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Full text of "Atti della Società toscana di scienze naturali, residente in Pisa"

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TIPOGRAFIA SUCCESSORI FF. NISTRI 


1900 


DOTT. GUGLIELMO ROMITI 


PROFESSORE DI ANATOMIA IN PISA 


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IL SIGNIFICATO MORFOLOGICO DEL PROCESSO MARGINALE 


NELL'OSSO ZIGOMATICO UMANO 


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Molto, ed assai estesamente, hanno dato opera gli Anatomici per 
studiar tutte le particolarità descrittive ed antropologiche presentate da 
quel singolare processo dell'osso zigomatico umano, noto nei Trattati di 
Anatomia con il nome di processo marginale, processus marginalis. Nelle 
scritture di ScHuLrz !), ScHWEGEL *), HòLDER 3), LuscHKa 4), WERFER °), 
STIEDA 5), TARUFFI "), sino alla più recente e buona Monografia di PA- 
NICHI 5), trovasi convenientemente ricercato questo processo nella sua 
forma, nei suoi rapporti, nelle ragioni dell’esistenza sua, nel suo valore 


1) G. J. ScnuLrz. — Bemerkungen dber den Bau der normalen Menschen- 
schéidels. St. Petersburg. 1852. 

2) A. ScaweGEL. — Knochenvariettiten. (Henle’s und Pfeuffer’s Zeitschrift 
fiir rationelle Medicin. 1859, pag. 283). 

3) H. v. HòLDER. — Beitrige zur Ethnographie von Wiirtemberg. Stutt- 
gart, 1867, pag. 5. 

4) H. v. LUscHKA. — Die Anatomie der Menschen. III. 1.° Die Anatomie 
des menschlichen Kopfes. Tibingen. 1867, pag. 271. Chiama il processo « Kam- 


martigen Vortsatze » . — Der Processus marginalis des menschlichen Jochbeins. 
(Archiv. fiur Anatomie, Physiologie und wissenschaftliche Medicin. 1869. p. 226). 
5) M. WERFER. — Das Wangenbein des Menschen. Inaugural-abhandlung 
zur Erlangung der Doctorwiirde in der Medicin un4 Chirurgie. Tibingen, 1869. 
6) L. Sriepa. — Zur Anatomie des Jochbeins des Menschen. (Archiv. fiir 


Anatomie, Physiologie und wissenschaftliche Medicin. 1870, pag. 112). 

*) C. TarurrI. — Delle anomalie dell'osso malare. (Mem. dell’Accademia di 
Bologna. S. IV, 1°, 1880, pag. 20 dell’ estratto). 

5) R. PanicHI. — Ricerche di Craniologia sessuale. Tesi di Laurea. (Ar- 
chivio per la Antropologia e la Etnologia. Firenze 1892, pag. 49). 


Se. Nat., Vol. XVII 1 


4 G. ROMITI 


come segno di razza; fino alla sua importanza come carattere sessuale. 
Manchevoli assolutamente sono le cognizioni relative al suo significato 
morfologico, allo studio cioè fatto comparativamente con quanto avviene 
negli animali inferiori all’uomo. E tutto quello che si sa sopra il pro- 
cesso in parola viene riportato nei recenti Trattati di Anatomia del- 
l’uomo (TestuT, PorRIER, DEBIERRE, QUAIN, BARDELEBEN, RAUBER, ROMITI). 
Essendomi occorso di osservare un cranio nel quale, oltre ad altre im- 
portanti varietà ossee, era spiccato ed aveva forma singolare il processo 
marginale, cercai del mio meglio completare su di esso le ricerche man- 
canti, e consegno in questa Memoria il risultato delle mie osservazioni. 


Come ognuno sa, chiamasi processo marginale, processus marginalis *), 
dell'osso zigomatico una sporgenza ossea che talvolta esiste nel margine 
posteriore dell’osso in parola, di contro la porzione più alta sua, cor- 
rispondendo al processo orbitario ?), o di contro lo incurvamento supe- 
riore dell’ S allungata alla quale può paragonarsi il margine stesso. Il 
processo marginale trovasi più comunemente sul limite tra il terzo su- 
periore ed il terzo medio dell’osso: non di rado però nella metà sua 
(LuscHKA). La forma e la figura del processo variano estesamente: esso 
può essere o una sporgenza smussa, oppure presentarsi più o meno 
aguzzo: più spesso appare a mo’ di cresta schiacciata, volta in dietro ed 
in alto. Dalla completa assenza del processo, fino alla esistenza d’un 
processo robusto, possono farsi vari tipi (PANIcHI), utili per possibili 
classificazioni di esso. Benchè SommERRING 3) accennasse certamente 
al processo marginale, allorquando, descrivendo l’osso zigomatico, nota 
come il margine posteriore fatto ad S romano, nella porzione superiore 
sua, “ alcuna volta è provveduto di un angolo saliente ,; pure è più 
giusto si riconosca nello ScHuLrz *) colui che descrisse per il primo il 
processo marginale, come “ un robusto processo nel margine temporale, 


1) Questa denominazione viene da LuscHKA: essa è adottata dalla odierna 


Nomenclatura determinata dalla Società anatomica e fissata nel Congresso di 
Basilea (B. N. A). Processus Sommeringii (StIEDA), Spina zigomatica (Broca, 
PANICHI), apofisi marginale (TESTUT). 

2) Apofisi piramidale (PANICHI). 

3) S. T. SéommeRRINE. — Della fabbrica del corpo umano. Trad. ital. di P. 
Berti. Firenze, 1818, T. I, pag. 150. 

AMioeMeiti 


IL SIGNIFICATO MORFOLOGICO DEL PROCESSO MARGINALE ECC. 5 


processo volto in alto ed in dietro ,. ScHuLTZ trovò il processo più 
spiccato a destra; e lo vide più spesso mancante nei crani di popoli 
meridionali, relativamente a quelli appartenenti a elementi mongoli della 
razza slava, ove è più frequente. Ma questa presunta relazione tra esi- 
stenza del processo marginale e razze, tale da potere costituirgli un 
valore antropologico; come pure un possibil rapporto tra la presenza 
del processo e l’ indice cefalico (HòLpER), fu assolutamente negato dalle 
ulteriori osservazioni di WEeRFER, LuscHKa, ScHwEGEL, StIeDA (V. in 
PANICHI); sicchè il processo marginale è a considerarsi come una sem- 
plice particolarità individuale dell’osso zigomatico (LuscHKA), congiunto 
‘a maggior larghezza dalla sua porzione ascendente o processo orbitario. 
PANICHI, studiando il processo marginale dal punto di vista di un suo 
possibile valore quale carattere sessuale del cranio, dopo una serie di 
accurate e ben condotte ricerche, conchiude che il processo è più ro- 
busto nel maschio che nella femmina, e che in ambedue ha speciali 
caratteri: nel maschio si avvicina a taluno degli 8 tipi da esso PANICHI 
accennati, laddove nella femmina si limita ad altri. Se, per caso, un 
cranio femminile presenta un processo marginale assai robusto, si tratta 
di un cranio a caratteri maschili: inoltre nel maschio il numero di 
frequenza oscilla assai, mentre nella femmina l'oscillazione è minore. 
WERFER, nella sua molto diligente Dissertazione fatta sotto gli au- 
spici di LuscHka, esaminò per il primo il rapporto del processo mar- 
ginale con le parti molli vicine. Dissecando la regione temporale, notò 
come il foglietto profondo dei due nei quali si biforca in basso la fascia 
temporale, presenti talvolta dei fasci fibrosi distinti che volgono più 
comunemente verso il punto ove suol trovarsi il processo marginale 
(pag. 44): una volta trovò un fascio fibroso isolato che si inseriva al 
processo marginale esistente. Mai trovò dirette inserzioni muscolari sul 
margine dello zigomatico, e quindi nemmeno sul processo marginale: fu 
però di avviso che la trazione del muscolo avesse non diretta influenza sullo 
sviluppo del processo, esercitandosi sulla fascia temporale, che a questo si 
inserisce. Questa spiegazione è seguita da HENLE !). LuscHKA (p. 329) 
ritenne invece che il processo marginale potesse non essere altro che 
una parziale ossificazione della fascia temporale. Conclude giustamente 
nella sua Memoria “ doversi lasciare all’Anatomia Comparata il decidere 
se il processo marginale dell’osso zigomatico umano non rappresenti forse 


1) J. HenLE. — Handbuch der systematischen Anatomie. I. Braunschweig. 


6 G. ROMITI 


la ripetizione del tipo stazionario nell’osso zigomatico di un qualche ver- 
tebrato ,. E questo è appunto il compito che mi sono prefisso, potendo 
disporre, per la deferenza del mio Collega prof. RicHIARDI, del ricco e 
ben ordinato materiale del nostro Museo Zootomico. 


Il cranio che ha data occasione a questo lavoro; cranio che, come 
vedremo, è importantissimo per altre singolari particolarità, appartenne 
ad un maschio giovane, ucciso per proiettile d’arme da fuoco nella te- 
sta: l’ucciditrice con lo stesso modo si tolse la vita. Il cranio venne dal 


colpo comminutivamente fratturato; e ne rimase soltanto integra la metà 


anteriore, con il frontale e gli ossi della faccia. Nella unita tavola, un 


mio studente, il sig. Massar, ha fedelmente ritratte quelle parti dello 
scheletro della testa, nelle quali bramo fissare l’attenzione del lettore 
(filo: (102). 

Il cranio dopo essere stato riunito nei frammenti suoi, appare abba- 
stanza voluminoso e con i caratteri maschili straordinariamente mani- 
festi. Ha molto sviluppate le creste e le impronte muscolari e possiede 
un indice cefalico di 83,42: è perciò spiccatamente brachicefalo. È lie- 
vemente asimmetrico per plagiocefalia, essendo minore il diametro obli- 
quo che a destra parte dal frontale e volge verso la metà destra dell’oc- 
cipite. Giusta la classificazione di SERGI !) il cranio apparirebbe di forma 
Sphenoides rotundus. Nell’osso zigomatico di destra (V. fig. 1) il processo 
fronto-sfenoidale 2) è più largo del comune, ed offre nel suo margine 
posteriore un processo marginale di forma e di volume notevoli ed as- 
sai differenti dai tipi noti di siffatto processo; quali ad esempio sono 
delineati nella Tavola che accompagna la Memoria di PanIicaI. In ge- 
nerale il processo fa sporgere di più, con linea regolare ed: unita, il 
segmento superiore convesso del margine temporale dell’osso zigomatico. 
Qui invece vi ha una eminenza ossea ovale col massimo asse volto ver- 
ticalmente, e con una sorta di lieve strozzamento o di peduncolo alla 
base sua. Tutta la superficie del processo è finamente scabra, come sca- 
bro ne è il margine libero. La lunghezza verticale del processo mi- 
sura 8 !, mm. L'altezza sua, viene presa col metodo di PANICHI, 


1) G. SerGI. — V. spec.: Le varietà umane — Principi e metodo di classi 
ficazione. (Atti della Società Romana di Antropologia, Roma. I, 1893. pag. 16). 

?) Apofisi orbitaria: nella nostra descrizione si segnano le denominazioni 
B. N. A. î 


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IL SIGNIFICATO MORFOLOGICO DEL PROCESSO MARGINALE ECC. I 


determinando la distanza che decorre tra l’estremo più sporgente del 
processo e l’incontro con una linea tirata tra l'estremo posteriore della 
sutura fronto-zigomatica, ove vi termina la linea temporale del frontale, 
e l’angolo tra il processo fronto-sfenoidale e quello temporale dello zigo- 
matico. Determinata in questo modo, l'altezza del processo, misura 
8mm. Come vedesi (cf. PANICHI) si tratta di un processo assai notevole 
per l'altezza, ed esistente in un cranio assai robusto, come è nella os- 
servazione di PanicHi. Anche sulla superficie malare !) dell’ osso le 
asprezze muscolari sono assai spiccate. 

Nell’osso zigomatico di sinistra (V. fig. 2) il processo fronto-sfenoidale 
è più stretto di quello del destro: il processo marginale ha la forma 
comune, ed è alto 5 mm.: il suo margine e la sua superficie malare sono 
lievemente scabri. 

Le altre molte varietà anatomiche che offre il nostro cranio in parte 
sono riprodotte nelle figure. Alcune di queste varietà hanno singolare 
importanza; ma vengono, per brevità, solamente accennate. Tanto a si- 
nistra come a destra (V. le figg.), trovansi una serie di ossetti intercalati 
tra il frontale ed i lacrimali, e tra il processo frontale della mascella e 
i nasali: altri ossetti son posti in serie lineare tra i nasali ed i processi 
frontali della mascella. Vi è traccia della sutura metopica, e la glabella 
e gli archi sopracigliari sono assai sviluppati. Notasi a sinistra un piccolo 
ossicino intercalato tra l'osso zigomatico e la mascella: le due ossa nasali 
sono parzialmente saldate in alto: spiccati assai sono i solchi palatini, 
contornati da spiccate creste ossee: ampia è la fessura orbitaria superiore. 
Ricorderò infine come esista una fossetta occipitale media di mediocre 
ampiezza; ed un osso suturale interparietale, stretto e lungo, decorrente 
tra il quarto anteriore della sutura sagittale, e poggiante con il suo 
estremo anteriore su quella coronale. 

Della dentatura mancano assolutamente i terzi molari. 

Di tutte queste varietà coesistenti con il processo marginale, meri- 
terebbe speciale nota quella costituita da tutti quegli ossetti intercalati 
tra l’osso frontale, i nasali, la mascella e i lacrimali; poichè mi sembra 
che potrebbero stare a rappresentare delle ossa prefrontali nell'uomo. 
Ma accenno solamente all'idea; chè questo dei prefrontali e postfrontali 
nell'uomo è argomento di grande importanza nella umana Osteologia, 
ed oggetto di ricerche, in parte tuttora incompiute, di STAUREN- 


1) Cutanea. 


8 G. ROMITI 


eHI !) e di Mace °). In ogni caso questi ossetti nel nostro caso sono 


sì bene spiccati e così numerosi da meritare considerazione, tanto più 
che mai ho osservato crani con simile ricchezza di ossetti intercalari 
in quella regione. 


Prima di dire dei risultati comparativi, noterò quanto, a conferma 
ed a complemento delle cose esposte nelle scritture di WERFER e di 
LuscHKA, ho verificato esaminando nel fresco la disposizione delle parti 
molli o sul processo marginale se esisteva; oppure intorno al tratto 
osseo ove suole corrispondervi: tanto più che serbavo ricordo di osser- 
vazioni fatte fare da MARTINI *) molti anni or sono sulla regione tem- 
porale, ma condotte ad altro fine. 

È prima di tutto da non dimenticare come sia un fatto generalmente 
ammesso, che nei crani di neonati mai trovisi accenno di processo mar- 
ginale: ciò risulta dalle osservazioni di WERFER (pag. 34). È soltanto 
dopo i primi anni che, secondo gli Autori, apparisce più sporgente e ru- 
goso il tratto ove suole trovarsi il processo in parola. WERFER ne trovò 
un accenno abbastanza spiccato nel cranio di un bambino di due anni, 
a destra: PanIcHI (pag. 81), ebbe ad imbattersi in un caso di processo 
marginale in un bambino di 13 ‘|, mesi: nelle sue ricerche ulteriori poi 
incontrò quasi sempre un accenno dell’ angolo ove corrisponde il processo 
marginale: quando questo esiste, lo sviluppo completo suo si ha relati- 
| vamente assai presto: cioè dai 15 ai 18 anni; trovandosi uguale la 
media che offrono gli indici di questo gruppo con quella generale fissata 
per gli adulti (pag. 88). 

Le mie ricerche autorizzano a modificare l'assoluta conclusione di 
WereER. Nella raccolta di crani di feti a termine del nostro Museo, ho 
trovato di già tre casi di processo marginale. Due esistevano in cerani 
di neonati morti, maschi; ed in ambedue i casi i processi erano a de- 
stra: essi avevano forma aguzza, a spina; notevoli erano in ambedue i 
crani la grossezza loro, lo avere più spiccati i processi ossei muscolari, 
es.: l'angolo della mandibola; ed essere l’osso zigomatico di destra, ove 


4) C. SrauRENGHI. — Dell'inesistenza di ossa pre e post-frontali nel cranio 
umano e dei mammiferi. Milano, 1891. 

?) L. MaGGI. — V. spec. Postfrontali neù mammiferi. (Rendiconto nell’ Isti- 
tuto Lombardo. Serie II, Vol. XXX. Milano, 1897). I 

3) V. MARTINI. — Sul rapporto del pericranio con gli strati della regione 
temporale dell’uomo. (Rivista Clinica. Bologna, 1893, pag. 316). 


senti a 


VT 


IL SIGNIFICATO MORFOLOGICO DEL PROCESSO MARGINALE ECC. 9 


era l’abnorme processo, notevolmente più voluminoso che quello di si- 
nistra: notisi che ambedue i crani sono dolicocefali. Il terzo caso trovasi 
in un cranio di feto a termine, di sesso femminile, brachicefalo; ed il 
processo marginale è pure a destra; e sono bastantemente accennate le 
altre sporgenze ossee muscolari; l’osso zigomatico di destra è più largo: 
il processo marginale ha l’estremo arrotondato. 

Il modo di comparire e di presentarsi del processo marginale dell’osso 
zigomatico, ed il potersi trovare esso anche nei feti, guidano e con- 
fortano per intenderne il significato, riconoscendolo uguale a quella di 
tutte le altre possibili sporgenze ossee. Il processo marginale è conse- 
guenza della nota legge del principio formativo (WIepERSHEIM). Esso, e 
meglio verrà confermato da quanto viene esposto in seguito, è un effetto 
indiretto di trazione muscolare: non è costante, perchè le condizioni neces- 
sarie alla sua evoluzione non sono costanti: se ne può trovare un accenno 
nel feto per due ragioni: primo, per possibile carattere ereditario: come 
processo osseo ereditario; secondo, perchè può verificarsi anche nel feto un 
esagerato sviluppo muscolare ed aponevrotico come può esistere nel- 
l’adulto. Che l’azione del muscolo temporale sia quella che determini la 
forma delle superfici ossee con le quali è a contatto, mostrò conveniente- 
mente Dara Rosa !); e questa fondamentale ragione mi servì altra 
volta °) per dare spiegazione di una abnormità dell’arco zigomatico. 

Circostanza singolare è appunto il trovarsi il processo marginale nei 
feti sempre a destra, come ScHuLtz ve lo aveva trovato nell’adulto. Non 
sarebbe forse lungi dal possibile il ritenere che la posizione o l’atteg- 
giamento della testa fetale nell’utero, possa condurre a differenti con- 
dizioni di accrescimento dello zigoma e del muscolo ed aponevrosi tem- 
porale di destra, relativamente a quelli di sinistra. 

Esaminando con attenzione il foglietto profondo della fascia tempo- 
rale, veggonsi i fasci fibrosi mai tenere un decorso speciale. La divi- 
sione nei due foglietti, superficiale e profondo, dalla fascia temporale, 
avviene all'incirca all'altezza della unione tra il terzo superiore ed i 
due terzi inferiori del margine posteriore del processo fronto-sfenoidale 


1) L. DaLLA Rosa. -- Daus postembryonale Wachstum des menschlichen Schléi- 
fenmuskeln und die mit demselben Zusammenhangenden Vertinderung des 
knochernen Schédels. Stuttgart, 1886. 

2) G. RomrtI. — Sopra la incompiutezza dell’ arco zigomatico in un cranio 
umano notevole per altre varietà. (Memorie della Società Toscana di Scienze na- 
turali. Pisa, XIV, 1895, pag. 352). 


10 G. ROMITI 


dell'osso zigomatico. In questo punto trovasi, più o meno sviluppato, 
ma un accenno l’ ho trovato costante, un fascio di fibre aponevrotiche 
della fascia temporale, appartenente al foglietto profondo di essa, fascio 
di forma triangolare, molto obliquo in alto ed in dietro oppure orizzon- 
talmente, e che coll’apice suo si attacca a quel punto dell’osso zigoma- 
tico ora ricordato. Questo fascetto si attacca perciò esattamente sul 
punto ove suole apparire il processo marginale (WERFER). Talvolta, esi- 
stendo il processo, il fascio fibroso in parola è più robusto e nastriforme: 
a me non occorse mai imbattermi nella disposizione che una volta os- 
servò e descrisse WERFER (pag. 44): del trovarsi cioè con un processo 
marginale un fascio distinto ed isolato dalla fascia temporale. In una 
testa di vecchio, nella quale era robusto il processo marginale, vidi un 
fascio triangolare a larga base, e che si irradiava da tutto il terzo an- 
teriore della fascia temporale, traendo inserzione fin nella linea tempo- 
rale della superficie temporale dell’osso frontale, attaccandosi poscia con 
un apice largo a tutto il margine libero del processo marginale. Che 
perciò, nella regione dell’osso zigomatico ove può trovarsi il processo 
marginale, ed ancora sul processo stesso, quando esiste, torrisponda l’in- 
serzione d’un fascio distinto dalla aponevrosi temporale, è fatto costante 
e di capitale importanza. 

Ugualmente importante è lo studiare e determinare il rapporto o le 
connessioni del muscolo temporale con il margine corrispondente del- 
l'osso zigomatico. È più specialmente da considerare la porzione più su- 
perficiale del muscolo, quella che si attacca alla superficie profonda della 
fascia temporale, porzione per la quale giustamente il muscolo tempo- 
rale ha il carattere di muscolo bipennato; e per il valore morfologico 
di questa porzione rimando al lavoro di Fusari !. Le fibre muscolari 
si attaccano solamente nella parte più alta della superficie profonda della 
fascia temporale; ma non di rado questa inserzione è più estesa, fin- 
chè ancora in basso alcune fibre nascono dalla superficie profonda del- 
l’arco zigomatico; fibre che, talvolta in fasci assai sviluppati, formano 
un capo muscolare a sè. Nel comune dei casi la porzione inferiore della 
superficie profonda della fascia temporale è sprovvista di fibre musco- 
lari, o tutto al più ve ne sono alcune scarse e rudimentali, visibili so- 
lamente al microscopio (Fusari). Perciò può asserirsi che comunemente 


1) R. FusaARI. — Contributo alla conoscenza morfologica del muscolo tempo- 
rale. (Monitore zoologico italiano. Firenze, VIII, 1897, pag. 213). 


IL SIGNIFICATO MORFOLOGICO DEL PROCESSO MARGINALE ECO. 11 


sul tratto del margine dell’osso zigomatico ove suole corrispondere il 
processo marginale non si trovano inserzioni di fibre muscolari diretta- 
mente sull’osso; ma sibbene vi dispiegano la loro azione indirettamente, 
per mezzo di quel fascetto aponevrotico triangolare sopra ricordato. Ma 
la mancanza di inserzioni muscolari sul margine temporale del processo 
fronto-sfenoidale dell'osso zigomatico e sul processo marginale, quando 
esiste, non è assoluta, come volle stabilito WERFER; ma nelle mie ri- 
cerche ho veduto in qualche caso di processo marginale in individui a 
muscolatura bene sviluppata, che fasci di fibre muscolari si estendevano 
sopra tutta la superficie profonda del fascetto triangolare fibroso, fin 
sopra il margine osseo. Ma ben s'intende come per la ragione che ha 
lo sviluppo del processo marginale, questa circostanza non ha eccessivo 
valore. Che la trazione attiva sul margine dell’osso avvenga direttamente 
per fibre che si inseriscano in esso, oppure indirettamente per mezzo di 
espansione tendinea, l’effetto ultimo, la forza traente sull’osso, ugualmente 
si dispiega. 


Venendo ora a ricercare il valore morfologico del professo marginale, 
è a ricordare una circostanza di fatto che insegnano le indagini com- 
parative, e che conferma sempre più quel principio fondamentale di di- 
retta dipendenza della forma dell'osso zigomatico dalle azioni esterne 
di esso. Non solamente lo sviluppo dell’osso zigomatico; ma ancora la 
configurazione sua dipendono dalla forma e dalla configurazione della 
mandibola. Infatti, se grande è il volume e la estensione dei movimenti. 
della mandibola, assai sviluppato è l’osso zigomatico e viceversa: come 
quando, ad es., esso o manca oppure è corto incompleto l’arco zigoma- 
tico im quei mammiferi nei quali è poco sviluppata la mandibola. 

Nei vari mammiferi esaminati, appariscono varie gradazioni di pro- 
cesso marginale: dalle semplici asprezze, al processo ben sviluppato come 
trovasi abnormemente nell’uomo. Asprezze o scabrezze sul margine del- 
l’osso, come trovansi nell’uomo nei gradi minori di presenza del pro- 
cesso marginale, esistono in varie Scimmie: nell Orang-Utan, nel Ma- 
cacus nemestrinus: sporgenza maggiore o presenza di piccolo processo 
marginale, è manifesta nei vari Cedus, e nel Semmnopithecus nasicus. 
Sporgenze maggiori, o processi maginali come sono quelli più sviluppati 
abnormemente nell’uomo, con i quali perciò hanno perfetta analogia, 
trovansi tra le Proscimmie nel Tarsius spectrum (PaALL.) e nel Tarsius 


12 G. ROMITI 


Fischerì (DEs.): ed ancor di più tra i volitanti nel Noctilu leporinus 
e nel Molossus ursinus (PET.), nei quali, specialmente nel primo, il pro- 
cesso marginale ha forma aguzza, è voluminoso, ed è diretto orizzon- 
talmente in dietro. 

Ancora in altri mammiferi, oltre i ricordati, trovansi come disposi- 
zione normale, dei processi marginali nell’ osso zigomatico. Assai spic- 
cato è il processo marginale negli Arctiodattili, nel Camelus bactròanus 
e nel Camelus dromedarius; nei quali il processo si mostra come una 
grossa sporgenza, scabra e ben spiccata. i 

Nel Bradypus cuculliger, tra gli Anisodentati, con arco zigomatico 
incompleto, vi è solo accenno al processo marginale. Nei Marsupîiali Di- 
tremi, nel Macropus giganteus, ho trovato esistente il processo margi- 
nale; come presenza di esso è nel Didelphys aurita e nel Phascolaretos 
cinereus. Processo marginale è ancora nell’osso zigomatico dei osè- 
canti: nel Pedetes caffer e nel Castor fiber; come nel Oricetomis gam- 
brianus può rappresentare il processo marginale quella eminenza roton- 
deggiante che è parte nel margine superiore dell’osso zigomatico. Nel- 
l’ Hydrochoreus capybara, il processo marginale, posto nel margine po- 
steriore dell’osso, è irregolarmente scabro e sporgente. Tra i Carnivori, 
nei quali la cavità orbitaria è fusa con la fossa temporale, vi è accenno 
al processo marginale, come nel Bradypus, in una sporgenza del mar- 
gine superiore dell’osso zigomatico. Così è, ad es., nel Meles ta2us, ed 
anche più nella Enlydris marina; e maggiormente spiccato, nel Procyon 
lotor. Questa stessa disposizione è molto accentuata nell’ Ursus arctos, 
‘ove il processo aguzzo volge in alto ed in dietro; e la stessa sporgenza 
è manifesta nel Cercoleptes caudivolvolus, ove è piccola, sottile ed aguzza. 


È chiaro dunque come anche il processo marginale dell’ osso zigo- 
matico dell’uomo abbia perfetto riscontro od analogia con identici pro- 
cessi che normalmente si trovano nell’osso zigomatico dei vertebrati 
inferiori, 


Istituto ANATOMICO DELLA REGIA UNIVERSITÀ DI PISA 


DOTT. GIUNIO SALVI 


1.° DISSETTORE E LIBERO DOCENTE 


rara 


ARTERIA DORSALIS PEDIS 


RICERCHE MORFOLOGICHE s COMPARATIVE 


ee: 


Gli anatomici sono concordi nel riconoscere il gran numero di va- 
rietà per le quali la disposizione dei vasi arteriosi del piede può tro- 
varsi allontanata dal tipo descritto come normale. 

Già altra volta ebbi ad occuparmi di alcune anomalie della arteria 
dorsalis pedis e ne detti la spiegazione con disposizioni osservate in 
animali inferiori. 

Le numerose ricerche che ho fatte in seguito su questo soggetto 
mi hanno convinto che la descrizione classica non riproduce la dispo- 
sizione che deve considerarsi normale, come non risponde ai criteri 
morfologico-comparativi ai quali deve informarsi l'anatomia dell’ uomo. 

La statistica fatta su gran numero di casi mi ha mostrato che la 
disposizione descritta come normale non è quella che si riscontra con 
maggior frequenza. 

Le ricerche anatomo-comparative sono venute a completare ciò che 
da sola la statistica non avrebbe potuto fare e, con le omologie che mi 
hanno permesso di stabilire con le disposizioni inferiori, mi hanno mo- 
strato la primitiva, la vera disposizione delle arterie del dorso del piede 
dell’uomo, essere tutt’altra da quella che si descrive. 

Ed è in base a ciò che ho potuto ricostruirne il tipo normale. 

Infine, ho osservato qualche vaso trascurato per l’addietro o non de- 
scritto, il quale ha invece un alto valore morfologico, come quello che, 
ridotto nell'uomo adulto sta a rappresentare disposizioni normali e co- 
stanti negli animali inferiori e transitorie nell’ embrione della nostra 
specie, e che dimostra ancora più chiaramente la omologia. 


14 3 G. SALVI 


Li 

La descrizione, divenuta poi classica delle arterie del dorso del piede, 
è dovuta a TIEDEMANN !), prima del quale questi vasi furono descritti in 
vario modo dagli antichi anatomici. Questo fatto ha valore perchè di- 
mostra come quei primi osservatori non avessero trovato un tipo co- 
stante. 

CoLomBo non descrisse sul dorso del piede alcun ramo arterioso più 
importante degli altri e che potesse esser considerato come la conti- 
nuazione della arteria tibialis antica. Egli infatti dice che questa: sub 
transverso tarsì vinculo una cum eorum tendinibus permeans, în pedis su- 
perior disseminatur sub muscolis praedictos digitos extrorsum flectentibus. 

In VERHEYEN °) trovasi invece accennata la arterìa dorsalis pedis, ma 
non una disposizione tipica delle sue diramazioni. Leggesi infatti che 
l'arteria tibiale anteriore, germinat insignem ramum cuius propagines per 
superiorem parten tarsi, metatarsi et quarumdam digitorum longe latéque 
diffunduntur. 

La stessa disposizione trovasi press’a poco riprodotta alla figura XXV 
di EustAcHIO, ed in WisLow 4) trovansi finalmente menzionate la termina- 
zione dell’arteria al 1.° spazio interosseo e le diramazioni che staccan- 
dosi dall’una parte e dall’ altra di essa, si anastomizzano con quelle della 
tibiale posteriore e della peronea e si spingono a vascolarizzare le parti 
molli del metatarso. 

La descrizione di TrepEMANN fu seguita da THEILE °), e non m’ è riu- 
scito trovare nella letteratura posteriore un anatomico che in seguito 
Sì sia discostato da esso. 

In tal modo parlano di queste arterie tutti i Trattatisti e tutti coloro 
che in un modo o nell’altro se ne sono occupati, ascrivendo alla 
categoria delle varietà tutti i casi che da tale tipo furono veduti allon- 
tanarsi. 


1) TINDEMANN. — Tabulae arteriarum corporis humani. Carlsruhe 1822, 1824. 

2) CoLompo. R. — De re anatomica. Venetiis MDLIV. 

3) VerHRYEN F. — Anatomiae corporis humani. T. I, p. 871. Coloniae 
MDCCOXII. 

4) WisLow. — Esposizione anatomica della struttura del corpo umano, Ed. 
Bertinelli. Venezia 1767. 

5) Tmers F. G. — Traité de miologie et d’ oO, Trad. A.J.L.Jourdan, 
pag. 566. Paris 1843. 5 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 15 


Veggansi a tale proposito LautH !), Murray ?), BarcLAY 5), BLANDIN 4), 
Hopssox 5), Bizor 5), DusrurIL *), CruverLzIER 5), Hier *), SappEY 19), 
DesieRRE 11), Krause 1°), HenLe ‘), GeGENBAUR !), RauBER !5), Tr- 
stut 1), HrrrzManN 1), StieDA 1), Quan !9), WROBLEWSKY, PoOIRIER °°), 
Romiti >). 

Non mancò poi chi, come TOUSSAINT, diede opera a qualche statistica, 
ma qui conviene osservare che la statistica ha un valore molto rela- 
tivo, quando non sia fatta con un criterio appoggiato sopra l'anatomia 


i) LaurH E. A. — Anomalies dans la distribution des artères de V homme. 
Mem. de la Soc. d’hist. nat. de Strasburg. Paris T. I, L. 2. 

2) MurRrAY A. — Descriptio arteriarum corporis humani tabulis redacta. Upsal 
1783, 1798. 

3) BarcLAay J. — A description of the arteries of the human body. Edimburgo 
1818. 

4) BLANDIN. — Nouveaux éléements d’ anatomie descriptive. Paris 1838. 

5) Hopason J. — Traité des maladies des artères et des veines. Trad. par J. 
BrecHET. Paris 1819. 

5) Bizor. — Recherches sur le coeur et le système artériel. Mem. de la Soc. 
medicale d’ observation. T. I, pag. 262. Paris 1836. 

7) DusruBIL F. M. — Des anomalies arterielles. Paris 1847. 

8) CRUVEILHIER. — Traité d’ Anatomie descriptive. T. III, p. I, Paris 1867. 

°) HrrrL G. — Lehrbuch der Anatomie des Menschen. Wien 1889. 

10) Sappey PH. — Traité d’ anatomie descriptive. Paris 1876. 

14) DEBIERRE CH. — Traité élémentaire d’ anatomie de l’ homme. T. I. 

12) KrAUSE. — Specielle und macroscopische Anatomie. Annover 1879. Bd. II. 

13) HenLE J. — Anatomie. Lehrbuch der Geftisslehre des Menschen. Braun- 
schwei® 1876. 

14) GEGENBAUR C. — Lehrbuch der Anatomie des Menschen. Leipzig 1892. 

15) RAUBER. — LeAhrbuch der Anatomie des Menschen. Leipzig 1892. Gefcisslehre. 
pag. 160. 

16) Tesrur L. -— Traité d’ anatomie humaine. Paris 1889. 

17) HeIrrZMANN C. — Die descriptive und topographische Anatomie des Men- 
schen. Wien 1884. — Anatomia umana descrittiva e topografica. Ediz. ital. Lap- 
poni. Bologna 1897. 

18) StiepA L. — Ein Vergleich der Arterien des Vorderarmes des Unterschen- 
kels. Verhandlungen der Anatomischen Gesellschaft. Achten Versammlung in 
Strassburg. Jena 1891, pag. 108. 

19) QuaIn ’s Elements of Anatomy.V. II, p. II. London 1892. 

Quan J. — Trattato completo di Anatomia umana. Trad. LacHi. Milano. 

20) Porrier P. — Traité d’ anatomie humaine. Paris. 

2) Romiti G. — Trattato di anatomia dell’ uomo. Vol. I. 


16 G. SALVI 


comparata e l’embriologia. Esistono varietà arteriose date solo dall’ au- 
mento di calibro di un vaso collaterale e dalla diminuzione di uno prin- 
cipale, e queste fra tante altre cause di ordine meccanico possono be- 
nissimo dipendere dalle speciali attitudini dell’individuo, trattandosi spe- 
cialmente di vasi così superficiali, e nello stesso tempo così in rapporto 
con lo scheletro e con le articolazioni. 

In una nota precedente io ebbi già a richiamare.l’attenzione sopra 
alcune anomalie dell’arteria dorsale del piede, e ciò mi trasse a fare 
qualche considerazione con quello che avevo osservato in una scimmia 
del genere macacus sinicus. 

Ricerche ulteriori più estese sia nell'uomo che nei mammiferi infe- 
riori unite ai risultati ottenuti da altri osservatori, mi hanno messo di-. 
nanzi a tali fatti che mi hanno convinto che un altro ordine di descri- 
zione dovesse esser dato a queste arterie. 


Materiale e metodo di studio. 


Ho dissecato i piedi di 100 individui di età e sesso diversi e, per 
quanto è possibile in cadaveri che vengono alla sala anatomica, di di- 
verse attitudini. Per le scimmie non ho potuto avere che individui ap- 
partenenti ai generi Macacus sinicus, Macacus erythraeus, Rhesus nemestri- 
nus, Hapale penicillatus e molto ho dovuto valermi dei dati con differente 
indirizzo e per vario scopo raccolti da altri ricercatori. Per gli altri mam- 
miferi la scelta e la raccolta del materiale m’è stata più facile ed ab- 
bondante. Per le iniezioni mi sono servito quasi esclusivamente della 
massa di TricaMANN alla quale ho apportata però una leggiera modifi- 
cazione. 

Uno degli inconvenienti di questa massa è la difficoltà che si incontra 
a prepararla tanto dura che, una volta evaporato il liquido solvente 
(etere o solfuro di carbonio) la pasta rimanga tale che non possa più 
fuoriescire dai vasi alla minima lesione. Se la si inietta troppo densa è 
molto difficile farla penetrare nelle diramazioni più piccole; se troppo 
fluida, solidifica tardi e perdendo del suo volume lascia vuoti i vasi. 

Ho ovviato a questi inconvenienti mescolando alla pasta nello scio- 
glierla, una piccola quantità di acetato dî piombo. In tal modo la pasta 
anche se iniettata piuttosto liquida solidifica ben presto. 

Ho trovato poi utilissima in queste iniezioni la cannula a vite ideata 


dal prof. HocHSTETTER. | 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 17 


Ho usato anche le iniezioni a sego e cera, ma queste non danno 
buoni e costanti resultati, quando si tratta di riempire vasi situati profon- 
damente ed in special modo fra le ossa. 


Infine debbo avvertire che ho ridotto tutte le differenti denomina- 
* zioni, che attraverso la letteratura anatomica hanno ricevuto i vasi che im- 
prendo a studiare, alla nomenclatura adottata dalla Società Anatomica. 


18 G. SALVI 


RICERCHE... 


Ho divise le mie ricerche in 3 parti. La prima comprende / omo, 
la seconda primates e prosimiae, la terza gli altri mammiferi. 


Uomo. 


Secondo le mie osservazioni, e tenendo conto anche di quelle di altri 
Fic. 1 ricercatori, le disposizioni che può 
I i assumere la arteria dorsalis pedìs 
nell'uomo, si possono ridurre a tre 
VI A tipi. 
Viene anzitutto quella così detta 
normale, nella quale il tronco primo 4 
è l'arteria dorsalis pedis e suoi rami 


pra 


collaterali sono: la. tarsea lateralis, 
le aa. tarseae mediales e Va. arcuata 
con la rete dorsale pedis interposta 
ad esse, le aa. metatarseae dorsales 
e le aa. digitales dorsales originan? 
tisi dalla a. arcuata (fig. 1). Riproduco + 
questa disposizione alla fig. 1 nel 
modo, dirò così, più classico che io 
abbia osservato, e quale trovasi ripor- 
tata nei trattati. Questa disposizione 
in 200 piedi non l’ho trovata che 
19 volte, e tale fatto non deve stu- 
pire, giacchè da quanto verrò espo- 
nendo si vedrà come basti la minima 
variazione di essa per cadere in quella 
che ora vado a descrivere. 

Il secondo tipo è caratterizzato 
dalla mancanza della a. arcuata. In 


questa disposizione si ha la. tarsea 

Avterie del dorso del piede destro di uomo. lateralis molto sviluppata, Spesso di 

A, A. tibialis antica; B-C, A. dorsalis pedis calibro maggiore della a. dorsalis pedis, 

della descrizione classica; D, A. tarsea il più delle volte di calibro uguale, 
lateralis; 7, AA. metatarscae dorsales; } } sg 

E, Rami anastomotici sagittali fra a. ed è da essa che si vedono originare 


VRNSORTIAACEALSIe TRL RT CURIE: le aa. metatarseae dorsales spesso di 
tutti talvolta dei soli (fig. 2) 2 ultimi spazi interossei, mentre quella del 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 19 


2.° il più comunemente nasce dal tronco dell’a. dorsalis pedis. La dispo- 
sizione stessa trovasi riprodotta alla fig. 2, e se si confronta questa 


x 


con la fig. 1, si vede subito che essa è dovuta alla esagerazione di 


calibro assunta dai rami della così detta 
rete dorsale tarsi, i quali evidentemente 
rappresentano la porzione più prossi- 
male delle aa. metatarseae  dorsales 
atrofizzate, mentre hanno assunto mag- 
giore sviluppo quelle anastomosi che 
esistono od esistevano fra esse in cor-: 
rispondenza della base dei metatarsi, 
e l'insieme delle quali costituisce l’a. 
arcuata. 

La statistica conferma questa ipo- 
tesi e dà il primo posto a questa se- 
conda disposizione; infatti su 200 casi 
l’ho osservata, con leggiere varianti, 
137 volte. 

Il 3.° tipo apparisce subito, ove si 
dia uno sguardo alla fig. 3 che lo rap- 
presenta, come una condizione per così 
dire esagerata dello stato di. cose de- 
scritte. La «a. tarsea lateralis prevale 
sopra la a. dorsalis pedis, onde questa 
è ridotta ad un ramo collaterale di 
quella ed apparisce come una (fig. 3) 
comune a. metatarsea dorsalis simile alle 
altre 3 che insieme ad essa originano 
dalla a. tarsea lateralis. Sopra 200 piedi 
ho trovata questa disposizione, più 0 
meno variata, 35 volte. 


Le considerazioni alle quali portano 
questi fatti sono molto semplici. 
La statistica dimostra evidente- 


Fia. 2. 


al nai 


J 


N02 


Arterie del dorso del piede destro di uomo. 


A, A.tibialis antica; -B, A. dorsalis pedis 
comunis; €, A tarsea medialis; D, A. 
tarsea lateralis; 7, AA. metatarseae 
dorsales risultanti dalla continuazione 
stabilitasi fra è vasi E, F della fig. 1. 


mente essere il 2.° tipo il più costante: bisogna quindi vedere se appog- 
giandosi ad essa, e stando sempre alla pura osservazione dei fatti possa 
venire questo tipo interpetrato come il normale; e se e come gli altri 
possono riportarsi ad esso e venire spiegati come varietà. 


Sc. Nat., Vol. X VII 


20 G. SALVI 


Stando alla disposizione tipica riprodotta dalla fig. 2, noi vediamo 
l'a. tibialis antica continuare in una a. dorsalis pedis, la quale ben 


Fic. 3. 


Arterie del dorso del piede destro di uomo. 


A, A. tibialis antica; -B, dorsalis pedis 
comunis; D, A. tarsea lateralis forte- 
mente sviluppata; F, AA. metatarseae 
dorsalis; C, A. tarsea medialis afrofica e 
ridotta al volume di una a. metatarsea 
dorsalis. 


presto si divide in due rami pres- 
sochè uguali di volume e dei quali 
uno va al 1.° spazio a rinforzare il 
circolo plantare, o rinforzato da esso, 
e fornisce la 1.8 e talvolta la 2.* a. 
metatarsea dorsalis. L'altro volge in- 
vece lateralmente costituendo l'a. 
tarsea lateralis degli autori, ed è 
quello che provvede di sangue la 
maggior parte della superficie dor- 
sale del piede. Esso infatti oltre le 
aa. metatarseae dorsales degli ultimi 
due spazi e talvolta anche del 2.° 
dà rami al m. extensor digitorum brevis 
ed alle parti molli del seno del tarso 
e del dorso e del margine laterale 
del piede. 

Se si tiene conto quindi delle parti 
che i due rami devono provvedere, 
è certo che l’importanza maggiore 
spetta al laterale, e ciò spiega il suo 
volume, mentre il calibro uguale e 
talvolta anche maggiore del ramo me- 
diale deve essere certamente derivato 
dalla larga inosculazione con la a. 
plantaris lateralis mediante il ramus 
plantaris profundus. A queste consiì- 
derazioni desunte dal puro esame dei 
fatti vedremo come in seguito se ne 
aggiungeranno altre di maggiore im- 
portanza ispirate dalla anatomia com- 
parata. 


Importante è poi che in molti trattati, come per esempio in HENLE 4), 


1) HenLE. — Anatomie. Gefcisslehre. p. 318, fig. 101. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 21 


Quan !), Krause ?), DEBIERRE *), RAUBER 4), HEITZMANN °), l'arteria dorsalis 
pedis trovasi fisurata secondo il tipo da me descritto, mentre la descri- 
zione è fatta poi secondo quella classica. Questo evidentemente devesi 
spiegare col fatto che la figura riproduce un preparato. Un altro esempio 
si trova nel recentissimo Atlante di ToLpt %), dove l'a. tarsea lateralis è 
fisurata dello stesso calibro dell’a. dorsalis pedis. In altri trattati poi, 
come per esempio in PorrieR ‘), le figure sono anche più istruttive. La 
arteria è rappresentata secondo la descrizione classica, ma è tale la di- 
sposizione dei vasi della così detta rete dorsale tarsi che le considerazioni 
da me fatte appaiono subito evidenti. La rete dorsale tarsi è costituita 
da rami prevalentemente a decorso sagittale i quali in generale sono 3: 
i due più laterali si distaccano dall'arteria tarsea lateralis, il mediale dalla 
dorsalis pedis, e vanno tutti a raggiungere la. arcuata in corrispondenza 
della origine delle metatarseae dorsales (fig. 1 de), essendo riuniti da 
anastomosi trasversali. 

Essi rappresentano la porzione prossimale delle aa. metatarseae dor- 
sales e, se si conservano bene sviluppati, allora queste appariscono, come 
veramente sono, originate dalla a. tarsea lateralis; se si atrofizzano e si 
sviluppano invece per il compenso i rami anastomotici trasversali, allora 
si forma l'a. arcuata. 

Il seguito di questo lavoro dimostrerà come oltre la frequenza stati- 
stica, altre e più potenti ragioni stiano a dimostrare ‘che la prima di- 
sposizione deve essere considerata come normale. 

Per il tipo 3 la spiegazione è ancora più facile. Esso dimostra 
l’importanza della «. tarsea lateralis. L’anastomosi della dorsalis pedis 
(a. tarsea medialis) con la a. plantaris lateralis è ridotta, e quella 
ha preso il suo vero carattere: di una, la 1.8, delle aa. metatarseae 
dorsales. 


1) Quan’s Elements of Anatomy. V. IL, p. II, pag. 501. London 1892. 

2) Krause. — Speczelle und macroscopische anatomie. Annover 1879, Bd. II, 
pag. 659, fig. 403. 

3) DeBIieRRE Ch. — Traité élmentaire d’ Anatomie de V homme. T. I, pag. 
639, fig. 266. 

4) RAUBER. — Loc. cît., pag. 160, fig. 124. 

5) HEITZMANN C. — Loc. cit., pag. 234. Ediz. ital. 750, pag. 537. 

6) ToLpr C. — Anatomischer Atlas, p. 633. Wien und Leipzig, 1898. 

7) Porrier P. — Traité d’ Anatomie humaine. Paris T. II. Angetologie, pag. 
844, fig. 455. 


99. ‘G. SALVI 


Vi possono essere poi dei casi, ed io ne ho trovato alcuno, nei quali 
l’a. dorsalis pedis proviene dal ramus perforans della a. peronea, o da 
una sorta di anastomosi per convergenza fra questa e la tibialis antica. 
Questi casi si spiegano facilmente. 

È normale una ampia (fig. 5) anastomosi fra il ramus perforans e 
l’a. tarsea lateralis: ‘questa anastomosi può prendere un forte sviluppo 
e costituire essa il tronco della a. dorsalis pedis, la quale trovasi in tal 
caso spostata lateralmente. L°a.tibialis antica termina il più delle volte 
con un esile ramoscello, che si inoscula in quella rappresentando la vera . 
a. dorsalis pedis atrofica. 

Ho trovato questa varietà solo sei volte, e mi sembra che dimostri 
ancora di più l'importanza della a. tarsea lateralis. 


‘ 

E qui passo a descrivere una disposizione vasale costante, che io 
credo di avere osservata per il primo, e che il seguito di questo lavoro 
dimostrerà quale importanza abbia. 

Gli antichi anatomici, TIEDEMANN ‘), HALLER ?), LuscHKA 5) accennarono 
vagamente ad una piccola arteria la quale, nascendo dalla arteria trasversa 
del dorso del tarso (a. tarsea lateralis) o da un’altra del dorso del piede, 
si insinuava nel seno del tarso e sboccava nella pianta anastomizzandosi con 
la a. plantaris medialis. Sebbene non ne abbiano data alcuna descrizione, 
sembra però che essi ritenessero questa arteria sboccare alla pianta del 
piede perpendicolarmente, passando fra lo scafoide ed il cuboide per 
raggiungere appunto l’a. plantaris lateralis. 

Hyrmt ‘) dichiara quest’ arteria costante, e descrive come anomalia un 
caso nel quale essa, sviluppatissima, rappresentava un’ampia anastomosi 
fra il circolo dorsale e quello plantare del piede. 

LeBoucq °) studiando la morfologia del tarso ha trovato un vaso vo- 


1) TIEDEMANN. — Loc. cit. pag. 36, Tav. IX... 

?) HALLER. — Icon. anat. 1853. 

3) LuscHKAa H. — Die Anatomie der Glieder des Menschen. III, I, pag. 456. 
Tiibingen 1865. 

4) HvyrtL. I. — Normale und Abnorme Verhiiltnisse der Schlagadern des Un: 
terschenkels. Denksch. d. Kais. Akad. Bd. 23. Wien 1864. : 

5) LeBouco. — Sur la morphologie du carpe et du tarse. Anat. Anz. 1866, 
pag. 18. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 23 


luminoso, il quale scorre nello spazio che rimane, allorchè il sustentaculum 
tali non è ancora sviluppato, fra l’astragalo ed il calcagno, ed il quale, 
allorchè il sustentaculum stesso si sviluppa e lo spazio si restringe, di- 
minuisce di volume. LEBOUCQ opina che questo grosso vaso rappresenti 
nell’embrione quello descritto da TreDEMANN e da HyRrL nell’adulto, e 
che l’anomalia riscontrata da HyRrL non sia che la permanenza della 
condizione embrionale. 

I trattati successivi non parlano di quest’arteria anastomotica, tra- 
scurandola completamente. 


LeBOUCQ osservò questo vaso in sezioni istologiche del piede di un 
embrione umano di 18 mm. ed io non posso che confermare ciò che egli 
ammise. Allorchè il sustentaculum tali non è ancora sviluppato si trova 
appunto al suo posto un vaso molto voluminoso, il quale in sezioni oriz- 
zontali del piede apparisce tagliato trasversalmente. 

‘ Stando alle descrizioni già date ed alla osservazione di LEBOUCQ, 
questo vaso, sviluppandosi il sustentaculum tali, dovrebbe essere come 
spostato in avanti per situarsi nel canale che si viene a formare fra i 
quattro ossi: calcagno ed astragalo in dietro, scafoîde e cuboide in avanti, 
onde sboccare nella pianta del piede per anastomizzarsi con la. plantaris 
medialis. 

Ma in realtà ciò non avviene, e LeBouco non l’ha potuto notare, 
perchè ha osservata la cosa solo incidentalmente. 

Ho iniettato piedi appartenenti ad individui di varia età, a feti a 
termine, e ad embrioni, e per i più piccoli di questi sono ricorso allo 
studio di sezioni in serie, ed ecco quanto ho constatato. 

Dal tronco dell’arteria tibialis postica, molto prima della sua divi- 
sione nelle due aa. plantares, nasce un ramo cospicuo il quale volge 
subito verso la tuberosità dell’astragalo che limita medialmente il solco 
del flessore proprio dell’alluce. Circonda questa tuberosità passando sotto 
il tendine del m. flexor digitorum longus e quindi sotto quello del wm. 
tibialis posterior e costeggia la articolazione fra l’astragalo ed il calcagno, 
passando al di sotto del malleolus medialis (fig. 5). 

Giunta qui l’arteria si divide in 2 rami. Uno seguita trasversalmente 
in avanti, penetra nell’articolazione tibio-astragalica, scorrendo lungo la 
superficie mediale dell’astragalo e si distribuisce all’articolazione stessa: 
è un vero ramus articularis. L'altro si approfonda subito sotto il liga- 
mento mediale della articolazione tibio-astragalica fino all’orifizio del 


24: G. SALVI 


canale che rimane fra le superfici articolari corrispondenti, prossimali 
e distali, dell’astragalo e del calcagno, penetra in questo canale e lo 


Fia. 4. 


| 


2241}, 


Arteria tibialis postica e arteriae plantares dell'arto destro di uomo. 


I, A. tibialis postica; M, A. plantaris medialis; L, A. plantaris 
lateralis; 47, A. anastomotica tarsi (tronco plantare). 


percorre seguendone la direzione dall’ indietro all’avanti e dall’ interno 
allo esterno, fino a che viene a sboccare nel seno del tarso. Qui l’ar- 
teria si divide in vari rami. È un vaso cospicuo e che ho trovato 
perfettamente costante nei vari individui e nelle varie età. Nel piccolo 
è proporzionalmente più grosso. Le sue terminazioni si anastomizzano 
ampiamente con un’altra arteria che proviene dal circolo dorsale del piede. 

Questa arteria nasce come un tronco di volume ragguardevole il più 
spesso dalla arteria tarsea lateralis, potendo però presentare alcune va- 
rietà che ho osservate e che descriverò in seguito. 

Contorna la testa (fig. 6) dell’astragalo e penetra nel seno del tarso 
fino all'imbocco del canale sopra rammentato. Qui si anastomizza am- 
piamente con quella proveniente dalla tibiale posteriore e la anastomosi 
spessissimo non si fa solamente per le terminazioni, ma per un grosso 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 25 


tronco che si continua direttamente con l’altro. Ho trovata questa di- 
sposizione più marcata e più frequente nel piccolo. 


Fic. 5. 


Arterie del dorso del piede destro di uomo. 


A, A. tibialis antica; B, A. dorsalis pedis comunis; €, A. 
tarsea medialis; D, A. tarsea lateralis; H, A. anastomotica 
tarsi (tronco dorsale). 


Seguendo questo vaso nelle sezioni in serie del piede di un embrione 


Fic. 7. 


Preparato fatto disarticolando dall’a- 
stragalo le altre ossa del tarso. 


Faccia plantare dell’astragalo destro di uomo. Piede destro di bambino di 1 anno. 
e. A. tarsea medialis; D, A. tarsea lateralis; 7, I, A. tibialis postica; 7, A. anasto- 
A. tibialis postica; H, A. anastomotica tarsi. motica tarsi. 


umano di mm. 22, ecco quanto ho osservato. 


26 G. SALVI 


Il sustentaculum talì è poco sviluppato ed esiste quindi un largo 
canale attraverso il tarso. In questo canale è un grosso vaso il quale, 
seguìto nelle sezioni, apparisce evidentemente come una arcata arteriosa 
anastomotica fra il circolo della tibialis antica e quello della #ibialis 
postica. 

In embrioni più avanzati, sviluppatosi completamente il sustentaculum 
tali, il vaso trovasi rimpiccolito e spostato alquanto lateralmente, ma 
questo spostamento è solo apparente, giacchè il sustentaculum saldan- 
dosi al corpo del calcagno produce lateralmente quella doccia, che con- 
tribuisce a formare il canale del tarso, onde l’arteria rimane pressa 
poco al suo posto. 

In tal modo, esiste normalmente e costantemente un vero cerchio 
arterioso fra la tibialis anterior e la tibialis posterior attraverso l’arti- 
colazione della prima fila delle ossa del tarso (fig. 7 e 8). 

Dò a questa arteria il nome di arteria anastomotica tarsi. 


La disposizione che ho descritta va soggetta ad alcune leggiere 
variazioni : 

L’a. anastomotica tarsi il più spesso nasce dalla a.tarsea lateralis, 
ed è così grossa che ne apparisce come un ramo di biforcazione. Tal- 
volta apparisce invece come la terminazione di quest’arteria. 

L’ho vista nascere separatamente dal tronco della a. dorsalîs pedis 
comunis ed una volta anche dalla a. malleolaris lateralis. 


Riassumendo. In base alla statistica ed alle considerazioni che emer- 
gono dall’osservazione e dall'esame critico delle disposizioni da me ri- 
scontrate su 200 casì e dai ricercatori che mi hanno preceduto, io credo 
che il tipo da ritenersi normale nei vasi del dorso del piede umano 
sia il seguente: L’arteria tibialis antica termina nella a. dorsalis pedis 
comunis, la quale a vario livello (talvolta subito) si divide in arteria 
tarsea lateralis ed arteria tarsea medialis. 

L’arteria tarsea medialis è la dorsalis pedis degli autori, e continua 
verso il 1.° spazio interosseo fornendo le aa. metatarseae dorsales del 
1.° e del 2.° spazio, i rami tarseì laterales e il ramus profundus. Essa è 
omologa ad una comune metatarsea, ed il suo calibro maggiore è dovuto 
all’ampia anastomosi col circolo plantare attraverso il 1.° spazio inte- 
rosseo. Il seguito di questo lavoro dimostrerà come il ramus profmdus 


to 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 27 


sia uno dei rami perforantes prossimales, che esistono fra le aa. meta- 
tarseae dorsales e le plantares, sviluppatosi in seguito alla atrofia forse 
dell’a. anastomotica tarsi, che in altre condizioni stabiliva la comunicazione 
fra circolo plantare e circolo dorsale. 

L’arteria tarsea lateralis volge lateralmente, e vascolarizza tutte le 
parti molli del tarso. Dà le metatarseae dorsales III e IV e l'arteria 
anastomotica tarsi. 


Varietà dell’ arteria dorsalis pedis. 


In 200 casi da me osservati ho trovato molte disposizioni dei vasi 
del piede, le quali, per quanto possano essere raggruppate sotto i 3 tipi 
presi in considerazione, pure meritano di essere descritte. 

Alcune di esse furono già osservate dai ricercatori che mi hanno pre- 
ceduto, ma descritte e spiegate con altro indirizzo, altre non trovo ram- 
mentate nella letteratura. 

Ciò nonostante mi limito solo a quelle che possono avere interesse 
per il presente lavoro e delle quali dovrò servirmi in seguito. 

1. L’arteria tibialis antica si divide in a. tarsea lateralis ed a. tarsea 
medialis in corrispondenza del ligamento trasverso del tarso. Qui l’arteria 
arcuata non è rappresentata che da quel piccolo ramo trasversale che, 
in corrispondenza dei cuneiformi, rappresenta l'origine della arteria me- 
tatarsea dorsalis II originantesi dalla I o dal tronco della tarsea me- 
dialis; e da quello che rappresenta l’origine della metatarsea III dalla IV 
(fig. 8). 

Ho trovata questa disposizione molto frequente, e in 3 casi la divi- 
sione avveniva al di sopra del ligamento trasverso. È caratterizzata 
quindi dalla mancanza di a. dorsalis pedis comunis. 

2. La divisione avviene tanto in basso che l’u. tarsea lateralis 
decorre addirittura trasversale sul dorso del piede. È certo una dispo- 
sizione simile che, osservata dagli autori, valse a questa arteria il nome 
di a. trasversa del tarso. Si comprende che quanto più la divisione av- 
viene in basso tanto più la a. tarsea lateralis tende a divenire trasver- 
sale. Ciò può esagerarsi al punto da non apparire più come una divisione 
dicotomica, ma come se la a. tarsea medialis nascesse dalla convessità 
della lateralis. 

3. Quella rete arteriosa sottile che riunisce fra loro, in corrispon- 
denza della base dei metatarsi, le arterie metatarsee, può differenziarsi 


28 G. SALVI 


sotto forma di un tronco anastomotico più grosso fra le metatarseae 
dorsales II, ITI onde si comincia ad avere un passaggio alla disposi- 
zione descritta come normale. 


Fic. 8. 


4. Le tre prime aa. metatarseae 
dorsales vengono dalla @. tarsea me- 
dialis e solo l’ultima dalla lateratis. 
Oppure avviene l'inverso. Un grado 
più avanzato della prima disposizione 
porta evidentemente al tipo classico. 

5. L’arteria tarsea medialis appa- 
risce come la continuazione dell’arteria 
tibialis antica e da essa si dipartono 
successivamente tre rami che vanno agli 
spazi interossei, (aa. metatarseae dor- 
sales II, III, IV). Il più prossimale 
di questi rami, quello che va. al 4.° 
spazio, rappresenta l’a. tarsea lateralis 
ed è infatti da essa che si dipartono i 
rami che vanno al m. extensor brevis, 
al margine laterale del piede, al seno 
del tarso, e l’a. anastomotica tarsi. 

Questa disposizione è molto rara ed 
io non l'ho trovata che una volta. 


Altre varietà sono relative poi oltre 
che ai rami secondari, ai tronchi delle 
aa. tarseae medialis e lateralis ed inte- 
ressano più specialmente il volume e 
la direzione di esse. 

Arterie del dorso del piede destro di uomo. Sono frequenti ed accoppiate spesso 


A, A. tibialis antica; 0, A. tarsea medialis; alle altre Sopra descritte. 
D, A. tarsea lateralis. 


1. L’a. tarsea medialis può essere 
solo spostata lateralmente in modo da apparire, a seconda del suo 
calibro, più o meno come un ramo della a. tarsea lateralis. In tal caso 
nulla è cambiato nella distribuzione, e si ha solo un cambiamento di 
rapporti nei tronchi principali. 

2. Una esagerazione di ciò si ha nell’altro caso, nel quale l'a. tarsea 
medialis è tanto piccola da eguagliare in volume le altre tre metatarseae 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 29 


dorsales, ed allora si hanno 4 rami uguali nascenti dalla convessità del- 
l’a.tarsea lateralis. Questa varietà costituisce il 3.° tipo. In essa abbiamo 
quattro rami arteriosi uguali, che percorrono sagittalmente il tarso e che 
possono nascere più o meno aggruppati. In un caso i tre ultimi nasce- 


vano da un peduncolo comune. 

3. Può invece, pur mantenendosi la 
disposizione descritta, conservare l'a. 
tarsea medialis il suo volume normale 
ed essere più piccola invece la lateralis. 
In tal caso l’a. dorsalis pedis appa- 
risce solamente spostata come se fa- 
cesse una curva all’esterno, ma siccome 
dall’ apice della curva emergono le 
arterie che vanno al margine laterale 
del piede, il tratto che è al di sopra 
rappresenta evidentemente l’«. tarsea 
lateralis. Avvalora questa ipotesi il 
fatto che da esso nasce la. anasto- 
motica tarsi, e l’altro che può mancare 
la metatarsea I, e le digitales corri- 
spondenti esser date dal circolo plan- 
tare. x 

4. L’a. dorsalis pedis volge late- 
ralmente verso il seno del tarso e 
quindi, piegando in avanti, dà origine 
dopo vario percorso ed in vario modo 
alle arterie metatarsae dorsales. Il più 
delle volte manca l'a. metatarsea I e 
le aa. digitales corrispondenti vengono 
dal circolo plantare (fig. 9). 

Il ramo obliquo rappresenta anche 
qui la. tarsea lateralis, perchè dalla 
curva sì distaccano i rami che vanno 
al margine laterale del piede, e qui 
l’arteria riceve l’anastomosi del ramus 


Fia. 9. 


Arterie del dorso del piede destro di uomo. 


A, A. tibialis antica; B, A. dorsalis pedis 
comunis; D, A. tarsea lateralis; H, A. 
anastomotica tarsi. 


perforans della peronea, e della malleolaris lateralis. Di più da esso 


origina l'arteria anastomotica tarsi. 


Il tronco può conservarsi unico fino al metatarso, spiccando nel suo 


30 G. SALVI 


tragitto solo un’ esilissima metatarsea prima rappresentante dell’a. tar- 
sea medialis. 

5. L’arteria tibialis antica si divide in tre rami: uno mediale e due 
laterali. Di questi ultimi uno va al margine laterale del piede, e l’altro 
dà le ultime due o tre aa. metatarseae 
dorsales. Il ramo mediale non è che 
la. tarsea medialis. (fig. 12). 

Questo fatto rappresenta la prema- 
tura divisione dell'a. tarsea lateralis.. 
Infatti il 1.° ramo è più specialmente 
destinato alle parti molli del tarso e 
continua direttamente nella a. anasto- 
motica tarsi. 


Fic. 10. 


Richiamo l’attenzione sopra questa 
disposizione, perchè l'ho trovata piut- 
tosto frequente . (circa 12 volte con 
qualche leggiera variante) e perchè ha 
gran valore come apparirà dal seguito 
di questo lavoro e da un altro che terrà 
dietro a questo. 


Infine altre varietà si riferiscono 
più specialmente all’ origine dell’a. dor- 
salis pedis. 

Ho già accennato all'origine dall’a. 
peronea. 

Gli altri casi che ho osservato sono ‘ 
i seguenti: ‘ 

1. L’a. tibialis antica e Va. pe- 
ronea (ramus perforans) sì riuniscono 
ad angolo subito al di sotto dei malleoli 
e dalla riunione si ha una nuova divi- 
sione in aa. tarseae lateralis e media- 


Arterie del dorso del piede destro di uomo. 
A, A. tibialis antica; B, A. dorsalis pedis 
comunis; €, A. tarsea medialis; D, A. 


tarsea lateralis; H, A. anastomotica lis. Questa disposizione riproduce una 
tarsi. 


x 


specie di lettera X: non è prodotta 

che dall’abnorme grossezza del ramo anastomotico della peronea. 
2. L’a. tibialis antica seguita in basso costeggiando il tendine del 
m. tibialis anterior e, giunta allo scafoide, si anastomizza ad arcata con 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 31 


la peronea perforans e dall’arcata nascono le quattro metatarseae; la I 
medialmente, le altre 3 raggruppate insieme lateralmente. 

In realtà il ramo trasverso dell’arcata rappresenta anche qui l’ a. 
tarsea lateralis. Lo dimostrano le diramazioni che da esso si dipartono 
e l’anastomosi stessa, qui abnormemente sviluppata, col ramus perforans 
della arteria peronea. 

Di molte altre varietà da me osservate non faccio parola, perchè 
già conosciute o perchè poco dissimili da quelle che ho già descritte. 

Passo invece alle osservazioni anatomo-comparative dalle quali rice- 
veranno luce e conferma i fatti, che ho reso noti in questa prima parte. 


Primates. 


La scarsezza del materiale e la difficoltà di procurarmelo, hanno 
ridotto in molti punti queste mie ricerche sui primates e sulle prosì- 
miae al puro controllo, però la quantità delle osservazioni e l’ autorità 
degli osservatori che mi hanno preceduto, mi hanno dato largo mate- 
riale ad un esame critico e di questo ho approfittato. 

In altri punti ho avuta la fortuna di portare anch’io il mio con- 
tributo. 


In seguito alle ricerche di Barkow !, TariLE ?), FicALBI ), Po- 
POWSKY 4), Royeoky °), EIssLER %), ZUCKERKANDL °), SPERINO *), ecc. noi 


1) BarKkow I. C. — Disquisitiones circa originem et decursum arteriarum 
mammalium. Lipsiae 1829, Caput. IX. Descriptio arteriarum plurimarum Cer- 
copitheci Sabaei. 

2) Tage W.-- Veber das Arteriensystem v. Simia Innus. Miller ’s. Arch. 1852. 

3) FicaLBI E. — Contribuzioni alla conoscenza della Angeologia delle Scimmie. 
Atti della R. Accad. dei Fisiocritici. Serie IV, Vol. I. Siena 1889. 


4) Popowsky I. — Phylogenesis des Arteriensystems der unteren Extremi- 
titen bei den Primaten. Anat. Anz. VIII, 1893, pag. 657. 
Popowsky I. — Das Arteriensystems der unteren Extremitiiten bei den 


Primaten. Anat. Anz. X, 1894, pag. 55. 

5) RoJECKY. — Sur la circolation arterielle chez le Macacus cymolgus et le 
M. synicus. Journal de l’Anatomie etc. 1889, 41. 

5) Eisser P. — Das Gefass. u. periphere Nerwensystem des Gorilla. Halle 2/, 
1890. 

7) ZUCKERKANDL. — Zur Anatomie und Entwicklungsgeschichte der Arterien 
des Varderarmes. Meckel’s und Bonnet's Anat. Heften 1894. 

8) SperINO C. — L’ Anatomia del Chimpanse. 


32 


G. SALVI 


possiamo dire che il tipo della. circolazione dorsale dell’estremità del- 
l’arto pelvico nei primates possa riassumersi generalmente in tal modo: 
I vasi arteriosi del dorso del piede sono forniti dalla arteria saphena 
per mezzo del suo ramo anteriore. 
Questo ramo, contornando il margine mediale della gamba si fa ven- 


Fis. 11. 


(ILA 


Piede destro di scimmia. 


A, Ramo anteriore dell’ arteria 
saphena; €, A. dorsalis pedis 
superficialis; D, A. dorsalis 
pedis profunda; H, A. ana- 
stomotica tarsi. 


trale ed a vario livello si divide in due rami, 
uno mediale ed uno laterale. 

Il mediale provvede il primo dito ed il 
lato mediale del secondo formando la prima. 
a. metatarsea dorsalis e le aa. digitales cor- 
rispondenti. 

Il laterale dà rami al tarso, al muscolo 
pedidio, al margine laterale del piede, e ter- 
mina con le tre ultime arterie metatarseae 
dorsales e le aa. digitales corrispondenti. 

Il primo di questi vasi passa al disopra 
del tendine del muscolo tibiale anteriore e . 
al di sopra del ligamento trasverso del tarso 
e ha ricevuto il nome di «. dorsalis pedis 
superficialis; l’altro passa al disotto ed è detto 
a. dorsalis pedis profunda. 

Tale disposizione è soggetta a varianti nei 
diversi generi di primati, ma queste interes- 
sano solo l’origine e la terminazione dei due 
rami, i quali si osservano costantemente. Tro- 
vasi riprodotta alla fig. 11. 

Fatta astrazione dalla origine di questi 
vasi dalla a. saphena invece che dalla a. ti- 
bialis antica, l’omologia con la disposizione 
umana da me descritta come normale appa- 
risce subito evidente e perfetta. 

Tenendo conto del decorso e del modo di 
distribuzione del tutto simile salvo la divisione 
più in alto, la. dorsalis pedis superficialis 


della scimmia non è che l'a. tarsea medialis dell’uomo, mentre la. dox- 


salis pedis profunda corrisponde all’arteria tarsea lateralis. 
Se si vengono poi a studiare queste disposizioni vasali nei singoli 
generi di primati, le prove di questa omologia si moltiplicano. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 33 


Stando sempre alle ricerche di PoPowsky !), noi vediamo p. es. in 
Ateles ater la divisione della safena nelle due aa. dorsales pedis farsi 
molto in alto, mentre in Orang satyrus si fa addirittura, sul dorso del 
piede. 

Finalmente in Hapale yaccus noi troviamo una disposizione, la quale 
rammenta molto quella umana della descrizione classica, pur conservan- 
dosi in essa intatto il tipo scimmiesco primitivo. 

In questo animale l’a. tarsea medialis (a. dorsalis pedis superficialis), 
prima di divenire a. metatarsea prùma, spicca 
un ramo il quale volge lateralmente incro- 


Fia. 12. 


ciando le terminazioni dell’a. farsea lateralis, 
anastomizzandosi con esse e contribuendo 
alla formazione delle aa. metatarseae ed alla 
circolazione delle dita. 


Le mie osservazioni sono state fatte in 
individui appartenenti ai generi: Macacus 
sinicus, Macacus erythracus, Rhesus neme- 
strinus ed Hapale penicillatus. 

In Macacus sinicus ho trovato l'a. dor- 
salis pedis superficialis molto esile, mentre 
l’a. dorsalis pedis profunda più grossa, si 
divideva a sua volta in due rami subito al 
disotto del ligamento anulare del tarso, uno 
dei quali diveniva poi la 2.* metatarsea, e 
l’altro la 3.* e la 4*. Questa disposizione ri- 
chiama molto quella umana nella quale la. 
tarsea lateralis trovasi assai più sviluppata 
della a. tarsea medialis (fig. 12). 

In Macacus erythraeus le due aa. dorsales 
pedis erano pressochè uguali di volume, però ’iede destro di Macacus sinicus. 
le aa. metatarseae dorsales 2.* 3.3 e 4.° non 4, Ramo anteriore dell’arteria 
nascevano come nella fig. 12. iaia, i ERO e 

perficialis; D, A. dorsalis 

La a. dorsalis pedis profunda decorreva pedis profunda; H, A. anasto- 
verso il 2.° spazio intermetatarseo continuando = ®tier-tasi. 
qui con una a. metatarsea molto grossa. In prossimità della base dei 


1) PopowsKy J. — Loc. cit. 


34 G. SALVI 


metatarsi si staccava da esso un ramo il quale, decorrendo trasversal- 
mente e lateralmente, dava la a. metatarsea III e terminava nella IV. 

Questa disposizione (fig. 16) accenna un po’ a quella della descri- 
zione classica nell’uomo (fig. 1), e dimostra la possibilità di arteriae 
metatarseae dorsales, le quali originino da un tronco comune trasversale 
alla base dei metatarsi. 

In Khesus nemestrinus la divisione delle due dorsales pedis avveniva 
subito al disotto del ligamento trasverso del tarso; erano di calibro di- 


Fre. 13. Fia. 14. 


e 


Piede destro di Rbesus nemestrinus. Piede destro di Hapale penicillatus. 


A, Ramo anteriore dell'a. sapheua , A, Ramo anteriore dell’a. saphena ; 
C, A, dorsalis pedis superficialis ; C, A. dorsalis pedis superficialis ; 
D, A. dorsalis pedis profunda; H, D, A. dorsalis pedis profunda; H, 
A. anastomotica tarsi. anastomotica tarsi. 


suguale essendo la profonda più grossa, e si distribuivano al metatarso 
ed alle dita come alla fig. 13. E importante questa disposizione perchè. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 35 


riproduce più di tutte quella umana: vediamo di fatti la divisione delle 
due aa. dorsales pedis avvenire proprio sul piede similmente a quella 
delle due aa. tarseae dell’ uomo. 

In Hapale penicillatus la divisione avveniva molto in alto e le due 
arterie erano di calibro uguale. In corrispondenza della base dei meta- 
tarsi, distaccavasi dalla dorsalis pedis superficialis la a. metatarsea IL. 
Dalla dorsalis pedis profunda originavansi le a a. metatarseae III, IV, 
(fig. 14). Tale disposizione richiama quella umana rappresentata dalla 
fig. 2. 


Gli autori, per quante ricerche io abbia fatte nella letteratura, non 
parlano di un ramo arterioso, il quale congiunga il circolo dorsale al 
circolo plantare del piede attraverso il tarso e sia quindi omologo al- 
l’a. anastomotica tarsì che ho descritta nell'uomo. 

