questi banchi arenacei ha piuttosto il faczes
aquitaniano che non quello fongriano.
È bensi vero che in fondo la questione si riduce ad una
differenza di poca importanza essendo quasi sempre incerti i limiti
tra i diversi piani della serie terziaria, ma ad ogni modo do-
vendosi necessariamente segnare tali limiti, sembrami assai più
naturale nel caso in esame, di farli passare sotto che non sopra
ai banchi arenacei in questione per le ragioni sovraccennate.
Tra Rigoroso ed Arquata Scrivia gli indicati banchi arenaceo-
calcarei per la loro grande resistenza vengono escavati come ma-
teriali da costruzione.
Al disopra poi di questo orizzonte arenaceo, che si solleva
a M. Vignazza a quasi 600 metri d’altezza, si appoggiano potenti
banchi sabbioso-marnosi di color grigiastro o grigio giallastro in
generale stupendamente stratificati, fossiliferi, specialmente nella
parte inferiore, alternati sovente con piccoli letti arenacei duri,
pieghettati, il tutto con una inclinazione di 20° o 25° verso
Nord-Ovest circa.
Nella parte superiore dell’Aguitaniano 1 banchi marnosi si
fanno più potenti, di un grigio più azzurrognolo, vengono a scar-
seggiare gli strati arenacei e si passa così gradatamente al so-
vrastante piano Larghiano, talora potendosi assumere come limite
divisorio tra i due piani un bel banco arenaceo giallastro, spesso
invece mancando anche tale artificiale mezzo di distinzione, per
modo che questa risulta specialmente dal diverso faezes com-
plessivo delle due formazioni, essendo facilmente discernibili anche
di lontano le colline aquitaniane, abbastanza acute e foggiate
verso Nord-Ovest a larghi piani inclinati di una ventina di gradi,
da quelle /anghiane più basse e rotondeggianti; ciò in rapporto
colla natura loro litologica.
La potenza dell’Aquitaniano che è assai notevole, cioè di
Atti R. Accad, - Parte Fisica — Vol, XXII. 31
410 FEDERICO SACCO
circa 1000 metri, tra la valle della Scrivia e quella di Lemna,
va rapidamente diminuendo ad Ovest di Carrosio, accordandosi
ciò col restringersi del sottostante Tongriuno superiore, probabil-
mente per la stessa causa sopra accennata.
Langhiano.
Infine il più recente piano terziario che appare per piccola
parte nell’angolo Nord-Ovest dell’unita carta geologica è il Lan-
ghiano, rappresentato essenzialmente da banchi marnosi grigio-
azzurrognoli, più o meno induriti, talora quasi fogliettati (non di
rado racchiudenti fossili di mare piuttosto profondo), inclinati in
media di 20° verso il Nord-Nord-Ovest circa; nella parte sua
inferiore però il Larghiano racchiude non di rado banchi are-
nacei ed impronte di Zoop’ycos, che ci indicano una regione di
tranquillo litorale non molto dissimile da quello in cui si for-
marono i sopradescritti depositi aquitanziani.
Non compare affatto, nella regione studiata, l'Elveziano e
sono senza dubbio riferibili al Tongriano inferiore le glauconie
delle vicinanze di Voltaggio indicate dal Taramelli (1) come
elveziane.
CONCLUSIONE.
Dallo esame fatto delle varie formazioni geologiche che af-
fiorano nei dintorni di Voltaggio si possono trarre le seguenti
conclusioni ;
1° La serie dei terreni costituenti i dintorni di Voltaggio
è la seguente:
Langhiano (prevalentemente marnoso, grigio-azzur-
rognolo).
(1) T. TARAMELLI, Ossertasioni geol. ecc., (V. ante),
STUDIO GEOLOGICO DEI DINTORNI DI VOLTAGGIO 411
Aquitaniano (prevalentemente sabbioso, con banchi
arenacei verso la base).
Tongriano superiore (prevalentemente marnoso, grigio
verdastro).
Tongriano inferiore (prevalentemente conglomeratico,
con breccie calcaree e serpentinose verso la base).
\ Calcare alberese e calcare dolomitico brec-
cioso.
Argillo schisti (Flysek) con banchi ofio-
litici.
Liguriano ‘
Serpentina preterziaria.
2° Il presunto spuntone serpentinoso in posto di Car-
rosio è un conglomerato-breccia, ad elementi prevalentemente
serpentinosi riuniti da pasta serpentinoso-calcarea, costituente la
parte superiore del Z'’ongriano inferiore.
3° I calcari di Voltaggio, e probabilmente quindi anche
quelli del Gazo, dei Torbi e di S. Carlo, piuttosto che triassici
debbonsi ritenere come un facies speciale del Liguriano.
4° I banchi serpentinosi di Voltaggio sono assolutamente
eocenici.
5° Il calcare di C. Biscaelli, C. Ronco, ecc., quantunque
con aspetto di roccia antica in posto, è una breccia rappresentante
quivi la base del Zongriano inferiore.
»0
6° Molte breccie serpentinose, a pasta pure serpentinosa,
dei dintorni di Voltaggio, benchè con aspetto di roccia antica
in posto, appartengono invece al Tongriano inferiore, special-
mente alla sua parte basale.
7° I grandi banchi arenacei che stanno alla base del-
l’Aquitaniano tipico, piuttosto che non nel 7'’ongriano sono da
includersi ancora nell’ Aquitaniano.
412 G. GIBELLI E S. BELLI
Intorno alla morfologia differenziale esterna ed alla nomen-
clatura delle specie di Trifolium della sezione Amoria Presi,
crescenti spontanee in Italia; Nota critica del Professore
G. GIBELLI e di S., BELLI, assistente al R. Orto Botanico;
lavoro presentato nell’adunanza del 20 marzo 1887.
Il gruppo Amoria fu stabilito da Presi. (Symb. bot., p. 47,
1832). Noi però non lo accettiamo tal quale, perchè vi inclu-
diamo il T. montanum, e ne escludiamo qualche altra specie, che
meglio potrebbe essere compresa (come il T. parviflorum £%r.)
nel gruppo dei Micranthemum pure di /yesl. Circoscritto
come noi l’intendiamo il gruppo delle Amoria di Pres! po-
trebbe chiamarsi E&u-Amoria, e si potrebbe definire come
segue :
Pedunculi axillares, tandem omnes folio longiores: capi-
tula sub-globosa, denique (T. Thalii excepto) ob pedicellos, bra-
cteola polymorpha fultos, clongatos, defleros, umbellaria: calyx
membranaceus, decemmnervis, interdum nervis interdentalibus
inconspicuis, in fructu fere immutatus, fauce nuda, dentibus
sub-equalibus vel duobus superioribus paululum ercedentibus :
corolla plerumque calyce (inclusis dentibus) duplo-longior, in
fructu marcescens: vexillum liberum, antherae oblongo-ovatae
vel oblongo-ellipticae (1): legumen induviatum, membranaceum,
sutura ventrali dehiscens.
Questo gruppo così definito comprende specie assai omogenee
tanto per la fisonomia esteriore, quanto per caratteri organogra-
fici di primo ordine; cosicchè gli Autori, anche i monografisti del
genere, si trovarono spesso imbarazzati nel distinguere le varietà
di specie molto affini fra loro (repens e pallescens, elegans e Mi-
chelianui, ecc.), e accadde non di rado che, prendendo abbagli
gravi sopra esemplari secchi, si scambiarono fra loro esemplari
con denominazioni false. Ne conseguì, come era naturale, una
1, Nel gruppo dei Micranthemum le antere sono sub-rotondo-didime.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 4189
nomenclatura farraginosa, una sinonimia estremamente imbrogliata
e ingannevole (1), a districare la quale costò a noi tempo e
fatica ingrata, forse degna di miglior argomento.
Noi abbiamo riunito a questo gruppo anche il T. montanum,
quantunque il Celalkovsky (2) creda doversi per esso stabilire
una sezione a parte, o collocarlo quanto meno nel gruppo dei
Micranthemum ?Pres/, dai quali differisce toto coelo. Nei
Micranthemum invece secondo noi va collocato il T. parvi-
florum (specie non italiana) per avere la corolla brevissima, le
antere rotonde, il calice lacerato dal legume maturo; e ciò non
ostante il Pres! lo comprende nelle sue Amoria. A noi pare
che i Micranthemum stiano assai bene riuniti in una sezione
naturale distinta dalle Amoria.
Unico scopo della presente nota è di mettere in evidenza i
caratteri di ciascuna specie e le varietà della sezione Amoria,
e dar ordine preciso alla loro sinonimia aggrovigliatissima. Per
il nostro lavoro ci siamo serviti delle collezioni degli Erbarii di
Firenze, di Palermo, di Torino, dei nostri privati, di quelli degli
illustri Cesati, Boissier, del signor Burnat, del signor Janka,
del signor Lerzer. Abbiamo consultati anche quelli di Pisa e di
Padova, e in qualche caso anche quello del venerando LBertolomi.
Noi siamo d’avviso che oggimai, per non fare inutile o poco
utile lavoro in fatto di botanica sistematica, sia necessario per
ogni specie avere sott'occhio e comparare fra loro gli esemplari
provenienti da tutte le regioni fisico-geografiche, in cui cresce la
specie stessa, e possibilmente da tutte le località notevolmente
disparate fra loro per tutte quelle condizioni fisico-chimiche del
suolo e dell'ambiente, che fanno variare un’area di vegetazione
da un’altra anche prossime fra loro. Bisogna insomma attuare
una vera monografia analitica di ciascuna specie in tutta la sua
estensione geografica di vegetazione, Allora soltanto ci sarà dato
rilevare i passaggi graduati da una varietà in un’altra, e saremo
autorizzati a comprenderle in una stessa specie, e a definire le
cause locali che influiscono sulle loro variazioni; mentre d'altra
parte e nello stesso tempo potremo anche constatare con sicu-
(1) V. la critica e le varietà dei T. Nigrescens, Michelianum, ele-
gans, ecc.
(2) Ueber den Aufbau d. Gattung Trifolium. — Oesterreiche Botan.
Ztng. 1574.
414 G.'GIBELLI ES! BELLI
rezza la persistente immutabilità di due specie molto affini, ma
crescenti promiscuamente in una stessa area di vegetazione. Senza
questo paziente, trito, e se vogliamo tedioso lavoro di compa-
razione, i fitografi dei paesi già perlustrati e botanicamente più
o meno illustrati faranno opera assai poco proficua al progresso
scientifico della botanica sistematica, biologico-geografica.
Certo è che, per raggiungere questo scopo, occorre anche che
i raccoglitori fitografisti tengano nota con molta diligenza dei dati
fisico-climaterici numerosi che costituiscono non tanto una regione
quanto un’area locale di vegetazione: come sarebbero la natura
chimica, mineralogica e fisica del suolo, lo stato di aggregazione
meccanica de’ suoi materiali, l’inclinazione e la esposizione astro-
nomica dei versanti, la direzione dominante del vento, l’umidità
del terreno e dell’aria, e la prossimità a fiumi, a mari, a laghi, a
nevai, a selve, ecc.; circostanze tutte che fanno più o meno di-
fetto sulle schede delle collezioni botaniche, e che quindi aggiun-
sono nulla o ben poco alla nozione biologica di ciascuna specie.
Noi esponiamo qui un pio desiderio; e però anche il nostro studio
si risente di questo grave difetto, che non potrà essere emendato
se non in un avvenire più o meno prossimo, e dalla buona vo-
lontà, diligenza e coltura dei collezionisti. Per noi, questa volta
ci accontentiamo, colla scorta dei preziosi e abbondanti materiali
consultati, di aver dimostrato il nesso genetico di parecchie varietà
di alcune specie in rapporto colle loro aree di dispersione.
Chiave dicotomica del gruppo EU-AMORIA.
A - Capolini fruttiferi globosi, giammai umbelliformi : pedicelli
fruttiferi non mai incurvati in basso (salvo gli infimi
non allungati) ed uguali tutto al più al tubo del calice;
B - Legume strozzato tra un seme e l’altro; stilo del legume
arcuato, come un punto interrogativo sdraiato «vw. Ves-
sillo oblungo lanceolato, stretto; caule sviluppato in in-
ternodii evidenti, allungati, giammai peduncoli subra-
dicali.
T. isthmocarpum .Brot.
(T. strangulatum H. du Puao.).
B Jaminianum Boiss.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 415
BB - Legume a suture continue, non strozzato tra un seme e
l’altro; stilo diritto; raramente caule sviluppato, tutto
al più con un solo internodio; quasi sempre peduncoli
subradicali. Calice biancastro spiccante sulla corolla rosea
(brunastra in secco).
T. Thalii V70.
T. caespitosum Lteyn.
* Cauli sdraiati, legnosi, tortuosi, radicanti. Pianta
propria delle sommità apennine.
f. pseudo-repens Nob.
AA - Capolini fruttiferi sempre e tutti incurvi in basso nel
frutto e quindi più o meno ombrelliformi (globosi solo
prima dell’antèsi) per deflessione dei pedicelli fruttiferi
allungantisi o no.
C - Pedicelli fruttiferi a/ massimo uguali al tubo del calice,
non allungati, ma reflessi tutti in basso. Calice, ovario
e legume pelosi: quest’ultimo ordinariamente monospermo.
Caule e peduncoli pelosi: foglioline pelose di sotto e sulla
nervatura principale: nervature secondarie bi-triforcate
rilevatissime in prossimità del margine.
T. montanum L.
(cum T. Balbisiano .Sèr. et rupestre Zen.)
CC - Pedicelli fruttiferi più lunghi del tubo del calice. Capo-
lini fruttiferi sempre ed ev/dentemente ombrelliformi.
D - Cauli repenti, stoloniferi, calice (denti compresi) uguale alla
metà della corolla (circa). Legume ordinariamente tri-
quadrispermo: stilo di solito mediano (1). Bratteole per lo
più /anccolato-acute uninervie, intere. Foglioline con mac-
chia lunulare biancastra sulla pagina superiore. Stipole
(1) Lo stilo dicesi mediano quando sembra continuare l’asse mediano
longitudinale del legume; laterale, quando continua una delle suture. (Questo
carattere è ben lungi dall’essere costante.
laterale mediano
Trifolium Thalii Vill. Trifolium pallescens Schreb.
416 G. GIBELLI FE S. BELLI
scariose guainanti fin sotto le code più o meno brusca-
mente lesiniformi ; nervature spesso tinte in violaceo scuro.
T. repens L.
* Pianta più piccola in tutte le sue parti, stoloni ab-
breviati, talora sublegnosi, sempre radicanti; fo-
glioline spesso obcordate, internodii ravvicinati.
& minus Nob.= T. Biasolettianum Steud. Hochst.
**?? Pianta nana, senza stoloni radicanti; bratteole
(anche nello stesso capolino) irregolarmente tra-
peziformi, denticulate all’apice, e talora oscura-
mente binervate ed anche uninervie, lanceolate
acute: corolla lunga il triplo del calice. Facies
del T. pallescens.
y=T. repeus. 6 Orphanideum Boiss. (V. critica).
#** Cespitosa, stoloni radicanti nulli, rami affastellati,
abbreviati, grossi; capolini numerosissimi. Facies
del Trif. elegans Savs.
Ò pseudo-elegans Nob.= T.macrorrhizum Boiss.
NB. Vedi anche alla lettera BB la varietà (. pseudo-
repens del T. Thalii.
DD - Cauli non repenti nè stoloniferi, tutt’ al più sdraiati.
E - Calice coi due denti superiori Fic. 1?.
non concrescenti alia base, |
larghi e lunghi quanto gli altri
tre: fauce del calice tagliata
a spese del labbro superiore
(Fig. 1°); denti del calice
uguali o più lunghi del tubo.
F - Calice verdastro anche nel secco, con tubo brevissimo: denti
sottilissimi, subulati, lunghi il triplo del tubo: pedicelli
filiformi, tenuissimi, i fruttiferi allungatissimi, da 6
a 10 volte il tubo del calice, e ricurvi in basso.
Ovario pubescente, pianta annua.
T. Micheliamum Savz.
FY - Calice biancastro spiccante sulla corolla rosso-mattone o
brunastra (in secco), coi denti lunghi il doppio 0 poco
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 417
più del tubo, triangolari alla base ed acuminati. Pedi-
celli fruttiferi non filiformi, lunghi al più quattro 0
cinque volte il tubo del calice, pianta perenne.
T. elegans Saz/ cum T. hybrido L.
EE - Calice coi due denti superiori Fig pa.
più larghi degli altri alla base
e quivi alquanto concrescenti :
fauce del calice tagliata a spese ;
del labbro inferiore (Fig. 2°): ari 7
denti del calice ordinariamente :
più brevi del tubo.
( - Calice con tubo lunghissimo in confronto ai denti; corolla
lunga il doppio del calice od un po’ meno (denti com-
presi). Pedicello grosso, gradatamente continuato nella
base del calice, dalla quale è poco distinto. Pianta siciliana.
T. Bivonae Guss.
GG - Calice con tubo breve in confronto ai denti; tubo al più
uguale ai due denti superiori. Corolla lunga più del doppio
ed anche il triplo del calice (denti compresi). Pedicelli
sottili ben distinti dalla base del calice (calice umbilicato).
H - Legume strozzato tra un seme e l’altro, fiori biancastri o
suffusi di roseo, foglioline argutamente denticulate, caule
fistoloso, debole; stipole presto scarziose, bratteole ordi-
nariamente lanceolate, larghe, scariose, uninervie ; calice
scolorato, biancastro ; pianta annua (abita ordinariamente
i terreni argillosi del piano e del colle).
T. nigrescens Vv.
Varietà del T. Nigrescens VV.
FORME BENE EVOLUTE | FORME DEPAUPERATE
a. oligosperma | b. polysperma || a. oligosperma | b. polysperma
G.Meneghinianum, <). polyanthemum È. Petrisavi Nob.|e. roseum Nod.
Nob.=T.Me-| Lojac.=T.ni-|| = T. Petrisavi] =T. nigrescens
neghinianum| grescens var. || Q7em.=T.hy- | &. roseum gra-
Clem. | polyanthemum.| grophylum, cile. Tin. =
Ten. | Boiss. i T. Molineri
| . Colla (non
Balbis.)
418 Gi GIBELUI EUS! BENNI
HH - Legume mon strozzato tra un seme e l’altro ; fiori bianco -
giallastri o bianco-rosei, o rosso-vinosi (T. arversense La-
motte): foglioline non argutamente denticulate , caule
pieno, cespitoso, con radice fittonosa, grossa, perenne.
(Pianta alpina).
T. glareosum Schleich. = T. arvernense Lamotte = T.
pallescens Schreb = T. orphanideum Boiss.P (V.
critica p. 428).
ANALISI CRITICA DELLE SINGOLE SPECIE.
Trifolium Michelianum Suv.
(Obs., p. 93, 1810 et omnium fere Auctorum, excluso synonymo
Amoria Michelina Pres/, Symb. bot., 47).
Amoria macropoda Pres! (Symb. bot., p. 51, tav. 81).
T. macropodum Guss. (Syn. fl. sîc., II, p. 338, et Suppl. 2,
p. 234, exclusis speciminibus exsiccatis ad diversos, excluso
T. macropodone Bert. F7. ;t., VIII, p. 116 et Auctorum
posteriorum).
Osservazioni. — Il T. Balansae Bo?ss., che noi abbiamo esa-
minato sugli esemplari dell’erbario di Bozsszer, non può essere con-
siderato che come una semplice variazione del T. Michelianum Sac.
Il T. Balansae ha qualche volta le foglioline obovato-ellit-
tiche, non smarginate; i denti del calice un po’ più brevi di
quelli del T. Michelianum, il legume con tre semi invece di due,
e coi margini placentiferi tuberculato-denticolati: tutti caratteri
assai labili, e talora reperibili anche nel T. Micheliamim autentico.
ll T. angulatum W. et X., non cresce in Italia, ma s’avvicina
di molto al T. Michelianum Savi, quantunque ne sia ben distinto,
e si può benissimo considerare come una forma intermedia tra
il T. Micheliamum Sa; e il T. elegans Savi. Ha fiori più piccoli
del Micheliamum:; il calice con 5 nervi, i denti lunghi quanto o
poco più del tubo; i filamenti non dilatati all'apice; legumi spesso
tetraspermi.
Per il portamento e per la grandezza dei capolini e dei fiori
tiene più del T. elegans Savi, di cui ha anche i peli interdentali
del calice; non è per altro come quello perenne. ma annuo.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 419
Il T. angulatum fu già riferito al T. nigrescens da 7enore
(FI. Nap., 5 et in litt.), al T. macropodum da Gussone (FI. Sie.
Prodr., II, pag. 513) e a torto, come si vedrà più avanti: questa
confusione forse provenne dalla mancanza di buoni esemplari di
confronto.
LETTERATURA E CRITICA. — Questa specie, come il T. nigre-
scens, il T. hybridum, ecc., ha dato luogo ad una sinonimia in-
tricatissima, originata dalle difficoltà degli scambi di esemplari,
e molto più probabilmente dalla poca diligenza con cui gli autori
(Savi in specie) (1) curavano l’esattezza degli esemplari che re-
ciprocamente sì spedivano.
Savi (Observat. in Trif. spec., 1810, pag. 93 e seg.) sta-
bilisce e descrive questa specie, e dice con ragione che la fig. 2
e 5 della tav. 25 del Micheli devono riferirsi ad essa, e non
al T. hybridlum come fecero Linné ed altri botanici.
Il Pres! (Simbolae, 1832), a pag. 47, come si vedrà anche
per il T. migrescens, fa la sua Amoria Micheliana = T. nigrescens
Vie. = T. Micheliamim Savi (e specim. a Savio missis in herb.
Willd. et herb. generali Berol.); e il prof. Ascherson, da noi
pregato, ha verificato che nell’erbario Wil/denow nel foglio cor-
rispondente all’Amoria Micheliana Pres! stanno insieme tanto il
vero T. Micheliamum Savi quanto il T. nigrescens Viv. È dunque
presumibile che, anche nell'invio che Savi fece a Berlino, gli
esemplari fossero confusi, e non ben specificati, o abbia avuto
luogo uno scambio di etichette.
Comunque sia, dappoichè Pres! aveva fatto una cosa sola
del T. Micheliamum Sac; col T. nigrescens Vic. e colla Amoria
Micheliana, non restavagli che a descrivere il vero T. Michelianum
come una specie affatto nuova; ciò che egli fece, chiamandola
Amoria macropoda (a p. 51), ed ha esattamente disegnato nella
tavola XXXI. Di qui una prima e grave confusione di nomen-
clatura e di citazioni inesatte per parte degli autori posteriori.
Il Gussone nella Florae Siculae Prodromus (1828, II,
p. 513) dice d'aver trovato presso Calatafimi il T. angulatum W.
et X., ma appone alle sue citazioni un P Quindi nel Suppl. FI.
Ste. Prodr. (p. 234 1832) si corregge; esclude il T. angulatum
(1) Nell’erbario generale Torinese e negli erbari speciali di Biroli, Colla,
Moris e Balbis, esistono esemplari di T. lenucanthum M. B. spediti dal Savi
sotto il nome di T, obscurum!
420 G.G4BELLI E Sa BEL)
W. et A., e ammette che la sua pianta è identica all’Amoria
macropoda Pres/, facendone alla sua volta un T. macropodum. In
seguito nella Synops. FI. siculae (II, pag. 338 1843) descrive
il Trifolium macropodon suo, ma con un ?P, citando prima il T. an-
gulatum W. et X., dal quale però vuol differenziarlo; poi come
sinonimo cita con un P, l’Amoria macropoda Presl colla sua ta -
vola. Per noi è certo che il Gussone aveva sott'occhio il vero
T. Michelianim Sazz, poichè le differenze che egli dà tra il suo
ed il T. angulatum MW. et X. corrispondono precisamente a quelle
da noi osservate sopra esemplari autentici. Ma intanto la con-
fusione era aumentata, poichè Gussone faceva eguale il suo T.
macropodon, all’Amoria macropoda di Presl. che è uguale al vero
T. Micheliamum Savi; mentre Presl. come vedemmo, aveva sta-
bilito come sinonimi la sua Amoria Micheliana, col T. nigresceus Vee.
A porre il colmo del disordine (e non sì capisce veramente
come avvenne) il Gussone ha distribuito degli esemplari rachitici
e depauperati di T. nigrescens V7v. sotto il nome di T. macropodon;
e noi ne abbiamo veduti gli esemplari autentici colle etichette
di sua mano negli erbari di Bertoloni, di Firenze e di Cesati!!!!
Ora per noi è evidente invece che il T. Michelianum Save, VA-
moria macropoda Pres! e il T. macropodon Guss. sono la stessa ed
unica specie; che il T. nigrescens Vw., il T. hybridum Savi e
l’Amoria Micheliana Pres sono pure la stessa ed unica specie.
Della stessa opinione furono Grenier e Godron (Fl. Fr., I,
p. 419-20, sub T. Micheliano et nigrescente) V727%omm et Lange
(Prodr. Fl. Hisp., III, pag. 355-356, sub T. Michellano et ni-
grescente).
Il Moris (Fl. Sard., I, p. 498, 1837) nelle osservazioni in
calce alla descrizione, dice che il T. Michelianum Savi di Sardegna
è fistoloso, ma per il resto è eguale al T. macropodon Guss.
Aggiunge che il T. hybrilum 47. (Fl Pedem., I, pag. 302) (1)
differisce dal T. Michelianum Sac. soltanto per avere i /egumi
glabri! Noi abbiamo esaminati gli esemplari autentici di Allioni?
da lui segnati T. hybrilum, e abbiamo riconosciuto in essi il
T. elegans Sai (elegans-hybridum Nob:s)!! Ne verrebbe dunque
di conseguenza che per Moris sarebbero sinonimi T, Michelianum
Savi con T. hybridum (Auctor)!!!! (2).
1) L’Allioni cita la tav. 77 delle Icones Taur., Tom. XIV, fig. ?, la
quale rappresenta un vero T. elegans Savi.
(2) Come è mai possibile che il T. hybridum A. sia eguale al T. Miche-
lianum Savi, dacchè quest’ultima specie non fu mai trovata in Piemonte?
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 421
Tralasciamo di tener conto delle citazioni delle figure del
Vaillant e del Micheli, perchè come si vedrà anche per il
T. nigrescens Vi. non si arriva a nulla di preciso.
Bertoloni (Fl. ital., VIII, p. 115, 1850), sotto T. Miche-
lianum Savi cita come sinonimo Amoria Michelianma Pres/; e qui
s'inganna a partito, perchè, come si è detto ripetutamente l’Amoria
Micheliana di Presl. è sinonimo di T. nigrescens Vv. Identico
errore fa il Lojacono nel Tent. Mon. Trif. Sic., a pag. 99,
copiando la esatta sinonimia Bertoloniana. ;
Bertoloni descrive poi un T. macropodon Guss. ipotetico. Noi
abbiamo esaminato gli esemplari distribuiti da Gussone a Ler-
toloni stesso, a Parlatore, ed a Cesati, e vi abbiamo riconosciuto
il T. nigrescens Vv. Ora la frase Bertoloniana del suo T. ma-
cropodon pare riferirsi in parte al T. Michelianum ed in parte al
T. nigrescens.
Nymann (Conspect. Fl. europ., p. 178) dà il T. macropodon
Guss. erroneamente come sottospecie del "T. Micheliamim Sav?,
mentre devono essere considerati come sinonimi.
L'Arcangeli ammette il T. macropodon Guss. come diverso
dal T. Michelianum .Sav7, e ripete la descrizione e le località di
Gussone. Gli Autori del Compendio della FI. ital., p. 714, so-
spettano nel T. macropodon Guss. una varietà del T. Michelianum
Savi. Il IJanka (Trifolieae et Loteae europ.) esclude assoluta-
mente il T. macropodon Guss.
Il Lojacono (Tentam. Monog. Trifol., 1878) esclude dal
T. Michelianum la sinonimia di T. macropodon Guss., ed ha torto,
se del Gussone tien conto della frase e descrizione (Sym. FY.
Stic.. Il, p. 338). Avrebbe ragione invece se avesse osservato
gli esemplari distribuiti sotto questo nome da Gussone stesso,
come abbiamo sopra detto. Nella Clavis spec. Trifol. ( Nuovo
giornale bot., 1883, p. 238), mantiene a torto la distinzione
specifica tra il Michelianum ed il Balansae.
Riassumendo, la sinonimia del T. Micheliamum Savz va ridotta
come segue: Amoria macropoda Pres! = T. macropodon Guss.,
(Synops. FI. Sic., Il, p. 338), exclusis speciminibus easiccatis
ad diversos, escluso T. macropodone Bert. (F7. (t., VII, p. 116)
et auctorum postertorum.
422 G. GIBELLI E S. BELLI
HABITAT
PIRA et Savi. Sardegna Cen-
Castagnolo (Pisa) Caruel. tralle L'OeE Moris.
Campaldino Selva Pisana,
(Pio). i Parlatore. prati ip Caldesi.
Campania (Pan- Cascine di Pisa. . Marcucci.
tano di Min- Prati di Casta-
(i TE O 050) agli ai Terracciano. stiolo navate Cesati.
Macomer (Sarde- Valli di Sermide
RIO) aitnd Ae 0 Moris. (Mantovano). . Ferrari.
Distribuzione geografica.
Italia boreale e media, Spagna centrale, Francia occid. Cor-
sica, Sardegna.
Trifolium elegans Suv,
(Obs. in Trif., p. 92).
T. hybrilim Auct. (excel. Savio et excluso synonymo T. Miche-
lianmum Z'’ommas., PI. Sicc. in Bertoloni, FI. it. VIII, p. 110,
quod est T. Meneghinianum C/em).
T. Vaillantii Sith. Sm. (non Losst.).
T. formosum Sac; (Obs., p. 102, non d’Urv.).
VarIETÀ. — Noi abbiamo cercato, per quanto ci fu possibile,
di distinguere specificamente il TT. elegans Savi dal T. hybridum
Koch. e dei tedeschi (esclusi Suv, Seringe, ecc.), e non abbiamo
potuto riscontrare tra essi altre differenze fuori di quella indicata
per bene dal Koch stesso; cioè, che nel T. hybridum i cauli sono
fistolosi e molli, nel T. elegans solidi. Ma non possiamo dare
alcun valore al numero delle vene o dei denti (20 nell’hybridum,
40 nell’elegans secondo XocX). Potremmo aggiungere che nel T.
hybridlum i nervi interdentali del calice, dapprima obsoleti, sono
evidenti più tardi, però più sottili dei dentali, ma ciò non è per
nulla costante, e può riscontrarsi anche nel T. elegans tipico.
Del resto il Bertoloni (F7. ital., VIII, p. 111) e il Bossszer
(Fl. or., II, p. 146) hanno già riunite, ed a ragione, in una sola
le due forme. In Piemonte s'incontrano di frequente nei luoghi
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 423
ombreggiati e umidi delle forme di T. elegans Savi, specie comu-
nissima allo stato tipico, con tutte le parti erbacee esuberanti,
coi cauli flaccidi fistolosi, le foglie a lembo ampliato, le corolle
palliducce, che si possono identificare cogli esemplari di T. hy-
brilum tipico dell'Europa centrale.
Altrettanto possiamo dire di alcuni esemplari dell’erbario di
Firenze raccolti nelle località di Boscolungo, Vallombrosa, della
valle d’Asciano, dei Colli Euganei, ecc.
Se poi vogliamo tener conto di una nota del sig. Ad. Andrè
inserita nei Berichte der Deutschen botan. Gesellschaft (Bd. II,
Heft 10, 1885) noi dovremmo credere che l’identità delle due
specie sia dimostrata sperimentalmente. Il sig. André dice di
aver veduto un campo seminato con T. hybrilum dopo una pri.
mavera arsiccia tutto coperto di T. elegans tipico in pieno fiore;
poi, dopo la falciatura, in seguito a pioggie abbondanti, lo stesso
trifoglio riassumere i caratteri del T. hybridum vero. In conclu-
sione questa ultima forma non rappresenta per noi che il T. elegans
Savi delle località umide, ed è predominante in Germania, mentre
in Italia prevale l’elegans tipico.
LETTERATURA E CRITICA. — Noi non entreremo più in ulte-
riori disquisizioni per verificare precisamente quale specie abbia
designato Linné col suo T. hybrilum, perchè, d'accordo con
Caruel (Prodr. Fl. Tosc., p. 172), riteniamo potervisi com-
prendere tre specie cioè, migrescens, Michelianum, hybridum della
FI. suecica, quantunque il KocX asserisca con sicurezza, quest’'ul-
timo corrispondere esattamente al suo T. hybridum (Syn. FI.
germ., I, p. 193).
Lo Sehreber (in Sturm Deutsch. Flora, 15, Heft.) ci dà
una buona figura del T. liybridum dell'Europa centrale e nordica,
in modo da escludere le altre due specie sospettate nella frase
Linneana.
Il Savi (Obs in Trif., p. 92) sospetta anche lui che il
T. hybridum Ro. (F7. germ., I, II, p. 198) non sia altro che il
T. elegans suo. Ma il Savi, come vedemmo, ha poi avuto il torto
di descrivere col nome di T. hybridun L., il T. nigrescens Vo.
Il Seringe (in DCO. Prodr., II, p. 200-201), nella critica
al T. nigrescens V7e., dopo di aver definito il T. migrescens
Viv., (pag. 199) da la frase del T. hybrilum Savi/ e cita come
sinonimi la fig. di Schreber sopradetta, il T. polyanthemum Z'enore
(ex herb. Balbis) da noi esaminato nell’erbario torinese, e che è
424 G. GIBELLI E S. BELLI
un T. nigrescens tipico (sull’etichetta è scritto da Seringe: visa
sicca comm. CI. Savi!!) (1).
Poi sotto il T. elegans Savi, cita come sinonimo il T.
formosum Savi, ex ipso auctore.
Il Savi (Obs. in Trif., p. 102) ci dà un T. formosum ri-
cevuto da Persoon sotto la denominazione di T. recuryum, che
egli (Savi) trova assai, e con ragione, differente dal T. recurvum
descritto da Persoon (2) (Synops., II, p. 352). Il Savi poi si
corresse e di questo suo T. formosum fece una semplice varietà
del suo elegans.
Il Bertoloni (FI. ital., VIII, p. 112), ci dà la storia di
questo T. formosum di Savz. Egli dice d'aver ricevuto da Seh/escher
due esemplari di T. recuryrim X?, dei quali uno coll’etichetta
di Schleicher mandò a Savi, col quale Savi fece poi il T.
formosum (3).
Bertoloni fa finalmente avvertire che questo T. recurvum non
è certamente quello di Wuldst. e Kit., bensì un T. hybridmn e
quindi una forma del T. elegans Savi, come del resto dice anche
di un T. hybridum ricevuto da oemer e raccolto ad Upsala.
Il Boissier (Fl. or., 1I, p. 146) fa del T. elegans Savi una
varietà @ del T. hybrilum Z., e vi aggiunge anzi una varietà 7
col suo T. anatolicum.
Anche il Reichenbach (Icon., p. 79, Tab. 116 e 117),
accetta la nomenclatura di Boi/ssier e fa del T. elegans Savi
una varietà 4 del T. hybridum L.
L'Arcangeli (Comp. FI. ital., p. 174) mantiene le diffe-
renze specifiche tra l'hybrilum L. e l’elegans Save adottate dal
Koch.
Lojacono (Clav. spec. Trif., Nuovo giorn. bot., 1883, p. 244)
mantiene distinte le due specie, ignote in Sicilia.
(1) Vedi a questo proposito quanto si dirà nella critica del T. nigrescens
Viv.
2, Esiste un altro T. recurvum W. et X. che è identico al T. vesicu-
lJosum Savi.
3) Noi ci siamo assicurati coll’ispezione degli esemplari dell’Erh. Pisano
che realmente il T. formosum Scovi è il vero T. hybridum Koch et German.
Larita
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM
Alpi di Tenda. .
Casale ;
Vercelli
| ITETA ERNIA
Confienza ( Lomel-
lina)
Mombaruzzo (Ca-
sal Monferrato)
Abati.
Milano (Zelata) .
Pavia (contorni
meal - i,
Pino Torinese. . .
Colli Torinesi. . .
Bolzano: -£ -
Collecchio (presso
Parma)
Udine
Eremo (Colli To-
rinesi)
Cassoretto)
HABITAT
Reuter. Colli Euganei ..
Negri. Pablano ric...
Cesati. Mantoyazi.i-
Cesati. Appenn. Mode-
nese (Pian dei
Cesati. Lagotti). ....
Pontremoli. ....
Delponte. Bagni di Lucca. .
Dott.Bertero. S. Martino in Vi-
Cerruti. cnaleucsr. cia
Valle d’Asciano .
Ligo0 Pisa (prati) ....
Belli Fiumalbo) . ...,.
Defilippi. Boscolungo .
Ambrosi. Appennino Pisto-
si
2 Passerini.
=
$ Pirona.
Defilippi.
Ball.
lese
Mugello (Firenze)
Scarperia
Monte Senario
Firenze
Vallombrosa
Pratovecchio . .
Distribuzione (reografica.
425
Porta.
Cesati
Barbieri.
Calandrini.
Parlatore.
Parlatore.
Puccinelli.
Parlatore.
Parlatore.
Parlatore.
Parlatore.
P. Savi.
G. Savi.
Parlatore.
Parlatore.
Bivona.
Caruel.
Parlatore.
Svezia, Norvegia australe, Danimarca, Germania, Francia
centrale, Svizzera, Austria, Croazia, Serbia, Bosnia, Ungheria,
Polonia, Transilvania, Tracia, Russia del sud e media — manca
in Ispagna e Portogallo.
Abita la regione collina e la pianura e si adatta benissimo
alla coltivazione; è raro nella regione alpina elevata.
Trifolium Bivonae Guss.
(Prodr. Fl. Sic. II, p. 512. — Synops. II, p. 338).
Amoria calycina Pres! (Symb. bot. I, p. 43, tab. 30).
T. elegans Biv. (Bern. PI. sicc. apud Gussone, non Savi).
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII.
32
426 Gi! GIBELEI ‘El SV.BELLI
OssERvazIONI. — Il T. Bivonae Guss. ha il calice rassomigliante
a quello del T. Thalii, e se ne distingue per essere più lungo e più
tubuloso. Ha molte affinità colle parti vegetative del ©. pallescens,
e ne ha un poco il portamento. — I capolini in fiore e in frutto,
la lunghezza dei pedicelli, rammentano molto quelli deî T. repens,
dal quale si distingue , oltre che per non essere repente , per
avere il pedicello transeunte gradatamente nella base ristrettis-
sima del calice, mentre nel T. repens L. si innesta come in un
ombilico della base abbastanza larga del calice. Con queste tre
specie il T. Bivonae ha comune il carattere del piano delle fauci
tagliato a spese del labbro inferiore. Esclusivo invece del T. Bi-
vonae il carattere del seme oblungo a fagiolo.
Il T. Bivonae. secco e ben preparato, ha la fisionomia dei
capolini, massime se fruttiferi, molto rassomigliante a quella del
T. elegans, cioè i calici di color chiaro formano come un’aureola
interna bianca spiccata assai sull’aureola esterna rosso-fulva for-
mata dalle corolle. Per tutti questi caratteri il T. Bivonae, in-
digeno esclusivamente della Sicilia, potrebbe considerarsi come il
rappresentante in quest'isola delle specie T. Thalii e T. pallescens
predominanti nell’Alta Italia e nelle regioni montane. Aggiun-
giamo a p. 440 e 441 un quadretto differenziale tra il T. Bivonae,
repens, Thalii, pallescens.
LETTERATURA E CRITICA. — Gussone (Prodr. fl. sic. 2, p.
512, e Synops. 2, p. 338) fa osservare che l’abito della pianta
è talmente simile a quello del T. Cupani 7n., da poternelo dif-
ficilmente distinguere prima della fioritura. Ora, se sì può essere
autorizzati ad ammettere una certa rassomiglianza nelle parti
vegetative delle due piante in questione, egli è certo che la più
superficiale osservazione fa riconoscere negli organi fiorali di esse
una differenza grandissima di struttura.
Presl. (Symb. bot., pag. 43) vuole distinta questa specie
dagli affini T. hybrilum e T. elegans, ecc., sopratutto per le fo-
glioline che egli dice: petiolulatis, firmioribus, elevato-venosis ;
pel calice tubuloso, et ovario et legumine monospermo.
A noi pare che il carattere delle foglioline picciolulate, co-
mune ad altre Amorie, serva poco come carattere differenziale.
Quanto all'essere più sode non potemmo ciò constatare sul vivo ;
ma sul secco non ci pare esatto ; elevato-venose sono pure le foglio-
line del T. pallescens e del T. elegans. I veri caratteri specifici
stanno nella lunghezza del tubo calicinale, e nella forma del seme,
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 427
La figura del Pres! è abbastanza fedele. Nella frase dice
giustamente che i pedicelli uguagliano in frutto il calice in
lunghezza, e nella descrizione fa rilevare la variabilità delle fo-
glioline. ì
Lojacono (Tent. monog. Trif. sic., p. 103), assimila i ca-
polini del T. Bivonae a quelli del T. repens per la loro grandezza
e forma « demum-umbellatis, majusculis » e con molta maggior
ragione di coloro che lo vogliono vicino al T. elegans Savi
(V. osservazioni pag. 426).
Arcangeli (Comp., p. 175) non parla del capolino fruttifero
umbellato; dice che i capolini sono globosi, ed i pedicelli lunghi
la metà del calice. Ripetiamo che nel frutto i pedicelli interni
sono talora più lunghi del tubo, ordinariamente eguali ad esso
o quasi, ed i capolini ombrelliformi.
Cesati-Passerini-Gibelli (Comp. fl. ital., pag. 716) come
l’Arcangeli danno nella dicotomia: KK pedicelli tutti non supe-
ranti la metà del calice; brattee assai brevi ecc. Questa dico-
tomia serve pei soli fiori, non pei pedicelli fruttiferi, uf supra.
HABITAT
Piana dei Greci. Todaro. Monti della Piana
Ficuzza (Sicilia). Lvona. dei (Greci.i..i::.1Zzneo,
Id. id. +. Huet duPav. Termini (Sicilia). Parlatore.
Id... id... .. Parlatore. Castelbuono (Si-
M*° Marta (Gurgo cilia)ifg: Food Minà.
di Rebuttone- Segesta e Calata-
Sicilia) die Heldreich. fina L'A (russone.
Balermiolou. si Meli.
Distribuzione geografica.
Esclusivo della Sicilia, ove rappresenta il gruppo dei 7. 7ha-
lii-pallescens del continente.
Trifolium repens (L.).
6 minus Nob. In herb. Florent. et herb. D. Levieri et Bur-
natii sub T. Biasolelliano Steud. et Hochst.
T. prostratum Biasol,
428 G. GIBELLI E S. BELLI
T. Biasoleltianum Stewd. et Hochst.
T. } alpestre Guss. (PI. rar. Samn. et Apr. 1826, pag. 307).
T. glareosum Sel/eich. (In herb. Cesatiano Biarritz Unio itiner.
1831, exsicc. non alio).
22%. T. repens. £ orphanideum Boiss. (FL or. 2, pag. 145).
où. pseudo elegans Nob.
T. repens y macrorrhizum Boiss. Fl. or. l. c.).
T
. elegans in herb. Cesati exsicc. (non Savi).
VARIETÀ, OSSERVAZIONI, LETTERATURA E CRITICA. — Il T. re-
pens, stando alle forme che noi potemmo studiare in numerose
collezioni, presenta, oltre al tipico modo di vegetare, due forme
che ci parvero degne di nota, e vengono rappresentate dalle
due varietà Boissieriane T. repens f. orphanideum e 7. macror-
rhizum.
Queste forme però ci interessano in tutt'altro senso da quello
inteso dal Boisszer , il quale fece queste due varietà tenendo
conto di caratteri insignificanti, e non sempre riconoscibili anche
in taluni de’ suoi esemplari. |
Per noi invece il T. orphanideum potrebbe rappresentare un
T. repens ridottissimo, in cui spessissimo il carattere della repenza
scompare, la corolla si allunga un poco in confronto al tubo
calicinale, le bratteole inferiori si fanno trapezoidi irregolari, bi-
cuspidate ; lo stesso calice, preso isolatamente, è più breve che nel
tipico T. repens ; e allora necessariamente questa forma riesce quasi
indistinguibile dal T. pallescens Sc/red., quando abbia perduta la
repenza. Quando invece la repenza persista ancora, potremmo
considerare questa forma tanto come un vero T. Biasolettianum ,
come vuole Janha, quanto come un T. pallescens pseudo-repens.
Noi perciò non abbiamo il coraggio di elevarla a dignità di specie.
Certo è che in seguito alle numerosissime e reiterate nostre ana-
lisi, seguìte da pentimenti ripetuti, ci crediamo autorizzati a con-
cludere, che realmente in certe regioni elevate le due specie di
T. repens e di T. pallescens si trovano associate con forme gra-
datamente transeunti le une nelle altre, e si possono considerare
derivanti geneticamente da uno stipite comune.
Il carattere della forma della bratteola, già per se stesso
molto oscillante , salvo nei tipi ben definiti, diviene, come si
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 429
disse, insufficiente; poichè si vedono le bratteole esterne (infer.)
differenti per forma dalle interne (super.), nello stesso capolino ;
quelle, sono trapezoidi irregolari, talora bicuspidate , binervie ,
queste lanceolate uninervie. A nulla servono i caratteri artificiali,
che si danno generalmente nelle descrizioni, riguardanti le stipole,
molto affini per forma e struttura in queste due forme; insuf-
ficientissimo il carattere della posizione dello stilo nel legume,
che altri autori (v. Cosson pl. crit. ou rar. de Fr. 1, p. 5,
1848) credettero poter utilizzare a scopo sistematico, nella se-
zione Amoria
Noi vedremo (salvo nel T. nigrescens et isthmocarpum) va-
riare questo carattere in tutte le Amorie. Nelle forme depau-
perate, dove il legume è quasi sempre monospermo, lo stilo è
terminale, ma è terminale anche talora in legumi sviluppatis-
simi, polispermi, i quali di solito portano stili laterali (T. pal-
lescens, T Thalii). In modo molto generale potemmo constatare
che nel T. repens l’abituale posizione dello stilo è la mediana
terminale ; nel T. Thalii la laterale; nel T. pallescens ora una
ora l’altra; di solito però è la laterale. La posizione laterale dello
stilo pare molto più costante nella Sezione Pseudo-Amoria
Nob. (Micranthemum Presl).
L’altra forma 7 macrorrhizum, è notevole per ciò, che mentre
i caratteri fiorali rimangono immutati, la repenza scompare, la
pianta si fa cespitosa, addensata, con rami brevi e capolini nu-
merosissimi, rammentando così il vegetare del T. elegans Sar.
Per questa varietà noi proponiamo il nome Pseudo-elegans.
Nell’ erbario «del compianto professore Cesati si trovano al-
cuni saggi identici al 7. y macrorrhi:um dell’ erbario Boissier,
che l'illustre botanico credette altrettanti T. elegans Savi, mentre
appartengono al T. repens. Rammentiamo qui per altro che, dando
questo nome alla varietà Boisseriana in luogo del nome macror-
rhizum, noi intendiamo ravvicinare il T. repens al T. elegans solo
pel fatto dell'apparenza esteriore (facies), mentre abbiamo già
detto che, sopratutto pei caratteri della struttura calicinale, queste
due specie sono sempre ed evidentemente distinte.
Aggiungiamo ancora che il nome di macrorrhizum adottato
dal Boissier per questa forma, a significare la grossezza e le-_
gnosità della radice, non pare troppo appropriato, avvegnachè
non sempre la radice sia grossa e legnosa negli stessi esemplari
Boissieriani. Nel dare quindi alla pianta di Boissier il nome di
430 G. GIBELLI È S. BELLI
Pseudo-elegans, noi abbiamo avuto per scopo di togliere ogni ma-
linteso, che dalla significazione del nome stesso potesse derivarne
alla classificazione pratica; non di introdurre innovazioni.
Quanto al T. Biasolettianum Sfeud.. Hoechst. , quale noi
l’osservammo negli erbarii del Dott. Levier di Firenze, dei sig".
Burnat, Boissier, ecc., si può dire che all’infuori della dimi-
nuzione di tutti i diametri, salvo nelle corolle, esso altro non è
che un T..repens. Noi abbiamo adottato per questa (che meglio
che varietà dovrebbe dirsi variazione) il nome di minus, sempre
nell'intento di togliere confusioni, ed anche perchè questa parola
dice che, all'infuori del minor sviluppo, questa pianta non dif-
ferisce dal tipo.
Nella flora italiana di Bertoloni (Vol. VIII, pag. 107), il
T. Riasolettianum è sinonimo di (3 pusillum Bert. Ora noi negli
erbarii trovammo sovente dei T. repens & pusillum Bert, che
rappresentavano altre specie (T. Thalii), ed è anche perciò che
sostituimmo il nome di minus a quello di T. Biasolettianim. A
questa forma appartiene senza contestazione la pianta che col
nome di T. glareosum .Sc//ezch (Unio itin. 1831, Biarritz, non
alior.) abbiamo vista nell’erbario Cesati.
La sterminata variazione delle foglie nel T. repens è cosa
che cade tosto sott'occhio a chi possa disporre di un certo nu-
mero di esemplari tolti da località diverse per suolo, esposizione
e livello altimetrico. Dalla forma sub-rotonda all’oblunga od
oblungo-obovata od obcordata si hanno tutte le modificazioni
possibili.
Della grandezza non vale la pena discorrere; anche qui, dalle
minute foglie del psewdo-pallescens a quelle delle forme colti-
vate o cresciute in terreno soffice e pingue, che hanno talora
foglie del diametro di 37 millimetri, si possono trovare tutte le
dimensioni intermedie possibili.
Non abbiamo creduto di poter accettare come varietà il
T. repens 0 plyllanthum DC. coi denti del calice trasformati in
foglioline, perchè questa, piuttosto che quale varietà, va con-
siderata come anomalia teratologica, che sì riscontra anche in
altri trifogli. Così pure crediamo che le altre due varietà De-
candolleane {5 rubescens e ‘) lururians degli autori debbano
rientrare nel tipo.
Infine tutti gli esemplari da noi trovati negli erbarii col
rome di T. repens y glareosum Gaud. appartengono senza discus-
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 431
sione al T. pallescens Sc/red. Gaudin. (FI. Helv. IV, pag. 575)
dice la sua varietà mazime coespitosa, caulibus innumeris pro-
stratis in orbem expansis. Non abbiamo sott'occhio gli esem-
plari autentici e quindi non ci attentiamo a formulare giudizi.
Osserviamo solo che anche il tipico T. pallescens è talvolta sdraiato,
cespitoso e si dispone circolarmente rasente terra.
Riassumiamo qui i caratteri delle tre varietà da noi pro-
poste, di T. repens £.
6. minus Nob. — Omnibus partibus diminutis, stolonibus ab-
breviatis interdum sub-ligneis, evidenter radicantibus, foliolis
saepe obcordatis, internodiis approximatis.
?? y. Orphanideum Boiss. — Nanum, stolonibus radicantibus
nullis; bricteolis (etiam in codem capitulo) irregulariter tra-
peziformibus, apice denticulatis, obscure binerviis, vel lanceolatis
uninerviis acutis, corolla calyce triplo longiore. Facies T. pal-
lescentis.
O. pseudo-elegans Nob. — Caespitosum, stolonibus radi-
cantibus nullis, ramis dense congestis, abbreviatis, crassis ,
capitulis numerosissimis. Facies T. elegantis.
LETTERATURA. — Linneo (Species pl. pag. 1080) nella breve
frase che riguarda questa specie dice: leguminibus tetrasper-
mis (1). Convien notare che questo carattere è tutt'altro che
costante. Osserrammo esemplari monospermi e in tal caso tutte
le parti vegetative erano ridottissime (Esempl. Boissier {} macror-
rhizum e T. repens & minus Nob.).
Allioni (Flor. pedem., pag. 302, vol. I) ripete la frase. Lin-
neana. Poi in calce, sull’autorità di Haller, riporta un T. parisiense
(quale?) al T. repens. Sappiamo che il T. parisiense è una varietà
del T. patens. Aggiunge aver visto questa specie, in un caso, vi-
vipara.
Savi (Obs. ad trif. sp., pag. 86) accenna alla facilità con
cui varia il T. repens nel caule e nelle foglie, tanto in gran-
dezza che in forma, ciò che egli fa giustamente derivare dalla
(1) La distinzione che generalmente si fa di legume dispermo nel T. pal-
lescens, e quadrispermo nel T. repens, come carattere specifico costante, è
senza valore. Esaminati numerosi esemplari dell’una e dell’altra specie, si
può dedurre in modo generale che il T. repens è tri-quadrispermo, rara-
mente monospermo, ed il T. pallescens bi-tri-sperrmo, raramente monospermo.
432 G. GIBELLI E S. BELLI
natura del suolo e dalla esposizione. Dice che si osserva talora
con quattro o cinque foglioline, mentre manca tal altra la macchia
lunulare bianca sulla pagina superiore. Il colore dei fiori vi
è detto variabile fra il bianco ed il roseo porporino.
Gussone (Synops. 2, pag. 587) descrive il legume del
T. repens come 2-4-spermo. La varietà è minus non ha carat-
teri che la possano distinguere dal tipo. La varietà c proliferum
« calyce calyculos abortivos gerente », è una variazione che pare
corrisponda al è phyllanthum DC. Aggiunge che il calice ha due
punti neri alla base. Questo carattere non esiste sempre. Nelle
Plantae rariores Samn. et Apr., pag. 307 è data una varia-
zione d alpestre, la quale corrisponde al { minus Nob.
Tenore (Syll. Fl. neap., pag. 375) ha le due summento-
vate varietà di Decandolle C. phillanthum, D. proliferum; il
B. rubescens, è una variazione senza importanza.
Koch (Synops. fl. germ. et helv., p. 191, vol. 1), non
accetta il T. Biasolettianum neppure come una varietà del tipo,
poichè non se ne distacca che per diametri minori.
Il Ianka (Trif. Lot. Europ., p. 152) erra certamente nel-
l’attribuire al T. repens corolla lunga tre volte il calice, ed al-
l’Orphanideum Loiss. corolla lunga solo il doppio del calice. Noi
abbiamo trovato quasi sempre il rovescio.
HABITAT
Monte Cenisio .. Parlatore. Appennino Etru-
Torino (colli)... Belli. SCO; ‘ra e Ce e ZIE
M' Stella sopra Monte Fortino
Naldieri wo. Parlatore. (Appenn. Pi-
Casalborgone GELO) Marzialetto.
(colli) Lire Belli Bagni di Lucca. . Parlatore.
Intra (Lago Mag- Livorno Cavalleg-
SIORO)o he Belli. gieti.altagttà Parlatore.
Genova (dintorni). Ardissone. Boscolungo . ... Parlatore.
Valle di Polce- Monte Senario . Parlatore.
perdita. Canepa. Albaccina (Mar-
Bergamoriab-: Bracht. che)... Batte Bucci.
Eolie io ne Pirona. Monte Amiata .. G. Campani.
Oldenico. cai Malinverni. Prataglia (App.
Grumnone (all'0- Casent.). .... Parlatore.
glio)i vie due Parlatore. Roma (Colosseo). ZForini.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 4353
Napoli (Pozzuoli). Belli. Otranto e Ta-
Cava de’ Tirreni Talitons. ion . Levier.
(Salerno)... Belli. Siracusa ...... Cassia.
Spirito, Carrobaro Gurgo di Rebot-
Cerasi (Reggio tone (Sicilia) . Parlatore.
Calabria) .... Macchiati.
Distribuzione geografica.
Tutta Europa.
Trifolium pallescens Scehred.
Deutschl. fl. Abth. 1, Heft. 15 = Koch (Syn. ed. 2, p. 192).
T. arvernense Lamotte. Prodr. FI. plat. centr. Frane, 1" partie,
p.. 202.
T. glareosum Schleich, cat. 1821 — Reschb. exsicc. 1710 et
1830 — exclus. exsicc. Union. itiner. Endrets. Mart. 1831
(Rupes marit. inter. Biarritz et St.-Jean de Lutz) in herb.
Cesati.
Osservazioni. — I T. pallescens presenta talvolta rami
prostrati sdraiati, quasi repenti, e si avvicina allora ad alcune
forme pusille di T. repens, che hanno perduta la repenza, cosic-
chè riesce difficile il differenziarli. In tal caso per distinguere le
due specie è necessario far pro di tutte le note caratteristiche
differenziali indicate nel quadretto. A queste forme procumbenti
convien riportare il T. arvernense Lamotte, che noi vedemmo
negli erbarii Burnat e Cesati proveniente dalle seguenti località:
Lautaret (Hautes Alpes) alt. 2100 m., Puy de Dome Mont Dore
(Vallée d’Enfer). Questo arvernense differisce dal tipico pallescens
per i seguenti caratteri, che noi non crediamo sufficienti a definire
una varietà perchè non costanti :
Vessillo quasi ovato con unghia brevissima: cauli pro-
cumbenti simulanti repenza.
Il T. glareosum Seh/e/eh non è che un T. pallesceus meno svi-
luppato, e più alpino. Altre lievi differenze potemmo riscontrare
in numerosi esemplari dell’erbario Burnat e Belli le quali sono
per altro di lievissimo momento. Tali sarebbero: nel T. glareosum :
Bratteola talora lunga quanto il pedicello.
Stami non dilatati sotto l’antera, ovvero l’uno sì e l’altro no.
434 G. GIBELLI FS. BELLI
Fiori minori in tutti i diametri.
Ali talora con macchia rosea.
Gli esemplari provenivano dalle seguenti località :
Gran S. Bernardo, leg. Thomas (Erb. Cesate).
Zermatt. (Vallese) leg. Burnat (Erb. Burnat).
Colle di St-—Théodule, Alpi Pennine. Passo del Vallese, leg.
Belli (Erb. Belli).
Noi quindi, seguendo Koch; riuniamo questa forma al T. pal-
lescens Schred.
Dobbiamo finalmente avvertire che alcuni esemplari pubblicati
dall’Unio itineraria col nome di T. glareosum Schleich e rac-
colti tra Biarritz e St.-Jean de Lutz « ad rupes maritimas »
appartengono senza discussione al T. repens {} minus Nob. =
T. Biasolettianim Steud. Hochst., e che la figura di Schreber
data nella Deutschl. fl. 32 heft. col nome di T. caespitosum
dal complesso dei caratteri visibili sulla figura stessa e dalla
descrizione deve essere riportata al T. glareosum Schleich, come
pure opina il Koch e non il Bertoloni, il quale la ravvicina
al T. repens ( Biasolettianum; a torto secondo noi, perchè nella
fisura sopratutto non si osservano gli stoloni repenti.
HABITAT
Bardonecchia ... Azur. Colle St.- Théo-
Pusteria (Tirolo «ule (Passo del
QUStT..)3-.,- Huter. Vallese), gg Belli.
Bugnanco (Alpi Colle di Sestriè-
Ossolane) . Lisa. res(AlpiCozie). Belli.
Cesana (Alpi Co- Valtellina. Moretti.
ie) io o Lisa. Trentino (Bon-
Valdieri (Alpi done) aspre FP. Perini.
MArlth..).. tu Lisa. Tirolo centrale
Tirolo italiano. . Dott. Lagger. (Valle Selrain). Kerner.
Rocciamelone ... Lisa. Gran S.Bernardo. Parlatore.
Ollen sopra Ala- Moncenisio . . . . . Arcangeli.
gna (Valsesia) Lisa. Susa (Casa d'Asti
Gressoney la Tri- al Rocciame-
ultra As Lisa, Arcan- one.) i... adi
Valtournanche [geli. Vetta di Feltre.. Ambrosi.
(Alpi Pennine. Alpi di Carnia. . Pirona.
Gran Tourna- Valle Cupa (A-
Und: Belli bruzzo). Resine Pedicino
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 435
Distribuzione geografica.
Francia (Delfinato), Lombardia. Carnia, Tirolo , Carinzia ,
Banato, Transilvania, Bosnia, Montenegro, Macedonia.
È pianta alpina e non si spinge così in alto come il T. Thalii
(salvo eccezioni per la forma T. glareosum che si spinge più in
su del tipo).
Trifolium Thalii V./!.
Dauph. (1786) 1, pag. 289 e III, pag. 478. — Grenier
et Godron. Fl. de Fr. I, pag. 418.
T. caespitosum Keyn (1788) in Hoepf. magaz. I, p. 78, t. 1. —
Savi Obs. pag. 89 — De Cand., Prodr. II, pag. 199 — Koch
Synops. ed. 2, pag 192 — Bertol. FI. it. VIII, pag. 103 —
Willkomm et Lange. Fl. hisp, III, pag. 355. — Arcangela.
Comp. FI. it. p. 175.
6. pseudo-repens Nob. Exsicc. Monte Morrone, Monte Miletto,
Majella etc. in herb. Florent. et D. Levieri, etc.
OssERVAZIONI. — a. Non dobbiamo accogliere in senso as-
soluto ed esclusivo nel T. Thalii il carattere degli internodii
caulinari così appressati che i peduncoli appaiano radicali. Si
sono trovati rari esemplari appartenenti indubbiamente per i loro
caratteri fiorali a questa specie, i quali mostravano un internodio
sviluppato, ed una foglia caulinare (esemplari di Parlatore,
Gran S. Bernardo; di De Notaris, S. Bernardino Grigioni, ecc.) ;
e d'altra parte invece abbiamo trovato esemplari di T. pallescens
(quelle sue forme cioè designate dagli autori come T. glareosum) (1),
le quali salgono tant’alto come il T. Thalii, perdono la caule-
scenza, assumendo i peduncoli radicali; mentre le forme tipiche
del T. pallescens stanno sempre più basso e si mantengono cau-
lescenti. Il che dimostra ad evidenza che la caulescenza o meno
in queste due specie può essere modificata dalle condizioni cli-
materiche in cui vegetano.
b. Il confronto fatto dagli autori in generale fra le brat-
teole dal T. Thalii e T. pallescens non può dar risultato costante
a cagione della variabilità assoluta di questo filloma.
1, V. Erb. Burnat T. glareosum Schleich. Valais: Val de Bagne a 2000 m.
Simplon, glaciers. Zermatt, Erb. Belli, Colle di S'.-Théodule.
436 G. GIBELLI E S. BELLI
Più costante risultato si ha confrontando il pedicello col tubo
del calice, quando ciò si eseguisca su esemplari in eguale svi-
luppo; ovvero paragonando il pedicello col fiore intero. Questo
carattere porta seco quell’ altro, eccellente per differenziare il
T. Thalii dal T. pallescens, dal T. repens, ecc., dei fiori, cioè,
eretti od eretto-patenti in frutto nel T. Thalii, ed ombrellato-
reflessi negli altri due.
c. È innegabile che queste due specie, T. Thalii e T. pal-
lescens, hanno tale affinità massime nella struttura fiorale, da far
pensare perfino ad un ravvicinamento specifico di esse. È altresì
certo che esistono esempi di transizione dall’una all’altra forma.
Ma se, oltre alle dimensioni fiorali assolute, si tien conto anche
dei caratteri della lunghezza del pedicello, della forma del capo-
lino fruttifero, della lunghezza e contorni delle stipole, costante-
mente diverse nelle forme tipiche delle due specie, noi crediamo
di poterle quasi sempre differenziare, salvo nel caso d’esemplari
troppo giovani. Se poi si voglia accordare un valore qualsiasi
all'altezza relativa in cui vegetano le due specie, costantemente
maggiore quella del Tlialii, la conservazione. dell’ autonomia di
queste due specie apparirà giustificabile.
VARIETÀ. — d. Abbiamo ricevuto comunicazione dal D" Le-
vier di alcune forme pusille di T., Thalij crescenti sulla Majella e
sul Monte Morrone a 2400", le quali presentano dei cauli tor-
tuoso-repenti, radicanti, ma /egnosi, e potrebbero simulare una
forma diminuita di T. repens, spinto a massime altezze. Ma se
ben osserveremo i suoi pedicelli li troveremo brevi nè mai reflessi,
e quindi i capolini non ombrelliformi come nel T. repens tipico.
D'altro canto la bratteola è oblungo-trapezoide-bicuspidata, ca-
rattere questo che nel repens tipico non si riscontra; mentre gli
altri caratteri fiorali differenziali per quanto menomati vi si pos-
sono ancora riconoscere. Ora noi proponiamo per questa forma
di T. Thalii la varietà psewdo-repens. |
e. Nella Flora Orientale di Bossier il T. Thalii è rap-
presentato dal T. i'arnassi, specie che gli è prossima, ma distinta
per minutezza di parti, oltrechè per caratteri specifici eviden-
tissimi.
LETTERATURA E CRITICA. — Villars (Hist. de pl. du Dauph.
pag. 478, tab. 41) da una descrizione di questa specie, chia-
rissima; e la sua distinzione dal T. repens per i suoi fiori jamais
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 437
pendantes è evidentissima. Per questo stesso carattere si distingue
dal T. pallescens, onde noi accettiamo volentieri la denominazione
di T. Thalii, che d’altra parte spetta al Vi/ars per dritto d’'an-
zianità. Gli autori in genere, fra gli altri Berfoloni, accettano
la denominazione di T. coespitosum, invece di T. Thalii; ma non
si capisce bene il perchè £Lertoloni dica, che la fig. 41 del
Villars è cattiva. Non è certamente una figura ben fatta, ma
mette in evidenza i caratteri specifici che distinguono la pianta
da altre vicine; sopratutto mostra i capolini con fiori sempre
eretti, ed i pedicelli brevissimi, il che è per noi di importanza
capitale; senza questo carattere, e senza quello del rapporto diame-
trico tra il calice e la corolla, questa specie sarebbe talvolta diffi-
cile a distinguere dai T. repens e T. pallescens.
Il Caruel (Prodr. fl. Tosc. pag. 171) ha una nota, dove dice
di non aver adottato per la pianta toscana il nome di V2/lars,
benchè più antico del nome di Leyner (T. coespitosum), perchè
quello di Vz/lars è derivato da un errore, non essendo cioè pos-
sibile che il T. montanum minus di Z'halius (citato come sinonimo
dal Villars per la sua pianta), proprio della Selva nera, corri-
sponda, come ha presunto il V//ars, al T. coespitosum, proprio
delle Alpi e dell’ Appennino. Osserviamo che quando anche la
sinonimia fosse inesatta, noi possiamo riportarci alla descrizione
ottima del Vi//ars, ed alla sua figura sufficiente. D'altra parte
il Villars mette un P al sinonimo di Thalius.
Schreber (in Sturm. Deut. fi. 32 heft.) ha una figura che
è da riferirsi al T. pallescens; dalla descrizione però pare si
abbia a fare con una forma minuta di T. repens (8. pusiZlum
Bertol.?). Il Bertoloni ha espresso già questa opinione (Confr.
FI. it. vol. VIII, pag. 105).
La figura però, esaminata bene, conviene come si è detto piut-
tosto al T. pallescens Schreb. (forma glareosum), a cagione del
calice brevissimo in confronto della corolla, carattere che nella
fisura, se non nell’analisi di Schreder, è evidentissimo e che non
si ha nel T. repeltis anche quando esso, perdendo gli stoloni,
prenda l'aspetto di T. elegans (7. repens pseudo-elegans Nob.),
Savi (0bs. pag. 89) non osservò questa pianta viva, ne ri-
cevette bensì esemplari dal Balbis e dal Roemer. Questi esem-
plari, egli dice, non portavano però fiori eretti o patenti dopo
la fioritura, ma deflessi, per cui erano certamente da riferire al
T. pallescens.
438 G. GIBELLI E S. BELLI
Nel Botanicon Etruscum poi (pag. 41, vol. II) dà i carat-
teri differenziali per le due specie, che in massima corrispondono
al ‘nostri, quantunque alcuni di essi non siano costanti; tali p. e.
il colore della corolla ed il numero dei semi, talora uguali in
amendue le specie. Della grandezza delle foglie come carattere
differenziale è superfluo parlare, quantunque possa dirsi in modo
molto generale, che quelle del T. Thalii sono talora molto larghe
e meno consistenti; che la pianta in complesso lussureggi meno
che nel T. pallescens, ma abbia però radice più grossa e legnosa.
Seringe (in DC. Prodr. p. 199) e Tenore (Syll. fl. Neap.
p. 375) danno pressa poco gli stessi caratteri differenziali tra il
T. pailescens ed il T. Thalii.
Grenier et Godron (Fl. de Fr. vol. I, pag. 418-419), am-
mettono come carattere differenziale tra il T. Thalii e T. pal-
lescens il lesume sessile nel primo, e stipitato nel secondo, che
noi non possiamo ritenere come apprezzabile.
Bertoloni (Fl. It. vol. VIII, pag. 103) considera il T. pal-
lescens Schreber un quid dimidium fra il T. Thalii e T. repens.
Egli deduce le ‘differenze specifiche fra il'T. pallescens e gli altri
due enumerando i caratteri tipici proprii a ciascuno. Ma questi
caratteri, come vedemmo, vanno attenuandosi, convergendo gli uni
verso gli altri, e però talora ci troviamo in presenza di indi-
vidui, per classificare i quali ci occorre tempo e fatica non indif-
ferenti, ed il sussidio di tutti insieme i caratteri, che differenziano
una specie dall’altra.
L'espressione pel capolino obsolete umbellari non si adatta
al T. Thalii; esso non accenna ma? nelle forme bene definite ad
assumere questa disposizione. Insistiamo ancora su questo fatto
perchè è il solo che differenzii questa specie in modo evidente
dal T. pallescens e repens. Così il dire la bratteola lanceolata nel
T. Thalii è inesatto; la forma consueta è la trapezoide oblungo-
irregolare, bidentata all'apice e con denticini laterali; non è raro
però trovare la bratteola lanceolata, abituale del T. repens.
Reichenbach (Icon. pag. 78, tav. 112) qualifica la brattea
come triangolare; mentre, come più sopra si disse, la sua forma
abituale è l’oblungo-trapezoide, irregolare, bicuspidata all’apice o
denticulata, e talora anche ai lati, con nervatura mediana rara-
mente mancante. Non è però assolutamente esclusa la forma
triangolare. La figura del calice è abbastanza buona; ma man-
cano le nervature marginali dei denti riunite alla mediana da
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 439
trabecole trasversali; carattere non di primo ordine ma abba-
stanza costante, e che non si trova nel T. pallescens; almeno
di solito.
