Skip to main content

Full text of "Atti della Società toscana di scienze naturali, residente in Pisa"

See other formats


dii CPT ITICICICII 
Ù) a ade N (3) DOO 
curdi DECIDO NOE ICON RIV RSI) noi RA 


ROOLANRIE ho OSCENI 


NORTE rad 
UR A ù Kw 


Li do 


Vihrke 


ba RUNAR 
RT IRAI VISO Vea 

A chi 
en do CATO (RIONERO ‘alc atl 
"SURE $Ù DA RARO 


Mani 


DALL mr > 


MORA AAC , 
Pi 3A 


gra i erdrle DO! 
‘ 


MRI aa 
s9 À 
Mas 


SPOT 


SUCAI) 
CONOR vin 
pena sf 
% 
di ad RO x Li cut 
fort atri 


SY 
Voti den (E Atina] Ù 


Mr SANA vir 
ma n TATA NILE apt 
00 Maia DI DIRI, GI 
tiara WUSTICCA 
SUA le 


de \ 
SUECIE RIT SOCE 

DREVIÙ daino DCI 
ar da 


IC SATA ETRE 


CROCAIO 
PI Mipari lita eleavt 
NASCONO ALI: MEF RRIA 
VASCA ATA ea Ve 
(eh OMNES 
g°, 144 


dep ide 
UTO Midi 


"0 
ROVORINGNO aa 
INCARICO det UNO) IPLAZCEIUAO CSO 


OUMICORDIO DIA 
vi 


DIA 
LAI 
MERIDONI COLI LARA i 
L MIAO pe de Cal Qu 


SAI SUSA 


INWUER 
STR CRRACSCACATI 
IDIACO) 


MIROCAICAIO 
VE MIREOLIDO 


ìi 
Ci 


uiag i ha, ERA vba 
A pr 

PLAN a CO) 
nu DR MOMIA INA IMELA III) 
Y Ci 


(aa Ma e AQ 
‘a A 


#0 
DIREI MAU 
È. Ha 
% 

1a 


44 dA 11) LIL 
PMI IAN ORI AVO 
A dl 


UOC è 
COS LATAN V# ana E 
IR RICCIULIAI AA, 


MIA 

MAPPA MPI ICTATICUSTNATE. 

13 de II RINO fo yi ALe 

MSA RIA PERA: dI taglia de 
MAC DADBOROOCO ) 

) È 


UNDUZEALI 
CORCREDANO 
[rada L) 


n è: Ù 
IRON 
n 


VER A 


Pao 
d a 


RIINA 
09 


PORNO 
È 


\ 
IINCUORISIANIAITAVT, 
( (i 
MIRA Aa SAI OE 
DI Ara RAMA 
0 RAD y, 
vi 
; x 
IUDIUICIA Nat 
DREI 
SVASERA, 


UV, 
CAI 
(EL! 
i SUA 4 
n DORICO MILICI 
PELA n Li STARE 
È PELO 
{ uo NCL RATA 
CRISI SAISO ECO 


n 

MIAO 

Hragtl'a 
4 


UA 
DUAN 
Yui da 


GA WU DIO dd 
EVO EV AT 
CUU II ART A 
RENO. Att 
NOUIMERIRCORICEICICA 
PANICICNUONO NY 
IMEINONE 
TREAT 


pair starti 
LICMO « 
IIC (Kr 
DARIO 
PRRUACADI b 
Mv 


TI 
MICI, 
Wal ar bem Al 
A LA Pn IENA 

lè 5 


4 Ro 
I ad ti PASCAL PATO 
UTO PANE EA I DO 

VAI PUMA 
giù Ù Ù 


NNNOCIE 
A) PA 
GNOME TAZICNO 

9 


A ; 
Vi a tO, DO 
s° DO) n 
Ì pi DO at PARA DI NTAGtA 
NO i) LN x (LAN 


L A 
MUOCIDCAAZA Wi 
dik 


MORI IUKOS 

illa bito rg e) INCINCI 

) è 

Viu Ul 
OOO 

NICSCROCIO 


Ù 
CIRO NOCI 


DPIRORTU INDÙ, 
x LAINO ri 
A 


ì LU 

UORARINOGCIRIORI n 
DI Ù d 

TRANI 
DO Ò 

TRO 

ICIONZIO 

n) 


RO 
4 Wa 
DR) 


eri 


"RA 
ì 


DI DICMICIOIOCIOO 
NU DONIOUIONO 4» 
dd 


Tino W, 


n4 N O UD IRR N 


ì 
x at Da 


JO 
pasa 


satin è 


Do 


Luco sami Tui 


LA 
DI PIERO Pad 


Mi RAIL 
no Doo A ana a 
atatarara ata n rar pera Sii 


Doe We 
no Mita dn 
DSS 
wa MIR w 

gara 


no 
Teri 
di 


Reti are 
qu @on 


l'imfgodo 
MORSI, 
pia 


DE 

Mello bi da d MIL 

UN PUN (TA sit È %) 

Lara QUOGICNI Viene 
Hi dM 


cp EM 
di ded 4 
#" 

10) 
de RO 
si 


ho è MIT 


i 
Sui 
TONI 


i 
và dies 
SR VE 
VORREI 
NIENTE TTUTI 
dg fi pe 


fe 
# 


SÙ das s i 
N ifdraed 4 
DV TE nate 


VOMITARE 
ULTI 


® Dt 
MUCVILS 
de 


(I 
LISTE] 


Ke pe, bi ah 
patti 


di FUSI) 
UTO, aa 0 


nt 
MITICI 


Wine 


IU) 


PO 


DIA Rria. 


DOCH 


NUR 
MUNE 
t'0e ORA 


we 
SRI 
DICCI UR WI 


Pa 
TAI 


la RR Ù NI tI 
I ta PIOTICTL 


dl dd dt 
MEN ea 


CNEDCR COELI CIO 
VUITTON 
n 


COIN 


di Sl (Pai, DR de DA 


Li 


ded 
to 


) gt 
ve NCA0O 
da 


ion 
Age 85 


UCOLOROCORO 
(aa suonano 


i AA 


POIRORCO COIN 


IONRLA Laghi 


RI A. ps î 
. 


ci dani 


ATI 
a mt 
Perito sargretiro 


NA 
I 


guire A e 
ui TRONI MIL Rea 


ce 
“rosa che 


Vasblacto: 
DICO on e: 
RR 

conan 


aa) DISSI 
esi 


LIO i) dai 


È 
ABITA A dl 
tane n 
as 3 
n 


id gia 
L'EURO 


Besa io 
Qua 


ie A 


î 
DICA 
URALI per 
ARODTSOGIENE 
À ; 
DI 

PITTI Micgnni 


DN 
SR 
at 
DR vat vue: ina 


esc DÈ DA dea 


Ar 
"i 


Lo 


LAS, 


ha i) 
dee Fi Mpredlbtà 
(ACTOR 


n 
Veri METRI 
Ci 


VELI 


pini: 
e 


ei 
do RIO uri rato ne 
SARE DO, at 
se Ta SA 
9 al pad ho 
è 0 A brere SS Amica 


sesto VOTI Le og dae 
e è dle 
wet + M 


NICO 
pie e a e dal La a 
Co Var Lega 


Vee ricirtei CECA! 
M ù 
fo Li 


2, Mavi Ni 
X Riot] 
(SPE PE NG 


POSI 


AVATAR 
ie 
UN 14! DOIGÙ 46 


Atria i nn 
hr È 
‘Irda mesh, di è 


mea 
Fadda A 
DINO 


PESESIII 
pareti » 
mul neea 

di perid 


SADE geo 
Sardi de DRRLODIA RIA 
IRE TR Lab Dos 


DON La pe 


DOMCOXE: 


Tn 
ONG 
O 


AIA 
cl QP AR IRE be st de 


O 
bari NA e dl dI dp di giga 


ne 

var ere DISSI CO 
uan Vi SRO SLI giro 
ec REG 


Ai ed # 
ada 
DI 


QUA 
Va 


MOO 
LASA 
da dee 


privo eri vete debe 
INRRICTOCOOCI 
Se ped dr 

pe iaiei erbe 


ue ere 
arr egaratonte 
* RARI NE > 


COSI 


v3 mat i IUS pare 
Ta 


ist; Sat << 


DI DLL D 
ISUORAI STRATO NOCI IGO OI 4 


CANTI ea 


ATTI 


DELLA 


SOCIETÀ TOSCANA 


DI 


SCIENZE NATURALI 


IR DS DIN II ION IRITSZA 


PISA 
TIPOGRAFIA T. NISTRI x 0. 


1897 


GIOVANNI D'ACHIARDI 


PELO rRMeA EEN 


DEL 


GRANITO ELBANO 


PARTE II 


CARATTERI FISICI 


Durezza. 


Per quante indagini abbia fatto non so che sieno state no- 
tate differenze di durezza dall'una all'altra varietà di torma- 
lina elbana, e tanto meno fra i varii esemplari di una stessa 
varietà o nelle direzioni diverse di un medesimo cristallo. 

A. D'AcaiarDi dà, è vero, nella Mineralogia della Toscana di 
ciascuna varietà da lui descritta il valore della durezza, ma 
eguale per tutte e cioè 7,5, determinato per mezzo della scal- 
fitura coi noti termini della scala di Mors. 

E difatti la durezza di queste tormaline elbane sta fra quella 
del quarzo e del topazio; non pertanto in alcuni saggi da me 
eseguiti incontrando diversa difficoltà alla scalfitura, benchè 
in ristretti limiti, fra varietà e varietà di tormalina, a meglio 
accertarmi se esistessero differenze ricorsi all'uso dello sclero- 
metro. 

Una prima difficoltà per queste indagini incontrava nelle con- 
dizioni stesse delle facce, in special modo prismatiche, finamente 
e fittamente striate, onde di ciascun cristallo «che intendeva di 
sottoporre all'esame feci sezioni tanto parallele che normali 

Sc. Nat. Vol. XV. 1 


4 G. D'ACHIARDI 

all'asse di simmetria principale; e su queste, levigate e lustrate, 
feci le ricerche tanto coi termini di Mons, quanto con lo sclero- 
metro. Debbo però confessare che le investigazioni sclerometriche 
non riescirono tali da poter loro attribuire un valore assoluto 
da esprimersi in grammi, ma solo un valore relativo. Sarà stato 
anche per mia imperizia se non sono riescito ad ottenere sod- 
disfacenti misure, ma è un fatto che se per tal modo si giunge 
assai facilmente a poter constatare in quali varietà di torma- 
lina o direzione di cristalli si abbia un più o meno di durezza, 
non credo di poter questa esprimere per numeri che abbiano 
un valore assoluto e ciò d’accordo con AvuERBACE (4). 

Le indagini da me fatte mi avrebbero condotto ad ammet- 
tere durezza alquanto maggiore nelle varietà alcaline (rosea e 
acroica), avendosi nelle nere durezza ben poco diversa da quella 
del quarzo (7) e nelle acroiche e rosee più o meno vicina a 
quella del topazio (8). E avrei pur trovato che nelle sezioni pa- 
rallele all'asse s'incontra maggiore difficoltà a scalfire paralle- 
lamente che normalmente all'asse stesso, e nelle sezioni per- 
pendicolari si avrebbe una durezza quasi eguale in tutte le di- 
rezioni, e maggiore che procedendo orizzontalmente sulle facce 
prismatiche. E tutto ciò sarebbe in armonia con le differenze 
parametriche del romboedro fondamentale o di sfaldatura della 
specie. 


Peso specifico. 


Le determinazioni del peso specifico furono fatte mediante 
il picnometro sovra un buon numero di cristalli scelti fra quelli 
a maggiore uniformità di tinta. Per ciascuna varietà, eccettuate 
quelle che presentano il colore caratteristico nelle sole facce 


(4) Annalen der Physik und Chemie. Apr. 1891, n. F., XLIII, S. 614-100 — An. 
Rep. Smithson. Inst. 1894, Washington 1891, 207. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 5 


terminali, furono fatte varie determinazioni. I valori dati sono 
la media di varie pesate e per le varietà, nelle quali si tro- 
varono differenze assai rilevanti, ho dato i limiti dei valori. Per 
tutti è stata fatta la correzione della temperatura. 

Nello specchio seguente i valori ottenuti vengono parago- 
nati a quelli trovati da A. D’AcniarDi è Rammetssere per le tor- 
maline elbane e riportati nelle loro opere già più volte citate. 


Varietà D’Acniarpi G. | D’AcataRDI A. | RAMMELSBERG 


Tormalina nera 
a) nero superiore | 3,167—3,174 
Db) » inferiore. | 3,086—3,103 
acroica . . . . 3,017 3,010—3,020 = 
rosea 
a) chiara . . .| 3,026—3,028 
b) scura . . .| 3,037—3,043 
giallo-verdolina . . | 2,950—3,014 3,047 (1) 
giallo-verde . . .| 3,068—3,083 3,092 (2) 


3,060 2,942 (3) —3,059 (4) 


3,020—3,030 2,992 — 3,087 


3,142 


E. Riecke (°) dà per una tormalina policroma giallo-verde 
il peso specifico eguale a 3,104. 

Dallo specchio precedente, considerato rispetto alla compo- 
sizione chimica, di cui è detto in seguito, si rileva: che il peso 
specifico cresce in ragione del ferro e del manganese che l’ac- 
compagna, decrescendo con l'aumentare degli alcali e dell'al- 
luminio. 


(4) Dato per la tormalina giallo-verde, verde-chiara, verde-pistacchio, verde-criso- 
lito, giallo-verde d’olio e giallo-verde-miele. 

(2) Dato per la tormalina verde-bottiglia. 

(3) Nero: violetto-rossastro per trasparenza. Poae. Ann. 1850. N. 9, S. 5. 

(4) Cristallo giallo-bruno per trasparenza. Monatsberich. d. k. Preuss. Ak. d. Wiss. 
zu Berlin, 1869, S. 603. 

(9) Ueber die Pyroélektricitit des Turmalins. Nachr. d. k. Ges. d. Wiss. Gottin- 
gen, N. 13, S. 405, 1885. 


6 G. D'ACHIARDI 


Confrontandoi valori ottenuti con quelli dell'angolo (100) (010) 
non si può con tutta sicurezza stabilire una legge in modo as- 
soluto, ma nel maggior numero dei casi il peso specifico  se- 
conda l’ottusità del romboedro fondamentale. 


Colori. 


Già nella prima parte del lavoro accennai come le torma- 
line elbane presentino colori diversi e di vario tuono. Dal- 
nero si passa all’acroico, e per gradi successivi al roseo, al 
verde-bottiglia, al giallo-verde, al giallo-bruno, al giallo. 

Di questi colori la maggior parte si sfumano fra loro nei 
cristalli policromi, taluni invece, specialmente il nero superiore, 
sì separano nettamente dai sottostanti. 

Osservando i numerosi cristalli ci appalono ora come di un 
solo colore, ora di più, e fra i primi sono ordinariamente i 
rosei e i neri, segnatamente questi ultimi, poichè nei primi non 
è raro che la tinta vada crescendo d’intensità dall’alto al basso 
sebbene spesso con sfumature quasi impercettibili. Invece i cri- 
stalli giallo-verdi mostrano abitualmente tuoni diversissimi di 
colori, spartiti anche in zone distinte, passando da un verde- 
bottiglia, che appare nero in massa, al giallo-verde, giallo-verde 
grigiastro e quasi acroico all'estremità terminata. 

Si hanno finalmente cristalli policromi a tinte svariatissime, 
le quali, come già fu detto nella prima parte di questo lavoro, 
sì seguono sempre con lo stesso ordine dal basso all’ alto e 
cioè dal giallo-bruno, al verde-bottiglia, al giallo-verde, al giallo- 
verdolino, al roseo, all’acroico, al nero. Più difficile riesce de- 
terminare la relativa posizione del giallo-chiaro al giallo-miele, 
talvolta anche un po’ roseo, quale si trova talora ad una 
estremità dei cristalli acroici e rosei. Potrebbe ritenersi per 
ciò che succedesse al roseo, ma d'altra parte in molti più cri- 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 1) 


stalli al roseo succede, verso il basso, un giallo-verde ben di- 
verso, mentre poi in alcuni pochi cristalli ho veduto la tinta 
gialla al disotto del giallo-bruno, e in un bel cristallo di Fac- 
ciatoia terminato dalle due parti, dall'una estremità acroico, 
sì passa per successivi gradi attraverso al roseo, giallo-verde, 
giallo-bruno al giallo intenso, con che finisce all'altra estremità. 
Nella serie genetica delle sostanze tormaliniche di vario colore 
parrebbe dunque che il giallo occupasse il primo posto in basso. 
In taluni cristalli, oltre questo succedersi dei colori dall’ alto 
al basso, si ha una successione laterale in modo che le torma- 
line si mostrano come costituite da involucri variamente colo- 
rati dando luogo a quella costituzione, che fu già da altri detta 
a cartoccio e anche a pergamena. 

Certo però dall'esame macroscopico dei cristalli non si può 
con esattezza studiare il succedersi e distribuirsi dei colori stessi, 
per la qual cosa credei bene di fare numerose sezioni sottili e 
di tutte le principali varietà, specialmente delle policrome sia 
parallelamente sia perpendicolarmente all’ asse di simmetria 
principale per poterle studiare al microscopio. 

Tormalina nera. — Già RamweLsBERe aveva notato che taluni 
cristalli neri di tormalina mostravano per trasparenza colo- 
razione violetto-rossastra (1) e altri giallo-bruna (?). La stessa 
cosa fu quindi da altri osservata, e G. Roster (3) dice come ge- 
neralmente le tormaline nere sieno reputate le più frequenti, 
ma che per osservazioni fatte, la nera è molto meno facile a 
trovarsi di quello che non si sia fin qui creduto, anzi è una 
varietà alquanto rara. E dice come già Foresi avesse notato 
che tormaline in apparenza incontrastabilmente nere si appa- 


(4) Poge. Ann. Bd. LXXXTI, N. 9, S. 1, 1850. 

(2) Monatsberich. d. k. Preuss. Ak. d. Wiss. zu Berlin, 1869, S. 604. 

(3) Note mineralogiche sull'Isola d’ Elba. R. Com. Geol. d’Italia. Boll. N. 9-10. 
Roma, 1876, pag. 412. 


8 G. D'ACHIARDI 


lesavano invece di color rosso carico simile a quello del gra- 
nato piropo e anche del vino se attentamente guardate sotto 
una certa incidenza di luce nei loro spigoli più sottili, tanto 
che supponeva che delle tormaline riputate nere del territorio 
di Campo non se ne dovesse parlare che come di un’ ecce- 
zione. Roster esaminò 385 tormaline scelte fra le più nere e 
trovò che sole 18 erano veramente tali, le rimanenti essendo 
tutte rosse per la massima parte o rosse e verdi in discreto 
numero, e più raramente verdi. Esaminò i cristalli con raggio 
solare concentrato con un potente apparecchio di lenti e 14 
volte fu costretto a rompere i cristalli per riconoscere i varii 
colori nelle schegge. 

Anzichè ripetere queste prove sui 500 e più cristalli pos- 
seduti dal Museo di Pisa, stimai meglio valermi dell’ osserva- 
zione dicroscopica e microscopica per riconoscere il modo di 
risolversi del colore a seconda della terminazione cristallina. 
E mentre Roster non dice quando è che il nero si risolva in 
rosso o in rosso e verde o in verde esclusivamente io potei 
constatare per l'osservazione di schegge, di sottili sezioni o pol- 
veri osservate al microscopio, che a quelle estremità sia nei 
cristalli completi, sia negli altri, ove appare il romboedro *{l 11} 
il nero si risolve costantemente in una tinta giallo-verde più 
o meno bruna, mentre invece all'estremità con {111} o con {100} 
o con le due forme insieme associate il colore si risolve in un 
vinato-cilestro, che in taluni punti, forse non essendosi otte- 
nuta la sottigliezza voluta, resta paonazzo-marrone quasi nero. 

Furono quindi distinti per lo studio dei colori i cristalli neri 
in due gruppi: quelli col nero superiore e quelli col nero infe- 
riore, e degli uni e degli altri esaminai sezioni sia parallele, sia 
normali all'asse principale di simmetria, fatte in modo che 
conservassero almeno una terminazione. Furono anche esami- 
nati cristalli terminati alle due estremità, 1 quali per la sot- 


\ 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 9 


tigliezza loro e conseguente tralucidità si prestavano all’os- 
servazione. 

Osservando al microscopio con un solo nicol sezioni longi- 
tudinali collocate con l’asse di simmetria parallelo alla sezione 
principale del nicol e fatte da cristalli con il romboedro fon- 
damentale {100} a facce completamente sviluppate, il nero su- 
periore si vede risolversi in numerose fibre come in tutti i cri- 
stalli a terminazione fibrosa; si può quindi dire che anche que- 
sti cristalli che appaiono semplici sono composti ed all’ estre- 
mità tendono ad individualizzarsi. Queste fibre si presentano 
di un colore più scuro, talora quasi nero in fondo vinato, e con 
le loro estremità superiore ed inferiore s'arrestano a piani rom- 
boedrici {100} (fig. 1). E quando ve ne siano delle più lunghe e 
delle più corte ne risultano anche più piani romboedrici sovrap- 
posti (fig. 1). 

La tinta vinata si estende più o meno e talora passa in- 
feriormente per gradi ad una tinta vinato-verdastra, poi giallo- 
bruna. Nella zona vinata si osservano quasi sempre zone più 
o meno grandi il più delle volte lineari, che hanno colorazioni 
vinate più o meno cupe della fondamentale e che sono paral- 
lele anche esse ai piani della terminazione (fig. 1). 

La tinta in alcune sezioni è invece bruno-rossastra quasi 
del colore di mattone-scuro. 

A 90° la sezione si mostra per il solito completamente 
estinta anche se sottile, come in talune di circa mm. 0,4; però 
spesso nelle zone fibrose si vedono fra le fibre come dei punti 
di un colore azzurro cupo, che si manifesta poi anche in se- 
zioni più sottili e specialmente ove è meno intensa la colora- 
zione; onde si avrebbe dimostrato il pleocroismo con 


© grigio-azzurro ad azzurro-cupo —e paonazzo a rosso-bruno. 


Le sezioni longitudinali di cristalli terminati da *{100}, {11 lì 


10 G. D'ACHIARDI 


mostrano tutte una colorazione giallastra o giallo-verdastra più 
o meno intensa, se collocate parallelamente, e giallo-bruna se 
normalmente alla sezione principale del nicol, ma in quest’ul- 
timo caso conviene che sieno estremamente sottili, altrimenti 
appaiono estinte, come nel caso precedente, per il forte assor- 
bimento anche qui delle vibrazioni ordinarie. E se estrema- 
mente sottili le tinte del raggio straordinario impallidiscono 
grandemente. Quindi per le sezioni sottili il pleocroismo si ha con 


‘ giallo-bruno-cupo con tendenza talora al verde cupo, 


e giallastro-chiaro o giallo-verde. 


Nelle sezioni longitudinali del nero inferiore ‘non è raro il 
vedere attorno alla tinta marrone o giallo-bruna sottili zone 
giallo-verdi, che stanno ad indicare una costituzione a cartoccio, 
zone che convario tuono talvolta si ripetono anche internamente. 

Nelle sezioni trasversali di cristalli tanto dell'uno ({100}) che 
dell’altro tipo (#{100}, {111}) di terminazione si hanno senza sen- 
sibile pleocroismo le tinte rispettivamente sovraindicate per le 
vibrazioni ordinarie; solo però difficilmente si mantengono nel 
nero inferiore eguali per tutta la loro estensione, variando anzi 
spesso con distribuzione circolare. Così si vede in diverse sezioni 
di cristalli del 2.° tipo un nucleo giallo-verdastro circondato 
da tinta giallo-verde più intensa con linee circolari di separa- 
zione e l'intensità del colore cresce fino ad un dato punto 
oltre il quale i colori stessi si seguono con disposizione in- 
versa (fig. 2). 

Nei cristalli policromi a terminazione nera sia ad una che 
a tutte e due le estremità lo studio della disposizione dei co- 
lori se diventa più difficile è anche però molto più interessante. 
Già da un esame macroscopico si possono rilevare alcuni le- 
gami che esistono fra la colorazione nera e le altre dello stesso 
cristallo. Così le linee e sfumature azzurro-vinate da una parte, 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO dol 


giallo-verdastre pallide dall'altra, che sottostanno e sovrastanno 
rispettivamente ai due neri superiore e inferiore hanno gli 
stessi caratteri della zona nera cui si riferiscono, se osservate 
in sezione sottile. Queste sfumature rare per il nero superiore, 
che d’ordinario si delimita nettamente dalla zona sottostante, 
sono quasi abituali per l’inferiore. Quando esistono, per la loro 
colorazione, anche se leggermente diffusa nella massa acroica, 
servono bene alla distinzione dei due neri. In questi cristalli 
policromi è da osservare che spesso appaiono terminati come 
da una sottile pellicola nera, la quale vedesi quasi esclusiva- 
mente guardando il cristallo dall'alto in basso, onde distinsi 
(Parte I, pag. 29) questi cristalli dagli altri in cui la parte nera 
ha una notevole estensione. Osservando per traverso quella tinta 
nera sembra sparire, poichè non è che l’effetto del forte as- 
sorbimento delle vibrazioni ordinarie, che si propagano nella 
direzione dell'asse per chi guardi dal di sopra siffatti cristalli. 

Zone nere nei cristalli policromi raro è che sì mostrino nel 
loro mezzo e io non ne ho riscontrate che in pochissimi, in 
tre o quattro solamente, e sempre nella parte giallo-verde e 
con disposizione la quale seconda l'andamento dei piani termi- 
nali delle estremità (fig. 3). 

Al disotto della zona nera superiore viene una zona acroica 
più o meno estesa, a separazione abitualmente netta per piani 
paralleli alle facce del romboedro {100} (fig. 4) o della base, e 
in qualche raro caso all'una e all'altra simultaneamente. 

Solo in alcuni cristalli, del pari terminati da {100} e che 
sembrano di particolari geodi, al nero superiore superficialmente 
appannato, ma con la consueta struttura e colorazione, segue 
in basso una porzione verde-azzurrastra assai estesa, nelle cui 
sezioni o rotture si osserva un'anima scolorita o biancastra con 
un involucro esterno verde-azzurrognolo (fig. 5). Ed è notevole 
in questi cristalli la stratificazione per piani romboedrici di 


12 G. D'ACHIARDI 


strati diversamente assorbenti, i quali sono poi separati per 
un nitido piano basale dal sottoposto strato acroico-verdolino 
(fig. 6). 

La polvere delle due porzioni nere, superiore e inferiore, è 
per la prima grigio-verde, per la seconda grigio-terra, un po' ten- 
dente al giallo-verdastro-sporco, ed osservate al microscopio 
danno rispettivamente i segni di assorbimento e conseguente 
dicroismo delle rispettive porzioni da cui derivano, con colori 
tanto più pallidi quanto più piccoli ne sono i grani. 

Tormalina celeste-turchina e bigiastra. — Nelle tormaline a 
terminazione azzurra si manifesta verso un'estremità una tinta 
cilestra con tendenza talvolta a un verde chiarissimo, tal’ altra 
a un azzurro intenso, la quale poi sfuma nell’ acroico o nel 
roseo sottostante, oppure con questi si alterna in fitti piani 
paralleli l’uno all’altro e alla base, risultandone per chi guardi 
attraverso tante linee colorite fra loro vicinissime. E quanto 
più numerose e vicine sono queste linee tanto più intenso è il 
colore della parte terminata. 

Osservando i cristalli sottili al microscopio si vedono le linee 
azzurre in molto maggior numero che ad occhio nudo, taluna 
delle maggiori sdoppiandosi e suddividendosi in molte, sempre 
fra loro parallele, esilissime tutte, e tante e tante in alcuni 
cristalli che se ne contano più di cento, acquistandone essi 
aspetto vaghissimo. Si osservano meglio per le vibrazioni or- 
dinarie che per le straordinarie in ragione della più intensa 
colorazione che acquistano per quelle. 

Con un nicol solo nelle sezioni longitudinali il colore si ri- 
solve in una tinta paonazza chiara se collocate parallelamente 
alla sezione principale del nicol, azzurra se normalmente, così 
come le sezioni del nero superiore con il quale quindi devono 
immedesimarsi queste terminazioni azzurrastre. 

Le altre tormaline che mostrano le facce terminali rico- 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 13 


perte da una patina cilestro-cinerea più o meno cupa e che 
hanno l'aspetto che il Tarcioni (!) diceva: “ di color lilla in 
“ parte trasparente, in parte a zone e tutte nella parte supe- 
“ riore ricoperte da una terra bigia opaca come se fosse spol- 
“ verata di cenere ,,, osservate al microscopio tanto in sezioni 
sottili, quanto in esili cristalli si mostrano scolorite per le vi- 
brazioni straordinarie, celestognole per le ordinarie, ma la man- 
canza apparente e minore intensità delle tinte sono da attri- 
buirsi piuttosto alla meno intensa colorazione che a sostanziali 
differenze. 

Queste tormaline sono tutte policrome a colori delicatis- 
simi. In esse alla zona acroica-cilestra o segue direttamente e 
con essa sfumantesi una zona giallo-verde assai sbiadita e che 
aumenta sempre di colore progredendo verso l'altra estremità, 
oppure a questa si passa attraverso una zona rosea. 

Tormalina verde-azzurra e verde-porro. — Già dissi nella Mor- 
fologia (pag. 37) come si presentino questi cristalli e come questa 
parte verde-azzurra, che suole trovarsi al disopra dell’acroico, 
vada distinta dalla giallo-verde inferiore e ravvicinata piuttosto 
all'azzurra. 

Le osservazioni microscopiche convalidano questo ravvici- 
namento; infatti non soltanto taluni di questi cristalli mostrano 
una terminazione nera ove la tinta è più intensa e special- 
mente se osservati nel verso dell'asse di simmetria principale, 
ma quelli pure che appaiono verdi in tutta la loro estensione 
oltre ad essere il verde volgente al turchino se osservati at- 
traverso i prismi, mostrano poi una tinta azzurrastra se si 
guardano nel verso dell'asse principale, onde unica essenziale 
differenza coi tipici neri sopradescritti per il pleocroismo è che 
le vibrazioni straordinarie danno sensazione di verde. 


(4) Op. cit., pag. 20. 


14 G. D'ACHIARDI 


Di questi cristalli, almeno per gli esemplari da me osser- 
vati, riesce difficilissimo il fare sezioni perchè sono impiantati 
sulla roccia per una faccia del prisma. Pur nonostante è fa- 
cile riconoscere la loro costituzione a cartoccio con un nucleo 
scolorito e biancastro; così come i cristalli testè descritti a ter- 
minazione nera (pag. 11) e le cui zone verdi spettano alla co- 
lorazione qui considerata. 

Tormalina acroica.—Rari sono i cristalli perfettamente acroici, 
come già dissi nella prima parte del mio lavoro (pag. 39) e in 
generale appaiono tali i sottili e gli aciculari, perchè minori 
in essi gli effetti dell’assorbimento. 

Sezioni perfettamente acroiche osservate al microscopio con 
un solo nicol non danno segno di apprezzabili differenze di as- 
sorbimento. 

Tormalina rosea. — Oltre quanto fu detto delle tormaline 
rosee a pag. 49 della prima parte osserverò come non sempre 
sia facile distinguerle dalle acroiche nei casi in cui ne sia leg- 
gerissima la colorazione, solo apprezzabile per grossi strati. 
E a riconoscere la tinta rosea negli esili cristalli giova osser- 
varli sopra un fondo perfettamente bianco. 

Le sezioni sottili longitudinali osservate al microscopio con 
un nicol parallelamente all'asse appaiono acroiche o leggeris- 
simamente rosee (se il cristallo era roseo-cupo) e rosee con co- 
lore più o meno intenso a 90°, onde, come già fu osservato an- 
che da RammeLsBEre (1), 


‘ roseo e roseo pallidissimo. 


Ma se la sezione sia sottilissima si ha apparenza di acroismo 
anche se osservata coll’asse normale alla sezione principale del 
nicol e per ciò anche le sezioni trasversali secondo l’intensità 


(4) Pogg. Ann., 1850, Bd. LXXXI, S. 37. 


r—__—_— pm 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 15 


del colore e la loro sottigliezza ci appaiono ora rosee, ora sco- 
lorite. 

Osservando cristalli interi al dicroscopio di Hamincer il roseo 
delle vibrazioni ordinarie diventa più acceso e quello delle 
straordinarie tende al giallognolo. 

In taluni cristalli policromi con costituzione a cartoccio si 
osserva che il roseo si estende fino all’estremità rotta, la quale 
presenta internamente un nucleo giallo-verde più o meno in- 
tenso. In altri poi, in cui il roseo è molto intenso, il colore verso 
l'estremità terminata da {100} passa bruscamente ad un vinato 
intenso, separandosi nettamente dal colore sottostante seguendo 
linee parallele alle inclinazioni delle facce {100}, le quali guar- 
date nel senso dell’asse di simmetria principale sembrano quasi 
nere. Quindi questi cristalli somigliano i policromi a termina- 
zione nera, della cui tinta sembrano un’ attenuazione. Questi 
cristalli a colorazione vinata come sospesa su parte acroica 
osservati al microscopio mostrano questa colorazione di color 
vinato-giallognolo, come di vino vecchio parallelamente all'asse, 
e a 90° vinato-intenso, come di vino nuovo, che si diffonde in 
parte anche negli strati sottostanti. 

Tormalina giallo-verde. — Nella prima parte di questo lavoro 
(pag. 72) d'accordo col vox Rara (Op. cit.), notai come fra tutte 
le tormaline elbane sono queste che presentano la maggiore va- 
rietà nei tuoni di colore; e malgrado le difficoltà incontrate e 
gli incerti confini di separazione pure le distinsi nei tre gruppi 


seguenti: 
I. Tormaline a terminazione giallo-verdolina 
IDG, » » giallo-verde 
III » » giallo-bruna 


Per la moltiplicità dei cristalli posseduti potei fare nume- 
rose sezioni, oltre 40, tanto di quelli a tinta più o meno uni- 
forme o gradatamente sfumante, quanto dei policromi a strati 


16 G. D'ACHIARDI 


o a zone concentriche ossia con costituzione cartocciforme. 
Questa struttura è certo più frequente di quello che sembri a 
prima vista poichè in molti cristalli rotti alla estremità infe- 
riore manca quella parte in cui è più visibile. E in questi quasi 
sempre si vede nella faccia di frattura un nucleo giallo-verde 
cupo, non di rado all'apparenza quasi nero. 

RamweLsBere (4) dà per le tormaline verdi dell’ Elba: 


è verde-pallido (blassgriin) e verde-chiarissimo (game hellgriin); 


ma non fa distinzione fra cristalli a tuoni diversi di colore. 
Le sezioni longitudinali di cristalli verdolini in tutta la loro 
estensione danno, osservate con un nicol solo: 


® giallo-verdolino e apparente acroismo 


e le normali per qualunque rotazione una tinta giallo-verdolina 
dello stesso tuono con intensità in ragione della grossezza della 
lamina. 

I cristalli giallo-verdi sono sempre policromi terminati da 
zone sia di verde più pallido, sia anche acroiche. Per il solito 
si ha uno strato giallo-verde-bottiglia verso l'estremità rotta, 
il cui colore va poi man mano indebolendosi e si riduce nella 
maggior parte dei cristalli ad un giallo-verde-grigiastro al- 
l'estremità terminata. 

Le sezioni longitudinali di questi cristalli osservate paral- 
lelamente alla sezione principale del nicol appaiono superior- 
mente acroiche o quasi, non molto trasparenti, e a poco a poco 
passano in basso ad una tinta giallognola, a giallo-rossastra con 
disposizione a cartoccio, per il solito con tre o quattro invo- 
lucri. Osservate normalmente a quella prima posizione la zona 
acroica si restringe quasi tutta alla sommità e passa in basso 


(4) Pogg. Ann., 1850, LXXXI, 37. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 17 


grado a grado ad un colore giallo-verdolino e giallo-verde sem- 
pre più intenso; onde in esso per la parte quasi acroica: 


© giallo-verde-pallido a giallo-verde e giallognolo a giallo-roseo. 


Nei cristalli meno coloriti e nelle sezioni molto sottili si ha 
quasi apparenza di acroismo; invece osservando i cristalli in- 
teri col dicroscopio di Harmineer si ha quasi costantemente: 


w giallo-verdastro, giallo-miele, giallo-rossastro 
e verde a verde-giallognolo pallido 


con prevalenza dunque di giallo per l’ imagine ordinaria, di 
verde per la straordinaria. 

Nelle sezioni trasversali si osserva chiaramente un nucleo 
rossastro o marrone scuro ravvolto da strati di tinte giallo- 
verdi sempre più pallide fino a diventare acroici o quasi. Questo 
nucleo nelle sezioni longitudinali si avverte bene con le vibra- 
zioni ordinarie, che lo pongono in evidenza per il colore fosco 
dovuto al loro forte assorbimento. 

Il nucleo per il solito si separa nettamente dalla zona sovra- 
stante o per una linea inclinata o per due. In alcuni ha l’aspetto 
di un vero e proprio cristallino che sia stato incluso in un altro 
(fig. 7); ma si hanno anche cristalli nei quali invece di essere 
delimitato in alto e lateralmente da piani cristallini sfuma gra- 
datamente in tinte sempre più pallide. 

Le fig. 7-11 mostrano sezioni longitudinali di cristalli os- 
servate per le vibrazioni ordinarie, le quali come dissi ne met- 
tono in maggior rilievo le differenze di assorbimento, e in esse 
si vede nettamente la costituzione per involucri successivi 0 
a strati che possono anche ripetersi più volte. 

Le tormaline giallo-brune al dicroscopio si risolvono nelle 
tinte stesse delle precedenti e cioè: 


© giallo-miele intenso a giallo-bruno 
e giallo-verdolino a giallo-verde 


18 G. D'ACHIARDI 

onde giustificata anche per ciò l'unione in un medesimo gruppo 
di tutte queste tormaline giallo-verdi dalle pallidissime alle ver- 
di-bottiglia, alle giallo-brune. Da queste si passa con crescente 
prevalenza di giallo alle nere inferiori, che in lamine sottili 
danno quasi le stesse imagini di colore al dicroscopio, e che 
possono quindi considerarsi come la stessa varietà delle giallo- 
brune più carica di colore e che appaiono nere per il maggiore 
assorbimento cui danno luogo. 

Tormalina gialla. — Già dissi nella Morfologia a pag. 68 come 
in queste tormaline, che non si presentano mai gialle in tutta 
la loro estensione, almeno quelle da me osservate, la tinta gialla 
più o meno estesa passi da un giallo pallidissimo ad un giallo- 
miele assai scuro sulla parte terminale e sfaccettata di cri- 
stalli nel resto acroici o rosei. 

Nei cristalli di Facciatoia terminati alle due estremità si 
ha spesso una terminazione gialla, inferiore a tutte compreso 
il giallo-bruno, onde già dissi come anche per ciò nella succes- 
sione dei colori nelle tormaline policrome elbane debba il giallo 
occupare l’ultimo posto dall'alto al basso. 

Secondo la grossezza dei cristalli o delle schegge loro os- 
servate al microscopio si hanno differenze graduali d’assorbi- 
mento, che però non è mai molto forte. In quelle debolmente 
giallognole si ha: 


w giallognolo e quasi acroico 
e in quelle giallo-miele: 
‘ giallo-arancio intenso e giallo-verdognolo. 
Con differenza notevole nel grado dell’assorbimento da va- 
rietà a varietà delle tormaline elbane si può dire che le vi- 


brazioni ordinarie trasmesse sono in generale nel loro com- 
plesso di maggiore lunghezza d'onda delle straordinarie. E difatti 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 19 


non considerando che le tinte dominanti e le più diffuse e ti- 
piche varietà di tormaline elbane si ha: 


(0) E 
Nere superiori e simili, . . aZZurro vige violaceo 
IESCERe e MR a roseo . +. roseo-pallido 
Verdi e giallo-verdi . . . giallo-verde . . verde 
Giallo-brune e nere inferiori.  giallo-bruno . . giallo-verde 
Gialle . . . . . . . .giallo-arancio . . giallo-verdognolo 


Cambiamento di colore in ragione della temperatura. 


Il primo ad osservare il cambiamento dei colori per mezzo 
del calore nelle tormaline elbane fu RamweLssere (4), il quale 
dice come per la tormalina verde arroventata in un crogiuolo 
i pezzetti adoprati diventano bianco-opachi alcuni, altri bruno- 
chiari, mentre la tormalina rosea diventa bianca come la por- 
cellana. Ep. JannerTAZ (2) osservò che le tormaline rosee di Si- 
beria e dell'Elba si decoloravano senza difficoltà esposte al 
calor rosso. Pose quindi la questione se queste tormaline deb- 
bano la loro colorazione a un principio fugace (principe fugace) 
o ad un composto di cromo, che verrebbe modificato dal ca- 
lore, e si mostrò propenso a credere che per il cambiamento 
di tinta che si osserva nelle rubelliti elbane si abbia a che fare 
con un principio fugace di colorazione. 

Per le tormaline elbane verdi-chiare, nelle quali la colora- 
zione rammenta quella che si ha per il protossido di ferro 
JANNETTAZ dice che col calore restano invariate. 


(1) Ueber die Zusamm. d. Turmalins ec. Pogg. Ann. Bd. LXXXI n.° 9, S. 4, 
Leipzig 1850. 

(2) Note sur l'origine des couleurs et sur les modifications que leur font éprouver 
la chaleur, la lumière et Vetat de l'atmosphère dans les substances minérales. Bull Soc. 
Geol. d. France. T. XXIX, 2.0 Ser, p 300, Paris 1872. 


Sc. Nat. Vol. XV. 2 


20 G. D'ACHIARDÎ 


A. D'AcatarpI (Op. cit.) osservò che la tormalina rosea ri- 
scaldata diventava violacea e tanto più intensamente violacea 
quanto più intensa era la tinta rosea, indi si scolorava quasi 
del tutto. 

ScHarizer () studiando i colori delle tormaline di Schittenho- 
fen rispetto alla chimica composizione fa notare il legame ap- 
parente con le variabili proporzioni del ferro e del manganese. 
E discorrendo, per confronto, anche delle tormaline di altre 
località pone in rilievo per quelle dell’Elba, secondo le analisi 
del RawwmeLsBERG, il rapporto seguente: 


Mn0 : Fe0Q 

Tormalina nera 1 17,3 
5 nero-verdastra i ere DI 

3 idem tia e lea 

A verde-chiara . 1 0,5 


dal quale si vede come il tenore in ferro rispetto al manga- 
nese vada crescendo dalle tormaline più chiare alle più scure 
per raggiungere un massimo nelle azzurro-nere. 

Nelle acroiche e nelle rosee, mentre il ferro manca, accanto 
a piccole dosi di manganese si trovano predominanti gli alcali 
e in special modo la litina e la soda. 


In alcune tormaline rosee, non dell'Elba però, furono tro- 


vate anche dosi di ferro e per quelle di Schiittenofen lo Scga- 
RIZER dà i seguenti rapporti: 


Mn0 Fe0 

Tormalime)azzurro-nere . |. Me Laes88 
e verdi-azzurre.. aero i SI 

È. TOSSE le I RM Le 


e conclude che col crescere del manganese si passa dall’az- 
zurro al verde, al rosso. 