Solo ErssLER ‘) nel Gorilla accenna ad una piccola arteria, ramo della 
a. dorsalis pedis, la quale va nel seno del tarso. i 

Le mie ricerche mi hanno mostrato nei generi da me studiati una 
a. anastomotica tarsi perfettamente omologa a quella dell’uomo. 

Essa però non è perfettamente uguale in tutti per l’origine sua. 
Ecco le disposizioni da me osservate: 

Macacus sinicus. — L’a. tibialis postica, proveniente dalla a. poplitea, 
seguita nella pianta del piede con le aa. plantares. In corrispondenza 
della articolazione tibio-astragalica, si distacca da essa un ramo molto 
esile il quale scendendo in basso penetra nel canale del tarso. 

Dal ramo laterale (fig. 12) della «. dorsalis pedis profunda si di- 
stacca invece subito al davanti del sinus tarsi un grosso ramo, il quale 
penetra nel canale del tarso e termina inosculandosi in quello prove- - 
niente dalla a. tibialis postica. 

Degno di nota è il fatto che in questa a. anastomotica tarsi il ramo 
dorsale è più grosso del plantare, e si spiega con questo che da esso 
sì dipartono una quantità di piccole diramazioni destinate alle parti 
molli ed alle ossa. 

Macacus erythracus. — Anche qui la. tibialis postica molto grossa 
seguita direttamente nelle aa. plantares. Il ramo plantare della anasto- 
motica tarsì nasce come in Macacus sinicus e solo un po’ più in basso, 
cioè presso al punto di biforcazione delle arterie plantari (fig. 16). 


1) EissLeR P. — Loc. cit. 
Se. Nat., Vol. XVII 3 


36 G. SALVI 


Il ramo dorsale invece nasce da un grosso ramo, il quale si origina 
dalla a. dorsalis pedis profunda e decorre lateralmente parallelo all’ a. 
malleolaris lateralis e subito al disotto di questa verso il margine late- 
rale del piede. Scende perpendicolarmente nel tarso, è dapprincipio molto 
grosso e si assottiglia in seguito per le diramazioni secondarie che manda. 

Rhesus nemestrinus. — La. tibialis postica molto assottigliata, viene 
rinforzata al quarto inferiore della gamba dal ramo posteriore della 
a. saphena che si unisce ad essa ad angolo acuto. È questa una dispo- 
sizione molto importante sulla quale dovremo tornare in seguito. 

Il ramo dorsale della a. anastomotica tarsi nasce dalla a. malleolaris 
lateralis, ramo della a. dorsalis pedis comunis, il plantare dalla @. ti- 
bialis postica (fig. 13). 

Hapale penicillatus. — L’a. tibialis postica, molto assottigliata, si 
esaurisce nei muscoli posteriori della gamba e viene sostituita in basso 
dal ramo posteriore dell’a. saphera, quello stesso che in Rhesus néme- 
strinus si anastomizza con la tibialis postica. Da esso nasce il ramo plantare 
i della a. anastomotica tarsi, mentre il dorsale nasce dalla 
dorsalis pedis profunda in prossimità del sinus tarsi 
e penetra in questo dopo breve tragitto (fig. 14). 

Il decorso intratarsale di questa arteria anasto- 
motica tarsì è press’ a poco uguale in tutti i generi 
esaminati. Il ramo dorsale molto più grosso del plan- 
tare dà molti ramoscelli alle parti molli delle arti- 
colazioni ed alle ossa e, assottigliato in tal modo, 
si inoscula nel ramo plantare costantemente più esile 


Fia. 15. 


e senza diramazioni. 
La fig. 15 rappresenta la disposizione in un gio- 
Piede sinistro vane individuo di Macacus erytraeus. 
di Macacus erythraeus. da te 6 " 
Non mi è stato possibile proseguire queste ri- 
Sono state disartico- È a H ER 
late dall’astragalo le Cerche nei primati superiori (antropomorfi) per man- 


altre ossa del tarso, canza di materiale, ma spero di poterlo fare in seguito. 
e messo allo sco- 


perto il canale del 
tarso. D, A. dorsalis Rimane adesso a stabilire l’omologia fra questa 


edis profunda; 77 È 5 5 " 5 -S0a E 
Fi o postica; @teria dorsalis pedis delle scimmie originantesi dal- 


H, A. anastomotica l'arteria saphena e l'arteria dorsalis pedis dell’uomo, 
tarsi. 


continuazione della a. tibialis antica. 
Divide ZUcKERKANDL ‘) le arterie della gamba, seguendone lo sviluppo 


1) ZUCKERKANDL. — Loc. cît. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 37 


filogenetico, in primarie e secondarie ed occupandosi più specialmente 
delle arterie posteriori. Seguendo questo Fia, 16. 

criterio ed applicandolo a quelle ante- lA 

riori, noi vediamo nelle scimmie una ar- 
teria tibialis antica primaria la quale si O 
esaurisce nei muscoli della regione ante- 
riore della gamba, mentre le arterie del 
dorso del piede vengono fornite dalla 
arteria safena. 

Dimostrò però PopPowsky in alcuni 
generi di primates un ramo anastomotico 
che univa la terminazione di questa arteria 
tibialis antica con l'a. dorsalis pedis pro- 
funda. 

Ho riprese e continuate le ricerche 
di PoPowsKy e, valendomi anche delle 
osservazioni di altri, sono giunto a poter 
stabilire definitivamente lo sviluppo filo- 
genetico dell’arteria dorsalis ‘pedis del- 
l’uomo. 

La fig. 16 rappresenta la disposizione 
delle arterie della regione ventrale della 
gamba e del piede in un individuo del 
genere Macacus erythraeus. 

In questo animale noi abbiamo una 
arteria fibialis postica molto sviluppata, la 
quale passa direttamente nel piede termi- 
nando con le due arteriae plantares. La 
tibialis antica invece, più esile si esaurisce 
nei muscoli della regione ventralé del- 
l’arto. 

L’arteria saphena, discretamente svi- 
luppata, al disotto dell’articolazione del ci anteriore della gamba e del 

piede destro di Macacus erythraeus. 

ginocchio si divide in due rami. Uno ven- ione 
trale, molto più grosso, tanto che appa- riore dell’a. saphena; €, A. dorsalis 
: ; n È pedis superficialis; D, A. dorsalis 

risce come la continuazione dell’ arteria, Dedis' profunda; (PD, Ramus perfo- 
sì divide poi nelle due arferiae dorsales ans della. peronea; R, Ramo ana- 
pedis (superficialis 5 profunda), l’altro stomotico; 4, A. anastomotica tarsi. 


posteriore, è esilissimo e termina anastomizzandosi con l’a. tibialis postica. 


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38 G. SALVI 


Fra la tibialis antica e la dorsalis. pedis intercede una anastomosi 
più ampia di-quella osservata da Popowsky in Ateles ater. Essa può dirsi 
doppia. Un raino cospicuo della tibialis antica accompagna il nervo omo- 
nimo e, giunta al disotto del ligamento trasverso, si getta sulla a. dor- 
salis pedis profunda. 

Un altro ramo decorre profondamente, addossato alla membrana in- 
terossea e si anastomizza ampiamente col ramus perforans della a. pe- 
ronea e con un ramo collaterale della dorsalis pedis profunda parallelo 
alla. malleolaris lateralis, la quale trovasi più in basso. 

Fra l’a. dorsalis pedis profunda, e la. dorsalis pedis Bei 
intercedono al di sotto del legamento trasverso molti rami anastomotici. 

Negli altri generi esaminati ho sempre trovate poi più o meno svi- 
luppate queste anastomosi. i 

Tali resultati fanno la luce su alcuni punti della filogenesi delle ar- 

terie della gamba e del piede lasciati insoluti dalle ricerche di PoPOWSKI 
e di ZUCKERKANDL. 
Infatti, avendo Erowue dimostrata nelle scimmie una anastomosi 
fra la terminazione della a. tbialis antica e la a. dorsalis pedis profunda, 
se ne poteva dedurre che, atrofizzata la saphena e diventata questa la 
via principale sanguigna, l’a. dorsalis pedis dell’uomo provenisse dalla 
a. dorsalis pedis profunda delle scimmie mentre l’a. dorsalis pedis super- 
ficialis avrebbe subìto lo stesso destino della saphena. Le mie ricerche 
tolgono questo dubbio. Prima di tutto fanno vedere come in taluni ge- 
neri di primates, possa la divisione delle due aa. dorsales pedis avvenire 
molto in basso, al di sotto del ligamento trasverso, ed al di sotto quindi 
della anastomosi con la a. tibialis antica. In secondo luogo le anastomosi 
dimostrate fra le due aa. dorsales pedis sul dorso del piede, spiegano come 
possa avvenire più facilmente ancora lo spostamento in basso di quella 
divisione. 

Infine, l’anastomosi fra ramus perforans dell’ a. peronea, tibialis antica 
e a. dorsalis pedis spiega ampiamente la possibilità che la. dorsalis pedis 
stessa apparisca provenire dalla prima. 

Questi dati trovano poi conferma nelle osservazioni di altri ricercatori. 

Nello Chimpansé, ZUcKERKANDL *), descrive e figura un’ampia anasto- 
mosì fra la tibialis antica, la dorsalis pedis profunda ed il ramus per- 
forans dell'a. peronaca. In questo animale il ramo anteriore della safena 


1) ZUCKERKANDL. — Loc. cît. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 39 


dava una dorsalis pedis superficialis sviluppatissima ed una esile invece 
dorsalis pedis profunda, alla quale veniva ad unirsi, rinforzandola, la termi- 
nazione della a. tibialis antica. 

Nell’Orang poi, lo stesso autore ha osservato un grado di evoluzione 
assai più avanzato. 

Il ramo anteriore della safena dà solo l'a. dorsalis pedis superfi- 
cialis, mentre la a. d. p. profunda viene data, come continuazione, dal- 
l’a. tibialis antica. ZuckERKANDL non parla di un ramo anastomotico fra 
le due, ma confessa che l’iniezione del soggetto non era riuscita molto 
bene. 

FissLEer nel Gorla trovò: dal lato sinistro il circolo dorsale del piede 
provveduto dalla «. saphena, mentre a destra la a. tibialis antica conti- 
nuava in una a. dorsalis pedis, la quale provvedeva il m. pedidio, man- 
dava un piccolo ramo nel seno del tarso, dava medialmente una piccola 
anastomosi alla a. saphena nel 3.° spazio e terminava quale arteria tar- 
sea lateralis nel 3.° o 4.° spazio ed al margine fibulare del piede. Di- 
sposizione questa simile a quella osservata da ZUucKERKANDL nello Orang. 


In tal modo, in base alle omologie stabilite con i primati, noi pos- 
siamo ricostruire l'origine filogenetica delle arterie del dorso del piede 
e della gamba dell’uomo. 

Nelle condizioni più basse (Hapale, Nyctipithecus, Ateles), tanto l’ar- 
teria tibialis antica che la. tibialis postica non arrivano al piede ed è 
l’a. saphena che ne fornisce la circolazione. 

Poi, noi vediamo che è la. tibialis postica quella che per la prima 
acquista la sua continuità (Macacus, Rhesus), per l’atrofia del ramo po- 
steriore dell’arteria safena e lo sviluppo dell’anastomosi fra la termi- 
nazione dell'a. tibialis postica primaria ed esso. Nello stesso tempo 
prende maggiore sviluppo l’anastomosi fra la terminazione della a. tè- 
bialis antica primaria ed il ramo anteriore della saphena. 

In seguito, avviene anteriormente cio che è avvenuto posteriormente. 
L’anastomosi prende maggiore sviluppo, mentre la safena seguita ad atro- 
fizzare e si ha un momento nella filogenesi (Oramg, Gorilla), nel quale 
l’anastomosi è talmente sviluppata, che la a. tibialis antica continua con 
la dorsalis pedis profunda, mentre l’esile safena continua con l’esile dor- 
salis pedis superficiali. 

Finalmente prendono sviluppo le anastomosi che esistono fra le due 
a. dorsales pedis, la a. safena sparisce del tutto, e si giunge’ alla dispo- 


40 G. SALVI 


sizione dell’uomo, nel quale l’a. tibialis antica continua con le due ar- 
teriae tarseae (lateralis e medialis), omologhe respettivamente alle arteriae 
dorsales pedis: profunda e superficialis delle scimmie. 

Nell'uomo il ramo laterale che nelle scimmie in genere è esile, diviene 
spesso molto grosso, ma ciò è dovuto evidentemente al forte sviluppo 
assunto dalla sua anastomosi (ramus profundus) con il circolo plantare. 
Lo dimostra il fatto che quando esso è esile, l’anastomosi è ridotta 0 
non si trova affatto. L’anastomosi stessa infine non è che uno dei rami 
perforanti comuni a tutte le aa. metatarseae dorsales e che fanno comu- 
nicare queste col circolo plantare profondo, ed il suo sviluppo è dovuto 
forse al tipo di deambulazione e alle attitudini dell’individuo. 


Riassumendo, risulta anzitutto evidente come la disposizione umana 
che meglio riproduce quella dei primates, sia quella da me trovata come 
più costante nell'uomo e che ho descritto come normale. 

In secondo luogo comincia ad apparire come l’importanza maggiore 
non spetti al ramo mediale sinora descritto come arteria dorsalis pedis, 
ma sibbene al laterale che è quello che vascolarizza maggior parte del 
piede e che filogeneticamente è anche in più antica e diretta conti- 
nuazione con l’arteria tibiale anteriore. i; 

In terzo luogo risulta evidente dall’esame delle figure che riporto 
come nei vari generi di scimmie presi in esame si trovi di che spiegare 
tutte le varietà dell’a. dorsalîs pedis umana come ritorni atavistici. 

In base a ciò, quindi, e in appoggio a quanto la statistica aveva 
per le mie osservazioni stabilito, l'a. dorsalis pedis dell’uomo deve es- 
sere descritta come divisa in due rami. 


Prosimiae. 


Non ho potuto osservare animali appartenenti a quest’ ordine. Stando 
però alle ricerche di ZUcKERKANDL *), in Lemur varius e in Lemur catta si 
trova l'arteria saphena rudimentaria anastomizzarsi con la a. dorsalîis 
pedis profunda, la quale viene data dalla @. peronea per mezzo del suo 
ramus perforans. Questo fatto trovasi come vedremo in seguito isolato 
nella filogenesi dei mammiferi, onde non è lecito dare ad esso soverchia 
importanza. Ce ne serviremo solo per spiegare i casi di variata dispo- 


1) ZUCKERKANDL. — Loc. cit. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 41 


sizione umana che questa rammentano. Inoltre ZUcKERKANDL non dice 
come termina in questi animali la a. tibialis antica, e se esiste una 
anastomosi fra questa e la dorsalis pedis. 

Le anastomosi da me trovate nei primati e riprodotte alla fig. 16 
possono benissimo spiegare come avvenga che qui la dorsalis pedis appa- 
risca originata dalla a. peronea. 


Chiroptera. 


Ho esaminato individui appartenenti ai generi Vesperugo noctula, 
Plecotus auritus, Rhynolophus ferrum equinum. 

ZuckERKANDL ed HocHsrETTER ') in Pteropus osservarono che l’a. fe- 
moralis, uscita dall’addome, passava direttamente nell’a. saphena, la quale 
poi a sua volta diveniva a. tibialis postica primaria, mentre alla parte 
posteriore della coscia trovavasi un’arteria, 
che egli chiama a. ischiadica, la quale, unica i 
entro il bacino, si divideva all’uscita in due 4 107 
rami. Il mediale penetrava nelle parti 
profonde della regione posteriore della 
coscia e forse corrispondeva all’a. inte- 
rossea, mandando poi una a. tibialis antica 
primaria; il laterale piegava intorno alla 
fibula per recarsi al dorso del piede. 

ZUCKERKANDL non potè dir nulla dei 
rami terminali di queste arterie. 

Dopo aver molto faticato per superare 
le difficoltà offerte dall’iniezione di vasi 
così piccoli, ecco quanto ho osservato nei 
generi da me esaminati. 

L’arteria femoralis si mantiene real- 
mente molto superficiale e seguita con la Faccia dorsale del piede e di tutto 
tibialis postica. Questa, giunta al tarso, de eo 
dà due rami che possono ritenersi omo- 
loghi ad aa. malleolares e termina poi 
dividendosi a pennello in quattro rami che sono le aa. metatarseae plantares. 


TSI, 


A? 


n,._*x«x««-y«|vy|vyv|v'\)1.v-x=xw- 


2 


<<< 


K, Arteria ischiadica. 


1) HocHsTETTER F. — Beitrige zur Entwicklungsgeschichte des Venensystems 
des Amnioten. III. Siuger. — Morfh. Jahrbuch. XX. Bd. 4. Heft. 


42 G. SALVI 


Posteriormente fuoriesce dal bacino una grossa arteria, la quale ac- 
compagna il nervo ischiatico e merita quindi realmente il nome di a. 
ischiadica. Essa si divide subito in due rami. i 

Uno di questi si addossa all’arto decorrendo sulle masse muscolari 
alle quali si distribuisce abbondantemente. L’altro invece si distacca dal- - 
l’arto decorrendo nella spessezza della membrana, fa una curva e, giunto 
al tarso, si riaccosta all’arto dividendosi in due rami. Uno di questi, 
plantare, si anastomizza con la a. tibialis postica, 1’ altro, dorsale, volge 
in basso e in corrispondenza della testa dei metatarsi fa una curva vol- 
gendo lateralmente. Dalla curva nascono quattro arterie  metatarseae 
dorsales. i 

L’a. tibialis antica esilissima, viene data dal 1.° ramo dell’ischiadica e 
si getta nell’arcata del tarso lateralmente, completandola. 

Mi è stato possibile, malgrado le difficoltà di iniezione e di disse-. 
zione, osservare un esile vasellino il quale, attraverso il tarso, faceva 
comunicare il circolo plantare col dorsale (Vesperugo noctula). 

Da quanto ho esposto risulta come in questi animali esistano due 
arterie, una ventrale e l’altra dorsale, le quali provvedono alle regioni 
respettive dell’arto. Questo fatto, che non trovasi così manifesto in nes- 
sun altro mammifero, è forse dovuto allo speciale adattamento dell’arto di 
questi animali ed alla sua conformazione, per la quale la pianta del 
piede e la superficie plantare della gamba corrispondono alla superficie 
ventrale della coscia. 

Ciò farebbe sospettare che l’archetipo della circolazione nell’ arto 
pelvico fosse appunto quello di due arterie: una ventrale (femorale) ed 
una dorsale (ischiatica) le quali provvedessero le parti corrispondenti 
dell’arto stesso. 

Importante per le nostre conclusioni è il fatto che anche qui sono 
due le arterie, che provvedono il dorso del piede riunendosi ad: arcata. 


Insectivora. 
L’arteria safena è molto sviluppata e seguita posteriormente come 
a. tibialis postica ricevendo l’anastomosi della esilissima tibiale poste- 
riore proveniente dalla poplitea. i 
AI di sotto del ginocchio manda anteriormente un esile ramo, il quale 
giunto al tarso invia rami al primo ed al secondo dito, e quindi vol- 
gendo ad arcata si anastomizza con l’esile #ibialis antica. Da quest’ ul- 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 43 


tima provengono le altre aa. metatarseae dorsales e l'arteria amasto- 
motica tarsi, la quale si inoscula con un grosso ramo proveniente dalla 
tibialis postica. 

In questo animale abbiamo quindi due tronchi distinti che provve- 
dono alla circolazione del dorso del piede. L’uno, proveniente dalla 
safena, è omologo alla a. dorsalis* pedis superficialis 
delle scimmie ed all’ a. farsea medialis dell’uomo, 
l’altra alla a. dorsalis pedis profunda delle scimmie 
ed alla a. tarsea lateralis dell’ uomo. 

Tale omologia è basata sopra i rami che da esse 
arterie si dipartono e sul fatto che anche in qualche 
primate (Gorilla, Orang utan) abbiamo visto i due 
tronchi giungere separatamente al piede. 

Toglie poi ogni dubbio il fatto che ho potuto 
osservare ampie anastomosi fra i due rami al di 
sopra del ligamento trasverso del tarso. 


Fic. 18. 


Carnivora. 


Canis familiaris. — L’a. saphena è molto svilup- 
pata, mentre l’a. tibialis postica è atrofica e si di- . Faccia anteriore della 
. ? Na SH n ì regione tibio-tarsica 
sperde nei muscoli, sostituita alla pianta del piede di Erynaceus euro- 
dalla safena stessa. IDA LOU TARRA: 
L’a. tibialis antica, al disotto del ligamento . 4 A- tibialis antica 
dea ; È S, A. saphena; C, A. 
trasverso del tarso, diviene a. dorsalis pedis, la quale tarsea medialis; D, 
seguita verso il 2.° spazio ove si infossa, diviene A: tarsea lateralis; 
A dà ; ; È H, A. anastomotica 
plantare, e dà alla pianta del piede rami ascendenti tarsi; L, Anastomasi 
che si anastomizzano con le aa. plantares della safena = !!* ® e Galica 
i Eredi le 1 e a, saphena. 

e tre grosse arterie digitali discendenti. 

Sul dorso del tarso si distacca da essa un ramo, a. tarsea lateralis, 
il quale volge lateralmente e-poi indietro con decorso ricorrente, si ap- 
profonda nel seno del tarso, contorna la testa dell’astragalo e si com- 
porta come nell'uomo. 

Un ramo che si diparte dalla safena (arteria tibialis postica primaria) 
entra nel canale del tarso e viene ad incontrarlo anastomizzandosi con 
esso. 

Dal tronco della safena, al disopra della articolazione del ginocchio, 
si diparte un vaso il quale, seguendo il ramo anteriore della vena sa- 


44 G. SALVI 


fena, si fa anteriore e si anastomizza con la a. dorsalis pedis e con le 
aa. metatarseae dorsales. 

Qui abbiamo la disposizione umana riprodotta fedelmente. 

Il ramo anastomotico della safena con la dorsalis pedis e con le me- 
tatarseae dorsales, prelude alla disposizione delle scimmie, nella quale, 
atrofizzata la tibialis antica, supplirà esso 
alla circolazione del dorso del piede. 

Felis catus. — L’arteria safena è bene 
sviluppata. Essa diviene a. tibialis postica 
primaria terminando nelle aa. plantares. . 

La. tibialis antica dà due aa. malleo- 
lares molto grosse e poi seguita nella a. 
dorsalis pedis. Da questa nasce una a. tarsea 
lateralis la quale vascolarizza il tarso, la 
porzione laterale del piede e dà rami me- 
tatarsei dorsali. 

L’a. dorsalis pedis si infossa al 1.° 
spazio per continuarsi alla pianta con le 
aa. digitales, anastomizzandosi con le ar- 
terie plantari. 

L’a. anastomotica tarsì nasce o dal 
tronco della dorsalis pedis o dalla tarsea 
lateralis o dalla malleolaris lateralis. 

Dalla a. saphena si diparte un ramo il 
quale viene anteriormente ad anastomiz- 
zarsi con la a. dorsalis pedis e con le aa. 


Fic. 19. 


Faccia anteriore della regione tibio- 


tarsica di Canis familiaris. Arto metatarseae II, III. 
destro. 


A, A. tibialis antica; S, Ramo ana- : 
stomotico dell’a. saphena; B, A. Rodentia. 
dorsalis pedis comunis; €, A. . 


ne dio Lepus cuniculus. — La. saphena è molto 
grossa mentre l’a. tibialis antica è esile, 
e l'arteria tibialis postica si esaurisce nei muscoli della regione posteriore 
della gamba. L’arteria tibialis antica prima dell’articolazione tibio- 
astragalica, talvolta fin dalla perforazione della membrana interossea, 
si divide in due rami. 
Uno superficiale e mediale diviene @. dorsalis pedis, percorre sagit- 
talmente il tarso e, giunta alla metà del 2.° spazio intermetatarsico, si 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 45 


infossa dando la a. metatarsea dorsalis dello spazio stesso e quelle del 


1.° e del 3.° lateralmente. 


L’altro ramo, profondo e laterale, scende anch’esso in giù e si di- 
vide a sua volta in altri due rami. Uno va al margine laterale del piede 
ove si sperde, l’altro penetra nel canale del tarso dando una esilissima 
a. anastomotica tarsi. Un ramo molto grosso di questa a. tarsea late- 
ralis volge medialmente, passa sotto alla a. farsea medialis e si anasto- 


mizza a pieno canale sul margine mediale del piede 
con un ramo della a. saphena divenuta a. tibialis po- 
stica. Da questa nasce il ramo del canale del tarso 
il quale all'origine è molto grosso. 

È costante un ramo cospicuo il quale si diparte 
a vario livello dalla a. saphena, il più spesso al terzo 
inferiore della gamba e si anastomizza ampiamente 
con la a. tibialis antica 0 con la tarsea lateralis quando 
la divisione è già avvenuta. 

In questo animale l’omologia con la disposizione 
umana e con quella delle scimmie apparisce evidente. 
L'esile tibialis antica viene rinforzata in basso dalla 
anastomosi con la safena. Il debole sviluppo della a. 
anastomotica tarsì è certo dovuto a quello forte as- 
sunto da quel ramo che riunisce arteria tarsea late- 
ralis e arteria safena, passando sul dorso del tarso 
Stesso. 


Artiodactyla. 


Ovis aries. — L’arteria saphena è molto sviluppata. 

La a. tibialis antica è molto grossa e, giunta al 
tarso, seguita come arteria dorsalis pedis, pure molto 
grossa la quale a sua volta continua sul metatarso 
con una a. metatarsea dorsalis. Questa giunta allo 
spazio interdigitale vi si affonda e si biforca per dare 
alla superficie interna delle dita le due aa. digitales. 

Sul tarso si dipartono dalla a. dorsalis pedis due 
rami. Uno, più prossimale, volge lateralmente ed 
entra nel seno del tarso, dopo aver dato rami alla 
parti molli ed al margine laterale dell’arto. 


Fia. 20. 


Faccia anteriore della 
regione tibio-tarsica 
di Lepus cuniculus. 
Arto destro. 


C, A. tarsea lateralis; 
D, A. tarsea media- 
lis; H, A. anastomo- 
tica tarsi; .S, Ramo 
anastomotico dell’a. 
saphena; ZL, Anasto- 
mosi fra le due aa. 
tarsea. 


Uno, più distale, penetra nel canale della estremità prossimale del 


46 


G. SALVI LE 


metatarso e, fattosi plantare, decorre in basso distribuendosi alle parti 
molli del metatarso stesso. 

L’arteria safena termina nelle plantari molto esili e manda il ramo 
anastomotico molto grosso nel canale del tarso. Questo ramo, cammin 


Fic. 21. 


Faccia anteriore della regione 
tibio-tarsica di Ovis aries. 


A, A. tibialis antica; ,S, Ramo 
anastomotico dell’ a. sa- 
phena; B, A. dorsalis pedis 
comunis; €, A. tarsea me- 
dialis (pedidia metatarsea); 
D, A. tarsea lateralis e 
anastomotica tarsi. 


Bos taurus. 


facendo, manda molti ramuscoli articolari ed 
ossei, onde si riduce molto e l’a. anastomotica 
tarsì diviene piccola. 

L’a. plantaris medialis, che è la più grossa, 
si getta sulla a. metatarsea plantare. 

Ho trovato costante un esile ramo della 
safena il quale si distacca dal tronco circa alla 
metà della gamba, contorna la tibia, e, fattosi 
anteriore, si anastomizza con la a. tibialis 
antica. 

In questo animale, adunque, si ha forte-. 
mente sviluppata l’a.tibialis antica, onde Va. 
dorsalis pedis è una continuazione di essa. 

Il ramo che continua il decorso è omologo 
all’a. tarsea medialis dell’uomo e la sua comu- 
nicazione col circolo plantare (ramus profundus), 
si fa attraverso il metatarso invece che per uno 
spazio interosseo. 

Il ramo che attraversa il tarso è invece 
omologo alla a. tarsea lateralis dell’uomo e degli 
animali sin qui studiati ed alla a. anastomotica 
tarsi. Questa è piccola per il forte sviluppo 
assunto dalla perforante metatarsea e per il 
trovarsi molto ravvicinata ad essa a causa del 
piccolo sviluppo del tarso. 


La disposizione è come nella pecora, eccetto che la @. 


anastomotica tarsi qui è molto sviluppata e prende il nome (CHAUVEAU 
et ARLOING) di arteria pedidia perforans, anastomizzandosi ampiamente 


col circolo plantare. 


Ciò non fa che confermare maggiormente l’omologia già stabilita. 


Perissodactyla. 


Equus caballus.— Esiste un’arteria safena molto ridotta. L’arteria po- 
plitea sì divide in #ibialis antica e tibialis postica. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 47 


L’a. tibialis antica è molto grossa e termina nella a. dorsalis pedis. 
Questa si divide in 2 rami. 

Uno, più grosso, percorre sagittalmente il tarso e quindi decorre sul 
metatarseo mediano (arteria pedidia metatarsea di CHAUVEAU et ARLOING 1), 
facendosi sempre più laterale, fino a che 
diviene plantare passando nello spazio inte- 
rosseo, che è fra metatarseo mediano e 
metatarseo laterale. 

L’altro volge lateralmente, si approfonda 
nel canale del tarso (arteria pedidia perfo- 
rans di CHAUvEAU et ARLOING), lo percorre 
e, fattasi plantare, riceve l’anastomosi delle 
due aa. plantares, terminazioni della a. ti- 
bialis postica. Dopo ciò volge in basso fino 

a che, attraverso lo spazio interosseo ram- 
mentato, si congiunge con la a. metatarsea 
dorsalis. 

In Equus asinus ho trovato i due rami 
perfettamente uguali in volume. 

CHAUveAU e ARLOING ?) fanno omologa la 
a. pedidia perforans alla dorsalis pedis del- 
l’uomo, considerando la a. pedidia metatarsea 
come una a. metatarsea dorsalis. 

ZUCKERKANDL ha osservato in un caso la 
pedidia perforante molto grossa, apparente  ,.ccia anteriore PIL IO ARR 
cioè come la continuazione della a. dorsalis —tarsica di Equus asinus. 


Fia. 22. 


pedis, mentre la metatarsea dorsalis era 4, A.tibialis antica; S, Ramo ana- 


molto piccola. Egli dice non esser questa —stomotico dell’a. saphena; 3, A. 
dorsalis pedis comunis; (€, A. 


una anomalia molto rara. tarsea medialis (pedidia meta- 


Ha trovato pure la safena molto svilup- . tarSe8); D, A. tarsea lateralis © 
a. anastomotica tarsi (a. pedidia 


pata, concordando in questo con LEISERING perforans). 
e MuLLER *), e l’ha vista sostituire poste- 
riormente l'a. tibialis postica, come in alcune scimmie ed in altri animali, 


terminando essa nelle arterie plantari. 


1) CHaUuvEAU A. et ArLoIne S. — Traité d’anatomie comparée des animaux 
domestiques. Paris 1890. 

2) CHAUVEAU et ARLOING. — Loc. cit. p. 633. 

3) LeiseRING A. J. T. und MùLLER C. — Handbuch d. Vergl. Anat. d. Haus- 
ciuget. Berlin 1885. 


48 G. SALVI 


Io ho osservato il ramo anteriore della safena, quello che accompagna 
la radice anteriore della vena safena, anastomizzarsi con la arteria dor- 
salis pedis. i 

In base a questi fatti, credo che la a. pedidia metatarsea sia omologa 
per la sua porzione più prossimale alla a. farsea medialis dell’uomo, e 
che la pedidia perforans sia invece omologa alla tarsea lateralis ed alla 
a. anastomotica tarsi dell’uomo stesso. 

Nel cavallo, si ha comunemente atrofia della safena e quindi sviluppo 
. della tibialis antica la quale continua nella dorsalis pedis, e le osserva- 
zioni di LeisERING, MUÙLLER, ZUCKERKANDL e le mie provano come si possa 
abnormemente e non di rado, avere maggiore sviluppo della safena e 
quindi un accenno alla disposizione delle scimmie, la quale verrebbe com- 
pletata ove l’anastomosi fra il ramo anteriore della safena e la dorsalis 
pedis si svilupasse anch'essa di più. i 

Il fatto poi dell’ampia anastomosi che esiste attraverso il tarso fra 
il circolo dorsale ed il circolo plantare, anastomosi che può assumere 
tanto sviluppo da divenire il tronco principale, una sorta di arco arte- 
rioso dal quale si dipartono le arterie del segmento più distale del- 
l’arto, spiega il significato di quell’arterìa anastomotica tarsi che più o 
meno sviluppata abbiamo trovato in tutti i mammiferi presi in esame. 


Conclusioni generali. 


Alle brevi considerazioni fatte in fondo ad ogni capitolo, faccio se- 
guire alcune conclusioni generali che serviranno ad un tempo di riepi- 
logo a queste ricerche. 

Ho estese agli altri mammiferi le ricerche fatte da Popowsky nei 
primati sopra la filogenesi delle arterie della gamba ed ho confermati 
con nuove prove i resultati di questo osservatore. Ho trovato infatti 
costante negli animali a safena atrofica una anastomosi fra questa e la 
tibialis anterior, come PoPowsky nei primates l aveva trovata tra la #2- 
bialis anterior atrofica e la saphena che forniva le arterie del dorso del 
piede. Questo fatto è come una controprova che dimostra la giustezza 
delle osservazioni, e conferma il rapporto di vicarietà che esiste fra #%- 
bialis anterior e saphena nel fornire le arterie del piede. 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 49 


Non posso però concordare con ZUCKERKANDL circa la divisione delle 
arterie in primarie e secondarie, la quale non è applicabile che alle 
scimmie ed all'uomo. 

Se nei Marsupiali, Hrrri *), BARKOW °) e ZUCKERKANDL trovarono la fi- 
bialis antica atrofica terminare nei muscoli della gamba e la circolazione 
del piede essere fornita dalla safena, ed HrrtL ed HocHsTETTER *) nei Mo- 
notremi (Echidna, hornitorincus) videro la femorale decorrere superficial- 
mente e terminare sul dorso del piede; nei Perissodattili, Artrodattili, 
Roditori, Carnivori ed Insettivori esaminati da me, le arterie dorsali del 
piede sono date dalla arteria tibialis antica e l'arteria safena vi contri- 
buisce solo come anastomosi. Nelle Scimmie invece noi vediamo ancora 
la saphena assumere forte sviluppo esostituirsi all’ arteria tibialis anterior 
sul dorso del piede, e nell’uomo atrofizzarsi di nuovo la saphena in grado 
anche maggiore, e ristabilirsi il circolo arterioso per la tibialis antica. 

Ciò fa escludere un processo evolutivo e fa invece invocare come 
agenti modificatori, la conformazione dell’arto e le attitudini dell’animale. 

Il tipo più semplice di circolazione, si trova a parer mio nei Chi- 
rotteri. 

In questi animali la conformazione dell’arto pelvico è tale, che tutti 
i suoi segmenti hanno conservata la medesima orientazione e la pianta 
del piede è ventrale, e noi vediamo fuoriescire dal bacino due tronchi 
arteriosi distinti (femoralis ed ischiadica), destinati respettivamente alla 
parte ventrale ed a quella dorsale dell’arto stesso. 

Negli altri animali, in seguito alla conformazione assunta dall’arto 
per la deambulazione, vediamo atrofizzarsi il tronco dorsale (?schiadica) 
e la circolazione della gamba e del piede farsi tutta a spese del tronco 
ventrale (femoralis). 

A questo punto il tipo si biforca. Da una parte prende sviluppo la 
circolazione profonda e noi vediamo le arterie del piede fornite dalle 
tibiali, dall'altro prende il sopravvento la circolazione superficiale ed 
alla circolazione del piede provvede allora l'arteria saphena. Fra questi 
due tipi netti ne esistono altri di passaggio nei quali può trovarsi an- 


1) HirrL J. — Beitrige z. Vergl. Angiologie. Denkschrift d. Kaiserl. Akad. 
Bd. 6. Wien 1854. — Das arterielle Geftisssystem der Monotremen. Ibid. 1853. 

?) BARKoW. — Comparat. Morphol. Breslaw 1862. 

3) HocasteTTER F. — Bettrige zur Anatomie und Entwickelungsgeschichte 
des Blutgeftisssystems der Monotremen. Iena 1896. 


50 G. SALVI 


 teriormente un tipo e posteriormente un altro e questi sono forse i più 
numerosi. Lo dimostra il quadro seguente il quale comprende le osser- 


vazioni mie, quelle di PoPowsKY e quelle di ZUCKERKANDL. 


Le arterie dorsali e le arterie plantari 
del piede provengono rispettivamen- 
te dalle tibiali. Non esiste la safena 
o è molto rudimentaria. 


Le arterie dorsali e le arterie plantari 
del piede provengono dalla safena. 
La tibialis antica e la tibialis po- 
stica atrofiche terminano nei mu- 
scoli della gamba. 


Perissodactyla (Equus caballus, Equus 
asinus). Homo. 


Marsupiali (?) Monotremi (?) Primates 
(Hapale yaccus, Hapale penicillatus, 
Nyctipitecus vociferans, Cynocefalus, 
Hamadrias). 


Le arterie dorsali del piede provengono 
dalla safena, le plantari dalla tibialis 
postica. 


Primates (Macacus sinicus, Macacus ery- 
traeus, Orang satirus, Chimpansé). 


Le arterie dorsali del piede provengono 
dalla tibialis antica le plantari dalla 
safena. 


Le arterie dorsali del piede provengono 

dalla anastomosi di due tronchi pro- 

‘© venienti respettivamente dalla safena 
e della tibialis antica. |. 


Artiodactyla (Ovis aries, Bos taurus). 
Rodentia (Lepus cuniculus). Carni- 
vora (Canis familiaris, Felis catus). 
Primates (Gorilla, Orang utan). 


Insectivora (Erinaceus europeus). Pri- 
mates (Orang, Chimpansé, Gorilla). 


Le arterie della pianta del piede proven- 
gono dalla anastomosi di due tronchi 
uguali della safena e della tibialis po- 
stica. 


Prosimiae (Lemur catta). Primates 
(Rhesus nemestrinus). 


Nelle prosimiae (Lemur catta, Lemur varius) ha trovato ZUOKERKANDL 


la arteria dorsale del piede provenire dalla peronea per mezzo del ra- 
mus perforans. Questo fatto ha però poca importanza vista l’ ampia ana- 
stamosi che io ho trovata fra questo ramo e la #ibialis antica e la 
saphena nei promates come dimostra la fig. 16. 


i ai è et 


ARTERIA DORSALIS PEDIS - RICERCHE MORFOLOGICHE E COMPARATIVE 51 


Comunque originata, l'arteria dorsalis pedis presenta sempre una 
traccia di biforcazione e il maggiore o minore sviluppo dell’uno o del- 
l’altro dei due rami dipende dallo sviluppo del tarso e del inetatarso 
ed in genere dalla estensione delle parti che è destinata a nutrire. 

Mancano osservazioni nei mammiferi più bassi, ma nei perissodattili 
(E. caballus, E. asinus) noi troviamo una vera biforcazione in un tronco 
destinato al metatarso (pedidia metatarsea) ed in uno destinato al tarso 
(pedidia perforans). 

La stessa disposizione trovasi presso a poco ripetuta negli artiodat- 
tili (Bos taurus, Ovis aries) con la differenza che in Ovis aries il ramo 
del tarso trovasi più ridotto di volume. 

Nei roditori (Lepus cuniculus) abbiamo invece una divisione spicca- 
tissima, la quale può farsi anche 'sino dall’origine della a. tibialis an? 
tica ed aversi quindi questo vaso duplice. Uno dei rami è destinato 
esclusivamente al metatarso, l’altro invece, un po’ più grosso, va più 
specialmente al tarso mandando però anch’esso qualche esile dirama-. 
zione al metatarso. 

Nei carnivori (Canis familiaris, Felis catus) la divisione avviene molto 
in basso. 

Negli insettivori (Erinaceus europeus) due tronchi, la safena e la ti- 
biale anteriore, si riuniscono ad arcata per fornire le metatarseae ed 
i rami del tarso, i quali però più specialmente provengono dalla tibia- 
lis antica. Nei chirotteri sono pure due i tronchi (safena e ischiatica), 
che prendono parte alla costituzione della arcata arteriosa del tarso, ed 
anche qui è dall’ischiatica che più specialmente provengono i vasi del 
tarso e l'arteria anastomotica tarsi. 

Venendo poi alle scimmie, noi troviamo ancora questi due rami 
riuniti in una origine comune dalla safena e qui per lo sviluppo as- 
sunto dal tarso, dal metatarso e dalle dita noi vediamo più distinta, più 
specializzata la destinazione dei due rami, uno per la parte mediale ed 
uno per la laterale del piede. In qualche primate però, (Gorilla, Orang 
Chimpansé) noi vediamo riaffacciarci l'antica *duplicità dei Chirotteri 
e degli insettivori, provenendo il ramo mediale dalla zibialis antica, 
quello laterale dalla saphena. 

L'uomo, come il più vicino alle scimmie, per quanto differente sia 
l'origine della sua arteria dorsalis pedis, risente di questa disposizione 
e la conserva in forte grado. 

Sc. Nat., Vol. XVII 4 


"90 È î .G. SALVI 


Degni di nota sono poi i fatti seguenti: 

. Il ramo del metatarso (ramo mediale delle scimmie e dell’ uomo) non 
«dà che diramazioni ‘alla superficie dorsale del piede, mentre il tronco si 
fa plantare in vario modo a seconda della conformazione dello scheletro 
e si distribuisce alle dita. i 

Il ramo del tarso (ramo laterale delle scimmie e dell’uomo) fa pres- 
s°a poco lo stesso, comunicando col circolo plantare. Ho trovato questa 
anastomosi in tutti gli animali da me esaminati più o meno sviluppata, 
ma costante ed ho dato al vaso il nome di Arteria anastomotica tarsi. 

Sviluppatissima nel cavallo e nel bove, dove prende il nome di ar- 
teria pedidia perforante, trovasi ridotta negli altri animali, ma la traccia 
di essa si trova sempre. Nell’ uomo è abbastanza sviluppata e molto più 
lo è nell’embrione e nel piccolo. 

Essa costituisce la vera via di comunicazione fra il sistema dorsale 
ed il sistema plantare attraverso lo scheletro del tarso, riunendo le due 
tibiali o i due rami della safena o una delle prime con uno degli altri, 
a seconda che da essi provengono i vasi del piede. 

Il tipo quindi della circolazione del piede sarebbe quello di due vasi, 
dei quali uno più specialmente destinato al metatarso sorpassa come 
tronco il tarso, vascolarizza il metatarso, si approfonda facendosi plan- 
tare, e si distribuisce alle dita come via principale sanguigna, in alcuni 
animali, come via secondaria in altri. L'altro ramo si distribuisce al tarso 
vascolarizzandone le parti molli e lo scheletro e si fa quindi anch'esso 
plantare comunicando col circolo posteriore attraverso il canale del tarso, 

Allorchè il metatarso prende molto sviluppo, anche da questo vaso 
si dipartono arterie metatarseae, le quali congiungendosi (uomo, scimmie) 
a quelle plantari più robuste, prendono parte alla circolazione delle dita. 

In base quindi a questi dati desunti dalla anatomia comparata, in 
base alla statistica fatta su 200 casi l'arteria dorsalis pedis dell’uomo 
deve essere descritta come dividentesi in due rami. Uno: arteria tarsea 
medialis è omologo all’ a. dorsalis pedis superficialis delle scimmie ed 
alla a. pedidia metatarsea dei mammiferi inferiori. L'altro, arteria tar- 
sea lateralis, è omologo ‘all’ arteria dorsalis profunda delle scimmie ed 
alla a. tarsea lateralis e pedidia perforans dei mammiferi inferiori. 


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È 


| GIOVANNI D'ACHIARDI 


LIBERO DOCENTE DI MINERALOGIA NELL’ UNIVERSITÀ DI PISA 


(a ha 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 


È noto come in molti luoghi si rinvengono entro alle masse di gesso 
cristalli di quarzo, singolari per l'abito loro e spesso anche per il colore 
ordinariamente rosso o bruno. A differenza dei cristalli impiantati nei 
filoni o nelle geodi di rocce cristalline sono abitualmente semplici e 
sempre completi alle due estremità non presentando alcun punto di at- 
tacco. Per ciò, e per la prevalenza delle facce piramidali sulle prismatiche, 
offrono analogia coi cristalli diesaedrici dei porfidi, analogia la cui causa 
va probabilmente cercata nel modo di origine in mezzo ad una massa 
in cui da ogni parte dovevasi avere libertà di movimenti molecolari verso 
i centri di cristallizzazione. Certo questa libertà non va intesa come sa- 
rebbe in una soluzione o in un liquido di fusione del tutto omogeneo 
e senza altra sostanza sciolta o fusa tranne quella che cristallizza. Tanto 
nel magma di fusione per i porfidi quanto nella massa rocciosa che si 
trasforma in gesso i materiali eterogenei presenti devono solo essere 
in tale stato da non impedire la cristallizzazione del quarzo per ogni 
verso. E così essendo, mentre questa si effettuava, è naturale che ne 
dovessero rimanere imprigionati, non disturbando però la cristalizza- 
zione stessa, la quale anzi sembra essere risultata semplicissima. Così 
vediamo pure essere avvenuto per altri minerali, ad esempio per la cal- 
cite di Fontainebleau, i cui cristalli malgrado che contengano anche 
oltre il 50 °/o di granelli silicei dell’ arenaria iù cui stanno, presentano 
abitualmente semplicissima forma romboedrica. Per ciò, uno studio il 
quale ponesse in evidenza se e in qual rapporto stassero tra loro i cri- 
stalli di quarzo e le sostanze incluse, mi sembrò che dovesse avere ab- 
bastanza interesse anche per intendere il modo di origine non solo di 
questi stessi cristalli, ma sì anche della roccia gessosa che li contiene; 


54 G. D’ACHIARDI 


e poichè io aveva nel Museo di Pisa molto materiale a mia disposi- 
zione credei bene tentarlo. | 

I cristalli da me studiati provengono da Soraggio nell’Alpe di Cor- 
fino (Alpi Apuane), dal comune di Sovicille nella Montagnola Senese, 
dalle vicinanze di Chianciano e da Campiglia d'Orcia pure nella pro- 
vincia di Siena. î i 

I cristalli dell'Alpe di Corfino, in generale più piccoli degli altri, 
sono tuttora impiantati nella roccia madre, un gesso granulare di colore 
più o meno grigiastro derivato per alterazione dal calcare liassico. Essi 
furono già ricordati da mio padre nella Mineralogia della Toscana ‘), 
nella quale peraltro non ne fece che semplice menzione. La fig. 11 della 
tav. III mostra una sezione di questa roccia con un cristallo di quarzo. 

I cristalli della Montagnola Senese furono per la massima parte do- 
nati dal senatore CHIGI, appassionato cultore di Scienze Naturali. Sem- 
pre uguali nell’aspetto e nelle proprietà loro dimostrano di provenire 
dallo stesso originario modo di giacimento, benchè non sempre raccolti 
nello stesso luogo. Infatti quelli donati dal CHIGI provengono dalla sua 
fattoria di Cetinale nel comune di Sovicille e più particolarmente dai 
poderi di Cetinale e di Bagnaia sotto al podere del Poggio. Altri pro- 
vengono invece dai campi e boschi delle Reniere, di proprietà del sig. 
G. Nomis, pur sempre nello stesso comune di Sovicille, e con ogni pro- 
babilità appartengono allo stesso giacimento. Son tutti cristalli isolati 
raccolti erratici, nè mi fu dato vederne alcuno nella madre roccia; e lo 
stesso senatore CHIGI, cui ne fu scritto da mio padre per avere notizie, 
risposegli di avergli sempre ed esclusivamente rinvenuti in letti di an- 
tiche alluvioni non mai in posto. Non esclude però che possano essere 
derivati da qualche lembo di calcare retico gessificato non per anco 
riconosciuto o denudato. Lo studio che io ne ho fatto non ammette anche 
per questi cristalli altra roccia che il gesso o l'anidride come loro ori- 
ginario giacimento. 

Ultimamente lo stesso senatore CHIGI ne inviava altri inclusi in una 
roccia biancastra argillacea, ma è facile accorgersi, come notava egli 
stesso, che se da questa roccia possono derivare in gran parte i cristalli 
trovati sciolti nel terreno coltivabile, non sono certo originari in essa, 
trovandovisi spesso e in gran numero rotti e rotolati. 

Della stessa regione, ma più particolarmente di Lecceto, furono questi 


1) Vol. I, pag. 222. Pisa 1872. 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 55 


quarzi ricordati anche dal Santi !) e più tardi dal BroccHi *), che di 
questo stesso luogo rammenta “i cristalli regolarissimi di quarzo bruno 
e grigio terminati in ambe le estremità, e in alcuno dei quali manca 
il prisma intermedio ,. 

I cristalli di Campiglia d'Orcia furono donati dal prof. C. DE Ste- 
FANI e in maggior numero ancora regalati dal prof. L. BomBrccI ?) 
in una gita a Bologna da me fatta nella scorsa primavera; e là oltre 
che sciolti, erratici nel terreno, si rinvengono tuttora impiantati nel gesso 
derivante dal calcare infraliassico, e il senatore CHIGI scriveva che il 
prof. VirroRIo SimonELLI gli “ mostrò due magnifici esemplari di quarzi 
neri incastonati nel gesso ,,. 

Dalla gessificazione di questo stesso calcare, secondo notizie avutene 
dal professore DE STEFANI, deriverebbero oltre questi di Campiglia d’Or- 
cia e di Cetinale anche i quarzi di Chianciano, che furono fra i più 
anticamente descritti e dei quali mio padre parla assai diffusamente 
nella Mineralogia della Toscana *) descrivendone le forme e notandone 
la particolare distribuzione dei colori e il peso specifico (2,632-2,648) 
minore che nei limpidi cristalli di Carrara. 

Questi cristalli ricordati dall’ALpovranpo ?) col nome di Iris nigra, 
o con l’altro di pietre cancanute dal BALDASSARI, furono anche menzio- 
nati dal Santi %) come cristalli di monte neri e isolati formati di due 
piramidi, ora con un prisma intermedio, ora senza e come provenienti 
dal luogo detto le Piane al di sopra delle sorgenti dell’ Acqua Santa sul 
poggio della Bacherina. Di Chianciano oltre i numerosi che il Museo di 
Mineralogia già possedeva furono in quest’ anno gentilmente inviati, 
dietro mia richiesta, più che 300 cristalli dal sig. P. MANcIATI farma- 
cista di S. Casciano dei Bagni. 

Al senatore CHIGI, ai professori BomBicci e DE STEFANI, al sig. MAN- 
CIATI i miei più vivi ringraziamenti per l’aiuto prestatomi nel mettere 
insieme un ricco materiale di studio. 


1) Viaggi în Toscana. 1795-98. 

?) Catalogo ragionato di una raccolta di rocce per servire alla Geognosia 
dell’Italia. Milano 1817; pag. 275. 

3) Il prof. BomBiccI mi dette insieme alcuni cristalli sciolti e frammenti della 
roccia in cui sono impiantati di Legonchio (Appennini), del tutto identici e gli 
uni e l’altri ai quarzi e gessi delle Alpi di Corfino. 

4) Vol. I, pag. 92. Pisa, 1872. 

5) Musacum metallicum. 1648. 

6) Op. cit. i 


56 G. D’ ACHIARDI 


| Di Gessaiola sul Monte Amiata, di Poggio Paulorio presso Selvena . 


nel Comune di Pitigliano, delle Petricce nel comune di Castellina del 
Chianti, di dove A. D’AcHiarpI ricorda i quarzi citati dal Santi e dal 
GruLi, ravvicinandoli con una qualche incertezza a questi di Chianciano, 
nulla posso dire non avendone osservato alcuno. Si può però ritenere 
che ove si abbia analogia di giacimento nulla si opponga, sia anzi ve- 
rosimile che questi stessi quarzi vi si rinvengano. Dove non gli ho mai 
osservati è nei gessi sedimentari, non mai negli alabastri, onde è d’uopo 
per me ammettere l'origine loro dovuta a quello stesso metamorfismo, 
onde un’ originaria roccia calcare si gessificava lungo una fessura, che 
dava adito ad esalazioni solfatariche. Per altro se l’azione solfatarica, 
come in una putizza, in un soffione, basta a spiegarci la gessificazione 
di un calcare, non basta a farci intendere là presenza del quarzo, e si 
vedrà più tardi, reso conto dello studio fatto dei cristalli, quali altre 
condizioni debbano aggiungersi a questa per intendere come essi abbiano 
potuto costituirsi. Per ora basti il dire che i cristalli di cui imprendo 
la descriziohe provengono esclusivamente dai gessi metamorfici ordina- 
riamente grigiastri, come grigi o brunastri per materie carboniose o bi- 
tuminose erano i calcari o dolomie da cui derivano. 


I cristalli da me esaminati, circa un migliaio, a qualunque siasi delle 
località citate essi appartengano, sono tutti indistintamente costituiti 0 


dalle sole facce romboedriche {100} e j221| (tav. II, fig. 7 e 8), o da esse 


insieme anche a quelle del prisma i le quali sogliono essere molto 
subordinate (tav. II, fig. 4). Però non sono nemmen tanto rari cristalli 
nei quali sono pur molto sviluppate le facce prismatiche (tav. II, fig. 3). 
Nessuna faccia di altri romboedri, nessuna traccia di plagiedria sono 
riescito a scorgere nel migliaio di cristalli esaminati attentamente ad 
uno ad uno. Tutti hanno a comune, come dissi in principio, la compi- 
tezza loro con nessun segno o traccia di impianto. 

Esterni segni di geminazione eccezionali, solo pochissimi cristalli ho 
veduto compenetrati fra loro, taluni anche l'uno sull’altro associati, a 
differenza di quel che avviene per altri cristalli in consimili giacimenti, 
come ad es. per i così detti giacinti di Compostella, nei quali la com- 
penetrazione è comune. 

Le misure angolari sono molto difficili per la qualità de facce or- 
dinariamente poco riflettenti, scabre e cariate. Per altro in alcuni cri- 
stalli di Cetinale e di Chianciano per essere abbastanza lucidi volli 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE if 


tentarne alcune per vedere se la copia delle inclusioni avessero deter- 
minato perturbazioni notevoli dai valori normali. Trovai per tutti gli 
angoli valori di poco diversi dalla normalità e tali da escludere una de- 
cisa influenza piuttosto su di una faccia che su di un’altra. 


5 Angoli Limiti Medie Valori dati dal Dana 
{100} : {221} —46°17'—46°26' 46019 46°16' 
{100} : {211} 37°56'—38°16" 3809 38°13' 


Per le misure prese risulterebbe quindi soltanto una maggiore acu- 
tezza della piramide appena superiore alla generalmente adottata; non 
si ha però come si vede, in media che una differenza dai 3' ai 4' nei 
valori angolari; trattandosi di, facce non pérfettamente riflettenti e di 
imagini spesso un po’ deformate non se ne può certo trarre alcuna con- 
clusione per stabilire una differenza. Credo anzi che se ne possa. con- 
cludere la copia delle inclusioni non averne determinata alcuna essen- 
ziale di fronte ai casi ordinari. 

Le facce della piramide spesso hanno tutte uno sviluppo presso a 
poco uguale fra loro, ma non mancano cristalli in cui talune sono più 
sviluppate di altre, talora anche con regolare alternanza per i due rom- 
boedri (tav. II, fig. 8). Però questa regolarità di alterno sviluppo che 
in alcune varietà di quarzo è abituale, si verifica in questa solo per ec- 
cezione. Le facce in generale hanno superficie scabra, bucarellata come 
per carie, la corrosione, se tale, apparendo quando sia alquanto avanzata, 
avvenuta prevalentemente nelle parti meno periferiche. Sugli spigoli in- 
fatti appaiono ancora quasi intatti i resti delle facce, le quali sembrano 
per ciò inegualmente incavate, mentre gli spigoli sembrano linearmente 
rilevati (tav. II, fig. 5). Rilievi si osservano talora pure sulle facce del 
prisma e pur là anche dove si ha piuttosto apparenza di faccia incom- 
pleta che corrosa (tav. II, fig. 2). Questi stessi rilievi sugli spigoli della 
piramide lo SPEZIA !) osservò pure che si formavano nelle sue impor- 
tantissime esperienze sulla soluzione e ricostituzione del quarzo. 

Difficile è determinare la figura degli incavi. In alcuni pochissimi 
cristalli si vedono delle cavità triangolari (tav. II, fig. 9), ciò che è abi- 
tuale per cristalli di altre località. Il margine di questi incavi appare 
in guisa di triangolo isoscele allungato, con la base rivoltà verso l’apice 
del cristallo e parallela allo spigolo {100} :{221} e dei tre piani che ne 


1) Contrib. di geol..chim. — Esperienze sul quarzo. Torino 1898. Atti R. Acc, 
Se. Torino, Vol. XXXIII. Fig. 1, 


58 G. D'ACHIARDI 


discendono al fondo a guisa di tramoggia, come si vede a destra e in 
basso della fig. 9 della tav. II osservata con la lente, due eguali infe- 
riori corrispondono alle due facce romboedriche vicine; la terza o supe- 
riore alla faccia sottostante del prisma. Della corrispondenza si giudica 
bene dalla simultaneità dei riflessi, e per la nitidezza di questi, per 
l'esattezza dei contorni io ritengo che in questo caso si tratti piuttosto 
di ripetizione di piani che di veri effetti di corrosione, quali sono le ca- 
vità triangolari descritte ed effigiate dallo SPEZIA nel suo lavoro testè 
ricordato. 

A corrosione però credo che anche nei cristalli da me descritti deb- 
bano probabilmente attribuirsi le apparenze di carie sopra ricordate, 
(tav. II, fig. 5), ben più frequenti e senza aver mai la forma di re- 
golari e profonde cavità. Osservando però al microscopio a luce riflessa 
queste superfici cariate non è difficile rilevare che i riflessi si fanno per 
tre piani principali. E non più osservando al microscopio, ma semplice- 
mente girando il cristallo guardato contro luce, si riconosce anche per 
la simultaneità loro con il riflesso delle attigue facce dei romboedri 


{100} e {221} e del prisma {211}, che gli stessi riflessi spettano come 
nel caso delle su ricordate cavità triangolari a piani equivalenti a queste 
stesse facce. Si ripete dunque qui, quantunque apparentemente in modo 
più irregolare, come effetto di corrosione ciò che in alcune poche facce 
si ha come ripetizione di piani originari. La differenza nella maniera di 
presentarsi di queste figure, che si corrispondono, di corrosione o di 
struttura, oltrechè essere un caso generale avendosi sempre per corro- 
sione superfici scabre ineguali e appannate e per struttura spesso lu- 
centi e rettilinee, in parte almeno, e più specialmente per quel che ri- 
guarda l'irregolarità di contorno, può anche imputarsi alla copia delle 
inclusioni, che per essere più o meno solubili lasciano vacui indipendenti 
dalla struttura del quarzo. È vero per altro che le inclusioni abbondano 
più verso il centro che verso la periferia dei cristalli, ma non sempre 
mancano verso l’esterno, anzi possono talora esservi copiose. 

Nessuna differenza si riscontra per questi incavi tanto di corrosione 


che di struttura fra le facce del romboedro {100} e del suo inverso {221}. 

In taluni cristalli invece di cavità si osservano dei rilievi trigonali 
formati da due piani eguali più estesi e un terzo diseguale dagli altri 
due con disposizione invertita ai piani degli incavi testè ricordati, ma 
evidentemente ad essi corrispondenti, o meglio che corrispondenti, poichè 
l’inclinazione ne è diversa, accennanti anche in questo caso alla stessa 


i I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 59 


influenza orientatrice. Questi rilievi rarissimi (tav. II, fig. 1) da me os- 
servati solo in pochi cristalli appaiono pure egualmente e simultanea- 


mente sulle facce di {100} e di {221}. Essi ricordano i rilievi lanceolari 
già citati ed effigiati dal BomBicci !) per alcuni cristalli di Porretta. 
Sono a superfici lucidissime, nè presentano carattere alcuno di es- 
sere effetto di corrosione. Hanno piuttosto l’ apparenza di piani vicinali 
come si incontrano spesso sulle facce dei minerali, che specialmente negli 
ultimi momenti della cristallizzazione sogliono andare soggetti ad oscil- 
lazioni che ne turbano l’assettamento dei piani molecolari. 

In questi stessi cristalli, così come in quelli ad es. di tormalina, già 
da me studiati, e di altre sostanze a struttura zonale, l’ esame delle se- 
zioni dimostra dall’originaria semplicità andar sempre aumentando il 
numero dei piani cristallogenici. Quando si giunge alle ultime fasi si ha 
come l’esagerazione di questo stesso fatto nell’ apparire delle così dette 
facce vicinali anche là dove manchino segni di geminazione, che si sa 
essere condizione favorevole alla poliedria. Si ha però sempre in ogni 
caso che tutti questi cambiamenti o perturbazioni sono strettamente col- 
legati all’abito del cristallo. Nelle sezioni, già dissi per altre specie, 
dirò ancora per questa che i lati delle zone di struttura secondano per 
il numero e per l'andamento loro gli elementi esteriori del cristallo; 
qui si ripete lo stesso fatto e i piani di questi rilievi si riferiscono alle 
facce esistenti dei romboedri {100}, {221} e del prisma {211}, di cui rap- 
presentano una perturbazione o spostamento con leggera differenza nei 
valori angolari. 

Queste ed altre figure a differenza di quelle osservate da MOoLEN- 
GRAF °) sopra altri quarzi non presentano orientazione e sviluppo ac- 
cennante a struttura plagiedrica. Mancano di ogni segno di dissimetria 
e la differenza, per esse importantissima, la ritengo in ragione del di- 
verso edificio cristallino, mancando in questi cristalli delle gessaie to- 
scane ogni manifestazione di struttura plagiedrica. 

A conferma di ciò ho ricercato queste stesse figure nelle centinaia 
e centinaia di cristalli di quarzo che il Museo di Pisa possiede di Car- 


1) Descriz. della Mineralog. generale della prov. di Bologna. Parte II2, pag. 
127. Bologna 1874. — Corso di Mineralogia. Parte II®, Vol. II, pag. 626. Bologna . 
1876. — Sulle guglie conoidi rimpiazzanti le piramidi esagono-isosceloedriche ecc. 
Bologna 1892. 

2) Studien am Quarz. GrotH’Ss, Zeit. XIV, pag. 172. Leipzig 1888. — Ueb. 
Néturl, u. Kiinst. Aetzvers. am Quarz. Idem. XVII, 137. 1 


60. i G. D' ACHIARDI 


rara e di Palombaia (Elba), nei quali le facce plagiedriche sono eviden- 
tissime e non di rado bene sviluppate. In pochissimi dei tanti di Carrara 
mi fu dato osservarle, e benissimo e con perfetta corrispondenza di forme 
soltanto in uno solo. Ma a differenza di quelle dei quarzi delle gessaie 
le stesse precise figure appaiono invece inclinate verso le  plagiedrie 
nello stesso modo che per altre figure MoLENGRAF aveva, riscontrato 
per questi stessi cristalli di Carrara e dell'Elba come pure di altre lo- 
calità. Questa osservazione conferma dunque quanto diceva. testè. sulla 
struttura di questi cristalli. Fra i tanti da me osservati delle gessaie 
soltanto in uno e precisamente in quello effigiato nella figura 9 della ta- 
vola II apparrebbe dalla fotografia più che dall’ osservazione diretta. 
aversi una leggiera e contraria inclinazione e non di egual valore nella 
cavità di due facce contigue di romboedro, come in un cristallo plagie- 
dro a sinistra effigiato dal MorenGRAF !) ma le tre facce formanti queste 
cavità lungi da corrispondere a facce plagiedriche come nei cristalli 
osservati da MoLENGRAF corrispondono invece esattamente come per le, 
altre cavità consimili alle adiacenti di romboedri e di prismi. Non credo. 
quindi di dovere attribuire troppo valore a siffatta eccezionale apparenza. 

Le facce del prisma ordingriamente non appaiono striate. Solo in 
qualche caso presentano dei rilievi e solchi che corrispondono a ripe- 
tizione delle facce romboedriche e ciò in quei cristalli nei quali sì os- 
servano pure gli incavi strutturali sopra ricordati (tav. II, fig. 3 e 6). 
Ma negli altri cristalli in cui sono corrose le facce romboedriche lo sono 
abitualmente anche le prismatiche e per esse si dà pure che essendo 
minore la corrosione verso gli spigoli, questi appaiono spesso come ri- 
lievi periferici a far cornice al piano più depresso, benchè non sempre 
sia facile il distinguere se si abbia a che fare con disuguaglianze di so- 
luzione o di originaria struttura, come piuttosto apparrebbe dalla fig. 2 
della tav. II. Osservando al microscopio queste superfici cariate o a di- 
slivelli si vedono quattro direzioni di riflessi, che due più vistosi accen- 
nano a sopra e sotto giacenti facce romboedriche e due alle adiacenti 
facce del prisma. 

Notevole è il fatto che taluni di questi cristalli presentano una fascia 
bianca (tav. II, fig. 4) che ricuopre più o meno interrottamente queste 
facce del prisma, nei cristalli in cui appaiono cariate nelle porzioni sco- 
perte. È quarzo scolorito che come stracci di velature talvolta si osserva 


1) Studien am Quarz ecc.; tav, III, fig. 2. 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 61 


in questi stessi cristalli sulle facce romboedriche. Ha tutta 1’ apparenza 
di essere quarzo secondario, riedificazione forse di quella stessa silice 
asportata prima per corrosione. In queste velature quarzose si possono 
osservare anche dei piani marginali corrispondenti alle facce romboedriche 
e prismatiche adiacenti a dimostrarci chiaramente l'influenza orienta- 
trice del cristallo su cui si deposero. 

In altri cristalli, e in special modo in quelli in cui si osservano i 
rilievi già descritti ed effigiati per le facce romboedriche, si hanno pure 
rilievi sulle facce prismatiche, rilievi di veri piani vicinali che accennano 
essi pure principalmente alle sopra e sottogiacenti facce romboedriche 
e in minor grado assai alle laterali del prisma. 

Incavi, rilievi, ripetizioni di piani cristallini, effetti di corrosione o 
di poliedria tutto è in correlazione con la semplice struttura di questi 
cristalli, nei quali mi è stato impossibile constatare altre forme che le 
{100}, {221}, {211}. 

La sfaldatura parallela alle facce romboedriche è più o meno facile 
secondo i cristalli; in alcuni la si ottiene con superfici piane e lucenti, e 
probabilmente perchè in essi è facilitata anche dalla disposizione delle 
materie eterogenee nei piani stessi di sfaldatura. 

Il colore varia da un bianco sporco a nero avendosene di tutti i 
tuoni sul grigio-bruno, non di rado anche con macchie rossastre. I più 
neri fra quelli da me osservati sono di Campiglia d'Orcia e alcuni pochi 
anche di Chianciano, i meno quelli di Corfino o Soraggio che sia, ma g 
anche di Chianciano e di Cetinale ne ho veduti di quelli torbidi sì, 
ma leggerissimamente brunastri, quasi scoloriti. Del resto eccetto in 
alcuni pochi nei quali si ha apparenza di uniformità di tinta nera il 
pigmento si riconosce facilmente essere dovuto a sostanze estranee ed 
eterogenee, che tali all’esame microscopico delle sezioni appaiono an- 
che là dove sembra omogenea la colorazione. La copia di queste ma- 
terie incluse dà ai cristalli un’ abituale torbidezza che li rende poco 
atti alle osservazioni ottiche. Il colore nero sembra dovuto a materie 
carboniose e l'odore fetido che non di rado tramandano questi cristalli 
rompendoli, lo scolorirsi dei più neri nell’ arroventamento e la colorazione 
seura di molte inclusioni fluide lo confermano. Però non è difficile che 
in parte sia anche dovuto a ‘minerali di ferro, poichè nell’ arroventa- 
mento della polvere non è raro che questa si arrossi per conversione in 
ossido ferrico di minerali a minor grado di ossidazione dello stesso me- 
tallo. Le macchie rosse sono dovute ad ematite, che l'osservazione diretta 


62 1 | G. D' ACHIARDI 


vi riconosce e vi scuopre l’analisi chimica, ematite ocracea derivante. 
forse dall’alterazione di altri minerali dello stesso metallo, verosimilmente 
solfuri (pirite). 

Per il peso specifico ebbi valori assai discordanti dall’una all’ altra 
determinazione fatta colla boccetta di Gay-Lussac. Le determinazioni 
furono sempre eseguite in cristalli interi e scelti di colore più che fosse 
possibile uguale. Non volli ridurli in pezzetti, sia per evitare la fuga 
di gas, sia la soluzione delle sostanze incluse solubili nell'acqua e più 
specialmente presenti nelle parti interne dei cristalli. Come medie delle 
varie pesate, distinguendo i cristalli chiari dagli scuri, ottenni per i quarzi 
delle seguenti località: 


CRISTALLI 
n 1 — 


chiari scuri 
Cetinale (podere di Bagnaia) . . . . . 2,68 2,64 
Chianciano Magoni co earn ici oo 2,65 
Campiella farcia e 2950 2,65 


Da queste misure apparirebbero minori differenze fra le varie loca- 
lità per i cristalli scuri che per i chiari. Specialmente per alcuni di 
Campiglia d’Orcia il peso specifico mi è risultato assai piccolo onde 
volli provare se ciò si verificasse anche per cristalli fra i più chiari 
delle altre località e che per la grossezza loro non poteva introdurre 
nella boccetta di Gay-Lussac, onde ne feci la determinazione per mezzo 
di tubi graduati. Per alcuni di Chianciano trovai valori da 2,39 a 2,54. 

Malgrado ciò non oserei sostenere che i cristalli meno coloriti do- 
vessero essere costantemente i più leggieri. Certo dalle mie determina- 
zioni parrebbe che ciò fosse, e la spiegazione di ciò potrebbe trovarsi 
anche nella natura della stessa materia pigmentizia. La quale già dissi 
(pag. 11) che se in parte sia a ritenersi carboniosa, in parte anche sem- 
bra ferruginosa, e la presenza di uno o più minerali di ferro nell’in- 
terno di questi cristalli di colore scuro potrebbe bene spiegarci il loro 
maggior peso specifico se nella natura delle altre inclusioni non se ne 
trovasse pure facile spiegazione. Tutti, chiari e scuri, questi quarzi hanno 
un peso specifico diverso dal normale, un peso specifico minore, come 
già aveva notato mio padre (op. cit.), non superando mai anche per le 
mie pesate il valore di 2,653 dato come minimo del quarzo puro, stando 
ordinariamente più o meno al disotto, malgrado che vi abbondino in- 
clusioni di corpi a peso specifico maggiore di quello del quarzo. La dif- 
ferenza va quindi attribuita ad altri inclusi meno pesanti e in special 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 63 


modo fluidi, non che alle frequenti cavità che rompendo i quarzi si pos- 
sono facilmente constatare sia con la lente, sia anche ad occhio nudo. 

Per tanto non può per i nostri cristalli valere il peso specifico a 
determinare le proporzioni degli inclusi, come già fece 1’ HoLLanp 1) 
per i quarzi con inclusioni nel gesso di Mari nelle Indie. Dato il 
peso specifico dell’anidrite di 2,90 a 2,98 dai valori intermedi a questi 
e a quello del quarzo puro ne deduceva quelle proporzioni. Per i nostri 
quarzi ciò sarebbe impossibile; non soltanto la copia della cavità e delle 
inclusioni fluide, ma la natura diversa degli ospiti solidi, le cui propor- 
zioni variano da cristallo a cristallo, ci mettono in questa impossibilità. 

Ove si hanno valori bassissimi, ciò è ad attribuirsi a cavità piene di 
fluidi; ma poichè malgrado la copia dell’anidrite si hanno valori non 
mai superiori e d’ordinario inferiori a quelli del quarzo puro, anche in 
cristalli ove cavità ‘non si vedono, inclusioni fluide mancano o appena si 
scorgono e si hanno per giunta segni abbondanti di ematite o di altro mi- 
nerale di ferro, conviene in tal caso attribuire la differenza in meno ad 
altre inclusioni abbondanti anche quanto l’ anidrite, a quelle inclusioni che 
più tardi vedremo doversi attribuire ad un solfato di magnesia, che quale 
esso sia, deve aver sempre peso specifico d’assai minore di quello del 
quarzo. 

E poichè queste inclusioni di solfato di magnesia sono maggiori nei 
cristalli più chiari che nei bruni, nei quali più abbondanti sono gli in- 
clusi ferrici, così a ciò pure si può attribuire in parte almeno la diffe- 
renza sopra notata nel peso specifico fra i cristalli chiari e quelli scuri. 

Le sezioni tagliate perpendicolarmente all'asse di simmetria princi- 
pale nei cristalli relativamente più limpidi, a qualunque delle località 
sopra citate essi appartengano, e aventi una grossezza sufficiente, nè a 
luce parallela, nè convergente danno segni di polarizzazione rotatoria. 
I bracci della croce nella figura di interferenza si tagliano nel centro 
come in qualunque cristallo uniassico non plagiedrico. In nessun modo 
sono riescito a veder spirali di Arry, che facilmente si scorgono nelle 
sezioni di ametista, onde non vale per questi cristalli a spiegar l’ ecce- 
zione della mancanza di faccette plagiedriche e relativa polarizzazione 
rotatoria la struttura per alternanza di lamine a segno contrario. Se 
mai sembra che si abbiano segni di biassicità. 


1) Chem. a. Phys. Notes on rochs from the Salt Range, Peinjdb. Rec. geol. 
Survey of India. Calcutta 1891, XXIV, 4. 


64 G. D'ACHIARDI 


La mancanza assoluta di faccette plagiedriche è verosimile che si 
connetta con la struttura semplicissima di questi cristalli, fatto singolare 
perchè escluderebbe che la cagione della polarizzazione rotatoria do- 
vesse ricercarsi per il quarzo nella struttura dissimetrica della molecola, 
non potendosi ammettere che questa avesse costituzione diversa nei cri- 
stalli della stessa specie. Sembrerebbe piuttosto doversi per il quarzo 
cercare nel diverso assettamento dell’edificio cristallino dando esso luogo 
per disposizione destrorsa o sinistrorsa, al pari che nelle lamine di mica 
sovrapposte dal REuscH, ai fenomeni di rotazione come nei quarzi pla- 
giedri di Carrara, o per sovrapposizioni di strati destrogiri e levogiri 
alle spirali di Atry come nell’ametista, o per regolare simmetrico ordi- 
namento delle molecole alla mancanza di polarizzazione rotatoria come 
nei quarzi delle gessaie. [ 

La stessa mancanza di polarizzazione rotatoria ho riscontrato in altri 
quarzi semplicissimi, completi e simili cristallograficamente a questi delle 
gessaie, ma di giacimento diverso. Fatto importante che dimostra non 
già con’ il giacimento, ma essere la differenza in relazione con il 
modo di formarsi dei cristalli. Lo studio ottico, che ho intenzione di in- 
traprendere di questi cristalli di Monte Acuto Ragazza (Appennino Bo- 
lognese), che mi furono forniti gentilmente dal prof. L. BomBrccr, ne di- 
mostra una costituzione singolare sì, ma non dissimetrica. 