Wilkomm et Lange (Fl. hisp. vol. III, pag. 355), adottano
essi pure il nome di T. Thalii come più antico.
Arcangeli (Comp. fl. it. pag. 175) differenzia il T. coespi-
tosum dal T. pallescens anche per i caratteri dati da Grewnzer et
Godron del legume stipitato o no. Ripetiamo che noi abbiamo
sempre trovato in ambedue le forme il legume sub-sessile.
HABITAT
Val di Vedro, Val de’ Vitelli. . Cesati.
Miegolat. ‘8.080, Lisa. Monte Morrone
Colle di Tenda. . rd. Torino. (Abruzzo). ... Lewvier.
Gressoney... ... Cesati. Monte Maiella
Valtellina alta. . Levier. (Abruzzo). ... Levier.
Iselle (Alpe di Monte Amaro
Ronco)...... Cesati. (Abruzzo). ... Pedicino.
Monte Legnone Monte Miletto. . Z'erracciano.
(Lombardia). . Cesati. Cesati.
Monte Baldo (Ve- Castel Menardo
FOnese). ..... Cesati. (Appenn. Pi-
Ambrosi. CERO) gie Marzialetto.
Alpi Bresciane Monte Vettore
(Valle Bago- (Appenn. Pi-
i V4C0) VISO Huter. CND ie Sebastiani
Appennino Pi- Valle Mandrella
stolese . ...... Erb. Pisa. di Monte (A-
Levier. bruzzo) . ... Groves.
Monte Antola Pizzo di Sivo
(Liguria) .... Cesati, (Abruzzo). ... Orsini.
Distribuzione geografica.
Abita generalmente i luoghi elevati dell'Alpe e dell’Appen-
nino. Manca in Sicilia, in Sardegna e in tutte le isole dei mari
italiani. Si spinge fino alla regione delle nevi, ove si fa piccolo
e legnoso. Cresce nei Pirenei, nel Jura e nella Transilvania,
(Vedi la tabella seguente).
440
G. GIBELLI E S. BELLI
TRIFOLIUM THALII Vitt.
TRIFOLIUM PALLESCENS ScHREB. ff
Caule cespitoso legnoso: quasi-repentein una
sola forma (T. Talii pseudo-repens Nob )
Stipole — tutte basilari-appressatissime, ri-
coprentisi l’una coll’altra, glaberrime, scariose,
| sottilissime, con code terminate tosto in punta
filiforme — subulata. Porzione adesa lineare
guainante per tutta la sua lunghezza. Nerva-
ture esili e scarse.
Peduncoli fioriferi ordinariamente ra-
dicali, raramente caule sviluppato con inter-
nodii distanti e foglie cauline.
Capolini globosi od ovato-ellittici, mai
subumbelliformi per deflessione dei fiori in
basso ed allungamento del pedicello — il quale
tuttalpiù è ricurvo in basso, nei fiori inferiori.
Pedicelli fiorali glabri o pelosi, lunghi |
quanto la metà del tubo del calice; sovente
meno d’essa, rarissimamente uguali al tubo.
Bratteole ordinariamente oblungo-trape-
zoidi irregolari con nervo mediano o laterale
e denticini all’apice, talora anche integre, lan-
ceolate e acute.
Calice (denti compresi) uguale circa ai ?/, |
della corolla; tubo sub-campanulato ; nerva- |
ture marginali dei denti evidentissime, riunite
sovente alla mediana per trabecole trasversali.
Vessillo oblungo-ovato-lanceolato, stretto,
retto.
Stami alternativamente dilatati e subulati.
Ali e carene lanceolate-ottuse, strette.
Stilo ordinariamente laterale.
Legume ordinariamente 3-spermo (1,2 —
spermo nelle forme nane).
Lunghezza media del fiore col pe-
dieta tte SERRE O e 8 sbrorit: “10
Pedicellonir £È ie _g7° sizan sd 1,6
Calice denti compresi. . . . » 6,6
Tubo del calice (misurato a livello
dei due denti superiori). . . . » 4
Corolta (Circa), eo TR 9
| plari egualmente sviluppati ; senza di che, il loro valore
su numerosi esemplari) viene ad essere nullo.
5 - io
_Caule cespitoso, procumbente, mai std
nifero-repente.
Stipole basilari appressate, oblungo-sul
ovate, arrotondate alla base, guainanti per &
metà circa delia parte adesa; code gradafi
mente ristrette, acuminate; stipole delle foglf
cauline più strette, lanceolato-acuminate db
porzione adesa più breve e meno guainante;
nervature abbastanza numerose. i
Peduncoli fioriferi radicali; eccezioné
mente caule sviluppato con almeno 2 intéf.
nodii ed altrettante foglie caulinari, T
Capolini a maturanza ombrelliformi ji
deflessione dei fiori in basso ed allungamelf
del pedicello, lassamente o fittamente globk:
solo prima dell’antèsi. ù
Pedicelli fiorali glabri o pelosi più lunff
del tubo del calice în untèsi: poi, a matura
del frutto anche il doppio e più, non groll
filiformi. na
Bratteole ordinariamente oblungo-traff
zoidi massime nei fiori inferiori, irregolaf
talora anche lanceolate, massime nei fiori sul
riori, con qualche denticino apicale o lateral@
nervatura mediana o laterale, raramente binell
Calice ‘denti compresi) uguale circa af
della lunghezza della corolla ed anche mel
raramente di più; nervature. marginali W°
denti evanescenti o nulle. Mi
È
Vessillo largo ellittico 0 sub-ovato edili
linea dorsale mediana longitudinale arcua
concava in alto (falcato). f
Ali e carene largo-lanceolate, ottuse. È
Stilo ordinariamente mediano. Ù
Legume ordinariamente trispermo, talvdlé
quadrispermo; nelle forme diminute 1, 2ff
spermo. fr
ci
Stami alternativamente dilatati e subul j
Lunghezza media del fiore in ]
antèsi col pedicello . . . .mm. 9-4
Lunghezza media del pedi-
cello e fiore (a maturanza). . » fl
Pedicello in frutto. . . . » 3 —
Calice (denti compresi) . . » 3—
Tubo del calice (misurato ‘i
a livello dei denti superiori) . » 1,59
Corolla ©. +e e
| NB. Le misure assolute o relative delle parti fiorali vogliono esclusivamente essere prese sopra fiori in antàsi e su @
già esiguo per se stesso (quantunque risultante da una media @
- rn
Saule repente; in una forma sdraiato non
icante(T. repens î pseudo-elegans. Nob.)
tipole scarioso-membranacee; le inferiori
inanti fin quasi sotto le code lesiniformi
minate, quelle dei rami giovani gradata-
te ristrette in punta filiforme allungata,
nervature numerose, glabre, sovente colo-
in violaceo scuro.
eduncoli fioriferì mai radicali; caule
uppato in internodi distinti, peduncoli ol-
assanti infine la foglia ascellante.
apolini a maturanza ombrelliformi (per
essione dei fiori in basso ed allungamento
pedicelli) fittamente o lassamente globosi
’antòsi.
za (massime dei fiori interni) fortemente
uato-reflessìi , sottili, sempre ben distinti
la base del calice su cui sono inseriti, onde
appare umbilicato.
Calice (denti compresi) uguale alla metà
a corolla; sovente un po’ meno, mai di più.
sso una macchia nera alla base dei denti,
ure marginali dei denti evidentissime.
a linea longitudinale alquanto concava in
tilo ordinariamente mediano.
egume ordinariamente quadrispermo non
rado trispermo, nelle forme diminute bi-
rmo.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM
441
TRIFOLIUM BIVONAE Guss.
Caule cespitoso, procumbente mai stolo-
nifero,
Stipole (a tipo pallescens) non appressate
nè ricoprentisi nelle foglie inferiori, membra-
nacee, colla porzione adesa guainante massime
nelle inferiori, terminate in code triangolari
subulate più brevi od eguali alla porzione
adesa; nervature abbastanza numerose e pro-
nunciate.
Peduncoli fioriferi mai radicali; caule
sviluppato in internodi distinti; peduncoli ol-
trepassanti la foglia ascellante.
Capolini a maturanza ombrelliformi (per |
deflessione dei fiori in basso ed allungamento
| dei pedicelli), globosi solo prima dell’antòsi.
edicelli fiorali, glabri o pelosi a matu- |
Pedicelli fiorali glabri o pelosi; a matu- |
ranza, e massime nei fiori interni, fortemente |
arcuato-reflessi, grossi quasi quanto la base
| del calice, colla quale paiono gradatamente
continuare (calice non umbilicato), uguali od |
! un po’ più lunghi del tubo calicinale.
Calice (denti compresi) un po’ più lungo |
i della metà della corolla; nervature marginali
ature marginali dei denti evidentissime. ,
o bianco-verdastro 0 rosso-vinoso. — Ner- |
essillo largo ellittico o stretto lanceolato, |
Atti R. Accad, - Parte Fisica — Vol XXII,
vello dei denti superiori) . . » 5
dei denti evidentissime.
IS
Portamento del T. repens ? pseudo-ele-
gans (Nob.)
Lunghezza media del fiore
col pedicello in antèsi A
Lunghezza media del fiore
(col pedicello) a maturanza . » 16-17
Calice (denti compresi). . » 7,5
Corolla . . . . » II (circa)
Tubo calice (misurato a li-
-”
33
442 G.CQUBELLI "El Sx BELLI
Trifolium nigrescens Vv.
FI. Ital. fraom. fasc. 1, p.-12, table
T. Meneghinianim C/em. Sert. Orient. Acc. Tor. Tom. XVI,
Tara, pag 31, i
T. polyavthemum Zen. Nap. V, p. 151.
T. Petrisavi C/em. 1. c. p. 32 tav. VII, fig. 2.
T. Molineri Co/la non Balbis Herb. Ped. II, p. 134 et in Herb. suo.
T. nigrescens var. gracilis Lojac. Tent. Monog. Trif. Sic. 101.
VARIETÀ. --— La varietà più esuberante di questa specie è
data dal T. Meneghinianum Clementi (Sertulum Orientale, nelle
Memorie della R Accademia Tor. vol. XVI, p. 267, tav. VII).
Ha l'aspetto esteriore e il portamento del T. Micheliamum Saw,
con cui fu sovente confuso, i rami prostrati, flaccidi, fistolosi,
le foglioline cuneato-semicircolari, denticolato-spinulose ; caratteri
che però oscillano, occorrendo frequenti passaggi, anche nello
stesso individuo, a foglioline più allungate, ellittiche, ottuse, e
smarginate, con denticoli non spinulosi. Le stipole sono mem-
branose, sottilissime, i peduncoletti assai lunghi, le brattee
oblungo-lineari, scariose, il tubo del calice sparso di villi, i denti
un po’ più lunghi e più stretti che nella forma più comune e
tipica. Il frutto ha due semi e raramente uno solo. In con-
clusione il. Meneghinianum C/em. rappresenta una forma molto
sviluppata nelle parti vegetative (1) del T. nigrescens Vv. e non
se ne può staccare come vera specie distinta, perocchè i caratteri
designati come suoi proprii non sono per nulla costanti.
Il T. polyanthemum 7’. non è altro che un T. Meneghinianum
con più di due semi,
Il T. Meneghinianum è proprio della Siria, della Palestina,
Asia minore, dell’Isola di Rodi, della Russia meridionale, e arriva
fino a Trieste ed in Sicilia.
Una varietà a forme piuttosto esigue nelle parti vegetative
ci è fornita dagli esemplari dell’ erbario Boisszer designati da
questo illustre botanico sotto la specie di T. hygropbilun e T.
——u-
1) La figura del Clementi è esagerata in confronto degli esemplari au-
tentici dell’Erbario Boisster.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 443
Petrisavi Clementi (1); i quali differiscono dal T. nigrescens ti-
pico, perciò solo, che hanno soltanto due semi, e i denti superiori
del calice più larghi e più lunghi evidentemente degli inferiori.
In Italia questa forma sarebbe rappresentata dal T. nigrescens
var. gracilis Lojacono (da noi analizzato sugli esemplari favoritici
dall’A.), che ha fiori rosei e il legume con più di due semi, e
cresce in Sicilia e in Provenza (Lojacono, Tentamen. p. 101, 159).
Il T. Molineri Cola (non Balbis) trovato nei contorni d’I-
vrea, da noi riscontrato ed esaminato nell’erbario del Colla stesso,
è identico alla var. gracilis anzidetta, salvo il colore dei fiori che
nel secco non è riconoscibile. Ma è da avvertire che non di rado
nelle forme comuni del T. nigrescens si incontrano esemplari con
fiori di color roseo-pallido.
Da ultimo dobbiamo riferire con tutta sicurezza a queste
forme gracili e depauperate di T. nigrescens Vie. gli esemplari
da noi esaminati con molta diligenza e trovati negli Erbari di
Bertoloni, di Firenze e di Cesati di provenienza diretta dal
Gussone stesso, sotto la denominazione di T. macropoion Gussone.
In queste forme ultime abbiamo trovato legumi con un seme,
ed altri con due. È veramente deplorevole che questa denomi-
nazione specifica di T. macropodon, si sia insinuata nella siste-
matica dei Trifolium, poichè da essa provennero abbagli e
inganni numerosi, a decifrare i quali occorsero a noi tempo e
pazienza non indifferenti.
Il T. macropodon come specie autentica e distinta non esiste,
nè si sa comprendere come Gussone abbia distribuito esemplari
rachitici di T. nigrescens, sotto la denominazione di macropodon ,
a Cesati, a Parlatore e a Ber diga e poi abbia descritta questa
sua specie nella Synops. II, p. 338, riferendola al T. angulatum
del suo Prodr. ed alla Amoria macropoda di /yes/. Symb., che
come si è veduto è il T. Michelianum Savi (Vedi più indietro
a pag. 419 la critica del T. nigrescens e quella Cel T. Michelianum).
Riassumendo noi possiamo distribuire le diverse varietà del
T. nigrescens Vv. come a pag. 417 nella chiave dicotomica.
CRITICA E LETTERATURA. — Viviani (Fl. ital. Frag. p. 12,
tav. XIII Genua 1808) descrive, definisce e figura bene la sua
(1) Il Reichenbach, Icones, pag. 77, n. 52 fra i sinonimi del T, Petrisavi
Clem. pone il T. prostratum Ziasol, che come vedemmo è una varietà del
T, repens L.
444 G. GIBELLI E S. BELLI
specie, ma non ha voluto riferirla ad alcuna frase degli Autori
anteriori a Linné, nè a qualunque altra presumibile di Linné
stesso, nè ha tenuto conto della disquisizione fatta da Savi,
(Giornale Pisano t. 5, p. 234, 1806) intorno al valore che si
Covrebbe dare alla frase ed alle figure di Micheli (Nov. gen.
p. 27, tav. XXV, fig. 6), ed a quella di Linné (Spec. Plant.
edit. III, p. 1079). E ha fatto bene; perchè tutto questo tra-
mestìo di considerazioni è basato sopra locuzioni vaghe ed in-
certe, e figure incomplete ed inesatte. Egli per altro chiama
« hirsuti » i peduncoli fiorali, mentre negli esemplari numerosi
da noi esaminati questi sono glabri o con rari peli.
Savi poi nè nelle Observ. ad Trif. (p. 90, n. 42, 1810)
nè nel Botan. Etrusc. (vol. IV, p, 41, 1825) non cita il T. ni-
grescens di Viviani, e mostra certamente di non aver conosciute
le sue Fragmenta. Egli infatti descrive tanto nell’una come nel-
l’altra opera un T. hybridum L., che non può esser riferito che
al T. nigrescens Vv. (Stipulae scariosae albae nervis viridibus,
vel pubescentibus notatae, connatae, caudibus brevibus, angu-
stis, acuminatis... Legumen... lineare, superne margine rectum,
inferiori carenatum, tetraspernum...). Egli però cita il T. hybri-
dum L. spec. Ma le frasi e le esplicazioni di Linné sono troppo
incerte per poter con evidenza riconoscere la specie da lui desi-
gnata, e in ciò ci accordiamo pienamente coll’ osservazione di
Caruel. (Prodr della fl. Toscana, p. 172), che cioè Linné sotto
il nome di hybridum abbia confuso le tre specie di nigrescens Vv.
Michelianmum Suv, e hybrilum della FI. suecica. Linné cita le
fig. 2, 6, tav. 25 del Micheli Nov. gen., e la fig. 1, tav. XXII,
del Vaillant. Bot. Paris.
Ma nessuna di queste pare corrispondere al vero T. nigre-
scens Viv. Tuttalpiù la fig. 6 di Micheli darebbe un legume
(fig. H) tetraspermo, strozzato tra un seme e l’altro sulla sutura
inferiore, come tale è nel T. nigrescens. Il Savi, basandosi piut-
tosto sulla frase Micheliana che sulla figura, ha poi imbrogliata
ancor più la matassa, citando oltre alla fig. 6 del Micheli anche
la fig. 3 della stessa tavola, dalla quale si capisce ancor meno.
Nell'erbario di Ba/bis si trova un esemplare di T. nigrescens
Viv. tipico, proveniente da Tenore sotto la denominazione di
T. polyanthemum 7». e con una etichetta di mano di ,Seringe;
il quale lo classifica senza esitazione, T. hybrilum Savi, aggiun-
gendo che conviene abbanlonare affatto la denominazione di Linné
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 445
troppo incerta. Ma da ultimo conchiude: cette espèce est par-
faitement figurce dans Sturm Deutschl. fl. Heft. 15. Noi ab-
biamo confrontato questa figura coll’esemplare annotato da sSe-
ringe e non potemmo a meno di meravigliarci, come mai questo
acutissimo osservatore abbia preso un simile abbaglio!! Nulla di
più distinto ; nell’uno tutti i caratteri classici del T. nigrescens Viv.;
nell’altro i più evidenti del T. hybridum-elegans Auct.!! Il Seringe
(in DC. Prodr. II; p. 199, 1825) cita il T. nigrescens Vio.;
poi a pag. 200, N. 86, dà un T. hybrilum Savi, e cita com-
sinonimo T. hybridum ZL, e poi lo Sturm. Deut. fasc. 15! (T. po-
Iyanthemum Zen. ex Herb. Balb. v. s. comunice. a clar. Savi !!).
Cumulo di inesattezze maggiore non sì può immaginare !! A_com-
piere il disordine di questa sinonimia il Savi (come si vide nella
critica del TT. Michelianum) ha probabilmente inviato al Pres! degli
esemplari confusi assieme di T. Michelianum suo e di T. nigre-
scens Viv., perchè il Pres! nelle sue Symbol. p. 47, ci dà la
seguente sinonimia :
Amoria Micheliana = nigrescens V70.// = Trifolium Micheliazom
Savi, e speciminibus a Savio missis in herb. Willd. et in herb.
gen. Berol.
E infine nell'erbario generale torinese e in quello di Cesati
esistono due esemplari di T. nigrescens Vv. puro sangue, uno
coll’ etichetta di pugno di Ba/%is, che dice T. hybrilum L. a
Dr. Savi; l’altro coll’etichetta di mano di Savi 1833.
Concludendo: la sinonimia Linneana va abbandonata affatto.
Il Savi non conoscendo la pubblicazione del Viviani ha descritto
certamente col nome di Trifolium hybridum LZ. il T. nigrescens
Viv., ha con leggerezza citato Linné, e forse con poca cura
distribuito degli esemplari commisti di due specie, generando
così la deplorevolissima confusione sopraccennata. Bertoloni nella
FI. ital. tom VIII, p. 113 cita a sproposito il T. Mchelianun
datogli da Z7ommasini, che noi abbiamo già veduto essere varietà
del T. nigrescens (Trif. Meneghinianum). Poi a pag. 131, a pro-
posito del suo T. ornithopodioides (che non sta fra i Trifolium,
ma colle Trigonelle) cita anche fra i sinonimi il T. Molineri
Colla (Herb ped. II, p. 184), riportandosi alla figura del Colla
stesso (Icon. herb. pedem. fasc. 2, tav. 58, fig. 2). Ma nel-
l’Erbario del Colla, che si conserva nel Museo Torinese, esiste
l'esemplare secco che servi per la tavola anzidetta, ed esso è
veramente un T. nigrescens, e non una Trigonella, come ap-
446 G-. GIBRELLI ES. QBEULI
parve al Bertoloni dalla figura del Colla. Bensì è vero che le
foglioline del T. Molineri, nella tavola del Colla, hanno la con-
fisurazione di quelle del T. l’etrisavi Clementi, ma ambedue sono
esagerate nell’attacco dei piccioletti e nei denti uncinulati; come
d’altronde è esagerata nello stesso senso la figura del T. Mene-
ghiniannin C/em. (Sert. or. 'T. VII), e come noi ce ne siamo accer-
tati coll’osservazione diligente degli esemplari dell’erbario di
Boissier. Questo autore nella Fl. or. II, p. 144, fa sinonimo
il T. Meneghinianum C/ew. del T. Micheliamim Xock, (Syn. add.
p. 1020 (non Savi... 2), dove il XocA dice che il T. Miche-
liamum è stato trovato recentemente nel nuovo campo di Marte
presso Trieste, dubitando però se vi sia indigeno.
Ora noi abbiamo analizzato questo preteso T. Michelianum
Savi, raccolto da Tommasini e conservato nell’erbario di Boissier
coll’etichetta di Tommasini stesso, che lo dice Trifylium Miche-
liamum Savi; e dall’analisi nostra risulta evidente, che desso è
ben diverso dal vero Michelianom, ma è invece il vero T. Mene-
ghinianim Clem.
S'ingannò dunque il Tommasini per il primo; poi il Koch
che nelle sue addenda (Synop. p. 1020) credette, che il Tri-
folium trovato nel nuovo campo Marzio fosse il vero Miche-
lianue, da lui ben distinto, mentre era il Meneghinianim Clem.
In realtà l’apparenza esteriore, il portamento delle parti vege-
tative delle due specie può a tutta prima apparire identico; ma
poi una osservazione appena un po’ diligente del fiore, ci conduce
ad una chiarissima distinzione.
Il Nyman nel Conspectus H. europ. p. 179, sopprime la
sinonimia del T. Meneghinianum col Michelianum Sav;, conserva
quella col T. Michelianum Ledeb.
Il Reichenbach (Icon. Fl. Germ. et Helv. p. 77, 78)
accetta la sinonimia errata di Bo:ssier del T. Meneghinianum col
T. Michelianum promettendo la tav. del T. Meneghinianum più tardi.
Dagli esemplari di T. nigrescens, distribuiti da Gussone colla
denominazione di T. iracropodon, già abbiamo detto nelle varietà.
Steudel (Nomencl. Edit. II, p. 707, 1840) da erronea-
mente come sinonimo del T. nigresceus Vv. il T. Michelianim Savi /
Il Lojacono nella Clavis spec. Trifoliorum (Nuovo giornale
botanico ital. 1883) mantiene distinte le specie dei T. nigrescens,
Petrisavi e Meneghinianim e non si accorge che il T. Polyanthemum
Ten. è il Trif. Meneghinianum Clem. con piccolissime differenze.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI
TRIFOLIUM
HABITAT
Rive del "Tronto Monte Fortino
(Acque Sante). Parlatore. (Appenn. Pi-
Mercelat 0.00. Erb. Cesati. 0) RO IE Marzialetto.
Loti tc Da De Notaris. Colosseo (Roma). Fiorini.
Genova (Colle Moma. 9: Cesati.
Oregina). Moris. Napoli (Valle san
Lomellina (Ca- Rocegp:t, Sl Cesati.
vone Busca). . Cesate. Pisa (campi e pa-
S. Vincenzo. ... Parlatore. SRO, G. Savi.
Sampierdarena .. LDaglietto. ERA I: P. Savi.
MeMovar e 2.00 Caldesi. Naponr. 0 SUS, Tenore.
Venezia (litorale). Xelner. Capri (Anacapri). olla.
Verona (Selva Pizzo (Calabria) . Arcangeli.
Mantica) .. Bracht ERI AA pe. Erb. Cesati.
Custoza - Valeg- SRO". = 10%, Moris.
BI G. Rigo. ATRCCIO, det Requien.
Madonna Rovere. Ricca. Bicihata ni Todaro.
Poleedo"!". 10 Berti. IE PAPaln ta Todaro.
Val di Polcevera. Carrega. SUERCUS®. o i Cassia.
Val d’Asciano. .. Parlatore. IDE rc Mandralisca.
Orbetello (prati) . Ricasoli. Usttea 49: po Calcara.
Monte Argentaro. Parlatore. Malta (Wied el
Rimini 00% .. Caldesi. Masel): 3 U/.u Duthie.
Prati del Caprile. Piccinini.
Distribuzione geografica.
Italia, Istria, Spagna, Portogallo, Francia (sud), Dalmazia,
Erzegovina , Bosnia, Montenegro , Grecia, Tracia, Macedonia ,
Costantinopoli, Rodi ( 7. Petrisavi), Creta, Transilvania, Trieste
(T. Meneghinianum).
Trifolium isthmocarpon Brot.
Phyt. lusit. I, p. 148, tab. 61. — DC. Prodr. II, p. 201, n. 89.
— Guss., FI., Sic., prodr., II, p. 516; et Synops. II, p. 340.
Jaminianum -Boiss., Diagn., Ser. II, n. 2, p. 19.
strangulatum Het du Pav., Plant. Sicul. exsice.
Rouvii Gren., Fl., Massil., adv., p. 27.
isthmocarpon, var. ?, induratum Gren., 1. c.
3355
448 G. GIBELLI E;$. BELLA
VARIETÀ. — Noi abbiamo diligentemente comparato gli esem-
plari del vero T. isthmocarpon Lrotero conservati nell’erbario
torinese, provenienti da Tangeri, e quelli fornitici dal signor
Burnat provenienti dal Portogallo, con altri esemplari provenienti
da Sicilia raccolti e distribuiti dal Prof. Zodaro (T. isthmocarpon)
e da Huet du Pavillon (T. strangulatum). Abbiamo dovuto con-
vincerci che la forma siciliana non è altro che una varietà,
cospicua se si vuole, molto evoluta, della forma del Portogallo,
tanto nelle parti vegetative quanto nelle fiorali. I caratteri dif-
ferenziali dati dal Bozsszer (1) sono molto labili e non bastano
secondo noi a distinguere due specie, poichè in fondo si riferi-
scono a diametri tutti proporzionalmente maggiori nella pianta
di Sicilia in confronto con quella di Portogallo.
Il Boissier dice uninervi i denti del suo T. Jaminianum,
mentre noi li abbiamo sempre trovati trinervi e marginati di
bianco come nell’isthmocarpon, e i due superiori egualmente un
po’ più larghi in ambe le forme. E vi abbiam vedute le corolle
bianche se giovani, demum amoene roseae, come dice il Gussone,
ma non bianche affatto come lo afferma il Boisszer.
Del resto non sono infrequenti in questo genere gli esempi
di specie lussureggianti in una data area o regione, masilenti,
stremenzite in altre. Si confrontino le forme sfoggiate di T. ni-
grescens, T. Meneghinianum, con quelle riarse e macilenti distri-
buite da Gussone sotto il nome di T. macropedon.
Nell'erbario torinese esistono esemplari di T. isthmocarpon di
Sicilia aventi cauli di 0,30, altri che arrivano soltanto a 0,15;
e altri provenienti da Tangeri che appena appena toccano 0,10.
(1) Ecco i caratteri differenziali dati da Boissier tra il T. Isthmocarpon
ed il T. Iaminianum.
Isthmocarpon.
Code delle stipole più brevi.
Foglie più rotonde (incerto).
Denti del calice eguali, lungo-lanceo-
lati, marginati di bianco, diritti,
più brevi del tubo.
Corolla rosea, lunga il doppio del
calice.
Iaminianum.
Code più lunghe.
Foglie obovate (incerto).
Denti del calice subulati, uninervi,
subpatenti recurvi, un poco ine-
guali e più lunghi del tubo.
Corolla bianca, lunga una volta e
mezza il calice.
Boiss. Diagn. Plant. nov. orient. n. 2, p. 19.
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 449
I capolini e i fiori in questi individui hanno dimensioni propor-
zionali.
E infine se noi teniamo conto della figura di Brotero (Phyt.
slusit., pag. 148, tav. 61) convien dire che rappresenti piuttosto
le forme ben sviluppate di Sicilia, anche per avere i legumi
dispermi, anzichè quelle diminute con legumi monospermi del
Portogallo e di Tangeri che noi abbiamo esaminato.
Comunque sia quest’ultima forma in Italia non cresce.
Una varietà importante, che pure non cresce in Italia, ab-
biamo osservato nell’ Erbario del sig. Burnat, raccolta da
L. Malinvaud « au Rondpoint des Bergères » (Seine) sotto il nome
di T. isthmocarpon var. induratum Gren. In essa il pedicello
fiorale è ridotto ad una specie di callosità foggiata a cono ro-
vescio, di cui la punta si innesta in una fossetta dell’asse col-
l’orlo rialzato a cupola. Ne consegue che il frutto a maturanza
col suo pedicello si stacca con tutta facilità dall’asse, mentre
nelle forme di Sicilia (laminianum Bo?ss.) vi è sempre tenace-
mente adeso. Per tutto il resto questa var. induratum Gren. sta-
rebbe come un anello di congiunzione tra le forme <taliane e
le /usitaniche.
Nell’ istesso Erbario del sig. Burnat abbiamo pure osser-
vato un T. Ronxii Gren. (Fl. Massil p. 27) avente le stipole,
i calici e le bratteole colorate in violaceo, ciò che noi abbiamo
veduto come accidentalità locale anche in individui di altre specie,
p. e. nel T. obscurum Savi (1) Le altre note differenziali, date dal
Grenier, per separare il suo T. Ronvii dall’'isthmocarpon e Jami-
nianum, ci paiono ancora meno sufficienti di quelle che dovreb-
bero distinguere questi ultimi due fra loro, come ha fatto
Boissier, e che. pure il Grenier stesso reputa appartenenti ad
una stessa specie. E in fatti le stipole meno scarzose, le ner-
vature meno numerose nelle foglioline, le bratteole lanceolate non
setacee, 7 capolini a fiori più lassi, i fiori biancastri e non
rosei, il calice subezlindrico, sono caratteri non ben definibili,
nè costanti nè esclusivi di questa forma. Anche nel Iaminianum
i fiori sono biancastri; anche nell’istimocarpon e laminianum i
calici sono tubuliformi, massime se giovani, e i fiori più 0 meno
(1) Anche il Gussone (Synop. II, p. 340) dà le stipole nel suo isthmocarpon
uliguando apice rubro coloratae.
450 G. GIBELLI È S. BELLI
lassi o fitti, le bratteole più o meno /anceolato setacee a se-
conda degli esemplari più o meno prosperosi o depauperati: e
così dicasi del numero delle nervature fogliari, estremamente
variabili come è facile comprendere. Anche questa varietà non
cresce in Italia.
Da ultimo come prova di graduato passaggio evolutivo tra
le forme sopra esposte diremo, che nel T. faminianum si tro-
vano quattro. ovoli e due semi, più uno talora abortito; nel
T. Rouxii tre ovali; nel T. induratum Grer., due ovoli e due
semi; nel T. isthmocarpon di Tangeri, due ovoli e un seme.
LetTERATURA E cRITICA. — Il T. Isthmocarpon fu stabilito
da Brotero (Phyt. lusit. I, p. 148, Tav. 61).
Il Seringe in De. Prodr. II, p. 201) cita con P_ quale
sinonimo di questa specie, il T. rubicunium Schkousd. Ma dalla
frase data da Sprengel (Syst. III, p. 210) non è possibile ca-
pire se proprio questo T. rubicundum corrisponda alla pianta di
Brotero.
Il Gussone (FI. sic. Synops II, p. 340) descrive un T. Isth-
mocarpon Brof., aggiungendo che differisce dal tipico soltanto per
il fatto d'avere i denti calicini più brevi. Forse il Gussone ha
veduto soltanto la tavola di Brotero e non gli esemplari. Ve-
ramente la frase specifica di Gussone non è molto chiara, e
può benissimo essere applicata alla forma nella quale il Bodssier
(Diagn. Ser. II, N. 2, p. 19) ha creduto riconoscere una nuova
specie, che egli poi ha identificato con esemplari raccolti presso
Algeri da Jamin (pl, exsicc. 1851, N. 156).
Noi abbiamo già dimostrato nelle varietà, come in realtà
le due piante di Gussone e Boissier appartengano alla stessa
specie, e si debbano considerare come semplici varietà del vero
T. isthmocarpon Lrotero.
Bertoloni (FI. ital. VIII, p. 184) descrive del T. isthmo-
carpon evidentemente la forma faminianum sopra esemplari man-
datigli da Gussone e da Todaro.
Il T. strangulatum, Huet du Pav., che noi potemmo stu-
diare sopra esemplari autentici, corrisponde perfettamente a tutti
gli esemplari italiani di T. isthmocarpon (/aminianum Boiss.) da
noi osservati negli erbari fiorentino e torinese.
Willkom e Lange (Prodr. Fl. hisp. III, p. 355) ci danno
una descrizione, che per le misure dei fiori (4 mill. sub an-
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 451
thesi (1)) e per i denti calicinali più brevi del tubo, si rife-
risce probabilmente alla forma tipica di Brotero. Ma poi aggiun-
gono: corolla dilute purpurea vel ex albo rosea, leguminibus
dispermis; caratteri più applicabili alla forma siciliana. Il che
prova ancora una volta il nesso genetico delle due forme, non
scindibili in due specie.
Lojacono (Tent. Monogr. Trif. p. 101, 102) fa sinonimi
del T. isthmocarpon Brot. anche la pianta di Gussone che abbiamo
veduta identica al /uminianum Boiîss., poi pretende di far rile-
vare che il laminianum ba dei caratteri veramente differenti dalla
specie Gussoniana da lui descritta coi termini di (Gussone.....
naturalmente non ci riesce.
]l Nyman (Consp. FI. eur. p. 179) distingue le due specie :
l’isthmocarpon Brotero del Portogallo e Spagna, e il laminianum
Boiss. coi sinonimi strangulatum wet. du Pav. T. isthmocarpon
Guss., T. Rouxii Gren.
Cesati, Passerini e Gibelli, (Comp. FI. ital.) adottano l’isth-
mocarpon Guss. col dubbio P che non si identifichi coll’omonimo
di Brotero.
HABITAT
Calatafimi (Sicilia) Huet du Pav.
Marsala. Segesta Lojacono, Tent. p. 102.
Alcamo.
Distribuzione Geografica.
Spagna, Portogallo, Sicilia, importata a Marsiglia (Gren.)
Rara.
Trifolium montanum /.
T. Balbisianum Ser. in DC. prodr. II, p. 201 et 207 (flori-
bus roseis).
T. rupestre Zew Prodr., pag. 43.
var. £ Humboldtianum Asch. et Bouche (Boiss. fl. or. II, p. 147.
VARIETÀ, LETTERATURA E CRITICA. — Il Seringe in DC.
(Prodr. II, pag. 201) distinse sopra esemplari secchi fornitigli
1) Questa misura ci pare esageratamente piccola: nei nostri minuscoli
esemplari di Tangeri i fiori sono lunghi almeno 6 mill., nella pianta di
Sicilia i fiori arrivano fino a 10 mill.
452 G. GIBELLI E S. BELLI
da Balbis un T. Balbisianum dal T. montanum, attribuendo al primo
fiori purpurei, mentre nel secondo sono giallo pallidi, carattere
che non può certamente bastare a distinguere da solo una specie
dall’altra. Il Serznge qualifica inoltre il suo T. Ba!bisianom con
« pedunculis caule multo longioribus, laciniis calycis aequa-
libus ». Noi abbiamo esaminato gli esemplari autentici di Balbis
mandati a Seringe, li abbiamo confrontati con altri di T. mon-
lanum tipico ,, e vi abbiamo trovato i peduncoli ora più lunghi
ora più brevi dell'asse caulinare nello stesso individuo, e i due
denti superiori del calice un tantino più larghi e lunghi, e più
connati alla base fra loro degli altri tre.
D'altra parte osservammo esemplari di T. montanum a fiori
giallo-paglierini (Col di Tenda. Boscolungo Pistoiese, Cassano
d'Adda Cerutti; Pizzo di Sivo in Calabria, Monte dei fiori
nell'Abruzzo, Monte Vellone, Piceno, Parlatore, Trentino, Fra-
telli Perini), aventi il peduncolo fiorale più lungo dell’asse cau-
linare.
Non v'ha dunque ragione plausibile di ammettere il T. Balbi-
sianum come una specie, ma tuttalpiù come una varietà alpe-
stre, più cespitosa, a fiori purpurei, che alligna di preferenza
nelle Alpi marittime, fino al Colle di Fréjus (Rezchenbach, Lisa,
Parlatore, Belli, Ieuter, D' Piolti ). Essa può benissimo consi-
derarsi come parallela al T. ochrolencum ( roseum di Presl.
Come varietà a fiori purpurei è accettata dal £eschenbach
(Icon. p. 79, tab. 109). e da Grenier et Godron (FI. fr. p. 417).
Il Bertoloni non ne fa neppur cenno,
Il Tenore (Sylloge, pag. 376) descrive un T. rupestre come
diverso dal T. montanum per avere fiori dianchi, un capolino
solo terminale, e i denti del calice più lunghi del tubo.
Neli'Erbario fiorentino havvi un esemplare di T. rupestre man-
dato da Zenore stesso, ma così meschino e coi fiori così rosic-
chiati dagli insetti, da non poterne dedurre nessun criterio dif-
ferenziale.
Un altro esemplare colla qualifica di T. rupestre abbiamo
veduto nell’Erbario Cesati proveniente da Gussone; esso ha la
statura più piccola, il calice più peloso, i denti un po’ più lun-
ghi che nel T. montanum tipico. Ma d’altra parte noi abbiamo
osservato variare non di rado l’irsuzie dei calici come di tutta
la pianta, più abbondante nelle forme alpine e nane, e spessis-
simo poi la lunghezza dei denti, talora un tantino più lunghi,
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 459
come li vuole il Bertoloni, talora uguali, più di sovente un tan-
tino più brevi, come li abbiamo veduti noi. Ond’è che a noi
non pare assolutamente accettabile questa forma come una spe-
cie, così almeno come la definisce il Zemore, e la riporta poi
il Seringe (in De. Prodr. II, pag. 201), e quasi nemmeno come
una varietà; ma semplicemente come una forma nana e cespi-
tosa, indotta dall’altitudine in cui cresce, in confronto colla
tipica, e divulgata nelle località più basse. ll Bertoloni (FI. i-
tal. VIII, p. 151) è dello stesso avviso; e aggiunge che i ca-
ratteri dati dal Seringe sono artificiali e desunti da esemplari
secchi, e che le stipole caudate, o quasi senza coda, occorrono
in quasi tutte le forme di T. montanum.
Anche il Boisszer (Fl. or. II, pag. 147) fa il T. rupestre
Ten. sinonimo del T. montanum ZL. Ciò malgrado W7llXkomm
et Lange (Prodr. Fl. hisp. III, p. 354), conservano la specie
di T. rupestre, e la vogliono distinta per le lacinie del calice sub-
eguali, le due superiori non connate, il lembo del vessillo,
più breve e più stretto dell’unghia, bidentato all'apice. Noi ab-
biamo già detto poc'anzi come variino d’assai, dal più al meno,
i denti del calice, e aggiungiamo che nelle nostre numerose ana-
lisi abbiamo incontrato individui con vessillo avente il lembo più
stretto e più breve dell'unghia, smarginato o bidentato all’apice,
senza alcun’altra nota valevole a convincerci poter essi costituire
un’altra specie distinta dalla tipica, anche se le corolle abbiano
per avventura il color bianco, piuttosto che paglierino o inten-
samente giallo, variazioni che non si associano mai con costanza
in alcuna delle forme sopraccennate. Abbiamo esaminato anche
un saggio di T. rupestre di Aragona, quale è descritto nella Fora
hispanica di Willkomm et Lange. gentilmente comunicatoci dal
Prof. Henriquez di Coimbra (Portog.). In esso i caratteri dati
dagli autori della Flora hispanica non ci parvero troppo evidenti.
I denti del calice sono concrescenti quantunque un po’ meno che
in molti esemplari di T. moptanum; il vessillo nello stesso capo-
lino mostra l’ apice ora intero ed ora bidentato, il lembo più
lungo ma anche meno dell’unghia. Il portamento conviene affatto
col nostro T. Balbisianum. Ser., come pure la peluria dei pedun-
coli. Nell’Erbario Boissier potemmo finalmente vedere il T. ru-
pestre Zen. autentico, colla firma di mano di 7'enore stesso. Anche
questo saggio corrisponde perfettamente alla forma Balbisianum
Ser. Il Tenore poi nel Prodr. fl. neapol. p. 43, avrebbe data
454 _G. GIBELLI E 8. BELLI
la frase assai oscura di un T. rupestre, riportata dal Serznge (in
DC. Prodr. II, p. 207) tra le specie non satis notae, e che poi
il Tenore stesso nella Sylloge, molto posteriore al Prodr., non
richiama punto colle stesse precise indicazioni. Ciò malgrado Wil-
lkomm et Lange (1. c.), nell’osservazione in calce al loro T. ru-
pestre, fanno avvertire che quest’altra dubbia forma di Tenore
tam a stirpe nostra quam a specie, in Monte Corno regni
Neapolitani proveniente, quam Decandolle in descriptione p 201
data, ante oculos habuit, magnopere discrepat !! ;
Seringe (in DC. Prodr. II, p. 201) ci dà due varietà di
T. montanum © peduncolosum e ‘y incanum, delle quali la prima
è rappresentata anche in Italia dagli esemplari di Parlatore
(M.te dei fiori), ma non si potrebbe considerare come una varietà;
la seconda ci è sconosciuta.
Grenier et Godron, (Fl. de fr, I, p. 417), dànno due varietà
2 genuinum e { gayanum, non accettabili da noi perchè desunte
dai caratteri troppo incerti delle foglie basali fugacissime.
Quantunque non italiana, non possiamo a meno di mettere
qui in evidenza una insigne varietà del 7. montanum L. da noi
veduta ed analizzata nell’erbario Bozsszer.
Alex. Braun (Ind. Ber. 1867) faceva conoscere un T. mon-
(anum var. grandiflorum, che poi Ascherson et Bouche coltiva-
rono, e pubblicarono come una specie nuova (Ind. Sem. H. Berol.
1868) sotto la denominazione di T. Humboldtianam. — Il Bois-
ster la pubblicò di poi nella FI. orient. (Il, p. 147).
Dall'esame attento dell’unico esemplare dell’erbario Boisszer,
ottenuto da semi coltivati nell'orto di Berlino, noi ci permet-
tiamo di dedurre che questa specie debba considerarsi come una
varietà gigantesca del T. montanum. Fatta astrazione delle pro-
porzioni, che nelle parti vegetative del T. Humboldtianum sono più
del doppio, le forme e i rapporti delle diverse membra sono iden-
tiche a quelle del T. montanum, e se noi siamo autorizzati ad
accettare per buone talune varietà pusille p. e, del T. repens,
del T. agrarium, ecc. le quali certamente sono ridotte alla metà dei
diametri delle forme omologhe le più evolute, non abbiamo nep-
pur ragione plausibile di rifiutare il T. Humbo!dtianum come una
varietà gigantesca della notissima e divulgatissima forma tipica
del T. montanum. La pelurie in quest’ultimo è maggiore che nel
T. Humboldtianum, ma non manca affatto in questo. Aschérson e
Bouché dicono del T. montanum /loridbus minoribus brevissime
NOMENCLATURA DELLE SPECIE DI TRIFOLIUM 455
pedicellatis. Ma se a maturanza diventano umbellari non pos-
sono essere brevissimi: e d’altra parte nel T. Humboldtianum, sem-
pre proporzionalmente, non sono più lunghi.
Un solo carattere ci manca per affermare la nostra opinione
in modo assoluto, ed è la pelurie dell’ovario propria del T. mon-
tanum, che non è accennata nell’Ifumboldiianum nè dai suoi autori,
nè dal Lo:ssier.
Il Boissier (Fl. Or. II, p. 147) ci dà anche il T. ambiguum
M. B., che noi pure abbiamo diligentemente analizzato. A noi
pare che questa specie differisca dal T. montanum, cui è aftinissima,
assai più che non l’Humboldiianum. Essa infatti è tutta affatto
glabra, i capolini ovato-elittici, i fiori eretto-patenti sempre,
il tubo calicino crispato sub-bolloso, caratteri che non tro-
viamo nell’Humboldtianum; l’ovarzo glabro, è denti del caule pa-
tenti-ricurvi, caratteri questi e quelli che mancano nel T. mon-
lanum; e però confermiamo buona la specie di T. ambiguum M. 5.
Ma, secondo noi, hanno torto Ascherson, Bouché e Boissier di
ravvicinare l’Humboldtianum all’ambiguum poichè a nostro avviso
invece il T. Humboldtianum dev'essere collocato assai più vicino al
T. montanum che al T. ambiguum.
HABITAT
Giomein (Val- Monferrato. . . .. Negri
tournanche).. Lelli. Monte Bisca (a fio-
Oulx (Monte Pra- PI FOSCMy . ...- Parlatore.
Manti... Aiuti. Riva (Valsesia) .. Carestia.
Tonale ( pascoli Monte Cenisio Arcangeli.
alpi)... Parlatore. Boschi presso To-
Mompantero MIDO Delponte.
(SUSA)... Parlatore. SARtDIA a Cesati.
Monte Cenisio Cassano d'Adda . Cerutti.
(Ronche) .... Parlatore. Boscolungo (Ma-
Bormio (Valtel- Gero)... .. Parlatore.
ai. Parlatore. Monte Cimone .. Parlatore.
Valsugana (Tren- Appennino Piceno
noli... Ambrosi (M'° Vettore). Parlatore.
Colli Torinesi Pizzo di Sivo... Parlatore.
(Ro) do. Belli Monte dei fiori
Dolcedo. >... Berti. (Abruzzo). . Parlatore.
Monte Ponzera. . Parlatore. Monte Ario .... Parlatore.
456 G. GIBELLI E S. BELLI - NOMENCLATURA ECC.
Rieti (sul Tormi-
nillo) nasa Rolli
Monti Sibillini a
Colle (A ppenn.
Piceno) . .... Marzialetto.
Terzo (Veneto )
prada ce Kellner.
Friuli (prati) ... Pirona.
Modena (lungo la
Secchia) .... Gibelli.
Monte Catria
(pian d’Ortica
e Farfarello) . Piecinini.
Aquila. Gussone.
Distribuzione Geografica.
Svezia Norvegia, Danimarca, Germania, Belgio, Francia,
Spagna, Svizzera, Dalmazia, Erzegovina, Montenegro, Croazia,
Serbia, Bosnia, Ungheria, Transilvania, Polonia, Russia media
e meridionale.
Manca in Sicilia, Sardegna e nelle isole minori.
Abita i colli e i monti fino alla regione alpina più elevata
(Fréjus Colle di Breuil), è meno frequente al piano e lungo i
fiumi.
Il Direttore della Classe
Arronso Cossa.
a FE Rc
PROGRAMMA PEL SESTO PREMIO BRESSA 457
GIUNTA ACCADEMICA PER IL PREMIO BRESSA
Programma pel sesto premio BRESSA.
La Reale Accademia delle Scienze di Torino, uniformandosi
alle disposizioni testamentarie del dottor Cesare Alessandro
BreEssa, ed al Programma relativo pubblicatosi in data 1° Gen-
naio 1881, annuncia che col 31 Dicembre 1886 si chiuse il
Concorso per le opere scientifiche e scoperte fattesi nel qua-
driennio 1883-86, a cui erano chiamati Scienziati ed Inventori
di tutte le Nazioni.
Contemporaneamente essa Accademia annunzia che a comin-
ciare dal 1° Gennaio. 1887 è aperto il Concorso al sesto premio
BrESssa, a cui, a mente del Testatore, SARANNO AMMESSI 1 SOLI
ITALIANI.
Questo Concorso sarà diretto a premiare quell’Italiano che
durante il quadriennio 1885-88 « a giudizio dell’Accademia
« delle Scienze di Torino, avrà fatto la più importante sco-
« perta, o pubblicato l’opera più ragguardevole in Italia, sulle
« scienze fisiche e sperimentali, storia naturale, matematiche
« pure ed applicate, chimica, fisiologia e patologia, non escluse
« la geologia, la storia, la geografia e la statistica ».
Esso verrà chiuso coll’ultimo Dicembre 1888.
La somma destinata al premio sarà di lire 12000 (dodicimila).
Nessuno dei Soci nazionali Residenti o non Residenti del-
‘Accademia Torinese potrà conseguire il premio.
fe
Torino, 1° Gennaio 1887.
IL PRESIDENTE
A. GENOCCHI
Il Segretario della Giunta
A. COSSA.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII, 34
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CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 24 Aprile 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO PROF. ARIODANTE FABRETTI
VICEPRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, Lessona, BRUNO, BERRUTI,
Basso, D’'Ovipio, Bizzozero, FERRARIS, NACCARI, SPEZIA, (GIa-
COMINI.
Scusano per iscritto la loro assenza motivata da ragioni di
salute il Comm. GenoccHI, Presidente dell’ Accademia, ed il
Comm. SoBRERO, Accademico Segretario.
Vien letto l’atto verbale dell’adunanza precedente che è ap-
provato.
Il Presidente dell'adunanza dà, a nome della Classe, il ben-
venuto al nuovo Socio Prof. Carlo GiacoMINnI, la cui elezione
ebbe l’approvazione sovrana addi 13 marzo 1887; e legge la
lettera ministeriale la quale notifica alla Presidenza dell’Accademia
che la pensione accademica resasi vacante per la morte del com-
pianto Prof. CuRIONI, venne conferita al Socio Prof. Giuseppe
Basso.
Viene in seguito data comunicazione di un programma di
pubblico concorso bandito dall'Accademia d’Agricoltura, Arti e
Commercio di Verona, sopra un tema di Bacteriologia, che deve
essere svolto con ispeciale riguardo alle condizioni della Pro-
vincia.
Atti R, Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII, dO
460 ADUNANZA DEL 24 APRILE
Il Presidente dell’adunanza, d'incarico del Prof. GENOCCHI,
dà lettura di una lettera del Comm. Avv. Giuseppe REALIS,
accompagnante il dono di un opuscolo biografico intorno a
Giovanni PLANA, del compianto Ing. Savino REALIS, e recente-
mente inserito nel Bbullettino di bibliografia e di storia delle
Scienze matematiche e fisiche, pubblicato per cura del Principe
B. BONCOMPAGNI.
Fra gli altri doni pervenuti all'Accademia viene segnalato il
Bollettino dei Musei di Zoologia e di Anatomia comparata
della Università di Torino (n. 19, 20, 21 e 22, vol. II).
Il Socio LEssona presenta in dono, per incarico del Socio
SaLvapori, il vol. III, 2° serie, degli Annali del Museo Civico
di storia naturale di Genova, pubblicati per cura di G. DoRrIA
e R. GesTRO.
Il Socio D’Ovipio presenta un lavoro manoscritto del Dott.
Gino Loria, Prof. di Geometria superiore nella R. Università
di Genova, intitolato: « Il passato e il presente delle princi-
pali teorie geometriche; Considerazioni storiche ». Desiderando
l'Autore che questo suo lavoro venga accolto nei volumi delle
Memorie, viene nominata una Commissione incaricata di pren-
derlo ad esame e di riferirne poscia alla Classe.
LETTURE
Il Presidente, Senatore Angelo GENOCCHI, presenta una me-
moria in lingua francese su Giovanni PLANA, colle seguenti pa-
role comunicategli dal Comm. Avv. Giuseppe REALIS, fratello
del fu Ingegnere Savino :
« Questa memoria fu scritta dall’Ingegnere Savino REALIS
nel febbraio del 1864, cioè un mese appena dopo la morte
dell’illustre Astronomo; e, per quanto si desume da un’avver-
tenza posta in margine al manoscritto , era destinata ad esser
pubblicata in un giornale francese di matematiche.
ADUNANZA DELL’ 8 MAGGIO 461
« Una tale pubblicazione però non ebbe mai luogo, forse
perchè l’estensione della compilazione parve incompatibile col
poco spazio, che il giornale soleva concedere a siffatte memorie.
« Morto il ReaALIS nel febbraio del 1886, e venuto il lavoro
a conoscenza di S. E. il Principe Boncompagni, che onorava
l’autore della sua benevolenza, parve a lui ch’ esso potesse
ancora utilmente pubblicarsi nel pregevole suo Periodico, il
Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matema-
tiche e fisiche; e ciò non solo per l’attinenza del soggetto colle
materie e collo scopo del Periodico stesso, ma anche più perchè
l'illustre Astronomo vi è considerato e studiato sotto un aspetto
forse poco noto ai suoi biografi, cioè nell’ufticio di Professore,
che tenne per ben 40 anni nella R. Università di ‘Torino. ».
A cura pertanto di S. E. il Principe Boncompagni il lavoro
comparve nel fascicolo del citato Bul/ettino, uscito sotto la data
del Marzo 1886; ed è l’estratto di questo fascicolo ch'io pre-
sento all'Accademia.
Adunanza dell’ 8 Maggio 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, Bruno, Basso, D’Ovipio, Biz-
zozero, NaccaRI, Mosso, GIACOMINI.
Si legge l’atto verbale dell'adunanza precedente che è ap-
provato.
Viene partecipata la morte, avvenuta il giorno 2 di questo
mese, del Dott. Bernardo StupER, Professore di Mineralogia e
di Geologia all’Università di Berna e Socio dell’Accademia fino
dal 1840.
Si dà lettura di una lettera inviata alla Presidenza dal
sig. G. GuILBor di Parigi, nella quale questi annunzia un pro-
462 E. D’'OVIDIO
cedimento di sua invenzione per riprodurre, disegnare ed incidere
le immagini fotografiche.
Le letture si succedono nell’ordine che segue:
« Sulla esistenza della ghiandola Harder in un Boschi-
mane; conformazione del muscolo ciliare in individui di razza
negra; distribuzione del pigmento nella congiuntiva e nel-
liride »; del Socio GIACOMINI.
« Sulla variazione di volume di alcuni metalli nell’ atto
della fusione e sulla dilatazione termica degli stessi allo stato
liquido »; Studio sperimentale dei Dottori Giuseppe VICENTINI
e Domenico OmopEI, presentato dal Socio NACCARI.
« Sul disperdimento dell'elettricità nell’aria umida » ; Nota
del Prof. G. GucLIELMO, presentato dallo stesso Socio NACCARI.
« Contributo allo studio dello sviluppo della patologia
sperimentale delle capsule soprarenali »; del Dott. Pietro
CANALIS, presentato dal Socio BizzozERo.
Il Socio D’'Ovipio, anche a nome del condelegato Socio
Bruno, legge una sua Relazione sul lavoro: « Il passato e è
presente delle principali teorie geometriche »; Considerazioni
storiche del Prof. Gino LoRIA, che, in seguito a lettura, sono
approvate per l'inserzione nei volumi delle Memorie accademiche.
LETTURE
RELAZIONE sulla Memoria: Jl passato ed il presente delle
principali teorie geometriche; Monografia storica del Prof.
Gino LORIA.
La letteratura matematica in generale non possiede che poche
opere storiche. Esse si occupano dell’ origine, dello sviluppo e
delle vicende delle scienze matematiche nell’antichità, nel medio
evo e nel moderno; ma non si spingono fino all’epoca presente.
RELAZIONE SULLA MEMORIA DEL PROF. GINO LORIA 463
Limitandoci a parlare della sola (teometria, non esiste un’opera
dedicata a narrarne la storia dalle origini sino all’odierno mi-
rabile incremento. Abbiamo soltanto alcune monografie speciali,
assai pregevoli, ma di limitata estensione, quale rispetto allo
stadio che considera, quale rispetto alle teorie che prende in
esame. Quando avremo ricordato 1° Apereu historique dello
CnasrLes, il Discours d’inauguration du cours de (Géometrie
supérieure e il Rapport sur les progrès de la Geometrie en
France dello stesso, alcune prolusioni di HANKEL, REYE, ecc.,
avremo citato pressochè tutto quel che possediamo in fatto di
storia della Geometria. Potremmo, è vero, aggiungervi parecchi
dotti elogi dei principali geometri morti negli ultimi decennî;
p. e. quelli di PLùckeR, STEINER, Hesse, CLEBSCH, scritti
rispettivamente da CLEBScH, GEISER, KLEIN, e da KLEIN stesso
in unione di altri.
Ma da una parte è da considerare che gli scritti storici
dello CHAsLES non vanno oltre l’anno 1868; e d’altra parte
gli elogi ora accennati, benchè forniscano preziosi materiali, pure
son lungi dal formare un insieme organico e compiuto.
In conseguenza il Prof. G. Loria, non solo ha dato prova
di coraggio e di perseverante operosità, ma ha anche tentato
un'impresa assai utile ed opportuna, occupandosi a disegnare
nelle loro linee principali una serie di quadri, nei quali è mo—
strato il sorgere e il progredire delle più cospicue teorie della
(reometria moderna.
Premesso un rapido cenno sulla storia della Geometria nei
secoli anteriori al nostro, VA. espone la storia della ‘Teoria delle
curve piane, di quella delle superficie, di quella delle curve
gobbe:; indi tratta delle rappresentazioni, trasformazioni e cor-
rispondenze, della Geometria della retta, della Geometria non
euclidea, e finalmente della Geometria ad » dimensioni. Per
ciascuna teoria lA. pone le questioni più rilevanti, e cita i nomi
dei geometri che vi arrecarono più notevole contribuzione. Al testo
fa seguito una lunghissima serie di note illustrative, molto utili,
aventi soprattutto per oggetto d’indicare i titoli dei lavori ricor-
dati nel testo, le raccolte in cui comparvero, le date; vi sì tro-
vano altresì ricordati quegli autori, dei quali non era il caso
di far menzione nel testo. L'esposizione corre chiara e vivace,
ben concepita è la distribuzione in varî gruppi delle questioni
e dei relativi lavori, lodevole la parsimonia dei giudizi. In tanta
464 E. D'OVIDIO — RELAZIONE SULLA MEMORIA DEL PROF. GINO LORIA
vastità di argomenti e in tanta copia di citazioni, sarebbe im-
prudente affermare che non abbiansi a riscontrare qua e là ine-
sattezze od omissioni o sproporzioni. In fatto di omissioni, ad
esempio, non crediamo sufficienti le ragioni che l'A. adduce per
dispensarsi dall’ includere nella sua indagine la Teoria delle
coordinate curvilinee sulle superficie e nello spazio, la Teoria
delle coordinate omogenee, e quella delle forme algebriche che
le si connette strettamente. Ma tale quale è, questo scritto è
lavoro di lena, pregevole e per lo scopo che si prefigge e pel
modo con cui vi tende. Il quale scopo è dall’ A. indicato con
le parole seguenti :
« Il progresso della scienza in genere e della matematica
in ispecie, furono in questi ultimi tempi così considerevoli, essi
continuano a succedersi ancora in modo così rapido ed inces-
sante, che si fa vivamente sentire il bisogno di gettare uno
sguardo retrospettivo sul cammino già fatto, il quale permetta
ai novizi di penetrare più facilmente nei misteri di essa, ai già
provetti di giudicare con più sicurezza quali siano i problemi di
cui è più urgente la soluzione.
« Il desiderio di soddisfare questo bisogno per quanto ri-
guarda la (reometria, cioè per quanto concerne la parte più
elevata delle nostre cognizioni positive (poichè, come disse Pascel,
tout ce qui passe la Geometrie nous surpasse) è ciò che mi
spinse a scrivere la Monografia che ho l’onore di sottoporre al
giadizio di questa illustre Accademia. Possa questo abbozzo in-
completo provocare uno scritto degno dell'altezza del suo scopo;
possa questa povera cronaca precedere la storia della Geometria
nel nostro secolo! ».
Avuto riguardo al merito intrinseco della Monografia del
Prof. Loria, ed alla utilità che essa recherà sicuramente ai cultori
della Geometria, e segnatamente ai giovani che a questa intendano
dedicare con frutto il proprio ingegno ; i sottoscritti propongono
alla Classe di ammettere alla lettura la Monografia medesima.
G. BRUNO.
E. D’Ovipio, relatore.
465
Annotazioni sull’anatomia del Negro,
del Prof. C. GIACOMINI
Esistenza della ghiandola d’Harder in un Boschimane. — Duplicità
della cartilagine della Plica semilunaris.
Nello scorso febbraio io ho avuto l’opportunità di studiare
un nuovo individuo di razza Negra, esso forma il XIV della mia
raccolta.
Proveniva dall'Africa Centrale dalle vicinanze del lago di
N’Gami nella parte settentrionale del deserto di Kalahari. Ap-
parteneva ai Boschimani della tribù di N’ Tchaba o Enchabbas.
Insieme ad altri cinque suoi compagni sotto il nome di Pigmei
dell’Africa, avevano già percorso le principali città d'Europa. A
Berlino essi furono studiati molto accuratamente dal Virchow, il
quale ne descrisse i caratteri fisici ed antropometrici in un la-
voro pubblicato nel Zeitschrift fiir Ethnologie, vol. XVIII, 1886,
fascicolo 3°. Più tardi furono presentati alla Società d’Antro-
pologia di Parigi dal Topinard, dall’Hamy e Deniker (1). Essi
vengono generalmente considerati come i rappresentanti più bassi
della specie nostra.
L’ individuo da me studiato corrisponde a quello descritto
dal Virchow sotto il Num. 8°. Si chiamava N’Arbessi, nelle
rappresentazioni era considerato come una donna. Il colore della
pelle era nero-giallastro, i capelli finissimi e raccolti in fiocchi ;
il naso fortemente depresso alla radice ed al dorso, le labbra
mediocremente sporgenti. Fu dichiarato dell’età d’anni 24, ma
essa non era la reale. Tutti i punti epifisari dello scheletro
erano ancora indipendenti, l’ultimo dente molare non era ancora
spuntato, malgrado esso fosse già uscito dall’alveolo. Al pube co-
(1) ToPINARD, Presentation de quatre Boshimans. — Hamy, Note ethno-
graphique sur les Bosjesmans. — DENIKER, Quelques observations sur les
Boshimans. Bulletins de la Société d’Anthropologie de Paris, fasc. 4°, 1886.
466 CARLO GIACOMINI
minciavano a comparire scarsi peli con pronunciato decorso a spi-
rale; nessuna traccia di essi al mento ed alle ‘ascelle. La sua
statura, secondo Virchow, era di 1,35 metri. Il peso totale del
corpo chilogrammi 530.
Come segni caratteristici esso presentava alcune mutilazioni
etniche. La mano destra mancava dell’ ultima falange al dito
indice ed al medio; l’anulare si presentava amputato in corri-
spondenza della lunula dell’unghia. La mano sinistra mancava
dell'ultima falange del dito mignolo, e l’unghia del medio era
deformata.
Le particolarità riscontrate nello studio dei diversi organi e
sistemi descriverò in altra circostanza, per ora desidero solo chia-
mare l’attenzione dell’Accademia sopra quelle che interessano
l'organo della visione.
Devo essere grato al prof. Senatore Pacchiotti, se ho potuto
avere questo materiale di studio.
Una disposizione anatomica che può essere considerata come
caratteristica della razza Negra, si è la presenza di una carti-
lagine nello spessore della. plica semilunaris 0. membrana nitti-
tante, come si riscontra negli animali nei quali questa membrana
conserva il suo primitivo sviluppo. Questa disposizione che io ho
riscontrato per la prima volta in due donne Abissine, la rin-
venni più tardi su altri otto individui di razza Negra, compreso
quello, del quale attualmente mi occupo.
L'esistenza di questa cartilagine fu più tardi confermata dal
Dott. Eversbusch di Monaco (1) in un individuo proveniente
dall'Egitto e dal Prof. Romiti (2), pure in una donna Egiziana.
Questi autori non solo constatarono la presenza di una cartilagine
nello spessore della piega semilunare, ma confermarono anche il
modo con cui essa si comporta colle parti circostanti ed in ispecie
col muscolo retto interno dell'occhio, siccome io aveva descritto
nella prima Memoria sull’ Anatomia del Negro. Anche le mie
successive osservazioni (Memoria 2*% e 3°) non aggiunsero nulla
di nuovo alla prima deserizione.
(1) Ueber einige Verinderungen der Plica semilunaris, Von Dr. 0. Ever-
spuscH. Munchen, 1883,
(2) La cartilagine della piega semilunare ed il muscolo pellicciaio nel Negro.
Notizie anatomiche, ]II, del Prof. Romiti. Siena, 1885.
ANNOTAZIONI SULL’ANATOMIA DEL NEGRO 467
Nel Negro recentemente studiato le cose erano un po’ più
complicate, la plica semilunaris e la sua cartilagine presentavano
variazioni, che meritano d'essere descritte, perchè servono a com-
pletare lo studio di questa regione della congiuntiva oculare, ed
a dimostrare sempre maggiormente il suo significato morfologico,
Il primo fatto che io ho notato appena si cercò di mettere
allo scoperto la cartilagine della plica, si fu che essa era gran-
demente sviluppata e maggiore di quelle fino ad ora studiate;
ma volendo meglio isolarla dalle parti circostanti, si trovò che
essa era doppia. Le due cartilagini erano disposte sullo stesso
piano verticale, l'una perciò sovrapposta all’altra; la superiore
molto più piccola aveva l’aspetto di un piccolo nodulo cartila-
gineo accessorio, l’altra invece costituiva la parte essenziale per
la forma, il volume e i rapporti.
Ad un primo esame ho dubitato che questo fatto dipendesse
dal modo di dissezione, la quale avesse diviso in due parti ciò
che primitivamente era unito.
In allora feci indurire con gli ordinari metodi il globo oculare
di sinistra unitamente alle parti molli dell’ orbita senza previa
dissezione e quindi praticai sezioni trasversali di tutto l’angolo
interno dell’occhio cominciando dalla parte superiore.
E così tutta questa regione fu divisa in oltre 200 sezioni,
le quali furono tutte colorite e conservate in serie, e l’ esame
successivo di esse ci dimostra le minime particolarità di strut-
tura e le modificazioni che questa subisce nei diversi punti.
Nelle prime sezioni, le più superiori, non esiste traccia di
plica semilunaris, la mucosa congiuntivale nel passare dalla faccia
profonda della palpebra superiore al globo oculare presenta una
grande quantità di rilievi irregolari nella forma e nella posizione
che prenunziano la formazione della plica e che scompaiono av-
vicinandosi al margine della cornea. L'epitelio è cilindrico stra-
tificato. Nel campo della sezione si notano solo piccoli fasci di
fibre muscolari liscie, le quali colle loro estremità anteriori vanno
a perdersi nello spessore della palpebra superiore verso la faccia
congiuntivale. Questi elementi persistono per tutta l'altezza della
regione che stiamo studiando, e formano così nel loro insieme
una specie di sottile membrana muscolare che lega la parte in-
terna delle due palpebre probabilmente con l'espansione del
muscolo retto interno. È importante di ben precisare la posizione
di questi fasci di fibre muscolari liscie, evidentissime in tutte le
468 CARLO GIACOMINI
sezioni, poichè le parti che andremo descrivendo si trovano situate
subito alla faccia profonda di esse e contraggono colle mede-
sime rapporti abbastanza intimi.
Alla nona sezione compare la cartilagine prima come un
tratto sferico più trasparente, che si va quindi allungando nel
senso antero-posteriore per assumere in ultimo la forma di un
ovale colla piccola estremità rivolta in avanti. Essa, quando ha
raggiunto il suo massimo sviluppo, presenta la lunghezza di 1 74
millimetro, e venne compresa in 25 sezioni trasversali un po’ ro-
buste. È involta in un tessuto connettivo lasso con cellule adi-
pose. Colla sua faccia interna corrisponde al tessuto fibroso che
va ad inserirsi alla sclerotide, colla sua faccia esterna ai fasci
di fibre muscolari liscie già accennati coi quali ha più strette
connessioni (Fig. 1°).
Nelle sezioni che comprendono questa cartilagine, la con-
giuntiva nel punto in cui sta per applicarsi al globo oculare,
presenta due sporgenze che andranno esagerandosi quanto più ci
porteremo in basso e che costituiscono l'estremità superiore della
plica semilunaris. Al disotto della congiuntiva e precisamente
nel punto dove sorgono queste due pieghe si nota una piccola
ghiandoletta a grappolo, il cui condotto escretore va ad aprirsi
alla parte interna di esse.
Procedendo in basso la cartilagine va assottigliandosi in tutti
i suoi diametri finchè scompare alla 34° sezione, ed al suo posto
nelle sezioni successive, sì nota un tessuto connettivo compatto con
scarsi vasi sanguigni, il quale evidentemente costituiva una con-
tinuazione del pericondrio, che andava a congiungersi con quello
della cartilagine inferiore, riunendole fra di loro (Fig. 2°). Questo
stato continuava per lo spessore di 12 sezioni trasversali, nelle
quali non si notava altro che un aumento nella plica semilunare,
finchè alla 47° sezione compariva l’estremità superiore della se-
conda cartilagine.
Questa assumeva tosto più vaste proporzioni avendo una lun-
ghezza di 4 !/, millimetri, una altezza di 7 millim. ed uno
spessore eguale alla prima. La sua faccia oculare era leggermente
concava, la orbitaria convessa; questa seconda cartilagine aveva
la conformazione, la struttura ed i rapporti di quella che io ho
descritto nella mia prima Memoria. È quindi inutile che io qui
ripeta la descrizione. Essa è la vera cartilagine della plica semi-
lunaris, mentre la cartilagine superiore deve essere considerata
come soprannumeraria od accessoria (Fig. 3°).
ANNOTAZIONI SULL'ANATOMIA DEL NEGRO 469
Nel campo dove essa raggiungeva il massimo sviluppo , si
notavano pure all’esterno di essa fibre muscolari liscie, meno
numerose però, che non superiormente. La massima parte di
queste fibre non aveva che rapporti di vicinanza colle dette
cartilagini, alcune però terminavano al loro pericondrio in ispecie
della cartilagine accessoria alla sua estremità posteriore. Per il
decorso ed i rapporti questi fasci muscolari ricordavano le fibre
striate che io aveva notato nell’Orang (1% Memoria, pag. 20)
ed identica pure doveva essere la funzione.