(4) Ueber die chemische Constitution und iiber die Farbe der Turmaline von 
Schittenhofen. Groth Zeit. Bd. 15, S. 337. Leipzig 1889. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 21 


Questi stessi rapporti erano stati già notati, e per le tor- 
maline elbane anche da A. D' Acaarpi nella Mineralogia della 
Toscana (vol. II, pag. 209), ma lo ScHarizeR ritiene non sia la 
semplice presenza e proporzione degli ossidi dei varii metalli 
quella che determina il colore, ma sibbene anche il loro grado 
diverso di ossidazione. 

Già Harincer (4) nel 1845 aveva emesso questa opinione, e 
MwuscrerLica e Ranmerssere, che esclusero la presenza dell’ossido 
ferrico Fe, 0, nelle tormaline, se valutarono anche il manga- 
nese come Mn0, non provarono però che non vi potesse essere 
anche in stato di ulteriore ossidazione; anzi il RammeLsBERe stesso 
aveva nel suo primo lavoro sulle tormaline ammesso la pre- 
senza anche del sesquiossido di manganese. 

Per vedere se questi diversi gradi di ossidazione esistessero 
nelle tormaline e per vedere quale influenza esercitassero Scaa- 
RIZER sottopose alla prova dell’arroventamento in una fiamma 
ricca di ossigeno varie tormaline azzurro-nere, rosse e verde- 
azzurre di Schitttenhofen, e constatò che i colori delle torma- 
line erano strettamente collegati fra loro e che si poteva pas- 
sare dall'uno all’altro. mercè l’arroventamento. 

Dedusse da ciò che non erano le proporzioni del ferro e 
del manganese, le quali nell'arroventamento restano invariate, 
la sola cagione della varietà dei colori, ma che i diversi gradi 
di ossidazione dovevano contribuire a determinare quella diffe- 
renza. E cita in appoggio della sua tesi il fatto delle soluzioni 
dei sali di manganese, i quali per ossidazione cambiano di co- 
lore passando per le qualità e tuoni di tinte che sì riscontrano 
nelle varie tormaline. 

Sottoposi io pure varii cristalli di tormalina all'arroventa- 


(4) Verhandl. d. bihm. Ges. d. Wiss., 1845. 


922 G. D'ACHIARIDI 
mento in un crogiuolo di platino servendomi di una lampada 
a gas e di una soffieria per le prove di breve durata. 

Le tormaline acroiche restano invariate, solo qualcuna ac- 
cenna ad acquistare un colore giallino appena visibile. 

Le rosee, se sbiadite di tinta, mostrano tendenza a decolo- 
rarsi e le più si scoloriscono completamente nei primi minuti 
dell’arroventamento; poi il colore scomparso tende a ricompa- 
rire e in special modo col raffreddamento, ma con tuono di 
tinta minore e con apparenza quasi lattescente. I cristalli in- 
vece intensamente colorati o aumentano di intensità nel tuono 
o acquistano una colorazione giallo-verde più o meno intensa. 
Il rosso-vinato, che si ritrova in taluni cristalli sospeso sulla 
parte acroica (Parte I, pag. 50), col riscaldamento diviene vio- 
laceo e resta tale anche nel raffreddamento. 

Le tormaline giallo-verdi-chiare tendono pure a decolorarsi, 
con un prolungato arroventamento non è raro che diventino 
rosee e rosee pure le giallo-verdi con colorazione più intensa, 
per terminare col prolungarsi dell’azione del calore a un rosso- 
mattone più o meno vicino al rosso-fegato, che acquistano le 
tormaline nere. 

Le nere nei primi momenti dell’arroventamento restano in- 
variate; successivamente il nero-azzurro superiore diviene rosso- 
fegato e il nero-verde inferiore diventa nero-grigiastro nell’in- 
terno e circondato da uno strato periferico rosso-mattone. 

Sottoposi all'arroventamento cristalli neri policromi con zona 
giallo-verde fra i due neri superiore e inferiore, e in tutti la 
parte nera superiore con arroventamento assai prolungato di- 
venne rosso-fegato e il rimanente del cristallo acquistò inter- 
namente una colorazione nero-grigiastra ed esternamente rosso- 
mattone e non fu più possibile la distinzione fra le due zone 
giallo-verde e nero inferiore. 

Le colorazioni rosso-mattone e rosso-fegato, che in questi 


LÉ TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 23 


cristalli si manifestano con l’arroventamento, sono dovute ve- 
rosimilmente a sovraossidazione del ferro. 

Nelle tormaline policrome ogni zona acquista una speciale 
colorazione ed è notevole il risalto che nelle sezioni trasver- 
sali acquista la distribuzione a cartoccio dei colori, anche là 
dove nelle condizioni ordinarie non apparisce o apparisce ap- 
pena. Per le molte prove fatte credo si possa dire che le tor- 
maline presentano costituzione a cartoccio per tutte le zone 
di colori, eccettuata la nera superiore, che non mostrò mai 
neppure con l’arroventamento un nucleo di colore differente dalla 
parte esterna; ciò che starebbe ad indicare che l'accrescimento 
dei cristalli avvenne prima lateralmente e verticalmente fino 
a che cominciò a formarsi la parte nera superiore e allora 
l'accrescimento non avvenne che in altezza e per piani esat- 
tamente paralleli fra loro e alle facce terminali. Le stesse dif- 
ferenze di contegno al calore fra nero superiore e inferiore ho 
riscontrato arroventando invece di cristalli interi le loro pol- 
veri. Quelle delle parti azzurro-nere superiori diventano rosse- 
tabacco; le altre grigio-cupe quasi dello stesso colore dei nuclei 
surricordati nelle tormaline policrome. 

Da queste indagini se l'ipotesi di ScHarizer, che cioè i colori 
delle tormaline sono dovuti a diversa ossidazione del manga- 
nese, trova in parte una conferma, si ha pure evidentemente 
che non solo ad essa, ma anche alla presenza e proporzione dei 
varii metalli sono da attribuirsi le diverse colorazioni. 

E per il fatto che in molti casi nei cristalli col raffredda- 
mento, dopo essere stati arroventati, si ripristinò il colore pri- 
mitivo, può anche ritenersi che taluni cambiamenti di colora- 
zione, che si ottengono con l’arroventamento, anzichè a diversi 
gradi di ossidazione siano dovuti a cambiate condizioni di as- 
sorbimento della luce per le mutate condizioni fisiche dei cri- 
stalli, mutamenti prodotti dalla cambiata temperatura. 


24 G. D'ACHIARDI 
Indice di rifrazione. 


Nelle molteplici memorie che ho dovuto consultare nel corso 
di questo mio lavoro, mentre ho trovato che molti autori si 
sono occupati delle tormaline dell'Elba sotto varii aspetti, so- 
lamente due ne danno l'indice di rifrazione. Il primo è MixLucgo- 
Mactay, il quale per quanto ne dice il Rosensusck (*) avrebbe 
trovato per una tormalina scolorita dell’ Elba: 


1907 II 


Il secondo è K. Ziwànvi (2), che in una tormalina pure scolorita 
dell'Elba, mostrante nella parte mediana un nucleo verde- 
giallastro circondato da una zona roseo-chiara, osservava che 
l’immagine degli assi è qua e là distorta, e per l'indice di ri- 
frazione dava: 
A x 
®na = 1, 6386 8 7 
cin _ME 6202 7 7 


dove A rappresenta la massima differenza fra le singole osser- 
vazioni data in unità di quarte decimali, ed x il numero delle 
osservazioni. 

Io ebbi agio di osservare e prendere le relative misure in 
molti prismi tagliati parallelamente all’asse principale di sim- 
metria in cristalli opportunamente scelti nelle diverse varietà 
di tormaline del granito elbano, eccettuate quelle a termina- 
zione celeste-turchina, verde-azzurra, verde-porro e gialla, per 
le quali non fu possibile tagliare alcun prisma, essendo la colo- 
razione limitata o come velatura o come linee ad una estremità. 

(4) Physiographie: 1, 364, Stuttgart 1885. 


(?) Die Hauptbrechungsexponenten der wichtigeren gesteinsbildenden Mea) 
bei Na-Licht. Zeit. Groth, 22, S. 321, 1894. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 25 


I prismi furono in parte tagliati da Koristra a Milano, in 
parte nel laboratorio di Mineralogia dell’ Università di Pisa. 

Le determinazioni furono fatte con un goniometro-rifratto- 
metro Furss n.° II, a temperatura variabile dai 12° ai 15° C., e 
con luci ottenute da una lampada LasperREs con i solfati di litio, 
sodio e tallio. Solo quando con tali luci male appariva o non 
appariva affatto l’imagine rifratta del segnale fu determinato, 
approssimativamente, l'angolo di minima deviazione dei varii 
colori apparenti nello spettro di vivace luc® di gas data da una 
lampada Arcanp, quale ha pure servito per le misure goniome- 
triche. Ciò fu fatto sempre per la zona azzurro-violacea desi- 
gnata come la zona dell’indaco ?. Le determinazioni sia per 
l’azzurro-violaceo, sia per il giallo g e il verde v e il rosso 7, 
eseguite nei casi in cui non valeva l’uso della luce monocro- 
matica, essendo fatte collocando il filo del reticolo nella parte 
media di zone a limiti sfumanti, e quindi incerti e indecisi, hanno 
solo un valore approssimativo specialmente per la zona azzurro- 
violacea, essendo le colorazioni più rifratte dello spettro molto 
diffuse, spesso in parte invisibili, in particolar modo quelle del 
raggio ordinario. 

La determinazione con la luce gialla del sodio fu possibile per 
tutte le tormaline, eccettuate le nere, di cui una sola fa a sua volta 
eccezione, le quali solo in prossimità dello spigolo vifrangente 
permettono il passaggio a luce che sia molto viva, come quella 
di una lampada Arcanp, rimanendo però pur ivi completamente 
assorbita l’imagine ordinaria e non poche vibrazioni anche della 
straordinaria, il cui spettro vedesi ridotto a poche zone e in 
qualche caso ad una sola rosso-paonazza. In generale il nero su- 
periore è più assorbente dell’inferiore, poichè solo in un prisma 
a piccolissimo angolo rifrangente (18° 28') è visibile lo spettro 
intero del raggio straordinario e furono possibili le determina- 
zioni per il rosso, il giallo del sodio, il verde e l’'indaco. 


26 ‘ — G. D'ACHIARDI 

Per ogni varietà di tormalina furono tagliati più prismi e 
per ogni prisma fatte più determinazioni e per taluni anche a 
parecchi giorni d'intervallo e i risultati coincidenti, o diversi 
solo in limiti ristrettissimi, garantiscono dell’accuratezza delle 
osservazioni. 

Nel collocamento a posto dei prismi in cristalli, nei quali si 
riscontrano fenditure e altre imperfezioni interne, si ebbe sempre 
cura di far coincidere con l’incrociamento dei fili del reticolo 
la parte più omogen®a e più limpida dei prismi stessi, collo- 
cando il filo verticale il più vicino possibile allo spigolo rifran- 
gente onde diminuire gli effetti dell’assorbimento. 

Per i cristalli policromi furono determinati separatamente, 
procedendo dall'alto al basso, gli indici delle zone variamente 
colorate sia tagliando i cristalli in modo da separare queste 
l’una dall'altra, sia accecandole alternativamente con uno strato 
di cera e non lasciando allo scoperto che la zona di quel colore 
per cui voleva farsi la misura. 

Nei seguenti specchi le varie zone sono indicate con le lettere 
abca cominciare dalla superiore o più lontana al punto di im- 
pianto dei cristalli stessi; e con i simboli Li, Na, 77 sono rispet- 
tivamente indicati gli indici determinati con luci monocroma- 
tiche ottenute dai solfati di litio, sodio e tallio; con è quelli 
riferentisi alla zona azzurro-violacea dello spettro. Ove non si 
sieno potute fare determinazioni con luci monocromatiche le 
lettere 7,9 e v accanto all'indice denotano che questo fu deter- 
minato nelle zone rossa, gialla e verde dello spettro ottenuto 
come per ? da una lampada Arganp. 

I cristalli esaminati presentano i seguenti colori: 


Monocromi. 


1. Nero. (Nero superiore, azzurro-paonazzo visto per traspa- 
renza.) 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 27 


2-3-4. Acroico. 

5-6. Roseo-chiaro. 

7-8-9. Roseo. 

10. Roseo-scuro. Con screpolature interne. 

11. Giallo-verdolino con tendenza all’ acroico; perfettamente 
omogeneo. 

12. Giallo-verde. Cristallo tutto di un bel colore olivina lim- 
pidissimo. 


Policromi. 


13-14. a Nero (superiore). 6 Giallo-verde assai chiaro. c Nero 
(inferiore, giallo-bruno per trasparenza). 

15. a Nero (superiore). d Giallo-verde. 

16. a Acroico. 6 Roseo. 

17. a Acroico. 6 Roseo. c Giallo-verde. Superiormente terminato 
dalla base di color bigiastro. 

18. a Roseo-chiaro. d Giallo-verde. 

iosa Roseo-verdastro. b Giallo-verde. 


O) e 
Li Na TI D Li Na TI D 
1 e Da De. cs r1,6301 1,6353 v4,6393 1,6445 
2 4,641 46445 16480 1,6557 1,6190 4,6222  14,6259 4,63414 
3 1,6407 46441 1,6473 1,6549 1,6211 1,6242 4,6270 16332 
4 1,6397 16426 16455 16555 1,61489 4,6225  14,6254 1,6340 
5 1,6383 1,6413 1,6446 1,6539 162007 1162237716253 1,6327 
6 1,6384 1,6417 1,6452 . 1,6028 INCASSO MIRO 2230106252 0MN6323 
Hi 1,6401 1,6440 1,6473 1,6559 AN01159)nii6229 16260 1.6333 
8 1,6388 16421 1,645) 1,0550 1,6189 1,6221 14,6249  1,6342 
9° 16375 16415 16449 1,6530 1,6184 1,6220 4,6254 1,6320 


10 1,6377 1,64201,6460 1,6523 106178 4062240 d‘6260) 1,6318 


28 G. D'ACHIARDI 


O) € 
Li Na TI o) Li Na TI i 

11 1,6417 1,6442 1,6488 1,6550 1,6212 1,6230 . 1,6269 41,6330 
12. r1,6431 1,6460 v1,6496 —_ r1,6214 1,6246 162751 1,6343 
13 a = = — _- r 1,6339 - = nera 

b r1,6459 1,6477 16490 1,6526 r 1,6223 1,6243 1,6258  1,6319 

c - — = — r 1,6329 91,6362 v 1,6384 —_ 
14 a = — — —_ r 1,6371 — = — 

Db 1,6406 16441 16474 1,6528 1,6207 1,6236 1,6272  1,6331 

e — — = — r1,6371 g 1,6414142?  — 1,6460 
15 a — — — — r 1,6316 —_ — — 

bb 1,64831 16465 1,6497 1,6574 1,6207 1,6242 1,6267 1,6344 
16a 16390 1,6424 1,6457 1,6512 1,6191 1,6222 1,6250 1,6314 

b 1,6396 16426 1,6460 1,6520 1,6200 1,6231 1,6263  1,6318 
17 a 16393 1,6422 16460 1,6537 1.6198 1,6225 1,6253 1,6340 

b r1,6394 16421 1,6458 41,6527 r1,6202 1,6223 1,6249  1,6327 

c r1,6427 16473 1,6507 1,6573 r1,6195 1,6226 1,6262 1,6341 
18 a 14,6380 1,6415 1,6443 1,6518 1,6190  1,6223 1,6251  1,6316 

b r1,6456 1,6480 v1,6511 1,6564 r1,6205 1,6233 01,6267 1,6315 
19a 1,6414 1,6450 1,6478 1,6547 1,6198 1.6226 1,6259  4,6327 

bb 1,6449 16480 1,6015 1,6581 1,6203 1,6234 1,6267 1,6338 


Dai surriferiti indici si rilevano i seguenti valori del potere 
20 +e 


rifrattivo medio - 3 


come intermedia e di più esatta determinazione, e della potenza 


considerato rispetto alla luce del sodio 


birifrattiva ©-e rispetto alle luci del Lî, Na, T/, omessa quella 
dei raggi azzurro-violacei come di incerta determinazione. Le 
tormaline nel seguente specchio sono ordinate a seconda del colore 
riferendo ad ogni varietà la zona della relativa colorazione per 
le tormaline policrome e riunendo insieme le giallo-verdoline 
con le giallo-verdi, dalle quali non sembrano otticamente mo- 
strar differenze. 


(1) v = 1,6280. 
(2) La misura è presa nel mezzo alla zona giallo-verde dello spettro. 


I 


coctoniitennina 


Dore ce e VEE SAD GT 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 


20+4e 
3 
2 1,6371 
3 1,6375 
T. acroiche . . 4 1,6359 
16: 16357 
17, 1,6356 
1,6364 
5 1,6350 
6 1,6352 
7 1,6370 
8 1,6354 
9° 1,6350 
T. rosee . 10 16354 
16, 1,6361 
17, 1,6355 
18, 4,6351 
10M 6375 
1,6357 
11 1,6371 
12 1,6389 
Siro S99 
T. giallo-verdi e 
do MMM 0894 
ilo» 2068) 
18, 1,6398 
19, 1,6398 
1,6389 


‘W-E 
Latio Sodio Tallio 
0,0221 0,0223 0,0224 
0,0196 0,0199 0,0203 
0,0208 0,0201 0,0204 
0,0199 0,0202 0,0207 
0,0195 0,0197 0,0207 
0,0204 0,0204 0,0208 
0,0183 0,0190 0,0193 
0,0195 0,0194 0,0200 
0,0212 0,02141 0,0208 
0,0199 0,0200 0,0201 
0,0191 0,0195 0,0195 
0,0199 0,0199 0,0200 
0,0196 0,0195 0,0197 
r 0,0192 0,0198 0,0209 
0,0190 0,0192 0,0192 
0,0216 0,0224 0,0219 
0,0197 0,0200 0,0201 
0,0205 0,0242 0,02419 
r 0,0217 0,0218 0,0216 v 
r 0,0236 0,0234 0,0232 
0,0199 0,0205 0,0202 
0,0224 0,0223 0,0230 
r 0,0232 0,0247 0,0245 
r 0,0254 0,0247 0,0244 v 
0,0246 0,0246 0,0248 
0,0226 0,0229 0,0229 


29 


0,0205 


0,0199 


0,0228 


Eliminando i cristalli, in cui le determinazioni furono fatte, 


almeno in parte, a luce non monocromatica, si hanno per è-e i 


seguenti valori medii: 


Litio 
T. acroiche: 0,0204 
T. rosee: 0,0198 


T. giallo-verdi: 0,0220 


Sodio 

0,0204 
0,0200 
1,222 


Tallio 

0,0208 
0,0204 
0,0225 


0,0205 
0,020) 
0,0222 


30 G. D'ACHIARDI 


Sembra potersene ricavare le seguenti conclusioni: 

1.° L'indice di rifrazione è diverso da varietà a varietà di 
tormalina non solo nei cristalli diversamente colorati, ma anche 
per le diverse parti di uno stesso cristallo policromo, a ciascuna 
zona di colore diverso corrispondendo in generale il potere ri- 
frattivo proprio della varietà di quel dato colore. 

2. Quando si hanno differenze fra individui diversi di una 
stessa varietà quelle differenze ordinariamente piccole possono 
essere in rapporto con le differenze cristallografiche fra cristallo 
e cristallo e in parte forse colle condizioni del taglio dei prismi. 

3.° Queste differenze fra individuo e individuo della stessa 
varietà sono maggiori per l'indice © che per e. 


+ 


4° Il potere rifrattivo medio sile di poco differisce fra le 


acroiche e le rosee, le due varietà fra loro più vicine cristal- 
lograficamente e chimicamente e che si presentano spesso sfu- 
manti l’una nell’altra. Cresce passando da esse alle giallo-verdi 
e più ancora alle nere tanto se spettanti al nero superiore che 
all’inferiore. Vero è che per le tormaline nere, le quali assor- 
bono completamente le vibrazioni del raggio ordinario, non fu 


sata : 20-+ e 2 SR 3 
possibile determinare Zog ma dalla sola determinazione di e 


3 
sì rileva come quel valore debba essere di gran lunga superiore 
che nelle altre varietà. Può dirsi dunque che cresca in ragione 
anche del potere assorbente della tormalina. 

5.° Dalle analisi che si conoscono delle tormaline elbane 
sembra che queste differenze sieno in rapporto con la compo- 
sizione chimica, essendo le acroiche e le rosee prevalentemente 
alcaline (Li, Na, etc.) e più fluorifere; le giallo-verdi mangane- 
sifere, le nere ferroso-magnesiache etc. e in rapporto quindi 
anche con la densità, la quale secondo le determinazioni da me 
fatte sarebbe: 3,026-3,043 per le acroiche e le rosee; 3,068-3,083 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 81 
per le giallo-verdi e 3,086-3,174 per le nere senza far distin- 
zione fra nero superiore e inferiore. 

6.° La potenza birifrattiva sembra crescere in ragione delle 
differenze cristallografiche fra i valori di a e di c, ossia in ragione 
inversa della lunghezza dell'asse di simmetria, così almeno è 
per le principali varietà giallo-verde, acroica e rosea. Delle nere 
nulla può dirsi per il completo assorbimento di © e delle giallo- 
verdoline, che sembrerebbero far eccezione, conviene osservare 
che mentre in queste ricerche si comportano come tutte le altre 
giallo-verdi, sono così poche e così discordanti le determina- 
zioni goniometriche fatte dei cristalli di questa apparenza, i 
quali in parte si avvicinano agli acroici, in parte ai giallo-verdi, 
da far dubitare, come già fu detto a suo tempo (!), che deb- 
bano mantenersi in gruppo a parte. 

7.° Le piccole differenze ottiche fra l’uno e l’altro cristallo 
della stessa varietà non tutte sono spiegabili egualmente con 
le differenze cristallografiche e nemmeno con le condizioni del 
taglio nel caso in cui le facce del prisma non sieno riescite 
perfettamente parallele all’asse, o con le condizioni dell’assor- 
bimento (?). Così è della maggior differenza che, indipendente- 
mente anche dal valore dello spigolo rifrangente per i cristalli 
assorbenti, passa fra gli indici di rifrazione del raggio ordinario 
di fronte a quelli dello straordinario, spesso fra loro uguali o 
vicinissimi e della assai grande variabilità, per alcuni casi, della 
potenza birifrattiva. 

La determinazione ottica fu fatta come di cristalli romboe- 
drici nella supposizione cioè che nei piani normali all'asse di 
simmetria principale la luce avesse eguale velocità in ogni di- 
rezione. Ma se, come fan sospettare anche le determinazioni 


(1) Le Tormaline del granito elbano. Parte prima, pag. 72. 
(2) W. Vorar. Ueb. d. Bestimmung d. Brechungsind. absorbirender Medien — 
Wiedemann Ann. 1885, 144. 


392 G. D'ACHIARDI 


cristallografiche, si abbia a che fare con cristalli tendenti alla 
biassicità, quelle maggiori differenze che si riscontrano fra i 
valori del raggio ordinario in confronto allo straordinario, ap- 
parenti come anomalie, troverebbero facile spiegazione con il 
cadere lo spigolo rifrangente in uno o in altro piano verticale. 

Ad avvalorare questa supposizione fu tentato di tagliare in 
alcuni cristalli due prismi per ciascuno coi piani bisecanti l’an- 
golo rifrangente in determinate direzioni cristallografiche (sezioni 
principali del cristallo supposto biasse) fra loro normali e con 
spigolo rifrangente parallelo all'asse di simmetria esagonale. 
Fatto e misurato il primo prisma riesciva difficilissimo, se non 
impossibile, tagliare il secondo, trattandosi di cristalli assai 
piccoli e d'altra parte i grandi non potevano adoperarsi per la 
loro abituale torbidezza. Si dovè ricorrere alla confezione di 
prismi trigoni valendosi di 3 facce alterne del prisma {101} in 
cristalli omogenei e limpidi, i quali non avevano bisogno che di 
essere leggermente levigati per togliere le strie. 

Non si avevano così le due direzioni volute ad angolo retto, 
per le quali, se bene scelte si sarebbero dovuti riscontrare i 
massimi della differenza nelle vibrazioni normali all'asse (con- 
siderate come ordinarie); ma invece si avevano tre direzioni, 
una delle quali corrispondente ad una di esse, le altre due ad 
angolo della prima tanto diverso da 120° di quanto nel lustrare 
il cristallo si fossero alterati da 60° gli angoli dell’artificiale 
prisma trigono. La differenza nelle varie determinazioni sarebbe 
dunque stata minore, ma se ci fosse, si sarebbe anche così ri- 
scontrata e con ciò di particolare che due delle tre determi- 
nazioni di © avrebbero dovuto dare resultati presso a poco uguali, 
uguali del tutto se gli angoli del prisma sì fossero potuti man- 
tenere immutati e di 120°; invariabile doveva sempre restare 
il valore di e per ogni spigolo rifrangente. Prima di accecare le 
altre 3 facce dell'originario prisma esagonale fu riscontrato se 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 39 


si mantenevano ancora in zona con esse le facce lustrate, quindi 
per successivi accecamenti e misure ripetute più volte furono 
determinate per la sola luce del Na i tre indici, che per le zone 
diversamente colorate risultarono essere: 


>) 
È Angolo CE i 
-£ USS rifrangente Li n ca 
Ò 
NOE 20 1,6409 1,6219 0,0190 
acroica . + | 20/— 630 38! 0! 1,6417 1,6219 0,0198 
30 —=1560 584 0! 1,6418 1,6219 (0,0199 
I 
10 — 590 24! 0" 1,6420 1,6226 0,0194 
rosea . | PIUTOIASZAO] 1,6417 1,6225 0,0192. 
30— 560 58! Q" 16420 16224 0,0196 
10 — 580 57 0" | 1,6432 1,6226 0,0206 
gerolca . i S 29— 590 39130! 1,6436 1,6226 0,0210 
DI 1010823880) 1,6435 1,6225 0,02410 
II 
OE 00 1,6470 1,6234 0,0236 
giallo-verde $ 20—590 39 0” 16479 1,6234 0,0245 
OU_(610824M061 1,6478 1,6234 0,0244 
10659 dle 1,6407 1,6220 0,0187 
AGRO) COM 20 62040. 1,6420 1,6219 0,0201 
30— 520 37 0" 1,6419 1,6224 0,0195 
III 
10 (650Mo00 1,6422 1,6225 0,0197 
TOseoNe e 20/1620) 1,6408 1,6218 0,0190 
BU19208860001 1,6421 1,6224 0,0197 


La supposizione fatta che alla maggior differenza fra i va- 
lori di © di fronte a quelli di e e alla variabilità della potenza 
birifrattiva fra l'uno e l’altro cristallo dello stesso colore con- 
tribuisca la tendenza alla biassicità sembrerebbe dunque trovar 
conferma in queste determinazioni. — Però i resultati non sono 
sempre del tutto concordanti. È constatata la maggior diffe- 
renza di uno dei 3 valori di © di fronte agli altri due quasi 
eguali fra loro; è constatata l'eguaglianza o quasi fra i tre va- 
lori di e, che tanto più si scostano da quell’eguaglianza, quanto 


34 G. D'ACHIARDÎ 

più i valori degli spigoli rifrangenti accennano per le varie zone 
a non mantenuto parallelismo con l’asse di simmetria delle facce 
per tutta la loro estensione; ma quelle differenze non si cor- 
rispondono sempre, nè per la misura, nè per la posizione e non 
in ogni caso si può escludere che a produrle possano contribuire 
anche le interne imperfezioni, che talune zone dei cristalli esa- 
minati presentano. Quindi più che una regolare biassicità dei 
cristalli conviene concludere che esistano abituali anomalie, che 
per grado e direzione possono essere diverse non solo da cri- 
stallo a cristallo, ma da zona a zona di uno stesso cristallo. 


Figure d’interferenza. 


Fra i minerali uniassici la tormalina è uno di quelli che 
presenta più di frequente anomalie ottiche. 

JenzscH (1) fu fra i primi ad osservarle e pur anco in cri- 
stalli rosei dell'Elba, nei quali trovò un sistema ovale di anelli 
con due scure iperboli, e ne concluse che: 

1.° Le tormaline osservate sono otticamente biassi; 

2.° L'angolo acuto degli assi ottici è assai piccolo; 

3.° L'ottica linea mediana coincide con l’asse della tormalina. 

Dopo di lui altri pure le osservarono e cercarono di inter- 
petrarle chi in un modo chi in un altro. 

Così furono dal Mattarp (*) attribuite a mimesia, dal Rosen- 
Busca (3) a stratificazioni isomorfe e da altri ad altre cagioni, 
le quali tutte riassume e discute il Brauns (4) nel suo grande 
lavoro sulle anomalie ottiche dei cristalli. Ivi il Brauns descrive 
anche due tormaline elbane, nelle cui sezioni normali all’ asse 
e a parti acroiche e rosee si sarebbe riscontrato un contegno 


(1) Bemerkungen iiber optisch zweiaxige Turmaline. Pogg. Ann. Bd. CVIII, S. 645 
Leipzig 1859. (2) Anom. Opt. 1876. 150. (3) Mikrosc. Physiogr. 1885, 1, 364. (4) Die 
opt. Anom. d. Kryst., Leipzig 1891. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO B}3) 


uniassico nelle prime, biassico con più o meno d'’irregolarità 
nelle seconde. E determinò in queste l’angolo e il piano degli 
assi ottici, quello di 12°-15°, questo normale ad uno spigolo mar- 
ginale del 2.° prisma. Il Brauws attribuisce l'anomalia ad in- 
terne tensioni (.Spannungen) per mescolanze isomorfe, quali si 
hanno nelle tormaline policrome. 

F. Poxets (1) studiando l'influenza di un campo elettrostatico 
sul contegno ottico dei cristalli piezoelettrici rammenta anche le 
tormaline trasparenti dell’ Elba, ma solo per dire come le loro 
forti anomalie ottiche impediscano di rendersi esatto conto 
dei cambiamenti della doppia rifrazione avvenuta nel campo 
elettrostatico. 

Lo studio delle figure d’interferenza nelle tormaline elbane 
aveva per me sommo interesse, poichè sperava trovarvi una 
corrispondenza con le anomalie cristallografiche già da me de- 
terminate, onde feci numerose sezioni normali all'asse delle 
diverse varietà, sezioni che se per alcune varietà come le 
acroiche, le rosee e le giallo-verdi limpide, potei ottenere di 
sufficiente spessore da potersi bene osservare all’apparecchio 
ordinario di polarizzazione del Grora, per altre varietà invece, 
come le nere, le azzurro-nere, fui costretto a ridurle alla mas- 
sima sottigliezza per il forte assorbimento delle vibrazioni or- 
dinarie ed osservarle quindi al microscopio polarizzante. 

In tutte le varietà di tormalina ho riscontrato sempre segni 
più o meno evidenti di biassicità e tanto per sezioni di un solo 
colore, quanto per policrome con costituzione a cartoccio, onde 
mi sembra si possa ritenere non essere l'associazione omeomorfa 
delle diverse varietà la sola cagione dell’anomalia. 

Da varietà a varietà di tormalina. si hanno differenze di 


(4) Ueber den Einfluss des elektrostatischen Feldes auf das optische Verhalten 
piézoelektrischen Krystalle. N. Jahrb. f. Min. Geol. u. Pal., II Bd., 2 Htt. S. 241, Stut- 
tgart, 1894. 

Se. Nat. Vol. XV. 3 


36 G. D'ACHIARDI 


grado nel segno della biassicità; così meno appariscente nelle 
acroiche, ho riscontrato essere al massimo grado in alcune rosee 
e giallo-verdi, nelle quali l’angolo degli assi ottici nell'aria rag- 
giunge valori notevoli, frequentemente 3°6° e fino 10° circa, 
come ho trovato in una sezione di tormalina rosea. Ma non si 
ha affatto costanza in questi valori, i quali variano non solo 
da tormalina a tormalina della stessa varietà, ma anche da 
punto a punto della stessa sezione; come varia anche nello . 
stesso modo la direzione del piano degli assi ottici. 

Perciò credo si possa ammettere o complicata struttura dei 
cristalli, e già nello studio geometrico aveva esternato il dubbio 
che le oscillazioni dei valori angolari potessero attribuirsi a 
struttura polisintetica (parte I.* pag. 21) o a sofferte tensioni, 
che ne abbiano modificata la regolare struttura romboedrica. 

Per rendermi meglio conto di ciò ho studiato le figure 
d'interferenza nelle varie parti di una sezione rappresentanti 
punti cristallografici distinti e specialmente in prossimità degli 
angoli e dei lati delle sezioni orizzontali dei prismi. 

In molte sezioni non fu possibile rilevare altro che il piano 
degli assi ottici. D'ordinario normale ad una faccia di {101} non 
conserva sempre la stessa posizione, e in taluni punti appare 
invece normale ad una faccia di {211}, come già aveva ri- 
scontrato per altre tormaline A. Karnovrzer (!). Al pari di 
questo ho io pure osservato che procedendo da un punto ad 
un altro nella stessa direzione si vede a poco a poco diminuire 
l'angolo degli assi ottici sino a ridursi a 0°, per poi riaprirsi 
in altra direzione. Non ho constatato affatto che le parti centrali 
dei cristalli, nemmeno in quelli a cartoccio, sieno costantemente 
uniassi, che anzi spesso vi ho trovato larga apertura di angoli, 


(3) Krystallographisch-optischen Studien am Turmalin. Verh. d. k. russ. Min. Gesel. 
1890 (1891), 27, 209-288. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 37 
con minore costanza però che nelle parti periferiche, ciò che non 
sarebbe in accordo con quello che dice il Brauns (op. cit.), ma lo 
sarebbe con ciò che Jenzsca (op. cit.) ha osservato nelle tormaline 
rosse e verdi a cartoccio di Penig, nelle quali trovò la bias- 
sicità nei due involucri con cambiamento del piano degli assi 
ottici passando dal nucleo verso l'esterno. Nelle parti perife- 
riche si dà non di rado che almeno il piano degli assi ottici 
si mantenga in direzione costante nello spazio limitato da ogni 
coppia di lati di'{101}; nelle parti centrali invece da un punto 
all’altro si passa e repentinamente ad orientazione del tutto 
differente. 

In una sezione di un cristallo giallo-verde-olio, trasparen- 
tissimo e molto omogeneo, ho riscontrato sufficiente regolarità 
di contegno per orientazione diversa della lamina, in modo da 
potersi riferire le figure d’interferenza a tre settori distinti 
come se il cristallo fosse mimetico per tre prismi rombici in 
parte compenetrantisi (fig. 12). E osservando bene le figure d’in- 
terferenza in questa e in altre sezioni consimili vi ho riscon- 
trato più o meno evidenti segni di dispersione inclinata, onde 
la tendenza al monoclinismo, già rilevata anche per lo studio 
cristallografico. 

In un'altra sezione della stessa varietà di tormalina ho pure 
ritrovato lo stesso accenno di dispersione, però in alcune aree 
il piano degli assi ottici è normale ad una faccia di {211} in- 
vece che ad una di {101} (fig. 18). E pure normale a una faccia 
di {211} è quasi costantemente in un’ altra sezione policroma 
con costituzione a cartoccio (fig. 14). 

Dallo studio ottico vengono quindi pienamente confermate 
le induzioni fatte sulla struttura polisintetica di questi cristalli. 
Certo non se ne può esattamente determinare l'edificio cristallino 
e concludere che la struttura mimetica sia la sola cagione del- 
l'anomalia. Anzi il contegno variabile non solo nella direzione del 


38 G. D'ACHIARDI 


piano quanto e più specialmente nel valore dell'angolo degli assi 
ottici nello stesso settore fa credere che a produrre l'anomalia ol- 
tre l'unione di subindividui abbiano contribuito tensioni diverse 
per piccole diseguaglianze nell’assestamento delle molecole non 
perfettamente isomorfe, quali s'induce anche che siano dalle dif- 
ferenze goniometriche già da me poste in evidenza nella prima 
parte di questo lavoro e che secondano gradatamente le piccole 
differenze di costituzione chimica della sostanza tormalinica. 


Contegno termico. 


Se si hanno importanti studi, come quelli di Kwostavcg (), 
Trompson e Lopee (2), Srencer (3), Joy (4), DoeLter (°), Janner- 
tAZ (5) ecc. sulla irradiazione, conducibilità, dilatazione e ca- 
lorico specifico delle tormaline, non vennero tuttavia mai per 
ciò cimentate tormaline elbane. 

Solo nello studio dei fenomeni ottici ed elettrici per l’in- 
fluenza del calore alcune di esse furono sottoposte ad esperi- 
mento per determinarne i mutamenti di colore, la biassicità, e 
la carica elettrica. 

Fu negli esperimenti di piroelettricità che il Riecxe (7) oltre 
a porre in evidenza i rapporti fra la temperatura e la carica 
e conducibilità elettrica determinava anche il cosiddetto coeffi- 


(4) Pogg. Ann. Bd. 74, S. 133; Bd. 35, S. 169. 

(2) On Unilateral Conductivity in Tourmaline Crystals. Phil. Mag. London (5) 
Vol. 8, N° 46, July 1879, 18-25. 

(3) Zur Wirmeleitungsfihigkeit des Turmalins. Ann. d. Phys. 1884, 22, 522. 

(4) Spec. Calor. of the Minerals. Proc. Royal Soc. London 1884, 41, 250. 

(9) Erhitzungsversuche an Vesuvian, Apatit, Turmalin. Neues Jahrb. fur Min. etc. 
Stuttgart, 1884, 2, 217-221. 

(6) Note sur la propagation de la chaleur dans les corps cristallises. Bull. Soc. 
Franc. d. Min. T. XV, n° 5-6, Paris 1892, p. 133. 

(7) Ueber die Pyroélektricitàt des Turmalins. Nachr. d. k. Ges. d. Wiss. Git- 
tingen, n° 5, 188, 1890. N) 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 39 


cente di raffreddamento, che lunge dall'essere costante come è 
supposto nella formula di raffreddamento di Newron, varia in- 
vece nelle tormaline elbane, da lui esaminate, a seconda della 
temperatura alla quale furono portate. Per tre di esse cresce 
fino a completo raffreddamendo, per altre solo fino ad un certo 
limite per poi rimanere costante, a differenza delle tormaline 
del Brasile, da lui pure esaminate, nelle quali tale resta perma- 
nentemente. Nel seguente specchietto sono trascritti i risultati 
forniti da due delle prime tre tormaline. 


BE ILE RR A 6 7 8 DA 
| 168° 0,138 0,143 0,150 0,156 0,165 0,173 0,180 0,184 0,186 0,190 0,193 
I 
122° 0,185 0,190 0,192 0,195 0,196 0,198 0,199 0,199 0,200 0,202 


Li | 161° 0,178 0,185 0,191 0,200 0,206 0,212 0,220 0,225 
1220 0,226 0,230 0,231 0,235 0,240 0,245 0,249 


I tempi z sono espressi in minuti e nelle due serie sottoposte 
sì hanno i relativi coefficenti di raffreddamento per la tempe- 
ratura di riscaldamento indicata nella 1.* colonna. 

Quest’'incostanza è attribuita dal Riscke alla conducibilità 
delle tormaline ad alta temperatura, e ai conseguenti ritardi 
della scarica elettrica. 

La tormalina elbana, come quelle di altre località, per es- 
sere cattiva conduttrice del calore, riscaldata, e specialmente 
se non grado a grado, si rompe con grande facilità e la rot- 
tura nei cristalli che sembrano semplici avviene per piani pa- 
ralleli a facce terminali. Così nei rosei, acroici e giallo-verdi 
ordinariamente si ha per piani paralleli alla base; nei neri (nero 
superiore) paralleli invece a {100}. 

Nei cristalli policromi, nei quali la colorazione nera supe- 
riore si separa nettamente dalla sottostante secondo piani pa- 
ralleli a {100}, è facile il vedere la terminazione nera distaccarsi 


40 G. D'ACHIARDI 


con il calore nettamente, seguendo questi piani, dalle parti sot- 
tostanti, le quali invece si rompono parallelamente alla base. 
Nei cristalli fascicolati, frequenti fra i rosei e acroici, i subindi- 
vidui si separano facilmente l'uno dall'altro e questi poi alla 
loro volta in tante porzioni minori terminate da piani basali. 
A provare la conducibilità termica delle tormaline elbane 
sottoposi alcune sezioni di cristalli alle prove di riscaldamento 
con l'apparecchio di SenarMmonT, quale è costruito dal Furss. Devo 
però dire subito come la poca larghezza dei cristalli non mi 
abbia consentito di ottenere sulle facce arrotate figure di 
fusione della cera ampie abbastanza da potere in ogni caso ri- 
cavarne misure di precisione. Per misurare i diametri delle 
figure di fusione mi sono servito di un microscopio polarizzante, 
(Fuess n. I), le cui viti micrometriche annesse alle slitte della 
piattaforma permettono di giudicare di uno spostamento di ‘00 
di mm. Di ciascuna delle principali varietà ho sottoposto ad espe- 
rimento più cristalli in lamine normali e parallele all'asse di 
simmetria e su ciascuna lamina ho ripetuto più volte la prova. 
Nelle sezioni trasversali l’isoterma o ha forma circolare o 
almeno non sono apprezzabili le differenze fra i diametri. 
Per le sezioni longitudinali minore differenza fra i diametri 
ho riscontrato nelle acroiche, nelle quali le figure di fusione si 
avvicinano al circolo; per le altre varietà ho trovato fra i due 
diametri di queste figure un rapporto di 1,10:1 fino a 1, 16: 1, 
senza sensibili differenze fra varietà e varietà di tormalina. 
Le ellissi isotermiche delle sezioni longitudinali appaiono de- 
bolmente depresse; ma non sono riescito a vedervi allungamento 
maggiore verso una estremità piuttosto che verso l’altra; però 


non di rado hanno l’asse maggiore non perpendicolare all'asse 


di simmetria; ma anche a questa inclinazione non posso dare 
una importanza troppo grande, sebbene essa pure in armonia 
con le osservazioni ottiche e cristallografiche, perchè non sempre 
fu dato riscontrarla, nè sempre è uguale. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 41 


Contegno elettrico. 


Le proprietà elettriche della tormalina non è certo che fos- 
sero conosciute dagli antichi, però taluni vogliono, ma non è 
provato, che Puro a ciò alludesse nella sua Storia Naturale (1). 
La prima notizia storica sopra la proprietà, che ha la torma- 
lina riscaldata di attirare la cenere, si trova secondo ScHEDTLER (?) 
in un libro apparso a Chemnitz e a Lipsia nel 1707 col titolo 
Curiose speculazioni nelle notti insonni (3), nel quale si dice che 
nel primo mese del 1703 in una pietra chiamata tormalina o 
turmale o tripp era stata in Olanda riscontrata questa proprietà. 

Fu Lewery il primo, per quello che ne digee Haùr (4) nel 
1719, per BecquereL (°) e Garuirzia (9) nel 1717, che comunicò 
all'Accademia reale delle Scienze in Parigi le osservazioni fatte 
sopra una tormalina del Ceylan, che godeva della proprietà di 
attirare e respingere i corpi leggeri. Quindi il duca di Noya, 
ErPino, Wirson, PriestLEY, Canton e altri scienziati si occuparono 
del potere attrattivo di questa pietra. 