Non meno importanti sono i saggi chimici fatti di questi quarzi, che 
ne rivelano una complicata composizione dovuta alle molte e abbondanti 
inclusioni. 

Le prove di arroventamento e l’odore che si ha anche alla semplice: 
rottura dei cristalli rivelano la presenza di fluidi idrocarburi, materie 
carboniose, e minerali di ferro di sopraossidazione. La presenza del ferro 
fu da me constatata anche col: trattamento all’acqua regia e successi- 
vamente con l’idrato ammonico nella soluzione, da cui ottenni un pre- 
cipitato facilmente riconoscibile per idrato ferrico. 

Con l’arroventamento la polvere finissima non dà che piccola per- 
dita. Riscaldata fra gli 80° e i 100° ‘fino a peso costante non dette che 
0,3 °/o di perdita in peso, perdita verosimilmente imputabile ad acqua 
igroscopica ed altri fluidi inclusi che sfuggono. Riscaldata poi per arro- 
ventamento in crogiolo di platino perde ancora il 2 °Jo. Trattata la pol- 
vere con acqua distillata e filtrata e aggiuntavi poi qualche goccia di 
acido cloridrico, se nella soluzione si versi cloruro baritico si ha il ca- 
ratteristico precipitato bianco di solfato baritico a dimostrare la pre- 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 65 


senza dei solfati, fra i quali abbondante il solfato di calce, la cui pre- 
senza fu da me constatata anche col trattamento all'acqua regia e suc- 
cessivamente con carbonato ammonico nella ottenuta soluzione. 

A questi saggi ne aggiungo altri fatti in laboratorio dal dottore E. 
Manasse su cristalli di Chianciano e di Bagnaia, che per completa ana- 
lisi qualitativa fattane dettero risultati fra loro identici. Ottenne egli 
da entiRinbi, silice, calcio, magnesio, carbone, sodio, alluminio. Dopo la 
Silice prevalgono calcio e magnesio quasi nella stessa proporzione; se- 
.guono il ferro, e le sostanze carboniose, indi scarso il sodio, e come 
traccia l'alluminio. Quanto ai generi salini constatò la presenza di sol- 
fati, cloruri e solfuri, di cui i primi grandemente predominanti. Escluse 
la presenza del solfuro idrico, così come dello zirconio ricercato col me- 
todo dato dal Rrvor !), ricerca che mi interessava per la conoscenza di 
alcuni inclusi. 

Lo studio chimico preclude la via a riconoscere la natura delle molte 
inclusioni ‘di questi quarzi, le quali ci appaiono in due modi diversi, in- 
viluppate nella sostanza stessa quarzosa o tappezzanti le pareti di pic- 
cole irregolari cavità geodiche, che non di rado si scuoprono nei cri- 
stalli spezzandoli. A studiare le une e le altre occorre quasi sempre il 
microscopio e perciò dei cristalli di tutte le località su menzionate do- 
vetti sacrificarne non pochi specialmente per farne, sezioni in direzioni 
differenti e più particolarmente poi parallele all'asse essendo per queste 
facilitata la confezione dalle facce del prisma, quando sieno presenti. 

Un esame anche grossolano della sezione, talvolta anche della sola 
superficie levigata per alcuni cristalli, basta a farci riconoscere la copia 
delle inclusioni nella massa quarzosa e talora anche la loro regolare di- 
stribuzione a seconda dei piani cristallogenici quale si vede nella figura 10 
della tavola II, che ci dà l’imagine per luce riflessa di una sezione pas- 
sante per il mezzo del cristallo e semplicemente levigata. In questo 
caso è una materia rossa ematitica che dà origine alle zone colorate in 
scuro nel fondo grigio. 

Per altri cristalli, nei quali le facce zonali sono prodotte da inclu- 
sioni scolorite e trasparenti, può anche poco o nulla vedersi non solo 
a luce riflessa, ma ancora a semplice luce trasmessa. In tal caso con- 
viene osservare a nicol incrociati girando le lamine cristalline fino ad 


1) Docimasie. Traité d’ analyse des substances minérales ece. T.II, pag. 418. 
Paris 1886. ; 


66 G. D'ACHIARDI 


aversi l’estinzione del quarzo, nel quale appaiono allora innumerevoli punti 
lumeggianti dovuti alle inclusioni birifrangenti che non si trovano simul- 
taneamente nelle posizioni di estinzione (tav. III, fig. 10 e 11) e questi 
punti si risolvono in lamine cristalline (tav. III, 1, 4 e 12) quando si 
osservino con forti ingrandimenti. 

È da notarsi che mentre in molti cristalli queste inclusioni sembrano 
sparse alla rinfusa, in molti altri, e specialmente in quelli di Campiglia 
d'Orcia, donatimi dal prof. L. BomBIccI, presentano un prevalente e non 
di rado anche regolare ordinamento secondo i piani cristallogenici (tav. 
INI fig 509) 

Sono spesso varie, talora moltissime zone che si seguono l’una al- 
l’altra e si ripete quello che già notai per le tormaline del Giglio (4), 
che cioè numero, estensione e andamento dei lati di queste zone poli- 
gonali secondano il progressivo e spesso anche variabile sviluppo della 
superficie del cristallo nelle varie fasi di sua costituzione. 

L’interna zona è per il solito più semplice delle altre; disegna in 
generale la proiezione di piani molecolari o di sfaldatura (tav. III fig. 5, 
10, 12); indi seguono le zone più esterne, nelle quali s’aggiungono nuovi 
lati sia per il formarsi di nuove facce, come quella del prisma (tav. II, 
fig. 3 a 5), sia di spigoli per distorsione delle facce già esistenti 
(tav. II, fig. 10). Nei vari casi in cui si abbiano più subindividui associati 
in un unico cristallo questa associazione si rivela pur essa da queste 
stesse figure zonali (tav III; fig. 9). 

Queste zone, ognuna delle quali corrisponde ad una medesima fase 
di accrescimento, studiate nella grossezza loro rispetto alle varie dire- 
zioni cristallografiche, ci consentono anche di misurare il diverso grado 
di accrescimento dei cristalli stessi in queste direzioni. Cominciano essi, 
quando ancora non si veggono tracce di facce prismatiche, con l’ accre- 
scersi quasi ugualmente per ogni verso in ragione del rapporto vicino 
all’uguaglianza (1: 1,099) fra gli assi secondari e l’asse di simmetria 
principale, onde l’interne figure zonali appaiono quasi quadrate (tav. III, 
pag. 5 e 12). Però mano a mano che accrescendosi il cristallo compa- 
riscono i piani prismatici, l’inapprezzabile differenza dell’accrescimento 
sì esagera, e questo tanto si fa maggiore nel verso dell’asse di principal 


1) Osservazioni sulle tormaline dell'isola del Giglio. — Ann. Univ. Tose., T. 
XXII. Pisa 1897. 


sa 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE E 67 


simmetria quanto più si allungano i lati del prisma, onde le fasce zonali 
da prima apparentemente eguali in tutto il loro percorso vanno a pre- 
sentare sempre maggiori differenze verso la periferia con una larghezza 
minima perpendicolarmente all'asse di principale simmetria, massima pa- 
rallelamente e media nelle direzioni oblique. 

Solo in rari casi l’accrescimento sembra essere stato maggiore oriz- 
zontalmente, ma sempre nelle prime sue fasi, e si vede allora nelle sezioni 
comparire un lato orizzontale che sulla superfice del cristallo stesso cor- 
risponde ad uno spigolo formato dall’incontro di due facce piramidali 
opposte più sviluppate delle altre (tav. II, fig. 10). La tendenza quindi 
dei cristalli di quarzo ad accrescersi prevalentemente nel verso dell’asse 
verticale, tendenza evidentemente dimostrata dai bei lavori di geologia 
chimica sul risarcimento dei cristalli di quarzo del prof. SPEZIA, il quale 
ebbe la squisita cortesia di mostrarmene i risultati nel suo laboratorio 
in Torino nello scorso mese di giugno, non si mantiene sempre nella 
stessa misura. Essa va mutando non solo nelle condizioni diverse di 
giacimento come fra gli ordinari cristalli filoniani e i porfirici, ma sì 
ancora nelle varie fasi di accrescimento di uno stesso cristallo come in 
questi delle gessaie. 

È notevole anche che le inclusioni abbondano più spesso verso l’in- 
terno che verso l'esterno. In alcuni cristalli sono anche limitate alla 
sola area centrale (tav. III, fig. 11), in tutti o quasi tutti, anche in quelli 
ove si osservano in vicinanza delle parti esterne, lo strato periferico ne 
è libero o quasi (tav. III. fig. 3). Se le sezioni invece di essere fatte 
parallelamente all’asse sieno fatte normalmente si vedono per il solito 
varie bande esagonali concentriche di inclusioni, essendone libera solo 
una zona esterna, oppure queste appaiono come ammucchiate regolar- 
mente al centro. 

Se le sezioni poi abbiano una direzione qualsiasi, le figure che si 
vedono sulla superficie di rottura sono svariatissime, però sempre for- 
mate da rette corrispondenti a facce del cristallo. Questa struttura zo- 
nale sembra facilitare la frattura dei cristalli, poichè quelli di Campiglia 
d'Orcia, nèi quali è più frequente e manifesta, si trovano anche più fa- 
cilmente spezzati. 

Una delle più frequenti e più abbondanti fra le sostanze incluse è 
senza dubbio l’ anidrite. Si presenta in lamine ordinariamente rettango- 
lari, con linee di sfaldatura caratteristiche; osservandosi talvolta per 
speciali inclinazioni dei cristalli e per riflessi sullo spessore stesso della 


Se. Nat., Vol. XVII ‘ 5 


68 GIOVANNI D’ACHIARDI 


preparazione anche i tre piani pinacoidali costituenti dei parallelepipedi 
(Cavo): 

Le laminette rettangolari sono senza colore affatto e presentano a 
nicol incrociati e in special modo per contrasto quando il quarzo inclu- 
dente sia estinto, colori vivacissimi di interferenza di alto ordine. Si 
estinguono perfettamente a zero coi loro lati di contorno rettangolare 
e presentano nel verso del loro allungamento l’asse delle vibrazioni di 
massima velocità ottica (a) corrispondente quindi all’asse cristallografico 
verticale, lo che va d’accordo col carattere della birifrazione dell’ ani- 
drite, che ha il piano degli assi ottici parallelo a {010} e la bisettrice 
acuta positiva normale a {100}. L’indice di rifrazione, determinato col 
metodo di BECKE, rispetto al quarzo includente, appare più elevato che 
non sia l’indice di questo. i 

Altre inclusioni si osservano nella stessa anidrite, fra le quali sin- 
golarissima quella di un minerale verde o giallo verdastro più o meno 
intenso per trasparenza, spesso rosso per riflessione, in tavolette costan- 
temente esagonali (tav. III, fig. 1), ma non sempre con eguale sviluppo 
dei lati. 

Questo minerale per la forma fa pensare alle laminette di mica, clo- 
rite o oligisto, ma da quest’ ultimo l’allontanano le apparenze dei suoi 
colori nelle condizioni su indicate, così come fra gli altri due io credo 
che si tratti della seconda non tanto peri saggi analitici, quanto e più 
ancora perchè si conoscono diverse varietà di cloriti di questo stesso 
color rosso. Le traccie di alluminio svelateci dall’analisi sono probabil- 
mente imputabili a queste laminette cloritiche. 

In alcune lamine di anidrite, in poche però, si osservano anche in- 
clusioni fluide. 

Non è la prima volta che l’anidrite si trova nei cristalli di quarzo 
dei gessi o terreni connessi. Fu già citata da BraucEY 1) per i quarzi 
rossi o giacinti delle argille salifere dei Pirenei, da Tgomas H. Hox- 
LAND ?) per i quarzi bipiramidati che si trovano incastrati nel gesso di 
Marf nella Salt Range nel Peinjàb (Indie) e sono dagli indigeni detti 
diamanti dì Mari; da G. ZscHimmeR 8) del pari per i giacinti"nel gesso 


1) Inclus. d’anhydrite dans les quarti bipyramides des argilles salifères 
pyrénéennes. Bull. Soc. Frang. Minér. XII, 6, 396. Paris 1889. 

>, Op. cit.} pag. 230. 

3) Die Hyacinten (Quarze) der Gypse des Roths bei Jena. TscuermaK’s Mitt. 
XV, 457. Wien 1896. 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 69 


delle vicinanze di Jena. Nei cristalli di quarzo giacintino di questa ul- 
tima località insieme all’anidrite lo ZscHimmeR avrebbe osservato anche 
numerose inclusioni di gesso, che io pure, e quasi esclusivamente, ho 
trovato in una sezione fatta del così detto giacinto di Compostella; in 
essa le lamelle numerosissime di gesso appaiono geminate secondo {100}. 

Insieme alle lamelle di anidrite e pur esse molto frequenti, special- 
mente nei cristalli di Campiglia d'Orcia e di Cetinale, sono altre in- 
clusioni di forma ordinariamente globulare, spesso a contorno leggermente 
sinuoso, quasi come formate da quattro cristalli in fascio concorrenti ad 
un centro, ove si osserva una sostanza scura (tav. III, fig. 1). Talvolta 
però presentano più semplice apparenza e più regolare contorno come 
si osserva specialmente in una sezione di Campiglia d’Orcia (tav. III, 
fig. 4), ove queste inclusioni si vedono meglio che in tutte le altre con 
il loro caratteristico nucleo più rilevato e più scuro del contorno, che 
qui ha tendenza a figura irregolarmente quadratica ed esagonale. 

Queste inclusioni ora appaiono isolate, come in questa sezione di 
Campiglia d’Orcia ove rassomigliano a pustole; spesso anche accumulate 
l'una sull’ altra, talvolta anche zonalmente distribuite. Hanno minore tra- 
sparenza delle lamine di anidrite e leggera sfumatura di tinte grigiastre 
con segni talora di debolissimo pleocroismo roseo-verdognolo o roseo- 
cilestro, sparendo ogni traccia di colore nella posizione intermedia ai 
massimi di differenza. 

Delle lamine di anidrite hanno pure maggior rilievo e quindi anche 
più elevato indice di rifrazione e ritengo anche più elevati colori di in- 
terferenza quantunque appaiano d’ ordinario molto meno vivaci, anzi 
grigiastri. Infatti se grigi non hanno essi l’apparenza di grigio di primo 
ordine, ma di alto ordine sul grigio madreperlaceo, e se tali nel mezzo 
della sezione, sul margine di essa, ove spesso è più sottile, presentano 
invece una vivace iridescenza. E se si faccia il confronto con il colore 
del quarzo includente si ha che dove questo dà il giallo-chiaro, esse danno 
il grigio-madreperlaceo, e ove il grigio di primo ordine esse un roseo ma- 
dreperlaceo, apparendo iridate sui margini. E che non si tratti di grigio 
di primo ordine dimostra anche la prova con la lamina di gesso a rosso 
di primo ordine, con la quale non si passa già al giallo o all’azzurro, 
ma si riman sempre sul grigio-madreperlaceo. Sono quindi senza dubbio 
colori di interferenza altissimi paragonabili a quelli dello zircone (di 
cui la presenza viene esclusa per i saggi chimici), della cassiterite e del- 
l’anatasia, vinti soltanto dal rutilo, dalla calcite e dalla dolomite. 


70 GIOVANNI D’ ACHIARDI 


Mal si giudica in generale dall’ estinzione per la difficoltà di avere 
esatte linee di riferimento sul contorno abitualmente smarginato. Pure 
in alcuni cristalli o gruppi cristallini e specialmente nella succitata se- 
zione di Campiglia d’Orcia, si riesce ad abbastanza buone determina- 
zioni, per le quali si può escludere che si tratti di cristalli monoclini, 
o triclini, avendosi per alcune sezioni allungate e poligonali estinzione 
perfettamente a 0° con l’ allungamento, e per altre rombiche diagonale. 
Escludo quindi che queste inclusioni possano essere di gesso, dal quale 
si discostano anche per il rilievo e per l'indice di rifrazione che nel 
gesso è inferiore al quarzo, non che per la mancanza dei segni della 
caratteristica sua sfaldatura e per la stessa figura di interferenza. Questa 
non è facile ad osservarsi, pure per alcune sezioni di cristalli, e con 
l’uso del diaframma ad iride ad eliminare l’influenza del quarzo avvol- 
gente, sì giunge ad osservare assai nitidamente, ed ha tutta l’ apparenza 
di figura uniassica. E se la croce nera in alcune osservazioni sembri de- 
formarsi in iperbole, la deformazione sempre piccola è più del tipo di 
cristalli anomali che di biassici; ad ogni modo ammessa anche la bias- 
sicità, come non credo, l'angolo ne sarebbe sempre piccolissimo. La 
stessa figura di interferenza si ha tanto nelle parti periferiche che nel 
nucleo, il quale non so spiegarmi se sia dovuto a struttura zonale dei 
cristalli per variabile composizione o ad inquinamento di materie etero- 
genee che siasi fatto principalmente verso il centro. 

Tali i caratteri di questo minerale che ha l’ apparenza di essere unias- 
sico, piuttosto dimetrico che romboedrico e che fra le specie a me note 
e dati i risultati dell'analisi chimica a nessuna so ravvicinare. Dai saggi 
qualitativi si desume che non può essere che un minerale di magnesio. 
La magnesia infatti che l’analisi scuopre abbondante, quasi quanto la 
calce (e ciò in armonia con la gessificazione di rocce dolomitiche), se ne 
togli le incommensurabili tracce imputabili alle minuscole e rare lami- 
nette di clorite, non può riferirsi che a questo minerale che altra na- 
tura non può avere che di solfato, poichè il poco cloro va attribuito al 
salgemma, e la mancanza delle anidridi carbonica, fosforica, borica e 
altre escludono che si tratti di carbonato, fosfato, borato ecc. 

Non ne restano esclusi i silicati (la piccola presenza di solfuri è 
ad attribuirsi a quelli di ferro), ma nessuno fra i silicati noti di ma- 
enesia vi corrisponde, e d’altra parte non si intenderebbe facilmente 
perchè dall’ originaria dolomia il carbonato di calce dovesse essersi nella 
gessificazione convertito in solfato e il carbonato di magnesia in sili- 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 71 


cato. Tutto porta quindi a ritenere che si tratti di un solfato, ma fra 
i solfati di magnesia noti o per una ragione o per l’altra nessuno vi 
corrisponde. Fra gli anidri nessuno se ne conosce; fra gli idrati con- 
verrebbe cercarne il corrispondente fra quelli a poca acqua, dappoichè 
pochissima se ne ottenga per arroventamento: e la perdita che si ha 
per questo, come fu detto a pag. 14, di circa 2°, debba in parte anche 
attribuirsi a idrocarburi, materie carboniose e acqua sviluppata dal- 
l’idrossido ferrico. 

‘Fra i solfati con poca acqua la kieserite (Mg SO, - H,0) oltre ad 
essere monoclina, ha un grande angolo degli assi ottici (2.E,,=90°). 
L'epsomite (Mg SO, + 7H,0)è assai ricca di acqua, trimetrica e ha grande 
angolo degli assi ottici (2E,,=77°,44), basso indice di rifrazione, men- 
tre il notevole rilievo, la prova di BEckE, mostrano per il nostro mine- 
rale indice di rifrazione maggiore non solo del quarzo includente, ma 
anche della stessa anidrite. Per questo stesso carattere non può riferirsi 
alla liweite (0 = 1,491; := 1,494), cui ravvicinerebbesi per le forme cri- 
stalline, così come alla blodite per la cristallizzazione monoclina e grande 
angolo degli assi ottici in questa. 

Da altri solfati misti come la polialite ecc., è esclusa per la man- 
canza del potassio ecc.; onde l’ipotesi più probabile è che si tratti di 
un nuovo solfato di magnesio poco idrato, forse anche anidro, (in ana- 
logia all’anidrite) e come tale formatosi per le speciali condizioni della 
sua origine, poichè i solfati di magnesia sogliano cristallizzare approprian- 
dosi abitualmente più o meno di acqua. Del resto la perdita per arrò- 
ventamento può benissimo essere in parte almeno dovuta ad acqua cri- 
stallizzata in un solfato di magnesio. La poca nitidezza dei lati delle 
sezioni di questi cristalli, il cui contorno dissi apparire come smangiato, 
può bene andare d’accordo con la grande solubilità e deliquescenza dei 
solfati di magnesio. 

Non abbondanti, nè frequenti sono le inclusioni di ematite in lami- 
nette spesso esagonali aranciate e trasparenti. Se ne osservano alcune 
anche dentro i cristalli di anidrite, laminette che trovai abbondantissime 
nei giacinti di Compostella esaminati per confronto. Sono invece assai 
frequenti le inclusioni di ematite ocracea, opaca per trasparenza, rossa 
per luce riflessa, in causa della trasmissione delle radiazioni attraverso 
le particelle superficiali, come è il caso delle polveri. Queste inclusioni 
ocracee, sia per la forma loro, sia per altri caratteri, sembrano dovute 
a pseudomorfosi di altro minerale di ferro in gran parte discioltosi. 


0. G. D'ACHIARDI 


Oltrechè sparse si vedono talora distribuite in zone nella massa del 
quarzo (tav. III, fig. 12). 

In un cristallo di Corfino ho veduto piccolissimi cristalletti penta- 
gono-dodecaedrici che sembrano di pirite, la cui presenza è resa pro- 
babile anche dall’ analisi qualitativa, che rilevava la presenza dei solfuri. 
Lo stato di alterazione e disfacimento delle su ricordate massarelle, ta- 
lora incavate, di ocra rossa non mi consente di dire se derivino esse 
stesse o no dalla pirite. È però verosimile. 

Le inclusioni carboniose variano molto da sezione a sezione; in al- 
cune (tav. III, fig. 2), come nei quarzi più neri di Campiglia d'Orcia sem- 
brano abbondanti, in altre se ne scorgono appena le tracce e si ha come 
una minuta disseminazione di polvere bruna o nera, che talvolta segue 
essa stessa prevalentemente certe direzioni e tende pure ad assumere 
un ordinamento zonale (tav. III, fig. 3), assai meno però delle inclu- 
sioni cristalline; e sono questi quarzi più neri che più scoloriscono con 
l’arroventamento a conferma della materia carboniosa. 

Ove più abbonda questa sostanza carboniosa, abbondano anche grandi 
inclusioni fluide (tav. III, fig. 2), abitualmente brunastre, senza livella, 
a differenza delle aeroidre del quarzo granitico, inclusioni che mancano 
quasi affatto, o per lo meno scarseggiano in alcune sezioni, ove la ma- 
teria carboniosa manca o scarseggia essa stessa. Per la massima parte 
sono inclusioni gassose, non ne mancano però anche di liquide come si 
rileva dalla meno marcata linea d'ombra, e le une e le altre sono pre- 
feribilmente nella massa quarzosa, più di rado, e di piccolissime dimen- 
sioni allora, anche nelle stesse laminette di anidrite (pag. 67). Non credo 
che sieno aeroidriche perchè dall’acqua male si spiegherebbe il prolun- 
gato contatto col solfato anidro di calce e peggio anche di magnesia. 
Se non tutte, almeno in parte, è facile che sieno di carburi in connes- 
sione con le materie carboniose che accompagnano. L'odore fetido che 
questi quarzi tramandano nel romperli ne viene in conferma. 

Altre inclusioni fluide, scolorite del tutto, piccolissime, onde occor- 
rono forti ingrandimenti per osservarle, che appaiono anche là dove la 
materia carboniosa manca e ove scarseggiano le lamelle di anidrite, che 
presentano quasi costantemente una livella sono verosimilmente idriche 
sia o no di aria la livella. È in queste inclusioni che si osservano spesso 
dei picolissimi cubetti (tav. III, fig. 7, 8), anche insieme alla livella, così 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 73 


come CoHnEN !) e RosENBUSCH ?) effigiarono per i quarzi di un granito 
porfirico di Cornovaglia. 

Questi cubetti completamente estinti quando si estingue il. quarzo 
includente e con esso il liquido della bolla fluida, attribuisco io pure al 
salgemma, confortato anche dai saggi chimici che scoprirono tracce di 
cloruro di sodio. 

Le cavità non sono rare in questi quarzi, talvolta anzi rompendoli 
si scuoprono piccole geodi, talora umide, e tappezzate di scoloriti, pic- 
colissimi lucenti cristalli, che si riconoscono facilmente essere di gesso, 


di cui posseggono le abituali facce di {111}, {110} e {010}. Distaccati 
e osservati al microscopio (tav. III, fig. 6) se ne può facilmente deter- 
minare la sfaldatura basale e l'estinzione a circa 38° dalla linea del 
loro allungamento. : 

Il gesso quindi che non si trova incluso nella massa quarzosa, si 
trova invece cristallizzato in queste geodi, nelle quali io credo sia di 
origine posteriore all’ anidrite della massa quarzosa, sia che nella ca- 
vità rimanesse inclusa, sia che penetrasse successivamente una soluzione 
selenitosa formatasi sul gesso incassante, dalla quale per lenta evapo- 
razione il gesso si sarebbe poi separato di nuovo cristallizzando. 


In quanto al giacimento già dissi in principio tutti questi quarzi 
ritrovarsi nei gessi metamorfici derivati per gessificazione del calcare do- 
lomitico, o anche vera dolomia, e dissi pure come secondo le osservazioni 
del prof. De STEFANI questa e quello siano a riputarsi liassico a Sorag- 
gio e infraliassico o retico nei vari luoghi della provincia di Siena. Ag- 
giunsi anche come non ne abbia ritrovati esempi nei gessi sedimentari 
e nè meno negli alabastri. 

Altrove sembrerebbe che consimili quarzi, bruni o giacintini che sieno, 
sì rinvengano nelle marne gessifere, negli strati di salgemma e in gessi 
stratiformi; ma intanto molti degli esempi prima citati sono messi in 
dubbio, taluni anche contradetti, e sempre più si restringono i casi cer- 
tamente noti a giacimenti simili ai nostri nei gessi metamorfici. 

ZrirkeL, MacpeRSON e altri attribuiscono oggi ad azione solfatarica 
o di fumarola, o ad acqua salata sulfurea la presenza dei gessi quarzi- 


1) Sammlung von Mikrophotographien ece. Tav. VII, fig. 4. Stuttgart 1881. 
?) Mikroskopische Physiographie ece. T.I, Tav. VI, fig. 4. Stuttgart 1892. 


74 G. D'ACHIARDI 


feri nei Pirenei !), e così per tanti altri esempi citati dallo ZscHmImMER 
(mem. cit.), compreso il gesso del Réth delle vicinanze di Jena, del qualé 
descrisse i cristalli dicendo essere esso indubbiamente di secondaria co- 
stituzione dimostrata anche dalla forma filoniana del giacimento; e così 
pure per il gesso di Mari nella Salt Range, che l’ HoLLanp (mem. cit.) 
dice non di origine acquea o sedimentaria (Gypsum masses are not of 
acqueous or sedimentary origin). hi 

Secondo l’HoLLanp si sarebbe prima formata l’anidrite per azione 
di acido solforico sul calcare probabilmente ad alta temperatura e in 
presenza di acque sopra riscaldate, come per azione solfatarica. Indi in 
lei si sarebbero formati i cristalli di quarzo, che ne mostrano quindi le 
inclusioni e la cui origine avrebbe preceduto quella della conversione in 
gesso dell’anidrite per un processo di idratazione. 

Anche lo ZscHImMER ritiene i gessi quarziferi delle vicinanze di Jena 
formatisi per idratazione dell’ anidrite, ma ritiene simultanea la gessifi- 
cazione di questa e la formazione dei cristalli di quarzo, confortato forse 
a ciò dall'avere egli insieme alle inclusioni di anidrite riscontratevi quelle 
di gesso. Attribuisce l’ origine dei cristalli di quarzo a infiltrazioni di 
soluzioni contenenti acido silicico e carbonato di magnesio. 

Che per azione di fumarole o soffioni o putizze in rocce calcaree si con- 
vertano queste in solfato è fuori di dubbio, e gli esempi se ne incontrano ad 
ogni passo, ma non è egualmente vero che là ovunque si abbiano acque o 
vapori ad alta temperatura, come ad es. nei soffioni di Larderello, debba 
sempre formarsi anidrite. Io ho esaminato al microscopio le masse fibrose 
vacuolari, spugnose, spesso giallo-rossastre che si incontrano intorno ai 
soffioni e le ho trovate costituite prevalentemente se non totalmente di 
gesso. È facile anche scorgervi nei minuti cristallini, che talvolta ter- 
minano i raggi fibrosi, il consueto abito dei cristalli di gesso con le 
facce di {111}, {110}, {010}. Quello che non vi ho mai trovato è il 
quarzo, e certo non voglio dire che non vi possa essere, ma anche se 
fosse realmente assente ciò non mi farebbe specie poichè le condizioni 
necessarie alla sua costituzione non sono per nulla quelle della gessifi- 
cazione, che può benissimo avvenire senza che quarzo si formi. L'azione 
seyseriana silicifera, la solfatarica idrosolforica possono stare ognuna da 
sè; se concomitanti, e nulla si oppone a che lo siano, o se succeden- 


1) ZigkeL. — Lehrbuch d. Petrographie. Leipzig 1894. II, 675. 


dui 


I QUARZI DELLE GESSAIE TOSCANE 75 


tisi nello stesso campo, possono ben dare simultaneamente o successiva- 
mente origine a gesso o ad anidrite e a quarzo. 

A Sasso per esempio i soffioni boraciferi, che attraversano a diffe- 
renza degli altri l’arenaria, depositano talora l’jalite 1), ciò che di- 
mostra in essi una certa quantità di silice disciolta, che l’analisi chi- 
mica ha pur trovato fra le-materie depositate da altri soffioni. 

Nei quarzi da me studiati essendo inclusa l’ anidrite, parrebbe che 
ciò venisse in conferma della supposizione fatta da ZscHIMMER e da 
HoLLAND che cioè si fosse da prima formata l’anidrite, che sarebbe ri- 
masta inclusa nel quarzo. Il gesso di Corfino, di cui la fig. 11 della 
tav. III, mostra la massa osservata al microscopio in sezione sottile, 
gesso che all’arroventamento subisce una perdita in peso da 21,17 a 
21, 61°/ in modo che imputandone un po’ all’acqua igroscopica corri- 
sponde a quella della specie pura (20,9), contiene anche rare laminette 
di anidrite, ma dal modo con cui queste si presentano paiono piuttosto 
formatesi insieme al gesso, che un residuo della gessificazione di una 
massa che in origine fosse tutta anidritica. La quistione è più complessa 
che non si creda e io ho pochi dati e troppe poche osservazioni spe- 
cialmente nei luoghi stessi del giacimento per arrischiarmi a pronun- 
ziare un giudizio definitivo. 

Quello che mi pare resulti e dalle mie e dalle osservazioni di altri 
è la concomitanza della presenza dei quarzi con un’ origine metamorfica 
dei gessi che li contengono, siansi fino dalla origine formati come tali 
o derivati anche in tutto o in parte da anidrite, e parmi che risulti 
pure che debbasi ammettere un’ azione geyseriana per presenza di acque 
silicifere sopra riscaldate, e solfatarica o di fumarole per presenza di 
solfuro idrico, sieno esse concomitanti o l’ una all’ altra susseguentisi. Ve- 
rosimilmente, come l’analisi delle acque geyseriane dimostrano, e come 
gli esperimenti dello SPEZIA portano a credere, la presenza di un sili- 
cato alcalino, con ogni probabilità di soda, avrà favorito il formarsi dei 
cristalli di quarzo. 

Per giudicare degli effetti di queste azioni geyseriana e solfatarica 
non dobbiamo prendere argomento soltanto da ciò che avviene alla su- 
perficie. Sotto diverse pressioni e diverse temperature possono aversi 
fenomeni differenti e le stesse acque silicifere, che alla superfice produ- 


1) De STEFANI. — I Soffioni boraciferi della Toscana. Roma, 1897. pag. 13. 


alina, possono bene 
, come nei filoni, così. 
i sua fase metamorfica si pi 
e addensantisi per ogni verso a. 


Ea 


% ? î ,; A ; Li } i 
rta i Laboratorio di Mineralogia dell’ Università. — Pisa 1 lr 


N ar” e 


SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE 


Tavola II. 


Le fotografie sono tutte eseguite a luce riflessa. 


Fig. 1.— Faccia romboedrica mostrante rilievi lanceolari. Località: Chianciano. 
Ingrandimento 5 diametri. i 

» 2.— Faccia di prisma rilevata presso gli spigoli con ripetute ondulazioni 
di piani. Località: Chianciano. Ingrandimento 5 diametri. 

» 8.— Cristallo a facce prismatiche molto sviluppate e mostrante ripetizione 
di piani romboedrici. Località: Campiglia d’ Orcia. Ingrandimento 
5 diametri. 

» 4.— Cristallo a facce cariate con velature dl quarzo incoloro ricostituito 
sulle facce prismatiche. Località: Chianciano. Ingrandimento 2 
diametri. 

» 5.— Facce romboedriche corrose con rilievi lineari fra l’una e l’altra. Lo- 
calità: Chianciano. Ingrandimento 5 diametri. 

» 6.— Faccia prismatica, con ripetizione di piani romboedrici, che nella fig. 1 
si vede in basso e in nero. Località: Chianciano. Ingrandimento 
5 diametri. 

» T.— Cristallo bipiramidato senza facce di prisma. Località: Chianciano, 
Ingrandimento 3 diametri. 

» 8.— Idem. idem. con alterno sviluppo di facce. Località: Chian- 
ciano. Ingrandimento 4 diametri. 

» 9.— Facce romboedriche con incavi triangolari visibili specialmente presso 
lo spigolo di combinazione col prisma nella parte destra della figura. 
Località: Campiglia d'Orcia. Ingrandimento 5 diametri. 

» 10.— Sezione lustrata parallela all’ asse nel mezzo di un cristallo. Mostra la 
struttura zonale dovuta alla disposizione alterna delle inclusioni 
di varia natura. Località: Chianciano. Ingrandimento 5 diametri. 


Tavola III. 


Le fotografie sono fatte a luce trasmessa non polarizzata ad eccezione delle 6, 
10, 11 eseguite a nicol incrociati, coi piani di polarizzazione paralleli ai mar- 
gini della tavola. ì 


78 


Fig. 


» 


» 


G. D’ACHIARDI 


1.— Sezione mostrante inclusioni laminari di anidrite e globulari di un 
solfato di magnesia (?). La lamina centrale di anidrite mostra due 
inclusioni esagone, verosimilmente di clorite. Località: Cetinale. 
Ingrandimento 150 diametri. 

2.— Sezione con numerose inclusioni fluide e carboniose. Località: Ceti- 
nale. Ingrandimento 150 diametri. 

3.— Sezione parallela all’ asse nel mezzo del cristallo mostrante minuta 
dissemiriazione carboniosa con tendenza a distribuzione zonale verso 
l'esterno. Località: Cetinale. Ingrandimento 5 diametri. 

4.— Sezione con inclusi di un solfato di magnesia (?) a forte rilievo e nucleo 
centrale. Località: Campiglia d'Orcia. Ingrandimento 34 diametri. 

5. — Sezione mediana parallela all’ asse mostrante la distribuzione zonale 
delle inclusioni, apparendo in chiaro le zone di quarzo che ne sono 
libere. Amano a mano che compariscono le facce del prisma il 
contorno poligonale delle zone si modifica. Località: Campiglia 
d’ Orcia. Ingrandimento 5 diametri. 

6.— Piccolo cristallino di gesso trovato in una cavità entro al quarzo. 
Località: Chianciano. Ingrandimento 39 diametri. 


7-8.— Imelusioni liquide con cristallini cubici di salgemma. Località: Ceti 


nale. Ingrandimento 200 diametri. 

9. — Sezione mediana parallela all’asse mostrante la corrispondenza delle 
zone interne con la struttura polisintetica del cristallo. Località: 
Cetinale. Ingrandimento 5 diametri. 

10.— È la sezione di fig. 5 che osservata a nicol incrociati mostra in nero 
la zona prima limpida di quarzo e in mezzo al campo estinto di 
questi copia grandissima di inclusioni birifrangenti. 

11.— Sezione della roccia gessosa dell’ Alpe di Corfino con entro un cristallo 
di quarzo sezionato quasi normalmente all’ asse. Nell’interno del 
quarzo quasi estinto si vedono accumulate verso il centro le inclu- 
sioni, prevalentemente di anidrite. Ingrandimento 30 diametri. 

12.— Rappresenta la parte centrale delle fig. 5 e 10. Nel pseudo-quadrato 
costituito da inclusioni ematitiche si vede un cumulo di lamelle di 
anidrite. Ingrandimento 40 diametri. 


DOTT. GIUSEPPE D’ANCONA 


SZ) 


IL LOTUS CORNICULATUS 0 GINESTRINO 


Tra i fiori di piante che troviamo crescere spontanee in tutte le 
pendici dei nostri monti, nei prati delle colline e del piano, lungo le 
viottole delle campagne, sulle sponde di rivi o fossatelli, come ancora in 
vicinanza del mare, uno dei più graziosi per forma e pel suo bel colore 
di un giallo puro dorato o aranciato, appartiene al Lotus corniculatus 
dei Botanici, più comunemente noto coi nomi di Ginestrino o di Mul- 
laghera. 

Pianta già da lungo tempo compresa nella Flora foraggiera, nondi- 
meno neanche oggi si può dire con esattezza sin da quando, e se pure 
ne faccia menzione nella sua “ Agricoltura , il TartI lucchese (Venezia 
1561) vien ricordata piuttosto come pianta utile in usi farmaceutici, che 
non per alimento del bestiame: sembra infatti allora servisse con effi- 
cacia essenzialmente nella cura di malattie degli occhi. Certo che primi 
ad apprezzarla come foraggio furono gli Inglesi, e già nel 1681 il WoR- 
LIDGE (Mystery of Husbandry) la annoverava tra i migliori: tuttora le 
hanno mantenuto il più ampio favore, e la designano coll’ appellativo 
di Birdsfoot little wild broom. In Germania, segnalatavi agli agricol- 
tori dallo ScHwERZ, vien detta Lotuspflanze, Zierlicherbse, Schotenkee 
od Hornklee: ma più diffusa è in Svizzera, per merito principale, se- 
condo ci dice lo STEBLER, di un piccolo proprietario di Wangen (Olten), 
il quale con pazienza raccolse i semi della pianta spontanea, e dello 
STROMEIER, distinto agricoltore di Basilea, che particolarmente curò la 
cultura se ne estendesse nelle varie regioni del suo paese. In Francia, 
oltrechè il nome di Lotier corniculé, ne ha ricevuti popolarmente mol- 
tissimi, quali, Trèfle cornu, Trèfle jaune, Cornette, Pois joli, Pied 
d’oiseau, Mariée, petit Sabot, Pied de bon Dieu, de pigeon ou de poule, 
Lotier des près ou d’Allemagne, e altri ancora. 


80 G. D’ ANCONA 


Da noi vien chiamata Ginestrino, Mullaghera, Baccellina cornicolata, 
Moscino giallo, Trifoglio giallo, Trifogliolino, Veccia grigiolata, Veriolo, 
Loto a cornicelli, ecc. Ma in Italia non è molto diffusa: e nella mag- 
gior parte dei diversi Trattati vien per lo più solo citata come pianta 
che trova ottimo posto nei miscugli dei Prati stabili, ove si può dir 
quasi sia indispensabile, e di rado se ne ha particolare ricordo perchè 
| sia coltivata o debba coltivarsi nei Prati artificiali regolarmente avvi- 
cendati. Nondimeno ne parla a lungo il prof. M. MonrANARI nel suo 
pregevole “ Trattato di Agricoltura , (Napoli, Marghieri 1889), e nel vo- 
lume riguardante la Toscana dell’ Inchiesta Agraria, già la troviamo di- 
chiarata come la foraggiera dell’alto Mugello: ed il prof. N. PELLEGRINI 
nella sua “ Praticoltura , (Milano, Vallardi 1897) scrive averla veduta 
coltivata nel Padovano, per provvedere in special modo i semi richiesti 
e ben pagati da agricoltori lombardi. 

In Toscana intanto va estendendosi oltre i confini del solo Mugello, 
in certe località e per certi terreni: e giova sperare, e tutto fa credere 
pei risultati che può dare, non abbia a mancarle un avvenire favore- 
vole. Ed il fatto di appartenere alla provvida famiglia delle leguminose, 
può rendere alla cultura della nostra pianta più agevole il propagarsi 
anche in Italia, come già in Inghilterra ed in Svizzera, a sostituirne 
altre di maggiori esigenze, o minor convenienza di essere specializzate. 
Si noti ancora che niun’ altra leguminosa ha nel terreno durata possi- 
bile pari a quella del Ginestrino, il quale può mantenervisi sin oltre 
venti anni, resistendo benissimo agli eccessi di aridità o di umidità del 
suolo, e può senza inconvenienti irrigarsi. 

Tolgo la seguente descrizione botanica dall'opera ricordata del Mox- 
TANARI, e dalla “ Flora Italica , del BeRtoLONI. — Radice fittonata fu- 
siforme a testa inspessita, da cui partono i getti in fascio-serrato: steli 
di 20-60 cm. angolosi, protesi alla base, ma non radicanti, che divengono 
ascendenti a poco a poco, glabri o pubescenti. Foglie sparse, molto bre- 
vemente picciolate, con 5 foglioline obovate cuneiformi od oblungo-lan- 
ceolate, verdi scure di sopra e glauche di sotto: uno spazio assai lungo 
corre fra le due foglioline inferiori e le tre superiori. Stipole abortite 
ridotte a peli ispidi o glandulosi. Fiori relativamente grandi, brevemente 
pedicellati, riuniti in glomerulo di 2-6 «sopra peduncolo ascellare sor- 
passante la foglia. Brattea trifogliata alla base del glomerulo. Calice a 
campana, glabro o villoso. Corolla giallo d’oro screziata di rosso prima 
e spesso anche dopo l’antesi, e poi divenente a poco a poco verde- 


IL LOTUS CORNICULATUS 0 GINESTRINO 81 


bluastra. Vessillo a unghia stretta, a lembo drizzato verticalmente e 
convesso in avanti. Ali rigonfie, che viste dal davanti, presentano forma 
emisferica. Carena prolungata in becco conico, ove sono nascosti gli or- 
gani riproduttivi. Ovario-pluriovulato, lineare, curvato in alto. Legume 
cilindrico lungo mm. 25-27 e grosso 2-3, bruno, con superficie rugosa, 
reticolata, a molti semi, separati da inspessimenti cellulosi, aprentesi 
in due valve che poi si torcono in senso opposto. Semi ovoidi legger- 
mente appiattiti, bruno lucenti, lunghi 1mm. o poco più, a ilo biancastro 
arrotondato. a 
Tre sono le varietà che offrono importanza in agricoltura: 

1.° Il Lotus corniculatus vulgaris, che è la più comune; 

2.° Il Lotus corniculatus villosus; 

3.° Il Lotus corniculatus tenuifolius, a foglioline più piccole, che 
sembra una varietà meridionale, adatta specialmente nei terreni salma- 
strosi, contenenti cioè apprezzabili quantità di cloruro di sodio. Lo 
STEBLER pensa che la varietà vulgaris, in ogni modo la più pregiata 
come quella che è più produttiva e duratura, sia coltivata solo in Sviz- 
zera nel Giura. Nelle Flore italiane, anche ristrette a singole località, 
figurano tanto la vulgaris, quanto la tenuifolius, e credo non errare as- 
serendo di averle vedute ambedue in coltivazione presso di noi. Ma del 
resto le tre varietà possono facilmente confondersi, secondo 1’ autorevole 
parere dello StEBLER medesimo. 

Il Lotus corniculatus è una delle piante che la natura ha più este- 
samente disseminato in tutte le parti del mondo, poichè fa parte, per 
dir così, di tutte le associazioni vegetali. Bisogna riconoscere che sia 
proprio indifferente a terreno, clima e altitudine, poichè è sparso in 
tutta l’ Europa (eccettochè in Russia settentrionale ed in Lapponia), nel 
Nord dell’ Africa, ed in Asia nel Caucaso, Anatolia, Urali, Altai e nel 
Giappone: manca nell’ America del Nord, ma è stato con successo na- 
turalizzato in Australia. Lo troviamo alle maggiori altezze: Bossier lo 
indica nel mezzodì della Spagna sino a m. 1600 di altezza, e nelle re- 
gioni alpine sino a m. 3300, ma allora va considerata come altra va- 
rietà detta glacialis, cui deve certamente riferirsi anche il Lotus alpinus 
di Ramonp. De CAanpoLLE l’ha segnalato sulle Alpi Svizzere sino a m. 2600 
e WAHLEMBER6 a 2200. LepeEBOUR nel Caucaso da 300 a 2400 m. e nel 
Taliisch tra 1600 e 2000. Anche nei nostri Appennini è frequentissimo 
ed io stesso l’ho veduto quasi ai 2000 m. E potendo assoggettarsi ad 
ogni clima e modificarsi secondo i luoghi e le condizioni che la circon- 


82 G. D’ANCONA 


dano, questa pianta deve, come avviene, trovarsi in tutte le latitudini. 
Secondo il Lecocq (Études de Géographie Botanique) ecco i suoi limiti 
di estensione: 


Sud — Abissinia 190 NEO 
Latitudine 58° 
Nord — Loffoden 70° | 
Occidente — Madera 19° O. ic 
no 
Oriente — Siberia 980 E, | OTSIUINO 


Quadrato di espansione 6122. 


La cultura della nostra Foraggiera, a detta dei diversi autori, deve 
essere possibile in tutti i terreni, e più specialmente in quelli aridi e 
magri di montagna, ove l’esperienza fatta permette di ritenerla supe- 
riore a qualsiasi di altre leguminose. Nel Giura (scrive lo STEBLER) il 
Lotus corniculatus è prezioso pei campi a suolo ricco in calcare, me- 
diocremente concimati e lontani dalle fattorie. Prospera poco nei ter- 
reni ricchi di sostanza organica, che possono favorire lo sviluppo delle 
cattive erbe, e specialmente della Cuscuta, formidabile suo nemico. L°es- 
sere facilmente attaccato da questa pianta parassitaria, e, come vedremo 
in appresso, il non avere grado molto elevato di germinabilità, costitui- 
scono i suoi maggiori difetti, gravissimi senza dubbio, ma sopra i quali 
poi in fin dei conti possono le cure dell’uomo trionfare. In Toscana si- 
nora ha dato buoni risultati solo, ch'io mi sappia, nei terreni silicei o 
nei siliceo-argillosi: negli argillosi, che pur son tanto frequenti, non mi 
consta sia stata esperimentata: e poichè si suol fare eccezione pel suo 
adattamento solo ai terreni torbosi, gioverebbe tentarvene la prova. 

In Svizzera lo si semina in marzo o aprile e già in luglio è in fiore, 
ma da noi conviene seminarlo in Autunno per falciarlo poi a Primavera: 
permette un secondo taglio in agosto, e talvolta ne è possibile pure un 
terzo, o almeno sino a novembre possono lasciarvisi le bestie in pa- 
stura. In generale si suole consociarlo con altre foraggiere; che per of- 
frir fusto più resistente, mantengono più dritta la nostra, la quale poi 
si presta benissimo a riempire i vuoti, rendendo così più copioso il com- 
plessivo raccolto. Seminato da solo, occorrono di seme ad Ea. kg. 15-20, 
del quale un El. pesa kg. 75 circa. Il seme, come già ho accennato, ha 
bassa facoltà percentuale germinativa, solo del 61/, secondo STEBLER, 
del 59°/o secondo Toparo. Ma di contro può conservarla molto più a 
lungo di altre leguminose, come dimostrano i recentissimi studil in pro- 
posito del dott. F. Toparo (Stazioni sperimentali Agrarie, Vol. 31): ed 


: 
i 
} 
Ì 
È 


IL LOTUS CORNICULATUS 0 ‘GINESTRINO 83 


è dovuto sopratutto all’ elevato percento di seri duri che d’ordinario 
contiene, se nel Ginestrino si trovano gradi abbastanza elevati di ger- 
minabilità anche dopo una conservazione del seme di sette od otto anni. 

Non richiede poi il Ginestrino cure particolari di lavorazione, se non 
quelle comuni a tutte le piante del genere. Dà molto prodotto: lo STE- 
BLER al 2.° anno in tre tagli ha ottenuto in aiuola di 2 m.? kg. 13,5 di 
erba verde: il SincLAtrR da terreno tenace ha avuto q.' 36 di fieno ad 
Ea.: il MontANARI dichiara che il prodotto in fieno per Ea. può essere 
di q.' 40-50. Anche nel Mugello dà forte produzione, secondo i dati co- 
municatimi, e questo deve essere tenuto nel dovuto conto dai nostri pra- 
tici: l’unità di prodotto delle piante presso di noi coltivate per foraggio 
è in generale piuttosto scarsa. 

Contrariamente ad una vecchia opinione gli animali tutti, equini, 
vaccini ed ovini, se ne cibano volentieri, tanto verde, in stalla o in pa- 
stura, quanto secco. Però volendoglielo far mangiar fresco è utile fal- 
ciarlo precocemente, perchè i fiori sono un po’ amari, ed il loro colore 
intenso può comunicarsi al latte ed al burro, che pur non ne risentono 
affatto per qualità. Nel seccarsi a fieno si riduce circa del quarto: 
NicgLes da 100 kg. di erba ne ha ottenuti 25 di fieno: RIirTHAUSEN ha 
trovato nel foraggio verde il 79,2°/o di acqua. In prove accurate di af- 
fienagione eseguite in Mugello e nell’ Aretino, per mio desiderio, da 
100 kg. di erba si sono ottenuti di fieno rispettivamente kg. 27 e kg. 31, 
compresi però 3 kg. circa di foglie che naturalmente si erano staccate: 
e questo insegna che deve porsi molta cura nell’ affienarlo. 

Sulla composizione chimica della nostra pianta ho potuto trovare 
alcune analisi abbastanza complete, dovute a scienziati stranieri, che mi 
piace riportare: 


I. Analisi del MAERcKER publicata nella “ Deutsche Landwirtschaftliche 
Presse, 1887. N. 6. 


Acqua eee 15 i 

Sostanze azotate . 13,5 Acido fosforico. 6,51 
Per 100 di so- : i È Per 100 ; 

Grassi greggi. . 2,8 i Calce. «0.034,10 
stanza sec- “DR, : di à 

,__+. | Estrattivi inazotati 39,7 Magnesia. . . 7,60 

cataall’aria ] ; cenere pura 

Fibra greggia. . 24,6 Potassa . . . 19,02 


Ceneri. 49 


Sc. Nat., Vol. XVII 6 


84 * G. D’ ANCONA 


II. Analisi riferite da SaEBLER e SCHROETER: “ Les meilleures plantes 
fourragères ,. (Berna. Wyss, 1894). dovute a KIRCHNER e HAGEN, @ 
KELLGREN e NILSON ed @ STEBLER e SCHROETER. 


Per 100 di sostanza seccata all’ aria 


Media Minima Massima 
Sostanza azotata greggia. . . . . 12,1 1 13,6 
Grassi, stegoli te de ZA 2,3 398 
Rstrattivi inazotabi Rie 83506 28,4 41,2 
Cellulosatore So Ae RN 3082 15,9 35,8 
CENEriE rato A SAT AIN 4,9 11,4 
Per 1000 di sostanza seccata all’ aria 

Azoto . . . 25,1 (Cane o ie O Acqua . . . 140 

Acido fosforico 10,9 Potassa . . . 23,8 Soda So 0,9 
Calce 82058 Magnesia . . 5,2 Acido solforico 2,4 

Acido silicico . 7,3 


E poichè niuna di queste analisi era stata compiuta in Italia, volli 
eseguirne due io pure, su campioni fornitimi, l’uno dal sig. G. CHIARUGI, 
agente alla Fattoria del Palagio presso Scarperia (Mugello) di proprietà 
del marchese ToLomri, l’altro dal conte ALEssio PANDOLFINI: si abbiano 
qua i miei dovuti ringraziamenti, anche per le indicazioni cortesi colle 
quali hanno accompagnato i campioni medesimi, e di cui già in addietro 
più volte mi son valso. 

Il campione N. 1 (Mugello) è di un secondo taglio di Ginestrino, 
eseguito alla metà di luglio, coll’erba in piena fioritura, in prato di 
terreno siliceo-argilloso, esposto a Mezzogiorno. 

Il campione N. 2, proveniente dalla Tenuta di Col di Gragnone 
(Arezzo), pure di secondo taglio, fu falciato in agosto quando i semi 
erano già appariscenti nei legumi, di un’altezza di cm. 65: aveva ve- 
getato in terreno tufaceo argilloso, contenente pochissimo carbonato di 
calce, in cui prospera il castagno. 

L’analisi chimica dei due campioni, seccati all’aria e resi in polvere, 
fu compiuta nel Laboratorio di Chimica Agraria della R. Università di 
Pisa, per gentil concessione del Direttore, prof. Fausto SESTINI, ed al 
mio ottimo Maestro giungano le espressioni di mia viva gratitudine. 

Iì lavoro analitico fu interamente eseguito avendo a guida i “ Me- 
todi e Norme per l’ analisi chimica delle materie di uso agrario , (Pisa, 
Mariotti 1895), publicati dal Laboratorio medesimo. Ed ho cercato di 
presentare i risultati, nel modo il più completo che mi fosse possibile. 


IL LOTUS CORNICULATUS O GINESTRINO 85 


Nondimeno neanche dalle cifre da me raccolte può trarsi il rapporto 
nutritivo della nostra leguminosa, perchè se a me fu concesso, seguendo 
il metodo della digestione artificiale, che porta il nome da STUTZER, 
poter determinare le sostanze azotate digeribili, niun metodo, al pari 
di quello di effetti scientificamente sicuri, è offerto al chimico per uguale 
determinazione della parte nutriente delle altre sostanze che compon- 
gono i vegetali. Ciò potrebbe ottenersi colle prove accurate di alimen- 
tazione diretta del bestiame, che solo forse possono condurre a termine 
scrupolosamente Istituti o Scuole Agrarie meglio ancora che privati, e 
che escivano affatto naturalmente dal campo delle mie esperienze. Simili 
prove sono state già per quasi tutti i foraggi compiute in Istituti di 
Germania, d’ Inghilterra e di Francia, ma non, ch'io sappia, pel nostro. — 
Ecco quanto ho determinato nei due fieni: 


PER 100 DI SOSTANZA 
Seccata all’ aria Secca a 110° C. 
INS N. 2 N. 1 N. 2 
DITTE PI IAA RIVER AIC IAS PRESORESPEOTIRRE 15,150 | 13,954 » » 
Sostanze azotate (N. proteico X 6,25) . 14,808 | 13,813 | 17,440 | 15,868 
Sostanze grasse (Estratto etereo). . 3,113 3, 231 3,670 3, 700 
MIPrARotege pia, i su ole nata 28,243 | 30,037 | 33,168 | 34,507 
WERErSgp urna i a se. 6,103 7,186 7,192 8,255 
Sostanze estrattive inazotate . . . 32,583 | 31,779 | 38,530 | 37,670 
| Pentosani . . 9,128 9,656 | 10,757 | 11,233 
> delle quali} Carboidrati sac- 
carificabili e 
ari Oa 15,845 | 14,979| 18,674) 17,408 
100,000 | 100,000 | 100,000 | 100,000 
Sostanze azotate digeribili. . . . 6, 900 T, 175 » » 
Nucleina indigeribile (1)... . 7,908 6, 638 » » 
cio e ER] CSA 2,520 2,450 » » 
Azoto proteico. . . . ia 2,010 1,900 » » 
Azoto digeribile . . . ; 1,104 1,148 » » 


(') LojSturzER indica con questa denominazione convenzionale la differenza tra la sostanza 
azotata totale e quella digeribile, 


86 G. D’ ANCONA 


Ossido ferricc-alluminico 
» calcico . 
» magnesiaco 
» potassico 
»  Sodico . 
Anidride fosforica 
» solforica 
» silicica.. 
Cloro 


Differenza tra Cl, e O 


Sostanze non determinate e perdite 


Per 100 di Ginestrino 
seccato all'aria 


Per 100 parti 
di Cenere pura 


No 1 No 2 No 1 No 2 
0,222 | 0,364 | 3,637 | 5,066 
1,524 | 1,698 | 24,969 | 23,629 
0,310 | 0,294 | 5,082 | 4,091 
1,340 | 1,580 |21,954 | 21,987 
0,452 | 0,486 | 7,405 | 6,772 
0,612 | 0,768 |10,026 | 10,687 
0,290 | 0,315 | 4,915 | 4,383 J 
1,268 | 1,605 |20,781 | 22,335 
0,053 | 0,074 | 0,884 ! 1,029 
6,071 | 7,184 | 99,653 | 99,979 
0,012 | 0,016 | 0,202 | 0,235 
6,059 | 7,168 | 99,451 | 99,744 
0,044 | 0,018 | 0,549 | 0,256 
6,103 | 7,186 | 100,000 [100,000 


Da queste analisi del foraggio ridotto a fieno si può facilmente rico- . 
struire la composizione chimica del Ginestrino allo stato naturale, tenendo 
conto di quanto già abbiamo veduto che perde nel seccarsi. 


Acqua 

Sostanze azotate 

Sostanze grasse 

Fibra greggia . 

Ceneri 

Sostanze estrattive inazotate 


. ( Pentosani 
» delle quali ì 


Sostanze azotate digeribili 
Nucleina indigeribile 
Azoto totale 

Azoto proteico 

Azoto digeribile 


Carboidrati saccarificabili e amido . 


Per 100 di sostanza naturale 


Ne 1 N. = 
80,285 | 76,489 
3,429 | 3,730 
0,723 | 0,872 
6,563 | 8,113 
1,418 |. 1,937 
7,582 | 8,859 
2,120 | 2,608 
3,693 | 4,046 
100,000 |100, 000 
1,615 | 1,937 
1,814 | 1,593 
0,585 | 0,662 
0,468 | 0,515 
0,256 | 0,310 


IL LOTUS CORNICULATUS 0 GINESTRINO 87 


Composizione della Cenere 


N61 N. 2 
Ossido ferrico-alluminico . : ; 7 ; 0, 051 0, 098 
» calcico. : È - 2 i È 0,354: 0, 407 

» magnesiaco . È : 5 : - 0,072 0,079 

» potassico . 2 7 : 5 2 0,311 0, 426 

»  Ssodico. . È ; i È : 0,105 | 0,151 
Anidride fosforica . 5 : - . o 0, 142 0, 206 
» solforica . o o ì 0 £ 0, 069 0, 084 

» Silicicantttà : 5 " c . ‘0,294 0, 432 
Cloro . 3 > Say VE z : : 0,012 0,019 
1,410 1,932 

Differenza tra Cl, e O. . : È È 0, 002 0, 004 
1,408 1,928 

Sostanze non determinate e perdite ; - 0,010 0,009 
1,418 1,937 


Esaminando con attenzione le quantità dei chimici costituenti il Lotus 
corniculatus, può trarsene facilmente la conclusione, che in realtà deve 
annoverarsi tra i migliori foraggi, poichè contiene in buona proporzione 
gli elementi nutritivi. E se pur vero, che grave suo difetto sia anche 
quello di indurire notevolmente invecchiando, allo stato di fieno, sia il 
primo nell’anno a concedersi al bestiame in istalla. E poichè il Gine- 
strino permette annualmente più tagli, ottima cosa potrà essere il so- 
vesciare l’ultimo di essi, come già mi scrive l’egregio conte PANDOLFINI 
di aver praticato nella sua tenuta presso Arezzo. In tal modo egli ha 
potuto restituire al terreno, per dir solo dei componenti principali, ad 
Ettaro: 

di Azoto ; z c . è - 3 kg. 132,400 


di Acido fosforico . - 5 _ : . » 41,200 
di Potassa . - 5 . ” ; à » 85,200 


88 


G. D' ANCONA 


E per i computi di Statica Agraria, per coloro i quali ad essa at- 
tribuiscono quella relativa importanza, che pur le spetta,.ecco quanto 
un medio raccolto di kg. 20000 di Ginestrino fresco, pari a quintali 50 
di fieno, esporta dal terreno, in cui vegeta, a suo profitto, degli elementi 
minerali del suolo medesimo: giova avvertire che le quantità qui sotto 
indicate non sono desunte solo dalle analisi ch'io ho eseguite, bensì in 
base alla media di tutte quelle che della pianta ho potuto conoscere. 


Contenuto in 100 parti 


Estratto da Un ettaro — 


della pianta naturale di terreno 
Ossido ferrico-alluminico Kg. 0, 074 14, 800 
» calcico » 0, 465 93, 000 
» magnesiaco » 0, 093 18, 600 
» potassico » 0,398 79,600 
» Sodico » 0,112 22, 400 
Anidride fosforica » 0,219 43, 300 
» solforica. » 0, 070 14, 000 
» silicica » 0,210 42,000 


Da tutto quanto ho raccolto oggi sopra il Lotus cormiculatus, frutto 
di estese ricerche e di esperienze mie proprie, credo potermi sentire 
sicuramente indotto a raccomandarne la coltivazione agli agricoltori del 
nostro paese: ed auguro vivamente che in pratica i fatti non vorranno 
smentire la mia modesta parola. 


Laboratorio di Chimica Agraria della R. Università di Pisa 


febbraio 1899. 


ALLEGATO 


Risultati di analisi del Lotus corniculatus 


N. 1 | N.2 
1. Determinazione dell’ umidità. 

Peso del vasetto con sostanza . 3 : o . Gr. | 33,2700 | 32, 8920 
» del vasetto vuoto , c 0 7 x : » | 23,2700 | 22, 8920 

» della sostanza adoperata . 3 : 0 20 »| 10, » LOM 
» del vasetto colla sostanza seccata a 110° C. | » | 31, 7550 | 31,4966 
Mt IO | 13954 
Umidità °/, di sostanza . o - c , ; » | 15,150 | 13,954 
Sostanza secca . È o 5 page ide . ° »| 84,850 | 86,046 


2. Determinazione delle sostanze azotate. 


Foraggio seccato all’ aria adoperato . E : . Sai IbLO se LO 
Peso del residuo dei diversi trattamenti . 7 , »| 8,9932 | 8,9122 
Adoperati di questo per la determinazione dell’ azoto. »| 1,6482| 1,4032 
Azoto trovato . ; . È , : 5 7 » | 0,037 0, 032 
Sostanza azotata corrispondente °/, di sostanza . . » | 14,808 | 13,813 
Sostanza azotata corrispondente °/, di sostanza secca. » | 17,440 | 15,868 
Azoto proteico . c c c È È : £ »| 2,010 1,900 
3. Determinazione dell’ estratto etereo (Grassi). 


Sostanza adoperata . : 3 5 7 5 ; »| 6,4100 | 6,3720 
Peso del palloncino colla sostanza grassa . ; ” » | 35,8620 | 35, 8640 
Peso del palloncino vuoto . È 3 ; 7 . » | 35,6268 | 35, 6274 
Peso della sostanza grassa . o : ; 0 i; »| 0,2352 | 0,2366 
Sostanza grassa corrispondente °/, di sostanza . . —»| 3,1136 | 3,2313 
Sostanza grassa corrispondente °/, di sostanza secca . »| 3,670 | 3,700 


4. Determinazione della fibra greggia (Cellulosa). 


Sostanza secca e digrassata adoperata c è c EI 2, » 
Peso della fibra greggia separata . : È .»| 0,7050| 0,7254 
Fibra greggia corrispondente °/, di sostanza . - » | 28,243 | 30, 037 


Fibra greggia corrispondente °/, di sostanza secca . —»| 33,168 | 34,507 


90 G. D' ANCONA 


5. Determinazione della cenere impura. 


Sostanza adoperata 


Peso del crogiuolo colla cenere . 
Peso del crogiuolo vuoto 


Peso della cenere 


Cenere impura corrispondente °/, di sostanza 


6. Determinazione dell’anidride carbonica. 


Peso dell’ apparecchio con cenere 
Peso dell’ apparecchio vuoto 


Peso della cenere adoperata 
Peso dell’ apparecchio dopo svoltasi 1° CO, . 
‘Perdita in peso . 


Anidride carbonica °/o 


7. Determinazione della sabbia e carbone. 


Residuo ìnsolubile in soda caustica 10 °/, . 


Sabbia e carbone °/ . 


8. Determinazione della cenere pura. 


Cenere impura 
Sabbia e carbone e anidride carbonica 


Cenere pura 


Cenere pura corrispondente °/, di sostanza. 
Cenere pura corrispondente °/, di sostanza secca 


9. Determinazione dei pentosani. 


Sostanza adoperata 
Peso del floroglucide precipitato. 


Pentosani corrispondenti °/, di sostanza 
Pentosani corrispondenti °/, di sostanza secca 


x 


No 1 IN. DD 
50, >» 50, » 
58,2367 | 65, 5160 
54, 3284 | 60, 0248 
3,9083 | 4,4912 
7,8166 | 8,9824 
92, 9504 | 93, 5428 
89, 0524 | 89, 0516 
3,8980 | 4,4912 
92,5780 | 92,9607 
0,3724 | 0,5821 
0, 7448 | 1,1642 
0,4841 | 0,3159 
0,9682 | 0,6318 
3,9083 | 4,4912 
.| 0,8565| 0,8980 
3,0518 | 3,5932 
6,108 | 7,186 
7,192 | 8,255 
2,5000 | 2,5000 
0,1660 | 0,1756 
9,128 | 9,656 
10,757 | 11,233 


I 


IL LOTUS CORNICULATUS O GINESTRINO 


91 


10. Determinazione dei carboidrati saccarificabili 


(come Amido). 


Sostanza adoperata . . : . . : gi (Gi 

Quantità media di soluzione zuecherina occorsa per 
ridurre cc. 10 del reattivo di FRHLING . Îe i O, 

Glucosio °/, di sostanza... e, ; Gi 


Amido corrispondente °/, di sostanza . 


x 


Amido corrispondente °/, di sostanza secca . o » 


11. Determinazione delle sostanze azotate digeribili. 


Sostanza secca e digrassata adoperata. 2 0 o » 
Azoto trovato . : 7 ; : ò . 5 » 
Azoto digeribile corrispondente °/, di sostanza . 5 » 


Sostanza azotata digeribile corrispondente °/, di sostanza » 


12. Determinazione dell’ azoto totale. 


1.2 PROVA 


Sostanza adoperata . È L 5 , - . » 
H,S0, N. adoperato . : . , 7 : Rice. 
NaOH » occorso . : . o : c : » 
H,SO, » saturato . È 2 : ; o ; » 
H,SO, » dalla prova in bianco . - 7 6 » 
H,SO, » dall’ N della sostanza x : 3 : » 
2.3 PROVA 
Sostanza adoperata . ; , : . È Gr 
H,SO, N.° adoperato . : - : o . 0 
NaOH » occorso . : È : . ' È » 
H,SO, » saturato . . : ; È ; i; » 
H,S0, » dalla prova in bianco ; ) . i, » 
H,S0, » dall’N della sostanza È . - ; » 


Azoto totale corrispondente °/, di sostanza. 


=» 


Sc. Nat., Vol, XVII 


No 1 N. = 
10, » LOI 
28,4 30, 6 
17,605 | 16,643 
15,845 14,979 
18, 674 17,408 
VAN) 2, » 
0, 0220 0, 0229 
1,104 1,148 
6,900 1,175 
Io IÙ, » 
20, » 20, » 
178) le 
Za Di do 
0,3 0,3 
1,8 DAT 
2, » 2, » 
25, » 25, » 
20,8 21,1 
4,2 9,9 
0,3 0,3 
9,9 3,6 
2,520 2,450 
7 


92 G. D’ ANCONA 


13. Determinazione dell’ ossido ferrico - alluminico 


(eseguita in 100 ce. della soluzione cloridrica di 500 cc.). 


Peso del crogiuolo col precipitato raccolto . 


» del crogiuolo vuoto 


» del precipitato complessivo 
» da defalcarsi della P,0. 


» dell’ ossido ferrico-alluminico 


Ossido ferrico-alluminico °/o di sostanza 
Ossido ferrico- alluminico °j, di cenere pura 


14. Determinazione dell’ ossido calcico 
(in cc. 100 di 500). 
Peso del crogiuolo col precipitato 
» del crogiuolo vuoto 


» del precipitato 


Ossido calcico °/, di sostanza 
/ 


» calcico °/, di cenere pura 


15. Determinazione dell’ossido magnesiaco 
(in cc. 100 di 500). 
Peso del crogiuolo col precipitato 
» del crogiuolo vuoto 


» del pirofosfato magnesiaco . 


Ossido magnesiaco corrispondente °/, di sostanza 


»  magnesiaco corrispondente °/, di cenere pura. 


16. Determinazione dell’ ossido sodico 
(in 50 cc. di 500). 


Peso della capsula coi cloruri 
» della capsula vuota 


» dei cloruri di Na e K. 
Cloruro di K calcolato dal cloroplatinato 


Cloruro di sodio . 


Ossido sodico corrispondente °/, di sostanza 
» sodico corrispondente °/, di cenere pura. 


Gr. 


x 


% 


4 


x 


d 


»d 


x 


DA 


2A 


DA 


x 


x 


x 


x 


x 


x 


x 


% 


DA 


Ne 1 N. 
20, 9358 | 20, 9426 
20, 8676 | 20,8678 

0,0682 | 0,0748 
0,0460 | 0,0384 
0,0222 | 0,0364 
0,222 | 0,364 
3,637 | 5,066 
19, 7756 | 21,0374 
19, 66232 | 20,8676 
0,1524 | 0,1698 
1,524 | 1,698 
24,969 | 23,629 
20, 9530 | 19, 7040 
20, 8674 | 19,6230 
0,0856 | 0,0810 
0,810 | 0,294 
5,082 | 4,091 
34,9452 | 34,9758 
34,8052 | 34,8050 
0,1400 | 0,1708 
0,1060 | 0,1250 

0,0340 | 0,0458 

0,452 | 0,486 

7,405 | 6,772 


IL LOTUS CORNICULATUS O GINESTRINO 


17. Determinazione dell’ossido potassico 
(in 50 ce. di 500). 


Peso del cloroplatinato potassico. 


Cloruro potassico corrispondente. 
Ossido potassico corrispondente °/, di sostanza 
Ossido potassico corrispondente °/, di cenere pura 


18. Determinazione dell’anidride fosforica 
(în ce. 75 di 500). 


Peso del crogiuolo col pirofosfato magnesiaco 
» del crogiuolo vuoto 


» del pirofosfato magnesiaco . 


Anidride fosforica corrispondente °/, di sostanza 


Anidride fosforica corrispondente °/, di cenere pura . 


19. Determinazione dell’anidride solforica 
(in cc. 100 di 500). 


Peso del crogiuolo col solfato baritico , 


» del crogiuolo vuoto 
» del solfato baritico 


Anidride solforica corrispondente °/, di sostanza, 


Anidride solforica corrispondente °/, di cenere pura . 


20. Determinazione dell’ anidride silicica 


(nel liquido separato dalla sabbia e carbone ) 


Peso del crogiuolo colla sostanza 
» del crogiuolo vuoto 


» della sostanza 


Anidride silicica corrispondente °/, di sostanza . 
Anidride silicica corrispondente °/, di cenere pura 


N». 1 N». 2 
0,3418 | 0,4072 
0,1060 | 0,1250 
1,340 | 1,580 
21,954 | 21,987 
20, 9392 | 20, 9270 
20, 8672 | 20, 8670 
0,0720 | 0,0600 
0,612 | 0,768 
10,026 | 10,687 
19, 7078 | 20, 9596 
19,6234 | 20, 8676 
0,0844 | 0,0920 
0,290 | 0,315 
4,915 | 4,383 
21,4514 | 21,6694 
20, 8672 | 20, 8668 
0,5842 | 0,8026 
1,268 | 1,605 
20,781 | 22,335 


Sostanza adoperata . (. ci AE ni 
Soluzione di nitrato d’ argento occorsa " i 5 
Cloro precipitato da un ce. di soluzione . . 
Cloro corrispondente °/o di sostanza E TI 


Cloro corrispondente °/o di cenere pura... 


Differenza fra cloro e ossigeno Ce °/o di sostanza. 


Differenza fra cloro e ossigeno ta °/o di cenere pura. 


Be È 


M. CANAVARI 


HOPLITI TITONIANI DELL’APPENNINO CENTRALE 


(Tav. V [I]). 


Nel Museo di Pisa si trovano conservati tre esemplari di Ammoniti 
dell'Appennino centrale appartenenti al genere Hoplites e non corrispon- 
denti a nessuna delle specie conosciute. Essi provengono molto proba- 
bilmente dal Titoniano superiore; uno, Hopl. aesinensis n. sp., fa parte 
della serie dell’ Hop. Chaperi Pict., e gli altri due, Hopl. heterocosmus 
n. sp. e Hopl. Bonarellii n. sp., si riuniscono alla serie dell’ Hopl. Eu- 
thymi Piotr. 

Il desiderio di recare un nuovo contributo, sia pure tenuissimo, alla 
conoscenza delle faune secondarie dell'Appennino centrale, m’induce oggi 
a pubblicare la descrizione dei tre Hopliti su ricordati. 


Hoplites aesinensis n. sp. 
Tav. V [I], fig. 1a-d. 