La piega semilunare nella sua parte media si presentava
caratteristica nel nostro individuo, oltre ad assumere uno sviluppo
in lunghezza maggiore dell’ordinario, essa era divisa in due parti,
delle quali la più superficiale la vera plica semilunaris persisteva
per tutta l'altezza della regione, la profonda meno sporgente
scompariva nelle sezioni inferiori. Tanto l'una come l'altra si
facevano notare per le grandi irregolarità che presentavano alla
loro superficie libera, prodotte da pieghe secondarie della mu-
cosa, le quali nelle faccie che si corrispondevano si alternavano
regolarmente, compenetrandosi vicendevolmente quasi fossero ca-
gionate da una pressione continuata. Nulla presentavano nella
loro intima costituzione che fosse degno di nota.
Nelle sezioni della parte media della plica alla faccia in-
terna della caruncula lacrimale, si avvertì un'altra ghiandoletta
a grappolo, con un condotticino molto lungo e tortuoso, il quale
veniva ad aprirsi sulla mucosa subito all’interno degli elementi
che costituiscono la caruncula. Questa ghiandoletta è della me-
desima natura di quella notata nei piani superiori, ed ambedue
appartengono alle ghiandole sotto congiuntivali, non rare ad 0s-
servarsi tanto nella razza Negra come nella Bianca, ed inco-
stanti nella loro esistenza e nella loro posizione.
Ma procedendo nel caso nostro a studiare le sezioni inferiori,
sì riscontra una particolarità del massimo interesse e fino ad ora
non ancora descritta nella specie nostra. Nelle sezioni che com -
prendono l’estremità inferiore della cartilagine principale, subito
al davanti di essa compare improvvisamente un organo ghian-
golare, che assume tosto grande volume e che si presenta co-
stituito da tre lobuli ben individualizzati e tenuti separati per
un tessuto connettivo. Questa ghiandola ha rapporto diretto
colla cartilagine, si trova solo da essa divisa da un po’ di tes-
suto cellulo-adiposo (Fig. 4°).
470 CARLO GIACOMINI
La divisione in lobuli appare più evidente nella parte in-
feriore, superiormente però essi sembrano fondersi insieme e qui
si trova il canale escretore unico, il quale si origina dal centro
della ghiandola, per la riunione di tre canali secondari, ciascuno
dei quali è una vera dipendenza dei tre lobuli. Così costituito
il canale si dirige in alto ed in avanti descrivendo flessuosità
tanto nel senso trasversale quanto nel verticale, per cui nei
singoli preparati ron è possibile di vederlo in tutto il suo decorso
ed un preparato contiene più sezioni del medesimo. Esso però
può facilmente essere accompagnato fino alla parte più profonda
del solco che si trova fra la base della plica semilunare e la
congiuntiva bulbare dove esso si apre.
Più in basso, quando la cartilagine è intieramente scomparsa
e la ghiandola fortemente diminuita, compaiono altre due piccole
ghiandolette l’una in avanti in corrispondenza della base della
plica, e l’altra all'indietro nel medesimo punto dove nei piani
superiori esisteva la cartilagine. Queste due ghiandolette sono
indipendenti fra di loro e dalla ghiandola prima descritta, più
piccole di questa, e ciascuna con un condotticino distinto e tor-
tuoso vanno anch'esse a versare il secreto all’interno della plica
semilunare.
Riguardo alla struttura ho notato ad un superficiale esame
che gli acini ghiandolari, alcuni di forma abbastanza regolarmente
circolare, altri allungati, sono divisi da un lasso tessuto connet-
tivo infiltrato da una certa quantità di cellule linfoidi. Le cellule
che tappezzano l’acino, di figura conica, sono disposte in un
unico strato, colla base all’esterno verso la membrana propria
e l’apice all’interno; poco distinte nei loro contorni, presentano
un nucleo ben spiccato ed in molta vicinanza alla membrana di
sostegno. Il lume dell’acino molto ristretto appare sotto forma
di un piccolo punto trasparente.
I condotti escretori oltre ad una tonaca connettiva più ro-
busta e più stipata, si differenziano ancora per la loro ampiezza
e per il rivestimento epiteliare cilindrico, che fortemente si co-
lora col carmino ed ematossilina, e disposto in doppio strato.
Dalla parte profonda arrivano alle ghiandole abbondanti vasi
sanguigni.
I fasci di fibre muscolari liscie che abbiamo veduto decor-
rere all’esterno della estremità posteriore delle cartilagini, man-
tengono il medesimo rapporto colle ghiandole; solo le fibre sono
ANNOTAZIONI SULL’'ANATOMIA DEL NEGRO 471
più numerose ed alcune di esse si interpongono fra le due
ghiandolette inferiori, e terminano nello spessore della palpebra
inferiore.
Dopo aver constatato nei preparati microscopici la presenza
delle ghiandole, siccome si presentavano abbastanza voluminose,
variando da 1 pz millimetri a 3 millimetri, volli studiarle ma-
croscopicamente sull'altro occhio ancora aderente alla maschera.
E ciò mi riuscì molto facile. Cercando colla punta del coltello
di isolare il margine inferiore della cartilagine principale, dila-
cerando il tessuto connettivo non troppo stipato, che lo legava
alle parti circostanti, misi allo scoperto tre piccoli noduli ghian-
dolari indipendenti fra loro, ma strettamente legati al margine
della cartilagine; e continuando la dissezione con qualche accu-
ratezza, ho potuto anche mettere in evidenza i condotti escretori
diretti leggermente in alto ed in avanti verso la congiuntiva.
Tutto ciò si vede riprodotto senza alcun ingrandimento nella
Fig. 5.
Malgrado l'osservazione microscopica non abbia bisogno di
conferma, tuttavia la dimostrazione macroscopica la credo non
priva d'importanza, servendo a meglio chiarire la posizione to-
pografica delle parti, ed a farci convinti che la semplice disse-
zione ben diretta è sufficiente a constatare la presenza di questi
organi ghiandolari al disotto della plica semilunare con grande
risparmio di tempo. La qual cosa non è affatto indifferente quando
si vogliano instituire numerose ricerche di confronto nella nostra
razza, per vedere se essi talora non compaiono, come è molto
probabile avvenga, anche indipendentemente dall’esistenza della
cartilagine della plica, e determinarne così il grado di fre-
quenza.
Sul significato delle ghiandole che son venuto descrivendo io,
credo che non possa sorgere dubbio. Esse sono il rappresentante
nella specie ‘nostra della ghiandola d’ Harder o ghiandola della
membrana nittitante molto sviluppata negli animali, nei quali la
plica semilunare assume più vaste proporzioni ed ha ancora una
funzione ben manifesta.
Fin da quando io aveva trovato la cartilagine della piega
semilunare nel Negro, e cercato la sua presenza negli individui
appartenenti alla nostra razza, mi sono sempre occupato della
ghiandola d'Harder, ma le mie ricerche riuscirono infruttuose,
472 CARLO GIACOMINI
nè altri anatomici furono più fortunati di me; per cui oggidi
non è ammessa nemmeno la possibilità dell’esistenza della ghian-
dola d’Harder nella specie nostra.
Non è raro però di riscontrare al disotto della congiuntiva,
in corrispondenza della plica semilunare, anche senza la presenza
della cartilagine, piccole ghiandolette a grappolo, che possono as-
sumere un certo volume (1° Memoria, pag. 29, fig. 3, tav, 2°),
della natura di quelle che si trovano in altre località della con-
giuntiva e conosciute col nome di ghiandole sotto congiuntivali,
e se possono venir considerate come una dispersione della ghian-
dola d'Harder, non hanno però il significato morfologico di quella
da me ora descritta. E difatti nel caso nostro abbiamo in due
punti dell'altezza della plica notato l’esistenza di queste ghian-
dolette e ciò malgrado la ghiandola d’Harder esistesse ben distinta.
Il che dimostra come le prime non possono essere considerate
come una dipendenza dell’ultima.
La ghiandola riscontrata nel nostro Negro, per posizione, rap-
porti e costituzione, ci ricorda quella da me descritta nel Cer-
copiteco e nel Cinocefalo, solo nel Negro essa si presentava
molto più sviluppata e risultava costituita da diverse ghiandole
indipendenti con speciale condotto escretore, appunto come si
osserva negli animali, dove essa è meglio sviluppata.
Dall’anatomia comparata si sa che la ghiandola d’Harder,
forma parte dell'apparecchio ghiandolare in relazione colla con-
giuntiva, insieme alla vera ghiandola lacrimale; che ambedue
hanno la stessa origine ectodermica e provengono dalla divisione
di un organo ghiandolare primitivamente unico; e che finalmente
prodotta questa distinzione, si manifesta un vero antagonismo di
sviluppo nelle due parti della primitiva ghiandola oculare; quanto
più sviluppata è la ghiandola d’Harder, tanto minore è la la-
crimale e questa può anche mancare come negli anuri. Nei ver-
tebrati superiori invece, nei quali la ghiandola lacrimale ha
assunto più ampio sviluppo, la ghiandola d’Harder diviene sempre
più piccola finchè scomparirebbe nei primati e nell’uomo.
Ora nel nostro Negro ho voluto vedere come si presentas-
sero le ghiandole lacrimali ed ho trovato che esse tanto nella
porzione orbitaria, quanto nella palpebrale erano evidentissime e
forse più pronunciate di quanto si riscontra ordinariamente nella
nostra razza,
ANNOTAZIONI SULL'ANATOMIA DEL NEGRO 475
L’anatomia comparata c’insegna ancora che sotto il nome
di ghiandola d'Harder, si comprendono organi di struttura e
funzione diversa. Nei rosicehtanti infatti la ghiandola verrebbe
considerata come appartenente alle sebacee composte, il secreto
operandosi però coll’identico processo col quale si forma la se-
crezione lattea, colla quale ha così grande rassomiglianza. Negli
ovini e bovini essa sì avvicina alla ghiandola lacrimale vera ed
il secreto è di natura sieroso. In altri mammiferi invece come
nel coniglio e nel lepre, la ghiandola di Harder sarebbe di natura
mista, siero-adiposa, stabilirebbe come un punto di passaggio
fra le une e l’altre.
Anche riguardo alla conformazione della parte secernente della
ghiandola si trovano differenze molto pronunciate nelle diverse
classi d'animali. Nei rettili ed uccelli essa sarebbe una g/hiandula
tubulare composta, mentre nei mammiferi apparterrebbe, come
la ghiandola lacrimale vera, alle ghiandole a grappolo (1). E sic-
come studi recenti fatti sul modo di presentarsi dell’acino delle
ghiandole a grappolo, avrebbero dimostrato che questo invece
di essere più o meno regolarmente sferico od ovoide, talora la
lunghezza prepondera grandemente sulla larghezza, per modo da
assumere la forma molto allungata e tubulare, così molte ghian-
dole come il pancreas e le salivari ad es. che erano fino ad oggi
considerate come tipiche delle ghiandole a grappolo, alcuni au-
tori tra i quali Ebner, Asp, Hermann, le considerano invece come
appartenenti alla categoria delle ghiandole tubulari. Questo stesso
dubbio è sorto riguardo alla conformazione della ghiandola
d'Harder nei mammiferi. Mentre il Wendt colla maggioranza
dagli autori considerano questa ghiandola di natura acinosa ; il
Kamocki invece nei rosicchianti la classifica fra le tubulari, e
la paragona alle ghiandole salivari (2).
Tutto ciò dimostra in modo evidente, come sotto la deno-
minazione di ghiandola d’Harder si intendono parti diverse si-
tuate all’angolo interno dell’occhio ed in rapporto più o meno
(1) Zur Anatomie der Thrinendruse. Sardemann. Zoolog.-Anzeiger. n. 179,
— Sur la structure de la glande de Harder du Canard domestique, par Jules
Mac Leop, Archives de Biologie, vol. 1°.
(2) Ueber die Harder®sche Druse der Stugethiere, WenpT Edmund. Stra-
sburg, 1877. Diss. — Ueber die sogenannte Harder'sche Druse der Nager,
Kamocki W., in polacco ed in russo. Jahresberichte der Anatomie und Phy-
lologie, vol. XI, 1883
474 CARLO GIACOMINI
diretto colla terza palpebra e che probabilmente hanno strut-
tura e significato diverso ; e prima di fare nuove ricerche per
rischiarare la questione, converrebbe risalire alla descrizione ori-
ginale di Harder, onde vedere a quali organi ed in quali ani-
mali fu più in special modo applicata questa denominazione che
probabilmente più tardi ha avuto maggiore estensione.
Ora ritornando al nostro Negro, per le cose sovra esposte,
sarebbe stato non privo d'interesse di studiare attentamente l’in-
tima costituzione della ghiandola della membrana nittinante, e
paragonandola con la lacrimale e con le altre ghiandole che si
riscontrano .nella congiuntiva, stabilirne la natura.
Siccome però le sezioni dell'angolo interno dell’occhio di si-
nistra, avendo uno scopo puramente topografico, erano troppo ro-
buste per rilevare in esse le più minute particolarità di struttura,
così io presi la ghiandoletta inferiore dell’occhio di destra e dopo
averla colorita in massa col borace carmino, la divisi in 70 sezioni.
Allo stesso processo sottoposi un piccolo tratto della ghiandola la-
crimale, sia nella porzione palpebrale come nella porzione orbitaria.
Le preparazioni della ghiandola d’Harder, riescirono molto
chiare e convincenti. In esse all’esame microscopico si notò una
forma diversa della porzione secernente. Questa nel maggior nu--
mero dei punti si presentava di forma abbastanza regolarmente
circolare, in altri invece allungata a guisa di tubo, terminando
da una parte con una estremità un po’ dilatata, e dall'altra
andando ad unirsi con le parti circostanti. Questo fatto si è po-
tuto ben scorgere esaminando sezioni successive, poichè tutte
furono conservate nell’ordine in cui vennero eseguite.
Le cellule di rivestimento dell’acino e dei tubi ghiandolari
erano disposte sopra un unico strato, cilindriche o coniche colla
base verso la membrana di sostegno e l’apice all’interno circo-
scrivevano un piccolo spazio puntiforme. Il nucleo molto cospicuo,
intensamente colorito, era situato nel terzo esterno delle cellule.
Conteneva evidenti e spiccate granulazioni, disposte in modo da
ricordare uno stato cariocinetico. Il corpo cellulare quasi incoloro
comprendeva finissime granulazioni in specie verso la parte in-
terna. I contorni delle cellule erano poco marcati. Il canale
escretore anche qui sorgeva dalla parte centrale della ghiandola
e si distingueva per la maggiore colorazione degli elementi epi-
teliari e per essere disposti sopra due strati.
ANNOTAZIONI SULL'ANATOMIA DEL’ NEGRO 475
Malgrado le porzioni della ghiandola lacrimale utilizzate per
studio di confronto avessero subito un raggrinzamento per effetto
dei liquidi conservatori, e rispondessero un po’ diversamente alla
sostanza colorante, cionondimeno ho potuto farmi un convinci-
mento che non vi esistevano essenziali differenze fra le due ghian-
dole. Differenze invece più marcate si notavano quando si pa-
ragonavano queste ghiandole con quelle che si riscontrano non
raramente nell’angolo interno dell’ occhio, siano esse di natura
prettamente mucipara od appartengano alle sottocongiuntivali.
Le une e le altre però nella regione della quale stiamo discor-
rendo, meriterebbero di essere più attentamente studiate nella
nostra razza, presentando esse variazioni molto pronunciate tanto
nello sviluppo quanto nella costituzione.
Dallo studio fatto noi possiamo quindi conchiudere che le
ghiandole riscontrate nello spessore deila piega semilunare del
nostro Boschimane, appartenevano alle ghiandole acino-tubulari
ed erano di natura sierosa od albuminosa e che quindi potevano
considerarsi come una dipendenza delle vere ghiandole lacrimali.
Anche il modo con cui si comportava la cartilagine della
plica semilunare nel nostro soggetto, ha una certa importanza.
La cartilagine soprannumeraria riscontrata alla parte superiore del-
l’angolo interno, evidentemente deve essere considerata non come
una formazione indipendente, ma piuttosto come un frammento
della cartilagine principale. Essa ricorda le cartilagini sessamoide e
di altre parti dove esiste uno scheletro cartilagineo (laringe, naso)
ed essendo involta da lasso tessuto connettivo, e non avendo
stretti lesami colle parti circostanti può subire facilmente degli
spostamenti, emigrare dalla località dove primitivamente erasi for-
mata, allontanarsi dalla cartilagine principale e dalla plica, ed
assumere rapporti nuovi. Tutto ciò si opera in principal modo,
in seguito ai frequenti e svariati movimenti del globo oculare e
forse anche per la contrazione delle fibre muscolari liscie sopra
descritte, le quali per la loro direzione hanno per iscopo di
tirare indietro ed in alto il nodo cartilagineo.
Ed io credo che anche la cartilagine principale o nella sua
interezza, o divisa prima in frazioni subisca frequentemente dei
cambiamenti di posizione sotto l'influenza di cause diverse, e sia
questa una delle ragioni per cui così di rado vien riscontrata
questa cartilagine nella nostra razza, o riscontrata in altri punti
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII, 36
476 CARLO GIACOMINI
della congiuntiva, difficilmente vien ricondotta alla sua origine.
E la ‘divisione in piccoli frammenti e la dispersione di essi nel
tessuto sottocongiuntivale stimo che siano i due processi per mezzo
dei quali avviene la scomparsa della cartilagine della plica non solo,
ma talora anche della ghiandola d’Harder.
Quando in questa emigrazione le parti si mantengono sempre
lontane dalla superficie congiuntivale, esse non sono avvertite al-
l'esame esterno, e possono anche non cagionare inconvenienti
di sorta; ma se esse sì spingono in avanti e fanno rilievo colla
superficie libera della mucosa, in allora esse producono tumoretti
più o meno evidenti, i quali per la posizione e lo sviluppo, pos-
sono domandare l’intervento del pratico. Esportati, si trovano co-
stituiti essenzialmente da un nucleo cartilagineo e da tessuto ghian-
dolare: queste produzioni comprese fra i tumori dermoidi della
congiuntiva furono notati da diversi autori fra i quali mi piace
citare Grafe, Reymond, Gallenga. Ed io credo essere completa-
mente nel vero quest’ultimo autore, quando considera questi tu-
mori congiuntivali come prodotti dallo spostamento della carti-
lagine della piega semilunare oppure di parti di essa (1).
Questa osservazione completa lo studio da me fatto della
plica semilunare e dei suoi elementi costitutivi nell’uomo e di-
mostra come quest’organo, per quanto rudimentario, può talora
comparire nelle razze inferiori della specie nostra con tutti i ca-
ratteri morfologici quali noi le riscontriamo nelle specie animali
dove è meglio sviluppato. Ed io credo che alloraquando l’at-
tenzione del ricercatore sarà più in special modo diretta sopra
questo punto con maggior frequenza ed abbastanza facilità, si
troveranno 1 ruderi sparsi di questo piccolo apparato, andato in
rovina per mancato esercizio.
Muscolo ciliare nei Negri.
Sull’anatomia dell’occhio del Negro noi possediamo scarsis-
sime nozioni; quindi anche il poco che venisse fatto in questo
campo, avrebbe sempre una certa importanza per stabilire con-
fronti con l’occhio della nostra razza. Evidentemente il materiale
(1) Contribution à Vetude des tumeurs congénitales de la conjonctive et de
la cornée. Considérations sur leur genèse par GAaLLENGA. Annales d’oculistique,
1885.
ANNOTAZIONI SULL'ANATOMIA DEL NEGRO 477
di studio per il modo e l’epoca in cui era raccolto, non è troppo
adatto per ricerche minute sulle parti più delicate dell'organo ;
ciò non di meno molte particolarità sono ancora ben distinte e
possono essere studiate colla massima accuratezza.
La mia attenzione fu chiamata in principal modo sul muscolo
ciliare. Sapendo le grandi varietà che questo muscolo presenta
nella nostra razza sia riguardo alla forma, sia riguardo alla sua
intima costituzione, e sapendo ancora come queste variazioni sono
messe in rapporto col grado di rifrazione statica dell’occhio, ho
creduto meritevole di studio questa questione negli individui di
razza Negra.
Per questo scopo ho fatto sezioni molteplici della regione ci-
liare in diversi punti della sua circonferenza dell'occhio sinistro
dell’Oss. I, dell’occhio destro dell’Oss. Il, del destro della Oss. X
e del sinistro Oss. XIV.
Notiamo innanzi tutto come il muscolo fosse difficile ad esa-
minarsi nelle sue parti costitutive, essendo in esso abbondanti le
cellule pigmentate ordinarie della coroide. Queste nei due terzi
esterni del muscolo, vale a dire in corrispondenza delle fibre mu-
scolari longitudinali, erano più numerose ed allungate, col loro asse
parallelo alle fibre muscolari sulle quali esse si trovavano appli-
cate, o meglio sulle lamelle muscolari formate da queste fibre.
Le cellule pigmentate cessavano affatto là dove le fibre longitu-
dinali si raccoglievano nel cercine tendineo per andare ad inse-
rirsi alla faccia profonda della sclerotide, completando come d’or-
dinario la parete interna del canale dello Schlemm. Verso l'angolo
interno od anteriore del muscolo le cellule pigmentate erano più
irregolarmente sparse attorno ai piccoli fasci di fibre muscolari
circolarmente disposte.
In tutti i casi osservati il muscolo si trova ben svolto tanto
nella parte meridionale, quanto nella porzione circolare. La parte
meridionale o muscolo del Briicke anteriormente costituiva circa
la metà esterna dello spessore del muscolo, posteriormente invece
lo formava per intero. Risultava da diverse lamelle concentrica-
mente disposte e divise dalle cellule pigmentate fusiformi che
abbiamo accennate più sopra.
La porzione circolare o muscolo del Miiller era molto pro-
nunciata ed occupava tutta la parte antero-interna, lo sviluppo
era un po’ maggiore nelle Oss. I e XIV. Si presentava sotto forma
di piccoli fasci muscolari di volume diverso, circondati da abbon-
478 CARLO GIACOMINI
dante tessuto connettivo nel quale si notavano cellule pigmentate,
irregolarmente disposte. I fasci di volume maggiore occupavano
l’angolo interno e sulla faccia anteriore giungevano fino in corri-
spondenza della inserzione dell’iride al corpo ciliare.
Il muscolo ciliare raggiunge nella specie nostra il massimo
di sviluppo. Le fibre longitudinali sono le fibre fondamentali del
muscolo, quelle che si trovano in tutti gli animali dove esiste
un muscolo ciliare, sia sotto forma liscia o striata. Le fibre cir-
colari sono fibre di aggiunta o di perfezionamento non riscon-
trandosi che nelle scimmie più superiori e nell’uomo; sono quindi
esse che presentano le più grandi varietà.
Daile ricerche infatti di Iwanoff, confermate da Arlt e
E. Schultze si sa oggidì che le fibre circolari sono quelle che
subiscono le maggiori variazioni nei diversi individui della nostra
razza, potendo esse mancare completamente, oppure essere gran-
demente sviluppate. Per cui furono distinti tre tipi nella costi-
tuzione del muscolo ciliare, 1’ uno normale, nel quale le fibre
circolari si trovano mediocremente svolte; in sezione meridiana il
muscolo ciliare ci appare sotto forma di un triangolo rettangolo,
l'angolo retto essendo in avanti ed all’esterno (angolo selero-
ciliare). Questo tipo corrisponderebbe all'occhio emmetropo.
Il secondo tipo è quello nel quale manca completamente il
muscolo del Miiller ed il muscolo ciliare è esclusivamente for-
mato dalle fibre longitudinali. L'angolo sclero-ciliare allora invece
di essere retto è acuto. Esso sarebbe caratteristico dell’ occhio
miope.
E finalmente il terzo tipo è quello nel quale le fibre circo-
lari sono grandemente svolte, e l’angolo antero-esterno si presenta
ottuso. E questo tipo si riscontrerebbe di preferenza nell’occhio
ipermetropo, nel quale l’accomodamento è sempre in azione.
Ora volendo riferire ad uno di questi tipi il muscolo ciliare
dei negri esaminati, noi possiamo dire che lo sviluppo delle fibre
circolari è tale che esso deve essere ascritto piuttosto al 3° tipo
che non al 1°; vale a dire che essi devono essere considerati
come occhi leggermente ipermetropi, e ciò in grado diverso, più
manifesta è l’ipermetropia nelle Oss. I e XIV meno evidente
nelle Oss. II e X. In tutti però la potenza d’accomodamento
doveva essere molto grande.
Dalle osservazioni sopradescritte evidentemente non è possi-
bile trarre alcuna deduzione. Questo studio avrebbe avuto mag-
ANNOTAZIONI SULL'ANATOMIA DEL NEGRO 479
gior valore se io avessi potuto esaminare gli occhi di tutti i miei
negri. Ma anche così ristretto può avere una certa importanza,
in primo luogo per la sua novità non essendo a mia conoscenza
lavori speciali fatti sopra questa regione delle razze colorate, poi
per la completa concordanza dei risultati e finalmente perchè questi
risultati sono perfettamente d’accordo colle osservazioni fatte su
individui viventi di razze inferiori.
La miopia infatti è rarissima nella razza negra e nelle razze
selvaggie. Il dott. Callan nelle scuole negre di New-Jork ha tro-
vato che la ipermetrofia raggiungeva la proporzione del 90%,
l’emmetropia il 9,5 % (1).
Il Chippeway nelle sue osservazioni sopra Indiani ha tro-
vato che essi in parte erano emmetropi ed in parte presentavano
ipermetropia non considerevole.
Il dott. Seggel (2) in 8 abitanti dell'Isola del Fuoco ha po-
tuto convincersi come i loro occhi fossero emmetropi e dotati di
grande potenza visiva. Ed in generale si può asserire che i po-
poli selvaggi hanno un occhio meglio conformato dei popoli ci-
vilizzati. Se la civilizzazione ci reca molti vantaggi, essa però
ha un influenza malevola sul perfetto sviluppo del nostro organo
della visione.
Mi limito a queste poche osservazioni, perchè le credo suffi-
cienti a dimostrare la perfetta corrispondenza tra il modo con
cui si presentava il muscolo dell’accomodamento negli individui
negri esaminati e le ricerche fisiologiche fatte su individui della
medesima razza o d’altre razze selvaggie.
Distribuzione del pigmento.
Anche la grande quantità di pigmento che si trova nel globo
oculare del Negro ed il modo suo di distribuzione, merita d’es-
sere brevemente ricordata, prima di passare ad altro argomento.
Questo carattere non ha certo l’importanza di quelli che siamo
andati studiando più avanti, non manca però di un certo inte-
resse, per renderci ragione di alcune particolarità facili a rilevarsi
ad un semplice esame dell’occhio del Negro.
(1) American Journal, april 1875.
(2) Ueber die Augen der Feuerlinder, ece., par Dr. D. SegGEL. Archiv
fur Anthropologique, vol. XIV, 1883.
480 CARLO GIACOMINI
La congiuntiva oculare nella razza nostra si presenta perfet-
tamente trasparente lasciandoci scorgere la colorazione della scle-
rotide e dei vasi sottostanti. Nel Negro invece essa è più o
meno fosca, e ciò dipende da granuli pigmentari che si trovano
depositati nelle cellule epiteliari profonde della congiuntiva, vale
a dire negli elementi che corrispondono a quelli dove si trova
raccolto il pigmento della cute. La pigmentazione è meno pronun-
ciata nella congiuntiva che riveste le palpebre. Subisce una leg-
gera esagerazione sul contorno della cornea per cessare comple-
tamente nel momento in cui l’epitelio fattosi più regolarmente
pavimentoso e meno robusto, riveste tutta la superficie corneale.
Però in alcuni casi si osservano cellule pigmentate anche per un
certo tratto sulla superficie corneale. Alla parte periferica sono
disposte in serie regolari, ma più internamente una cellula pig-
mentata è divisa da due o tre che non contengono pigmento, finchè
scompaiono affatto.
Riguardo alla membrana irido-coroidea abbiamo già accen-
nato agli elementi pigmentati che si trovano interposti alle fibre
del muscolo ciliare. Ma dove il pigmento assume più forte svi-
luppo si è sull’iride.
La colorazione dell’iride nella nostra razza è dovuta a cel-
lule pigmentate più o meno fortemente, le quali si trovano irre-
golarmente sparse nello spessore dell’iride stessa e si raccolgono
talora anche alla superficie anteriore in forma di gruppi per cui
la colorazione non si presenta uniforme. Negli occhi dei negri
che ho studiati e principalmente nelle tre prime osservazioni l’i-
ride vista in sezione trasversale può essere distinta in tre parti;
uno strato pigmentato posteriore l’uvea, un secondo anteriore
pure pigmentato ed uno strato interposto.
Lo strato posteriore o l’uvea non presenta nulla di speciale.
Esso termina in corrispondenza della piccola circonferenza del -
l’iride formando un leggero rialzo nel mentre si continua con lo
strato anteriore. Questo è veramente caratteristico, poichè forma
uno strato riccamente pigmentato, il quale riveste tutta la faccia
anteriore dell’iride, simulando quasi una continuazione dell’uvea
sulla faccia anteriore e presentando presso a. poco uno spessore
uguale a questa. Questo strato si estende con disposizione uni-
forme dalla piccola alla grande circonferenza dell’iride dove esso
cessa bruscamente, ed in alcune sezioni in questo punto si scor-
gono i rudimenti del canale trabecolare di Fontana, che si sa
essere appena accennato nella specie nostra.
ANNOTAZIONI SULL'ANATOMIA DEL NEGRO 481
Studiando più attentamente questo strato si vede che nella sua
parte superficiale è costituito da cellule globose molto evidenti,
completamente ripiene di pigmento , le quali dànno un aspetto
un po’ irregolare alla superficie libera, ed in alcuni punti in
ispecie nelle depressioni, si notano degli elementi non ben definiti
privi di pigmento, i quali probabilmente costituiscono traccie del
rivestimento epiteliare, continuazione di quello della membrana di
Descemet, che è ben conservato e distinto in tutta l’estensione
della faccia profonda della cornea. Al disotto delle cellule glo-
bose se ne trovano altre più numerose, stipate, di forma di-
versa e pure fortemente pigmentate le quali costituiscono il mas-
simo spessore di questo strato.
Questa disposizione non deve esser considerata come propria
degli individui che stiamo studiando, essa non è che una esagera-
zione di ciò che si osserva talora nella nostra razza negli individui
che presentano gli occhi neri. E difatti nel Boschimane dove il
pigmento era meno pronunciato e dove per la colorazione della
pelle si poteva rimanere in dubbio se esso dovesse essere clas-
sificato alla razza negra o gialla, l'iride si presentava di un bruno
meno intenso, e lo strato del quale stiamo parlando era meno
pronunciato che non negli altri individui che per la colorazione
della pelle erano veramente tipici della razza cui appartenevano.
La parte interposta fra i due strati di pigmento era costituita
dalle ordinarie cellule ricche in pigmento con prolungamenti mol-
teplici. Solo al limite posteriore di questa parte media le cellule
andavano facendosi globose e si disponevano in uno strato abba-
stanza regolare per modo da limitare insieme all’uvea, uno spazio
lineare che appariva più intensamente colorito col carminio, nel
quale, malgrado non si potesse distinguere coll’esame microscopico
alcuna particolarità di struttura, probabilmente stavano situate le
fibre muscolari raggiate dell’iride od il dilatatore della pupilla.
Invece ben evidenti apparivano le fibre muscolari dello sfin-
tere della pupilla, il quale occupava il terzo interno dell’iride e
faceva una leggera sporgenza sulla superficie posteriore di essa.
La disposizione del pigmento dell’iride ci spiega il modo di pre-
sentarsi di questa membrana nella razza negra. Al qual riguardo
mi piace di riferire le parole del Sceemmering: « La tinta uniforme
e bruna dell’iride è in oltre motivo che, se osservi l'occhio del
negro a distanza non maggiore di quella che si richiede a ben
distinguere nel nostro la pupilla, non giungi a scernerla in quello,
482 CARLO GIACOMINI
ed il complesso della pupilla e di tutta la stella dell’iride non vi
ti rappresenta che una macchia egualmente nera. Il che influisce
moltissimo a rendere più tristi e meno vivaci questi occhi ».
L'ultimo fatto che desidero notare riguarda l’entrata del nervo
ottico nel globo oculare. Si ammette da alcuni autori che la co-
roide intervenga nella formazione della lamina cribrosa, che le
fibre del nervo ottico attraversano nel mentre si spogliano della
loro guaina midollare per espandersi quindi nella retina. Anzi il
Miiller asserisce che in alcuni casì si riscontrano cellule pigmen-
tate fra gli elementi connettivi situati fra i fasci nervosi, e che
un sottile strato di essa si possa seguire per un certo tratto lungo
la guaina interna considerata come dipendenza della pia madre.
Avendo fatto sezioni microscopiche del nervo ottico nel mentre
si addentra nel globo oculare dell’Oss. X ; ho voluto vedere se si ve-
rificasse qui, dove il pigmento assume così grande sviluppo ed accom-
pagna per un tratto più o meno lungo i vasi sanguigni nel mentre
attraversano la sclerotide, il fatto sopracitato del Miller. Ma la
coroide si è presentata nettamente, limitata da un margine obliquo
dall’avanti all'indietro e dall'interno all'infuori. In alcuni punti
l’estremità posteriore di tale margine si prolungava leggermente
all'indietro ed all’interno come se volesse addentrarsi nello spessore
del nervo ottico. Ma fra le fibre di questo, come in corrispondenza
delle guaine d’involucro, non si scorgevano cellule pigmentate.
I fatti sopradescritti hanno evidentemente un significato molto
diverso. L'esistenza della cartilagine e della ghiandola della mem-
brana nittitante è senza dubbio un carattere d’inferiorità o re-
gressivo, non avendo più queste parti alcuna importanza fisio-
logica, e ricordandoci solo uno stadio della via percorsa della
specie nostra per giungere allo stato attuale.
La disposizione del muscolo ciliare ci esprime invece una reale
superiorità, essendochè, caeteris paribus, mette l'occhio del Negro
nelle migliori condizioni per una esatta e perfetta osservazione.
a distribuzione più abbondante del pigmento nell’occhio del
Negro è un carattere d’adattamento alle condizioni in cui gli in-
dividui vivevano, quindi esso non ha l’importanza degli altri due,
non essendo un carattere tipico ma secondario, e potendo subire
le più grandi variazioni quando mutano le condizioni di esistenza.
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Anatomia del Negro. Tavit
E Lit. Salussolia -Torino
ANNOTAZIONI SULL'ANATOMIA DEL NEGRO 483
SPIEGAZIONE DELLE FIGURE
Fi. 1. Sezione dell’angolo interno dell’occhio di sinistra che com-
prende la cartilagine superiore della piega semilunare
(c. s); 9, ghiandola sottocongiuntivale che si apre alla
parte interna delle due pieghe della mucosa (p) che pre-
nunziano la piega semilunare; mm, fibre muscolari liscie.
DO
» . Sezione corrispondente all’intervallo che esiste fra la car-
tilagine superiore e l’inferiore. La piega semilunare p,
è meglio pronunciata; 7, fibre muscolari.
» 3. Questa sezione comprende la cartilagine inferiore (c. 7) dove
essa sì presenta più sviluppata; p, piega semilunare
doppia; 9, ghiandola sottocongiuntivale che si apre alla
parte interna della caroncula e.
» 4. Sezione fatta in corrispondenza della parte inferiore della
cartilagine principale c, 2; al davanti di essa si trova la
ghiandola d’Harder 9, H; e Canale escretore sezionato
in diversi punti; 7, fibre muscolari liscie ; p, piega semi-
lunare. Questa figura fu disegnata ad un ingrandi-
mento un po’ maggiore delle tre prime.
» 5. Rappresenta a grandezza naturale la cartilagine inferiore
ce, deil’occhio di destra; sul margine inferiore si trovano
le tre ghiandolette indipendenti, che costituiscono la
ghiandola d’Harder.
» 6. Porzione secernente della ghiandola d’Harder (Oculare 3°
ed obbiettivo 8° del microscopio Koristka) forma diversa
che essa presenta e disposizione degli elementi che rive-
stono gli acini.
484 GIUSEPPE VICENTINI E OMODEI
n LL TPP__——=—=—=—=tttdjj°]kWeé—e”*’e
Sulla variazione di volume di alcuni metalli mnell’atto della
fusione e sulla dilatazione termica degli stessi allo stato
liquido ; Studio sperimentale di Giuseppe VICENTINI e Do-
menico OMODEI.
In una prima nota (1) sono stati comunicati i risultati di
una serie di determinazioni dirette alla misura della variazione
di volume subìta dal bismuto nell’atto della fusione e del coef-
ficiente medio di dilatazione di tale metallo allo stato liquido, fra
la temperatura di fusione e 300°. Ora si danno i valori corri-
spondenti per tre altri metalli facilmente fusibili: lo stagno, il
cadmio ed il piombo.
Lo studio di questi tre metalli è stato fatto col mezzo di dila-
tometri ed è stato condotto analogamente a quello del bismuto.
Come apparecchio riscaldante però non è stato impiegato il
doppio bagno di paraffina, quale è descritto nella nota citata.
Dovendosi raggiungere temperature superiori a 300°, si è trovato
preferibile un bagno di stagno, formato di circa 10 Kg. di tal
metallo, nell'interno del quale è immerso per metà della sua
lunghezza un grande tubo da assaggi (210 mm. di lunghezza e
48 mm. di diametro) destinato a contenere la paraffina, nel cui
seno si introducono i dilatometri riempiti di metallo.
Per diminuire il raffreddamento della paraffina che si trova
nella parte della provetta sporgente dallo stagno fuso, la pro-
vetta è circondata con un ampio manicotto di vetro, che col suo
orlo inferiore pesca nel bagno metallico, e che superiormente è
chiuso con opportuno coperchio, per impedire il rapido scambio
dell’aria calda, che resta imprigionata fra i due tubi di vetro,
con quella fredda dell'ambiente. Il recipiente che contiene lo
stagno viene riscaldato da una lampada a gas, ed è circondato
alla sua volta da un cartoccio cilindrico di metallo lucente, sul-
l’orlo superiore del quale appoggia un altro coperchio di lamiera
(1) G. VicenTINI. Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XXII,
1886.
SULLA VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 485
metallica, che copre lo spazio che rimane libero fra esso cilindro
e il vaso, e contemporaneamente ripara quella parte di stagno
fuso, che restando in diretto contatto coll’aria atmosferica si raf-
fredderebbe più rapîìdamente.
I dilatometri vengono di tanto immersi nella provetta interna,
che il limite superiore al quale giunge il metallo liquido in essi
contenuto, si mantenga sempre per circa tre centimetri al disotto del
livello della paraffina. In questo modo nel mentre vi è la possibilità
di mantenere tutte le parti del dilatometro in un ambiente ad eguale
temperatura, si possono pure fare facilmente le letture mediante
un cannocchiale posto a qualche distanza davanti all’apparecchio
procedendo in modo simile a quello già indicato nella nota citata.
Per ottenere costanza nella temperatura del bagno riscaldante
l’accesso del gas alla lampada si regola con chiavetta a vite. L'uni-
formità di temperatura in tutta la massa della paraffina è age-
volata mediante un continuo e regolare rimescolamento prodotto
da un agitatore metallico comandato da un pendolo costituito da
un’asta di ferro della lunghezza di oltre un metro portante alla
sua estremità un peso di più di 20 Kg.
I dilatometri ed i termometri necessarii alle esperienze si fis-
sano in un tappo di sovero che chiude il tubo contenente la pa-
raffina; l’agitatore scorre colla sua asta in un cannello di vetro,
che lo guida nella corsa, e che è pure fissato nello stesso tappo.
Alle temperature più alte che si sono raggiunte, la paraffina
bolle, ma i suoi vapori si condensano nella parte superiore del
tubo di vetro; così si evita la continua diminuzione di paraffina
e l’incomodo svolgimento di vapori nel laboratorio.
I dilatometri riempiti coi tre metalli stagno, cadmio e piombo,
si devono trattare con cure speciali.
Nelle determinazioni col bismuto era necessario usare molte
cautele per impedire la rottura dei dilatometri al momento della
solidificazione del metallo; nel caso attuale invece si corre lo
stesso pericolo quando i metalli si fondono.
Riscaldando senza precauzione un dilatometro riempito con
uno degli accennati metalli (Sn, Pb, Cd), il metallo incomincia
a liquefarsi prima nel bulbo che nel cannello, e per il conse-
guente aumento di volume si produce una tensione interna che
fa scoppiare il dilatometro.
Per questa ragione i dilatometri non si possono direttamente
riscaldare nel bagno di paraffina, ma si devono introdurre in esso
486 GIUSEPPE VICENTINI E DOMENICO OMODEI
portato ad elevata temperatura, col metallo già fuso nel loro in-
terno. La fusione del metallo si raggiunge senza pericolo della
rottura del dilatometro, riscaldando dapprima colla fiamma a gas
il cannello, fino alla completa fusione della colonnina metallica;
ciò ottenuto, si può riscaldare senza preoccupazione anche il bulbo
sino alla fusione di tutto il metallo.
Prima di incominciare le determinazioni è necessario estrarre
le bollicine d’aria che si sviluppano fra il metallo e le pareti
del dilatometro quando questo viene portato a temperature elevate.
A tal uopo si ricorre all’uso di una macchina pneumatica e
si eseguisce il vuoto nel dilatometro portato ad una temperatura
superiore alla massima che si vuole raggiungere. Le bollicine d’aria
ingrandite, in seguito alla rarefazione, si fanno uscire con facilità
scotendo con colpi secchi e ripetuti il dilatometro. Tale opera-
zione si eseguisce sempre prima di portare il dilatometro nel bagno
di paraffina; si ripete talvolta anche durante le osservazioni qua-
lora se ne manifesti la necessità.
I dilatometri adoperati sono costruiti tutti con vetro di Ger-
mania, e si calibrano accuratamente con mercurio adoperando una
bilancia sensibile al decimo di milligrammo. Essi vengono sempre
riempiti con metallo allo stato liquido; e per evitare che al
momento della solidificazione si producano nel metallo le cavità
che inevitabilmente si formerebbero se si abbandonasse ad uno spon-
taneo raffreddamento, si lascia dapprima raffreddare la sua parte
inferiore, mantenendo fluida la superiore. Usando questa precau-
zione e comunicando delle frequenti scosse al dilatometro , fino
alla completa solidificazione del metallo, si può ottenere che questo
allo stato solido riempia perfettamente il dilatometro. Così si può
conoscere il volume che il metallo solido occupa nell’interno del
dilatometro alla temperatura 7 di fusione.
Calcolando questo volume e conoscendo il peso del metallo
si ricava la densità D. del metallo solido alla temperatura di
fusione.
La densità di un metallo allo stato liquido e a diverse tem-
perature, si determina portando il dilatometro preparato come è
detto indietro, nel bagno di paraffina, ed eseguendo le osservazioni
colle norme date nello studio del bismuto. Nelle determinazioni
abbiamo trovato opportuno di eseguire la lettura del dilatometro
e dei termometri di due in due minuti.
La correzione delle indicazioni del termometro destinato a mi-
re pn
SULLA VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 487
surare la temperatura del bagno, si fa tenendo conto tanto della
sporgenza dalla paraffina quanto di quella dal sovero che lo so-
stiene. Si notano perciò con altri due termometri la temperatura
del tratto di termometro che rimane avviluppato dai vapori di
paraffina nell’interno del tubo di vetro (tratto che generalmente
è piccolissimo) e quella della parte di esso che sporge nell’aria
libera, e che si trova ad una temperatura molto più bassa.
Le temperature che appariscono nelle tabelle successive, sono
date in base alle indicazioni corrette di un termometro a mer-
curio, a pressione interna di gas, che confrontato con un ter-
mometro ad aria alla temperatura di 238° segna due gradi in più.
Ogni volta ch’esso viene adoperato, se ne determina la posi-
zione dello zero. Nelle esperienze sul bismuto, melle quali non si
superò la temperatura di 300°, lo spostamento si è mantenuto
costantemente di 3°, 6: nelle attuali, estese a temperature tal-
volta superiori ai 350°, lo zero andò spostandosi di volta in volta
abbastanza rapidamente fino a raggiungere una posizione pressochè
costante a circa 10°.
La densità dei metalli liquidi alla temperatura di fusione 7,
la deduciamo dalla densità ch’essi posseggono ad una tempera-
tura vicina il più possibile a quella di fusione, valendoci del
medio coefficiente di dilatazione del metallo liquido fra tale tem-
peratura ed un’altra più elevata. Questo coefficiente 4 si deter-
mina colla formula:
D-D'
SEEN
nella quale D e D' sono le densità del metallo liquido alle tem-
perature # e #. Scegliendo # molto vicino alla temperatura 7 di
fusione del metallo, il valore di 4 che si ottiene si può consi-
derare come il coefficiente medio di dilatazione del metallo liquido
fra tes.
Calcolato il valore di 4, la densità cercata D'. del metallo
liquido alla temperatura di fusione si ha dalla formola:
Dip 1+e(t—3)| À
Coi valori D, e D, si calcola la variazione percentuale 4
che subisce la densità del metallo che si studia nel passaggio
dallo stato liquido allo stato solido; ovverosia la variazione per-
centuale subita dal volume del metallo nel passaggio inverso.
488 GIUSEPPE VICENTINI E DOMENICO OMODEI
La temperatura di fusione dei singoli metalli vien misurata
con tutta cura, sia col metodo del riscaldamento che con quello
del raffreddamento. Il termometro che dà l’andamento del riscal-
damento o del raffreddamento del metallo che si fa fondere o
solidificare in un bagno ad aria a conveniente temperatura, è
immerso col suo bulbo nella massa metallica.
La temperatura del bagno ad aria è mantenuta tale, che al
momento del cambiamento di stato del metallo si ha in esso una
sosta di temperatura molto lunga.
Seguendo i due metodi le temperature di fusione e di soli-
dificazione dei singoli metalli si mostrano diverse per meno di
un grado; perciò assumiamo la loro media come temperatura di
fusione di ognurio di essi.
Prima di dare i risultati delle esperienze sono da fare due
osservazioni. Una per quanto riguarda lo spostamento dello zero
subìto dai dilatometri nel corso delle esperienze; l'altra per ciò
che si riferisce al coefficiente di dilatazione del vetro col quale
i dilatometri stessi sono costruiti.
Per i dilatometri suindicati, non abbiamo sempre potuto os-
servare uno spostamento analogo a quello dello zero dei termo-
metri. Solo in uno che ha servito allo studio dello stagno ad
alte temperature, il metallo solidificato raggiunse nel cannello
una divisione più elevata di quella segnata al principio. In questo
caso dopo esserci assicurati dell’esistenza di un vero spostamento,
abbiamo tenuto conto nei calcoli della diminuzione di volume del
dilatometro.
Se per tutti i dilatometri non si è osservato un simile
spostamento, lo ascriviamo al fatto che prima di venire riempiti
di metallo devono essere riscaldati a temperatura molto elevata.
In ogni modo lo spostamento dello zero che deve avvenire nei
dilatometri usati, i quali sono preparati di volta in volta, e che
quindi sono riscaldati sino ad una temperatura prossima a quella
della fusione del vetro, è molto piccolo, anzi del tutto trascura-
bile per le nostre determinazioni, come ci risultò studiandone
qualcheduno col mercurio e con leghe facilmente fusibili. a tem-
perature superiori ai 350°.
Nei calcoli delle esperienze col bismuto, il volume dei di-
latometri alle varie temperature è stato determinato ammettendo
eguale a 0,0000830 il coefficiente di dilatazione del vetro a tem-
perature prossime ai 300°.
SULLA VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 489
Visto che col metodo seguito si possono ottenere dei risultati
buoni per la loro concordanza, così allo scopo di raggiungere un
maggior grado di approssimazione, abbiamo voluto studiare anche
il coefficiente di dilatazione del vetro impiegato nella preparazione
dei dilatometri, per temperature molto vicine a quelle alle quali
facevamo le determinazioni.
Non sarebbe certamente cosa semplice il determinare il coef-
ficiente di dilatazione di tutti i dilatometri che si costruiscono ;
chè troppo grande è il numero di quelli che si spezzano quando
si devono riempire di metallo. Ci siamo perciò limitati a studiarne
uno, e dei valori ottenuti con esso ci serviamo per i calcoli relativi
a tutti i dilatometri, che sono costruiti con diverse porzioni di
uno stesso tubo. La determinazione del coefticiente di dilatazione
del dilatometro prescelto è stata fatta colla massima accuratezza,
dopo averlo riempito con mercurio e usando il bagno anzi de-
scritto. Abbiamo fatto numerose determinazioni prossime a 230°
e a 300°; e come medio coefficiente di dilatazione cubica abbiamo
ottenuto
fra 0 e 232° k= 0,0000305,
fra 0 e 304° k= 0,0000322.
Ammettendo, come non è molto lontano dalla realtà, che il
coefficiente di dilatazione del vetro varii proporzionalmente alle
variazioni di temperatura, abbiamo calcolati i valori della se-
guente tabella, che danno il medio coefficiente di dilatazione del
vetro di 25 in 25 gradi fra 200° e 350°.
0°— 200°. X=0,0000297; 0°— 300° X=0,0000321,
0 — 225 305, 0 — 325 327,
0 — 250 309, 0 — 350 333.
0 —- 275 315,
Questi valori sono poco differenti da quelli trovati da altri
sperimentatori per il coefficiente di dilatazione del vetro ad ele-
vata temperatura. Così il Pisati (1) ha trovato per un dilato-
metro impiegato nello studio del solfo fuso i seguenti numeri
fra 0° e 100° k=0,00002713 ,
fra 0 e 230° k=0,00002999,
(1) G. Pisati, Gazzelta Chimica italiana, 1874.
490 GIUSEPPE VICENTINI E DOMENICO OMODEI
e calcolando in base alle sue esperienze il valore del coefficiente
di dilatazione fra 0 e 300, ottenne K=0,00003166 poco
lontano dal numero 0,0000322 che a noi risulta dalla diretta
esperienza per la temperatura di 304°.
I coefticienti che adottiamo sono quindi più grandi del va-
lore costante 0,000030, adoperato nei calcoli delle esperienze +»
sul bismuto. Se la differenza di essi non ha influenza sul va-
lore della variazione di volume dei metalli nell’atto della fusione,
si rende sensibile, come è ovvio, su quello della densità dei me-
talli, tanto solidi che liquidi, alla temperatura di fusione e sul
valore del loro coefficiente di dilatazione.
Per far vedere l'influenza che hanno sui risultati finali i nuovi
coefficienti di dilatazione del vetro, mettiamo qui sotto di fronte
ai valori già dati per il bismuto, quelli che si ottengono impie-
gando nei calcoli i numeri della tabella precedente.
ee 9 0177 e secondo i nuovi calcoli D, — 9,673
D.=. 10,008 » » D:=— SL079DA
A == (835391 » » Ai=-. Bel
da 0,000112 » » i 0,000122
Risultati delle esperienze.
Nelle seguenti tabelle diamo i risultati delle esperienze sui
varii metalli; ecco il significato dei simboli impiegati in esse.
W, rappresenta il volume del dilatometro a 0° fino alla
divisione » del cannello.
w indica il volume medio di una divisione del cannello del
dilatometro a 0°.
P rappresenta il peso del metallo introdotto nel dilatometro.
t e t sono le temperature alle quali vengono determinate
le densità
D e D del metallo liquido.
D. rappresenta la densità del metallo solido alla tempera-
tura 7 di fusione e
D, la sua densità allo stato liquido e alla stessa temperatura.
a è il coefficiente medio di dilatazione del metallo liquido
fra tie.t.
A indica la variazione percentuale che avviene nella densità del
metallo nel passaggio dallo stato liquido allo stato solido.
SULLA VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 491
Stagno.
Lo stagno studiato è di due qualità. La prima ha, alla tem-
peratura di 0°, la densità 7,310 riferita all'acqua a 4° come
unità, e la sua temperatura di fusione è 7 251°. Essa è stata
studiata con due dilatometri e si sono ottenuti i risultati che
sono raccolti nella seguente tabella :
DILATOMETRO A DILATOMETRO bB
W,=cme. 4,2394 w= cme. 0,002514||W,=eme. 6,2592 w=eme. 0,00427
P= gr. 30,6836 P= gr. 45,3601
i eo DI I AIA UFO) t D t' D'
233° | 6,982) 271°) 6,952|| 234°| 6,979] 251°) 6,966
236 | 6,978| 269) 6,952] 240 | 6,977] 263 6,959
| | | 241 | 6,977| 266 | 6,957
294°,5) 6,980) 270° 6,952]|| 238 | 6,978| 260°) 6,961
Col dilatometro A si è trovato D,=7,181.
Calcolando @ in base ai valori sopra riferiti per tal dila-
tometro si ha:
a=0,000113 e quindi D,—6,983 A—=2,88
Dalle esperienze eseguite col B si ha:
D.,=7,182 «=0,000111 D,=6,983 A—2,83.
La seconda qualità di Sw che abbiamo studiata, ci è stata
somministrata come purissima dalla casa Trommsdorff di Erfurt
(anche il Cd ed il Pd per i quali diamo in seguito i risultati
delle esperienze, sono della stessa provenienza). Per essa a 0°
abbiamo trovato la densità 7,3006 e la temperatura di fusione
t=2267.
Anche questo Sn si è studiato con due dilatometri, ma ad
un maggior numero di temperature di quello della prima qua-
lità adoperata.
Nella tabella che segue sono registrate le temperature # alle
quali fu determinata la densità D, dello Sn col dilatometro C.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII, 37
492 GIUSEPPE VICENTINI E DOMENICO OMODEI
DiLatoMETRO (€.
Wi. cme. 4,2209 w=0,004235 P=gr. 30,3282
t
/ medio D,
997° aci 6,908
340 DELLA 6,903
305 £ 6,938
304 0a 6,934
265,5 ca 6,956
264 der: 6,962
239 dii 6,982
233 6,986
Con questo dilatometro si ottenne D.—= 7,186.
Calcolando poi il coefficiente x in base alla densità a 236°
e 265° si ha:
a=0,000124 D, =6,992 ASI.
Senza dare i risultati delle singole esperienze fatte coll’altro
dilatometro (2) registriamo qui sotto i loro medii valori.
DILATOMETRO D.
W,g=cme. 4,6474 w=0,00429 P.= 3379897
t D t D
346° 6,896 274° 6,950
306 6,925 233 6,979:
Con questo dilatometro risultò D.=7,181.
Impiegando le densità a 233° e a 274° nel calcolo del
coefficiente di dilatazione si ricava:
a=0,000102,
e quindi
D.,=6,984 A=2,88%
f
SULLA VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 493
Se si raccolgono insieme i valori ottenuti per le due qualità
di Sn si ha la seguente tabella:
Dilato— D t D
metri ) T
A 5x0 | 7,181 | 6,988 |0,000113| 2,88
Ooh: 319: 11281 2189 6.983 O ,000111)" 9 88
Valori medii. . | 7,1815| 6,983 |0,000112| 2,83
0 | | o |7,186 | 6,992)0,000124! 2,77
p |:3006| 226 |7/181 | 6,984|0,000102| 2,83
| | x
| Valori medii . |7,1835) 6,988 |0,000118| 2,80
| |
Come appare dai valori raccolti in questo prospetto, le densità
delle due specie di Sn allo stato solido alla temperatura di 0° dif-
feriscono di poco, e il coefticiente di dilatazione è uguale per tutte
due. Anche i valori trovati per la variazione di densità all’atto
della fusione si possono ritenere eguali, perchè la loro differenza
si confonde cogli errori possibili di osservazione. Null’ostante i
valori ottenuti colla seconda qualità di 8, che è il più puro,
sono da ritenersi i migliori.
Raccogliamo ancora in una tabella le densità dello Sw li-
quido puro a diverse temperature, quali si hanno facendo la
media dei valori ottenuti coi due dilatometri C, D, e aggiun-
giamo ad esse i volumi dello Sn alle medesime temperature, as-
sunto come eguale all’unità quello dello Sw liquido alla tem-
peratura di fusione.
D, r,
234°,5 6,9815 1,0009
269 ,5 6,9545 1,0048
305,0 6,9305 1,0088
342,0 6,9005 1,0127.
Se si costruisce una curva coi valori dei volumi qui sopra
segnati, si vede che i varii punti si trovano sopra una linea
retta; sicchè si può concludere che da 234° a 342° lo Sn
mostra di dilatarsi uniformemente.
GIUSEPPE VICENTINI E DOMENICO OMODET
Cadmio.
Il cadmio lo abbiamo studiato con tre dilatometri (E,7,G).
Esso a 0° ha la densità 8,6681: la sua temperatura di fusione
è t=3818°. In causa della sua elevata temperatura di fusione,
non se ne è determinata la densità che a due sole temperature,
una di poco superiore a quella di fusione, e l’altra prossima a
350°. Ecco i risultati ottenuti.
DILATOMETRO E DILATOMETRO
W,a1o= cme. 4,7833 w=eme.0,00415 || W,3 = cme. 5,1936 w0= cme. 0,01360
P= gr. 40,2352 P= gr. 43,3620
| t DIS. 80 eg DIAL
| | | | ”
824° 7,987 |850° | 7,960 || 337°| 7,954 352° | 7,927
(327 | 7,985 345,5) 7,958 || 334 | 75966 1355 7,937
| | | | 331 | 7,970
| elica
gs 7,981 |348° | DISSI 334° | 7,963 liesigii 7,932
Ì |
Col dilatometro E si ebbe D,= 8,365
e coi valori sopra registrati si ha a=0,000140,
e quindi
DI "959 ASA IO
Il dilatometro F invece ha dato
D,=8,368, «=0,000200, D'=7,989, A=4,74,
sicchè riunendo insieme i valori per il Cd si ha
Dilato-
metri Ul | È D, DI A À
E .| 8,865 | 7,989/0,000140| 4,70
pil] 816681310" dagg 17/9900. PNRA
Valori medii .. . | 8,8665| 7,989|0,000170) 4,72
SULLA VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 495
I coefficienti di dilatazione avuti coi due dilatometri diffe-
riscono di molto. La loro differenza però è giustificata, se si
tien conto delle difficoltà che si incontrano operando a tempe-
rature tanto elevate.
Con un terzo dilatometro (G) si trova per « il valore
0,000180 abbastanza vicino al medio dato dagli altri due di-
latometri (0,000170). Così per A si trova 4,69 valore pure
concordante con quelli ottenuti cogli altri due dilatometri.
Piombo.
. Il Pò impiegato a 0° ha la densità 11,359; la sua tempe-
ratura di fusione è 7=325°. Esso pure è stato studiato con
due dilatometri H, I.
DILATOMETRO H DILATOMETRO /
Wi,6=cme.4,8523 w = cme.(),00535 || W,, = cme. 4,4936 w = cme. 0,00435
P= gr. 53,8769 P= gr. 49,9853
Riad wo DI t D t' DI
|
334° |10,632| 357° 10,602
838 |10,630. 359 |10,587|[334° |10,644|355° | 10,616
330 10,619 358 |10,581|333 ,6|10,638|358 |10,606
332,9] 10,627 RDPA 10,590 AIAR 10,641 356,5. 10,611
Il dilatometro H ha dato
D,="Vt,002*.
Coi valori registrati sopra si ricava poi
a=0,000134 e quindi D,=10,637, A=-3,44.
Il dilatometro / invece ha dato
D.=:11,009
e a=0,000125 e D/=10,653, A=3,34.
Sicchè raccogliendo i diversi valori ottenuti coi dilatometri
H, I si ha la seguente tabella:
H «|... 11,002|10,637|0.000134| 3,44
g° | 11:859|.325 | 110009 10.653] 0000125] 3,34
| Valori medi ... | 11,005|10,645|0,000129| 3,39
Conclusioni.
Registriamo ora in una sola tabella i risultati delle pre-
senti esperienze insieme a quelli delle altre sul bismuto, questi
ultimi corretti per quanto si riferisce al coefficiente di dilatazione
del vetro, come si è notato più indietro.
Metallo D paio ED DI rg ad 7
| T
|
Cda | 8,6681|318 | 8,3665| 7,989) 4,72/0,000170
Pb |11,359 | 325 |11,005 | 10,645] 3,39 |0,000129
Bi | 9,787 |270,9) 9,673 | 10,004|— 3,31 |0,000122
Sn 7,8006| 226 | 7,1835| 6,988) 2,80/0,000113
Dall'esame di questi valori risulta comprovato che lo S%, il
Pb ed il Cd aumentano di volume all'atto della fusione; solo il
bismuto si comporta in modo contrario.
Le esperienze di Niess e Winkelmann (1) basate sul fatto
del galleggiamento dei metalli solidi sopra una massa di essi
allo stato liquido, hanno condotto quegli sperimentatori alla
convinzione che in generale i metalli diminuiscono di volume
quando fondono; i risultati delle nostre esperienze mostrano che
tale conclusione non può essere accettata.
I numeri dell’ultima tabella mostrano inoltre, che la va-
riazione di volume che si manifesta per il cambiamento di stato
dei quattro metalli studiati è massima per il Cd, minima per
lo Sn. Se poi si confrontano i valori di A e di « dei diversi
(1) F. Niess u. A. WINKELMANN, Berichten d. K. Akad. d. Wiss. zu
Miinchen, 4 dec. 1880. — Wied. Ann., Bd. XIII, 1881.
SULLA VARIAZIONE DI VOLUME DI ALCUNI METALLI 497
metalli come sono riuniti nella tabella, si riconosce che si tro-
vano disposti nello stesso ordine di grandezza.
Nella nota già accennata sul bismuto, oltre ai risultati delle
esperienze di Niess e Winkelmann sono riportati quelli di Chandler
Roberts e T. Wrightson (1), i quali ultimi impiegando l’onco-
simetro hanno trovato i seguenti valori per la variazione di vo-
lume che accompagna la solidificazione dei tre metalli da noi
studiati :
Bi 2,30 Pb 7,10 Sn 6,76.
Fu già notato che il metodo seguito dai due fisici inglesi
non offre un grado molto grande di esattezza; tanto più che i
risultati delle loro esperienze si riferiscono alla densità posseduta
dai metalli allo stato solido alla temperatura ordinaria e a
quella di essi allo stato liquido a temperatura superiore a quella
della fusione. Non deve quindi sorprendere la grande differenza
che passa fra i valori ch’essi danno ed i nostri.
Eilhard Wiedemann che ha misurata la variazione di volume
che subisce lo Sn all’atto della fusione ricorrendo come noi all’uso
di un dilatometro, ma impiegando dell’olio come liquido dilato-
metrico, ha trovato pur esso il numero 1,90 che si avvicina al
nostro (2,80) molto più del numero 6,76 dato da Chandler
Roberts e F. Wrightson.
Nel determinare la densità del metallo solido alla tempe-
ratura di fusione, noi ci siamo serviti del volume che il metallo
occupa nell'interno del dilatometro ammettendo che al momento
della solidificazione abbia volume eguale a quello che possiede
il dilatometro alla temperatura di fusione del metallo.
Nel fare il calcolo di tale densità si potrebbe incorrere in
qualche errore se il dilatometro non riuscisse perfettamente riem-
pito di metallo, o se il suo bulbo subisse delle deformazioni in
seguito al forte riscaldamento ed alla pressione che esercita con-
temporaneamente il metallo nel suo interno.
Per vedere quale influenza possono avere tali cause d’errore
abbiamo calcolato, il medio coefficiente di dilatazione cubica dei
diversi metalli fra 0 e 7, valendoci della loro densità a 0° e
di quella alla temperatura di fusione, quale si ricava come sopra
(1) W. CaanpLER Roberts et T. WrIGHTSON, Ann. de Chimie et de Phys.,
t. XXX, 1885.
498 GIUSEPPE VICENTINI E DOMENICO OMODEI
è detto. Qui sotto diamo i numeri ottenuti in tal modo, e di
fronte ad essi quelli che si ricavano per il medio coefficiente di
dilatazione cubica dei metalli entro i medesimi limiti di tem-
peratura, ammettendo per approssimazione che fra 0° e 7°, i me-
talli seguano la stessa legge di dilatazione che fra 0° e 100°.
0,000089| .
« calcolato PRONTO 0,000097 | 0,000125| 0,000047
« trovato |0,000071| 0,000096| 0,000109| 0,000043
|
Ì
I valori di « raccolti nella prima linea sono calcolati in base
ai dati del Matthiessen sulla dilatazione dei metalli fra 0° e 100°
ad eccezione del secondo numero registrato per il Pb che si è
ottenuto con quelli del Fizeau.
Se si confrontano i valori calcolati con quelli che risultano
dalle nostre esperienze, si deve riconoscere una sufficiente concor-
danza, specialmente quando si consideri che le nostre determina-
zioni non sono dirette allo studio della dilatazione termica dei
metalli solidi, per il quale, è inutile dirlo, il metodo usato non
sarebbe certamente da proporre: qui non si tratta che di un
semplice controllo.
Il fatto della sufficiente concordanza ora notata, insieme con
l’altro della concordanza dei valori ottenuti per i singoli metalli
studiati con dilatometri diversi, dimostra il grado buono di ap-
prossimazione che si può ottenere col metodo seguito in questo
studio nel quale abbiamo incontrato gravissime difficoltà speri-
mentali in causa dell’elevata temperatura alla quale si è costretti
di operare.
Il grado di approssimazione che si raggiunge è certamente
superiore, e di molto, a quello al quale potevano aspirare Chandler
Roberts e F. Wrightson col metodo dell’oncosimetro.
Dal Laboratorio di Fisica della R. Università di Cagliari.
Marzo 1887.
499
Sul disperdimento dell'elettricità nell'aria umida ;
Nota di Giovanni GUGLIELMO
Sulla conducibilità elettrica dell’aria umida furono fatte espe-
rienze da molti fisici; però queste esperienze sono isolate, spesso
indirette e non risolvono completamente la questione o lasciano
non pochi dubbi sulla soluzione che risulterebbe da esse.
Per quanto riguarda l’elettricità a basso potenziale appare
certo che l’aria umida è così buona isolante come la secca.
Thomson (Reprint of papers, p. 231) diresse un getto di va-
pore proveniente da acqua in ebullizione su di una sfera elet-
trizzata in comunicazione con un elettrometro a quadranti e non
ottenne diminuzione sensibile della deviazione indicata dall’elet-
trometro.
[Questa esperienza si può ripetere in modo più visibile per
una scuola usando l’elettrometro a foglie d’oro. Si adatti al
bottone di questo un'asta metallica terminata da una sfera,
oppure un largo piatto metallico, e gli si comunichi una carica
conveniente. Se l’elettrometro e le condizioni atmosferiche sono
buone, la carica si conserva lungamente, sia che si diriga o no
sul piatto o sulla sfera il getto di vapore. Se l’aria ambiente è
umida, si potrà collocare l’elettrometro sotto una campana forata
contenente un vaso con acido solforico e pel cui foro si fa pas-
sare l’asta dell’elettrometro o quella adattata senza che tocchi
il vetro. Bisogna inoltre che quest’asta sia circondata ad un
. certo punto della sua altezza da un imbutino per raccogliere
l’acqua di condensazione che cadendo sul vetro dell’elettrometro
distruggerebbe l’isolamento].
Anche le esperienze di Blake (1), sebbene clirette a provare
che il vapore proveniente da acqua elettrizzata non è elettrizzato,
(1) Wied. Ann., XIX, 518 (1883).
500 GIOVANNI GUGLIELMO
provano che l’aria umida, così come la secca, non conduce sen-
sibilmente l'elettricità. I piccoli indizi di conducibilità sono pro-
babilmente dovuti al pulviscolo.
Già da parecchi anni non conoscendo l’esperienza di Thomson
nè essendo ancora pubblicate quelle di Blake, avevo eseguite espe-
rienze sulla conducibilità dell’aria umida, ma non essendo queste
riuscite decisive le tralasciai riservandomi di riprenderle più tardi,
ciò che feci al principio dell’anno scorso. Anche queste esperienze
eseguite dirigendo sulla sfera esterna della bilancia di Coulomb
(disposta come si vedrà in seguito) correnti d’aria satura di va-
pore a varie temperature, oppure immergendo detta sfera in re-
cipienti contenenti nel fondo acqua calda e talora bollente mi
condussero allo stesso risultato. Credo oramai superflua una de-
scrizione più minuta di dette esperienze.
Infine il Luvini (1) ha pubblicato recentemente altre espe-
rienze, in cui usando un sostegno isolante molto lungo per cui
una buona parte sia sottratta all’azione dell’aria umida, giunge
allo stesso risultato.
Le esperienze però mancano o sono poco convincenti nel caso
di elettricità a potenziale elevato. Munck af Rosenschòld (2) fece
molte esperienze che talora paiono accennare ad una maggior
conducibilità dell’aria umida e talora no; però riporta due espe-
rienze che spiegherebbero i risultati apparentemente contraddit-
torii delle altre. Un conduttore isolato ed elettrizzato di cui fu-
rono scaldati i sostegni di vetro, portato in aria umidissima
conservò la sua carica, ma la perdè istantaneamente quando venne
toccato da un filo di seta che trovavasi da lungo tempo in
quell’aria umidissima. Un elettrometro comunicante con una punta
metallica poteva esser caricato sino ad un potenziale assai mi-
nore quando la punta era nell’aria umida, che non quando era
nell'aria secca. Di queste esperienze la prima non era eseguita
in condizioni tali da lasciar scorgere una differenza non troppo
grande fra la conducibilità dell’aria secca e dell’aria umida, ma il
risultato a cui condurrebbe è in contraddizione colle mie esperienze.
Hittorf (3) fece passare del vapore acqueo entro un tubo
metallico, lungo il cui asse trovavasi un filo pure metallico. Il
(1) Rivista scient. ind., XVIII, p. 247 (1886).
(2) Pogg. Ann., t.31, p. 433 (1834).
(3) Wied. Ann., t. 7, p. 593.
SUI DISPERDIMENTO DELL’ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 501
tubo comunicava con un polo d’una pila molto potente, il filo
coll’altro polo ed in uno dei reofori era inserito un galvanometro
molto sensibile. Se il vapore è conduttore il circuito è chiuso
ed il galvanometro dovrà indicare una corrente: ciò però non
avvenne se non quando si producevano scariche fra il filo ed il
tubo. Si può però dubitare che, per quanto grande sia la sen-
sibilità del galvanometro, esso possa non accusare il passaggio
d’una piccola quantità di elettricità che pure potrebbe essere
sufficiente per produrre una notevole diminuzione della differenza
di potenziale fra il filo ed il tubo, quando questi avessero una de-
terminata carica senza essere in comunicazione coi poli della pila.