Ma delle tormaline dell'Elba non si trova ancora fatta men- 
zione in queste prime indagini. Se ne cominciò a parlare solo 
quando si prese a studiare il contegno piroelettrico nei varii 
cristalli in relazione alle forme cristalline e specialmente al- 
l’emimorfismo. 


(4) Hist. Natur. 1, 37. 

(2?) Experimentelle Untersuchungen ‘iiber das elektrische Verhalten des Turmalins. 
Neues Jahrb. fiir. Min. Geol. u. Pal. IV Beil.-Bd, III Hft, Stuttgart 1886, S. 519. 

(3) Curiose Speculationen bei schlaflosen Ntichten. S. 269. 

(4) Traité de Minéralogie. 2.0 édition, T. III, pag. 38, Paris 1822. 

(9) Sur les propriétés électriques de la Tourmaline. Ann. d. Chim. et de Phys. 
T. XXXVII, pag. 5, Paris 1828. 

(5) Récueil de noms par ordre alphabétique appropriés en Minéralogie aux Ter- 
res et Pierres ecc. p. 274, Brunswik 1801. 


49 | 6. D'ACHIARDI 


Nel 1838 G. Rose (') poneva in evidenza il legame fra le 
forme cristalline e il contegno piroelettrico e cioè: 


Tormalina polo analogo polo antilogo 
DEF SOS 00] LOS 00 
TOSCANI SAN rotto SRELLO ONERI 
OC O rotto 

FOSCA NEMI — . rotto 


li 
DES giallo-verde . {110} : _ 


E lo stesso Rose, in unione a Rirss (?), nel 1843 fa anche no- 
tare per cristalli policromi verdi e neri dell'Elba che le facce 
dei romboedri {100} e {111} rispettivamente apparenti alle due 
estremità analoga e antiloga riposano sempre sul prisma trigono. 

G. vom RATE (3) fa distinzione per i cristalli elbani delle sin- 
gole varietà fra estremità superiore antiloga e inferiore ana- 
loga e dice come alla prima si trovi, quando esiste, il rom- 
boedro {111}, alla seconda {110}, e la base sia lucente se supe- 
riore, opaca se inferiore. 

Im queste prime ricerche però non si teneva sufficiente conto 
nè della intensità della carica, nè della repartizione di essa su 
tutta la superficie dei cristalli, alle sole sommità terminate li- 
mitandosi d’ordinario le osservazioni, nè delle diverse tempe- 
rature, nè della durata del riscaldamento, nè della struttura 
interna, nè dei colori che i cristalli presentavano. Solo più 
tardi si cominciò a porre mente a tutto ciò e agli studii di 
Becqueret (4), di Gaucamn (5), di Hopper (9) seguono quelli non meno 

(4) V. Parte 1.8 p. 6 nota (8). (?) id. p. 7 nota (19). (3) id. p. 9 nota (6). 

(4) Sur les proprietés électriques de la Tourmaline. Ann. d. Ch. et Phys. T. XXXVII, 
pag. 5, Paris 1828. — Des effets de la chaleur dans les Corps mauvais conducteurs 
de VÉlectricité et dans la Tourmaline. Idem, pag. 355. 

(3) Mémoire sur Vélectricité des Tourmatines. Idem, T. LVII, Ser. 3.9, pag. 95, 
Paris 1859. 


(6) Mittheilung iiber die Pyrodlektricitàt des Turmalins. Nachr. d. k. Ges. d. Wiss. 
S. 474, Gottingen 1877. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 43 


importanti di Riecke (4), ScaepriER (2), Giacomo e Pirro Curie (8), 
Kunpr (4), Luesisca (?), Vorer (5), Pockets (°) e altri; e varii di essi 
prendono in esame anche tormaline dell’ Elba. Fra questi va ci- 
tato per primo E. Riecke, il quale in varie memorie dal 1885 
in poi rese conto delle sue indagini di misura sulla piroelet- 
tricità delle tormaline, studiata specialmente rispetto all’ an- 
damento della temperatura. Per queste indagini oltre a varie 
tormaline di Snarum e del Brasile dispose anche di alcune 
poche dell'Elba e per le osservazioni fatte ne dedusse: 

1. Che l’intensità della carica elettrica cresce con la durata 
del riscaldamento fino ad un certo limite oltre il quale decresce. 

2. Che questo limite variando in ragione della grossezza del 
cristallo è a ritenersi che sia raggiunto quando questo abbia 


(4) Ueber die Pyroélektricitit des Turmalins. Idem, n.° 13, S. 405, 1885. — Zwei 
Fundamentalversuche zur Lehre von der Pyroélektricitàt. Idem, n.07, S.4, 1887. — 
Ueber die Pyroélektricitàt des Turmalins. Idem, n.° 5, S. 188, 1890. — Ueber eine mit 
den elektrischen Eigenschaften des Turmalins zusammenhingende Fléiche. Idem, n.° 7, 
lins. Idem, n.9 8, S. 247, 1891. 

(?) Op. cit. 

(9) Développement par pression de l’ électricité polaire dans les cristaux hemièdres 
à faces inclinées. Compt. Rend. T. XCI, pag. 204, 1880. — Loi du dégagement de V é- 
lectricité par pression dans la tourmaline. Idem, T. XCII, pag. 186, 1881. — Sur les 
phénomènes électriques de la tourmaline et des cristaue hemièdres à faces inclinées. 
Idem, T. XCII, p. 350, 1881 — Les cristaue hemièdres à faces inclinées comme sources 
constantes d’ électricité. Tdem, T. XCIII, pag. 204, 18841. — J. Curie. Recherches sur le 
pouvoir inducteur spécifique et la conducibilità des corps cristallisés. Ann. d. Chim. et 
d. Phys. T. XVII, pag. 385, 1889. 

(4) Ueber eine einfache Methode zur Untersuchung der Thermo-Elektricitit und 
Piezo-Elektricitit der Krystalle. Sitz. d k. preus. Ak. Wiss. XVI-XVII S. 421, Ber- 
lin 1883. — und BLasius. Bemerkungen viber Untersuchuny der Pyroelektricitit der 
Krystalle. Wied. Ann. N. F. Bd. XXVIII, N° 6, S. 145, 1886. 

(9) Ueber thermoelechtrische Stròme in Krystallen. Nachr. d. k. Ges d. Wiss. N.° 20, 
S. 531, Gottingen 1889. i 

(6) Allgemeine Theorie der piézo-und pyroelectrischen Erscheinungen in Krystallen. 
Abhandl. d. k. Ges. d. Wiss. Gottingen, Bd XXXVI. 

(*) Ueber den Einfluss des elektrostatischen Feldes auf das optische Verhalten 
piézoelektrischer Krystalle. N. Jahrb. f Min. Geol. u. Pal. Bd. II, 2.9 Hft, Stuttgart 1894. 


44 G. D'ACHIARDI 


conseguita nelle sue interne parti la temperatura delle superficiali. 

3. Che mantenendo costante la temperatura di riscaldamento 
la carica cresce con il grado di essa. 

4. Che la carica per un omogeneo riscaldamento quasi cor- 
risponde a quella di un riscaldamento ineguale quando la media 
di questo equivalga la costante di quello. 

5. Che la densità elettrica cresce in ragione della grandezza 
del raffreddamento (T-t). 

6. Che eliminando, per quanto è possibile, la conducibilità 
della superficie le polarità elettriche producentisi per raffred- 
damento possono mantenersi fino a un certo grado e per lungo 
tempo; onde una tormalina, la cui superficie fosse perfettamente 
isolata, potrebbe ritenersi come corpo permanentemente elet- 
trizzato e il cui momento principale cadesse nella direzione del 
suo asse. 

7. Che l'elettricità sviluppata non muta di segno durante il 
raffreddamento. 3 

8. Che i ritardi diversi, che si verificano al principio della 
scarica ora solo per le più alte temperature, ora anche per le 
più basse, nei cristalli dell'Elba, sono da attribuirsi alla condu- 
cibilità elettrica della tormalina ad elevata temperatura. 

9. Che a questi ritardi e quindi alla stessa conducibilità che 
li produce è da accagionarsi l’incostanza del coefficente di raf- 
freddamento, di cui fu detto a pag. 39. 

Queste leggi verificate tutte per le tormaline elbane lo fu- 
rono in massima parte anche per le altre e per queste come 
per quelle sono in numerosi quadri e diagrammi riportati i ri- 
sultati numerici tutti delle esperienze su cui si fondono. 

Nell'ultima delle memorie svolge la sua teoria molecolare 
della piro e piezoelettricità, considerando le molecole circondate 
da sistemi di poli elettrici, che nel loro ordinamento secondino 
la simmetria del cristallo. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 45 

H. ScreprLER (!) nelle sue ricerche esperimentali sovra le 
proprietà elettriche delle tormaline prese in esame col me- 
todo dell’'impolverazione con minio e zolfo dovuto a Kumpr, a 
determinare la repartizione della elettricità alla superficie du- 
rante il raffreddamento, insieme a molti cristalli di varie loca- 
lità anche 37 dell'Elba, tutti, salvo due, rotti al polo antilogo 
e terminati all’analogo parte con il romboedro {100}, le cui facce 
riposano su quelle del prisma trigono, parte da {100} in unione 
a {111} o {111}. Distinse i cristalli elbani in 5 gruppi principali 
basandosi sovra il loro abito cristallino. 

Nel gruppo A comprese 18 cristalli aventi al polo analogo 
il romboedro {100} solo o prevalente su {111} (2). Sono tutti ca- 
ratterizzati da una zona nera più o meno estesa a questo polo. 
Il gruppo è diviso a sua volta in 2 sottogruppi a seconda che 
nei cristalli predomini la tensione negativa o la positiva. 

Il gruppo B è formato da 12 cristalli, i quali per lo più 
al polo analogo mostrano {110} prevalente su {100}. Fa ecce- 
zione il più piccolo fra essi, il quale essendo rotto al polo ana- 
logo ha all’antilogo le facce terminali di {100} e {111}. Al polo 
analogo di questi cristalli la sostanza tormalinica è più o meno 
chiara e con vario grado di trasparenza, mentre all’ antilogo 
si ha un nucleo nero circondato dalla stessa massa trasparente, 
fatto che si riscontra anche al polo antilogo dei cristalli del 
primo gruppo. ll gruppo è suddiviso in due sottogruppi a se- 
conda che la tensione negativa superi o eguagli la positiva. 

Il gruppo C comprende 4 cristalli rotti al polo antilogo e 
aventi all’analogo la base e le facce di {100} riposanti sulle 
facce di y{211}. Tre sono acroici al polo analogo, il quarto 


(4) Op. cit. 
(2) Giudicando dall'insieme e dalle figure riferibili ai varii casi parrebbe che qui 


e sopra dovesse essere {110}= — ‘/,R anzichè {{1{}{=—2R come sta scritto. 


46 G. D'ACHIARDI 


verde-azzurrastro, più in basso giallognoli; trasparenti tutti. 
In due senza screpolature predomina grandemente la tensione 
positiva; sugli altri due ora la positiva, ora la negativa. La 
parte giallastra è più fortemente eccitabile dell'acroica. 

Nel gruppo D si hanno 6 cristalli, di cui 8 soltanto termi- 
nati al polo analogo. Sono roseo-acroici, più o meno traspa- 
renti, con molte fenditure e facce di prisma fortemente striate. 
Si eccitano debolmente e con tensione positiva ora prevalente 
ora eguale alle negativa. 

L'ultimo gruppo E comprende due cristalli, esclusi dai pre- 
cedenti gruppi, di color giallo-bruno. Uno presenta al polo ana- 
logo nerastro le facce di {100}, l’altro all’antilogo di {100} e {111}. 

Di ciascuna tormalina nota la distribuzione dei colori, il 
peso, le dimensioni, le fenditure e altre particolarità d’'interna 
struttura e dà numerose figure colorate a dimostrare la distri- 
buzione dello zolfo e del minio durante il raffreddamento sulle 
superfici dei cristalli riscaldati in una stufa a temperatura da 
100°-130° O. 

Dallo studio di queste tormaline dell'Elba e di altre loca- 
lità dedusse varie leggi, fra le quali conviene ricordare: 

1. Che le molecole emimorfe della tormalina eccitano nel 
verso stesso dell'asse d’emimorfismo la polarità elettrica. 

2. Che l’eccitamento avviene non solo all’ estremità ma an- 
che lateralmente. 

8. che l’eccitabilità varia secondo il colore, le acroiche e 
nere essendo spesso inelettriche e conduttrici dell'elettricità. 

4. che fra le opposte tensioni, che si estendono più o meno 
dai poli sui lati, si trova sempre una zona neutra diversamente 
larga nei varii casi. 

5. che all'estensione maggiore o minore dell’ elettricità di 
un segno di fronte a quella di segno opposto influiscono le in- 
clusioni, le fenditure, gli intorbidamenti e altre cagioni pertur- 
batrici della costituzione omogenea del cristallo, 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 47 


Da quanto ho sopra riportato si vede dunque che questo 
dell'elettricità è un campo bene mietuto anche per le torma- 
line elbane; però se sarebbe stato per lo meno superfluo il ri- 
petere per esempio prove di misura per la carica elettrica nelle 
diverse condizioni di temperatura, non mi è sembrato che lo 
fosse un'indagine ulteriore per meglio determinare i legami 
della piroelettricità con le forme cristalline e le varietà di- 
verse per il colore. Ii copioso materiale, che potevo esaminare, 
mi metteva sotto questo aspetto in condizioni più vantaggiose 
di fronte agli osservatori che mi precedettero, i quali non eb- 
bero a loro disposizione che pochi e taluni anche pochissimi 
‘ cristalli. E certo anche i 37 esaminati dallo ScrepTLER, che fu 
quello che ne cimentò più degli altri, sono ben poca cosa di 
fronte ai più che 400 delle diverse varietà che io ho preso 
in esame col metodo dell’impolverazione di Kuxpr. 

Ho riscaldato i cristalli, scelti fra i migliori, in una stufa 
_ ad una temperatura variabile dai 110° ai 130° C. per la durata 
di mezz'ora e più a seconda della grossezza loro. Quindi li to- 
glievo dalla stufa servendomi di una pinzetta a morsa di su- 
ghero, li facevo convenientemente raffreddare sovra una lastra 
-di vetro ben secca, e li sottoponevo poi all’impolverazione con 
i minio e zolfo precedentemente mescolati ed agitati. 
Indipendentemente dalla tensione maggiore o minore svi- 
‘ luppatasi nei varii casi e dalla sua ripartizione sulle facce pri- 
smatiche, riassumo nel quadro seguente i resultati delle prove 
fatte soltanto per ciò che riguarda il contegno piroelettrico in 
correlazione all'estremità dei cristalli. Questi sono citati per 
gruppi nell'ordine stesso tenuto trattando dei colori, omettendo 
per i cristalli policromi completi quando sono già citati per il 
colore di una estremità, di citarli di nuovo per quella dell’ al- 
tra come feci invece per lo studio cristallografico. 


DOSOL | 


(1) 
‘apioA-o]]ers 
"091098 
‘@puoA-0]]e19 
‘OI@IQO OpioA-0][ers 


‘@pIoA-0][e1òd 
*ApIoA 
-O][813 cojonu uo9 09s01 
"0FITO]09S 
09]Onu U09 0IJSBIINZZE 
‘9pioA-07]e19 
*09S0I1 B 090.198 


(I 


k) 


G. D ACHIARDI 


‘0unIq-0]]erS 
‘@pioA-0][eiS 


4 


‘OIOII9JUI 0I9U 


OJJOL 


ti “f001}x 


‘ * ‘0qgo1 


SI IL: 
{LTT} {00T}x 
2 SM 


ITTTÌ {00T}x 


* * ‘09901 
{TTT} FOOT}, 
A I. 


lita 


Oer Iqserdiq Dias | OI 
È 4 TN I Tao) i 0 tI 


© “ . . » ° . ° 


OUTToIN]-9]S9]99 Se Ser e 


O “ . . . è {TI 


® 4 ° . è ° {TI 


5 4 . . . . . di 


1QNO TONER O.TO100) RA SN 


940|09 


48 


obojizue o0|0d 


pi — fg — © a — 
OY0 Ya temi le sua ag 


T} {001} 
T} foot} 
{TIT} 
{TTT} 
fort} 
{001} 


OSOIQU 


T} foot} 


‘{00t} 
‘f00t} 
foot} 
‘toL1} 
{001} 
‘f001} 
x 0970I 
OSOIgI 
I} {001} 
foot} 
1007} 
‘f001} 


I 
I 
G 
G 
I 
IT 


fi 


- > -ansedia (g 


‘2UI]9INY-99S999 (0 


:QUOIZEUIWI99 è *]T 


‘B10U QUOIZEUIMI 
-199 è ewuo19I]od (g 


‘9100 29UIWI]EFOY (77 


*G19U ,'ZEUIUI9Z È *] 


910|09 ofojeue 


QUI|BWJOL 


49 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 


‘eso Ios 


“ Do ER0 TO: O ezuaredde uoo coI0198 | * * * * {OTT} {oot} | < 
*09S0I . ° ° ° . è CETO ° . . . . “ o . o . . . III} G 
sopiea-oggei8 | +0 > cogoa | >. “ Se pre Ce 
oo Se AE 001 * * dirti fort} {oot} | x 
Casone A OG OA 00) N 00, a 
(OUMOP 190 EA RS 001) N O 001 
opioszo[|eroa RR 001 000108) 000 
‘outer8 | * {GIF} {LTS} {LTT} {00T}x| 09sOx ,;'aedde ootoxe | © * * * * * SIIT 
i (uu OG 001 I I SI 
jOnTopI94 oe: STO) IU 000 I DU 
o i i ERI (00, I EE A 
“ esa {Tati (001}x RARE “ n Sat rante TTI} I 
dani 0 e e TT AI 
I098018 Se e e i ee CR *BO10.198 QUOIZEUTUI 

Caen 00 e “0% ®© “‘loor | 1 |-193 8 ewosood (g 
SR RO RE ae i O 
: dona iS ei II 
“ SER RA Gbit PAT, SISSA den O “ e RCA {TIT} (001} z 
‘0ot0ane | cogor | es 

[038014 2.99](010910108) SS I 00 o 00 e (SIOE UR] 

1 BOIOIOE 
QUOIZEUIWILI9Y © ‘AT 
i Rini Sat Sira é CIR OOLARE ‘0110d-9paoA 


“epieA-o[per8 @ 00so1 | * * > > * © *oggor | * i * coziod-eprea | * * “ * {OI} {001} | 9 | cuorzeurueg è ‘TI 
*0DI9A-OTTCIS S . Ù TO . ° AS . è è “ siro n STTT} TI 


Tormaline 


Polo analogo | Colore 


Polo antilogo Colore | 


I. a terminaz.° nera: 
A) totalmente nere. 


B) policrome a ter- 
minazione nera. 


II. a terminazione: 
@) celeste-turchina. 


6) bigiastra . 


{100}. 
{100}. 
{100}. 
{100} {111} 
fibroso . 
rotto. 
{100}. 
{100}. 
{110}. 
{100}. 
{100}. 
{100}. 


{100} {111} 
fibroso. 


{100}. 


[ore oa 
n 


{111}. 
{100} {110}. 
{100} {110}. 


nero superiore. 


Silio, 
. |#[100} {111} 


rotto. 
” 


MERC a > 
. |K311}. 
. |#{100} {111} 


; *[111}. 

5 rotto. 

” ” 
celeste-turchino rotto. 

” ”» 

Li » 

» ” 

n neon Lo Ses 
bigiastro . . . . |*{100}. 


IV. a terminazione 
acroica: 


4) totalm.*acroiche 


B) policrome a ter- 
minazione acroica. 


NAsaNaDdHn 


ITAL HHHHHKHHHWHKHWHHHWHWWH 


MILL IRAIOE 
{111}. 

{100} {111} 
{110} {111}. 
{100} {110} {111} 


{100}. 
{111}. 
111}, 
{119}. 
{11m}. 
{119}. 
{111}. 
fatlo so 
{100} {110} 
{100} {111} 


{100} {111}. . 
{100} {110} {111} 
TOA 
Ii ee 
{100} {110}. . 


. 


» 

” 
acroico appar. roseo 
acroico . 


acroico conapparenza 
gommosa. 


*[100} {111}. 
rotto. 

*{100} {117} 
{111}. 

*{100} {111} 
*{100} {111} 


- |*{100} {111} fmnp} . 


*{100} {111} {201}. 
*[100} {111} {201} {mnp} 
*{100} {111} {811} {412}. 
*{100} {111} 


i #{100} {111} 


*{100} {111} {207}. 


3 *{100} {111} 


rotto. 
Ri 


nero inferiore. 


giallo-verde. 
giallo-bruno. 

” 
acroico a roseo. 
giallo-verde. 


azzurrastro con nucleo 


scolorito. 


roseo connucleo giallo- 


verde. 
giallo-verde. 


giallo-verde chiaro. 


giallo-verde, 
acroico. 
giallo-verde. 


acroico. 
”» 
n 


” 
giallino. 
roseo. 

”» 
n 


n 


giallino. 


giallo-verde. 


roseo. 
giallo-miele. 


giallo-verde. 
roseo. 


giallo-verdolino. 


giallo-verdolino. 


87 


IQUVIHOY A ‘9 


acroico o legg.'° roseo. 


ONYETI OLINVUD TIC INIIVIIOL AT 


67 


è) 


D ACHIARDI 


G. 


50 


‘09801 


*0UI[[e19-09S01 


*OUI][eI9-09801 
LES 


‘0U1[[e19-09s01 


‘O9SOI 


*OUIT[e19-09S01 
‘09501 
*OUI][eI9-00S01 


‘OSCIAquI 09RUIA-0][etS 


“ 


[TEA] Poor] 


‘firmi frog} {LTT} {001}% 
{LTT} foot] 
#14.87; 
te 102} {118} ILTT} {001}. 
IR At 1001] 
° * "{ITI} KLTT} {00T}x 
BINIgeIz Ip prodnso {00T}% 


"7 *{TUTI {DOG} (00T%x 
n ITIQUULUIIQJOPUI 9]JODO]I 


“titti {Log} {ooT}x 
{TTI} LTT} {00T} 24 
‘trani ftt} foot}» 
I TOO: 
{LTT} 100134 

(6133 110€} KITTS {00T}» 
* “frog {TTT} t00t}, 


OIBITI-09S01 
‘09S01 
OIRIT]9-09S01 


‘O9S0I 


OIBIY]I-09S0I 


‘09SOI 


OIVI]I-09S01 


‘O9SOI 
OTEI]I-09S0I 


* *  ’‘09S0I 


OZzeuogd-09s01 


OIBIYO-09S01 


Po ea ele e 


“Iquunuogopur CHTERN,O! 


URTO 0On 


{TTI} {0071} 
{TTI} {00T}£ 
{TTI} {001} 
{TTI} {007} 


i011} {001} 
TOO 


s1000 
{TIT} 
#1006 
{TIT} 
‘TTT 
001} 
{001} 


{TTT} {OTT} {0oT} 
SR IT OT 
{TTT} 1001} 


040|09 


obojijue 0|od 


040]09 


ofojeue 0|od 


{T06} {00T}x| 1 


‘99501 FUIWTEFO9Y (P 
1 BOSOI 
QUOIZEUIUIIO è “A 


QUI|EWJOL 


IE 


51 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 


(OUUTO PISO] [Go RIA ETA OZ O0] e SA E OO] 
QUE A 00 SS A O 
bergamo or 0 e nu) 001 

3 FER 00 e E 00] 

"TETI: ATTI} tOOT}&| © © * 0 | eanggexpipogrodns 0 LTT) 
ENO 000 e n 
(0g RI 0010 e e I 
ERA sN R001, fe I 
ug) es on uu (000 Sn 
‘OUI]OpioA-07]e1S ° e . . {III} {O0T}x . . ° . . . “ . . Ò ò . "i III} 
IO visa RARcGASEA 00], Re 005018 I 

{GIF {TTS]»| © 019u Isenb ozzeuoed |» 000 1001} 


*OUITeIO | © 


“ 


. 


*OUI[Opi9A-0]]eIS 


4 


T | -voso1 auorzemma 
-193 è awo.10I]od (gJ 


vi Dori Ord Gr. “ _ Ii di GI rm 


‘OQBUIA E AMRO 


1095018 RCS AA RTLA O RITO KE 1092095 ME OO 
‘ouei8-09s01 STAI iruii I001}s SaaS SORE ee. + * *0qJ01 | z 
CO 00 01 

P STO ATO ate RE ee ° * {rat} ftt} foot} | 21 

P RE AE a REI ALAEc Ce milton 

“ SRP no das soggot a do dest 


"« esa e n A EI e nen ITITÌ {001} OI 
P Gra CRESTE «+ + * $rtt} footkx| St 
P rela aiar Ren anne RE 


sit e e ion, a 


2. Nat. Vol. XV. 


15 PI LA a sr ISPA I) CAT LU] n i 


Tormaline 


Polo anatogo 


Colore 


Polo antilogo 


Colore 


V. a terminazione 
rosea: 
A)totalmenterosee. 


B) policrome a ter- 
minazione rosea. 


_ 
Ei 


HH NH OHHEHENHE NH 


5 


RARE EZ dcr Io 


| {100} {111} 
{110} {111} 
{100} {110} {111} 


{100}. 
{100}. 
{111}. 
{111}. 
{111}. 
{111}. 
{111}. 
(no 
{100} {110} 
{100} {111} 
{100} {111} 
*100} {111} 
{100} {111} 


* 100} A(20N}M0 
{100} {110} {111} 
faccette indeterminabili. 


154 NT00 e 


{le ing: sa 
{110} {111} 

{334} {111} 

*{100} {111} {111}. 
{100} {111} {111}. 

#° {100} {110} {111} {111} 
rotto. 


rotto. 


{100}. 

{111}. 

{111}. 

{111}, 

{110}. 

{111}. 

{111}. di 
{111} e superf. di frattura 
{100} {111} 

{100} {111} 
ae 


{100} {111} 


== 
FLEET | ei : 
Ste at 


roseo-chiaro . . 
TOSeo-paonazzo 
roseo. 
roseo-chiaro 
roseo. 

n 

” 
roseo-chiaro 
roseo. 
roseo-chiaro 
roseo. 


roseo-chiaro 


TOSCO. 


» 
roseo-chiaro 


roseo. 


” 


roseo-chiaro 


paonazzo quasi nero . 


TOSeo. 
E) 
” 
” 
LI 
” 
” 
” 


. |K{100} {111} {201}. 

. |#100} {111} {201} {212} . 
. |K{100} {111} 

. |K{100} {111} 

. |#{100} {111} {111}. 

. |F2{100} {111} {111}. 


*100} {201} {111}. 


faccette indeterminabili.. 


. |K{100} {201} {111}. 
. |}{100} esuperf. di frattura 
. |#{100} {111} {111}. 


{100} {111} {111}. 


*{100} {111} {311} {201 ?} 


{412}. 
{100} {111} 


. |K{100} {111} {201} {111}. 
- |#{100} {111} 


rotto. 


n 


i *{100} iuniy 
. |*{100} {111} 


*{311} {412} 
*{100} {111} 


*[100} {111} 


*[100} {111} {111}. 

*{100} {111} {317} {111}. 
*100} {111} {201{ {111}. 
*{100} {211} {201} {111}. 


. |X{100} {111} {111}. 
. |H100} {111}? , 

- |#{100} {111}. 

- [#{100} {111} {111}. 
- |#{100} {201} {111}. 


giallo-vinato intenso. 


roseo-giallino. 
roseo. 
roseo-giallino. 
”» 
” 
roseo. 


roseo-giallino. 


roseo. 
roseo-giallino. 


n 


TOSCO. 


roseo-giallino. 


E) 


n 
roseo-giallino. 
roseo. 


vinato. 


giallino. 


giallino. 


n 


giallino. 
giallo-miele. 
giallino. 
giallo-verdolino. 


giallo-verdolino. 


giallo-verdolino. 


09 


ICHVIHOV A *D 


ONVATE OTINYAD TIT ANITYRUOL AT 


TG 


pron 


ì 


D ACHIARDI 


G. 


52 


‘OUI]oOpI9A-0][BIS 


‘01JSESSOI-O]]eIS 


4 


4 


‘@pIoA-0][eIS 


‘@]orua-0]]e1S 


4 


"ouger8 


‘0128d09-0][e1S 


=== pre TEST: 5° 


= N EE I] nn _ 


trtn} ter {ootks 


RL Da 
* {10%} [00T}» 
* tToz} {00T}£ 


{ttt} {rtn} {ooT}£ 
{TTI} {LTT} {001} 


CRA 4 
FEAT DA “ 
ZA “ 
sr ie K 
PRA 09gOI 


‘eINqqRa; Ip orogiod 
-ns 2 ILTIÌ LTS} 100T}x 


{TTT} {1ts} foot}, 
‘ {TTT} fooT}k 


{duw} {TTT} {LS} {00T}x 


* {TT} foot}. 


*ATTTS ILTTS ALTE} {OOT}, 


09SOI Je eZuopuog 
UO9 OUI]OPa9A - 07]e1S 


0O10J9E, JB eZuepuoz 
UO) OUI]OpI9A - O]]erS 


° * OJqSt[[er9-09801 


. ° . ° ° 4 


. 0 . . . 


O9SOI 


(enboe ns aquerssa] 
-]t.S OUTA 9109) OJBUIA 


09SOI 


* *. O0Zzeuogd-09s01 


n 


O . 


- ne 


09901 
* * fort} foot} 
aaa fort} 
‘toot} 
irtt} fort} foot} 
E A ON 


E ORA 000 
i 
{TTT} FTTT} {001}, 
{trx} {TTT} foot} 


E UN 
PESI 10RN 
{001} 


{TT} {ott} {oot} 
{tit} fort} foot} 
{tit} fort} foot} 
E TE DIO) 
uao 
200) 10016) 


di at a 


*EUTfoOpIoA-0]qerS 
QUOIZBUIWIT99 ‘TA 


940]09 


obojizue 0|og 


2940]09 


obojeue 0|od 


QUI|EWJIOL 


08 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 


‘0uI][ers 


“ 


‘0UnIq-0]]e1S 


“I]9199Oq-apioa 
caponu è aepioa-o][ers 
‘21]91qgoq-apioA 

‘0]]€13 Ip otutWIOp 
-91d u09 apioA-0][eiS 
‘ounIq-0][ers 


‘OTler8 Ip orutwiop 
-01d u09 apioA-0]]er8 


‘ounIq-0]]erS 


‘OTTerS Ip oruturop 
-a1d u09 apiaA-0[[erS 


‘ounIq-0][e1S 


"ATTI LTT} ILLE} 100734 
AO NU) (0005 
° * "LTT ITTT) {00T}, 


E MR 1001 
E Ln 001 
* *(@ rog} ITET} {00T}» 
e 00 
29M (001% 
GINYICI} Tp ‘prodns a {O0T}x 
CRE a DI 
Pa 
EI AUT 00 
RT MO (001 


1106} {00T}» 
ITIQEUILIIA]OPUI 099OIVY,, 


CITI 00 


pe, ?) 


AUOI i 00.1 


E DI ea AE TOOSOE 
è 0 ° 4 
. . ° 4 
Ù . ° 4 
° ° . “ 
. 0 4 
0 . ° (I) 
. . O 4 
. . O 4 
. . . K 


@pIoA-0][e19 
‘09I0IOE,]]2 eZuEp 
-U9] U09 apioA-0]]erS 


apioA-0][eiS 


09901 


09901 
OTT} 1001} 


TTT} foot} 
{OTT} 007} 


{001} 
{OLT} 


{OTT} 
{001} 


GGP 


rei rei De GIO rl 20, ri. MM _ N I 


Lon. 


solai 


‘e[[e18 
QUOIZEUIUII99 è “XI 


‘euniq-0]]erS 
QUOIZEUIMI9) 8 *TITÀ 


*apioA-0]]e1S 
QUOIZBUIMLI9Y ® “ITA 


sc ic 


VIENNE e). ui 
VII. a terminazione 


giallo-verde. 1 

1 

1 

10 

2 

1 

VIII. aterminazione | 1 
giallo-bruna. 1 
(7 

2 

1 

IX. a terminazione | 5 
gialla. 1 

3 

2 

2 
422 


ae 


{110} 
{110} 
{100} 


{100} {110} 
{100} {111} 


{100} {110} 
rotto 


rotto 


tendenza al roseo 


giallo-verde 


giallo-verde con ten- 
denza, all’acroico. 


giallo- 


verde 


I 
li [ro Polo analogo Colore Polo antilogo Colore 
Tormaline Li { 
2 | {100} {111} roseo #100} {311} {111} {111}. | giallo-topazio. 
1 | {110} {111} È #|100} {111}. giallino. 
1 | {110} {111} A *}100} {3T1} {111} {mnp} È 
2 | {100} {110} {111} E *1100} {111}. Sa 
1 | {100} {110} {111} 5 *}100} {311} {111}. giallo-miele. 
*100} {311} {111} e su- a 
ia i | o LI frattura. 
2 | {100} roseo-paonazzo rotto giallo-verde. 
2 | {111} roseo ” ’ 
5 | {100} {111} vinato (come vino gal- ò) 5 
leggiante sull'acqua) 
1 | {100} {111} {111} roseo 5 n 
1 |#{100} {111} {111} 3 ENO Se 
1 | rotto roseo-giallastro {100} {111} {111}. elleno rta 
VI. a terminazione | 1 | {100} {110} giallo -verdolino con |#}100} {I11} {111}. giallo-verdolino. 
vaiolo tendenza all’acroico x 
1 | {100} {111} x *1100} {20î{ 5 
1 | {100} {110} {111} E *{100} {201} A 
4 | {100}. Ò rotto È S 
1 | {110}. È z A 
2 | {100} {110} o 5 SE: 5 
2 | rotto giallo - verdolino con |*{100} {111} {111}. È 


#|L00} {111} 

*{100} {111} {201} (2). 
- |*}100} {111} ; 

*{100} {111} 


. |F{100} {111} 


*{100} {111} 


*faccette indeterminabili. 


*[100} {201} 
#{100} {111} 
#{100} {111} 
rotto 
*{100} 


*[100} e superf. di frattura 
*{100} {111} 


*{100} {111} {111}. 
*{100} {311} {111}. 


giallo-bruno. 


giallo-verde con pre- 
dominio di giallo. 


giallo-bruno. 


giallo-verde con pre- 
dominio di giallo. 


giallo-bruno. 


giallo-verde con pre- 
dominio di giallo. 


verde-bottiglia. 


giallo-verde a nucleo 
verde-bottiglia. 


giallo-bruno. 
giallino. 


*{100} {311} {117} {111}. 


” 


nin renna lo i 


(41 


‘ 


IQUVIHOV A ‘d 


ONYATA OTINVIA 190 SINITVIRUOI NT 


EG 


54 G. D'ACHIARDI 


Esaminando i risultati ottenuti si vede come non possa ri- 
tenersi in modo assoluto che sia sempre analoga o sempre an- 
tiloga l’estremità rispettivamente con {110} e {111}, nè che alla 
prima il romboedro fondamentale {100} riposi sempre sulle 
faccette del prisma trigono, come per l’esame di pochi cristalli 
era stato asserito da Rose, Riess e vom Rata. Ciò è vero nel mas- 
simo numero dei casi, ma si hanno anche non poche e sicure 
eccezioni date da più di 40 cristalli rosei e policromi. E ciò 
viene ancora in sostegno di quanto già dissi nella prima parte 
del mio lavoro occupandomi del criterio distintivo fra le due 
estremità di cristallizzazione (Parte prima pag. 12). 

G. vox Rata aveva anche asserito che all'estremità antiloga 
la base appare lucida, opaca o appannata all’analoga; ma io 
se ho trovato che all’antiloga è generalmente lucida, ho pure 
trovato che all’analoga si presenta con ben diversa apparenza, 
ora opaca, ora come vetro smerigliato, ora marezzata e talora 
pur anche lucidissima. 

Lo ScHeprLER aveva pure osservato che i 37 cristalli da lui 
esaminati, tutti meno due, sono rotti all'estremità antiloga per 
la quale erano impiantati. Non discusse però le due eccezioni, 
le quali si possono facilmente intendere quando come a me 
sia dato esaminare un numero grandissimo di cristalli. Si vede 
allora che o si tratta di frammenti di cristalli completi o di 
cristalli costituiti per modo che, lungi dall'essere eccezioni, ser- 
vono anzi a confermare la regola. E la regola si è che le estre- 
mità con il nero superiore, sieno esse con facce cristalline ben 
determinabili, sieno fibrose o rotte, per raffreddamento si ri- 
cuoprono sempre di minio ossia sono sempre analoghe. È così 
senza eccezione le terminazioni turchine e bigiastre, che ne rap- 
presentano un’attenuazione di tinta, le verdi-porro ben distinte 
dalle giallo-verdi, le acroiche, le rosee e le giallo-verdi di vario 
tuono di tutti i cristalli rotti all’ estremità di impianto. Solo 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 55 


nei cristalli policromi possono presentare anche segno contrario 
quando l’altra estremità sia d'un colore che nell’ordine di suc- 
cessione suole stare al disopra. 

L'eccezione presentata da 4 cristalli rosei rotti invece al- 
l'estremità analoga sparisce considerandoli come frammenti di 
cristalli completi, e il colore un po’ giallognolo o più intensa- 
mente roseo all'estremità terminata ci fa capire che si tratta 
di terminazione geneticamente inferiore, poichè negli altri cri- 
stalli tutti la tinta va invece sbiadendo verso l’estremità ter- 
minata, quando questa sia geneticamente superiore. Lo stesso 
può ripetersi per i cristalli giallo-verdolini con tendenza. al ro- 
seo all’estremità analoga. 

L'ultimo cristallo dei policromi a terminazione rosea par- 
rebbe fare anche esso eccezione, ma il colore dell’estremità ter- 
minata lo ravvicina grandemente ai gialli, ai quali sarebbe forse 
stato meglio che io l’avessi ascritto. Le terminazioni gialle, giallo- 
brune e nere inferiori sono invece costantemente antiloghe, 
tanto se si abbia a che fare con cristalli rotti, quanto se con cri- 
stalli completi, 1 quali sono assai frequenti per abituale impianto 
per un lato. Difatti circa 200 cristalli a terminazione di nero 
inferiore *{100}, {111} completi o rotti da me esaminati sono 
tutti impiantati sulla roccia per le facce prismatiche, e uno solo 
che si vede sporgere da essa per l'estremità con *{100}, {111} non 
si può escludere che anche esso non sia impiantato per le facce 
prismatiche ora nascoste da parti della roccia formatesi poste- 
riormente. E lo stesso modo di impianto ho riscontrato nei 
cristalli di Facciatoja, che terminano da una parte con il giallo 
*{100}, {111}. 

Se noi supponiamo che un cristallo policromo possegga tutte 
le tinte che si riscontrano nelle diverse tormaline elbane già 
dissi succedersi esse, partendo dal basso, nell'ordine seguente: 
giallo, giallo-bruno e nero inferiore, giallo-verde, giallo-verdo- 


56 G. D'ACHIARDI 

lino, roseo, acroico, verde-azzurrognolo, azzurro, nero-superiore. 
Talora si potranno avere alternanze; molte di queste tinte pos- 
sono anche mancare, ma l'ordine normale di successione resta. 
Or bene ogni terminazione si elettrizza in modo che il segno 
dell’elettricità corrisponde sempre all'ordine stesso. Così se con- 
sideriamo il segno della tensione elettrica per raffreddamento 
si avrà sempre che sarà negativo per la parte che in quell’or- 
dine sta al di sopra, positivo per quella che sta al di sotto, 
onde la prima si ricuopre di minio, la seconda di zolfo. Per 
ciò tutte le estremità dei cristalli terminati col nero-inferiore 
o col giallo-bruno e giallo, che stanno al basso di quella serie, 
sono tutte senza eccezione antiloghe, come senza eccezione ana- 
loghe quelle terminate col nero superiore, ultimo termine della 
serie in alto. 

La successione dei colori corrisponde in generale ad una 
successione genetica, e quando non sia, come pare per quei 
pochi cristalli, forse originatisi in condizioni del tutto speciali, 
e che appaiono impiantati per una parte che nell’ ordine dei 
colori verrebbe al di sopra (mentre in generale in questo caso 
l'impianto si fa per le facce prismatiche), la legge sovra esposta 
non soffre eccezione per ciò. E poichè nella struttura moleco- 
lare, come ritengono anche il Rice e lo ScHEDTLER, sembra che 
debba cercarsi la cagione della piroelettricità, parrebbe che in 
questi casi non si avesse altro che un'inversione nella posizione 
della molecola rispetto all'asse d'impianto del cristallo. 

Le prove da me fatte confermano molte delle deduzioni 
dello ScreprLER rispetto all'influenza delle fenditure, associazioni 
omeomorfe delle diverse varietà della sostanza tormalinica, stato 
di purezza dei cristalli ec. L'eccitabilità elettrica cambia con 
le varietà della tormalina; così avrei trovato esser rilevantis- 
sima per il nero superiore la negativa (per raffreddamento), per 
il giallo la positiva; e se lo ScHeprLER e altri per tormaline 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 5° 


nere avevano trovato invece minima la tensione, è a ritenersi 
la sostanza nera cui si riferiscono diversa dall’azzurro-nera su- 
periore, come, ad esempio per le stesse tormaline dell'Elba, è 
diversa quella del nero inferiore. In varii cristalli policromi a 
zone giallo-verdi e nere con nero superiore e inferiore, si vede 
all'estremità analoga il nero superiore totalmente coperto di 
minio, che ne segue nettamente le linee di separazione (fig. 15), 
mentre all'altra estremità lo zolfo va gradatamente diminuendo 
verso il mezzo del cristallo in perfetta armonia con la sepa- 
razione netta nel primo caso dello strato nero superiore dal 
sottostante e graduale sfumatura di tinte per struttura zonale 
nel secondo. 

Questa graduale diminuzione dell’eccitabilità elettrica dal- 
l'estremità dei cristalli, ove è massima, si dà per tutte le altre 
varietà, nelle quali si ha pure graduale sfumatura di tinte. È 
però diversa nei varii casi l’ estensione delle zone positiva e 
negativa e diversa pure l’estensione della zona neutra, la quale 
si trova spostata ora più verso l’uno, ora più verso l’altro polo. 

Diversa tensione elettrica mostrano anche gli strati concen- 
trici di vario colore in una stessa sezione di tormalina a strut- 
tura zonale. Fatte varie sezioni di siffatti cristalli e sottoposte 
all’impolveramento, si vedono zone più o meno circolari den- 
samente ricoperte di zolfo o di minio (fig. 16), secondo il polo 
della faccia impolverata, attorno ad aree o altre zone appena 
asperse di polvere o anche del tutto mancanti. In altri casi è 
l’area centrale più densamente coperta (fig. 17), e le differenze 
appaiono in relazione con la natura dei diversi strati, che li- 
mitano anche le zone più o meno elettrizzate. Infatti mentre 
quest’ultimo caso suole verificarsi nelle tormaline rosee perife- 
ricamente più tendenti all’acroico, si ha invece il primo nelle 
giallo-verdi a nucleo scuro, che è meno eccitabile del contorno 
giallo-verdognolo. Per ciò conviene concludere che se il diverso 


58 G. D'ACHIARDI 

grado di raffreddamento degli strati più o meno lontani dal 
centro delle sezioni possa influire su queste differenze d’ ecci- 
tabilità, non può mai esserne la sola cagione. Alla differenza 
della sostanza tormalinica, sia pure perchè diversamente con- 
ducente la temperatura e l'elettricità col variare di essa, sono 
certo da attribuirsi, almeno in gran parte, queste differenze con- 
centriche di tensione. 