DIMENSIONI 

Diametro approssimativo . . ; 7 ; mm. 123 
Altezza dell’ ultimo giro in rapporto al TIRA o 0,34 
Spessore » » » 7 0,19 
Larghezza dell’ ombellico » » : 0,31 


Il frammento conservato di questo Hoplites corrisponde circa alla 
metà di una conchiglia molto compressa, tutta concamerata, con accre- 
scimento piuttosto rapido e con piccolo ricoprimento. Fianchi pochissimo 
convessi con il massimo spessore ai ?/, della loro altezza dal contorno 
ombellicale; regione esterna subpiana, sezione trasversale subpentagonale 
compressa, intaccata inferiormente dal ritorno della spira. Sulla parte 


96 ad M. CANAVARI 


del giro esterno conservato e presso il contorno ombellicale, ove i fianchi 
scendono rapidamente all’ombellico, si hanno undici tubercoli compressi 
lateralmente; altrettanti e della stessa forma costituiscono una seconda 
serie situata ai “|, dell'altezza del giro, in corrispondenza cioè del mag- 
giore spessore. Nella direzione radiale i tubercoli sono riuniti a due a 
due mercè una costicina originata dai loro prolungamenti. Da ogni tu- 
bercolo poi della seconda serie partono due coste, in sul principio poco 
manifeste, poi alquanto acute, piegate anteriormente, e aumentanti in 
grossezza verso l'angolo di riunione dei fianchi con la regione esterna, 
ove terminano con spiccato ispessimento, che a grado a grado verso la 
parte più sviluppata della conchiglia prende l'aspetto di deciso tuber- 
colo. Oltre alle coste che confluiscono a due a due nei tubercoli della 
serie centrale, se ne hanno interposte altre due tra ogni coppia, rara- 
mente una sola, le quali, cominciando all’esterno con un tubercolo al- 
lineato con quelli della serie esterna e della stessa forma di essi, sva- 
niscono poi verso la serie mediana come è indicato nella figura (Tav. 
V [I], fig. 1a). I tubercoli marginali limitano la regione sifonale liscia, 
subpiana e un poco depressa. Nella parte conservata del penultimo giro 
la doppia serie interna dei tubercoli non si avverte più, e nulla può 
dirsi intorno all'andamento delle coste perchè il frammento è molto 
corroso. Il numero però di esse, verso la regione esterna, doveva es- 
sere assai considerevole, perchè nel fianco opposto a quello figurato, 
presso la sutura di ricoprimento, se ne hanno le tracce di circa 45. 

I lobi sono evidentissimi su tutta la porzione dell’ ultimo giro rimasto. 
La terz’ultima linea lobale è quella figurata (Tav. V [I], fig. 1d); essa pre- 
senta questi caratteri: Sella esterna ampia, profondamente bipartita in 
modo però che la porzione interna rimane più alta della esterna; prima sella 
laterale appena più bassa e più stretta della precedente, bipartita da un 
lobicino non molto profondo; seconda sella laterale bassa, molto ridotta, 
non spiccatamente suddivisa: segue una sola sella accessoria assai pic- 
cola. Lobo sifonale nella regione subpiana interposta ai nodi, con sel- 
letta sifonale ben sviluppata; primo lobo laterale piuttosto stretto, tri- 
partito e circa !/, più profondo del sifonale; secondo lobo laterale assai 
ridotto e un poco meno profondo del sifonale. Semplicissimi e alquanto 
piegati all’esterno sono i due lobi seguenti, l’ultimo dei quali appena 
sorpassa in profondità il secondo laterale e trovasi sulla parete circum- 
bellicale. Tutta la linea lobale è poi molto frastagliata e le foglioline 
presentano quasi sempre nella parte terminale una piccola intaccatura. 


HOPLITI TITONIANI DELL’APPENNINO CENTRALE ONT] 


La forma descritta è grandemente vicina all’ Hopl. Chaperi Prot. 4), 
da cui si distingue solo per la serie esterna dei tubercoli ?) e per le 
coste ombellicali meno numerose. 

Altre specie dello stesso gruppo che possono citarsi a titolo di con- 
fronto sono: Hopl. Vasseuri Ki., Botellae Kiu., Malladae KiL. e Ta- 
rinì Ki. 

Hoplites Vasseurì Kin. ®) ha due sole serie di tubercoli, la circum- 
bellicale e l’ esterna. 

Hoplites Botellae Ki. *) ha coste fasciculate, più flessuose e i tuber- 
coli della serie mediana irregolarmente distribuiti ed accrescimento un 
poco più lento. 

Hoplites Malladae Kix. %) che ha anche la serie esterna di tubercoli, 
presenta però coste diritte ed accrescimento molto più lento e quindi 
giri in proporzione più bassi. 

Hoplites Tarini Kxn. 5) ha coste esterne più numerose, la regione 
sifonale più larga e l'apertura più rettangolare. 

La linea lobale non è conosciuta in nessuna delle cinque specie ri- 
cordate, quindi in riguardo ai caratteri desunti da essa non può isti- 
tuirsi alcun confronto. Possiamo solo dire che i lobi della nuova forma 
appenninica ha spiccatissimi i caratteri degli Hopliti ?); per il loro fra- 
stagliamento sono poi diversi da quelli osservati nell’ Hoplites heteroco- 
smus n. sp. e forse da tutti gli Hopliti del gruppo dell’ Hopl. Euthymi Prot. 


1) Prorer F. J. — Mel. paléont., 4.° livr., pag. 242, pl. 37, fig. 1-3. Genève, 
1868. 

2) Il Toucas (Faune des couches tith. de l’ Ardèche. Boll. Soc. géol. de France, 
3.° sér., tome XVIII, pag. 606, pl. XVIII, fig. 8. Paris, 1890) dice appunto che 
l’Hopl. Chaperi Picr. ha le coste molto piegate all’ avanti terminanti sul 
contorno esterno senza formare una terza serie di tubercoli. 

3) Kiran W. — Mission d’Andalousie. I. Le gisement tith. de Puente de los 
Frailes. II. Etudes paltont. sur les terrains second. et tert. de V Andalousie. 
Extr. du tome XXX de l’Acad. des sciences de l’ Inst. de France, pag. 663, pl. 
XXX, fig. 2. Paris, 1889. 

4) KiLian W. — L. c., pag. 664, pl. XXXI, fig. 5; — Toucas. A.- L. c., pag. 
606, pl. XVIII, fig. 9 e 10. 

5) Kiran W.— L. c., pag. 669, pl. XXXI, fig. 6. 

6) KiLran W. — L. c., pag. 667, pl. XXX, fig. 4. 

°) Si vegga per es., a titolo di confronto, la linea lobale dell’ H7oplites ambly- 
gonius in NEUMAYR et UnLIG. Ueber Amm. aus den Hilsbild. Nordeutschl. Pa- 
laeont., Bd. XXXII, Taf. XXXVI, fig. 1c. Cassel, 1881. 


98 M. GANAVARI 


Il frammento descritto, fu raccolto nei monti: della Rocchetta che 
seguono a Nord il gruppo del Sanvicino e proviene dal Titoniano su- 
periore. 


Hoplites heterocosmus n. sp. 
Tav. V [I], fig. 2a-c. 


DIMENSIONI 
Diametro . i i ; £ o . ; . mm. 95 
Altezza dell’ ultimo giro in rapporto al diametro . 0,34 
Spessore » » » . 0,31 
Larghezza dell’ ombellico » » o 0, 43 


Conchiglia discoidale, pochissimo involuta, con ampio ombellico, com- 
posta da circa quattro giri con accrescimento piuttosto lento. Fianchi 
molto convessi, col maggior rilievo ad un terzo circa dal contorno om- 
bellicale; regione esterna larga e convessa nella prima metà dell’ultimo 
giro, poco convessa invece e quasi pianeggiante verso l’apertura, ove 
la sezione trasversale si presenta subpentagonale appena intaccata dal 
ritorno della spira a causa del suo piccolo ricoprimento. I giri interni 
sono ornati da costicine che appaiono semplici e che gradatamente di- 
ventano sempre più grosse; nel penultimo giro se ne contano circa 21: 
presso il contorno ombellicale esse manifestano una spiccata nodulosità 
che aumenta con l'accrescimento. Oltremodo caratteristici sono poi gli 
ornamenti dell’ultimo giro. Consistono essi in circa 16 forti tubercoli 
compressi radialmente e quindi costiformi, che hanno la maggiore spor- 
genza presso la maggiore convessità dei fianchi. Questi tubercoli non 
sono molto evidenti nel primo terzo di esso ultimo giro per la conser- 
vazione poco buona dell’ esemplare; si presentano invece evidentissimi 
ed assai sporgenti nei restanti due terzi dove se ne contano 9: gli ul- 
timi 4 sono poi parzialmente rotti. Essi si prolungano verso il contorno 
ombellicale a guisa di costicina diminuendo però ben presto d’ intensità. 
Dalla parte esterna i tubercoli sono più larghi e ad ognuno succedono 
due ondulosità o coste, e talvolta, come in prossimità dell’ apertura, ne 
succede anche una sola, pochissimo rilevate o indistinte, piegate poste- 
riormente. Queste ondulosità o coste ingrossano verso i margini esterni 
dei fianchi e terminano poi in altri tubercoli molto sporgenti, aculeiformi, 
anch’ essi piegati all’ indietro come le coste e compressi lateralmente. 
Nella regione sifonale tra gli aculei terminanti le coste di un fianco e 


HOPLITI TITONIANI DELL'APPENNINO CENTRALE 99 


quelli corrispondenti del fianco opposto si presenta una superficie liscia 
e alquanto depressa. 

Le suture lobali, solo parzialmente conservate, arrivano sino alla 
prima metà circa dell’ultimo giro; quindi la seconda metà dello stesso 
ultimo giro appartiene alla camera di abitazione. È su questa parte che 
i tubercoli dei fianchi raggiungono il loro maggiore sviluppo. ‘ 

Lobo sifonale stretto e poco profondo; primo lobo laterale non molto 
ampio e quasi un terzo più profondo del sifonale; secondo laterale molto 
piccolo e profondo quanto il sifonale; segue un ampio lobo suturale quasi 
punto frastagliato. Sella esterna alta e stretta quanto il primo lobo la- 
terale; sella laterale ampia e un poco più bassa della esterna; succede 
ad essa una piccola selletta monofilla posta nella parete circumbellicale 
e poi una lieve ondulosità presso la sutura (Tav. V [I], fig. 20). 
La nuova specie è strettamente affine all’ Hoplites Euthymi Pict 1). 
Diversifica da questo per lo spessore maggiore dei giri, per la presenza 
di due serie sole di tubercoli, mancandovi la serie che si trova presso 
la sutura ombellicale, e per il maggior sviluppo dei tubercoli stessi. 

La forma della sezione trasversale del giro, la posizione dei tuber- 
coli sul maggior rilievo dei fianchi ad un terzo circa del contorno om- 
bellicale, la grossezza degli aculei marginali e la mancanza dei tuber- 
coli cireumbellicali, separano poi la specie appenninica dall’ Hoplites Mal- 
bosi Picr. ?). 

L’ Hoplites Andreaei Kix. *) del Titoniano superiore di Cabra (Anda- 
lusia), che ha la sezione dei giri simile a quella del nostro esemplare, 
presenta ornamenti più regolari, un numero maggiore di coste verso 
l'esterno dei fianchi, e quivi tubercoli molto meno sviluppati. 

L’ Hoplites Bergeroni Ki. #) si distingue subito per avere tre serie 
di tubercoli invece di due. Lo stesso carattere unito all’ accrescimento 
più lento della spira, alla sezione del giro e alla forma allungata lon- 
gitudinalmente dei tubercoli esterni, separano facilmente la nostra specie 
dall’ Hoplites radiatus Brua. 5). 


1) Prorer F. J. — ME. paltont., Deux. livrais., pag. 76, pl. 13, fig. 3. 
Genève, 1867. — Vedi anche Toucas A.- Faune des couches tith. de V Ardèche. 
Bull. de la Soe. géol. de France, trois. sér., tav. XVIII, pag. 605, pl. XVIII, fig. 7. 

5) PiotaT F.:J. — L. c., pag. 7, pl. 14. 

*Ricran Wi — LL... pag. 600, pl. XXXII, fig. 1. 

*) Kanran W. — L.c., pag. 672, pl. XXXII, fip. 3. 

?) D’' ORBIGNY A. — Paléont. frang. Terr. cretacées, pag. 110, pl. 26. Paris, 1840. 


100 M. CANAVARI 


L’ Hoplites asperrimus D’ ORB. *), raccolto nel Neocomiano inferiore di 
Senez e di Cheiron presso Castellane in Francia e di Fuente de los 
Frailes nella Spagna, può esser pure paragonato alla specie descritta 
per l'assenza dei tubercoli cireumbellicali; esso però è conosciuto solo 
in esemplari piccoli. Quello più grande del Neocomiano inferiore di Luc- 
en-Diois descritto e figurato dal SAYN ?) per i peristomi interni, avver- 
titi anche dal KILIAN 3), e per gli ornamenti appare molto diverso dalla 
nostra specie, e più legato all’ Hoplites neocomiensis D’ORB. che non al- 
l’ Hoplites Euthymi Picr. i 

In riguardo alla linea lobale da me osservata non si può passare 
sotto silenzio il fatto che essa presenta frastagliamenti molto minori di 
quella degli Hoplites tipici sviluppati particolarmente nel Neocomiano. 
Ricorda però senza dubbio quella di alcuni Hoplites del Giura superiore 
già menzionati, rimanendo però sempre ben distinta. Così per esempio 
la linea lobale dell’ Moplites Malbosi Pror. 4) ha le due selle, esterna e 
prima laterale, più spiccatamente bipartite e la seconda sella laterale 
più sviluppata. La linea lobale dell’ Hoplites Euthymi Pior., che certa- 
mente è la specie più vicina alla nostra, non fu figurata da nessuno. 
Quello che può rilevarsi però da ciò che ne scrisse Picret aumenterebbe 
le analogie avvertite. Il PicteT °) infatti dice di aver osservato un grande 
lobo laterale superiore (corrispondente al nostro primo lobo laterale) e 
un laterale inferiore più piccolo (secondo lobo laterale) seguito da un 
solo ausiliare, come appunto accade nel nostro esemplare. 

La specie descritta, rappresentata dal solo ‘individuo figurato, fu 
raccolta nei monti della Rocchetta a Nord del gruppo del Sanvicino e 
deve provenire certamente dal Titoniano superiore. 


Hoplites Bonarellii n. sp. 
Tav. V [I], fig. 3a-d. 


DIMENSIONI 
Diametro . . : c 2 - o $ 5 mm. 80 
Altezza dell’ultimo giro in rapporto al diametro Li 0,35 
Spessore > » » ; 0,30 
Larghezza dell’ ombellico » » ; 0,45 


1) D'’ORBIGNY A. — L. c., pag. 206, pl. 60, fig. 4-6. 

2) Savn. — Note sur quelques Amm. nouvelles ou peu connues du Néocomien 
inférieur. Bull. de la Soc. géol. de France, 3.° sér., t. XVII,;pag. 684, pl. XVII, 
fig. a,b. Paris, 1889. 

3) KiLian W. — oss. du crétacé infér. de Provence. Bull. de la Soc. géol. 
de France, 3.0 sér., t. XVI, pag. 681. Paris, 1888. 

4) Prorer F.J. — Mel. paléont. L. c., pl. 14, fig. 1d. 

5) Piorat F.J.— L. c., pag. TT. 


HOPLITI TITONIANI DELL’APPENNINO CENTRALE 101 


Conchiglia discoidale, con accrescimento piuttosto lento, composta 
di 3-4 giri pochissimo involuti. Fianchi convessi, aventi la maggiore 
convessità ai °/ circa della loro altezza dalla sutura ombellicale; poi 
scendono a guisa di un piano inclinato verso l’ esterno, riunendosi sotto 
un angolo ottuso con la regione esterna abbastanza ampia e depressa. 
Sezione trasversale subesagonale, tendente alla subpentagonale. Gli or- 
namenti dell’ ultimo giro consistono in coste semplici sui *|, interni della 
sua altezza, che cominciano nel contorno ombellicale con una nodulosità 
poco spiccata e terminano con un distinto tubercolo; da questo partono 
generalmente due coste poco rilevate che nella riunione dei fianchi con 
la regione esterna finiscono in tubercoli conici. Nell’ ultimo giro, non 
completamente conservato, dovevano presentarsi circa 40-42 di tali tu- 
bercoli marginali, e circa 20-21 delle altre due serie interne. Nel pe- 
nultimo giro le coste sono alquanto più regolari e non tutte dall’esterno 
confluiscono a due a due verso la serie mediana dei tubercoli, ma al- 
cune si mantengono semplici sin presso il contorno ombellicale, ove ge- 
neralmente la serie dei tubercoli è molto poca distinta. I fianchi man- 
tengono la stessa convessità e forma, e la sezione di esso penultimo 
giro (Tav. V [I], fig. 3 d) si mantiene proporzionatamente identica a quella 
dell'ultimo. La depressione sifonale sembra essere alquanto più distinta. 

La linea lobale non è ben conservata, nè è stato possibile prepa- 
rarla. Una delle ultime suture è quella in corrispondenza della rottura 
sulla metà circa dell’ ultimo giro, quindi è conservata parte della camera 
di abitazione. Può rilevarsi solo su ogni fianco l’esistenza di due selle 
piuttosto ampie e di una molto piccola. Il primo lobo laterale appare 
più profondo di tutti gli altri, compreso il sifonale. 

Questa forma, come l’ Hoplites heterocosmus, appartiene al gruppo 
dell’ Hoplites Euthymi Prcr. Si collega strettamente alla specie tipica 
per la triplice serie dei tubercoli sui fianchi, tanto che lo ZrttEL ch’ ebbe 
l'esemplare in esame sarebbe stato propenso di riferirlo ad essa. Se 
ne allontana per la posizione un poco più interna della serie mediana 
dei tubercoli, per lo spessore maggiore dei giri e per la forma quasi 
subpentagonale della loro sezione trasversale. 

I due piccoli esemplari delle argille di Speeton paragonati dal 
PavLow 1) all’ Hoplites Euthymi Picr. si distinguono dalla forma tipo di 


1) Pavrow A. — Ammonites de Speeton et leur rapports avec les Ammonites 
des autres pays. Bulletin de la Soc. impér. des Natur. de Moscou, année 1891, 
N. 4, pag. 463, pl. XVII (X), fig. 7 .e 9. Moscou, 1892. 


102 M. CANAVARI 


questa specie, oltrechè per le coste un poco più numerose, anche per il 
loro spessore più grande. Avverte il PAvLow che queste differenze molto 
probabilmente dipendono dall’ età, tanto più che lo stesso PicrET !) dice 
che la conchiglia è molto compressa nello stato adulto. La sezione dei 
giri dei due esemplari inglesi, come si rileva dalle figure date dal PAvLOW, 
è quasi esagonale (fig. 76) o subesagonale (fig. 95), ed avendo la mag: 
giore ampiezza non in vicinanza del contorno ombellicale assume una 
forma molto diversa dal nostro esemplare. Anche il frammento di Ho- 
plites raccolto nel calcare breccioide del Titoniano superiore di Chomerac 
(Ardèche) e riferito giustamente dal Toucas ?) all’ Hoplites Euthymi Picr., 
si distingue facilmente dalla specie descritta, per la convessità limitata 
dei fianchi, per l’unione quasi ad angolo retto di essi con la sezione 
esterna e quindi per la sezione del giro pressochè rettangolare, non 
che poi per la posizione nel mezzo dei fianchi della serie mediana dei 
tubercoli. 

Per le analogie e differenze che la nostra forma presenta con le 
altre affini spettanti al gruppo dell’ Hoplites Euthymi, può vedersi ciò 
che è stato detto nella descrizione dell’ Hopltes heterocosmus, 0 ciò che 
scrisse il PavLow *) nella descrizione dell’ Hoplites cfr. Euthymi Prior. 
Può solo aggiungersi che la triplice serie nei fianchi dei tubercoli, la 
distingue subito dall’ Hoplites heterocosmus; la regione esterna liscia e 
depressa e la vicinanza verso il contorno ombellicale della serie mediana 
dei tubercoli la separano dall’ Hoplites Malbosi Pict. 4) che, come è noto, 
ha fianchi più convessi dell’ Hoplites Euthymi Picr. 

L’ Hoplites Bergeroni Ki. °) si distingue per la posizione della serie 
mediana dei tubercoli al di là del mezzo dei fianchi, per la forma dei 
tubercoli esterni allungati nel senso tangenziale, oltrechè per la man- 
canza di vere e proprie coste sull’ ultimo giro. 

L’ Hoplites Andreaei Kit. *) ha la sezione dei giri quasi identica a 
quella della nuova forma appenninica, presenta però coste più numerose 


1) Picrot F. J. — MéI. paléont. L. c., pag. 16. 


2) Toucas A.— Faune des couches tithoniques de l’ Ardèche. Bull. de la Soc. 


géol. de France., 3.0 sér., t. XVIII, pag. 605, pl. XVIII, fig. 7. Paris, 1890. 
3) PavLow A. — L. c., pag. 464. 
4) Pico F. J. — Mel. paltont. L.c., pag. 7, pl. 14. 


5) KiLian W. — Mission d’ Andolousie ece., L. c., pag. 672, pl. XXXII, fig. 3. 


6) Kitan W. — L. c., pag. 670, pl. XXXII, fig. 1. | 


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HOPLITI TITONIANI DELL’ APPENNINO CENTRALE 103 


e ornamenti assai più irregolari. Infine potrebbero citarsi a titolo di 
lontano confronto anche Hoplites Undorae Pavir. ed Hoplites subundo- 
rae Pavi. trovati negli strati con Aspidoceras acanthicum della Russia 
orientale 1). 

L'unico esemplare descritto fu raccolto insieme con 1° Hoplites hete- 
rocosmus n. sp. del Titoniano superiore dei Monti della Rocchetta a Nord 
della catena del Sanvicino. 


1) PAvLOW A. — Les Ammon. de la Zone à Aspid. acanthicum de V Est de 
la Russie. Mém. du Comité géologique. Vol. II, N. 3, pag. 79, pl. V, fig. 1-3. 
St. Pétersbourg, 1886. 


SPIEGAZIONE DELLA TAV. V [I]. 


Gli esemplari figurati si trovano nel Museo geologico di Pisa 


. la-c. — Hoplites aesinensis n. sp. Monti della Rocchetta a Nord del San- 


vicino, — pag. 95 [3]. 

1d. — Hoplites aesinensis n. sp. Disegno della terz’ultima linea lobale 
conservata, in grandezza naturale, — pag. 96 [4]. 

2a,b. — Hoplites heterocosmus n. sp. Monti della Rocchetta a Nord del 
Sanvicino, — pag. 98 [6]. 

2c. — Hoplites heterocosmus n. sp. Disegno della penultima linea lo- 
bale in grandezza naturale in corrispondenza della metà circa del- 
l’ultimo giro, — pag. 99 [7]. 

3a-c. — Hoplites Bonarellii n. sp. Monti della Rocchetta a Nord del San - 
vicino, — pag. 100 [8]. 

8d. — Hoplites Bonarellii n. sp. Sezione in corrispondenza della rottura 
sulla metà circa dell’ultimo giro, — pag. 100 [8]. 


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P. RICCARDO UGOLINI 


SOPRA: ALCUNI PRTTINIDI: DELLE ARENARTE MIOCENTCHE 


DEL CIRCONDARIO DI ROSSANO IN CALABRIA 


(CPavi VI (1): 


I Pettinidi che mi sono proposto di studiare in questa nota, fanno 
parte di una collezione di fossili terziari della Calabria che oggi si con- 
servano nel Museo geologico di Pisa e.furono raccolti dai dottori A. Fu- 
cini e B. Greco in diverse località mioceniche del circondario di Rossano. 
Per quanto il loro numero ascenda ad un’ ottantina circa di esemplari, 
di tutte le dimensioni e più o men bene conservati, pure, dopo un esame 
accurato e minuzioso, ho dovuto persuadermi che appartengono a non 
più di sette specie. Stante l’esiguità del numero di queste forme, qua- 
lunque loro studio un poco particolareggiato potrebbe sembrare di primo 
aspetto non troppo interessante. Considerando però che più della metà 
di esse non furono mai ricordate per la Calabria, e che una specie ap- 
pare assolutamente nuova, io credo che valga di per se solo questo sem- 
plice fatto a giustificare i pochi cenni descrittivi che mi sono prefisso 
di dare. 

Queste specie provengono tutte dai qui sotto indicati giacimenti che 
già dal De STEFANI !) riferiti al miocene superiore, furono poi dallo stesso, 
e dopo di lui, dal Fucini ?) e dal GrEco 8), più giustamente riportati 
al miocene medio. 


1) Da STEFANI. — Escursione scientifica nella Calabria. Atti R. Acc. Line., 
ser. III, vol. XVIII. Roma, 1883. 

?) Fucini. — Studi geologici sul circondario di Rossano in Calabria. Catania, 
1876. 

3) Greco. — Il lias inferiore nel circondario di Rossano Calabro. Atti Soc. 
tosc. Sc. nat., vol. XIII. Pisa, 1893. i 


106 P. RICCARDO UGOLINI 


Arenarie calcarifere con'-Clypeaster e Pecten di Rossano, Cropalati, 


Pietrapaola e Campana, sovrastanti ai conglomerati rossi del miocene 
inferiore e sottoposte al calcare marnoso senza fossili del miocene su- 
periore. 

Questa formazione, come ben si rileva anclie dalla carta geologica 
del dott. Fucini, mostrasi sufficientemente estesa; e, pur presentando 
dovunque lo stesso aspetto generale, si manifesta tuttavia nelle singole 
località con qualche differenza litologica, specialmente per la variabile 
grossezza degli elementi che la compongono. Così mentre a Rossano ed 
a Cropalati le arenarie sono costituite di piccoli granuli prevalentemente 
silicei, ed, in generale, assai poco cementati, a Pietrapaola questi sono 
più grossolani ed a Campana vi si uniscono ghiaie e ciottoli arroton- 
dati. La colorazione della roccia è giallastra, e solo qua e là tende al 
turchino. 

Dal giacimento di Rossano proviene l’unico bellissimo esemplare di 
P. Koheni FucHs rinvenuto fino ad ora in questi strati; presso Cropa- 
lati furono raccolti un esemplare di P. Besserì AnpRz. e diversi di CHI. 
scabrella Lmx.; a Pietrapaola, presso Le Chiate del Mulino, è straordi- 
nariamente diffusa quest’ultima specie e vi si trova in belli esemplari, 
di dimensioni assai grandi, il P. Fucinti nov. sp., il P. Karalitanus McA., 
ed il P. Vindascinus Font.; dirò anzi che, a giudicarne dal numero no- 
tevole di individui che furono raccolti in questa località, essa può con- 
siderarsi come uno dei più ricchi, se non come il più ricco giacimento 
fossilifero miocenico del circondario di Rossano. Provengono infine dalle 
arenarie di Campana alcuni esemplari imperfettamente conservati di P. 
solarium Lmx., di P. Besserì Anprz., e di P. Fuciniù nov. sp. 


Fam. Pectinidae LAMARK 1881. 


Gen. Chlamys Botten 1798. 
Chlamys scabrella Lux. 


1819. Pecten scabrellus Lamarck. Hist. Nat. d. An. s. vert., p.I, pag. 183. 


1869. — — Corpi. Cat. foss. mioc. e plioc. Mod., pag. 229. 

ISS, — De Srrrani. Il Tort. d. alta valle d. Tevere. Proc. 
verb. Soc. tosc. Sc. nat., pag. 114. 

1887. — — Mariani e Parona (cum syn.). Foss. tort. d. Capo 


S. Marco in Sardegna. Atti Soc. it. Sc. nat., XXX, 
pag. 63. 


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SOPRA ALCUNI PETTINIDI DELLE ARENARIE MIOCENICHE ECC. 107 


1897. Aequipecten scabrellus Sacco (cum syn.).I moll. d. terr. terx. d. Piem. 
e Liguria. XXIV, Pectinidae, pag. 24. 

1898. Pecten —  Cerunui-IreLLi. Moll. foss. plioc. di Palombara 
Marcellina. Boll. Soc. geol. it., XXVII, pag. 90. 


È una delle poche specie di Pecten che in abbondanza notevole si 
raccolgono nel miocene dei dintorni di Rossano. Alcuni esemplari pro- 
vengono dalle arenarie sabbiose massiccie giallo-scure di Cropalati 1); 
ma la maggior parte di essi fu raccolta nella molassa grossolana gial- 
lastra di Pietrapaola e più precisamente in una località detta Le Chiate 
del Mulino. Ne ho a disposizione una settantina all’incirca, ma pochis- 
simi sono gl’individui ben conservati e con ambedue le valve; quasi tutti 
invece hanno la conchiglia più o meno mal ridotta, oppure sono tal- 
mente ricoperti dalla roccia che aderisce alla superficie loro, che assai 
difficile riesce il liberarneli. La stessa specie fu raccolta dal SEGUENZA ?) 
nelle formazioni mioceniche della provincia di Reggio, a Crudeli, Am- 
buti, Benestare, Malochia, Falcò, S. Barbara e Monteleone; e dal DE 
STEFANI *) pur anco riconosciuta negli strati miocenici superiori del 
Monte Tavolerìa, già dal SeGuenzA 4) riferiti al pliocene inferiore (Zan- 
cleano Sec.), a Benestare ed in altre località. 

Arenarie di Cropalati (17 esemplari), Molassa di Le Chiate del Mu- 
lino (55 esemplari). 


Gen. Pecten BreLox 1553, MULLER 1776. 
Pecten Koheni Fuc®s. 
Vv VIII fig. di. 


1876. Pecten Koheni Fucas. Ueber den sogenannten « Badner Tegel >» auf Malta. 
Sitzb. der K. Akad. der Wissensch. Bd. LXXIII, 
pag. 3, Tav. I, fig.1,2. 


1) Greco. — Op. cit., pag. 99. 

?) SEGUENZA. — Le formazioni terziarie nella provincia di Reggio (Calabria). 
Atti R. Acc. Line., ser. III, vol. VI, pag. 74. Roma 1879. 

3) DE STEFANI. — Op. cit., pag. 123, 128. 

1) SEGUENZA. — Studi paleontologici sulla fauna malacologica dei sedimenti 
pliocenici depositatisi a grandi profondità. Boll. Soc. mal. it., vol.II, pag. 23. 


Sc. Nat., Vol. XVII $ 


108 P. RICCARDO UGOLINI 


Sotto le rupi di Rossano fu raccolta la valva sinistra di un bellis- 
simo Pecten che qui presento. Si tratta di una specie che, nonostante 
le più accurate indagini e le più minute osservazioni, non sono riuscito 
a riunire ad alcuna delle forme di Pecter sino ad ora conosciute per il 
nostro miocene; ma, confrontata invece con il P. Koheni Fucgs di Malta, 
gli rassomiglia perfettamente. Nel mio esemplare, come si può vedere, 
si riconoscono infatti nettamente distinte le piccole orecchiette e l’an- 
damento e conformazione delle coste che, in numero di 14-15, angolose 
e prominenti nella metà superiore, vanno successivamente allargandosi 
ed abbassandosi nella metà inferiore, sino a confondersi coi solchi in 
una superficie lesgermente ondulata. i 

Un carattere che si riconosce a colpo d’occhio, ma che meglio si 
può osservare con la lente d’ingrandimento, consiste nella particolare 
ornamentazione delle coste radiali, che tutte, ma in ispecial modo quelle 
del centro, sono longitudinalmente percorse da due solculi, più o meno 
leggermente escavati, i quali determinano la divisione delle coste in tre 
costicine assai piccole, di cui la mediana è sempre la più prominente. 
Gli spazi intercostali, da principio conformi allo sviluppo delle coste, 
vanno, come quelle, successivamente estendendosi verso il margine. Tanto 
la superficie esterna della valva, quanto quella delle orecchiette, sono 
poi per tutta la loro estensione adornate di sottilissime strie d’accre- 
scimento; e le orecchiette mancano di qualsiasi traccia di strie radiali. 

Stando alla descrizione ed alla figura che ne dà il FucHs, la valva 
destra differisce dalla sinistra, oltrechè per la presenza di un’ altra leg- 
gera costolina secondaria, che divide longitudinalmente i solchi, anche 
per gli aculei che si trovano lungo il margine cardinale e per le squam- 
mule che adornano la superficie delle coste in prossimità dell’ umbone. 
Per questi caratteri, dice il FucHs, la specie conserva qualche lieve af- 
finità col P. spinulosus Munst., ed anche col P. cristatus BRONN. 

Non credo che altri, dopo l’autore, abbiano accennato alla presenza 
di questa specie nelle formazioni mioceniche italiane; tuttavia bisogna 
convenire che, nonostante ciò, non deve considerarsi come rara in Italia, 
giacchè ne posseggo diversi esemplari, uno dei quali molto ben conser- 
vato, che furono raccolti nei giacimenti miocenici che si addossano al 
Gran Sasso. Non è improbabile che questa specie, non mai citata nei 
nostri terreni terziari, sia stata confusa con qualcuna di quelle che le 
sono affini. 

Arenarie di Rossano, 


SOPRA ALCUNI PETTINIDI DELLE ARENARIE MIOCENICHE ECC. 109 


Pecten Besseri Anprz. 


1830. Pecten Besseri AnprzesosckI. Notice sur quelgq. coq. foss. de Volyn. 
Podol. Boll. Soc. nat. Moscou, II, pag. 103, Tav. 


NIECiESI, 

1870. _ — Hornes. Die foss. moll. d. Tert.-Beck. v. Wien, II, 
pag. 404, Tav. LXII e LXIII, fig. 1-5. 

1873. _ — SreGuenza. Brew. cenn. int. alla sex. terx. d. prov. di 
Messina. Boll. Com. geol. it., vol. IV, pag. 264. 

1874. — — Fvucxs. L'età d. strati terx. di Malta. Boll. Com. geol. 
it., vol. V, pag. 380. 

1875. — —. Fucus. I membri d. form. terx. nel vers. sett. d. App. 
tra Ancona e Bologna. Boll. Com. geol. it., vol. VI, 
pag. 253. 

1883. _ — Simonetti. Il Monte della Verna e i suoi fossili. Boll. 
Soc. geol. it., vol. II, pag. 270. 

1883. _ — De Srerani. Escurs. sce. nella Calabria. Atti R. Acc. 
Line., ser. III, vol. XVIII, pag. 144. 

1887. _ — Parona (cum syn.). App. per la pal. mioc. d. Sarde- 
gna. Boll. Soc. geol. it., vol. VI, pag. 313. 

1889. — — Kan. Etud. pal. sur les terr. sec. et tert. de V Anda- 
lousie. Mém. d. Sc. d. Ist. d. France, vol. XXX, 
pag. 707. 

1896. —_ — Fuori. Stud. geol. s. circ. d. Rossano in Calabria, pag. 


61, Catania. i 

1897. Flabellipecten— Sacco (cum syn.). I moll. di terr. terx. d. Piem. e 
Liguria, parte XXIV, Pectinidac, pag. 32, Tav. 
INastig: D5Tave At dig 1-5; 


Riferisco a questa specie tre esemplari dei quali uno è quasi intiero, 
ma decorticato della parte superficiale della conchiglia e privo di orec- 
chiette; uno è un poco più completo, ha però la superficie ben conser- 
vata e presenta anche porzione di una orecchietta ; il terzo rappresenta 
un piccolo frammento. Tutti e tre sembrano corrispondere alla valva 
destra, ed il frammento presenta così bene espressi i caratteri delle 
coste e dei solchi da non far sorgere alcun dubbio sulla esatta deter- 
minazione. 

Fossile nelle molasse di Cropalati (1 esemplare) e di Campana (1 
esemplare ed' 1 frammento). 


110 P. RICCARDO UGOLINI 


Pecten solarium Lux. 


1819. Pecten solarium Lamaror. Hist. nat. d. An. s. vert., vol. VI, parte I, 


pag. 179. 

1879. — _ De SterAnI. Il Tort. dell’alta valle d. Tevere. Proc. verb, 
Soc. tosc. Sc. nat., vol. II, pag. 114. 

1887. — —_ PARONA (cum syn.). App. per la pal. mioc, della Sar- 


degna. Boll. Soc. geol. it., vol. VI, pag. 313. 


1887. — _ Mariani e Parona (cum syn.). Foss. tort. d. Capo San 


Marco in Sardegna. Atti Soc. it. Sc. nat., vol. 
XXX, pag. 65. 


Riferisco a questa specie un piccolo ed incompleto esemplare di valva 
destra, ed un frammento rappresentante la regione cardinale della stessa 
valva di un individuo adulto. Quest’ ultimo corrisponde perfettamente 
alla forma del bacino di Vienna, descritta e figurata alla Tav. LX, fig. 1 
da Hornes. Nonostante il cattivo stato di conservazione di ambedue, 
quanto rimane è sufficiente per dimostrare la perfetta loro somiglianza 
con la specie tipica di LAMARCK. 

Campana. 


Pecten Karalitanus Mox. 


1857. Pecten Karalitanus MeneGnINI. Palcont. de lile de Sardaigne, pag. 
583, Planche H, fig. 12, 12', 12". 

1887. — -— Parona. App. per la pal. mioc. della Sardegna. 
Boll. Soc. geol. it., vol. VI, pag. 315. 


Con questo nome il MENEGHINI !) descriveva una nuova forma di 
Pecten del calcare grossolano giallastro dei dintorni di Cagliari e di altre 
località mioceniche della Sardegna. Il P. XKaralitanus è specie molto 
prossima al P. solarium Lmx., ed al P. Besserì AnpRrZ.; ma si distingue 
notevolmente dal primo per avere l'angolo apiciale più aperto (120° in- 
vece di 112°) e le coste più ristrette e più numerose (19-20 invece di 
16); dal secondo per avere l'angolo apiciale più chiuso (120° invece di 
138°), le coste più larghe, minori di numero (19-20 invece di 23), e 
arrotondate invece che a sezione trapezoidale. Secondo Locarp ?) il P. 


1) MENEGHINI. — Op. cit., pag. 583. 
2) Locarp. —- Descr. de la faune des terr. tert. moy. de la Corse, pag. 129, 
Paris-Genéeve, 1877. 


pa PI e 


SOPRA ALCUNI PETTINIDI DELLE ARENARIE MIOCENICHE ECC. 111 


Karalitanus deve considerarsi come sinonimo del P. planosulcatus MATA. 
o tutt'al più come una semplice varietà di questo; ma credo fermamente 
che un tale giudizio debba accettarsi con qualche riserva, giacchè, stando 
alla descrizione che ne dà l’autore medesimo *), e lo stesso LocaRrD ri- 
porta nella sua memoria, il P. planoswcatus ha la valva destra provvista 
«di un numero relativamente esiguo di coste (14-15 all’incirca), cosa che 
non si riscontra effettivamente nella specie di MENEGHINI: e, per di più, 
queste coste, per l'andamento e la conformazione, non si accordano con 
quelle del P. Karalitanus. Mentre infatti esse si conservano in questa 
specie uniformemente sviluppate partendo dagli umboni e procedendo 
verso il margine palleale, nella specie di MATHERON invece sono più pro- 
minenti ed arrotondate in vicinanza degli apici; ed a misura che si 
avvicinano al margine si fanno vie più schiacciate ed estese sino a fon- 
dersi con i solchi intercostali in una superficie unica, leggermente on- 
dulata e fittamente solcata da sottilissime strie concentriche. 

Attribuisco al P. Karalitanus due soli esemplari di valva destra, di 
dimensioni disuguali, di cui il maggiore corrisponde esattamente al- 
l'esemplare descritto e figurato dal MENEGHINI, del quale ho sott’occhio 
l originale. i 

Fossile nelle arenarie di Pietrapaola, a Le Chiate del Mulino. 


Pecten Fucinii nov. sp. 


Tav. VI [I], fig.2 e 3. 


DIMENSIONI 
Diametro longitudinale . ‘ O Eni 15,2 15,0 
» trasversale . - ; TO 14,3 14,0(?) 
Spessore (a valve unite) È È » 5,6 4,4 ? 
Angolo apiciale . : 7 . gradi 140 130 ? 


Conchiglia generalmente grande, orbiculare, arrotondata, equilate- 
rale; la valva destra piuttosto rigonfia in corrispondenza dell’umbone 
diviene sempre più declive procedendo verso il margine ventrale; è 
provvista di 17-18 coste che sono più prominenti e ristrette nella re- 
gione umbonale, e vanno successivamente facendosi più larghe verso la 
periferia, pur conservando la medesima elevatezza iniziale; verso i mar- 


1) MATHERON. — Cat. méth. et descr. des corps org. foss. du dép. des Bouches- 
du- Rhone, pag. 188, Tav. XXXI, fig. 4,5. Marseille, 1842. 


IR. i | P. RICCARDO UGOLINI 


gini laterali esse svaniscono quasi repentinamente, lasciando due spazi 
relativamente abbastanza estesi, in cui manca affatto qualunque traccia 
delle coste. I solchi intercostali sono molto più angusti delle coste ed 
uguali all’incirca alla metà di esse, e le orecchiette sono notevolmente 
sviluppate, ma non presentano vestigia di strie radiali e concentriche 
‘e quindi appaiono totalmente liscie. Lo stesso deve dirsi della superficie 
della valva la quale è pure apparentemente liscia. 

La superficie interna evidente in uno solo degli esemplari di cùi 
dispongo, non è liscia, ma fortemente ornata di coste corrispondenti ai 
solchi della superficie esteriore; queste arrivano sin quasi sotto agli 
apici, in prossimità dei quali divengono sempre meno distinte. 

Alla nuova specie sono prossimi il P. solarium Lwmx., il P. Karali- 
tanus McH., e più di tutti il P. Besserà AnDpRZ. 

Da questo il P. Fucinti differisce però sempre, per il numero mi- 
nore di coste radiali, per il loro maggiore sviluppo, e per la diversa 
conformazione (essendo esse a sezione arcuata e non trapezoidale); 
inoltre, per la diversità dei solchi più angusti e per le orecchiette di 
notevole estensione e non ristrette ed allungate trasversalmente. La 
mancanza, come già feci osservare, delle strie radiali distinguono poi 
queste orecchiette da quelle del P. Besseri; dal quale il P. Fucino ri- 
mane diverso anche per la linea cardinale che, invece di essere perfet- 
tamente dritta, fa all’ apice un leggero angolo ottuso. 

Fossile a Pietrapaola (2 esemplari) ed a Campana (2 esemplari). 


Museo di geologia e paleontologia della R. Università di Pisa, 
Maggio 1899. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA VI [I] 


Fig. 1. — Pecten Koheni FucHs. Arenarie di Rossano (Calabria). Coll. pal. Mu- 
seo di Pisa, — pag. 107, [5]. 
» 2. — Pecten Fucinii nov. sp. Arenarie di Pietrapaola (Calabria ). Coll. 
pal. Museo di Pisa, — pag. 111 [9]. 
» 3. — Pecten Fucinii nov. sp. Arenarie di Campana (Calabria). Altro esem- 
plare incompleto. Coll. pal. Museo di Pisa, — pag. 111 [9]. 


GIOVANNI D’ACHIARDI 


LIBERO DOCENTE DI MINERALOGIA NELL'UNIVERSITÀ DI PISA 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI 


SENZA POTERE ROTATORIO 


Delle sostanze dotate di polarizzazione rotatoria è noto come alcune 
posseggano questa proprietà anche in soluzione, altre solamente allo 
stato solido, ed è pure noto come si ammetta essere il fenomeno dovuto 
ora alla struttura dissimmetrica delle molecole o degli joni, ora alla di- 
sposizione dissimmetrica delle parti nell’edificio cristallino. 

Nel primo caso persiste sempre nei cristalli il carattere costante 
della molecola in una stessa sostanza, che sarà quindi sempre destrogira 
o sempre levogira, nel secondo in dipendenza dell’ordinamento ora a 
destra, ora a sinistra delle parti costituenti i cristalli, potranno questi, 
e pur sempre nella stessa specie, avere carattere opposto dall’uno al- 
l’altro e anche per le varie aree di uno stesso cristallo quando resul- 
tino di più individui destrogiri o levogiri compenetrantisi per gemina- 
zione. Tale sembra essere il caso del quarzo per il quale si incontrano 
indifferentemente cristalli plagiedri a destra e plagiedri a sinistra, e per 
il quale pure se ne incontrano anche, come quelli del granito di San 
Piero in Campo (Elba), in cui la simultanea presenza di plagiedria de- 
stra e sinistra è in rapporto alla compenetrazione di individui ad opposto 
carattere. 

È noto anche come alcune varietà di quarzo, l’ametista ad esempio, 
manchino di sì fatte plagiedrie, e insieme del normale carattere della 
polarizzazione rotatoria, onde MALLARD ed altri ne spiegano l’ edificio 
cristallino ritenendolo costituito da una pila di innumerevoli, esilis- 
sime lamelle, alternativamente destrogire e levogire, che compensan- 
dosi negli opposti caratteri, così come annullano il fenomeno della ro- 
tazione, non danno luogo neppure alla manifestazione della struttura 


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STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 115 


dissimetrica alla superficie del cristallo con le faccette plagiedriche. Indi 
l'osservazione delle spirali di Atry, riscontrate da vari, fra cui il 
BomgBiccr '), ciò che dà non poco valore a questa ipotesi, la quale 
però potrebbe forse meglio trasformarsi nell’altra più consona alle mo- 
derne vedute sulla polarizzazione rotatoria, d’ accordo pure con le in- 
dagini del ReuscH, che cioè anzichè alternanza di lamelle destrogire e 
levogire, si abbia invece alternanza dell'ordinamento delle lamelle o 
molecole, non differenti tra loro in altro che nel modo dell’ordinamento 
stesso. 

Se le molecole del quarzo non sono dissimmetriche, e che tali non 
sieno già fu detto desumersi anche dal mutabile carattere della pla- 
giedria o enantiomorfia nei suoi cristalli, così come per l'ordinamento 
loro ora spiralmente a destra, ora a sinistra si hanno i cristalli destro- 
geri e levogiri, per es. quelli del marmo di Carrara, così come per la 
mutabilità nello stesso cristallo di quell’ordinamento si hanno cristalli, come 
le ametiste, presentanti le spirali di AtRY, così come per compenetra- 
zione di cristalli di opposto carattere, si hanno nella stessa sezione nor- 
male all'asse, per es. in quelli del granito di San Piero in Campo, aree 
levogire e destrogire, è razionale ritenere anche che sia possibile il 
caso in cui si abbiano cristalli di quarzo assolutamente privi di potere 
rotatorio per simmetrica disposizione delle molecole. 

Studiando i cristalli di quarzo delle gessaie toscane ?) colpito dal 
fatto di non aver mai trovato in uno solo dei cento e cento da me 
esaminati una faccetta plagiedrica, ne sottoposi non pochi all’esame ottico 
in sezioni normali all’asse per vedere se con la mancanza della plagie- 
dria si avesse anche mancanza di potere rotatorio. In nessuno ne tro- 
vai il minimo segno, come pure nessuna traccia di spirali di ArrY, che 
mi autorizzassero a ritenere la mancanza della apparente dissimmetria 
e del fenomeno rotatorio dovuta all’ alterno ordinamento delle molecole, 
onde conclusi col ritenere la mancanza di polarizzazione rotatoria fosse 
dovuta invece al regolare simmetrico ordinamento delle molecole. 


(1) Sulla coesistenza delle due inverse plagiedrie sopra una faccia di un cri- 
stallo di quarzo di Carrara, e sulle spirali di Airy presentate da una sezione 
ottica dello stesso cristallo e dì altri. Mem. R. Acc. d. Se. dell’ Istituto di Bologna. 
Ser. V, T.II, 1892. 

(2) IZ quarzi delle gessaie toscane. Atti Soc. Tose. Sc. Nat. Memorie, Vol. 
XVII. Pisa, 1898-99, 


116 G. D’ACHIARDI 


Nel 1897 il WALLERANT in una memoria sulla quarzina e sulla origine 
della polarizzazione rotatoria nel quarzo!), sostiene che calcedoina, quar- 
zina e lutecina non sono che una stessa sostanza biassica, diversa solo 
per la direzione dell’allungamento della fibra e che questa sostanza a 
cui può darsi il nome di quarzina è la stessa di quella che costituisce 
i cristalli di quarzo. Questi elementi biassici di quarzina per un ordi- 
namento intorno all'asse ottico, o di simmetria principale, con sovrap- 
posizione ora a destra, ora a sinistra e ad angolo di 120°, come nella 
pila di lamine di mica del Rrusca, darebbero per dato e fatto di que- 
st’ ordinamento origine alla polarizzazione rotatoria. Aggiunge inoltre 
che la quarzina per se stessa presenterebbe forme semplici. 

Lo studio dei cristalli di quarzo acquista anche per ciò nuovo inte- 
resse e poichè quelli delle gessaie della Toscana potevano lasciar qualche 
dubbio per la piccola loro trasparenza e a cagione delle numerose e 
torbide inclusioni sparse in tutta la massa del cristallo, così volli esa- 
minare altri cristalli, che avessero la stessa identica semplicità di forme 
e offrissero per la loro maggior trasparenza miglior mezzo di indagini. 

A ciò si prestavano assai bene alcuni cristalli di quarzo del Bolo- 
gnese, sia quelli che si trovano a Lizzo sulla riva destra del Reno, sia 
quelli di Monte Acuto Ragazza in prossimità di Grizzana, nel circon- 
dario di Vergato, i quali sebbene presentino essi pure abitualmente 
delle inclusioni sono queste quasi sempre limitate alle parti centrali del 
cristallo e quindi sono sempre più trasparenti degli altri e meglio 
adatti alle ricerche che mi ero proposto di fare. Già qualche campione 
possedeva il Museo mineralogico di Pisa, ma in molto maggior numero 
furono gentilmente donati, dietro mia richiesta, dal prof. L. BomBrcci, dal 
quale erano stati raccolti e già a suo tempo descritti ?), e al quale rendo 
qui pubbliche grazie per il materiale messo a mia disposizione. 

I cristalli tutti sono costituiti quasi esclusivamente dalle facce della 
bipiramide esagonale, soltanto in pochissimi apparendo come lineari 
lumeggiamenti quelle del prisma, che si trovano con più frequenza negli 
esemplari provenienti da Lizzo. Nessun'altra faccetta sono riuscito a 
scorgervi, ma tutte quelle delle bipiramidi presentano ondulazioni che 


(1) Méemoire sur la quartzine et sur l'origine de la polarisation rotatoire du 
quartz. Bull. Soc. frang. de Minéralogie. T. XX, N. 1-2, pag. 52, Parigi 1897. 

(*) Descrizione della Mineralogia generale della provincia di Bologna Parte Il; 
pag. 129. Bologna 1874. Estratto dalla Ser. III, T. V delle Mem. Acc. d. Sc. del 
l’Ist. di Bologna. 


si 


| | DA | 
% . 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 117 


non si possono riferire a piani elementari, ma piuttosto sembrano ef- 
fett di perturbazioni cristallogeniche, e queste ondulazioni dando al 
goniometro imagini numerosissime e più o meno distorte, mi hanno 
impedito di prendere qualsiasi misura con una certa esattezza. 

Le sostanze incluse, che tutti questi cristalli presentano, per il solito 
limitate alla parte centrale, il BomBIccI ci dice essere di natura car- 
boniosa. i 

Si hanno non di rado segni di unioni parallele di individui, sia ac- 
collantisi l'uno all’altro per il piano basale (fig. 1) con la stessa appa- 
renza della lutecite effigiata da MicHeL-Lévy e MuNIER-CHALMAS 4), sia 
unentisi parallelamente all’asse di simmetria (fig. 2). 

Numerosi cristallini poi tempestano quelli maggiori (fig. 3), e sono 
distribuiti prevalentemente sugli spigoli culminanti di questi o se sui 


Fis. 1. Fia. 2. Fic. 3. 


laterali in vicinanza degli angoli tetraedrici, e vedremo più tardi ciò 
essere in accordo sia con la struttura senaria del cristallo con assi 
cristallogenici normali agli spigoli laterali, sia con il contegno ottico. 
Fra l’ uno rispetto all’altro però, e fra essi e il cristallo che li sostiene 
non sembra esservi alcuna corrispondenza nell’ inclinazione dei piani fa- 
ciali; anzi non si ha mai parallelismo fra le facce loro. Questi cristal- 
letti minori possono facilmente distaccarsi dal maggiore che li sostiene, 
e sul quale allora restano cavità striate, così come striata appare la su- 
perficie d’ attacco del cristallo distaccato, nell’un caso e nell’ altro 
dovute le strie a successivi strati di accrescimento. Questi piccoli cri- 
stallini, che ci appaiono incompleti nella porzione imprigionata, dovettero 
rimanere rinchiusi nella massa del cristallo maggiore mentre l’uno e 


1) Mémoire sur diverses formes affectées par le réseau élementaire du quarte, 
Bull. Soc, frang. Minér. T. XV, N.° 7, pag. 178, fig. 17 Parigi, 1892. 


118 G. D’ACHIARDI 


gli altri andavano crescendo e formandosi. Forse sì formarono prevalen- 
temente nelle direzioni sopra accennate, come direzioni di equilibrio fra 
le varie forze cristallogeniche agenti intorno al centro del cristallo prin- 
cipale secondo le linee assiali, e anche in ciò si ha accenno a simmetria 
senaria piuttosto che ternaria come nei comuni quarzi plagiedrici. Gli 
uni e gli altri hanno continuato a crescere insieme; furono embrioni 
di cristalli, non cristalli completi che rimasero presi nella massa dei 
cristalli maggiori. Su questi cristalletti più piccoli poi spesso altri ancora 


minori sono a lor volta impiantati sempre in vicinanza o sopra i loro. 


spigoli. 

Taluni di questi cristallini minori per essere più limpidi degli altri si 
prestano anche meglio alle osservazioni ottiche, e tanto di questi che 
dei maggiori io ho fatto numerose sezioni in special modo normali al- 
l’asse principale di simmetria, tranne alcune poche invece parallele o ad 
una faccia della bipiramide esagonale o all’asse principale di simmetria. 

Delle prime alcune furono eseguite da KoritsgA a Milano; ma in 
maggior numero da me stesso nel laboratorio di Mineralogia di questa 
Università. E furono tenute di dimensioni differenti, talune di appena 
qualche centesimo di millimetro, altre da uno sino a tre millimetri. Tutte, 
se si tien conto delle differenze dovute alla varia grossezza, hanno un 
identico contegno ottico tanto se di cristalli maggiori, che dei piccoli 
su di essi incastrati. In tutte si hanno cioè segni di biassicità e tutte 
grosse e sottili, più evidentemente quelle di queste, se normali all’asse 
e osservate a nicol incrociati, si dividono in sei settori triangolari, de- 
limitati dalle linee che congiungono gli angoli opposti dell’ esagono di 
sezione. 

La biassicità di taluni cristalli di quarzo è nota da parecchi anni. 
Riscontrata in special modo nei cristalli delle roccie eruttive venne d’or- 
dinario considerata come anomalia ottica dovuta ad interne tensioni, 
mentre WIrousorr !) e altri, quasi tutti francesi, la ritengono come ef- 
fetto di pseudo-simmetria, ammettendo una costituzione per lamelle 
biassiche, dal cui ordinamento levo o destrogiro già dissi che fu fatta 
anche dipendere la polarizzazione rotatoria. 

I più si occuparono dell’ametista e di altre varietà a contegno ano- 
malo rispetto alla polarizzazione rotatoria, ma il contegno di questi cri- 


1) Nowvelles recherches sur la structure des cristaue doués du pouvoir ro- 
tatoire. Bull. Soc. frang. Miner. T. XIII, N.° 6, pag. 215. Parigi, 1890. 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 119 


stalli non ha nulla a che fare con i nostri, che solo hanno un qualche 
riscontro nelle recenti osservazioni del MicHEL-LÉvy, di MUNIER-CHALMAS 
e di WaLLeRANT sul contegno ottico di alcune forme speciali di anidride 
silicicà designate coi nomi di quarzina e di lutecite. 

Manca affatto nei nostri cristalli ogni segno di polarizzazione rota- 
toria. Le lamine tagliate normalmente all’asse, se non si estinguono 
completamente a nicol incrociati, nè meno si estinguono per rotare 
dell’analizzatore a luce monocromatica, nè mutano colore a luce bianca 
sia per rotar dell’analizzatore stesso, sia in ragione della loro grossezza. 
E neppure a luce convergente mostrano alcun segno di potere rota- 
torio, apparendo anzi allora anche più evidenti i caratteri della bias- 
sicità non rotatoria. 

Le sezioni normali all’asse quanto più sono sottili, tanto meno ap- 
paiono luminose fra i nicol incrociati, ma non per dato e fatto, come 
a prima-giunta potrebbe credersi, di potere rotatorio che produce lo 
stesso effetto in ragione dello spessore delle lamine cristalline, ma solo 
per la debolissima potenza birifrattiva che queste sezioni normali all’asse 
presentano, onde in esse anche se con spessore di un millimetro e più 
si hanno sempre i più bassi colori di interferenza sul grigio. 

Estinzione completa non si raggiunge nè meno girando un poco la 
lamina con l’apparato di rotazione di KLEIN a correggere la posizione, 
se mai spostamento di qualche minuto dalla normalità si fosse avuto 
nel taglio della sezione. Invece si ha sempre diverso tuono di grigio 
ed estinzione parziale a seconda dei vari settori in cui si vede divi- 
dersi la lamina. 

Le fig. 4-8 danno imagine di questa apparenza quale si ha in tutte 
le sezioni. I sei settori appaiono quasi sempre come fasci di fibre nor- 


120 G. D’ACHIARDI 


mali ai lati del contorno esagonale, con apparenza quasi di tante la- 
melle contigue, che con opportuna illuminazione si possono anche se- 


guire nelle facce ancora rimaste della bipiramide. Quelle che proven- 


gono dall’esterno sembrano tuffare alquanto verso l'interno, e inversa- 
mente altre che s’assottigliano verso l’esterno e inclinandosi anch'esse 


s’intralciano con le prime assai più numerose e più sviluppate. Or bene 
queste pseudo-fibre non si estinguono tutte simultaneamente l’una ac- 
canto all’ altra e non è raro vedere in alcune di esse rifrazioni di 
segno opposto alle altre adiacenti dello stesso settore. E si osserva che 
le fibre provenienti dall'esterno mostrano costantemente nell’ allunga- 
mento loro l’asse delle vibrazioni di minore velocità ottica, le altre di 
maggiore, queste apparendo gialle, quelle azzurre con la lamina di gesso 
a rosso di primo ordine, quasichè le une avessero contegno di quar- 
zina, le altre di calcedonio. Inoltre si hanno anche settori nei quali 
questa stessa differenza di segno procede mal definita pure in zone 0 
fasce normali all’apparente andamento delle fibre, onde con la lamina 
di gesso, dati i bassi colori di interferenza, parte si vedono colorate 
in azzurro, parte in giallo. 1 
Si ha in questa alternanza quasi lo stesso contegno che MicHeL-Lévr 
e MunIER-CHALMAS descrissero ed effigiarono (mem. cit. fig. 2 nel testo e 
tav. 1, fig. 1) per talune sferoliti caleedoniose, mentre per la divisione 
in sei settori, per l'apparenza loro fibrosa, si ha moltissima analogia 
con le sezioni da essi illustrate di piccoli cristalli di lutecite (fig. 16 e 19 
nel testo, tav. IV, fig. 5) salvo nell’andamento delle apparenti lamelle 
o fibre che nelle nostre sezioni appaiono costantemente normali ai lati 


4 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 121 


dell’ esagono, mentre in quelle della lutecite appaiono parallele alle 
diagonali. Maggiore analogia nell’andamento delle fibre hanno con 
quelle osservate e effigiate dal WALLERANT per sezioni normali all’asse 
(mem. cit., tav. I, fig. 5), se non che queste, oltre ad essere più irrego- 
lari, si riferiscono a tre soli settori, mentre nei cristalli di Monte 
Acuto e di Lizzo sono evidentemente disposte in sel con accenno ad 
ordinamento senario anzichè ternario. i 
WALLERANT distingue anche tre sistemi di fibre fra oro diversi per 
l'ottica orientazione; che questa non sia eguale per tutte anche nelle 
nostre sezioni lo dimostra la diversità del contegno ottico, ma non mi 
sembra aversi corrispondenza con l’ andamento osservato dal WALLERANT. 
Quanto più si assottigli la sezione, e quanto più si accresca l’ingran- 
dimento del microscopio tanto meno visibili si rendono queste pseudo- 
fibre lamellari, due fatti che sembrerebbero stare in favore della loro 
reale esistenza, quasi per il diminuito spessore o della lamina o del campo 
di fuoco visivo non si potessero allora più seguire in profondità. 
Nelle sezioni parallele all'asse di simmetria principale, osservando 
a nicol incrociati, se sottili non si scorgono le fibre, ma se un po’ grosse 
si scorgono distintamente procedere verso i lati di sezione. Se la sezione 
risultò esattamente parallela si vede il 
campo diviso in quattro settori diversi 
per l'andamento della laminazione ap- 
parente; se leggermente inclinata, a questi 
quattro altri due piccolissimi si aggiun- 
gono paralleli all’asse di simmetria come 
si può vedere nella fig. 9. Però in tutte 
queste sezioni di spessore assai grande, 
la distinzione in settori non ci è rivelata 
che dall'andamento delle fibre poichè 
otticamente non sì mostrano diversi, nep- 
pure osservando con la lamina di gesso, essendo forte la birifrazione; 
e in quelle sottili, e ciò anche in quelle perpendicolari od oblique all’asse, 
non si vedono che i soliti colori di interferenza propri del quarzo. 
Nelle sezioni parallele ad una faccia della bipiramide a nicol incro- 
ciati non si scorge alcun sistema di fibre, o solamente delle tracce, e 
quando queste si abbiano, sono dovute a non essersi mantenuta la sezione 
perfettamente nel piano della faccia piramidale, tanto è vero che guar- 
dando obliquamente sulle faccie stesse della bipiramide, in quelle sezioni 


Fia. 9. 


122 G. D’ACHIARDI 


basali in cui esse non sieno state consumate dallo smeriglio, non è dif- 
ficile vedervi la continuazione di quelle stesse fibre che più chiaramente 
appariscono sui piani normali all’asse di simmetria principale. 

Dall’insieme di tutte queste osservazioni si può argomentare che 
queste apparenti fibre o lamelle si debbano rivolgere alle facce della bi- 
piramide, onde tanto più difficili a vedersi in una sezione quanto più 
essa si avvicini al perfetto parallelismo con quelle facce e onde pure il 
tuffare di esse verso l’interno nelle sezioni normali all’asse. 

A me restava il dubbio se quest’ apparenza fibroso-lamellare fosse 
dovuta solamente ad azione ottica oppure ad una speciale condizione di 
struttura e in questo caso se si trattasse di vere e proprie fibre oppure 
di linee fra loro vicinissime parallele a piani di più facile separazione 
e prodotte appunto dal distacco delle particelle cristalline o a tutte queste 
cause insieme. Per ciò ricorsi ad una minuta osservazione a luce ordi- 
naria. Ad occhio nudo, o meglio con semplice lente di ingrandimento, si 
vedono le sezioni traversate come da tante fenditure, ma non con molta 
chiarezza, perchè esilissime e confuse al centro con le inclusioni e talora 
intralciate dai solchi prodotti nell’arrotare con lo smeriglio, e che non 
sono scomparsi completamente con la politura successiva. Osservando al 
microscopio avviene anche che le sezioni essendo quasi tutte abbastanza 
grandi, per la ristrettezza del campo visivo, mal si arriva a capire se 
queste fibre o fessure procedano accidentalmente oppure con orienta- 
zione fissa e determinata. 

Fu allora che ricorsi alla fotografia, e le prove ottenute a luce ordi- 
naria, con un microscopio KoRITSKA a largo campo di visione, non lascian 
più alcun dubbio sulla esistenza di una reale laminazione, o di sistemi 
di fessure seguenti direzioni costanti insieme ad altre fessure ad anda- 
mento incerto, talora vicino al parallelismo coi lati di sezione (fig. 4, 6, 
LONeM2): 

Le fig. 10-13 ottenute, con lastre ortocromatiche e posa lunghissima, 
da sezioni di cristalli di Monte Acuto e di Lizzo mostrano con tutta 
evidenza questa disposizione di fibre o fessure nel cristallo collegata ad 
una simmetria senaria concordante con quella che si osserva a luce 
polarizzata sia per le sezioni normali all’ asse di principale simmetria 
(fig. 10, 11 e 12), sia parallele (fig. 13). 

La struttura fibroso-lamellare che in queste sezioni si manifesta sia 
a luce ordinaria che a nicol incrociati io non la credo però niente affatto 
dovuta a riunione di numerosi cristallini aciculari, che come negli arnioni 


dA; 


———T——rTr——___=_— 


___=—_—_———_e_—e_ r__= 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 123 


di sperchise o nelle mammille di malachite si partono irraggiando da un 
centro comune, ma a cause ben differenti. Per me non si ha a che fare 
con vere e proprie fibre, ma con semplici fenditure e laminazione ottica, 


Fic. 11. 


che obbediscono a leggi determinate e quindi si distribuiscono più o 
meno regolarmente. 

Nell’interno di tutti questi cristalli ho detto trovarsi sempre inclu- 
sioni più o meno abbondanti; ora è in relazione con esse che si presen- 
tano sempre queste apparenze fibrose, onde in quelle sezioni dove il 
nucleo sia ridotto piccolissimo queste linee più difficilmente si vedono, 
mentre sono abbondantissime in quelle ad inclusioni molto maggiori 
(fig. 12). p 

Per me queste sostanze incluse, rimaste imprigionate dentro la massa 
cristallina hanno disturbato l’ equilibrio dell’edificio che si formava e per 

Se., Nat. Vol. XVII 9 


a° 


124 G. D’ACHIARDI 


esercitate tensioni, in relazione forse alla loro natura carboniosa, sono 
avvenute deformazioni accompagnate anche da distacchi parallelamente 
ai piani di minor resistenza. É resistenza minore in questi cristalli si ha 
appunto in queste date direzioni quando si ammetta una struttura esa- 
gonale subordinata ad un reticolato molecolare, in cui siano assi cristal- 
logenici di orientazione intorno ad una prima molecola, sei direzioni equi- 
valenti egualmente inclinate sull’asse di principal simmetria e non tre 
come si ammette per la struttura romboedrica. 


Ora queste tensioni interne, che fecero sentire la loro azione coor- 


dinatamente alla struttura senaria del cristallo, come hanno potuto pro- 
durre le fessure che si vedono osservando a luce ordinaria, così agendo 
in queste stesse direzioni di più facile separazione hanno pure costi- 
pato le molecole del quarzo onde è venuta fuori una struttura ottica 


lamellare. Infatti le fibre che si osservano a nicol incrociati corrispon- 


dono per l'andamento loro alle fessure che si osservano anche a luce 
ordinaria, benchè non sieno le stesse. E se la fotografia ci mostra che 
in molti settori in cui a luce ordinaria si scorgono pochissime fessure 
è invece evidentissima la segmentazione ottica, è sempre però questa 
parallela a quelle. Quindi la stessa origine hanno per me avuta le fes- 
sure e la laminazione ottica. st 

Con questa inclinazione di assi cristallogenici s'intende anche lim- 
mergersi verso -l’interno delle apparenti lamelle nelle sezioni normali 
all’asse e per la compenetrazione di queste direzioni di minor coesione 
dei settori opposti, anche l’ apparire di alcune di esse immergentisi verso 
l'esterno e quindi anche con carattere opposto di rifrazione. 

A queste tensioni e distensioni, onde si produssero le fessure, credo 
quindi dovuto anche il contegno ottico anomalo, non attribuibile per me 
a pseudo-simmetria per struttura mimetica. E poichè i piani di più fa- 
cile separazione sono diversi nell’andamento loro a seconda dei sestanti 
della piramide da ciò la divisione in settori e poichè in ognuno di questi 
le tensioni devono aver prodotto i loro effetti di compressione normal- 
mente a questi piani, quindi anche la loro orientazione ottica diversa in 
rapporto a questa sestuplice divisione. 

Questa diversità da settore a settore è chiaramente e anche me- 
glio dimostrata dall’ esame a luce convergente. Infatti quando le se- 
zioni normali all’asse si osservino a luce convergente mostrano le figure 
di interferenza proprie dei cristalli biassici, con piano degli assi ottici 
non sempre egualmente disposto da settore a settore, ma sempre più 0 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 125 


meno vicino alla direzione del lato esterno del respettivo settore. In 
alcune sezioni sembra questo piano esservi costantemente parallelo, ma 
nella maggior parte di esse, mentre per alcuni settori tale si mantiene, 
per altri se ne allontana, ordinariamente non più di 10°, di rado più, 
talora anche meno fra i 5°-6°, con frequente ma non costante corrispon- 
denza per due settori opposti. 

L'angolo degli assi ottici misurato sia nelle grosse sezioni per mezzo 
del conoscopio di GRoTA, sia in queste e nelle sottili con l’apparecchio 
rotativo del KLEIN, applicato ad un microscopio Furss N.° I, è risultato 
nella massima parte dei settori variabile da 12° a 18° (2Ea). Solo in 
rarissimi casi ho trovato valori maggiori, sino anche a 24°. La figura 
d’interferenza poi ora appare regolare, ora più o meno deformata. Si 
ha dunque un contegno analogo a quello riscontrato in alcuni minerali 
spettanti alla classe oloedrica del sistema esagonale, per es. nella ro- 
sterite (varietà di berillo) studiata dal professor GRATTAROLA !), che vi 
osservava l’area basale divisa in sei settori, il piano degli assì ottici ora 
parallelo, ora ad angolo sino a 7° con i lati dell’esagono e l’ angolo degli 
assi ottici con apertura che giudicò essere approssimativamente di 15°. 

Per ogni settore nel piano degli assi ottici corre in generale l’asse 
delle vibrazioni di maggiore velocità ottica, e quindi normale, o quasi, 
ai lati dell’ esagono l’asse delle vibrazioni di minore velocità, che vedremo 
poi dallo studio ulteriore essere di media velocità, il quale quindi se- 
conda anche l’allungamento delle apparenti fibre, che in queste sezioni 
appaiono perpendicolari a quei lati stessi. Ma si hanno, come già notai, 
differenze anche da punto a punto dello stesso settore, dando quelle pseudo- 
fibre segno ora di rifrazione positiva, ora negativa nel loro allungamento. 

Nelle sezioni parallele ad una faccia della bipiramide si vedono cir- 
coli d’interferenza attraversati da una unica barra nera; nelle parallele 
all'asse di simmetria principale, e quindi a una faccia del prisma, si ha 
la figura d’interferenza di cristallo biassico, quale suole essa presentarsi 
appunto in sezioni parallele o quasi al piano degli assi ottici, onde il 
contegno di queste sezioni concorda con quello delle sezioni normali all’asse, 
nelle quali il piano degli assi ottici corre infatti parallelo o quasi alle 
facce del prisma. 

Osservate le sezioni parallele alle facce del prisma con la lamina di 


1) Sopra una nuova varietà (rosterite) del berillo elbano. Riv. Sc. Industr. 
Firenze 1880, n.° 19. 


126 . G. D’ACHIARDI 


gesso, se sottilissime, ci mostrano l’asse delle vibrazioni di minore velo- 
cità parallelo all’asse del cristallo e normale quello di maggiore; onde 
facendo il raffronto fra il contegno di queste sezioni normali all’asse, si 
ha che la bisettrice acuta intorno a cui si aprono gli assi ottici è asse 
delle vibrazioni di minima velocità (c), si ha quindi il carattere positivo 
dalla birifrazione, come nel quarzo tipico. Ciò concorda con quanto il 
WALLERANT scrive ( mem. cit. pag. 85) della relazione fra quarzo e 
quarzina: “ Dans les fibres situtes dans des plans perpendiculaires à Vaze 
du quarte, le plan des axes optiques est perpendiculaire à la direction d’al- 
longement des fibres, direction qui coincide par suite avec l° are ‘moyen 


d'élasticité ,. e concorda pure con quanto egli e Mrc®eL-Lfévy e MuNIER . 


CHaALMAS dissero della quarzina, la direzione del cui asse c coincide con 
quello del quarzo di cui è noto il carattere positivo della birifrazione. 

Da tutto quanto si è detto si rileva che mentre appare in ogni se- 
zione evidente il contegno ottico biassico, quando si volesse attribuire 
struttura mimetica a questi cristalli, per la frequente variabilità di con- 
tegno da settore a settore non potrebbe in ogni caso ammettersi per 
subindividui esclusivamente trimetrici o esclusivamente clinoedrici, quali 
il WALLERANT (mem. cit. pag. 74 e seg.) suppose per la quarzina, che 
egli ritiene costituita da tetraedri triclini, ma converrebbe ammetterla 
per associazione ora di soli subindividui trimetrici, ora insieme di tri- 
metrici e clinoedrici, una condizione che, come ben dice il KLEIN in 
molte delle sue memorie che si occupano del contegno anomalo dei cri- 
stalli, non è certo favorevole alla spiegazione della anomalia per strut- 
tura mimetica. Contro questa interpetrazione oltre la variabilità di 
orientazione e valori pur nello stesso settore sta pure il contegno da 
me osservato in alcune sezioni di cristallini incastrati in cristalli mag- 
giori, nelle quali mentre si osserva la solita segmentazione ottica in 
sei aree triangolari, non ne è più il segno della rifrazione diverso da 
settore a settore, ma eguale per tutta la sezione, che osservata con 
la lamina di gesso mostra pochissima differenza in tutta la sua esten- 
sione nella tinta differenziale che si produce. Verso il punto di im- 
pianto sembrano alquanto distorti i cristalli e che vi sia diretto per 
tutti i settori l’asse c. 

La spiegazione di ogni fenomeno non è sempre facile, pure ritenendo 
anche per lo studio di altre sostanze che le anomalie ottiche dei cri- 
stalli sieno, anche se diversa la causa, sempre più o meno evidentemente 
collegate con la loro simmetria strutturale e abito di cristallizzazione, 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 127 


che ne è in diretta dipendenza, dal contegno eguale in tutti questi 
cristalli da me esaminati in quanto alla sestuplice segmentazione ottica 
parrebbe che se ne dovesse concludere per una struttura diversa da quella 
degli ordinari quarzi, nei quali abito e struttura ternaria sono evidenti. 
e nei quali si ha anche abitualmente potere rotatorio che qui manca 
affatto. 

_ La costante mancanza delle faccette plagiedriche e di ogni segno di 
sfaldatura romboedrica, la grande riduzione, o abitual mancanza asso- 
luta delle facce del prisma, l’eguale sviluppo e corrispondenza di ca- 
rattere delle facce tutte della bipiramide a differenza dei quarzi enantio- 
morfi rotatorii tutto viene in appoggio di questa supposizione. 