Marangoni (2) introduce il collo d’una bottiglia di Leida ca-
rica, entro un largo tubo o campana forata in cui giunge del
vapor acqueo proveniente da un pallone con acqua in ebulli-
zione: in 4" 0 5° la bottiglia è scarica. Se però si scalda il collo
ad una temperatura poco al disotto di 100°, si può ripetere la
esperienza senza che la bottiglia perda sensibilmente della sua
carica.
Anche questa esperienza non è decisiva. Si può dubitare se
la bottiglia di Leida sia ben adatta per queste esperienze, giacchè
essa contiene immagazzinata una grande quantità di elettricità
che può supplire alla perdita attraverso l’aria umida e quindi
rendere questa perdita meno sensibile. Inoltre questa quantità
di elettricità deye disperdersi in proporzione non piccola attra-
verso il vetro, che ha una grande superficie, un piccolo spessore
e nel quale il pendio del potenziale è grande, e deve disperdersi
anche per conducibilità superficiale all’esterno del vetro, quindi
in generale la perdita per queste cause potrà rendere meno sen-
sibile quella attraverso l’aria umida. Che la bottiglia coperta da
un velo d’acqua non possa conservare la carica è evidente.
Blake ha fatto esperienze anche a potenziale elevato, ma
riesce assolutamente incomprensibile come abbia potuto evitare
l'influenza delle variazioni di potenziale della macchina elettrica,
e quella dovuta alle perdite per i sostegni sopra un elettrometro
così sensibile come quello a quadranti, che nelle condizioni delle
esperienze di Blake dava una deviazione di 45 divisioni per una
differenza di potenziale d'una Daniell. Del resto il risultato che
(3) Rivista scient. ind., t. 13, p. 10 (1881).
502 GIOVANNI GUGLIELMO
si può dedurre da quelle esperienze, cioè che l’aria umida isola
perfettamente l’elettricità a potenziale elevato, è contraddetto dalle
mie esperienze.
Queste sono le principali esperienze a me note sull’elettricità
a potenziale elevato. Le altre o si prestano poco bene a misure,
o sono assai indirette. Così Emo ha trovato che la differenza
di potenziale occorrente perchè scocchi la scintilla, è a parità
delle altre condizioni, minore nell’ aria umida che nella secca,
ciò che farebbe supporre una diversità del modo di comportarsi
dell’aria umida e della secca. Macfarlane invece avrebbe trovato
che il potenziale occorrente perchè scocchi la scintilla cresce a
misura che cresce l'umidità dell’aria.
1. Esperienze colla bottiglia di Leida. — Ho voluto
ripetere l’esperienza del prof. Marangoni, modificandola però in
modo da poter prolungare a piacimento l’azione del vapore. Perciò
invece di riscaldare il collo della bottiglia ho usato la medesima
con un'asta molto lunga sormontata da una sfera che lasciavo
nell’aria o introducevo nel vapore. Caricavo la bottiglia di Leida
ad un potenziale determinato mediante. una bottiglia elettrome-
trica, introducevo la sfera suddetta nel vapore e ve la lasciavo
un tempo conveniente (uno o due minuti) perchè la carica fosse
notevolmente indebolita e misuravo con uno spinterometro la
distanza esplosiva. Ricaricavo la bottiglia allo stesso potenziale
e la lasciavo nell’aria libera accanto al getto di vapore che
continuava a svolgersi dal pallone, per lo stesso numero di mi-
nuti come nell’esperienza precedente, e misurayo la distanza esplo-
siva, quindi ripetevo l’esperienza nel vapore e così di seguito.
M'assicurai della costanza del potenziale iniziale determinando
parecchie volte la distanza esplosiva subito dopo la carica. Essa
era prossimamente costante: nelle varie serie di esperienze la feci
variare da 4 a 7 mm.
In tutte le esperienze risultò che, mentre per effetto del va-
pore la lunghezza della scintilla si riduceva ad uno o due mil-
limetri, nell’aria essa diminuiva solo di qualche decimo di mil-
limetro.
Importa però notare che, sebbene la bottiglia non fosse molto
carica, sebbene la sfera con cui finiva l’asta avesse il diametro
non piccolo di 3 cm., e la superficie sua fosse ben levigata,
sebbene infine le pareti della campana forata in cui facevo, per
il foro, giungere il vapore fossero abbastanza distanti, tuttavia
SUL DISPERDIMENTO DELL'ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 508
nell’introdurre la sfera nel vapore si udiva un sibilo indicante
che si formavano fiocchetti elettrici. Dubitando che ciò potesse
provenire dal fatto che la sfera fredda a contatto del vapore si
copriva di goccioline (1) che potevano agire come punte, riscaldai
la sfera solo quel tanto occorrente perchè le goccioline non si
depositassero, cessò il sibilo ma il risultato fu essenzialmente lo
stesso, cioè la carica diminuì nel vapore da 7 a 8,5, quindi però
un po’ meno di prima. Provai allora a riscaldare fortemente la
sfera, ad una temperatura che non ho misurato, ma che ritengo
essere verso i 300°. In queste condizioni il vapore, pur essendo
in gran quantità, trovavasi molto lontano dal punto di satura-
zione. In questo caso, sebbene prolungassi assai la durata del-
l’azione del vapore, le differenze della lunghezza della scintilla
dopo che la bottiglia aveva subito o no l’azione del vapore erano
piccole ed irregolari in modo da non lasciar apparire una influenza
della quantità di vapore (molto lontano dal punto di saturazione)
sul disperdimento.
Volli quindi sperimentare sull’aria umida a temperatura or-
dinaria. Per aumentare la superficie disperdente (ciò che però,
secondo altre esperienze, non avrebbe grande influenza perchè
decresce la densità superficiale), adattai sull’asta d’una buona
bottiglia di Leida, munita d’un lungo collo, un conduttore ci-
lindrico di 9 cm. di altezza e 8 di diametro, terminato da due
basi leggermente convesse che si raccordavano perfettamente colla
superficie cilindrica. Caricavo la bottiglia con determinato numero
di giri d’una piccola macchina di Voss, avendo cura di aspet-
tare che essa fosse bene in azione. In tal modo ottenevo una
distanza esplosiva assai prossimamente costante ed uguale a
11 mm. Ponevo la bottiglia carica rovesciata in modo che il
conduttore cilindrico si trovasse nel mezzo d’una grande campana
capovolta, sul cui fondo trovavasi acido solforico che anche ne
bagnava le pareti, e chiudevo la campana con un coperchio di
cartone diviso in due metà, che lasciavano un foro di 5 cm. cogli
orli ricoperti di ceralacca, pel cui mezzo passava la lunga asta
(1) Queste goccioline fanno sì, che poi la scintilla scocchi a distanza mag-
giore; perciò facevo scoccare la scintilla di cui dovevo determinare la lun-
ghezza su una sfera che trovavasi più in basso e non veniva immersa nel
vapore.
504 GIOVANNI GUGLIELMO
della bottiglia di Leida. Dopo 5' o 10' toglievo la bottiglia e mi-
suravo la distanza esplosiva che era ridotta a circa 7 mm.
Ripetevo l’esperienza usando una campana uguale alla prima,
ma con acqua sul fondo e sulle pareti che talvolta erano tap-
pezzate di carta da filtro per conservar meglio l’umidità. In
queste condizioni la scintilla era ridotta a circa 4,5. Tanto
l’acqua che l’acido solforico erano in buona comunicazione col
suolo. Risulterebbe quindi che il disperdimento è maggiore nel-
l’aria umida che nella secca.
2. Esperienze colla bilancia di Coulomb. — Il metodo pre-
cedente non permette d’ottenere una grande precisione e non è
neppure d’un uso comodo.
L'apparecchio di cui mi sono principalmente servito per spe-
rimentare sul disperdimento nell'aria secca e nell’aria umida
consiste in una bilancia di Cou-
lomb, in cui alla sfera fissa sostituii
un’astina di rame di 2 mm. di dia-
metro, sostenuta da un piede iso-
PRESI lante nell’ interno della bilancia ,
uscente all’esterno pel foro del co-
| perchio senza toccare le pareti di
esso foro e terminata da una sfera
Ai d’ottone di 1,4 cm. di diametro.
| Questa astina era circondata al-
| {| l'esterno della bilancia, e sino ad
bagni; $i ata una certa altezza da un tubo di
e
——o
Lena A]
î vetro B verniciato con gomma-lacca,
| i sul quale adattavo un recipiente ci-
Si lindrico A di latta, che perciò aveva
È | il fondo forato, e che conteneva aria
[pae )_..' umidao secca. Al foro di questo re-
cipiente era fissato con mastice un
tubo di vetro cogli orli arrotondati; per mezzo d’un anello di sovero
alla sommità del tubo e d’un anello di gomma alla parte in-
feriore si otteneva una discreta chiusura.
Questo recipiente aveva il coperchio che si poteva togliere, e
l’aria nell’interno poteva esser resa umida tappezzando le pareti
con carta da filtro ben bagnata, e secca mediante un vasetto
anulare di vetro contenente acido solforico. [Questi vasetti anulari
si possono ottenere facilmente, scaldando il fondo d’un pallone
SUL DISPERDIMENTO DELL’'ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 505
fino a rammollimento, facendo rientrare detto fondo con un’asta
di ferro e poi tagliando in giro col carbone ad altezza conve-
niente le pareti del pallone e del fondo rientrante].
Il tubo di vetro aveva saldato lateralmente un tubetto in
cui scorreva un grosso filo di rame, di diametro uguale a quello
interno del tubetto, che permetteva di caricare e scaricare la
bilancia (ossia l’astina e la sfera mobile) senza togliere il reci-
piente di latta.
Con questa disposizione i sostegni trovavansi nell’aria della
bilancia disseccata da un largo vaso pieno d’acido solforico con-
centrato (il quale serviva anche allo smorzamento delle oscilla-
zioni mediante un cilindretto di vetro attaccato al filo di tor-
sione), mentre la sfera d’ottone, che giungeva a metà altezza nel
recipiente di latta, ed una parte dell’ astina si trovavano nel-
l’aria di cui si poteva variare il grado di umidità.
Dapprima temendo che il vapor acqueo potesse penetrare
dal recipiente coll’aria umida nella bilancia in quantità suffi-
ciente per diminuire l'isolamento dei sostegni (poichè osservavo,
contrariamente alle esperienze a basso potenziale, un'influenza
dell’umidità dell’aria sul disperdimento), usai il tubo di vetro
lungo fino a 25 cm., indi ritenni più che sufficiente un tubo
di vetro di 14 mm. di diametro interno e 12 cm. di lunghezza.
Da un lavoro sul coefficiente di diffusione nel vapor acqueo (1)
i cui risultati furono confermati dal Winkelmann (2), risulta che
la quantità di vapore che attraversa un tubo pieno d’aria, nelle
condizioni di queste esperienze, è prossimamente di mgr. 0,024
per minuto primo. Questa piccola quantità di vapore giungendo
lentamente e diffondendosi nel grande spazio interno della bilancia
ed essendo mano a mano assorbita dall’acido solforico non può
certamente agire in modo sensibile sui sostegni.
Per sperimentare procedevo in tre modi. Talvolta caricavo
la bilancia ad un potenziale conveniente, adattavo il recipiente
con aria secca ed osservavo la variazione della deviazione per
un certo tempo (10' a 30'), indi toglievo il recipiente con aria
secca e ve ne sostituivo un altro uguale, ma con aria umida,
osservavo similmente la variazione della deviazione per un certo
(1) Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XIX (1882). —
Repertorium der Physik, XIX (1883).
(2) Wied. Ann., XXII, p. 159 (1884).
506 GIOVANNI GUGLIELMO
tempo e quindi sostituivo il recipiente con aria secca e così di
seguito. Questo metodo permette di scorgere differenze lievi nel
potere isolante dell’aria secca e della umida; solo è un po’ in-
comodo perchè facilmente avviene che la sfera d’ottone nel pas-
sare per il foro del recipiente di latta s’avvicini tanto alle pareti
del foro (anche per effetto dell’attrazione elettrostatica) da pro-
durre una scintilluzza e quindi scaricarsi parzialmente.
Perciò talora caricavo la bilancia mediante il filo laterale,
mentre era adattato uno dei recipienti di latta ed osservavo la
variazione della deviazione, fintantochè essa fosse assai piccola,
quindi scaricavo la bilancia, e ripetevo l’operazione coll’altro
recipiente. Questo modo richiede assai maggior tempo, ed è meno
sicuro giacchè il disperdimento dell’elettricità avvenendo di solito
assai lentamente, le esperienze da paragonare sono eseguite ad
intervalli di tempo assai lontani, e quindi si può dubitare che
intanto una qualche causa inosservata produca una variazione delle
deviazioni indipendentemente da quella che si vuole constatare.
È da notare che nei primi minuti dopo avvenuta la carica
il disperdimento è grande (perchè una parte dell'elettricità va a
caricare i sostegni) e decresce rapidamente, e solo dopo pochi
minuti prende un andamento uniforme. Così pure se la bilancia
è scarica da molte ore, il disperdimento riesce, a parità di po-
tenziale, maggiore. Ho trascurato perciò la prima serie di osser-
vazioni e le prime osservazioni di ciascuna serie.
I due recipienti di latta coll’aria umida e coll’aria secca
erano tenuti sempre chiusi con un tappo per evitare che la sec-
chezza o l’umidità dell’aria interna venisse modificata dall’aria
dell'ambiente, e che vi penetrasse del pulviscolo; essi non veni-
vano aperti che al momento di essere adattati sul tubo di vetro
ed accanto ad esso. La loro altezza era di 11 cm., il diametro
di 8 cm.
Il terzo modo consisteva nell’adattare sul tubo un recipiente
di latta con aria comune, e colle pareti ricoperte con carta da
filtro asciutta, e munito d’un imbutino che per un apposito foro
nella base superiore penetrava nell'interno del recipiente e toc-
cava coll’estremità affilata la carta da filtro della parete laterale.
Caricavo la bilancia ed osservavo la variazione della deviazione
che in giornate asciutte era abbastanza piccola, avendo cura di
lasciar il recipiente di latta a posto per molto tempo acciocchè
l’aria si disseccasse, quindi versavo per l’imbutino 5 o 6 cm.?
SUL DISPERDIMENTO DELL’'ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 507
di acqua, che grazie alla carta da filtro bagnava anche parte
delle pareti ed osservavo la variazione della deviazione in queste
condizioni in cui nulla era stato mutato fuorchè l'umidità del-
l’aria. Talvolta sostituivo ancora un cilindro simile al primo, ma
ancora asciutto ed osservavo la variazione della deviazione. Le
esperienze furono eseguite ora con elettricità negativa, ora con
positiva senza diversità nei risultati.
Anche in queste esperienze allorchè caricai la bilancia ad
un potenziale non troppo elevato, sebbene l'isolamento dei so-
stegni fosse assai grande, sebbene paragonassi i due estremi del-
l’aria assolutamente asciutta e di quella satura di vapore, e
sebbene la bilancia fosse assai sensibile, non potei riscontrare
alcuna differenza fra il disperdimento nell’aria umida e nell'aria
secca. Per dare un’idea dell'andamento e delle condizioni delle
esperienze, riporto nelle seguenti tabelle i risultati di due fra le
molte serie di esperienze eseguite nel primo dei modi indicati.
Nella prima colonna trovansi i tempi, nella seconda le deviazioni
(omettendo quelle intermedie per brevità), e nella terza le va-
riazioni della deviazione per minuto primo. La temperatura in
questa come nelle altre esperienze era presso a poco di 15°, la
pressione atmosferica di 740 mm. La forza di torsione del filo
oratdi,0,3..(C. G.:S.).
0° | 4851
A P 0! 49° 1
Aria n go
OA E RA i i
A L9 | 47,0 ian
Aria ; n |
umida | 42'| 45,5 0,062 ni a AE 9 0,073
Aria 46'| 45,1 S
secca | 61'| 44,2 0,060
In queste esperienze è da notare che, sebbene la variazione
della deviazione sia molto piccola, tale da non Jlasciar scorgere
una differenza fra i disperdimenti minore di %4, del loro valore,
tuttavia la bontà dell'isolamento e quindi il lango tempo nel
quale tali variazioni si sono prodotte, rendono manifesto che il
potere isolante dell’aria umida per questi potenziali è grandis-
simo e probabilmente, come quello dell’aria secca, infinito.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, X.XII, 38
508 GIOVANNI GUGLIELMO
Le esperienze a potenziale più basso confermano tutte tale
risultato ; a potenziali di poco più elevati di quelli delle espe-
rienze sopra riportate, ho cominciato ad osservare una differenza
abbastanza sensibile fra il disperdimento nell’aria umida e quello
nell’aria secca. Nelle seguenti tabelle sono i risultati di due
serie di esperienze a potenziali più elevati, che però sono i più
bassi ai quali ho potuto osservare una differenza fra i due di-
sperdimenti in questione.
Uda BI
Aria ? 0.085 Aria
secca 13 99,4 089 secca
I ar)
Aria 15 97 39 47 Aria
co e Rai pa umida
38'| 49,0 | 0,27
Du III TNA TANTA i
ui pe 18 ti 0,057 Aria
i 8 47 560 secca
Aria
umida
In queste esperienze è visibile già per le deviazioni al di-
sopra di 45° una differenza fra i due disperdimenti, e questa
differenza cresce rapidamente a misura che cresce il potenziale.
Invece dalle due tabelle riportate precedentemente risulterebbe
che tale differenza non è sensibile per deviazioni minori di 49°.
A spiegare la differenza non grande fra i due valori osserverò
che le esperienze sono state eseguite a lunghi intervalli di tempo,
durante i quali la bilancia fu modificata per adattarla ad altre
esperienze, quindi non è improbabile che si sia prodotto qualche
cambiamento o nella forza di torsione del filo, o nel grado di
umidità dell’aria a seconda del modo con cui era stata bagnata
la carta, o nelle condizioni atmosferiche.
Feci quindi altre esperienze a potenziale più elevato e perciò
cambiai il filo di torsione della bilancia sostituendone un altro
la cui forza di torsione era uguale a 4,6. Ecco nella seguente
tabella i risultati d’una serie di esperienze.
SUL DISPERDIMENTO DELL’ ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 509
Ù > (o) ;
di 479,1 0,24 Aria
È 45 ,9 secca
Aria / 2 0,22
10 44 ,8
secca 1 È 0,16
RE a a a
30' 42 ,0 | i SARA:
8811832 ,0
0,52
Aria 70) 299 0 3È Aria DE 0,038
umida 42" | 28.6 a secca i
put grigi alb
| Aria 140'| 29 ,4
umida | 175/| 21 9 0,034
Anche da questa serie di esperienze risulta che il disperdi-
mento nell'aria umida per potenziali elevati è maggiore che nella
secca, ed a misura che il potenziale cresce, cresce anche tale
differenza, ma assai più rapidamente. Da queste esperienze ap-
parirebbe che questa differenza cominci a farsi sentire al poten-
ziale corrispondente alla deviazione di 23°; è però da notare
che la sfera mobile non avendo subìto l’azione dell'aria umida
trovasi ad un potenziale maggiore. Da esperienze eseguite a poten-
ziali prossimi a quello in cui tale differenza cessa di farsi sen-
tire, risulterebbe che essa è ancora sensibile sebbene minima per
la deviazione di 18°. Tutte le altre serie di esperienze eseguite
anche nel secondo e nel terzo modo, e delle quali sarebbe lungo
ed inutile riportare i numerosi risultati numerici conducono alla
stessa conclusione.
Avrei voluto sperimentare a potenziali ancora più elevati per
determinare la legge con cui variava la differenza dei due di-
sperdimenti al crescere del potenziale, ma la carica si disperdeva
specialmente nell’aria umida, con tal rapidità da impedire il
confronto. Cercai di rallentare questo disperdimento, ponendo
l'astina in comunicazione coll’armatura interna d’una piccola
bottiglia di Leida (che conservava lungamente quasi inalterata
la carica) collocata nell’interno della bilancia, ma essa perturbava
troppo il regolare andamento della bilancia colle azioni elettro-
statiche esercitate dal collo elettrizzato.
L'apparecchio usato in queste ricerche non permette certo
una valutazione esatta del valore assoluto del potenziale al quale
510 GIOVANNI GUGLIELMO
comincia a farsi sentire la differenza fra il disperdimento nel-
l’aria umida e quello nell'aria secca. Può essere utile però una
conoscenza approssimata. Perciò noto che la distanza del centro
della sferetta mobile dall’asse di rotazione era di 7,3 cm., e che
il diametro della sferetta era di 1 cm. Riguardo al conduttore
fisso (astina) trovai coll’esperienza che la sua azione era all’in-
circa la stessa di quella d’una sfera di 1 cm. di diametro cari-
cata allo stesso potenziale. Naturalmente tale uguaglianza non
potrebbe essere che approssimativa, giacchè il modo con cui varia
l’azione elettrostatica dell’astina colla distanza è diverso da quello
con cui varia l’azione d’una sfera.
Ammettendo dunque che il potenziale a cui comincia ad esser
sensibile la differenza fra l’aria umida e la secca corrisponda
alla deviazione di 45° col filo sottile, questo potenziale in valore
assoluto sarà all’incirca uguale a 2,1 (0. G. S.). Nelle esperienze
col filo più grosso nelle quali si può ritenere che la differenza
cominci a farsi sentire per una deviazione uguale a 18°, il valore
di detto potenziale sarebbe di 2,0. Si può quindi ritenere che
la differenza fra i due disperdimenti cominci ad essere sensibile
verso 1 600 Volt. Tuttavia la lunghezza della scintilla fra sfere
di ottone di 1,4 cm. di diametro misurata con uno spinterometro
imperfetto, per una differenza di potenziale capace di produrre
le suddette deviazioni, risultò di circa 0,08 mm., ciò che cor-
risponderebbe ad una differenza di potenziale un pò maggiore
di 600 Volt.
3. Influenza dell'umidità sul disperdimento pei sostegni.
— Stabilito così che per un potenziale sufficientemente elevato
l'elettricità si disperde più facilmente attraverso l’aria umida
che attraverso la secca, volli osservare l’influenza dell’aria umida
sul potere isolante dei sostegni per vedere quale delle due cause
fosse predominante nel disperdimento dell’elettricità nell’aria
umida. Credetti inutile sperimentare su sostegni di cattivo vetro
non verniciato che certamente ricopresi d’un velo d’umidità, e
mi contentai di sperimentare su sostegni di vetro buon isolante
e ricoperto di vernice di gomma-lacca.
A tale scopo adattai sulla sfera d’ottone verticalmente un
tubetto del vetro suddetto lungo 2,5 cm. e di 2 mm. di dia-
metro, il qual tubetto terminava superiormente con una elica di
filo di packfong che veniva a contatto colla parete superiore del
recipiente di latta contenente l’aria umida o l’aria secca. Ope-
n
SUL DISPERDIMENTO DELL'ELETTRICITÀ NELL'ARIA UuMMma 511
ravo del resto come nelle esperienze precedenti cioè caricando la
bilancia ed adattando alternativamente i due recipienti con aria
secca e con aria umida. Sperimentai però solo a potenziali bassi
per non avere il disperdimento attraverso l’aria umida che avrebbe
complicato il fenomeno.
L'andamento delle esperienze fu in questo caso assai meno
regolare che non nei precedenti. Probabilmente il velo di umidità
di cui si ricopre il tubétto è diverso secondo che la temperatura
ambiente cresce o decresce, o per altre cause, e la variazione di
potenziale per minuto non è così costante nelle varie esperienze
come precedentemente. Risultò tuttavia che questa variazione
come era da prevedersi, è maggiore nell'aria umida che nella secca
anche per potenziali bassissimi. Però nonostante che il tubetto
in questione talora fosse stato tenuto appositamente per molte
ore nell'aria umida, il suo potere isolante si conservò abbastanza
grande. Così per una deviazione di 46° col filo più sottile, la
variazione fu di 0,26 nell’aria umida e di 0,06 nella secca.
Risulterebbe da queste esperienze che il disperdimento per
un sostegno di buon vetro verniciato di recente, nell’aria umida
è dello stesso ordine di grandezza di quello attraverso l’aria
umida, tuttavia non so se ciò sia vero anche per conduttori e so-
stegni più grandi ed a potenziali più elevati. Provai a fare qualche
esperienza a potenziali più elevati con un conduttore elettrizzato
nell'aria umida e il sostegno nell’aria secca e viceversa, ma non
arrivai ad un risultato decisivo. Del resto se l’elettricità a po-
tenziale elevato nell’aria umida si disperda più attraverso l’aria
o pei sostegni, dipenderà sempre non solo dalla natura dei so-
stegni, ma anche dalle dimensioni relative dei sostegni e del con-
duttore.
4. Influenza della quantità di vapore e del grado d’umi-
dità dell’aria. Dubitando che l'influenza dell’ umidità dell’aria
sul disperdimento si verificasse solo allorchè l’aria era satura di
vapore e quindi in condizioni speciali, provai a bagnare la carta
da filtro di cui era tappezzato uno dei recipienti di latta con
acqua satura di sal marino. In tal modo la tensione del vapore
veniva ridotta di qualche millimetro, tuttavia i risultati furono poco
diversi da quelli ottenuti con l’aria satura di vapore.
Volli anche paragonare il disperdimento nell’aria secca o
nell’aria satura d’umidità con quello nell’aria ambiente. Perciò
dopo aver osservato la variazione della deviazione nell’aria secca
512 GIOVANNI GUGLIELMO
nel solito modo, toglievo il recipiente di latta e lasciavo la sfera
nell'aria ambiente. Ecco i risultati d’una serie di esperienze du-
rante le quali lo stato igrometrico era 0,67.
| 0° 5136
Aria ; A | 0,43
secca 10 47,0 | 0.26
17 45 ,2 7
Arì 9° :
Ambiente DI 53 Ù 1,34
Aria 30 28 RU
secca | 48' 26,9 0,10 |
Aria | Sale 2750
si | 60! 4.9 0,23
I
Risulta anche da queste esperienze (sebbene la sfera nell’aria
ambiente fosse sottratta all’azione del recipiente di latta in comu-
nicazione col suolo che deve facilitare la dispersione dell’elettricità)
che per diminuire il potere isolante dell’aria non è necessario
che il vapor acqueo sia saturo. Il disperdimento nella serie prece-
dente è di poco inferiore a quello nell’aria umida. È però da notare
che esso deve essere un po’ ingrandito per l’azione del pulviscolo
atmosferico, che nei recipienti di latta poteva ritenersi trascurabile.
Per accertarmi meglio che il disperdimento nell’aria umida
non fosse dovuto unicamente all’essere il vapore saturo, oppure
unicamente alla quantità di vapore ripetei le esperienze di para-
gone fra il disperdimento nell’aria secca e quello nell’aria umida,
con questo che prima d’'adattare sia il recipiente con aria secca
sia quello con aria umida scaldavo la sfera d’ottone e parte
dell’astina ad una temperatura di poco superiore ai 100°. Alla
fine delle osservazioni sia nell'aria secca sia nell'aria umida ossia
prima di ripetere il riscaldamento , la sfera conservava ancora
una temperatura di circa 40° a 50°. In queste condizioni si ma-
nifestò ancora una differenza fra il disperdimento nell’aria umida
e quello nell’aria secca; tale differenza risultò però assai minore
che colla sfera fredda ; siccome la sfera s’andava raffreddando ed
il potenziale andava diminuendo, la variazione della deviazione
nell'aria umida che tendeva a crescere per la prima causa ed
SUL DISPERDIMENTO DELL’ ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 515
a diminuire per la seconda rimaneva press’a poco costante, invece
di decrescere rapidamente come avviene quando la sfera è fredda.
Anche ciò prova che il maggior disperdimento nell’aria umida si
presenta anche quando il vapore è abbastanza lontano dal punto
di saturazione ; tuttavia esso diminuisce e probabilmente s’avvicina
a quello nell’aria secca, quando il vapore s’allontani ancora dal
punto di saturazione.
5. Influenza della levigatezza della superficie e della gran-
dezza della sfera da cui si disperde Velettricità. Si potrebbe
domandare se tale maggior disperdimento nell’aria umida avvenga
per convezione oppure mediante produzione di piccole scariche, e
se per avventura esso non sia essenzialmente dovuto alla pre-
senza di asperità nella superficie del conduttore, le quali fun-
zionino come piccole punte che facilitino la formazione di tali
scariche. Dubitando anzitutto che questo maggior disperdimento
non fosse dovuto a qualche peluzzo della carta da filtro che fa-
cesse da punta e sottraesse l'elettricità, feci alcune esperienze
usando prima recipienti di latta più grandi, cioè di 11 cm. di
diametro e 14 di altezza, quindi usando invece del recipiente di
latta con carta da filtro una bottiglia di vetro colle pareti rico -
perte da un velo d’acqua in cui avevo disciolto un po’ di gomma
perchè rimanesse più aderente. Questo velo d'acqua era in comu-
nicazione col suolo. I risultati furono gli stessi come preceden-
temente. Provai in seguito a rendere la superficie della sfera
d’ottone levigata quanto meglio potei, ma sempre senza che il
risultato cambiasse.
Per avere una superficie levigata quanto è possibile fisi-
camente, pensai di usare una superficie liquida. Adattai perciò
alla sommità dell’astina un tubetto di vetro verniciato terminato
da un imbuto la cui apertura aveva un diametro di 1,5 cm.
Questo tubetto penetrava nel tubo B per circa 1 cm., dimodochè
l’astina era sottratta alle variazioni dell’umidità dell’aria, ed era
poi chiuso in fondo con un po’ di ceralacca, Nell’imbutino poi
versai del mercurio pulito e filtrato per un imbuto affilato, dimo-
dochè la sua superficie era lucentissima e senza la minima traccia
visibile di pulviscolo.
Ecco i risultati d'una serie di esperienze dalle quali risulta
così come da molte altre nelle quali era stato rinnovato talora il
mercurio, che sebbene la superficie fosse levigata quanto era possi-
bile, il disperdimento era maggiore nell’aria umida che nella secca.
514 GIOVANNI GUGLIELMO
> |
Aria [A MER IT: 7;
secca 13' | 50.1 0/35
15 | 4502
Ea i 1,6
AT hl; | 42,0 075
umida 19. CI Deo 045
DE 39,6 è
» 24° 34,9
A p È E)
= 26° 94,35 0,20
La differenza fra il disperdimento nell’aria umida e quello
nell’aria secca è minore in queste esperienze che nelle precedenti :
è però da notare che la superficie elettrizzata che disperde elet-
tricità nell'aria umida in queste condizioni è assai minore. Per
assicurarmi che tale fosse la causa della minor differenza nei
disperdimenti, tolsi il mercurio e posi nell'imbutino la solita sfera
d’ottone che inferiormente veniva a contatto coll’estremità del-
l’astina e rimaneva all’infuori dell’orlo dell’imbutino per un po’
più della metà. Le esperienze eseguite subito dopo quelle col
mercurio diedero prossimamente uguali valori pei disperdimenti
nell’aria secca e umida.
Provai anche a mettere nell’imbutino acqua invece che mer-
curio, ed ottenni presso a poco gli stessi risultati. Da queste espe-
‘ rienze risultò pure che il disperdimento nell’aria secca è prossima-
mente lo stesso per l’acqua, per il mercurio o per la mezza sfera
d’ottone. Quindi sebbene si possa ritenere che l’aria al disopra
della superficie dell’acqua, sia satura di vapore almeno per uno
strato infinitesimo, pure il disperdimento avviene come nell’aria
secca e non come nell’aria umida. Pare che l'elettricità che proba-
bilmente sfugge dalla superficie dell’acqua, la quale trovasi nell’aria
umida, non possa propagarsi più oltre dove l’aria umida cessa.
Ho cercato anche di determinare quale fosse l’influenza della
grandezza della sfera d’ottone (ossia l'influenza della densità elet-
trica superficiale) sul disperdimento. Le sfere che paragonai erano
quella solita di 1,45 cm. di diametro e un’altra di 3 cm. di dia-
metro, e talvolta lasciai la sommità ben arrotondata e lisciata
dell'astina senza sfera. In tutti i casi l’astina era circondata alla
parte superiore da un tubetto di vetro, di modo che la super-
"ssi
SUL DISPERDIMENTO DELL ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 515
ficie esposta all’aria umida era solo quella delle sfere o quella
dell’astina per un tratto di circa 1 cm.
Acciocchè le esperienze fossero meglio paragonabili, caricavo
la bilancia dopo che il recipiente con aria umida era a posto,
mediante il filo laterale e con una bottiglia di Leida che con-
servava la carica per molto tempo senza grande variazione. Quindi
non avevo bisogno di rinnovare la carica della bottiglia ; la stessa
bastava per tutte le esperienze da paragonare e che erano fatte
così a potenziali poco diversi ed in un modo simile per tutte.
Osservate le deviazioni per un certo tempo, toglievo il coperchio
del recipiente di latta, (perchè la sfera grande non sarebbe passata
per il foro del fondo) cambiavo la sfera oppure la toglievo del
tutto, rimettevo il coperchio, ricaricavo colla stessa bottiglia e
così di seguito ed alternativamente.
Nella seguente tabella trovansi i risultati di parecchie espe-
rienze; da esse e dalle altre che sarebbe lungo riportare risulta
che il disperdimento è assai prossimamente lo stesso nei tre casi
e quindi l'aumento della densità elettrica è compensato dalla
diminuzione della superficie sebbene la prima varii proporzional-
mente al quadrato del raggio e l’altra in ragione inversa della
prima potenza del raggio.
Sfera piccola
Sfera grande
Sfera piccola
Sfera grande
Sfera piccola
17 49,0
24 43,1
Senza sfera
Sl6 GIOVANNI GUGLIELMO
È però da notare che in queste esperienze come in quelle
sull’infuenza del grado d’umidità, si seguì il secondo dei modi
indicati in principio. In esso sì richiede un certo tempo fra una
serie e l’altra da paragonare, si apre il recipiente di latta
e sì modificano sempre più o meno le condizioni, per cui le
esperienze da paragonare possono sentire l'influenza di cause
diverse da quelle che si vogliono riconoscere e quindi il metodo
perde della sua precisione, come risulta anche dal paragone dei
numeri ottenuti in condizioni apparentemente uguali.
Dalle esperienze con superficie levigatissime o liquide e da
queste con conduttori aventi curvature diverse risulterebbe dunque
che il maggior disperdimento nell’aria umida non è causato dalla
presenza di punte. Provai quindi a sostituire alla sfera una punta
acutissima d’ago, sporgente all’insù dalla sommità dell’ astina
1,5 cm. Sperimentai necessariamente a potenziali poco elevati e
risultò che il potenziale al quale incomincia a farsi sentire la
differenza fra i disperdimenti nell’aria umida e nella secca è lo
stesso come per la sfera. M'’assicurai di questo fatto importante
ripetendo le esperienze alternativamente colla sfera e colla punta,
e ciò con entrambe le elettricità. Per maggior sicurezza operai
anche nel modo seguente: misi sulla punta una sfera d’ottone
cava e forata che la copriva interamente ed osservai la varia-
zione della deviazione nell'aria umida, quindi tolto il coperchio
del recipiente di latta con un uncino isolante tolsi la sfera, e
rimesso il coperchio continuai le osservazioni. In tal modo nulla
veniva cambiato fuorchè sull’astina si trovava la punta nuda invece
della sfera. Ecco nella seguente tabella i risultati d’una serie di
esperienze con elettricità positiva: un ugual risultato ebbi nelle
altre serie eseguite ora con elettricità positiva ora con negativa.
Sg n: na 0,05
Li sgraia Dal Si pi 0,08
e SO * i 0,04
a n Do , 0,036
Sen 9]. put
nell’aria umida | 127' LIST
SUL DISPERDIMENTO DELL'ELETTRICITÀ NELL'ARIA UMIDA 517
Non pare dunque che il maggior disperdimento nell’aria
umida sia dovuto a scariche che si formino sulle asperità del
conduttore più facilmente nell'aria umida, poichè in tal caso esso
dovrebbe cominciare a prodursi ad un potenziale minore per la
punta che non per la superficie levigata della sfera.
Disperdimento nell'aria satura di vapori di sostanze iso-
lanti. È importante di vedere se il maggior disperdimento nell’aria
contenente vapor acqueo dipende dalla conducibilità dell’ acqua
o solo dallo stato speciale del vapore prossimo allo stato di satu-
razione. Ho perciò eseguito esperienze nell'aria satura di vapori
di liquidi isolanti. Usai il terzo dei modi precedentemente indicati,
ossia osservavo la variazione della deviazione essendo adattato un
recipiente di latta colle pareti tappezzate di carta da filtro, prima
con aria comune, quindi dopo avervi versato il liquido voluto e
finalmente dopo aver sostituito un cilindro di latta con aria co-
mune. Sperimentai colla parte più volatile del petrolio che si
yende comunemente col nome di benzina, e colla benzina pura
proveniente dalla casa Trommsdorft. Risultò per l’aria satura dei
vapori di ciascuno di questi liquidi un disperdimento maggiore
che per l’aria, tuttavia la differenza fu molto piccola e quasi
insensibile per cui essa è probabilmente dovuta a qualche causa
d’errore. Avviene difatti, che essendo questi vapori più pesanti
dell’aria e non assorbibili dall’acido solforico, pervengono facil-
mente nell'interno della bilancia e si depongono sui sostegni
alterandone il potere isolante. Risulta dunque che il disperdi-
mento nell’aria non è alterato o lo è pochissimo dalla presenza
di vapori saturi di liquidi isolanti.
Sperimentai anche coll’alcool assoluto, che come l’acqua è un
mediocre conduttore però contrariamente alla mia aspettazione
risultò sempre un aumento piccolissimo del disperdimento per
effetto dei vapori saturi di alcool. L'effetto di questi vapori po-
trebbe forse essere più sensibile a potenziali più elevati. Ecco i
risultati di una delle esperienze sull’alcool.
518 GIOVANNI GUGLIELMO — SUL DISPERDIMENTO, ECC.
° 0° Sn?
Aria comune i ? 0,17
10 52,5 i
Aria (RI) 52 59
con vapore alcoolico 21! RA 0,18
5)
28° 50 ,9
i 0,16
ria comune 31 49 ,0 E)
Conclusione. Risulta dalle precedenti esperienze:
1° Che l’aria umida isola così bene come la secca con-
duttori a potenziali inferiori a circa 600 volt, ma che per po-
tenziali più elevati il disperdimento nell'aria umida è maggiore
che nella secca e tanto maggiore quanto più il potenziale è ele-
vato ed il vapore vicino al punto di saturazione. Non pare che
abbia influenza la quantità di vapore.
2° Il potenziale suddetto a cui comincia a farsi sentire
la differenza fra il disperdimento nell’aria umida e quello nella
secca è lo stesso per una sfera o per una punta acutissima.
3° Questo maggior disperdimento nell’aria umida si verifica
anche da superficie levigatissime ed anche liquide, Non pare
dunque che esso sia dovuto a scariche dalle asperità che si pro-
ducano più facilmente nell’aria umida che nella secca.
4° Esso si verifica a parità di potenziale in ugual misura
qualunque sia la grandezza della sfera che disperde l'elettricità,
per cui entro i limiti delle esperienze l'aumento della superficie
compensa la diminuzione della densità elettrica.
5° Un maggior disperdimento non si verifica (o si verifica
molto debolmente) nell’aria satura di vapori di sostanze isolanti.
Gabinetto fisico della R. Università di Sassari.
Aprile 1887.
ee "©
Contributo allo studio
dello sviluppo e della patologia delle capsule soprarenali
pel Dott. Pietro CANALIS
Con questi esperimenti ho cercato di portare un contributo
alle scarse cognizioni che si hanno sulla rigenerazione del paren-
chima e sulla cicatrizzazione delle ferite delle capsule soprare-
nali, valendomi in ispecial modo del criterio della moltiplicazione
degli elementi per cariocinesi.
Prima però di accingermi all'esame delle capsule ferite, era
interessante di vedere per qual processo si moltiplichino le cellule
di quest’organo durante lo sviluppo, e se avvenga in esso una
proliferazione cellulare anche nello stato adulto, ed ho perciò
fatto osservazioni in proposito. i
Gli animali, di cui mi servii, furono tutti uccisi apposita-
mente, e le loro capsule, immediatamente esportate, vennero con-
servate in due modi differenti: una parte fu messa in alcool e
acqua a parti uguali per 24 ore e poi in alcool a 38°, ovvero
in quest'ultimo direttamente ; un’ altra parte fu indurita nel li-
quido di Flemming.
Soluzione acquosa d’acido cromico 1:100. 15 cc.
Soluzione acquosa d’acido osmico 2:100 AMPCCE
Acido acetico 10 goccie.
Le sezioni dei pezzi induriti in alcool le coloravo col metodo
del Prof. Bizzozero (1) per vedere le figure cariocinetiche, e col
(1) BizzozeRo G., Nuovo metodo per la dimostrazione degli elementi in
cariocinesi nei tessuti (Zeitschrift fiur wissenschaftliche Mikroskopie, Bd. III,
Heft 1°, 1886). Le sezioni devono subire questo trattamento : alcool assoluto
— liquido di Ehrlich (5-10 m') — lavatura nell’alcool assoluto (5 m") — so-
luzione iodica (l di iodo, 2 di ioduro di potassio - 300 di acqua, per 2 m'") —
alcool assoluto (20 m") — soluzione d’acido cromico 131000 (30 m”) —
alcool assoluto (30 m') — ripetuta lavatura nell’olio di garofani e poi chiu-
sura in Damar,
520 PIETRO CANALIS
carmino alluminato, carmino picrico, ematossilina per lo studio
delle altre particolarità di struttura. I pezzi induriti nel liquido
di Flemming, al 3° o 4° giorno venivano tolti dal miscuglio e
lavati per 24 ore sotto un filo d’acqua, quindi passati in acqua
e alcool (60 di alcool per 40 d’acqua) per altre 24 ore e poi
messi in alcool assoluto. Per la colorazione, seguendo la proposta
di Podwissozki, mi servivo di una soluzione forte acquosa di saf-
franina nella quale lasciavo le sezioni da 10-60 minuti; quindi
le lavavo in acqua per 1-2 minuti, e dopo averle decolorate
per pochi secondi in alcool leggermente acidulato (circa 1/1000
di acido cloridrico), e per 3 minuti in alcool assoluto puro, le
trasportavo in olio di garofani e in gomma Damar.
Per la ricerca delle cariocinesi nelle capsule surrenali ado-
perai il processo di Flemming soltanto come metodo di controllo,
e ciò per alcuni svantaggi che esso presenta. Anzitutto è un pro-
cesso troppo lungo, poi la colorazione non avviene che fin dove
penetra l’acido osmico e quindi soltanto negli strati superficiali
del pezzo, cosicchè possono sfuggire all'osservazione le figure ca -
riocinetiche delle cellule profondamente situate. È bensì vero che
a questo inconveniente sì può ovviare riducendo l’organo in pezzi
molto piccoli, ma d’altronde ciò può far perdere rapporti che
interessa di conservare. Inoltre questi pezzi vanno sezionati e
colorati non più tardi di 2-5 giorni dacchè stanno nell’alcool
assoluto, altrimenti la colorazione riesce meno bella. Mi servii
invece preferibilmente del metodo del Prof. Bizzozero, perchè rende
le figure cariocinetiche spiccate quanto il metodo di Flemming
senza presentarne gli inconvenienti. Diffatti 1 pezzi da conservarsi ‘
possono essere molto più grossi, perchè l’alcool penetra molto
profondamente, e la colorazione si fa egualmente bene in tutto lo
spessore del pezzo, sicchè le figure mitotiche che vi si trovano
risaltano tutte; il processo di conservazione è più semplice , ed
i pezzi sì possono esaminare anche dopo un anno, come è ca-.
pitato a me, senza che si abbia perciò a lamentare il menomo
inconveniente nella colorazione.
Noto pure che il metodo di indurimento del Flemming l’ho
trovato utilissimo nello stadio delle ferite del polmone, perchè
qui il liquido penetra facilmente in tutto il pezzo dandogli una
consistenza che non si può ottenere coll’alcool.
RENI,
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 521
Capsule surrenali in via di sviluppo.
Nessuno che io mi sappia ha studiato lu scissione endiretta
degli elementi nelle capsule surrenali in via di sviluppo; invece
si discute ancora nei lavori più recenti l’origine delle due sostanze
corticale e midollare. Citerò qui le principali opinioni che stanno
ancora di fronte, perchè, come vedremo, lo studio della cario-
cinesi serve a dilucidare la questione. Kélliker (1) ammette che i
loro germi abbiano origine, quello della corticale dal mesoderma
e quello della midollare da elementi del simpatico. Quest’ idea
fu confermata da Braun (2), il quale trovò che anche nei rettili
la parte corrispondente alla sostanza corticale dei mammiferi si
sviluppa dal mesoderma, e la parte midollare dal simpatico. Alla
stessa conclusione venne Mitsukuri (3) studiando lo sviluppo delle
capsule surrenali nei conigli. Ma a questo modo di intendere l’em-
briogenesi delle capsule soprarenali si oppone il Gottschau (4). Egli
dall'esame delle capsule in una serie grandissima di mammiferi
adulti e negli embrioni di porco, di pecora e di coniglio, venne
alla conclusione: che la sostanza midollare si presenta solo in un
periodo avanzato della vita embrionale o anche dopo la nascita,
e che si sviluppa a poco a poco dalla sostanza corticale. Si trat-
terebbe adunque, secondo lui, di una continua trasformazione
della sostanza corticale nella midollare.
Io ho sottoposto ad esame le capsule surrenali di feti di
cane giunti a termine e di cani neonati uccisi poche ore dopo
la nascita; di feti di coniglio lunghi (dal vertice alla radice della
coda) 25 e 67 mm.: di coniglio di 11 e di 75 giorni; di feti
di cavia lunghi 11 cm.; di cavia neonata al 2° giorno di vita
e di cavia di 8 giorni.
(1) KéLLIKER, Embryologie. Traduction par Aimé Schneider, 1882, p. 995.
(2) Braun, Bau und Entwickelung der Nebennieren bei Reptilien (Arbeiten
aus dem zoologischen Institute zu Wiirzburg, Bd. V.. |
(3) MirsururIi, On the developement of the suprarenal Bodies in Mam-
malia (Journal of microscopical science. London, new series, Nr. 85).
(4) GorrscHau, Structur und embryonale Entwickelung der Nebennieren
bei Saugethieren ( Archiv fir Anatomie und Entwickelungsgeschichte. Jahr-
gang, 1883, s. 412).
922 PIETRO CANALIS
Basta questa enumerazione per dimostrare che non mi ho
prefisso di risolvere la difficile questione della provenienza della
sostanza corticale e midollare. Nelle capsule da me studiate,
tranne in quelle dei feti di coniglio lunghi 25 mm., le due so-
stanze si presentavano ben distinte.
In tutte queste capsule trovai un numero variabile di ele-
menti parenchimatosi col nucleo in via di scissione indiretta, e
bene spesso, nelle ultime fasi della mitosi, anche col protoplasma
in via di strozzamento o completamente diviso,
In quanto alla distribuzione delle figure cariocinetiche ho
trovato. che nelle capsule fetali esse sono sparse quasi unifor-
memente in tutto lo spessore dell’organo così nella sostanza cor-
ticale come nella midollare, e in queste tanto nelle parti centrali
quanto nelle periferiche. Invece nelle capsule degli animali neonati,
le trovai già più rare nella sostanza midollare che nella corticale,
ed in questa più numerose nella metà periferica.
Lo stesso reperto si nota nelle capsule della cavia di 8 giorni
e del coniglio di 11 e di 75 giorni; in quest’ultimo anzi le figure
cariocinetiche sono addirittura rarissime nella sostanza midollare
e nelle parti interne della corteccia.
Questo fatto sta in rapporto col diverso volume che devono
raggiungere nell’animale adulto le due sostanze della capsula ;
essendo in esso la parte corticale molto più estesa della midollare,
Ciò dimostra pure che la corteccia cresce principalmente per
proliferazione delle sue cellule periferiche, e quindi che le cel-
lule centrali sono le più vecchie.
In quanto al numero delle figure cariocinetiche, esse sono
molto numerose nei feti di coniglio lunghi 25 mm, (6-7 per campo
microscopico obb. 8. oc. 3 Koristka), alquanto meno copiose nei
feti più avanzati e negli animali neonati; nella cavia di 8 giorni
esse sono già scarse e ancor più rare nel coniglio di 11 giorni.
Nel coniglio di 75 giorni, sebbene non frequenti, sono però ancora
in numero alquanto maggiore che nell'adulto, come vedremo.
Queste mitosi non hanno nulla di speciale che le distingua
da quelle degli altri elementi dell’organismo; credo perciò inu- .
tile il darne una descrizione dettagliata; dirò solo che nelle capsule
di cane neonato (fig. 1°) e di cavia di 8 giorni mentre le cel-
lule in riposo hanno un protoplasma reticolato che ricorda le
cellule delle ghiandole sebacee, le cellule in cariocinesi presen-
tano il reticolo meno spiccato e sono piu chiare. :
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 528
Siccome le capsule surrenali si ritenevano un tempo quali
organi appartenenti sopra tutto se non esclusivamente alla vita
embrionaria, come si esprime il Brown-Sequard, così questi volle
vedere se realmente esse aumentano in peso cogli anni. Egli (1)
fece perciò ricerche nell’uomo, gatto, cane, coniglio e cavia, e
trovò che in tutti, ma sopra tutto nelle cavie, le capsule surrenali
guadagnano in peso dalla nascita fino all’età adulta. Ora in tutte
le capsule da me esaminate, le cellule del parenchima erano più
piccole che nelle capsule degli animali adulti, soltanto nel coniglio
di 75 giorni non era apprezzabile questa differenza di grandezza.
Parmi adunque che dalle mie osservazioni si possa conchiudere :
che l'accrescimento del parenchima delle capsule surrenali è dovuto
oltre all'aumento in volume dei singoli elementi, anche alla loro
moltiplicazione per scissione indiretta; che questa moltiplicazione
avviene tanto nella sostanza corticale che nella midollare, e
perciò qualunque sia il primo germe della sostanza midollare ,
che la si voglia far derivare o dal simpatico o da un differen-
ziamento della corticale, esso ha però in seguito uno sviluppo
indipendente, ed è quindi per lo meno superflua l'ipotesi del
Gottschau, che avvenga una continua trasformazione delle cel-
lule corticali in cellule midollari.
LIL
Capsule surrenali di animali adulti.
La ricerca delle figure cariocinetiche nel parenchima delle
capsule surrenali adulte era per me interessante non solamente
per evitare interpretazioni erronee dei rapporti nelle ferite, ma
ancora per lo studio della fisiologia di quest’organo. Si sa che la
sua funzione non è meno oscura del suo sviluppo. La teoria di
Brown - Sequard, secondo la quale quest’ organo sarebbe depu-
tato ad impedire il soverchio accumulo di pigmento nel sangue,
avrebbe trovato, è vero, un validissimo appoggio nelle osserva-
zioni del Tizzoni (2) il quale nei conigli operati di estirpazione
(1) Brown-Séquarp, Recherches ewperimentales sur la physiologie et la
pathologie des capsules surrénales. Comptes-rendus, vol. 43, pag. 422.
(2) Tizzoni, Sulla fisiopatologia delle capsule soprarenali. Comunicazione
preventiva (Bullettino delle Scienze mediche di Bologna, serie VI, vol. XHI
1884).
Atti R. Accad. - Parte Fisica —— Vol, XXII. 39
524 PIETRO CANALIS
delle capsule, osservò una pigmentazione bruna delle labbra, na-
rici, mucosa orale e nasale, però resterebbe sempre a spiegarsi
il come questa funzione si compie.
Il Gottschau (1), basandosi specialmente sull'esame istolo-
gico, le ritiene per ghiandole secernenti che versano nel sangue
venoso sostanze chimiche © morfologiche. Durante la funzione,
avverrebbe, secondo lui, una diminuzione della sostanza midollare
e corticale interna per riduzione del numero degli elementi cel-
lulari, e questa perdita sarebbe compensata da una continua
neoformazione di elementi nella parte esterna della corteccia presso
la superficie interna della capsula fibrosa.
Io esaminai le capsule di oltre 20 conigli, 6 cani, 10
cavie e un mulo, tutti animali adulti, il mulo anzi molto vec-
chio. Feci le sezioni perpendicolarmente all’asse maggiore dell’or-
gano ed in modo da comprendere tutto lo spessore di esso, tranne
nelle capsule del mulo a causa della loro grandezza. In tutte
le capsule esaminate riscontrai un piccol numero di cellule della
sostanza corticale col nucleo in cariocinesi e qualcuna pure col
protoplasma in via di scissione. Tali cellule stanno quasi sempre
nella parte periferica della sostanza certicale , cioè nella zona
glomerulosa o nella parte esterna della zona fascicolata; ra-
ramente se ne trovano più internamente, nè mi occorse mai di
vederne nella sostanza midollare.
Si sa che la delimitazione tra le diverse zone della corteccia
non è ugualmente spiccata nelle diverse specie animali, e che gli
autori non vanno d’accordo sulle loro denominazioni. Così mentre
Brunn (2) avea già fatto notare che nel cane e nel cavallo i
cordoni cellulari della zona fasciculata giungono fino alla capsula
fibrosa, per cui mancherebbe in questi animali la zona glome-
rulosa, e Gottschau trovò mancante la stessa zona nella maggior
parte delle specie animali da lui studiate, compreso il coniglio ;
il Klein (3) invece intende in questi animali sotto il nome di
zona glomerulosa la parte più esterna della zona fascicolata.
Attenendomi alla interpretazione di Brunn e Gottschau io
(1) GorTscHAU, lavoro citato.
(2) Brunn Zin Beitrag 2ur Kenntniss des feneren Baues und der Entwic-
kelungsgeschichte der Nebennieren (Archiv fiùr Mikroskopische Anatomie,
Bd. VIII, 1872). i
(3) KLEIN et Varior, Nouveauw elements d'histologie, 1885.
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 525
devo dire che le figure cariocinetiche si trovano nella parte più
esterna della zona fascicolata e più precisamente, nel cane e nel
mulo, sia nelle cellule fusiformi che stanno riunite a fasci tortuosi
presso la capsula fibrosa, sia più internamente dove i cordoni
cellulari incominciano a farsi rettilinei e le cellule poliedriche.
Il numero di queste figure è piccolo e varia nelle diverse
specie animali. Così ogni sezione sottilissima tanto da non avere
che lo spessore di un elemento, e interessante trasversalmente tutto
lo spessore dell’organo nella parte centrale, presentava nel cane
da 1-3 figure cariocinetiche, nel coniglio da 1-4, nella cavia
da 1-12 e anche più. Nel mulo in ogni sezione di 30 mmq.
trovai 3-4 figure di mitosi. In qualche animale mi occorse di
esaminare più sezioni di seguito senza trovare alcuna figura ca-
riocinetica, e poi ne trovai parecchie in una sola sezione. Così
pure, capitò di non vederne nessuna in tutta la superficie di una
sezione e poi di trovarne in un punto 4-5 vicine. Le maggiori
variazioni di numero da individuo a individuo si hanno nella cavia.
In uno di questi animali che era in istato di gravidanza
molto avanzata (feti di 11 cm.), trovai un numero grande di
mitosi (5 per campo microscopico obb. 8. oc. 3 Koristka) sempre
nella zona esterna della corteccia, ma esaminando le capsule di
altre cavie e coniglie gravide, non ne trovai un numero maggiore
del normale, per cui non mi è lecito dedurre da questo caso
alcuna conclusione. Risultato ugualmente negativo mi diede l’esame
delle capsule surrenali di un cane ucciso sei ore dopo l'iniezione
di 2 cg. di pilocarpina, mentre era in preda a diaforesi fortissima.
La presenza costante di elementi parenchimatosi in via di
scissione nelle capsule surrenali degli animali adulti, significa che
in questi organi avviene un consumo continuo di elementi cellu-
lari, il quale deve esser molto lento a giudicarne dalla poco
attiva proliferazione cellulare destinata a compensarlo.
III.
Capsule surrenali ferite.
Finora si. eseguì la distruzione parziale delle capsule sur-
renali principalmente allo scopo di studiarne i fenomeni generali
consecutivi, e soltanto qualche osservatore rivolse l’attenzione al
processo di cicatrizzazione e di rigenerazione.
526 PIETRO CANALIS
Ml GrarioLet (1) avendo fatto sulle cavie l'estirpazione par-
ziale delle capsule surrenali, notò solo che il pezzo di capsula
risparmiato, dopo due mesi e mezzo si era arrotondito e perfet-
tamente cicatrizzato, ma non disse altro.
Il Tizzoni (2) osservò la rigenerazione delle capsule sur-
renali dopo l'esportazione parziale in due casi: in un coniglio
operato da 144 giorni ed in un altro operato da 26. Nel primo
egli trovò nel posto della capsula surrenale sinistra, distrutta
per buona parte durante l'operazione con lo sgusciamento, una
capsula surrenale identica per forma, grandezza, colore e
struttura ad una capsula normale. Nel 2°, in luogo della ca-
psula destra che aveva pure distrutta per buona parte, trovava un
piccolo nodettino con attivissima neoformazione degli elementi
parenchimatosi di quest'organo, tanto di quelli della sostanza
corticale quanto di quelli della sostanza midollare. Egli non dice
per qual processo avesse luogo questa neoformazione nè da quali
segni l’abbia argomentata.
Io, avendo anzitutto in mira lo studio della rigenerazione
del parenchima capsulare, cercai di esportarne una parte con fe-
rite a margini netti, il che non suol riuscire facilmente, stante
la piccolezza e la sede profonda di quest’organo.
Operai con successo 23 animali, cioè: 18 conigli e 5 cani.
Il metodo operatorio era il seguente: fissato l’animale per le
4 estremità in posizione supina sul tavolo d’ operazione, rasi i
peli e ben lavata la regione lombare con una soluzione di su-
blimato corrosivo 1: 1000, facevo una incisione interessante tutto
lo spessore della parete addominale, lunga 3-4 cm. nei conigli,
più lunga nei cani, la quale aveva per punto di partenza l'arco
costale ed era diretta in dietro parallelamente alla spina dorsale,
quasi ad uguale distanza da questa e dalla linea alba. Tastando
allora col dito sulla colonna vertebrale in alto e all’interno del
rene, cercavo la capsula surrenale, mentre un assistente con due
uncini ottusi molto larghi divaricava i margini della ferita, spos-
tando verso la linea mediana assieme alla parete addominale
anche le anse intestinali. Così la capsula veniva messa e tenuta
(1) GratioLET, Note sur les effets qui suivent l’ablution des capsules sur-
rénales. (Comptes-rendus, vol. 43, pag. 468).
(2) Tizzoni, Comunicazione citata,
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 527
allo scoperto, ed io con un paio di forbicette rette o con un
bistori, potevo esportarne dal margine esterno un cuneo interes-
sante tutto lo spessore di essa. Per evitare la difficoltà che pre-
senta l'operazione sulla capsula destra per la vicinanza del fe-
gato, operai per lo più sulla capsula sinistra. Nei cani l’atto
operativo è reso più difficile dallo spessore notevole delle pareti
addominali, la cui resistenza bisogna vincere servendosi di uncini
molto robusti per divaricare i margini della ferita. Se si ha
cura d'insinuare cautamente una lama delle forbici sotto la cap-
sula, si può eseguire l'operazione senza grande emorragia; questa
però diviene relativamente notevole quando lo stromento va a
ferire i vasi centrali dell’organo. Io non cercai però mai di
arrestare il sangue in alcun modo. Riunivo le labbra della ferita
addominale con punti di seta fenicata, e spolveravo sulla sua
superficie un po’ di iodoformio. Non toglievo i punti di sutura che
dopo molti giorni. L'operazione, fatta colle cautele antisettiche
più accurate, era quasi sempre seguìta dalla guarigione per
primam, l'unica complicazione, che qualche rara volta notai,
furono piccoli ascessi superficiali, formatisi nelle pareti addomi-
nali lungo il tragitto dei fili di sutura.
Esportavo appositamente pezzi di grandezza diversa, perciò
ora faceva nell’ organo soltanto una piccola intaccatura , ora
l’apice del cuneo giungeva fino al centro di esso od anche lo
oltrepassava, interessando così la sostanza corticale e la midol-
lare. Per lo più il pezzo esportato equivaleva ad un ottavo od
un quarto dell’intera capsula.
Molte volte abbandonai questo pezzo nella cavità peritoneale,
per vedere la sorte degli elementi del parenchima capsulare di-
staccati dall'organo.
Degli animali operati cercai di conoscere possibilmente l’età;
i più erano adulti, alcuni però li scelsi giovani per poter fare
un confronto coi primi.
leonigli:furono uccisit 1; 2,13 AdS 10015, 20427,
29, 36, 75, 100, 122 giorni dopo l’operazione; i cani 3, 15,
24 giorni dopo. Nel tempo che furono lasciati in vita essi non
presentarono fenomeni degni di nota.
Due volte soltanto trovai che la capsula avea contratto ade-
renze con altri organi addominali e cioè una capsula ferita 8 giorni
prima, la cui cicatrice era aderente con un’ansa intestinale, ed
un’ altra ferita da 29 giorni, la quale si era saldata con un’ansa
intestinale e colla milza.
528 PIETRO CANALIS
Nei primi giorni dopo l'operazione, la capsula si presenta cir-
condata da una massa fibrinosa bianchiccia, che le dà l’appa-
renza di una sporgenza a margini appianati sulla parete addomi-
nale. Il punto ferito però si vede fino all’ottavo giorno segnato
da un tratto brunastro o giallo bruno per il coagulo sanguigno
che lo occupa. Coll’andare del tempo il rivestimento fibrinoso
si va assottigliando, ed allora la configurazione dell'organo spicca
meglio; così al 100° giorno la capsula ferita sporge sulla parete
addominale come la capsula sana, presentando solo un colorito
più bianco del normale, dovuto ad un leggero inspessimento del
peritoneo e della capsula connettiva. Il punto ferito poi appa-
risce quasi sempre dopo i primi 8-10 giorni sotto forma di
una insenatura o di una piccola intaccatura sul margine della
capsula; qualche volta però, in casi di ferite piccole, non si
riesce a trovarlo colla semplice ispezione e bisogna ricorrere alle
sezioni di prova.
Per poter comprendere nelle sezioni tutta la superficie del
tessuto cicatriziale ed i limiti col parenchima, feci per lo più i
tagli parallelamente alle due faccie dell’organo. Naturalmente non
tralasciai mai di esaminare microscopicamente anche la capsula
sana corrispondente.
Devo dire anzitutto che non ho mai osservato una completa
rigenerazione del parenchima esportato, in modo cioè da avere
una restitutio ad integrum, ma ho trovato sempre una cicatrice
(fig. 6°) più o meno estesa di tessuto connettivo di carattere di-
verso, come vedremo più tardi, che rendeva impossibile di scam-
biare, anche con un esame microscopico superficiale, una ca-
psula ferita con una sana.
Una conseguenza diretta dell’atto operativo è la necrosi di
un tratto del parenchima limitante la soluzione di continuo. La
estensione del tratto necrosato è più grande nei conigli che nei
cani, ed è in rapporto colla nettezza del taglio e colla lunghezza
dei margini; così nelle ferite piccole interessanti la parte peri-
ferica della corteccia, poche cellule soltanto cadono in necrosi e
vengono ben presto riassorbite, sicchè dopo alcuni giorni non se
ne trova più traccia; al contrario, se durante l'operazione s!
scolla un tratto della capsula connettiva, il parenchima corri-
spondente sì necrotizza in gran parte ed il riassorbimento di esso
dura per molto tempo. Questo tessuto necrosato ha aspetto diverso
secondo il tempo trascorso dopo l'operazione. Nei primi 2-3
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 529
giorni conserva ancora in quasi tutta la sua massa l’aspetto del
parenchima normale; però tanto lo stroma quanto gli elementi
parenchimatosi o non si colorano affatto colla saffranina e colla
genziana, oppure prendono una leggera colorazione diffusa. Im
questi elementi si vede ancora la configurazione normale, si di-
stinguono ancora tanto il nucleo quanto il protoplasma, ma so-
lamente per il loro diverso potere di rifrazione. Molti di essi
sono colorati in nero dall’acido osmico nei pezzi trattati col me-
todo di Flemming, ed i loro ammassi appaiono talora nella se-
zione sotto forma di chiazze nere irregolari.
Però già dai primi giorni si può vedere alla periferia della
sostanza necrotica il cambiamento che essa subirà col tempo in
tutta la sua estensione. Le cellule parenchimatose cioè perdono
i loro contorni, e si fondono trasformandosi in una massa gra-
nulosa, la quale si presenta splendente ed incolore colla reazione
iodocromica , e colorata intensamente e diffusamente in rosso
scuro se si trattano le sezioni col carmino allume. In questa
massa granulosa avviene poco dopo una infiltrazione di leucociti,
e siccome questi hanno per lo più il nucleo frammentato e tingi-
bile intensamente coi colori d’anilina, così colla reazione iodocro-
mica la massa necrotica si presenta nella parte centrale incolore
e di struttura simile al tessuto normale, mentre nella parte peri-
ferica è ridotta ad un detrito granuloso splendente, in parte inco-
lore ed in parte tempestata di granuli colorati. Tale trasformazione
ed infiltrazione incomincia per lo più dalla capsula connettiva,
mentre il resto della sostanza necrotica si continua per qualche
giorno ancora direttamente col parenchima sano. In questo paren-
chima poi si vedono molte cellule in degenerazione grassa, sicchè
nelle sezioni trattate col liquido di Flemming, si vede tratto tratto
ura striscia nera che forma una specie di demarcazione fra il
parenchima sano ed il necrotico. Il passaggio dall’uno all’altro
non avviene però così bruscamente, che non sì trovino in mezzo
alla sostanza necrotica delle cellule parenchimatose vive; anzi di
queste, nei primi giorni, se ne trovano alcune col nucleo in ca-
riocinesi (fig. 3").
Il fatto più interessante che si nota dopo la ferita nel paren-
chima non caduto in necrosi è la proliferazione degli elementi
per scissione indiretta. Questa incomincia al 2° giorno e si con-
tinua per un tempo piuttosto lungo.
Riferirò prima le osservazioni fatte sul coniglio: 24 ore dopo
5830 PIETRO CANALIS
la ferita non mi è riuscito di trovare nel parenchima della capsula
un numero di mitosi maggiore di quello che vi si trova normal-
mente; ne contai cioè 1-2 figure in ogni sezione interessante tutto
lo spessore dell’organo, e quasi sempre nella zona periferica della
sostanza corticale, indifferentemente vicino o lontano dalla ferita.
Al 2° e 3° giorno invece esiste già nei margini di essa un nu-
mero discreto di figure mitotiche, scarse nella sostanza midollare,
più frequenti nella corticale, sopra tutto nella zona periferica presso
la capsula fibrosa, dove in un margine si possono trovare 10-15
mitosi. Quantunque le cellule in scissione si trovino per lo più
vicinissime alla ferita o al parenchima necrotico, pure se ne vedono
anche a distanza nello spessore della corteccia. Il loro numero
aumenta al 4° giorno e più ancora al 5° e 8°, nella quale epoca
raggiunge il suo maximum, presentandosi quasi tutte le figure
nella sostanza corticale e solo eccezionalmente nella midollare.
In una capsula ferita 5-8 giorni prima si possono vedere nella
sostanza corticale da 2-6 figure cariocinetiche in ogni campo mi-
croscopico (obb. 8, oc. 3 Koristka). Inoltre a cominciare dal
4° giorno le cellule in via di scissione si riscontrano copiose
fino ad una distanza relativamente grande dalla ferita (fig. 2°),
e se si esportò un terzo o un quarto della capsula, si vedono
al 5° e 8° giorno sparse quasi uniformemente in tutta la so-
stanza corticale.
Dopo 1’8° giorno il numero delle figure cariocinetiche dimi-
nuisce rapidamente. Nei conigli adulti uccisi al 10° e 15° giorno,
nel parenchima della capsula ferita, sono poco più numerose che
nelle capsule normali, e la loro sede è come in quest’ ultima la
parte periferica della corteccia in tutto l’ambito della capsula,
tanto vicino quanto lontano dalla ferita. A tale regola fece però
eccezione un coniglio adulto ucciso al 20° giorno, il quale pre-
sentava nella capsula ferita un buon numero di mitosi (1-2 per
campo microscopico (obb. 8, oc. 3 Koristka) sempre nella cor-
teccia periferica, mentre nella capsula sana ne presentava pochis-
sime. Nei conigli adulti uccisi a epoche più avanzate, le mitosi
sono in numero così piccolo che non vi ha apprezzabile differenza
dal normale. Non si può dire lo stesso dei conigli giovani. Di-
fatti, in un coniglio che al giorno dell’uccisione aveva soltanto
75 giorni d’età, ed era stato operato 29 giorni prima, trovai
nella capsula ferita un discreto numero di mitosi, quasi triplo
che nella sana. In entrambe le capsule le figure cariocinetiche
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 5831
erano disseminate nella corteccia periferica come al solito. Con-
frontando sezioni di uguale superficie (circa 10 mmgq.) della capsula
sana e della ferita trovai come media di 10 sezioni nella capsula
ferita 18 figure cariocinetiche, nella capsula sana 6 figure.
La durata maggiore del processo di moltiplicazione cellulare
ritengo sia in questo caso dipendente dall’età giovine dell’animale.
Un fatto analogo del resto ho potuto constatare in un cane
giovine ucciso al 3° giorno, il quale presentava nella capsula
ferita un numero maggiore di cariocinesi che un cane adulto ucciso
dopo lo stesso periodo di tempo.
Nel cane gli elementi parenchimatosi delle capsule ferite si
comportano in generale come nel coniglio; si nota però una diffe-
renza nel numero delle mitosi in rapporto al tempo decorso dal-
l'operazione: cioè mentre nei conigli le mitosi al 53° giorno sono
poco numerose, nei cani abbondano di già (2-3 per campo obb. 8,
oc. 3 Koristka) in vicinanza della ferita nella sostanza corticale.