L'estensione delle varie zone oltrechè con la diversa pro- 
porzione delle diverse sostanze tormaliniche omeomorficamente 
associate sembra essere in correlazione con le impurità, fendi- 
ture e altre particolarità, che ne alterano la normale omoge- 
neità. Così succede che spesso la zona di un dato segno si vede 
talora nettamente arrestata da una qualche fessura, o che al- 
l'estremità rotta il minio e lo zolfo si dispongono più facilmente 
seguendo delle linee irregolari incavate nelle facce prismatiche 
e prodotte da cristalli, in generale di quarzo, che alla torma- 
lina erano prima associati. In quei pochi cristalli, che oltre una 
zona nera superiore ne presentano pure alternate con la tinta 
giallo-verde, si ha che il minio si depone con più abbondanza 
seguendo la direzione di queste zone che sulla parte giallo-verde 
adiacente (fig. 18). E lo stesso in quei cristallini a terminazione 
turchina, nei quali la colorazione si alterna con l’acroico in tanti 
piani paralleli l'uno con l’altro e alla base risultandone per 
chi guardi attraverso tante linee fra loro vicinissime. 

In taluni cristalli rosei terminati da {100} e {110} le facce 
ricoperte di minio mostrano talvolta delle piccole striscie di 
zolfo seguenti linee di struttura polisintetica (fig. 19), alla quale 
accenna anche la distribuzione del minio o dello zolfo in aree 
distinte sulla stessa estremità cristallina (fig. 20), le quali cor- 
rispondono a individui diversi mimeticamente associati. 

A meglio studiare il contegno piroelettrico in relazione alla 
struttura mimetica, che già dissi rilevarsi anche dalle figure 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 59 


d'interferenza, sottoposi alle prove di impolveramento molte 
delle sezioni trasversali, che già mi avevano servito per la de- 
terminazione del contegno ottico e termico, scelte fra le diverse 
varietà di tormalina. 

In alcune non si osserva niente di particolare, quantunque 
in tutte la distribuzione del minio e dello zolfo non si faccia 
uniformemente; ma in molte si vede il minio o lo zolfo raggrup- 
parsi in aree distinte separate da solchi più o meno larghi 
senza polvere con un' esile striscia nel mezzo di zolfo o minio 
secondochè si tratti della faccia elettrizzata negativamente o 
positivamente per raffreddamento; ossia sulla faccia ricoperta 
di minio le linee di separazione delle aree diverse sono di zolfo 
e inversamente (fig. 21,22,23,24). Se le sezioni sono sottili le 
figure che si formano per la varia distribuzione del minio e 
dello zolfo restano le stesse sulle due facce e non sono inver- 
tite che per il colore. Studiando la distribuzione delle aree si 
vede che corrispondono a settori mimetici, quali già erano stati 
rilevati dallo studio ottico. 

Le linee di separazione forniteci dalla sostanza di segno 
elettrico opposto a quello dell’estremità che si esamina, quando 
non si voglia ritenere che sieno dovute a invertita tensione 
per invertita posizione di parti emimorfe compenetrantisi, con- 
viene ritenere con lo ScreprLER che ci rappresentino invece li- 
nee di debole eccitamento, sulle quali si sieno meccanicamente 
deposti i grani delle polveri dello stesso segno respinti dalle aree 
di maggior tensione e di segno opposto. Forse per il caso nostro 
ci rappresentano vere linee neutre sul confine fra due subindivi- 
dui, sulle quali le polveri respinte dalle aree di maggiore ecci- 
tabilità di ciascuno di essi si sono raccolte, così come sulle linee 
nodali si raccolgono le polveri asperse sulle lastre vibranti. 

In ogni modo è notevole l’importanza che ha il contegno 
piroelettrico studiato nelle sezioni trasversali per la determi- 
nazione della mimesia. 


60 G. D'ACHIARDI 


CARATTERI CHIMICI 


Saggi al cannello ferruminatorio. 


La tormalina nera superiore si fonde contorcendosi e sfo- 
gliandosi in vario senso e dà una scoria opaca quasi nera bol- 
losa e che per taluni cristalli è assai fortemente polare-ma- 
gnetica. Col borace dà una perla verde-rossastra a caldo; verde 
a freddo. 

La tormalina nera inferiore produce una scoria grigiastra 
con bolle bianche sui margini dovute ad un leggerissimo, invi- 
sibile a prima vista, strato giallo-verdolino periferico, il quale 
ci si mostra anche in tutte le sezioni sottili del nero inferiore 
osservate al microscopio. Col borace dà una perla giallognola 
a caldo e giallo-verdastra a freddo. 

Per i cristalli policromi a terminazione nera con lo strato 
nero preceduto da colore verde-azzurro, e che mostrano interna- 
mente un'anima verdina o scolovita, si ha che l’anima diventa 
bianca opaca, l'involucro dà luogo ad una scoria grigiastra e 
l'estremità terminata ad una scoria bollosa di color rosso-fe- 
gato quasi nero. 

La tormalina acroica non si fonde, ma si sfoglia in generale 
perpendicolarmente all'asse e diventa opaca di un color bianco- 
latte. Col borace perla scolorita o leggerissimamente giallina 
a caldo e scolorita o leggermente rosea a freddo. 

La tormalina cilestro-bigiastra, come spolverata di cenere 
sulle facce terminali (Parte prima pag. 34), si comporta all’espre- 
mità come le acroiche, solo la patina cilestro-cinerea dà luogo 
a scoria cenerognola bollosa. 

La tormalina rosea se di colore pallido si comporta come 
l’acroica, mostra invece un nucleo bianco-sporco-rossiccio cir- 


‘LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 61 


condato da strato bianco se il colore era più intenso special- 
mente se con tendenza al rosso-giallastro. Col borace perla sco- 
lorita o leggermente rosea a caldo; scolorita o giallina a freddo. 

La tormalina giallo-verdolina non si fonde e diventa bianca 
di un bianco opaco leggermente sporco, simile quindi anche per 
questo carattere alle acroiche. Col borace perla scolorita o leg- 
germente rosea tanto a caldo che a freddo. 

La tormalina giallo-verde si fonde con difficoltà sugli spi- 
goli, diviene bianco-rossiccia con abituale struttura zonale, con 
parti bianche esterne, rossicce internamente e di un colore 
tanto più cupo quanto più intenso era il colore giallo-verde. 
Col borace perla leggermente giallo-rossastra a caldo; giallastra 
a freddo. 


Composizione chimica. 


Hermann (!) fu il primo che analizzò una tormalina dell'Elba 
acroica; indi RammersBeRe (2) diverse e di vario colore e ne di- 
scusse anche e più volte le formule. Vow Rarr (3) e A. D'Acararpi(4), 
che successivamente si occuparono delle tormaline elbane, e 
tutti gli altri che in trattati generali o in lavori speciali eb- 
bero occasione di ricordarle non fecero che riportare i resul- 
tati di quelle prime analisi, oltre le quali io non so che ne 
sieno state pubblicate altre. 

Riesce un po’ difficile accertarsi a quale varietà di torma- 
line spettino alcune analisi del RammersBERe, perchè più volte 
corrette nelle tante e tante successive pubblicazioni non sempre 
sono concordi del tutto le indicazioni. 


(4) Ueber die Zusammensetzung der Turmaline, Journ. fiir prakt. Chemie, Bd. 
XXXV, S. 232. Leipzig 1845. - Sunto in Ann, des Min 4.9 Ser., T. VIII, p 707, Paris 1845. 

(2) Vedi Parte prima, pag. 8, Nota 2. (3) Op. cit., pag. 667. 

(4) Min. della Toscana. Vol. II, pag. 206 


62 G. D'ACHIARDI 


Dalla nota pubblicata in due numeri dei Pogg. Ann. (4), nella 
quale si riassumono anche le anteriori pubblicazioni, le analisi 
sotto riportate sembrerebbero riferirsi ai seguenti tipi di tor- 
malina; solo quella riportata per prima è dell’ Hermanw: 

I. Tormalina acroica. 
HIS n acroica e rosea. P. sp. = 3,022. 

II. a verde. Cristalli trasparenti. P. sp. = 3,112. 
AVA È scura. Cristalli in parte verdi e in parte 
bruni per trasparenza. 

Ne È nera. Cristalli che davano schegge brune e 

verdi per trasparenza. Polvere grigia. 
P.sp.= 2,942. 
VI. È nera. Cristalli per trasparenza rosso-bruni. 


Polvere grigia. P. sp. = 3,059. 


L'incertezza per me maggiore è sul n.° IV, di cui non si 
tiene più parola negli ultimi lavori, e sul n.° V che per la com- 
posizione si avvicina grandemente al n.° VI, e questa incertezza 
trova poi suo appoggio in ciò che lo stesso RamwmersBERe nella 
sua nota del 1870 (pag. 665) qualifica i cristalli di tormalina 
scura (n.° 25 a), per trasparenza in parte verdi in parte bruni, 
come analoghi del tutto a quelli ricordati al N.° 22 della sua 
prima memoria (Pogg. Ann. Bd. LXXXI, N.°9, S. 5, Leipzig 1850) 
e che dice essere violetto-rossastri per trasparenza e quindi 
invece per me spettanti al nero superiore. Resto quindi incerto 
se al nero superiore o all’inferiore debba riferirsi l’analisi V. 

Nelle analisi qui sotto riportate Rammersere determinò la 
perdita per arroventamento, la quale comprende insieme H,0 
ed Fl in stato di SiF],, quindi determinò a sè il FI, e fatta 
la differenza fra il corrispondente peso di SiFl, e la perdita 
totale dedusse il tenore di H,0. Ora siccome il fluorio non si 


(!) Bd. CKXXIX, N. 3-4, S. 379 u 547, Leipzig 1870. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 63 


perde tutto per arroventamento così il tenore effettivo in acqua 
è realmente un poco maggiore stando fra quello così calcolato 
e la perdita totale per arroventamento, che, calcolando a parte 
il Fl, riporta per intera negli ultimi suoi lavori e che è per le 


varie analisi: 


IN 3:37A0 = 39 SVEVI 250 

I II INI IV V VI 
FI. = 0005 0008047 0,15 
H,0 — 2,41 2602/00 1,90 2,29 
K,0 = leg 00:98 AM 0198 0,75 0,25 
Na;0 3202100 2,40 INT 2,30 2,19 
Li,0 2,190 1,22 008 0,32 _ 
Ca0 = — = 0,30 = 0,74 


Mg0 0,450 020 041 430 1,68 6,77 
nodo 207 o on 0:58 
Fe0 = SI 38 0 43102 n 993 
Ao ess d'o5 Mio ©3319 I3415° (30,02 
B,0; 5.340. 9,52% (9,99. 10,58 937 9,03 
Sio, = 42,885 38,85 87,74 38,24 37,14 38,20 
CO, ligne = SE =B cai 


100,000 101,17 100,50 100,98 100,47 100,15 


RawmeLsBER6 dedusse dalle sue analisi che le tormaline erano 
come egli le chiama Drittelsilicate e anche nell'ultimo suo la- 
voro sulle tormaline (') e nella seconda appendice al suo Ma- 
nuale di Chimica Mineralogica (2) conclude col dire che sono 
tutte associazioni isomorfe di tre sorta di molecole: 


Rs Siò; R3 S10; R SI0; 
(1) Ueber die Chemische Natur der Turmaline. Sitz. k. preuss. Ak. d. Wiss. 29- 


30, S. 679, Berlin 1890. 
(®) Handbuch d. Mineralchemie. S. 283, Leipzig 1895. 


64 G. D'ACHIARDI 


comprendendo fra i metalli monovalenti l'idrogeno; fra gli esa- 
valenti il boro come B, corrispondente ad Al,. 

E valutando tutti i metalli come monovalenti fa notare 
che la proporzione di R a Si di poco si discosta in tutte da 
6 a 1. Per quelle dell'Elba dà: 


RNONRS SI 

Tormalina nera; i (de 
Ù DErO-SrIDIAStra (0 ORO OO 1 

A Verde a IO 1 

È ACrolca, e Mosca Lo i ROL 1 


Combatte l’interpetrazione data dal Rices (*) e da JinnascE e 

Cate (2), i quali considerano le tormaline come boroortosilicati 

separando il boro dall’alluminio e scrivendone la formula: 
R,B0,2Si0, 


che in gruppo di costituzione risolvono nell'altra 


[O B] —Rs<0\ 


A. D'Acriarpi riportando le analisi del RammeLsBERe non fa 
che estendere ai singoli casi la formula del RammeLSsBER6 stesso, 
che egli semplifica convenzionalmente nella seguente: 


(Re, Re, B) SiO; 
notando come nelle tormaline nere sieno prevalenti Fe e Mg, 


(4) The Analysis and Composition of Tourmaline. Americ. Journ. Sc. Vol. XXXV, 
n. 205, pag. 35, 1888. 


(2) Ueber die Zusammensetzung des Turmalins. Ber. d. d. chem. Ges. 22, S. 216, 
1889. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 65 


abbondanti pure nelle verdi-brune, che sono però più ricche di 
Mn e come questo predomini nelle giallo-verdi, mentre nelle 
acroiche e rosee sono in maggior copia Na e Li. 

Questi stessi legami con il colore notò più particolarmente 
lo Scrarizer (Op. cit.), il quale nel suo lavoro sopra ricordato 
(pag. 20) dice anche che le tormaline per la loro stochiometrica 
costituzione corrispondono assai bene al tipo di Drittelsilicate 
ammesso dal RawmeLsBERe; e per le tormaline di ScHùrTENHOFEN 
con e senza alcali, non considerando le verdi per le quali si 
ha ancora molta incertezza sulla loro costituzione, dà la for- 
mula generale: 


RR |, [RR |, Al (1091: | (Bo, Ho, FIL) Ì 


A.Kengort(!), discutendo sulla composizione delle tormaline, e 
anche per talune dell'Elba, conclude con l’ammettere in tutte la 
presenza di due silicati 3R,0.Si0, + 5(R,0,.Si0,) e 2(3RO.Si0,) 
+ R,0,.Si0, isomorficamente associati in proporzioni differenti 
e quindi si rientra sempre nel modo di vedere del RamweLsBER6. 

Reineca (?), che prende pure in considerazione le tormaline 
dell'Elba, ammette anch'esso più molecole fondamentali ma non 
tutte dello stesso tipo. 

— Crarke (3), come il Remeca, nota l’anologia fra la composi- 
zione delle tormaline e quella di alcune miche che ne derivano 
per alterazione, ma a differenza di esso e di Kengort ammette 
invece un unico nucleo 

| Al; (5104); (BO) (BO); 

onde per saturazione con altri elementi delle affinità non sod- 
disfatte deriverebbero 4 tipi di tormaline. 

(4) Ueber die Formel der Turmatline. N. Jahrb. f. Min. Geol. Pal., 2 Bd., 1 Hft., 
S. 44, Stuttgart 1892. 

(2) Die chemischen Grundformeln des Turmalins. Zeit. Groth, Bd. 22, S. 52, 
Leipzig 1894. 


(3) The Constitution of the silicates. Bull. of the U. St. Geol., Surv. N.° 125, 
Washington 1895. 


66 G. D'ACHIARDI 

Viene quindi in modo differente interpetrata la composizione 
delle tormaline in genere e quindi anche di quelle dell’ Elba. 
Certo il modo di RammersBERre è il più semplice, ma non volendo 
ammettere il gruppo molecolare R,Si O;, che non si saprebbe 
come rappresentare in formula di costituzione, e tenendo conto 
di tutte le ragioni addotte da Rises, JannAscH e altri per rite- 
nere le tormaline quali boroortosilicati o forse meglio ossior- 
tosilicati, credo se ne possa rappresentare la composizione per 
associazione di più molecole dei tre tipi: A. B. C. 


Si O_R "200 
A ue ol B Sinnai DIG: ad 
ar RON OP: R—OR 


in cui R=A1,B,Mn,Fe R=Fe,Mn,Mg,Ca R=H,Li,Na,K 6 
anche a Fl ritenuto come sostituente il gruppo molecolare [HO] 
o altro della stessa valenza. 

La differenza chimica da varietà a varietà e da cristallo a 
cristallo non solo, ma anche fra una parte e l’altra di un me- 
desimo cristallo, sia che si considerino gli strati longitudinali 
che i trasversali, differenza la quale oltrechè dalle analisi è 
confermata anche dai saggi al cannello ferruminatorio, ci auto- 
rizza ad ammettere l’ipotesi che non esista un composto unico, 
ma sì bene un composto multiplo per associazione di molecole 
omeomorfe spettanti ai tipi sovra riportati in proporzione va- 
riabile da varietà a varietà. 

Così per le tormaline elbane, mentre le acroiche e le rosee 
risulterebbero costituite quasi esclusivamente da molecole dei 
tipi A e B con grande prevalenza delle prime, le giallo-verdi, 
le bruno-grigiastre, le giallo-brune, o nere inferiori dall’associa- 
zione dei tre tipi A, B, C con proporzioni successivamente ca- 
lanti nell'ordine in cui queste varietà sono indicate per A e B, 
crescenti per C fino a raggiungere rispettivamente un minimo 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 67 


e un massimo nelle azzurro-nere o nere superiori costituite 
soltanto da molecole dei tipi A e C. 

Oltre a queste differenze graduali fra le proporzioni dei 
varii tipi molecolari, altre e non minori se ne [hanno fra le 
proporzioni dei varii elementi e a questi più particolarmente 
conviene fare attenzione per giudicare della genesi dei cristalli 
policromi. Così mentre nel nero superiore si ha che R è quasi 
esclusivamente rappresentato da Fe e Mg, nell’inferiore lo è 
anche da Mn ed abbondantemente così come nelle tormaline 
giallo-verdi-brune che vi fanno passaggio. 

La diversa solubilità in uno stesso magma o mezzo solvente 
di queste molecole fra loro omeomorfe, e quindi suscettibili 
di cristallizzare insieme, e diverse per la qualità degli elementi 
ci spiega la mutabilità delle proporzioni loro col crescere del 
cristallo e la costituzione a cartoccio per il sovrapporsi di strati 
tormalinici successivamente differenti. 

Finchè si sono andate deponendo le molecole spettanti alla 
sostanza verde, rosea o altra su cui prevale la tendenza ai piani 
basali, tendenza che si manifesta anche per la sfaldatura, spe- 
cialmente se agevolata dalla cottura, il cristallo sì è accresciuto 
con prevalenza in altezza, ma anche in larghezza, onde la sua 
struttura zonale o a cartoccio (fig. 4). Quando invece alla sua 
sommità libera si è manifestata la tendenza a costituirsi delle 
facce romboedriche {100} abituali nel nero superiore, le cui parti 
per riscaldamento si separano dalle sottostanti per piani rom- 
boedrici, mutate forse le direzioni di attrazione cristallogenica 
e cessato l’accrescimento laterale il cristallo ha continuato a 
crescere solo in altezza per piani romboedrici. Quindi per il nero 
superiore si ha sempre separazione netta dalle parti sottostanti, 
mancanza di struttura zonale e contegno al cannello ferrumi- 
natorio sempre eguale in ogni sua parte. 


Tutto conferma per tanto doversi considerare le tormaline 
Sc. Nat. Vol. XV. 5 


68 G. D'ACHIARDÎ 


come un'associazione molecolare anzichè come un semplice 
composto. 


Alterazioni e Perigenesi. 


G. Biscnor (!) fu il primo o certo uno dei primi che abbia 
parlato della alterazione delle tormaline elbane e ricorda un 
cristallo di tormalina rosea di San Piero, le cui facce sono co- 
perte di laminette bianche di mica con lumeggiamenti qua e 
là verdognoli, le quali laminette si osservano anche sulle facce 
di sfaldatura rompendo i cristalli, e nell’un caso e nell'altro 
le ritiene effetto della tormalina stessa. Le tormaline rosee per 
poco che si mostrino torbide o fratturate sono sempre accom- 
pagnate da mica penetrante anche nella massa. 

Indi F. Senrr (?) discorrendo della alterazione della torma- 
lina, nota esso pure la derivazione delle miche, e, come:già 
aveva detto anche il Biscnor, fa rilevare la maggiore frequenza 
di queste sulle tormaline acroiche e rosee che sulle altre varietà. 
Sener ritiene facilitata quest'alterazione da acque sotterranee 
contenenti carbonati o silicati alcalini derivanti dall’alterazione 
dei feldispati granitici. 

Anche G. vox Rat# (3) cita cristalli canniformi, cavi nell’in- 
terno, che furono pure ricordati da A. D'Acrarpi (4), il quale 
ravvicinò alla cookeite la sostanza in piccole scagliette bianche 
e lucenti, che si trova a formare il tubo di questi cristalli o 
il rivestimento esterno quando i cristalli non si sieno come 
nel primo caso disfatti totalmente per alterazione. 

Io pure in moltissimi cristalli ho riscontrato questi prodotti 
d’alterazione e ho constatato la loro abituale associazione alle 


(4) V. Parte prima, pag. 9, nota (8). 
(2?) Die Kryst. Felsgemengtheile. S. 501, Berlin 1868. 
(3) Op. cit., pag. 667. (4) Op. cit., Vol. II, pag. 237. 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 69 


tormaline litinifere, acroiche e rosee, essendone prive le nere 
e le verdi, le quali sogliono invece presentare come prodotto 
di alterazione una pellicola giallo-rossastra limonitica. La lepi- 
dolite accompagna costantemente le tormaline acroiche e rosee, 
ma non oserei affermare che essa ne sia sempre un prodotto 
d'alterazione come altri dissero. Se là dove si trovano spesso 
le lamelle lepidolitiche sopra le facce e anche nell'interno dei 
loro cristalli alterati possano ritenersi derivate dalle tormaline, 
ove invece rinvengonsi sulla roccia più o meno lontane da esse 
sono più propenso a ritenerle effetto, se non simultaneo, certo 
della stessa fase di cristallizzazione, per la quale si produce- 
vano anche le tormaline, tanto più che spesso insieme alla le- 
pidolite queste si presentano del tutto inalterate. 

Nelle porzioni decomposte di granito, in geodi ricche di 
zeoliti, ove appaiono le cristallizzazioni senza dubbio posteriori di 
polluce, heulandite, idrocastorite, cabasite, pseudonatrolite, ori- 
zite, cookeite e insieme sostanze caoliniche e altre mal defi- 
nite, è facile constatare che al loro formarsi hanno certo preso 
parte anche le tormaline, qui sempre più o meno alterate, tal- 
volta anche interamente disfatte con permanenza solo o del 
vano lasciato da esse o del rivestimento canniforme, che può 
essere anche di sostanza diversa. 

Talora l’incrostazione è completa, e tormaline i cui elementi, 
compresa la litina, sì ritrovano a far parte di questi stessi pro- 
dotti di alterazione danno luogo a belli esempi di perigenesi. 


GIACIMENTO — ASSOCIAZIONI — PARAGENESI 


Entro al granito di Monte Capanne, fra S. Ilario e S. Piero 
si hanno i principali giacimenti delle tormaline elbane, le quali 
si trovano in druse o geodi allungate, che dai primi osservatori 
furono qualificate come filoni, 


70 G. D'ACHIARDI 


Così li denominarono anche Savi = Mense (!) aggiungendo 
l'epiteto di tormaliniferi a caratterizzare questi creduti filoni, 
differenti principalmente dalla massa del granito normale cir- 
costante per la mancanza di mica nera e carattere sempre più 
o meno spiccato di pegmatite e presenza oltrechè di tormaline 
anche di berilli, granati ecc. 

Parero (2) li aveva ritenuti vacui nel granito massiccio e 
dopo lui Coccni(*) li qualificò pure per druse allungate dirette 
da NO a SE, ricordandone le principali come quelle di Grotta 
d’Oggi, della Speranza, di S. Ilario, e notò le differenze che si 
hanno anche fra le varie druse o geodi di una stessa località, 
e così ad esempio per quelle di Grotta d’Oggi ci dice che le 
tormaline nere, policrome, rosee e verdi sono proprie di druse 
che si succedono nello stesso ordine dal basso all'alto. 

G. vov Rare (4) notò anche differenze nella stessa drusa, o 
filone come egli dice, nelle salbande del quale starebbero le 
tormaline nere, mentre nel mezzo le rosee, acroiche e policrome. 

Che si tratti di geodi o druse allungate sembra essere con- 
fermato da recenti osservazioni e gli scavi su larga scala in- 
trapresi nelle località più ricche di belle tormaline, come a 
Grotta d'Oggi, hanno dimostrato l’irregolare andamento e va- 
riabilità di dimensioni di siffatte druse, che si limitano e ri- 
petono anche a breve distanza. 

La differenza fra i due modi di vedere starebbe in ciò, che 
per coloro che le giudicano filoni rappresenterebbero masse di 
granito pegmatitico intruse per effusione entro al granito nor- 
male già formatosi, per gli altri invece un'ultima fase nel con- 
solidamento del magma granitico, se non forse una posteriore 
secrezione effettuatasi nelle cavità del granito stesso. 

Nella visita fatta a S. Piero e a S. Ilario nell’autunno del 1894 


(4) Considerazioni sulla geologia stratigraf. della Toscana. Pag. 498, Firenze 1851. 
(2) Sulla costit. geol. delle isole di Pianosa ecc. Ann. Un. di Pisa, T.I, 1844-45. 
(3) Op. cit., (Parte I.2, pag. 10, (4)). (4) Op. cit., (Parte 1.2, pag. 9, (6)). 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 71 


nell’impossibilità di fare scavi ove il lavoro precedente aveva 
già in gran parte alterata la faccia del luogo, non potei formarmi 
un'esatta nozione sull’ essenza di questi giacimenti tormaliniferi; 
onde più che dalle mie poche osservazioni sul ]Juogo, dai fatti 
quali trovo descritti e da un attento esame dei grossi esemplari 
delle collezioni sono indotto ad attenermi al modo di vedere del 
Cocca, del Lormi (*) e degli altri, i quali dicono il granito tor- 
malinifero essere o un caso speciale di secrezione o un'ultima 
fase del consolidamento del magma granitico. 

In ogni drusa si trovano certo più varietà di tormaline e 
io ho veduto insieme nello stesso pezzo tormaline acroiche ro- 
see e policrome, sopra altro giallo-verdi e nere e in altro esclu- 
sivamente nere; ma è pur vero che certe varietà dominano in 
alcune druse, altre in altre. Così le nere nelle druse di Catala- 
nella a Grotta d’Oggi, di Forcioni e dei Catri presso Sant'Ilario; 
e in quelle dei dintorni di Sant'Ilario anche le azzurro-verdi 
a nucleo biancastro trovate insieme ai cristalli cerulei e azzurri 
di berillo (rosterite azzurra); le rosee, acroiche, e policrome spe- 
cialmente a Grotta della Speranza e a Grotta d’Oggi, ove la 
‘ multiforme drusa filoniana di Catalanella, secondo notizie cor- 
tesemente fornitemi dal prof. Roster, avrebbe dato “ tormaline 
di ogni genere, di ogni colore e di ogni dimensione ,,. 

E con le diverse varietà sogliono anche essere diverse le 
associazioni. Così se si citano come minerali del granito tor- 
malinifero elbano, oltre le tormaline, il quarzo, l’ortose, l’al- 
bite, la biotite, la lepidolite, il granato, l’apatite, il berillo, la 
magnetite, lo zircone, la petalite, la fluorina, la cassiterite, il 
polluce, l’idrocastorite, la stilbite, l’heulandite, l’orizite, la ca- 
basite ecc.. non tutte sono sempre presenti, nè tutte hanno 
eguale diffusione, nè sempre mantengono gli stessi caratteri. 
Così le tre prime specie, quarzo, ortose e albite, abbondano 


(4) Descr. geol. d. Elba. Roma 1886. 


72 G. D'ACHIARDI 


sempre; ma il quarzo ora è del tutto scolorito, ora invece af- 
fumicato e nero, come è caso frequente con tormaline nere e 
anche acroiche; così il feldispato ora è bianchissimo porcella- 
noide, ora giallognolo e perfino nerastro e tutto tempestato 
di piccoli cristalletti di quarzo e anche di tormalina che in- 
volge. La biotite manca o si trova solamente dove la torma- 
lina scarseggia. 

La lepidolite, scarsa e in grosse lamine bianco-argentine 
quando si hanno tormaline verdi e verdi-nere-zonate, è invece 
come a Grotta d’Oggi abbondantissima in cumuli di piccole 
lamelle rosee e anche argenteo-violacee, ove si hanno torma- 
line rosee o policrome con predominio di roseo. Ove manchi 
il roseo, la lepidolite manca o scarseggia. Così p. es. con i eri- 
stalli policromi a terminazione acroica, se lo strato acroico è 
preceduto dallo strato roseo la lepidolite abbonda, se da uno 
strato giallo-verde scarseggia. 

E con queste tormaline rosee e acroiche si hanno berilli 
acroici e rosei, e sono invece cerulei o celesti ove si hanno 
tormaline cilestre o azzurro-nere. Granato, apatite, topazio, 
cassiterite, magnetite, zircone sono sempre rari. E ora questi 
minerali originarii soltanto, ora invece si hanno insieme ad essi 
come nelle druse della Speranza, come anche a Grotta d’Oggi, 
in quelle geodi cioè ove avvennero alterazioni successive, mine- 
rali idrati, quali il polluce, l’idrocastorite, la cabasite, la pseudo- 
natrolite, la stilbite, l’heulandite, spesso anche prodotti caoli- 
nici e altri di incerta e variabile composizione, che oltre a farci 
testimonianza dell’alterazione avvenuta, ci attestano anche che 
essa avvenne per via idrica. 

Per questi minerali zeolitici e altri idrati si ha una genesi 
dunque non solo diversa, ma posteriore ai precedenti sui quali 
riposano, e che talvolta anche incrostano completamente (vedi 
perigenesi pag. 69). È la genesi per via idrica comune alle 
zeoliti tutte delle rocce cristalline, 


LE TORMALINE DEL GRANITO ELBANO 13 


Anche la lepidolite in piccole lamelle roseo-argentine, ade- 
renti alle facce delle tormaline rosee, talvolta anche nelle su- 
perfici delle sue fenditure, può credersi col Biscror che possa 
esser derivata dall’alterazione delle tormaline stesse, ma non 
sempre, e già dissi (pag. 69) le ragioni per le quali ritengo 
che, specialmente dove non si abbiano segni di alterazioni, 
debba ritenersi minerale originario al pari della tormalina, or- 
tose, quarzo e altri sopra ricordati. Certo questi minerali ori- 
ginarii non si produssero tutti in un tempo, ma tutti però per 
fasi successive di uno stesso periodo di cristallizzazione. 

Lo studio della paragenesi ci mostra come la successione 
non debba essere stata la stessa dei corrispondenti elementi del 
granito normale incassante. Basti citare il quarzo ultimo a cri- 
stallizzare allotriomorficamente in questo, e qui invece nel gra- 
nito tormalinifero idiomorfo (almeno in gran parte) inviluppato 
dal feldispato e non di rado anche dalla tormalina, che però 
ne è più di sovente inviluppata essa stessa. L'origine quindi 
parrebbe diversa che da un magma granitico, in cui i mate- 
riali disciolti si siano deposti coll’ordine della loro solubilità 
nel magma stesso, e cioè dai più basici ai più acidi. 

E limitando qui lo studio alle sole tormaline, dai rapporti 
loro di posizione rispetto agli altri minerali e più specialmente 
al quarzo parrebbe che vi fossero state più fasi successive o 
meglio forse un lungo periodo di deposizione, durante il quale 
altri minerali cristallizzarono simultaneamente. La diversa costi- 
tuzione della sostanza tormalinica non fu verosimilmente estra- 
nea a queste differenze di reciproci rapporti di posizione, poichè 
è presumibile che a quelle differenze di costituzione corrispon- 
dano anche differenze nei tempi di cristallizzazione. 


Laboratorio di Mineralogia dell Università di Pisa — 26 Gennaio 1896. 


AGGIUNTE E CORREZIONI 


Alle numerose memorie citate nella parte bibliografica di questo la- 
voro (Parte I.*, pag. 4-11) sono da aggiungersi quelle di Parero, Savi 
Mexecnmni, JannerTAZz, MrixLucno-MacLary, Riecke, ScHarIzER, Brauns, KENGOTT, 
Zuinr, PogeLs, Remeca e altri, i quali sì trovano citati in questa seconda 
parte trattando degli argomenti di cui si sono pur essi occupati. 

Oltre a questi è da aggiungersi alla bibliografia la memoria dell’Ing. 
Arwarpo Corsi: Due esemplari di Tormalina e berillo dell’isola d’ Elba 
pubblicata nella Riv. scient. e industr. Firenze 15 genn. 1882, N.°1, pag. 19. 


PARTE I. 
ERRATA CORRIGE 
Pag. 6 linea 33 Zusammenhang den Zusammenhang zwischen der 
Pi 8 3 208/5319) S. 379 u. 547 
v 9 » 834 Geognostische mineralogische Geognostisch-mineralogische 
1 10 » 26 in due in cinque 
> 10 n 86 Nota(0) Va a pag. 11 al posto di nota (1) 
dI 11 » 28 Nota(!) Va a pag. 10 al posto di nota (5) . 
3 37 E 4 della delle 
1 68 » 11 L’AMMANNATI OTTAVIANO TARGIONI T'OZZETTI 
s 92 RAI (o) 
Parte II. 
Pag. 5 linea 30 Monatsberich Monatsberich. 
È 30 n 81 3,026— 3,017 — 
36 » 12 geometrico goniometrico 


RO 653) FI): 


N. STRAMPELLI 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA 


NEL CAMERINESE 


—_—_t--»_ 


INTRODUZIONE. 


Il desiderio di parlare di cose del paese natio mi invogliò a descrivere 
il modo di coltivazione del Ehus Cotinus (L.), usato dai nostri montanari, 
esponendo, con quanta più chiarezza e semplicità mi sarà data i pregi e gli 
usi di detto arbusto. Il non aver poi riscontrata menzione alcuna di questa 
coltivazione, in quell’immensa falange di autori che si sono occupati di scienze 
agrarie, il giudicarla non priva di una certa importanza, per qualche spe- 
ciale industria, m’incoraggiò vieppiù a parlarne colla speranza che tale col- 
tura si estenda e si propaghi maggiormente. 


$. 1. — Descrizione e caratteri botanici del Rhus Cotinus (L.). 


Il Cotino, Robbione o Scotano, come i nostri agricoltori lo 
chiamano, è un fruttice, che appartiene alla classe delle Dicoti- 
ledoni (Calyciflore), alla famiglia delle Anacardiacee ed al genere 
Rhus. 

Il nome di Rhus dalla maggior parte dei fitografi, si vuol 
derivare dal greco psev (scorrere); ma molto più probabilmente 
esso deriva dalla parola celtica rXud, volendo con ciò ricordare 
che tutte le specie di questo genere presentano, in autunno, le 
foglie ed i frutti intensamente colorati di rosso. 

Vi sono degli autori, fra i quali Tournerort, che vorrebbero 
fare del Cotino un genere a sè. Scenk pure sostiene l’idea di 
distinguere il genere Cotinus, al quale, secondo lui, oltre la 
specie vivente, apparterrebbero alcune altre fossili. Nell’ anti- 
chità troviamo che Trorrasro chiamò il nostro arbusto, Cotinus 

Sc. Nat., Vol. XV. 6 


76 N. STRAMPELLI 


Coriaria nome che in tempi relativamente recenti fu pure usato 
dal Sarcnier. Lo Scopori gli diede il nome di Cotinus coggygria 
e Moexca di Cotinus coccygria. Nel corso della breve esposizione 
adotterò il nome generico di R/us, seguendo così l'esempio che 
mi viene tracciato dalla maggiore parte dei botanici. 

Il Rhus Cotinus (L.) può sorgere, con fusto diritto e fornito 
di molti e spessi rami, in forma di grazioso alberello ad. una 
altezza di 8 ed anche 4 metri, ma fra noi, d’ordinario, ha la 
forma di cespuglio, per i tagli continui, ai quali è soggetto. Il 
suo fusto è cilindrico e ricoperto di una corteccia, quasi liscia 
e di colore giallo-cinereo; i ramoscelli sono gracili, flessibili, 
aperti, bruni tendenti al rossiccio. Le foglie sono alterne, al- 
quanto vieine, patenti, ovali-ottuse o quasi rotonde, intiere, 
picciolate, spesso un po’ ristrette alla base, glabre, di un bel 
color verde alla pagina superiore, ove si scorge la rachide me- 
diana, rossiccia o gialliccia nella sua porzione basilare, ed i 
leggieri solchi laterali, corrispondenti alle nervature secondarie, 
di color glauco o glaucescenti alla pagina inferiore, sulla quale 
sporge la nervatura mediana, rossiccia o gialliccia, da cui la- 
teralmente partono, ad angolo molto aperto, le secondarie, che 
si dirigono verso il margine, e sì diramano per formare una 
fitta rete. Nel settembre-ottobre cangiano colore e diventano 
interamente di un rosso intenso, molto appariscente; stropic- 
ciate mandano un grato odore che ricorda l'aroma del cedro. 

Il picciuolo delle foglie è piuttosto delicato, quasi piano su- 
periormente, convesso inferiormente, e spesso rossiccio. Nel 
maggio e nel giugno, il Cotino emette le pannocchie terminali, 
grandi, composte, ed i fiori, inferi, biancastri, ermafroditi, alle 
volte per atrofia unisessuali (4) e per la maggior parte sterili ed 
abortiti. La rachide principale e le secondarie dell’infiorescenza 
sono glabre, rossiccie, ed appena incurvate ad arco in su. I 
peduncoli fiorali sono eretto-patenti o patenti, delicati, più lun- 
ghi del fiore, pubescenti per rari e corti peli, quasi sempre in- 
fruttiferi. i 

Questi, quando la pianta è in frutto, si allungano, e diven- 
gono ramificati, piumosi, per lunghi peli rossicci, in modo da 
formare insieme delle chiome o pennacchi rossi, cosparsi di 


(!) Dott. Hermann MiiLuer. Die Variabilitàt der Alpenblumen. 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE Cari 


qualche raro frutto, così belli, che un tempo furono, con molto 
successo, oggetto di ornamento al capo del sesso gentile. Per 
questi pennacchi, il Cotino si ebbe dai giardinieri francesi, il 
nome di Albero a parrucca, e presso di noi, quello di Capecchio 
ed anche di Albero nebbia. 

Le brattee sono lineari, spesso più larghe in alto, ottuse, 
intere o con piccoli denti all’apice, verdognolo gialliccie; le su- 
periori e le bratteole sono simili alle brattee inferiori, ma più 
strette; esse sono glabre e molto più erette dei peduncoli. Il 
calice, anch'esso glabro, è verdognolo, diviso, fin verso il terzo 
o quarto inferiore, in 5 lacinie patenti, ovali-lanceolate, spesso 
con qualche dente all’ apice. I petali sono 5, lunghi quasi il 
doppio del calice, patenti, ovali-ottusi, coll’ apice e i margini 
ripiegati in giù, verdognolo-gialliccio-chiari, e quasi bianchicci. 
Gli stami sono poco più corti della corolla, opposti alle lacinie 
del calice, con filamenti lesiniformi, bianchicci, glabri e colle 
antere ovato-tonde, ottuse, smarginate alla base, inserite pel 
dorso, aventi due loggie gialle e glabre che si aprono longitu- 
dinalmente. 

Il disco è a guisa di un grosso anello, di color quasi aran- 
ciato, ed ha 5 lobi larghetti e poco profondi, opposti ai petali 
e 5 leggieri incavi o seni, fra i lobi dei quali è abbracciata, 
in parte, la base dei filamenti. 

Nel gineceo si riscontrano 5 stili sormontati da stimma, 
piccoli ed ottusi, ed un solo ovario sessile uniloculare con un 
unico ovulo eretto. 

Il frutto è una piccola drupa, a mesocarpo poco spesso e 
carnoso, a endocarpo legnoso, obliquamente obovata, schiac- 
ciata, di color rosso scuro, glabra, con grossi nervi longitudi- 
nali, ramosi, che si uniscono in rete tra loro. Esso contiene un 
seme a testa membranaceo, ad albume nullo, con cotiledoni 
fogliacei e l'embrione colla sua radichetta brevemente uncinata, 
incombente sulla sutura dei cotiledoni. Infine, il suo sistema 
radicale è assai sviluppato e le radici, legnose, facilmente ap- 
profondiscono nel suolo. 

Il Cotino si ricopre del suo bello e ricco fogliame ai primi 
di aprile, se ne spoglia verso la metà di novembre, fiorisce nel 
maggio e nel giugno, e fruttifica nel mese di agosto. 


78 N. STRAMPELLI 


$. 2. — Patria, distribuzione geografica e clima. 


Il Rhus Cotinus (L.) è fruttice indigeno dell’ Europa meri- 
dionale, della regione mediterranea tutta, ove, dalla Spagna 
al Caucaso, tuttora cresce spontaneo; s'inoltra ad oriente nel- 
l’ Asia sino presso Pekino e ricomparisce, forse, nell’ America 
settentrionale. 

Se ne distinguono parecchie varietà. 

1. La varietà /aevis (Ener.) che ha le foglie glabre ovali o 
rotonde, brevemente o lungamente picciolate, e pannocchie molto 
piumose, è la più diffusa. Infatti la si rinviene spontanea 0 
subspontanea in quasi tutta la Spagna: nella Francia meridio- 
nale, cioè nel Delfinato, sui colli asciutti della Provenza da 
Avignone sino alle pendici occidentali delle Alpi Marittime, e 
nella Savoia presso Chambéry. 

La stessa varietà vive nell’ Italia settentrionale centrale, 
nei luoghi aridi e petrosi della regione della quercia e del ca- 
stagno. Si ritrova nella Svizzera meridionale sino al lago di 
Lugano; nel Tirolo presso Bolzano e Neumarckt; nell’ Italia; 
nella Carniola presso Laibach; poi più a settentrione nella Stiria 
sul monte dolomitico Notsch; quindi a Kahlemberg e Vienna. 
A mezzogiorno di questi paesi la varietà laevis cresce sponta- 
nea nella Dalmazia, nell’Erzegovinia, nel Montenegro, nell’Al- 
bania e in tutta la Grecia. 

Ad oriente si manifesta nell'Asia minore e più particolar- 
mente nella Siria (presso Svevia sul monte Ssoffdagh), nell’Ar- 
menia russa, nella Georgia caucasica e quindi s' inoltra nelle 
pendici Nord-Ovest della catena Himalayana. 