La sestuplice divisione in settori nei quali l'andamento della lamina- 
zione procede normalmente ai lati nelle sezioni perpendicolari all’ asse 
di principale simmetria, e quindi con differenza di andamento se si pa- 
ragonino queste nostre linee di fenditura e di laminazione ottica alle fibre 
dei quarzi plagiedri rotatori descritti da WALLERANT, MIicHEL-LEÉvy ece., nei 
quali vanno sempre parallele alle diagonali, mi rende propenso a rite- 
nere queste direzioni perpendicolari ai lati dell’esagono come direzioni 
cristallogeniche. In tal caso i cristalli anzichè considerarli come d’ ordi- 
nario costituiti dalle facce dei due romboedri {100} e {221} e del prisma 
;211} quando vi sia, si devono ritener composti da un isosceloedro 0 bipi- 
ramide di secondo ordine j412} e dal prisma {101}, come è d’ordinario 
mei cristalli oloedrici di-tipo senario. Del resto la struttura senaria 
fu già ammessa per altri cristalli di quarzo dal WIirouBoFF (mem. cit.) 
e dal WaLLERANT, che sul finire dell’anno scorso scriveva ! doversi 
ammettere tre modi diversi di struttura nel quarzo secondo che esso sia 
rotatorio a destra, a sinistra o neutro e nel sistema reticolare do- 
versi considerare ora gli assi binari di primo, ora quelli di secondo or- 
dine. Gli elementi costituenti di certi cristalli, egli dice, hanno subìto una 
rotazione di 30° intorno all’asse senario relativamente agli elementi degli 
altri cristalli e le proprietà ottiche ne sono naturalmente modificate. 

È lungo le linee di divisione fra un settore e l’altro, è lungo gli spigoli 
e agli angoli della bipiramide che vi corrispondono, che quasi in posi- 
zione di più stabile equilibrio fra due direzioni cristallogeniche ad an- 


1) Théorie des anomalies optiques, de l’ isomorphisme e du polymorphisme. 
Bull. Soc. frang. Minér. XXI, 7, 1898. x 


128 G. D’ACHIARDI : 


goli eguali con esse, che si sono prevalentemente distribuiti i cristalli 
minori sui maggiori e con questa distribuzione io ritengo anche in parte 
sia collegata l’anomalia ottica. La quale se si volesse attribuire a strut- 
tura mimetica per distinti subindividui di quarzina converrebbe ammet- 
tere per questa struttura tetraedrica, come già ammise il WALLERANT per 
altri quarzi, essendo i tetraedri elementari rappresentati da ogni sestante 
di ciascuna piramide costituita da quattro facce di cui due sole eguali 
fra loro, con abito quindi clinoedrico. \ 

Ma io propendo invece ad ammettere anomalia dovuta principalmente 
alle tensioni, che come hanno prodotto le fessure in direzioni di più 
facile separazione hanno anche disturbato l’orientazione ottica primitiva. 
del quarzo, e la segmentazione ottica in distinti sestanti è verosimil- 
mente dovuta a questa principalissima causa. Ma poichè questa orien- 
tazione potè in parte essere successivamente disturbata nel suo ma- 
nifestarsi dalle. stesse inclusioni che la determinarono, come pure i 
molteplici centri di cristallizzazione, non sempre egualmente distribuiti, 
nè sempre dotati della stessa forza attrattiva in relazione alle diverse 
dimensioni dei cristalli associati, devono aver cagionato nuove pertur- 
bazioni, ecco le anomalie secondarie che si rivelano con l’incostanza 
tanto dell’ orientazione del piano, quanto del valore dell’angolo degli 
assi ottici, non che col valore della potenza birifrattiva. 

A dimostrare la reciproca influenza dei vari centri di cristallizzazione 
sta anche il fatto che nei cristallini più piccoli, la deformazione ottica 
seconda la disposizione loro verso il cristallo che li sopporta. Inoltre 
io credo che la irregolare poliedria delle facce sia in relazione con que- 
Sta stessa causa. i 

All’esame ottico con luce polarizzata, avvalorato dalle imagini fotogra- 
fiche e a luce ordinaria e a nicol incrociati, volli aggiungere anche le prove 
di corrosione. È noto come nei quarzi a tipo decisamente ternario la corro- 
sione con acidi determina figure che non solo sono diverse fra le facce dei 


due romboedri {100}, 221} ma sì anche fra le contigue del prisma 


1211}, che appunto corrispondono come forme limiti rispettivamente al- 
l’uno e all’altro di quei romboedri. Volli quindi provare se attaccando 
con acido fluoridrico i cristalli, sia immergendoli in esso, sia facendoli 
circondare da vapori sviluppantisi o per azione dell’ acido solforico 
sulla fluorina a caldo, o dall’acido fluoridrico stesso riscaldato in muffola, 
si avessero differenze nell’attacco delle contigue facce della bipiramide. 

Queste differenze, e operando in un modo o in un altto è la stessa 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 129 


cosa, non si ebbero come del resto era prevedibile per l’eguale appa- 
renza ed estensione di tutte le sei faccie. 

Invece nelle sezioni normali all’asse si ebbero effetti molto espres- 
sivi, poichè l’acido penetrando fra le numerose fessure che si trovano 
in questi cristalli e attaccando più facilmente nelle direzioni in cui le 
molecole sono meno costipate, spartisce al solito il campo in sei settori 
che fra loro differiscono per l'andamento delle linee di corrosione. In 
talune inoltre verso l'esterno si mostra anche una linea più corrosa, più 
o meno esattamente parallela ai lati dell’esagono, e che certo corrisponde 
ad una di quelle già osservate in altre sezioni e figurate (fig. 4, 6, 10 
e 12); il contorno poi si mostra come seghettato, sempre in reldzione 
alle direzioni sopra rammentate. 

Quindi anche da queste prove con l’acido fluoridrico si manifesta 
evidente la struttura senaria di questi quarzi. | 


Quarzo «li Selvena. — A complemento di questo studio volli esaminare 
anche alcuni cristalli di quarzo di Selvena nei quali non si riscontrano mai, 
come già aveva notato mio padre !), faccette plagiedriche, mentre si ha 
l’abito comune dei cristalli di quarzo e cioè grande estensione del prisma 
e faccette romboedriche con accenno ad alterno sviluppo. Quindi un tipo 
tutto diverso da quello dei cristalli precedentemente descritti, malgrado 
la mancanza delle plagiedrie, la quale sappiamo verificarsi anche in 
altre varietà di quarzo, per es. l’ametista, che presentano come i co- 
muni quarzi tutti i caratteri di simmetria ternaria. 

Or bene le sezioni perpendicolari all'asse di simmetria principale 
danno segni manifesti qui pure di biassicità, qui pure si ha segmenta- 
zione ottica della sezione, ma in tre settori cor- LA 
rispondenti alle facce del romboedro {100} e con 
tracce di altri settori periferici (fig. 14), accen- 
nanti alle facce poco sviluppate del romboedro in- 
verso {221}. Le linee di divisione dei 3 settori corri- 
spondono ai piani degli assi romboedrici, e quindi 
anche al mezzo dei lati dell’esagono di sezione 
anzichè agli angoli come nei cristalli di Monte 
Acuto e di Lizzo e il piano degli assi ottici, il cui angolo non raggiunge 
ì valori che in questo, sembra nei vari settori coordinarsi piuttosto ad 


1) Mineralogia della Toscana. T.I, pag. 77. Pisa 1872. 


1380 G. D’ACHIARDI 


essi che ai lati dell’esagono. Di più i vari settori sì estinguono quasi 
simultaneamente e non uniformemente e a luce convergente mostrano qua 
e là evidentissime tracce di spirali di Atry. In fine manca ogni traccia 
di fessure come di inclusioni. 

Un contegno quindi nel suo complesso che ravvicina questi cristalli 
alle ametiste, contegno di simmetria ternaria del tutto diverso da quello 
dei quarzi bipiramidati testè descritti. 


Dal presente studio credo poterne trarre le conclusioni seguenti: 

1.° Come si hanno diverse forme di anidride silicica, dimetriche nella 
cristobalite, esagonali nel quarzo, clinoedriche nella tridimite, nulla 
s'oppone a che le forme romboedrico-esagonali riferite ad unica spe- 
cie, il quarzo, possano nei vari casi essere subordinate a diverse con- 
dizioni di simmetria per diverso ordinamento delle molecole, sieno esse 
eguali o anche strutturalmente diverse e riferibili quindi a due distinte 
classi dello stesso sistema. _ 

2.° Disponendosi le molecole subordinatamente alla simmetria se- 
naria, che costituisce il più elevato grado di simmetria del sistema 
esagonale, possono dar luogo a bipiramidi riferibili alla classe oloedrica 
del sistema stesso. Il modo di origine di questi cristalli in condizione 
tale di aver libertà di movimenti molecolari per ogni verso, secondato 
dalla loro compitezza per ogni parte, come ne spiega la semplicità delle 
forme ne rende anche probabile il più alto grado di simmetria. 

3.° Disponendosi invece le molecole rispetto ad assi di simmetria 
ternaria danno luogo a cristalli enantiomorfi o no secondo che l’ordi- 
namento loro rispetto a questi assi avvenga dissimmetricamente o sim- 
metricamente pur essendo eguali le molecole in ambedue i casiì. 

Se avvenga «con ordinamento destrogiro o levogiro se ne hanno i 
cristalli con potere rotatorio a destra o .a sinistra e l'ordinamento dis- 
simmetrico nell’edificio cristallino è sempre secondato dalle faccette 
enantiomorfiche o plagiedriche. L’ essere in uno stesso cristallo, come in 
quelli del granito elbano, faccette plagiedriche destre e sinistre e aree 
con opposto carattere rotatorio è solo dovuto a geminazioni di individui 
diversi destrogiri e levogiri compenetrantisi parallelamente all’asse di 
simmetria. 

4.° Se l’associazione avvenga parallelamente alla base, quando si com- 
pensino vicendevolmente le contrarie rotazioni, viene a mancare la rota- 
zione del piano di polarizzazione, come viene anche a mancare la ma- 


sasa 


crd 


STUDIO OTTICO DI QUARZI BIPIRAMIDATI SENZA POTERE ROTATORIO 1851 


nifestazione dell’enantiomorfismo, e i cristalli risultano come quelli 
delle ametiste, o quelli da me descritti limpidissimi incolori di Sel- 
vena. Le spirali di Arry, che si manifestano non di rado in questi cri- 
stalli specialmente nelle sezioni sottili, e tutte quelle irregolarità di con- 
tegno ottico che spesso essi presentano in relazione a questo ordina- 
mento e alla ineguale composizione degli strati molecolari di contrario 
carattere, fanno anche testimonianza che sì fatti cristalli non devono rite- 
nersi subordinati ad un modo di simmetria diverso dagli altri e riferirsi 
come questi alla tetartoedria enantiomorfica di tipo ternario. 

5.° Le anomalie ottiche, che i cristalli di quarzo presentano tanto se 
di tipo ternario che senario, non sono da attribuirsi a struttura mimetica 
per subindividui biassici corrispondenti ai diversi settori ottici. La fre- 
quente biassicità che spesso vi si osserva è una delle solite anomalie 
che nei vari casi potrà anche.avere diversa causa, ma che nei suoi effetti 
appare sempre collegata con la simmetria e con l'abito del cristallo, come 
ha sostenuto KLEIN per molte altre specie anomale, e come appare con 
tutta evidenza nel caso presente in cui sembra collegata ai piani di diversa 
coesione in relazione sempre alla simmetria strutturale. 

6.° Anche in questo caso si conferma per me quanto ho già sostenuto 
per altre specie, che cioè mentre la divisione in settori con orientazione 
ottica diversa è sempre in relazione alla struttura cristallina del mine- 
rale, e quindi seconda anche il suo abito esterno con questa connesso, 
si devono invece ritenere come anomalie secondarie quelle che si mani- 
festano con leggiera aberrazione di orientazione, piccole differenze nei 
valori dell’angolo degli assi ottici, sempre collegate a poliedria, irregola- 
rità di sviluppo ecc. Queste anomalie devono per me attribuirsi a cause 
secondarie o se la causa debba essere unica bisogna ricercare la spie- 
gazione nella diversa intensità e modo con cui questa causa fa sentire 
i suoi effetti nelle diverse direzioni. 


Laboratorio di Mineralogia dell’ Università. 
Pisa, 25 aprile 1899. 


Se., Nat. Vol. XVII 10 


*> 


P. RICCARDO UGOLINI 


LO STENO BELLARDII PORTIS 


DEL PLIOCENE DI ORCIANO PISANO 


(Tav. VII [I]). 


Sino dal 1884, in questo Museo geologico, giacevano quasi totalmente 
abbandonati, i resti fossili di un Cetaceo provenienti dalle colline plio- 
ceniche di Orciano in provincia di Pisa, e dal LawLEY regalati in quel- 
l’epoca al compianto prof. MeneGHINI. Consigliato dal prof. CANAVARI 
ad intraprenderne lo studio, accettai di buon grado l’invito, non perchè 
quegli avanzi avessero l'aspetto di offrire qualche cosa di nuovo da ag- 
giungersi a quanto già si conosceva in materia di Cetologia fossile; ma 
unicamente perchè, appartenevano essi ad una specie non ancora cono- 
sciuta per il Pliocene della Toscana. 

Così incominciai l’esame di quelle ossa non senza aver prima ten- 
tato di rafforzare alla meglio, sopra lo scheletro di cetacei attualmente 
viventi, le mie deboli cognizioni di osteografia cetologica. 

A compier meglio questo lavoro mi furono di sommo aiuto l’opera 
magistrale del Gervais e VAN BENEDEN !) e le numerose pubblicazioni 
di Cetologia fossile, tra cui principalmente quelle relative agli Steno 3); 
ma sopra ogni altra cosa mi valse l'appoggio validissimo prestatomi dal 
chiarissimo prof. RicHIARDI, direttore di questo Museo zoologico, che 


1) GervaIs e VAN BENEDEN. Ostéographie des Cétacés vivantes et fossiles. 
Paris, 1880. 

2?) BRANDT. Ergaenzungen zu den fossilen Cetaceen Europa’s. Mem. d. Acad. 
Imp. d. Sc. d. St.-Petersbourg, ser. VII, vol. XXI. St.-Petersbourg, 1875. — 
PortIs. Catalogo descrittivo dei Talassoteriù rinvenuti nei terreni terziari del Pie- 
monte e della Liguria. Mem. R. Accad. d, Sc. di Torino, ser. II, vol. XXXVII. 
Torino, 1885. 


LO STENO BELLARDII PORTIS DEL PLIOCENE DI ORCIANO PISANO 133 


tanto gentilmente volle offrirsi in mio favore ponendo a mia disposizione 
le ricche collezioni del Museo e la sua preziosa Biblioteca privata. 

Non so se il modesto resultato delle mie osservazioni risponderà 
adeguatamente allo scopo prefissomi; ad ogni modo spero che mi si vor- 
ranno condonare i possibili errori in cui io, novizio in tal genere di 
studi e privo di un ricco materiale di confronto, così necessario a questo 
‘scopo, sarò forse incorso, specialmente allorchè ebbi ad occuparmi della 
determinazione di alcuna delle parti più rovinate e quindi più difficil- 
mente riconoscibili. 


Dopo avere accuratamente separato l’ una dall’altra le diverse parti 
che in quell’ammasso di avanzi scheletrici mi fu possibile riconoscere, 
“e dopo averle esaminate minutamente un per una, giunsi non senza 
gravi difficoltà a concluderne che il delfino di Orciano doveva indub- 
biamente venir riferito al genere Sfero e più precisamente a quella 
specie che il PortIs aveva descritto col nome di Steno Bellardìi. 

Gli avanzi dello scheletro che io ho avuto luogo di esaminare si ri- 
ducono dunque ai seguenti: 

a) Numerosi pezzi della scatola cranica, quasi tutti indecifrabili a 
causa del loro stato di conservazione oltremodo incompleto. 

b) Una porzione di uno dei temporali. 

c) I due periotici e la cassa timpanica destra. 

4) I due rami della mascella privi della loro porzione anteriore, 
mancanti di denti, ma provvisti delle traccie ben distinte dei loro alveoli. 

e) Una porzione del lato sinistro del vomere. 

f) I due intermascellari privi di una buona parte della regione 
anteriore. 

g) I due rami della mandibola di cui il sinistro mancante di tutta 
.la porzione della sinfisi e della regione articolare, ed il destro rappre- 
sentato solamente da cinque pezzi che non mi fu possibile di collegare 
insieme; tutti e due i rami mancano dei denti, ma presentano essi pure 
ben marcate le traccie degli alveoli dentari. 

h) 32 denti isolati e conservati per intiero. 

i) 8 vertebre dorsali prive affatto dell'arco neurale, dei processi 
trasversi, ed, in parte, anche dei respettivi dischi epifisiari. 

k) 9 vertebre lombari sprovviste delle apofisi spinosa e tra- 
sverse, e mancanti pur essi della maggior parte delle epifisi. 


134 R. UGOLINI 


}) 7 coste incomplete del lato destro, e 6 del sinistro. 

m) 27 frammenti di coste assolutamente indecifrabili. . 

n) 1 pezzo unico di stenebro (?). 

o) Numerosi frammenti di ossa, a cui, stante la notevole loro ridu- 
zione e la totale mancanza di particolari riconoscibili, non fu possibile 
assegnare un posto qualunque nel sistema scheletrico dell’ animale. 

Di queste ossa ho particolarmente parlato nella descrizione delle 
singole parti dello scheletro, studiandomi di porre in rilievo i rapporti 
di questo con le altre specie di Steno viventi e fossili, e di dimostrare 
sopratutto le numerose sue affinità con lo Steno Bellardi Portis. 


CRANIO. 


a) Scatola cranica. 


Occipitale, Frontali, Nasali, Etmoide, Sfenoide, Giugulare, Palatinì 
e Pterigoidei. — I numerosi frammenti delle ossa del cranio ridotti a 
minime proporzioni, non mi permisero di riconoscere con sicurezza al- 
cuna delle diverse parti componenti il cranio medesimo che potesse ve- 
nir ad accrescere il numero dei termini da confrontarsi con le altre 
forme di Delfinidi più prossime all’ esemplare in esame, e quindi anche 
a facilitarne maggiormente la determinazione. Nulla adunque dirò del- 
l’occipitale, dei frontali e di tutte le altre ossa che costituiscono 
insomma tutta quanta la cassa cranica; salvo a ricordare una porzione 
del temporale, probabilmente destro ed un frammento appena rico- 
noscibile di uno dei parietali; ma appunto per il loro stato di eon- 
servazione troppo ineompleto, sarebbe temerario qualunque confronto di 
tali frammenti con le corrispondenti ossa degli altri delfini fossili. 

Ossa auditive.— Della capsula auditiva rimangono perfettamente 
conservati i due periotici e solo in parte la cassa timpanica de- 
stra. Queste ossa che per le importanti variazioni di forma cui vanno 
soggetti, facilitano notevolmente la distinzione dei generi e delle specie, 
sono oltremodo caratteristiche nei Delfinidi; ma più della cassa timpa- 
nica si distingue il periotico, che ha sempre la faccia posteriore d’arti- 
colazione con la cassa intieramente solcata e l’apofisi anteriore, breve, 
stretta ed affatto liscia. Per tali caratteri i periotici del nostro cetaceo 
corrispondono esattamente a quelli dei Delfinidi ed in particolar modo 
ai periotici del gen. Steno; anzi avendo avuto la possibilità di confron- 


LO STENO BELLARDII PORTIS DEL PLIOCENE DI ORCIANO PISANO 135 


tare queste ossa con quelle che presentano le diverse specie di Steno 
attualmente viventi, m’è stato facilissimo di rilevare una straordinaria 
somiglianza tra i periotici dell'esemplare in esame e quelli dello Steno 
(Delphinoronchus) plumbeus Duss. riprodotto da GeRvAIS e VAN BENE- 
DEN !). La stessa cosa non può dirsi invece della cassa timpanica destra, 
l’unica che posseggo, la quale, appunto perchè incompleta e priva di 
una porzione del margine più sottile, non può con altrettanta sicurezza 
venire ravvicinata a nessuna delle specie viventi tuttora. 

Non conosco le ossa auditive delle due uniche specie fossili del gen. 
Steno, cioè dello Sf. Bellardìì PortIs e dello St. Gastaldiù BRANDT; ma 
poichè è il primo quello che più si assomiglia allo St. plumbeus Duss., 
per molti caratteri vicinissimo al mio esemplare, così a quello piutto- 
stochè alla specie del BranpT ho preferito riferirlo; ma, come vedremo, 
ben altre e non meno importanti particolarità mi condussero ad una 
tale determinazione. 

La superficie esterna della cassa timpanica del nostro cetaceo è ru- 
gosa, e, completata ad occhio, misura una lunghezza di cm. 3, per una 
larghezza massima di cm. 1,8. I due periotici invece hanno una lun- 
ghezza di cm. 3,1 ed una larghezza di cm. 2,1. Dalle dimensioni di 
queste ossa risulta evidente la giovane età dell'individuo; ma di questo 
ci persuaderemo maggiormente in seguito, allorchè verremo ad esami- 
nare la forma dei denti e la costituzione delle vertebre. 


b) Rostro. 


Del rostro, conservato solo in parte e notevolmente sottile ed al- 
lungato, rimangono i mascellari superiori alquanto danneggiati, 
porzioni degl’ intermascellari ed un piccolo frammento del vomere. 
È lo St. Bellardiù Porms la specie fossile che più gli si avvicina per 
la conformazione e per l’aspetto di questa regione del cranio; mentre 
tra le specie viventi quella che maggiormente gli rassomiglia è lo St. 
plumbeus Duss. Anzi, confrontando i resti di questo rostro con quello 
dello St. plumbeus, ed applicando per il primo uno dei metodi già usati 
dal PortIs per determinare approssimativamente la lunghezza di tutto 
il cranio intiero ricostruito, riuscii a trovare per questa dimensione un 
valore all'incirca di cm. 45,33. 


1) Op. cit., Tav. XXXVII, fig. 5. 


136 R. UGOLINI 


Ed infatti, mentre la parte conservata del rostro del nostro esem- 
plare misura una lunghezza di cm. 32, la parte corrispondente dello 
St. plumbeus considerata nella figura del GeRvaIs (Tav. XXXVII, fig. 5), 
non ne misura che 12, ed il cranio completo soltanto 17. Facendo quindi 
la proporzione fra le due misure rilevate per il cranio dello Sf. plum- 
beus e quella della porzione di rostro in esame, ed eseguendo le ope- 
razioni nel modo qui esposto si. ha che: 


12 9 1r=Z93% 


(dove x sta ad indicare il valore che si deve cercare per la lunghezza 
del cranio restaurato), 


17.82 __, 
TONLUR 
49,99% 


È chiaro adunque che, tenuto conto della giovane età dell’ individuo, 
tale lunghezza del cranio è direttamente proporzionale a quella del 
cranio dell'esemplare del Portis, già molto adulto, come egli stesso 
afferma. 

Giustamente osservavo poco fa che lo Sf. plumbeus Duss. è tra le 
viventi la specie che più si assomiglia all’esemplare in esame; ma, per 
quanto notevoli sieno le affinità che avvicinano questo a quella specie, 
è d’uopo convenire che non pure meno importanti sieno le differenze 
che distinguono profondamente l’ una dall’altra. La più marcata, e quindi 
anche la più visibile di tali differenze, sta nella diversa conformazione 
dei mascellari superiori. Ed infatti, mentre nel nostro esemplare essi 
vanno immediatamente restringendosi nel punto in cui si distaccano 
dalla porzione espansa del cranio, assumendo una lunghezza che si man- 
tiene sempre uguale fino quasi all’ estremità del rostro (carattere che si 
osserva pure nello St. Belardi 4); nello St. plumbeus non avviene tale 
restringimento repentino dei mascellari superiori; ma essi vanno a poco 
a poco perdendo di larghezza fino alla metà circa del rostro, il quale 
da questo punto in poi conservasi perfettamente uniforme. 

Inoltre il distacco del rostro dalla superficie superiore del cranio, 
che è molto pronunciato nella nostra come nella specie del BELLARDI, 


1) PoRTIS. Op. cît., pag. 107. 


LO STENO BELLARDII PORTIS DEL PLIOCENE DI ORCIANO PISANO 137 


x 


lo è molto meno, o per dir meglio non lo è affatto, nello St. plumbeus, 
ove la superficie superiore del cranio si confonde con quella del rostro 
in una superficie unica che va gradatamente discendendo verso l’estre- 
mità anteriore senza fare il benchè minimo angolo. 

Altra differenza si verifica poi nel numero e nelle dimensioni dei 
denti che, nell’individuo in esame, come nello Sf. Bellardi, sono pic- 
coli e non più di 32 all’ incirca, mentrechè nello St. plumbeus sono quasi 
sempre più di 35 e di ancor minori dimensioni. 

Delle altre specie viventi anche lo St. rostratus Cuv. e lo St. fron- 
tatus Cuv. presentano qualche affinità col nostro esemplare, ma si al- 
lontanano da questo per avere il rostro molto più sviluppato in lar- 
ghezza ed i denti assai più grossi e minori di numero. Non parlo poi 
dello Sf. compressus Gr. nè dello St. sinensis DESM., nè infine dello Sf. 
attenuatus Gr., dei quali, i primi due differiscono notevolmente dall’in- 
dividuo în esame sol per avere denti più piccoli ed in numero mag- 
giore; ed il terzo se ne allontana soprattutto per il minore sviluppo in 
larghezza degl’intermascellari, per la minor lunghezza e convessità del 
rostro e per un maggior numero di denti. 

Prima di riferire decisamente gli avanzi del mio Delfinoide alla spe- 
cie di PortIs cercai attivamente se esso avesse potuto presentare qual- 
cuno dei suoi caratteri comuni con lo St. Gastaldiî; ma ben presto 
dovetti persuadermi che per quanta affinità esistesse tra le due forme, 
nessun ravvicinamento sarebbe stato possibile del mio esemplare alla 
specie di BranpT; ed ispecial modo per il numero dei denti che in 
questa sono di dimensioni molto più sviluppate ed in numero notevol- 
mente minore (quasi sempre 25 invece di 32). 

Fu appunto in seguito a tali considerazioni, e sopratutto dopo le più 
insistenti ricerche, che venni alla conclusione che allo Sf Bellardii 
PortIs dovessero decisamente venire riuniti gli avanzi fossili di questo 
Cetaceo. 


Mascellari superiori. — Nonostante che manchino della porzione an- 
teriore sono tuttavia in stato assai buono per lo studio; ma il sinistro 
è però un poco più danneggiato del destro. Tutti e due hanno ben con- 
servata la superficie del palato, e, tenendo conto di quanto manca a 
ciascuno, si può calcolare che la loro lunghezza non doveva essere in- 
feriore ai 27 cm. e mezzo. 

Supponiamo infatti, come dice il PortIs, che nello St. Belardi la 


138 R. UGOLINI 


parte espansa del cranio, vale a dire la scatola cranica, raggiunga una 
lunghezza media uguale ai sette diciottesimi della lunghezza totale del 
cranio compreso il rostro ; allora, dividendo la lunghezza totale del cranio 
che abbiamo già trovato essere uguale a cm. 45,33 per 18 e molti 
plicandola poi per 7, otteniamo un valore in cm. che è uguale a 17,62 e 
ci rappresenta la lunghezza della scatola cranica. Togliendo poi questo 
valore dalla lunghezza totale di tutto il cranio troviamo per il rostro 
una lunghezza uguale a cm. 27,71. 

Inferiormente i mascellari hanno una regione salle ristretta, e, 
verso l’estremità anteriore, presentano ben delineato il canalicolo assiale; 
superiormente poi confinano cogl’intermascellari per una delimitazione 
che, per opera della corrosione, subìta durante la fossilizzazione, appare 
molto più distinta oggi di quello che non fosse stata in origine. Quale 
fosse il numero dei denti si ricava con molta approssimazione dagli al- 
veoli che in ambedue i mascellari sono assai bene distinti ed uguali 
circa a 32 per ciascuno. 


Vomere. — È malamente rappresentato da un piccolo frammento 
corrispondente alla regione mediana della porzione sinistra; mancano 
quindi tutta la regione montante superiore e quella anteriore di sinistra, 
oltrechè tutta l’intiera porzione di destra. 


Mandibola. — Anche la mandibola non è completa; e dei suoi rami 
rimangono solo una buona porzione del sinistro, lungo circa 22 cm. e 
privo della regione della sinfisi e di quella posteriore, e cinque fram- 
menti del destro. Su quanto rimane idel ramo sinistro, come il meglio 
conservato, ho basato il mio esame della mandibola: la superficie esterna 
è liscia, generalmente convessa, e solo alquanto pianeggiante verso la 
regione posteriore. Questo ramo si mantiene quasi totalmente diritto, 
fino ad un certo limite in corrispondenza del quale sembra che rientri 
per una certa lunghezza verso l’ interno, facendo un leggiero angolo ot- 
tuso, dopodichè ritorna nuovamente mella direzione iniziale. Anche per 
questo carattere il nostro esemplare non va disgiunto dalla ‘specie del 
Portis nella quale i rami della mandibola presentano una conformazione 
simile. Inoltre tanto il ramo sinistro della mandibola dell’individuo in 
esame, come i frammenti del destro, sono distintamente ornati, lungo 
il margine superiore della faccia interna, da mumerosi ‘alveoli dei denti 
che più non vi sono. i 


I E e Ve e 


qitestettnetitii. dtt 


LO STENO BELLARDII PORTIS DEL PLIOCENE DI ORCIANO PISANO 139 


Denti. — Nessuno dei denti della mascella e della mandibola trovasi 
ancora al suo posto; ma soltanto una trentina ne furono raccolti iso- 
lati fuori dai respettivi alveoli. Sarebbe quindi oltremodo temerario qua- 
lunque tentativo di volere ritrovare a ciascun di essi il posto che .oc- 
cupavano in origine, tanto più poi che in un individuo giovane come 
questo, non può certo applicarsi alcuno di quei criteri che ci servono 
generalmente di guida per la collocazione in posto di questi organi. E, 
solo ammettendo che il troncamento della porzione superiore della co- 
rona, che si produce per logorazione, sia sempre meno pronunciato in 
quei denti che sono situati più verso l’interno delle fauci, ho potuto 
ritenere che 16 di essi appartengano alla regione anteriore, e 14 alla 
regione posteriore della bocca. 

Tanto meno poi avrei potuto stabilire dal numero dei denti super- 
stiti il numero di quelli posseduti in origine dall’individuo, ove non 
avessi ricorso all'esame degli alveoli che, tanto nella mascella come 
nella mandibola, non superavano certamente i 32 per ciascun lato; ra- 
gione per cui il sistema dentario del nostro Delfinorde sarebbe appros- 
32-32 
32-32” 
prevalentemente conica e più o meno ricurva, e, misurati dall’ estremità 
della radice a quella della corona non oltrepassano mai la lunghezza 
di cm. 1,85 ed uno spessore massimo di cm. 0,4. Lo smalto che riveste 
la corona è di un colore scuro, quasi nero e percorso da sottili strie 
longitudinali; la superficie di corrosione è perfettamente nera. 


simativamente espresso dalla formola: I denti hanno una forma 


Joide, stiloidee.— Tra i numerosi frammenti delle ossa del cranio, 
non mi fu possibile rinvenirne alcuno che potesse con qualche sicurezza 
venire riferito all’ioide od alle stiloidee, alla cui forma nè il 
Branpr per il suo Steno Gastaldi, nè il Portis per lo Steno Bellardti, 
non accennano minimamente. 


COLONNA VERTEBRALE. 


La colonna vertebrale non è molto ben rappresentata nel nostro Del- 
finoide; rimanendone infatti 17 vertebre soltanto, e tutte più o meno 


140 R. UGOLINI 


dell’arco neurale. Le epifisi che per l'età molto giovane dell’ind 
non erano ancora completamente fuse con i respettivi corpi verte 


Vertebre cervicali. — Delle vertebre cervicali nessun frammento 
e quindi nessuna traccia, sia dell’atlante sia dell’epistrofeo. Non è 
a dirsi quanto avrebbe interessato nel nostro esemplare la presenza di 
queste ossa sopratutto per la determinazione esatta della specie; giac- 
chè, stando a quello che ne dice il PortIs lo Steno Gastaldii differirebbe 
dallo Steno Bellardà massimamente per la separazione ben delineata di 
queste due ossa le quali in tutte le altre specie del genere sono invece 
fortemente saldate tra di loro a formare un osso unico. 


Vertebre dorsali. — Come testè feci osservare, nulla ho potuto rife- 
rire intorno ai caratteri delle vertebre del collo; ma la stessa cosa non 
posso dire invece delle successive vertebre dorsali e lombari. 

Le dorsali sono in numero di 8 solamente e prive quasi affatto del loro 
processo spinoso e dei processi trasversi; ma dalle tracce che di questi 
ancora rimangono si riconosce facilmente a qual parte della colonna 
vertebrale debbano con sicurezza riferirsi. Le epifisi mancano nella 
massima parte della vertebre e soltanto in poche aderiscono tuttora alla 
superficie dei corpi vertebrali. Stante la notevole loro riduzione non mi 
fu possibile di stabilire con esattezza l’ordine di successione di ciascuna 
vertebra, ed il posto preciso di ognuna; ma, avendole disposte in serie, 
l’una dietro all’ altra, secondo la crescente lunghezza del corpo e il pro- 
gressivo restringimento del foro neurale, sono riuscito a distinguere quelle 
spettanti alla regione dorsale anteriore, caratterizzate da una minima 
lunghezza del corpo (uguale ad /, circa dell’altezza) da quelle proprie 
alla regione posteriore. 

Le dimensioni di ciascuna di queste vertebre, prive dei rispettivi 
dischi epifisari e disposte in ordine progressivo di accrescimento, sono 
espresse in millimetri nel quadro seguente: 


LO STENO BELLARDII PORTIS DEL PLIOCENE DI ORCIANO PISANO 141 


diam, Jong. diam. vert, diam, trasv, 

m. 0,011 m. 0,024 m. 0,038 
0,015 0, 024 0,032 
0,018 0, 024 0, 028 
0,020 DO = 
0,021 L = 
0,022 0,025 0,027 
0,023 0,026 0,027 
0,024 0,026 0,027 


Da queste dimensioni ne risulta che, mentre il diametro longitudi- 
— nale del corpo di ciascuna vertebra aumenta progressivamonte di 1 mm. 
circa, e va pure crescendo anche il diametro verticale, sebbene assai 
più lentamente, il diametro trasversale diminuisce, sicchè il corpo della 
prima delle 8 vertebre misura mm. 11 di diam. long., mm. 24 di diam. 
vert., e mm. 38 di diam. trasv., mentre quello dell’ultima ne misura 
invece 24 di diam. long., 26 di diam. vert., e 27 di diam. trasv. Ben 
si comprende adunque che se noi potessimo avere a nostra disposizione 
anche le altre vertebre dorsali susseguenti, ve ne sarebbe tra queste 
certamente una la quale avrebbe tutte e tre le dimensioni a un dipresso 
uguali, e l’ultima di esse presenterebbe senza dubbio un diametro tra- 
sversale minore ed un diametro longitudinale maggiore delle altre due 
dimensioni. E questo appunto coinciderebbe con quanto il PortIS già af- 
fermava nella descrizione delle vertebre dorsali del suo Steno Bellardiì. 


Vertebre lombari. — Alla regione lombare del nostro Delfinoide ap- 
partengono 9 vertebre che per avere i processi trasversi nascenti diret- 
tamente senza fondersi colle origini dell’arco neurale ed il corpo infe- 
riormente provvisto di una carena longitudinale assai rilevata e carat- 
teristica nei corpi vertebrali di questa regione, debbono indubbiamente 
considerarsi come vertebre lombari vere e proprie. Anche a queste, 
come alle dorsali, non m’è riuscito di assegnare il posto che occupa- 
vano in origine nella regione lombare della colonna, ma: avendole di- 
sposte in serie, secondo il criterio già precedentemente applicato per le 
vertebre dorsali, non mi riuscì gran cosa difficile fare un’approssima- 
tiva separazione delle lombari anteriori dalle posteriori. A ciascuna di 
queste vertebre mancano le apofisi trasverse e l’apofisi spinosa, e sol- 
tanto una piccola parte di esse è provvista ancora dei dischi epifisiari. 


142 R. UGOLINI 


A scopò di brevità, ho creduto superfluo dar qui le dimensioni del- 
l’arco neurale nelle diverse vertebre; dimensioni che avrebbero potuto 
indubbiamente calcolarsi con l’ esame delle tracce che ancora rimangono 
delle origini dell’apofisi spinosa. E mi limiterò a riportare soltanto le di- 
mensioni dei corpi di ciascuna vertebra lombare, come già feci per le dorsali. 


diam, long. diam. vert, diam. trasv, 


m. 0,026 m. 0,028 m. 0,028 
0, 028 0,030 (?) 0, 030 
0, 029 i 0,031 0,031 
0, 029 0, 032 0, 032 
0,030 0,032 0, 032 
0,030 0, 032 0,032 
0,031 0, 033 0,034 
0,032 0,035 0,035 
0,033 |, 0, 035 0,035 


Anche nel nostro esemplare, come in quello descritto dal PoRtIs, si 
verificano press’a poco, tra le tre dimensioni dei corpi delle vertebre 
lombari, le medesime relazioni che il prof. PoRTIS aveva riscontrato nella 
sua specie di Steno. Ed infatti, come risulta dal quadro, il rapporto che 
passa fra le tre dimensioni di ciascuna vertebra è un numero che oscilla 
costantemente da 1 a 1,10; dunque i tre diametri hanno in ogni corpo 
vertebrale lo stesso valore. 


‘ Vertebre caudali.— Della regione caudale non ho trovato alcun fram- 
mento, sia di vertebre sia di emapofisi, che potesse offrire qualche nuova 
cognizione intorno a questa specie incompletamente conosciuta. Non è 
a credersi di qual somma importanza sarebbe riuscito adunque un tale 
rinvenimento, tanto più che l’esemplare descritto dal PortIs non pre- 
sentava esso pure alcuna traccia di questa regione tanto interessante. 


COSTE. 


Frammenti minutissimi rappresentano le coste dei lati destro e si- 
nistro e delle regioni anteriore e posteriore. Non senza grandi fatiche 
giunsi a collegare insieme alcuni pezzi che appartenevano alla medesima 
costa, ma riuscì vano ogni tentativo di completarne alcuna. Per queste 
ragioni sarebbe adunque poco esatto qualunque confronto di queste ossa 
con le corrispondenti dello Steno Bellardii, e solo ho potuto verificare 


fragiiz ode e e e ei n 


LO STENO BELLARDII PORTIS DEL PLIOCENE DI ORCIANO PISANO 143 


che le coste anteriori del nostro esemplare sono prevalentemente schiac- 
ciate e provviste di una tuberosità molto sviluppata, come nella specie 
del PoRTIS. 


STERNO E COSTE STERNALI. 


Non ho rinvenuto alcun frammento che potesse venire riferito allo 
sterno che sappiamo già trovarsi quasi sempre molto raramente allo 
stato fossile. Credo invece di poter con qualche sicurezza riferire ad 
uno sternebro un pezzetto di osso che per la sua conformazione si 
avvicina moltissimo alle coste sternali. 


ESTREMITÀ. 


Nessuno dei numerosi pezzi che non poterono essere determinati 
sembra riferibile ad alcuna delle ossa componenti Vetremità. Niente 
adunque posso aggiungere a quanto in proposito già disse il PorTIS per 
lo Steno Bellardti. 


Dall'esame riassuntivo di queste ossa e da tutto quanto dal prin- 
cipio di questa nota venni esponendo sin qui, scaturisce evidente la per- 
fetta somiglianza del delfino fossile di Orciano con quello di Bagnasco. 
A questo adunque ho decisamente riferito il mio esemplare, contribuendo 
con questo fatto a stabilire l'esatta determinazione di una specie che, 
istituita dal PorrIs sopra un delfino raccolto per la prima volta nelle 
colline di Bagnasco (Asti) nel 1876, non era stata sino d’allora più 
rinvenuta nelle nostre formazioni plioceniche. 


Pisa, R. Istituto geologico della R. Università. — Giugno 1899. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA VII [I] 


Fig. 1. — Rostro veduto dalla sua faccia superiore (‘/, d. grand. nat.), — 
pag. 135, [6]. ; 
» 2.— Lo stesso veduto dalla sua faccia inferiore (*|, d. grand. nat.), — 
pag. 135 [6]. 5 
» 3. — Lo stesso veduto di profilo (|, d. grand. nat.), — pag. 135 [6]. 
» 4. — Sezione verticale antero-posteriore del rostro. 
a) porzione del lato sinistro del vomere ('/, d., grand. nat.), — 
pag. 138 [9]. ; 
» Db. — Porzione del ramo mandibolare sinistro veduta dalla sua faccia 
esterna (*/, d. grand. nat.), — pag. 138 [9]. 
. — La stessa veduta dal di sopra ('/, d. grand. nat.), — pag. 138 [9]. 
. — Vertebra dorsale veduta anteriormente (grand. nat.), — pag. 140 [11]. 
. — Vertebra lombare veduta anteriormente (grand. nat.), — pag. 141 [12]. 
. — Bulla timpanica destra veduta dall'interno (grand. nat.), — pag. © 
134 [5]. 
» 10. — Periotico destro veduto dal lato rivolto verso l'osso timpanico (grand. 
nat.), — pag. 134 [5]. 
» 11. — Periotico sinistro veduto dal lato opposto all'osso timpanico (grand. 
nat.), — pag. 134 [5]. 
» 12. — Varie sorta di denti isolati (grand. nat.), pag. 139 [10]. 


o 0A DI 


ISTITUTO ANATOMICO DI PADOVA 


PROF. D. BERTELLI 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO 


DIVISIONE DELLA CAVITÀ CELOMATICA DEGLI UCCELLI 


—_—__--——T 


INTRODUZIONE. 


Riguardo all’ apparecchio respiratorio degli uccelli merita ancora di 
essere studiato lo sviluppo dei sacchi aeriferi. Le ricerche sullo sviluppo 
dei sacchi intermedii anteriori e posteriori ci offriranno la opportunità 
di indagare in qual modo avvenga la divisione della cavità celomatica. 

Intorno alla morfologia dei sacchi aeriferi degli uccelli molto è stato 
scritto. La letteratura su questo argomento fu raccolta con grande di- 
ligenza da SapPEY !), da CAMPANA ?) e da RocHé *). Lo studio della mor- 
fologia dei sacchi, fino a questi ultimi tempi, fino cioè al lavoro di RocHÉ, 
fu mal condotto. In fatti mentre i ricercatori si perdono nella descri- 
zione dei più minuti particolari, usano un materiale molto scarso ri- 
spetto alla classe e generalizzano alla classe i risultati di osservazioni 
fatte in numero limitatissimo di specie e per fino in una sola. RocHÉé 
estendendo ad un grande numero di specie le ricerche ed usando rigo- 
rosi metodi di tecnica, ha portato largo contributo di nuove conoscenze 
utili non solo al zoologo, ma anche al fisiologo perchè le svariate dispo- 
sizioni dei sacchi possono essere in rapporto con le abitudini di vita dei 
diversi uccelli e possono offrire il modo di interpetrare la funzione. Debbo 


1) Sappey PH. — Recherches sur Vl appareil respiratoire des oiseaux. Paris, 
1847. 

2) CAMPANA. — Physiologie de la respiration chez les oiseaux. Paris, 1875. 

3) RocHb G. — Contribution à l’ étude de l’anatomie comparée des réservoirs 
aériens d’ origine pulmonaire chez les oiseaux. (Annales des Sciences naturelles. 
Tome XI, Paris, 1891). £ 


146 i D. BERTELLI 


però osservare che GrraRpI !) fino dal 1784 aveva affermato, riguardo 
alla morfologia dei sacchi aeriferi, che:“...non solo nei differenti ge- 
neri si riscontrano delle diversità rimarcabili, ma ben anche negli uc- 
celli della specie medesima ,. GIRARDI ebbe però il torto di dichiarare 
che: “.... il descrivere tutte queste varietà sarebbe troppo lungo e 
spiacevole ,,. 

Sulla struttura dei sacchi aeriferi abbiamo un lavoro di FicALBI ?) 
e poche notizie di LeypIe 5), di EsERTA *), di ScHULZE 5) e di TOURNEUX 
ed HERRMANN %). Si occuparono della struttura. dei sacchi anche alcuni 
di coloro che ne studiarono la morfologia e cioè GurLLoT "), SAPPEY, 
CAMPANA. 

Sullo sviluppo dei sacchi aeriferi esiste un solo e breve lavoro di 
SELENKA *). RATHKE °) accenna al modo di origine dei sacchi nel riferire 
risultati di indagini fatte sullo sviluppo dell’ apparecchio respiratorio 
degli uccelli. Mentre le ricerche embriologiche avrebbero giovato mol- 
tissimo a chiarire la morfologia e la struttura dei sacchi, i ricercatori 
le hanno trascurate. Se gli anatomici invece di insistere nelle ricerche 
di morfologia e di istologia avessero studiato accuratamente lo sviluppo, 


1) GrrarDI M. — Saggio di osservazioni anatomiche intorno agli organi della 
respirazione degli uccelli. (Memorie di Matematica e Fisica della Società italiana. 
Verona, 1784). 

%) FicaLpi E. — Alcune ricerche sulla struttura istologica delle sacche aeri- 
fere degli wecelli. (Memorie della Società toscana. di scienze naturali. Vol. VI, 
1885). 

3) LeyDIG F. — Lehrbuch der Histologie des Menschen und der Thiere. Frank- 
furt a. M., 1857. 

4 EsERTH, C.J. — Weber den feineren Bau der Lunge. (Zeitschrift fur wis- 
senschaftliche Zoologie. Zwéòlfter Band. Leipzig, 1863). 

5) ScauLzm F. — Die Lungen. (Handbuch der Lehre von den Geweben des 
Menschen und der Thiere, herausgegeben von S. STRICKRR. Leipzig, 1871). 

6) TOoURNEUX F. et HERRMANN G. — Recherches sur quelques. épithéliums plats. 
dans la série animale. (Journal de l’Anatomie et de la Physiologie. Paris, 1876). 

7) GuirLor N. — Mémoire sur lappareil de la respiration dans les oiseaux. 
(Annales des Sciences naturelles. Troisième Série, Tome cinquième. Paris, 1846). 

) Sauna E. — Beitrag zur Entwickelungsgeschichte der Luftséicke des 
Huhns. (Zeitscrift fir wissenschaftliche Zoologie. Sechzehnter Band. Leipzig, 
1866). 

9) RaTtHKEB H. — Ueber die Entwickelung. der Athemwerkzeuge bei den Wéogeln 
und Stiugethieren. (Nova Acta physico-medica Academiae Caesareae Leopoldino- 
Carolinae Naturae curiosorum. Bonnae, MDCCCXXVIII). 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 147 


si sarebbero avute riguardo alla morfologia ed alla struttura conoscenze 
esatte che avrebbero risparmiato tempo e fatica a tanti ricercatori i 
quali hanno voluto rendersi conto della anatomia dei sacchi aeriferi stu- 
diandoli solamente nell’ adulto. i 

Nel pollo sono nove sacchi aeriferi sulla conformazione, su i rap- 
porti e sulla struttura dei quali furono fatte molte ed accurate ricerche. 
Esiste ancora disaccordo riguardo alla nomenclatura di essi. Su questo 
argomento necessita che m’ intrattenga, prima di passare allo studio 
dello sviluppo. 

I sacchi aeriferi furono denominati o dai rapporti che presentano 
con regioni, con visceri, con organi o dalla posizione che hanno gli uni 
rispetto agli altri o dal posto che occupano nella cavità toracica e nella 
cavità addominale, intese queste cavità in modo diverso dai diversi ri- 
cercatori. 

GurLLor divide i sacchi in due gruppi, uno comprende i sacchi to- 
racici e l’altro i sacchi addominali. 

SaPPEY denomina anteriori i sacchi cervicali ed il sacco toracico, 
medii i sacchi diaframmatici, posteriori i sacchi addominali. 

MriLxe-Epwarps !) dopo avere descritti i sacchi aeriferi ne riassume 
la topografia considerandoli, come SapPEY, in tre gruppi. 

Campana basò la nomenclatura esclusivamente sulla posizione reci- 
proca dei sacchi. Li considera situati in tre piani soprapposti che chiama: 
superiore, medio, inferiore. Il piano superiore comprende due sacchi, il 
superiore-anteriore e il superiore-posteriore. Nel piano medio sono quattro 
sacchi, due a destra, due a sinistra, che chiama medti-superiori e medti- 
inferiori. Il piano inferiore contiene due sacchi, uno a destra ed uno a 
sinistra: i sacchi inferiori. 

HuxLEy *) si servì per la nomenclatura dei sacchi di nomi tolti in 
parte dai rapporti che essi hanno con i bronchi, in parte dai rapporti 
di posizione che gli uni presentano con gli altri. Pose nome di sacchi 
intermedi anteriori e posteriori ai sacchi medii di SAPPEY e conservò il 
nome di posteriori a quelli che universalmente sono conosciuti con il nome 
di addominali. 


4) MiLNnE-EDwARDS H. — Lecons sur la Physiologie et V Anatomie comparée. 
Tome deuxième. Paris, MDCCCLVII. 

?) HuxLey T.— On the respiratory organs of Apteryx. (Proceedings of the 
zoological Society of London. 1882). 


Se., Nat. Vol. XVII Li 


148 D. BERTELLI 


Sappey e MiLne-EpwaRpDS avevano usato le denominazioni di sacchi 
medii e posteriori nel fare la sintesi della topografia dei sacchi e per 
la nomenclatura avevano invece usato di nomi speciali. HuxLEY applicò 
giustamente ad alcuni sacchi la nomenclatura della quale SapPpEY e 
MiLne-EDwARDS si erano serviti per 1 sacchi in generale. HuxLEY chiama 
il sacco cervicale: prebronchiale e l’interclavicolare: subbronchiale. Meglio 
è conservare le denominazioni in uso di sacchiì cervicali e di sacco in- 
terclavicolare che precisano egualmente la situazione. 

Ho voluto esporre un po’ estesamente in qual modo si giunse alla 
nomenclatura proposta da HuxLev perchè i singoli autori non hanno 
affatto curata la bibliografia. 

Adotterò per i sacchi aeriferi le seguenti denominazioni: sacchi cer- 
vicali (sacci cervicales); sacco interclavicolare (saccus interclavicularis); 
sacchi intermedii anteriori (sacci intermedi anteriores); sacchi intermedii 
posteriori (sacci intermedii posteriores); sacchi posteriori (saccì posteriores). 

Con questa nomenclatura vengono tolte di mezzo tutte quelle deno- 
minazioni errate che si basano sopra una divisione sbagliata della ca- 
vità celomatica e sopra false interpetrazioni del diaframma. 


Sviluppo dei sacchi aeriferi. 


Da quanto ho sopra esposto riguardo alle conoscenze che possediamo 
intorno alla morfologia, alla struttura ed allo sviluppo dei sacchi aeri- 
feri risulta che lo sviluppo venne trascurato. Per questa ragione mi in- 
dussi a fare le ricerche delle quali ora rendo conto. 

Ho studiato lo sviluppo dei sacchi aeriferi nel pollo. 

Correr !) accennò per il primo ai sacchi aeriferi. 

Harvey ?) scoprì le aperture polmonali ed ebbe chiara idea dei sacchi 
aeriferi. 

MiLne-Epwarps e SIEFERT *) ammettono che Correr abbia scoperto 
le aperture polmonali. Correr non vide certamente queste aperture, af- 
fermò che la sostanza del polmonale è “ ubique pervia ,; con tali parole 


1) Correr V. — Externarum et internarum principalium humani corporis 
partium tabulae atque anatomicae exercitationes. Noribergae, 1573. 

2) Harvey W. — Zxercitationes de: Generatione animalium. Exercitatio 3. 
Amstelaedami, 1651. 

3) Sturert E. — Ueber die Athmung der Reptilien und Vogel. (Archiv fur 
die gesammte Physiologie. Vierundsechszigster Band. Bonn, 1896). 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 149 


non poteva accennare alle aperture che immettono nei sacchi, essendo 
queste, poche e grosse. Anche FuLp !) ricorda piccoli orificii sparsi su 
tutta la superficie dei polmoni, errore nel quale cadde anche LERE- 
BOULLET °). 

Coloro che fino a RaTHKE si occuparono della morfologia dei sacchi 
aeriferi li considerarono come appendici dei polmoni, ma nessuno studiò 
quale fosse, riguardo alla genesi, il rapporto tra polmoni e sacchi. 

RATHKE in un lavoro sullo sviluppo dell’ apparecchio respiratorio degli 
uccelli e dei mammiferi accenna anche allo sviluppo dei sacchi aeriferi 
e stabilisce che essi provengono dai polmoni. Secondo RATHKE i sacchi 
prendono origine dalla parte interna della superficie inferiore del pol- 
mone, su di un tratto che chiama porzione vescicolosa (blasige Theil). 
Al nono giorno di incubazione osservò quattro sacchi che riprodusse in 
figure da embrioni di undici e di dodici giorni. RATHKE tratta solo in- 
cidenta)lmente dello sviluppo dei sacchi aeriferi e mentre reca un con- 
tributo assai modesto riguardo alle modalità dello sviluppo, stabilisce 
d’altra parte il fatto fondamentale della provenienza dei sacchi dai 
polmoni. 

SELENKA trovò gli abbozzi dei sacchi posteriori al quinto giorno di 
incubazione, quali ispessimenti claviformi situati in corrispondenza degli 
estremi posteriori dei tubi polmonali. Alla fine del decimo giorno di 
incubazione riconobbe gli abbozzi dei sacchi intermedii anteriori e po- 
steriori. Il superiore è situato come piccolissima sacca nella superficie 
ventrale, concava del polmone, l’inferiore sporge in forma di vescicola 
peduncolata dall’ angolo esterno e posteriore di questo viscere. Alla metà 
dell’undicesimo giorno verificò la presenza degli abbozzi di tutti i sacchi. 

BurLER *) accenna alle disposizioni che presentano i sacchi intermedii 
ed i posteriori del pollo dall’ottavo al dodicesimo giorno di incubazione. 

La massima parte dei Trattatisti di Embriologia e di Anatomia com- 
parata tacciono riguardo allo sviluppo dei sacchi aeriferi; quelli che se 
ne occupano recano solo scarse ed incomplete notizie. 

RATHKE e SELENKA fecero le ricerche esaminando il polmone ir toto. 


1) FuLD. — De organis quibus aves spiritum ducunt. Wurtzbourg, 1816. 

?) LEREBOULLET. — Anatomie comparée de Vl appareil respiratoire dans les 
animaux vertébrés. 1838. 

3) BurtLeR G. W. — On the subdivision of the Body-cavity in Lizards, Cro- 
codiles, and Birds. (Proceedings of the zoological Society of London, 1889, 
Part IV). 


150 | D. BERTELLI _ 


Con i mezzi di tecnica istologica moderna si possono fare su questo 
argomento indagini che diano risultati molto più soddisfacenti di quelli 
ottenuti da RATHKE e da SELENKA. 

Ho incominciato a seguire lo sviluppo dei polmoni in stadii molto 
giovani, da quando gli abbozzi dei polmoni non sono che due tubi sem- 
plici. i 
A ore 72 di incubazione si hanno i tubi polmonali semplici, accolti 
alla loro origine nel mesenterio primitivo, per il resto nei legamenti 
polmonali-epatici. Solo in corrispondenza degli ultimi tagli dei tubi pol- 
monali apparisce la sezione del recesso del sacco dell’omento e del re- 
cesso sinistro, così che solo per breve tratto i tubi polmonali si trovano 
accolti nei legamenti polmonali-epatici. 

In vicinanza dell’estremo caudale i tubi presentano un leggerissimo 
rigonfiamento che è il primo accenno ai sacchi aeriferi posteriori. 

Al quarto giorno di incubazione i tubi polmonali si mantengono sem- 


plici, sono ingrossati ed allungati. Gli abbozzi dei sacchi posteriori (fig. 17) 


sono divenuti fusiformi. 

A questo stadio non sono apparsi abbozzi di altri sacchi. 

Al quinto giorno di incubazione i tubi polmonali incominciano a pre- 
sentare diramazioni. Anche a questo stadio i tubi polmonali per tratto 
non breve sono compresi nel mesenterio, poi sono accolti nei legamenti 
polmonali-epatici. i 

Gli abbozzi dei sacchi posteriori si sono allungati, ma in grossezza 
di poco hanno progredito; si mantengono fusiformi. 

A questo stadio esistono a destra ed a sinistra due simmetriche, bre- 
vissime diramazioni del tubo polmonale, le quali prendono origine dopo 
brevissimo decorso da che il tubo polmonale è compreso nei legamenti 
polmonali-epatici. Quelle poste più cranialmente (fig. 1) sorgono dalla 
metà dorsale della periferia dei tubi polmonali; si ripiegano in avanti 
e situate dorsalmente ed a piccola distanza dai tubi polmonali decor- 
rono parallelamente ad essi (fig. 1). Tali diramazioni sono gli abbozzi 
dei sacchi aeriferi cervicali. Immediatamente al di dietro di queste di- 
ramazioni appariscono le due altre che hanno origine identica a quelle 
descritte e che si dirigono dorsalmente. 

A questo stadio sono apparsi gli abbozzi dei sacchi cervicali. 

- Al sesto giorno di incubazione esistono poche diramazioni bronchiali; 
è sempre facile seguire il decorso dei tubi polmonali (fig. 2, 5,13). 
Incominciando a seguirli dall’innanzi all’indietro si trovano da prima 


RE IM DI 10 ne 


| 
| 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 151 


nel mesenterio, posti ventralmente al tubo digerente, a breve distanza 
da questo; poi incominciano a spostarsi lateralmente e dorsalmente si- 
tuati immediatamente al di sotto ed allo esterno del recesso del sacco 
dell’omento e del recesso sinistro. Lo spostamento in direzione laterale 
e dorsale seguita tanto che i tubi polmonali quasi raggiungono la su- 
perficie esterna e superiore del polmone. In fine i tubi polmonali si 
spostano un po’ in dentro parallelamente alla superficie superiore del 
polmone. 

Gli abbozzi dei sacchi cervicali, che nello stadio precedente abbiamo 
trovati inclusi nei legamenti polmonali-epatici, si sono allungati ed in- 
grossati (fig. 2, 5); rivestiti da connettivo polmonale si sono spinti in 
avanti nelle cavità pleuriche. Il connettivo polmonale apparisce in forma 
di due corti coni, uno per lato, a sommità anteriore. Gli assi dei coni 
sono percorsi dagli abbozzi dei sacchi i quali migrando hanno spinto 
innanzi a loro il connettivo polmonale, che fornirà la parete dei sacchi. 
Gli estremi anteriori delle cavità pleuriche sono per brevissimo tratto 
vuoti, poi in mezzo ad essi appariscono gli apici di quei coni connettivi 
che ho sopra ricordati e in corrispondenza degli apici si trovano gli 
estremi anteriori degli abbozzi dei sacchi cervicali. I prolungamenti con- 
nettivi trovansi liberi per brevissima estensione in mezzo agli estremi 
anteriori delle cavità pleuriche (fig. 2). Gli abbozzi dei sacchi cervicali 
sono assai stretti in corrispondenza dell'estremo craniale, poi vanno 
gradatamente allargandosi e in vicinanza del punto di origine si restrin- 
gono, assumendo così la forma di sacchi peduncolati. 

Dagli abbozzi dei sacchi cervicali, a piccola distanza dagli apici, pren- 
dono origine, sulla metà laterale della periferia, due diramazioni, una 
a destra ed una a sinistra, cortissime, dirette dall'interno all’esterno e 
lievemente ‘dall’ alto al basso (fig. 5), le quali sono gli abbozzi del sacco 
interclavicolare. 

Nell’adulto il sacco interclavicolare è unico, ma proviene anche esso, 
come tutti gli altri sacchi, da due abbozzi. Questi sono situati molto 
dorsalmente e lateralmente in confronto della posizione che il sacco in- 
terclavicolare ha nell’adulto, ma vedremo negli stadii successivi, che 
questi abbozzi discendono e si spingono verso la linea mediana. 

Appena le diramazioni che dettero origine agli abbozzi dei sacchi 
cervicali hanno raggiunto i tubi polmonali, da questi sorgono gli abbozzi 
dei sacchi intermedii anteriori (fig. 9), situati in vicinanza della superficie 
mediale dei polmoni, in corrispondenza dei legamenti polmonali accessorii, 


152 D. BERTELLI 


del recesso del sacco dell’omento e del recesso sinistro. Appena sorti 
si rigonfiano lievemente, hanno l'estremo terminale rivolto in basso e 
un po’ lateralmente. 

Dalla parte ventrale dei tubi polmonali, dopo breve decorso da che 
sono rimasti soli nei legamenti polmonali-epatici, nascono due dirama- 
zioni, una per lato (fig. 13), le quali presentano nel loro estremo ter- 
minale una vescicola sferica che è l’abbozzo dei sacchi intermedii po- 
steriori. Questi abbozzi, per la sede, rispetto alla superficie laterale dei 
legamenti polmonali-epatici e un po’ per la conformazione, hanno somi- 
glianza con quelli del sacco interclavicolare. Tale somiglianza si fa più 
accentuata in stadi di sviluppo più avanzato. 

Gli abbozzi dei sacchi posteriori si scorgono in sezione trasversa 
tondeggianti sulla metà superiore dei legamenti polmonali-epatici; sono 
benissimo manifesti perchè ingrossati e perchè in corrispondenza di essi 
su i legamenti per molta estensione non esistono diramazioni bronchiali. 
Verso la fine vanno gradatamente assottigliandosi e terminano a punta. 

A questo stadio sono apparsi gli abbozzi del sacco interclavicolare 
e quelli dei sacchi intermedii anteriori e posteriori; così a Testo) stadio 
esistono gli abbozzi di tutti i sacchi. 

Al settimo giorno di incubazione gli abbozzi dei sacchi hanno di poco 
progredito nello sviluppo. 

In embrione di otto giorni gli abbozzi dei sacchi cervicali hanno 
raggiunto l’apice delle cavità pleuriche. Il loro calibro è aumentato, si 
mantengono rigonfii nella parte media, ristretti alle estremità. 

Gli abbozzi del sacco interclavicolare sono discesi ed hanno spinto 
lievemente innanzi a loro il connettivo polmonale (fig. 6) che in corri- 
spondenza di essi si è abbassato in forma di piega. Le diramazioni dalle 
quali gli abbozzi hanno preso origine sono sempre in comunicazione 
con le diramazioni che produssero gli abbozzi dei sacchi cervicali. 

Gli abbozzi dei sacchi intermedii anteriori hanno assai progredito 
nello sviluppo (fig. 10, 14); sono situati immediatamente sopra alla su- 
perficie ventrale dei polmoni; in sezione trasversa appariscono ovoidali, 
con il grande diametro diretto quasi bragversalmente, parallelo alla su- 
perficie ventrale dei polmoni. 

Gli abbozzi dei sacchi intermedii posteriori presentano grande somi- 
glianza con quelli del sacco interclavicolare; anche questi abbozzi hanno 
spinto lievemente in basso il connettivo polmonale (Fig. 14). Mentre 
nello stadio precedente avevano forma di vescicola, in questo si sono fatti 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 153 


cilindrici, si sono estesi orizzontalmente all’indietro della diramazione 
che loro ha dato origine. 

Gli abbozzi dei sacchi posteriori, accolti nei legamenti polmonali- 
‘epatici (fig. 18), hanno seguitato lentamente la loro evoluzione, ai due 
estremi sono ristretti; raggiungono il massimo di grandezza nella parte 
media. 

Al decimo giorno di incubazione gli abbozzi dei sacchi cervicali tro- 
vansi al di fuori delle cavità pleuriche, inclusi nel tessuto mediastinale, 
lateralmente all’ esofago (fig. 3); terminano un po’ al di dietro delle 
estremità anteriori delle cavità pleuriche. Queste estremità si incontrano 
prima vuote, poi in mezzo ad esse appariscono gli apici polmonali. Gli 
abbozzi dei sacchi non si avanzano, come negli stadii precedenti, dagli 
apici dei polmoni, gli apici rimangono dorsalmente e lateralmente agli 
abbozzi (fig. 3), i quali sorgono dalla superficie mediale dei polmoni. 
Nei primi tagli gli abbozzi sono cilindrici, a pareti lisce; poi, quando 
sì mescolano alle diramazioni bronchiali, si fanno pieghettati, si formano 
pieghe longitudinali che danno aspetto stellato ai tagli trasversi. Tro- 
veremo questa disposizione anche negli abbozzi degli altri sacchi. 

Gli abbozzi del sacco interclavicolare trovansi sul margine inferiore 
dei polmoni (fig. 7). Le pieghe che li sostengono, le quali nell’ embrione 
di otto giorni erano appena accennate, quivi hanno preso grande svi- 
luppo. Gli abbozzi si sono estesi al davanti della diramazione che loro 
ha dato origine e si sono estesi un po’ anche caudalmente. 

Gli abbozzi dei sacchi intermedii anteriori (fig. 11) si presentano 
molto ampii, più ampii di quelli dei sacchi posteriori che nell’adulto 
sono assai più vasti dei sacchi intermedii anteriori. Sporgono alla su- 
perficie ventrale del diaframma; la loro parete inferiore si è costituita 
col tessuto connettivo diaframmatico, si sono molto estesi trasversalmente 
e si sono allungati. Agli estremi craniale e caudale sono ristretti, rag- 
giungono il massimo di ampiezza nella parte media. 

Gli abbozzi dei sacchi intermedii posteriori si trovano inclusi nel 
diaframma (fig. 15, 19) vicini alla periferia. Sono assai ampii, pieghet- 
tati, posti ventralmente ai sacchi posteriori. A misura si spingono in 
dietro, si spostano in basso e in dentro, tanto che terminano facendo 
sporgere un po’ la superficie ventrale del diaframma (fig. 19). In sezione 
trasversa appariscono tondeggianti. 

A questo stadio la disposizione della cavità celomatica ha subìto un 
forte cambiamento. Il tessuto connettivo che primitivamente costituiva 


ee 


154 D. BERTELLI 


i legamenti polmonali-epatici e che poi è diventato tessuto polmonale, 
ha raggiunto la parete laterale del corpo, si è a questa unito, ha quasi 
completamente separato la cavità addominale dalle cavità pleuriche con- 
tribuendo potentemente a costituire il diaframma (fig. 15, 19). Le pieghe 
connettive che sostenevano gli abbozzi dei sacchi intermedii posteriori 
si sono fuse con il diaframma; così si spiega perchè gli abbozzi dei 
sacchi intermedii posteriori si trovino ora inclusi nel diaframma e alla 
periferia di esso. 


Dorsalmente e un po’ medialmente agli abbozzi dei sacchi intermedii 


posteriori trovansi nel polmone (fig. 15) gli abbozzi dei sacchi posteriori. 
Hanno pareti pieghettate. Finito il polmone, sono accolti prima nel 
diaframma (fig. 19), poi nei legamenti polmonali-epatici. Solo l’ estremo 
caudale degli abbozzi seguita oltre i legamenti polmonali-epatici e così 
resta libero nella cavità addominale tra la parete laterale di questa, il 
corpo di WoLrr e l’intestino a sinistra, tra la parete laterale dell’ad- 
dome, il corpo di WoLrr e il fegato a destra. Dal lato destro l’abbozzo 
è più piccolo. 

All’undecimo giorno i sacchi cervicali hanno raggiunto la base del 
collo (fig. 4); ci appariscono nel loro estremo craniale come strette fes- 
sure poste, per la estensione di due o tre tagli, al davanti degli apici 
delle cavità pleuriche, situate di traverso nel tessuto connettivo che 
trovasi lateralmente e ventralmente ai muscoli cervicali profondi. Hanno 
pareti pieghettate. A misura si procede caudalmente nell’esame delle 
sezioni si trovano i sacchi sempre più estesi in direzione trasversale 
fino a che non si incontrano i primi tagli dell’apice polmonale; al di 
dietro di questo vanno restringendosi lentamente fino alla origine. A 
misura procedono caudalmente, si avvicinano all’esofago che però non 
raggiungono. 

A poca distanza dalla origine dei sacchi cervicali incominciano, cau- 
dalmente a questi, i sacchi interclavicolari (fig. 8) che sono accolti nel 
diaframma. Appariscono in forma di piccole fessure poste trasversalmente, 
a pareti pieghettate. Dopo breve decorso comunicano con una dirama- 
zione bronchiale. Le pieghe connettive che sostenevano gli abbozzi dei 
sacchi nell’embrione di dieci giorni, si sono fuse con il diaframma. Ha 
seguitato quel movimento di discesa al quale accennai nel descrivere 
gli abbozzi del sacco interclavicolare di altri stadii. 

I sacchi intermedii anteriori trovansi, al solito, immediatamente sotto 
al diaframma, le loro pareti si sono fatte pieghettate. 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 155 


I sacchi intermedii posteriori sono situati nella periferia del dia- 
framma, posti prima subito al di sopra dei fascetti muscolari diafram- 
matici, poi tra questi e la superficie inferiore del diaframma, ventral- 
mente ai sacchi posteriori. Finito il diaframma, trovansi nella parete 
laterale dell'addome, rivestiti dal peritoneo, appoggiati al connettivo 
che riveste i muscoli di questa parete, su la quale lentamente riducen- 
dosi di volume, terminano. Il movimento di discesa, anche in questi 
sacchi ha progredito. 

Verso l'estremo caudale del polmone, subito sopra ai sacchi inter- 
medii posteriori, trovansi i sacchi posteriori, assai più voluminosi degli 
intermedii. Cessato il polmone, i sacchi posteriori sono accolti nel dia- 
framma insieme soltanto ai sacchi intermedii posteriori, tutte le dirama- 
zioni bronchiali sono scomparse. Finito il diaframma si trovano inclusi 
nella parete laterale dell’addome; all’esterno sono limitati dallo strato 
di connettivo che riveste i muscoli, dorsalmente dal connettivo che riu- 
nisce l’estremo esterno dei reni primitivi alla parete laterale dell’ad- 
dome, ventralmente e medialmente sono ricoperti dal peritoneo. Il con- 
dotto di MùLLER si trova prima lateralmente, poi dorsalmente ai sacchi. 
A misura si procede caudalmente nell’ esame dei tagli, si trova che i 
sacchi si fanno sporgenti nella cavità addominale e che dall’estremo 
mediale di essi parte una piega la quale li tiene tesi, unendoli al 
mesenterio. Questa è la solita piega che in stadii più giovani si vede 
unire i legamenti polmonali-epatici al mesenterio. 

Al quattordicesimo giorno i sacchi cervicali si sono fatti molto vo- 
luminosi e si sono spinti assai in avanti nel collo. Le loro estremità 
anteriori sono accolte nel connettivo che riveste i muscoli cervicali pro- 
fondi; quella del sacco destro è situata lateralmente ai muscoli, quella 
del sacco sinistro ventralmente. A misura si procede caudalmente nel- 
l’esame delle sezioni, si trova che i sacchi vanno allargandosi; che il 
sacco destro si spinge anche ventralmente ai muscoli cervicali; che il 
sacco sinistro estendendosi dorsalmente viene a mettersi in parte allo 
esterno dei muscoli cervicali. Con l'estremo mediale i sacchi cervicali 
sì trovano più vicini che nello stadio precedente, all’ esofago. 

F sacchi interclavicolari sono accolti in mezzo al tessuto diaframma- 
tico. Hanno progredito notevolmente nello sviluppo, sono situati più in 
basso e più medialmente che nell’ embrione di undici giorni. Ha segui- 
tato lo spostamento in basso e medialmente, che deve condurli alla si- 
tuazione definitiva. ° 


156 D. BERTELLI 


Grande sviluppo hanno preso i sacchi intermedii anteriori. In sezioni 
trasversali appariscono come strette e lunghe aperture (fig. 12), appli- 
cate alla superficie inferiore del diaframma. La parete dorsale dei sacchi è 
costituita dal diaframma (fig. 12), così i fascetti diaframmatici si attaccano 
al tempo istesso alla periferia del sacco ed alla periferia del diaframma. 

I sacchi intermedii posteriori (fig. 16, 20) trovansi compresi prima 
nella porzione periferica del diaframma, poi nel connettivo che è tra i 
muscoli delle pareti addominali ed il peritoneo.‘ Sono situati ventral- 
mente ai sacchi posteriori. i 

‘ Grande sviluppo hanno preso anche i sacchi posteriori (fig. 16, 20). 
Il sacco posteriore destro è accolto nella parete laterale dell’ addome. In 
corrispondenza della estremità craniale trovasi nel connettivo che è tra 
la parete laterale dell’addome e il rene primitivo, ma dopo breve de- 
corso la parete interna del sacco si fa libera nella cavità addominale, 
rivolta verso l’ estremo laterale del rene primitivo. Ha da prima forma 
irregolarmente ovoidale con il grande diametro quasi parallelo all’asse 


x . 


del corpo. Con l’estremo dorsale il sacco è unito all'estremo esterno del 


rene primitivo, con l'estremo ventrale è unito al mesenterio. Finita questa 
ultima unione, la parete interna del sacco e l’estremo inferiore prendono 
forma irregolare, modellandosi sulla convessità del rene primitivo e delle 
anse intestinali. Talvolta il sacco posteriore destro, là ove incomincia con 
la parete interna a farsi libero nella cavità addominale, si presenta di 
forma semilunare. 

Il sacco posteriore sinistro (fig. 16, 20) incomincia ad apparire cra- 
nialmente come stretta fessura accolta in una piega di tessuto connet- 
tivo che è tesa tra la superficie ventrale del diaframma ed il mesenterio. 
Sappiamo donde deriva questa piega. È situato tra il rene primitivo 
ed il tubo digerente, più in dietro è in rapporto dorsalmente anche con 
il condotto di MùrLeR. Ben presto trovasi la comunicazione a traverso 
al diaframma tra sacco ed una grossa diramazione bronchiale. Finito 
il polmone ed il diaframma, il sacco, con la sua porzione più larga, che 
corrisponde all’ estremo esterno, è accolto in mezzo a quello strato di 
tessuto connettivo che trovasi nella parete laterale del corpo interna- 
mente ai muscoli; l’altra porzione è sostenuta dalla solita piega nella 
cavità addominale tra il rene primitivo ed il tubo digerente. È assai 
esteso; dalla parete laterale dell’ addome raggiunge il mesenterio, ma è 
anche assai vasto. È posto quasi trasversalmente, un po’ obliquo dall’ e- 


LI 


sterno all’interno, dall'alto al basso. € 


a tn e IO TA 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 157 


Abbiamo seguito lo sviluppo dei sacchi aeriferi fino a stadii dai quali 
è facile comprendere come si giunga alle disposizioni definitive. 

Nel trattare del modo come avviene la divisione della cavità celo- 
matica seguiremo lo sviluppo dei sacchi intermedii fino alle disposizioni 
dell’ adulto. 


Divisione della cavità celomatica negli Uccelli. 


Si ammette comunemente che un diaframma detto toraco-addominale 
divida la cavità celomatica degli uccelli in addome e torace. Questo setto 
sarebbe applicato sulle pareti dei sacchi aeriferi intermedii e aderirebbe 
intimamente al pericardio. 