La proliferazione cellulare cessa però anche più presto che nei
conigli, giacchè al 15° e 20” giorno non si trova un numero di
mitosi maggiore del normale. Devo qui notare che al 3° giorno
si vedono nel cane molti elementi in via di scissione anche nella
sostanza midollare, ma la maggior parte di essi appartiene al
tessuto connettivo dello stroma o agli elementi semoventi.
L'esame della capsula - sana degli animali operati non mi
dimostrò mai un numero di cariocinesi più grande del normale.
Le figure cariocinetiche del parenchima delle capsule ferite
rappresentano tutte le fasi «della scissione indiretta fino alla di-
visione completa del nucleo e del protoplasma, e non hanno
nulla di particolare che le distingua dalle figure degli altri organi.
Nei conigli le cellule corticali allo stato di riposo, in sezioni
trattate col processo del Flemming, si presentano costituite da
un nucleo rotondo con uno e talvolta due nucleoli e un numero
variabile di granuli di sostanza cromatofila, e da un protoplasma
il quale ora è tutto chiaro, ora ha una parte chiara ed una
oscura finissimamente granulosa da un lato della cellula tutt’at-
torno al nucleo. Nelle cellule in cariocinesi, ordinariamente scom-
pare la parte oscura del protoplasma, il quale diviene così tutto
chiaro; qualche volta però, specialmente nelle cellule che si tro-
vano presso la sostanza necrotica, o circondate da essa, si pre-
senta oscuro, e a contorni poco visibili (fig. 3°).
Vediamo ora come si comporta il connettivo della capsula
oss PIETRO CANALIS
fibrosa, dello stroma e dei vasi. In generale gli elementi con-
nettivi della capsula ferita, si moltiplicano per cariocinesi prima
ancora e più attivamente degli elementi parenchimatosi. Le prime
figure cariocinetiche si trovano già dopo 24 ore nella capsula
fibrosa vicino alla ferita: al 2° giorno il loro numero diventa
grandissimo non solo nei tratti vicini alla ferita, ma anche a
distanza da questa e, se la lesione fu relativamente grande, se
ne vedono in tutta l’estensione della capsula fibrosa. Inoltre si
vedono figure cariocinetiche nelle trabecole connettive dello stroma
del parenchima fino a qualche distanza dalla ferita (fig. 4°), come
pure nell’endotelio dei vasi della capsula fibrosa, e del paren-
chima dei margini. Quale effetto di tale attivissima proliferazione
cellulare possiamo già constatare al 2° giorno: 1° un inspessi-
mento della capsula connettiva che a partire dai margini della
ferita si estende a un buon tratto od anche a tutta la super-
ficie dell'organo; 2° una piccola neoformazione connettiva costi-
tuita in massima parte da cellule allungate a fuso e contenente
molte figure cariocinetiche, la quale si continua colla capsula
connettiva e si avanza nella ferita separando il margine del pa-
renchima dal coagulo sanguigno che sta nel mezzo. L’ inspessi-
mento della capsula è però dovuto anche all’ipertrofia degli
elementi cellulari, i quali mentre allo stato normale sono scarsi
e di forma molto appiattita, ora si trovano in gran numero, più
grossi ed hanno per lo più forma di fuso allungato con un nucleo
rotondo o leggermente ovale. Il coagulo sanguigno del centro della
ferita esternamente si continua per un tratto più o meno lungo
sulla capsula connettiva. In questo tratto gli elementi connettivi
fusiformi si presentano allontanati l’uno dall’altro per l’infiltra-
zione sanguigna e molti di essi, come pure molti elementi rotondi
hanno il nucleo in cariocinesi. Talvolta questi elementi rotondi in
via di scissione sì vedono completamente separati dalla capsula,
come perduti in mezzo ai filamenti fibrinosi ed in questo caso non
può cader dubbio sul loro carattere di cellule semoventi, poichè
resta escluso che possano essere elementi fusiformi sezionati di tra-
sverso. Mano mano che ci allontaniamo dalla capsula connettiva
cessano nel coagulo le figure di mitosi. Per dare un’idea del
numero di figure cariocinetiche della capsula connettiva presso
la ferita del 2° giorno, basti il dire che con un ingrandimento
di 550 diametri se ne possono vedere 8-10 per campo.
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 533
Se vi esiste un tratto di parenchima necrotico, la capsula
connettiva corrispondente presenta un gran numero delle sue cel-
lule in degenerazione grassa, e la proliferazione cellulare invece
sì osserva attivissima in corrispondenza del parenchima sano,
donde la neoformazione connettiva si avanza separando il paren-
chima vivo dal necrotico. Nel 3°, 4° e 5° giorno si trovano an-
cora numerose mitosi nella capsula connettiva, però la prolife-
razione cellulare va cessando nelle parti lontane dalla ferita, e
si limita al tratto vicino ad essa ed alla neoformazione connettiva
che s’avanza a colmarla. La parte centrale della soluzione di con-
tinuità è occupata ancora da una massa costituita dal coagulo
sanguigno e dal parenchima necrotico. Il processo di riassorbi-
mento di questa massa ritarda talora notevolmente la cicatriz-
zazione, e merita perciò di esser studiato intimamente.
In una capsula ferita da 15 giorni si vede la massa necro-
tica separata tutt’attorno dal parenchima per mezzo di tessuto
connettivo che ha la struttura di connettivo adulto soltanto verso
la periferia dell'organo e a contatto dei margini parenchimatosi
circa nella metà esterna della cicatrice, mentre immediatamente
attorno alla massa necrotica, e nello spazio compreso tra questa
e il parenchima nella metà interna, è costituito in massima
parte da grosse cellule rotonde od ovali, e da cellule giganti.
Le prime, che io per comodo di descrizione chiamerò epi-
telioidi, hanno un diametro per lo più di 20-30 4 ma possono
essere anche più grandi fino a raggiungere le dimensioni delle
cellule giganti; hanno uno, due o tre nuclei rotondi od ovali e
per lo più raggrinzati, vicinissimi tra loro e situati verso la pe-
riferia. Le cellule giganti possono raggiungere il diametro di
100-116 p. e stanno, ora frammischiate alle cellule epitelioidi,
ora in gran numero giustaposte tra loro. I loro nuclei sono per
lo più numerosi (da 25-30), ovali o rotondi, disposti fittamente
in tutta la massa del protoplasma; talvolta però si vedono ac-
cumulati verso un'estremità o il centro della cellula formanti
un gruppo fittissimo, mentre il resto del protoplasma ne è libero
o ne contiene solo qualcuno raro. HI protoplasma delle cellule
giganti ed epitelioidi vicine alla massa necrotica contiene per lo
più grossi granuli, oppure blocchi irregolari di sostanza splen-
dente che non si tinge colla genziana, ma che si può colorare
in rosso cupo col carmino alluminato o picrico. Questa sostanza
è in tutto simile alla sostanza necrotica che occupa la parte cen-
534 PIETRO CANALIS
trale della ferita, e si trova anche fuori delle cellule in mezzo
al tessuto connettivo in blocchi più o meno grandi per lo più cir-
condati da cellule giganti ed epitelioidi che si modellano su di
essi. Non è improbabile che queste cellule fondendosi diano origine
a cellule giganti più grosse. Le cellule giganti ed epiteloidi lon-
tane della sostanza necrotica, presentano ordinariamente il pro-
toplasma chiaro, o tutt'al più gialliccio; le cellule epitelioidi
specialmente sono talvolta trasparentissime. Accade però di tro-
vare delle cellule giganti lontanissime dalla sostanza necrotica,
e circondate da connettivo adulto, contenenti aneora nel loro
protoplasma grossi blocchi di sostanza necrotica splendente. Le
cellule epitelioidi e giganti stanno in mezzo ad una specie di
stroma connettivo che in qualche punto rassomiglia allo stroma
della sostanza corticale della capsula. Esso è formato cioè da
sepimenti connettivi contenenti molte cellule fusiformi, i quali
anastomizzandosi, chiudono alveoli per lo più allungati in cui
stanno in numero vario le cellule epitelioidi e giganti. Questi
sepimenti sono però ordinariamente più robusti che nello stroma
del parenchima, e contengono cellule fusiformi più grosse. Le cel-
lule epitelioidi si distinguono facilmente dagli elementi del paren-
chima, sia per la grandezza del loro corpo, sia per la piccolezza
del nucleo, sia per essere nettamente separate dal parenchima
mediante uno straterello di connettivo (fig. 5°).
Il significato di questi grossi elementi epitelioidi e giganti
non è dubbio. Come gli elementi simili da me descritti nelle ferite
del fegato, e da altri erroneamente presi per generatori di cellule
epatiche, essi sono organi unicellulari di assorbimento i quali
incorporano e digeriscono (se così: è lecito esprimersi) i fram-
menti del tessuto necrotico ed il coagulo sanguigno; e nello stesso
preparato noi possiamo seguire nelle differenze d’aspetto del loro
protoplasma i diversi stadi della loro funzione, dall’inclusione del
materiale morto alla completa digestione. In quanto alla loro
genesi, essi sono d'origine connettiva, sono cioè cellule semoventi,
penetrate nel parenchima necrosato e che quivi si sono ipertro-
fizzate.
Le prime cellule giganti compaiono attorno al focolaio ne-
crotico nel coniglio al 4° e 5° giorno. La sorte che subiscono
questi elementi assorbenti quando hanno compiuto il loro ufficio,
possiamo vederla già nella cicatrice di 15 giorni. Difatti, mano
mano che dalla parte centrale della ferita ci portiamo verso la
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 535
capsula fibrosa vediamo che predomina il tessuto connettivo che
sta fra gli elementi epitelioidi e giganti, questi si fanno meno
numerosi, vanno perdendo la loro forma rotondeggiante per pre-
sentarsi allungati o anche fusiformi; sembra cioè che subiscano
un’atrofia da compressione per la quale molti probabilmente scom-
paiono ma molti restano sotto forma di cellule fisse fusiformi.
Di pari passo adunque col processo di riassorbimento della
massa necrotica e colla formazione di elementi assorbenti, vanno
l’atrotia di questi e la formazione di tessuto connettivo adulto,
per cui quando la massa necrotica è completamente riassorbita,
il numero delle cellule epitelioidi e giganti che ancora si trova
nella cicatrice è relativamente piccolo. Al 100°-122° giorno esse
sono rare e stanno quasi tutte nella parte centrale della ferita,
ora l'una contigua all’altra, ora separate da fasci connettivi. Io
non ho tenuto in vita gli animali che fino al 122° giorno, non
potrei perciò escludere che col tempo anche questi elementi scom-
paiano come gli altri, se il criterio della scissione indiretta non
mi inducesse a credere che essì restano indefinitamente nel tessuto
cicatriziale. Difatti fino a che persiste nella ferita una parte di
sostanza necrosata o di coagulo, si trovano nel connettivo di essa
numerose figure di mitosi tanto negli elementi fusiformi, quanto
nei rotondi e nelle cellule epitelioidi. Di queste occorre anzi di
vederne alcune polinucleate con un nucleo in cariocinesi e gli altri
in riposo. Però nella stessa ferita mano mano che il tessuto di assor-
bimento si trasforma in tessuto connettivo adulto, le mitosi si fanno
più rare e scompaiono affatto. Quando il riassorbimento è finito
le mitosi sono rarissime anche se ciò avviene dopo breve tempo.
Così in una ferita al 10° giorno, nella quale ad attestare
la preesistenza del coagulo non si trovavano che poche cellule
epitelioidi cariche di pigmento, trovai in media sopra 5-6 sezioni
una cellula connettiva in cariocinesi, e nelle ferite di 27, 36,
75 ecc. giorni in cui non esisteva più sostanza necrotica, non si
vedeva più alcuna figura di mitosi. Invece in capsule ferite 15-20
giorni prima in cui persisteva un buon tratto di sostanza necrotica,
le mitosi erano numerose ed anche al 29° giorno, persistendo
ancora un piccolo coagulo erano in numero discreto. Dobbiamo
perciò ritenere che. negli stadi avanzati delle ferite in cui il
connettivo ha raggiunto il tipo adulto, cicatriziale, le cellule
giganti che vi si trovano, restano indefinitamente; altrimenti non
si saprebbe spiegare da quali elementi vengano sostituite,
596 PIETRO CANALIS
Paragonando anche al 10° giorno l'ampiezza del tessuto con-
nettivo che occupa la ferita col pezzo di capsula esportato si
vede per lo più che questo è più grande, e tale differenza risulta
anche maggiore, se si pensa alla necrosi dei margini, la quale
deve aver aumentato l'estensione della soluzione di continuo. 1
margini della ferita adunque si sono avvicinati, e ciò è dovuto
in parte all'iperplasia del parenchima per la scissione cariocine-
tica dei suoi elementi.
Questa non può intendersi soltanto come una reazione infiam-
matoria, ma deve piuttosto considerarsi come una rigenerazione,
se si pensa alla sua durata e alla scarsezza di fenomeni infiam-
matorii che l’accompagnano; però potrebbe obiettarsi che persi-
stendo per un tempo più o meno lungo una massa di sostanza necro-
tica nel tessuto di cicatrice, persista un'’irritazione, alla quale
rispondono anche gli elementi del parenchima colla scissione; ma io
ho trovato in conigli uccisi al 15° giorno, tratti estesi di tessuto
necrotico con pochissime cariocinesi nel parenchima sano, mentre
al 29° giorno in altro coniglio giovane si trovava un buon numero
di mitosi pur essendo stato riassorbito il parenchima necrotico.
Come ho notato parlando dello sviluppo delle capsule, la
parte periferica della corteccia è la più giovine; ciò spiega perchè
anche in seguito alle ferite, il più gran numero delle cellule in
scissione si trova in questa zona. Vale a dire che non soltanto
negli animali giovani avviene una rigenerazione più attiva che
negli adulti, ma anche nello stesso organo negli elementi più
giovani si rigenerano più facilmente.
Ho detto che sovente lasciai nella cavità addominale i pezzi
di capsule distaccati, orbene quattro volte solo mi riuscì di trovare
all’autopsia questi pezzi, ciò fu in quattro conigli uccisi rispet-
tivamente al 2°, 3°, 4° e 15° giorno. In questi casi fissai il pezzo
innestandolo in una leggiera ferita da taglio fatta sulla superficie
del rene. All’autopsia il pezzo innestato si trovava o precisamente
sulla ferita del rene o aderente ad uno dei margini di essa,
era di colore biancastro e rivestito da uno strato di fibrina nei
primi giorni, e di tessuto connettivo nel coniglio ucciso al 15°
giorno. Nei primi tre casi esso era completamente necrosato ,
nel quarto trovai ancora viva soltanto una sottilissima striscia di
parenchima capsulare e precisamente la parte periferica della cor-
teccia, la quale* aveva aderito al rene assieme alla capsula con-
nettiva che la rivestiva. Questi pezzi di capsula surrenale aveano
tutto l’aspetto del parenchima necrosato che ho trovato nelle ferite.
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 557
In quello innestato 15 giorni prima si poteva vedere il processo
di riassorbimento del tessuto necrotico identico a quello delle
ferite; anche qui si trovavano attorno al pezzo necrotico nume-
rosissime cellule giganti ed epitelioidi, e di queste molte col nucleo
in cariocinesi.
Queste esperienze mentre da un late confermano l’osservazione
di Fischer (1) che impiantando pezzi morti di organi nel corpo
si forma attorno ad essi uno strato di cellule giganti, dall'altro
mi hanno dimostrato che piccoli pezzi di parenchima capsulare,
completamente staccati dall'organo ed innestati nello stesso ani-
male, possono in condizioni opportune continuare a vivere.
Avendo il Tizzoni (2) trovato nei conigli, dopo l'esportazione
della capsula surrenale destra, la rigenerazione di essa, non nel
posto della vecchia capsula, ma presso lo sbocco della vena
renale destra, mel tessuto che unisce la vena cava all’aorta,
ebbi cura di guardare se nei conigli che per una ragione o per
l'altra mi occorreva di uccidere, esistevano capsule accessorie.
Sopra 40 conigli osservati, in due soli trovai una capsuletta
accessoria della grandezza di un grano di riso, sempre a destra
nel sito indicato da Tizzoni come sede prediletta della rigene-
razione della capsula. Questi conigli non avevano subìto alcuna
operazione. In uno di essi la capsula surrenale sinistra aveva
una grandezza doppia di quella di destra.
La struttura di queste capsulette accessorie differiva da quella
delle capsule normali ;
1° Perchè erano costituite soltanto da sostanza corticale
(nemmeno colle sezioni in serie mi è riuscito di trovarvi traccia
di sostanza midollare).
2° Perchè i cordoni della zona fascicolata non si dirigevano
raggiatamente verso la parte centrale dell’organo, ma convergevano
o mo’ di ventaglio verso un punto situato alla periferia dell’or-
gano, dove esisteva una larga vena corrispondente alla vena cen-
trale della capsula normale.
Del resto anche in questa capsuletta trovai qualche figura
cariocinetica nella parte periferica del parenchima.
(1) Fiscner E., Veber Zransplantazionen von organischen Material (Deutsche
Zeitschrift fiur Chirurgie, Bd. 17, s. 61-92 und 362-406).
(2) Tizzoni, Sulla fisiopatologia delle capsule soprarenali. Seconda comu-
nicazione preventiva (Gazzetta degli ospitali, 25 gennaio, 1885, n° 7).
538 PIETRO CANALIS
Riassumendo ora i principali fatti osservati nelle mie espe-
rienze abbiamo: che in seguito all’esportazione di una parte delle
capsule surrenali avviene una rigenerazione di elementi parenchi-
matosi per moltiplicazione cariocinetica di quelli rimasti in sito;
che la perdita di sostanza resta però in massima parte com-
pensata da una neoformazione di tessuto connettivo, la quale
trae origine soprattutto dal connettivo della capsula fibrosa
dell’organo. Che la proliferazione degli elementi parenchimatosi
avviene specialmente e dura più a lungo nella parte giovine
del parenchima capsulare, cioè nella parte periferica della so-
stanza corticale. Che il processo. di cicatrizzazione viene intral-
ciato e ritardato dal processo di assorbimento del parenchima
caduto in necrosi pel trauma operatorio. Che pezzi di capsula
surrenale asportati dall’organo possono in parte continuare a vi-
vere se si innestano nello stesso animale.
Stando alle mie esperienze non si può dunque parlare di rige-
nerazione totale del parenchima esportato, ma solo di una rigenera-
zione diffusa di elementi che ha per conseguenza un’iperplasia
del parenchima risparmiato, e non la formazione di un nuovo
tratto di organo. Noterò finalmente, che quando si voglia studiare
nei conigli la rigenerazione delle capsule surrenali in seguito al-
l'esportazione totale, bisognerà tener conto del fatto che nor-
malmente un coniglio su 20 presenta una capsuletta accessoria
a destra, presso lo sbocco della vena renale nella cava.
SPIEGAZIONE DELLE FIGURE
Figura 1° — Sostanza corticale di capsula surrenale di cane
neonato. 4, d, Cellule del parenchima col nucleo in
cariocinosi (immersione omogenea }4. oc. 3 Reichert).
» 2° — Capsula surrenale di coniglio adulto ferita cinque
giorni prima. Sostanza corticale periferica lontano
dalla ferita. a, d, c, Cellule parenchimatose col
nucleo in cariocinesi (obb. 8, oc. 2, Reichert).
» 3* — Capsula di coniglio ferita quattro giorni prima.
Trattamento col metodo di Flemming. Sostanza
corticale sul limite del parenchima necrosato. «, d, c,
\Lit, Salussolia-Torino
DTA
CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE CAPSULE SOPRARENALI 5539
Cellule del parenchima col nucleo in cariocinesi ;
d, e, parenchima ridotto a detrito granuloso ;
f, 9, cellule del parenchima contenenti gocciole di
grasso: %, parenchima normale (immersione omo-
genea ., oc. 3, Reichert).
Figura 4° — Capsula di coniglio ferita da due giorni. Sostanza
corticale presso la ferita. a a, Cellule del paren-
chima; 5, figura cariocinetica nel connettivo dello
n
stroma (obb. 8, oc. 3, tubo alzato Koristka).
’
» 5" — Capsula di coniglio ferita 56 giorni prima. 4, s0-
stanza corticale del parenchima; 2, connettivo ci-
catriziale; c e, cellule epitelioidi (obb. 8, oc. 3,
Reichert).
» 6° — Capsula di coniglio ferita 100 giorni prima. Se-
zione del tessuto cicatriziale fatta parallelamente
alle due facce della capsula alquanto superficial-
mente. a, Connettivo della cicatrice; d , cellule
giganti ancora cariche di pigmento : e e, parenchima
corticale (ingrandimento di 65 diametri).
Il Direttore della Classe
Arronso Cossa.
Atri R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII. %()
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Sari CAINE
CLASSE
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 22 Maggio 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE PROF. ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, LEssona, SALvaDORI, BRUNO,
Stacci, Basso, Bizzozero, Mosso, GIBELLI, GIACOMINI.
Vien data lettura dell’atto verbale dell'adunanza precedente,
che è approvato.
Fra le pubblicazioni mandate in dono all'Accademia vengono
segnalate le seguenti :
1° « Bullettino di bibliografia e di storia delle Scienze
matematiche e fisiche pubblicato dal Principe B. BoncoMPAGNI »
(maggio e giugno 1886), presentato dal Presidente ;
2° « Bollettino dei Musci di Zoologia e Anatomia com-
parata della R. Università di Torino », n. 22-26, vol. II,
contenente lavori dei signori Dottore Daniele Rosa, Carlo PoL-
LONERA e Prof. Lorenzo CAMERANO.
Quindi le letture e le comunicazioni si succedono nell’ordine
seguente :
« Un teorema nella teoria delle polari »; Nota del Dott.
Alberto BRAMBILLA, presentata dal Socio SIaccI:;
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII. 4[
è Dai: in 6,
542
« Sulla varietà cubica con dieci punti doppi dello spazio
a quattro dimensioni » del Dott. Corrado SEGRE, lavoro pre-
sentato dal Socio BRUNO;
« Sopra una trasformazione delle equazioni di equilibrio
delle curve funicolari » del Dott. Enrico NOVARESE, lavoro pre-
sentato dal Socio Basso.
Inoltre il Socio Lessona presenta un lavoro del Dott. Lorenzo
CAMERANO, intitolato: « Ricerche intorno al parassitismo ed al
polimorfismo dei Gordius » e il Socio GiBELLI ne presenta un
altro del Dott. Oreste MartIROLO, col titolo: « Illustrazione di
tre nuove specie italiane di Tuberacee ». Siccome gli autori di
questi due lavori desiderano che i medesimi siano accolti nei
volumi delle Memorie, vengono consegnati a Commissioni speciali
incaricate di esaminarli e riferirne alla Classe.
Infine il Socio Bruno presenta per la consueta pubblicazione
nel Bollettino annesso agli Atti le seguenti osservazioni meteoro-
logiche orarie rilevate dai registratori HipP nell’ Osservatorio di
Torino per cura dell’Assistente Prof. Angelo CHARRIER:
a) Barografo, 2° semestre (da luglio a tutto dicembre
1886);
b) Zermografo, 2° semestre (da luglio a tutto dicembre
1886);
c) Tavole indicanti l’ora delle temperature estreme gior-
naliere dell’anno 1886, dedotte dalla linea termografica (tempo
vero astronomico).
543
LETTURE
Un teorema nella teoria delle polari ;
Nota di Alberto BRAMBILLA
Mi permetto di comunicare a questa illustre Accademia, una
proposizione di qualche interesse nella teoria delle forme polari,
senza intrattenermi sopra alcune sue applicazioni.
4. In uno spazio lineare S ad » dimensioni sia fissato un
sistema di coordinate omogenee ,, .... %,4, ed in esso rappre-
sentino le equazioni
DR MELIA BE AO +RVao
il 12 1%
xV +, V +. ... agg SR
\ 1 k2 kk
l: sistemi lineari proiettivi cof"' di varietà algebriche d'ordine v, &
l—1 dimensioni ed affatto generali, aventi equazioni della forma:
V= Vess=o Li
Il luogo delle intersezioni dei gruppi di varietà corrispondenti
in tali sistemi è la varietà d’ordine %v ed a %—1 dimensioni
rappresentata da
544 ALBERTO BRAMBILLA
Si considerino un punto y qualunque dello spazio S' e di esso
gli spazi S,_, polari rispetto alle diverse varietà di ciascuno dei
sistemi (1): questi S,-, formano / sistemi lineari oof' e proiet-
tivi, i quali generano una varietà d’ordine %X ad n—1 dimen-
sioni di equazione
y—l Sì Rao;
Va Va V 12) Vea NAVI Van
n / ®
y— 1 5) pesa
aj p=| Ver Van Vea Vo "A eh 20
Y
y—-1 y—-1 y— 1
ATA db) ) Via {a Vi (dk) Vas
Dal confronto delle equazioni (2), (3), in virtà della regola di
derivazione dei determinanti, si vede immediatamente che l’equa-
zione
y D) y—1
Viù Vu Voo.. Vas] [Vi Via "Res,
Y
nel v vel
LIRE AVE tia ua Spr +V: 21) Ve .. Ven Ves-
y
y—1l y y v_—1lw-
V. k1) aoVia k2 V kk)| VanVaz.. Van
y y Y x
®
rappresenta tanto 1’S,_, polare del punto y rispetto alla varietà
F, come quello polare dello stesso punto ad {/Y.
2. Se una varietà ® ad wn—1 dimensioni e d’ordine 2y è
generata da due sistemi oo reciproci di varietà d’ordine v ad
n—1 dimensioni i quali abbiano le equazioni
|a Vos, Vea +...4 V=o
la ore a+ +4 =)
Deo
ut
FS
Ut
UN TEOREMA NELLA TEORIA DELLE POLARI
sotto la condizione
» da = 0
ros
la sua equazione sarà
Ta, v v
p = A\ Vo Vo 0 a
i LA pis x x
dove À è il subdeterminante coefficiente di «,, nel determi-
=
$
nante |
| d,) FI RAPE ROTRE 4} i
al=i|ag CSS INIISERORI- Upi (00)
A (75) alpe. fee 4 pk |
Gli S,_, polari di un qualunque punto y dello spazio S
rispetto alle diverse varietà di ciascuno dei sistemi (4) formano
pure due sistemi reciproci co"-' generanti la quadrica
ya. y—l
(5)... pers Vo Ve Ve Vi =0.
Y
Dal confronto delle equazioni (4), (5) discende immediatamente
che l'equazione
VA.(Ve Us Toti Ve Vo)=o
rappresenta tanto 1’.S,_, polare del punto y rispetto alla va-
rietà ® come quella di y rispetto alla 4”.
8. Concludiamo adunque col seguente teorema: se una va-
rietà H (F 0 ®) ad n—1 dimensioni appartenente ad uno
spazio lineare S ad n dimensioni è generata da un certo
(*) Esc#ERICH, Die reciproken lineare Fléichensysteme; Sitzb. d. k. Akad
zu Vien, 1877. — SEGRE, Studio sulle quadriche in un sistema lineare ad
un numero qualunque di dimensioni; Mem. della R. Accad. delle Se. , To-
rino, 1881.
546 ALBERTO BRAMBILLA - UN TEOREMA NELLA TEORIA DELLE POLARI
gruppo di sistemi lineari protettivi del medesimo mumero di
dimensioni composti tutti di varietà del medesimo ordine e ad
n—-1 dimensioni, oppure, se è generata da due sistemi reci-
proci di varietà di un medesimo ordine fra loro e ad n—1
dimensioni, costruendo î sistemi polari del primo ordine di
un punto y qualunque di S rispetto a quei sistemi generatori
e la varietà bh (f£” 0 6°) da essi generata, l S,-, polare del
punto y preso rispetto a questa varietà h” è anche lS,_, po-
lare dello stesso punto rispetto alla varietà H prima generata.
4. Questa proposizione offre chiaramente una semplice co-
struzione, coll’uso della sola riga, della polare di un punto ri-
spetto ad una curva piana generale del quarto ordine quando
siano indicati due fasci proiettivi di coniche che la generano : e,
sapendo che una curva piana d'ordine 2 / è sempre generabile
mediante fasci proiettivi d'ordine / di curve piane, se una de-
finizione qualunque di quella curva permettesse sempre di %n-
dicare effettivamente una coppia di fasci generatori, è chiaro
che la precedente costruzione si estenderebbe alle curve generali
degli ordini 8, 16,.. 2”. Tale proposizione riduce sempre, del
resto, la ricerca della retta polare di un punto rispetto ad una
curva piana d'ordine 2 / a quella più semplice rispetto ad una
conica; quella del piano polare di un punto rispetto ad una
superficie generata da sistemi reciproci, alla medesima ricerca
rispetto ad una quadrica ordinaria; e se la superficie è generata
da tre reti proiettive, la ricerca si riduce ad una rispetto ad
una superficie del 3° ordine. Ecc.
Però conviene osservare che il teorema esposto non si pre-
sterà in generale come mezzo fecondo di ricerca, se non quando
sì sappia seguire nettamente il passaggio da una delle indicate
ad una qualunque altra consimile generazione della varietà H,
perchè, in caso diverso, le proprietà scoperte sono troppo subor-
dinate alla generazione assunta.
Torino, gennaio 1887.
lio
pei pu
Sulla varietà cubica con dieci punti doppi dello spazio
a quattro dimensioni; Nota di Corrado SEGRE.
Avendo quasi compiuta una ricerca sulle varietà cubiche dello
spazio a quattro dimensioni (*) e specialmente su quelle dotate
di punti doppi, ma non potendo per ora pubblicarla, credo bene
estrarne alcuni risultati relativi ad un caso particolare molto no-
tevole di tali varietà, sia perchè questi risultati paiono presen-
tare già da sè un certo interesse, sia perchè essi servono a dare
un'idea completa del carattere della ricerca più vasta accennata.
Mi limiterò del resto ad enunciarli, e non mi fermerò a svi-
lupparne le conseguenze, quando queste si presenterebbero senza
difficoltà.
A. La varietà cubica T, oggetto di questa Nota, e di cui
sì vedranno presto delle costruzioni, è quella col massimo nu-
mero (finito) di punti singolari, cioè con dieci punti doppi. Essa
è della 4° classe, cioè per ogni piano passano quattro dei suoi
spazi tangenti. Dipende da 24 costanti e non ha invarianti as-
soluti.
I 10 punti doppi formano una configurazione molto notevole;
essi si raggruppano in 15 quaterne poste risp. su 15 piani che
sono i soli piani contenuti in TY. Per ognuno di questi passa un
fascio di spazi i quali segano ancora I secondo co! quadriche:
queste determinano sul piano un fascio di coniche passanti pei
4 punti doppi di quel piano. Tra quelle quadriche ve ne sono
tre che si spezzano in coppie di piani; quindi ognuno dei quin-
dici piani è incontrato secondo rette (contenenti 2 dei 10 punti),
o come dirò più brevemente, è <ncidente ad altri 6, e non in-
cidente (cioè incontrato in un sol punto, punto doppio) ad 8.
Se ne trae facilmente che i quindici piani formano 6 diverse
(*) Tutti gli enti che si considereranno in questa Nota s’intenderanno,
quando non verrà detto il contrario, situati nello spazio a quattro dimen-
sioni. I luoghi di punti ad 1, 2,3 dimensioni si chiameranno rispettivamente
curva, superficie, varietà, e se sono lineari retta, piano, spazio.
548 CORRADO SEGRE
quintuple ciascuna delle quali si compone di 5 piani a due a
due non incidenti ed incontrantisi precisamente nei 10 punti
doppi; ogni piano è contenuto in due diverse quintuple, e vi-
ceversa due quintuple hanno comune un piano. Vi sono 15 spazi
di cui ciascuno contiene 3 piani e 6 punti della configurazione ;
per ogni piano di questa ne passano 3 e per ogni punto ne pas-
Bano id ico: do.
2. Chiamando 0,1,.... 9 i diecr punti doppi di Il,
le sei quintuple I, II, .... VI, costituite dai quindici piani
sì possono rappresentare nel seguente modo :
I. 041 296,02057:8°9, A 507 o 00
II° 0394 bg 0 7839 IR 7 RISO 5
LI -0.-259%5 e 419 DIR On
EV0::0.9,6.7,; 0.149,01 0-6: 8)
Vi 0181607: 002 58,024 056 DR a
VI 0345, 00126, | VAT 0A EE 00
Da questa tabella, su cui sì verificano gli enunciati del n° 1,
si scorge pure che per ogni punto della configurazione escono
sei dei quindici piani, cioè due per ogni quintupla, e che rispetto
a quel punto le quintuple si dividono in due gruppi di tre, sì
che i piani comuni alle quintuple di uno stesso gruppo sono pre-
cisamente i sei piani passanti pel punto. Quindi questi piani si
dividono in due gruppi di tre, sì che due piani di gruppi di-
versi sono sempre incidenti. Lo stesso si può del resto dedurre
da ciò che quei sei piani costituiscono l'intersezione di I col
cono M?, tangente a questa varietà in quel punto doppio.
3. La varietà I contiene sei diversi sistemi (00°) di rette
tali che per ogni punto di I° passa una retta di ciascun sistema,
ed in ogni spazio ve ne sono due. Le sei rette risp. dei sei si-
stemi uscenti da un punto P di I" stanno sul cono quadrico
intersezione delle due polari (M?, e spazio) di P rispetto a T.
Uno spazio qualunque sega I secondo una superficie cubica su
cui sta una determinata bissestupla tale che le due rette di cia-
scuno dei sei sistemi poste in quello spazio sono due rette con-
iugate (cioè non incidenti) risp. delle due sestuple costituenti
la bissestupla. Le 15 rette di quella superficie cubica che ri-
mangono levando la bissestupla sono le intersezioni dello spazio
coi 15 piani di I.
SULLA VARIETÀ CUBICA CON DIECI PUNTI DOPPI 549
Le rette di uno stesso sistema incontrano i piani di una
quintupla e non (in generale) i 10 rimanenti piani di T'; così
i sei sistemi di rette corrispondono alle sei quintuple. Un sistema
non ha alcuna retta nei piani della quintupla che gli corrisponde,
mentre ha in ciascuno dei dieci rimanenti piani di l un fascio
di rette avente il centro in uno dei dieci punti doppi. Le qua-
driche di T situate negli spazi passanti per uno qualunque dei
quindici piani banno i loro due sistemi di generatrici costituenti
risp. quei due sistemi di rette di I° che sono incidenti alle due
quintuple cui quel piano appartiene.
Se da due rette di uno stesso sistema si projettano le rette
di un altro sistema, si ottengono due reti projettive (*). Ne segue
che ognuno dei sei sistemi, e quindi anche la varietà I°, si può
generare in infiniti modi come luogo delle co? rette d’ interse-
zione degli spazi corrispondenti di tre reti projettive. Perchè tre
reti projettive, aventi per sostegno tre rette date r, 7, Ta indi-
pendenti, generino una varietà cubica della specie ani noi con-
siderata, è necessario e sufficiente che, scelti ad arbitrio quattro
piani indipendenti seganti r, r, r, si determini la projettività
fra le reti facendo corrispondere in esse gli spazi che vanno ad
uno stesso di quei quattro piani.
4. La varietà I si può anche definire come il luogo delle
co° rette che incontrano quattro piani qualunque non incidenti.
Quelle rette costituiranno allora uno dei sei sistemi situati su
I ed incontreranno ancora un quinto piano costituente coi quattro
dati una quintupla. Ne segue facilmente la seguente proposizione
notevole:
Le (00°) rette che si appoggiano a quattro piani dati (nella
posizione più generale) «, 4, 4, «, ne incontrano pure un quinto
perfettamente determinato da quelli con la seguente costruzione :
s' indichi con 2; il piano determinato dai tre punti @, &,, 44m
4%, (dove è } l m sono i numeri 1 2 3 4 in un ordine qua-
lunque); i piani 4, 4, 4, @, così determinati incontreranno
4
rispettivamente i piani 4, 4, %, @, in quattro punti situati su
uno stesso piano «,. Questo sarà precisamente il piano cercato,
(*) Intendo per rete la forma (di spazi e piani), che ha per sostegno una
retta. Nel lavoro accennato sul principio si vedranno studiate in particolare
tutte le varietà cubiche generabili mediante tre reti projettive.
550 CORRADO SEGRE
sì che ogni retta la quale incontri quattro dei piani 2, ... %,
incontrerà pure il rimanente (*).
5. La varietà cubica Y, od anche la configurazione consi-
derata di dieci punti, quindici piani e quindici spazi, è trasfor-
mata in se stessa mediante quindici omografie involutorie, cia-
scuna delle quali ha uno determinato dei quindici piani per piano
assiale, scambia fra di loro le due quintuple a cui questo piano
appartiene ed i due corrispondenti sistemi di rette di I°, e muta
in se stessa ciascuna delle altre quintuple (e i corrispondenti
sistemi di rette). Così nelle notazioni del n° 2 la omografia in-
volutoria determinata dalle tre coppie di punti corrispondenti
14, 25, 86 ha il piano 0 7 8 9 per piano assiale, e la retta
che sega le 14, 25, 36 per asse, e trasforma le quintuple I
e II l’una nell’altra, e ciascuna delle rimanenti in se stessa.
Il gruppo di omografie determinate da quelle 15 comprende
tutte le omografie che mutano l' in se stessa (**).
6. Il contorno apparente di { rispetto ad un punto qua-
lunque P è la sezione fatta da uno spazio fisso f sul cono (a
tre dimensioni) di 4* classe (come T') circoscritto a T da P.
od anche la projezione fatta da P sopra X della superficie se-
condo cui quel cono tocca T. Questa superficie è la Y° inter-
sezione di P con la M°, polare di P rispetto a T°; essa ha nei
dieci punti doppi di T altrettanti punti doppi e contiene quin-
dici coniche nei quindici piani di 1.
Quando P sta su T la 7° acquista in P un nuovo punto
doppio pel quale passano sei rette della superficie: le sei rette
di T uscenti da P. Quindi in tal caso il contorno apparente di
TP sarà una superficie D' del 4° ordine e 4° classe con sedici
punti doppi; dieci di questi sono le projezioni dei punti doppi
(*) È noto che sei rette qualunque sono incontrate da cinque piani de-
terminati. Orbene noi possiamo aggiungere in forza della proposizione ora
esposta che questi piani saranno appunto disposti come i piani «, 2%. . 4;
ivi nominati.
(**) Segando T con una varietà quadratica passante pei suoi 10 punti doppi
(la prima polare di un punto rispetto a T) e considerando questa come un
complesso lineare di rette dello spazio ordinario, si ha una notevole con-
gruenza del 3° grado di rette di un complesso lineare dotata di 10 rette
doppie (sghembe tra loro) distribuite in quaterne su 15 schiere rigate (qua-
driche) della congruenza. Varie proprietà di questa si traggono da quelle
suesposte di I.
a,
SULLA VARIETÀ CUBICA CON DIECI PUNTI DOPPI GET.
0, ....., 9 di T, e sei sono le tracce su £ delle sei rette di
T uscenti da P.
La superficie ®* avrà inoltre sedici piani doppi di cui uno
contenente gli ultimi 6 punti doppi nominati ed avente per co-
nica di contatto la traccia del cono quadrico (ordinario) tangente
ad F° in P (la quale conica nella projezione di #° andrà con-
siderata come imagine su ®' del punto doppio P_ di 7°) e quin-
dici saranno le projezioni dei quindici piani di V. ®' è dunque
la notissima superficie di KUMMER ; viceversa questa si può sempre
ottenere come contorno apparente nel modo suddetto (*) e viene
così ad apparire sotto un nuovo punto di vista seguendo il quale
si potrebbe farne uno studio completo. Così tutte le proprietà
della configurazione dei punti e piani singolari di quella super-
ficie D4 si ottengono subito dalle cose precedenti, e specialmente
da quelle relative alla configurazione dei punti doppi e dei piani
di T. Così i sei sistemi di rette di I° daranno come projezioni
i sei sistemi di rette di 2° ordine e 2° classe, costituenti l’in-
sieme delle tangenti doppie di ®'; le proprietà di quelle tra
queste rette che stanno in un piano relative al loro raggrup-
parsi in gruppi di tangenti di coniche (o le loro duali), proprietà
che si deducono di solito da quelle delle tangenti doppie di una
quartica piana, si otterrebbero molto semplicemente per questa
via. Così pure le 10 serie di co! rigate quadriche appartenenti
a ciascuna congruenza quadratica si possono ottenere come pro-
jezioni delle 5 che appartengono al corrispondente sistema di
rette di I° (n° 3) e delle 5 serie (che facilmente si vedono esi-
stere nello stesso sistema) di infinite rigate cubiche passanti per
PiHice.
7. Il contorno apparente di [ rispetto ad un punto esterno
P sarà una superficie ®° di 6° ordine e 4 classe dotata di
una curva cuspidale del 6° ordine intersezione di una quadrica
(*) Ogni superficie del 4° ordine (dello spazio ordinario) dotata di un
piano tangente lungo una conica (e quindi in particolare tutte le superficie
del 4° ordine a conica doppia o cuspidale, tutte quelle che sono focali per
sistemi di rette di 2° ordine e classe 2°, 3°, 4%, 5* e 6* [di 1* specie], ogni
superficie del 3° ordine con un suo piano bitangente, ecc. ) si può considerare
come contorno apparente di una varietà cubica conveniente (di $,) rispetto ad
un suo punto. Nel lavoro nominato si vedranno molte applicazioni di questa
proposizione.
5608 CORRADO SEGRE
con una superficie cubica (*) ed avente inoltre dieci punti doppi
aggruppati per quaterne su quindici piani tangenti doppi: quei
dieci punti e quei piani formando precisamente una configura-
zione identica (projezione) a quella descritta dei punti doppi e
piani di V. La stessa configurazione si potrà considerare come
ottenuta da quella dei punti e piani singolari di una superficie
di Kummer ®' levandone un piano ed i suoi sei punti, e le-
vando nello stesso tempo la condizione pei rimanenti quindici
piani di concorrere a cinque a cinque in uno stesso di quei sei
punti.
Dalla projezione dei sei sistemi di rette di I si ha che la
superficie ®° sarà focale per sei diversi sistemi di rette di 38° or-
dine e 2° classe (**) e che ciascuno di questi conterrà 5 serie di
co! rigate quadriche, delle quali serie ognuna passa pei 4 punti
singolari di un piano singolare della quintupla corrispondente al
sistema di rette considerato, e tocca gli altri 4 piani della quin-
tupla stessa. Ecc.
Si osservi il legame che da questo metodo viene stabilito
fra 6 sistemi di rette confocali di 3° ordine e 2° classe e 6
sistemi confocali di 2° ordine e 2° classe, legame che consiste
in ciò che gli uni e gli altri si possono considerare come pro-
jezione degli stessi 6 sistemi di rette di una varietà cubica T.
8. Se la projezione di T si fa da un punto P posto in un
piano 4 di quella varietà, questo si projetterà secondo una retta
doppia del contorno apparente di T°, e questo diverrà una Com-
plexfliche (per complessi quadratici) generale di PrickER. Ogni
piano che projetti da P una retta di I appoggiata ad « sega
ancora l in (una retta di 4 ed in) una retta di un altro sistema.
Ne segue che i due sistemi di rette di I che si appoggiano ad «
si projetteranno secondo un selo sistema di rette avente per focali
quella superficie e la sua retta doppia. Se / si prende sulla retta
congiungente due punti doppi di T, vale a dire su una retta
(*. Ogni superficie del 6° ordine (dello spazio ordinario) avente una tal
sestica per curva cuspidale può considerarsi come contorno apparente di una
conveniente varietà cubica (di $,) rispetto ad un punto esterno a questa.
(**) Tutti i sistemi di rette di 3° ordine e 2° classe si possono ottenere in
questo modo. Come si vede, le proprietà corrispondenti per dualità a quelle
trovate da KuMMER pei sistemi di rette di 2° ordine e 3* classe si ottengono
immediatamente insieme con altre per questa via.
SULLA VARIETÀ CUBICA CON DIECI PUNTI DOPPI 5559
comune a due piani di T, il contorno apparente avrà due rette
doppie incidenti. Infine se P è un punto comune a tre piani di VU
(ma semplice per l'), il contorno apparente acquistando tre rette
doppie poste in uno stesso piano sì scinderà in questo piano ed
una superficie cubica con quattro punti doppi; in quest’ultimo
caso i sei sistemi di rette di I° si projetteranno due a due nei
tre sistemi di tangenti di quella superficie cubica che si appog-
giano alle tre rette nominate di questa.
9. Si projetti l da un punto qualunque P su uno spazio
R e da un suo punto doppio, per esempio 0, su uno spazio l'
e si considerino come corrispondenti due punti di & ed £' quando
sono projezioni di uno stesso punto di I. Si avrà così tra £t e
R' una corrispondenza (1, 2) o (1, 3) secondo che P è su
o no. Nello spazio &, doppio o triplo di questa trasformazione
doppia o tripla sarà superficie linvite il contorno apparente ®!
o ®° di T, mentre nello spazio semplice R' sarà superficie doppia
la projezione della F° di I già considerata, la quale sarà una
superficie del 4° ordine W, poichè il punto o è doppio per la
F°. Nello spazio semplice R' le coppie, o terne, di punti cor-
rispondenti ai singoli punti di /? saranno evidentemente allineate
col punto P' che è su R' la projezione di P fatta dal punto 0;
su ogni retta passante per P' esse costituiranno un’ involuzione
di 2° o 8° grado, i cui due o quattro punti doppi avranno per
luogo la superficie doppia Y!.
40. Le superficie di 4° classe e 4° o 6° ordine D!' e DI
vengono così a figurare come superficie limite di una trasforma-
zione doppia o tripla dello spazio. Quanto alla superficie doppia
4 che loro corrisponde, essa essendo projezione della 7° avrà
nove punti doppi nelle projezioni dei punti 1, ...., 9, doppi
per F° (ai quali corrisponderanno altrettanti punti doppi nella
superficie limite) ed inoltre avrà nel 1° caso, cioè per la tra-
sformazione doppia, anche in P' un punto doppio pel quale
usciranno sei sue rette (projezioni delle sei rette di 7° uscenti
dal suo punto doppio P). In questo caso al punto doppio P' di
W! corrisponde su ®! la conica di contatto con un piano singolare,
mentre alle sei rette di y'! uscenti da P' corrispondano i sei punti
doppi di ®' posti su quella conica. Infine al punto doppio della
superficie limite ®! o ° il quale è projezione di o da P cor-
risponde in ambi i casi sulla superficie doppia Y' una conica,
intersezione di R' col cono quadrico tangente in 0 ad 7°,
d094 CORRADO SEGRE
La projezione dal punto o delle coniche di F° poste nei
piani di l passanti per 0 (n° 6) conduce, basandosi sul n° 2
al seguente risultato: la superficie doppia Y* ha i suoi nove
punti doppi (fatta astrazione da P' nel 1° caso) che sono le
intersezioni di due terne di rette contenute in essa ed appar-
tenenti ai due sistemi di generatrici di una stessa quadrica. I
sei sistemi di tangenti doppie della superficie ®* o ®° sono rap-
presentati in R' dalle sei congruenze lineari aventi per direttrici
le sei coppie di rette sghembe che si possono formare con quelle
sei rette di YA,
44. Gli spazi ed i piani (di $,) determinano su 1 come
sezioni delle superficie e linee del 3° ordine che sono projettate
da P su A secondo co' superficie del 3° ordine ed 00° cubiche
piane #scritte nel contorno apparente Di o ®° di I relativo a
P, vale a dire tangenti a quella superficie le prime lungo sestiche
(appartenenti a quadriche), le altre in sei punti (di una conica).
Se P sta su T tutte quelle superficie cubiche che così si ot-
tengono iscritte nella superficie di Kummer ®' passano per sei
punti doppi posti in un piano doppio, sicchè di tali superficie
iscritte ve ne saranno sedici sistemi. In ogni caso, sia per la ®'
sia per la D', delle 27 rette situate in una superficie cubica
iscritta 15 apparterranno ad altrettanti piani singolari di ®! o
D° e le rimanenti formeranno una bissestupla in cui le 6 cop-
pie di rette coniugate apparterranno rispettivamente ai 6 sistemi
di tangenti doppie di ®' o ®5 (v. n° 8).
Le sezioni di I fatte da spazi o piani vengono invece pro-
jettate dal punto doppio 0 di I° secondo superficie cubiche pas-
santi per le due terne considerate di rette di ‘Y* e secondo
cubiche piane appoggiate a queste rette. Segue da tutto ciò che
nella trasformazione doppia o tripla ai piani dello spazio doppio
o triplo £?, corrisponderanno in £', superficie cubiche passanti
per quelle due terne di rette, e passanti inoltre per P' nel caso
della trasformazione doppia, mentre ai piani di £', corrispon-
deranno in /?, in ambi i casi superficie cubiche iscritte nella
superficie limite ®' o D° ed aventi un punto doppio nel punto
doppio di questa projezione del punto o (*).
(*) Le projezioni di F da due punti l’uno esterno, l’altro punto semplice
di fl darebbero una corrispondenza (?, 3) tra due spazi, la quale farebbe
corrispondere univocamente sei sistemi di rette confocali di 3° ordine e 2*
classe, e sei sistemi di rette confocali di 2° ordine e 22 classe,
ero
SULLA VARIETÀ CUBICA CON DIECI PUNTI DOPPI DDD
42. Ogni varietà cubica S, la quale contenga un piano %
si può considerare come projezione di una 24,°**, cioè di una
varietà a tre dimensioni bigquadratica intersezione di un fascio
di 2, dello spazio S,, fatta da un punto della varietà stessa
(la projezione del punto stesso essendo precisamente «). Questo
fatto collega intimamente lo studio delle varietà cubiche di S,
contenenti piani a quello delle varietà biquadratiche di ,S.; e
come queste (purchè il fascio di 24° che le contiene non sì
componga tutto di coni) si possono interpretare come complessi
quadratici di rette dello spazio ordinario, mentre quelle coi loro
contorni apparenti dànno una classe estesa di superficie del 4° e
del 6° ordine, si giunge così ad un nuovo e singolare legame
tra queste superficie ed i complessi quadratici.
Applicando questo concetto alla nostra varietà cubica |,
questa si può considerare come projezione di una varietà bi-
quadratica di ,S, avente sei punti doppi, cioè avente per carat-
teristica [(11)(11)(11)]. Ora questa varietà si può considerare
come un complesso tetraedrale. Si giunge così alla seguente pro-
posizione che stabilisce un legame notevole tra la superficie di
KumMER più generale e quella ridotta ad un tetraedro: Dato
un complesso tetraedrale qualunque si consideri la oo* lineare
delle schiere rigate (quadriche) passanti per due rette fisse del
complesso, e se ne faccia la rappresentazione lineare sui punti
dello spazio: mentre in generale una di quelle schiere contiene,
oltre alle sue rette fisse, altre due rette del complesso tetrae-
drale, ve ne saranno co* per cui queste due rette variabili coin-
cideranno (schiere tangenti al complesso tetraedrale); i punti ad
esse corrispondenti costituiranno una superficie di KuMMER affatto
generale (la quale viene così ad apparire in un certo senso
spiegato dalle cose precedenti come il contorno apparente del
complesso tetraedrale visto da una sua coppia di rette fisse).
Si può anche dire che con ciò è determinata una particolare
rappresentazione del complesso tetraedrale sullo spazio doppio e
che la superficie limite di questo è la superficie di KummER (*).
(*) Più in generale si ottiene con lo stesso metodo una rappresentazione
di un complesso quadratico generale di rette sullo spazio ordinario doppio
di punti, e la superficie limite di questo è allora una superficie generale del
4° ordine con due piani doppi e 10 punti doppi. Ma questa ed altre gene-
ralizzazioni di ciò che qui è fatto partendo dalla particolare varietà cubica l
sì troveranno svolte, come già dissi, in altro lavoro.
556 CORRADO SEGRE
Uno studio più minuto di quella rappresentazione si farebbe colla
massima facilità seguendo la via indicata.
43. A dare un ultimo esempio della utilità dei concetti
usati in questa Nota trasformiamo la proprietà conosciuta della
superficie di Kumme® che le quaterne di suoi punti e di suoi
piani tangenti appartenenti ad una retta qualunque hanno lo
stesso rapporto anarmonico. Considerando quella superficie di
KumMER come contorno apparente ®* di I° ne deduciamo subito
la seguente proporzione relativa a È :per una varietà cubica con
dieci punti doppi la cubica in cui essa è tagliata da un piano
qualunque e la quaterna degli spazi tangenti uscenti dal piano
stesso hanno lo stesso rapporto anarmonico. E da questa poi
segue, projettando di nuovo, la seguente altra proprietà comune
alla superficie di Kummer ®' ed alla superficie DI di 6° ordine
e 4° classe: Nella serie razionale delle cc! superficie cubiche
iscritte a PD! od a PD passanti per una data cubica piana iscritta
ve ne sono quattro dotate di punto doppio, ed il loro rapporto
anarmonico è uguale a quello della cubica piana. E dalla stessa
proporzione su I segue ancora con projezione quest’ altra rela-
tiva a ° e corrispondente alla proprietà di ®' da cui siamo
partiti (anzi comprendente quella come caso particolare): La se-
stupla di punti di ‘d° e la quaterna di piani tangenti di questa
superficie che appartengono ad una retta qualunque dello spazio
hanno comune un invariante assoluto; più precisamente per la
sestupla di punti si possono far passare curve piane di 3° classe
aventi per rapporto anarmonico quello della quaterna di piani (*).
Ma si può andare oltre. La proprietà trovata per I’ ci con-
duce a quest'altra della varietà biquadratica con sei punti doppi,
di S. [(11) (11) (11)], di cui I° si può considerare come pro-
jezione : la quartica di 1° specie intersezione di quella varietà
con un $, qualunque, e la quaterna di S, tangenti alla varietà
passanti per quell’, hanno lo stesso rapporto anarmonico. Questa
proposizione si enuncia facilmente come proprietà del complesso
tetraedrale in relazione con una congruenza lineare qualunque.
Di più projettando se ne deduce una nuova proprietà di I e
(*) Si noti che benchò per 6 punti qualunque di una retta si possono far
passare infinite curve piane di 3° classe, il rapporto anarmonico di una tal
curva è determinato (non individuato però) da quei 6 punti e costituisce un
loro invariante assoluto (irrazionale).
I
Ces |
SULLA VARIETÀ CUBICA CON DIECI PUNTI DOPPI d9
quindi anche un’altra proprietà della superficie ®! o ®° rela-
tiva a quartiche di 1° specie ed a superficie del 4° ordine con
conica doppia, scritte a quella, analoga ma più generale
della proprietà già enunciata relativa a curve e superficie del
8° ordine (*).
Evidentemente considerando anche la varietà biquadratica di
8, come projezione di una varietà di S,; e così via, il numero
delle proposizioni relative alla superficie di KumMER (ed alla 9)
che così verrebbero a dedursi da quella da cui siamo partiti, sì
potrebbe moltiplicare indefinitamente. Si scorge pure che questo
metodo di moltiplicazione delle proposizioni, benchè applicato qui
soltanto ad un caso particolare, è un metodo molto generale.
Torino, 14 Maggio 1887.
Sopra una trasformazione delle equazioni d’equilibrio
delle curve funicolari ; Nota del D'. E. NOVARESE
In una nota presentata a quest’Accademia nel 1879 (**), il
chiarissimo Prof. Sracci ottenne una nuova forma delle equa-
zioni del moto di un punto in un piano, dimostrando un teorema
intorno ad una particolare scomposizione della forza che solle-
cita il mobile. Il teorema venne tosto esteso al moto nello spazio,
prima dal Prof. CERRUTI (***), poi, in modo essenzialmente diverso,
(*) Projettando su S, una varietà biquadratica di S; da un punto che le
sia esterno, si ottiene in S, una varietà del 4° ordine avente una quadrica
doppia e dotata di proprietà notevoli. I suoi contorni apparenti costituiscono
superficie interessanti di 6° ed 8° ordine, che forse verranno studiate con
questo metodo in altro lavoro. Se la varietà nominata di S; è la [(11) (11,(11)]
sopra considerata, le superficie che così si ottengono vengono ad essere le-
gate a quella di KuMMER.
(**) Del moto per una linea piana (Atti dell’Accad. di Torino, 27 aprile
1879). La parte essenziale di questa nota fu riprodotta nei Comptes Rendus
di Parigi, 5 maggio 1879. a
(***) Sopra una trasformazione delle equazioni del moto di un punto
materiale. (Transunti dell’Accad. dei Lincei, 18 maggio 1879).
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, X.XII. 42
558 E. NOVARESE
dallo stesso Prof. Sracci (*). Più tardi, anche il Prof. BARDELLI
si occupò della questione e, mentre espose una maniera più rapida
per giungere ai risultati ottenuti dal SrAccI nella seconda nota,
considerò una scomposizione un po’ più generale (**).
Io mi sono proposto di estendere queste ricerche alle curve
funicolari, cioè mi sono proposto di dare delle equazioni dell’equi-
librio d'una funicolare le forme corrispondenti a quelle che i
citati Autori hanno stabilito per le equazioni del moto di un
punto. Avrei potuto raggiungere prontamente lo scopo, valendomi
di quella proposizione generale che permette di dedurre, da un
teorema relativo al movimento di un punto, un teorema relativo
all'equilibrio di un filo. Ho preferito l'indagine diretta, indipen-
dente dai lavori accennati, principalmente perchè il Prof. CERRUTI
(per quanto è a mia conoscenza) ha solamente enunciato il teo-
rema da lui ottenuto, sicchè l'interesse precipuo della ricerca
risiedeva nel dimostrare il teorema analogo a quello. Ed è questa
medesima considerazione che m’induce ad esporre lo studio fatto.
È
Abbiasi una curva funicolare in equilibrio riferita a tre assi
ortogonali; e sia M (x, y, 2) un punto qualunque di essa. Siano
rispettivamente..(%,, fi: Y): (Cone Mela
angoli che il verso positivo (giusta le convenzioni usuali) della
tangente, della normale principale, della binormale fa coi tre
assi: siano p e p, i raggi di curvatura e di torsione. Scelto ad
arbitrio sul piano osculatore un punto 0 (2: % 20): diciamo
p e q le distanze di O dalla tangente e dalla normale princi-
pale o, più precisamente, poniamo:
g=(e—2,) cosa +(y—y) cos + (2-4) 008%; (1),
p=(r-2,)cosa,+(y—%)c08P,+ (2-2) 0087 .-(2).
(*) Del moto per una linea gobba (Atti dell’Accad. di Torino, 25 maggio
1879).
(**) Intorno ad alcune relazioni geometriche e meccaniche concernenti
le linee gobbe (Rendiconti del R. Istituto Lombardo, 22 gennaio 1880).
|
}
TRASFORMAZIONE DELLE EQUAZIONI D'EQUILIBRIO Ecc. 559
Inoltre denotiamo con » la lunghezza del raggio vettore 0M,
con 4 l'angolo che il verso 0M di esso fa coll’asse delle x, ed
avvertiamo che sarà
rcosa=gqcos ,+p cos 2, Si;
Ciò premesso, scriviamo le note equazioni di equilibrio
d di d A d
X=_--.(7cosa), Y=— 7 (Toosf,), Z=— (7 cos Yi)»
dove: X, Y, Zrappresentano le projezioni sugli assi di una forza F,
la quale abbia per linea d’azione e per verso la linea d’azione ed
il verso della forza elementare che soliecita il filo in M, e per
grandezza il valore per il punto M della forza riferita all'unità
di lunghezza: 7 designa il valor assoluto della tensione, s l'arco.
La prima di queste equazioni somministra
dT
DES eos == cosa),
ds 7,
ossia, in virtù della (3).
LT T pe
xl 1 cosa Lesa.
VO?
Quest’espressione di X e le espressioni analoghe di Y e Z
dicono che:
Se st scompone la forza F in due, una F, secondo la tan-
gente, l'altra F, secondo il raggio vettore condotto da O, queste
componenti sono espresse da
=-(7 ò =) PO: AE
pf
La componente F, opera secondo il verso positivo 0 negativo
della tangente, la componente F,, secondo il verso OM od MO
del raggio vettore, secondochè tali espressioni sono positive 0
negative.
Cosicchè :
Come equazioni dell'equilibrio d'una funicolare possono
adottarsi le equazioni (4), insieme con una terza equazione
esprimente che la forza F giace nel piano osculatore.
560 E. NOVARESE
La scomposizione considerata è quella del Prof. BARDELLI.
Scegliendo convenientemente il punto 0, si hanno come casi
particolari le scomposizioni immaginate dai signori Siacci e CER-
ruTI; e allora le formole (4) conducono alle espressioni di
F, ed F, corrispondenti a quelle trovate da questi Autori.
,
II.
Cominciamo dal supporre (col Prof. Siacci) che il punto O
sia la projezione sul piano osculatore dell'origine delle coordinate
(punto fisso qualunque). in quest’'ipotesi abbiamo
q=xcos4,+y cos, +co0s7; »
p=xc054,4+y cos f,+ 20879 ,
n=%c08,+ y cos [334 2087, ,
considerando anche la distanza » del punto O dall'origine. De-
riviamo rispetto ad s le ultime due eguaglianze : coll’ajuto delle
formole di FRENET, che dànno le derivate rispetto all'arco dei
nove coseni cosa,, cos {î,, ecc., troviamo assai facilmente
1?
dp Ie so dn p
(Dit va RNILLII CAO A At (0))
ì CI Ce Pi
Queste relazioni ci occorreranno ben presto.
Poniamo ora
P=:Pps
© rappresenterà il momento della tensione rispetto al punto O (*).
Di qui si trae do at cò
NA SM) SR
ds P ds A ds
ossia, in virtù della (5),
dO del dA
—=pPp ——qQa=-+t%-
ds ds P Pi
*) Almeno in valore assoluto. Quanto al segno, giova avvertire che, se
si adotta la convenzione più usitata sul segno dei momenti, e se per verso
positivo di una normale al piano osculatore si prende il verso positivo della
binormale, il momento di 7' rispetto ad O è espresso da — 0.
TRASFORMAZIONE DELLE EQUAZIONI D’EQUILIBRIO Ecc. 561
Figini 0 il ng ix lita (II,
ds. pp pds po,
i (e)
Sostituendo nella prima delle (4) e scrivendo nella seconda —
p
invece di 7, risultano le formole
PET CELIO r0
Pd Di
analoghe a quelle stabilite dal Stacci nella nota: Del moto per
una linea gobba.
Possiamo (seguendo l'esempio di lui) dare un’altra espres-
sione di /,. Dalla (6) si deduce
epperò la prima delle (7) può scriversi
1d0 Ondn
Fanes (e abieh).
pds p° ds
Se la curva funicolare è piana, il punto O riesce un punto
iva 5 1
fisso arbitrario del piano di essa, — =0 (ovvero n=cost.), e
I
le equazioni d’equilibrio si riducono a
140 0 ’
RPS ALIA it iSE PONTO
pp
le quali formole corrispondono a quelle date dal Sracci nella
prima nota.
II.
Il Cerruti prende per punto 0 il punto corrispondente al
piano osculatore rispetto ad un complesso lineare arbitrario.
Assumendo per asse delle 2 l’asse del complesso, l'equazione di
questo è (indicando con lettere greche le coordinate di due punti
qualunque di un raggio e dicendo % il parametro principale) :
En'-En+k(-6)=0.
562 E. NOVARESE
Di qui si deducono i valori seguenti per le coordinate del punto
corrispondente al piano osculatore
COS 6, COS %,
= k
=— k
\) E)
COS Ya Io COS Yy
x cos @=3-+y cost, + 2 cos Y, i
COS Y,
CS
LA
ti
(0)
Sostituendo nelle (1) e (2), e tenendo conto delle relazioni ben note
che legano fra di loro i nove coseni cos %, ; cos ft, , ecc., sl trova
qcos yy, =xcosf,—ycosz,+%cosY, ,
rn n RA
p cos yy=—xcosf,+y cosa —4cos7;
e, conseguentemente ,
*
d.pcosy3 _ QC08Y
Di 3 oa.
Posto ciò, chiamiamo ©' il momento (*) della tensione ri-
spetto al diametro del complesso che passa per 0: avremo
0'=0 coso
designando con p' il prodotto p cos 7, , ovvero, se vogliamo, il
momento Cayleyano (**) della tangente e del diametro considerato.
Derivando, ne segue
do' &dI. Mb
=== == : VA 1a
ds P ds ds
e, in grazia della (8),
da cui
dl 1699 Paga do'
ds p P p' ds
b)
(*) Col segno cambiato, se si adotta la regola ordinaria e se per verso
positivo del diametro si prende il verso positivo dell’asse delle 2.
(*#*) Col segno cambiato , o col suo segno, secondo le convenzioni che si
fanno.
TRASFORMAZIONE DELLE EQUAZIONI D'EQUILIBRIO Ecc. 568
e però, sostituendo nella prima delle (4) e scrivendo nella se-
0'cosy;.. SD
conda _—— Invece di — ,
p>
1dO0' r 0'
F=--— F.,=-—--—-C087,.
t p' ds ’ r pl? Y3
(Queste formole racchiudono il teorema analogo a quello enun-
ciato dal Prof. CERRUTI (*).
OssERVAZIONE. — È rimarchevole l’analogia che le equazioni
ultime offrono colle equazioni (7') relative ad una funicolare
piana. L’analogia riesce vieppiù spiccata se supponiamo che il
complesso arbitrario considerato sia speciale. Infatti, in questo
caso il punto O diventa l'intersezione del piano osculatore col-
l’asse del complesso, ed il momento 0' è sempre preso rispetto
ad un medesimo asse, qualunque sia il punto M della curva
che si consideri. Talchè si può dire che, dal caso della curva
(*) Propriamente, il CERRUTI definisce la quantità da lui introdotta ana-
loga a ©' come il « momento della quantità di moto rispetto al complesso »,
e, similmente, chiama « momento della tangente rispetto al complesso », ciò
che io ho designato con p'. lo non so con precisione quale significato egli
abbia attribuito a questo linguaggio, ma mi sembra che lo si possa inter-
pretare come segue:
Dati due complessi lineari €, C”, i cui parametri principali siano X,#/,
ed i cui assi a, a' facciano tra di loro un angolo 9, è noto che è stato chia-
mato momento dell’un complesso rispetto all’altro la quantità
R+R') cos 9 + mom. Cayley. (a, a”.
Per analogia, se supponiamo che il complesso Cl’ sia speciale, possiamo
denominare momento di una retta indefinita a' rispetto al complesso C la
quantità
k cos 9g + mom. Cayley.(a, a')
e momento di un segmento u della retta a' rispetto al complesso C la quantità
ukcosp+M(u,a),
designando col simbolo M(w, a) il momento ordinario del segmento « rispetto
all’asse a.
Ammesse queste denominazioni, è facile vedere che 0'e p' rappresentano
rispettivamente (a meno del segno) il momento della tensione e il momento
della tangente rispetto al complesso ausiliario considerato.
Debbo l’idea dell’ interpretazione precedente all’egregio Dott. C. SEGRE.
5604 E. NOVARESE - TRASFORMAZIONE D'EQUILIBRIO ECC.
piana, si passa al caso della curva gobba sostituendo ad un
punto fisso arbitrario del piano un asse fisso arbitrario dello
spazio, al momento della tensione rispetto a quel punto il mo-
mento della tensione rispetto a quest’asse, ecc. Dippiù, coll’ipo-
tesi attuale, si ha un altro vantaggio che mi sembra notevole,
ed è che non occorre più introdurre l’idea di complesso, toglien-
dosi così ciò che vi ha forse di troppo artificioso nella trasforma-
zione del CerrUtI. Basta definire il punto O come l'intersezione
del piano osculatore con una retta fissa arbitraria e considerare
il momento della tensione rispetto a tale retta.
Il Direttore della Classe
ALFonso Cossa.
Correzioni alla Memoria del Dott. Pietro CANALIS,
vol. XXII, disp. 12°. sesso cb -1e
ERRATA CORRIGE
Pag. 523, linea 26, rapporti . .. .: rw Meperti
ni 029, 3 +24, lempestata. ii tc. alias
ra
» 531, » 34, della cellula tutt'attorno della cellula 0 tutl’attorno
n Pe
SOMMARIO
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali.
ADUNANZA del 22 Maggio 1887... ..._.. Re dle 2/21) MILA
BRAMBILLA — Un teorema nella teoria delle polari. . . . .... » 543
Secre — Sulla varietà cubica con dieci punti doppi dello spazio a
quattro: dimensioni}. iu aaa RR AR EI MBNTOCATA T
Novarese — Sopra una trasformazione delle ‘equazioni d’equilibrio
delle. curve:funicolari... sli i AGRARES BD 7
Errata-CorrIGE alla Memoria del Dott. Pietro CanaLIS. . . . . . » 564
NB. A questa dispensa vanno unite le Tav. IX, X e XI,
le prime due relative alla Memoria del Prof. C. GracomiINI
« Annotazioni sull’anatomia del Negro », l’altra relativa alla
Memoria del Dott. P. CanaLIS « Contributo allo studio dello
sviluppo e della patologia delle capsule soprarenali » , inserite
nella dispensa 12* e 13°, pag. 465 e 519.
ATTI
DELLA
R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DITO RENO
PUBBLICATI
DAGLI ACCADEMICI SEGRETARI DELLE DUE CLASSI
Vor. XXII, Disp. 15*, 1886-87
(lasse di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali
TORINO
ERMANNO LOESCHER
Libraio della R. Accademia delle Scienze
aranci
ia
GI
Dì
ut
CLASSE
DI
SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
Adunanza del 19 Giugno 1887.
PRESIDENZA DEL SOCIO SENATORE PROF. ANGELO GENOCCHI
PRESIDENTE
Sono presenti i Soci: Cossa, LEssona, SALVADORI, BERRUTI,
Basso, D’Ovipio, Bizzozero, FERRARIS, NAccaRrI, Mosso, SPEZIA,
GIBELLI, GIACOMINI.
Vien letto l’atto verbale dell'adunanza precedente, che è
approvato.
Tra i libri offerti in omaggio all'Accademia vengono segna-
lati i seguenti:
1° « Bullettino di bibliografia e di storia delle Scienze
matematiche e fisiche pubblicato dal Principe B. BONCOMPAGNI »
vol. XIX, luglio 1886, presentato dal Presidente ;
2° « Parecchie Memorie dell’ Ing. Luigi PESSO, sopra
studi ferroviarii, presentate dal Socio Basso ;
3° « Un lavoro stampato del Dott. Francesco PogRo:
« Sulla determinazione della latitudine della stazione astro-
nomica di Termoli mediante passaggi di stelle al primo me-
ridiano », presentato dal Socio S1AccI.