2. Viene avvicinata, alla varietà luevis, la forma di PRhus 
che vive nell'America settentrionale e più particolarmente nello 
stato di Arkansas. Questa forma però diversifica dalla /uevis 
per avere la lamina fogliare più espansa, misurando da 8 a 10 
c. m. di lunghezza e c. m. 6 di larghezza. 

Il Torrey la riferisce dubitativamente al Rus Cotinus (L.) 
non sapendo precisare se per essa convenga più questo nome 
o quello di A%us cotinoides, proposto dal NutTAL. 

3. La varietà pubescens (Exet.) si trova in Bulgaria; nel Ba- 
nato; nella Rumenia; nella Siria, sulle rupi del monte Ssoffddah; 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 19 


e nella regione del Caucaso. Questa varietà fu, da WieRzBICK 
e BornemiLLER (*), ritenuta per una specie distinta sotto il nome 
di Rhus arenaria. Essa ha le foglie sempre ovali assai raramente 
arrotondate, con nervatura e picciuolo pubescente, ed alla fio- 
ritura le pannocchie quasi glabre o assai poco pelose. 

4. La varietà cinerea (Ener.) con foglie assai brevemente 
picciuolate, pubescenti su ambedue le pagine, e con i pedun- 
coli fiorali ricoperti di breve peluria, si riscontra nel Banato, 
nella Moldavia e nella China sui monti ad occidente di Pekino. 

5. Gli esemplari del Mus Cotinus varietas velutina (Enon.) 
sì rinvengono nell’Indostan settentrionale a Vangtu, presso il 
fiume Sutley; a Kuma, sino all'altezza di 2300 metri; ad Al- 
morah, a Sirmore e in altri posti delle Indie orientali. 

Questa varietà presenta foglie ovate, raramente arrotondate 
e ricoperte su ambo le pagine di molti e folti peli cinerei. 

6. Nei giardini belgi si coltiva una varietà a rami penduli, 
detta per l'appunto, Rhus Cotinus (L.) varietas pendula (2). 

Il Cotino e sue varietà non resiste al freddo più in là di 
6° o 7° centigradi sotto lo zero. Oltre questo limite, se non 
muore, certamente intristisce. Infatti si è osservato, che non 
vive sulle alte montagne, ed una lunga e rigida invernata ne 
illanguidisce la vegetazione. 


$.3. — Rapido sguardo sulla distribuzione geologica del genere Rhus 
e delle specie fossili affini o identiche al Rhus Cotinus (L.). 


Se non teniamo conto dei differenti gruppi distinti nel ge- 
nere Elus, e se da questo genere non escludiamo la specie Rhus 
Cotinus (L.), da alcuni botanici elevata a tipo di un genere 
nuovo (Cotinus), noi possiamo dire, che il genere di cui ci oc- 
cupiamo, incominciò a manifestarsi in Europa ed in America 
sino dai tempi cretacei. La sua comparsa quindi, in tesi gene- 
rale, corrisponderebbe al rinnovellamento manifestatosi sulla 
Terra durante e dopo il Cenomiano, quando cioè i continenti 
incominciarono a rivestirsi delle piante organicamente più ele- 


(1) I. BornmiiLLer. Beitràge zur Kenntnis der Flora des bulgarischen Kustenlandes 
(Bot. C. 1888, Bd. XXXVI, pag. 25). 
(2) Revue de l’ Horticolture belg. 


80 N. STRAMPELLI 


vate, quali sono appunto quelle delle Dicotiledoni, cui appar- 
tengono le Anacardiacee. 

I resti di R/hus della Creta non sono però ben definiti, mentre 
ben determinati sono quelli che seguono nelle più antiche for- 
mazioni terziarie. Così per esempio si conoscono alcune specie 
provenienti dagli strati di Laramie nell'America settentrionale, 
che i geologi riferiscono alla parte più profonda dell’ Eocene; 
più numerose sono nel gruppo di Greenriver, un poco più re- 
cente degli strati di Laramie, ma pur esso eocenico. È impor- 
tante fare osservare che il RAus coriaricides (Leso.) ed altre 
di Greenriver presentano spiccate somiglianze con il Rhkus Co- 
riaria (L.) che vive attualmente. 

Ma le affinità tra le specie fossili e quelle viventi vanno 
accentuandosi nei tempi successivi, per modo che, quando ar- 
riviamo all’ Oligocene e al Miocene superiore, noi riscontriamo 
specie, come il Rus palaeocotinus Sar. (Oligocene superiore di 
Armissan) e Rhus orbiculata Hrer (Miocene superiore di Abis), 
che grandemente si avvicinano alle forme attuali e più parti- 
colarmente al Rhus Cotinus (L.) tanto da potersi riguardare 
quali forme fondamentali da cui deriva il Cotino. 

L'ampia distribuzione che queste specie ebbero anche al di 
la dell’attuale limite settentrionale del Rhus Cotinus (L.), fa 
supporre che la ristretta area di vita della specie che trattiamo, 
sia dovuta ai cambiamenti di clima avvenuti in Europa du- 
rante il Quaternario e più particolarmente nel periodo glaciale. 

All’infuori delle specie fossili testè accennate, le altre tutte 
anzichè col Rhus Cotinus (L.) trovano analogia con quelle che 
oggidì vivono nell'America del Nord e nel Giappone. 

Nei terreni terziari, specie identiche alla nostra non si tro- 
vano; ma nel Quaternario inferiore, così nell'età dell’ E/ephas 
primigenius, come nella successiva dell’Elephas antiquus, il Rhus 
Cotinus (L.) si cita tra le piante fossili, di cui molte si pro- 
tendevano più a settentrione di oggi, particolarità questa che 
corrisponde ai caratteri del clima di quei tempi, più uniforme, 
più umido e più temperato dell'attualità, come rileva Saporta (1). 

I resti fossili quaternari di Ehus Cotinus (L.) furono raccolti 
alle Bocche del Rodano ed in altre località. 


(4) Herr. Svenska Vetensk. Acad. Hand]. 1869. (Spitzbergen) Giebel Zeitschr. 1872, 
pag. 405. 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 81 


$.4. — Terreno ove vive il Rhus Cotinus (L.) nell'Appennino centrale. 


Il calcare rosso, intercalato da strati silicei, compatto o sca- 
glioso, che a guisa di mantello circonda le alture di tutto l’Ap- 
pennino centrale, costituisce prevalentemente il sottosuolo su 
cui vive lo Scotano. 

Il monte di Crispiero, iì monte Letegge, il monte Favo, il 
monte Fiegni e molti e molti altri, sì trovano in consimili con- 
dizioni. 

Questo calcare rosato o Scaglia, corrisponde alla parte su- 
periore del sistema cretaceo, cioè al Senoniano, ed è contem- 
poraneo della formazione consimile sviluppata nell'Italia set- 
tentrionale e che i Veneti, appunto per la sua struttura, dicono 
Scaglia. 

Oltrechè sull’ accennato terreno, lo Scotano si trova pure 
spontaneo sul detrito che ricopre calcari bianchi, leggermente 
marnosi, a strati non molto spessi, e che, geologicamente par- 
lando, sono più antichi della Scaglia. 

Difatti, noi riscontriamo lo Scotano p. es. nelle pendici ru- 
pestri che limitano la gola delle Grotte di S. Eustachio, o in 
. quelle della pittoresca vallata di Pioraco. 

Il sottosuolo di queste contrade è appunto dell’ accennato 
calcare biancastro che un geologo tedesco, lo ZirteL, chiamò Lu- 
pestre, riferendolo giustamente alla parte inferiore della Creta, 
cioè al Neocomiano. 

Ma anche roccie più antiche formano il sottosuolo su cui 
vive talora lo Scotano, inquantochè non infrequentemente lo 
riscontriamo in terreni che vengono reputati come giurassici. 

In generale, quindi, possiamo dire che tutta la massa cal- 
carea di cui sono costituiti gli Appennini, appartenente ai si- 
stemi giurese e cretaceo, dà gli elementi necessari e sufficienti 
alla vita e allo sviluppo dello Scotano. 

Il disfacimento, infatti, di coteste roccie produce un terreno 
calcareo, un poco argilloso e ferruginoso, che rapidamente as- 
sorbe l’acqua, la quale poi a sua volta si perde tra le fendi- 
ture di stratificazione, e, meglio, tra le numerose fenditure ac- 
cidentali che si riscontrano nel sottostante calcare. Le condi- 
zioni accennate sono appunto quelle che l’esperienza ha dimo- 
strato proficue per la vegetazione del nostro arbusto. 


82 N. STRAMPELLI 


$. 5. — Proprietà ed usi del Rhus Cotinus (L). 


Il corpo legnoso o xilema del Rkus Cotinus (L.) è duro e 
compatto, nella sua sezione trasversale mostra i fasci come 
piccoli punti ed i raggi midollari appena accennati. 

L’alburno è bianco o bianco-bigio, il duramen presenta stri- 
scie concentriche giallo-dorate con altre verde bruno, che divi- 
dono gli strati annuali. Ciò forma una venatura assai appari- 
scente, massime, quando questo legno sia stato ben pulimen- 
tato. È atto per costruire alcuni istrumenti musicali come liuti, 
violini ecc. Gli ebanisti lo usano nei loro lavori in mosaico ed 
i tornitori lo ricercano per farne vasi, colonnine ed altri mobili. 

Questo legno tagliuzzato in piccoli pezzi, conosciuto dai tin- 
tori sotto il nome di legno giallo d’ Ungheria, serve ottima- 
mente ai nostri montanari per tingere le proprie stoffe otte- 
nendo, con esso, varie gradazioni di colore. Infatti nella tavola 
che unii alla mia tesi presentata agli esami di Laurea, si po- 
tevano vedere le diverse colorazioni ottenute sulla lana bollita 
nella decozione di tal legno con l'aggiunta dei vari mordenti. 

Tale proprietà era conosciuta sino dai tempi di Pimio ed 
egli ci lascia scritto: © Ad linamenta modo conchyli colore 
insignis ,. 

La Casa di Nowar e Benpa di Praga fabbrica da questo 
legno un estratto colorante chiamato cotinina. 

I Now4r e K. Bewpa nel giornale politecnico di Derer 
(Parigi) in un loro articolo intitolato “ Die Bercitung des 
Morius und Cotonins , descrivono il metodo usato nella loro 
fabbrica per preparare tale estratto. 

Essi fanno bollire circa 200 Kg. di legno grattugiato in 500 
litri di acqua. Decantano il decotto, aggiungono Kg. 4,50 car- 
bonato sodico e lo fanno bollire sino a che non abbia acqui- 
stata la densità di 1,0411 ed a questo punto filtrano per ri- 
prendere sul filtro la sostanza colorante precipitatasi. 

Il liquido filtrato lo trattano nuovamente con carbonato di 
soda, per ottenere nuovo precipitato, filtrano ecc. L'insieme 
dei precipitati, li seccano, li macinano e li mettono in com- 
mercio sotto forma di fine polvere. La cotinina è una polvere 
bruno-verdastra libera da resina e dalle altre materie estrat- 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 83 


tive, ha un potere colorante 60 volte maggiore di quello del 
legno ed i tuoni di tinte, che con essa si ottengono, sono più 
puri. 

La sostanza colorante di questo legno è la risetiNa, che vi 
si trova sotto forma di tannide, speciale combinazione di un 
tannino con un glucoside. 

Anche le radici e la corteccia di questo arbusto hanno pro- 
prietà coloranti come il legno. La decozione dei grappoli pure 
sì adopera in tintoria, per preparare le stoffe, che bollite in 
esse acquistano la proprietà di ritener meglio alcune tinte. 

Tutte le parti di questo arbusto sono ricche di acido tan- 
nico; ma la maggior ricchezza risiede nelle foglie e nella cor- 
teccia delle sue parti giovani, le quali triturate si dicono foglia- 
rola e servono ottimamente alla concia delle pelli. Ed è tanto 
pronta la loro azione che in 10 o 12 ore si concia una pelle di 
ovino e in 8 giorni quella di un bovino, per la quale con cor- 
teccia di quercia occorrerebbero almeno 4 a 5 mesi. La concia 
che si vuol eseguire con la fogliarola è quella che presso di 
noi si dice concia în trippa. Ossia le pelli, dopo di aver subìto 
tutte le operazioni preparatorie al tannaggio, si ricuciono per 
i loro margini in modo da formare di ciascuna una specie di 
sacco che si riempie di Scotano. La quantità occorrente di esso 
è di circa 20 Kg. per pelle bovina e per quella ovina varia da 
1500 grammi a 2000. Queste pelli ripiene di materia conciante, 
sì pongono in serie, ritte, con i loro orifizi all'insù, entro va- 
sche in muratura. Quindi si comincia a versare su ciascuna 
l’acqua bollente, sino a che, nella vasca l’acqua uscita dalle 
pelli non giunga quasi a coprire il limite superiore di esse. 
Quando quest’acqua, che per essere filtrata attraverso lo Sco- 
tano porterà con sè disciolta buona quantità di tannino, si 
sarà raffreddata, se ne riprende porzione di essa, la si fa bol- 
lire in una caldaia attigua e si versa quindi nuovamente entro 
le pelli. Questa operazione non si ripete più di una volta; ma, 
durante tutto il tempo della concia, il liquido della vasca si 
va riversando continuamente entro i singoli sacchi di pelle, 
con apposito secchiello, fornito di un manico orizzontale e 
lungo. Come sopra si è detto, le pelli di ovini non vi si fanno 
rimanere più di 10 o 12 ore e da queste si ottengono, confe- 
zionandole ulteriormente, i così detti biancolatti. In soli 8 


84 N. STRAMPELLI 


giorni di bagno nell’ infuso di Scotano, le pelli bovine hanno 
completamente subìta l’azione tannante. 

Tale sistema di concia dà ad esse una spiccatissima pro- 
prietà di assorbire in sè il sego fuso. Quindi nelle operazioni 
ulteriori, che esse dopo il tannaggio debbono subìre, e fra le 
quali è principale l’incorporamento delle pelli od ingrasso delle 
medesime, si usa, molto economicamente, piuttosto che l’ olio 
di pesce, il sego. Queste così conciate e confezionate vanno in 
commercio, sulle nostre piazze, con il nome di manzi. Il loro 
peso varia dai 10 ai 4 Kg. ed il loro prezzo è di circa L. 4 
il Kg. I manzi sono cuoiami abbastanza pastosi impermeabili 
all'acqua, non attaccati da insetti, difficilmente screpolano e 
sì rompono, e sono di grande durata. La classe agricola, spe- 
cialmente quella di montagna, li ricerca, giacchè le loro calza- 
ture, costruite con qualunque altro cuoiame, in pochi giorni 
sarebbero corrose, mentre quelle fabbricate con manzo durano 
loro per più anni. 

Torno a ripetere, che la concia allo Scotano, oltre a dare 
buona merce, e di facile vendita, si eseguisce molto rapida- 
mente e credo che la grande economia di tempo da sè sola, 
basti a darle vantaggio e superiorità su tutte le altre concie, 
fatte con le diverse corteccie. 

Oltre alle sostanze tanniche che riescono, come abbiamo 
detto, di giovamento nella concia e nella tintoria, il Rkus 
Cotinus (L.) contiene pure delle sostanze resinose. Se, difatti, 
in primavera si praticano, sulla corteccia di esso, delle inci- 
sioni longitudinali, ne scola un lattice, che si rapprende in una 
massa solida, gialliccia, resinosa ed aromatica, che potrebbe 
forse servire da vernice. 

A titolo di curiosità da ultimo accenniamo che il E%us 
Cotinus (L.) ha un capitolo importante nella storia della me- 
dicina empirica ed in quella positiva. Troviamo che, oggidì, la 
decozione dei grappoli viene consigliata per frenare i flussi di 
sangue; se la decozione si fa nel vino allora, secondo DugAWEL, 
servirebbe a calmare le infiammazioni delle emorroidi. Altri 
credono che le drupe cotte nel riso giovano alle dissenterie 
croniche. Finalmente la corteccia ha proprietà febbrifughe as- 
sai spiccate e da molto tempo riconosciute (Epouarp Spack) (1) 


(4) His. Nat. des Vegetaux, V. 20, p. 2410. 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 85 


‘ talchè havvi chi (Zsorpos) la propose quale succedaneo alla 
corteccia di China. i 

Nella antichità lo Scotano ebbe pure molteplici applicazioni 
nella medicina e negli usi domestici, come dimostra Prnro nel 
libro XXIV, Capitolo XI della sua Istoria Naturale. Egli infatti 
scrive che le drupe di questo arbusto hanno virtù astringenti 
e rinfrescanti, che, ai suoi tempi, si usava aspergere, invece 
del sale, sulle vivande, che miste al silfio rendono più grade- 
vole ogni genere di carne, che miste a miele danno una spe- 
cie di unguento, ottimo a guarire le ulceri, le asperità della 
lingua, le battiture, le lividure e. le escoriazioni, a far cica- 
trizzare prontamente le pustole del capo, e preso come cibo è 
atto a fermare le soverchie purghe delle donne. Lo stesso PLinio 
nel libro XXIII, Capitolo XXVII ci dice, che il decotto delle 
radici, bevuto, in giorni alterni, apporta giovamento nella ma- 
lattia dei calcoli renali e nell’ematuria. 


$. 6.— Ove si utilizza il Rhus Cotinus (L.) quale prodotto forestale. 


L’epoca a cui risalga l'utilizzazione dello Scotano, quale 
materia conciante, non saprei precisare; so solo che nelle 
Marche, nella Romagna, nell’Umbria e nel Veneto da gran tempo 
si usano le sue foglie nell’arte della concia delle pelli. 

Ed in queste regioni la raccolta dello Scotano, che cresce 
spontaneo nei boschi, eseguita da donne e da fanciulli dà campo 
ad un'industria abbastanza lucrativa per quelle famiglie che 
vi si dedicano. Questo prodotto forestale viene adoperato in 
Italia nelle locali concerìe ed è anche esportato. 

L'Inghilterra anni addietro ne importava grande quantità; 
ma essa ora va restringendo tale importazione, a causa delle 
miscele, che i raccoglitori, per frode, fanno con foglie e parti 
legnose di altre essenze. A Trieste e nella Dalmazia non man- 
cano concerìe che usino sommacco veneziano o foglia di Scotano. 
In Russia ed in Bulgaria esso è adoperato a speciali concie. 

L’Ungheria è la regione che fornisce in maggior quantità 
il legno di questo arbusto quale materia colorante per le tin- 
torle; ed è per questo che in commercio ha il nome di /egno 
giallo d'Ungheria. Ma il più pregiato è quello fornitoci dalla 
Grecia e dalle isole Joniche. 


86 N. STRAMPELLI 


$. 7. — La coltura del Rhus Cotinus (L.) nel Camerinese. 
I. — Estensione della coltura. 


Sui poggi e sul basso delle montagne degli Appennini ca- 
merinesi, qualche volta anche ad altezze di 600 metri circa 
sul livello del mare, non è raro incontrarsi in luoghi ripieni 
di Scotano coltivato, distinti dai paesani col nome di scotanare. 
Ma se esse non sono rare certo il loro impianto non è esteso 
quanto dovrebbe esserlo, giacchè in tutto il circondario circa 
soli 550 ettari di superficie sono occupati da scotanare, men- 
tre parecchie altre migliaia chieggono di essere utilizzate 
per esse. 


II. — Origine della coltura. 


Questa coltivazione si cominciò ad esercitare sul principio 
del secolo XVII allorquando, in Caldarola, un mandamento del 
circondario camerinese, si istituì un opificio di concerìa, ed 
aumentata così la richiesta di materia conciante, oltre all’ an- 
dare a raccogliere nei boschi lo Scotano che vi cresce spon- 
taneo si pensò di farlo oggetto di coltura a parte. 


III. — Terreno da adibirsi a tale coltura. 


Il terreno del quale giovasi meglio lo Scotano è quello che 
nel clima del nostro territorio camerinese meno si presta ad 
altre colture e comunemente ad essa vengono adibiti terreni 
aridi, brecciosi, calcari rossi, terreni sterili, che coltivati a 
grano od anche a segala con un anno di maggese ed anche 
uno di riposo non riescono a coprire col prodotto le spese di 
coltura. 

Lo Scotano si accontenta di terreno sterile, ma lo vuole 
sciolto, non argilloso nè eccessivamente sabbioso, preferibil- 
mente sassoso, sempre ricco di calce e sollecito ad asciugarsi 
dopo le piogge. Vegeta pure nei terreni argillosi e fertili, pur- 
chè tal fertilità non vada accompagnata da un soverchio rista- 
gno di umidità intorno alle radici. Il quale ristagno può anzi 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 87 


in qualche caso farlo vegetare rigogliosamente, in apparenza, 
causandone però la sua corta esistenza ed il prodotto scadente. 
Lo Scotano che vegeta in terreni calcarei ed aridi, che in ap- 
parenza sembra meno rigoglioso di quello che si coltiva in 
terreni fertilissimi, dà. veramente una minor quantità di fo- 
glia in volume; ma questa foglia è più olezzante, più ricca 
di tannino, e quindi le sue qualità concianti, per le quali è ri- 
cercata in commercio, sono maggiori, e non solo, ma questa 
stessa foglia i cui tessuti sono meno acquosi disseccata risulta 
anche più pesante dell’ altra. Prendendo due volumi uguali di 
foglia fresca di Scotano l’ uno prodotto su terreno fertile e 
fresco, e l’altro su terreno sterile e caldo, e pesandoli dopo 
averli disseccati entrambi all'aria troveremo maggiore il peso 
di quello prodotto in questo ultimo terreno. 

Siechè vendendosi il prodotto dello Scotano a peso e non già 
a volume, la sua pomposa vegetazione che affetta in terreni 
freschi non è che illusoria, effimera, e mal regge il confronto 
del modesto lussoreggiare che presenta in terreni calcarei 
asciutti. Un buon terreno per lo Scotano non si deve mai va- 
lutare dal modo apparente con cui vi cresce, ma dal peso della 
foglia disseccata che in esso si produce. 

Il Cotino vegeta meglio ed ha vita più lunga nei terreni 
inclinati (non eccessivamente però) che nei pianeggianti, giac- 
chè questo arbusto è sempre nemico dell’ umidità. Per questa 
medesima ragione predilige i terreni esposti a mezzogiorno. 


IV. — Moltiplicazione e propagazione dello Scotano. 


Questo arboscello può essere propagato per semi e per mar- 
gotti. Ma il sistema più usato è di andare a svellere le giovani 
pianticine nei boschi ove sono spontanee. Ciò ha degli inconve- 
nienti non leggieri; poichè essendo pianticine sviluppate fra 
cespugli di piante diverse le più volte cresciute prive di raggi 
solari nella mancanza di luce e nella scarsezza di alimento loro 
sottratto dalle altre essenze, non avranno potuto avere che una 
meschina vegetazione, quindi difettano di robustezza, nel tra- 
piantamento moltissime ne periscono. La moltiplicazione per 
margotti anche essa in pratica ha dato pochi buoni risultati e 
può usarsi solo da chi già possiede altre scotanare, e consiste 


88 N. STRAMPELLI 


nel disporre a divenir piante quelle verbene che sarebbero tagliate 
in agosto ammonticchiando loro intorno, appunto in questo mese, 
della terra come suol farsi di altre piante. 

Rincalzandole poi in primavera esse mettono fuori tante 
radici che in autunno o primavera del secondo anno staccate 
dal cesto antico si potranno trapiantare. 

Semenzato. — Solo da alcuni e con loro grande utilità si usa 
la propagazione per semina. 

Essi, raccolti i semi dalle pannocchie, li spargono nel marzo 
veniente in terreno sciolto e calcare già preparato all'uopo, 
cioè che sia stato vangato a circa 30 cm. di profondità, legger- 
mente concimato con stallatico ben maturo, e sia stato quindi 
convenientemente spianato. Sparsa dunque questa semenza, la 
interrano quindi con granate di rusco o piccoli rastelli di legno, 
avendo cura di ricoprirla con strato di terra di uno spessore 
dai 15 ai 20 mm., secondo la natura del terreno. Un litro di 
piccole drupe bastano a seminare 30 m. q. di superficie da cui 
si avranno oltre a 4000 piantine. Questo vivaio va irrorato fre- 
quentemente, per il che la germinazione non tarda più di due 
mesi e nell’ autunno dell’anno medesimo già le belle pianti- 
cine hanno circa 15 cm. di altezza, e sono in assetto da essere 
trapiantate stabilmente nelle fossette della predisposta scota- 
nara. È assai facile l’intender quanto prevalga sugli altri metodi 
il costituire le scotanare con le piantine ottenute da seme in 
tal guisa. Ben altro è il piantoncino tolto dai vivai, sanissimo, 
fornito di tutte le sue radichette e del fittoncino, ancora vigo- 
roso e forte di fusticino; di quello che il margotto o la piantina 
sviluppata, chi sa come, tra i cespugli di piantine diverse, che 
oltre all'essere mingherlina è anche sempre difettosa delle mi- 
gliori radici, stracciate collo svellerla dall’incolto suolo. 

E l'esperienza ha dimostrato che le scotanare create per 
seminazione sviluppano con vegetazione più pronta e più rigo- 
gliosa, conservano più lungamente i proliferi ceppi, quindi man- 
tengono per un maggior numero di anni l'integrità e la gagliardìa 
di tutta la piantagione e finalmente, ciò che più importa, anti- 
cipano di un anno il primo prodotto, potendosi tagliare, non 
dopo tre anni, ma bensì dopo 2 ed aumentano quasi del doppio 
la produzione degli anni seguenti. 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 89 


V.— Impianto della scotanara. 


Lavori preparatori. — Scelto il terreno che si vuol stabilire 
a scotanara, in autunno oppure in inverno vi si fa il dissoda- 
mento, lavoro di preparazione all’ impianto, profondo circa 30 
centimetri e che si eseguisce coll’ aratro, se l'indole del terreno 
lo permette o in caso contrario con zapponi. Nell'eseguire il 
dissodamento bisogna aver gran cura di asportare dal terreno 
tutte le radici di altre essenze che in esso si rinvengono. 

Distanza fra i ceppi. -—- Misurata la superficie, e stabilita la 
distanza che si vuol far passare fra una pianta e l'altra, distanza 
che può variare dai 65 ai 75 cm. (sempre preferibile quest’ ul- 
tima), si fa il calcolo del numero delle pianticine occorrenti e 
si cerca di provvederle per il mese di marzo, epoca in cui si 
eseguisce la piantagione. 

Scelta delle piantine. — Nel piantare una scotanara non si 
deve trascurare la buona scelta delle piantine che debbono for- 
marla, per assicurarne la miglior riuscita possibile nell’ avve- 
nire. Da esse bisogna escludere le troppo esili, quelle povere di 
barbe radicali e che presentano nelle radici un inviluppo bianco 
sericeo. 

Acconciatura delle piantine. — Fatta la scelta delle piantine, 
necessarie, quelle che hanno un solo fusticino sì riuniscono in 
mazzetti di 3 o 4 od anche 5 per ottenere un cesto più produt- 
tivo, e tutti si accomodano secondo ottima pratica coll’ avvin- 
cerne a guisa di fastellino i propri ramoscelli, e ritorcerne le 
cime verso la radice. Tale acconciatura non va trascurata poichè 
da essa ne risulta che, nel successivo crescere, la pianta getta i 
rampolli vicino terra, cosa vantaggiosissima per la felice riuscita 
delle scotanare. 

Messa a posto delle piantine. — Ciò fatto, di mano in mano 
che un operaio armato di zappa o badile apre delle buche pro- 
fonde circa 20 o 25 cm. e poco meno larghe alla distanza pre- 
stabilita ed allienate più che può, un altro operaio vi colloca 
ritta in ciascuna una pianticella o mazzetto di esse. Ne getta 
addosso della polvere già preparata innanzi e portata da altro 
terreno, o la terra più fine che colla mano può scernere, ve 
la adatta e la calza intorno alle radici. Termina poi col riem- 


90 N. STRAMPELLI 


pire le formelle con la terra del campo, avendo cura di far 
sporgere dal suolo 4 o 5 cm. i fusticini. 

Non tutti piantano di nuovo una scotanara, ma vi sono alcuni 
dei nostri montanari che costumano di scuotere invece quei tratti 
di bosco ove qua e là sorge spontaneo l’arbusto. Rispettano tutte 
le piante di quest’essenza ne coricano e ricoprono poi di terra 
i ramoscelli più lunghi lasciandone allo scoperto le cime. Così 
per il pronto dilatarsi dello scotano in terreno smosso e lavo- 
rato, giungono con più sollecitudine e minor spesa ad ottenere 
l'intento, è vero, ma essi non avranno tolte dal terreno tutte 
le radici delle altre piante preesistenti ed anche nell’avvenire 
non vi potranno eseguire i lavori di coltura tanto facilmente 
quanto in scotanare piantate di nuovo in cui tutte le piante 
sono più o meno equidistanti ed in filari. 


VI. — Durata, avvicendamento e consociazione. 


Durata. — Stabilita la scotanara con uno dei metodi sopra 
esposti, si conserva bella e rigogliosa per circa mezzo secolo. 
Dopo di che comincia ad invecchiare, deteriora e diminuisce la 
quantità del prodotto. Vi sì vedranno cesti intristiti e vi si co- 
minceranno a formare dei vani, allora la scotanara ha bisogno 
di essere ringiovanita. 

Avvicendamento. — Lo Scotano non ha bisogno di avvicenda- 
mento, succede ottimamente a sè stesso; si rimpiazzano quindi 
i vuoti, si sostituiscono i troppo inveterati cesti con nuove pian- 
tine, se la si vuol far proseguire con profitto ed utile dell'agri- 
coltore. Allorchè la scotanara è invecchiata, vi è chi suole 
disfarla completamente e coltivarvi per uno o più anni grano 0 
segala alternando con pascolo e maggese, e poi ripiantarla di 
nuovo come se mai vi fosse esistita. 

Consociazione. — Lo Scotano non si usa consociare a nessuna 
altra pianta. L'erbacee non potrebbero viverci che stentata- 
mente e senza dare alcun profitto essendo già il terreno di na- 
tura sterile. La consociazione poi con piante arboree od arbustive 
è sconsigliabilissima, perchè il Cotino vuol risentire direttamente 
la benefica influenza dei raggi solari, e adombrato soffre degli 
stessi inconvenienti che cresciuto in terreni freschi e compatti. 

Una delle ragioni della superiorità del prodotto dello Scotano 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 91 


coltivato in appartate scotanare su quello raccolto nei boschi, 
è appunto l’adombramento a cui questo è sottoposto dalla pre- 
senza delle altre essenze che lo sovrastano. 


VII. — Cure culturali e concimazione. 


Cure culturali. — La scotanara non richiede.gran che in fatto 
di cure culturali, le quali debbono esser dirette a mantenere il 
terreno soffice e netto dalle erbe. Si eseguiscono o con la zappa, 
oppure con l’aratro tirato da buoi, allorquando il terreno lo 
permette, e la scotanara impiantata di nuovo sia con le piante 
più o meno disposte in filari e con distanze sopra indicate. In 
tali condizioni si può far scorrere negli interfilari il nostro aratro 
di montagna, che costituito da un vomere seguito da due orec- 
chiette, funziona da rincalzatore e per le sue dimensioni non 
si approfondisce più di 15 cm. 

I buoi che lo tirano possono a tutt’agio senza calpestare 
le piante, camminare negli interfilari laterali a quello ove si 
apre il solco. E da notare, che se la aratura ha il vantaggio 
economico sulla zappatura, questa poi ha imparagonabile su- 
periorità nella perfetta esecuzione del lavoro, essendo la zappa 
guidata dall’ intelligenza. Nell’ anno dell’ impianto la scotanara 
non richiede altro che una zappatura, che si eseguisce 3 o 4 mesi 
dopo della messa a posto delle giovani pianticine, ossia in giugno 
od ai primi di luglio. V'ha poi chi nell’ agosto di questo stesso 
anno eseguisce anche la pota o primo taglio, per utilizzare i 
ramoscelli e le foglie come primo prodotto. 

Essa consiste nel togliere tutti i rami alla pianta, ossia nel 
capitozzarla. È bene però eseguire questa pota nel febbraio del- 
l’anno seguente, poichè il primo prodotto, che è scarsissimo, 
trascurato nel primo anno ci viene pagato ad usura da quello 
del secondo e dei successivi. La stagione più propizia alla 
pota è quella in cui la vegetazione è sospesa, le piante po- 
tate in agosto non se ne avvantaggiano certamente. E se in 
tale coltura le ragioni economiche vogliono che si abbia da 
recidere i rami dello Scotano proprio sotto gli ardori della ca- 
nicola, per avere il prodotto commerciale atto alla concia, 
rispettiamo almeno nel primo anno le giovani pianticine per 
averne quindi ceppi più robusti e duraturi. Nel secondo anno 


Se. Nat., Vol. XV. 7 


92 N. STRAMPELLI 


fatta la potatura 10 o 15 giorni dopo, od anche ai primi d’a- 
prile, si rimuove il terreno, eseguendovi una buona zappatura, 
e questa operazione ottimamente potrà esser ripetuta in agosto 
dopo fatto il raccolto. Nei successivi anni pure non si fa altro 
che zappettare il terreno, ed in generale, con una sola zappa- 
tura, eseguita nel mese di maggio o giugno. Avvi però chi 
ne pratica una sola ogni due anni. In ciò deve guidarci oltre 
alla natura del terreno e l'invasione in esso della vegetazione 
spontanea, il tornaconto economico. 

Concimazione. — Questa cultura non richiede alcuna concima- 
zione, poichè a differenza di tutte le altre non se ne avvantaggia. 
Il concime, dato in piccola proporzione, è quasi inavvertito dallo 
Scotano, tantochè l'aumento di produzione di esso non giunge 
ad uguagliare le spese di concimazione, e si rileva quindi una 
perdita economica. Dato poi in abbondanza il resultato econo- 
mico è anche più inferiore, giacchè per la freschezza che esso 
concime induce nel terreno, il Cotino avrà i suoi tessuti molto 
acquosi, e ciò darà un prodotto scadente, di minor peso e più 
povero in tannino. 

Naturalmente, in ciò che si è detto, noi intendiamo la conci- 
mazione fatta con l’usuale stallatico, non potendo nulla asserire 
in riguardo alle altre concimazioni, non pur anco sperimentate 
nelle nostre scotanare. 


VIII. — Raccolta del prodotto. 


L'epoca della raccolta è il mese di agosto, ed i nostri mon- 
tanari sogliono farla allorchè le foglie basilari cominciano ad 
arrossare, essendo, secondo essi, quello il tempo in cui ottengono 
la maggior quantità di prodotto e di miglior qualità. 

Era mio intendimento fare uno studio in proposito per veder 
se questo momento coincide veramente con la maturazione 
economica. Non potendo farlo da me, poichè durante il tempo op- 
portuno mi trovava lontano dal mio paese, diedi incarico di racco- 
glier delle foglie di 5 in 5 giorni. Contro le mie prescrizioni però, 
esse non solo non furono raccolte da un unico cespuglio, od 
almeno da quelli di una limitata zona della medesima scota- 
nara, ma lo furono anche in località diverse. Per la mancanza 
quindi di giusti campioni debbo riserbare ad altro tempo con- 
simili esperienze. 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 93 


Allorchè adunque lo Scotano incomincia ad arrossire, si va 
nelle scotanare a tagliare i suoi ramoscelli, o come dicono i 
contadini a mveterlo. Questa operazione è generalmente affidata 
alle donne e nell’eseguirla si adopera un falcetto di grandezza 
più piccolo, ma di forma del tutto simile alla falce da segar 
biade, oppure una semplice roncola.I tagli vanno fatti rasente 
alla ceppaia. 

Colla sinistra si prendono i ramoscelli e colla destra si striscia 
il ferro dal di fuori all’indentro e dal basso in alto, in modo 
da avere i tagli abbastanza inclinati, allo scopo di evitare il 
ristagno delle piogge e delle rugiade sulle parti recise, che inevi- 
tabilmente produrrebbe, col tempo, la anticipata carie del legno. 
Iramoscelli più lunghi vengono riuniti e legati in fascetti. Gli 
altri più minuti le donne se li ripongono nella gonna rimboc- 
cata o in un piccolo sacco che si tengono appresso al fianco; 
e quando ve ne hanno accumulati una buona fatta vanno a 
riversarli entro ceste od altri sacchi più grandi. Alla sera tutto 
il raccolto del giorno vien riportato a casa, porzione dalle donne 
medesime che lo hanno mietuto, e l'altra porzione con animali 
da soma o con barroccio tirato da buoi. 


IX. — Tecnologia e conservazione del prodotto. 


Disseccamento. — Nel dì seguente alla raccolta si comincia il 
disseccamento. Si spandono sull'aia tutti i ramoscelli, slegando 
quelli che erano legati in uno strato, non molto alto, che con- 
viene frequentemente rivoltare, massime quando il sole è molto 
cocente. Perchè in caso contrario l’azione prolungata dei raggi 
solari sullo strato superficiale deteriora in esso grandemente il 
prodotto, in quanto le foglie da fresche avvizziscono subito, st 
cessano, come dicono i nostri montanari, cioè diventano bian- 
chiccie, perdendo quel colore verde ricercato nel commercio, e 
che mantengono sempre se continuamente smosse. 

Bisogna badare che non lo colga la pioggia, durante il dis- 
seccamento, massime pui quando è già inoltrato; giacchè essa 
ne trasporterebbe fuori in rigagnoli nerastri il principio tannico 
che contiene. La foglia già disseccata colta da pioggia perde 
notevolmente di peso (circa il 20 °/), perde il suo aroma e 
il suo colorito normale, visibili a colpo d'occhio ai commercianti 


94 N. STRAMPELLI 


di tale prodotto, i quali da tali caratteri esterni ne giudicano 
la qualità. Allorchè dunque il cielo si ricopre di nubi e minaccia 
pioggia si deve sollecitamente collocare lo Scotano al coperto 
sotto qualche tettoia. Quivi pure bisogna essere accorti e ri- 
volgerlo almeno due volte al giorno, perchè se non è ancora 
completamente asciutto potrebbe riscaldarsi, fermentare, ed 
ingiallire, scemando di pregio, col perdere la possanza, secondo 
il linguaggio dei nostri contadini. 

Il disseccamento si compie in media in 4 o 5 giorni ed è 
completo quando tutto lo Scotano è divenuto talmente arido 
da potersi facilmente triturare. 

Trebbiatura. — Ridotto adunque lo Scotano alla giusta sec- 
chezza non si tarda a batterlo col correggiato o frusto. Questo 
istrumento si compone di un'asta di 4 cm. di diametro, lunga 
un 2 m., alla testa della quale per mezzo di un pezzo di fune 
si articola un grosso bastone nodoso, lungo circa 80 cm. 

Si dispone lo Scotano a strato sull'aia. Un numero di uomini 
od anche di donne proporzionato all’ estensione ed alla massa 
si dispone in 2 file, una di fronte all’altra e vi batte gagliarda- 
mente i correggiati. I colpi dell'una fila debbono cadere alternati 
con quelli della seconda, cioè mentre da una parte si abbassano 
i frusti, dall’ altra si innalzano, seguendo un ritmo uniforme e 
cadenzato come il battere dei martelli dei fabbri sull’ incudine. 
Ciò per evitare l’incontro dei bastoni, i quali, oltre al rompersi, 
deviando dalla loro direzione, potrebbero andare a colpire sul 
capo di chi li maneggia. Uno o più operai armati di palmola 
o tridente di legno regolano la trebbiatura, tirando fuori la 
foglia triturata ed accumulandone sempre della nuova verso il 
centro dell’aia o zona di battitura. Questa operazione col bene- 
ficio dell'atmosfera calda e del chiarore di luna può eseguirsi 
anche di notte. 

La trebbiatura continua finchè le foglie con i loro picciuoli 
non si sieno disgiunte dai rami e triturate, dopo di ciò si se- 
para la foglia triturata dai ramoscelli più o meno rotti, questi 
e quella si ripongono in magazzino arioso ed asciutto dove si 
lascia sino al novembre o al dicembre. In questi mesi sì ri- 
porta sull'aia la frasca come volgarmente si chiamano i ra- 
moscelli, e nuovamente si batte col correggiato. Tanto più 
l’aria è rigida e più intensi sono i geli, e tanto più la tritu- 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 95 


razione è facile. In tale operazione di trituramento dei ramo- 
scelli si può avvantaggiarsi utilmente dei trinciaforaggi, ed anzi 
v' ha chi, senza sottoporla all’azione del correggiato, trincia la 
frasca con tali istrumenti. Questa frasca in un modo o nell’ altro 
triturata, si mescola colla foglia, e questa miscela è il prodotto 
commerciale che può usarsi nelle concie, così direttamente, 
oppure dopo essere stata molita. 

Aia. — L’aia su cui si eseguisce la trebbiatura deve es- 
sere preferibilmente riparata dai venti, affinchè questi non ne 
abbiano a disperdere la parte più leggiera che è anche la più 
pregievole. Inoltre poi è indispensabile che essa sia perfetta- 
mente ammattonata o lastricata, affinchè durante la trebbia- 
tura la terra non si mescoli allo Scotano. I conciatori decisa» 
mente rifiutano il prodotto che contenga della terra, giacchè 
questa, non solo ne aumenta eccessivamente il peso, ma nella 
concia riesce dannosa ai cuoi. Per accertarsi della presenza di 
essa si ricorre ad un espediente pratico e facilissimo; cioè si 
getta porzione di Scotano nell'acqua limpida; se è puro galleg- 
gia totalmente, senza che nulla si depositi; ma se contiene terra 
questa si vede calare a fondo. 

Follatura. — Per l’addietro si usava eseguire dagli stessi 
produttori la follatura dello Scotano, ossia. una specie di moli- 
tura. I nostri montanari la compivano in una specie di madia 
scavata in un grosso tronco di quercia che ha il nome di #rocco 
o pila; che in generale suol essere capace di circa 40 Kg. di 
Scotano. Ve ne sono però anche delle maggiori, sino a conte- 
nerne 100 Kg., come io ne ho viste. L'operazione si compie da 
due robusti giovani situati di faccia, i quali alternando gravi 
colpi entro la pila con mazzuoli di legno a lungo manico ed a 
testa armata di chiodi, oppure con mazzapicchi o magli alti 
circa metri due alquanto ricurvi, a manubrio corto, inseriti a due 
terzi della loro altezza e colla testa armata anche di coltelli. 
Se per caso lo Scotano non fosse stato ben arido, allora sì 
chiudeva nel forno, occorreva però avere grande accortezza af- 
finchè il soverchio calore non lo annerisse e lo rendesse quindi 
inservibile. 

Conservazione. — La conservazione dello Scotano è bene sia 
fatta entro i sacchi, perchè abbia a perdere il meno possibile 
il suo odore caratteristico. I magazzini dove si ammonticchiano 


96 N. STRAMPELLI 


questi sacchi, che in generale hanno la capacità di 100 Kg., 
debbono essere perfettamente asciutti, difesi, con buone imposte 
ed ottimo tetto, dall’imperversare delle meteore. È preferibile 
poi che essi non siano a piano terra; poichè il contatto im- 
mediato del pavimento col terreno, suol sempre mantenere 
alquanta umidità, che può fare annerireé e fermentare lo Sco- 
tano dello strato inferiore dei sacchi a contatto col suolo. 