Tale opinione è erronea, come ho già affermato in altro lavoro 1). 
Il setto che viene descritto quale diaframma toraco-addominale non è 
altro che la parete ventrale dei sacchi aeriferi intermedii e la parete 
posteriore del pericardio. i 

Altri ammettono negli uccelli una cavità toraco-addominale che sud- 
dividono confusamente. 

Il diaframma toraco-addominale non solo è universalmente ammesso, 
ma ne furono stabilite anche le omologie. 

BaRToLINO ?) credè che fosse omologo ai pilastri diaframmatici dei 
mammiferi. SAPPEY trovò estremamente giudiziosa questa idea di BaRr- 
TOLINO. OwEN 3) ammise che esista omologia tra il diaframma della 
Apterye australis e il diaframma dei mammiferi. HuxLEY, seguito da 
Gapow 4) e da SrerERT, stabilì omologia tra questo diaframma, che egli 
chiama “ oblique septum , ed il tessuto mediastinale dei mammiferi. 
BurLER ammette che il setto obliquo proviene dal diaframma ornitico, 
prodotto dalla formazione dei sacchi intermedii. Riconosce con HUxLEY 
che la parte centrale del diaframma degli uccelli corrisponde al tessuto 
mediastinale dei mammiferi, ma è di opinione che la parte laterale, più 


1) Contributo alla morfologia ed allo sviluppo del diaframma ornitico. (Mo- 
nitore zoologico italiano. Firenze 1898). 

?) BARTOLINI C. — Diaphragmatis structura nova (ManeeTI J. Bibliotheca 
anatomica. Tomus primus. Genevae, MDCXCIX). 

3) Owen R. — Memoir on the Apteryx australis. (Transactions of the zoolo- 
gical Society of London, 1844). 

1) Gapow H. — Végel. (Bronn’s Klassen und Ordnungen des Thier-Reichs. 
Leipzig, 1891). 


158 D. BERTELLI 


estesa, possa essere omologa al diaframma dei mammiferi. CavaLié *) in 
un lavoro nel quale la parte che si riferisce alla morfologia ed allo svi- 
luppo del diaframma è molto manchevole, ammette che il diaframma 
toraco-addominale corrisponda ai pilastri ed alla porzione sterno-lombare 
del diaframma dei mammiferi. 

Per stabilire il significato che deve attribuirsi al così detto dia- 
framma toraco-addominale continueremo a seguire lo sviluppo dei sacchi 
intermedii. i 
Riprendiamo a considerare le disposioni che i sacchi intermedii pre- 
sentano al quattordicesimo giorno di incubazione. 

A questo stadio il diaframma ornitico ha isolato completamente dal- 
l'addome i polmoni. Il diaframma toraco-addominale non esiste. 

I sacchi intermedii anteriori sono applicati contro la superficie ven- 
trale del diaframma, dalla quale sporgono nell’ addome. 

A misura che lo sviluppo prosegue, progredisce il movimento di di- 
scesa dei sacchi nell’addome e'così si comprende la formazione di parte 
del setto che è chiamato diaframma toraco-addominale. 

I sacchi intermedii posteriori al quattordicesimo giorno sono com- 
presi nel diaframma € nella parete laterale dell'addome (fig. 16, 20). 

In stadii più avanzati si sollevano dalla superficie ventrale del dia- 
framma e dalla parete laterale dell’addome, invadono progressivamente 
Ja cavità addominale e si fondono cranialmente con la parete posteriore 
dei sacchi intermedii anteriori, contribuendo alla formazione del dia- 
framma toraco-addominale. 

I sacchi intermedii anteriori si uniscono al pericardio e si addossano 
in corrispondenza della linea mediana; così il diaframma toraco-addo- 
minale si completa. 

Lo studio dello sviluppo dei sacchi intermedii ci conduce a conclu- 
dere che il setto descritto come diaframma toraco-addominale non è 
altro che la parete ventrale dei sacchi intermedii e la parete posteriore 
del pericardio. Questo setto non divive la cavità celomatica in addome 
e torace; è porzione di addome anche quella occupata dai sacchi intermedii. 
I sacchi posteriori a torto vengono chiamati addominali; sono addominahi 
anche gli intermedii. 

Con ricerche macroscopiche si conferma quello che riguardo al dia- 
framma toraco-addominale ci rivela la embriologia. 


1) CAVALIB M. — De V innervation du Diaphragme. Toulouse, 1898. 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 159 


Ho esaminato giovani individui di oca, di anitra, di pollo. 

Iniettavo dalla trachea nei sacchi alcool comune in modica quantità 
e ponevo il pezzo ad indurire in alcool comune. Oppure distendevo con 
insufflazione moderata i sacchi ed aperto l’addome ponevo il pezzo ad 
indurire in alcool. In questo caso i sacchi si mostrano più distesi e si 
prestano ottimamente alle ricerche. Avvenuto l’indurimento studiavo i 
pezzi. 

Se si tagliano le pareti dei sacchi intermedii alla periferia e si sol- 
levano, si vede chiaramente che il setto descritto come diaframma to- 
raco-addominale non è altro che la parete ventrale dei satchi intermedii 
e la superficie posteriore del pericardio. 

Campana crede che negli uccelli esista una sola cavità splancnica, 
la quale corrisponderebbe alla cavità addominale dei mammiferi; con- 
sidera l’apparecchio respiratorio come parte integrante, parietale, della 
cavità splanenica. Non ammette il diaframma toraco-addominale, ma ha 
il torto di negare anche il diaframma. ornitico, il quale divide la cavità 
celomatica in cavità addominale e in cavità pleuriche. 

CAMPANA per sostenere che il diaframma toraco-addominale non esiste, 
afferma che il piccolo apparecchio muscolare ammesso in questo dia- 
framma da SAPPEY, non possiede altri elementi contrattili che fibre lisce. 

Tale argomento sembra a CAMPANA che basti da solo per togliere ogni 
omologia tra diaframma toraco-addominale e pilastri del vero diaframma. 

L'argomento recato da CAMPANA è affatto insufficiente per negare il 
diaframma toraco-addominale. Sono esclusivamente i risultati delle ri- 
cerche embriologiche che assegnano il giusto valore a questo setto. 

Stabilito il significato che deve attribuirsi al diaframma toraco-ad- 
dominale, è tolto di mezzo il grande imbarazzo nel quale si trovavano 
gli anatomici quando dovevano descrivere i rapporti tra sacchi inter- 
medii e diaframma toraco-addominale, tra pericardio e diaframma toraco- 
addominale; perchè nell’un caso e nell’altro avevano da descrivere due 
setti e ne esisteva uno solo. i; 

Anche la struttura dei sacchi intermedii viene ad essere modificata 
perchè da essi si escludeva la parete ventrale che presenta struttura 
molto interessante e degna di essere ancora studiata. 

Roucer *) afferma che da una striscia di tessuto muscolare del dia- 


1) Roucer CH. — Le diaphragme chez les mammifères, les oiseaua et les 
reptiles. (Bull. Soc. de Biologie. Tom. III, 1851). 


160 D. BERTELLI 


framma toraco-addominale si distacca un fascio molto sviluppato, spe- 
cialmente a sinistra, il quale si reca su l’esofago là ove questo viscere 
traversando il diaframma penetra nell’ addome. RougeT considera questa 
disposizione analoga allo sfintere diaframmatico dei mammiferi. TestUT 1) 
ha accolto favorevolmente questa opinione di RouGET. 

Omologia tra pareti dei sacchi intermedii e diaframma dei mammi- 
feri non può essere assolutamente stabilita, quindi le vedute di RougET 
non devono essere accolte. 

La cavità celomatica degli uccelli viene divisa dal diaframma orni- 
tico in cavità dddominale e in cavità pleuriche, 

Se esaminiamo un embrione di pollo al decimo giorno di incubazione 
si trova che i legamenti polmonali-epatici unitisi alla parete laterale e 
dorsale della cavità celomatica hanno contribuito potentemente a costi- 
tuire il diaframma ornitico (fig. 15, 19). Così i polmoni vennero isolati 
nella porzione dorsale della cavità celomatica e si costituirono le cavità 
pleuriche. Solo caudalmente resta una stretta apertura che fa comuni- 
care le cavità pleuriche con la cavità addominale. Questa apertura è 
compresa tra la parete laterale della cavità celomatica, il mesenterio 
ed il legamento polmonale-epatico. Più caudalmente questa apertura è 
limitata in dentro dal rene primitivo, che nel suo estremo laterale so- 
stiene il condotto di MuùLLER. Il connettivo polmonale seguita ventral- 
mente nel diaframma ornitico. I polmoni oltrechè al diaframma sono uniti 
al mediastino per la estensione che corrisponde all’ esofago, per il resto 
sono liberi in vere e proprie cavità pleuriche (fig. 15, 19). 

All’undicesimo giorno di incubazione la inserzione sul mediastino si 
è spinta un po’ più dorsalmente. I polmoni si sono avvicinati alla pa- 
rete laterale della cavità pleurica e in qualche breve tratto la superficie 
polmonale si è unita alla superficie della cavità pleurica. Ventralmente, 
al solito, il tessuto connettivo polmonale è fuso con il tessuto diafram- 
matico. Esistono sempre, ma rimpiccolite, le aperture che fanno comu- 
nicare caudalmente le cavità pleuriche con la cavità addominale. 

Al quattordicesimo giorno di incubazione le superfici mediali dei 
polmoni sono unite al mediastino per tutta la estensione di questo, sono 
libere in corrispondenza del corpo delle vertebre ma poggiano stretta- 
mente su di esso; la superficie esterna è unita alla superficie laterale 
delle cavità pleuriche, solo di tratto in tratto la unione manca, spe- 


i) Tesrurt L. — Traité d’anatomie humaine. Paris, 1893, 


=" siii Vaio tot © 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. 161 


cialmente in corrispondenza delle coste e così si formano delle piccole 
lacune; la superficie ventrale è fusa con il diaframma. L’apice polmo- 
nale è libero in cavità. Per breve tratto sono libere al di dietro del- 
l’apice anche le superfici laterali dei polmoni. 

L’embriologia ci dimostra che a certi stadii esistono negli uccelli 
vere e proprie cavità pleuriche. 

Riguardo alle pleure degli individui adulti si hanno cognizioni scarse, 
incomplete, contradditorie. 

Caprar !), guidato da risultati ottenuti con ricerche embriologiche, 
studiò le pleure degli uccelli negli individui adulti. Afferma che la pleura 
esiste negli uccelli, ma allo stato rudimentario; che i suoi due foglietti 
sono liberi in corrispondenza delle doccie vertebrali e aderiscono su i 
lati; che sul diaframma non è sierosa. Mise in evidenza per mezzo del 
nitrato d’argento l’epitelio della sierosa e lo riprodusse in una figura. 
Devesi a Caprat la prova irrefragabile della esistenza delle pleure negli 
uccelli, ma dei risultati ai quali Egli giunse non fu tenuto conto. Per 
questa ragione e perchè Capra solamente sfiorò l’interessante argomento, 
mi propongo di trattare in altro lavoro delle pleure degli uccelli. 


Conclusioni. 


Per i sacchi aeriferi adottai le seguenti denominazioni: sacchi cer- 
vicali (sacci cervicales); sacco interclavicolare (saccus interclavicularis) ; 
sacchi intermedii anteriori (sacci intermedìì anteriores); sacchi intemedii 
posteriori (sacci intermedii posteriores); sacchi posteriori (saccì posteriores). 

Con questa nomenclatura vengono eliminate tutte quelle denomina- 
zioni che si basano sopra una divisione sbagliata della cavità celomatica 
e sopra false interpetrazioni del diaframma. 

Gli abbozzi dei sacchi aeriferi hanno al loro apparire parete liscia, 
poi, in varii stadii di sviluppo che variano a seconda degli abbozzi, la 
mucosa si solleva in pieghe longitudinali che danno aspetto stellato alle 
sezioni trasverse. 

Tutti gli abbozzi dei sacchi aeriferi provengono direttamente dai tubi 


1) CADIAT. — Du développement de la portion céphalo-thoracique de l’embryon 
de la formation du diaphragme, des plèvres, du pericarde, du pharyna et de 
l’oesophage. (Journal de l’Anatomie et de la Physiologie. Paris, 1878). 


162 D. BERTELLI 


polmonali, eccetto quelli del sacco interclavicolare che prendono origine 
dagli abbozzi dei sacchi cervicali. 

Gli abbozzi dei sacchi posteriori sono i primi ad apparire. Alla set- 
tantaduesima ora di incubazione i tubi polmonali presentano in pros- 
simità degli estremi caudali un leggerissimo rigonfiamento che è 1’ ab- 
bozzo dei sacchi posteriori, incluso nei legamenti polmonali-epatici. Gli 
abbozzi dei sacchi posteriori ed i sacchi posteriori sono accolti nei le- 
gamenti polmonali-epatici, nel polmone, nel diaframma, nelle pareti la- 
terali dell’addome dalle quali sollevandosi invadono la cavità addominale. 

Al quinto giorno appariscono gli abbozzi dei sacchi cervicali. Pren- 
dono origine dalla metà dorsale della periferia dei tubi polmonali. Si 
spingono in avanti prima nelle cavità pleuriche, poi nel tessuto media- 
stinale e così raggiungono il collo. 

Al sesto giorno di incubazione sono sorti gli abbozzi del sacco in- 
terclavicolare, dei sacchi intermedii anteriori e posteriori. 7 

Nell’adulto il sacco interclavicolare è unico, ma sorge anche esso, 
come tutti gli altri, per mezzo di due abbozzi. Questi derivano dagli 
abbozzi dei sacchi cervicali. Al loro apparire sono situati, rispetto alla 
posizione che il sacco interclavicolare occupa nell’ adulto, molto dorsal- 
mente e lateralmente, ma negli stadii successivi si spingono in basso e 
medialmente per raggiungere la posizione definitiva. All’ottavo giorno 
sono già molto discesi, una bassa piega connettiva li accoglie in cor- 
rispondenza del margine inferiore del polmone. Questa piega al decimo 
giorno è molto sviluppata; all’ undecimo giorno si è fusa con il dia- 
framma; così si spiega perchè i sacchi interclavicolari a questo stadio 
si trovano inclusi nel diaframma. 

Appena le diramazioni che dettero origine agli abbozzi dei sacchi 
cervicali hanno raggiunto i tubi polmonali, da questi sorgono gli abbozzi 
dei sacchi intermedii anteriori, situati vicini alla superficie mediale dei 
legamenti polmonali-epatici, in corrispondenza dei legamenti polmonali 
accessorii, del recesso del sacco dell’omento e del recesso sinistro. A 
misura che vanno sviluppandosi si recano, nei primi stadii, lateralmente e 
ventralmente e si avvicinano così alla superficie inferiore del polmone. 
Quando si è costituito il diaframma, si sollevano da questo, discendendo 
nell’addome. Il diaframma fornisce ai sacchi intermedii anteriori la pa- 
rete ventrale e con la superficie inferiore li limita dorsalmente. 

Dalla metà ventrale della periferia dei tubi polmonali, dopo breve 
decorso da clie sono rimasti soli nei legamenti polmonali-epatici, nascono 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECC. i 163 


due diramazioni, una per lato, le quali presentano nell’estremo termi- 
nale una vescicola sferica; questa è l’abbozzo dei sacchi intermedii po- 
steriori. Anche questi come quelli del sacco interclavicolare trovansi 
all'ottavo giorno sul margine inferiore del polmone accolti in una bassa 
piega connettiva, ma al decimo giorno questa piega discendendo si fonde 
con il diaframma. La fusione con il diaframma avviene prima per questo 
abbozzo che per quello del sacco interclavicolare. In stadii più avanzati 
i sacchi intermedii posteriori sono accolti anche nelle pareti laterali del- 
l'addome. Per raggiungere lo stato definitivo si sollevano dal diaframma 
e da queste pareti entro all'addome. 

Conosciuta la origine dei sacchi, si comprende chiaramente la ragione 
degli intimi rapporti tra sacchi e diaframma, la continuità dei sacchi 
per mezzo delle aperture polmonali con i bronchi e si comprende chia- 
ramente anche la struttura dei sacchi. 

Lo studio dello sviluppo dei sacchi intermedii ci conduce a conclu- 
dere che non esiste un diaframma toraco-addominale. Il setto descritto 
come diaframma non è altro che la parete ventrale dei sacchi intermedii 
e la parete posteriore del pericardio. Questo setto non divide quindi la 
cavità celomatica in addome e torace, è porzione di addome anche quella 
occupata dai sacchi intermedii. Non devono perciò essere accolte le omo- 
logie stabilite tra questo setto ed il diaframma. 

La struttura dei sacchi intermedii viene ad essere modificata perchè 
ad essi si sottraeva la parete ventrale. 

Il diaframma ornitico isola completamente i polmoni dalla cavità ad- 
dominale. In alcuni stadii del periodo embrionale esistono vere e proprie 
cavità pleuriche le quali poi divengono incomplete per la unione delle 
superfici polmonali con le pareti delle cavità pleuriche. 

Nella superficie ventrale del polmone non esiste sierosa, perchè con- 
nettivo polmonale e diaframma sono in continuità. 


Sc., Nat. Vol, XVII 12 


A. s.c. — Abbozzo del sacco cervicale. 

A. s.î. — Abbozzo del sacco interclavicolare. 
A.s.î.a. — Abbozzo del sacco intermedio anteriore. 
A.s.%. p. — Abbozzo del sacco intermedio posteriore. 


A.s. p. — Abbozzo del sacco posteriore. 
L. p. e. — Legamento polmonale-epatico. 
IP, — Polmone. 

Ji 8 — Recesso sinistro. 

R.s.0. — Recesso del sacco dell’omento. 
\Sfic? — Sacco cervicale. 

ISTE — Sacco interclavicolare. 

S.î.a. — Sacco intermedio anteriore. 

S. i. p. — Sacco intermedio posteriore. 
S. p — Sacco posteriore. a 
Icy — Tubo polmonale. 

Fig. 1. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di cinque giorni. A destra 


SPIEGAZIONE DELLA TAV. VIN [I]. 


si vede l’abbozzo del sacco cervicale che è in unione col tubo pol- 
monale. A sinistra l’ abbozzo del sacco cervicale è isolato dal tubo 
polmonale, è posto più cranialmente dell’ altro abbozzo. 

2. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di sei giorni. A destra ed a 
sinistra entro le cavità pleuriche si vedono gli abbozzi dei sacchi 
cervicali avvolti da connettivo polmonale. A destra si vede l’apice 
dell’ abbozzo. 

3. — Sezione trasversale d’ embrione di pollo di dieci giorni. A destra ed 
a sinistra si vedono nel tessuto mediastinale gli abbozzi dei sacchi 
cervicali. A sinistra oltre l’abbozzo del sacco si vede la sezione 
del polmone in vicinanza dell’ apice. 

4. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di undici giorni. A destra 
ed a sinistra si vedono i sacchi aeriferi alla base del collo. 

5. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di sei giorni. A sinistra si 
vede l’ abbozzo del sacco cervicale dal quale si è distaccato l’ab- 
bozzo del sacco interclavicolare. A destra si vede l’abbozzo del 
sacco cervicale. 


Fig. 


SVILUPPO DEI SACCHI AERIFERI DEL POLLO ECCO. 165 


6. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di otto giorni. A sinistra si 
vede l’abbozzo del sacco interclavicolare accolto in una bassa piega 
formata dal connettivo polmonale. 

T. — Sezione trasversale d’ embrione di pollo di dieci giorni. A sinistra si 
vede l’ abbozzo del sacco interclavicolare accolto in una piega molto 
sviluppata, costituita dal connettivo polmonale. 

8. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di undici giorni. A destra 
ed a sinistra si vedono i sacchi interclavicolari accolti nel dia- 
framma. 

9. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di sei giorni. A sinistra si 
vede l’abbozzo del sacco intermedio anteriore. 

10. — Sezione trasversale d’ embrione di pollo di otto giorni. A destra ed 
a sinistra si vedono gli abbozzi dei sacchi intermedii anteriori si- 
tuati immediatamente sopra alla superficie ventrale dei polmoni. 

11. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di dieci giorni. A destra ed 
a sinistra si vedono gli abbozzi dei sacchi intermedii anteriori che 
si sono sollevati alla superficie ventrale del diaframma. 

12. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di quattordici giorni. Si vede 
il sacco intermedio anteriore sinistro. La parete ventrale del sacco 
è libera, la parete dorsale è costituita dal diaframma. Alla peri- 
feria del diaframma sono i fascetti muscolari. 

13. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di sei giorni. A sinistra si 
vede che dal tubo polmonale prende origine l’ abbozzo del sacco 
intermedio posteriore. 

14. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di otto giorni. A sinistra si 
vede l’abbozzo del sacco intermedio posteriore accolto in una bassa 
piega, costituita da connettivo polmonale. A destra ed a sinistra 
si vedono gli abbozzi dei sacchi intermedii anteriori, posti più 
caudalmente di quelli della fig. 10. 

15. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di dieci giorni. A destra ed 
a sinistra si vedono nello spessore del diaframma, alla periferia, 
gli abbozzi dei sacchi intermedii posteriori. A sinistra, dorsalmente , 
e medialmente all’abbozzo del sacco intermedio posteriore si vede 
nel polmone l’abbozzo del sacco posteriore. 

16. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di quattordici giorni. Nello 
spessore del diaframma, alla periferia, si vede il sacco intermedio 
posteriore di sinistra. Da questo lato si vede anche tra il corpo di 
WoLrr ed il tubo digerente il sacco posteriore verso il suo estremo 
craniale. 

17. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di quattro giorni. A sinistra 
è sezionato l’abbozzo del sacco posteriore, a destra si vede la se- 
zione del tubo polmonale al davanti dell’abbozzo del sacco. 

18. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di otto giorni. A destra ed 
a sinistra si vedono gli abbozzi dei sacchi posteriori accolti nei 
legamenti polmonali-epatici. 


166 D. BERTELLI 


Fig. 19. — Sezione trasversale d’ embrione di pollo di dieci giorhi. A sinistra si 
vede l’abbozzo del sacco posteriore a pareti pieghettate, accolto 
nello spessore del diaframma. Al di sotto di questo abbozzo è nel 
diaframma l'estremo caudale dell’ abbozzo del sacco intermedio 
posteriore. A destra, nello spessore del diaframma, è l’ abbozzo del 
sacco intermedio posteriore. 

» 20. — Sezione trasversale d’embrione di pollo di quattordici giorni, Si vede 
il sacco posteriore sinistro libero per lungo tratto nella cavità ad- 
dominale. Al di sotto del sacco posteriore è nella parete addomi- 
nale il sacco intermedio posteriore. 


Istituto ANATOMICO DELLA REGIA UNIVERSITÀ DI PISA 


DOTT. GIUNIO SALVI 


1.° DISSETTORE E LIBERO DOCENTE 


ARTERIAE DORSALES CARPI 


Contributo alla Morfologia della circolazione nell’arto toracico 


0 


Seguitando lo studio morfologico del sistema arterioso delle estremità 
espongo in questo lavoro il risultato di una serie di ricerche compara- 
tive sopra le arterie dorsali del carpo. 

Queste ricerche per mezzo delle omologie fra le disposizioni umane 
e quelle di altri mammiferi tendono a stabilire le omodinamie fra quelle 
dei due arti, toracico e addominale, dell’ Uomo. 


L’esame della letteratura anatomica dimostra che gli antichi autori 
non si occuparono di questi vasi tralasciandoli completamente nelle loro 
descrizioni. i a 

VesaLio,! FaLLoPPIO? e CoLomo* infatti parlano solo del tronco della 
a. radialis e della distribuzione di questa nella palma della mano, e 
nemmeno nelle tavole di EustAcHIo trovansi raffigurate arterie sul dorso 
del carpo. Solo alla tav. XXIV vedesi una a. ènterossea dorsalis la quale 
però non giunge alla mano e nella spiegazione di ALBINo* viene chiamata 
arteriae inter supinatores breves et abductores longos pollicum penetrantes 
ad cubitorum exteriorem partem. i 

Notevole poi è il fatto che VesALIO descrive come normale una di- 
sposizione della a. radialîs che oggidì invece si ascrive alle anomalie. 
Egli dice infatti che: ramus qui secundum radium fertur, non procul a 
brachialis radice sobolem derivat quae sub tendinibus pollicem extendentibus 
ad manus externam sedem procurrit, in musculos digesta, quì inter primum 
pollicîs os, et postbrachialis 08, indicem sustinens, collocantur. Quando ramus 
radio exporrectus illam emisit sobolem, una cum tendinibus digitos flecten- 


168 G. SALVI 


tibus, transversum brachialis ligamentum transgreditur, et sub dilatescente 
in manu tendine, in tres ramos discinditur. Ciò molto probabilmente deve 
dipendere dal fatto che il sommo anatomico là dove non poteva giungere 
con la dissezione di cadaveri umani, compensava con quella delle scimmie. 
Ed infatti è quella la disposizione che normalmente riscontrasi in molti di 
questi animali. La stessa decrizione è riportata da VaLvERDE®. 

La descrizione classica di questi vasi viene di solito attribuita a 
Trepemann® alle figure del quale si riporta TaEILE"”, ma nell’Atlante di 
Carpani* le arterie del dorso del carpo sono figurate con una tale esat-. 
tezza che, la maggiore non potrebbe desiderarsi. La figura di CALDANI rap- 
presenta una rete-carpè dorsale alla quale convergono i rami dorsali della 
a. radialis, della a. ulnaris e della a. înterossea volaris. La rete è limitata 
distalmente da una arcata arteriosa che nel testo viene chiamata: anasto- 
moses ramorum dorsalium carpi ‘tam inter se quam cum ulnari. 

La descrizione degli anatomici successivi seguì, pur rimanendo fonda- 
mentalmente la stessa, due vie. Alcuni, e furono i più (LuscHKA,? THEILE," 
Hente,!® Krause,!! Hirtt,!? RauBER,!3 ToLpr,!* MonsELISE,!° Hemz- 
MANN, !5 Hrs,!" GeceNBAUR,!8 Romrri!*), hanno conservata la rete carpi 
dorsale. Altri, e questi furono specialmente i francesi (CRUVELHIER,?° 
WisLow,?! Brczat,?? Sappry,?3 DEBIERRE,?4 Trsrum,?> MeckEL, THANE,?" 
PorrieR?5), hanno ammesso invece l’arcus dorsalis carpîì per una sorta di 
analogia con le disposizioni arteriose della palma della mano. 

Alcune leggiere varianti si trovano poi in coloro che ammettono due 
reti o due arcate, una superficiale ed una profonda (Luscnxa,® RauBER,! 
HenLE!®), ed in quelli che (HentE,!° Romi, !? Porrier?5) ammettono an- 
che un arcus dorsalis metacarpì. 3 

In realtà, l’arcus dorsalis carpîì trovasi, se non descritto, raffigurato 
in tutti i libri di anatomia e dal suo grado di sviluppo dipende il carat- 
tere e la denominazione che assume. Gli autori che non lo ammettono 
lo raffigurano però come il limite distale della rete carpì dorsale. 

Nello stesso modo, l’origine delle aa. metacarpeae dorsales ha su- 
bito nelle varie descrizioni alcune varianti. 

Per coloro che ammettono la rete carpîì dorsale senz'altro, esse ori- 
ginano dai vasi più distali della rete stessa; per coloro che descrivono 
l’arcus è dalla convessità di questo che esse si dipartono. Non mancò 
poi chi ammise che esse in tutto (LuscHKA?) od in gran parte (RAUBER!®) 
provenissero dall’arcus volaris profundus per mezzo dei rami perforantes. 

Nella letteratura anatomica poi non trovo che siasi mai dato spe- 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 169 


ciale valore od importanza ad uno più che ad un altro dei vasi della rete 
dorsale nè che siasi tentato di interpetrarli morfologicamente. 

Infatti, allo stato attuale delle cognizioni anatomiche e dietro le ve- 
dute più moderne di ZuckERKANDL®® e di STIEDA,®° si ammette che tanto 
l’a. radialis che l'a. unaris non siano rappresentate nell’arto addomi- 
nale, ma che tutto al più esse possano venire paragonate a rami mu- 
scolari. 

Dal punto di vista delle omodinamie, KrausE!! paragonò l’a. transversa 
dorsalis carpî (a. carpea dorsalis radialis) alla a. transversa dorsalis tarsì 
(a. tarsea lateralis). 


Materiale e metodo di studio. 


Ho eseguito 100 dissezioni nell’ Uomo, in individui per età, per sesso 
e per attitudini diversi. Desiderando poi in questo lavoro limitarmi 
allo studio delle arterie della mano, per la comparazione mi servirò 
esclusivamente dei Primati giacchè, essendo la mano una formazione 
per filogenia del tutto recente, scendendo ad animali inferiori i termini 
del paragone verrebbero di troppo alterati per l'influenza della confor- 
mazione e dell’uso differente. Presento quindi un buon numero di os- 
servazioni nelle specie Hapale penicillatus, H. jaccus, Macacus symnicus, 
M. erythraeus, M. nemestrinus, Cynocephalus papio. 

Divido infine il lavoro in tre parti: 

Nella prima sono prese in considerazione e discusse dal punto di 
vista del normale e delle varietà e così pure della statistica, le dispo- 
sizioni vascolari della mano dell’ Uomo. Nella seconda invece si tratta di 
quelle dei Primati. Nella terza si stabiliscono col sussidio delle osser- 
. vazioni precedenti le omodinamie fra la mano ed il piede dell’ Uomo e 
si fanno le considerazioni di indole generale che tali osservazioni ispirano. 

La massa di iniezione adoperata è quella di TEICHMANN ed il me- 
todo quello stesso indicato in altro mio lavoro.3! 

La nomenclatura seguita è quella adottata dalla Società anatomica!". 


PARTE I. 


Gli autori descrivono ben poche varietà nelle disposizioni vascolari 
della rete carpi dorsale. Esse si riducono solo ai rari casi di mancanza 
della a. radialis ed allo sviluppo eccessivo della a. interossea volaris. 


170 G. SALVI 


(DuBRrUEIL,3? BLanpIN,53 Krause, !! Hrrt1,!? Quarn,?” ScHwALBE 4). Se 
i due fatti esistono insieme, la costituzione della rete carpì dorsale non 
viene di molto alterata, se esiste solo il primo, allora questa è assai 
ridotta e le aa. metacarpeae dorsales, provengono in gran parte, per mezzo 
dei rami comunicantes, dal circolo volare. 

A chi però osservi con minuziosa attenzione ed in preparati ben 
riusciti la costituzione della rete carpî dorsale, pur rimanendo nel campo 
della disposizione considerata come normale, ed estenda l’osservazione 
a gran numero di casi, non possono sfuggire i fatti seguenti: 

1.° L’arcus dorsalis carpî esiste normalmente cioè esiste una arcata 
arteriosa la quale limita distalmente la rete carpè dorsale e che può 
essere più o meno sviluppata. 

2.° La rete carpì dorsale o l’arcus dorsalis carpì di alcuni autori, non 
sono costituiti da elementi uguali da parte della a. radialis e della a. 
ulnaris. Il ramus carpeus dorsalis della a. radialis è sempre più grosso 
di quello della a. ulnaris e talvolta assai cospicuo. 

3.° L’anastomosi fra i due non si fa diretta ed a pieno canale, ma 
il più delle volte indirettamente e per mezzo di esili diramazioni collate- 
rali, e l’anastomosi stessa si fa molto vicino al margine ulnare della 
mano. 

4.° Nella maggior parte dei casì il ramus carpeus dorsalis della a. w- 
naris è molto esile e giunge appena a partecipare a quella rete di esili 
diramazioni secondarie che emanano dai rami maggiori percorrenti il 
carpo. 

5.° Delle a. metacarpeae dorsales, la I proviene dal tronco della a. ra- 
dialis ed anzi può esserne considerata come la continuazione; la II, la IMI 
e la IV provengono tutte dal tronco della a. carpea dorsalis radialis. Ciò 
si rende più evidente quando questa arteria è molto sviluppata, ma lo è 
anche sempre per il fatto che il ramus wInaris scende nel carpo con 
direzione diversa da quello radialis cioè quasi longitudinalmente, onde 
il punto di anastomosi può essere delimitato con molta precisione. 

6.° Il ramus carpeus dorsalis della a. ulnaris non dà che la a. di- 
gitalis ulnaris digiti V e la sua congiunzione col suo corrispondente della 
a. radialis, nelle rare volte in cui si fa direttamente, avviene allorchè 
quest’ultimo si incurva in avanti per continuarsi con la a. metacarpea 
dorsalis IV od anche dopo che questa si è originata. 

La disposizione che nelle mie ricerche ho riscontrata il massimo nu- 
mero. di volte e che quindi ritengo normale, è la seguente: 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 171 


Dal tronco della a. radialis, generalmente in corrispondenza dello 
scafoide, nasce il ramus carpeus dorsalis il cui diametro all’origine, sta 
di solito rispetto a quello del tronco come 1 a 2. Esso si dirige ulnarmente 
ed in basso secondo una linea che va dallo scafoide alla base del metacarpale 
V e dà origine successivamente alle arteriae metacarpeae II, III e IV. 


Il ramus carpeus dorsalis della a. ul- 
naris, molto esile, contorna l’apofisi stiloide 
dell’ulna e con decorso quasi verticale viene 
ad anastomizzarsi con la terminazione del 
primo nel margine ulnare della mano. I 
rami collaterali di queste arterie, uniti a 
quelli terminali delle aa. interosseae costi- 
tuiscono la rete carpì dorsale. 

Le aa. metacarpeae dorsales quindi 
nella maggioranza dei casi provengono dal 
ramus carpeus dorsalis della a. radialis e 
solo alla formazione della IV può parteci- 
pare il ramus carpeus dorsalis della a. ul- 
naris. 

I casi per i quali questa disposizione 
può allontanarsi dal normale, possono rag- 
grupparsi sotto 3 tipi. 

Tipo 1.° — Caratterizzato da variazioni 
di volume della arteria carpea dorsalis ra- 
dialis. 

Aumento di volume. — Su 100 osserva- 
zioni 73 volte appariva come il più grosso 
dei rami della rete carpì dorsale, 9 volte era 
di volume pressochè uguale al tronco della 
a. radialis onde questa appariva come bi- 
forcata in due rami dei quali uno diveniva 
il ramus perforans e l’altro l’arteria carpea 
dorsalis; 1 volta era più grosso. 


Fia. 1. 


NN 


: 


Arteriae dorsales carpi dell’ arto 
destro di Uomo. 


R, A.radialis; U, A. ulnaris; ID, A. 
interossea dorsalis; 1Y, A. interos- 
sea volaris; £2D, A. carpea dorsalis 
radialis. 


Diminuzione di volume. — 14 volte l’arteria carpea dorsalis era molto 
esile, ma in questi casi notavasi un corrispondente aumento della a. én- 
terossca volaris e maggiori anastomosi fra questa e le terminazioni della 


a. interossea dorsalis. 


Assenza. — Due sole volte l’ho vista mancare. In un caso l’a. ra- 


172 G. SALVI 


dialis passava tutta nella palma della mano continuandosi nell’ordinario 
ramus radio-palmaris. Nell’ altro l’arteria giunta all’inizio del quarto 
inferiore del radio si biforcava in due rami di pari volume corrispon- 
denti l’uno al tronco normale del vaso e l’altro al ramus radio-volaris, 


Fia. 2. fue, i 

Va 1 ID ASINO 
[NIE Si IV IBBMIEE RAR) LOTTA 
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2--3NED 
i [DI 
I 


AI 
Rn 


o 
) Ì i 


Arteriae dorsales carpi dell'arto de- 
stro di Uomo. 


Arteriae dorsales carpi dell’arto de- 


stro di Uomo. 
ID, A. interossea dorsalis; IV, A. 


ID, A. interossea dorsalis; IV, A. 
interossea ventralis; £, A. radialis; ‘ interossea volaris; , A. radialis; 
ED, A. carpea dorsalis radialis. RD, A. carpea dorsalis radialis. 


ma dal primo non nascevano che alcune esilissime diramazioni le quali 


si esaurivano ben presto sul dorso del carpo. 

Tipo 2.° — Caratterizzato dal differente livello al quale il ramus 
carpeus dorsalis si origina. Questa varietà non è mai stata presa in 
considerazione per l’addietro, ma, per quanto i suoi limiti non siano 
molto estesi, essa, come vedremo, è molto interessante. 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 173 


In 100 dissezioni, la maggior parte delle volte l'origine della a. car- 
pea dorsalis si faceva circa un centimetro al disotto del processo stiloideo 
del radio. Non di rado però (17 volte) essa si avvicinava molto a que- 
sto processo, fino a toccarlo, e 2 volte l’ho osservata distaccarsi al di 


sopra di esso. 


Devo però avvertire che questi ultimi casi erano quasi sempre le- 
gati ad un’ altra anomalia della a. radialîs la quale dividevasi in ramo 
palmare e dorsale, molto al disopra del consueto. 

Le figg. 2, 3, 4 rappresentano i gradi per i quali dalla disposizione 
normale si va a quella massimamente variata. 


Nel caso riprodotto alla fig. 4 l’a. car- 
pea dorsalis si origina in corrispondenza 
del processo stiloideo del radio, ma oltre a 
ciò il suo volume è press’a poco uguale a 
quello del tronco dorsale della «. radialis 
onde questa apparisce come divisa in due 
rami di ugual volume. Il ramo laterale (ra- 
diale) va al 1.° spazio interosseo dove di- 
viene perforante emanando la «a. digitalis 
radialis digiti I e la a. metacarpea dorsalis 
I. Il ramo mediale (ulnare) scende obliqua- 
mente verso la base del V metacarpale e 
da esso originano successivamente le «aa. 
metacarpeae dorsales II, III e IV. 

I due rami possono essere chiamati 
rispettivamente a. carpea dorsalis medialis 
e a. carpea dorsalis lateralis. 

Tipo 3.° — Rappresentato dall’abnorme 
sviluppo della a. înterossea volaris e dal di- 
scendere essa sul carpo sotto forma di grosso 
tronco arterioso. In tal caso l’a. carpea dor- 
salis è molto ridotta di volume o manca 
affatto e la rete carpì dorsale è costituita dai 
rami terminali delle aa. interosseae. Le fi- 
gure 5 e 6 rappresentano due gradi di questa 
anomalia. Nel primo, l’a. radialis è nor- 
male e solo manca od è molto piccola e ru- 


Fia. 4. 

1 10 IE 2 UT GI FD 

DR _IV 

_R 

\ CL 
À CM 
4 CÀ 
0) 
Ù ù 


Arteriae) dorsales carpi dell'arto de- 
stro di Uomo. 


ID, A. interossea dorsalis; IV, A. in- 
terossea volaris; È, A. radialis; CZ, 
A. carpea lateralis; CM, A. carpea 
medialis. 


dimentaria la. carpea dorsalis; nel secondo l’a. radialis continuasi 


174 G. SALVI 


tutta col suo ramo radio-volaris mentre dorsalmente non va che un esile 
ramo anastomotico. i 

Nel 1.° caso l’a. interossea volaris, fattasi dorsale, scende al carpo 
dividendosi in due rami i quali dànno le aa. metatarseae dorsales II, 


Fia. 5. Fia. 6. 


Arteriae dorsales carpi dell'arto de- Arteriae dorsales carpi dell’arto de- 
stro di Uomo. stro di Uomo. 
I, A. interossea; È, A. radialis; ED, I, A. interossea; PR, A. radialis. 


A. carpea Jateralis. 


II, IV, mentre la a. carpea dorsalis radialis esilissima, dopo breve 
tragitto (1 cm.) si divide in due rami: uno ascendente che si anasto- 
mizza a pieno canale con uno analogo della @. interossea, ed uno di- 
scendente che va a prender parte alla formazione della a. metacarpea I 

Nel 2.° all’atrofia del ramo dorsale della a. radialis, ha corrisposto 
uno sviluppo maggiore della anastomosi di questo con l’a. interossea per 
mezzo del ramo ascendente sopra accennato, ed allora noi vediamo l’a. 
interossea giunta al carpo, dividersi in due rami dei quali il laterale 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. — 175 


(radiale), costituisce l'a. metacarpea 1°, mentre l’altro mediale (ulnare) 
fornisce le altre tre. 

I due rami, perfettamente omologhi a quelli descritti nella fig. 3 me- 
ritano come quelli il nome di «. carpea lateralis e a. carpea medialis. 

Ho trovata questa disposizione nei suoi vari gradi di sviluppo 9 volte, 
ciò che è in aperta contradizione con ciò che leggesi comunemente nei 
libri di Anatomia. 

Spiego ciò col fatto che gli Autori non hanno considerato che i casi 
estremi della varietà, mentre facevano rientrare tutti gli altri nella 
grande categoria della classica rete carpî dorsale. 


PARTE II. 


Esaminate e brevemente descritte le disposizioni umane, passo a 
studiare quelle dei Primatè per vedere se sia possibile stabilire un 
confronto. Saranno successivamente prese in considerazione quelle della 
mano e quelle del piede. 

Mano. — Le osservazioni di MECKEL,*° THEILE,3° BiscHorr,*" BARKOW, 88 
VRoLIcK,*? GratIoLET,i° Arix,1° HumpaRy,4*! EissLer,t° Rosecky,*4 Fi- 
CALBI,*° SPERINO,*° ecc., hanno dimostrato come esista nei Primati una 
disposizione simile a quella dell’ Uomo. Vi si trova la rete carpì dorsale 
nel costituire la quale v'è rapporto di vicarietà fra la a. radialis e l’a. în- 
terossea. 4 

Quanto all’a. radialis spesso si continua nel ramo radio palmare, 
mandando al dorso della mano solo una esile diramazione (FrcaLBI,4° 
SPERINO,*° FALCONE 4”). 

La distribuzione di tali vasi sul dorso della mano, fu studiata partico- 
larmente da Rosecky* nel genere Macacus (M. cynomolgusy M. synicus), 
e mi piace riportare le conclusioni di questo ricercatore perchè anche 
la maggior parte delle mie osservazioni sono state fatte in individui 
appartenenti a tal genere di Primati. 

Secondo Rosecky** l’a. radialis, in questi animali, si divide al princi- 
pio del terzo distale dell’avambraccio in due tronchi di volume ineguale: 
uno palmare più grosso (ramus radio-vdlaris), uno dorsale più piccolo. 
Quest’ ultimo, contornato il processo stiloideo del radio, si porta in basso 
e ulnarmente verso il 2° spazio intermetacarpeo dove si incurva per 
formare un arcus dorsalis carpi dal quale si dipartono tutte le aa. me- 


IMA G. SALVI 


tacarpeae dorsales, compresa la I. Il ramo dorsale della @. radialis si 
continua così nella a. carpea dorsalis. 

Nelle mie osservazioni ho trovato anche tale disposizione, ma riu- 
nendo questa alle altre, mi è risultato evidente che il tipo fondamentale 
è quello riprodotto alla fig. 7 e che descrivo in un individuo di Ma- 


cacus erythraeus. 
Il ramo dorsale della a. radialis si divide 


dal radio-volaris molto in alto e contorna il radio 
circa all’ unione dei ?/, prossimali col '/, distale del- 
l’avambraccio. Giunto al disopra del processo stiloi- 
deo, si divide in due rami di egual volume: uno 
laterale ed uno mediale. Il ramo laterale (radiale) 
seguita il decorso della arteria verso il 1° spazio 
intermetacarpeo ove dà le aa. digitales digiti I e 
la a. digitalis radialis digiti II. Il ramo mediale 
(ulnare) volge ulnarmente e, con leggiera curva a 
concavità prossimale, va a terminare alla base del 
metacarpale V. Da esso originano successivamente 
le aa. metacarpeae dorsales II. ILI. IV. 

Il ramus carpeus dorsalis della a. ulnaris giunge 
appena ad anastomizzarsi con esili diramazioni col- 
laterali del ramo mediale sopra descritto. L'insieme 
costituisce la rete carpì dorsale. 

L’a. interossea volaris scende discretamente 
A AIN sviluppata fin sul carpo e si anastomizza diretta- 


l’arto toracico destro di mente col ramo laterale molto vicino alla sua 
Macacus. 


Fia. 7. 


origine. 
I, A. interossea; R, A. ra- o a S 7 
i a Talvolta il ramo mediale è meno sviluppato 


medialis, (ulnaris); CL, dell’altro ed allora abbiamo la disposizione descritta 
A. carpea lateralis (ra- d4 
dialis). da RoJECKY*°. È 
Il confronto di questa disposizione con quella 
umana riesce assai facile ed è specialmente il tipo 2.° che vi si presta 
(fig. 4); possiamo anzi dire che la disposizione è la stessa e che le 
lievi differenze che vi si possono riscontrare sono riferibili solo a varia- 
zioni nel calibro dei due vasi ed all’altezza alla quale si separano l’uro 
d’altro. Il grado massimo di varietà umana rappresentato alla fig. 3 cor- 
risponde esattamente alla disposizione normale dei Primat?. 
Perciò, riepilogando, la disposizione che nell’ Uomo è solo dovuta ad 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 177 


aumento della «. carpea dorsalis radialis, senza che per nulla ne venga 
alterata la classica distribuzione dei vasi nel dorso del carpo, è omologa 
a quella che è comune e normale nei Primati. 

In ambedue il tronco dorsale della «. radialis si divide nella a. car- 
pea lateralis dalla quale proviene l’a. metacarpea dorsalis I e nell’a. car- 
pea medialis da cui provengono le aa. metacarpeae dorsales II, III e IV. 

Piede. — Le arterie del dorso del piede provengono per la massima 
parte dalla a. saphena. (MeckeL,5° BArKow,5* TurILe,55 FicaLBI, 4 Po- 
POWSKyY,*5 Royecky,** EIssLER,“* ZUCKERKANDL,?° SPERINO,45 ecc.). 

La disposizione più costante, osservata da 
me come tipica pure nei generi che ho studiato, DAGLI 
è la seguente: 

Il ramo dorsale dell’ arteria saphena con- 
torna la tibia a livello variabile, generalmente 
al !|, distale della gamba e, giunto al piede, si 
divide in due rami, uno mediale ed uno laterale. 

Il ramo mediale (tibiale) si dirige verso il 
1.° spazio intermetatarseo ove diviene perfo- 
rante e fornisce la a. metacarpea dorsalis I con le 
aa. digitales allucis e la a. digitalis tibialis di- 
giti II. 

Il ramo laterale (fibulare), volge con lieve 
curva a concavità prossimale verso la base del 
metatarsale V e dà origine successivamente alle 
aa. metatarseae dorsales II, III, IV. 

Gli autori chiamano i due rami rispettiva- 
mente a. dorsalis pedis superficialis e a. dorsalis 
pedis profunda; in altro mio lavoro?! proposi 
chiamarle a. farsea medialis e a. tarsea lateralis. 


Confrontando dal punto di vista della dispo- 
sizione e dell’aspetto generale i vasi che abbiamo ice dorsales tarsi del- 
vu 4 } F l'arto addominale destro di 
descritti nella mano e nel piede della scimmia, —mMacacus. 
la loro omodinamia non avrebbe bisogno di altre 7 AR tibiale antigas, A. 
dimostrazioni. Essa apparisce evidente dal para- Saphena; TL, A. tarsea la- 
teralis; 7.M, A. tarsea me- 
gone fra le figg. 7 ed 8. dialis. 
Però tale omodinamia si presta alla critica 
ove si esaminino i fatti dal punto di vista di quei rapporti con gli 


178 \ G. SALVI 


organi vicini (ossa, muscoli, tendini, fascie, nervi), la importanza dei 
quali fu messa in evidenza e propugnata da Ruer e dei quali per l’ad- 
dietro non si usava tener conto. 

Le differenze alle quali alludo sono le seguenti: 

1.° La divisione delle due aa. tarseae avviene molto in alto, al |, 
inferiore della gamba mentre quella delle aa. carpeae avviene nella mano. 

2.° L’a. tarsea lateralis (fibularis) passa al di sotto del ligamento 
trasverso del tarso, mentre l’a. carpea medialis (ulnaris) non presenta 
un rapporto simile. 

3.° L’a. tarsea medialis (tibialis) passa al di sopra del tendine del 
m. tibialis anticus mentre l’a. carpea lateralis (radialis) non presenta tale 
rapporto coi due mm. radiales che a quello corrispondono (Bardeleben). 

A queste obiezioni si può però rispondere nel modo che segue: 

1.° Fra le due aa. farseae esistono molteplici rami anastomotici che 
le riuniscono ed in qualche primate (Macacus nemestrinus) ho potuto ve- 
dere la divisione avvenire distalmente al ligamento trasverso onde al di 
sotto di questo passava l’intero ramo dorsale della «a. saphena. 

2.° Tanto l’a. tarsea lateralis che la sua corrispondente a. carpea 
medialis passano al di sotto di tutti i tendini dei mm. extensores i quali 
alla loro volta passano sotto il ligamento trasverso. 

3.° Le modificazioni morfologiche e funzionali della mano e del piede 
possono benissimo spiegare il fatto che un tendine od un muscolo se- 
guendo la conformazione dello scheletro sì trovino spostati dal vaso che 


[I 


conserva il suo decorso perchè non è cambiata la sua distribuzione. 


PARTE II. 


Nel lavoro precedente più volte citato, facendo considerazioni mor- 
fologiche e statistiche sopra le disposizioni vascolari osservate in 200 
piedi umani, richiamai l’attenzione sopra il fatto che la descrizione clas- 
sica della a. dorsalis pedis non era conforme alla verità, nè morfologi- 
camente giusta. 

Dimostrai infatti che la così detta arteria arcuata era una formazione 
non solo non normale ma nemmeno frequente, e dovuta solo allo svi- 
luppo eccessivo di esili anastomosi che in corrispondenza della base dei 
metatarsali esistono fra le arterie che percorrono longitudinalmente il piede 
(aa. metatarseae dorsales). 


DR | 
da 
| 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 179 


In base alla statistica ed alla anatomia comparata, l’a. dorsalis pedis 
doveva invece venire descritta in tal modo: 

L’a. tibialis antica termina nella a. dorsalis pedis comunis la quale 
a vario livello (talvolta subito al disotto del legamento trasverso) si di- 
vide in a. farsea medialis e a. tarsea lateralis (fig. 9). L’a. tarsea me- 
dialis è l'a. dorsalis pedis degli autori, e continua verso il 1.° spazio 
intermetatarseo fornendo l’a. metatarsea dorsalis I e talvolta anche la II, 
i rami tarsei mediales ed il ramus profundus. La. 
tarsea lateralis è l'a. transversa tarsi della descri- MO: 
zione classica, volge lateralmente verso la tuberosità 


del metatarsale V con breve curva a concavità pros- SEGIVA 
simale, e dà le aa. metatarseae dorsales III, IV e 
spesso anche la II. i Si 
Paragonai questa disposizione con quella nor- 
‘male nei Primati e stabili le omologie che ri- 2] 
sultano evidenti paragonando le fig. 8 e 9. 
In tal modo noi abbiamo cominciato con omolo- \ 
: CRE ORO SII 
gizzare la disposizione della mano dell'Uomo con _\tx 


quella della mano del Primate. Quindi abbiamo sta- 
bilite le omodinamie fra le arterie della mano e 
quelle del piede del Primate. 

In seguito abbiamo dimostrato l’omologia fra 
le disposizioni arteriose del piede del Primate e 
quelle del piede dell Uomo: non ci resta che a 
tirare la conseguenza di ciò, e questa si è che 
esiste la stessa corrispondenza omodinamica fra 9) 
le arterie del dorso della mano e quelle del dorso ° ly 9) 
del piede dell’Uomo. 

L’a, carpea lateralis (radialis), a. radialis della 
descrizione classica, è omodinamica della a. tarsea TA, A. tibialis antica; 5, 
medialis (tibialis) o a. dorsalis pedis degli autori; —A.saphena; TL, A. tar- 
la. carpea medialis (ulnaris) o ramus dorsalis carpi. S°*'steralis; TI, ALtar- 

sea medialis. 
arteriae radialis dei classici, corrisponde alla «a. 


tarsea lateralis (fibularis) 0 a. transversa tarsi della comune nomencla- 
turà (1). 


a 


o_>——5 


Arteriae dorsales tarsi del- 
Varto destro di uomo. 


(') Questa divisione in due rami terminali (@a. carpeae, aa. tarseac) è più 
apparente che reale giacchè l’a. carpea radialis e la sua omodinamica a. tarsea 


Sc. Nat., Vol. XVII 13 


1801 | G. SALVI 


L'unica differenza è data dalla origine diversa respettivamente delle 
suddette arterie. 


Infatti le aa. dorsales carpì provengono normalmente nell’uomo dalla. 


a. radialis la quale, a detta' dei più moderni osservatori non ha corri- 
spondente nell’ arto addominale, mentre le aa. dorsales tarsi provengono 
dalla «a. tibialis antica la quale trova nella a. interossea dorsalis la sua 
omodinamica dell’arto toracico. i 

Il seguito del lavoro dimostrerà qual valore abbia tale differenza. 


Considerazioni generali e Conclusioni. 


Gli studi più recenti di ZuckERKANDL ?° e di SriepA,5° accettati da 
THANE,°° Romiti, !? PorrieR ?5 e dagli altri più moderni, dimostrarono che 
come seguito della a. princeps dell’arto, fosse da considerarsi nella gamba 
l’a. peronaca, e nell’ avambraccio l’a. interossea volaris. 

Circa le altre arterie da principio STIEDA 3° credè che omodinamica della 
a. tibialis (posterior) fosse Va. radialis, ma in seguito, accostandosi alle 
vedute da ZUuckKERKANDL °° ritenne la a. tibialis corrispondere alla a. me- 
diana dell’avambraccio e sostenne non essere rappresentata l’a. radialis 
nella gamba altro che da rami musculares. 

Lo stesso leggesi in QuaIn ?°. 

Però in un precedente mio lavoro sopra la morfologia dei vasi nel- 
l’arto addominale, sostenni che, dal momento che nell’arto stesso entra- 
vano dalla cintura due arterie: preassiale l’una (a. femoralis) postassiale 
l’altra (a. ischiadica) le quali nella serie dei vertebrati e nell’embrione stesso 
della nostra specie si sostituiscono, come ha dimostrato HocHSTETTER, 
alternativamente nel grado di arteria princeps, senza però che dell’altra 
spariscano le traccie, era logico ricercarle ambedue nella gamba e nel 
piede e non una sola. 

Dimostrai allora come la a. saphena magna fosse da ritenersi rappre- 
sentare il seguito della a. preassiale (a. femoralis), mentre della a. postas- 
stale, coinvolta nello sviluppo delle masse muscolari flessorie, più difficili 


erano a ritrovarsi le traccie. Ciò nondimeno ritenni che essa seguitasse 


tibialis possono venire considerate come l’origine prematura delle aa. metacarpea I 
e metatarsea I. Esistono infatti casi di anomalia nell’Uomo, e disposizioni nor- 
mali nei Primati nei quali tale fatto è reso più evidente da una forte riduzione 
nel calibro di quei vasi. i 


È 
ian Letti nitriti dritti 


Pen 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 181 


nella gamba con le diramazioni satelliti del nervo peroneo e con l'a. 
saphena parva. 

Ora contro l’asserzione che l’a. radialis non sia rappresentata nella 
gamba, posso opporre per adesso i fatti seguenti. Essi sono desunti 
dall'esame delle disposizioni vascolari dei.due arti 
in un Primate del genere Macacus. 

Arto toracico. — La circolazione dorsale della 
mano è provveduta dalla a. radialis. 

Questa arteria scende in basso, sottocutanea, 
costeggiando il lato preassiale (radiale) dell’ arto 
e, giunta a breve distanza dalla mano, si divide 
in due rami: uno palmare ed uno dorsale. 

Il ramo palmare, più grosso, va alla palma 
della mano ove si unisce alla a. mediana per co- 
stituirne la circolazione. 

Il ramo dorsale, giunto alla mano riceve l’ana- 
stomosi della a. interossea e termina dividendosi 


Fio. 10. 


nelle due aa. carpeae medialis, e lateralis. 

Arto addominale. — La circolazione dorsale del 
piede è provveduta dalla a. saphena. 

Questa arteria, sorpassato il condilo mediale 
del femore scende in basso sottocutanea costeg- 
giando il margine preassiale (tibiale) dell’ arto e, 
giunta a breve distanza dal piede, si divide in due 
rami: uno plantare ed uno dorsale. 

Il ramo plantare si anastomizza con una esile 
a. tibialis postica, ramo della a. poplitea e forma 
il circolo plantare. 

Il ramo dorsale, giunto al piede riceve l’ana- 
stomosi della a. tibialis antica e della a. peronaca —Arteriae. dorsales  del- 
(ramus perforans), e termina dividendosi nelle due a cia” 
aa. tarseae, medialis e lateralis. 


e ì 4 I, A. interossea; R, A. ra- 
L’a. tarsea medialis (tibialis) perfora il 1.° dialis; CM, A. carpea 


spazio intermetatarseo, generalmente molto grossa, ERA Agi GAI 
per prender parte anch’ essa al circolo plantare. 

L’a. carpea lateralis (radialis) dà anch'essa un ramo il quale perfora 
il 1.° spazio intermetacarpeo, per anastomizzarsi col circolo palmare. 

In realtà questi rami perforanti sono omologhi a tutti gli altri che 
sì dipartono da ogni arteria metacarpea e metatarsea. 


182 


G. SALVI 


Da quanto ho esposto mi sembra adunque logico concludere che 


Fia. 11. 


Arteriae dorsales della gamba 
di Macacus. 


TA, A. tibialis antica; S, A. 
saphena; TL, A. tarsea la- 
teralis; 71M, A. tarsea me- 
dialis; P, A. peronaea. 


l’ultimo tratto della a. radialis, equivale nei 
Primati all’ ultimo tratto della a. saphena. 

Vediamo ora se gli stessi ragionamenti 
si possano applicare all’ Uomo. 

Data l’ omologia fra la disposizione della 
mano dell'Uomo e quella del Primate, è logico 
asserire che anche la a. radialis di quello sia 
omodinamica alla «a. saphena di questo. Ove 
però si confrontino fra di loro le disposizioni 
dei due arti dell'Uomo, noi ci troviamo di fronte 
nel piede ad una a. saphena rudimentaria e ad 
aa. tarscae le quali provengono invece dalla @. 
tibialis antica. Però, se tale apparente diversità 
esiste allo stato normale, vi sono le anomalie 
che riportano le due disposizioni allo stato pri- 
mitivo di perfetta omodinamia. 

Dimostrò infatti Popowsky 8 che la conti- 
nuazione nell’ Uomo delle aa. plantares con la 
a. tibialis postica proveniva dalla riduzione jdel 
ramo plantare della a. saphena e dal conse- 
guente sviluppo della normale anastomosi che 
riuniva al segmento distale di questo, la termi- 
nazione della a. tibialis postica. 

Dimostrai altra volta, doversi allo stesso 
modo la continuazione nell’Uomo della a. dor- 
salis pedis con la a. tibialis antica alla riduzione 
del ramo dorsale della a. saphena (costante come 
rudimento nell’uomo) ed allo sviluppo della ana- 
stomosi con la quale ad essa si unisce in tutti i 
mammiferi provvisti di a. saphena, la termina- 
zione della esile @. tibialis antica. Hirm1,!* Du- 
BRUEIL,°° PopowsKY,4* ecc. dimostrarono infine 
potersi la primitiva disposizione della a. saphena 
ristabilirsi tale e quale nell’ Uomo come anomalia. 


Nello stesso modo procedono i fatti nell’arto toracico. 
L’a. interossea volaris fattasi dorsale si divide in rami ascendenti 


e in rami discendenti. I primi si anastomizzano con l’a. înterrossea dorsalis, . 


po 


ARTERIAE DORSALES CARPI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 183 


gli altri con l’u. radialis o più comunemente col suo ramus tarseus me- 
pialis. In tal modo l’a. ènterossea dorsalis, omodinamica della a. tibialis 
antica, comunica con le arterie del dorso del carpo. 

Ove si ammetta sviluppata abnormemente questa anastomosi e atro- 
fizzata invece la a. radialis si ha esattamente riprodotta la disposizione 
vascolare del piede (confrontinsi a tale scopo le figg. 6 e 9). 

Nè alla mano si arrestano le prove di rassomiglianza e di omodi- 
namia fra l'a. saphena magna e la. radialis. 

L’a. saphena, nella sua disposizione tipica, quale si presenta nei 
Primati ed in altri mammiferi, e nell’ Uomo (allo stato rudimentario ) 
normalmente, giunta alla gamba si divide in un ramo plantare ed uno 
dorsale, i quali si anastomizzano respettivamente con l’a. tibialis postica 
e l’a. tibialis antica. 

L’a. radialis normalmente nell’Uomo passa per la maggior parte al 
dorso della mano mentre alla palma non invia che l’esile ramus radio- 
volaris. ta 

Però lo studio delle varietà insegna che il ramus radio-volaris 
può essere di frequente più grosso dell’ordinario (a somiglianza di quello 
che avviene in molte scimmie) fino a raggiungere il volume del tronco 
dorsale ed anche a superarlo. 

In altri casi, e nelle mie osservazioni ne ho trovati 2, i due rami 
sono dello stesso volume, ma si separano l’uno dall’altro molto più in 
alto, fino circa la metà dell’avambraccio. 

I due rami poi si anastomizzano rispettivamente con la. interossea 
e con l’a. mediana omodinamiche alla loro volta dell'a. tibialis antica 
e dell’a. tibialis postica. 

Esistono infine casi di varietà nell’ Uomo per i quali l’a. radialis de- 
corre superficiale come quella delle scimmie. 


In base quindi allo studio delle disposizioni normali, dell'Uomo e 
dei Primati, in base alle varietà umane la maggior parte delle quali 
rientrano nella categoria di quelle per inversione di volume, mi sembra di 
poter concludere che nell’ultimo segmento degli arti v'è perfetta omodi- 
namia fra le disposizioni arteriose. 

Le arterie dorsali del carpo, aa. carpeae dorsales (lateralis, medialis) 
corrispondono a quelle del tarso, aa. tarseae dorsales (medialis, lateralis). 

Di più l’ultimo segmento della a. radialis corrisponde per posizione, 
rapporti e distribuzione a quello della @. saphena. 


IT 


18. 
19. 
20. 
21. 


22. 


23. 
24. 


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46. SperINO C. L’Anatomia del Chimpanze. Torino. 

47. FaLconE C. Sulla distribuzione delle arterie nella mano dell’uomo. Atti Soc. 
Romana di antrop. Vol. 1. 1894. 

48. Popowsky. J. Phylogenesis des Arteriensystems der unteren Extremittten 

bei den Primaten. Anat. Anz. VIII, 1893. 
Id. Das Asteriensystem der unteren Extremitàten bei den Primaten. Anat. 
Anz. X. 1894. 

49. Sanvi G. Arteriae superficiales e arteriae comitantes della estremità inferiore 

Monitore Zool. Ital. Anno I. N. 2-3. 1899. 


Dott. PAOLO VINASSA de REGNY 
LIBERO DOCENTE DI GEOLOGIA NELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA 


———e__—_&k 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 


ce -———u 


STUDIO IDROGEOLOGICO 


.... Uliveto coi salutiferi 
Lavacri sonanti, con l’ampia : 
Fatica e il grido dei minatori. 


Più di sessant’ anni fa EmANUELE REPETTI nel suo celebre dizionario *) 
parlando del bellissimo Monte Pisano, che sorge direttamente dall’ampia 
ed ubertosa pianura dell'Arno, così si esprimeva: “ Situato nel mezzo 
a due celebri e popolose città, che colle sue limpide e perenni acque 
si dissetano; fiancheggiato da due grandi fiumi e dal maggior lago della 
Toscana; coperto nei suoi fianchi e nell’insenatura dei suoi valloncelli 
da alberi di alto fusto, da selve di castagni, da vigneti e da oliveti; 
popolato a mezza costa, e presso alla sua base da più di 40 parrocchie, 
da numerosi villaggi e borgate; reso ridente da frequenti palazzi e case 
di piacere, in un’ atmosfera tepida e"balsamica, può senza dubbio dichia- 
rarsi il Monte Pisano una delle più deliziose e delle più popolate mon- 
tuosità d’Italia ,. 

Il Monte Pisano sorgendo così ad un tratto dalla pianura, e privo 
di montagne vicine colle quali paragonarlo, ha l’aspetto assai imponente; 
tuttavia l'altezza delle più eccelse vette non oltrepassa mai i mille metri. 
Ecco qui infatti, riportato dalle Carte dell’ Istituto militare, un pro- 
spetto delle altezze principali della catena: 


Monte Serra 2). 3 . : ‘ . metri 918 
Monte Pruno ; : 5 : ; ‘ » 870 
Spuntone di S. Allago . . 6 ò ; » 866 


1) Dizionario geografico, fisico e storico della Toscana, III, pag. 460. Fi- 
renze 1839. i 

?) Così segnato sulle carte militari; ma il nome appartiene invece a località 
prossima: il punto più alto si chiama La Oroce dei Termini. 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 187 


Monte di Faeta . E i ? ; . metri 829 
Monte Verruchino ; x i - - wall. 
Monte Cimone . . ; 7 : i ; » 704 
Punta della Dolorosa . ; } È - » 680 
Monte Lombardone ') . ; 3 : : » 638 
La Verruca ; x ; B È ; » 536 
Monte Maggiore . È È è 5 3 » 454 


Seguono poi le minori altezze, come ad es. i Monti Bianchi o delle 
Cave la cui punta più alta arriva a m. 291 ed il Monte Castellare alto 
appena m. 163. 

Nella parte che guarda l’ Arno, la porzione certamente più bella e 
più pittoresca, sono numerosi paeselli, che si specchiano con grazia 
civettuola nell’ Arno, o si arrampicano su per le falde del Monte, 
mezzo nascosti trai lussureggianti uliveti, che danno sul grigio giallastro 
della roccia una macchia di verde argentino. Nella valle profonda di Calci 
si adagia questa grossa borgata, che tiene tuttora nell'industria e nella 
agricoltura un posto importante. 

In un punto solamente il Monte Pisano si spinge innanzi verso l'Arno, 
ed immerge quasi le sue pendici nel fiume. Anzi, prima che imponenti 
lavori di arginatura avessero costruito una terra artificiale, sulla quale 
oggi sorgono estesi fabbricati ed un vasto ed elegante giardino, il fiume 
scorreva a ridosso del monte, dando appena passaggio alla strada pro- 
vinciale di Piè Monte. Ed in tempi ancora più antichi il passaggio tra 
Arno e Monte era così piccolo, ché appena vi capiva un sentiero, per 
la qual cosa i viaggiatori che da Pisa andavano a Vico discendevano di 
vettura e facevano a piedi il punto scabroso. 

È precisamente in questo luogo, nel quale il Monte sta a ridosso 
del fiume, che sorge l’ameno paesello di Uliveto, celebre per le sue 
acque fredde e termali. 

Uliveto da pochi anni a questa parte non si riconosce più assolu- 
tamente. Là dove scorreva l’Arno a ridosso della strada, ora mediante 
grandi piloni è stata creata una fertile terra ove verdeggiano spaziosi 
giardini. Ed eleganti costruzioni, ogni anno aumentate, fanno pensare 
con commiserazione a quei meschini fabbricati, che un giorno davano 
alloggio ai frequentatori delle sempre celebri terme di Uliveto. 


1) Non segnato sulla carta militare; si trova rappresentato da due punte 
colle quote 631 e 638 sotto il Passo di Prato Arreto, così segnato sulla carta, 
e che invece è Prato alto, in vernacolo Prat’ Erto o Prat’Arto. 


188 P. VINASSA DE REGNY 


La ferrovia che passa a brevissima distanza dallo Stabilimento e che ha | 


prossime a questo le tre fermate di Cascina, S. Frediano e Navacchio; il tram 
a vapore Navacchio-Calci, che a Caprona, a poca distanza dalle terme, ha 
una fermata, sono comodissimi sistemi di trasporto per recarsi ad Uliveto. 

Del resto poi le strade, come in generale quelle di tutto il Pisano, 
sono in ottimo stato di manutenzione, e non mancano nei vari paesi 
comode ed eleganti vetture. 

I bagni di Uliveto e con essi la fonte dell’acqua destinata alla bi- 
bita sono conosciute sino dall’antichità. Già sino dal 970 negli antichi 
statuti pisani si parla di Oliveto, e dei bagni si fa menzione certa in 
un documento del 1286. 

Il RePETTI così parla nel suo già citato Dizionario (pag. 763) di Uli- 
veto: “ Dove il monte declina verso la riva destra dell’Arno, sulla strada 
di Piedimonte o Vicarese, esiste una chiesuola detta di S. Martino al 
Bagno Antico. Il nomignolo le venne da un bagno, presso il fiume Arno, 
del quale fa menzione lo Statuto Pisano del 1285 al Libro IV, rubrica 
28 sotto il vocabolo di Bagno della Carrajola. Allora esso era sotto la 
tutela del Comune di Pisa, talchè il Podestà doveva ordinare ai cava- 
tori delle vicine cave che invece di gettare nell’Arno li spurghi delle 
dette cave, dovessero questi portarli nel piano del Bagno situato sopra 
l’Arno, onde meglio conservarlo; finalmente ivi si ordinava di far ripu- 
lire quanto occorreva il Bagno e la Fontana dagli uomini del Capita- 
nato di Piedimonte, per modo che maschi e femmine vi si potessero 
"comodamente bagnare ,. E nella piccola chiesina di cui parla il REPETTI, 
esiste tuttora questa epigrafe: 


SAN MARTINO AL BAGNO 
ANTICO PADRONATO DI 
CASA LANFREDUCCI RESTA- 
URATA DAL PRIOR DI PAVIA 
COM. DI FAENZA PALERMO 
E MONTEFIASCONE 
F. FRANCESCO LANFREDUCCI 
L'ANNO MDCV. 


Il documento di cui parla il RePETTI è riportato dal BonaInI !), ed 
è del seguente tenore: 


1) Stat. ined. della città di Pisa. Breve Pisani Communis, An. MOCLXXXVI, 
Liber quartus XXVIII. 


pae 79” 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 189 


De Balneo Carcaiole 

Et teneamur nos Potestates et Capitanei, quo infra duos menses ab in- 
troitu nostri regiminis, faciemus eligiì per Antianos duos prudentes viros: 
quos electos ère compellemus ad balneum Carcajole, qui debeant providere 
quanta terra est utilis et necessaria dicto balneo privatarum personarum, 
per latitudinem et longitudinem que est ibì a lateribus ipsius balnei; et 
ipsam terram extiment, vel faciant extimari secrete per aliquos legales 
viros, eligendos ab eis, antequam inde discedant; et alia que ibi fieri opor- 
tent, provideant pro hominum utilitate et personarum que in dicto balneo 
balneari voluerint. Et secundum provisionem inde factam, dictam terram 
ememus, vel emi faciemus pro Communi pisano de bonis pisani Communis. 
Et dictam terram ibi habentes compellemus vendere, et tradere Communi 
pisano pro extimatione praedicta. Et magistratos et cavatores lapidem 
contrate dicti balnei, infra predictum terminum, coram nobis vel assessori 
nostro venire faciemus. Quos jurare compellemus, et eos cogemus proicere 
ghiariam quam proiciunt de petraris corum in Arnum, proicere a balneo 
supra, ad hoc ut ipsum balneum impodietur, et melius conservetur; ad 
penam librarum decem denariorum, tollendam ab eis qualibet vice qua 
contra fecerint. Et quod balneum et fontanam cavari faciemns per homines 
capitanie Pedemontis quotiens expedierit, ita quod homines et foemine se 
m co possint comode balneare. 


Dal suesposto documento si rileva che la maggior parte del terreno 
circostante ad Uliveto è costituito dai detriti delle cave, oggi limitati 
esclusivamente alla porzione occidentale del paese. 

Il bagno e la fontana del documento su citato, già da avanti il se- 
colo XIII erano adunque conosciuti e stimati, e continuarono senza in- 
terruzione ad essere frequentati. Col tempo vennero aumentati i comodi 
a favore dei bagnanti, ma sempre in misura limitata. Così in una pub- 
blicazione del 1883 !) si diceva che sino a pochi anni avanti nella sta- 
gione estiva si costruivano rozze capanne attorno alle pozzanghere nelle 
quali si facevano i bagni. Ed il prof. TassinARI e MARCHETTI che ana- 
lizzarono tanto le acque termali quanto quelle per la bibita nel 1874 
dicevano, che le acque sgorgavano da un fondo melmoso. 

Oggi le acque termali sono regolarmente incanalate e condotte a 


1) Le acque gassose-acidule-alcaline con Litina alle antiche terme di Uliveto. 
Pisa, Tip. Pieraccini, 1883. 