Quindi le comunicazioni e le letture si succedono nell’ordine
che segue:
1° « Azione dell’ acido mitrico e del calore sugli
eteri »: 2° « Sul parabromobenzoato di etile e sull’ acido
Attì R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII. 43
566
parabromobenzoico » ; Note del Dott. Giorgio ERRERA, presen-
tate dal Socio Cossa;
« Mutamenti della composizione chimica dei muscoli
nella fatica »; lavoro del Dott. Adolfo MONARI, presentato dal
Socio Mosso ;
« Sulla scomposizione di certe omografie in omologie »:
Estratto di lettera del Prof. E. BertINI al Dott. Corrado SEGRE,
presentato dal Socio D’OviIpIO;
« Omografie che mutano in se stessa una certa curva
gobba del quart'ordine e seconda specie, e correlazioni che le
mutano nelle sviluppabili dei suoi piani osculatori »; lavoro
del Dott. Alfonso DeL RE, presentato dal Socio D’OviIpIo ;
« Alcune particolarità macro e microscopiche dei nervi
cardiaci nell'uomo; lavoro dei Dott. S. VARAGLIA e A. CONTI,
Settori all’ Istituto anatomico di Torino, presentato dal Socio
GIACOMINI;
« Sulla legge ottica di Malus detta del coseno qua-
drato »; lavoro del Socio Basso.
Il Socio GIBELLI, anche a nome del condeputato Socio LES-
sona, legge una sua Relazione intorno alla Memoria del Dott.
Prof. Oreste MATTIROLO, che ha per titolo: « IMustrazione di
tre nuove specie di Tuberacee italiane », che in seguito a let-
tura è approvata per la stampa nei volumi delle Memorie.
Il Socio SaLvapori, anche a nome del condelegato Socio
Lessona, legge una sua Relazione sopra le « Ricerche intorno
al parassitismo ed al polimorfismo dei Gordii », del Dottor
Prof. Lorenzo CAMERANO, che vengono lette e approvate per la
stampa nei volumi delle Memorie.
Infine la Classe accoglie, per la consueta pubblicazione nel
Bollettino annesso agli Atti, le Effemeridi del Sole, della Luna
e dei principali pianeti, calcolate per Torino in tempo medio
civile di Roma per l’anno 1888 dal Prof. A. CHARRIER, Assistente
dell’Osservatorio astronomico di Torino.
LETTURE
RELAZIONE intorno alla memoria del Dott. 0. MATTIROLO, in-
titolata: « IMustrazione di tre nuove specie di Tuberacee
italiane
È còmpito di questo lavoro la illustrazione anatomica det-
tagliata di tre nuove specie di Tuberacee italiane, le prime
presso di noi descritte dopo i pregevoli lavori di Vittadini,
editi nel 1831.
L'interesse di questo lavoro non dipende tanto dalla accurata
descrizione delle tre nuove forme, quanto dalle particolarità in-
teressantissime in esse scoperte, massime in rapporto alla oscura
biologia delle Tuberacee.
Nel Tuber lapideum infatti VA. per il primo osservava nella
anfrattuosa escavazione centrale, di cui è fornito, numerosi fila-
menti miceliali rizomorfici (già riconosciuti da lui in altre tube-
racee), e che trovati in rapporto colle ora cosidette Micorize di
alcune radici, fornirono il mezzo di riuscire alla constatazione del
parassitismo nelle Tuberacee; parassitismo già da lungo tempo
sospettato, ma che mai prima d’ora fu potuto dimostrare.
Il Tuber lapideum Sp. n. raccolto in Alba (Piemonte), specie
assal vicina al Tuber excavatum Vitt., è un fungo curioso per
la sua durezza, e per il reticolo di cui va fornito il peridio.
Il Choiromyces Terfezioides Sp. n. e la Terfezia Magnusti
Sp. n. (il primo trovato in Piemonte, e la seconda proveniente
dalla Sardegna) vanno per diversi riguardi raccomandati all’at-
tenzione dei Micologi, quali specie distintissime, come appare dalla
analisi microscopica illustrativa.
Due tavole accuratamente disegnate completano la descrizione
di queste tre nuove specie, delle quali uno di noi ebbe campo
568 T. SALVADORI
di esaminare gli esemplari ed i preparati microscopici, che rico-
nobbe perfettamente conformi alle descrizioni relative.
Con che la vostra Commissione si assume la piena responsa-
bilità di proporre a questo illustre Consesso Accademico la let-
tura della intera Memoria del D. Mattirolo.
MicHELE LESSONA.
G. GIBELLI, Relatore.
RELAZIONE intorno al lavoro del Dott. LorENZo CAMERANO,
intitolato: « Licerche intorno al parassitismo e al poli-
morfismo dei Gordii
Il lavoro avente il titolo suddetto e presentato dall’Autore
alla R. Accademia delle Scienze di Torino è diviso in due parti.
Nella prima l’Autore studia le questioni relative alla vita paras-
sitaria dei Gordz. Nella seconda l'Autore si occupa dei fenomeni
di polimorfismo e conseguentemente della distinzione specifica dei
Gordii stessi.
È indubitato che i Gordz sono animali parassiti; ma è in-
certo se ciascuna specie di Gordius abbia un ospite distinto e
sopratutto se fra questi ospiti debba essere annoverato l’ uomo.
È incerto pure se lo sviluppo dei Gordii possa compiersi intie-
ramente in un ospite solo, o se debba necessariamente aver luogo
un cambiamento d’ospite, affinchè l’animale possa giungere allo
stato adulto.
L'Autore tenendo conto dei fatti noti e di altri nuovi che
egli riferisce nel suo lavoro giunge alle seguenti conclusioni :
DI
1° Che non è ammissibile un ospite distinto per ciascuna
specie di Gordius.
2° Che fra gli ospiti dei Gordz: deve essere annoverato
anche l’uomo, ma non come ospite normale.
RELAZIONE SULLA MEMORIA DEL DOTT. L. CAMERANO 569
3° Che non è d’uopo di ammettere un passaggio da un
ospite in un altro, perchè le specie del genere Gordius possano
giungere al loro completo sviluppo, e che non è ammissibile un
secondo incistidamento della larva uncinata.
L’Autore poi così riassume il ciclo evolutivo dei Gordt: :
1° Srapio. Uovo — libero nell’acqua.
2° SrapIo. Periodo embrionale — sviluppo nell'acqua fino
alla uscita dell’animale dall’uovo.
3° Stapio. Stadio di larva —- caratterizzato da un pro-
lungamento proboscidale armato di stiletto e di uncini, suddiviso
nei seguenti periodi :
a) Vita libera per un certo tempo.
b) Entrata attiva o passiva in un ospite.
c) Incistidamento.
d) Uscita dalla cisti.
4° SrapIo. Metamorfosi della larva che si compie molto
probabilmeute nello stesso ospite, e graduale suo sviluppo sino
allo stato adulto. Il giovane ha corpo filiforme con apertura boc-
cale, corpo segmentato, organi sessuali non completamente svi-
luppati.
5° Stapio. Adulto — Completo sviluppo degli organi ri-
produttori, vita libera nell'acqua.
L’Autore viene perciò a considerare lo sviluppo dei Gordz?
come diretto, e gli adulti, in seguito alla atrofia e alla degene-
razione della maggior parte degli organi, come una sorta di ap-
parati riproduttori enormemente sviluppati e atti soltanto a pro-
durre una grande quantità di uova e di sperma, della qual cosa
la specie ha d’uopo per lottare contro le numerose cause che
impediscono a molte uova di potersi sviluppare.
Nella seconda parte del lavoro, 1’ Autore dimostra coi fatti
ricavati dall’esame di molti esemplari di Gordi di varie specie,
che esiste fra questi un polimorfismo spiccatissimo, e giunge per
tal rispetto alle principali conclusioni seguenti :
570 T. SALVADORI — RELAZIONE ECC.
1° È indubitato che si trovano nell’acqua allo stato fi-
liforme individui di Gordi (ad esempio di G. Villoti Rosa) che
sono propriamente giovani; ma che ciò non costituisce la regola
e che anzi è probabile che quando gli individui escono dall’ospite
troppo giovani non arrivino al loro completo sviluppo.
2° Che negli individui adulti, vale a dire con organi ri-
produttori maturi, esiste, soprattutto nei maschi, un polimorfismo
assai spiccato, per cui si hanno variazioni di colore, di dimen-
sioni e anche di forma, senza che fra questi caratteri ci sia una
vera correlazione.
3° Che il variare delle dimensioni dipende dalla mole del-
l’ospite e dal tempo, durante il quale il verme rimase nell’ospite
stesso, e dalla profondità e dal volume delle acque in cui vive,
come è stato asserito.
4° Che in alcuni casi l’animale presenta veri fenomeni di
neotenia, cioè giunge ad avere gli organi riproduttori maturi senza
assumere tutti i caratteri degli individui interamente sviluppati.
Da quanto precede appare come i fatti relativi alla vita dei
Gordii, secondo gli studi del Dr. Camerano, sarebbero notevol-
mente diversi da quelli che furono ammessi finora dagli Autori
che si sono occupati di detti animali, e perciò i vostri commis-
sarii credono il lavoro del Dr. Camerano degnissimo dell’atten-
zione dei biologi e ne propongono la lettura alla Classe per la
inserzione nei volumi delle Memorie.
MicHELE LESSONA.
T. SALVADORI, relatore.
Azione dell’acido nitrico e del calore sugli eteri;
del Dott. GiorcIio ERRERA
In una Memoria inserita nel volume XIV della Gazzetta
Chimica Italiana, pag. 287, e avente per oggetto lo studio
dell’azione del cloro sul cimene bollente, ebbi per incidenza oc-
casione di studiare il modo di comportarsi di alcuni eteri trat-
tati con acido nitrico fumante.
Annunciai allora come l’etere benziletilico C,-H,.CH,.0.C,H..
desse aldeide benzoica, e l’etere cumiletilico
C, H,
CH, CH,. 0.C,H,
aldeide nitrocuminica, ed espressi l'opinione che il dare aldeidi
per nitrazione potesse ritenersi proprietà generale degli eteri.
M'’accorsi in seguito che il Sintenis (*), in una memoria
pubblicata fin dal 1872, e quindi anteriore alla mia, riguar-
dante l’azione del cloro e del bromo sugli eteri, avea accennato
di volo al fatto che gli eteri benzilmetilico e benziletilico nitrati
si trasformano in aldeide benzoica, senza però approfondire
ulteriormente la questione.
Nel presente lavoro ho cercato di generalizzare la suddetta
reazione e di studiare il modo di comportarsi dell’acido nitrico per
ciò che riguarda il radicale alcoolico appartenente alla serie grassa.
Come si vedrà, gli eteri benzilisoamilico C, H,.CH,.0.C,H,;
benzilisobutilico CC; H,.CH,.0.C,H,, parabromobenziletilico
C,H,Br.CH,.0.C,H,,paraclorobenziletilico CH, Cl.CH,.0.C,H.,
trattati con acido nitrico fumante danno tutti il nitrato del ra-
dicale alcoolico grasso e rispettivamente le aldeidi benzoica, pa-
rabromobenzoica, paraclorobenzoica.
La reazione va nettamente, senza cioè che si formino pro-
dotti secondarî in quantità apprezzabile, almeno per ciò che ri-
(*) Ann. Ch. Pharm., 161, 329.
379 . GIORGIO ERRERA
guarda il radicale aromatico. In un solo caso, in quello cioè
dell'etere cumiletilico ho ottenuto la nitroaldeide, in tutti gli
altri Valdeide; il fatto si spiega facilmente quando si pensi che
l’aldeide cuminica è capace di venir nitrata dall’acido nitrico
impiegato per la decomposizione dell'etere.
Benchè il numero dei casi da me studiati non sia molto
forte, mi pare però si possa concludere con sufficiente probabi-
lità che in generale gli eteri misti contenenti un radicale alcoo-
lico grasso ed uno aromatico, danno per nitrazione, il nitrato
del primo, ed una aldeide, o una nitroaldeide aromatica, a seconda
che l’aldeide la quale primitivamente si forma è capace o no
di esser nitrata dall’acido nitrico che si adopera.
Ho studiato inoltre il modo di comportarsi di alcuni eteri
sotto l’influenza del calore. Quest’azione, per ciò che riguarda
l'etere cumilico, formò oggetto delle ricerche di Fileti, e i
risultati da lui ottenuti si trovano nella Memoria: Sul! etere
cumilico e sulla preparazione dell’ alcool cuminico (*) Cause
indipendenti dalla sua volontà, costrinsero l’autore ad abbando-
nare l’idea di estendere tale reazione ad altri eteri, perlochè
egli lasciò a me la continuazione del lavoro.
Da quanto ho potuto rilevare nella letteratura chimica, i
casi finora conosciuti di decomposizione degli eteri sotto l'influenza
del calore, sono i seguenti:
Facendo passare per un tubo rovente etere ordinario, Liebig (**)
ottenne aldeide acetica, metano ed etilene. Questa decomposi-
zione potrebbe, secondo Cannizzaro (***), ricondursi alla equazione
semplice
C,H,.0.C,H,=C,H,0+C,H;,
ammettendo che l’etano, dapprima formatosi, si sia decomposto
sotto l’influenza del calore in metano ed etilene.
L’etere etilico perelorurato (0, 07,), 0 si decompone per di-
stillazione in esacloruro di carbonio 0, CI, ed in cloruro di tri-
cloroacetile CO7,.CO CI (aldeide percloturata) (Malaguti) (#***).
(*) Gazzetta Chimica Italiana, XIV, 496.
(**) Ann. Ch. Pharm., 14, 133.
(>) Ibid. 92, 115.
(909) Ann. de chimie et de physique, [3], 16, 4.
AZIONE DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUGLI ETERI 573
Regnault (*) determinando la densità di vapore dell’etere
metilico perclorurato (CC/,),0, la trovò uguale a metà di
quella richiesta dalla teoria. Il fenomeno si può spiegare am-
mettendo, come è probabile, la decomposizione di ciascuna mo-
lecola d’etere in due, l’una di tetracloruro di carbonio, l’altra
di cloruro di carbonile CO CI, (aldeide formica perclorurata).
L’etere benzilico (C, H..CH,),0 riscaldato in tubo chiuso un
po’ al disopra di 315° si decompone in aldeide benzoica e toluene
(Cannizzaro) (**).
L’etere cumilico (C,H,.C, H,.CH,), 0 si decompone per
distillazione in aldeide cuminica e cimene (Fileti) (***).
L’ossido di metilisopropilcarbinile
CH, CH
ae riza
ci?“ 6; ST,
a 200° si decompone in metilisopropilcarbinol ed amilene ordi-
nario (trimetiletilene) (Wurtz) (****).
A questi casi aggiungo i due da me studiati nella presente
memoria, cioè a dire:
L’etere parabromobenziletilico C, H, Br. CH, 0.C,H, che si
decompone in aldeide parabromobenzoica ed etano.
L’etere paraclorohenziletilico C,H,Gt.CH,..0.C,H,; che si
decompone in aldeide i ed etano.
Come si vede, tranne l'etere corrispondente al metilisopro-
pilcarbinol che si decompone nell’alcool e nell’idrocarburo non
saturo, tutti gli altri si scindono per l’azione del calore nel-
l’idrocarburo saturo e nell’aldeide corrispondente.
Etere benzilisobutilico.
OSH CHO CSE.Hos
‘Quest’ etere fu ottenuto recentemente da Ad. Claus ed
E. Trainer (*****), facendo reagire il cloruro di benzile sull’iso-
(*) Ann. de chimie et de physique, [2], 71, 403.
(**) Loco citato.
(*#*) Loco citato.
(****) Comptes rendus, LVII, 479.
(99%) Ber. der deutschen chem. Gesellschaft, XIX, 3006.
574 GIORGIO ERRERA
butilato di sodio. Gli autori non fanno che accennarlo e gli at-
tribuiscono il punto di ebollizione 208°-211°. Molto più co-
modo, quando si voglia preparare quest’etere, è operare nel modo
seguente :
In un recipiente di ferro si fa bollire per tre ‘ore circa a
ricadere un miscuglio di cloruro di benzile e di alcool isobutilico
(una molecola del primo per due del secondo) con idrato po-
tassico solido, in quantità circa doppia di quella necessaria ad
eliminare tutto il cloro dal cloruro di benzile. È bene evitare
l’uso di palloni di vetro i quali o facilmente forati dalla
potassa.
A reazione finita, quando cioè non si forma più cloruro
potassico (C, H, CH, Cl + KOH+C,H}0H=KCI+ H,0
+ C;H, CH, 0C, H dn si tratta con acqua È si distilla il Liquido
Aa che così si separa. Dopo un certo numero di distillazioni
frazionate, il prodotto si divide in tre porzioni distinte, l'una
bollente a bassa temperatura costituita dall’eccesso d’alcool iso-
butilico impiegato, l’altra più abbondante bollente a tempera-
tura intermedia, verso i 210°, che è l’etere benzilisobutilico, la
terza in piccola quantità, passante a temperatura più elevata e
costituita da prodotti superiori.
L’etere benzilisobutilico C,H,.CH,.0.C,H, è un liquido
incoloro, di odore grato di frati; più denso dell’ acqua e in essa
insolubile, bolle alla temperatura di 211°,5-212°,5 (colonna
immersa nel vapore) alla pressione di 743" ridotta a 0°.
All’analisi diede i risultati seguenti:
Da gr. 0,2461 risultarono gr. 0,7266 di anidride carbonica
e gr. 0,2229 d’acqua
e su 100 parti
trovato calcolato
C 80,52 80,49
H 10,06 9,76
O 9,42 9,75
100,00 100,00
Versando goccia a goccia l’etere benzilisobutilico' nell’acido
nitrico (densità 1,51) raffreddato con acqua, avviene una rea-
zione violenta, paragonabile a quella che ha luogo cogli eteri
benziletilico e cumiletilico (loco citato). Ogni goccia che cade si
discioglie stridendo, il liquido si colora in rosso e si sviluppano
AZIONE DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUGLI ETERI 575
vapori pure rossi. Per una parte in peso d’etere si possono
adoperare da quattro a cinque parti d’acido nitrico. Il liquido
si versa poi nell’acqua; al momento in cui l’acido nitrico viene
a contatto coll’acqua stessa, ha luogo un abbondante sviluppo di
biossido di azoto, contemporaneamente si raduna sul fondo del
bicchiere una sostanza oleosa pesante. Questo liquido che ha
l'odore caratteristico delle mandorle amare, viene separato me-
diante imbuto a robinetto ed agitato con bisolfito sodico. Si forma
tosto la combinazione cristallizzata che viene spremuta, lavata
successivamente con alcool e con etere, e decomposta con solu-
zione concentrata di carbonato sodico. Si ottiene così una so-
stanza che ha tutte le proprietà fisiche e chimiche dell’aldeide
benzoica. Il rendimento è buono, non si formano prodotti se-
condari.
Il liquido alcoolico etereo che ha servito a lavare il com-
posto dell’aldeide col bisolfito, viene evaporato a bagno-maria.
Rimane una sostanza azotata che bolle a 121°-122° ed è ni-
trato di isobutile, come dalla seguente determinazione di azoto.
Da gr. 0,2242 di sostanza risultarono 283° di azoto alla
temperatura di 12° ed alla pressione di 741" 9 ridotta a 0°
e su 100 parti
trovato calcolato per
coi
N DO Bi Tao
L'equazione che meglio esprime il decomporsi dell’etere ben-
zilisobutilico in aldeide benzoica e nitrato di isobutile, per opera
dell’acido nitrico concentrato, è la seguente :
(4-.CH,.0-C.H_+.3HNO.—C:H-_ COHLC,.HNO,
ra HO R4NO,
Etere benzilisoamilico.
COL ROL, UO FI:
Quest’etere si prepara in modo identico al corrispondente
isobutilico, partendo dal cloruro di benzile e dall’alcool amilico
di fermentazione. È un liquido incoloro, di odore aggradevole
di frutta che ricorda lontanamente quello dell’alcool amilico, più
576 GIORGIO ERRERA
denso dell’acqua e in essa insolubile, bolle da 236°,5-237° (co-
lonna immersa nel vapore) alla pressione di 748"" ridotta a 0°.
Dall'analisi si ebbero i risultati seguenti:
Gr. 0,3064 di sostanza diedero gr. 0,2841 d’acqua e gr.
0,9051 di anidride carbonica.
e su 100 parti
trovato calcolato
Cc 80,56 80,90
H 10,30 10,11
O 9,14 8,99
100,00 100,90
La nitrazione di quest’etere procede come pel caso dell'etere
isobutilico e altrettanto nettamente; si ottiene da una parte
aldeide benzoica, dall’altra nitrato di isoamile (p. e. 145°-147°),
come dalla seguente determinazione di azoto.
Gr. 0,2120 di sostanza diedero 19° di azoto alla tempe-
ratura di 11° ed alla pressione di 749" ,7 ridotta a 0° e in
100 parti
trovato calcolato per
C, H,, NO,
NET 10,53
Etere parabromobenziletilico.
Br (1)
4 no CH,.0.CH, (4)
Per preparare quest’etere era mia intenzione partire dal
cloruro di parabromobenzile
il quale, secondo ciò che avviene generalmente, dovea risultare,
o per l’azione del bromo a freddo sul cloruro di benzile, ovvero
del cloro a caldo sul parabromotoluene. In realtà non sono mai
riuscito ad ottenere il predetto composto allo stato di purezza,
ma sempre mescolato a quantità variabili di bromuro di para-
bromobenzile, come apparirà dalle seguenti ricerche.
3
i
d
L
AZIONE: DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUGLI ETERI 577
Per bromurare il cloruro di benzile, ho operato come si
suol fare in casi analoghi. ho aggiunto cioè a cento grammi
del clorufo, circa dieci grammi di iodio, e nella soluzione così
ottenuta, raffreddata con ghiaccio, ho versato goccia a goccia
la quantità teorica di bromo. Il liquido lasciato in riposo per
alcune ore in luogo freddo, a temperatura inferiore a zero, si
rapprese in una massa di lunghi cristalli aghiformi. Si decantò
la parte rimasta liquida, e questa, dopo lavata con soluzione
diluita di idrato sodico, si sottopose a distillazione frazionata,
durante la quale si notò leggiero sviluppo di acido bromidrico.
Le porzioni bollenti a temperatura più bassa e costituite da
poco cloruro di benzile inalterato, rimasero liquide, quelle pas-
santi a temperatura più elevata (230°-250°) sottoposte ad un
forte raffreddamento si rappresero parzialmente in cristalli che
vennero separati dalle acque madri ed uniti a quelli ottenuti
dal liquido primitivo. La parte liquida venne di nuovo distil-
lata, e dalle porzioni superiori si ottennero per raffreddamento
nuovi cristalli. L'operazione si ripetè parecchie volte finchè non
si separò più nulla di solido; tutti i cristalli si lasciarono sgoc-
ciolare sopra imbuto, sempre mantenendoli ad una temperatura
inferiore allo zero (l'operazione fu faita di pieno inverno) poi
sì misero su carta e finalmente si spremettero col torchio. I cri-
stalli quando sono impregnati dal liquido fondono a tempera-
tura bassa, ma il punto di fusione si eleva man mano che si
allontana il liquido stesso, cosicchè mentre sul principio è ne-
cessario operare al disotto dello zero, alla fine si può lavorare
anche ad una temperatura di 20 o 80 gradi senza che i cri-
stalli si fondano. Questa preparazione riesce facile d’inverno.
noiosa e difficile in altra stagione.
Della parte liquida, costituita probabilmente di ortoderivati
non mi sono occupato, la parte solida che, come vedremo, è un
miscuglio di paraderivati venne cristallizzata dall’alcool. Si ot-
tennero così varie porzioni tutte sotto forma di lunghi aghi splen-
denti, di odore grato ma assai irritante, con punti di fusione
pochissimo diversi (da 50°,5 a 52°) e che presentavano tutto
l’aspetto di sostanza unica e ben definita. Malgrado ciò, e come
risulterà dalle analisi seguenti, questo prodotto apparentemente
unico è invece un miscuglio di due sostanze diverse le quali si
trovano in quantità variabile nelle varie porzioni, e sono il clo-
ruro di parabromobenzile ed il bromuro di parabromobenzile.
578 GIORGIO ERRERA
Tra le numerose analisi eseguite, ne scelgo tre fatte su tre
porzioni diverse, cioè sui cristalli provenienti dalla seconda, dalla
terza e dalla quinta cristallizzazione. È
I (2° cristallizzazione). Grammi 0,3559 di sostanza diedero
gr. 0,5527 di cloruro e bromuro d’argento e gr. 0,0024 di
argento. La perdita di peso avuta nel trasformare in cloruro il
miscuglio dei sali d’argento fu di gr. 0,0985.
II. (3° cristallizzazione). — Gr. 0,2553 di sostanza diedero
gr. 0,3937 di cloruro e bromuro d’argento e gr. 0,0034 di
argento. La perdita di peso avuta nel trasformare in cloruro il
miscuglio dei sali d’argento fu di gr. 0,0743. - Gr .0,4486 di
sostanza fornirono gr. 0,6106 di anidride carbonica e gr. 0,1136
d’acqua.
III (5° cristallizzazione). Gr. 0,3338 di sostanza diedero
gr. 0,5067 di cloruro e bromuro d’argento e gr. 0,0955 di
argento. La perdita di peso avuta nel trasformare in cloruro il
miscuglio dei sali d’argento fu di gr. 0,0999
e su 100 parti
I II ITI
Br 50,06 53,07 53,77
oli 9,55 7,83 6,32
C 37,11
H 2,81
La teoria per il cloruro di parabromobenzile ed il bromuro
di parabromobenzile richiederebbe rispettivamente
Br Br
.H
CLIO CHLCI HS CH, Br
Br 38,92 64,0
CI Epi)
C 40,88 33,6
H 2,92 9,4
100,00 | 100,0
Osservando i valori ottenuti nella II analisi si vede che
essi quasi coincidono con quelli richiesti da un miscuglio equi-
AZIONE DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUSLI ETERI 579
molecolare di cloruro e bromuro di parabromobenzile. Infatti
si ha Br Br
calcolato per C; LAY CH. C1 PE C Hi CH. Br
Br 52,69
CI 7,79
oi 36,88
H 9,64
100,00
Malgrado la variabilità nella composizione dei prodotti pro-
venienti da diverse cristallizzazioni, questa coincidenza insieme
alla bellezza dei cristalli, mi fece sospettare trattarsi non d’un
semplice miscuglio, ma d’un vero composto avente composizione
poco diversa da quella d’un miscuglio a molecole uguali di clo-
ruro e bromuro di parabromobenzile. A togliere ogni dubbio feci
la seguente determinazione di densità di vapore col metodo di
Meyer alla temperatura di circa 300°.
P=-gr. 0,1172
de 395544
voga
Ve=sd'2,8
trovato d=
Br
calcolato per C, Be Di CI sail Hi CH. Br
Da essa risulta essere la coincidenza affatto accidentale e
trattarsi veramente d’un miscuglio e non d’una combinazione, la
quale richiederebbe una densità doppia, o vicina alla doppia.
Pare che il bromuro di parabromobenzile sia un po’ meno solu-
bile nell’alcool del cloruro, perchè la sua quantità relativa aumenta
colle successive cristallizzazioni, come risulta dalle tre analisi sopra
riportate nelle quali il bromo cresce dalla prima alla terza, mentre
il cloro diminuisce. Queste due sostanze debbono avere inoltre un
punto di fusione, se non coincidente, almeno vicinissimo, e de-
vono essere isomorfe in modo da coesistere nel medesimo cristallo.
Che si tratti poi di derivati para del toluene e che nel
nucleo vi sia soltanto bromo, indipendentemente dalla presenza
del cloro o del bromo nella catena laterale, è provato da ciò
che i suddetti cristalli per ossidazione con acido nitrico allun-
580 GIORGIO ERRERA
gato del doppio volume d’acqua dettero esclusivamente acido
parabromobenzoico p. f. 251°. Dall’analisi dell’acido si ebbero
i numeri seguenti:
I. Gr. 0,2584 di sostanza dettero gr. 0,2418 di bromuro
d’argento.
II. Gr. 0,1679 di sostanza diedero gr. 0,0410 d’acqua e
gr. 0,2568 di anidride carbonica
e su 100 parti
ae trovato calcolato
I II
Br 39,81 39,80
C 41,72 41,79
H 2,01 2,49
O IRORZIG, 15,92
100,00
E che nel nucleo esista esclusivamente il bromo, risulta pure
dall’azione della potassa alcoolica; si ottenne soltanto l'etere
parabromobenziletilico, accanto al bromuro ed al cloruro di po-
tassio, la cui presenza fu constatata nelle acque potassiche
C,H,;Br.CH, Ct4 K0H+ C,H,:0H=(C ee 0H-
+KCl+H,0,
C,H,Br.CH,Br4-X0H + C, H, -0OH=HibiC debt:
+KBr4H,0 .
Quale sia il meccanismo della reazione, per la quale il bromo
agendo a freddo sul cloruro di benzile, dà, accanto al cloruro,
che veramente dovrebbe. formarsi, anche il bromuro di parabro-
mobenzile, non posso dire. È evidente che il bromo deve spo-
stare il cloro, ma in qual modo si comporti questo elemento
messo così in libertà, non si potrà sapere che mercè un esame
accurato di tutti i prodotti della reazione.
Non ho ottenuto risultati migliori seguendo la via inversa,
cioè clorurando a caldo il parabromotoluene. Im un pallone unito
a refrigerante ascendente, feci bollire 60 grammi di parabromo-
toluene puro, mentre un tubo, il cui orifizio si apriva nella
parte superiore del pallone stesso, conduceva una corrente mo-
derata di cloro. Si svolse dell’ acido cloridrico senza traccia
AZIONE DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUGLI ETERI 581
di bromo. S’interruppe l'operazione allorchè il parabromotoluene
ebbe assorbito un atomo di cloro; per raffreddamento tutto il
liquido si rapprese in una massa cristallina che fu distillata ;
tranne una piccola porzione passante a bassa temperatura e co-
stituita principalmente da parabromotoluene inalterato, tutto il
resto solidificò a temperatura ordinaria, e siccome conteneva po-
chissima parte liquida, fu cristallizzato addirittura dall’alcool.
Anche in questo caso si ottennero lunghi aghi fondenti a 52°,5
e che diedero all'analisi numeri indicanti un miscuglio di cloruro
e bromuro di parabromobenzile.
Da gr, 0,3499 di sostanza risultarono gr. 0,5478 di clo-
ruro e bromuro d’argento e gr. 0,0127 di argento. La perdita
di peso avuta nel trasformare in cloruro il miscuglio dei sali
d’argento fu di gr. 0,0996
e in 100 parti
trovato
Br 53.06
GI 9,91
Anche in questo caso l’ossidazione non diede che acido
parabromobenzoico, e il trattamento con potassa alcoolica, etere
parabromobenziletilico accanto a cloruro e bromuro di potassio.
Il fatto che per azione del cloro sul bromotoluene si ottenga
accanto al cloruro, anche il bromuro di parabromobenzile è assai
rimarchevole, inquantochè, partendo da un composto monobro-
murato, si è giunti per opera del cloro ad uno bibromurato.
È necessario che il cloro abbia agito parzialmente in modo da
scacciare il bromo dal nucleo, e che questo abbia sostituito
l'idrogeno del metile nel bromotoluene; probabilmente si sarà
pure formato del cloruro di benzile, o di benzilidene che io però
non ho cercato. Ad ogni modo la reazione è molto oscura, e
senza emettere alcuna ipotesi, mi limito a constatare il fatto
che, tanto trattando con bromo il cloruro di benzile a freddo,
quanto trattando con cloro il parabromotoluene bollente, si giunge
al medesimo risultato, vale a dire ad un miscuglio di cloruro di
parabromobenzile e di bromuro di parabromobenzile, senza che
in nessun caso entri cloro nel nucleo.
Benchè non sia riuscito a preparare il cloruro di parabro-
mobenzile puro, il miscuglio così ottenuto mi servi ugualmente
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII. 44
Va
8%
Lì
GIORGIO ERRERA
allo scopo prefissomi, cioè alla preparazione dell’etere parabromo-
benziletilico. Perciò feci ricadere il miscuglio sovra accennato con
una soluzione di idrato potassico nell’alcool, e sospesi l’ebolli-
zione allorchè cessò il formarsi del bromuro e del cloruro po-
tassico. Per aggiunta d’acqua si separò un liquido oleoso, pe-
sante, che asciugai su cloruro di calcio e distillai; esso passò
quasi tutto verso i 240° lasciando nel pallone un piccolo re-
siduo che solidificò per raffreddamento e sul quale ritornerò in
seguito. Nella canna che aveva servito alla distillazione osservai
dopo qualche tempo che s’erano formati degli aghetti in quan-
tità piccolissima, fondenti ad elevata temperatura e che, come
vedremo, erano acido parabromobenzoico.
L’etere parabromobenziletilico così preparato, mi diede al-
l’analisi numeri concordanti colla teoria, vale a dire:
I Da gr. 0,3562 di sostanza risultarono gr. 0,3049 di
bromuro d’argento e gr. 0,0040 di argento.
I. Da gr. 0,4538 di sostanza risultarono gr. 0,2278 d’acqua
e gr. 0,82783 di anidride carbonica
e in 100 parti
trovato calcolato
I II
Br 91,29 ST,21
C 49,72 50123
H 5,57 5,12
O 7,46 7,44
100,00
Siccome era partito da un miscuglio e non dal cloruro di
parabromobenzile puro, per togliere ogni dubbio che nell’ etere
da me preparato ci potesse esser cloro, riscaldai in corrente di
cloro il bromuro d’argento ottenuto nella analisi precedente; ebbi
una perdita di peso di gr. 0,0721 che corrisponde appunto a
0,3045 di bromuro d’argento. Dunque veramente il composto
analizzato non contiene cloro.
L’etere parabromobenziletilico C, H,Br.CH,.0.C,H, è un
liquido di odore aggradevole di frutta, bollente a 243° (colonna
immersa nel vapore) alla pressione di 729"" ridotta a 0°, più
pesante dell’acqua e in essa insolubile. Per distillazione si de-
ri ITA
AZIONE DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUGLI ETERI 583
compone appena sensibilmente in aldeide parabromobenzoica ed
etano secondo l’equazione :
Br Br
Cs E CH. 0 5 H ptt: CS CHO usi
ed è appunto alla formazione dell’ aldeide ed alla susseguente
ossidazione per opera dell’ossigeno dell’aria, che si devono i cri-
stallini di acido parabromobenzoico i quali compaiono sul tubo
dell'apparecchio distillatore.
Per rendere più evidente questa decomposizione che nelle
condizioni ordinarie è estremamente lenta, e per constatare il
formarsi dell’etano, feci ricadere l’etere sotto la pressione pro-
dotta da una colonna di mercurio alta circa 45 centimetri e
raccolsi il gas che si andava svolgendo. Benchè anche in queste
condizioni la decomposizione fosse lenta, potei raccogliere in un
giorno una campanella d’un gas non assorbibile dal bromo,
capace di bruciare con fiamma pallida e che riconobbi essere
etano perchè trattato con un eccesso di cloro, sotto l’influenza
della luce, diede luogo alla formazione di cristalli di esacloruro
di carbonio (p. f. 175°). (#). Il liquido dal quale s’era svolto
l’etano venne agitato con bisolfito sodico; si separò una massa
solida abbondante, che fu spremuta, lavata con alcool e con
etere, e decomposta con carbonato sodico. Risultò aldeide pa-
rabromobenzoica che cristallizzata dall'alcool fuse a 56°.
La decomposizione che avviene lentamente nelle condizioni
suesposte, ha luogo rapidamente quando si riscaldi l’etere in
tubo chiuso verso i 380°, e quasi istantaneamente alla tempe-
ratura di ebollizione dello zolfo. Però in questi casi la reazione
non è più netta, gran parte dell’aldeide si ossida, forse a spese
dell’ossigeno dell’aria contenuta nei tubi, e si forma l’acido cor-
rispondente; fra i prodotti gazosi, accanto all’etano si trovano
traccie di anidride carbonica e molto ossido di carbonio, e fi-
nalmente rimane una resina bruna pochissimo solubile nell’alcool.
Appunto per la decomposizione dell’etere nell’aldeide e nel-
l’idrocarburo corrispondente, determinando la sua densità di
(*) FarapAY (Annales de chim. et de phys. [2], 18, 48) che per primo ha
ottenuto l’esacloruro di carbonio, gli attribuisce il punto di fusione 160°. —
Recentemente Hann (Ber. der deutsch. chem. Gesellschaft, XI, 1733) indica
come punto di fusione 185°; gli altri autori danno numeri intermedî.
584 GIORGIO ERRERA
vapore anche a temperatura vicinissima al punto di ebollizione,
si trovano valori un po’ inferiori a quelli richiesti dalla formula.
La densità fu determinata col metodo di Meyer alla tempera—
tura del benzoato di amile bollente (261°,5).
I P=;gr.::0,0978
la PB fr) erge
i—-13°
| LAEZZIA 1A posti ci
II VAR
Hj=S38c pp
t—=14°
Ki=12420
I Il
trovato di=301 6,99
di= T,44 (*).
Br
calcolato per CH< CH;S0C4EE
Ho accennato come nel distillare il liquido greggio prove-
niente dall’azione della potassa alcoolica sul miscuglio di cloruro
e bromuro di parabromobenzile, rimanga nel palloncino una
(*) Determinando la densità di vapore alla temperatura di ebollizione
dell’antrachinone (380°) ebbi i seguenti risultati:
P= gr. 0,0827
H,=742mm, 6
t=450
°Vi= 18cc, 6
trovato d
d
calcolato per C;H, < Soy + CH
cioè a dire la densità corrispondente alla decomposizione completa dell'etere
in aldeide parabromobenzoica ed etano.
Questa determinazione ha però un valore relativo, avuto riguardo al fatto
poc'anzi accennato, che riscaldando l’etere in tubo chiuso a 380°, tempera-
tura di ebollizione dell’antrachinone, si osservano, oltre l’aldeide e l’etano,
prodotti di decomposizione più avanzata, come l’acido parabromobenzoico,
l’ossido ed il biossido di carbonio.
Forse la coincidenza dei dati sperimentali colla teoria per una decom-
posizione completa è dovuta al solo caso, può darsi però che l’esattezza del
risultato dipenda dal brevissimo tempo in cui l’etere fu sottoposto a tempe-
ratura tanto elevata.
AZIONE DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUGLI ETERI 585
sostanza solida cristallina. Questa sostanza non era in quantità
sufficiente da potersi sottoporre ad analisi, però cristallizzata
dall'alcool presentò il punto di fusione 66° vicino a quello del-
l'alcool parabromobenzilico (p. f. 69°) col quale non è impro-
babile sia identica. Se così fosse, la sua presenza potrebbe spie-
garsi colla formazione di un po’ d’aldeide parabromobenzoica, la
quale verrebbe decomposta dalla potassa alcoolica nell’alcool e
nell’acido corrispondente. E a conferma di ciò sta il fatto che
dopo precipitazione dell’etere con acqua, il liquido potassico con-
tiene disciolto dell’acido parabromobenzoico.
La nitrazione dell’etere parabromobenziletilico avviene come
per gli altri analoghi. Esso si scioglie nell’acido nitrico 1,51
reagendo con violenza, e per aggiunta d’acqua si depositano
goccie oleose che dopo pochi istanti si solidificano. La massa
solida viene disciolta in pochissimo etere ed agitata con bisolfito
sodico, si separa il composto, che si spreme, si lava con alcool
ed etere, e si decompone con carbonato sodico. L’aldeide così
ottenuta si distilla con vapor d’acqua in un’atmosfera di ani-
dride carbonica; essa si solidifica già lungo il refrigerante ed è
bianchissima. Cristallizzata dall'alcool presenta il punto di fu-
sione 56° e tutte le altre proprietà dell’aldeide parabromoben-
zoica. All’analisi diede i risultati seguenti.
Da gr. 0,2946 di sostanza si ebbero gr. 0,2984 di bro-
muro d’argento
e in 100 parti
trovato calcolato
Br 43,10 43,24
Questo metodo di preparazione dell’aldeide parabromoben-
zoica mi pare preferibile a quello conosciuto finora, almeno per
la rapidità molto maggiore colla quale si giunge allo scopo.
Jackson e White (*) i quali soli, da quanto mi consta, si sono
occupati di questo argomento fanno bollire il bromuro di para-
bromobenzile per #re giorni con nitrato di piombo. Col metodo
da me indicato, il rendimento è buono e la decomposizione va
nettamente senza che l’aldeide sia accompagnata da prodotti se-
condarî in quantità apprezzabile.
(*) Ber. der deutschen chem. Gesellschaft, XI, 1043.
Ut
(0.0)
(©p)
GIORGIO ERRERA
Etere paraclorobenziletilico.
CI (1)
CH, CHi.020,52 4
Sintenis nella sua Memoria sopracitata, prepara l’etere pa-
raclorobenziletilico sottoponendo all’azione della potassa alcoolica
il cloruro di paraclorobenzile. Lo descrive come un liquido bol- |
lente da 215°-218°, il quale trattato con cloro dà aldeide pa-
raclorobenzoica p. e. 210°-213°. L’autore non accenna che l’aldeide
ottenuta sia solida, come dovrebbe essere, e dice che all’analisi
ebbe una quantità di cloro maggiore ed una quantità di car-
bonio minore di quella richiesta dalla teoria, il che, sempre se-
condo l’autore, potrebbe far credere alla presenza d’un bicloro-
derivato. Egli ritiene però quel liquido aldeide paraclorobenzoica
perchè per ossidazione gli dà soltanto acido paraclorobenzoico’
fusibile al disopra di 230°.
Ho ripetuta la preparazione dell’etere paraclorobenziletilico,.
partendo, anzichè dal cloruro, dal bromuro di paraclorobenzile.
Per ottenere quest’ultima sostanza ho preparato del paracloro-
toluene puro, trasformando la paratoluidina in diazocomposto e
decomponendo questo con acido cloridrico concentrato secondo
le indicazioni di Gasiorowski e Wayss (*). Il paraclorotoluene
contenuto in un palloncino unito a refrigerante a riflusso e.
tenuto in ebollizione continua fu sottoposto all’azione d’una cor-
rente d’aria carica di vapori di bromo. Si sospese l’operazione
allorchè fu introdotta la quantità teorica di bromo, e per raf-
freddamento il liquido si rapprese in una massa cristallina che
fu distillata, spremuta e cristallizzata dall’alcool. L'analisi diede —
i seguenti risultati.
Da gr. 0,3793 di sostanza si ebbero gr. 0,6079 di cloruro
e bromuro d’argento e gr. 0,0028 di argento. La trasformazione
in cloruro del miscuglio dei sali d’argento diede una perdita di
peso uguale a gr. 0,0821
(*) Ber. der deutschen chem. Gesellschaft, XVIII, 1939.
AZIONE DELL'ACIDO NITRICO E DEL CALORE SUGLI ETERI 587
e su 100 parti
CI
trovato calcolato per C; di pid CH. B
CES DI
Br 39,18 38,92
CI 47,16 L73286,
Il punto di fusione fu trovato 50°-51° coincidente con quello
dato da Jackson e Field (*). I cristalli si presentano sotto forma
di lunghi aghi splendenti, di odore aggradevole ma molto ir-
ritante ; al solo vederli non si distinguerebbero affatto dal
miscuglio di bromuro e cloruro di parabromobenzile descritto pre-
cedentemente. Come dunque si vede, mentre è impossibile otte-
nere, almeno nelle condizioni nelle quali ho operato, il cloruro
di parabromobenzile puro, la preparazione del bromuro di pa-
raclorobenzile trattando a caldo con bromo il paraclorotoluene,
va regolarmente. Ho voluto pure sperimentare se il predetto bro-
muro di paraclorobenzile si potesse ottenere ugualmente bene
clorurando a freddo il bromuro di benzile; in una esperienza
ch'io feci il cloro resinificò completamente il bromuro di ben-
zile, non ebbi poi più agio di ripeterla, tanto più che la tem-
peratura troppo alta, in causa della stagione avanzata, mi avrebbe
reso difficile la separazione dei para dagli ortocomposti.
Il bromuro di paraclorobenzile trattato con un eccesso di
potassa alcoolica, venne trasformato nell’etere paraclorobenzile-
tilico. Una determinazione di cloro diede i risultati seguenti :
Da gr. 0,3539 di sostanza si ebbero gr. 0,3012 di cloruro
d’argento
e in 100 parti
trovato calcolato
CI 21,06 20,82
L’etere paraclorobenziletilico C, H, 02. CH,.0.C,H., è un
liquido di odore aggradevole di frutta molto analogo a quello
del bromoetere corrispondente, è insolubile nell’acqua ed ha peso
specifico maggiore di essa, bolle a 225°-227° (colonna immersa
nel vapore) alla pressione di 741"" ridotta a 0°. Come il bro-
(*) American chemical Journal, I, 102.
588 GIORGIO ERRERA - AZIONE DELL'ACIDO NITRICO ECC.
moetere si decompone per l’azione del calore in etano e nel-
l’aldeide corrispondente secondo l’equazione
01 01
CAS 0H,.0.0,8,7 %E< cont
ed è perciò che nel tubo dell’apparecchio distillatore si vedono,
dopo un certo tempo, comparire minuti cristallini di acido pa-
raclorobenzoico. Anche la densità di vapore è in accordo con
tale decomposizione; essa fu determinata col metodo di Meyer
nei vapori di benzoato di amile (261°,5) e diede un numero un
po’ inferiore al teorico.
P =0gr.. 00959
HO
CAO
Festa
trovato d=h5
l
calcolato per C, FL. Wi ch OCA
L’etere paraclorobenziletilico si comporta di fronte all’acido
nitrico (densità 1,51) come tutti gli altri da me esaminati, dà
l’aldeide paraclorobenzoica che si deposita liquida quando si versa
nell'acqua la soluzione nitrica, ma che si solidifica dopo poco
tempo. L’aldeide purificata mediante il composto col bisolfito e
distillazione con vapor d’acqua in corrente d’anidride carbonica,
e cristallizzata dall’alcool, fonde a 47°,5. Il rendimento è buono
e l’aldeide non è accompagnata da prodotti secondarî in quan-
tità apprezzabile. Riferendomi a quanto dissi a proposito del-
l’aldeide parabromobenzoica, credo questo metodo di preparazione
preferibile a quello seguito da Jackson e White (*).
Il punto di ebollizione da me attribuito all’etere paracloro-
benziletilico (225°-227°) differisce di dieci gradi da quello dato
da Sintenis (215°-218°). Ho però ragione di ritenere più esatto
il mio e di supporre che l'etere preparato da Sintenis non sia
puro, tanto più che trattato con cloro dà un’aldeide paracloro-
benzoica che non corrisponde all'analisi e rimane liquida.
Torino — Laboratorio di Chimica della R. Università.
Giugno 1887.
(*) Loco citato.
Sul parabromobenzoato di etile e sull’acido parabromobenzoico ;
del Dott. Giorgio ERRERA
Come risulta dalla Memoria precedente (*); per l’azione della
potassa alcoolica sopra un miscuglio di cloruro di parabromo-
benzile e di bromuro di parabromobenzile ottenni l’etere para-
bromobenziletilico
Br (1)
C. Hi
So S Cie. O -3C,H. (4)
liquido di odore aggradevole di frutta, bollente a 243° (colonna
immersa nel vapore) alla pressione di 729" ridotta a 0°, più
pesante dell’acqua e in essa insolubile e che mi diede all’analisi
i risultati seguenti:
I. Da gr. 0,3562 di sostanza si ebbero gr. 0,3049 di
bromuro d’argento e gr. 0,0040 di argento.
II. Da gr. 0,45838 di sostanza risultarono gr. 0,2278 di
acqua e gr. 0,8273 di anidride carbonica
e in 100 parti
trovato calcolato
Lia iva
Bi 37,25 37,21
C 49,72 50,23
H Bab 5,12
O 7,46 7,44
100,00
Contemporaneamente si formò un po’ d’alcool parabromoben-
zilico e di acido parabromobenzoico. La soluzione alcoolica di po-
tassa da me adoperata non era molto concentrata.
(*) Azione dell’acido nitrico e del calore sugli eteri.
590 GIORGIO ERRERA
Elbs, in una memoria pubblicata recentemente nel Journal
fiir pralktische Chemie, vol. XXXIV, pag. 340, asserisce d’aver
ottenuto mediante questa reazione un liquido di odore grato di
pere, più denso dell’acqua, volatile in una corrente di vapore,
solubile nei solventi ordinari eccettuata l’acqua, bollente alla tem-
peratura non corretta di 236° sotto la pressione di 713"" , della
composizione seguente:
CA UG
H' 4,6%:
Egli lo ritiene parabromobenzoato di etile il quale contiene
CATIA
Peer REA
invece che etere parabromobenziletilico il quale richiederebbe
O 50,2%
HD £.f0006
Anch’egli come prodotto secondario della reazione trova del-
l’alcool parabromobenzilico, e pare in quantità più considerevole
di quella trovata da me, ma non accenna alla produzione di acido
parabromobenzoico. Bisogna notare che l’autore adopera una so-
luzione di potassa satura a freddo.
La presenza dell’alcool parabromobenzilico e dell’acido para-
bromobenzoico si può spiegare ammettendo si sia formata prima
un po’ d’aldeide, e questa abbia reagito sulla potassa alcoolica.
E forse la quantità maggiore d’alcool trovata da Elbs può esser
dovuta alla maggior concentrazione della soluzione potassica da
lui adoperata.
Per ciò che riguarda l’etere, Elbs in appoggio dell’opinione
che il prodotto da lui ottenuto sia veramente parabromobenzoato
d’etile e non etere parabromobenziletilico, adduce il fatto che
bollito per 5 ore con soluzione alcoolica concentrata di idrato
potassico, dà acido parabromobenzoico p. f. 248°; osserva però
che la saponificazione è lenta ed incompleta. Lasciando per ora
da parte l’inverosimiglianza che possa formarsi per opera della
potassa alcoolica un prodotto che viene decomposto dallo stesso
SUL PARABROMOBENZOATO DI ETILE ECC. 591
reattivo, secondo me quest’acido si produce non in seguito ad
una vera saponificazione del preteso parabromobenzoato di etile,
ma per l’azione prolungata della potassa alcoolica sull’etere pa-
rabromobenziletilico che veramente si deve trovare nel liquido di
Elbs, o sopra aldeide eventualmente formatasi. Non è improba-
bile che anche in questo caso si produca l’alcool corrispondente,
come fu osservato nella preparazione dell’etere, ma l’autore non
lo ha ricercato, forse perchè avea di mira la saponificazione di
un etere composto.
Per togliere qualunque dubbio, ho preparato il parabromo-
benzoato di etile eterificando l'acido corrispondente, perciò so-
spesi questo nell’alcool ordinario e riscaldai a bagno-maria fa-
cendo passare una corrente d’acido cloridrico finchè si fosse otte-
nuta una soluzione limpida. Scacciai poi per distillazione la
maggior parte dell’alcool, precipitai con acqua, agitai con solu-
zione diluita di idrato sodico per sciogliere l'acido inalterato e
distillai. Passò quasi tutto a temperatura costante ed ottenni
l’etere cercato come un liquido più denso dell’acqua e in essa
insolubile, di odore grato di frutta, bollente alla temperatura
di 262° (colonna nel vapore) alla pressione di 737"",4 ridotta
a 0°. L'analisi mi diede i risultati seguenti:
Gr. 0, 3663 di sostanza fornirono gr. 0,3026 di bromuro
d’argento
e in 100 parti
trovato calcolato per CH, Gi Rd H
Be dg35,11 34,98. i
Le sue proprietà differiscono completamente da quelle del-
l'etere parabromobenziletilico da me preparato e da quelle del
preteso parabromobenzoato etilico di Elbs.
L’etere parabromobenziletilico bolle a 243° (colonna nel va-
pore), il liquido di Elbs a 236° (non corretto), il parabromo-
benzoato di etile a 262° (colonna nel vapore).
Il primo è così poco alterabile dalla potassa alcoolica che
fu ottenuto per azione di questa sul cloruro e bromuro di pa-
rabromobenzile ; anche la sostanza di Elbs, secondo l’autore stesso,
viene decomposta assaz lentamente dalla potassa alcoolica con-
592 GIORGIO ERRERA
centrata e calda ; l'etere parabromobenzoico ottenuto dall’acido
viene invece saponificato a freddo, immediatamente ed in modo ©
completo da una soluzione alcoolica satura di idrato potassico,
formandosi l’acido parabromobenzoico corrispondente.
L'etere parabromobenziletilico trattato con acido nitrico di
densità 1,51 viene trasformato nell’ aldeide parabromobenzoica
(vedi Memoria precedente); il parabromobenzoato di etile invece
nelle medesime condizioni, si nitra e si forma l’etere metanitro-
parabromobenzoico
& BF (4)
O; H,C NO, (3)
COREA
come dall'analisi seguente :
Gr. 0,3749 di sostanza fornirono 16°,5 di azoto alla tem-
peratura di 18°,5 ed alla pressione di 741"",8 ridotta _a 0°,
e per 100
trovato calcolato
N 4,99 51
Quest’etere si presenta in bei cristalli ben sviluppati, fonde
a 74° ed è identico a quello preparato da Hiibner, Philipp e
Ohly (*) eterificando l'acido metanitroparabromobenzoico.
Da tutto ciò si conclude che il prodotto ottenuto da Elbs
deve considerarsi come etere parabromobenziletilico impuro, e non
come parabromobenzoato di etile, che per la facilità con cui si
saponifica non si sarebbe potuto formare nelle condizioni indicate
dall’autore.
Non avendo trovato nella letteratura chimica che pochi rag-
guagli intorno alla preparazione dell’acido parabromobenzoico,
credo non inutile dare qualche particolare intorno ad essa.
Partii dal bromotoluene liquido, ottenuto per distillazione
frazionata del prodotto dell’azione del bromo sul toluene e costi-
tuito, come è noto, da un miscuglio di orto e paraderivato. Feci
bollire 30 grammi del liquido con un miscuglio di 240 grammi
(*) Ann. Ch. Pharm., 143, 243.
SUL PARABROMOBENZOATO DI ETILE ECC. 598
di bicromato potassico, 330 grammi d’acido solforico, 360 grammi
d’acqua e sospesi l’ossidazione dopo tre giorni, quando cioè si
erano fatte assai scarse le goccie oleose che da principio rica-
devano in abbondanza lungo la canna del refrigerante. Durante
l’ossidazione si sviluppò un po’ di bromo messo in libertà per la
decomposizione dell’ ortocomposto. Dopo raffreddamento filtrai ,
introdussi la massa verde-cupo, rimasta sul filtro, in un pallone
con soluzione di idrato sodico e feci passare una corrente di va-
pore d’acqua. Questa trasportò qualche grammo di prodotti li-
quidi e solidi che constatai essere un miscuglio di bromoderivati
superiori del toluene formatisi per mezzo del bromo messo in
libertà dall’ortocomposto distrutto.
Dalla soluzione sodica rimasta nel pallone e separata per
filtrazione dall’ossido di cromo formatosi, precipitai l'acido me-
diante aggiunta d’acido cloridrico. Da 30 grammi del miscuglio
di orto e parabromotoluene ebbi circa 15 grammi dell'acido.
Dopo tre cristallizzazioni dell’alcool ottenni l’acido parabro-
mobenzoico perfettamente puro, fondente alla temperatura di
250°-251° e che mi diede all’analisi i risultati seguenti:
Gr. 0,2863 di sostanza fornirono gr. 0,2690 di bromuro
d’argento
e in 100 parti
trovato calcolato
PBis#,,4998 393846
Nelle acque madri alcooliche rimangono piccole quantità di
acidi contenenti maggior quantità di bromo il quale proviene
sempre dalla decomposizione dell’ortobromotoluene per opera del
miscuglio cromico.
Torino, Laboratorio di Chimica della R. Università.
Giugno, 1887.
594 A. MONARI
Mutamenti della composizione chimica dei muscoli
nella fatica; del Dott. A. MONARI
Già fino dall'anno scorso estrassi dai muscoli affaticati e dalle
orine di individui stanchi una nuova base, affine alla creatinina,
cioè la xantocreatinina, che Gautier (1) aveva ricavato quasi
contemporaneamente a me dai muscoli freschi; osservai pure che
la creatinina iniettata nell'organismo si trasformava in xantocrea-
tinina (2).
Le ricerche sui muscoli affaticati le avevo già incominciate
fino dal gennaio 1885. E innanzi aveva anche esaminato il com-
portarsi degli estratti carnosi, trattati in diversi modi, per sta-
bilire con precisione le singole quantità delle sostanze che si
ricavano dal muscolo in riposo, specialmente la creatina e la crea-
tinina, essendo che i diversi sperimentatori che fin qui si sono
occupati non sono ancora d’accordo su di esse. Espongo perciò
innanzi le prime ricerche. In queste indagini mi sono sempre
servito dei muscoli del cane. Cercai di operare su piccole por-
zioni, perchè riescissero meglio le manipolazioni ed ogni espe-
rienza la divisi in due saggi eguali, allo scopo prima di control-
lare i risultati dell’uno con quelli dell’altro ed in secondo luogo
per ricavare sostanza sufficiente da essere al bisogno analizzata.
Ecco una di queste esperienze.
Il 23 dicembre 1884 si uccise un cane grosso, di età media,
ben nutrito e perfettamente in riposo.
Ancor caldo si staccarono tutti i muscoli e tosto finamente
triturati con una macchinetta a coltelli taglienti si divisero in
più porzioni di 500 gr. l’una, sei delle quali furono fatte ma-
cerare nel doppio loro peso di acqua per un paio d’ore circa,
alla temperatura fra i 50°- 60° e filtrate per tela in 6 distinti
(1) Bull. de V’Acad. de Médec. Paris. Gennaio 1886.
(2) Rend, R. Accad, Lincei. Ottobre 1886.
e, n°
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 595
palloni e ben pressate, furono ancora trattate per altre due volte
con acqua calda ed i secondi liquidi furono uniti ai primi.
Erano alquanto rossi ed avevano reazione manifestamente
acida. Portati rapidamente all’ebollizione si separò da ognuno
l’albumina solubile e la poca emoglobina e si ebbero liquidi ba-
stantemente limpidi, di un colore gialliccio.
Si procedette in tre distinti modi:
Due di questi liquidi, messi in ampie capsule, furono sen-
z'altro fatti evaporare blandemente, agitando di continuo fino a
consistenza sciropposa.
Altri due furono trattati con una soluzione concentrata di
idrato di bario fino a reazione alcalina secondo il processo Lie-
big (1) e filtrati e separato accuratamente l’eccesso di barite fu-
rono messi ad evaporare lentamente come i primi.
Gli ultimi due furono trattati secondo il processo Neubauer (2)
con una soluzione di acetato basico di piombo, avendo avuto ri-
guardo di versare quel tanto che abbisognava finchè si fosse for-
mato un precipitato e separati così i fosfati e le traccie di solfato
ed eliminato poscia il piccolo eccesso del piombo con gas solfidrico,
i due liquidi furono messi ad evaporare come i precedenti.
Si esperimentò anche un quarto processo, cioè quello di Stae-
deler (3). Altre due porzioni di muscolo, di 500 gr. l’una, fu-
rono fatte digerire a bagno maria con 600 o 700 c. c. di alcool
ordinario, si filtrarono, si ripeterono una seconda ed una terza
macerazione, si unirono insieme i liquidi, si distillarono per la
massima parte ed i rimanenti vennero evaporati blandemente. Ai
residui, ripresi con acqua, si aggiunse acetato di piombo in lie-
vissimo eccesso; separati i fosfati e poscia l’eccesso del piombo
con gaz solfidrico, i liquidi furono messi nuovamente ad evapo-
rare fino a giusta concentrazione.
I risultati che ottenni procedendo nei diversi modi suesposti
furono i seguenti :
I primi due estratti messi semplicemente ad evaporare, for-
nirono residui sciropposi bruni con acidità marcatissima e di un
(1) Ann. d. Chem. u. Pharm., t. LXII, p. 257, ed Ann. de Chim. el de
Phys. (3) t. XXIII, p. 129.
(2) Ann. d. Chem. u. Pharm., t. CXXXVII, p. 288, e Zeitschr f. analyt.
Chem., 1863, t. I, p. 22.
(3) Journ. f. prakt. Chem., t. LXXII, p. 256, e Mill. Arch., 1856, p. 37.
590 A. MONARI
odore di carne arrostita, per quanto la temperatura fosse stata
bassissima e si fossero rimossi continuamente i liquidi,
Le quantità di creatina e quelle di creatinina, che si ricava-
rono da un estratto e dall’altro, non s’accordarono rispettiva-
mente tra loro, quelle della creatinina poi superarono fortemente
quelle della creatina. Si ricavò pure molto fosfato acido di po-
tassio, che si depose in magnifici cristalli ottaedrici, alcuni de’
quali anche assai grossi.
I due estratti trattati colla barite, per quanto fastidiosa fosse
stata la loro evaporazione a causa di quelle pellicole che vanno
continuamente formandosi alla superficie, nondimeno fornirono
due residui appena giallicci, di reazione alcalina.
Da questi si separarono a capo di due giorni circa una massa
di magnifici cristalli prismatici e di lamelle larghe romboidali
ed anche rettangolari. Raccolti in due distinti filtri previamente
pesati, lavati con alcool e seccati a 100°, risultarono in peso,
il 1° di gr. 1,052, pari a gr. 1,196 di creatina cristallizzata,
ed il 2° di gr. 0,795 pari a creatina cristallizzata gr. 0,904,
cioè 0,239 — 0,181 per 100 di muscolo.
La differenza è assai sensibile tra un saggio e l’altro fatti
contemporaneamente. Il prodotto era piuttosto bianco e ricristal-
lizzato scemò alquanto; seccato ed analizzato fornì 30, 95 per %
d’azoto, mentre per la creatina si calcola 32,06; ma le acque
madri riunite lasciarono col tempo depositare ancora alcuni cri-
stallini o tavolette trasparenti, quasi incolore, con l’apparenza delle
forme di sarcosina. Infatti raccolti e pressati fra carta, se la pic-
cola quantità non permise una combustione, fu accertato però
il sapor dolce manifesto della sarcosina e furono assodate le sue
reazioni, una coll’acetato di rame che fornì un bel colore bleu
scuro e l’altro coll’acido solforico, che in presenza di alcool con-
centrato, precipitò una massa polverosa bianca, la quale al mi-
croscopio presentò tutte le forme del solfato di sarcosina.
E si ebbe anche indizio di un altro prodotto di scomposi-
zione, la metilidantoina, poichè venne ridotto il nitrato mercu-
roso e sciolto l’ossido d’argento; con questo poi si vide al micro-
scopio la forma caratteristica che assume la metilidantoina.
Finalmente si ricercò la creatinina; dopo d'avere evaporato
l’etere, le acque madri furono trattate con cloruro di zinco e
messe sotto campana con acido solforico; si formò col tempo
qualche piccola inerostazione e qualche mammellone, ma la quan-
tità era insignificante per tenersene calcolo.
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 597
Gli estratti trattati secondo il metodo Neubauer diedero ri-
sultati più soddisfacenti.
I residui delle evaporazioni erano poco densi, appena colo-
rati di un giallo pallido ed ambedue acidi, il 2° però più del 1°.
Tenuti in luogo fresco, a capo di tre o quattro giorni cri-
stallizzò da ognuno tutta la creatina. Decantate con cautela le
acque madri alquanto sciroppose ma limpide, i cristalli bianchi,
trasparenti ed alcuni lunghi un mezzo cm. furono raccolti su due
distinti filtri previamente pesati e furono lavati con alcool. Sec-
cati a 100° risultarono in peso il 1° di gr. 1,468 pari a gr. 1,670
di creatina cristallizzata ed il 2° di gr. 1,320 pari a gr. 1,501 di
creatina cristallizzata, cioè 0,334 — 0,300 per 100 di muscolo.
Il prodotto era bianchissimo, una piccola porzione bruciata non
lasciò residuo. Analizzato, fornì le quantità centesimali della creatina.
Le acque madri sciroppose furono questa volta tenute sepa-
rate, per vedere se le quantità di creatinina erano in correla—
zione con quelle di creatina. Frattanto sotto campana con acido
solforico non lasciarono più deporre altri cristalli. Saggiate per
la sarcosina e per la metilidantoina non si ebbe indizio alcuno
della loro presenza. Diluite allora 3 o 4 volte con alcool con-
centrato, si formò tosto un intorbidamento lattiginoso, vennero
filtrate e si aggiunsero poscia a ciascuna alcune gocce di una
soluzione alcoolica e concentrata di cloruro di zinco e sì lascia-
rono in riposo. Dopo una notte si formarono sulle pareti dei
recipienti abbondanti incrostazioni, che non aumentarono succes-
sivamente: raccolte quindi su filtri pesati e seccate a 100° ri-
sultarono in peso per la 1° porzione, di gr. 0,450 di composto
doppio di creatinina e cloruro di zinco, pari a gr. 0,281 di
creatinina, e per la 2* porzione di gr. 0,755 di composto doppio,
pari a gr. 0,471 di creatinina, cioè 0,056 — 0,094 per 100
di muscolo.
Le due esperienze di confronto sul medesimo muscolo, come
si vede non concordano molto, però fu notato nella porzione che
ha fornito maggior quantità di creatinina un’acidità più marcata
che non nell’altra e la stessa porzione ha fornito anche minor
quantità di creatina.
Heintz (1) veramente non dà troppa importanza alla crea-
tinina ritenendola un prodotto di derivazione della creatina in
(1) PoccenD. Annal., 1847, t. LXX, p. 476.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII. 45
598 A. MONARI
seguito alle manipolazioni del succo acido carnoso. Liebig (1)
però non divide l’opinione di Heintz, poichè gli acidi minerali
di quella concentrazione degli acidi organici anche a caldo non
modificano la creatina, neppure l’acido cloridrico concentrato a
freddo. Neubauer (2) invece tornò a dimostrare la facile trasfor-
mazione mediante alcune gocce di acido acetico su grande vo-
lume di soluzione di creatina da evaporare. Lo stesso Neubauer
e Nawrocki (3) assicurano anche che per una ebollizione pro-
lungata con semplice acqua la creatina si trasforma parzialmente
in creatinina. Borszezow (4) in opposizione a tutti quanti crede
invece che nel muscolo in origine sì trovi creatinina, la quale
nel ricambio si trasformi in creatina.
Lasciando a parte le vedute di Borszezow, volli assicurarmi
anch'io se l’acidità de’ muscoli veramente avesse un’azione sulla
creatina. Si osservò gia come dall’estratto semplice di muscolo,
senza alcun previo trattamento, si fosse separata assai più crea-
tinina che non creatina ed una notevole quantità di fosfato acido
di potassio; volli precisamente provare l’azione di questo ed i
risultati che ebbi, mi sembrarono di un qualche interesse. Non
ricorsi che agli stessi prodotti ottenuti nelle esperienze antece-
denti, cioè a creatina purificata ed analizzata ed a fosfato acido
ricristallizzato in magnifici ottaedri. Una soluzione concentrata
della prima fu tenuta all’ebollizione parecchio tempo con una
soluzione concentrata del secondo, quindi separata quella crea-
tina e quel fosfato che per raffreddamento ricristallizzarono, al
liquido neutralizzato esattamente con ammoniaca furono aggiunte
poche goccie di una soluzione neutra e concentrata di cloruro
di zinco; separato subito il fosfato di zinco formatosi, il liquido
fu lasciato a sè; dopo una notte si depositarono alcuni piccoli
globuli ovoidi e cristallini isolati, che furono riconosciuti pel
noto composto della creatinina.
Ho potuto poi osservare, per altre esperienze posteriori, che
una cristallizzazione di creatina, lasciata in seno al liquido sci-
ropposo lievemente acido, dopo lungo tempo sparisce completa-
mente, senza che sia avvenuta alcuna putrefazione; il liquido si
(1) ca:
(2) L. e.
(3) Lee.
(4) Wùrsb. naturw. Zeitschr., 18651, t. II, pag. 65.
ii
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 599
mantiene sempre di un giallo pallido e limpido, perde solo l’aci-
dità ed acquista una marcata reazione alcalina e saggiato allora
con cloruro di zinco, fornisce un'abbondantissima cristallizzazione.
Ma anche dopo due o tre giorni, che sia cristallizzata tutta la
creatina, se questa soggiorna nel suo liquido, sì vede egualmente
ad occhio nudo che i cristalli diminuiscono sensibilmente.
Visto e confermato che un’acidità qualsiasi trasforma par-
zialmente la creatina in creatinina è necessario adunque di evi-
tarla per quanto è possibile. Siccome gli estratti carnosi sono
sempre acidi e secondo il processo Neubauer diventano anche di
più, così io pensai di tenerli neutralizzati, con traccie di am-
moniaca, specialmente durante la loro concentrazione, ed infatti
i risultati che ebbi furono molto migliori.
Dei due estratti trattati secondo il processo Staedeler dirò
subito che le quantità di creatina e creatinina che sì ricavarono
furono di molto inferiori a quelle ottenute col processo Neu-
bauer; l’alcool coagula subito ed indurisce troppo la fibra mu-
scolare, perchè non possano più estrarsi le sostanze solubili; del
resto ha gli stessi inconvenienti del processo Neubauer.
Il 5 gennaio 1885 fu ucciso un altro cane in stato di ri-
poso, giovane e del peso di kg. 4 e gr. 50. Furono staccati
subito 500 gr. di muscoli privati il più possibile dei grassi, dei
tendini e delle aponeurosi e triturati finamente furono divisi in
due porzioni di 250 grammi.
Ambedue furono trattate secondo il metodo Neubauer, avendo
speciale riguardo di concentrare gli estratti neutralizzandoli.
I risultati furono soddisfacenti per la prima porzione e s’ac-
cordarono presso a poco con quelli del muscolo del cane prece -
dente trattato in egual modo, cioè s’ebbero gr. 0,7385 di crea-
tina secca a 100°, pari a gr. 0,8400 di creatina cristallizzata,
cioè 0,336 per 100 di muscolo.