Questo prodotto, anche in ottimo magazzino, oltre un anno 
di conservazione perde da sè stesso le sue qualità e lo Scotano 
vecchio si vende sempre a prezzo più basso. 

Lo smercio di tale prodotto si fa trasportandolo insaccato 
nei paesi vicini ove esistono concerìe, come a Camerino, a Cal- 
darola, a San Severino, a Tolentino, a Matelica, alla Pergola, a 
Fabriano, a Jesi, in Ancona ecc. ecc. e persino si spedisce anche 
a Roma. 


X. — Produzione. 


Come altrove si è detto la superficie coltivata a Scotano 
nel territorio camerinese non arriva ai 550 ettari, dando an- 
nualmente una produzione media di circa 6000 quintali di fo- 
gliarola, ma in anni in cui la stagione corra piuttosto asciutta 
essa aumenta anche di ‘,. Il valore della fogliarola, anni ad- 
dietro, era salito a 16 ed anche 17 lire il quintale, attualmente 
è di L. 10. Sicchè la somma che si ritrae ora dallo Scotano è 
di circa L. 60000 annue. I paesi ove maggiormente se ne produce 
sono quelli di Serrapetrona, Belforte, Valcimarra, Aria, Pozzuolo, 
Statte, Valdiea, Fiersa, Caldarola, Pievefavera, Castel S. Ve- 
nanzo ecc. Quest'ultimo paesello, piccola frazione di 380 abitanti, 
ritrae annualmente dallo smercio dello Scotano quasi L. 4300. 


XI. — Ragguaglio economico della coltura. 


Nel fare il presente ragguaglio economico mi riferisco ad 
un terreno di media produzione, la quale come si è detto sopra 
è di 12 quintali di fogliarola all’ettaro, dal quale calcolando 
a L. 10 il quintale si avrà il prodotto lordo di L. 120. 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 


Per un Ettaro di scotanara. 


SPESE D’ IMPIANTO. 


97 


N.° 55000 piantine occorrenti per un ettaro di superficie (1) a 


L. 1,00 il migliaio (tale essendo il loro costo 
quando vengono prodotte in vivaio) . 

Dissodamento o lavoro preparatorio all'impianto 
n.° 50 giornate a L. 1,00 

Messa a posto delle Sea misiglo inno 
(Idem) 1 

Potatura n.° 6 giornate i 

Zappatura dell’anno d'impianto smania da dos 
con 16 giornate a L. 0, 60 

Spese generali ed impreviste compreso il aa 
zamento dei germogli periti . 


Totale delle spese d’ impianto 


SPESE ANNUE. 


Zappatura (come sopra) 

Raccolto eseguito da donne in n.° 12 | giomate a a 
I0ANZOn: 

Trasporto del loi tal capo all’ ala, che viene 
eseguito in gran parte dalle stesse donne che 
oprano il raccolto 3 

Trebbiatura sigla frasca con là 

Trebbiatura n.° 5 giornate a L. 1,20. 

Deterioramento degli attrezzi 2 


Totale delle spese annue da riportarsi 


(4) Circa 2400 formelle per ettaro. 


Je 


SAIL 


59, 00 
90, 00 


16, 00 
6, 00 


9, 60 


20, 00 


156, 60 


98 N. STRAMPELLI 
Iiporto: 0. A 3900 


SI AGGIUNGONO: 


Interessi di L. 35 — per 6 mesi al 5 % quali frutti 


di anticipazioni colturali . . I. 0, 87 
Interessi del capitale d'impianto al 5° Ha 156, 60 
al 5 ST Va blo DI 1, 53 


Quota di i uoslizamento delle prc di mipiciol 


__156,60(14-0,05)°°4+-0,05) _ 
(4° Er n) na 
Infortunii 3 % sul prodotto lordo . .. . . NA 4, 00 
Spese di sorveglianza, di amministrazione, cone 

Talice diverse: 34/'sul prodotto Wlordo ARG 4,00 


Imposta fondiaria (estimo L. 12,00; aliquota 28%) 3, 36 


Totale del passivo L. 63,64 


Avrivo in I 00 
PASSIVO 0 ee AO EE 


Utile L. 56,36 


Considerazioni. — La rendita netta annuale di una scotanara 
nelle condizioni suddette è quindi di L. 56,36 per ettaro; cioè 
un ettaro di terreno colla nostra coltura potrebbe computarsi 
del valore di L. 1127,20, quante se ne ottengono capitaliz- 
zando, al 100 per 5, l’anzidetta rendita. 

Se si considera ora che i terreni di montagna nudi o ri- 
vestiti di sola boscaglia valgono da noi al massimo dalle due- 
cento alle trecento lire per ogni ettaro, si rileva che riducen- 
doli a scotanare il valore di essi sarebbe più che triplicato, e 
che quindi la coltura a Scotano, che richiede limitatissime spese 
d'impianto e coltivazione, è altamente rimuneratrice. 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 99 


$. 8. — Ricchezza in tannino. 


Prima di eseguire le determinazioni quì appresso, mi rivolsi 
al chiarissimo prof. Fausto Sestmi, affinchè mi suggerisse il me- 
todo più esatto per il dosamento del tannino. Mercè i suoi 
autorevoli consigli e mercè i libri che egli pose a mia dispo- 
sizione, fui in grado di sapere che, sino ad ora, a tale scopo 
non esiste metodo veramente preciso, e che quello di LòweEn- 
THAL modificato da Monrkr, generalmente usato, è meno defi- 
ciente degli altri, come opina la maggior parte dei chimici. 

Pur tuttavia essendo di comune uso, specialmente presso 
i chimici inglesi, i metodi proposti da Davr e da GerLAND, nelle 
mie analisi seguii, su diversi saggi, questi e quello. 

Volevo seguire il metodo volumetrico con gelatina proposto 
dal chiarissimo prof. Sesrmi (saggio di analisi volumetrica, Fi- 
renze 1863), che certamente avrebbe dato i migliori risultati; 
ma non lo potei perchè esso presenta difficoltà superabili solo 
da chi ha pratica di laboratorio di gran lunga superiore 
alla mia. 

Nel seguente specchio si leggono i resultati da me ottenuti. 


STRAMPELLI 


N. 


100 


ge ‘8 


63 ‘8 | 23 ‘8 


we |W°g 


TO ‘GI | 86 ‘IT 


€92 ‘FI| 9L ‘FI 


8£ ‘FI 


0s9d Ul °/o OUJUUEL 


901 ‘L 


66 ‘e 


€0 ‘6 


88 ‘OT 


Og 


3e ‘IN 


0s8d Ul °/o OUJUUEL 


GRZ) Es 


ria | 2 


7901 | 01 


98 ‘21 | 79 ‘2I 


OVASZII 


0sad Ul °/o OUIUUEL 


T8 ‘GI | 62 ‘I 


80 ‘8I | 8£ ‘8I 


TS ‘86 


osad Ul °/o OUIUUBL 


OSNJUI o°T 


à 


: - ? ° COSVIJ 


Tp gorro osed Ur %o (9 ]I U00 oT0TOUTUTOO 


UT OSSOUL USIA oquewrgensn 249 0g9popord uong 


: ; O ; ) BOSBI] O I[OOSOWIEY 


* 00S0IJ 0USII9) NS 07JOpo1d 0ueZo0g Tp eIT90g 


* Q]I199S OFZUOWLBATYE]OI O OpIIe 0UOTIOY 


ns eggopord 0uegoog Tp (tporootd @ aI]30,{) 21]90H 


GI 


OI 


pue|195) 0Po}9y 


QUIEjIÎ Uo9 


===  _——-— __———____€«.{_m 


9U9A|Od Ul 9jjad UO9 


KA©G 0Popoy 


JQ1UON 9 


IEY}UOMOT] 0PO}9]WN 


UZNYVISOS 


ARIVviORENTEEO REA ZONUIININEVALE 


9II0,p "UUNN 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 101 


Da questi resultati si deduce: 

1. Come sia vero quanto si è asserito al paragrafo 7, III 
(pag.86), riguardo alla qualità della foglia prodotta sul terreno 
asciutto e relativamente sterile e di quella su terreno fresco 
e fertile. 

In questa ultima, infatti, qualunque sia il metodo usato, la 
ricchezza media percentuale in tannino è sempre minore che 
in quella cresciuta su terreno asciutto e sterile. 

2. Come la frasca sia molto più povera in tannino delle 
foglie e picciuoli, quindi naturalmente la qualità del prodotto 
commerciale varierà col variare le proporzioni dei due elementi, 
(frasca e foglia), che costituiscono la mescolanza. 

8. Come da buon prodotto commerciale, con il 55 o 60 per 
cento circa di frasca, pagato a L. 10,00 il quintale, si abbia il 
tannino (LòwentHAL-Monier) in media a L. 0,77 il chilogramma. 


$.9. — Avversità. 


Vicende meteoriche. — Le brinate sono le meteore più av- 
verse al nostro arbusto, massimamente quando, come suole 
avvenire in certe contrade, si manifestano a primavera inol- 
trata, cioè allorchè esso è già provvisto di germogli fogliari. 
In simili condizioni climatologiche la sua coltivazione riesce 
del tutto impossibile. 

La grandine poi, flagello di qualunque coltura, non rispar- 
mia certamente quella di cui ci occupiamo, che anzi, se inter- 
viene, ne può distruggere l’intiero prodotto. 

Parassiti. — La rusticità di questa pianta vale da sè sola 
a non farle temere i parassiti vegetali e quelli animali che pure 
non raramente prendono dimora su di essa. i 

Così fra i parassiti vegetali del /us Cotinus (L.) si nota 
una fanerogama, cioè la specie seguente: 

Cuscuta monogina (4), riscontratavi per la prima volta da 
V. Borpas. 

Fra le crittogame: 

Septoria Rhoina (Spherioidea-Scolescopora), che produce sulle 
foglie delle piccole macchie bianchiccie contornate da un mar- 
gine nero. 


(4) V. Borpas. Vedi botanise. Jahrb., vol. XIII, pag. 395. 


102 N. STRAMPELLI 


Phytisma Cotini (Discomyceta-Phacidica. Scolecospora). At- 
tacca essa pure le foglie. 

Tutte le specie nominate però non si presentano che raris- 
simamente. 

Fra gli insetti che vivono sullo Scotano avvi: 

Calophia rhois, psillideo, rinvenuto la prima volta dal dott. 
Franz Lòw sul Rhus Cotinus (L.) e da lui studiato e descritto (1). 
Dapprima egli lo riferì al genere Psylla e la chiamò Psylla 
rhois, osservando che tale specie tra tutte le Psy/lae era quella 
che presentava minori dimensioni. Da ulteriori studi fatti su 
esso insetto egli rilevò che le larve sono più appiattite, più 
larghe e più corte di quelle delle Psy/lae, da cui diversifica an- 
che per la differente inserzione delle antenne, per modo che 
fu indotto a farne un genere nuovo, Calophia, mantenendo per 
la specie il nome, precedentemente usato, di rhoîs (2). Le im- 
magini di tale insetto svernano nel terreno ed in primavera 
ricompariscono sulle foglie dello Scotano preferendone la ner- 
vatura mediana e disponendovisi in colonie. 

Quivi si accoppiano e depongono le uova, dalle quali schiu- 
dono le larve, che alla lor volta in giugno sì trasformano in 
insetti perfetti. Le larve sulla pagina inferiore delle foglie, pre- 
ferendo quelle dei rami più vicino a terra. Le foglie attaccate si 
aggrinzano e spesso si mostrano rigonfiate e vesciculose. 

Questo insetto è ben poco diffuso e dobbiamo augurarci lo 
sia sempre quanto ora. 

Lo stesso Lòw osservò a Kalendberg presso Moddling, pure 
sullo Scotano una Cecidomia producente galle, ma senza darle 
un nome specifico perchè incompletamente studiate (3). 

Le larve di questa Cecidomia con le loro punture ne defor- 
mano i fiori. Il tubo calicino ed i petali divengono carnosi, in- 
grossati, generalmente di un bel color porpora, e formano, con 
i margini collegati fra loro, una specie di capsula a parete spessa, 
oviforme del diametro di mm. 2,5, di cui ciascuna dà ricetto a 
3 o 4 larve. Queste, che sono di color bruno-pallido, distrug- 


(4) Dott. Franz Low. Beitrige zur Kenntinis der Psylloden, nelle Verhandl. der 
k. k. zool. - botan. Gesellschaft in Wien, XXVII B. Jahrg. 1877 (Wien 1878), p.148. 

(3) In. Zur Systematik der Psilloden (Ibid. Jahrg. 1878 a p. 598. 

(3) In. Ueber neue Gall. ecc. ( VerhandI. Zool. Bot. Ges. Wien, XXX, 1880). 


IL RHUS COTINUS E SUA COLTURA NEL CAMERINESE 103 


gono gli organi della fruttificazione e quindi non arrecano che 
lievissimo danno alla coltura del nostro vegetale. 

Possono poi trovarsi sul Cotino individui delle specie: 

Capnodis cariosa (F8r.). Vive nei suoi diversi stati sulle ra- 
dici e sulle ceppaie. Alquanto nociva. 

Chithra paradoxa (Ozr.) e Clithrata ricoruus (Ozr.), Clitridei che 
attaccano le foglie. 

Hylesinus fraxinus (FBr.). Attacca esso pure le foglie. 

Ed altre, tutti di ben poca importanza. 

Da ultimo è necessario far osservare-che gli animali dome- 
stici tutti rifiutano le foglie dello Scotano; cosicchè anche da 
questo lato la sua coltura nulla ha a temere. 


$. 10. — Conclusione. 


Ogni regione, ogni angolo d’Italia, tanto diversa nella sua 
configurazione, varia nella sua struttura geologica e quindi dif- 
ferente nella natura del terreno ed in principal modo del clima, 
ha per così dire come caratteristica, qualche speciale coltura, 
che imprime nel luogo una importanza economica ed industriale. 

Invero in alcuni poggi della Sicilia vi alligna splendidamente 
il Ehus coriaria (L.) il quale, con i suoi cospicui prodotti, for- 
nisce una materia conciante pregiata da noi ed all’estero. 

Al pari dei poggi siciliani l’ Appennino camerinese è reso 
men brullo ed aspro dalla fiorente vegetazione del E%us Co- 
tinus (L.), il quale non posso dispensarmi dal raccomandare agli 
intelligenti agricoltori, affinchè la sua coltura vieppiù si estenda. 
Così, oltre al porre riparo, per esso, alla invadente calvizie 
dei nostri monti, per inconsulti disboscamenti, ci permetterà 
di utilizzare e di aumentare in valore, per la non trascurabile 
rendita che ci offre, molti spazi di terreno, i quali, per la loro 
procurata o naturale sterilità, resterebbero incolti e non ci for- 
nirebbero che un magro pascolo, il quale non renderebbe nem- 
meno tanto da permettere all’ agricoltore di soddisfare alle 
imposte. 

Riflettendo che, in alcune delle nostre località, si preferisce 
piuttosto privare della propria corteccia rigogliose piante di 
quercie, per averne materia conciante, sento il bisogno d’im- 
precare contro questa barbara pratica, che mette a dura prova 
l’esistenza di una pianta. E se la natura prodigò a questa uno 


104 N. STRAMPELLI 


spesso tessuto corticale è evidente che 1’ ufficio che questo 
compie nell'economia vegetale è importante, e quindi l’ignara 
mano che abusa strappandoglielo deve essere naturalmente ri- 
compensata col decesso di essa pianta. Si convinca adunque 
l'agricoltore ad allargare per quanto gli sarà dato la coltura 
di questo arbusto, umile, ma altrettanto utile in diversi rami 
d’industria, non trascurati nel nostro circondario; si persuada 
anche che non indifferente sarà il provento che otterrà dalla 
maggior diffusione delle scotanare su terreni ove nemmeno la 
parca capretta troverebbe di che sfamarsi. 

Siccome ho posto in confronto i due Rus l'uno proprio 
della Sicilia e l’altro del Camerinese, non vorrei che a qual- 
cuno dei nostri agricoltori venisse in mente, allettato dai mag- 
giori prodotti, d’introdurre nel nostro circondario il Corzarza, 
il quale nato e cullato in climi più caldi del nostro vivrebbe 
a disagio nella nostra zona. Un esempio patente di questo in- 
successo, che si verificherebbe certamente anche da noi, lo si 
riscontrò in Toscana a Port’ Ercole sul monte Argentaro in 
una tenuta del sig. Vincenzo Ricasoti, il quale avendo impian- 
tato un sommacheto in quella località, fu costretto, a suo mal- 
grado, nel 1870 ad estirparlo. Poichè il suo prodotto non fu 
accolto benevolmente in commercio, per la sua deffcienza in 
tannino. Il benemerito prof. Becni per mezzo di analisi com- 
parative fra il sommaco di Sicilia e questo prodotto in Toscana 
ne dimostrò chimicamente la inferiorità e giustificò così il ri- 
fiuto da parte dei conciatori. Ecco quanto influiscono i lumi 
della scienza sull'arte agraria; essi avvalorano la razionalità 
o irrazionalità economica di una coltura. 

E se la natura volle provvidenzialmente distribuire sulla 
faccia della terra svariati elementi di produzione, affinchè l’uomo, 
l’ultima evoluzione dell’ energia biologica, trovasse in tutto 
quanto lo circonda un grande monumento, in cui stupenda è 
la proporzione delle parti, intima la dipendenza, costante il 
concetto del vero, lo fece affinchè l'organismo umano ponendo 
le sue condizioni in armonia con quelle del suolo natale vi si 
adattasse a vivere, profittando di tutto anche della più umile 
erbetta. 


INDICE 


UNIRE ODUZIONES Et A SCO Be e Pap 75 
$. 1. — Descrizione e caratteri botanici del Rhus Cotinus (L.) . >» ivi 
$. 2. — Patria distribuzione geografica e clima . . . ... >» 78 
$. 3. — Rapido sguardo sulla distribuzione geologica del genere Rbus 

e delle specie fossili affini o identiche al Rhus Cotinus (L.) >» 79 
$. 4. — Terreno ove vive il Rhus Cotinus (L.) nell’ Appennino 

CIO SI E REI RR le; 81 
$. 5. — Proprietà ed usì del Rhus Cotinus (L.) .(. . ... >» 82 


$. 6. — Ove si utilizza il Rhus Cotinus (L.) come prodotto fo- 


VESTA E RIE MORO OR e N, 85 

$. 7. — La coltura del Rhus Cotinus (L.) nel Camerinese . . >» 86 
Inc-=#Estensioneldellafcolturatio ti le a ivi 

EE SOnamno della CO RR n nd ivi 

III. — Terreno da adibirsi a tale coltura . . . . .. >» ivi 

IV. — Moltiplicazione e propagazione dello Scotano . . >» 87 

VA —mpilantordell'axscotanara tati ee. 89 

VI. — Durata, avvicendamento e consociazione. . . . >» 90 

VII. — Cure culturali e concimazione . . . . . .. >» 91 

WII =sRaccoltatdeNprodotto ARM e o 92 

IX. — Tecnolgia e conservazione del prodotto . . . . >» 93 

NEC IPTO NUZIONO RR e IN I I NE I 96 

XI RAsguasliofeconomicoR MMM A NS ivi 

SMR Rie RAMARRI 99 


So È ZII RARE 5 SRO 101 
SRI CONCIUSCONENE SARA e I 103 


OSSERVAZIONI 
SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI 


DEL MASSETANO 


(MONTEBAMBOLI, CASTEANI E RIBOLLA) 
NOTA 
DEL DOTT. PROF. GIUSEPPE RISTORI 


A chi voglia intraprendere uno studio cronologico sulle for- 
mazioni lignitifere del miocene italiano, basandosi su quello 
che fino ad oggi è stato scritto in proposito, si trova davanti 
alle opinioni più disparate specialmente riguardo al preciso oriz- 
zonte geologico da assegnarsi a queste od a quelle. Il farne quindi 
un riassunto come introduzione a questo studio cronologico e ge- 
netico delle ligniti mioceniche di Montebamboli, Casteani e Ri- 
bolla, se non riuscirebbe affatto superfluo sarebbe per lo meno 
inadeguato alla modesta intonazione di questa nota. Risparmio 
quindi al lettore quello che ciascuno studioso può fare da sè e 
mi limito all'esposizione delle mie idee confortate dalle osser- 
vazioni, che mercè la squisita gentilezza ed ospitalità dell'ing. 
Cortese direttore delle miniere di Casteani e di Ribolla, ebbi 
agio di fare. 

È ormai noto come in Italia si abbia sviluppatissima una 
formazione del miocene prevalentemente continentale. Questa 
formazione, distinta col nome di piano Sarmatiano, comprende 
terreni, per caratteri litologici, molto diversi: la formazione 
solfifera della Sicilia e della Romagna, quella ancora più estesa 
dei gessi e finalmente quella del salgemma. Im connessione più 
o meno direttacon questi terreni prevalentemente argillosi ed 
anche marnosi compaiono qua e là i tripoli o le ligniti in ban- 
chi e lenti più o meno estese ed importanti. 

I depositi lignitiferi però, al pari dei tripoli con pesci, stanno 
alla base della formazione solfo-gesso-salifera sopraindicata come 


OSSERVAZ. SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI DEL masseTAnNo 107 


ritiene anche il De-Boswiasxi (1) e con lui quasi tutti i nostri Geo- 
logi. I tripoli però vanno quasi sempre disgiunti dalle ligniti per 
modo che i suindicati terreni solfo-gesso-saliferi sono superiori o 
agli uni o alle altre. Il carattere faunistico di queste due forma- 
zioni è evidentemente molto diverso, per cui non ci è possibile 
giudicare, della relativa età di ciascuna e tanto meno del loro 
sincronismo. Ad ogni modo resta sempre il fatto che la serie dei 
terreni che costituiscono il Sarmatiano avrebbe la sua base o 
sulle ligniti o sui tripoli e si svolgerebbe press’a poco con questa 
successione ascendente: 1.° Marne a Congerie; 2.° Ripetizione 
delle ligniti con carattere terroso; 3.° Argille indurite con solfo 
e salgemma; 4.° Formazione gessosa commista ad argille con 
Melanopsis; 5. Argille a Pteropodi. 

Nell’ enumerazione dei terreni costituenti una formazione 
così eteropica ne abbiamo tralasciati alcuni, i quali mentre 
non presentano l’importanza di sviluppo dei primi, per noi e 
specialmente per le località qui prese in esame, non hanno mi- 
nore interesse. Questi sono appunto quei conglomerati ocracei 
che si trovano sotto e qualche volta anche sopra alle marne a 
Congerie del Massetano, e di altre località non molto lontane. 
Essi conglomerati, ove esistono, riposano o sulle ligniti, o sulle 
rocce eoceniche rappresentate dai calcari alberesi, dagli schisti- 
maruosi e dai conglomerati ofiolitici. 

Fra tante formazioni che si succedono con notevole inco- 
stanza le sole marne a Congerie, così diligentemente studiate 
dal prof. CapeLLINI, sembrava che costituissero il vero capo saldo 
per la relativa posizione stratigrafica di questi terreni, così diversi 
per genesi e per caratteri litologici; ma per un complesso di 0s- 
servazioni paleontologiche e stratigrafiche posteriormente fatto, 
si ha ragione di credere che dette marne a Congerie non deb- 
bono riferirsi tutte alla stessa età, nè tutte occupare uno stesso 
orizzonte geologico: infatti le specie di Dreissene che vi sì tro- 
vano sono state riferite da vari autori a specie diverse, e questo 
è avvenuto non già per una diversa apprezzazione dei caratteri 
specifici, ma perchè gli esemplari provenivano da località di- 


(1) De-Besniasti. — La formazione gessosa e il secondo piano mediterraneo in 
Italia. Soc. Tosc. di scienze nat., proc. verbali 14 novembre 1880. 


Sc. Nat., Vol. XV 8 


108 G. RISTORI 


verse (1). Nel Museo di Pisa ho ritrovate alcune marne pro- 
venienti da Montebamboli in cui il prof. MexecHINI aveva rico- 
nosciuta la Dreissena Brardi; mentre il CapeLLinIi nelle marne 
dei monti livornesi e di Castellina Marittima notava specie di- 
verse, fra cui la Dreissena Deshayesi Car., che egli credè iden- 
tica a quella di Montebamboli, mentre secondo lui non è da 
confondersi colla D. Brardi. Da tutto questo e da molti altri 
studi e ricerche resulta che molto probabilmente gli strati a 
Congerie di Montebamboli e di Casteani che a volte compaiono 
superiori a volte sottostanti alla formazione lignitifera non sono 
essi stessi caratterizzati delle specie identiche di Congerie. Non 
insisto ulteriormente su questo proposito, giacchè il miglior modo 
sarebbe quello di studiare nuovamente e comparativamente 
quella fauna malacologica. 

Quello che si può affermare è che gli strati a Congerie si 
ripetono a più orizzonti e sono probabilmente da riferirsi a 
diversi piani del miocene. 

La flora e la fauna che si ritrova nei banchi di lignite di 
Montebamboli, Casteani e Ribolla sono indirettamente la prova 
di questo modo di vedere, come io spero di potere dimostrare 
mediante l’esame delle medesime. 

Per procedere con ordine principierò dal riepilogare i vari 
terreni su cui in diverse località ed anche in una stessa loca- 
lità si vedono poggiare gli strati lignitiferi. A Montebamboli, 
che per l’addietro fu la miniera più esplorata, il lignite riposa 
quasi direttamente sui calcari eocenici o sopra un conglome- 
rato ricco di elementi serpentinosi ed impastato da argilla 
ocracea. Il deposito lignitifero si inizierebbe con depositi mar- 
nosiì ricchi di cemento calcareo e di bitume ove sì ritrovano 
spesso fossilizzate foglie di piante specialmente fanerogame an- 
giospermee e gimnospermee insieme ad opercoli di Bitinie non 
commiste come altrove a Congerie. A Casteani ed a Ribolla 
secondo l'osservazione dell'ing. Cosrantino Haupr (?), che fu di- 


(4) Anche al Casino (Siena) sono stati trovati strati a Congerie caratterizzati da 
una specie di notevoli dimensioni e da non confondersi con le specie delle vere e pro- 
prie marne qui prese in esame. — PanraneLLI. - Sugli strati miocenici del Casino e 
considerazioni del miocene superiore. R. Acc. dei Lincei, anno 1878-79, Volume III, 
6 aprile 1879. 

(2) C. Haupr. — Osservazioni sulle Miniere Carbonifere dell'impresa mineraria Fer- 
rari nelle Maremme Toscane. Boll. del R. Comitato Geologico d’Italia. Vol. IV, An- 
no 1873, pag. 200. 


OSSERVAZ. SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI DEL MASSETANO 109 


rettore di quelle miniere, la serie dei terreni sarebbe la se- 
guente: — Argilla con straterelli di arenaria. (Primo strato 
carbonifero) — Argilla (Secondo strato carbonifero) — Argilla 
con puddinga — Conglomerato rosso (Gonfolite) — Argilla (Mat- 
taione) — Calcare carbonifero (Terzo strato carbonifero) — Ar- 
gilla (Quarto strato carbonifero) —Argilla che posa immediata- 
mente sull’alberese dell’Eocene. — Questa serie viene accettata 
anche dal Lorti per quanto egli giustamente osservi che i suoi 
membri non oltrepassano il miocene medio (1). È del resto le- 
cito discutere sulla serie constatata dall’ ing. Haupr special- 
mente nella parte che riguarda la ripetizione e l'alternanza 
degli strati legnosi come sulla continuità e sull’estensione del 
terzo strato legnoso, il quale riposerebbe su quel calcare car- 
bonioso ricco di fossili che io ritengo come una marna molto 
calcarifera e ad un tempo bituminosa. Prima di tutto non è più 
possibile oggi, dopo lo studio della fauna e della flora racchiusa 
in quelle ligniti, assegnare i diversi strati ad età diverse, come 
pure è da dimostrarsi la continuità e l'estensione degli strati 
legnosi più profondi, i quali al pari di quelli più superficiali 
sembrano mostrarsi qua e là interrotti. 

Le ligniti fino ad ora escavate a Montebamboli ed a Ca- 
steani hanno dato una quantità di fossili veramente notevoli, 
e in tutti gli strati si ritrova la medesima fauna ed anche la 
medesima flora, la sola miniera di Ribolla, per quello che mi 
costa, non avrebbe, fino ad ora, dato alcun resto organico ani- 
male. Le condizioni stratigrafiche, come pure la grande vici- 
nanza a quelle di Casteani, che ne è così ricca, escludono as- 
solutamente che si tratti di una formazione diversa e tanto 
meno referibile a diversa età. Non insisto su questo, che a me 
sembra assolutamente ovvio e passo senz'altro all'esame della 
fauna e della flora. 

Il F. Mayor in una sua pubblicazione (?) ha studiati alcuni 
mammiferi di Montebamboli e di Casteani e dall'insieme di quella 
fauna allora conosciuta veniva alla conclusione che doveva ri- 
ferirsi alla parte superiore del miocene medio, se pure alcuni 


(4) Lormi. — Swi terreni miocenici lignitiferi del Massetano. Boll. R. Comitato 
Geologico. Vol. VII, Anno 1876, pag. 31. 

(2) F. Mayor. — La faune des Vertebrés de Montebamboli. Atti Soc. It. Sc. nat. 
Vol. XV, 1872. 


110 G. RISTORI 


tipi come l’Anthracotherium trovato nelle ligniti di Casteani non 
denotava un orizzonte più antico; però a questo proposito sog- 
giungeva che detto genere era stato ritrovato anche ad Ep- 
pelsheim a dire del Kaup. Questa opinione fu professata anche 
dal Mexzeami (!), il quale forse era disposto ad assegnare alle 
ligniti massetane un orizzonte del miocene ancora un poco più 
antico. Il De-Srerani (?) anche ultimamente persiste nella sua 
opinione e riferisce quelle ligniti e la fauna in esse racchiusa alla 
parte superiore del miocene medio. 

Avanti che il dott. Antonio WEITHOFER si accingesse a studiare 
di nuovo questa fauna la questione pareva risolta nel senso che 
abbiamo indicato. Egli però pretese correggere i presunti er- 
rori del F. Mayor e quelli ancora (secondo lui) più notevoli del 
MexnecHNI per venire alla conclusione, forse preconcetta, che essa 
fauna aveva il suo riscontro in quella di Pikermi da lui stesso 
in parte studiata. Le considerazioni su cui egli si basa per rin- 
giovanire di tanto la fauna di Montebamboli e Casteani sono 
secondo me di un valore molto discutibile, per cui pare oppor- 
tuno esaminarle. 

In complesso la fauna di Montebamboli e di Casteani si com- 
pone delle seguenti specie, che io senz'altro riunirò, perchè iden- 
tica in tutti i suoi membri: 


1. Oreopithecus Bambolii GeRv. 10. Anas lignitiphila SALVAD. 
2. Lutra Campani Mena. (Enhydrio- | 11. Crocodilus Bamboli Rist. 
don secondo il WEITHOFER). 12. Emys depressa Rist. 

3. Mustela Majori WrITA. 13. Emys Campani Rist. 

4. Hyenarctos antr hacitis WEITE. 14. Emys parva Rist. 

5. Antilope gracillina WEITE. 15. Testudo sp. 

6. Antilope Haupti Mas. 16. Trionyx Bambolii Risr. 
7. Antilope sp. (Paleorya?). . 17. Trionyx senensis Rist. 

8. Anthracotherium magnum Cuv. 18. Trionyx Portisi Rist. 

9. Sus cheroides Pow. 19. Perca? sp. 


L'’Oreopithecus Bambolii non è niente affatto da porsi vicino 
al vivente Cynocephalus. Quest’opinione è dello ScHLosseR e pare, 


(!) Descrizione dei resti di due fiere trovati nelle ligniti mioceniche di Monte- 
bamboli. Atti Soc. It. Sc. nat., Milano 1862. 

(2) De-Srerani. — Les Zerrains tertiaires sup. du Bassin de la Méditerranée. 
Ann. de la Soc. géol. de Belgique. t. XVIII, 1891, Mémoires. 


OSSERVAZ. SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI DEL MAssETANO lll 


senza discussione, accettata dal Wrrzorer, ma fu da me com- 
battuta in modo esauriente (!); giacchè dimostrai coi caratteri 
anatomici dei denti che avevamo da fare piuttosto con un an- 
tenato degli odierni Antropomorfi. 

La Lutra Campanii descritta e figurata dal MenEGHINI può 
essere che appartenga come vuole il Werrzorer al genere Enhy- 
driodon Farc. però egli lo dimostra più con confronti di misure 
che con veri caratteri anatomici. Il confronto diretto dei resti 
fossili con uno scheletro di Enkydris vivente sarebbe la cosa 
più opportuna per risolvere la questione; ma simili scheletri 
sono ben rari trattandosi di un genere in via di estinzione. Le 
differenze che pure il F. Mayor ritrova fra questo fossile e la 
Lontra vivente non mi paiono sufficenti per riferirlo al genere 
Enhydriodon, le di cui affinità sarebbero, secondo me, da ri- 
cercarsi nel genere vivente surricordato, il quale per quanto 
sia divenuto raro, pure è indiscutibile che vive ed è sempre 
vissuto in climi glaciali, e ha sempre avuto abitudini esclusiva- 
mente marine. L’epoca miocenica non ha carattere glaciale in 
nessuna delle nostre regioni, e le ligniti di Montebamboli son 
ben lungi dal racchiudere faune e flore di carattere glaciale e 
tanto meno marino. 

Riguardo al Hyenarctos abbiamo pure incertezze sull’ as- 
segnazione generica di quel fossile. Il Bramviure ed il MeneGHINI lo 
riferiscono ad un Amphicyon. Il WrrrHorer, ritenendo come più 
giusta l'opinione del Gervas, volle riferire il fossile ad un 
Hycenarctos; ma vi trovò notevoli differenze colle specie fino ad 
ora ritrovate in Asia ed in Europa, tantochè dovè assegnarlo 
ad una nuova specie. 

Maggiore importanza per noi è la presenza del genere Sus, che 
il WerrRorER crede conveniente non prendere in esame. I resti 
fossili riferiti a questo genere furono assai diligentemente esa- 
minati dal F. Mayor, il quale accenna come Surss vi trovasse 
notevoli caratteri dentari che rammenterebbero il genere /yo0- 
therium trovato nelle ligniti di Cadibona, quantunque i carat- 
teri distintivi dei due suaccennati generi a volte si riscon- 
trano più o meno evidentemente in molti suidi fossili miocenici 
e nelle specie viventi. Del resto questo carattere atavico che 


(1) Risrori. — Le Scimmie fossili italiane. Boll. R. Comitato geologico Italiano, 
Anno 1890, n. 5-6 e 7-8. 


JI?) G. RISTORI 


ritorna nel genere vivente non deve maravigliare dal momento, 
che esistono anche altri animali i quali si presentano con questi 
peculiari caratteri, che saltuariamente si ripetono attraverso 
le discendenze. Quello che preme a noi di notare è che il Sus 
choeroides Pow. di Montebamboli rammenta specie caratteristiche 
del miocene inferiore, mentre nettamente si distacca dai Sus 
pliocenici più conosciuti come p. es. il Sus Strozzi Mare. 

Le osservazioni poi che si potrebbero fare sul ridotto sviluppo 
dei canini ci condurrebbero a provare ulteriormente che il 
Sus cheroides Pow. di Montebamboli e di Casteani ha l'impronta 
delle forme più antiche ed assolutamente si discosta dalle forme 
plioceniche quaternarie e viventi sempre armate di robusti 
denti canini. Una monografia comparativa che si facesse sui 
Sus dimostrerebbe chiaramente l’evoluzione singolare di questo 
genere dal miocene all’attualità. A questo, in parte, attende il 
capitano Bosco ed è a lui che lascio la parola, limitandomi alle 
suaccennate osservazioni per me sufficenti a dimostrare l’anti- 
chità della forma ritrovata nelle ligniti in parola. 

Al genere Sus fa seguito il genere Anthracotherium rap- 
presentato pure in queste ligniti. La presenza di questo genere 
è indubbiamente di grande valore dal momento che il suo mag- 
giore sviluppo deve ricercarsi nel miocene inferiore e dal mo- 
mento che in Italia non è stato mai ritrovato nelle formazioni 
del miocene superiore, le quali come quelle del Casino e di Sar- 
zanello e di altre località hanno dato invece resti di Hipparion. 
Di contro a questa importante osservazione per località così 
prossime starebbe il fatto notato dal Masor e accentuato dal 
WerrHorer, che il genere Anthracotherium è stato pure ritrovato 
negli strati di Eppelsheim. Questi strati però contengono in- 
sieme a specie del miocene superiore, specie di orizzonti più an- 
tichi e costituiscono una fauna cronologicamente assai discutibile 
e forse peculiare per quella località. 

Nulla aggiungono e nulla tolgono alle considerazioni cro- 
nologiche i resti di uccelli, hanno invece un valore non indif- 
ferente quelli abbondantissimi di rettili, che io stesso ebbi 
agio di studiare ultimamente. Il cocodrilliano appartiene al vero 
genere Crocodilus ed ha qualche affinità colle specie mioceniche 
della Stiria, mentre si allontana molto dalle specie ritrovate nei 
terreni pliocenici, le quali hanno maggiore somiglianza colle vi- 

venti. 


OSSERVAZ. SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI DEL MASSETANO 1183 


Osservazioni e considerazioni di maggior valore si possono 
fare per i Cheloniani: questi fino ad oggi sono rappresentati 
nelle ligniti di Montebamboli e Casteani da tre specie ben di- 
stinte di 7y0nyx, da una quarta specie dubbia e insufficiente- 
mente caratterizzabile, attesa la povertà e la cattiva conser- 
vazione dei resti fossili e da tre forme di Em:id:i ed una di Te- 
studo. Ciascuna delle tre specie di 7xzonyx che io ho dovuto di- 
stinguere con nuovi nomi ha notevoli somiglianze con specie 
pertinenti a faune del miocene medio ed inferiore tanto della 
Svizzera che della Stiria: infatti la Tyionyx Bambolii Rist. molto 
.81 avvicina alla 7. rochettianus Portis. di Rochette, la 7. Se- 
nensis Rist. pure di Montebamboli è specie assai vicina alla 
T. styriacus Pers. e finalmente la 7. Portisiù ha somiglianze 
colla forma eocenica descritta dall’ Owen 7. marginatus quan- 
tunque presenti pure delle somiglianze colla 7. propinquus Rist. 
proveniente dalle ligniti del Casino; ma quest’ultima è molto 
più vicina alle specie viventi come può facilmente riscontrarsi 
nello studio dettagliato che io ne ho fatto (1). 

Passiamo alle Emidi, anche queste sono rappresentate nelle 
ligniti nostre da tre ben distinte specie, a cui si devono ag- 
giungere alcuni resti di piastre ossee appartenenti ad una Te- 
studo. La prima di queste specie è l’Emys depressa Rist. Questa 
è una forma molto singolare. Notevole per dimensioni ram- 
menta nella disposizione delle piastre dello scudo l’ E. sulcata 
Porr. delle ligniti svizzere e lE. levis di Owen dell’eocene supe- 
riore; nel piastrone invece, la disposizione delle placche cornee 
di fronte alle piastre ossee rammenta i generi Platemys — Clem- 
mys proprii tutti di terreni miocenici. Essi generi presentano 
solo qualche affinità, nelle odierne faune, col genere Ocadia 
della China. La seconda specie E. Campanii Rist. ha delle di- 
mensioni quasi straordinarie e rammenta lE. lignitarum di 
Porris. La terza Emys parva Rist. ha maggiori affinità coi 
tipi oggi viventi in Italia, ma più di tutto rammenta l' E. 
Laharpi Picr. Hum. pure ritrovata in formazioni del miocene 
medio. 


(4) G. Risrori.——I Cheloniani fossili di Montebamboli e Casteani.— Con appen- 
dice sui Cheloniani fossili del Casino (Siena). Pubblicazioni del R. Istituto di Studi 
Sup. in Firenze. Sezione Scienze fisiche e nat. Firenze 1895. 


114 G. RISPORI 


Resterebbero ora ad esaminarsi i pesci; di questi però ab- 
biamo resti molto incompleti, nè ancora esiste uno studio det- 
tagliato per potervi basare attendibili considerazioni faunistiche 
e cronologiche. Lo stesso si dica degli invertebrati e specialmente 
dei molluschi d’acqua dolce fossilizzati nelle formazioni in que- 
stione. Di questi e specialmente delle Congerie converrebbe fare 
uno studio comparativo, il quale avrebbe grande valore. Ad 
ogni modo le considerazioni a cui ha dato luogo l'esame minuto 
della fauna dei vertebrati, non potrà, io credo, per nessuna ra- 
gione essere smentito e trovare contradizioni in quello degli 
invertebrati. ir E 

Avanti però di lasciare questo esame paleontologico voglio 
aggiungere qualche considerazione sulla flora di queste ligniti, 
la di cui ricchezza ed il carattere sono veramente meritevoli 
di esame. 

Il Dorr. Peruzzi nelle marne calcarifere a contatto alle. li- 
gniti potè determinare le seguenti specie: 


Platanus aceroides HrrR. Quercus Etymodrys Una. 
Populus latior AL. BR. Sparganium Braunii HeER. 
var. cordifolia. Torodium dubium HrER. 
Salix Lavateri HrER. Sequoia Langsdorfi SteRB. 
Quercus valdensis HEER. Pteris radobojana Une. 

» Buchi WrB. Dryandroides hatiefolia? 


Nelle marne trovò le seguenti specie: 


Typha latissima An. BR. Zosterites murinus Une. 
Glyptostrobus europeus HrER. Pinus Lardyona Herr. 


Laurus princeps HEER. Chamerops helvetica HER. 
Alnus Kefersteini Una. 


A questa lista di piante molte altre se ne potrebbero ag- 
giungere, giacchè tanto il Museo di Pisa come quello dei Fisio- 
critici di Siena posseggono molti esemplari di filliti provenienti 
dalle ligniti di Montebamboli e Casteani e dalle marne che le 
coinvolgono. Per quello che mi costa da un rapido esame su 
questa flora, fatto anche sui luoghi, essa ha un carattere molto 
singolare, giacchè alle piante che indicherebbero un clima umido 
e caldo come le protallogame, si aggiungono fanerogame di- 


OSSERVAZ. SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI DEL MAssetANO 115 


cotiledoni e monocotiledoni a fusto legnoso di paesi caldi, come 
Fenicace e Laurine, accanto a famiglie e generi di zone tem- 
perate come Quercacae ed altre Amentifere, alle quali si me- 
scolano anche Gimnosperme e più specialmente Conifere. Stando 
però a quello che positivamente si conosce, questa flora è assai 
diversa da quella del Casino (Siena) e con questa presenta sol- 
tanto 5 o 6 specie in comune, ne ha pure 3 o 4 in comune 
colla flora del Senogalliese illustrata dal Massaronco; le marne 
superiori poi presentano anche 2 specie in comune colle flore 
plioceniche del Valdarno superiore ed inferiore, le quali specie 
alla lor volta sono fra quelle che fecero credere allo StHÒR, che 
nel Valdarno superiore medesimo avessimo un orizzonte mio- 
cenico. 

Nel resto la flora è speciale e i suoi raffronti più nume- 
rosì gli presenta con quella miocenica svizzera illustrata dal- 
l’Herer, colla quale, ha in comune non meno di una dozzina di 
specie. 