190 P. VINASSA DE REGNY 


DS 


vasche di marmo, e la sorgente dell’acqua destinata alla bibita è con 
somma cura racchiusa in un forte condotto in muratura, ed il riempi- 
mento delle bottiglie, sterilizzate sul luogo stesso ove vengono riempite, 
avviene in un elegante locale tutto rivestito di marmo. La sorgente poi 
è priva di chiavetta di chiusura cosicchè l’acqua ne sgorga continua- 
mente con notevole portata, e viene così impedita qualunque formazione 
di deposito alla chiusura. i 

Questi nuovi lavori dovuti alle cure serupolose che il proprietario 
cav. uff. Grassi MARIANI ed il direttore sanitario dott. Innocenzo FEL- 
LoNI hanno apportato, secondo i dettami scientifici moderni, alla sorgente, 
modificarono, migliorandola, la costituzione chimica dell’acqua stessa. 
È più che naturale infatti che se nel 1874, quando l’acqua cioè sgor- 
gava da un fondo melmoso, si rinvenivano tracce di materie organiche, 
ammoniaca ecc. sia pure in minima quantità, oggi tali tracce siano in- 
teramente scomparse. ì 

La prima analisi di TassimaRI e MarcHETTI infatti dava i seguenti 
risultati: 


Acqua calda. Temperatura 32976 — Densità 1,0046 
Ocra sospesa gr. 0,0118 


SO, ò 7 . c È 6 . gr. 0,818270 
NO, o 3 2 ; : i i? tracce 
CIOrO RI PR RI, 1) ZE o ORIGINE 
Iodio . - : : 5 c Sao tracce 
CO, . : . È 3 1 °°» 11056495 
Potassio , È : c È o tracce 
Sodio . x i È S : . » 0,696200 
Ammoniaca, . È ‘ TRE DR gua tracce 
Litio 0 A dIUL. SIANO SUL Tai MONO NDS 
Magnesio 7 È . È c +.» 0,110270 
Calcio . i ‘ ) ; 5 . » 0,648820 
Fosfati . - ; o O È . » 0,005000 
Silice . > 3 . ; 5 . » 0,035800 
CO, libera . : € 2 o . >» 0,703174 
CO, dei carbonati acidi. —. . —». » 0,774763 


Per l’acqua fredda destinata alla bibita l’analisi diede i resultati 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 191 


seguenti i quali poco differiscono da quelli ottenuti per l’acqua calda. 
Temperatura: 23° — Densità: 1,0034 
Ocra sospesa . . gr. 0,0026 

SO, . . i. ; i ci . gr. 0,241440 
NO; 2 $ . ; è 3 Sia tracce 
Cloro . 7 ; ; : 7 . »  0,195440 
Todio . , è : ; ; EEA) tracce 
CO, : 7 È È È o feta 1094574 
Potassio . 3 c 7 c ; ala tracce 
Sodio . ; - x z : . » 0,424724 
Ammoniaca . ; È i c DM tracce 
Litio . c È : o : . » 0,0006306 
Magnesio z - o o È . » 0,035676 
Calcio . 0 c : c È . » 0,507640 
Fosfati . 5 ” c ; ‘ « » 0,004500 
Silice . ò ) ; c c . » 0,020300 
coberogi e e ann 03016290 
CO, dei carbonati acidi. . 3 . » 0,8026685 


Da queste analisi venne dedotta la seguente composizione delle due 
acque, per ogni litro: 


Acqua calda Acqua fredda 
Solfatoxsodico,, ce pa le 0 «+. sa, 1,2103370 0, 3971371 
Cloruro sodico... +... . + + 0,7737210 0, 3220542 
» ICCOR Re NEeee  ON019t28 _ 
ll ‘‘magnesiaco! |. . . . . 0. 0,3046507 - 
Carbonato magnesiaco . . . . . . 0,1165710 0, 1248618 
» calcieogfinia ir liz ia n Said, 6220500 1, 2691000 
» SOdICORMI Ne e eo on _ 0, 4261571 
» LI CONA IA — 0, 0033337 
alluminico 
Fosfati | terrosi DETRITI 07000000 0, 0045000 
\ ferrico 
SIR i AR tan 0;,0358000 0, 0203000 
COS berot ae ee e at La 070310 0, 3916292 
CO, dei carbonati acidi . . . . . . 0,7747630 0, 8026854 


Nîtrati, ioduri, sali di potassio, ammo- Ì 


niaca e sostanze organiche . 


tracce tracce 


Come si vede adunque da queste analisi, nel 1874, avanti cioè che 
fossero fatti gli importanti lavori moderni, in queste acque, sia pure in 
quantità minima, esistevano nitrati, ammoniaca e sostanze organiche. 


192 ‘ P.: VINASSA. DE REGNY 


Mi sono quindi rivolto all’ egregio prof. Avrony dell'Istituto chimico 
universitario di Pisa, uno dei consulenti chimici dello stabilimento, per 


avere da lui nuovi dati sulle analisi, che il proprietario fa eseguire pe- 


riodicamente. È questo un lodevole uso, che vorremmo seguìto da tutti 
i proprietari di sorgenti medicinali, in esecuzione anche al deliberato 
della commissione convocata a Roma nel 1896 per discutere e formu- 
lare lo schema di un progetto di legge per le acque di uso medico ed 
igienico. L’egregio prof. ANTONY è stato così cortese da ripetere nuo- 
vamente le analisi per-ciò che si riferiva alle sostanze organiche, all’ am- 
moniaca ecc. Dalle nuove analisi è risultata una mancanza assoluta, 
tanto delle sostanze organiche quanto della ammoniaca, dei nitrati e dei 
nitriti. Questo risultato, naturalissimo quando si considerino i lavori fatti 
per rendere assolutamente isolata la sorgente, è anche confermato dal- 
l’analisi batteriologica eseguita dal. prof. GASPERINI; analisi che ha di- 
mostrato esser l’acqua di. Uliveto una delle più pure tra tutte le acque 
medicinali italiane. 

La temperatura delle acque, tanto delle termali quanto delle fredde 
è rimasta identica. Quella delle acque calde è ancora di circa 34°. Della 
acque fredde si hanno due sorgenti staccate, le quali differiscono di poco 
tra loro nella temperatura. Dapprima, avendo esse identica composi- 
zione chimica, le due sorgenti erano mescolate e destinate a fornir 
l’acqua per la bibita: oggi esse sono separate. L'una più fredda, la 
cui temperatura è 22° circa, è destinata al riempimento delle bottiglie; 
l’altra ha una temperatura di circa 25° ed è destinata alla bibita nello 
stabilimento stesso, ove la Direzione sanitaria la destina a quelle spe- 
ciali malattie che richiedono anche un grado superiore di temperatura. 


Le sorgenti di Uliveto sono poste lungo una linea diretta da SSE. 
a NNW. Quella destinata alla bibita sgorga a circa 4 metri sotto il li- 
vello della strada, ed a nemmeno 5 metri di distanza dallo affioramento 
superficiale della roccia calcarea del Monte Pisano. Ora poichè tale roc- 
cia è inclinata verso l’Arno, così si può ben dire che la sorgente sgorga 
dal vivo sasso. 

Prima di vedere la natura geologica di questa acqua e di ricercarne 
l'origine, sarà utile di dare un rapido sguardo alle rocce che costitui- 
scono i Monti Pisani, e prevalentemente a quelle poste in immediata 
vicinanza della sorgente. 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 193 


Il Monte Pisano sino dall'epoca di PaoLo SAVI si sapeva costituito 
da tre sorta di rocce: la Breccia da Macina più antica, alla quale se- 
guiva il Calcare e quindi il Macigno. Questo non comparisce però nella 
regione studiata attorno ad Uliveto e di esso non parleremo. La Breccia 
da Macine venne dal Savi chiamata Verrucano, perchè cavata preva- 
lentemente dalle rupi della Verruca, ed il nome venne universalmente 
adottato. Il Verrucano costituisce la massa più estesa ed il nucleo di 
tutto quanto il Monte Pisano. Esso è costituito prevalentemente da tre 
qualità di rocce. La vera breccia da macine, detta anche anagenite e 
puddinga quarzosa è la roccia più rara. Se ne trovano bellissime masse 
specialmente presso al diruto castello della Verruca. Essa è costituita 
da ciottoli di quarzo bianco o nero, grossi quasi come una nocciola, ce- 
mentati tra loro da un rilegamento in gran parte micaceo, ma anche 
quarzoso. Gli altri tipi più comuni sono l’Arenaria quarzitica e lo scisto 
o fillade anagenitica. Tali rocce furono recentemente studiate dal prof. 
A. D’AcHIARDI in una sua importante memoria !). Tutta questa massa 
di Verrucano appartiene al Paleozoico. Alcuni vollero ritenerla più re- 
cente, ma i fossili, specialmente piante, che per somma ventura si rin- 
vennero in vari punti di questa grande massa, accennano ad una età 
che possiamo ascrivere od al Carbonifero superiore od al Permiano. 
Sopra a questa grande massa, che, come dicemmo, va considerata come 
il nucleo di tutto quanto il Monte Pisano, seguono dei calcari di età 
diverse. Tali calcari in alcuni punti sono compatti, biancastri, talvolta 
fossiliferi: questi calcari appartengono al Lias, e non si rinvengono nei 
dintorni di Uliveto. Qui invece si trovano dei calcari magnesiferi, ceru- 
lei o grigi, in alcuni punti porosi, o meglio cavernosi, in altri punti 
compatti, raramente fossiliferi, riferiti all’infralias, e che compaiono qua 
e là in masse isolate più o meno grandi, di cui certo la maggiore è 
quella sovrastante ad Uliveto. Tali masse calcaree si rinvengono ai Bagni 
della Duchessa presso Asciano, poi sopra Agnano, quindi da Caprona 
sino a Lugnano e sono la massa più estesa; compariscono poi, ad oriente di 
Lugnano, al Monte Castellare, dopo del quale si perdono assolutamente. 

Tali calcari furono analizzati dallo StAGI ?) il quale vi rinvenne i corpi 
seguenti: 


1) Le Rocce del Verrucano nelle valli d’ Asciano e d’ Agnano nei Monti Pi- 
sani. Atti Soc. tose. Se. nat. (Memorie), Vol. XII, pag. 139. 

?) Ricerche chimiche sui calcari dei Monti Pisani. Atti Soc. tose. Se. nat., 
I, pag. 72. 


[| 


194 P. VINASSA DE REGNY 


Caprona Asciano 
Anidride carbonica .. . . . . 43,350 41,920 
Anidride solforica . . . . . . 0,012 0,009 
Ossido di calcio . . . . . . 53,200 51,092 
Ossido di magnesio . . . . .° 1,428 1,040 
OSSICORICLEOSO MR RO N I RO 02 0, 224 
OSsidoBfertico RR N AT OO). 0,300 
Idrogeno solforato... . . . . tracce tracce 
ACQUA MT I PRO I86 1,930 
Sostanze bituminose . . . . «+ 0,509 0,405 

99, 967 — 96,920 


Rispetto alla sua tettonica il Monte Pisano, salve alcune modifica- 
zioni e complicazioni, si può dire precipuamente costituito da una grande 
cupola ellissoidale: nei dintorni immediati di Uliveto si trova il calcare 
dolomitico cavernoso inclinato verso SW., ed anche le filladi e le Ana- 
geniti del. Verrucano hanno all’incirca la stessa inclinazione. Oltrepas- 
sando però di poco più che 1 km. la Verruca si ha negli strati una 
inclinazione opposta. Data questa inclinazione del calcare, se esso fosse 
impermeabile, l’acqua piovana scorrerebbe tutta lungo gli strati; ma 
l'assorbimento avviene a causa della cavernosità e delle grandi fratture 
che traversano la massa calcarea. 

Della regione immediatamente circostante ad Uliveto si troverà in 
fine a questa nota una cartina geologica al 25 mila. In essa è segnato 
il Verrucano il quale occupa la porzione principale. Esso a N. ed a E. 
si continua per altre grandi estensioni; a W. va a terminare nel piano 
delle due Zambre; a SW. e a S. poi viene a contatto del calcare ca- 
vernoso, salvo che presso Lugnano e Cucigliana, ove viene quasi a con- 
tatto dell'Arno. Il confine del Verrucano è quasi esattamente segnato 
dal torrente che scende a Crespignano venendo dalla :C. Focetta per 
il versante occidentale; e per l’orientale segue pure il torrente che da 
C. Focetta arriva poco più a Nord di Noce: da qui risale al'di là della 
valletta di Noce sin presso C. S. Paolo dietro al Monte Bianco, poi 
piega bruscamente in direzione dell’Arno, scende verso Lugnano se- 
guendo per un poco il torrente; più in basso però tutto quanto il tor- 
rente è scavato negli scisti verrucani, inclinati con fortissima pendenza 
di circa 50° a WSW. Dopo, come dicemmo, il Verrucano si spinge sin 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 195 


verso l’Arno, e non è più interrotto che dal calcare cavernoso del M. 
Castellare sopra S. Giovanni alla Vena. 

Il calcare cavernoso forma adunque tutto il M. Bianco, poi il M. delle 
Cave o Monti Bianchi. In questa massa però si possono distinguere al- 
cuni piani, e cioè il calcare cavernoso infraliassico, gli strati con Avicula 
contorta ed il cosidetto Dachstein. 

Il calcare cavernoso è il più esteso: esso arriva lungo la via di Pie- 
dimonte sino presso la S. Annunciata; ricomparisce poi a Nord nello 
sprone caleareo che termina a Caprona. Ad esso segue una zona ricurva 
di un calcare che contiene qualche mal conservato fossile, tra cui è fa- 
cilmente riconoscibile 1’ Avicula contorta caratteristica del Retico. Sopra 
a questi strati viene un calcare privo di fossili, che semplicemente per 
ragioni stratigrafiche si riferisce al Dachstein. 

Il calcare fossilifero si rinviene pure ad Asciano ed al M. Castellare. 


Il Savi ed il MenEGHINI !) crederono poter riconoscere tra i fossili i ge- 


neri: Terebratula, Myophoria, Cerithium, e Turbo; ed il senatore CAPEL- 
LINI ?) per il primo giudicò infraliassici gli strati di Caprona, e sincroni 
con quelli della Spezia da lui splendidamente illustrati. 

Finalmente presso Caprona, nelle spaccature del calcare cavernoso, 
sì trova una breccia calcarea postpliocenica con avanzi di ossa di mam- 
miferi, e si trova pure abbondante la terra rossa, che del resto riempie 
ì crepacci e ricopre la superficie di tutto quanto il calcare. La breccia 
fu originata per effetto di acque cariche di carbonato calcare, scorrenti 
a traverso i meati e le fessure della roccia calcarea, e che impastavano 
gli avanzi degli organismi colà vissuti. Quanto alla terra rossa essa è 
certamente di origine idrica, come spero aver agio di poter dimostrare 
in un prossimo lavoro. 

Tutto il resto della pianura è dovuto alle alluvioni dei fiumi e tor- 
renti, ma prevalentemente dell’Arno. 

Al di sotto della pianura al di là dell'Arno, il calcare cavernoso si 
continua: infatti, come ho già detto in una mia precedente nota *), per- 
forandosi dei pozzi artesiani a S. Casciano a m. 32 di profondità si trovò 
la viva roccia calcarea. Un taglio ideale a traverso il M. Pisano, pas- 


1) Consider. sulla geolog. stratigraf. della Toscana, 1851, pag. 290. 

2) Studi sull’infralias del Golfo della Spezia. Mem. Acc. Sc. Bologna, se- 
rie II, Vol. 1, pag. 312, 317. 

3) I pozzi artesiani nel Comune di Cascina. Boll. Soc. geol. ital., Vol. XVII, 
pag: 232. 


Sc. Nat., Vol. XVII 14 


Frizzi =t=i=t2Avno” 


SI -Sorgenle di Uri veto 


196 P. VINASSA DE REGNY 


sando per la Verruca, ci presenterebbe l’aspetto indicato nello schizzo 
seguente, nel quale si vede il calcare cavernoso del M. delle Cave, ap- 
poggiarsi quasi concordante sulle rocce sottostanti del Verrucano, scisti, | 


quarziti ecc. 


N 
n 
(>) 
2 
= 
x 
= 

TI 

Ù 

Ù 
D 
i 


Rio, 
-Rio. 


lupz--------- 


do -------Vdi Focefta. 


\ 


4, si SSW Livello del Mare 
GZAVER 


[OR] 
AVCANO EScusc caverna EE ALLuvione 


Sezione geologica da Montemagno alla pianura dell’Arno 1 :25000. 


CY 
\ 


Come ha giustamente osservato De STEFANI !) le rocce del Verrucano 
per essere schistose subiscono delle contorsioni fitte e ripetute, che non 
appariscono mai nel soprastante calcare più rigido, meno plastico. Questa . 
secondo De STEFANI è la ragione per la quale le rocce sembrano di- 
scordanti, mentre in realtà non lo sono. Sta il fatto però che sino oltre 
la Verruca la massa del Verrucano è inclinata più o meno fortemente 
verso l’Arno, e che il calcare cavernoso vi si adagia sopra con inclina- 
zione, ed anche direzione diversa. 

La cima più alta presso Uliveto è la Verruca; da qui lo spartiacque 
a W. scende sopra Crespignano; poi a N. si volge verso il Lombardone 
e la Punta Dolorosa, ad E. scende verso la C. Campo dei Lupi e Cu- 
cigliana. Il bacino è limitato, i torrenti sono pochi e pochissimo impor- 
tanti; quasi nulle le sorgenti nella regione del Verrucano ; quanto alla 
massa calcarea la possiamo dire a dirittura priva di acque. 

È naturale quindi che tutta la grande massa d’acqua che cade an- 
nualmente in questo bacino deve essere assorbita e venire alla luce sotto 
la forma di sorgente. 

Va poi osservato che la inclinazione degli strati del Verrucano verso 
Arno contribuisce ad inviare al calcare anche buona parte di quell’acqua 
che il Verrucano stesso riceve. 

Ora il calcare, impermeabile di per sè stesso, è una delle roccie che 
più facilmente si imbeve d’acqua, la quale circola traverso alle nume- 


1) Geologia del M. Pisano. Memorie R. Comit. geol. Vol. II. 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 197 


rose fessure e fratture, e nel suo percorso si carica di sostanze chimiche 
diverse, che essa a lungo andare discioglie. 

Ora il calcare cavernoso, come quello che sovrasta ad Uliveto è una 
perfetta spugna per le acque piovane, che a traverso le porosità ed i 
meati di esso vanno sino a raggiungere notevoli profondità, circolano 
per condotti inesplorati ed a noi ignoti, e vengono poi per misteriose 
vie alla superficie, cariche di sostanze minerali spesso di somma utilità 
medica. 

E che anche nel caso di Uliveto sia il soprastante calcare cavernoso 
il deposito ed il fornitore prevalente delle acque termali e fredde è per 
me fuori di dubbio. Basterà notare che precisamente presso ad un’altra 
massa dello stesso calcare cavernoso, non molto lontano da Uliveto, si 
trovano altre fonti medicamentose. 

E che nel calcare cavernoso del M. Pisano abbiano sino dai tempi 
più remoti, avuto le acque grande influenza, lo prova la cavernosità 
stessa del calcare, derivata, come ben disse DE STEFANI !), dalla solu- 
bilità diversa dei componenti la roccia: così il primo a disciogliersi è 
il carbonato calcare, al quale segue più tardi il magnesiaco; e nelle cel- 
lette rimaste vuote le acque hanno spesso successivamente deposto cal- 
cite cristallina purissima. Altre prove delle azioni delle acque sono le 
numerose grotte in genere assai comuni ed alcune anche celebri; così 
ad es. quella di Cucigliana, ricca di avanzi fossili molto importanti e 
studiati. Altre grotte servono oggi da ottime cantine. Graziosamente 
poetica è la grotta del Pippi, che si apre a pochi metri sopra ad Uliveto, 
oggi purtroppo pericolosa per il continuo distacco di massi dalla volta, 
e della quale un poeta °), mio caro maestro, cantò: 


Si apre, da lungi fosca, nel grigio 
Monte la grotta, figlia dei secoli, 
In forma di loggia superba 
Ovver d’antica scena deserta. 


A tre sublimi archi continuo 
S’affaccia il sole, come di porpora 
Le rocce disegnansi e come 
Glauchi arabeschi le stalattiti. 


1) Geologia del M. Pisano, pag. 68-69. 
2) MANNI, Rime. Firenze, Chiesi 1880. 


198 P. VINASSA DE REGNY 


Quieto innanzi si volve il cerulo 
Arno, fiorenti, beati stendonsi 
I memori piani di Pisa» 
Sino all’ estrema Livorno e al mare. 
E sotto arride, bello agli occidui 
Soli, Uliveto. 


E se tali grotte si rinvengono all’esterno è probabile siano numerose 
anche nell’interno della massa calcarea, e aiutino così la circolazione ed 
il deposito delle acque. Queste adunque, circolando nella massa calcarea, 


fanno un lungo cammino, scendono a notevoli profondità, si caricano 


cammin facendo di svariati composti chimici, che l’analisi ci svela anche 
in minime quantità, e finalmente trovano una frattura che le riporta alla 
luce. 

Se là ove tali acque sboccano, possano venir raccolte in modo che 
non risentano l'influenza di acque superficiali, esse possono 
a dirittura dirsi ottime, poichè sgorgano dopo aver fatto tale cammino 
a traverso le masse rocciose, che nessuno strumento di filtrazione riu- 
scirebbe a dare lo stesso risultato. 

Ma, come già dicemmo, oltre le acque assorbite dalla massa calcarea 
del M. delle Cave, per la stratificazione, inclinata verso Arno, di. tutti 
quanti gli scisti e le quarziti verrucane anche le acque che cadono in 
questo bacino sono portate al basso. Le acque cadendo trovano tutte le 
testate degli strati volte verso l’alto, cosicchè possono penetrare tra strato 
e strato, imbevere le rocce permeabili, scorrere lungo le impermeabili 
e discendere giù giù verso l'Arno, sempre caricandosi di sostanze chi- 


miche che disciolgono lungo il loro percorso, ed aumentando di tempe- 


ratura e di pressione. 

Ammettendo, cosa molto probabile, che le rocce verrucane si conti- 
nuino con la medesima inclinazione sotto al calcare cavernoso, si può 
calcolare che presso Uliveto si debbano trovare a poco più;di 200 metri 
di profondità. Sopra di esse sta la massa calcarea, piena di fratture, che 
anch’essa porta al basso le sue acque, e presenta poi dei meati adat- 
tatissimi a riportare alla superficie le acque che dal basso cercano uno 
sfogo. 

Riprendiamo adesso le analisi delle acque di Uliveto, e guardiamo i 
corpi che in essa si contegono. Vi troviamo sodio, litio, potassio, ma- 
gnesio, calcio, alluminio, ferro, silice, solfati e carbonati insieme ad 
acido carbonico libero. 


LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 199 


L’analisi del calcare di Caprona, fatta dallo StAGI e riportata più 
sopra, ci dice intanto che nel calcare cavernoso si hanno carbonati di 
calcio e magnesio e dei solfati; ci dice pure che vi si trova del ferro 
in quantità assai notevole. Il ferro invece disciolto nell'acqua di Uliveto 
è pochissimo; l’acqua però porta seco dell’ocra di ferro sospesa. 

L’analisi dello StAGI non poteva servirmi da sola potendo essere stati 
trascurati alcuni corpi, sian pure in quantità minime, ma che interes- 
sano il geologo, poichè le acque che a grandi temperature e con forti 
pressioni in masse notevoli stanno a contatto delle rocce disciolgono 
parte di tali sostanze, che sono poi le più importanti per le loro virtù 
medicamentose. E perciò ho creduto bene ricorrere nuovamente alla cor- 
tesia del gentilissimo prof. AntoNY, acciò ripetesse l’analisi qualitativa 
sommaria del calcare di Uliveto, del quale avevo scelto opportuni 
campioni. 

L’analisi ha confermato in gran parte quelle precedenti, ed ha 
dimostrato che il calcare è alquanto argilloso. Nella porzione solubile 
in acido cloridrico manca quasi del tutto il litio. Esso però si rinviene 
nella parte inattaccabile dall’acido; in fatti nel prodotto della disgrega- 
zione la linea del litio si riscontra chiaramente allo spetroscopio. Sotto 
l’azione dell’acqua e dell'anidride carbonica il silicato si scompone ed 
il litio passa nelle acque come bicarbonato. 

Le rocce del Verrucano studiate dal D’AcHIARDI hanno svariati com- 
ponenti, i quali tutti possono avere ceduto all’acque circolanti una pic- 
cola parte. Oltre al quarzo ed a vari sali di ferro, si notano in esse la 
muscovite, specialmente sericite, la biotite, la clorite, la paragonite, poi 
lo zircone, il rutilo, il granato, l’apatite, la tormalina. 

Si ha come si vede una buona quantità di minerali, non certo molto 
facilmente solubili, ed a questi le acque potrebbero anche aver preso le 
sostanze meno rappresentate nei componenti solidi disciolti nell’ acqua 
della sorgente. 

Così l'alluminio ed il potassio, di cui si rinvennero tracce potrebbero 
pure esser derivati della soluzione delle rocce verrucane, così il litio 
potrebbe provenire dalle miche e dalle tormaline, così le tracce di fo- 
sfati dall’apatite. 

La piccola quantità di tutti questi prodotti sta a dimostrare che 
le acque hanno dovuto attaccare corpi difficilmente solubili, o che essi 
si trovavano in quantità minima nella roccia imbevuta. 

Quanto al cloruro di sodio non è bisogno che io rammenti com’esso 


MITO i - 
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200 P. VINASSA DE REGNY 


sia diffusissimo in tutte le rocce marine, e specialmente nelle rocce 
triassiche. Onde la sua origine dal calcare cavernoso è indubitata. 

Va notato però che l'alluminio, il litio,.il potassio son corpi diffu- 
sissimi ovunque sulla terra. Quanto al litio si sa che moltissime sono 
le rocce che lo contengono, ond’ è comune nelle sorgenti in piccole quan- 
tità, e da esse passa nei fiumi, nel mare e nei suoi depositi, come dimo- 
strò il DIEULAFAIT. Esso del resto è contenuto nel calcare cavernoso. Lo 
stesso dicasi dei fosfati di cui si può asserire ogni roccia porti le tracce. 

Per queste ragioni adunque nulla si può decidere se anche le acque del 
Verrucano si uniscano a quelle del calcare cavernoso. Le ragioni stra- 
tigrafiche farebbero propendere ad ammettere questa mescolanza; i ri- 
sultati. chimici, mentre non apportano conferma, nemmeno però fanno 
contro a tale idea. ; 

Rispetto poi alla anidride carbonica questa si rinviene nelle acque 
di Uliveto in quantità notevolissime, avendosi, nelle acque fredde, di ani- 
dride dei carbonati acidi gr. 0,8026854 e di anidride libera arrivan- 
dosi a gr. 0,3916292 per ogni litro. 

L’origine dell’anidride carbonica è dalla maggior parte degli autori 
ascritta all’anidride dell’aria che si discioglie nelle acque meteoriche. . 
Così le acque piovane cariche di CO» penetrano nella roccia, cominciano 
ad attaccarla chimicamente ed a formare dei carbonati solubili. Tali 
soluzioni poi, continuando l’acqua a circolare sempre più nel profondo 
con aumento di temperatura e di pressione, agiscono chimicamente sem- 
pre con maggior potenza. È indubitato che a grandi profondità con 
pressioni e temperature notevoli, con grandi masse d’acqua, a lungo an- 
dare di tempo devono avvenire reazioni potenti e ben superiori e di- 
verse da quelle dei nostri laboratori. La presenza in quantità di anidride 
carbonica libera nell’acqua di Uliveto non si può poi spiegare, come ha 
fatto il prof. CoccHI per l’acqua di Sangemini *), con un passaggio di 
essa acqua a traverso ad un suolo vegetale e ad un terreno ricco di 
sostanze organiche, mancando esso nei dintorni di Uliveto. E questo non 
è certo una disgrazia. Non si può ammettere quindi tale anidride libera 
che considerandola immessa nella sorgente da soffioni di questo gaz. 
Ed infatti si trovano presso alle sorgenti di Uliveto dei veri e propri 
soffioni di acido carbonico misto ad aria. Il prof. TAssINARI e ‘MARCHETTI 
che analizzarono anche questo gaz trovarono in 100 ce. 


1) Le sorgenti di Sangemini. Atti V. Congresso idrol. e climatol. Firenze, 
1898. 


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LA SORGENTE ACIDULO-ALCALINO-LITIOSA DI ULIVETO 201 


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Tali soffioni sboccano assai numerosi nelle diverse polle ed è per 
me indubitato che son essi quelli che forniscono l’acido carbonico alle 
acque termali e fredde. Quanto all’origine di tali soffioni forse non è 
difficile che essi prendano il loro gaz dalla risultanza delle reazioni 
della grande massa d’acqua acidulata sopra il calcare. 

Ed ora mi resta a dire due parole sulla temperatura delle acque in 
questione. Si sa in generale che 30 o 40 metri di profondità o 
di addentramento nella roccia danno un aumento di 1° di calore, oltre 
ad un certo punto di temperatura fissa. Ponendo a 16° la media della 
temperatura esterna, noi dovremmo arguire che la sorgente fredda che 
segna 22°, provenga da una profondità di 180 o 200 metri; la sorgente 
più calda, a 25°, proverrebbe da 270-300 metri, mentre per la sorgente 
calda a 33° dovremmo ammettere quasi 600 metri di profondità. Ora 
credo che non vi sia niente affatto bisogno di supporre un’origine così 
profonda per le acque di Uliveto. Certamente le reazioni chimiche che 
avvengono nelle profondità devon servire a dare il calore a tali acque. 
La composizione, identica delle due sorgenti a 22° e 25°, ci dimostra che 
l’unica differenza della temperatura è «da ricercarsi probabilmente soltanto 
nella differenza di profondità. Per l’acqua termale però, la maggior quan- 
tità dei sali disciolti ci fa supporre non tanto maggior profondità quanto 
più attive reazioni chimiche. Se l'aumento di calore fosse dovuto solo 
alla profondità, allora non vi potrebbe più essere alcun dubbio che le 
acque del Verrucano vengano a contatto con quelle del calcare, poichè 
a tale profondità si devono quasi certamente rinvenire le anageniti, le 
quarziti e gli scisti che servono di base al calcare cavernoso. 

Anche per le acque di Montecatini l’ing. ZAccAGNA ammette, onde 
spiegare il maggior calore, che le reazioni chimiche abbiano grande in- 
fluenza, oltre alla profondità dalla quale provengono le acque. 

® 


Le conclusioni che si possono ricavare dallo studio sin qui fatto sono 
molte ed importanti. Ci limiteremo ad accennare le principali. 

1° — L’acqua di Uliveto ha veramente diritto di chia- 
marsi alcalina, in quantochè, a differenza di altre acque impro- 


202. — ‘’P. VINASSA DE REGNY 


‘ 


priamente dette alcaline, in essa si trovano la soda e la litina. 
ed anche in quantità assai notevole. 

22 — Tale acqua deriva tutta quanta dall’ assorbimento 
delle acque meteoriche che cadono sullg massa del cal- 
care infraliassico, e forse anche da quelle assorbite dalle prossime 
rocce verrucane. 

3. — Le acque passano a traverso una potente massa di 
centinaia di metri di roccia, che funziona da ottimo ed in- 
superabile filtro. La loro temperatura infatti ci dimostra che pro- 
vengono da notevole profondità. 3 

4.° — L'anidride carbonica libera è data dai soffioni di questo gaz, 
che sono comuni nella regione delle sorgenti: la sua origine parte può 
ripetersi da quella disciolta nell'atmosfera, parte può essere il prodotto di 
reazioni chimiche sul calcare. Una origine da materie organiche, 
come fu ammessa per altre acque, è assolutamente da escludersi, 
e ciò a tutto vantaggio della salubrità dell’ acqua di Uliveto. 

5.° — La vicinanza immediata del Monte, il fatto anzi che la sor- 
gente è nella viva roccia pone l’acqua di Uliveto in una invidia- 
bile superiorità rispetto alle altre acque, non essendo possibili 
inquinamenti dal soprasuolo. 

6.° — La piccolissima estensione intercedente tra il monte e l’Arno, 
impedisce che possano venire inquinamenti alla sorgente. Inoltre essa 
sbocca al di sopra del livello normale dell’ Arno, onde 
nessun inquinamento potrebbe in ogni caso venirle arre- 
cato dalle acque fluviali o da altre freatiche. 

7. — A differenza di altre sorgenti che sgorgano lontane dal monte 
e in mezzo a letti di argille, l’acqua di Uliveto, sgorgando dal 
monte stesso, non ha da temere gli inquinamenti probabili 
in causa di qualche frattura nei banchi di argilla, frattura 
che può mettere a contatto coll’ acqua medicamentosa altre acque della 
pianura soprastante. i 

8° — La sorgente di Uliveto, situata nel punto più stretto 
tra l’Arno ed il Monte, può colla mass@ma facilità difendersi 
da qualunque inquinamento; e, non avendo presso di sè alcuna 
estesa pianura, non ha da temere nessun danno dalle acque 
superficiali. 


Bologna, dal Regio Istituto geologico della Università, 
diretto dal Sen. G. Capellini — Marzo 1900. 


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E. MANASSE 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 


La presenza all'isola d’ Elba di specie appartenenti al gruppo delle 
zeoliti fu notata la prima volta dal prof. A. D’AcHIARDI *), il quale, fra 
molti minerali provenienti dal granito di S. Piero in Campo, riconobbe 
la stilbite, 1’ heulandite, e un’altra sostanza pure idrata, che l’autore, 
stando ad un’ analisi eseguita nel laboratorio chimico del Bechi, ravvi- 
cinò con grande incertezza alla cookeite. E di questa distinse una forma 
lamelloso-cristallina lucente e altra in foggia di croste quasi compatta, 
luna e l’altra sempre però al di sopra delle tormaline. 

Più ampia descrizione di queste specie diede poi lo stesso autore 
sia in un’altra memoria pubblicata nel Boll. del Com. geologico ?), sia 
nella Mineralogia della Toscana *). 

Il vom RatH *) si occupò della stilbite e dell’heulandite, confer- 
mando pienamente tutto quanto su queste due specie era già stato detto 
dal prof. A. D’ACHIARDI; e si occupò pure, in special modo anzi, di un’altra 
zeolite, che per le analisi fatte ritenne specie nuova, cui diede il nome 
di foresite. La sostanza lamelloso-cristallina, che ricopre le tormaline 
di una crosta di lucenti scagliette e che fu da A. D’AcRIARDI ravvicinata 
alla cookeite dietro un’analisi fatta da altri e forse non troppo cor- 
retta, per confronto fattone poi con lo stesso prof. A. D’AcHTARDI sugli 
esemplari originali, non risultò che foresite. Se cookeite vi abbia sarà 

‘ 

1) Minerali nuovi per l’Elba. Nuovo cimento, serie 22, vol. V-VI, giugno 1872. 

2) Lezeoliti del granito elbano. Boll. R. Com. geol., vol. V, 1874, pag. 306-312. 

3) Mineralogia della Toscana. Vol. II, pag. 113-118, Pisa 1873. 

4) Sulla Foresite, nuovo minerale della famiglia delle zeoliti rinvenuto nelle 


geodì tormalinifere dell’isola d’ Elba. Boll. R. Com. geol. d’Italia. Vol. V, 1874, 
pag. 239. 


Sc. Nat., Vol. XVII 15 


204 E. MANASSE 


se mai sotto l’altra forma, non sotto questa che rientra nella nuova 


specie del vom RATA. 

Oltre A. D’AcHIARDI e il vom RATE contribuirono con belli studi al- 
l'illustrazione delle zeoliti elbane il GrATTAROLA e il SAnsoNI, al primo 
del quali in special modo devesi la conoscenza di altre specie, non sol- 
tanto nuove fino allora per l’isola d'Elba, ma anco per le altre località, 
ove più abbondano i minerali zeolitici. Ed infatti oltre la cabasite 1), 
dal prof. GRATTAROLA ritrovata subito dopo la scoperta della stilbite, 
dell’heulandite e della foresite nello stesso granito tormalinifero dei din- 
torni di S. Piero in Campo, dal GRATTAROLA stesso si rinvennero l’idro- 
castorite ?), l’orizite, la pseudonatrolite 3); quest’ ultima ad un primo 
sommario esame scambiata per natrolite per la sua grande rassomi- 
glianza con questa specie, da cui differisce però per la composizione 
chimica. 

Il SansoNI 4) infine si occupò pure delle zeoliti del granito di S. Piero 
in Campo. Avvalorò il suo studio con numerose analisi fatte da lui 
medesimo o in collaborazione col prof. GRATTAROLA ?) e da tutto trasse 
valido argomento a sostenere l'origine idrica non solo, ma secondaria 
delle zeoliti, in ciò d’accordo col prof. A. D’ACcHIARDI 6) e contrariamente 
all'opinione dei signori PuLLé e Capacci ?) e dello stesso vom RATE *). 

Ho così riassunto per sommi capi tutto quanto fu scritto sulle zeo- 
liti elbane. È da notarsi però che mentre per la maggior parte di esse 
nulla oggi sarebbe da aggiungersi per l’esatta interpretazione loro data 
dai diversi autori, per altre invece, come la stilbite e la foresite, esi- 
stono ancora non poche incertezze sulla loro cristallizzazione e se deb- 
bano considerarsi o no come specie distinte. La stilbite o desmina, già 


1) Sopra alcuni minerali dell’isola d’ Elba non ancora descritti 0 accennati. 


Boll. R. Com. geol. d’Italia. Vol. III, 1872, pag. 288. 


2?) Minerali nuovi o poco conosciuti dell’ Elba. Boll. R. Com. geol. d’Italia. 


1876. N. 7 e 8, pag. 323. 


3) Orizite e Pseudonatrolite, due nuove specie del sottordine delle zeoliti. 


Atti (memorie) della Soc. Fosc. di Sc. nat. Vol. IV, 1879, pag. 227-232. 


4) Sulle zeoliti dell’isola d’ Elba. Atti (memorie) della Soc. Tosc. di Sc. nat. 


Vol. IV, 1879, pag. 311-325. 


5) Studi chimici sopra l Heulandite e la Stilbite. Atti (memorie) della Soc. 


Tosc. di Sc. nat. Vol. IV, 1879, pag. 173-176. 
6) Memoria citata. 
7) Un viaggio nell’ arcipelago toscano. 1874. 
8) Memoria citata. 


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LI 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 205 


x 


creduta trimetrica, è oggi per generale consenso ritenuta clinoedrica; 
ma mentre i più la riferiscono al ‘sistema monoclino, non mancano altri, 
come il LANGEMANN !), che la ritengono triclina. Il LANGEMANN stesso 
però rimane incerto circa la risoluzione del problema se le apparenze 
ottiche, che tale gliela fecero ritenere, siano da considerarsi come se- 
condarie o come inerenti all’originario edifizio del cristallo. La foresite 
fu giudicata trimetrica dal vom RATA, ma intanto il Des CLOIZEAUX ?) 
la ravvicina alla stilbite per l’abito di cristallizzazione e per l’ottico 
contegno; e gli altri che la ricordano poi nei trattati, come il DANA ), 
l’Hinmze 4), la ravvicinano pure alla stilbite, considerandola tutto al più 
come una sua varietà. Aggiungasi che nelle analisi non si ha mai per 
l’una e per l’altra specie perfetta concordanza, onde la ragione dei dubbi 
che ancora restano sui loro mutui rapporti di parentela. 

Pertanto avendo a mia disposizione nel Museo di Pisa un abbon- 
dante materiale di queste zeoliti proveniente dai dintorni di S. Piero 
in Campo, mi determinai a intraprenderne nuovamente lo studio, nella 
speranza di risolvere taluno almeno di quei dubbi e sopratutto la que- 
stione se foresite e stilbite sieno specie distinte o no. 

L’esame delle due sostanze, associate fra loro intimamente negli 
stessi esemplari e in modo da non lasciar dubbio sulla loro simultanea 
origine secondaria, presentantisi con caratteri appariscenti notevolmente 
diversi, l’una, la foresite, in scagliette bianco nivee, l’altra, la stilbite, 
in aggregati e incrostazioni cristalline giallognole, lascia subito l’impres- 
sione che spettino a due specie diverse, non comprendendosi altrimenti 
la ragione per la quale una stessa sostanza nelle medesime condizioni 
di cristallizzazione si dovesse presentare in modo tanto diverso. Per- 
tanto la necessità di ripeterne più e più volte le analisi, per vedere il 
valore che debba attribuirsi a certe apparenze fisiche che fecero a ta- 
luno considerare i due minerali l’uno come varietà dell’altro e come 
appartenenti entrambi alla medesima specie. 

Il mio lavoro è quindi prevalentemente chimico e per ciò, prima di 


1) Beitrige zur Kenntniss der Mineralien: Harmotom, Phillipsit und Desmin. 
Neues Jahrbuch fiir Mineralogie, Geologie und Paleontologie. 1886, II Band. 
Zweites Heft, pag. 83. 

?) Neues Jahrbuch fiir Mineralogie. 1876, pag. 640. 

3) The System of Mineralogy. 1892, pag. 585. 

4) Handbuch der Mineralogie. Zweiter Band, 1897, pag. 1823. 


206 E. MANASSE 


procedere alla descrizione di queste due specie, dirò poche parole in- 
torno al metodo tenuto nelle analisi’ loro. 

Un unico metodo, semplicissimo del resto, mi valse ugualmente per 
le zeoliti analizzate, poichè identicamente costituite qualitativamente da 
acqua, silice, allumina, calce e soda. 

L’acqua totale fu determinata dalla perdita in peso all’arroventa- 
mento fino a peso costante. Allorquando fu determinata la perdita del- 
l’acqua a diverse temperature furono prese nelle relative pesate le mag- 
giori precauzioni a causa dell'estrema facilità con cui le zeoliti assor- 
bono, quando non siano state completamente arroventate, l'umidità 
atmosferica. 5 

Per la determinazione della silice, dell’allumina e della calce oc- 
corse sottoporre le zeoliti alla disgregazione con ‘carbonato sodico-po- 
tassico, poichè se l’acido cloridrico concentrato attacca fortemente tanto 
la stilbite, quanto la foresite, non le attacca completamente. 

Per la determinazione quantitativa della silice il prodotto della fu- 
sione con carbonato sodico-potassico fu ripreso con acqua prima, indi con 
acido cloridrico concentrato e fu scaldato a bagno-maria fino a secchezza 
completa per 12 ore circa. Fu ripresa la massa disseccata con acqua 
acidulata di acido cloridrico e sul filtrato ripetuta più volte la mede- 
sima disseccazione. Con tal sistema la silice rimase quasi completamente 
indietro e, raccolta e lavata, fu pesata. Sempre poi ne fu verificata la 
purézza sottoponendola a trattamento con fluoruro ammonico e acido- 
solforico. 


Il liquido separato dalla silice fu trattato dapprima con cloruro am- 
monico, indi con idrato ammonico e scaldato a un lento calore fino quasi 
ad eliminazione di ammoniaca. Per tal modo precipitò l’idrato allumi- 
nico, che, raccolto, fu ridisciolto in acido cloridrico e sul liquido otte- 
nuto fu ripetuto il trattamento con cloruro e idrato ammonico. Questo 
secondo trattamento fu necessario per eliminare le piccole quantità 
d’idrato calcico che nella prima precipitazione potevano avere accompa- 
gnato l’idrato alluminico. Lavato allora questo e seccato fu arroventato 
e pesato come ossido. Per verificare la purezza dell’ allumina fu questa 
fusa con bisolfato potassico, indi ripreso con acqua il prodotto della fu- 
sione e il residuo (trascurabili tracce quasi sempre), dovuto a silice, fu 
detratto dal peso totale dell’allumina ed aggiunto al peso trovato per la 
silice. 

Nel liquido alcalino separato dall’allumina versai ossalato ammonico, 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 207. 


scaldando a un lieve calore e lasciando a sè il tutto circa 12 ore. Rac- 
colto e lavato l’ossalato calcico così formatosi, fu fortemente scaldato in 
crogiuolo di platino, ove, dopo raffreddamento, aggiunte poche gocce di 
acido solforico, fu trasformato in solfato. E come solfato fu il calcio 
pesato, dopo avere cacciato l’ eccesso di acido solforico dapprima scal- 
dando lentamente in muffola, indi anche direttamente arroventando un 
poco. 

Per la determinazione della soda fu sottoposta la polvere zeolitica 
al disgregamento con fluoruro ammonico prima a un debole calore, a 
più forte calore indi; e, cacciato in tal guisa completamente il fluoruro 
ammonico in eccesso, furono ricondotti i fluoruri metallici a solfati, per 
mezzo di acido solforico concentrato, scaldando in muffola lentamente 
prima, indi anche arroventando. La massa dei solfati così ottenuti fu 
disciolta a caldo in acido cloridrico concentrato. Ottenutane la soluzione 
furono precipitate, con i metodi già indicati, allumina e calce; e, sepa- 
rate dal liquido, questo fu evaporato a secchezza, arroventato, onde po- 
tesse perdere tutti i sali ammoniacali presenti nella soluzione per la 
precipitazione di allumina e calce, e trasformato poi in solfato con poche 
gocce di acido solforico; del quale tolto l’eccesso al solito in muffola, 
fu il sodio pesato come solfato. 


Stilbite. 


Nelle druse tormalinifere del granito di Fonte del Prete trovasi la 
stilbite in forma di rivestimento o per lo meno sempre cristallizzata 
al disopra dei minerali originari delle druse stesse insieme a foresite, 
heulandite e altri silicati idrati, i quali tutti, sia per la loro costitu- 
zione, sia per il modo loro di presentarsi ci attestano la loro origine 
secondaria. 

I minuti cristallini abitualmente laminari, sempre geminati, sempre 
di un colore bianco-giallognolo, lucenti per splendore madreperlaceo, 
sono costantemente associati in fasci con disposizione radiale, dando 
luogo a modi diversi di aggruppamento, ora in foggia di sferule, manne 
e govoni, quali furono ricordati da quanti prima di me descrissero la 
stilbite elbana, ora d’incrostazioni quali sono comunissimi negli esem- 
plari da me esaminati, e nei quali in foggia di setti spesso paralleli 
fra loro, sembrano conservare ancora nel loro insieme la forma schele- 
trica dei cristalli di feldispato, dalla cui alterazione in parte almeno 
derivano. 


208 E. MANASSE 


Disfacendo con la pressione questi aggruppamenti, come quando si 
comprimano fra due lastroline porta-oggetti, sieno essi dell’uno o dell’altro 
tipo, si ottengono esilissime laminette, prevalentemente allungate in una 
direzione, che è quella dei raggi degli aggruppamenti stessi. Queste la- 
minette osservate al microscopio appaiono scolorite, trasparenti e, se an- 
cora in parte non distaccate l’una dall’altra, se ne può misurare l’an- 
golo di divergenza che è piccolissimo. 

Disponendosi esse sulla lastrolina porta-oggetti a seconda dell’ una 
o dell’altra delle due facce più estese e parallele fra loro, se integre, 
ci appaiono rettangolari dall’una estremità (quando gli angoli non sieno 
terminati come generalmente avviene, da faccette oblique e simmetri- 
camente disposte dalle due parti), appuntite invece a bietta triangolare 
dall’altra, che concorre al centro dell’irraggiamento. Se infrante si con- 
figurano secondo il punto della rottura, e più che altro secondo il fram- 
mento osservato. 

Ben osservando le lamelle cristalline si vede che alcune sono real- 
mente rettangolari e altre, le più, tali appaiono soltanto. Abitualmente 
i cristallini sono geminati e facce riconoscibili in essi sono le {001}, {010}, 


5110} e {101}. L'abito prismatico dei cristalli devesi al loro allunga- 
mento a seconda dello spigolo (001) :(010) come nei feldispati, la lami- 
nosità al prevalente sviluppo di {010}. Le facce {110} sono generalmente 
poco sviluppate e talvolta mancano affatto; solo in qualche caso pren- 
dono però notevolissimo sviluppo. Grande estensione hanno generalmente 


invece le facce {001} e {101} che per fare angolo fra di loro di 89°, 30° 
determinano l’ apparente rettangolarità delle lamine cristalline. 

Se queste siano adagiate per una faccia basale {001} appaiono allora 
semplici e rettangolari per la mutua inclinazione ortogonale degli spigoli 
(001) : (010) con (001) :(101) o simmetricamente troncate agli spigoli 
per la presenza di lati corrispondenti a (110) :(001). In questo caso anzi 
è facile vedere nella loro inclinazione le faccette del prisma {110}, che 
talora, caso però assai raro, sono sviluppate tanto da far sparire le {101}. 

Ordinariamente però i cristallini giacciono sulla lastrolina porta- 
oggetti, su cui è stata sparsa la polvere cristallina, per una faccia {010}, 
sia perchè queste facce sogliono avere prevalente sviluppo, sia perchè 
è questo il piano più facile di sfaldatura, ed è quindi secondo di esso 
che si separano le lamelle, che poi si osservano al microscopio. Queste la- 
melle appaiono sempre geminate a piano di geminazione (001), con di- 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 209 


rezione quasi simmetrica di estinzione dall'una e dall’altra parte della 
linea di unione ad angolo piccolissimo, che non raggiunge o passa di 
poco i 5°; ed infatti nella stilbite il piano degli assi ottici è parallelo _ 
a {010} e la bisettrice acuta inclinata sull'asse OX di circa 5°. In questa 
direzione di estinzione corre l’asse delle vibrazioni di maggior velocità, 
onde il carattere ottico negativo. 

In alcune lamelle cristalline delle più complete si osserva anche la 
compenetrazione a croce degli individui geminati, onde a nicols incrociati 
esse appariscono divise in quattro settori, che si estinguono alternativa 
mente. Il contorno di queste lamelle giacenti su {010} è al solito in re- 
lazione alla presenza e sviluppo delle sopraindicate faccette di }001}, 
{101} e {110}. 

Nessuna distinzione di forma sono riuscito a riconoscere fra le la- 
melle derivanti dai più resistenti aggruppamenti sferici o a govone e 
dalle più facilmente disgregabili incrostazioni. Nelle une e nelle altre 
si han sempre le forme della stilbite. Presso che uguale ho pur tro- 
vato il peso specifico, e, cioè, 2,07 nelle prime, 2,09 nelle seconde; 
inferiore quindi a quanto fu trovato dal vom RATE *) (2,207). 

Malgrado tale rassomiglianza e di queste e di quelle volli fare ac- 
curate analisi per vedere se una qualche differenza chimica non secon- 
dasse il diverso abito di aggruppamento cristallino. 

Al minerale abitualmente incrostante disposto a setti cristallini spet- 
tano le analisi I-IV. La I e la II si riferiscono a una stessa polvere, 
per la quale determinai anche la soda; ad altra polvere la III e la IV. 
Al numero V è riportata la media delle quattro analisi e al numero VI 
son date le proporzioni centesimali della composizione teorica (com- 
putando a calce la soda presente) secondo la formula H*(Na?, Ca) 
Al?Si50!3 + 4H?0, data dal DANA ?) o l’altra (Na?, Ca) AI?Si*015 -- 6H?0 
data dal Grote *), Hintze 4) ecc. secondo che tutta l’acqua o in. parte 
soltanto si consideri di cristallizzazione. 


1) Memoria citata. 

2) Opera citata. 

5) Tabellarische Uebersicht der Mineralien ecc. 1898, pag. 166. 
4) Opera citata. 


210 E. MANASSE 


I lil III IV V VI 


H?0° 17890 18,050 IT: 61° 17, 48017 SO 
SO? 56,25 56,35 56,78 57,01 56,59 57,64 
Al*0* 17,36 17/280 18,19 (18 1° 17073406 
(OO RE A O LO RA CE, 


SH 
NASO rta 1,73 TT, Ia 


— 


100, 39 100,86 100,96 101,20 100,83 100,00 


Con l’interpretazione data dal CLARKE !) alla struttura molecolare 
della stilbite, delle sei molecole di acqua svelate dall’ analisi due sol- 
tanto dovrebbero considerarsi come facenti parte integrante della mo- 
lecola stilbitica e quattro come di cristallizzazione, onde, raddoppiando 
la formula, si avrebbe: 


AO 
AlI-Si0*= H? 
NSiO5 He i 
| 
Ca + 8H°0 


|, 
Si°0° = Ca 
AI Si*0*= H? 
\Si®0* AI 


Ad ammettere l’acqua come in parte di costituzione non portereb- 
bero le recenti e numerose ricerche del FRIEDEL, almeno per quelle zeoliti 
da lui studiate, come l’analcima ?), la cabasia 8), il mesotipo 4). Il FRIEDEL 
considera in esse tutta l’acqua come interclusa nel reticolato molecolare, 
non fissa quindi, ma mobile e soggetta ad essere eliminata e ripresa in 
condizioni differenti senza che lo stato cristallino della zeolite sparisca. 


1) The Constitution of the Zeolites. American Journal of Science. Vol. XLIII, 
sept. 1894. Di 

2) Sur quelques propriétés nouvelles des zéolithes. Bulletin de la Société 
Frangaise de Minéralogie. Tome XIX, 1896, pag. 94. 

3) Nouveaux essais sur les zéolithes. Bulletin de la Société Frangaise de Mi- 
néralogie. Tome XXII, 1899, pag. 5. 

4) Nouveaux essais sur les zéolithes (suite). Bull. de la Soc. Frangaise de 
Minéralogie. Tome XXII, 1899, pag. 84. 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 211 


Io feci alcune prove circa la perdita dell’acqua subìta da questa 
zeolite a diverse temperature fino a peso costante, considerando come 
costanti due pesate successive anche se diverse solo di gr. 0,0002. Tali 
prove concorderebbero bene per questa stilbite con la formula di strut- 
tura ammessa dal CLARKE, quando si consideri come acqua di cristal- 
lizzazione quella perduta alla temperatura di 250° circa e come acqua 
di costituzione quella perduta a temperature superiori. Pongo qui a 
confronto le proporzioni di acqua, che si calcolano dalla formula del 
CLARKE (I), nel concetto che l’acqua di cristallizzazione e di costituzione 
sieno eliminate rispettivamente a 250° e a temperature superiori, con 
quelle da me appunto ottenute a codeste differenti temperature (II): 


I II 

Remus b0bale e 0 LT, 2000 LT, DD 

Acqua perduta sotto 250° . . 11,47% 11,87% 
A E SOPra 2002 90 5, 68%/o 


Riporto qui sotto i risultati ottenuti circa la perdita di acqua alle 
varie temperature eseguita su gr. 1,8181 di sostanza: 


è; Perdita °/o 
Nell'essiccatore {in'12' pormi). 0 1,09 
Dar TON e e e ce 1 LI 80 
MAE ORO RN TO 


È NA n ina Aes opa (6 sr 
€ BA ai RE CAPIRE e O Ae RE (1) 
ECRRCON CULI ORI E I e LI, dI 


In altre prove potei constatare che parte dell’acqua perduta ad una 
data temperatura può essere ripresa lentamente quando si esponga la 
polvere della stilbite alla temperatura dell’ambiente. Così questa zeolite 
scaldata fino a peso costante a 235° perse l’ 11, 72°/0 del suo peso; per- 
dita che si ridusse dopo esposta la zeolite all'aria (temperatura dell’am- 
biente) per 24 ore circa al 2,79°/o. Arroventata invece e indi esposta al- 
l’aria la sostanza non riprese che 0,0004 sopra gr. 1,4928 su cui feci 
la prova e anche messa in contatto di acqua questa se ne andò tutta 
alla temperatura di 100°-105°. Esaminata la polvere al microscopio dopo 
arroventamento, non mi riuscì più scorgere alcuna forma cristallina, 
ma tante massarelle biancastre, informi, non aventi nessuna azione sulla 
luce polarizzata. 


212 E. MANASSE 


Questo diverso contegno mi proverebbe che quest’ultima acqua non 
dovesse considerarsi nello stesso modo della prima, e verrebbe in ap- 
poggio della sopra allegata struttura molecolare. 

Secondo le numerose esperienze che il FRIEDEL *) eseguì su varie 
specie zeolitiche queste non solo possono riassorbire l’acqua perduta a 
una data temperatura, ma anche altre sostanze, fra le quali non ultima 
l’aria atmosferica; onde la determinazione dell’acqua delle zeoliti fatta 
per la semplice perdita in peso alle diverse temperature, eccezion fatta 
di quella d’arroventamento (nel qual caso perdono esse la proprietà di 
riassorbire acqua e altre sostanze), non è secondo il FRIEDEL stesso ri- 
gorosamente esatta. Nelle prove ch'io feci sembrerebbe che anche la 
stilbite avesse la proprietà di sostituire parte almeno della sua acqua 
con l’aria atmosferica. Infatti, scaldata essa a 120° perse il 2,38 °/o 
del suo peso, ma lasciata raffreddare nell’essiccatore e tenutavi 16 ore 
la perdita si limitava a 1,63°/o e dopo 20 giorni raggiungeva soltanto 
0, 71°/o; inoltre parzialmente disidratata a 160° perse 7,02% e la- 
sciata per 16 ore nell’ essiccatore la perdita in peso era soltanto di 
4, 09; a 220° la perdita era 11,:56°/, e dopo 16 ore nell’ essiccatore 
era soltanto 8,53°/. Se le diverse pesate, anzichè farsi ad intervalli 
di ore, si fanno entro pochi minuti, le differenze che si notano per le 
diverse pesate sono minime; tali quindi da farci accorti che 1’ assorbi- 
mento dell’aria atmosferica, per parte di questa zeolite almeno, avviene 
lentamente molto; onde, pur andando incontro ad errori per la deter- 
minazione dell’acqua alle varie temperature fatta per semplice perdita 
di peso, tali errori, prendendo le dovute precauzioni, sono minimi. 

Anche del minerale in sferule e in altre apparenze fasciculate feci 
pure quattro analisi su due polveri diverse (I e II) (III e IV); analisi 
che unitamente alla media loro (V) qui sotto riporto: 


1 TI III IV V 
H?0 14,88. 14, 79; I TA, 198 MIRI 
Si0? 61ASO N 6106 19 62 ore 
AI?03 148314788 A09,12) Io 2400001 
Ca 0 6, 46 6, 63 TELO) 6, 80 6,74 
Na?0 RTS 1,78 2,04 2,04 1,90 


99, 75. 99,68 100,76 100,31 100,11 


1) Memoria citata. 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO ZI 


La perdita dell’acqua determinata sopra gr. 0, 7810 di sostanza fu 
alle varie temperature la seguente: 


Perdita °/, 


J'essiccatoreNGaroz giorni) 0), 2,07 
TIVI ti rt RES Dl tl e e o 
i OO a A OA 
° RR i ao ia MAI 
a SANA eni io 08 
Ù gf 6 ROOT RA A E E VD) 


Bear venigmento i ot. i cole 14,98 


Inoltre osservai pure per questa zeolite che l’acqua perduta da essa 
a una temperatura qualsiasi poteva essere in gran parte ripresa a tem- 
perature inferiori. Così potei osservare che la zeolite che alla tempera- 
tura di 180° aveva perduto il 4, 97° del suo peso, abbassata la tem- 
peratura a 85°, aveva in gran parte riassorbito l’acqua, poichè la perdita 
in peso si era ridotta a 2,22°/,; ed esposta in seguito all’ aria, alla tem- 
peratura di 11° circa, la perdita in peso si limitava a 0, 10°. E mentre 
alla temperatura di 340°-345° essa aveva perduto il 12,92°/ del suo 
peso, abbassando dopo avere scaldato a 340°-345°, la temperatura a 180° 
la sua perdita era un poco inferiore e uguale a 11,67°/o. Arroventata 
infine ed esposta lungamente (26 ore circa) all’aria alla temperatura 
ambiente (7°-8°) la zeolite non riacquistò niente in peso pur avendo 
già perduto il 14,98°/ di acqua. 

Si avrebbe quindi una stilbite, se come tale debba considerarsi il 
nostro minerale ad aggruppamenti sferici o a govone, con tenore in si- 
lice maggiore dell’ ordinario, così come già si conoscevano termini a dosi 
minori, quali la stilbite di Skye (52,40), Bombay (52,80), Curico 
(52,67), che il DANA !) distinse già con il nome di ipostilbite. I nostri 
esemplari per la composizione chimica si ravvicinerebbero invece alla 
epistilbite H* (Na?, Ca) A1?Si50!3 + 3H?0, che non differisce dalla stil- 
bite che per una molecola in meno di acqua di cristallizzazione e che 
pur si presenta in aggregati radiali sferici come quelli di Fonte del 
Prete. Ma l’epistilbite, oltre all'essere ancora meno ricca di silice, non 
vi corrisponde poi per i rapporti cristallografici, benchè monoclina essa 


1) Opera citata. 


ne Bacci ai Ri 


214 E. MANASSE 


stessa, onde venne riferita anche ad altro gruppo di zeoliti. Conviene 
quindi ricercare piuttosto se non convenga meglio nel concetto della 
costituzione del CLARKE ravvicinarla alla tipica stilbite; e vi si può in- 
fatti facilmente riferire per-la mutua sostituzione da lui ammessa dei 
due gruppi tetravalenti [Si 04] e [Si* 0*]. Il paragone delle due for- 
mule mostra chiaramente il legame: 


Stilbite tipica Stilbite più ricca in Si0? 
Si04= AI STOSZZIAI 
ne —Si04= H8 NAST) se ]bl° 
sio= \Si505= H? 
| Pa 
Ca + 8H ?0 ni + 8H?0 
Pod VA Ca 
—Si*08== ce AI-Si308= H3 
ita AI Si04= Al 


Un gruppo [Si0*4] della tipica stilbite è sostituito da un gruppo 
[Si #0]. Le proporzioni centesimali seguenti, calcolate dalla formula 
ora scritta, computando per calce la soda: 


EOLIE a REI 
SOR e n I NA 
APOSIAR dirai atei 
CIO. (labii ia aree PRESO 


100, 00 


corrispondono a quelle delle analisi; e pure corrispondono le proporzioni 
dell’acqua; infatti, sempre nel concetto che l’acqua di cristallizzazione 
sia perduta dalla nostra zeolite a 250° circa, soddisfacentemente si ac- 
cordano le proporzioni dell’ acqua teoricamente dedotta dalla formula 
supposta (I) e dell’acqua avuta nei miei saggi (II), chè si ha: 


I II 
Aqua nto ae Rc es 6005 14, 98 
DER AU LIZA OR ee OI 9798 
v n Soprani? 15 Ro 00 5,05 


Io volli con tutta cura ripetere più volte le analisi (pag. 12) di queste ag- 
gregazioni a superficie sferoidale, perchè le analisi già fattene da un ignoto 
allievo del BecHi (I) (vedi D’AcziARDI Mineralogia della Toscana) e dal 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 215 


GrartAROLA e SansonI ‘) (II) avevano dato risultati non concordanti coi 
miei: 


I II 
ERO 4 TAgST8 19, 23 
SIRENA 1 56 52, 34 
ATEO, O TESORI) 16, 94 
URONRAEe Zi n 08 9, 22 
Mg0 3 0, 41 
203% sel E nio ar T 
Na?0 1,80 
ORTO o n 
101 99, 94 


Nella prima analisi Ja presenza di dosi assai forti di magnesia, le 
piccole proporzioni dell’ allumina, quelle troppo elevate invece della soda, 
son tali da far ritenere se non poco corretti i risultati, riferibili forse 
ad altra sostanza. Dalla seconda parrebbe aversi piuttosto a che fare 
con un caso d’ipostilbite che di un minerale eccedente nella proporzione 
della silice che si ha nella stilbite normale. D’ onde derivino queste dif- 
ferenze nei risultati analitici non saprei indicare. Stando ai risultati delle 
mie analisi non posso che ripetere ancora che questi aggregati cristallini 
sferici, se non corrispondono perfettamente alle più comuni stilbiti, gran- 
demente vi si avvicinano. 

Del resto col concetto del CLARKE ammettendo la sostituzione dei 
due soliti gruppi [Si04] e [Si®0*] l’analisi del SAnsonI e del GRATTAROLA 
porterebbe pure a composizione entro i limiti della serie stilbitica. Di 
fronte alla normale struttura molecolare anzichè sostituito un gruppo 
[Si*05] ad un gruppo [Si 04] si avrebbe l’inverso, sostituito cioè un 
gruppo [Si0*] a un gruppo [Si*05| e quindi: 


2S808= Al 
AI-Si0*= H° 
\Si0* = H? 
| 
fi + 8H?0 
SiO=—TCa 
nÉSsio ZH 
S1°0*= AI 


1) Memoria citata. 


216 E. MANASSE 


Le proporzioni centesimali qui sotto riportate, calcolate su questa 
formula (I) computando potassa, soda e magnesia a calce, corrispon- 
dono infatti assai bene a quelle date dall’analisi del GRATTAROLA e 
‘Sansoni (II): 


I II 
OR A ROC 0, 19,23 
IO AR 52, 34 
NEON N ros 16, 94 
CROATA 925 
NEO IR Ro 0, 41 
Na: KOS 1, 80 
100, 00 99, 94 


In conclusione le tre formule strutturali della stilbite tipica, della 
stilbite più ricca dell’ordinaria in silice secondo le mie analisi, e della 
stilbite più povera della ordinaria in silice secondo l’analisi del Grat- 
TAROLA @ SANSONI, ci rappresentano termini gradatamente diversi della 
serie stilbitica. La formula generale infatti di essa, appunto per le dif- 
 ferenze che le analisi della stilbite hanno dato, fu dal CLARKE indi- i 
cata con: 


in cui X rappresenta indifferentemente l’uno o l’altro dei due gruppi 
tetravalenti [Si04] e [Si® 0%]. 
E si avrebbe: 


Stilbitetipica Sini re 1040 
Stilbite ricca ‘in silice”. (000 S10*S108— MER 
Stilbite povera in silice . - . SiOf:Si*0*=2-1 


| SA 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 217 


Foresite. 


Menzionata la prima volta dai sigg. PuLLÉ e CAPACCI !), questa specie 
fu poi descritta dal vom RATE ?), che le diede il nome. 

Il vox RaTH la ritenne cristallizzata nel sistema trimetrico in prismi 
rettangolari dovuti alla combinazione dei due pinacoidi {100}, {010}, ter- 
minati dalla base ordinariamente un poco curva e talora spuntati dalle 
facce dell’ottaedro. Nelle forme e nei valori angolari, che il vom RATH potè 
misurare, apparve del tutto analoga alla stilbite; da questa però differente 
per il più elevato peso specifico ragguagliante 2,403-2,407 e per la com- 
posizione chimica, dalla quale dedusse la formula: 


1 2 

7 RA ; 2A1°0; 6 Si0*; 6 H°0 
vicinissima del resto a quella della stilbite, già riportata trattando di 
questa specie. 

Tale rassomiglianza nella composizione chimica e più ancora la per- 
fetta analogia nelle forme cristalline fece nascere più tardi al SANSONI *) 
il dubbio che la foresite potesse essere specie distinta dalla stilbite, 
quantunque nell’analisi chimica fattane lo stesso SAnsonI ne ebbe ri- 
sultati di pochissimo discordi da quelli del vom RatH. Nuovi dubbi poi 
circa la specie foresite furono sollevati dal Des CLorzeaux 4), che, esa- 
minandone otticamente un cristallino, per quanto a detta stessa del- 
l’autore la prova riuscisse molto difficile, trovò che il piano degli assi 
ottici e la bisettrice erano orientati precisamente come nei cristalli di 
stilbite. 

Esistendo tali divergenze su questa specie ne ripresi lo studio. 

La foresite, come la stilbite, è un minerale sempre incrostante. 
Essa incrosta infatti quasi esclusivamente la tormalina, ricoprendone con 
un guscio dello spessore di 2-4 millimetri non solamente le facce pri- 
smatiche, ma anche le facce basali; talvolta incrosta pure i cristalli 
d’ortose e di quarzo e si ritrova anche in lamine isolate assai esili. 


i) Memoria citata. 
?) Memoria citata. 
3) Memoria citata. 
4) Nota citata. 


* PRI 


218 E. MANASSE 


Osservata al microscopio oltre al presentare le stesse forme cristal- 
line della stilbite e le stesse geminazioni, ha anche il piano degli assi 
ottici, come già aveva osservato il Des CLorzeAux, normale al piano di 
geminazione e la bisettrice acuta inclinata di 5° circa sull'asse OX; e 
nelle lamine di più facile sfaldatura il carattere ottico è negativo pur 
sempre come nella stilbite. Tutto quindi concorderebbe a farla ritenere 
un’unica specie con quella; e confesso ch'io pure prima di farne l’ana- 
lisi come tale l'aveva ritenuta. 

Bene osservando però anche macroscopicamente appariscono diffe- 
renze fra le due specie. La foresite infatti è sempre in elementi più 
minuti assai della stibite; quella ha un colore bianco-niveo candidissimo, 
questa un colore bianco-giallognolo; a quella spetta un peso specifico 
di 2,405, a questa assai minore e uguale a 2,09. Maggiormente visibili 
sono poi questi caratteri distintivi quando le due specie sieno insieme . 
associate; e già dissi che non potrebbesi spiegare, ove fossero la me- 
desima cosa, come mai nello stesso esemplare presentassero differenze 
riconoscibili anche ad occhio nudo. 

Ciò che però fa veramente riconoscere la differenza fra le due specie 
è l’analisi chimica. Della foresite io feci due analisi; l’ una (I) data da 
una grande crosta che ricopriva completamente un grosso cristallo di 
tormalina, l’altra (II) data da diverse croste più piecole assai, pure in- 
volgenti dei cristalli di tormalina e nella quale la soda non fu deter- 
minata. Pongo a confronto la media (III) ottenuta dalle due analisi con 
le analisi del vom RatE (IV) e del Sansoni (V): 


I II III IV Vv 
H?0 L7,401.,,160,:32 (165106 (545, 07 Nd, 
SiOAT 4971228à 486489 ZO 
AJ%O® 27,450 27, 0270680 2740 MZ DELI 


Mg0 — — — 0,40 traccie 
Ga. 8/01, 560 ra 
K?0 n traccie traccie .0,77 

0, 46 


Na?0 1,14 1,14 IORLA 1, 38 


99,83 99,09 99,45 100,45 99,73 


Le mie analisi condurrebbero quindi alla formula 12 Si0?, 13 H?0, 
4A1?08, 2Ca0 (Na?0), cui spetterebbe la seguente composizione cente- 
simale, calcolando a calce la soda presente: 


STILBITE E FORESITE DEL GRANITO ELBANO 219 
Hierro e 15788 
BIOARAS I 48/98 
RR EE 6090527, 62 
Cao a RR COSTI 
100, 00 


Tale formula non differisce che per piccola quantità nelle propor- 
zioni dell’acqua da quella già ammessa dal vom RaTH per la foresite, 
cui assegnò le proporzioni teoriche seguenti: 


MRO ei ae ud4,,78 
A i Sea 49, 27 
PO EA ae PRESERO? PIC. 


Coe n ile a DATO 
NA e lt 205 
100, 00 


Strutturalmente interpretata la composizione secondo ie vedute del 
CLARKE !) e sui resultati analitici del vom RatH si avrebbe: 


Si04]= Al 
NAS i 


[Si04] = H? 
se =" 
Ca + H?0 
Î 
SA Os P=H? 
AI-[Si04] == H? 
[Si04] == Al 


.e per le mie analisi andrebbe aumentata di una sola molecola l’acqua 
di cristallizzazione per ogni due molecole del composto silicato. 

Per altro le prove circa le perdite dell’acqua alle diverse tempera- 
| ture non porterebbero al reparto dell’acqua stessa quale risulta dalla 
soprallegata formula, in cui solo una piccolissima parte di essa viene 
considerata come di cristallizzazione. Infatti io ho ottenuto: 


1) Memoria citata. 


Sc. Nat., Vol. XVII 16 


220 E. MANASSE 


Acqua totale e Man NR RE 099 ID 
perdita a 26007 LA CI E 
DI a nisopra:2600% Mi EM a ISIN I 


O si nega valore all’interpretazione del modo con cui l’acqua entra 
nel composto a seconda che essa si liberi a 250° circa o a temperature 
superiori e allora può adottarsi sempre la formula di struttura testè 
riportata, o mantenendo questa interpretazione, come già si è fatto per 
la stilbite precedentemente descritta, giova considerare in altro modo 
la costituzione della foresite. E forse essa potrebbe essere espressa 
dalla formula seguente: 


SIO4==A] 
241 (OH)? 
Asi O ATTORE 
Si0*=H' 
Ca + 7H°0 
| 
Si°08=Ca 
/A1 (OH)? 
Alga SOA OE 
NE 


ammettendo come per varie zeoliti ammettono il CLARKE stesso, il GRoTH 
e altri, la sostituzione del gruppo monovalente AI(OH)? all’ idrogeno. 

S’interpreti nell’un modo o nell’altro la formula di costituzione, credo 
sempre, concludendo, che stilbite e foresite non sienv a confondersi; ma 
mantenendole distinte come consigliano a fare anche i loro caratteri 
macroscopici e altre considerazioni sopra esposte, debbono però consi- 
derarsi l’una come isomorfa all'altra; come già furono sotto questo aspetto 
ravvicinate fra loro armotoma, phillipsite e stilbite. 


Giacimento e origine delle zeoliti elbane. 
Le zeoliti dell’isola d’ Elba già dissi in principio come sì rinvengano 


specialmente a Fonte del Prete, subito sotto il paese di S. Piero in 
Campo, donde provennero pure i bei cristalli di tormalina, berillo, gra- 


E 


STILBITE E FORESITE DEL GRANATO ELBANO 221 


nato, cassiterite ecc. che hanno arricchito i musei mineralogici di Fi- 
renze e di Pisa. E ivi si rinvengono nelle geodi di bianche vene d’ap- 
parenza pegmatitica nel granito normale biotitico, analoghe a quelle di 
Grotta d’Oggi, della Speranza ece., benchè in queste ultime, almeno nelle 
porzioni esplorate, sieno le zeoliti e altri prodotti del pari secondari 
come il Castore e il Polluce, meno frequenti. 

Circa l’origine di queste bianche vene tormalinifere è stato molto 
discusso, nè la questione, può dirsi, è stata ancora completamente esau- 
rita; come non esaurita d'altra parte è stata la questione relativa 
all’età del granito in cui si rinvengono. 

Alcuni autori come Pareto *), CoccHI ?), LotTI 3) le considerano in- 
fatti druse allungate dovute ad un'ultima fase nel consolidamento del 
magma granitico, od anche dovute ad una posteriore secrezione effet- 
tuatasi nelle cavità del granito stesso. Altri (SAvi e MENEGHINI ‘) le 
considerarono come filoni differenti principalmente dalla massa del gra- 
nito normale circostante per la mancanza di mica nera, per il carattere 
più o meno spiccato di pegmatite e per la presenza di tormaline, be- 
rilli ecc.; ammettendo inoltre la presenza loro dovuta a masse di gra- 
nito pegmatitico intruse per effusione entro al granito normale già for- 
matosi. Il vom RaTH °) infine ammise per esse un’origine idrotermale. 

Ma a parte la difficile questione circa l’origine di questi filoni 0 
geodi tormalinifere, a parte anche la non meno difficile questione circa 
l’età di questo insieme di rocce, a me interessava soltanto indagare 
come e quando si formassero le zeoliti e seguire se fosse possibile la 
via della paragenesi. Per ciò mi era necessario studiare la composizione 
delle rocce incassanti e sopratutto dei suoi materiali dallo stato di fre- 
schezza a quello della più progredita alterazione. 

Il granito incassante le vene e da esse distinto per il suo più fosco 
colore, è un granito biotitico. Elementi essenziali quindi: quarzo, feldi- 


1) Sulla costituzione geologica dell’ isola di Pianosa ecc. Annali Univensità di 
Pisa. T. I, 1844-45. 

2) Descrizione geologica dell’isola d’ Elba. Memorie del R. Com. geol. d’ Italia. 
Vol. I, 1871, pag. 82. 

3) Descrizione geologica dell’ isola d’ Elba, pag. 239, Roma 1886. 

4) Considerazioni sulla geologia stratigrafica della Toscana, pag. 498. Fi- 
renze 1851. 

°) Geognostisch-mineralogische Fragmente aus Italien. III Theil. Die Insel 


Elba. S. 663., Bonn 1870. 


229 E. MANASSE 


spato, mica nera, nella solita distribuzione e apparenza propria dei gra- 
niti tipici. Però dei due feldispati, ortose e oligoclasio, il primo s’in- 
contra anche qua e là in grandi cristalli entro alla massa uniformemente 
granulare e la biotite sembra talora accumularsi in nidi che in foggia 
di macchie più scure risaltano sul fondo grigiastro della roccia. 