Per la creatinina s’ebbero gr. 0,2150 di composto di zinco,
pari a creatinina 0,1342, cioè 0,054 per 100 di muscolo.
Però non così soddisfacenti furono i risultati dell’altra por-
zione, l’estratto della quale ancora albuminoso fu lasciato a sè
per una notte, onde dar tempo ai grassi di raccogliersi alla su-
perficie per separarli. La mattina emanava già odore sgradevole
di gaz solforato; trattato identicamente come il primo, si ebbe
un rendimento di creatina inferiore assai e sensibilmente supe-
600 A. MONARI
riore quello di creatinina; nel residuo si constatarono anche traccie
di sarcosina.
Altre esperienze hanno meglio dimostrato che non devesi,
neppur brevemente, frapporre tempo tra l’estratto e la coagu-
lazione dell’albumina, perchè gli elementi solubili subiscono ra-
pidamente delle trasformazioni, ciò venne fatto per i grassi, ma
si è anche osservato che coll’acetato di piombo non arrecano
alcun disturbo alla separazione della creatina (1).
Il 10 gennaio 1885 intrapresi altre esperienze su di un ca-
gnolino pure in riposo, giovane e del peso di kg. 6 e gr. 550.
Si fecero dei brodi con 2 porzioni di 250 gr. di muscolo
l’una, che servirono per la determinazione della creatina e crea-
tinina.
Dalla prima porzione si ottenne gr. 0,7186 di creatina secca
a 100° e dalla seconda gr. 0,7274 cioè in. media gr. 0,7230
pari a gr. 0,82283 cristallizzata colla sua molecola d’acqua, ov-
verosia 0,329 di creatina per 100 di muscolo.
Risultò per la creatinina dalla 1* porzione gr. 0,1975 di
composto doppio col cloruro di zinco secco a 100° e dalla 2°
gr. 0,2765, cioè in media gr. 0,2370, e dedotto il sale minerale,
gr. 0,1480 di creatinina, pari a 0,06 per 100 di muscolo.
Trascrivo in una piccola tavola i risultati fino ad ora ottenuti
sui muscoli dai cani in riposo valendomi del metodo Neubauer.
TAVOLA I.
] Quantità
| di CREATINA
DATA CREATININA
Ri cristalliz.
1884 p. 100 p. 100
2) 138 Decembrejgr. 500lgr. 1,6700| 0,334|gr. 0,2810| 0,056
(2)) si > > |» 1,5010|0,300| »:0,4710|.0,094
1885
5 Gennaio | » 250| » 0,8400| 0,336] » 0,1342| 0,054
(3) 10 » » >» |» 0,8223| 0,329] » 0,1480| 0,060
(1) LiEBIG, l. e.
(2) Due determinazioni sullo stesso muscolo.
(3) Media di due determinazioni sullo stesso muscolo
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 601
Le quantità centesimali di creatina cristallizzata, trovate da
altri sperimentatori nei muscoli nel cane in riposo, sono:
0,061 (?) Zalesky (1)
0,170 Nawrocki (2)
0,223 Voit (3)
0,248 »
Varie sono le quantità di creatina che si riscontrano nei mu-
scoli in riposo di diversi animali, come varie le determinazioni di
sperimentatore a sperimentatore sui muscoli di uno stesso animale.
Tutti sono d'accordo però che i muscoli del pollo e dei volatili in
genere ne contengono di più. Liebig e Gregory (4) furono i primi
che diedero la quantità centesimale per il pollo, per il piccione,
per il merluzzo, per la volpe, per il bue e pel cavallo, quindi
Staedeler, Bloxam, Halenke, Neubauer e Voit ancora pel bue e
pel vitello, Scherer e Halenke pel cavallo. Neubauer pel montone
e maiale, Nawrocki, Sarokin e Voit per le rane, lo stesso Nawrocki,
Sezelkow e Zalesky ancora pel pollo, Nawrocki, Voit ed Hofmann
pel coniglio, Voit ancora per la volpe e Zalesky per l’oca; per
l’uomo la diedero Schlossberger, Hofmann e Halenke (5).
La creatinina è trascurata nei muscoli, nulla 0 poco dicono
gli sperimentatori; si sa che è in quantità minima: Liebig la
trovò per il primo, ma è considerata generalmente come derivata
dalla creatina nelle manipolazioni e viene computata perciò nella
determinazione quantitativa di questa.
Tuttavia Sarokin (6) la determinò nei muscoli di rana e trovò
0.05. Secondo Nawrocki (7) invece è in quantità microscopica.
Voit (8) ammettendola però come prodotta dalle manipolazioni,
trovò 0,0666 pel muscolo di rana, 0,0197 pel muscolo di vitello
e 0,0384 pel cuore dello stesso. Demant (9) ne trovò più di
tutti per i muscoli pettorali del piccione.
(1) Uber den urdm. Process. u. die Function der Niere, 1865
(2) Zeitschr. f. analyt. Chem., t. IV, p. 330, e Centralb. f. d. med. Wiss.,
1865, n° 27, p. 416.
(3) Zeitschr. f. Biolog., t. IV, 1868, p. 77:
(4) L. c. e Ann. d. Chem. u. Pharm., t. LXIV, p. 100.
(5) Volti lie:
(6) Arch. f. path. Anat., 1863, t. XXVIII, p. 544.
(7) L. ec. e Centralbl. f. d. med. Wiss., 1866. n. 40.
(8) L. c.
(9) Hoppe-SEyYLER, Zeitschr. f. physiol. Chem., t. III, p. 881.
602 A. MONARI
Conchiudo da queste esperienze preliminari sui muscoli dei
cani in riposo :
1° Che non è vero che il muscolo allo stato di riposo sia
alcalino o neutro secondo du Bois-Reymond (1), ma acido come
osservarono pure recentemente Battistini e Moleschott (2) e se
ne ricava molto fosfato monopotassico.
2° Che questo ha un’azione sulla creatina al pari di altri
acidi e la trasforma parzialmente in creatinina.
3° Che anche coll’acetato basico di piombo, secondo Neu-
bauer, si ha sempre un residuo acido e la creatinina è sensibil-
mente in rapporto diretto con tale acidità.
4° Che però, avendo cura di neutralizzare detta acidità, 1l
metodo Neubauer è quello che fornisce risultati più soddisfacenti.
5° Che è da escludersi affatto il processo Staedeler: per
insufficienza d’estrazione e quello colla barite, poichè si gene-
rano prodotti di scomposizione conosciuti, cioè la sarcosina, e forse
la metilidantoina a spese della creatina e della creatinina.
6° Finalmente che la quantità media di creatina nei mu-
scoli in riposo è di 0,325 % e quella di creatinina di 0,066 %.
Il 22 gennaio 1885 intrapresi le prime ricerche sui muscoli
dei cani affaticati.
Un grosso cane di età media, vispo e del peso di kg. 20,
venne affaticato nell’apparecchio girante del Prof. Mosso (3), fa-
cendogli percorrere 135 km. Fu tolto dalla ruota solo quando non
andava più innanzi e si lasciava trascinare; messo a terra non sì
reggeva più sulle gambe posteriori, ricusò il cibo e l’ acqua, e
subito dopo fu ucciso.
Il sangue delle arterie era oscuro come venoso, il contenuto
dello stomaco era poco ed acidissimo, anche l’orina nella vescica
era in piccolissima quantità ed alcalina (4). Aperto il torace fu
staccato subito il fegato e gettato nell’acqua bollente per ila
(1) Monatsb. d. Berliner Akad., 1859, p. 288,
(2) Atti R. Acc. Scienze Torino, vol. XX, Disp. I, novembre 1884.
(3) Ug. Mosso, Influenza del sistema nervoso sulla temperatura animale.
R. Accademia di Medicina. Torino, fasc. 10, 11, 12, 1885.
(4) V. Apucco, La reazione dell’orina in rapporto con il lavoro muscolare.
- Giornale della R. Accademia di Medicina di Torino, 1887, n° 1-2.
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 608
ricerca del glicogeno. Si pubblicheranno a parte queste ricerche
del glicogeno nel fegato rispetto alla fatica.
Furono presi 1000 grammi di muscolo, privo il più possibile
di tendini, grassi, ecc., scelto qua e là nel dorso, nel torace, nelle
estremità, ecc.; era floscio, di un rosso oscuro e la rigidità in un
pezzo tenuto a parte non comparve che dopo due ore e più. Triturato
subito si ebbe una poltiglia piuttosto molle e viscosa, e divisa in
quattro porzioni di 250 gr. l’una, si prepararono altrettanti
estratti acquosi.
Separata tosto coll’ebollizione l’albumina e l’emoglobina, i
liquidi non apparvero di un giallo pallido come i normali, ma
alquanto più carichi di colore ed un poco torbidi. Vennero trat-
tati con acetato basico di piombo e filtrati se ne eliminò il pic-
colo eccesso; si fecero quindi evaporare lentamente, per la de-
terminazione della creatina e creatinina. Le altre operazioni fu-
rono identiche alle già citate, non avendo trascurato mai di
neutralizzare i liquidi acidi che si concentravano.
I risultati furono i seguenti:
Per la creatina secca a 100°
Dalla 1° porzione = gr. 0,2850 Î __ 0,5780
= —_— = 0,2890
pis » = ba 052950 2 i
= 0,3287 cristall. = 0,131%.
Per la creatinina secca a 100°
Dalla 1° porz. comp. zinc. — gr. 1,9820 de 3,9500 — 19750
E » pe pa 96080 9
= 1,2330 creatinina = 0,493.
Ecco i risultati centesimali riuniti:
TavoLa II.
Per 100
di muscolo
Crea 0,131
Grewtiniftarp=iite Soru Lat, 0,493
Dall'analisi del clorozincato risultò che non era tutto costi-
tuito di creatinina, ma per una parte di xantocreatinina da me
già notata altrove. Si osservò meglio in seguito questo fatto,
604 A. MONARI
poichè avendo riunite tutte le porzioni di clorozincato ricavato
dai muscoli affaticati ed avendole fatte ricristallizzare , racco-
gliendo frazionatamente i prodotti che si depositarono, il primo
di questi fornì all’analisi delle cifre che s’accordarono perfetta-
mente con quelle del clorozincato di xantocreatinina e si potè
anche stabilire che la quantità rispetto alla creatinina è nella
proporzione di 1 a 10.
Togliendo adunque la piccola quantità del composto nuovo
che si forma, si vede in un primo esperimento, in cui il mu-
scolo è estremamente affaticato, come la quantità di creatina scemi,
e come aumenti notevolmente invece quella di creatinina.
Anche Sarokin (1) osservò questo fatto, sperimentando sui
muscoli di rana rigidi o tetanizzati di confronto con i freschi ed
in riposo, e se i risultati non s’avvicinano esattamente, per la gran
quantità nel nostro caso di creatinina, sono però sempre d'accordo
per la diminuzione della prima e per l'aumento della seconda.
Voit (2) tetanizzando i muscoli di rana trovò pure diminu-
zione di creatina e meno ancora nei muscoli in piena rigidità
cadaverica; fin qui si è d'accordo, ma egli poi non trovò l’au-
mento della creatinina, che anzi nel tetano scema e nella rigi-
dità scompare affatto. Ripetendo le esperienze sui muscoli volontari
del vitello freschi e su quelli irrigiditi ed acidi ed anche sul
cuore fresco e rigido, confermò le sue osservazioni. Egli fu d’av-
viso adunque che la creatinina non si produca con la fatica dalla
creatina, quantunque non escluda che per effetto del tetano 0
della rigidità parte della creatina si trasformi in un altro corpo
che egli non ravvisa per creatinina, ma che ne ha molta somi-
glianza. Ritenne la piccola quantità di creatinina, che si rinviene
nei muscoli freschi, come un prodotto accidentale per effetto di
alte temperature, evaporazioni prolungate, ecc., dimostrò che la
diminuzione della creatina, prodotta dalla rigidità o dalla con-
trazione, non sia dovuta ad altro che ad un principio di fer-
mentazione e conchiuse finalmente che la quantità di creatina
e creatinina non aumenta per effetto del lavoro, ma diminuisce,
e quest’ultima anzi va scomparendo.
Le ricerche fatte sul muscolo affaticato diedero adunque ri-
sultati troppo interessanti, perchè tardassi ad instituire tosto
altre esperienze.
(1) (2) L. e.
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 605
Il 3 marzo 1885 s'incominciarono contemporaneamente due
esperienze di confronto, una sui muscoli di cane in riposo e l’altra
su quelli di cane affaticato. Ambedue gli animali erano di età
media, sani e ben nutriti, il primo in perfetto riposo pesava
kg. 20 e gr. 500 ed il secondo, che percorse 92 km. ed era
assai stanco, pesava kg. 25 e gr. 500.
Non appena uccisi si presero tutti i muscoli degli arti posteriori
e finamente triturati furono divisi in parecchie porzioni di 250
grammi. Gli estratti del muscolo normale avevano una leggera
tinta rosea ed erano acidi, quelli del muscolo affaticato invece
erano alquanto più colorati, torbidi e marcatamente acidi. Sepa-
rate all’ebollizione le albumine solubili, si ebbero liquidi abba-
stanza limpidi, i secondi però di tinta gialla più carica dei primi.
Le determinazioni questa volta le estesi anche al glicogeno
ed allo zucchero, ma esporrò tali ricerche, come quelle per la
sarcina, la xantina, la metilidantoina ecc., nella seconda parte
di questo lavoro.
Raccolgo nella seguente tavola i risultati ottenuti (1).
Tavorà TIT:
MUSCOLI IN RIPOSO MUSCOLI AFFATICATI
Su 100 Su oo
Creatina. di Creatina. di
muscolo muscolo
Gr. 250 di muscolo fornirono Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,6180 gr. 0,8365
di creatina secca a 100° | di creatina secca a 100°
pari a gr. 0,7028 pari a gr. 0,9514
di creatina cristalliz- di creatina cristalliz- |
zata, cioè . . .| 0,281 zata, cioò . -..| 0,381
Creatinina. Creatinina.
Gr. 250 di muscolo fornirono Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,2250 gr. 2,1792
di clorozincato secco a di clorozincato secco a
1000 pari a gr. 0,1405| 100° pari a gr. 1,3605
di creatinina, cioè . . . . .| 0,056 |[di creatinina, cioè . . . . 0,544
I cristalli di creatina erano abbastanza scolorati; analizzati
fornirono 32,55 p. VA d'azoto. I mammelloni di clorozincato, di
una tinta gialla pallida, mostrarono anche questa volta all’ ana-
lisi, come in piccola porzione contenevano la xantocreatinina.
(1) Alcune cifre sono medie di due determinazioni.
6006 A. MONARI
I risultati di questo secondo esperimento furono anche più
inaspettati dei precedenti; qui non solo bisogna spiegarsi l’ au-
mento della creatinina, ma anche della creatina: non azzardai
però ancora un giudizio, senza che altre esperienze fossero ve-
nute a convalidare; ne intrapresi perciò una terza.
Il 17 marzo 1885 si uccisero un cagnolino ed una cagnetta,
ambedue giovani; il primo in perfetto riposo, pesava kg. 9 e
gr. 100, ed il secondo estenuato per una corsa di 1483 km.,
pesava kg. 8 e gr. 300.
Il contenuto dello stomaco era più acido nell’affaticato che
non nel normale; esaminato il sangue, si trovò che il siero del
primo era rosso scuro, mentre del riposato era scolorato e ri-
sultò l’affaticato meno alcalino dell’altro; la poca orina conte-
nuta nella vescica era molto alcalina nell’affaticato e lievemente
acida nel cane in riposo.
In questo secondo esperimento volli tenere anche nota di un
fatto, osservato da parecchi, specialmente da Sczelkow (1) cioè
che nei muscoli, che lavorano di più, si contiene maggior quan-
tità di creatina. Scezelkow infatti trovò più creatina nelle estre-
mità posteriori che non nelle anteriori di un animale, viceversa
poi paralizzandole ambedue mediante taglio del midollo spinale
e tetanizzando poscia le sole anteriori, trovò maggior quantità
di creatina in queste. L'osservazione non era nuova, poichè Liebig
e Gregory (2) ne avevano fatto cenno pel muscolo del cuore. Ma
Nawrocki (3), ripetendo le esperienze di Sczelkow, negò i risul-
tati e trovò tanto nei muscoli anteriori quanto nei posteriori di
rane e di polli la stessa quantità di creatina. Li negarono pure
Voit, Hofmann e Halenke (4) che trovarono sempre nel cuore
del bue e degli uomini una minore quantità di creatina che non
nelle estremità dello stesso animale.
Stando così la questione, io volli esperimentare sui due cani
uccisi, tenendo separati i muscoli degli arti posteriori da quelli
anteriori e feci perciò 4 distinte porzioni.
(1) Centralblatt f. d. med. Wiss, 1866, Nr. 31.
(2) ese:
(3; Centralblatt f. d. med. Wiss, 1866, Nr. 40.
(4) L. c.
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA
607
Non ripeterò che i muscoli furono staccati ancor caldi, triturati
e trattati subito con acqua, prima che avvenisse la rigidità, come
pure che gli affaticati, ciò che si è osservato anche altrove, appa-
rirono flosci, colorati in rosso-scuro, alla carta azzurra di tornasole
più acidi dei normali e che dettero una poltiglia viscosa.
Riassumo i risultati ottenuti:
MUSCOLI IN RIPOSO
TavoLa IV.
Anteriori.
Creatina.
"|Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,6781
di creatina secca a 100°
pari a gr. 0,7712
di creatina cristalliz-
zata, cioè .
Creatinina.
Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,1640
di clorozincato secco a
100° pari a gr. 0,1023
di creatinina, cioè . .
Posteriori.
Creatina.
Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,74140
di creatina secca a 100°
pari a gr. 0,8121
di creatina cristalliz-
zata, cioè .
Creatinina.
Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,4650
di elorozincato secco a
100° pari a gr. 0,2903
di creatinina, cioè .
Su 100
1
muscolo
0,308
0,040
0,116
MUSCOLI AFFATICATI
Anteriori.
Creatina,
Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,7655
di creatina secca a 100°
pari a gr. 0,8706
di creatina cristalliz-
zata, cioè . .
|
Creatinina.
Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,8010
di clorozincato secco a
100° pari a gr. 0,5001
di créatinina, cioè
Posteriori.
Creatina.
Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,5540
di creatina secca a 100°
pari a gr. 0,6267
di creatina cristalliz-
zata, cioè .
Creatinina.
Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 1,3005
di clorozincato secco a
100° pari a gr. 0,8119
di creatinina, cioè . .
Su 100
di
muscolo
0,348
0,200
0,250
0,324
608 A. MONARI
L’8 aprile intrapresi altra esperienza come la precedente. I
cani erano grossi, ambedue di media età; il normale pesava
kg. 17 e gr. 500 e l’altro, affaticato con una corsa di 43 ore,
pesava kg. 19 e gr. 200.
I risultati furono i seguenti:
TavoLa.Vi
MUSCOLI IN RIPOSO
MUSCOLI AFFATICATI
Anteriori. Su on Anteriori. Su fia
Creatina. muscolo || Creatina. | muscolo
Gr. 250 di muscolo fornirono Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,6470 gr. 0,8240
di creatina secca a 100° di creatina secca a 100°
pari a gr. 0,7359 pari a gr. 0,9372
di creatina cristalliz- di creatina cristalliz-
zata, cioè . . .| 0,2% zata, cioè . . 0,375
Creatinina. Creatinina.
Gr. 250 di muscolo fornirono Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,1120 gr. 0,8510
di clorozincato secco a di clorozincato secco a
100” pari a gr. 0,0700 100° pari a gr. 0,5313
di creatinina, cioè . . .. . 0,028 ||di creatinina, cioè . . .. . 0,212
Posteriori. Posteriori.
Creatina. Creatina.
Gr. 250 di muscolo fornirono Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,6620 gr. 0,6570
di creatina secca a 100° di creatina, secca a 100°
pari a gr. 0,7529 pari a gr. 0,7472
di creatina cristalliz- di creatina cristalliz-
Zata, Cloò °°. * |POS01 zata, cioè . 0,299
Creatinina. Creatinina.
Gr. 250 di muscolo fornirono Gr. 250 di muscolo fornirono
gr. 0,3900 gr. 1,2310
di clorozincato secco a di clorozincato secco a
100° pari a gr. 0,2455 100° pari a gr. 0,7685
diccreatinina, cioszla, i, 0,097 ||di creatinina, cioè . . . .. 0,307
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 609
I risultati ultimi confermano adunque i primi. Riunisco ora
in un quadro tutti i risultati delle singole esperienze, tanto sui
muscoli dei cani in riposo quanto su quelli degli affaticati.
MUSCOLO IN RIPOSO MUSCOLO AFFATICATO
n o n ar "st ce
TAVOLA Creatina |Creatinina TAvoLA Creatina |Creatinina
p. 100 p. 100 p. 100 p. 100
0,334 0,431
0,300
I 0,336
Muscolo / 0,329 Muscolo ] |
E 7,02
in genere Di in genere Ch
0,094 2,
0,054
0,060 \
III. 0,284 III. \ 0,381
Muscolo Muscolo
degli arti pos 0,056 ||degli arti pos. | 0,544
Arti 0,308 Arti 0,348
batt n 0.040 i 0.200
i IV.
DE DR
Arti 0,325 | Arti ) 0,250
si 0.116 [esi | 0,324
Reti 0,294 TR 0,375
\anteriori 0.028 anteriori 0212
V.
9 21010
Arti 0,301 Arti \ 0,299
Dari, 0,097 poster. | 0,307
A prima vista sembrerebbe che la creatina non aumentasse,
o meglio che non avesse gran parte nel lavoro muscolare, atteso
le quantità che si sono ricavate, presso a poco uguali a quelle
del muscolo in riposo, non solo, ma considerandola anche di fronte
alle notevoli quantità di creatinina che si sono ottenute.
610 A. MONARI
Ciò non è vero poichè si hanno ancora le cifre 0,348-0,375-
0,381, mentre pel riposato in una lunga serie di esperienze il ma-
rimum è stato 0,336, e come si vede le differenze sono abbastanza
notevoli perchè non possano confondersi nei limiti degli errori.
Nondimeno pel muscolo affaticato si sono ottenute pure le
cifre 0,131 - 0,250 - 0,299 e queste starebbero anzi a favore
della diminuzione della creatina per effetto del lavoro o tutto
al più nè della diminuzione nè dell’aumento.
A me sembra piuttosto che la creatina si formi considere-
volmente, ma egli è piuttosto che nel lavoro del muscolo si deb-
bono distinguere due tempi, cioè di formazione l’uno e l’altro
di rapida trasformazione.
Che creatina si formi, lo dice il fatto dell'aumento notevo-
lissimo della creatinina come 0,493 nella II esperienza e 0,544
nella III. Potrebbe oppugnarsi però che la creatinina si generasse
da sè direttamente senza passare: per l’intermediaria creatina, e
che questa invece scemasse perchè il lavoro la distrugge, come
ad es. nella I esperienza i numeri 0,131 per la creatina e 0,493
per la creatinina. Innanzi tutto non vi sarebbe ragione per am-
mettere una tale ipotesi, essendo noto nel campo della chimica
come dalla creatina si ottenga facilmente la creatinina, seconda-
riamente si vede nella III e nelle altre esperienze che la creatinina
è fornita esclusivamente a spese della creatina. I numeri della
creatina nei muscoli affaticati, 0,381 - 0,348 - 0,375, superiori
a qualunque cifra nei muscoli in riposo, stanno lì per attestarlo.
Non è vero adunque secondo Nawrocki (1) che il lavoro non
fa aumentare la quantità di creatina nel muscolo o almeno che
le differenze riscontrate tra l’affaticato ed il riposato, sono nei
limiti possibili degli errori; del resto toglie ogni attendibilità
alle sue ricerche il non aver trovato creatinina, se non in quan-
tità microscopiche; sia egli pure che non fosse nelle condizioni
di un forte affaticamento, ma in questo caso allora, non essendo
intervenuto il secondo tempo per la trasformazione della creatina
in creatinina, avrebbe dovuto trovare senza dubbio quantità su-
periori di creatina.
Non è vero neppure secondo Voit (2) che trovò diminuzione
sensibile di creatina nei muscoli tetanizzati e sensibilissima nei
rigidi e in ogni caso che la creatinina scompariva.
COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI NELLA FATICA 611
Sono d’accordo fino ad un certo punto con Sarokin (1) che
trovò diminuzione di creatina ed aumento di creatinina, ma non
osservò in alcuni casi che anche la creatina aumenta o almeno
che la diminuzione è subordinata a condizioni speciali di lavoro
ed in questo caso alla quantità forte di creatinina; in ogni modo
constatò come me che la quantità totale di creatina e creatinina
aumenta e parte della creatina si trasforma in creatinina.
Avendo ripetuto poi le esperienze di Scezelkow (2) sui muscoli
degli arti anteriori e posteriori dei cani in riposo, se non posso
confermarne assolutamente i risultati, poichè le cifre della creatina
0,308 - 0,294 per gli anteriori e 0,281 - 0,325 - 0,301 per
i posteriori non presentano tali differenze per dimostrare maggior
quantità di creatina nei secondi piuttostochè nei primi, ho sempre
notato però nei posteriori un aumento di creatinina, come lo
indicano le cifre 0,056 - 0, 116 - 0, 097 di contro alle cifre
0,040 - 0,028 ottenute dai muscoli anteriori. Nella somma
adunque di creatina e creatinina ammetto il fatto osservato da
Sezelkow, il quale si manifesta molto meglio nei muscoli ante-
riori e posteriori dei cani affaticati, e se qui alcune volte l’au-
mento della creatina è inverso, cioè trovasene più negli anteriori
che non nei posteriori, nondimeno maggiori quantità di creati-
nina si ricavano dai posteriori che non dagli anteriori; la somma
adunque è sempre superiore e di molto per i posteriori. Ciò avva-
lora sempre più l'osservazione che i muscoli che lavorano mag-
giormente, danno pure maggiore creatina, salvo ad essere quindi
trasformata in creatinina. Anzi l’esperienza tra gli anteriori ed
i posteriori viene ancora una volta a confermare indubbiamente
che la creatinina è data per trasformazione della creatina, poichè
non potrebbesi in alcun modo ammettere che la creatinina si
formasse da sè indipendentemente e la creatina frattanto andasse
distruggendosi, quando un muscolo anteriore in riposo da 0,308 -
0,294 è passato affaticandosi a 0,348 - 0,375, sia pure che il
muscolo posteriore in riposo da 0,325 - 0,301 sia sceso affa-
ticandosi a 0,250 - 0,299, se creatina si distrugge nel posteriore
egualmente dovrebbe distruggersi nell’anteriore, invece v'è aumento.
Ed è naturale la maggior quantità di creatina che trovarono
nel cuore Liebig e Gregory (8), giustamente osservando che è
‘ il muscolo che lavora più di tutti; non sarà in quelle condizioni
(1) (2) G) L. c.
612 A. MONARI - COMPOSIZIONE CHIMICA DEI MUSCOLI ECC.
speciali di lavoro perchè vi si possano formare anche delle forti
quantità di creatinina, o forse che sono portate via rapidamente
dalla massa del sangue, è pur vero però che è l’organo in cui
vecchi e nuovi sperimentatori ve ne trovarono le maggiori quan-
tità, che non in altri organi.
I risultati di queste esperienze trovano un qualche riscontro
con quei che ha ottenuto Demant (1) sui muscoli pettorali dei
colombi digiuni. Egli trova che la creatina (calcolata anche la
creatinina) aumenta considerevolmente e quando il digiuno è inol-
trato la quantità è perfino tripla che non nei muscoli dell’ani-
male normale. Ammette che la causa dell’accumularsi della crea-
tina nell’animale digiuno stia nel rallentamento della corrente
linfatica ed in un aumento della scomposizione degli albuminoidi
nel muscolo stesso.
Le conclusioni di questa prima parte delle mie ricerche nelle
trasformazioni che subisce la composizione chimica dei muscoli
per effetto delle contrazioni sono dunque le seguenti:
I. Che tanto la creatina quanto la creatinina aumentano
nel muscolo per effetto della fatica.
II. Che in date condizioni di lavoro (forse per un eccesso
di fatica o per altre cause ancora sconosciute) la quantità di
creatinina può superare anche della metà quella della creatina.
III. Che alcune volte la quantità di creatina nel muscolo
affaticato è inferiore alla quantità di creatina che trovasi nel
muscolo in riposo ed in questo caso si ricavano le quantità mag-
giori di creatinina.
IV. Che la creatinina è fornita per trasformazione della
creatina.
V. Che si ricava insieme una nuova base, la xantocreati-
nina, la quale può calcolarsi per }, della creatinina.
Laboratorio di Fisiologia della R. Università di Torino.
Giugno 1887
(1) Zeitscrif. f. physiol. Chem., t. III, p.381.
Sulla scomposizione di certe omografie in omologie
(da una lettera del Prof. E. BERTINI al Dott. C. SeGRE)
Nelle Sue belle Aicerche sulle omografie e sulle correlazioni
in generale, ecc. (Mem. della R. Accad. di Torino, Serie III,
vol. XXXVII), Ella dimostra (n° 6) che, in uno spazio a numero
pari » di dimensioni, una omografia che trasformi in sè stessa una
quadrica generale equivale al più ad »-1 proiezioni (trasforma
zioni omologiche-armoniche della quadrica in sè stessa) ed osserva-
di non essere riuscito a ridurre tali proiezioni ad » soltanto ,
come asserisce il signor Voss nella Memoria: Zur Theorie der
orthogonalen Substitutionen (Math. Ann., t. XIII, a pag. 349).
La difficoltà può essere agevolmente superata coll’aiuto della
proposizione (relativa a due spazîì fondamentali coniugati di punti
e di piani di una omografia) contenuta nella Sua Nota poste-
riore: Sugli spazî fondamentali di una omografia (Rendiconti
della R. Accademia dei Lincei, maggio 1886).
Nella dimostrazione a cui sono giunto e che qui Le comu-
nico, mi valgo inoltre delle proprietà che Ella ha dato nei primi
n' di quelle Sue ticerche. Dal n° 4 discende dapprima che per
n pari esiste sempre almeno uno spazio fondamentale (di dimen-
sione pari) corrispondente ad una radice #1 e che per n im-
pari e in una omografia di 2° specie esistono sempre due tali
spazî (di dimensioni pari) corrispondenti alle radici +1, —1.
Si indichino (qualsiasi ») con S,_,, X,-,, due spazî fonda-
mentali coniugati corrispondenti ad una radice +1; il sostegno
Sn-1 di X,_, sarà allora lo spazio polare di S,_, (Ricerche, n° 2).
Due punti corrispondenti arbitrari A, A' determinano due spazî
corrispondenti ,,, 5, passanti per S,_,,i quali sono prospettivi
da un punto O di S,_,. L’involuzione che si ha sulla retta A4'
(Ricerche n' 1, 2) ha per una coppia (AA') ed O per un punto
doppio. L'altro punto doppio è il punto in cui A4' incontra il
piano © polare di O rispetto alla quadrica. In vero, la retta
AA' incontrando la quadrica in due punti corrispondenti della
involuzione (ficerche, n° 3), quei due punti doppi sono coniu-
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol, XXII. 46
614 E. BERTINI - SULLA SCOMPOSIZIONE ECC.
gati rispetto alla quadrica stessa. Adunque due punti corri-
spondenti qualunque di S,, 5; sono armonici rispetto ad 0, ®.
Ora, se sono X,, X, gli spazì di piani aventi per sostegni gli
spazi polari di 9,, S,, è evidente che quei due spazî X,, X,' si
corrispondono (£icerche, n° 2) ed hanno per piano di prospet-
tiva il piano @ (passante per $,_,), due piani corrispondenti
di S,, X, essendo pure armonici rispetto ad 0, 6.
Ciò premesso, se alla omografia considerata aggiungasi una
proiezione della quadrica dal punto O, si otterrà una nuova omo-
grafia, nella quale 4, e £, sono spazî fondamentali. Infatti è
manifesto, che sono spazî di punti e piani uniti: inoltre ,S, non
può essere contenuto in uno spazio superiore di punti uniti,
perchè il punto O è centro di prospettiva di ,, S, e non di
altre coppie di spazî corrispondenti (ad % dimensioni ) passanti
per S,_ (Sua Nota citata: Sugli spazî ecc.). Si noti poi che S,,
oltre ad avere il sostegno di Y, per spazio polare, ha %, anche
per spazio coniugato nella detta nuova omografia. Il che risulta
dall’osservare che i due punti A, A' e quindi S,, 5, sono
esterni alla quadrica: donde segue che 5}, nella nuova omografia,
deve corrispondere ad una radice #1 e di conseguenza deve avere
per spazio coniugato lo spazio £, di cui il sostegno è lo spazio
polare di ,S, (Lticerche, n° 2). Alla nuova omografia può quindi ap-
plicarsi il ragionamento fatto per la primitiva, e così di seguito, fino
a che si giunga ad una omografia con uno spazio fondamentale
Sh-, cioè ad una proiezione. Si conclude che: — Una omografia,
che trasforma una quadrica in sè stessa e che possiede uno
spazio fondamentale S,_, corrispondente ad una radice #1,
è equivalente (qualsiasi il numero n) ad n—h+1 protezioni.
(a-h)(n-h+4 1)
9
(91
— Vi sono co gruppi di tali proiezioni.
Essendo h =1 per una omografia generale qualunque quando
n è pari e per una omografia generale di 2° specie quando n
è dispari, si ha in particolare che ciascuna di tali omografie
equivale ad n protezioni.
Restano così dimostrate simultaneamente l’asserzione del Voss
e il teorema del n° 5 delle Sue Ricerche: e, come Ella rico-
noscerà facilmente, non occorre qui (come nel detto n° 5) al-
cuna considerazione al limite, potendo essere qualsivoglia il gruppo
caratteristico relativo alla radice +1 considerata.
Pavia, 8 Giugno 1887.
EFFEMERIDI
DEL SOLE, DELLA LUNA
E
DEI PRINCIPALI PIANETI
CALCOLATE PER TORINO IN ‘TEMPO MEDIO CIVILE DI ROMA
PER L'ANNO 1888
del Prof. AnGELO CHARRIER.
616 A. CHARRIER
— SOLE —
Gennaio
DI TORINO
a mezzodì
Passaggio a
Nascere al Tramon- €
DET tare | mezzodì vero | medio alRoma
GIORNO
del Mese
> TEMPO MEDIO DI ROMA DECLINAZIONE TEMPO SIDERALE
h m him: ‘8 h m h m s
il 8 0009223893] 4 45230 15684] 18 93 11-34
20 8g ol 23 7-15 4 46|92 5652-44 | 18 26 7.90
35 8 ol 2335-04| 4 4822 519205 | 18 31 5:45
4 8 0 94 2-57 4 48 | 22 45 214 18 35 1:01
5| 8 o0| 2429-72) 4 49|92 3855-2 | 18 38 57-56
el s.o| 045645 |:4-50| 22 3901-90 an
7| 8 ol 2522-73] 4 51|22 24 41:8 | 18 46 +50-67
s| 8 ol 2548-35] 4 52|22 16 55:3 | 18 30 47-99
9| 7 59| 2613-88] 4 53|922 842-6 | 18 54 43°78
i0f 7 59| 2638-68] 4 55122 0 3-9 | 18 58. 40:34
il 758] 27 2:98] 4 se 21 5059:3 | 19 2 36:91
12 7 581 2706-58] 4 57121 41 29-2.| 19 6 33-47
131 7 571 2749-64] 4 59|21 3133-8 | 19 10 30:03
14 7 571 2812-06] 4 59| 21 21 13-6 | 19 14 26:59
151 7 57) 2833-80] 5 1|21 1028-7 | 19 18 23:15
161 7 sel 2854-90] 5 2|20 59197.) 19 02 19-71
(71 7 56] 2915-27) 5 320 474601 | 19 26 18-96
181 7 55} 29349) 5 5|20 35 492 | 19 50 19-81
19% 7 54} 2953-82] 5 6|20 23 28-:9 | 19 34 9:36
90 7.53 3011-99] 5.-8|.2010:35-4/| 1938 Massi
21 7 se] 302937 5 9|19 57394 | 19 40 2:46
92 | 7 51 3045:97| 5 10|19 4411°0 | 19 45 59-02
23| 7 51| 31 1-78) 5 11|19 30206 | 19 49 55-57
24| 7 50| 3116:78| 5 1319 16 8-7 | 19 53 52:13
25| 7 49| 3130:98| 5 1519 135-6 | 19 57 48-69
261 7 49] 3144-3801 5 15018 46417) 30° 1 45:95
27 7 48| 315695) 5 17|18 3127:3| 20 5 4181
98 | 7 46| 32 8-70) 5 18|18 155249] 20 9 38-37
29| 7 461 3219:63| 5 19] 17 59587 | 20 13 34:93
30| 7 45| 322976| 5 21|17 4345:3 | 20 17 31-48
31 7 44| 3239-06| 5 22|17 2713-0| 20 21 28:03
EFFEMERIDI DEL SOLE 617
— SOLE —
Febbraio
i TEMPO MEDIO DI ROMA DECLINAZIONE | TEMPO SIDERALE
Z= etiiii | DI TORINO
© = | Nascere a” o Tramon- li a; mezzogi
3 enzo tare mezzodi vero medio di Roma
h m hm s h m
i Mi (42 (003% 47555 5 24 | 17010'22"1A " 95 24 ‘58
2 MAL 32 5524 bas | 16 dacpori 20 29 2113
di n hi 33 42-49 5 26 | 16 35 46°‘3 20 33 17:69
4 7 39 33.1 8:22 528160100252 20 37 14:24
5 70698 Somoroi 5 0304/1600 05059 20 41 10*80
6 n 36 33 18-01 5 St) 150410483 90 145 n 7635
n 735 SO 91eTI 5.23 )[ 15. 93 9r5 20 49 3°91
8 ner34 33 24-65 5 84) 1503402050 20 53 0-47
9 7 433 33 26-80 | 5 35 | 14 45 1561 90 056 (57:03
101717: 730 33 28 17 5: 07] 1A 2009556 94 (0 53359
Ii Fi W29 33 28 ‘77 5 39:14 621 ra prvni Sii 4 450715
12 7 928 33 28 ‘58 5 39 | 13 46 33-6 91 08 ‘(46270
ei 7 627 33 27 ‘64 5 41 | 13 26 32-0 oi »i2 43.251
14 425 33 25:93 53 139473 21 16 39-80
15 7923 33 23-48 5 44 | 12 45 49°8 21 20 36:35
lox|fy7-=922 33 20-28 5. 466/2201051 21 24 32-90
17 ner920 33 16:35 5. (466) 1240185 21 28 29-44
18 spo 33 1170 5 48 | 11 43 15-5 SI STOEZE
19 METTI 33 6:34 5 508) Li°2De1C4 91 #36 122255
90:17 45 SARO 5. ILE L14069 21 40 19-10
21 dA STI 5 53] 10 39 2-0 21 44 15:66
22 RAI 32 46715 5 54 | 10 17 17°6 91 48 12:22
23 o 32 38-10 5 5a 9 55 23-6 9f ©52 VW 86928
24 9 32 29:42 5 57 9 33 20.8 DI E56. 5034
25 TONI 32 20-14 541158849 d' PS9R5 9290 0. 1:89
26 Vipr5 32 10-35 6 O] 8 48 50°:0 292 3 58644
27 Ye3 31 59-78 6g 8 26 22-7 929 7 52-99
28 Hp 2 31 487 62 8 3481 99 11 51 ‘54
29 790 319724 6 4 7 41 64 | 22 15 48:09
618 A. CHARRIER
— SOLE —
Marzo
TEMPO MEDIO DI ROMA DECLINAZIONE | TEMPO SIDERALE
— cir —"rtr_ er >=
GIORNO
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Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII.
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EFFEMERIDI DELLA LUNA 631
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Luna piena il 23 a & 34 di matt.|| Primo quarto il 29 a 3 8 di
Ultimo quarto il 30 a 9 49 di
Luglio Agosto
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632 A. CHARRIER
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Primo quarto il 10 a 7 35 di matt.
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Ultimo quarto il 26 a 6 49 di matt.
634 A. CHARRIER
ECCLISSI
(1888)
298 Gennaio. Ecclisse totale di Luna visibile a Torino.
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Fine dell’Ecclisse totale . . 0 58 ,9 » »
Uscita dall'ombra.:. è... 1 (59 #6 » »
Grandezza dell’Ecclisse 1,64 preso per unità il diametro
della Luna.
Il primo contatto coll’ombra a 93° del punto più boreale
del disco verso Est; l’ultimo contatto a 74° verso Ovest
(immagine diritta).
11 Febbraio. Ecclisse parziale di: Sole invisibile a
Torino.
8 Luglio. Ecclisse parziale di Sole invisibile a Torino.
23 » Ecclisse totale di Luna in parte visibile a
Torino.
Entrata nell’ombra .. .. 4° 44", 7 mattina.
Principio dell’Ecclisse totale 5 43 , 7 »
Metà dell’Ecclisse . . . . . 6° 34 56 »
Fine dell’Ecclisse totale. . 7 25 , 4 »
Uscita dall’ombra . . . .. ‘93M: ROSI »
Grandezza dell’Ecclisse 1,82 preso per unità il diametro
della Luna.
Il primo contatto coll’ombra a 82° dal punto più boreale
del disco verso Est; l'ultimo contatto a 95° verso Ovest
(immagine diritta).
7 Agosto. Ecclisse parziale di Sole invisibile a Torino.
EFFEMERIDI DEI PIANETI 635
EFFEMERIDI
Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno
158358.
Sedia
636 A. CHARRIER
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638 S. VARAGLIA E A. CONTI
Alcune particolarità macro e microscopiche
dei nervi cardiaci nell'uomo ;
dei Dott.i S. VARAGLIA e A. CONTI
In una dissezione di nervi cardiaci, fatta all’ Istituto Ana-
tomico di Torino, ci venne dato di osservare una particolarità,
che parve meritevole di comunicazione non tanto per sè, quanto
per i successivi risultati di cui essa fu origine.
Nel cadavere d’un uomo d’anni 62 riscontrammo a destra
(Fig. I), che lungo il decorso del n. ricorrente, circa a 4 mm.
al disopra della clavicola, appariva ben manifesto un rigonfia-
mento gangliforme di colore giallastro di grossezza poco mag-
giore a quella di una lenticchia, e da questo partivano due
rami che si dirigevano in basso ed all’esterno, si intrecciavano
a larghe maglie con tre rami nervosi che partivano dal Gran
Simpatico uno dal ganglio cervicale medio, l’altro dall’inferiore
ed un terzo dal cordone che unisce questi due ganglii.
Da questo plesso, che era tutto compreso nella regione del
collo, partivano i rami che andavano al plesso cardiaco, quale
viene generalmente descritto dagli autori.
Il ganglio, notato nel decorso del n. ricorrente, appariva
già all'esame macroscopico che non era compreso nello spessore
del nervo stesso; ma solo sovrapposto e unito ad esso da un
ramo di discreta grossezza e della lunghezza di circa 1 mm.
Dei tre nervi cardiaci simpatici più sopra accennati, i primi due
andavano a confluire in un piccolo ganglio e da questo partiva
un ramo unico che unendosi col terzo formava la -rete a maglie
larghe descritte nella regione del collo.
A sinistra trovammo un fatto che pur esso vuole essere de-
scritto: Dal ganglio cervicale superiore (Fig. II), partiva un ramo
che, decorrendo in basso al lato interno e posteriore della carotide
primitiva, dopo circa un centimetro di decorso si espandeva in
un rigonfiamento gangliforme del diametro di circa 2 mm. di
forma triangolare.
DEI NERVI CARDIACI NELL’UOMO 639
All'angolo superiore di questo triangolo arrivava il ramo sim-
patico descritto, e dai due angoli inferiori partivano due rami che
abbracciavano la succlavia per recarsi al normale plesso cardiaco.
Però dalla parte interna di questo ganglio partiva un ramo che
decorreva trasversalmente all’interno per recarsi dopo un decorso
da 4 a 5 mm. ad un altro ganglio, di volume però inferiore
al precedente. A quest’ultimo ganglio descritto convergono altri
rami su cui specialmente richiamiamo l’attenzione, e sono:
1° Un ramo che proviene dal ganglio cervicale inferiore ;
2° Due rami che provengono dal n. ricorrente circa a
metà del suo decorso tra la clavicola ed il punto d’immersione
nella laringe.
Però da questo ganglio non vedemmo partire nessun fila—
mento nervoso destinato al plesso cardiaco.
Invece dal secondo ramo, che abbiamo detto partire dal
n. ricorrente, prima di arrivare al ganglio si distaccavano due fi-
lamenti, che unendosi ad un terzo, proveniente pure dal ricor-
rente poco più in basso, e ad un altro ramo che partiva dal
ganglio cervicale inferiore del G. S. formavano un plesso a maglie
larghe, posto pure nella regione del collo da cui si staccavano
i rami, che circondando l’arco dell’aorta, si portavano al plesso
cardiaco.
Prima di considerare le particolarità microscopiche di questi
rami e ganglii sopranumerari, e dedurne il loro significato ana-
tomico descriveremo un altro caso di ganglio cardiaco cervicale
sopranumerario da noi osservato sin dallo scorso anno (Fig. III).
In un giovane dell’età dai 14 ai 16 anni trovammo al
lato sinistro che il ramo cardiaco pneumogastrico superiore . ed
il cardiaco simpatico superiore, convergevano e sì riunivano in un
rigonfiamento gangliforme che si trovava a poca distanza dal
tronco pneumogastrico e circa 3 o 4 em. al disopra della cla-
vicola. Da questo ganglio, in basso, partivano due rami che si
comportavano come i nervi cardiaci descritti dagli autori. Solo
ancora è da notarsi che il cardiaco pneumogastrico superiore,
prima di gettarsi nel ganglio descritto, si divideva in due rami
ed entrambi andavano a terminare alla parte superiore del
ganglio. —
A destra, in questo stesso individuo, trovammo solo che il
ramo cardiaco inferiore si staccava dal ricorrente, mentre esso
girava attorno alla succlavia.
640 S. VARAGLIA E A. CONTI
Non ci soffermiamo sul fatto clie i cospicui rami cardiaci
originano dal nervo ricorrente, mentre non ci venne dato di ri-
trovare i normali rami cardiaci del tronco pneumogastrico ; perchè
non si avrebbe che una trasposizione di fibre, le quali avrebbero
però sempre la stessa origine centrale, e questo fatto ci ricorda
precisamente ciò che avviene in altre regioni, ad esempio nei
rami terminali dal plesso bracchiale, dove più volte si osserva
che i rami nervosi pei muscoli della regione anteriore del braccio
anzichè provenire dal nervo perforante, provengono dal mediano,
ed il nervo perforante manca come individualità.
D'altra parte è già noto che spesse volte dal nervo ricorrente
partono, specialmente in corrispondenza della sua parte inferiore,
alcuni rami che si anastomizzano coi nervi cardiaci pneumogastrici
o simpatici. Nel nostro caso però abbiamo cospicui e principali
rami che partono dal nervo ricorrente nella sua metà superiore.
Del resto i nervi cardiaci sono rimarchevoli fra tutti per
varietà d'origine, volume, numero, direzione, rapporti ed anas-
tomosi: e un caso analogo al nostro, quantunque non identico,
troviamo descritto nel classico trattato dello Scarpa.
Fermiamo specialmente l’attenzione nostra sui ganglii sopra-
numerari, di cui abbiamo cercato di spiegarne il significato e
l’origine.
Ben sappiamo come già si conoscano ganglii nel decorso dei
nervi cardiaci nel loro primo tratto, cioè prima che formino il
plesso cardiaco nella concavità dell’arco aortico (1).
Ma questi vennero descritti nel decorso dei rami cardiaci
simpatici, e specie quando il cardiaco simpatico .superiore si
unisce col medio e precisamente al loro punto di unione; senza
però che, per quanto a noi consta, siasi fatto un esame istologico,
che provi la natura ganglionare di tali rigonfiamenti.
Cellule isolate e ganglii microscopici in altri punti del nostro
sistema nervoso periferico se ne conoscono fin d’ ora un rile-
vante numero, e sono già entrati nel dominio delle comuni co-
gnizioni per trovarsi descritti nei più recenti trattati d'istologia
e d’anatomia (2).
(1) SAaPPEY, Traité d’anatomie. Paris, 1877.
(2) KoLLIKER, Elements de histologie humaine. Paris, 1868.
Frey, Traité d’histologie et histochimie. Paris, 1877.
soliti
init
OZ, TO O VO TORO En
DEI NERVI CARDIACI NELL’UOMO 641
Per attenerci all’argomento nostro dobbiamo prendere solo
in considerazione i ganglii o le cellule nervose che furono riscon-
trate lungo il decorso di un cordone nervoso, dalla sua origine
solo fino al punto in cui esso penetra in un organo, o si risolve
in un plesso dal quale poi partono i filamenti diretti alla compage
dello stesso organo, poichè tanto nei plessi terminali quanto in
questi ultimi filamenti oggi già si ammette come regola generale
che esistano sempre ganglii o cellule nervose isolate.
Non entrano per nulla nella categoria dei fatti che qui
esporremo le cellule trovate nel cuore, nei polmoni, nelle pareti
del faringe, in quelle intestinali, nel collo dell’ utero, quelle
trovate dal Paladino (1) nella ghiandola sottomascellare ece. ,
e neppure quelle trovate nel plesso faringeo, esofageo, polmonare,
nel plesso cardiaco propriamente detto, nel plesso solare, ecc.
Hanno invero ben maggior relazione col caso nostro < gangli; già
conosciuti lungo il decorso di molti nervi craniani, quelli osservati
dal Bidder sulle radici del N. Glosso faringeo dei mammiferi, ecc.
Il Mayer nel 1833 avrebbe trovato nell’ipoglosso del vitello
una radice sensitiva, constatata in seguito nel bue, maiale, cane ;
mentre invece nell'uomo non esisterebbe che eccezionalmente e
porta nel suo decorso un piccolo ganglio (2).
Il Peschel (3) nel 1877 descriveva cellule ganglionari sparse
ed isolate nel Simpatico dell’uomo al disopra del primo ganglio
cervicale fino al ganglio oftalmico , e lo stesso Peschel (4) co-
municava in seguito aver riscontrato nei nervi simpatici dell'orbita
di coniglio numerosi gangli.
Ricordiamo il Vignal che nel 1878 e 1880 (5) descrisse cellule
(1) PaLapino, Della terminazione dei nervi nelle cellule ghiandolari, e
dell’esistenza di ganglii non ancora descritti nella ghiandola sottomascellare
dell’uomo e di alcuni animali. Bollett. dell’Assoc. dei medici e naturalisti.
Ann. 3, n. 3, 1872. — Elementi di fisiologia, 1885.
(2) Sappey, Traité d’anatomie descriptive.
(3) PescHeL, Comunicazione preventiva sul plesso simpatico della carotide
interna e dell’arteria lacrimale. Giornale della R. Accademia di Medicina di
Torino, 1877.
(4) Id., Jahresberichte, 1879.
(5) VianaL, Note sur le système ganglionaire du ceur des poissons osseux.
Gazz. Méd. de Paris, 1878.
Sur le systàme nerveua du coeur de la tortue mauresque. Gazzette
Méd. de Paris, 1878.
Sur le systòme nerveua du coeur de lopin, Gazz. Méd. de Paris, 1880.
642 S. VARAGLIA E A. CONTI
ganglionari isolate o unite in gruppi nel sistema nervoso del cuore
di alcuni animali inferiori.
Nel 1883-84 Rattone descriveva cellule ganglionari nelle
radici posteriori dei nervi spinali (1) le quali ricerche venivano
a dar spiegazione dei così detti Ganglia aberrantia od interca-
laria, ed il Schifer (2) descrisse cellule ganglionari in alcune
radici anteriori dei nervi spinali del gatto, e quest’esistenza non
confermò nell’uomo.
Nel 1883 (3) uno di noi descriveva cellule nervose nel nervo
intermediario del Vrisberg e nel facciale, e nel 1884 (4) nel
facciale all’uscita del ganglio genicolato, nel grande e piccolo
petroso superficiali, e nel 1885 (5) nei rami comunicanti spi-
nale del Gran Simpatico.
Nel 1886 (6) lo Sperino dimostrava l’esistenza di cellule ner-
vose nei n. splancnicus maior et minor, le quali osservazioni pos-
siamo confermare, perchè uno di noi prima della comunicazione dello
Sperino già aveva fatto preparati microscopici del Gr. Splancnico
dimostranti cellule ganglionari lungo il decorso di detto nervo.
Non ci consta però che siano state sinora istituite ricerche
allo scopo di vedere se normalmente nei nervi cardiaci dell’uomo,
pel tratto che decorrono alla regione del collo, prima cioè di
giungere al plesso cardiaco propriamente detto, esistano cellule
isolate lungo le fibre o riunite in gruppi, le quali in vero servi-
rebbero a darci ragione dell’esistenza dei ganglii sopranumerari.
Facciamo distinzione pel modo di aggruppamento delle cel-
lule, perchè quantunque fisiologicamente non si possa stabilire
alcuna differenza fra cellula isolata e ganglio, per il fatto evi-
dente che basta una cellula a formare un centro nervoso d’a-
zione; è innegabale però, dal punto di vista dell'anatomia pura,
che noi dobbiamo, in base alle osservazioni, distinguere le cel-
(1) G. RaTTONE, Sull’esistenza di cellule ganglionari nelle radici dei nervi
° spinali dell’uomo, 1883. Gazzetta delle cliniche.
Id., Sull’esistenza di cellule ganglionari nelle radici posteriori dei nervi
spinali nell'uomo. Archivio per le scienze mediche, vol. VIII, n.3, 41884.
(2) Scnirer, Jahresberichte, 1882.
(3) S. VaragLIa, Osservatore. Gazzetta delle cliniche, 1883, n. 50.
(4) Id., Atti della R. Accademia di Medicina di Torino, 1884.
(5) S. VaragLIA, Gazzetta delle cliniche, 1885, 2° semestre.
(6) G. SPeRINO, Gazzetta degli ospedali, 1886, Milano.
DEI NERVI CARDIACI NELL’'UOMO 6453
lule isolate che si trovano nel decorso delle fibre nervose e serrate
fra queste da quel gruppo di cellule, tenute riunite da sostanza
connettiva e fibre nervose, che costituisce ciò che in anatomia
vien descritto col nome di ganglio.
Esaminati i numerosi lavori che dimostrano la presenza di
cellule ganglionari in una considerevole estensione del sistema
periferico era naturale una dimanda. Le cellule ganglionari sono
una prerogativa di alcuni nervi speciali, oppure comuni a tutto
o almeno a gran parte del sistema nervoso periferico ?
Noi ci siamo proposti di portare il nostro contributo alla
risposta di questa dimanda ed abbiamo cominciato il nostro esame
dai nervi cardiaci, poichè già uno speciale e prezioso materiale
di studio ce lo fornivano gli esemplari che abbiamo descritto in
principio di questo lavoro.
Ci interessava determinare se la presenza di ganglii sopranu-
merari, da noi e da altri trovati, fosse un fatto assolutamente
anormale, oppure non fosse altro che l’esagerazione di una dis-
posizione, che normalmente si osserva in ogni individuo ; cioè
constatare se esistano costantemente cellule nel decorso dei nervi
cardiaci e i ganglii sopranumerari non rappresentino altro che
una esagerazione od un concentramento loro in un dato punto.
Compimmo i nostri esami col metodo della dilacerazione, e
delle sezioni longitudinali e trasversali dei nervi precedentemente
inclusi in paraffina.
Per avere una più facile dilacerazione sottoponevamo il nervo,
da qualche giorno conservato nel liquido del Miiller, all’azione
dell’acido arsenico all’1 ‘4.
Per le colorazioni ci servirono i preparati di carmino, specie
l’ammoniacale, il borico e il pricro-carmino; la purpurina; ab-
biamo anche esperimentato la colorazione al nitrato d’argento con
buoni risultati, ecc. Del resto per la tecnica nulla di speciale.
Evidentemente per risolvere la questione che ci eravamo pro-
posta, non dovevamo limitarci ad esaminare i ganglii sopranume-
rarii che abbiamo descritto o i filamenti nervosi che vi parti-
vano ed arrivavano, ma anche esaminare i rami cardiaci in
individui in cui essi si presentavano in modo normale, cioè non
interrotti da ganglii fino al plesso cardiaco. Oltre a questi ab-
biamo creduto opportuno esaminare nervi cardiaci di alcuni mam-
miferi e quelli di un feto umano che abbiamo potuto avere in
buone condizioni di conservazione.
644 S. VARAGLIA E A. CONTI
Come appare dalle tavole che riproducono alcuni dei nostri pre-
parati, possiamo affermare in modo assoluto da non esservi dubbio
sulla presenza di cellule ganglionari sparse lungo il decorso dei
nervi cardiaci, che partono dal Simpatico e dal Pneumogastrico.
Tutti i rami dei plessi cervicali da cui partivano i rami
cardiaci negli esemplari anomali che noi presentiamo, i nervi
cardiaci che anormalmente sui nostri esemplari nascono dal nervo
ricorrente, il nervo ricorrente stesso in prossimità del ganglio
presentavano scarse, ma evidenti cellule ganglionari.
Il fatto che per noi ha maggior importanza, si è l’aver tro-
vato anche in tutti i rami cardiaci che si comportavano in modo
normale, cioè non interrotti da gangli, costantemente esistere nel
loro decorso, in mezzo alle loro fibre, cellule ganglionari evi-
dentissime, ora isolate ora riunite in piccoli gruppetti, tanto da
formare un vero ganglio microscopico.
Di più, quantunque non possiamo determinare il rapporto
assoluto perchè non ci parve possibile contare queste cellule nei
diversi esemplari; possiamo però affermare a priori dalla fre-
quenza dei preparati che contenevano cellule gangliari, e dal
numero di queste nei singoli preparati, che le cellule sparse lungo
le fibre erano apprezzabilmente più abbondanti in quegli esem-
plari che non presentavano ganglii microscopici nel loro decorso.
Ed in un cadavere di Microcefalo, che capitò all’ Istituto
Anatomico, abbiamo riscontrato a destra che i nervi cardiaci
pel plesso cardiaco partivano da un plesso cervicale quasi iden-
tico a quelli che abbiamo sopra descritti, senza che in esso fosse
possibile riconoscere macroscopicamente la presenza di alcun
ganglio, e invece alla dilacerazione ci si presentò una quan-
tità relativamente considerevole di cellule ganglionari, quali non
ci fu possibile osservare negli altri preparati. E così per gli
esemplari privi di ganglii apparenti abbiamo sempre trovato molto
più facile il rintracciare in mezzo alle fibre nervose, cellule iso-
late o raggruppate in ganglietti.
Abbiamo solo potuto contare le cellule dei due rami car-
diaci superiori che partivano dal nervo ricorrente e descritti a
pag. 2 di questo lavoro.
In uno di essi, il superiore, trovammo un gruppo di cellule
in numero di sei, altre tre cellule disposte in serie lineare in
mezzo alle fibre, più un’altra cellula isolata pure serrata fra
le fibre, in fine due altre cellule aggruppate fra loro; cioè un
DEI NERVI CARDIACI NELL’UOMO 645
complesso di dodici cellule in un tratto di circa due centimetri
dalla origine dei detti nervi fin dove andavano ad anastomizzarsi
come più sopra è descritto.
Nel ramo medio non ci fu dato di riscontrare che un gruppo
di otto o nove cellule e nessuna altra sparsa.
Per tutti gli altri rami, avendo fatte dilacerazioni separate
ed alcune fibrille andate perdute per cattiva conservazione o
colorazione, non possiamo dare neppure un numero approssima-
tivo delle cellule, e dobbiamo limitarci ad affermare la loro
indiscutibile esistenza.
Riguardo al rapporto numerico fra le cellule che si trovano
nei nervi cardiaci umani e quelle degli animali che abbiamo
esaminato (cavallo, asino, coniglio) non possiamo nulla affermare,
sia perchè per gli animali abbiamo solo esaminati tratti isolati
di nervi e mai un completo sistema cardiaco, ed anche perchè
in questa parte del nostro esame non abbiamo trovato apprez-
zabili differenze.
Le cellule da noi riscontrate si presentano come tutte le
altre cellule comunemente descritte nei rami periferici, e special-
mente come quelle viste nei preparati del Rattone, dello Spe-
rino e di uno di noi, i cui risultati furono più sopra citati.
Si presentano le cellule di forma più o meno globosa con
nucleo e nucleolo ben evidenti, e qualche volta con due nuclei.
Sono attorniati da una capsula rivestita da elementi endotelici,
il protoplasma è più o meno riccamente pigmentato.
Le cellule ganglionari ci apparirono ora apolari, ora con un
unico prolungamento, ora bipolari.
Nelle dissezioni poco accurate o nei preparati che soffrirono ava-
rie, le cellule apolari ci apparivano in numero maggiore. Quindi
anche noi senza volere assolutamente negare l’esistenza delle cellule
apolari possiamo ben affermare che molte volte così appaiono per
le manovre della preparazione o per una non buona conservazione.
Nel numero abbastanza considerevole di preparati che ab-
biamo fatto, non ci venne mai dato di osservare che alcuno di
questi elementi cellulari si trovasse ad interrompere propriamente
il decorso di una fibra. Questo fatto nell'uomo è in rapporto con
quanto già affermava il Kélliker; però neppure negli animali ci
venne dato di osservare questa circostanza che Kéolliker stesso
enuncia come differenza fra la struttura dei ganglii spinali nel-
l’uomo, e quelli degli animali inferiori.
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII,
NS
D
6046 S. VARAGLIA EA. CONTI
Nella sezione di questi ganglii trovammo una ragione di più
per dedurre, che le cellule ganglionari periferiche non sono de-
stinate ad interrompere le fibre già esistenti; ma piuttosto a
produrne di nuove; e infatti la topografia delle cellule nei nostri
ganglii è uguale a quella che fu già notata dal Kélliker nei
ganglii spinali, cioè al centro del ganglio si ha un fascio di fibre
compatto che lo attraversa in tutta la sua lunghezza, e alla pe-
riferia sono disposte pure compatte le cellule nervose, e all’ u-
scita del ganglio si vede la confluenza del fascio centrale e dei
fasci periferici per formare il nervo efferente.
In vero noi non abbiamo contate tutte le fibre all’entrata
e all’uscita dal ganglio, e manca questo dato in appoggio a
qualsiasi ipotesi.
Le cellule, che noi abbiamo esaminate possono dividersi in
due ordini: in quelle alquanto più grosse e meno pigmentate, con
capsula più evidente, e queste in maggior numero sì trovano nei N.
cardiaci provenienti dal pneumogastrico, nella loro parte superiore
prima che si fossero esauriti nei plesso cardiaco o si fossero fra
loro anastomizzati (Fig. IV): ed in cellule più piccole, con abbon-
dante pigmento nerastro, capsula meno spiccata e tali ci appari-
vano la maggior parte delle cellule nei piccoli ganglietti dissociati
o sezionati, nei N. cardiaci provenienti dal Simpatico e nei loro
tratti di anastomosi con quelli del Pneumogastrico (Fig. V).
Alcuni Autori vollero trovare, parlando del sistema nervoso cen-
trale, un rapporto fra la forma delle cellule ed il mezzo ambiente
in cui si trovano, attribuendo l’appiattimento e l’allungamento
di certi ordini di cellule al trovarsi esse in rapporto a fibre.
In vero la forma globosa, che noi costantemente abbiamo tro-
vato in queste cellule serrate in mezzo a fasci fibrosi, non verrebbe
a dimostrare che una grande influenza la forma delle cellule ner-
vose subisca dal mezzo ambiente; poichè se ciò fosse a fortiori
si dovrebbero avere forme allungate ed appiattite nelle cellule
poste lungo il decorso dei nervi periferici, essendo in questo caso
le condizioni più favorevoli; e le fibre periferiche più rigide e
resistenti delle centrali dovrebbero maggiormente far sentire la
loro azione sulle cellule nervose che in mezzo a loro sì trovano.
Non sarà fuor di proposito ancora aggiungere che nelle sezioni
fatte in corrispondenza dei piccoli gangli già apparenti ad occhio
nudo si potevano scorgere alcune cellule con più prolungamenti.
L’esame dei nervi cardiaci di un feto di sei mesi ci ha
DEI NERVI CARDIACI NELL’UOMO 647
confermato la presenza delle cellule colla stessa disposizione del-
l’adulto; ma non ci ha dato nessnn contributo alla interpreta-
zione del significato di queste cellule.
Però neppure con questo disperiamo che, esaminando un
dato nervo nella serie progressiva delle età, tenendo conto delle
varietà di numero e disposizione si abbiano a trarre conseguenze
interessanti per ciò che riguarda il significato di esse cellule;
come siamo persuasi che esaminando le alterazioni di queste
cellule in malattie nervose con sintomi periferici si trarranno
deduzioni non disprezzabili.
I lavori fin qui pubblicati dimostrano come in una rilevante
estensione del sistema nervoso periferico si siano riscontrate cel-
lule lungo il decorso dei nervi, noi abbiamo già intrapresi studii
in altre regioni, e possiamo fin d’ora affermare in modo posi-
tivo l’esistenza di cellule nel cordone Simpatico che unisce i
ganglii che lo costituiscono; e di più abbiamo potuto riscontrare
la presenza di un ganglio microscopico costante nel punto in cui
î nervi comunicanti simpatici vanno a unirsi coll’intercostale, e
questo spiegherebbe il fatto dell’Antonelli (1), che trovò in un
esemplare « alcune intumescenze gangliformi esistenti nel tronco
di nervi intercostali, nel punto d’ inserzione dei relativi fili
comunicanti del Simpatico, 0 immediatamente in fuori. >»
L’Antonelli si è arrestato a questa descrizione, e non ha
osservato se ganglii microscopici esistessero anche nei casi in cui
essi non erano apparenti; oltrechè nell’uomo tali ganglii trovansi
anche in alcuni animali in cui appaiono anche macroscopicamente.
Su questi però ritorneremo in un prossimo lavoro.
Trovammo pure cellule nervose nei rami anastomotici delle
radici spinali posteriori, illustrate specialmente dall’ Hilbert (2).
Questo fatto non ci meravigliò perchè essendo esse cellule co-
stanti nelle radici stesse, tutto ci portava a credere dovessero anche
esistere nelle loro anastomosi, e la ricerca difatti non fu infruttuosa.
È lecito da tutto questo dedurre :
1° Che i ganglii sopranumerari nel decorso dei nervi pe-
riferici non costituiscono altro che una esagerazione di un fatto
(1) AnToNELLI, Di una rara anomalia del plesso brachiale e di alcuni
ganglii sopranumerari nel corso dei sette ultimi nervi intercostali. Resoconto
della R. Accademia medica di Napoli. Tom. 33. fase. 3°.
(2\ R. HirBeRT, Zur Kenntniss der Spinalnerven. KOnigsberg, 1878.
648 Ss. VARAGLIA E A. CONTI - DEI NERVI CARDIACI NELL’UOMO
normale, o quanto meno l'accumulo in un punto di cellule che
d’ordinario si trovano sparse;
2° Questa costante presenza di cellule nel decorso dei nervi
periferici aumenta l’importanza fisiologica e patologica del si-
stema nervoso periferico in rapporto specialmente al centrale.
TaewWOoNH
SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE.
Ficura I (schematica).
Ganglii cervicali del Gr. Simpatico, medio ed inferiore.
Cordone simpatico cervicale.
Rami cardiaci simpatici.
Ganglio di convergenza dei due rami cardiaci simpatici
superiori.
N. ricorrente.
Ganglio che è annesso al Ricorrente e rami che ne partono.
Ficura II (schematica).
Ganglii cervicali del Gran Simpatico, superiore ed inferiore.
Cordone simpatico cervicale.
Rami cardiaci simpatici.
Ganglio annesso al ramo cardiaco simpatico superiore.
N. ricorrente.
Rami. cardiaci che partono dal ricorrente.
Figura III (schematica).
Tronco pneumogastrico.
Tronco gran simpatico cervicale.
Ramo cardiaco simpatico superiore.
Ramo cardiaco pneumogastrico superiore.
Ganglio di convergenza.
Figura IV (Koristka Obb. 8, Oc. 3).
Cellula isolata di un ramo cardiaco pneumogastrico alla sua
parte superiore.
Figura V (Koristka Obb. 8, Oc. 3).
Cellula isolata del ramo efferente del ganglio (N. 5, Fig. 3).
649
Omografie che mutano in se stessa una certa curva gobba
del 4° ordine e 2° specie, e correlazioni che la mutano
nella sviluppabile dei suoi piani osculatori (*); del Dott.
Alfonso DEI RE.
La curva gobba del quart’'ordine e 2° specie, di cui mi oc-
cupo in questo lavoro, è quella nella quale i punti di contatto
dei piani tangenti stazionari coincidono due a due. Essa venne
incontrata per la prima volta dal CayLEY (**) in uno studio su certe
sestiche sviluppabili, e dal CREMONA (***) nella ricerca delle curve
asintotiche di una superficie gobba del 3° grado. Il CREMONA
poi in una comunicazione all'Istituto Lombardo (tornata del
19 marzo 1868), usando di una speciale rappresentazione della
curva, mostrò, fra altri risultati, esistere una involuzione rigata
atta a mutare la curva in se stessa ed una polarità nulla che
la muta nella sviluppabile dei suoi piani osculatori. Più tardi
il signor WEYR (****), giovandosi di quella rappresentazione, mostrò
che le terne di punti situate sulle rette trisecanti della curva
formano serie proiettive, e più tardi ancora il BERTINI (*****), in
un articolo sulla curva generale del 4° ordine e 2° specie, in-
contrò di nuovo la curva in quistione e ne mise in rilievo alcune
proprietà, delle quali una parte sono già implicitamente conte-
nute nei risultati del Cremona. Qualche tempo appresso il signor
LI
(*) La quadrica gobba generale di 2° specie è mutata in sè da tre invo-
luzioni assiali : esse sono quelle che hanno per assi le tre coppie di spigoli
opposti del tetraedro formato dalle corde principali della quartica e dagli
assi principali della sua sviluppabile bitangente (cfr. per la definizione di
corde principali della curva, e conseguentemente di assi principali della svi-
luppabile bitangente, la memoria del BERTINI citata più giù, e quella di
ARMENANTE « Sulle curve gobbe razionali del 4° ordine » nel Giornale di
Battaglini, An. 1873, pag. 221).