Senza dare molta importanza stratigrafica a queste consi- 
derazioni paleofitologiche, le quali sono sempre basate su de- 
terminazioni esatte solo relativamente; non si può negare in 
complesso a questa flora il suo spiccato carattere di miocenità. 

Per tutte queste considerazioni a me parrebbe, che il rin- 
giovanimento delle ligniti in parola non fosse molto opportuno; 
e vorrei rivendicare la opinione di tutti quelli che le asse- 
. gnarono al miocene medio parte superiore. Le mie argomen- 
tazioni stante l’incompleto studio della fauna e della flora non 
saranno esaurienti, ma mi sembra però che abbiano non poco 
valore e nel loro complesso notevolmente indeboliscano l’opi- 
nione che ultimamente sembrava prevalere fra i Geologi, cioè 
che quelle ligniti fossero a referirsi al miocene superiore e, 
per qualcuno, anche al mio-pliocene. 

Esaurita la parte cronologica di questa breve nota vengo 
a dire qualche cosa sull’origine delle ligniti; giacchè anche su 
questa è ultimamente sorta qualche controversia e sono state 
annunziate, sostenute e generalizzate idee e teorie, le quali si 
pretendono adatte a spiegare la formazione e l’origine di tutte 
quante le ligniti terziarie. Queste teorie in massima non nuove, 
poichè da altri ed altre volte sostenute per spiegarsi la genesi 
della formazione carbonifera e dei bacini carboniosi, acquistano 


116 G. RISTORI 


carattere di novità dal momento che si tenta applicarle alla 
formazione di tutte quante le nostre ligniti terziarie. — È cpi- 
nione di alcuni distintissimi Geologi ed Ingegneri di miniere, che 
le nostre ligniti terziarie traggano la loro origine da vegetazioni 
torbose molto potenti. Questa loro opinione è principalmente 
basata sullo sviluppo veramente colossale che alcune torbiere 
assumono nei paesi nordici. Per analogia quindi vorrebbero che 
anche la maggior parte delle nostre ligniti terziarie trassero in 
massima una simile origine. Il problema sarebbe facilmente so- 
lubile se l'osservazione della lignite costituente i banchi ci desse 
facile modo di scoprire la sua intima costituzione; ma la cosa 
non è così semplice come a prima giunta si potrebbe credere, 
giacchè le ligniti terziarie italiane, meno le plioceniche, si pre- 
sentano molto compatte, molto avanzate nella carbonizzazione 
e pochissimo trasparenti, anche se ridotte a sottilissime lamine 
con tutte le cautele che la tecnica insegna per eseguire di esse 
preparazioni microscopiche. Le osservazioni al microscopio quindi 
non riescono molto soddisfacenti, nè possono essere assolutamente 
persuasive e convincenti; per quanto le ligniti di Montebamboli, 
Casteani e Ribolla, di cui più volte tentai le preparazioni micro- 
scopiche e l’esame consecutivo, lascino vedere spesso tessuti fi- 
brosi e fasci fibro vascolari da mettere molto in dubbio che esse 
siano costituite esclusivamente o quasi, da sfagni e da conferve 
al pari delle più comuni torbe quaternarie e recenti nostrali o 
del centro d'Europa. Quello però che non tanto chiaramente si 
rivela al microscopio apparisce forse di maggiore evidenza all’e- 
same diretto od a quello dell'occhio armato di una semplice lente 
d'ingrandimento. Quest'esame rivela che fra l'ammasso di bru- 
caglie potentemente compresse e rese compattissime, e fra cui 
potranno essere anche piante palustri specialmenre conferve, 
esistono masse ancora più compatte più lucenti e con aspetto 
fibroso bene spiccato e distinto. Questa apparenza non può es- 
sere data che da fibre legnose e quindi dai tronchi e dai rami 
di quelle stesse fanerogame ad alto fusto che hanno lasciate 
tante impronte di foglie e nelle roccie convolgenti i banchi e 
nei banchi medesimi di lignite di Casteani, di Montebamboli e 
di Ribolla. 

In conclusione senza escludere assolutamente una più o meno 
importante vegetazione lacustre o palustre non già di Sphagnum 


OSSERVAZ. SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI DEL MASSETANO 11 


ma di altre piante forse prevalentemente di alghe di acque dolci; 
le ligniti in questione, come la massima parte delle ligniti ter- 
ziarie italiane sono prevalentemente costituite da piante legnose 
fanerogame angiospermee e gimnospermee e più precisamente 
dalla fluitazione dei loro tronchi, dei loro rami, delle loro bru- 
ciaglie più o meno minute non escluse le foglie. Queste piante 
vivevano negli immediati dintorni dei nostri laghi terziari ed 
ip questi erano naturalmente portate dai fiumi, ed in questi si 
accumulavano di contro ai venti predominanti, nei seni più tran- 
quilli dove si sono costituiti i banchi. 

D'altra parte è ormai noto che le vere torbiere sono quasi 
esclusivamente costituite da Sphagnacae fra cui predominano i 
generi Sphagnum, Hipnum, Politricum e varie conferve (*) e 
qualche fanerogama palustre come i generi Eriophorum, Nin- 
phea e finalmente qualche giunco. Le più importanti di queste 
piante sono certamente gli Sfagni e questi hanno bisogno di 
temperature assai basse e rifuggono dai climi tropicali o sub- 
tropicali quali dovevano essere durante il periodo miocenico da 
noi. Sfagni e Coccodrilli, Sfagni e Scimmie, Sfagni e Trionidi non 
sembra che ci dieno esempi di convivenza nell’attualità per cui 
non è presumibile che ciò possa essere accaduto per il passato, 
pur dando tutto il valore alla diversità delle specie, la quale può 
indurre qualche leggiera modificazione nell’abito di vita, ma mai 
è dato logicamente ammetterne una così radicale e profonda. 

Mi sembra dunque che la supposizione della origine esclusi- 
vamente torbosa o quasi delle nostre ligniti, non regga nè al- 
l'esame diretto dei fatti nè a quello indiretto che comprende 
le considerazioni e le conclusioni che logicamente possono trarsi 
dalle condizioni oro-idrografiche dei bacini lignitiferi, da quelle 
climatiche, faunistiche e della flora, che siamo andati discutendo 
ed enunciando. In Italia non che nel miocene neppure nel plio- 
cene si hanno delle vere e proprie torbiere, ma sempre delle 
formazioni lignitifere di tale potenza, estensione e natura da 
escludere per la massima parte di esse l'origine torbosa. Le 
torbiere da noi o sono recenti o sono quaternarie. Questo indi- 
rettamente potrebbe dimostrare e collegarsi coll’abbassamento 


(4) A proposito delle Conferve e anche di altre alghe si ritiene che non abbiano 
che piccolissima importanza nella formazione della torba. 


118 G. RISTORI 


di temperatura determinato dall'epoca glaciale e che in mi- 
nor grado pure tuttodì si mantiene specialmente per le nostre 
regioni nordiche. Le torbiere quaternarie come le recenti hanno 
maggiore importanza nell’alta Italia che nella media, ove assu- 
mono il nome di pollini; all'incontro ne hanno una massima nel 
centro d'Europa nella Prussia, nella Vestfalia, nell’Annover, 
nella Slesia e finalmente più a nord ancora nella Danimarca, 
nella Scozia, nell'Irlanda e nella penisola Scandinava per non 
aggiungerne altre regioni extra-europee. 

Le faune e le flore dei nostri depositi terziari in genere e 
miocenici in specie sono universalmente riconosciute come aventi 
carattere subtropicale, quindi denotano climi assai caldi e ben 
poco adatti allo sviluppo delle più comuni piante che originano 
oggi la torba. Ad ogni modo giova qui ripetere alcune osser- 
vazioni che già ebbi occasione di fare in una mia recente 
comunicazione verbale fatta nell'adunanza tenuta dalla So- 
cietà Geologica Italiana in Lucca nel settembre del 1895. Ri- 
spondendo ad una comunicazione verbale dell’ing. Cortese fatta 
appunto sull’età e sulla genesi delle ligniti di Casteani e Ri- 
bolla, allora ebbi ad osservare che nell’alta Valle dell'Era e pre- 
cisamente presso il villaggio d’Orciatico in formazioni argillose 
presumibilmente sincrone agli strati a Congerie, si trovarono 
esili banchi di una lignite bruna terrosa, nella quale di tanto 
in tanto si incontrano dei tronchi giacenti quasi orizzontal- 
mente, e per tali si riconoscono dalla loro forma cilindrica, dalla 
loro notevole lunghezza, dalla maggiore compattezza del legno 
carbonizzato, dalla lucentezza e striatura longitudinale. 

Del resto l’egregio ing. Correse a quella mia comunicazione 
verbale (4), che ho qui solo in piccola parte riportata, repli- 
cava, dicendo che mentre non poteva escludere la presenza di 
foglie di fanerogame fossilizzate nei depositi lignitiferi di Tatti 
e Montemassi; questa si spiegava benissimo pensando che le pen- 
dici che circondavano le paludi ove si formava la torba (che di- 
venne poi carbone) potevano essere rivestite di piante le quali 
perdevano le foglie all’ autunno e queste erano portate dal 
vento nelle paludi. 

Secondo me va benissimo che le foglie possano essere tra- 


(4) Boll. Soc. Geol. Italiana, Vol. XIV, fasc. 2.°, pag. 291 e seg. 


OSSERVAZ. SULL'ETÀ E SULLA GENESI DELLE LIGNITI DEL MASSETANO 119 


sportate dal vento; però questo non può verificarsi che da di- 
stanze relativamente brevi e le foreste da dove queste veni- 
vano, non potevano, come del resto ammette anche l'ing. Cor- 
TESE, essere che ad immediato contatto o quasi alle paludi o 
bacini lacustri in cui si formarono le ligniti; quindi se in questi 
bacini arrivavano in così grande quantità le foglie; come sì può 
escludere che la fluitazione non trascinasse in essi e rami e 
tronchi e bruciaglie di ogni dimensione, insomma tutto quel 
materiale legnoso che in tutti i nostri bacini e depositi ter- 
ziari ha prevalentemente servito alla costituzione dei banchi di 
lignite più o meno estesi più o meno potenti? 

Concludo dunque che allo stato delle nostre cognizioni geo- 
logiche e paleontologiche i depositi lignitiferi di Montebamboli, 
Casteani, Ribolla, ecc. occupano un orizzonte geologico non su- 
periore del miocene medio e non sono a credersi sincroni alle 
formazioni simili del Casino, la di cui fauna e flora, pur sem- 
pre miocenica, e non pliocenica come altri vorrebbe, ha carat- 
tere di minore antichità. In quanto alla genesi delle ligniti 
non sarei disposto, per ragioni di fatto, per considerazioni pa- 
leontologiche e geologiche e per induzioni oro-idrografiche e 
climatologiche, ad ammetterne la loro origine torbosa. 

Chiudo la mia breve nota colla speranza e l’ augurio che 
nuove scoperte e nuovi fatti abbiano modo di chiarire defini- 
tivamente quello che ancora può esservi d’incerto e di discu- 
tibile in tale questione. 


ISTITUTO ANATOMICO DELLA UNIVERSITÀ DI PISA 


Dott. DANTE BERTELLI 


DISSETTORE E LIBERO DOCENTE 


Pieghe dei Reni primitivi nei Rettili 


Contributo allo Sviluppo del Diaframma 


In breve spazio di tempo i ricercatori hanno portato largo 
contributo di nuove cognizioni intorno allo sviluppo del dia- 
framma; pur tuttavia resta ancora da lavorare su questo ar- 
gomento. 

Presa conoscenza della letteratura mi persuasi che un que- 
sito degno di alta considerazione era la indagine del significato 
filogenetico delle pieghe che chiudono il recesso parieto-dorsale. 

Per merito di Uskow (!) e di Ravn(?) sappiamo come pieghe 
dorsali e pieghe ventrali chiudono il recesso parieto-dorsale. 

Riguardo alla origine di queste pieghe i ricercatori ed i 
trattatisti si limitano ad affermare che prendono origine dalla 
parete dorsale, dalla parete laterale e dalla parete ventrale 
del recesso parieto-dorsale. 

Solo Ravn interpetrò il significato filogenetico delle pieghe 


(1) Uskow N. — Ueber die Entwickelung des Zwerchfells des Pericardiums und 
des Coloms. (Archiv fir mikroskopische Anatomie. 1883). 

(*) Ravn Ep. — Vorliufige Mitteilung uber die Richtung der Scheidewand zwischen 
Brust — und Bauchhohle in Siugetier — Embryonen. ( Biologisches Centralblatt. 1887). 

Ravn. Ep. —Ueber die Bildung der Scheidewand 2wischen Brust — und Bauchhohle 
in Séugethierembryonen. (Archiv fiir Anatomie und Entwickelungsgeschichte. 1889). 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 121 


che nei mammiferi sorgono dalla parete dorsale. In un Lavoro (1) 
nel quale riferisce su indagini fatte intorno alla morfologia ed 
alla topografia di visceri ed organi contenuti nella cavità pleuro- 
peritoneale della Lacerta viridis adulta, descrive brevemente le 
pieghe dei reni primitivi, le quali accolgono l’epididimo, i resti 
del rene primitivo e quelli del condotto di MrteR. 

Ravx crede di scorgere un accenno al diaframma dorsale dei 
mammiferi in quella porzione di queste pieghe che nasce nella 
cavità pleuro-peritoneale su la linea di confine tra la parte 
non pigmentata e la parte pigmentata. Pensa Ravwn che questa 
porzione delle pieghe del rene primitivo corrisponda alle pieghe 
che chiudono dorsalmente nei mammiferi il recesso parieto- 
dorsale (pilastri dorsali di Uskow). Che queste pieghe, afferma 
Ravx, seguitino direttamente nelle pieghe del rene primitivo, 
non deve apparire fatto strano, quando si ricordi che anche 
in embrioni di mammiferi l'estremo craniale della piega del 
rene primitivo è in unione con il diaframma (mesenterio del 
corpo di Wotrr). 

Le pieghe dei reni primitivi dei rettili sono veramente 
omologhe non solo alle pieghe che nei mammiferi chiudono 
dorsalmente il recesso parieto-dorsale, ma anche a quelle che 
lo chiudono lateralmente e ventralmente, perchè in connessione 
con le pieghe studiate da Ravw ve ne sono due altre che sor- 
gono dalla parete ventrale della cavità pleuro-peritoneale e si 
gettano sul fegato e sul tronco della vena cava, pieghe consi- 
derate da Ravwn come Ligamenti sospensori accessorii. 

Scopo del presente lavoro è di raccogliere le prove che sta- 
biliscano indubbiamente queste omologie. Dividerò il lavoro 
nelle seguenti parti: morfologia delle pieghe dei reni primitivi 
nei rettili adulti; sviluppo di queste pieghe nei rettili; sviluppo 
delle pieghe che chiudono nei mammiferi dorsalmente, lateral- 
mente e ventralmente il recesso parieto-dorsale; conclusioni, 
nelle quali riassumerò i risultati delle ricerche e farò la sintesi 
dei caratteri che stabiliscono I’ omologia tra pieghe del rene 
primitivo dei rettili e pieghe che chiudono dorsalmente, lateral- 
mente e ventralmente il recesso parieto-dorsale nei mammiferi. 


(4) Ravn Ep. — Untersuchungen viber die Entwickelung des Diaphragmas und 
der benachbarten Organe bei den Wirbelthieren. (Archiv fiur Anatomie und Entwicke- 
lungsgeschichte. 1889). 


129 D. BERTELLI 


Non ho trovata descritta la piega del rene primitivo; solo 
è ricordato il mesenterio dell’ ovidutto. 

Anche LeresouLter (4) che studiò gli organi genitali della 
Lacerta stirpium e Martin Samr-Ance (2) che studiò quelli della 
Lacerta viridis ricordano con poche parole il mesenterio del- 
l’ovidutto. LereBouLLET riprodusse questo mesenterio alla Fig. 126 
nella quale sono rappresentati gli organi genitali femminili 
estratti e distesi. Martin Sarmt-AncE pure riproduce alle Fig. 6 e 
7 della Tav.IX il mesenterio dell’ ovidutto estratto dal corpo. 

Potei studiare le pieghe dei reni primitivi nel Platydactylus 
muralis, nella Seps chalcides, nella Lacerta viridis, nella La- 
certa agilis, nella Lacerta muralis, nel Chamaeleon vulgaris. 

Le pieghe hanno rapporto intimo con i resti del rene pri- 
mitivo e con i resti del condotto di MùLrer, bisogna quindi stu- 
diarle nel maschio e nella femmina. Siccome poi queste pieghe 
presentano variazioni anche a seconda del lato nel quale si 
considerano, debbono essere studiate a destra ed a sinistra (8). 

Nella femmina del Platydactylus muralis la piega del rene 
primitivo è molto sviluppata, accoglie l'ovidutto e lo fissa, a 
destra, al mesenterio della vena cava e per breve estensione al 
tronco della vena cava, raggiunge quindi la parete dorsale e 
la parete laterale della cavità pleuro-peritoneale su le quali si 
attacca percorrendole in direzione obliqua cranialmente e ven- 
tralmente. Caudalmente alla linea percorsa dalla piega le pareti 
della cavità pleuro-peritoneale sono intensamente pigmentate, 
cranialmente a questa linea il pigmento è in minore quantità. 

A sinistra la piega presenta le medesime disposizioni che 
a destra, solo è da osservare che da questo lato, dopo la sua 
origine, si mette in rapporto con il mesenterio dorsale. 

L'ovario riposa su la piega, il mesovario si attacca ad essa. 

Nel maschio la piega del rene primitivo accoglie l’epididimo. 


(4) LereBouLLET A. — Recherches sur l' Anatomie des Organes génitaux des Ani- 
maux vertébrés. (Novorum Actorum Academiae caesareae Leopoldino-Carolinae Naturae 
curiosorum. Voluminis vigesimi tertii, Pars prior. Vratislaviae et Bonnae, MDCCCLI). 

(£) Martin Sarnr-Ance G. J. — Étude de |’ Appareil reproducteur dans les cinq 
classes d’Animaux vertébrés. (Mém. de l’Acad. des Sciences. Tome XIV. 1856). 

(3) Per mantenere la topografia delle pieghe e dei visceri adottai il seguente me- 
todo che usa HocaHsreTTER. Ucciso l’animale gli iniettavo nella cavità pleuro-perito- 
neale alcool al 959/,, lo immergevo in alcool e dopo 24 ore lo disseccavo. Senza questa 
precauzione sarebbe molto difficile studiare la topografia delle pieghe. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 123 


Subito al davanti dell’estremo craniale dell’epididimo il mesor- 
chio si spinge cranialmente e medialmente confondendosi con 
la piega del rene primitivo. Dopo, la piega ha il medesimo de- 
corso che nella femmina, però nel maschio è molto meno svi- 
luppata, non percorre tutta la parete laterale della cavità pleuro- 
peritoneale. Nel maschio, a sinistra, la piega è un po’ meno 
. sviluppata, che a destra. 

La piega tanto nel maschio che nella femmina raggiunge 
il massimo di estensione in corrispondenza della parete dorsale 
della cavità pleuro-peritoneale, va abbassandosi a misura di- 
scende verso la parete ventrale. 

Nella femmina della Seps chalcides la piega del rene pri- 
mitivo ha un grande sviluppo in larghezza ed in lunghezza. 
Accoglie l’ovidutto, si unisce, a destra, al mesenterio della vena 
cava, al mesenterio dorsale, si reca poi ventralmente e cra- 
nialmente fissata alla parete dorsale e laterale della cavità 
pleuro-peritoneale su la linea che segna il confine della parte 
intensamente pigmentata. 

A sinistra la piega si comporta come a destra, però da questo 
lato prima di gettarsi sulla parete dorsale è inserita per tutta 
la sua estensione sul mesenterio dorsale. 

Nel maschio le pieghe del rene primitivo sono rudimentarie. 
L'epididimo è a destra strettamente fissato sul mesenterio della 
vena cava, a sinistra sul mesenterio dorsale. Nella parete dor- 
sale e laterale della cavità pleuro-peritoneale non esiste piega. 
Non vi è limite netto tra parte intensamente pigmentata e 
parte lievemente pigmentata. 

Della Lacerta viridis descrivo prima le pieghe del rene pri- 
mitivo trovate in due grossi esemplari maschi provenienti dalla 
Dalmazia. Nell’ esemplare che esaminai per il primo la piega 
contiene l'epididimo, passa, a destra, lateralmente alla vena cava 
e si attacca alla sua parete, poi recandosi verso la linea me- 
diana prende inserzione sul mesenterio della vena cava, abbando- 
nato questo mesenterio si attacca alle pareti dorsale e laterale 
della cavità pleuro-peritoneale e le percorre in direzione obliqua 
cranialmente e ventralmente lungo la linea che limita la parte 
fortemente pigmentata. Sulla parete laterale della cavità pleuro- 
peritoneale una striscia di pigmento si avanza cranialmente e 
la piega ne segue i margini producendo così un piccolo cul di 

Sc. Nat., Vol. XV. si 


124 D. BERTELLI 


sacco. In corrispondenza del margine ventrale della striscia pig- 
mentata, la piega sparisce. Ma dopo brevissimo tratto sorge 
dalla parete ventrale della cavità pleuro-peritoneale in direzione 
della piega scomparsa, un’altra piega che recandosi dorsalmente 
e medialmente si getta nella superficie ventrale del fegato per 
breve tratto, e poi sul tronco della vena cava. A sinistra il mesor- 
chio è inserito su la piega del rene primitivo. Abbandonato 
l’epididimo, questa piega si getta sul mesenterio dorsale, poi 
ha il medesimo decorso che a destra. È anche da notare che 
a sinistra la piega proveniente dall’epididimo è più bassa; che 
la piega ventrale è da questo lato meno estesa, sorge più cra- 
nialmente. 

Nell’altro esemplare di Lacerta viridis si trovano disposi- 
zioni un po’ diverse. La piega, che proviene dall’epididimo è, 
a destra, più bassa di quella dell'altro esemplare. A sinistra 
questa piega è anche più ridotta; sulla parete dorsale manca. 
La piega che nell'altro esemplare nasceva, a sinistra, dalla 
parete ventrale della cavità pleuro-peritoneale, quivi nasce sul 
mesenterio ventrale del polmone. 

Nella Lacerta viridis (*) femmina si hanno disposizioni ana- 
loghe a quelle che descriverò nella Lacerta agilis. Nel maschio 
la piega presenta disposizioni simili a quelle trovate nel primo 
esemplare esaminato, solo è da osservare che la piega ventrale 
sinistra nasce normalmente dal mesenterio ventrale del polmone 
come già asserì KRavw nel descrivere il ligamento sospensore 
accessorio sinistro. 

Nella Lacerta agilis trovai la piega del rene primitivo me- 
glio sviluppata che in tutti gli altri individui fino a qui esa- 
minati, perciò ne faccio una descrizione un po’ particolareggiata 
che varrà a far comprendere meglio certe particolarità della 
piega che per non essere troppo prolisso ho tralasciato di descri- 
vere nei Sauri fino ad ora presi in esame. 

Nella Lacerta agilis femmina (Fig. 1) la piega del rene pri- 
mitivo è molto larga, ha in sè l’ovidutto in corrispondenza del 
quale presenta due margini uno laterale libero, uno mediale in 


(') Ho studiato la piega del rene primitivo della Lacerta viridis in femmine ed 
in maschi presi nei dintorni di Pisa; questi esemplari sono molto più piccoli di quelli 
provenienti dalla Dalmazia. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 125 


connessione con il mesenterio della vena cava a destra, con il 
mesenterio dorsale a sinistra, poi è fissata alla parete dorsale 
e laterale della cavità pleuro-peritoneale lungo la linea che di- 
vide la parte intensamente pigmentata dalla parte lievemente 
pigmentata. Anche nella Lacerta agilis esiste sulla parete laterale 
della cavità pleuro-peritoneale la striscia pigmentata che si 
avanza cranialmente, ma il più delle volte ha poca estensione. 
Qualche volta si incontra questa striscia molto sviluppata, spe- 
cialmente in larghezza; la piega ne segue sempre i margini. 
In prossimità del passaggio tra parete laterale e parete ven- 
trale della cavità pleuro-peritoneale, la piega si abbassa molto 
e per brevissimo tratto sparisce; repentinamente poi si risolleva 
dalla parete ventrale (Fig. 1) e recandosi dorsalmente e medial- 
mente si getta nella superficie inferiore del fegato e sulla vena 
cava; sul tronco della vena cava le due pieghe si riuniscono ed 
accompagnano il vaso fino a che questo non si applica contro 
la parete della cavità pleuro-peritoneale, così le due pieghe 
ventrali formano nella cavità pleuro-peritoneale un setto assai 
esteso. La piega ventrale sinistra è meno sviluppata. In 10 
esemplari esaminati, tre volte a destra, due in un maschio una 
in una femmina, la piega che proviene dal rene primitivo se- 
guitava con la piega che prende origine dalla parete ventrale 
della cavità pleuro-peritoneale. Questo fatto, come vedremo, ha 
molta importanza. 

La piega del rene primitivo presenta una superficie' dorsale 
ed una ventrale che sono in rapporto la prima con la parete 
dorsale e con la parete laterale della cavità pleuro-peritoneale, 
la seconda con il tubo digerente, con l’ovario, con il fegato, 
con il polmone. Questo ultimo rapporto si vede bene esami- 
nando la cavità pleuro-peritoneale ad una Lucertola che sia in 
leggera narcosi cloroformica, sotto la quale possiamo vedere il 
polmone in funzione. Le superfici mediali delle pieghe che sor- 
gono dalla parete ventrale sono libere nella cavità pleuro-pe- 
ritoneale lateralmente al ligamento sospensore del fegato; le 
superfici laterali invece sono in rapporto con il polmone che 
nella inspirazione poggia su di esse. Anche questo rapporto si 
vede bene esaminando la cavità pleuro-peritoneale in una Lu- 
certola sotto l’azione della narcosi cloroformica. 

Nel maschio della Lacerta agilis (Fig. 2) si hanno a destra 


126 D. BERTELLI 


ed a sinistra le medesime disposizioni che ho trovato nell’esem- 
plare di Lacerta viridis esaminato per il primo, solo è da no- 
tare che la piega non si attacca, appena lasciato l’'epididimo, 
al tronco della vena cava e che la piega ventrale sinistra nasce 
sul mesenterio ventrale del polmone. Questo modo di origine 
della piega ventrale sinistra trovasi come disposizione normale 
nella femmina e nel maschio di Lacerta agilis, ma di frequente 
anche da questo lato la piega nasce sulla parete ventrale della 
cavità pleuro-peritoneale. 

Nella Lacerta muralis femmina la piega del rene primitivo 
presenta le medesime disposizioni che nella Lacerta agilis. Nel 
maschio della Lacerta muralis la porzione di piega proveniente 
dall’ epididimo è assai ridotta, specialmente a sinistra e sono 
anche molto ridotte le pieghe ventrali. Due volte, su 10 esem- 
plari esaminati,tutte e due le volte in femmine e nel lato de- 
stro, trovai che la piega proveniente dall’epididimo seguitava 
con la piega che sorge dalla parete ventrale della cavità pleuro- 
peritoneale. i 

Di Camaeleon vulgaris ho potuto esaminare 6 esemplari, 4 
femmine e 2 maschi che ricevei in alcool non molto bene 
conservati. Nella femmina le pieghe dei reni primitivi sono . 
molto sviluppate, hanno, prima di attaccarsi al dorso, i mede- 
simi rapporti di quelle studiate negli altri Sauri, percorrono 
in direzione obliqua cranialmente e ventralmente le pareti 
della cavità pleuro-peritoneale e si gettano nella superficie la- 
terale e nella superficie ventrale del fegato. Le pieghe percor- 
rono il viscere in direzione obliqua cranialmente e medialmente 
e finiscono nel ligamento sospensore del fegato, formano così 
nella cavità pleuro-peritoneale dorsalmente, lateralmente, ven- 
tralmente e medialmente un vasto setto che presenta solo una 
piccola apertura tra il fegato e la parete dorsale. 

Anche nei maschi di Camaeleon vulgaris la piega è bene 
sviluppata, percorre tutta la parete laterale che è molto este Ss 
e la parete ventrale; solo in un individuo, di due esaminati, 
ho potuto vedere chiaramente, a sinistra, la piega anche sulla 
parete dorsale e sul mesenterio dorsale. 

In tutti i Sauri fino ad ora esaminati non trovammo, nor- 
malmente, la piega che proviene dall’ovidutto in continuazione 
con la piega che sorge dalla superficie ventrale della cavità 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 127 


pleuro-peritoneale e che gettasi sul fegato. Nel Camaeleon vulgaris 
invece nemmeno si nota un accenno a divisione tra le due 
porzioni della piega, e questo è fatto molto più importante di 
quello che come varietà abbiamo trovato nella Lacerta agilis 
e nella Lacerta muralis. 

La struttura delle pieghe dei reni primitivi (1) è quella delle 
membrane sierose, insieme agli elementi del tessuto connettivo 
però si trovano fibre muscolari lisce. Wrrpersnem (?) ed HorrmAnx 
(3) affermano che nei Sauri esistono molte fibre muscolari lisce 
nella piega che fissa l’ovidutto. La piega è molto pigmentata nel 
Platydactylus muralis e nella Seps chalcides, trovansi alcune cel- 
lule pigmentate in prossimità della inserzione della piega sul 
dorso, nella Lacerta viridis, nella Lacerta agilis, nella Lacerta 
muralis. 

Asserii che le pieghe dei reni primitivi dei rettili sono omo- 
loghe alle pieghe che chiudono dorsalmente, lateralmente e 
ventralmente il recesso parieto-dorsale. Cercati nella anatomia 
comparata gli elementi valevoli a sostenere il mio asserto, devo 
ora invocare il validissimo ajuto della embriologia. A tale scopo 
studiai lo sviluppo delle pieghe del rene primitivo in embrioni 
di Lacerta agilis. 

Le pieghe dei reni primitivi sorgono dal corpo di WoLrr ed 
hanno intimo rapporto con il condotto di MùLLER. 

Alcuni di coloro che fecero ricerche intorno allo sviluppo 
del corpo di Worrr e del condotto di MùLLeRr nei rettili, ricor- 
dano per incidenza la piega del rene primitivo. 

Braun (4) nel descrivere lo sviluppo dell’ovidutto esamina 
topograficamente la cavità celomatica di un embrione di Anguis 
fragilis lango 16 mm. Afferma che nella cavità celomatica sono 
tre sepimenti (Briicken), uno mediano impari, due laterali pari 
(Taf. VI, Fig. 1); il mediano proviene dalla superficie ventrale 


(4) Per poter togliere nettamente le pieghe necessita iniettare alcool assoluto nella 
cavità pleuro-peritoneale; in questo modo si ottiene il doppio scopo di fissare e di in- 
durire le pieghe. È molto difficile isolare le pieghe a fresco. 

(2) WiepersHEIM R. — Lehrbuch der vergleichenden Anatomie der Wirbelthiere. 
Jena, 1886. 

(8) Horrmann C. K. — (Bronn’s. Klassen und Ordnungen des Thier-Reichs. III. 
Abtheilung. Leipzig, 1890. 

(4) Braun M. — Das Urogenitalsystem der einheimischen Reptilien. ( Arbeiten 
aus dem zoologisch-zootomischen Institut in Wiirzburg. 1877-78). 


128 D. BERTELLI 


dell'aorta, accoglie l’esofago e gli abbozzi dei polmoni: i due la- 
terali procedono obliqui dalla linea mediana verso l'esterno, 
riuniscono il connettivo che trovasi intorno alla aorta con il 
cuore e contengono più in dietro gli organi segmentari. Scom- 
parsi questi setti dalla parete ventrale del corpo, le due por- 
zioni della parte laterale della cavità celomatica si riuniscono. 

Anche Mrratgovios (') nel descrivere il condotto di MicLer ac- 
cenna alla piega del rene primitivo. In tagli traversi (Taf. V, 
Fig. 60) di embrioni di vipera lunghi ‘15-18 mm. trovò che il 
corpo di WotFr risiede in un setto divisorio (Scheidewand) il 
quale si estende dalla aorta alla parete del corpo; nello spazio 
tra i due setti divisori ed il cuore che rimane ventralmente, 
risiede l’esofago insieme agli abbozzi dei polmoni. 

Horrmann (*) nel trattare dello sviluppo del condotto di MùLLER 
ricorda, descrivendo un embrione di Lacerta agilis, un setto 
(Briicke) che unisce il corpo di Woter con il connettivo della 
vena giugulare e del seno di Cuvier (Taf. CLXXX, Fig. 1) e che 
divide l’uno dall’altro i prolungamenti della cavità celomatica 
situati lateralmente e medialmente al corpo di Wotrr. 

Braun, Mizarkovics, Horrmann che studiarono accuratamente 
lo sviluppo del condotto di Miicter nei rettili, descrissero e ri- 
produssero in molte figure il condotto di MiiLLer in rapporto con 
la piega del rene primitivo. Io a questo proposito farò, ser- 
vendomi dei miei preparati, una descrizione minuta di quelle 
particolarità dalle quali crederò di poter trarre argomento a 
stabilire omologie. 

Ed ora passiamo a studiare come sì sviluppa nella Lacerta 
agilis la piega del rene primitivo. 

Si incomincia a trovare materiale opportuno in embrioni 
con lunghezza massima (*) di 5 mm., con lunghezza massima della 
testa di 2'/, mm. 

In tagli trasversali si vede il corpo di Wotrr con l'estremo cra- 
niale situato lateralmente alla aorta, accolto in mezzo a tes- 


(4) Mimargovics G. — Untersuchungen iiber die Entwickelung des Harn-und 
Geschlechtsapparates der Amnioten. (Internationale Monatsschrift f. Anatomie u. Physio- 
logie. 1885). 

(?) Horrmann C. K. — Entwicklungsgeschichte der Reptilien. (Bronn’s. Klassen 
und Ordenungen des Thier-Reichs). Leipzig, 1890. 

(3) Presi la lunghezza massima dal vertice alla radice della coda. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 129 


suto connettivo che seguita dorsalmente con il connettivo 
delle pareti del corpo, che lateralmente seguita in parte con 
il connettivo delle pareti del corpo, in parte è limitato dai ca- 
nali di Cuvier, che medialmente è limitato dalla cavità celoma- 
tica, che ventralmente si getta sulla parete dorsale della cavità 
pericardica. 

Seguendo i tagli caudalmente si trovano i dutti di Cuvier 
situati più ventralmente, allora il connettivo sopra ricordato 
si mostra unito con quello delle pareti del corpo per maggiore 
estensione. 

Seguitando la serie dei tagli caudalmente si vede ben presto 
apparire lateralmente al corpo di WoLrr una. stretta fessura 
(Fig. 3) che è un prolungamento della cavità celomatica e che 
limita lateralmente il corpo di Woxrr. A misura che nell'esame 
delle sezioni si procede caudalmente si incontra la fessura più 
estesa dorsalmente e ventralmente; allora la piega del rene 
primitivo, assai corta, si mostra bene distinta (Fig. 3, 4). 

La piega seguita dorsalmente nel corpo di Woxrr, medial- 
mente e lateralmente è limitata dalla cavità celomatica, ven- 
tralmente è unita alla membrana pleuro-pericardica ed al con- 
nettivo delle pareti del corpo. 

Appena cessata la unione della piega con la membrana 
pleuro-pericardica apparisce dorsalmente alla parete della vena 
cava e del canale di Cuvier, tessuto epatico. 

Finito il rapporto della piega con la membrana pleuro-pericar- 
dica ci apparisce il corpo di Wocrr libero nella cavità celoma- 
tica (Fig. 4) e non presenta piega, la sua superficie ventrale e 
quella laterale per breve estensione, sono ricoperte da uno strato 
di epitelio cubico che formerà l’ostio addominale del con- 
dotto di MùLLer. Anche quando esiste la piega in rapporto con 
la membrana pleuro-pericardica e con il connettivo delle pa- 
reti del corpo si vede già sul corpo di Wotrr questo epitelio 
interrotto dalla piega (Fig.3,4). Horrmanx lo riprodusse in una 
Figura (Taf. CLXX, Fig. 1) tolta da un taglio trasversale di 
embrione di Lacerta agilis. 

Im embrione di Lacerta agilis con lunghezza massima di 7 1/, 
mm., con lunghezza massima della testa di 3 !/, mm., le pieghe 
dei reni primitivi sono molto bene sviluppate (Fig. 5). 

La porzione di cavità celomatica che limita lateralmente le 


130 D. BERTELLI 


pieghe si vede apparire nel suo estremo craniale come stret- 
tissima fessura ovoidale in vicinanza della base delle pieghe, 
ciò signitica che a questo stadio la cavità celomatica presenta 
un prolungamento dorsalmente e che questo prolungamento 
termina a punta. 

Mentre nell'altro embrione il corpo di Wotrr trovasi an- 
che per molta estensione cranialmente alle pieghe, in questo si 
incontrano i primi tagli delle pieghe nei quali non si vede an- 
cora il corpo di Worer; ma ben presto le pieghe appariscono 
con la loro base in rapporto con il corpo di Wotrr. 

Le pieghe del corpo di Wotrr (Fig. 5) si spingono ventral- 
mente con direzione un po’ obliqua dallo interno allo esterno, 
decorrono lateralmente all’esofago ed ai polmoni in corrispon- 
denza della convessità dei quali presentano una superficie con- 
cava. Ventralmente hanno colla membrana pleuro-pericardica 
i medesimi rapporti che ho descritti nell'altro embrione, in que- 
sto stadio le pieghe sono unite anche al fegato (Fig. 5). 

Degne di essere descritte sono in questo stadio le disposi- 
zioni che presenta la piega» nella superficie ventrale del corpo 
di Wotrr. Nell’altro embrione abbiamo trovato la piega solo 
nel suo estremo craniale, in questo stadio invece esiste bene ma- 
nifesta la piega lungo la superficie ventrale del corpo di Wotrr 
(Fig. 6), quindi necessariamente deve aversi una disposizione 
diversa anche per l'epitelio che forma l’ostio addominale del 
condotto di MiLLER. 

La piega del rene primitivo, cessata la sua unione al fegato, 
rimane libera con il margine ventrale nella cavità celomatica 
(Fig. 6). Sul margine libero della piega, che prima è pianeg- 
giante apparisce uno strato di epitelio cilindrico, poi il margine 
si incava. La incavatura, non è altro che l’ostio addominale del 
condotto di MiLLer. Alla apertura del condotto di Miiller fa se-. 
guito il condotto di Miller; l’una e l’altro si trovano sul margine 
libero della piega. 

La piega rimasta libera ha la base sul corpo di Wotrr 
dal quale è diretta ventralmente ed un po’ lateralmente, poi si 
pone nella superficie laterale del corpo di Wotrr sulla quale ap- 
parisce nella piega il condotto di MùLLer. A misura che sì pro- 
cede caudalmente si trova che la piega percorre dorsalmente 
la superficie laterale del corpo di Wotrr e che nello estremo 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NFI RETTILI, ECC. 131 


dorsale di questa superficie la piega va a confondersi con il 
connettivo del corpo di Wotrr. Il condotto di MiLreRr si appoggia 
al condotto del corpo di Wotrr. 

In embrione con lunghezza massima di 8! mm., con lun- 
ghezza massima della testa di 4 !/, mm., è da notare che la piega 
si è allungata in direzione dorso-ventrale e si attacca al tronco 
per maggiore estensione; che nel suo estremo craniale il corpo 
di Wotrr si è spostato un po’ lateralmente e ventralmente, tanto 
che ci apparisce unito al dorso, lateralmente alla aorta, per 
mezzo di un corto mesenterio (Fig. 7). 

In embrione con lunghezza massima di 10 mm., con lunghezza 
massima della testa di 5 mm., si vede la piega ancora più lunga e 
molto assottigliata, inserita sulle pareti della cavità celomatica 
e sul fegato. Lo spostamento del corpo di Wotrr in questo sta- 
dio è considerevole. Il corpo di Worrr è unito al dorso per mezzo 
‘di un mesenterio lungo e sottile. La piega che rimane dorsal- 
mente al corpo di Wotrr è la porzione della piega del rene 
primitivo che rimane dorsalmente all’ovidutto ed all’epididimo 
negli individui adulti. 

Dunque possiamo stabilire che la piega del rene primitivo pro- 
viene dal connettivo che trovasi ventralmente al corpo di Wotrr; 
che il corpo di Wotrr è unito ventralmente, per mezzo di questa 
piega alla membrana pleuro-pericardica ed al connettivo delle 
pareti del corpo; che la piega del rene primitivo ha la base sul 
corpo di Wotrr; che lateralmente e medialmente è limitata dalla 
cavità celomatica; che il condotto di MùrLer è fissato da questa 
piega al corpo di Wotrr, quindi la piega potrebbe considerarsi 
come mesenterio del condotto di MùLLeR. 

Prima di lasciare lo sviluppo delle pieghe dei reni primi- 
tivi nella Lacerta agilis, voglio osservare come allo stato em- 
brionario questa piega non è divisa in due porzioni quale si trova 
negli individui adulti, ma è continua. Questo fatto, avvalorato 
dalla disposizione che trovammo come normale nel Camaeleon 
vulgaris e come varietà nella Lacerta agilis e nella Lacerta mu- 
ralis, ci deve persuadere che nei Sauri la porzione dorsale e la 
porzione ventrale della piega del rene primitivo devono essere 
considerate come una sola unità. 

Studiamo ora come sì sviluppano nei mammiferi le pieghe 
che chiudono dorsalmente, lateralmente e ventralmente il re- 
cesso parieto-dorsale. 


132 D. BERTELLI 


Per le ricerche di Ravx sappiamo che dalla parete dorsale 
del recesso parieto-dorsale sorge una piega che decorre dal lato 
craniale e laterale verso il caudale ed il mediale. Questa piega 
che da principio è unita alla membrana pleuro-pericardica passa 
dalla parete dorsale del recesso anche nella parete laterale e 
sì continua da qui nella superficie dorsale della membrana 
pleuro-pericardica. 

Già in questo stadio, afferma Ravx, si vede anche sulla pa- 
rete-ventrale del recesso un accenno di una piega in continua- 
zione della piega ricordata, la quale si estende nella superficie 
dorsale del lobo dorso-laterale del fegato medialmente e caudal- 
mente fino al punto mediale di origine della piega sopra de- 
scritta. Quando questa piega si è un po’ più sollevata, trovasi 
nella parete dorsale e nella parete ventrale del recesso parieto- 
dorsale una piega sporgente (pilastri di Uskow). Nelle estremità 
laterale e mediale passano queste due pieghe una nell'altra ed 
il recesso viene così ristretto per mezzo di una piega in forma 
di anello. 

Allo scopo di stabilire omologie tra la piega del rene pri- 
mitivo dei rettili ed i pilastri di Ustow, debbo studiare il modo 
di origine di questi pilastri ed i loro rapporti. 

In un embrione di Cavia lungo 6 ‘|, mm., con lunghezza mas- 
sima della testa di 4 mm., esistono i pilastri di Uskow. Seguendo 
i pilastri cranialmente si trova che sempre più si avvicinano 
a misura ci spingiamo innanzi e che finiscono col riunirsi (Fig. 
8). A destra i pilastri sono riuniti debolmente. Sicchè seguendo 
1 pilastri cranialmente si vede che sono in continuazione | uno 
dell'altro e costituiscono una piega. 