Il peso specifico della roccia è = 2,575. 

Microscopicamente vi si osserva manifesta struttura olocristallina 
ipidiomorfa e vi si riconoscono i minerali sopraricordati nel loro tipico 
aspetto granitico. Dei due feldispati, ortose e plagioclasio, quello gene- 
ralmente è assai torbido, cosparso di tante granulazioni scure indeter- 
minabili e talora anche a struttura fibrosa; questo assai più fresco e 
abbondante quasi quanto l’ortose, geminato sempre secondo la legge 
dell’albite, talvolta anche, (ciò che è notevole perchè rarissimo nei gra- 
niti), esso freschissimo presenta un bello aspetto zonato, con uno strato 
esterno quasi fibroso a fibre contorte e irregolari. Ritengo tal plagio- 
clasio debba considerarsi più come oligoclasio che come albite, stante 
la quantità notevole di calce, contenuta nella roccia. La mica biotite, 
‘ generalmente è più o meno alterata, talvolta in clorite, onde ha quasi del 
tutto perduto il suo pleocroismo; non mancano però lamine di biotite 
inalterata. Il quarzo, allotriomorfo sempre, è ricchissimo d’inclusioni, 
sia solide, sia liquide con livella. Di minerali accessori osservai magne- 
tite scarsa, ematite scarsissima, abbondanti invece apatite e zircone; 
dubbioso il rutilo, di cui credo di aver osservato due esilissimi aghetti, 
inclusi l’uno nel quarzo, l’altro nella mica. 

L’apatite si presenta nei soliti cristallini aciculari allungatissimi 
(mm. 0,04-0,09) e di spessore ordinariamente piccolissimo (mm. 0,01-0,02), 
nei quali sono di consueto riconoscibili le tracce della sfaldatura basale. 
La sua relativa abbondanza è svelata anche dall’ analisi chimica che 
diede 0;24°/, di anidride fosforica. Trovasi l’apatite inclusa nella biotite 
e nell’ortose più abbondantemente, nel quarzo e nel plagioclasio più 
raramente. 

Lo zircone si presenta in cristallini o grani a contorno rotondeg- 
giante, di colore giallo-verdastro, fortemente rilevati e con colori d’in- 
terferenza vivissimi. Tali cristallini di dimensioni piccolissime general- 
mente (mm. 0,02-0,05 in lunghezza e mm. 0,01-0,02 in larghezza) 
sono inclusi nella mica, nell’ortose e nel quarzo. Ho visto anche dei eri- 
stalli assai più grandi prismatici, nitidamente terminati; uno di questi 
aveva una lunghezza di mm.0,3 circa e uno spessore di mm. 0,06. 


STILBITE E FORESITE DEL GRANATO ELBANO 223 


L’analisi da me eseguita su pezzi tolti nella massa tipica della roc- 
cia diede: 


Hem en, 0959 
E o o 609,00 
ROM: DEe e L) 
DUE ACT RP RRETO NOT LINi TP: MAFIE, 4,97 
Mare nia sotracce 
WE on LFACCO 
ALSO pr VIE) iz IE 15, 68 
Ronn er fee 1Y°98 
MEO aa 
IGO RR 3, 18 
Rie) Sage 
EIAORIO oil 
101, 30 


I noduli scuri che in forma di macchie rotondeggianti si trovano ir- 
regolarmente distribuiti nella massa del granito normale, studiati chi- 
micamente e microscopicamente si palesarono essi pure di granito, ma 
ad elementi più minuti molto, onde apparisce come un microgranito, per 
quanto talora esso involga dei cristalli maggiori di feldispato e di biotite. 
Gli elementi che lo costituiscono sono gli stessi del granito normale con 
le precise inclusioni; delle quali però assai più abbondante l’apatite 
(infatti l’ analisi diede 0,29°/, di anidride fosforica) e assai più scarso 
lo zircone (chè infatti all’ analisi chimica non ebbi nemmeno tracce di 
anidride zirconica) che nel granito normale. Il colore più cupo è dovuto 
alla più abbondante quantità di biotite ed infatti la quantità di magnesia 
e di ossido di ferro è un poco superiore a quella del granito normale. 
Ma tolte queste e altre sempre lievi differenze chimicamente pure la 
roccia microgranitica corrisponde a quella granitica normale. Il micro- 
granito infatti diede all’analisi: 


TESTO © fedi ORPRRIRI MIPORINT AO (‘I 0, 48 
0A ee (00011 
ic e savoia i 9, 03 
MR e e ein tracce 
SO) NE E 70 
AD) ct i SA a 
MEGANE) a ccnine 13 Ad) tUT (07 
I i.) lo 825 
NETTI, e RARE 3, 66 
Pe e a (29 


101, 82 


224 E. MANASSE 


Differente invece è la struttura dei bianchi filoni o geodi tormalini- 
fere. Sono essi costituiti da una pasta bianco nivea, pegmatitica, quar- 
zoso-feldispatica, in cui qua e lè sono scarsamente disseminate delle la- 
mine assai grandi di. mica nera e dei cristalli incompleti di tormalina. 
L'analisi chimica svelò pure differenze nell’acidità assai superiore a 
quella del granito, poichè diede: 


E FLO IE RITMO co OL 0, 45, 
SIOE IR I RI ROTTI 
AO E e STAR 
Fe0Q0 a nbae DI 
Met GLIE ME AO E Gal 
CAO E RL 
Meu ate ao ic 
NEGO o (00) 
On: RAI ROTA ASSI 
BOL ata ener ene 
99, 93 


I filoni tormaliniferi portano poi grandi cristalli di ortose e di quarzo 
generalmente affumicato o nero, grandi lamine di lepidolite, le tormaline, 
i berilli, i granati, le varie specie di zeoliti, il Castore, il Polluce ed altri 
minerali. Ed è notevole che mentre generalmente la roccia incassante 
presenta aspetto di freschezza, le vene pegmatitiche, e sopratutto nelle 
loro geodi, presentano evidenti segni di alterazione sofferta e tanto mag- 
giore quanto più vi abbondino questi minerali idrati di tipo prevalen- 
temente zeolitico, e sulla cui origine secondaria non può restare alcun 
dubbio, sia per l'esame sul posto, sia per l’esame anche dei pezzi di 
filone distaccatine e conservati per i musei. La massa delle vene tor- 
malinifere perde il suo colore bianco-niveo per prenderne uno gial- 
lastro, perde inoltre la sua consistenza ed assume una friabilità straor- 
dinaria. E non solo la pasta dei filoni, ma anche i minerali che in essi 
sì trovano si presentano in generale più o meno alterati. L’alterazione 
non è però uguale per tutti. Il quarzo nulla o quasi nulla si altera, 
spesso nemmeno le tormaline, che però in alcuni casi di più avanzata 
azione delle cause modificatrici possono essere anche completamente 
disfatte; e alla facilità o no di alterarsi contribuisce certo la loro diversa 


AIRES. LIO SOT SOSIO CERI TA I LOTO ti n I i LO EIA I 


STILBITE E FORESITE DEL GRANATO ELBANO 225 


costituzione fra le varietà diversamente colorite. Quarzo sempre o quasi, 
tormalina spesso, si riconoscono inalterati alla superficie togliendo il ri- 
vestimento zeolitico, che ordinariamente ne ricopre i cristalli, i quali, 
denudati da esso, mostrano ancora le strie e altre particolarità delle 
facce. La lepidolite si altera più facilmente, perde il suo colore roseo 
diventando violacea o bianca-argentina. L’ alterazione più frequente, 
maggiore, talvolta completa, la presenta l’ortose come è facile riscon- 
trare negli esemplari di granito alterato a zeoliti del Museo mineralo- 
gico di Pisa. L’ortose in alcuni cristalli si mantiene freschissimo; in altri 
perde in consistenza acquistando invece una specie di untuosità; in altri 
poi mentre esternamente conserva le forme cristalline sue proprie, avendo 
però perso levigatezza e splendore, è nell’interno diviso in tanti setti 
quasi paralleli rivestiti da incrostazioni di stilbite, e se questi setti 
manchino può anche conservarsi soltanto la parete esterna, tutta inter- 
namente tappezzata da croste di stilbite. Sembrerebbe dunque che nel- 
l’alterazione dell’ortose non sempre si fossero avuti gli stessi prodotti, 
avendosi nel primo caso una trasformazione caolinica, nel secondo zeoli- 
tica. Le analisi fatte confermano questa deduzione. 

Difatti avendo preso diversi di tali cristalli che sia per il loro aspetto, 
sia per l’esame microscopico accennavano ad una trasformazione caoli- 
nica nei suoi diversi stadi, a partire da un cristallo apparentemente 
inalterato (I), ad altro con incipiente alterazione (II), fino a un terzo 
profondamente alterato (III), ottenni: 


I II III 
H?0 0, 81 o SU TASON 
Si0? 64,85 51, 64 45, 44 Ù 
ATSO5518014 VE, Ue 32, 88 
Fe?0? — 0, 18 tracce 
Ca 0 0,24 3, 82 2, 08 
KO 1 41 ia: 
Na?0 4,14 (5, 01) 1) (4, 63) ) 
997159 100, 00 100, 00 


Si vede chiaramente dalle analisi come perdendosi in gran parte gli 
alcali e diminuendo le proporzioni della silice, messa parzialmente in 


1), 2) per differenza. 


226 E. MANASSE 


libertà, accrescendosi quindi relativamente quelle dell’allumina e per 
l'aggiunta sempre di notevoli quantità di acqua si passi da ortose a 
— caolino. i 

Ma ponendo attenzione ai resultati delle stesse analisi si vede anche 
come insieme alla trasformazione caolinica, siasì iniziata anche la tra- 
sformazione zeolitica, alla quale debbono certo imputarsi le dosi non 
indifferenti della calce; trasformazione zeolitica che diventa quasi esclu- 
siva nell’altro caso, in cui gli originari cristalli feldispatici sono come 
trasformati in tanti alveari, costituiti da setti zeolitici. i 

L’analisi fatta di uno fra questi cristalli a vacui, tolte per quanto si 
poteva le incrostazioni zeolitiche sulle pareti dei setti stessi, mi diede: 


BROS, 10 AME SOL 0 


ei Pia inn 61, 54 
Oa aan e Dil 
Relosr ta Koei Mr RI MRO ECE 
CIO pe CR RI) 
TEO IR a, 
Na, Lo Hastasatanik N08 

100, 98 


Come si vede si ha un cristallo di ortose in quasi completa trasfor- 
mazione stilbitica. Si aggiunga ancora un poco di acqua che porti nuova 
calce in sostituzione della potassa che vi rimane ancora e si avrà la com- 
posiZione stilbitica delle prette zeoliti di questo giacimento testè de- 
scritto. Non parmi quindi che possa restar dubbio sulla genesi dei mi- 
nerali stilbitici dall’alterazione dei feldispati. Forse anche altre zeoliti 
di questo stesso giacimento e che io qui non ho. studiato, vi debbono 
essere geneticamente connesse; ma verosimilmente alcuni almeno di questi 
minerali idrati totalmente o in parte debbono l’origine loro ad altera- 
zione di altri minerali; così dall’alterazione della, lepidolite e della tor- 
malina si ha il Castore o petalite, così forse anche il Polluce. Castore 
e Polluce accompagnano sempre le zeoliti elbane; e talora il Castore è 
esso pure incrostato o tappezzato nell’interno da minerali zeolitici, sia 
da idrocastorite, come già osservò il GRATTAROLA, sia da stilbite come 
io ho potuto osservare in alcuni degli esemplari di granito tormalinifero 


+09 Srna ZAC I PEPE IA e e 


STILBITE E FORESITE DEL GRANATO ELBANO 227 


esistenti nel Museo mineralogico di Pisa. E poichè in questo caso il 
Castore ha perduto il suo aspetto abituale vetroso e fresco, pur dando 
sempre alla fiamma la colorazione caratteristica del litio che lo fa rico- 
noscere, è da ritenere anche che eccezionalmente, per quanto esso pure 
indubbiamente di origine secondaria, abbia in qualche modo contribuito 
alla formazione di quelle zeoliti che lo incrostano. 

Trasformazione analoga a quella dell’ ortose deve aver subìto anche 
l’oligoclasio, e siccome la trasformazione di tutti questi minerali sembra 
che altrimenti non si possa ammettere che per invasione di acque aci- 
dule, queste o contenevano di per loro stesse più o meno di bicarbonato 
calcico, o fu loro fornito dall’ alterazione del silicato alluminio-sodio- 
calcico, quale è l’oligoclasio, operata dall’acido carbonico. Nell’ un modo 
o nell’altro si ha soddisfacente spiegazione ad intendere la genesi dei 
minerali zeolitici, e per il caso nostro in particolar modo delle stilbiti. 

Tale credo che sia la loro origine, ma anche se qualche dubbio po- 
tesse elevarsi su ciò, nessuno ne potrebbe restare sulla loro genesi se- 
condaria. 

Laboratorio di Mineralogia dell’ Università. 
Pisa, 6 maggio 1900. 


Sc. Nat., Vol. XVII 17 


Istituto ANATOMICO DELLA REGIA UNIVERSITÀ DI Pisa 


DOTT. GIUNIO SALVI 


1° DISSETTORE E LIBERO DOCENTE 


—_re___— 


CIRC ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 


Che i vasi edi nervi i quali decorrono satelliti nelle varie parti del 
corpo, fossero compresi in un comune invoglio connettivale, anche dagli 
antichi anatomici era conosciuto. 

HALLER chiamò questi invogli vaginae, comprendendo sotto tal nome 
tanto quelli che circondano i vasi edi nervi più grossi degli arti, come 
quelli che trovansi all’intorno dei vasi i quali penetrano nella spes- 
sezza dei visceri. 

Scrive infatti HaLLER !): In drachio robusta tela arteriam cum nervo 
colligat et sensim eatenuatur. In crure perinde cruralis nervus cum ar- 
teria in fasciculum colligitur. Non aliae sunt celebres illae vaginae quae 
in haepate FrANcIScUS GLIsson descripsit, in pulmone LANCISIUS, èn liene 
JAcoBUS RAU. 

Nè i moderni libri di anatomia sono più ricchi di osservazioni e di 
dati sopra la struttura di queste vagine. Esse sono in generale consi- 
derate talvolta come duplicature di aponevrosi, talvolta come un invoglio 
comune di tessuto connettivo destinato a tenere uniti i vasi ed i nervi 
satelliti ©d a fissarli in pari tempo alle parti vicine, senza che ricerche 
speciali abbiano tentato di investigare se la disposizione e la struttura 
dell’invoglio stesso insieme ai rapporti reciproci dei vasi in esso contenuti 
si prestassero a qualche considerazione fisiologica o di altra natura. 


1) HaLLER A. — Elementa physiologiae corporis humani. Lausannae MPccLVII 
pag. 61. 


RICERCHE ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 229 


Osservando quanto su tale argomento è stato scritto per l’addietro, 
noi vediamo che sono stati più specialmente i cultori dell’anatomia chi- 
rurgica quelli che hanno prese in considerazione queste vagine stu- 
diando quelle che presentavano maggiore interesse pratico, dal punto 
di vista della maggiore o minore permeabilità alle infiltrazioni (VEL- 
PEAU !), MALGAIGNE ?)) mentre molto maggior numero di osservazioni ha 
riunito la vagina propria dei vasi, quella vagina che HALLER stesso de- 
scrisse e chiamò col nome di tunica cellulosa e della quale ScARPA 3) dette 
una così ampia ed esatta descrizione. 

La trascuranza delle une e la maggiore considerazione avuta per le 
altre hanno fatto sì che spesso sono state confuse insieme onde fre- 
quentemente sentesi dire in anatomia di vagine dei vasi le quali fanno 
insieme l’ufficio di invogli fibrosi resistenti, e di sierose rudimentarie 
destinate a facilitare il movimento dei vasi nel tempo stesso che sop- 
portano i vasa vasorum. 

Uno studio delle vere vagine comuni fu fatto invece da FARABEUF ‘). 
Paragona FARABEUF queste vagine a quelle tendinee e vi considera una 
specie di spazio sieroso che chiama sierosa periarteriale nel caso dell’ar- 
teria, ammettendo che entro ad essa i singoli vasi decorrano ciascuno in 
un canale proprio. 

Attratto da tale trascuranza di un argomento che alcune ricerche 
personali mi avevano dimostrato non privo di interesse, già da molto 
tempo ne avevo intrapreso lo studio e nel 1895 pubblicai una prima 
nota °) illustrando alcuni dei fatti che avevo riscontrati, quando poco dopo 
cioè nel 1896, comparve un lavoro di Bize 5) nel quale le vagine comuni 
dei vasi e dei nervi venivano studiate assai diffusamente. Di tale la- 
voro dovrò spesso parlare nel corso di questo mio, essendosi le nostre 
ricerche incontrate in taluni punti senza però portare alle medesime 
conclusioni. 

Ammette Bize all’intorno dei fasci vascolari e nerveo-vascolari un 
ispessimento che egli chiama guaina, prodotto o da addensamento del 


1) VeLrRAU A. L.M.—Traité complet d’ Anatomie chirurgicale. Bruxelles, 1834. 

2) MALGAIGNE I. F. — Traité d’Anatomie chirurgicale. Bruxelles, 1838. 

3) Scarpa A. — Sull aneurisma. Pavia, 1804. 

4) FARABEUF. Precîs de manuel operatoire. Paris, 1895. 

5) SaLvi G. — Le guaine comuni dei vasi (nota preventiva) Monit. Zool. 
Ital. A. III, 1896, fasc. I. 

5) Bize L. — Les gaines vasculaires. Toulouse, 1896. 


230 G. SALVI 


connettivo che forma l’invoglio, o da sdoppiamento delle aponevrosi in 
rapporto con le quali trovasi il fascio. 

Ammette inoltre che da questa vagina si dipartano verso l'interno 
dei sepimenti fibrosi (cloîsons) i quali insinuandosi fra l’un organo e 
l’altro verrebbero a costituire altrettante concamerazioni tubulari nelle 
quali gli organi stessi (vasi e nervi) decorrono, trovandosi in tal modo 
isolati l’uno dall’ altro. 

Afferma infatti di essere riuscito a trarre fuori i singoli organi dalle 
loro concamerazioni onde la vagina isolata, si presentava sotto la forma 
di un duplice o di triplice tubo a seconda dei casi, e ne dà una figura 
che è molto simile a quella che riporta anche FARABEUF. 

Circa all’ ufficio, ammette Bize che, trovandosi fra la parete delle 
singole concamerazioni e l'organo contenutovi, del tessuto connettivo 
assai lasso, questo, nel caso dell’arteria, rappresenti una sorta di sie- 
rosa rudimentaria destinata a favorirne i movimenti. Non spiega però 
perchè la stessa disposizione si abbia, come descrive, per le vene e per 
i nervi. 

Termina infine studiando la disposizione di queste vagine in una 
quantità di fasci vascolari e nerveo-vascolari. 

Tali ricerche, accettate più tardi completamente e riportate da 
CHARPY, comparvero nel momento nel quale io mi accingevo a con- 
cretare i risultati delle mie, e mi spinsero a ripetere e ad allargare 
le osservazioni, onde rendermi maggiormente sicuro della giustezza 
di esse. 

Bize studiò poco i fatti dal lato istologico, basandosi specialmente 
sopra osservazioni macroscopiche. 

Io ho invece conservato alle mie ricerche il primitivo carattere isto- 
logico e solo ho ripetuto le esperienze di Bize come controllo. 

Ho studiato la struttura delle vagine comuni dei vasi in quei fasci 
ove esse si presentano più tipiche e prendendo successivamente in ‘con- 
siderazione i seguenti quesiti: 

1. Rapporti reciproci degli organi decorrenti nella vagina comune. 

2. Natura, minuta struttura e disposizione dei tessuti che costitui- 
scono l’invoglio. 

3. Decorso e distribuzione dei vasi e dei nervi. 

Di questi fatti poi ho studiate le modificazioni a seconda del vo- 
lume, della natura e della destinazione del fascio. 


RICERCHE ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 231 


Materiale e metodo di studio. 


Le ricerche sono state eseguite esclusivamente sull’ Uomo, esami- 
nando i fasci più diversi per natura, grossezza e posizione e la tecnica 
usata è stata la seguente: 

Scelto il fascio, ne isolavo un tratto di due o tre centimetri avendo 
cura di lasciarvi aderente parte dei tessuti circonvicini; e, prima di re- 
secarlo lo legavo ad un pezzetto di legno per evitare qualsiasi retra- 
zione. Asportato il pezzo, veniva subito immerso nel liquido fissatore. 

Di questi pezzi sono state fatte sezioni trasverse e sezioni verticali, 
mettendone il più delle volte in serie la lunghezza di un centimetro. 

Per i preparati comuni ho praticata di solito colorazioni in massa, 
usando a preferenza la cocciniglia di Czocor. È questa una sostanza che 
dà dei risultati infinitamente superiori a quelli di tutti i carmini, e, se 
non è usata molto, ciò dipende io credo, dal fatto che è molto difficile 
ottenerla buona. Io la preparo secondo la formula di Czocor, ma ado- 
perando invece della cocciniglia polverizzata, che non si ottiene buona 
nemmeno dalle case migliori, quella intera della varietà bruna che pol- 
verizzo al momento di servirmene per fare la soluzione. In essa le sezioni 
si coloraon in pochi minuti. 

Altri pezzi ed altre sezioni sono stati trattati con le reazioni e le co- 
lorazioni caratteristiche dei singoli tessuti onde la natura e la disposi- 
zione ne venissero meglio rivelate. 

Per il tessuto elastico ho adoperato nel principio delle mie ricerche il 
metodo di ErxHEIMER lievemente modificato; più tardi quello di UNNA- 
TAENZER modificato da Livini. Buonissimi risultati mi ha dato pure quello 
di Burci, il quale è prezioso specialmente allorchè si vuole impiegar 
poco tempo nella colorazione. Per il tessuto adiposo ho usata la rea- 
zione dell’acido osmico e la colorazione col Sudan II di DADDI. 

Per i nervi e per le loro terminazioni il metodo di WEIGERT-VASSALE 
e quello di GoLeI. 

Peri vasi sanguigni ho dovuto fare una quantità di prove prima di 
poter giungere a risultati soddisfacenti. Le iniezioni di gelatina al car- 
minio ed al bleu di Prussia che adoperai da principio, dovetti ripeterle 
più volte prima di poter ottenere qualche preparato che rispondesse 
allo scopo. Esse infatti presentano l'inconveniente di distendere forte- 
mente i vasi principali del fascio onde la vagina ne viene compressa e 


232 G. SALVI 


nei suoi piccoli vasi malagevolmente penetra l’iniezione. Ricorsi allora 
alle masse a glicerina ed a quelle ad albume d’ uovo (IoSEPE) e a gomma 
arabica (BseLussow), e furono queste che mi diedero migliori resultati. 

Ecco in che modo procedevo per queste iniezioni. Mettevo allo sco- 
perto il fascio, scegliendo di preferenza il radiale od il brachiale, ed al- 
lacciavo tutte le diramazioni che da esso vedevo dipartirsi. 

Ciò fatto introducevo il tubo all’estremo prossimale e spingevo la 
massa. 

Eseguita l’iniezione, comprendevo un segmento di fascio lungo al- 


cuni centimetri fra due legature ed asportatolo l’immergevo nel liquido 


destinato a coagulare la massa (acqua, acqua acidula, alcool secondo i 
casi) aprendo subito dopo il fascio ad uno dei capi affinchè ne uscisse 
la massa che riempiva i vasi principali e questi non rimanessero sover- 
chiamente distesi. 

Altre volte e specialmente allorchè volevo ottenere preparati per di- 
stensione della vagina mi contentavo di mettere in evidenza i vasi co- 
lorando con l’eosina e con l’ematossilina di WEIGERT il sangue in essi 
rimasto. 


Ricerche. 


Osservando i molteplici fasci vascolari di cui ci offre esempio il corpo 
umano, risalta subito allo sguardo una differenza essenziale nella loro 
costituzione. 

Lo sviluppo della vagina non è in ragione diretta della grossezza 
degli organi in essa contenuti, anzi noi possiamo dire che l’uno è ge- 
nera]mente in ragione inversa dall’altra. 

Infatti i piccoli fasci che decorrono nella spessezza dei visceri o dei 
muscoli, sono attorniati da grande quantità di connettivo; nei fasci in- 
termuscolari quali ad esempio il radiale o il tibiale posteriore, l’invo- 
glio è ancora assai abbondante tanto che esso ricopre completamente 
gli organi in esso contenuti. 

Andando invece verso i fasci maggiori noi troviamo, ad esempio, la 
vagina già assai ridotta, in ragione del volume dei vasi, nel fascio bra- 
chiale, e molto di più in quello del collo ed in quello dei vasi iliaci 
primitivi. 

Qui l’invoglio è tanto scarso che gli organi sporgono all’esterno e 
si possono ben delimitare l’uno dall’altro, 


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RICERCHE ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 233 


A tale regola però esistono alcune eccezioni e la principale ci viene 
offerta dal fascio femorale. Di queste non si occupa il presente lavoro. 

Considerato grossolanamente l’invoglio comune si presenta come una 
continuazione del tessuto connettivo degli organi nei quali i vasi decor- 
rono o delle fascie ed aponeurosi che su di essi o fra di essi decorrono. 

La prima questione che si presenta perciò, è relativa ai rapporti che 
l’invoglio assume con i vasi in esso contenuti: se esso si presenti ovunque 
omogeneo, o se offra particolarità di struttura tali che possano farlo 
considerare come un organo a funzione più importante di quella che 
viene ad esso comunemente attribuita. 

Incomincio la descrizione da quei fasci che sono costituiti dai vasi 
degli arti. Essi infatti ci presentano il tipico aggruppamento di una arteria 
con le sue due vene satelliti, hanno un abbondante invoglio e sono co- 
stituiti da vasi di calibro medio. 

Inoltre ci presentano esempi tanto di fasci sotto-aponeurotici che di 
fasci inter-muscolari e per tali caratteri si prestano assai bene a stabi- 
lire fatti generali. Da essi passeremo poi a quelli maggiori ed a quelli 
minori, onde studiare le eventuali differenze che possano riscontrarvisi. 

Come esempio di fasci sotto-aponeurotici prendo il fascio radiale nella 
sua porzione distale, come esempio di fasci intermuscolari prendo il 
fascio cubitale nella sua porzione prossimale. 


Struttura di un fascio vascolare di medio calibro. 


Il fascio radiale, esaminato su sezioni trasverse ci presenta le seguenti 
particolarità: La parte mediana è occupata dai tre vasi: in mezzo l’arteria, 
ai lati le due vene satelliti, disposti in modo che il centro di essi viene 
a corrispondere press’ a poco sul. medesimo asse. La sezione dell’arteria 
apparisce rotondeggiante, quella delle vene invece costantemente schiac- 
ciata in modo che il diametro maggiore risulta perpendicolare all’ asse 
suddetto. All’ intorno dei vasi è un abbondante invoglio di connettivo il 
quale a sua volta è limitato perifericamente da uno strato fibroso. 

Esaminando questo ,strato si vede come esso sia una dipendenza 
dell’aponeurosi antibrachiale. Però i due foglietti dello sdoppiamento 
non si congiungono nettamente ai lati, ma vengono riuniti da una serie 
di fasci fibrosi che passano irregolarmente dall’ uno all’ altro e fra i quali 
è interposto tessuto connettivo lasso e adipe. Questo strato fibroso forma 
perciò un canale completo entro il quale decorre il fascio, nè mai ho 


234 G. SALVI 


osservato che dalla sua superficie interna si dipartissero sepimenti che 
andassero a situarsi fra un vaso e l’altro. 

La superficie stessa anzi finchè è in rapporto coi vasi è nettissima 
ed esattamente delimitata. In tal modo non posso affatto confermare 
l’affermazione di Bize di CHARPY e di altri, che l’invoglio fibroso formi 
altrettanti canali quanti sono gli organi che compongono il fascio. 

Nel fascio cubitale lo strato fibroso limitante è assai meno evidente. 
Esso è costituito da uno ispessimento irregolare, qua e là interrotto, ed 
assai incompleto, onde fin da ora possiamo dire che questo strato che 
io chiamo vagina fibrosa, non si presenta sempre uguale. In alcuni fasci 
è fortemente sviluppato, in altri meno, in alcuni forma un invoglio com- 
pleto, in altri è assai irregolare. È costituito di solito da fasci fibrosi 
paralleli, ricchi di grosse fibre elastiche e diretti nel senso della cir- 
conferenza. i 

Talvolta si trovano divisi in due o più piani fra i quali è interposto 
tessuto adiposo o tessuto lasso. Non presenta nè vasi nè nervi. Ho stu- 
diato questo strato fibroso in altri fasci e mi sono convinto che esso 
esiste solo là dove il fascio vascolare trovasi direttamente in rapporto 
con qualche aponeurosi. Negli altri casi gli elementi che costituiscono la 
vagina comune non hanno per limite che i margini stessi dello spazio 
nel quale il fascio decorre. 

Allo strato sopra descritto ne succede un altro il quale presenta le 
seguenti caratteristiche. 


È costituito da tessuto connettivo lasso, lamellare, nel quale si può 
anche trovare qua e là dell’ adipe e scarse fibre elastiche. 

Questo strato in taluni fasci ed in taluni individui si trova discre- 
tamente abbondante, in altri è molto scarso. La sua straordinaria las- 
sezza fa sì che esso si distacchi con la massima facilità dallo strato 
fibroso. 

Quando questo non esiste, esso è generalmente più sviluppato. Vi ho 
notato talvolta delle fessure che non ho potuto interpetrare come pro- 
dotte dalla preparazione, perchè presentavano le traccie di un rivesti- 
mento endoteliale. i 

Io trovo questo strato per la sua struttura molto simile a quello che 
una quantità di anatomici hanno descritto attorno ai vasi isolatamente 
e considerato come una sierosa rudimentale; e trovo quindi che può ri- 
cevere giustamente il nome di strato sieroso. A differenza però degli 
autori che io conosco essersi occupati di tale argomento, sostengo che 


RICERCHE ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 235 


questo strato non è proprio a ciascun vaso, non serve a facilitare lo 
scorrimento di ciascun vaso nella sua vagina, ma è comune invece a tutti 
i vasi contenuti nella vagina comune. 

Ne viene di conseguenza che, mentre secondo FARABEUF, Bize e CHARPY 
i vasi sono indipendenti l’uno dall’altro, secondo le mie ricerche essi 
sono strettamente uniti e si muovono insieme nell’ unico canale che li 
accoglie. i 

A questa seconda porzione della vagina ne sussegue una terza la 
quale si dimostra per struttura assai differente. 

Prima di giungere alle avventizie dei tre vasi noi incontriamo una 
zona di tessuto la quale per la sua struttura non può essere affatto con- 
fusa nemmeno con queste. 

Nei preparati comuni questa zona è caratterizzata da una densità 
maggiore del tessuto, i fasci del quale appariscono disposti concentrica- 
mente e da una grande ricchezza di piccoli vasi i quali appariscono per 
la maggior parte sezionati trasversalmente. 

Questi vasellini formano una specie di zona ininterrotta la quale 
circonda completamente il fascio vascolare apparendo però assai più fitti 
in corrispondenza dell’arteria, e non sono affatto a confondersi coi vasa 
vasorum dell’avventizia i quali appariscono al loro posto. Trattando poi 
i preparati con le reazioni specifiche del tessuto elastico, noi vediamo 
che in questa zona il tessuto stesso assume una disposizione ben diffe- 
rente da quella che si trova negli altri strati della vagina comune già 
descritta e nelle avventizie. Sono grosse fibre elastiche poco ondulate e 
disposte nel senso della periferia dei vasi. Esse occupano uno spazio 
relativamente ristretto e si trovano prevalentemente al lato esterno dello 
strato vasale più sopra descritto, in modo da isolarlo completamente 
dallo strato sieroso. 

Di tratto in tratto poi si riscontrano grosse fibre elastiche molto av- 
volte su se stesse. 

Appartengono alla vagina comune perchè si estendono tutto all’intorno 
dei tre vasi. 

Ma quello che colpisce maggiormente nell’esame di sezioni trasverse 
dei fasci di cui ci occupiamo è la disposizione del tessuto adiposo. 

Questo tessuto trovasi raggruppato sotto forma di 4 ammassi ben 
‘distinti e ben netti in corrispondenza di quegli angoli che sono limitati 
dalle superfici curve dei vasi contigui. 

Gli ammassi hanno forma triangolare coni lati ben netti e si spin- 


236 ) G. SALVI 


gono a guisa di cuneo fra un vaso e l’altro. Raramente arrivano a con- 
giungersi quelli dei due lati, ma ciò può avvenire ed allora fra le av- 
ventizie dei due vasi contigui trovasi interposto uno straterello continuo 
di adipe. Questo prolungarsi degli ammassi, può inoltre verificarsi anche 
all’esterno, lungo cioè la periferia dei vasi in modo che questi vengano 
completamente abbracciati da un cerchio di tessuto adiposo. Ho notato 
che ciò avviene più di frequente da parte delle vene che da parte del- 
l’arteria. 

Questa disposizione del tessuto adiposo è un’altra prova della dif- 
ferenziazione dello strato del quale adesso ci occupiamo, tanto da parte 
di quelli che abbiamo descritti quanto da quella delle avventizie dei vasi. 

Infatti lo strato di adipe trovasi sempre all’interno di quello ela- 
stico più sopra descritto e comprende entro di sè la corona di vasellini 
di cui abbiamo già parlato. 

Gli ammassi adiposi sono molto costanti. 

Nei fasci che ho presi come tipici, li ho trovati anche in individui 
ridotti al massimo grado di emaciazione, ciò che li farebbe ascrivere alla 
categoria dei così detti organi adiposi di Tonpr 1). 

La minuta struttura di essi è la seguente. Risultano di grosse cel- 
lule adipose tenute insieme da tramezzi connettivali assai robusti e ric- 
chissimi di fibre elastiche. 

In taluni fasci e specialmente nei maggiori l’adipe scarseggia o anche 
può mancare del tutto, ma gli ammassi triangolari rimangono, e sono 
costituiti allora da tessuto elastico sotto forma di grossi fasci incrocian- 
tisi a larghe maglie. 

Nel mezzo degli ammassi poi trovansi piccoli vasi arteriosi e venosi 
e piccoli cordoni nervosi i quali appariscono sezionati trasversalmente 
ed i piccoli vasi formano tutta una serie continua con quelli che abbiamo 
descritti nelle altre parti dello strato profondo della vagina onde i tre 
vasi principali vengono ad essere abbracciati da una corona ininterrotta 
di vasellini. Per questo fatto lo strato merita il nome di vascolare. 

Una particolarità poi degna di attenzione è quella che ci viene offerta 
dalla speciale disposizione del tessuto elastico in prossimità di questi 
ammassi adiposi. 

Nella nota già rammentata ebbi a descrivere in un fascio vascolare 
di Camelus dromedarius quattro gruppi di fibre elastiche straordinaria- 


1) Romiti G, — Trattato di Anatomia dell’uomo. Ed. Vallardi vol. I, p. 75. 


© RICERCHE ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 237 


mente densi ed isolati situati in corrispondenza del lato esterno degli am- 
massi adiposi. 

Questi aggruppamenti erano inoltre costituiti da fibre eccezionalmente 
grosse ed avvolte su se stesse a larghe volute. 

Nell'uomo, almeno nei fasci presi in esame, non ho riscontrato ciò 
che in grado assai minore, ma. certo si è che anche qui, in corrispon- 
denza del lato esterno degli ammassi adiposi il tessuto elastico trovasi 
assai più addensato che altrove. 

L’ultima parte dell’invoglio che ci rimane a considerare è rappre- 
sentato dalla sua porzione più profonda, da quella cioè che si intromette 
fra vaso e vaso. Parlando degli ammassi di adipe, abbiamo già detto 
come questi possano prolungarsi nell'intervallo fra un vaso e l’altro fino 
a toccarsi ed a congiungersi, ed in tal modo abbiamo già considerato uno 
degli aspetti che può prendere qui il tessuto dell’invoglio. 

Ma anche nei fasci nei quali il fatto sopra accennato non avviene, 
noi vediamo che le avventizie dei due vasi contigui le quali a tutta prima 
sembrerebbero toccarsi e confondersi, sono invece nettamente separate 
l’una dall’ altra per uno strato di tessuto che presenta una differente 
struttura. 

Trattando i preparati con le colorazioni caratteristiche del tessuto 
elastico si nota lungo la linea suddetta una zona nella quale le fibre ela- 
stiche assumono una disposizione ben differente da quella che ci presentano 


‘ le avventizie dei vasi. Qui le fibre elastiche formano reti a larghe maglie 


allungate nel senso dell’asse onde nella sezione trasversa esse appari- 
scono per la massima parte tagliate di testata. Là invece le fibre stesse 
assumono una disposizione del tutto inversa; sono cioè dirette preva- 
lentemente nel senso della circonferenza. 

Ma anche nelle sezioni colorite con le comuni sostanze coloranti la 
distinzione apparisce del pari evidente. Qui le modificazioni del tessuto 
non appariscono che poco, ma la linea di demarcazione viene rivelata e 
posta in evidenza da una serie di piccoli vasi sezionati trasversalmente 
e messi in fila. Seguendo poi la serie dei vasellini la si vede far capo 
a quei vasi un po’ più grossi che abbiamo descritti nel mezzo degli am- 
massi adiposi e, quando questi si prolungano fra vaso e vaso, la piccola 
catena vascolare viene a trovarsi immersa in uno strato di adipe. 

In tal modo il terzo strato della vagina comune non solo circonda i 
tre vasi in uno strato continuo ma si intromette anche fra l’uno e l’altro 
separandole. 


238 i G. SALVI 


Differenze che può presentare la struttura della vagina comune. 


I fasci maggiori come abbiamo già detto, presentano una vagina comune 
meno sviluppata. Difetta o manca totalmente l’ adipe, si ha grande pre- 
valenza del tessuto elastico. Esso forma degli ammassi o cuscinetti al 
posto degli ammassi adiposi che abbiamo sopra descritti. i 

Lo strato fibroso periferico esiste in specie quando il fascio trovasi 
direttamerîte in rapporto con aponeurosi. 

Nei fasci minori intramuscolari e intraviscerali, la vagina si continua 
col connettivo che riempie lo spazio senza che sia possibile scorgervi 
uno strato più ispessito limitante. Gli ammassi adiposi si conservano 
assai bene nei piccoli fasci intra-muscolari ma poi spariscono ed al loro 
posto non si vede che una maggiore abbondanza di fibre elastiche. 

Lo strato vascolare si perde col diminuire di calibro del fascio. 


Da quanto più sopra abbiamo dettagliatamente esposto risulta adun- 
que che la vagina comune dei vasi consta di tre strati ben distinti. — 

1.° Uno strato fibroso periferico il quale è dipendenza delle aponeu- 
rosi e che può essere più o meno completo o anche mancare del tutto. 
Im esso non sono che scarsissimi i vasi ed i nervi. 

2.° Uno strato di connettivo lasso il quale per la sua funzione può , 
venir chiamato assai giustamente strato sieroso. Esso è scarso nei fasci 
provvisti di strato fibroso, abbondante in quelli che non ne hanno, ed 
in questo caso giunge fino alla parete dello spazio nel quale il fascio 
decorre. È anch’esso povero di vasi. 

3.° Uno strato vascolare costituito da uno stroma ricco di fibre ela- 
stiche a decorso circolare nel quale scorrono molti vasi a decorso longi- 
tudinale. Questo strato circonda tutto il fascio, ma si intromette anche 
fra un vaso e l’altro. " 

In corrispondenza degli interstizi sì trovano ammassi di adipe i 
quali appartengono evidentemente a questo strato della vagina comune 
perchè si possono trovare più o meno estesi sempre nei confini dello 
Strato stesso. 


Colpito dalla peculiare disposizione degli elementi di questo ultimo 
strato, volli completarne lo studio ricercando in qual modo decorressero 


RICERCHE ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 239 


in esso i vasi e i nervi che vi si osservano nelle sezioni, e qual con- 
nessioni esistessero fra di essi. 

Sono giunto a ciò moltiplicando le sezioni in serie, sia trasversali 
che longitudinali, ed ottenendo con molta pazienza dei preparati di 
vagina vascolare distesa in superficie. 

Questi preparati li ho ottenuti più specialmente nel fascio brachiale e 
nel fascio radiale ed ecco in che modo procedevo. Asportavo del fascio 
prescelto un segmento di qualche centimetro di lunghezza e lo fissavo 
con spille sopra una tavoletta di cera: e quindi con le pinzette e col 
bistouri sollevavo e tagliavo lo strato fibroso. Ciò fatto afferravo lo strato 
di tessuto rimasto aderente ai vasi e sollevavo anche questo. 

Se il pezzo era iniettato, mi servivano di guida i vasi che con 
l’aiuto della lente vi vedevo decorrere. Naturalmente insieme alla va- 
gina, veniva asportata porzione dell’avventizia dei vasi, ma più tardi, 
osservando il preparato al microscopio potevo facilmente differenziare le 
due parti. 

Con lo stesso procedimento, ma con maggiori difficoltà sono riuscito 
anche ad isolare porzioni di quel tratto di vagina vascolare che si in- 
sinua fra l’un vaso e l’altro. 

Altre osservazioni ho potute fare in sezioni longitudinali del fascio 
cadute appunto in corrispondenza della vagina vascolare. 

Il primo fatto che potei mettere in tal modo in evidenza fu che quei 
vasellini che nelle sezioni trasverse della vagina vascolare apparivano 
come una serie continua abbracciante a guisa di corona il fascio ed 
insinuantesi fra un vaso e l’altro di esso, costituivano nella spessezza 
della vagina stessa una fitta rete vascolare a maglie assai allungate nel 
senso dell’asse. Ciò apparisce chiaro nei preparati in superficie e spiega 
perchè nelle sezioni trasverse del fascio quei vasellini appariscono ta- 
gliati trasversalmente. 

Ho potuto anche accertarmi che i vasellini sono più fitti fra un vaso 
e l’altro, un po’ meno lungo la periferia dell’arteria, meno ancora da 
parte delle vene. 

Ma quello che è più interessante è il modo onde si comportano i 
vasi che decorrono nel mezzo degli ammassi di adipe o del tessuto che 
li sostituisce. 

Ho già detto come questi vasi sieno di calibro più grosso che quelli 
i quali costituiscono la corona dello strato vascolare e come questi ul- 
timi facciano capo ad essa. 


240 ù. SALVI 


Essi trovansi al centro di una specie di trivio dal quale si dipar- 
tono i rami che vanno ad abbracciare rispettivamente l'arteria e la vena 
e quello che si insinua fra l’uno e l’altro, e decorrono verticalmente. 

Nei preparati in superficie sopra descritti mi sono potuto convin- 
cere che i vasi costituenti la rete dello strato vascolare tolgono appunto 
partenza da questi ultimi. Ciò avviene in modo seriale e continuo e per 
mezzo di rami a decorso obliquo in alto od in basso. 

Accertato ciò, volli ricercare come si originassero e come terminas- 
sero quei vasi più grossi a decorso verticale, e dopo una’ quantità di 
tentativi ho avuto la fortuna di potermi assicurare che essi prendono 
origine da vasi collaterali che emanano dal fascio nel modo seguente: 

Ho potuto vedere da una di queste diramazioni della arteria origi- 
narsi il vasellino in discorso il quale va a terminare anastomizzandosi 
con uno analogo della diramazione successiva. Con delle iniezioni fini 
e ben riuscite questi fatti si possono dimostrare anche macroscopica- 
mente, con l’aiuto della semplice lente. 

In tal modo nel tipico fascio vascolare preso in esame noi abbiamo 
quattro catene anastomotiche longitudinali “situate negli interstizi fra un 
vaso e l’altro e dalle quali origina la rete vasale che circola nell’ultimo 
strato della vagina. 

Da queste reti poi traggono origine evidentemente i vasa vasorum 
che penetrano nelle avventizie. 

Nervi della vagina vascolare. — In sezioni trasverse trattate coi co- 
muni metodi di colorazione, nel centro degli ammassi adiposi vedonsi 
dei piccoli cordoncini nervosi sezionati trasversalmente. Nelle altre parti 
della vagina il fatto è più difficile a verificarsi: pure non è raro vedere 
qualche esilissimo cordoncino tagliato pure trasversalmente. Si osser- 
vano meglio queste particolarità ove si coloriscano le sezioni col metodo 
di WEIGERT. 

Ho trattato col .metodo di GoLei fasci vascolari completi che ho 
quindi tagliati trasversalmente e vagine isolate che ho preparate quindi 
in superficie, ed ho osservato i fatti seguenti. 

Parallellamente alla rete vasale, decorre nella vagina vascolare anche 
una rete nervosa costituita da un plesso di esili fascetti. La rete ha le 
maglie allungate nel senso dell’asse del fascio, ed è assai fitta. 

Essa origina dai cordoncini più grossi i quali decorrono vertical- 
mente nella spessezza degli ammassi adiposi per mezzo di rami colla- 
terali che si distaccano ad angolo assai acuto e da essa si dipartono i 


RICERCHE ISTOLOGICHE SOPRA LE VAGINE COMUNI DEI VASI 241 


piccoli filamenti nervosi che penetrano nell’avventizia dei vasi distribuen- 
dovisi a formare il plesso fondamentale di RANVIER. 

Non mi è mai avvenuto di trovare in questi fasci che ho presi in esame i 
corpuscoli di Pacini che in relazione con le vagine vasali sono stati de- 
scritti da KrAuSE, PRZEWOSKY, ARNDT, THOMA, RATTONE, HARTENSTEIN !) ecc. 
quindi non posso dire altro sul conto di essi, se non che mi sembrano 
per lo meno estremamente rari. 


Considerazioni generali e conclusioni. 


Da queste ricerche risulta anzitutto che le vagine comuni dei vasi 
sono organi ai quali per la peculiare struttura che presentano, deve 
certamente spettare una funzione ben definita. La posizione reciproca 
di vasi di diversa natura rinchiusi spesso in un astuccio non dilatabile, 
la particolare disposizione del tessuto adiposo e del tessuto elastico, 
fanno pensare alla possibilità che si verifichi anche qui quell’influenza 
reciproca fra la circolazione arteriosa e quella venosa che, secondo le 
ricerche del Treri ?) si esplicherebbe in taluni organi come funzione 
regolatrice. 

Resulta poi in modo sicuro che non esistono canali fibrosi speciali 
ai singoli vasi e nei quali questi si muovano indipendentemente gli uni 
-dagli altri, ma che l’astuccio fibroso è uno solo per tutti. 

Questa vagina fibrosa non esiste sempre ed è prodotta da sdoppia- 
menti aponevrotici; talvolta è rappresentata da un lieve ispessimento 
periferico, non continuo, della vagina comune; quando manca, ne fanno 
veci le pareti dello spazio nel quale il fascio decorre. Essa non pre- 
senta vasi, come hanno sostenuto molti autori (Bize, CHARPY). 

Alla vagina fibrosa sussegue uno strato di connettivo lasso povero 
di fibre elastiche il quale funge da sierosa rudimentale e che merita 
quindi il nome di vagina sierosa. È più o meno sviluppata non entra 
affatto fra un vaso e l’altro, non è comune a tutti i vasi del fascio. 
Anch’essa non presenta vasi che siano degni di nota. Finalmente si pre- 
senta uno strato più profondo il quale è ricco di vasi e merita quindi 
il nome di vagina vascolare. 


1) HARTENSTEIN F. — Die fopographische verbreitung der Vater’schen Kor- 
perchen beim Menschen. Dorpat, 1889. 

2) Tiri A. — Intorno all’apparecchio anatomico del meccanismo compensa- 
tore del circolo sanguigno. (Gazz. med. feder. Tosc. vol. II, 1852. 


2492 G. SALVI 


Essa è assai complicata di struttura. Consta di uno stroma connet- 
tivale a fasci concentrici e ricco di fibre elastiche le quali hanno la 
stessa direzione e si addensano specialmente nella porzione più perife- 
rica a guisa di una sorta di strato limitante. Può presentare in mag- 
giore o minore quantità dell’adipe, il quale si accumula specialmente negli 
angoli che sono fra i vasi contigui sotto forma di guancialetti adiposi 
ed elastici assai caratteristici e si spinge anche fra un vaso e l’altro. 

Questa vagina vascolare oltrechè di vasi è ricca anche di nervi. 

I vasi hanno la disposizione seguente: 


Negli angoli fra un vaso principale e l’altro si trovano piccoli vasi arte- 


riosi e venosi a decorso longitudinale, i quali si originano dalle diramazioni 
collaterali del fascio e stabiliscono fra di essi una catena anastomotica. 
Da questi vasellini si originano altri più piccoli i quali vanno a di- 


ramarsi nella vagina vascolare anastomizzandosi sotto forma di una rete 


a maglie assai allungate nel senso dell’asse del fascio. Da questa rete 
sl originano i vasa vasorum dei singoli vasi principali. 

I nervi seguono i vasi. I cordoni principali più grossi accompagnano 
i vasi a decorso longitudinale negli angoli dei quali è fatta sopra men- 
zione. Da essi, originansi diramazioni collaterali più esili le quali vanno 
a formare un fitto plesso entro la vagina vascolare. Da questo plesso 
originano i rami che penetrano nelle avventizie. 


GIOVANNI D’'ACHIARDI 


LIBERO DOCENTE DI MINERALOGIA NELL'UNIVERSITÀ DI PISA 


MINERALI DEL SARRABUS 


(SARDEGNA ) 


1. Pirargirite e Proustite. — 2. Baritina. — 8. Armotoma 


Nello scorso mese di aprile l'ingegnere G. B. TRAVERSO, l’indefesso 
raccoglitore e illustratore di minerali sardi, inviava a questo Museo di 
Mineralogia, parte in dono e parte per istudio, molti e belli esemplari 
di specie mineralogiche diverse provenienti da varie località del Sar- 
rabus (Sardegna). Per alcune di queste specie, poco note o solo somma- 
riamente descritte, ho creduto non del tutto inutile l’ifitraprenderne lo 
studio, e per quattro di esse ‘comunico oggi alla nostra Società i resultati 
ottenuti accompagnandoli con alcune figure delle forme cristalline più 
tipiche per ogni singola specie. 


Pirargirite e proustite. 


La pirargirite fu menzionata dal prof. BomBicci nel 1877 in una nota, 
nella quale dava alcune notizie Suè minerali delle miniere del Sarrabus (1), 
che gli erano stati inviati in dono dallo stesso ingegnere TravERSO. 
Dice che trovasi in lamelle e grani frammista alla galena e in cristalli 
rudimentali, ma senza forme nitidamente costituite, entro,la matrice 
litoidea dei filoni argentiferi di Monte Narba. Aggiunge però che una 
geode con nitidi cristallini ne fu spedita all’esposizione di Vienna nel 
1873, e che in un esemplare del Museo civico di Genova (N.° 1704) ne 
ha pure osservato un piccolo cristallo, che giudica costituito dalle fac- 
cette e, et (j211}, {110}) e di cui dà la figura (vedi tav. II, fig. 37); non 
è però data alcuna misura di angoli. i 


1) Contribuzioni di Mineralogia ital. Mem. R. Ace. Sc. Bologna. S.*III, vol. VIII. 


Sc. Nat., Vol. XVII 18 


244 G. D’ACHIARDI 


Il dottor EmANUELE ZoccHeEDDU *) non cita alcuna varietà di argento 
rosso fra i minerali sardi, mentre l'ingegnere G. B. TrAvERSO ?) e suo 
fratello STEFANO *) citano nelle loro memorie la pirargirite di diverse 
località del Sarrabus. G. B. TRAVERSO nella sua ultima la ricorda di 
Monte Narba, Giovanni Bonu, Masaloni ecc. Cita le specie con cui è 
associata, fra le quali l’argirose, la stefanite, la galena, la ‘calcite, nelle 
cui geodi per il solito si annidano i migliori cristalli, come si può ve- 
dere dai numerosi campioni del Museo civico di Genova da lui raccolti 
(citati col numero di catalogo). Esso pure non dà misure angolari della 
pirargirite, ma fa notare come si presenti in eleganti gruppetti di sca- 
lenoedri trasparenti, brillanti se nelle geodi della calcite, mentre nelle 
cavità in mezzo alla galena e alla blenda suole presentare abito pri- 
smatico-esagonale bipiramidato e un colore grigio cupo con riflessi rosso- 
rubino. I primi proverrebbero dalle miniere di Baccu Arrodas, Monte 
Narba e Giovanni Bonu, i secondi di Masaloni. La pirargirite può presen- 
tarsi pure in piccole venule o massarelle che attraversano le matrici dei 
filoni, non che in sottili laminette e rivestimenti dendritici nei piani di 
divisione delle matrici stesse. 

Fio. 1. I cristalli mandati dall’ingegnere G. B. TRAVERSO 
a questo Museo provengono, quelli impiantati sulla 
roccia da Giovanni Bonu e Baccu Arrodas, di dove 
credo che sieno pure quelli isolati di argento rosso 
di abito prevalentemente scalenoedrico e di colore 
rosso assai vivo; mentre proviene probabilmente da 
Masaloni un gruppetto di cristalli di colore grigio 
scuro e di abito cristallino diverso e conforme alla 
descrizione data dal Traverso della pirargirite di 
questa miniera. Questi cristalli di colore grigio-scuro 
metallico lucente mostrano la presenza delle facce del 


prisma {101} sempre associate a quelle prevalenti dello 


3 
scalenoedro {201}, come ci rivelano i valori di circa 35° e 74°, ottenuti 
per gli spigoli culminanti con semplici riflessi a un goniometro Wot- | 


1) Sulle principali specie mineralogiche sarde. Cagliari, 1877. 

?) Giacimenti a minerali di argento del Sarrabus e di alcune specie di mi- 
nerali provenienti ecc. Ann. Museo civico di St. Nat. di Genova, vol. XVI, feb- 
braio 1881. — Sarrabus'e suoi minerali. Alba, 1898. 

3) Note sulla geologia e sui giac. argent. del Sarrabus. Torino, 1890. 


MINERALI DEL SARRABUS (SARDEGNA) 245 


raston. Alla sommità appaiono altre faccette indeterminabili per esatte 
misure, verosimilmente di {310} (Fig. 1). Le facce, meno quelle prismatiche, 
sono profondamente striate, onde impossibile affatto esatte misure per ri- 
flessione del segnale. Gli altri cristalletti con abito prevalentemente se 
non esclusivamente scalenoedrico, a colore rosso-vermiglio, polvere rosso- 
aurora, fanno subito pensare che sieno piuttosto di proustite che di pi- 
rargirite come i primi. 

G. B. Traverso dice che le molteplici indagini fatte in svariati esem- 
plari del Sarrabus, sia cristallini che compatti, non rivelarono mai la 
presenza dell’ arsenico, dando invece sempre marcatissima la reazione 
dell’antimonio, però nota anche come il trovarsi spesso l’argento rosso 
in compagnia di minerali arsenicali fa sospettare l’esistenza di un vero 
solfuro arsenicale di argento (proustite) o per lo meno di una miscela 
dei due solfuri multipli, come succede in altri giacimenti. 

E il presentimento del TRAVERSO si è avverato, poichè i cristalletti 
a color rosso vivo e ad abito scalenoedrico non sono di pirargirite, ma di 
proustite. I saggi al cannello sul carbone mi avevano lasciato nell’incertezza, 
poichè l’odore caratteristico d'aglio dei minerali arsenicali non si riu- 
Sciva quasi a distinguere, forse a cagione dei vapori solforosi che con- 
temporaneamente si svolgono; ma l’analisi per via umida non lascia 
alcun dubbio. Nella soluzione cloridrica del minerale, separato il cloruro 
di argento che si forma, l’idrogeno solforato dà un precipitato assai ab- 
bondante di color giallastro, costituito quasi essenzialmente di solfuro 
di arsenico come dimostrano la sua solubilità in acido nitrico e il pre- 
cipitato rosso-mattone, solubile in acqua ammoniacale, di arseniato d’ar- 
gento, che si forma trattando la soluzione nitrica del solfuro con nitrato 
di argento. Di antimonio nei pochi saggi da me fatti nessuna traccia o 
appena visibile. 

Quindi fra le specie di argento rosso del Sarrabus va annoverata, 
oltre la pirargirite, anche la proustite; anzi mentre per la prima non 
mi è riescito prendere alcuna misura per la seconda potei ottenerne 
diverse che più sotto riporto. 


Predomina nei cristalli di proustite del Sarrabus lo scalenoedro {201}, 
le cui facce sono striate parallelamente agli spigoli di combinazione fra 
le superiori e le inferiori (Fig. 2), onde difficili anche qui le misure, e 
talora solo possibili per i riflessi a lente abbassata dell’ oculare: 


246 G. D’ACHIARDI 


Angoli misurati dati da MiERs !) 
(201) : (210) 35° 58°—36° 18" 35018 
CODE (020) 70M 
Sono valori soltanto approssimativi, ma pur tali da non lasciar dub- 


bio sulla presenza di questo scalenoedro, che è il più comune, abituale 
della proustite. 


Ad esso si associano quasi sempre le facce più lucenti, spesso lineari, 
di {111} (Fig. 2 e 3) e in altri cristalli anche di {110} (Fig. 3) striate paral- 
lelamente allo spigolo di combinazione (110) : (111), e benchè più di rado 
e meno evidenti, anche di {100}, che sono però più lucide delle altre ?). 
Le misure prese dettero: 


Angoli misurati i calcolati (MIERS) 
(201): (111) . 36081’—37°39"  37°19' 30” 
(110) : (011) 42° 3'—42028" 42° 46" 
(110) : (111) 36° 46—36° 47 36°4730” 
(110) : (100) 36° circa — 8606". 


1) Contributions to the Study of Pyrargyrite and Proustite. Min. Mag. a. 
Journ. of the Min. Soc. Vol. VIII, N.37. London, 1888. 
?) Nella fig. 3 deve leggersi 201 e non 201. 


MINERALI DEL SARRABUS (SARDEGNA) 247 


Tali le forme di questi pochi e bei cristallini di proustite. Le mi- 
sure prese, se per le condizioni delle facce non sono di grande esat- 
tezza, sono certo più che sufficienti a stabilire l’ abito loro nella pre- 
senza di forme già note. 


Baritina. 


Il BomBiccr nella memoria già citata ricorda la baritina di Baccu 
Arrodas (comune di Murevera) a struttura saccaroide, lamellare, scagliosa, 
talora con grosse lamine cristalline, nelle quali è affatto irregolare e con- 
fuso l’adunamento della massa, ma che alla superfice si associano in 
sistemi lenticolari. 

S. TRrAaveRSO (mem. cit.) osserva come la baritina nel Sarrabus dif- 
ficilmente si presenti in cristalli e come se ne trovassero dei piccolis- 
simi, ma molto nitidi a Baccu Arrodas e a Tuviois. G. B. TRAVERSO 
ricorda i nitidi cristalli tabulari nelle geodi a Giovanni Bonu sovra cri- 
stalli di calcite e dice che a Baccu Arrodas, S'Arcilloni, Tacconis e Tu- 
viois i cristalli mostrano il prisma primitivo e sono fra loro elegante- 
mente aggruppati, jalini, incolori a Baccu Arrodas, colorati in giallognolo 
o giallo-verdastro a S’Arcilloni e Tuviois. Di altre regioni sarde è citata 
la baritina in magnifici cristalli di Montevecchio, che furono descritti 
ed effigiati da G. B. NeeRI ‘), il quale vi rinvenne 24 forme in numerose 
combinazioni. Di Nebida in piccoli cristalli tabulari secondo {001} fu stu- 
diata dal Riva ); della miniera di Malfidano presso Buggerru sono ci- 
tati i cristalli laminari semplicissimi da F. MILLOSEVICH #). 

Sui campioni cristallini limpidi trasparenti di Tuviois, inviatimi per 
istudio da G. B. TravERSO, io potei prendere diverse misure angolari, 
che mi servirono alla determinazione delle forme presenti in tutti o quasi 
tutti i cristalli: 


{111}, {110}, {101}, {010}, {001}. 


Le misure angolari non sempre riescono esatte per le striature e 


1) Sopra le forme cristalline della baritina di Montevecchio (Sardegna) e di 
Millesimo (Liguria). Riv. di Min. e Crist. ital. Vol. XII. Padova 1892. 

?) Sopra alcuni minerali di Nebida. Rend. Ace. Linec., Vol. XI, 1° sem., 
serie 5, fasc. 12. Roma 20 giugno 1897. 

3) Zolfo ed altri minerali della miniera di Malfidano presso Buggerru 
(Sardegna). Idem. Vol. VII, 2° sem., ser. 5%, fase. 9. Roma 6 nov. 1898. 


248 G. D’ACHIARDI 


ondulazioni delle facce, onde alcune sono solo approssimative, però tali © 
sempre da non lasciare alcun dubbio sulla determinazione delle forme: 


Angoli misurati calcolati (NEGRI) 
(010) : (110) 50° 32'—50° 55/ 50° 51’ 
(010) : (001) 89° 31’—90° 32’ 90° 00° 
(110) : (111) 25° 5" — 26° 30' 25° 42” 
(111) : (001) 63° 46/—64° 00° 64° 18 
(101) : (101) 62° 50'—63° 14 63° 38 
(101) : (001) 57° 46/—59° 18 58° 11’ 


L’abito dei cristalli è in generale tabulare per grande sviluppo delle 
facce basali (Fig. 4), sulle quali 
appaiono esilissime strie parallele 
agli spigoli di combinazione col 


Fia. 4. 


prisma. | 
In alcuni cristalli appaiono 
altre faccettine esilissime mal de- 
terminabili per esatte misure: per la posizione loro potrebbero appar- 
tenere alle forme {011}, {102}, {121} o altre di tipo corrispondente. 
Talora si hanno unioni parallele di due cristalli per la faccia basale, 
onde appaiono angoli rientranti tra le facce {101} dei due individui. 


Armotoma. 


Fra gli esemplari avuti per istudio dall'ingegnere G. B. TRAVERSO 
ve ne hanno parecchi provenienti da Giovanni Bonu, nei quali insieme 
a fluorina cubica bianco-verdastra, calcite laminare, baritina ecc., appaiono 
come degli stratarelli, incrostazioni costituite da minuti cristallini di ar- 
motoma, che rispetto agli altri minerali sui quali si trovano sembrereb- 
bero di più recente formazione. " 

G. B. TRAvERSO nelle due memorie sopra citate è il primo per quanto 
io mi sappia a ricordare l’armotoma del Sarrabus, che dice fu ritrovato 
soltanto nelle miniere di Baccu Arrodas e di Giovanni Bonu. Ne de- 
scrive i cristalli ora jalini con splendore adamantino, ora bianchiccio- 
lattiginosi, più raramente di colore oscuro. Ne ricorda le facce 5 !/, {111}, 
m}110} e p{001} in cristalli che dice presentare la geminazione sem- 
plice simulando forma unica e più comunemente la doppia per compe- 


MINERALI DEL SARRABUS (SARDEGNA) 249 


netrazione di due macle semplici come nell’ armotoma di Andreasberg. 
Non sono date però misure angolari, sebbene gli angoli possano misu- 
rarsi con sufficiente approssimazione, malgrado la piccolezza dei cristalli, 
dai 2 ai 3 mm, e la striatura delle facce già notata dal TRAVERSO. 

Nè misura alcuna e conseguente determinazione di forme dà il Lo- 
visaTo, il quale accenna all’armotoma, trovato nei filoni argentiferi del 
Sarrabus dall’ingegnere G. B. TraveRSO, in una comunicazione fatta 
all'Accademia dei Lincei !). Fu per questo che io credei opportuno a più 
sicura determinazione prendere le misure che mi furon possibili nei cri- 

stalli inviatimi, che corrispondono alla descrizione data dal TRAVERSO. 
Non potrei asserire se alcuni, in ogni modo rarissimi cristalli, ab- 
biano costituzione di semplici gemelli; quelli da me esaminati presen- 
tano tutti costituzione multipla per la compenetrazione abituale dell’ar- 
motoma di Andreasberg effigiata da FRESENIUS ?), KLoos *), HINTZE 4) ecc. 

Dei cristalli dà anche imagine la figura pubblicata da Des CLorzrAUX 
nell’atlante, che fa seguito al primo volume del suo Manuale di Mine- 
ralogia *), figura stata riportata in altri trattati; e si capisce come senza 
esatte misure il TRAvERSO ad essa o altre consimili abbia riferito i 
cristalli del Sarrabus attribuendo loro le facce {111}, {001}, {110}, non 
essendo forse a sua cognizione che lo stesso Des CLOIZEAUX, nel suo 
secondo volume fra le aggiunte all’ errata del primo, sopprime addirit- 
tura quasi l’intiera pagina 413 relativa all’armotoma e quindi con i va- 
lori angolari dati in essa anche la figura. 

In molti cristalli del Sarrabus le facce del prisma {110} striate pa- 
rallelamente agli spigoli di combinazione con {010}, così come nelle 
succitate figure dell’ Hintze, FRESENIUS ecc., sono così prevalenti da fare 
sparire del tutto, o quasi, altre facce sulla terminazione dell’apparente 
prisma quadrato prodotto dalla quasi fusione nello stesso piano delle 


1) Notizia sopra un heulandite baritica di Pula con accenno alle zeoliti fi- 
nora trovate in Sardegna. Rend. Ace. Line. Vol. VI, 1° sem. ser. 52, fase. 7°, 
Roma 4 aprile 1897. 

2) Ueber den Phillipsit und seine Beziehungen zum Harmotom und Desmin. 
GrotH’ s Zeit. III, 44. Leipzig, 1879. 

3) Ueber Harmotomzwillinge von Andreasberg. Neues Jahrb. f. Min. u. s. 
w. Bd. II; Hft. III, pag. 212. Stuttgart, 1885. 

4) Handbuch der Minéralogie. II, 1792. Leipzig, 1897. 

5) Manuel de Minéralogie, t. I, 412-415, 1862; e t. II, pag. LI, 1874; atlante, 
tav. XXXII, fig. 187. 


250 G. D’ACHIARDI 


facce {010} e {001} di due individui adiacenti, oppure per la scomparsa 
presso a poco completa delle seconde. Ma in non pochi però sono assai 
subordinate, come nella figura data dal K1oos *), per 
dar posto ad altre. 

Le facce che in questi cristalli poligemini a 
prima giunta si scambierebbero con le {100} rappre- 
sentate nelle figure più volte citate, vanno invece 
riferite per la loro inclinazione diversa ad altra 
forma, la {710}, pur sempre della zona (100) : (010). 
Quindi le forme riscontrate da me in questo armo- | 
toma del Sarrabus sarebbero (Fig. 5): 


{110}, {710}, {010}, {001} 


di cui la seconda è nuova e fu da me calcolata partendo dalle costanti 
di Des CLOIZEAUX cioè: 


AO 703152540 BEST 


Le misure angolari non sempre facili a prendersi non tanto per la, 
piccolezza dei cristalli quanto per la striatura specialmente di alcune 
facce confermano non pertanto soddisfacentemente la fatta determi- 


nazione: 
Angoli misurati calcolati D) 
Limiti Medie 
(010) (CAO) 90 27’ —60°7 59° 45" 45” 60°0° 30% — 14°45% 
(010) (7al0) 650 —- 85997. 850267 8501712” 4- 848" 


(110): (710). 25°5° —25055° 25026’ 25016742” 4 918” 


Le {710} contigue sul piano di geminazione basale fanno fra loro 
un angolo misurato di circa 10°, che se di poco differisce dal normale, 
902336”, così come differiscono pure tutte le altre, non è a far mera- 
viglia in cristalli poligemini come questi, poichè è noto che le anomalie 
angolari sono tanto maggiori quanto più complicata è la geminazione. 

Del resto come fra le facce di uno stesso individuo, così fra quelle 
di individui adiacenti, difficili sono a prendersi le misure per la molte- 


i) Mem. cit., tav. VIII, fig. 8. 


MINERALI DEL SARRABUS (SARDEGNA) 251 


plicità delle imagini, onde volta per volta bisogna accertarsi da dove 
esse imagini provengono per non incorrere in erronee misure. 

Come effetto della complicata geminazione deve pure ritenersi il 
comparire di piccole faccette, o meglio ondulazioni delle facce principali, 
che si risolvono in ottusissimi spigoli, quali già aveva nell’armotoma di 
Andreasberg osservati anche il KLoos e indicati nella figura citata con 
la lettera è. Lo STRENG !), che osservò queste faccette sui cristalli rom- 
boedrici di cabasia, del pari compenetrati a croce, le aveva qualificate 
come Durchbruchsflichen. 

Quantunque potessi ritenere superfluo un saggio chimico ad accer- 
tarmi che i cristalli da me esaminati erano realmente di armotoma e 
non, per es., di phillipsite, pur non volli trascurarlo. E la sostanza pol- 
verizzata e attaccata a caldo con acido cloridrico lasciò indietro silice 
granellosa, carattere dell’armotoma e non della fillipsite che dà silice 
gelatinosa, e dalla soluzione cloridrica con solfato calcico ottenni ab- 
bondante precipitato di solfato baritico a conferma della. fatta deter- 
minazione. 


Laboratorio di Mineralogia dell’ Università. 


Pisa, 25 maggio 1900. 


1) A. SrrENnG. — Ueber den Chabasit. Ber. der Oberhessischen Ges. fir 
Natur-und Heilkunde. XVI, 74; Giessen, 1877. 


PRN-IDeE CE 


DELLE 


MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME 


G. Romiti. — /! significato morfologico del processo marginale nel- 


l'osso xigomatico umano (Tav. I) i DRS 
G. Salvi. — Arteria dorsalis pedis. Ricerche morfologiche e com- 
parative . 


G. D’Achiardi. — / Quarzi delle gessaie toscane si Hi mm) 

G. D'Ancona. — Il Lotus Corniculatus o Ginestrino (Tav. IV) 

M. Canavari. — Mopliti titoniani dell’ Appennino centrale (Ta- 
vola V ) CEE RE te 

P. R. Ugolini. — Sopra alcuni pettinidi delle arenarie mioceniche 
del circondario di Rossano in Calabria (Tav. VI) . 

G. D’Achiardi. — Studio ottico di Quarxi bipiramidati senza po- 
tere rotatorio 

P.R. Ugolini. Lo Steno Bellardii Portis del Pliocene di Orciano 
pisano (Tav. VII) . SR 3 

D. Bertelli. — Sviluppo dei sacchi aer di del o — Divisione 
della cavità celomatica degli uccelli (Tav. VIII) . 

G. Salvi. — Arteriae dorsales carpi — Contributo alla Morfologia 
della circolazione nell’ arto toracico Trana 

P. Vinassa de Regny. — La sorgente acidulo-alcalino-litiosa» di 
Uliveto (Studio idrogeologico) (Tav. IX) 

E. Manasse. — StH/lbite e Foresite del granito Elbano 

G. Salvi. — Ricerche istologiche sopra le vagine comuni dei vasi 

G. D’Achiardi. — Minerali del Sarrabus (Sardegna) — 1. Pirar- 


girite e Proustite. — 2. Baritina. — 3. Armotoma . 


» 


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105 


114 


132 


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| Atti Soc.Tos.Sc.Nat.Vol: XVII .Tav.I. Romiti Il Signif. Morf. del processo marginale ete. 


R:Lit:Gozani 3 C.Pisa 


G. D'ACHIARDI - 1 QUARZI DELLE GESSAIE, Ecc. 


Tav. II. 


XVII. 


Nat. Vol. 


Atti Soc. Tosc. Sc 


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Atti. Soc.Toso, Sc. Nat.Vol. XVII.Tav.V. 
M. CANAVARI - ZHopliti titon. del’ App. centrale [ Tav. TO: 


CRISTOFANI DIS. 
ELIOT: CALZOLARI & FERRARIO. MILANO 


di Calabria [ Tav. 1]. 


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Vol. XVII. 


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. TIPOGRAFIA SUCC. FRATELLI NISTRI 


1900 


INDIGE 


DELLE 


MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME 


G. Romiti. — // significato morfologico del processo marginale nel- 

l'osso, sigomatico umano (Var. 1) | Tee 
G. Salvi. — Arteria dorsalis pedis. Ricerche morfologiche e com- 
sifaparative “i Si i LT 


G. D’Achiaggi. — I Quarxi delle gessaie toscane (Tav. II, IMI) » (58 
G. D'Ancona. — Il Lotus Corniculatus 0 Ginestrino (Tav. INGROSSO 
M. Canavari. — Hopliti titoniani dell’ Appennino centrale (Ta- 


o) RE di SOLAR ME 0 
P. R. ai — Sopra ea 1... delle arenarie diva a 

del circondario di Rossano in Calabria (Tav. VI) . ... .. >» 105 
G. D’Achiardi. — Studio ottico di Quarzi bipiramidati senza po- 

tere rotatorio. . PAM il 
P. R. Ugolini. Lo Steno Bellardii i His del sui di Odi 

pisano (Vane. 0... » 132 
D. Bertelli. — Sviluppo dei sacchi aer riferi (1) doud: — pa 

della cavità celomatica degli uccelli (Tav. VII). . . ... > 145 
G. Salvi, — Arferiac dorsales carpi — Contributo alla Morfologia 

della circolazione nell’ arto toracico . . >» 167 
P. Vinassa de Regny. — La sorgente 21° als litiosa di 

Uliveto (Studio idrogeologico) (Tav. IX) . . . ... +.» 186 
E. Manasse. — Stilbite e Foresite del granito Elbano . . . . >» 203 
G. Salvi. — Iicerche istologiche sopra le vagine comuni dei vasi.» 228 
G. D’Achiardi. — Minerali del Sarrabus (Sardegna) — 1. Pirar- 

girite e Proustite. — 2. Baritina. — 3. Armotoma . . LC Sedi 


i ERE IRIININI SONIA 


Ufficio di presidenza per gli anni 1899-900, 1900-901. 


Presidente . . — Prof. Sebastiano Richiardi, Pisa. 


ha D — Prof. Giovanni Arcangeli, Pisa. 
ice prestdenti 
ca 3 — Prof. Fausto Sestini, Pisa. 


Segretario . . — Prof. Antonio D’Achiardi, Pisa, Via S. Martino, N; 12. 
Vice segretario — Prof. Mario Canavari, Pisa. 

Cassiere. . . — Bartolommeo Caifassi, Pisa, Via S. Andrea, N. 25, 2.9 p.° 
SEDE DELLA Societa — Museo di Storia Naturale in Pisa. 


PERRIN VOTA al 


Gli atti della Società (memorie e processi verbali delle sedute) si pubblicano 
per lo meno sei volte all’anno a intervalli non maggiori di 3 mesi. 


Ii 
3 9088 01316 4108