(**) Quarterly Journal of pures and applied Mathematics, vol. 7, p. 105,
(***, Rendiconti dell’ Istituto Lombardo, An. 1868.
ESRrEY Ibid, Am; ‘1874.
(RESO) Ibid: An; 4872.
650 ALFONSO DEL RE
APPELL (*), cercando le curve di 4° ordine, alle quali fosse pos-
sibile imprimere un movimento elicoidale capace di far acquistare
ai punti della curva velocità perpendicolari ai piani osculatori
in essi, trovò che tali curve sono precisamente quelle della specie
indicata; e che queste godono ancora della proprietà che loro
sì può imprimere un secondo movimento elicoidale capace di far
acquistare ai punti della curva velocità perpendicolari ai piani
condotti per essi ad osculare altrove la curva. Il signor APPEL
pervenne così a mostrare l’esistenza di una seconda polarità
nulla che muta la curva nella sviluppabile dei piani osculatori,
corrispondentemente al secondo dei movimenti ora menzionati;
cosa che del resto si può concludere più direttamente compo-
nendo l’involuzione e la polarità nulla trovate dal CREMONA. Fi-
nalmente la stessa curva venne incontrata dal signor PIcARD (**),
in un articolo sulle curve le cui tangenti appartengono ad un
complesso lineare, ma senza aggiungere niente ai risultati pre—
cedenti; e recentemente il Dott. A. BRAMBILLA (***), occu-
pandosi di alcuni casi particolari della curva razionale di 4° or-
dine, ha mostrata l’esistenza di una quadrica (che non è però
la sola) (****), la quale muta la curva nella sviluppabile dei piani
bitangenti.
Ora io mi propongo il problema generale di cercare tutte
le omografie che mutano la curva in se stessa, e tutte le cor-
relazioni che la mutano nella sviluppabile dei suoi piani oscu-
latori, riserbandomi di mostrare in un altro lavoro quali sono
le correlazioni che la mutano nella sviluppabile dei piani bitan-
genti, e d’aggiungere ancora altri risultati che si rannodano al
medesimo ordine di considerazioni.
(*) Comptes rendus de l’Acadeémie des Sciences, An. 1876.
(**) Comptes rendus de l’ Académie des Sciences, An. 1877. — Annales
scientifiques de l’École Normale Supérieure, An. 1877.
(***) Rendiconti dell’Accademia delle Scienze di Napoli, An. 1885.
(#***, Io ho dimostrato in fatti che vi sono infinite quadriche che mutano
la curva nella sviluppabile dei piani bitangenti, che queste quadriche sono
le quadriche polari dei punti della curva rispetto a ciascuna delle superficie
del terz’ordine di due sistemi co', le cui Hessiane si spezzano in una me-
desima quaterna di piani; e che vi sono poi due altre quadriche nel fascio
delle tangenti trisecanti della curva e delle unisecanti appoggiate a queste
tangenti, le quali hanno la stessa proprietà rispetto alla curva ed alla svi-
luppabile bitangente.
OMOGRAFIE 651
UN
bn
Omografie che mutano la curva in se stessa.
Due serie distinte di tali omografie.
4. Sia Q una omografia dello spazio la quale muti la curva
data C in se stessa: tale omografia determinerà sulla curva due
serie proiettive di punti per modo che, indicando con © ed ® i
parametri di due punti corrispondenti, avrà luogo fra essi una
relazione bilineare della forma:
and + bo +cw +d=0 i
in cui i coefficienti 4, d, c, d dipendono dalla natura di ©.
Siano ora ©,, ©,, 03, ®,, i parametri di quattro punti di C' si-
tuati in un piano 7, ed ®,, @,, 03, ©, i parametri dei quattro
punti corrispondenti; poichè questi dovranno essere situati nel
piano x corrispondente di 7 in Q, immaginando la curva rap-
presentata dalle equazioni
ee GR si
avremo le equazioni di condizione
(*) Questa è la rappresentazione della curva proposta dal CrEMona: il
tetraedro fondamentale a cui sono riferite le coordinate «,, %3, ©, x, del
punto di parametro » si compone al seguente modo:
Detti E, Fi due punti singolari della curva, e d, d' le tangenti in essì
(tangenti trisecanti)
xe,=0 è il piano g stazionario in E.
x,=0 è il piano y che passa per EF=f e per d.
e,=0 è il piano è che passa per f e per d*.
xc,=0 è il piano = stazionario in F.
Le coppie di costole opposte di questo tetraedro sono le rette d, d’, le
rette f ed :p=7', e le rette :7=9, 9°=g9' (unisecanti della curva appoggiate
alle tangenti trisecanti): i vertici sono poi i punti E, F, e97=D, s92= G.
(**) Per queste condizioni si può vedere la nota citata del CREMONA.
652 ALFONSO DEL RE
conulk=12,404
bo; +d
La (4), in grazia della (1) che dà , Ti Fi n
può
scriversi :
ba bo;+d box +d _ Da
bem DM; + C ATC a
ik
e riducendo a forma intera
XS (aw;+c)((0x+ c)(00,+d)(00n+d)=0
ik,lm
(X, Im essendo due combinazioni binarie complementari dei nu-
meri 1, 2, 3, 4). Da questa, tenendo conto della (3), si ricava:
2a Do, 0,030,+ab(ad+ be) Zoox0+cd(c+d)Z%;
ca la
Ora, questa relazione dovendo aver luogo qualunque siano
i valori delle @, solo che sottoposti alla condizione (3), dovrà
essere necessariamente ab=0, cd=0, e quindi la (1) avrà una
delle forme seguenti :
bo+co'=0...(1)); a00+d=0... (I); bo+d=0;
ade =00
Verificandosi la prima di queste relazioni si ha in Q un’omo-
grafia in cui i punti di contatto dei piani stazionari sono punti
uniti; verificandosi la seconda si ha in Q un’omografia involu-
toria in cui questi punti sono coniugati; verificandosi la terza
o la quarta si ha in Q un’omografia degenere. Tenendo conto
delle sole omografie non degeneri noi abbiamo dunque questo
risultato :
Allorchè un’omografia, non degenere, O muta in se stessa
la curva C, in essa i due punti singolari di C 0 sono punti
uniti, o sono punti corrispondenti: in quest'ultimo caso O è
necessariamente involutoria.
2. A questo risultato saremmo potuti pervenire più imme-
diatamente osservando che ogni omografia Q che muti C in se
stessa muta necessariamente un punto singolare di C o in se
stesso o in un altro punto analogo di C; e che ogni omografia
PRETI
n
OMOGRAFIE 653
su una curva razionale in cui due punti si corrispondono in
doppio modo è necessariamente una involuzione; ma i risultati
analitici che abbiamo dedotti ci servono a mostrare che, viceversa
dando su C una proiettività della forma (1) o (II) resta deter-
minata una omografia non degenere Q che muta C in se stessa.
In vero, considerando p. e. la (I), di quattro punti @,, ©,,
O}, ©,, Situati in un piano 7, i corrispondenti sulla curva sono
b b b i nta . h°
—-@,, —-®a, —-03, —_-®,; e questi, in grazia del fattore —
e aa c e e
che si presenta in tutti i termini, verificano la condizione di
stare in un piano, come sapevamo (n.° 1). Dunque l’omografia (I)
sulla curva fa corrispondere ad un piano 7 dello spazio un piano
unico 7°, e viceversa. Inoltre, considerando i quattro piani 7,,
T., ©, N,, che escono per un punto P e sono osculatori alla
curva, siccome i punti di contatto di essi sono in un piano 7
che passa per P (*), i quattro piani 7,',...,7, corrispondenti
di quelli avranno i loro punti di contatto nel piano 7' corri-
spondente di 7, e perciò concorreranno in un unico punto P'
di 7. Sicchè ad ogni punto P corrisponde anche un unico punto P'.
Si può mostrare che questo avviene in modo che, quando un punto
ed un piano si appartengono, il punto ed il piano corrispondente
si appartengono ancora; dunque le coppie 7° di piani e le
coppie PP' di punti così corrispondenti costituiscono un’ unica
omografia dello spazio, la quale contiene la (1), e perciò tra-
sforma C in se stessa (**).
Un analogo ragionamento si farebbe se invece della (I) si
considerasse la (II). Si hanno dunque due serie distinte di omo-
grafie che mutano la curva in se stessa, in corrispondenza della
(I) e della (II). Quella in corrispondenza della (II) sono tutte
involutorie, e di quelle in corrispondenza della (1) una sola è
involutoria (n.° 4). Studieremo più vicino (S$ II e $ III) queste
due serie di omografie, ma in primo luogo stabiliamo le for-
mule che le definiscono.
(*) CREMONA, loc. cit.
(#*) Il ragionamento ora fatto avrebbe potuto essere evitato, e si sarebbero
potute stabilire direttamente in base alle (I) e (II) le formule (5) e (6); ma
esso ci mostra che ciascuna delle omografie rappresentate da queste formule
muta in sè stessa la polarità nulla in cui ad ogni punto della curva è cor-
rispondente il piano osculatore in esso; cosa di cui sì ha bisogno nel n.° 12.
654 ALFONSO DEL RE
3. Poichè in una delle omografie corrispondenti alla (I) un
, b-
punto & della curva ha per. corrispondente il punto ——-%,
e
per le coordinate di questi due punti corrispondenti, noi avremo,
ricordando le (2), le formule
olrolorira;o=bia,;: dbicsa «bedda e. (5):
Queste formule, ove d,c sono parametri omogenei variabili
da un'omografia all’altra, sono evidentemente quelle che stabi-
liscono tutte le omografie della prima serie.
Con un processo perfettamente analogo si trova che le for-
mule che stabiliscono le omografie della seconda serie sono :
COMPARA FIA A N ARONA
Le omografie delle due serie ora rinvenute sono evidente-
mente anche quelle che mutano in sè la sviluppabile S' dei piani
osculatori alla curva.
UD
DIC
Alcune particolari omografie della prima serie. —
Assi delle omografie della seconda serie. — Altre
proprietà.
4. Le omografie della prima serie, che noi indicheremo sempre
dicendo le omografie (I), hanno il tetraedro fondamentale DEFG
(cfr. nota al n.° 1) per tetraedro comune di elementi uniti. Fra esse
però ve ne sono sei, inclusa l’omografia identica, le quali oltre
ai vertici, facce e spigoli di quel tetraedro hanno infiniti altri ele-
menti uniti: queste rispondono ai seguenti valori di d, c:
b=c,. b=-—-C,, b==-%46, p 0==00 Î )
Lo BRERA RT
bh=aeeib=%0 (a=V1, i=-1) \ (
e sono:
la 1° involutoria, e noi la indicheremo sempre con +J;
la 2° identica;
OMOGRAFIE 6055
la 3° ciclica di 3° ordine (*), e noi la indicheremo
con Q3);
la 4° ciclica di 4° ordine, e la indicheremo con Ly;
la 5° ciclica di 8° ordine, ed equivalente alla inversa
SPLIT E I
Q6) (**) di Q)-
la 6° ciclica di 4° ordine, ed equivalente ad Q
(4)
Cerchiamo i sostegni degli infiniti elementi uniti di ciascuna
di queste omografie. Dobbiamo porre nelle formule (6) succes-
sivamente per d, e, i valori (8), e poi esaminare per quali va-
lori di p si ha ce; =; (é=1, 2, 8, 4). Ora ciò facendo si
vede :
1° Che l’involuzione J è assiale (***) ed i suoi assi sono
le rette f, f (cfr. nota al n.° 1);
2° Che l’omografia ©), e quindi anche la 2 è assiale ed
i suoi assi sono le rette 9, 9.
(*) Vi sono nello spazio due specie di omografie cicliche nel 53° ordine;
nell’una i punti di uno stesso ciclo sono sempre per diritto, nell’altra sono
sempre in piani passanti per una retta fissa. Si possono consultare a questo
proposito le Lezioni di Geometria proiettiva che il mio carissimo maestro
prof. A. Sannia va dando alla luce. In questo libro, ove sono usati nel pretto
senso della parola i metodi puri della Geometria introdotti da SrauDT, si
trova una classificazione completa delle omografie nelle forme fondamentali
delle prime tre specie, ed in particolare si trova fatto uno studio delle omo-
grafie cicliche. Una classificazione delle omografie si trova anche nell’opera
di STAUDT « Beitrige », ma i metodi ivi seguiti sono diversi.
(**) Questa maniera di simboleggiare l’omografia inversa di una data è
presa dalla teoria delle operazioni. Ne faremo uso anche a proposito delle
correlazioni.
(***) Sotto il nome di involuzione assiale 0 involuzione rigata (geschaart-
involutorisches Systems di StAaUDT) intendiamo ogni omografia involutoria
dello spazio che non sia omologica. Lo SrtePHanos la chiama omologia invo-
lutiva gobba (v. Sur les systèòmes desmiques de trois tétraèdres, nel Bull. des
Sciences Math. et Astr., t. , An. ); ed anche Memoire sur la representation
des homografies binaires ete., Math. Ann., t. 22, An. 1885. BarTAGLINI la chiama
invece prospettiva di 2° specie (v. Sulla Geometria proiettiva, Memoria terza,
Acc. di Napoli, An. 1887) e SyLvesteR la chiama omografia biassiale (vedi
Comptes rendus de l’Acad. des Sciences, An. 1886, t. CI, e vedi anche Ibid.,
An. 1887, fascic. 14 Marzo, gli articoli di M.lle BoRTNIKER et M.r DaRBOUX).
La denominazione da noi introdotta è presa dalla memoria del SEGRE « Le
coppie di elementi immaginarii, etc. ». Atti dell’Accademia di Torino, 1886,
e dall’opera citata del professore S4NNIA, in cui è chiamata assiale ogni omo-
grafia dello spazio con infinite rette unite,
656 ALFONSO DEL RE
8° Che l’omografia Q,) ; e quindi anche la 2, non è assiale
ma ha la retta f, come luogo d’infiniti punti uniti, e la retta f'
come luogo d’infiniti piani uniti (*).
La involuzione J è quella di cui si fa cenno nella nota
citata del CREMONA: essa accoppia i punti della curva per modo
che due punti di una stessa coppia sono in una retta che si ap-
poggia ad f, f' e sono separati armonicamente da queste. Il
luogo delle congiungenti tutte queste coppie di punti è una su-
perficie gobba di 3° grado Ml), perchè su di una trisecante della
curva sì appoggiano tre sole sue generatrici, le rette cioè che
uniscono i tre punti della curva situati sulla trisecante ai loro
coniugati nella involuzione 7.
La omografia O,;) è tale che ogni suo ciclo di punti è in
una retta appoggiata alle rette g, 9g: se dunque un elemento
di un ciclo è un punto della curva, gli altri due elementi sono
gli altri due punti della curva situati sulla trisecante che passa
per quello; vale a dire che le serie di punti situati sulle tri-
secanti della curva si corrispondono omograficamente nella omo-
grafia Q3,. Ciò completa la proprietà indicata da WEYR (**).
La omografia O,,, è tale che ogni suo ciclo di punti è con-
tenuto in un piano che passa per la retta f', ed ogni suo ciclo
di piani in una stella il cui centro è in f. Se dunque noi me-
niamo per f' un piano arbitrario, questo segherà la curva in
quattro punti costituenti un ciclo di Q%; vale a dire, poichè
O°,,=27;, in quattro punti che si distribuiscono in due coppie
coniugate della involuzione J. Ciò mostra che ogni piano per
la retta /' contiene due generatrici della superficie 1‘, e che
il punto d’incontro di queste è sulla f. La fè dunque per PO
luogo di punti doppi, la f' luogo di piani tangenti doppi (Cre-
mona, l. c.).
Nella serie delle omografie (I) ve ne sono sempre delle O,
cicliche di ordine assegnato n, esse si ottengono ponendo dB = ze
ove x è una delle radici imaginarie 7” dell’unità. Quando n=3%
(*) Questa omografia è del tipo [(11) 1] nella classificazione delle omo-
grafie dello spazio data dai signori Loria (Sulle corrispondenze protettive, etc.
Giornale di Battaglini, An. 1884)) e SEGRE (Sulla teoria e classificazione delle
omog. nello spazio ad n dim.; Ace. Lincei, 1883-84) e del tipo del n. 125
e), f), nella classificazione data dal prof. Sannia (Op. cit., pag. 236 e 237).
(**) WEYR, loco citato.
OMOGRAFIE 657
i punti di uno stesso ciclo si distribuiscono per terne sopra / ge-
neratrici di un medesimo iperboloide, e formano su queste altret-
tanti cicli dell’omografia ciclica di 3.° ordine 0, =% (*).
Quando n=4/% i punti di uno stesso ciclo si distribuiscono
quattro a quattro in /% piani che passano per la retta f' e for-
k
=== (0)
ar 76)
5. Le omografie della seconda serie sono involutorie, siccome
abbiamo avvertito al n° 2, e sono inoltre assiali. Per ognuna di
esse gli assi sono le due rette %, #' rappresentate dalle equazioni :
mano su questi altrettanti cicli dell’omografia ciclica Q , ecc.
a'r,— d°x,=0 i ax,+dx;=0 pg (9
vg—d'x,=0, ax, —dax3=0 Mer ti è
Queste rette si appoggiano alla / rispettivamente nei punti:
2
et, _0 0 = —d,\a,=0,v=0, =,
ed alla f' nei punti:
sped a a,=—-d, a esiti
INI PR ad, e=@, xi =05;
e perciò separano armonicamente entrambe le coppie di rette dd
e gg; cosa che del resto dovevamo aspettarci dovendo essere
queste coppie di rette coniugate nella involuzione di assi , W' (#*).
Se dalle equazioni (7) e (8) noi eliminiamo 4 e d, noi otte-
niamo il luogo di tutte le coppie di rette %, %'. La elimina-
zione ci conduce alle superficie
ROSA REA RETE Rea L'ARTE
(*) In generale un ciclo qualunque di £(n) è sempre contenuto in una
curva della stessa specie della curva C, e che ha comuni con questai punti
E, F, le tangenti d, d' ed i piani stazionarii =, 9. Ciò risulta dal fatto che
due cicli qualunque di (n) sono sempre due poligoni omografici in una
omografia che muta ©(n) in se stessa, ed un ciclo di cui un punto è sulla €
sta per intero su questa. Ciò è anche d’accordo col fatto comune a tutte le
omografie cicliche non assiali, che cioè ogni cielo di una tale omografia è
sempre contenuto in un’iperboloide o in una coppia di piani (che possono
pure coincidere) come dimostrò LilrorH nella sua memoria: Das imdginare
ete., Math. Ann,, t. 13.
(**) Di vero tale involuzione muta la curva in se stessa e scambia tra
loro i punti E, F ed i piani e, $ (n. 1); perciò scambierà fra loro anche Je
rette d, d' e le rette 9, 9.
658 ALFONSO DEL RE
delle quali la prima rappresenta la I° (n.° 4), e la seconda
rappresenta la superficie T,° che può ottenersi da questa me-
diante una qualunque delle sostituzioni lineari seguenti :
U LU U LU
A
; = Li S= XL Li ZAURI ne= Xi
Ù Ù Ù > I
Ci = i a al A AE
' piei Ù tit DEII >(0= —1l ’
L3 == X3 3 == XL3 X3 === Li L3 = 3
; pe DE '—_ rv '_
X, = ZL, X, = 2274 NZ C, X,, = x, |
e che sono rispettivamente: 1° l'omologia armonica di centro F
e piano 0; 2° l’omologia armonica di centro E e piano e; 8°
l’omologia di centro G, piano y e costante #; 4° l’omologia di
centro D, piano d e costante <.
SUITE
Omografie risultanti dal prodotto di due omografie
date nelle due serie. — Permutubilità fra le omo-
grafie di queste serie.
6. Il prodotto (*) di due omografie qualunque £,, ©, che
mutano in se stessa la curva C, muta evidentemente pure in se
stessa questa curva, e quindi appartiene ad una delle serie (I),
(II). Se Q, O, fanno parte di una stessa serie, esse lasceranno
entrambe inalterati i punti £, F, o entrambe li scambieranno fra
loro, sicchè questi punti rimarranno pure inalterati nel prodotto
Q,0, ed allora (n.' 1 e 5) questo sarà un’omografia della serie (I).
Se invece Q,, Q, fanno parte di serie diverse, una di esse la-
scerà inalterati i punti E, FY, mentre l’altra li scambierà fra
loro; quindi questi punti rimarranno scambiati anche mediante
il prodotto Q, Q,; ed Q, 0, sarà allora (n.' ] e 5) una invo-
luzione della serie (II). Si ha dunque che due omografie di
serie omonima hanno per prodotto una omografia della serie (1),
due omografie di serie diversa hanno per prodotto un’involu-
zione della serie (11).
(*) L’omografia risultante dall’applicare successivamente |due o più date
omografie, suol dirsi prodotto di queste: così se A' è l’elemento corrispon-
dente di un elemento A nell’omografia 9,, ed A” quello corrispondente di
A’ in 9,, sarà A" il corrispondente di A nell’omografia prodotto 2,0, .
OMOGRAFIE 6059
7. Da questa proprietà si ricava facilmente che viceversa
ogni omografia della serie (I) si può in infiniti modi decom-
porre nel prodotto di due omografie di una stessa serie; e che
ogni involuzione della serie (II) st può in infiniti modi de-
comporre nel prodotto di due omografie di serie diverse.
Di vero, se Q, è un’omografia della serie (I) ed Q, un'omografia
della stessa serie o di serie diversa, ponendo X= 0,9, ...(3),
sarà X, pel teorema precedente, o un’omografia della serie (1)
o un’'involuzione della serie (II); moltiplicando perciò a sinistra
la (3) per 2,7, o anche a dritta per 2,7 nell’un caso e per Q,
nell'altro, noi otteniamo:
2
=0,70K e anche O,=
= 2 ;
e queste relazioni, poichè una omografia qualunque e la sua in-
versa appartengono sempre ad una medesima serie, dimostrano
quanto abbiamo asserito.
In particolare la J (n.° 4) è l’unica involuzione, se si ec—
cettua l’omografia identica, che si possa in infiniti modi decom-
porre nel prodotto di due omografie di una stessa serie; perciò
vi è un modo solo come distribuire le omografie di ognuna delle
serie in coppie tali che il prodotto delle omografie di ogni coppia
sia involutorio. Come si costruiscano queste coppie risulta già
dal ragionamento che ora abbiamo fatto, ma quando si tratti
di involuzioni della serie (II) esse si costruiscono assai più facil-
mente osservando che gli assi di due involuzioni di questa serie,
le quali hanno per prodotto la J, hanno i medesimi punti di
appoggio sulle rette f, f'.
È pure a notare che risulta da quanto si è detto che una
qualunque delle omografie che mutano la curva in se stessa si
può sempre decomporre, ed in infiniti modi, nel prodotto di due
omografie assiali che hanno la stessa proprietà (*). — Siccome
un’omografia che muta la curva in se stessa, muta in se stessa
la serie delle trisecanti di essa, cioè delle generatrici dell’unico
iperboloide passante per la curva, così tale risultato si trova in
(*) Quando l’omografia appartiene alla serie (Il) una delle omografie
assiali componenti sarà sempre necessariamente la J, o una delle omografie
3: Ye
cicliche % 5 2a (n. 4).
060 ALFONSO DEL RE
accordo colla proprietà comune a tutte le omografie che non
alterano la serie delle generatrici di un iperboloide, di potersi
cioè decomporre nel prodotto di due omografie assiali aventi la
stessa proprietà (*).
8. Se mediante un'omografia 2, che muta Cl in se stessa,
si trasforma un’omografia Q, che pure muta C in se stessa, sic-
come ad una coppia di punti corrispondenti in Q, situati sulla
curva corrisponde, mediante £,, una coppia di punti situati su
questa, l’omografia Q',, trasformata di Q,, muterà anch'essa C'
in se stessa; e perciò apparterrà all'una o all’altra delle serie (I),
(II) (**). Come poi £', è involutorio solamente se lo è O,, e
quando è Q,=J è pure Q,=0, (n.° 9), così abbiamo che ogni
omografia la quale non altera la curva C non altera neppure
‘alcuna delle serie (1), (II).
9. È importante di studiare anche più da vicino le relazioni
che ligano le omografie delle due serie, ed tal uopo conviene
premettere il seguente teorema del quale noi faremo anche uso
in seguito. Esso ha luogo fra corrispondenze univoche in varietà
qualunque, e perciò lo enuncieremo in tutta la sua generalità.
Allorchè due corrispondenze univoche C,, C, sono involu-
torie, la corrispondenza prodotto C, C, è trasformata nella sua
inversa da ciascuna delle corrispondenze date.
| ) ; A
In vero, si abbiano in €, le corrispondenze ,' __°
A, be
opt Ced
B
in C, le corrispondenze ,°
2
A. ©» staranno allora nel pro-
3
2
dotto ©, C, le corrispondenze n Fapve: poichè C,, C, sono
2 3
B
involutorie, anche l’altra EB: Ora, trasformando C, C, mediante C,
(o C,), la coppia qualunque 4, A, (o B, B,) di C, C, viene trasfor-
mata nella coppia B, B, (0 4; 4,) di C,C,; e ciò prova l’asserto.
(*) KLEIN, Math. Annalen, t. IX, pag. 188, citato dietro la citazione di
StePHANOS « Mémoire, etc. », 1. c. Vi è di questo teorema una elegantissima
dimostrazione geometrica nell’opera più volte citata del prof. SANNIA.
(**) Questa proprietà della omografia 9,' risulta anche in conseguenza del
teorema del n. 6, perchè 9,' non è altro che il prodotto di 9,7! per 9,9,,
vale a dire che si ha 9,'=0,7!19,9,. Siccome poi Q,/7!=09,712,-19,, così
se Q, è involutoria, cioè se Q,=9,', sarà pure Q,/'=9,/-!, cioè anche 9,
sarà involutoria.
OMOGRAFIE 661
Come corollario di questo teorema noi abbiamo che C,,0,,
sono permutabili (#) col loro prodotto, e quindi anche fra loro,
quando questo prodotto è involutorio; perciò, immaginando che
C,, C, sieno due involuzioni della serie (II), e ricordando il teo-
rema del n. 7, noi concludiamo:
1.° che un'involuzione qualunque della serie (II) muta
nella sua inversa una omografia qualunque della serie (I), €
quindi in se stessa la J.
2.° che due involuzioni qualunque della serie (II) sono
permutabili solo quando hanno per prodotto la I.
Dal 1.° di questi due teoremi ricaviamo poi il seguente:
Due omografie qualunque della serie (I) sono sempre per-
mutabili.
Di vero, siano Q,, 2, due omografie qualunque della serie (1),
e si decomponga Q,, p. e., nel prodotto J, 7, di due involuzioni
della serie (II) (n.° 7). Poichè, in base a quel teorema, J, muta
Q,inQ,°' e J, muta Q,7' in Q,, il prodotto JJ, non altererà
Q,; e quindi la proposizione è così dimostrata. — Questa propo-
sizione e le precedenti completano quanto si è detto nel n. 8 (**).
Sale
Correlazioni che mutano la curva nella sviluppabile
dei piani osculatori. — Due serie distinte di tali
correlazioni.
10. Occupiamoci ora delle correlazioni che mutano la curva 0
nella sviluppabile ;,S dei suoi piani osculatori, e sia X una qua-
(*) Due corrispondenze univoche qualunque C,, C, sono dette permutabili
(échangeables) quando è indifferente eseguire il prodotto C, C, o il prodotto
C,C,, cioè quando è C, C,=C,C,. Ora questa condizione è verificata quando
C, muta in se stessa C,.
(**) La proprietà dimostrata per le omografie della serie (I) risulta anche
in base al seguente teorema, di cui, allorchè il tetraedro degli elementi
uniti è reale, si trova una assai elegante dimostrazione nell’opera citata del
prof. SANNIA, pag. 258: Due omografie quaternarie che hanno lo stesso tetra-
edro di elementi uniti sono permutabili. — A meglio studiare la distribuzione
delle omografie delle serie (1), (II), anche quest’altro teorema è utilissimo:
Ogni omografia assiale î cui assi siano due rette unite sghembe qualunque di
una data omografia, è permutabile con questa (V. SANNIA, Op. cit., pag. 29 e s.).
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII, 49
602 ALFONSO DEL RE
lunque di tali correlazioni. Poichè X muta C in S, ed un’omo.-
grafia qualunque © della serie (1) o (II) non altera S (n. 3),
il prodotto XK ©, che evidentemente è un’altra correlazione, mu-
terà pure C in S. Dunque, conoscendo una correlazione che
muti la curva nella sviluppabile dei suoi piani osculatori se
ne otterranno infinite altre componendo quella con le omografie
(I), (II). —- Ora, viceversa, se è K' un’altra qualunque delle
correlazioni che fanno corrispondere a C la sviluppabile S, tra-
sformando S col prodotto X° K', questa sviluppabile rimarrà
invariata, poichè la trasformazione X7' X' si esegue prima ap-
plicando K° che muta ,S in C, e poi applicando X' che muta
C in S. Dunque (n. 10) K7' X' è una omografia di una delle
serie (I), (II). Indicandola con £, e componendo X con © noi
otteniamo :
KQO=K(K-*©K')= KKVE=4W5
la quale relazione prova che le correlazioni ottenute in base al
teorema precedente sono tutte le correlazioni che noi andiamo
cercando.
44. Risulta «subito da una tale proprietà che, essendo già
nota una 9 di tali correlazioni, vale a dire la polarità nulla
in cui ad ogni punto della curva è coniugato il piano osculatore
corrispondente (Cremona 1. c.), noi ne abbiamo di esse due serie
diverse : le une risultanti dalla composizione di # colle omo-
grafie (I), le altre risultanti dalla composizione di ® colle omo-
grafie (II). Diremo le prime correlazioni (1), le seconde corre-
lazioni (II). Queste due serie di correlazioni sono fra loro
contraddistinte dai caratteri seguenti:
1.° La polarità nulla V è una correlazione della serse (I).
Infatti dalle formule (5) e (6) si rileva che l’omografia identica
deve considerarsi solamente come una omografia della serie (1).
2° Le correlazioni della serie (LI) sono tutte polarità :
fra le correlazioni della (I) una sola ve ne è polare, oltre
la B, ed essa è pure polare nulla.
In vero, risulta dal ragionamento fatto nel n.° 2 che un’omo-
grafia qualunque delle serie (I), (II) muta in sè stessa la pola-
rità Y. Dunque, in base al teorema generale, dimostrato nel n° 9,
facendo i prodotti di Y per le involuzioni della serie (II), e per
l’unica involuzione / della serie (I), questi prodotti saranno
involutorii, vale a dire saranno delle polarità. Nè alcun’altra
OMOGRAFIE 663
correlazione risultante dalla composizione di VB con un'altra Q
delle omografie (I) può esser polare, perchè ciò equivarrebbe a
supporre l’equivalenza BOT=OQ7'P (*); dalla quale, giusta la
permutabilità notata fra VB ed Q, si ricaverebbe PAOSTVLQ,
e quindi Q=7': cosa assurda se non è Q= JJ.
3° Due correlazioni qualunque di serie omonima hanno per
prodotto una omografia della serie (I), e due correlazioni di
serie diversa hanno per prodotto un’involuzione della serie (II).
In vero, indicando con PO, , BO, due correlazioni della serie (I)
e con BJ,, VI, due correlazioni della serie (II) (che d’ora in
poi cominceremo dal chiamare col nome proprio di polarità) ,
ove Q,, Q, sono omografie della prima serie, e J,, J, due in-
voluzioni della seconda, noi abbiamo successivamente (per essere
PO =0 PB, BO0=0 By I= IT, PIZIT,P):
)=0,P°0,=0,0, == (n° 6) omografia
POESIE della serie (1)
)
)
2 — . .
=0,84,=2,I;(= (n° 6) involuzione
ROSIE TTT
J,V)B0,)=T,B02,=7,0,( della serie (II)
4.° Una correlazione ed un’omografia di serie omonima
hanno per prodotto una correlazione della serie (1); una cor-
relazione ed una omografia di serie eteronime hanno per pro-
dotto una polarità della serie (II). Di fatti, ritenute le nota-
zioni ed osservazioni fatte nel caso precedente, noi abbiamo :
e) (RBO)O,=PO,0,=P(2,0,)
f) BI)IS=VII,=B(I, 3.) = (n' 6 e 11) pola-
9g) Q2,(B2,)=0,9,0,=9P0,0,=9(0,0,)( rità della serie (1)
h) J, (BJ,)= TR AZIONA J,=%(J,J,)
(PO)I=BO,IT,=9S (0,3)
PIO =PIO=B(7,0,) = (n' 6 e 11) pola-
MO _IBO=BIO=B(,0,) rità della serie (II)
O. (PI) =QPIZ=PBO9,I,=8B(0,I,)
(*) Di vero per essere P= 9! è pure 0_19_1=0,-19, e perciò Q,-19
è la corrispondenza inversa di PO,.
6604 ALFONSO DEL RE
5.° Ogni correlazione della serie (I) corrisponde a se
stessa rispetto ad ogni omografia ur serie 0omomIMmA.
Di vero, essendo (n.° 9 in fine) 0,0, =0,Q,, sarà per le e),
9) (BQ,)2,=0,(92,), e questa ne esprime precisamente
la permutabilità fra la correlazione BO, e l’omografia 2Q,.
6.° Ogni polarità della serie (II) corrisponde a se stessa
rispetto a due sole involuzioni della serie omonima.
Di vero se ®/, è una polarità qualunque della serie (1I) essa
corrisponderà a se stessa rispetto alla involuzione J,. Inoltre
poichè vi è nella serie (II) una sola involuzione J, (n.° 7) per
cui JJJ,=J,J,, sarà guardando le /) ed %X) per questa sola
altra involuzione (BI) I,=4. (PT).
7.° Di due correlazioni qualunque della serie (I), Vuna
è la figura reciproca di se stessa rispetto all'altra.
In fatti, sieno BOQ,, VO, le due correlazioni qualunque delia
serie (I). Trasformando BL,, mediante BO,, si ha la correlazione
K=(B0,)'(B0,)(PO,);
e questa, in virtù della 4) può scriversi
K=(PQ,) 70,0,
d'onde
K=0' PL PO
Ma 0, '0,0,=0, perchè (n.° 9 in fine) Q, è permutabile
con o, , dunque è
TO 50:
come era da dimostrare.
8.° Ogni polarità della serie (II) è la figura polare re-
ciproca di se stessa rispetto ad un’altra determinata polarità
della stessa serie (*).
Di vero, siano B.J,, BJ, due polarità della serie (II); tra-
sformando B.J,, mediante B/,, abbiamo la polarità
K=(BI)(PI)(MTL):;
(4) Le quadriche fondamentali di due polarità della serie (II) di cui l’una
è la figura reciproca di se stessa rispetto all’altra, si secano secondo i lati
di un quadrilatero storto. Di vero il prodotto di queste due polarità essendo
una involuzione della serie (II) non può essere un’omologia, e perciò le due
quadriche non possono toccarsi lungo una medesima conica.
at Ae
OMOGRAFIE 665
ovvero per la d)
K=(% T.)ISIT,=BITIT,IT,.
Ma J, J, J, coincide con J, solo quando è J,J,=JI,J,, dunque
solo in tal caso (e ciò accade una volta sola, n.° 7) si avrà
K=9J.
due
Formule per le correlazioni delle due serie.
Altre consequenze.
12. Dalle formole che stabiliscono la polarità Y, e da quelle
delle omografie (I), (II) noi possiamo subito, in base al teorema
dimostrato nel n.° 10, ricavare le formule per le correlazioni
delle due serie. Le formule relative a V sono (CREMONA I. c )
UU: UziU,=— Gy: dt,
dove %,, . + . , , sono le coordinate del piano polare del punto
Ls + - « » £y5 dunque, componendo queste formule con le (5)
noi abbiamo:
UU iui Ca, — de: 2 cgi bg, sel)
e componendole invece con le (6) abbiamo:
Uu,:u,:uz;u,=—d'a,:—2ad'x,:2afda;: atx, ...(69)
Le (5') sono le formule per le correlazioni (I), le (6°) sono
quelle per le correlazioni (II).
13. Le quadriche luogo di punti che nelle correlazioni (I)
cadono sui piani corrispondenti hanno la equazione
(0°+ c°)2,0,+-2 bea, x;3=0 Re CHE
e quelle inviluppo di tali piani hanno l’altra
bca,x,+2(0+ c°)2,a;=0 3 SSCDOR
25 2 (64 e?
Se dunque poniamo % = Vea = Eat di sarà kl —=4,
b°+c° be
e potremo enunciare il teorema: Le coppie di quadriche fon-
666 ALFONSO DEL RE
damentali delle correlazioni (I) appartengono tutte al fascio
determinato dalle tangenti trisecanti della curva e dalle rette
umisecanti appoggiate a queste tangenti. Esse descrivono in
questo fascio una involuzione, le cui quadriche doppie sono
quelle che corrispondono ai valori k=k'==2. |
Risulta da quest’ultima proprietà che fra le (I) vi sono
due correlazioni C C,, oltre alle loro inverse, tali che le
due quadriche fondamentali di ciascuna coincidono, senza che
le correlazioni stesse si riducano a polarità. Dicendo x una
delle radici cubiche immaginarie di 1, e {} una delle radici cu-
biche immaginarie di — 1, è facile di vedere che le formule
corrispondenti a C,, C, sono rispettivamente:
VIA
Cis DT RISO re
Ur sUg Ugo: U, — Wii — 20 Vla
e quelle corrispondenti a C, *, CC, :
U :Uz:U,=X
1° U
Da ciò deduciamo, e dalle formule che stabiliscono le omografie
—1 —I
Q,)» O 7, (0.° 4), che si hanno le due relazioni seguenti:
(CE PO i C,=®9,
e quindi le altre
==. 0=(0%.
0.0,=(B2) (8) = (o) (0) (0%; n
EZIO a = 26) PO ag 3290 Cole
Sg oe e)! ao) === \a— O (4 hi
c°=0-0= nor =PO70,=(B2,) = FI=V 11,29),
Pa 0997-90, 07=#0,,0 o-=B0y=07,
c'e=%,9%a=8%5% 9 (07) =97=9,
Co= ; C=1 ecc. ecc.
Possiamo perciò enunciare i risultati seguenti :
1.° Le due correlazioni (I), in ciascuna delle quali le
OMOGRAFIE 667
quadriche fondamentali si sovrappongono, si ottengono compo-
+1 » . . —I —_l
nendo la polarità B colle omografie cicliche O.) Q,,; : 2.° tali
}
correlazioni hanno per quadrato Q,, € e per prodotto la
] (3) 1
O
involuzione JT; 3.° il cubo dell’una è la orari PB, quello del-
l’altro la polarità V'; 4,° il quadrato della prima per la se-
conda dà Ag fia Nada: ed il quadrato della seconda per
la prima dà ®' ; ; loro sesta potenza è l’omografia iden-
tica. Ecc., ecc...
44. È da osservare che indicando con 7, l’unico iperboloide
che passa per la curva C, e con /, l’unico iperboloide inscritto
nella sviluppabile S, I, I, è una coppia della involuzione di cui
è parola nel n.° precedente. 7, ed I, sono inoltre quadriche cor-
rispondenti in una qualunque delle correlazioni (1), le quali come
facilmente deducesi dal corrispondersi di I, I, in doppio modo,
determinano nel fascio di queste due delle rivoluzioni di qua-
driche aventi tutte /, I, per coppia comune. Tali involuzioni
sono perciò armoniche (*) a quella di elementi doppi /,I,, vale
a dire, considerando questa come trasformazione del fascio in se
stesso, applicata su le altre le rimane inalterate.
15. Le quadriche fondamentali delle polarità (II) hanno
l’equazione
d'o,+2ad'rf-Ba'dr;—-a‘x2=0, ...(11),
Li d i it
perciò, se sì pone © = — -, esse saranno le quadriche polari dei
e)
punti y, :%,:Y3:y,=':°:%:1 rispetto alla superficie
del 5° ordine:
SAZzai— 2x4 2af-axf=0 ed i) 7
Ma tali punti sono quelli della curva C, dunque abbiamo
il teorema: Le quadriche fondamentali delle polarità che mu-
(*) Due involuzioni binarie sono dette armoniche quando, trasformando
l’una mediante l’altra, si ottiene di nuovo l’involuzione trasformata. La re-
lazione di armonia per due involuzioni corrisponde all’annullarsi dell’inva-
riante bilineare di queste. — V. SEGRE, Sulle coppie di elementi immaginarii
nella Geometria protettiva sintetica Acc. di Torino, 1886. — Sur les homo-
graphies binaires et leurs faisceaua. Giorn. di Crelle, vol. 100. Anche il prof.
SANNIA nella sua opera più volte citata ha ampiamente trattato delle invo-
luzioni armoniche.
668 ALFONSO DEL RE
fano la curva nella sviluppabile dei suoi piani osculatori sono
le quadriche polari dei punti della curva rispetto alla super-
ficie del 3° ordine, definita dall’equazione (12) (*). Ed ancora:
Le quadriche fondamentali delle polarità che mutano la
curva nella sviluppabile dei piani osculatori sono le quadriche
polari dei piani tangenti di questa rispetto alla superficie di
3° classe
LO=A4u,+u)+uf+4u}=0 (**) Lev 43)
Questa seconda proprietà, sospettata in grazia della perfetta
reciprocità fra C ed S, è stata rinvenuta cercando l’ equazione
in coordinate di piani delle quadriche (11), e poi confrontando
questa con le equazioni w,:u,:u,:u=—1:20:—293: w'
della sviluppabile ,S.
È bene di notare che le superficie © e x sono l’una la
figura polare reciproca dell’altra rispetto alla superficie quadrica
2 2 2 2
we 2 WI) 43 gi AO
16. Se cerchiamo della superficie 8° i punti comuni colla
curva €, i parametri di questi punti sanno le radici della equa-
zione del 12° grado:
(oî'- 1) (0Î+1)=0,
e perciò ve ne saranno
tre coincidenti nel punto di parametro 1
» » » a=rad. cub. imag. di 1
2
» » » (04
Gli altri tre saranno invece distinti e si otterranno dalle radici
dell'equazione © 4+1=0.
(*) È bene di notare che tali quadriche sono quadriche polari dei punti
della curva non solo rispetto alla S(3), ma anche rispetto a ciascuna di quelle
dei due sistemi c0!, che si ottengono dal trasformare (3) mediante le omo-
grafie della serie (I), (Il).
**) A questo teorema va fatta un’osservazione analoga a quella fatta sul
teorema precedente; vale a dire esistono due sistemi co! di superficie di 3*
classe, rispetto a ciascuna delle quali ha luogo la proprietà espressa dal
teorema. Tali superficie sono quelle che si ottengono dal trasformare la £ (3)
colle omografie delle serie (I), (II).
OMOGRAFIE 669
Dunque la superficie S'°) oscula la curva nei tre punti si-
tuati sulla trisecante di essa che passa pel punto unità e la
seca ulteriormente nei punti coniugati di questi nella involu-
zione J.
La involuzione J e la omografia £,;) mutano entrambe in se
stessa la figura dei sei punti di cui è parola nel precedente teo-
rema; questa figura sarà perciò mutata in se stessa anche dal
prodotto JQ,;)= 6, e le omografie J, 2,3), 6, saranno le
sole che possederanno tale proprietà fra quelle delle serie (1), (II):
Fra tali omografie poi, Q,) è la sola che abbia la proprietà di
mutare 5,3) in se stessa, poichè / ed 2, la mutano entrambe
nella superficie x, + 2x,'— 223 — #/=0.
47. Facciamo anche per le quadriche (11) la ricerca dei
punti che ognuna di esse ha in comune colla curva. I para-
metri di tali punti saranno dati dalle radici della equazione :
d'abaido 2a do La —=0,
ovvero
(do°+ a) (do°'- a)=0,
perciò se ne hanno:
: (4) ; Ia
uno di parametro + 1 , tredi edo
( a
a a z
» » — - ue >» —t. , vale a dire
d d
) ; 3 . a o)
che la quadrica oscula la curva nel punti +-% Er la
I (
" c È U a spa I
sega ulteriormente nei punti + DITA ; ma tanto 1 primi due quanto
a
i secondi due sono coniugati nella involuzione J, e tutti e quattro
formano un ciclo di Q,,), dunque noi possiamo concludere che
ogni quadrica rispetto a cui la curva C e la sviluppabile S
si corrispondono, oscula la curva in due punti coniugati della
involuzione J, e la sega ulteriormente in due altri punti coniu-
gati della medesima, i quali insieme ai primi formano un ciclo
dell’omografia ciclica O).
Viceversa, assegnando sulla curva una coppia qualunque
di punti coniugati nella involuzione J, vi sono sempre due
quadriche della serie (II) che osculano la curva in entrambi
quei punti. — Di vero, sia ) il parametro di un punto qua-
670 ALFONSO DEL RE - OMOGRAFIE
lunque della curva: sarà — À quello del suo coniugato in J. Se
: a . 3 Suo
noi prendiamo per i il valore -- 2A, e lo sostituiamo nella equa-
zione (11) otterremo una quadrica della serie (II) che oscula la
curva in ), e quindi anche in —; se prendiamo invece per
a . . È) en
i il valore 2) ne avremo un’altra: e ciò prova quanto vo-
levamo.
48. Dicendo quadriche di una coppia le due quadriche che
osculano la curva nei medesimi due punti, e quadriche della
coppia congiunta quelle che la osculano nei punti corrispondenti
a quelli nell’omografia Q,,,, avremo per le quadriche di una
coppia le equazioni:
a 2iXa, +2aXRa,-\a,j=0,
L+ ida, 4-24; — = 04
e per quelle della coppia congiunta le altre:
al— 2a, + 2X8x:-\axj=0,
x + 2Xx,4+2X5x—Ma,j=0,
Sicchè :
1. Due quadriche di una coppia, 0 una quadrica di una
coppia ed una della coppia congiunta, si secano secondo i lati
di un quadrilatero storto le cui diagonali sono le rette f, f".
2. I punti in cui le quadriche di una coppia osculano
la curva sono i punti coniugati dei loro poli nell’omografia
involutoria
SOA E
3. Se le quadriche polari dei punti M, M' osculano la
curva in P, P', viceversa le quadriche polari di P, P' la oscu-
lano in M, M', ecc., ecc.
PRE O E IT LET VI e
Sulla legge ottica di Malus detta del coseno quadrato ;
Nota del Socio GIiusEPPE BASSO
La presente Nota serve di complemento ad un mio prece-
dente lavoro (*) Sulla legge di ripartizione dell’ intensità lu-
minosa fra i raggi birifratti da lamine cristalline. In esso
dimostrai per via puramente razionale un fatto che dietro certe
esperienze sì era già prima presentito, cioè che non è rigorosamente
vera la legge di Malus, la quale stabilisce che un raggio lumi-
noso incidente sopra la faccia di un cristallo birifrangente uni-
asse e polarizzato in un piano facente l’angolo @ colla sezione
principale del cristallo dà luogo a due raggi birifratti, ordinario
e straordinario, le cui intensità stanno fra loro nel rapporto di
cos°9 a sen°0.
Applicando le formole da me allora trovate al caso parti-
colare di un raggio incidente, d’intensità uno, normale alla faccia
di sfaldatura di un cristallo di calcite, le intensità dei due raggi,
ordinario e straordinario nell’interno del cristallo risultano espresse
rispettivamente da 0,9392cos°0 e da 0,9492 sen? 9.
Il disaccordo che, quantunque lieve, esiste fra i risultati della
teoria e la legge empirica di Malus, la quale per lungo tempo
si ritenne come esattissima, apparisce meritevole di attenzione
quando si osservi che parecchi procedimenti fotometrici, e preci-
samente quelli suscettibili di maggiore sensibilità, si fondano ap-
punto sull’applicazione della legge in discorso. Gli strumenti de-
stinati al confronto d’intensità luminose di varie sorgenti, come il
fotometro di Arago (**), quelli di Bernard (***), di Beer (****),
(*) Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XXI; Adunanza
del 18 aprile 1886.
(**) Euvres complètes, Memoires scientifiques, t. I.
(***) Ann. de Chim. et de Phys., 3° série, t. XXXV.
(****) PoGGeENDORF’S Ann., Bd. XXXVI.
672 GIUSEPPE BASSO
di Zollner (*) e di Glan (**) hanno per organo essenziale un
prisma od un sistema di prismi birifrangenti. E ora da osservare
che in quasi tutti gli apparecchi ora accennati ed in altri con-
generi il prisma, che è ordinariamente di calcite, trovasi così
disposto che la luce che deve attraversarlo vi giunge in direzione
non normale, ma obliqua alla faccia di entrata. Quando, per
esempio, si fa uso di un prisma di Nicol, questo si trova inca-
strato nel tubo che gli serve di guaina in modo che l’asse del
tubo, con cui coincide la direzione del fascio luminoso sul quale si
sperimenta, trovasi parallelo agli spigoli laterali del prisma stesso:
perciò la faccia d'incidenza del prisma, la quale è faccia di sfal-
datura o pressa poco, trovasi inclinata rispetto alla direzione
della luce incidente.
Questa circostanza deve modificare il modo di ripartizione
dell'intensità luminosa fra i due raggi che si birifrangono en-
trando nel cristallo. E siccome finora io mi era limitato a con-
siderare il caso della incidenza normale, qui mi propongo di
applicare gli stessi principii teorici che già mi servirono di guida
prima d’ora per trattare la stessa questione nell’ipotesi di inci-
denze oblique.
LI
Debbo ricordare al lettore che le mie precedenti ricerche mi
hanno già condotto ai risultati seguenti :
Un raggio luminoso polarizzato rettilineamente cada coll’an-
golo d’incidenza < sopra una faccia naturale od artificiale di un
cristallo birifrangente uniasse e sia 6 l’angolo che il suo piano
di polarizzazione fa colla sezione principale, la quale intendo che
coincida col piano d’incidenza. Questo raggio genera un raggio
riflesso verso l’esterno, un raggio rifratto ordinario coll’angolo +
di rifrazione ordinaria ed un raggio rifratto straordinario coll’an-
golo o di rifrazione straordinaria. Siano inoltre: ) l'angolo che
l’onda elementare straordinaria fa colla faccia rifrangente del
cristallo, @ l'angolo che il raggio rifratto straordinario fa colla
normale al suo elemento d’onda, % l'angolo che il piano di po-
larizzazione della luce riflessa fa col piano d'incidenza e V, «,,
(*) PogGenpore’s Ann., Bd. C und CVIII
(*#*) WiepbEManN's Ann., Bd.T.
SULLA LEGGE OTTICA DI MALUS 6753
u, rispettivamente le quantità che prima d’ora designai col nome
di flussi dei raggi riflesso, rifratto ordinario e rifratto straordi-
nario, le quali quantità corrispondono alle velocità vibratorie od
amplitudini di vibrazione eterea nella teoria meccanica della luce.
Il principio della conservazione dell’energia luminosa conduce
all’equazione :
o SenZcost , sen 2 cos À
—Vî=—_u+ —_—_—_—_ ...(1).
sen Y COS % cos i sen) cos w *
Ed il principio detto di continuità si traduce nelle tre equazioni :
cos £ sen 9 + Vcos è sen d = 4, cos p |
cos? + Vcosp=— ,
tang 2
ara (Ae
così — Veosp=—, = \
gr
Infine, se si assume come unità l’intensità del raggio inci-
dente, l’intensità del raggio riflesso altro non è che V? e le in-
tensità /,, I, dei due raggi rifratti, ordinario e straordinario,
sono date dalle espressioni:
Sen? COST. ,
= IZ TAG MITA (2) a
° © senrcosi È (3),
sen? cos À
REI ui
“cos? senì coso >
Proponendomi ora la determinazione delle sole intensità I, e
I, basterà fra le quattro equazioni (1) e (2) eliminare V e L e
ricavare i valori di «, e v,. Gli angoli r, g, ), @ si possono in
ogni caso, applicando le note leggi della doppia rifrazione, espri-
mere per mezzo di ; e delle costanti ottiche proprie del cristallo.
Ponendo per brevità:
tang è sen 7 cos À
m= 5 Mi = SIT
tangr cos ? sen À cos ®
si ricava dalle ultime due equazioni della terna (2):
2 così
Lo l'pbi
m_l
m+ 1
Vcosd=— cos$
674 GIUSEPPE BASSO
Quindi rimane, per eliminare V e 4 e per ricavare «,, il sistema
seguente:
cos 0
Ù —_V°—= 4 9 (m+1f + nu
cosisen 5 + Vcosiseny=%, cosp e (A
m_1l i
Vcost=— così
7 m+1
L'eliminazione di Y e di % conduce subito alla seguente equa-
zione di 2° grado in w,:
i cos 6 m_1\}
cos 7 |1- 4m +1 nes |- (cos icos$ pr o) —
— (u,coso — così sené) =
"080 |
Ma il termine indipendente da %,, cioè il trinomio:
2 2
} cos'$ m_-1 ;
cos? È È —4m i ei (cosi così ) — così i sen G
(m+4+1) m4t-1
è identicamente nullo: perciò si cade semplicemente sopra una
equazione lineare da cui ricavasi:
2 cos7 cosf
77 REA
neos e + cos
Nelle espressioni (3) e (4) delle intensità I, e I, pongansi i va-
lori ora trovati di u, e di w, tenendo conto delle significazioni
di m e di n e si osservi pure che si ha:
o=p_ AE
mediante semplici calcoli materiali si otterrà:
sen2:sen2r
°° sen’(/+»)
così 9 pa GI
pa sen2isen2 }cos°gcos(o—)) sente SO
|senicosi cos) +cos°psen)cos(o—)) li
SULLA LEGGE OTTICA DI MALUS 675
III.
Le quantità che entrano nelle espressioni ora trovate si pos-
sono senza difficoltà rappresentare in ogni caso in funzione del-
l'angolo d'incidenza ricorrendo alla notissima costruzione di
Huyghens. Siano rispettivamente Ss ò gli indici di rifrazione or-
dinaria e straordinaria del cristallo e sia e l'angolo acuto che
l’asse ottico di questo fa colla faccia rifrangente. S’intenda co-
struita nel piano d'incidenza l’ellissi che ha per centro il punto
d'incidenza e per semiassi a e d, dei quali il primo sia diretto
secondo l’asse ottico. Sulla linea d’intersezione della faccia ri-
frangente col piano d’incidenza e dalla parte in cui il raggio in-
cidente fa con detta linea l’angolo ottuso si prenda un punto il
I 1 sr. ;
quale disti della quantità - dal punto d'incidenza e conducasi
sen %
dal medesimo, entro il cristallo, la tangente alla ellissi; si sa che
la congiungente il punto di contatto col punto d’incidenza rap-
presenta il raggio rifratto straordinario. Nel caso particolare del-
l'incidenza normale la detta tangente è parallela alla faccia ri-
frangente e l'angolo f, di rifrazione straordinaria è dato dalla
formola : ST
tango ="iazi8
SloT tang° e + d°
Ma per l’incidenza obliqua la formola che dà l'angolo p è più
complicata e mediante calcoli di geometria analitica di cui credo
inutile qui riferire lo sviluppo sì ottiene :
12 È ' 192 SE
a’ senitd seng,}/1 — a“ sen’;
tang p= (9
' 12 2.
b COSTA 1—a*sen°i
dove a’, d' sono i due semidiametri coniugati della ellissi, dei
quali il primo fa l’angolo e colla direzione del semiasse princi-
pale a, cioè giace sulla faccia rifrangente. Inoltre devesi attri-
buire al secondo termine del numeratore il segno positivo, ovvero
il negativo, secondochè si trovano dalla stessa parte o da parti
opposte rispetto alla normale alla faccia rifrangente il raggio
incidente e l’asse ottico condotto nell’interno del cristallo.
6076 GIUSEPPE BASSO
Si trova parimente senza difficoltà:
i D'cos 0, sen è
send E
; SID)
2 Del
lia! Saen$g
Volendo ora applicare le formole precedenti al caso di cui
mi sono proposto la trattazione, considero un prisma di calcite
del quale assumo come faccia rifrangente una delle facce natu-
rali, ed intendo che un raggio luminoso cada su questa faccia
nella direzione parallela agli spigoli laterali del prisma. È questa
appunto la disposizione che si adotta più frequentemente nel
prisma di Nicol ordinario; cioè la luce incidente arriva alla faccia
d'entrata del prisma secondo la direzione dell’asse del tubo nel
quale il prisma è incastrato e per ciò è parallela agli spigoli
laterali del prisma stesso.
Se la faccia d’entrata, come più spesso avviene, è faccia di
sfaldatura, essa fa cogli spigoli laterali del prisma l’ angolo di
70° 52' (*). Questo angolo essendo complemento dell’angolo di
incidenza, si dovrà porre:
TA
Inoltre, per la calcite si possono ritenere i valori medii:
a='W6045..;
b—- 0,6742
Per la luce rifratta ordinaria, dalla legge cartesiana:
sen 7 ni
—- —. 3
sen Tr a
si ha:
r=2 Li 25%,
e perciò, servendoci della formola (6), si ottiene per l'intensità
della luce rifratta ordinaria:
I, =0,93021. cos°@..
(*) Talvolta si adopera un prisma di Nicol alquanto modificato; cioè le
facce d’entrata e d’uscita sì lavorano in modo che facciano cogli spigoli la-
terali l’angolo di circa 68°. In tal caso esse non sono più facce naturali e
ciò si fa per rendere le medesime perpendicolari alla superficie interna di
taglio sulla quale ha luogo la riflessione totale del raggio rifratto ordinario,
ì
4
ite
e
O O n O en
iter tatti
SULLA LEGGE OTTICA DI MALUS 677
Passando alla luce straordinaria, siccome nel caso attuale si ha:
e=545./23/200,
la formola (8) dà:
Po= GeLLohe
La nota relazione :
9 a? b°
a
a sen? e + 0° cos?
dà per il valore del semidiametro dell’ellissi di Huyghens che
giace sulla faccia d’incidenza :
i 940
È facile il vedere che l’angolo acuto compreso fra le dire-
zioni dei semidiametri a' e 9’ è complemento di 0,; perciò si ha :
a' D'' cos fo @d
donde si ottiene:
Facendo ora uso della formola (9) si osservi che il secondo ter-
mine del numeratore deve essere preso qui col segno positivo ;
da essa si deduce:
Il valore di ) viene ora subito fornito dalla (10), da cui si ha:
\=W20951
e per conseguenza. :
fi Bei
Si ricorre per ultimo alla (7) per avere Il’ intensità del raggio
straordinario e se ne ricava :
E=0;95178.. sen” 9.
In conclusione si scorge che, anche nel caso dell’ incidenza
obliqua, avviene ciò che altra volta trovai per l’incidenza nor-
male, cioè che la legge di Malus non è verificata esattamente
D)
cos° @
i) SI
sen? è
dalla teoria, poichè il rapporto non è uguale a
Ss
Atti R. Accad. - Parte Fisica — Vol. XXII, 50
678 GIUSEPPE BASSO - SULLA LEGGE OTTICA DI MALUS
Per conseguenza i due raggi rifratti non hanno intensità eguale
quando l'angolo del piano di polarizzazione della luce incidente
colla sezione principale del cristallo è di 45°; invece l’eguaglianza
d’intensità ha luogo quando l'angolo 7 assume un valore spe-
ciale 9,, tale che si abbia:
0,93021
È G == T5s5SFCer=@
ARE ORTO
quindi: 0,= 44° 40°.
Se la luce, d’intensità «no, che arriva al cristallo è natu-
rale, i due raggi rifratti che da essa nascono non hanno rigo-
rosamente la stessa intensità, poichè quella del raggio ordinario
vale 0,4651 e quella dello straordinario 0,4758. L’eccesso del-
l’unità sulla somma di questi due numeri è 0,0591 e rappre-
senta perciò l'intensità del raggio che trovasi riflesso alla faccia
rifrangente.
Il Direttore della Classe
ALFONSO Cossa.
679
ERRATA - CORRIGE
Alla Memoria di Giulio EMERY.
Pag. 1418.» 25 si tolga la virgola dopo forza
La Lg
so, » 17 | leggasi {
. CA
120) opa d invece di 41 leggasi (1)
neuen: deste 24 si tolga la virgola che precede un arco
MARTI Ce 9 invece di v,v, leggasi v,, uv
MESO Ca 3 invece di i leggasi y=î
soia: 20 invece di derivata, leggasi derivata)
ne id. » 28 sì tolga la virgola dopo la parola immagina
ona: 25 I. a=b=—M?®<0. deve passare in testa alla pa-
gina seguente
» id. »ii 25 invece di Heinzerling in leggasi Heinserling \m
BERT99 (Ap 18 invece di avrà leggasi avrebbe
Alla Memoria di Francesco PORRO.
Pagg» 12 invece di
ee DAR MAIO (Po A O, 2
leggasi
pe" 42001230 823 000422
681
INDICE
DEL VOLUME XXLKI È
ELeNco degli Accademici residenti, nazionali non residenti, stranieri
e. corrispondenti al 1° gennaio 1887................... Pag. 1-XXVII
ADUNANZE della Classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali. ... » 3
73, 143, 179, 187, 233, 237, 253, 309, 345, 393, 459, 541, 565.
Miunsganaza» pol VE prentio! BRESSA. (eri nere » 457
Apucco (V.) — Espirazione attiva ed inspirazione passiva; Ricerche. Pag. 346
Basso (G.) — Sulla legge ottica di Malus, detta del coseno quadrato » 671
BATTELLI (A.) — Sull’effetto Thomson; Studio sperimentale ........ » 48
—— Sul fenomeno Thomson. Nota seconda ...........+..0.i et » 369
BELLI (S.) — V. GIBELLI (G.).
BERTINI (E.) — Sulla scomposizione di certe omografie in omologie » 613
BIGINELLI (P.) — V. GUARESCHI (I).
Bizzozero (G.) — Relazione intorno al lavoro: Sui vizii congeniti del
cuore race VDotti E#aVINCENZEN:t:t Ghetto e Selene » 180
—— Relazione sul lavoro del Dott. A. CATTANEO: Sugli organi termi-
nali nervosi muscolo-tendinei in condizioni normali, e sulle loro
alterazioni in seguito al taglio delle radici nervose e dei nervi
smalti: bai daino Mib Aa » 234
BRAMBILLA (A.) — Un teorema nella teoria delle polari; Nota ...... » 543
CamERANO (L.) — Ricerche intorno alle specie italiane delgenere Gordius » 87
CanaLIS (P.) — Contributo allo studio dello sviluppo e della patologia
delle-eapsule-soprarenali.* >... at » 519
iirrala=Conriges diet atea SRIRIORE n mit » 564
CHARRIER (A.) — Lavori fatti all'Osservatorio astronomico di Torino » 182
248 e 615.
UonTI (A.) — V. VARAGLIA (S.).
Cossa (A.) — Ricerche sopra la proprietà di alcuni composti ammo-
piacalledel platinoge!s sauri. va) delete a. BL » 2921
Daccomo (G.) e Ramati (A.) — Sugli acidi glicolici dell’ossisolfoben-
side NOS SETT. nta tia re si glo » 333
DeL RE (A.) — Omografie che mutano in se stesse una certa curva
gobba del 4° ordine e seconda specie e correlazioni che le
mutano nelle sviluppabili ..... tere dite ir ap 649
682 INDICE DEL VOL. XXII
D’Ovipio (E.) — Sopra due punti della 7heorie der dindren algebrai-
schen Formen del CLEBSCA ............... n'e #fecan CADE Pag.
— Relazione sulla Memoria: // passato ed il SO, delle princi-
pali teorie geometriche, del prof. G. LORIA. ............. ; »
Emery (G.) — Sulla condizione di scambievolezza e sui casi d’ ident
fra curve rappresentanti distribuzione continua di forze paral-
lele e curve funicolari corrispondenti, con particolare disqui-
sizione sulle Clinoidi ................+... È”
—— ‘Errafa-Cortipe no, :ca 1 cei = a ah RT
ERRERA (G.) —- Azione dell’acido nitrico e del calore sugli eteri ... »
-— Sul parabromobenzoato di etile, e sull’acido parabromobenzoico »
GENoCcCHI (A.) — Presentazione di una Memoria dell’ing. S. REALIS
su-Gioyanni BEANA,; Lille Larita CAIO TE »
GiacomMINI (C.) — Annotazioni sull’ ann del. Negro =#22028 NINO
—— Eletto;Socio nazionale residente... n... as
GIBELLI (G.) e BeLLi (S.) — Trifolium Barbey novam speciem diges -
SOLO... een e RETE BIO
—— Intorno alla morfologia differenziale esterna ed alla nomencla-
tura delle specie di 7rifolium della sezione Amoria PRESL,
crescenti spontanee in Italia; Nota critica.................- '
GiséLLI (G.) — Relazione sulia //l/ustrazione di tre nuoge specie di
Tuberacte,del' Dotti O)MaTTIROvO . #00. at a E ”
GuarescHI (1.) — Sulla legge dei numeri pari nella chimica; Memoria »
GUARESCHI (I.) e BIGINELLI (P.) — Sulle clorobromonaftaline; Memoria »
GuetieLMO (G.) — Sul disperdimento dell’elettricità nell’aria umida »
Guipi (C.) — Sul calcolo di certe travi composte................0. »
JADANZA (N.) — Influenza degli errori strumentali del teodolite sulla
misura degli angoli orizzontali ................ Rae. 7 «GB
—— Una questione di ottica ed un nuovo apparecchio per pe
zare le immagini nei cannocchiali terrestri. .........56..0 »
MattIROLO (0.) — Illustrazione della Cyphella endophila CesaTI... »
—— Sul parassitismo dei Tartufi, e sulla questione delle Mycorhize »
MoNARI (A.) — Mutamenti della composizione chimica dei muscoli nella
fatica -.WiptT.Liatina. Sad. sin
NovaresE (E.) — Sopra una trasformazione delie equazioni d’equilibrio
delle curve funicolari; Nota
ODDONE (.) — V. PAGLIANI (S.).
OmoDEI ‘(D.) — V. VICENTINI (G.).
PAGLIANI (S.) e Oppone (E.) — Sull’attrito interno nei liquidi. ...... »
Peano (G.) — Integrazione per serie delle equazioni differenziali lineari
POLLONERA (C.) — Specie nuove 0 mal conosciute di Arion europei »
Porro (F.) — Osservazioni delle Comete Finlay e Barnard-Hartwig
fatte all’equatoriale di Merz dell’Osservatorio di Torino..... »
—— Nuove Osservazioni delle Comete Finlay e Barnard-Hartwig #1-
l’'equatoriale di Merz dell’Osservatorio di Torino. ........ die 1»
—— Determinazione delia latitudine della stazione abeti di
Termoli mediante passaggi di Stelle al primo verticale ..... »
se Errata=C0OMLIger. aaa zano 104 40104 SERRE urea aloe siadiziee »
INDICE DEL VOL. XXII
PorRO (F.) — Terza ed ultima serie di osservazioni delle Comete
Finlay e Barnard-Hartwig all’equatoriale di Merz dell’Osser-
ITAL LO LIRE Ere DARE RE «+ «Pag.
RAMaTI (A.) — V. Daccomo (G.).
Sacco (F.) — Studio geologico dei dintorni di Voltaggio... ......... »
SALVADORI (T.) — Relazione intorno allo Studio zoologico ed anatomico
sul Criodrilus lacuum, del Dott. D. Rosa ................. ”
-— Relazione intorno Ra Contribuzioni alla Ornitolitologia alii
parte II, del Dott. A. PorTISs. ELIA LOI »
—— Relazione sulle Ricerche intorno Hi parassitismo ed al polimor-
flsmo dei Gordii, del prof. L. CAMERANO............. Bet
SEGRE C.) — Nuovi risultati sulle A algebriche di genere qualanque »
—_- Sulla varietà cubica con dieci punti doppi dello spazio a quattro
ATRUEGnivo ei RARE Re A RR POSE »
Stacci (F.) — Commemorazione di Alessandro DORNA.............. »
Spezia (G.) — Sulla fusibilità dei minerali... .................000:> »
VARAGLIA (S.) e ConTI (A.) — Alcune particolarità macro e miero-
Aaa dei nervi cardiaci nell'uomo.................. : »
Vicentini (G.) — Sulla variazione di volume di alcuni metalli nellatio
della fusione, e sulla dilatazione termica degli stessi allo stato
Ugaido; Netasprmal:- 0 <a ct FORIO. ROLE.
VICENTINI (G.) e OmopeI (D.) — Sulla variazione di volume di alcuni
metalli, ecc. Studio sperimentale ........ PR CSO O 5)
ZanorTI-Branco (0.) — Alcuni teoremi dei coefficienti di Legendre. »
—_—____——o oc_—_
683
484
151
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Ue AT
SOMMARIO
—___
Classe di Scienze Fisiche, Matematiche e. Naturali. DÌ
ADUNANZA del 19 Giugno 4887 LN CITA Pag. "565
GIBELLI — fidano intorno alla Memoria del Dott. O. sn
intitolata : Illustrazione ditre nuove specie di Tuberacee dtaliane
SaLvAporI — Relazione intorno al lavoro del Dott. Lor enzo CAMERANO,
intitolato :. Ricerche intorno al pena e al polimorfismo.
(er GOPO ig o e o Re O I ao
ErRERA — Azione dell’acido nitrico e del calore sugli eteri . . .
—— Sul parabromobenzoato di etile e sull’acido parabromobenzoico »'
Monari — Mutamenti della composizione chimica dei muscoli nella
FAtICA:IA SE ENI I9IA6, DICO Ra IRA REINER A È
Bertini — Sulla scomposizione di certe omografie in omologie . .
»
Cnarrier — Effemeridi del Sole, della Luna e dei principali Pianeti, da
calcolate Roe Torino in tempo medio civile di Roma per l’anno
1888 ee pelo e e ra rea
VaragLIa e Conti — Alcune particolarità macro e microscopiche
dei: nervi cardiaci nell'uomo. Do il a
DeL Re — Omografie che mutano in se stessa una certa curva gobba
del 4° ordine e 2° specie, e correlazioni che la mutano nella
sviluppabile de’ suoi piani osculatori. i... Sti NB
Basso — Sulla legge ottica di Malus detta del coseno quadrato .
ERRATA-COHRIGE: 3 Re
libico: del NOR O
a)
567
568.
574
5809
594
6413
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