La piega lateralmente e medialmente è limitata dalla ca- 
vità celomatica, dorsalmente prima seguita con il connettivo che 
trovasi al davanti delle vene cardinali, più caudalmente è unita 
per breve estensione al corpo di Wotrr, ventralmente è in rap- 
porto con il connettivo delle pareti del corpo-e con la mem- 
brana pleuro-pericardica. Il rapporto con la membrana pleuro- 
pericardica si fa più esteso a misura si procede caudalmente. 

In embrioni di Cavia più giovani si trovano i pilastri di 
Uskow, ma solo a sinistra; a destra esiste un accenno al pi- 
lastro dorsale. A sinistra si ha nello estremo craniale della piega 
la stessa disposizione che nell’embrione sopra descritto. A de- 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 133 


stra, ove il pilastro dorsale è appena accennato, non si scorge 
il pilastro ventrale. 

I due pilastri sono in continuazione uno dell'altro fino dalla 
loro origine e costituiscono una piega. Può esistere solo un 
accenno al pilastro dorsale, in questo caso la piega trovasi nel 
suo primissimo stadio di sviluppo, ma allora non si scorge il 
pilastro ventrale. 

In embrioni più sviluppati di quello sopra descritto la piega 
è unita ventralmente al margine dorsale del diaframma primario, 
in prossimità del quale si spinge il tessuto epatico. 

Se confrontiamo il modo di origine ed i rapporti nei primi 
stadii di sviluppo tra la piega studiata nella Cavia e la piega 
del rene primitivo della Lacerta agilis si nota solo una diffe- 
renza, non sostanziale, che è questa: nella Cavia si incontra 
il corpo di Wotrr in rapporto con la piega più caudalmente 
che nella Lacerta agilis. 

Nella Lacerta agilis trovammo che il condotto di MiùrLer ha 
intimo rapporto con la piega del rene primitivo. Cerchiamo 
ora questo rapporto nei mammiferi. 

In embrione di Cavia con lunghezza massima di 9 mm., con 
lunghezza nucale di 8 1/2 mm., si vede nella superficie laterale 
della piega del rene primitivo, un leggero avvallamento (Fig. 9) 
rivestito da uno strato di epitelio cilindrico; questo avvallamento 
non è altro che l’ostio addominale del condotto di MiLLER. 

In embrione con lunghezza massima di 10 !/2 mm. con lun- 
ghezza nucale di 9 ‘|, mm. l’ostio addominale è più profondo. 

Cessata la unione della piega con il margine dorsale del dia- 
framma primario, la piega resta libera nella cavità celomatica 
e l’ostio addominale del condotto di MiLLer ed il condotto di 
MiLLeR sono compresi sul margine libero della piega. Quindi 
anche nei mammiferi è intimo il rapporto tra piega del rene 
primitivo e condotto di MùLLER. 

Il lettore che attentamente ha seguito le disposizioni, allo 
stato embrionario, della piega del rene primitivo nei rettili e 
delle pieghe che nei mammiferi chiudono dorsalmente, late- 
ralmente e ventralmente il recesso parieto-dorsale si sarà per- 
suaso della omologia di queste pieghe; nelle conclusioni farò 
la sintesi dei caratteri che stabiliscono indubbiamente questa 
omologia. 


134 D. BERTELLI 


Come testimonianza dell'intimo rapporto tra piega del rene 
primitivo e diaframma rimane nei feti dei mammiferi il me- 
senterio del corpo di Wocrr che Ké6LLIKER trovò e descrisse. 


Conclusioni. 


In alcuni rettili adulti esistono le pieghe dei reni primitivi 
che accolgono l’ovidutto nella femmina, l’epididimo nel maschio, 
che sono inserite alla parete dorsale e laterale della cavità 
pleuro-peritoneale. Nella Seps chalcides, nella Lacerta viridis, 
nella Lacerta agilis, nella Lacerta muralis la linea d’inserzione 
sul dorso e sulla parete laterale, corrisponde alla linea che di- 
vide la parte intensamente pigmentata dalla parte lievemente 
pigmentata della cavità pleuro-peritoneale. 

Queste pieghe giunte nel passaggio tra la parete laterale 
e la parete ventrale della cavità pleuro-peritoneale cessano nel 
Platydactylus muralis, nella Seps chalcides, nella Lacerta viridis, 
nella Lacerta agilis, nella Lacerta muralis, ma in direzione di 
queste pieghe, ne sorgono, nella Lacerta viridis, nella Lacerta 
agilis, nella Lacerta muralis, dalla parete ventrale della cavità 
pleuro-peritoneale due altre che si gettano sul fegato e sul tronco 
della vena cava. 

Queste due ultime pieghe devono essere considerate come 
una continuazione di quelle che provengono dall’ovidutto e dal- 
-  l’epididimo perchè allo stato embrionario (Lacerta agilis) sono 
in continuazione una dell'altra e perchè in continuazione una 
dell'altra sono normalmente nel Camaeleon vulgaris e come va- 
rietà nella Lacerta agilis e nella Lacerta muralis. 

La piega del rene primitivo negli embrioni di Lacerta agilis 
proviene dal connettivo che trovasi ventralmente al corpo di 
Wotrr. Il corpo di Worrr è unito ventralmente per mezzo di 
questa piega alla membrana pleuro-pericardica ed al connettivo 
delle pareti del corpo, poi è unito anche al fegato. La piega ha 
la base sul corpo di Wotrr, lateralmente e medialmente è limi- 
tata dalla cavità celomatica. 

In stadii molto giovani trovasi solo l'estremo craniale della 


piega. In questi stadii nella superficie laterale e mediale della | 


piega, nella superficie ventrale e nella parte anteriore della 
superficie laterale del corpo di Woxrr si incontra l’abbozzo 
dell’ostio addominale del condotto di Miller. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 135 


In stadii più avanzati esiste nella superficie anteriore del 
corpo di Wotrr la piega. Allora si vede sul margine libero di 
questa l’ostio addominale del condotto di MiiLLer, poi sempre su 
questo margine apparisce il condotto di MiLrer che spostandosi 
insieme alla piega lateralmente e dorsalmente sul corpo di 
Woter, va ad addossarsi al condotto di WoLrr. La piega finisce 
confondendosi con il connettivo del corpo di Wotrr. Questi 
rapporti ci mostrano che la piega unisce il condotto di Mitre al 
corpo di Wotrr, quindi essa potrebbe essere considerata come 
mesenterio del condotto di MùrLER. 

Nei mammiferi (Cavia) le pieghe che chiudono dorsalmente, 
lateralmente e ventralmente, il recesso parieto-dorsale (pilastri 
di Uskow) sono fino dalla loro origine una in continuazione del- 
l’altra. Hanno la loro base sul connettivo che trovasi immedia- 
tamente al davanti delle vene cardinali, più in basso la loro 
base è sul corpo di Wotrrr; sono limitate lateralmente e me- 
dialmente dalla cavità celomatica, ventralmente sono unite al 
connettivo delle pareti del corpo ed alla membrana pleuro-peri- 
cardica; in stadii più avanzati sono in rapporto, ventralmente, 
con il margine dorsale del diaframma primario in prossimità 
del quale si spinge il tessuto epatico. Rapporto intimo hanno 
queste pieghe anche con il condoto di Miicrer. Nella superficie 
laterale della piega trovasi l’ostio addominale del condotto di 
Miirter. Cessata la unione della piega con il diaframma primario 
la piega resta libera nella cavità celomatica e l’ostio addominale 
del condotto di MirLer ed il condotto di MùLreR sono compresi sul 
margine libero della piega. E così la piega si presenta come 
mesenterio del condotto di Miter. 

È patente la omologia tra pieghe dei reni primitivi dei ret- 
tili e pieghe che chiudono dorsalmente, lateralmente e ventral- 
mente il recesso parieto-dorsale nei mammiferi, quindi queste 
pieghe dovrebbero chiamarsi anche nei mammiferi pieghe dei 
reni primitivi e non si dovrebbero più ammettere i pilastri 
dorsali ed i pilastri ventrali ma si dovrebbe affermare che nei 
mammiferi il recesso parieto-dorsale è chiuso dorsalmente, la- 
teralmente e ventralmente dalle pieghe dei reni primitivi. 

Ravn afferma giustamente che si deve interpetrare come un 
accenno al diaframma dorsale quella porzione di piega del rene 


136 D. BERTELLI 


primitivo che sorge nella Lacerta viridis su la linea di confine 
tra la parte non pigmentata e la parte pigmentata della cavità 
pleuro-peritoneale. Ma come accenno al diaframma dorsale dei 
mammiferi deve considerarsi anche quella piega che nasce dalla 
parete ventrale della cavità pleuro - peritoneale e che trovasi 
in unione con l’altra piega negli embrioni di Lacerta agilis, negli 
individui adulti di Camaeleon vulgaris e come varietà nella La- 
certa agilis e nella Lacerta muralis. 


Questo lavoro fu fatto nell’ Istituto Anatomico di Innsbruck. Al Prof. 
F. HocHsrETTER rendo le più sentite grazie per la squisita cortesia che 
mi usò. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA II 


A. — Aorta. 

A.c. M.— Abbozzo dell’ostio addominale del condotto di MiiLLeR. 
A.p. — Abbozzo dei polmoni. 

C.C. — Canale di Cuvier. 

O.c. — Cavità celomatica. 

C. W.— Corpo di Wotrr. 

D.d. — Diaframma dorsale (Piega del rene primitivo). 
. E.— Epididimo. 

Es. — Esofago. 

F.— Fegato. 

O. — Ovario. 

O. c. M. — Ostio addominale del condotto di MiiLLeR. 
Ov. — Ovidutto. 


P.— Polmone. 
P.r.p. — Piega del rene primitivo. 
P.v.r.p. — Porzione ventrale della piega del rene primitivo. 


S.v. — Seno venoso. 

T.— Testicolo. 

T.e. — Tessuto epatico. 

T.p. — Tubo polmonare. 

V.e. — Vena cardinale. 

V. ce. p. — Vena cava posteriore. 


Le figure 3-9 sono disegnate al microscopio di Verick (Ob. 0, Oc. 1, 
Tubo alzato). 


Fig. 1. — Lacerta agilis femmina. A destra sono riprodotte le due por- 
zioni della piega del rene primitivo. Il margine laterale del- 


l’ovidutto è tirato ventralmente. A sinistra è riprodotta solo 
la porzione ventrale della piega. 


138 


Fic. 


D. BERTELLI — PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI NEI RETTILI, ECC. 


.— Lacerta agilis maschio. A destra sono riprodotte le due por- 


zioni della piega del rene primitivo; a sinistra è riprodotta 
solo la porzione ventrale. 

Sezione trasversale di embrione di Lacerta agilis con lun- 
ghezza massima di 5 mm., con lunghezza massima della testa 
di 2 ! mm. A destra si vede la piega del rene primitivo e 
su questa l’abbozzo dell’ostio addominale del condotto di 
MiiLer. A sinistra si vede un pò più cranialmente il prolun- 
gamento della cavità celomatica, che limita la piega. 
Sezione trasversale dello stesso embrione eseguita un pò più 
caudalmente. A sinistra si vede la piega del rene primitivo, 
a destra si vede il corpo di WoLrr sprovvisto di piega, con 
l’abbozzo dell’ostio addominale del condotto di MiiLLer. 
Sezione trasversale di embrione di Lacerta agilis con la 
lunghezza massima di 7 ‘2 mm., con la lunghezza massima 
della testa di 3 !/£ mm. Si vede a destra ed a sinistra la piega 
del rene primitivo bene sviluppata. 

Sezione trasversale del medesimo embrione eseguita un pò più 
caudalmente. Da ambo i lati si vede la piega del rene pri- 
mitivo unita al corpo di WoLrr con la base e per il resto 
libera nella cavità celomatica, ventralmente contiene l’ ostio 
addominale del condotto di MiiLLeR. 

Sezione trasversale di embrione di Lacerta agilis con la lun- 
ghezza massima di 8 ‘|, mm., con la lunghezza massima della 


testa di 4%, mm. Si vede la piega del rene primitivo unita . 


per la base al corpo di Wotrr e libera per il resto nella 
cavità celomatica. Il corpo di Wotrr ha subito uno sposta- 
mento lateralmente e ventralmente. 

Sezione trasversale di embrione di Cavia con lunghezza mas- 
sima di 6 ‘| mm., con lunghezza massima della testa di 4 mm.; 
si vede l'estremo craniale del diaframma dorsale (Piega del 
rene primitivo). 

Sezione trasversale di embrione di Cavia con la lunghezza 
massima di 9 mm., con la lunghezza nucale di 8%) mm.; sul 
diaframma dorsale (Piega del rene primitivo) si vede l’ostio 
addominale del canale di Mirer. 


ECHINIDI NEOGENICI DEL MUSEO PARMENSE 


NOTA 
DEL 


Dott. P. E. VINASSA DE REGNY 


Allo scopo di illustrare qualcuno dei gruppi animali con- 
servati nel Museo geologico e paleontologico Parmense, il prof. 
SimoneLLi, che dal suo canto si occupava di altri fossili, volle 
esser tanto cortese da affidarmi lo studio degli echini. Pubblicai 
già una breve nota preventiva (!) dando l'elenco delle forme 
da me determinate, e oggi presento questa breve memoria, la 
quale non verrà forse considerata come inutile, in riguardo alla 
ristretta conoscenza delle forme neogeniche di echini dell'Appen- 
nino settentrionale e specialmente del Parmense. Infatti sino ad 
ora non si conoscevano che le poche forme citate dal Manzoni (?), 
che ricordava del Pliocene di questi luoghi le seguenti: 


Dorociduris papillata Leske Echinolampas hemisphaericus Lmx. 
Cidaris rosaria BRONN Echinolampas sp. (?) 

Porocidaris serraria BRonN Bryssopsis lyrifera Aa. 

Echinus hungaricus LauBE Toxobrissus crescenticus Des. (?) 
Psammechinus monilis Desm. Schizaster canaliferus Ao. 


Echinocyamus pusillus Mvenu. 


Mentre quindi il Manzoni, come risulta dalla nota precedente, 
conosceva 9 forme sicure e 2 dubbie, io ho potuto determinare 
nel Pliocene le seguenti 17 forme: 


(') Atti Soc. tosc. di Sc. nat. Proc. verb., X, Adunanza del 1° marzo 1896. 
(?) Echinodermi fossili pliocenici. Proc. verbali Soc. tosc. di Sc. nat., IV, Pisa 1880. 


10 


140 P. E. VINASSA DE REGNY 


Cidaris rosaria BROoNN Psammechinus n. f. ind. 
Porocidaris serraria BRONN Echinocyamus pusillus MuELL. 
Porocidaris cfr. serraria BRONN (?) Clypeaster Guidottii n. f. 
Dorocidaris papillata Leske Echinolampas hemisphaericus Lmx. 
Dorocidaris cfr. Bartletti Au. Ag. Bryssopsis lyrifera KNoRR 
Dorocidaris cfr. Blahei AL. Ag. Schizaster sp. ind. 
Echinus hungaricus LauBE » canaliferus Ac. 
Psammechinus momilis Desm. Hemiaster major Desor 

» var. depressa n. var. 


Dal Miocene, probabilmente Elveziano, di Vigoleno e Ciano 
d'Enza, provengono le seguenti specie: 


1. Clypeaster sp. ind. 3. Pericosmus cfr. affinis LauBE 
2. Schizaster cfr. Desori WRIGHT 4. Spatangus austriacus LauBE 


Tralasciando di occuparci delle forme mioceniche, vediamo 
che le forme plioceniche oggi viventi, oltre che nel Mediterra- 
neo, sono pure comuni nei mari caldi; non è quindi fuor di 
luogo supporre, che probabilmente vanno sensibilmente mutate 
le idee esposte già dal Manzoni, sulla somiglianza cioè della 
fauna pliocenica colla attuale mediterranea. Anche Siwonenti 
(Antozoi pliocenici del Ponticello di Savena, Palaeont. italica, 
I, pag. 167) nota la differenza per gli antozoi tra la fauna 
pliocenica del Ponticello e quella attualmente vivente nel Me- 
diterraneo; ForwaAsini pure è giunto a egual risultato pei fora- 
miniferi, ed è probabile che ulteriori studi sulla fauna gene- 
rale del Pliocene diano forse risultati notevoli e assai diversi 
da quelli sino ad ora ammessi. 

Dallo specchio seguente, in cui ho notato però le sole forme 
plioceniche, si vede che tutte quelle oggi viventi si trovano 
tanto nel Mediterraneo quanto nell'Atlantico; eccettuate le due 
forme Dorocidaris cfr. Bartletti, e D. cfr. Blakei, le quali sono 
esclusive dell'Atlantico; ma avendosi soltanto i radioli non vi 
è da dare ad esse una eccessiva importanza. A questo propo- 
sito anzi voglio nuovamente ricordare quanto già dissero Man- 
zoni ed altri: la poca importanza cioè che hanno le varie forme 
di radioli, e quanto sia necessario andar cauti nel fondare su 
di essi soltanto nuove specie o nel fare qualche determinazione. 


ECHINIDI NEOGENIC[ DEL MUSEO PARMENSE 


Elenco degli Echinidi neogenici del Parmense. 


141 


Pliocene Miocene Viventi 

NOME DELLA SPECIE È O sa E 
SIR EEE 
Cidaris rosaria BRONN. . cel ||aelaeflaeja= be 
Porocidaris serraria BRONN. ce — Re 
» efr. serraria BRONN. . pi || == 
Dorocidaris papillata LesxE . ccl+|-|-|+|+{|+|+ 
» cfr. Bartletti AL. Ac. r —|-|_-|=-|- | + 
» cfr. Blakei AL. Ag. n —{-|l=|l={={—-|4+ 
Echinus hungaricus LAUBE c +|-|J_-{+|-{|-]|- 
Psammechinus monilis Desm. CC NES MS O i a 
» var. depressa n. var. . | € Ce O e 
Psammechinus n. f. ind. gpieaellaefqplae{ede=|={|b= 
Echinocyamus pusillus MUELL ccl+|/t+|—-|+|-—-|+|+ 
Clypeaster Guidottii n. f. pap] || = 
Echinolampas hemisphaericus LMK. . | € +|-|+|+{|J+|-|+ 
Bryssopsis tyrifera KNORR. r —|-|-|-{[|+|+|+ 
Schizaster sp. ind. . r CR e 
» canaliferus AG. . eceolt+|—-|-|-|-|+|+ 
Hemiaster major DesoR . r Lia |-[k_-pf=-|[k_- bp 


! Ho indicato con lettere la maggior o minor frequenza dei fossili; così e vuol 


dire comune ; ce, comunissimo; 7, raro; 77, rarissimo, 


142 


1848. 


1850. 


1885. 


1858. 
1859. 


1862. 


1871. 


1872. 


1877. 


1878. 


1880. 


1880. 


1880. 


1880. 


1883. 


1883. 


1884. 


1889. 


P.E. VINASSA DE REGNY 


Elenco dei principali libri consultati 


Gras Arm. Description des Oursins fossiles du Département de 
Vl’ Isère. Grenoble-Paris. 

Arapas A. Monografia degli Echinidi viventi e fossili di Sicilia. Atti 
Accademia Gioenia, Vol. V, Serie II, Catania. 

Wricwr. On fossils Echinoderms from the island of Malta. Aunals 
and Magazine of natural History, Vol. XV. 

Desor E. Synopsis des Echinides fossiles. Paris-Wiesbade. 
MicneLin H. Monographie des Clypeastres fossiles. Mém. Soc. géol. 
de France, II série, T. VII, Mém. n. 2, pag. 101. 

Menecmni G. Sugli Echinodermi fossili neogenici dì Toscana, con 
2 tav., Siena. 

Lause G. C. Die Echinoiden der òsterreichisch-ungarischen oberen 
Terticirablagerungen. Abhandl. der k. k. geol. Reichsanst., Band V, 
Heft 3. 

Agassiz A. Revision of the Echini. Cambridge 1872, 1874. 
Locarnp A. et Correav G. Description de la faune des terrains ter- 
tiaires moyens de la Corse. Paris. 

Manzoni A. Gli Echinodermi fossili dello Schlier delle colline di Bo- 
logna. Denksch. der k. k. Akad. der Wissensch. Band 39, Abth. I. 
Manzoni A. Echinodermi fossili della Mollassa serpentinosa ecc., 
Ibidem, Band. 42, Abth. II. 

Manzoni A. Echinodermi fossili pliocenici. Atti Società tosc. d. Sc. 
nat., Proc. Verb., Vol. IV, Adun. 14 marzo 1880. PS 
Fucas Ta. Ueber einige tertiéire Echinide aus Persien. Sitzungh. der 
k. Akad. der Wissensch., Band LXXXI, Màrz-Heft, Wien. 
Seuenza. Le formazioni terziarie nella provincia di Reggio. Mem. 
Accad. dei Lincei, Serie III, Vol. VI. 

Acassiz A. Report on the Echini of the “ Blake ,. Cambridge 
Mass. 1883. 

Fucas in ZirreL. Beitrige zur Kenntniss der Geologie und Paleon- 
tologie der Lybischen Wiiste. Paleontographica, XXX, Cassel. 
SimoneLi V. I Monte della Verna ed i suoi fossili. Boll. Soc. geol. 
it., Anno II, Fasc. 3. 

SimoneLi V. Terreni e fossili dell’ isola di Pianosa nel mar Tir- 
reno. Boll. Com. geol., Serie II, Vol. X, fasc. 7, 8, pag. 193. 


DESCRIZIONE DELLE SPECIE 


Olostomata. 
Gen. Cidaris Lux. 


Cidaris rosaria Bronn. 


1862. Cidaris rosaria Bronn. MenecnImI. Echinod. neogenici della Toscana, 
pag. 16, tav. II, fig. 6, 7 (cum syn.). 
1880. Cidaris rosaria Bronn. Manzoni. Echin. pliocenici, pag. 3. 


È una forma comunissima nel Parmense. Nel nostro Museo 
— se ne hanno molti esemplari raccolti dal Gumorti accompagnati 
dal cartellino seguente: “ Aculei fossili di un Echinoderma, cioè 
della Cidarites nobilis del Minsrer e del GoLpruss. — Nota. Questi 
aculei furono creduti dal sig. dott. Gio. MicaeLorTi da Torino specie 
di Antipati, e da lui nominati Anthipates serialis, hirta, signata!!! ,, 
(sic). Come si vede, l’attento e diligente Gumorm aveva già prima 
del MenecnIi riconosciuto l'identità delle forme del MicHsLortI 
colla C. nobilis (non Mtnsr., non Gonpr.), figurata dal Sismonpa, la 
quale forma risponde alla C. rosarîa di Bronn. 

I radioli appartenenti a questa specie sono facilmente rico- 
noscibili per i loro aculei assai tra loro lontani, distribuiti per 
lo più in quattro serie, più o meno regolarmente equidistanti. 
Ma per la variabilità nell'’ornamentazione sono molto notevoli 
alcuni esemplari nei quali gradatamente le striature longitudi- 
nali prendono il sopravvento sopra la metà inferiore del ra- 
diolo, sino a obliterare totalmente le spine. Si hanno quindi 
radioli che da una parte rassomigliano alla C. rosaria tipica 
e dall'altra invece hanno un aspetto affatto diverso. 

Comune a Bacedasco, Tabiano e alla Costa presso Traver- 
setolo. 


144 P.E. VINASSA DE REGNY 


Gen. RPorocidaris Drs. 


Porocidaris serraria Bronn. 


1862. Porocidaris serraria Bronx. MenegnInI. Echinodermi neog. di To- 
scana, pag. 10, tav. II, fig. 1, 2; tav. I, fig. 3-5 (cum syn.). 

1862. Cidaris limaria Bronn. Mexecmni. Op. cit. pag. 19, tav. IL fig. 2. 

1880. Porocidaris serraria Bronn. Manzoni. Echinod. pliocenici, pag. 4. 


Manzoni inclina a considerare questa forma come una va- 
rietà della Cidaris rosaria Bronn; e poichè dobbiamo fon- 
darci sopra soli radioli potrebbe benissimo anche aver ragione. 
Ma non perciò credo inutile accennare anche a questa forma, 
benissimo figurata e maestrevolmente descritta dal MenscHNI, 
la quale sembra assai rara nelle argille di Bacedasco, da dove 
però vien citata anche dal Manzoni. 


Porocidaris cfr. serraria Brown. 


È questo un frammento di radiolo determinato dal Gumomi 
come Cidaris serraria Bronn. Esso però si distingue da questa 
specie assai bene a prima vista per le crenulazioni spinose molto 
più rade, quasi come nella C. rosaria Bronn. Ma da questa la 
tengono distinta le due sole serie di spine e la sezione ellittica. 

Sembra forma assai rara, conoscendone un solo frammento 
delle argille di Bacedasco. 

Nessuna delle forme atlantiche viventi che io conosco ha 
radioli simili a questo. 


Gen. Borocidaris Ac. 


Dorocidaris papillata Lesxe. 


1871. Cidaris Schwabenaui Lause. Echinoiden der ober. Terticrabl. pag. 
58, tav. 16, fig. 1. 

1874. Dorocidaris papillata Lesxe. A. AGassiz, Revision of the Echini, IL, 
pag. 254 (cum syn.). 

1878. Dorocidaris papillata Leste. Manzoni. Echinodermi dello Schlier di 
Bologna, pag. 5, tav. III, fig. 25-26. 


ECHINIDI NEOGENICI DEL MUSEO PARMENSE 145 


1880. Dorocidaris papillata Lease. Manzoni. Echinodermi della Mollassa 
serpentinosa, pag. 4. 
1880. Dorocidaris papillata Less. Manzoni. Echinodermi fossili pliocenici 


pag. 3. 


Numerosissimi sono i radioli che si trovano di questa bella 
specie, oggi vivente e nel nostro Mediterraneo e nell'Atlantico. 
Essi sono variabilissimi tanto nella forma quanto nelle orna- 
mentazioni. Ve ne sono alcuni, e sono i più piccoli, che misu- 
rano circa 20 mm. di lunghezza. Questi sono leggermente rigonfi 
nel loro terzo inferiore, e vanno quindi gradatamente termi- 
nando in una punta non molto acuta. Numerosi e fitti granuli 
posti in serie molto avvicinate adornano tutta la superficie. 
Queste serie sono più o meno regolari, e talvolta cessano, tal- 
volta sembrano bipartirsi. Crescendo le dimensioni del radiolo, 
cessa per lo più l’accenno alla rigonfiatura nel terzo inferiore, 
e i radioli divengono perfettameute conici; a seconda dell'età 
e dello stato di conservazione cangiano anche un poco gli or- 
namenti, dacchè si trovano radioli in cui sono quasi del tutto 
scomparsi i granuli e si hanno invece coste lineari, acute, sempre 
numerosissime, leggermente granulose: altri invece sono tutti 
quanti nodulosi e quasi sagrinati. 

Questa grande variabilità è stata forse la causa, che nume- 
rose forme credute nuove siano da riferirsi invece a questa 
forma vivente. Mi sembra non esservi dubbio che sia da rife- 
rire ad essa la Cidaris Schwabenaui del Lause, come anche as- 
serì lo stesso Manzoni. Probabilmente anche la Cidaris signata 
E. Sisw. figurata dal Menecami (Echinodermi foss. neog. di To- 
scana, pag. 23, tav. II, fig. 14) rientra in questa specie; essa 
non può distinguersi che per le serie dei noduli meno fitte. 
Anche la C. margaritifera Mea. (descritta a pag. 19, tav. II, fig. 
12, 18 della più volte citata memoria) non dovrà forse man- 
tenersi come buona specie: il rigonfiamento nel terzo inferiore, 
benchè il radiolo sia assai sviluppato, sembra accennare alla 
identità colla D. papillata. 

Nemmeno sono rare a trovarsi le placche interambulacrali 
riferibili a questa specie e sempre molto facilmente riconoscibili. 

Bacedasco, Tulignano, Riorzo, Castellarquato e Tabiano, co- 
munissima. 


146 P.E. VINASSA DE REGNY 


Dorocidaris cfr. Bartletti. Ar. Ac. 


È un radiolo pur troppo mancante di una parte mediana che 
però pei suoi ornamenti è assai fuori del comune. Le dimensioni 
sono limitatissime, non misurando esso completato più di 6 cm. 
di altezza. 

Sopra all’anello si ha prima uno spazio levigato, e poi si 
hanno otto coste lineari, molto regolari, diritte e tutte quante 
minutamente seghettate. In alto tale seghettatura svanisce poco 
a poco, e le coste levigate vanno morendo verso l'apice. Nessuna 
delle forme fossili neogeniche ha questa ornamentazione così 
caratteristica. Tra le viventi si ha invece una immensa somi- 
glianza, tranne che per le dimensioni assai più limitate, col ra- 
diolo della Dorocidaris Bartletti Ar. Ac. (Rep. of the Echini of 
the Blake, pag. 19, tav. II, fig. 20) delle Barbados. Naturalmente 
sopra un solo radiolo non so dare una determinazione specifica, 
solo mi è parso utile accennare a questo fatto, che con nuovo 
materiale potrebbe avere la sua importanza. 


Dorocidaris cfr. Blakei Ar. Ac. 


Oltre a varie placchette che ricordano immensamente questa 
specie esclusiva dell'Atlantico, ho pure qualche radiolo, che molto 
si assomiglia a quelli di questa specie. 

A confermare poi questa mia determinazione si è aggiunto 
un radiolo completo, perfettamente rispondente, che è stato 
trovato recentemente dal prof. SimoneLLi nel Tortoniano di Castel- 
nuovo dei Monti. Di questo radiolo benissimo conservato parlò 
il SimoneLLi in una sua nota preventiva, pubblicata nella Rivista 
italiana di Paleontologia, (anno II, fascicolo V) ed io fui lietis- 
simo che si aggiungesse nuovo materiale a rendere più probabile 
la mia determinazione. 


Dorocidaris sp. ind. 
Alcune placchette che si conservano in questo Museo mo- 


strano in parte somiglianze assai notevoli con quelle della Cidaris 
margaritifera Mea. (Ech. neog. d. Tosc. pag. 19, tav. II, fig. 13), ed 


ECHINIDI NEOGENICI DEL MUSEO PARMENSE 147 


in parte colla C. Munsteri E. Sism. (MenegHNI, loc. cit. pag. 21, 
tav. II, fig. 9, 10). Non saprei però con esattezza a quale ve- 
ramente riferirle, e dato il cattivo stato degli esemplari non az- 
zardo a identificarle con alcuna delle specie viventi: certo che 
le somiglianze colle Dorocidaris attuali, specialmente la D. pa- 
pillata Leske, D. Blackei A. Ac. e D. Bartletti A. Ac. è molto 
spiccata. 

Varie altre Cidariti sono citate da Bacedasco ecc., e tra 
queste, anche secondo Manzoni (Ech. pliocenici, pag. 4), la C. st- 
gnata E. Sisw. e la Rabdocidaris oxyrine Men. Della prima ho giù 
detto che, insieme alla C. margaritifera Mon., rientra forse nella 
vivente Dorocidaris papillata Leste, la seconda pure non rap- 
presenta, secondo me, che un radiolo diverso per posizione sul 
guscio, a forma spatolata, come se ne hanno in molte forme 
fossili e viventi, ad esempio nella Dorocidaris Blackei A. Ao. 
(Report on the Echini of “ Blake ,, pag. 10, tav. I, tav. II, fig. 
1-14). A questo proposito torno a ripetere quanto già dissi ri- 
spetto alla importanza dei soli radioli. 


Glyphostomata. 
Gen. Echinus Drs. 


Echinus hungaricus Lause. 


1871. Echinus hungaricus Lausr. Echinoiden der dst.-ung. oberen Ter- 
tidrablagerungen, pag. 60, tav. XVI, fig. 3. 

1871. Echinus due Lavse. Loc. cit., pag. 60, tav. XVI, fig. 2. 

1880. Echinus hungaricus Lause. Manzoni. Echinidi pliocenici, pag. 4. 


Un bellissimo esemplare di Castellarquato si distingue dal 
tipo figurato da Laure per una maggiore regolarità nella di- 
sposizione dei tubercoli delle zone ambulacrali, ove si ha co- 
stantemente un solo grosso tubercolo in vicinanza dei pori, e 
altri minori sparsi sulla placchetta. Come si può vedere confron- 
tando la figura 2a della tav. XVI del lavoro del Lause, questo 
carattere risponde bene a quanto si osserva nell’. dux LauBE; 
ora, poichè per le rimanenti ornamentazioni e per la forma 
generale il nostro esemplare è rispondentissimo al vero £. 
hungaricus, non credo di andare errato riunendo le due forme 


148 P.E. VINASSA DE REGNY 


del Lause in una sola, cosa a cui anche mi conforta l’ autore- 
vole parere del Manzoni (Eckinod. plioc., pag. 5). 
Castellarquato, sabbie gialle. 


Gen. Psammechinus Ac. 
Psammechinus monilis Desm. 


1871. Psammechinus monilis Desw. Lause. Echin. der òst.-ung. oberen 
Tertiiirabl. pag. 59 (cum syn.). 
1880. Psammechinus monilis Desu. Manzoni. Echinod. pliocenici, pag. 6. 


Una delle forme più comuni nel Pliocene del Parmense e 
facilissimo a trovarsi benissimo conservato. Gli individui da un 
minimo di 4-5 mm. di diametro giungono sino a 11 mm., il quale 
limite però raramente viene raggiunto. In alcuni individui resta 
anche ben conservato tutto il sostegno dell’apparato masticatore. 

Castellarquato, Lugagnano, Riorzo ecc. 


Psammechinus monilis Desw. 
var. depressa n. var. Fig. la, 15. 


Credo possa interessare la conoscenza di questa forma che 
non è molto rara nel Parmense. Essa mentre per 
gli ornamenti, la disposizione dei pori, le dimen- 
sioni e le posizioni relative delle zone ambulacrali 
non si allontana notevolmente dalla specie tipica, 
se ne distingue però per la forma molto più 
depressa; infatti mentre nel Ps. monzlis comune il 
rapporto di altezza col diametro è circa come 100:140, in 
questa varietà invece è come 100: 200. 

Una forma assai prossima a questa va: 
rietà è il Psammechinus affinis Fucas (1), il 
quale pure ha quasi le stesse proporzioni di 
altezza e di diametro; ma la specie di Persia 
è immensamente più rotondeggiante sui 
fianchi, mentre la varietà nostra è assai 
più acuta verso l’apice. 

Ne conosco tre esemplari di cui due benissimo conservati 
delle sabbie gialle di Lugagnano. 


Fic. la. 


Fic. 1 d. 


(1) Ueber einige tertiiire Echinide aus Persien, pag. 99, tav. I, fig. 6-16. 


ECHINIDI NEOGENICI DEL MUSEO PARMENSE 149 


Psammechinus n. f. ind. 


È un esemplare purtroppo assai mal conservato, e che quindi 
non mi permette nè un sicuro riferimento a specie già nota, nè 
una descrizione particolareggiata. Ha una forma assai depressa, 
slargata in basso, assai prossima a quella precedentemente de- 
scritta della var. depressa del Psammechinus monilis. Sono ca- 
ratteristici i grossi tubercoli delle zone interambulacrali, posti 
in un’ unica serie molto distanti tra di loro e sporgenti special- 
mente verso il punto del massimo allargamento del perisoma. 
Questo fatto fa assumere all’esemplare un aspetto speciale ca- 
ratteristico, simile a quello degli Streckinus, al qual genere in- 
fatti l'avevo dapprima ravvicinato, mentre ho dovuto convin- 
cermi, che si trattava di un vero e proprio Psammechkhinus, di 
specie probabilmente nuova. 

Un unico esemplare delle argille di Castellarquato. 


Heterognati. 


Gen. Echinocyamus vin Paris. 


Echinocyamus pusillus Murtt. 


1858. Echinocyamus pusillus Few. Desor. Synopsis, pag. 218 (cum syn.). 

1871. Echinocyamus transylvanicus Lause. Echin. der ést.-ung. oberen 
Tertiirablag., pag. 61, tav. XVI, fig. 4. 

1880. Echinocyamus pusillus Murru. Manzoni. Echinidi pliocenici, pag. 6. 


Non difficile a trovarsi in molto ben conservati esemplari, 
i quali esaminati con ogni cura mi son sembrati identici alla 
specie vivente, non solo, ma anche perfettamente rispondenti 
alla forma descritta dal Lause sotto il nome di 4. transylva- 
nicus. 

Castellarquato, sabbie gialle. 


150 P.E. VINASSA DE REGNY 


Gen. Clypeaster Lay. 
Clypeaster Guidottii n. f —Fig. 2a, 28, 2e. 


Forma assai piccola, ovale, un poco allungata verso l’alto; 
lateralmente nella metà quasi rettilinea; poco rigonfia. Il mas- 
simo dell'altezza si trova quasi ai %5 verso l’indietro; in avanti 
la superficie scende al margine regolarmente inclinata ed in li- 
nea retta; verso l’indietro si ha una curva assai spiccata. La 


x 


faccia inferiore è assai piatta verso il margine, si rigonfia 


Tic. 2a. - Fic. 2 d. 


Fic. 2 c. 


leggermente verso la metà interna, e quindi si abbassa sino 
al peristoma, formando una depressione assai notevole. Cinque 
solchi assai profondi, ben distinti e leggermente ondulati par- 
tono dalla bocca, e si continuano sino al margine ove sono sem- 
pre ben visibili. Le aree ambulaccali sono petaliformi, non molto 
allungate, arrivando esse sin presso ad un terzo dal margine. Gli 
ambulacri hanno forma ovale allungata, e sono ampiamente 


ECHINIDI NEOGENICI DEL MUSEO PARMENSE 151 


aperti; l'anteriore è più lungo degli altri quattro ed è assai più 
aperto di essi. Tutta la superficie è ricoperta di numerosi tu- 
bercoli assai fitti, disposti irregolarmente, molto più numerosi 
però sulla faccia inferiore che non sulla superiore. L'apertura 
anale è quasi marginale, a contorno leggermente ovale. I pori 
delle aree ambulacrali sono distintamente coniugati; edi sol- 
chi che li uniscono sono rettilinei e assai fitti. 

A causa dello stato di conservazione dell'esemplare non si 
distinguono maggiori particolarità nell’apparato apiciale, nelle 
zone porifere e interporifere e nel peristoma. 

È questa, che io mi sappia, la prima forma di Clypeaster 
trovata a Castellarquato, ove sembra però rarissima. Anzi 
debbo avvertire che a Castellarquato io non ho mai raccolto 
alcun COlypeaster, e quindi devo citare questa località con bene- 
fizio d'inventario. La località era indicata nel solo cartellino: 
i cartellini del Museo però sono in generale accuratissimi es- 
sendo essi per la maggior parte fatti dal Gumorti o dal Det- 
PRATO entrambi molto esatti nelle loro indicazioni: mi ha fatto 
però ancor più dubitare della esatta provenienza di questo 
esemplare la presenza in collezione di un Clypeaster, di cui par- 
lerò in seguito, e che offre le più grandi somiglianze con que- 
sta nuova specie e questo secondo esemplare sembra prove- 
nire dai nostri terreni elveziani. È quindi con un poco di dubbio 
che cito come pliocenico il C7. Guidotti. 

Se però vi può esser dubbio sulla esatta località di questa 
nuova forma, non credo che del pari sia da dubitare sulla sua 
determinazione. 

@on nessuno dei Clypeaster descritti nella classica Monografia 
del MicÒsLiN, con nessuno di quelli di Reggio descritti dal SEGUENZA, 
nè di quelli di Egitto descritti dal Fucrs, nè di quelli di Pianosa 
descritti dal SrmoneLLi, e nemmeno con altri, ancora inediti, e 
che speriamo veder presto illustrati dall’egregio dott. Dr Ste- 
FANO, per citare solo i più importanti tra i fossili, si può, a mio 
credere, confondere questa nuova specie, che si distingue a prima 
vista per le sue dimensioni limitate, per la sua forma, la sua 
sezione e pei suoi ambulacri ampiamenti aperti. 


152 P.E. VINASSA DE REGNY 


Atelostomata. 


Gen. Echinolampas Gray. 
Echinolampas hemisphaericus Lwx. sp. 


1848. Echinolampas hemisphaericus Lux. Gras. QOursins de VIsère, pag. 52 
(cum syn.). 

1877. Echinolampas hemisphaericus Lux. Correv in Locar. Terr. tert. 
de la Corse, pag. 275 (cum syn.). 

1880. Echinolampas hemisphaericus Lug. Manzoni. Echinod. della Moll. 
serpent., pag. 4, tav. I, fig. 1-3. 

1880. Echinolampas hemisphaericus Lux. Manzoni. Echin. pliocenici, pag. 6. 


Due grandi esemplari molto ben conservati, in uno dei quali si 
è benissimo mantenuto tutto l'apparato apiciale. Il secondo esem- 
plare assai più grande si distingue dal primo per le zone ambu- 
lacrali petaloidee un poco più rilevate del resto del perisoma. 
Riorzo di Castellarquato, nelle sabbie gialle. 


Gen. Brissopsis Aciss. 
Brissopsis lyrifera Kvworr. 


1880. Bryssopsis lyrifera Knorr. Mavzox. Echinodermi della Mollassa, 
pag. 6, tav. II, fig. 19-21. 


La specie non sembra molto comune qui, conoscendone solo 
pochi esemplari; essi sono assai ben rispondenti alle figure date 
dal Manzoni di questa specie. . 

Castellarquato. 


Gen. Schizaster Acass. 


Schizaster canaliferus Ac. 


1848. Schizaster canaliferus Aa. Desor. Synopsis, pag. 389, tav. XLIII, 
fi OZ 
1880. Schizaster canaliferus Manzoni. Echinod. pliocenici, pag. 8. 


E questa una delle forme più comuni nei depositi di mare 
un poco profondo. Ne ho esemplari di variatissime dimensioni 


ECHINIDI NEOGENICI DEL MUSEO PARMENSE 153 


da 3 cm. a 8cm. di diametro, ma per lo più non troppo ben 
conservati. 

. Comunissimo a Castellarquato, Riorzo e a Sivizzano presso 
Traversetolo, ove il prof. StimoneLi lo raccolse recentemente in- 
sieme agli Pteropodi. Del resto poi si trova in moltissime altre 
località del nostro Appennino. 

Mi sia qui permesso di osservare come lo Sehizaster orbignyanus 
Ar. Ac. del Blake. sia probabilmente tutt'una cosa colla forma 
mediterranea, come l’Acassiz stesso suppone; i caratteri dati 
dall’Acassiz non mi sembrano sufficienti a distinguere le due 
specie; del resto la questione potrà risolversi bene soltanto 
quando si potranno instituire confronti accurati tra le forme 
viventi: in questo studio non saranno da tralasciare anche gli 
esemplari fossili, i quali però sono sempre purtroppo assai mal 
conservati. 


Schizaster sp. ind. 


Il petalo ambulacrale mediano assai più largo, a bordi quasi 
paralleli e coi pori disposti in linea retta lungo i margini di- 
stinguono il nostro esemplare da quello figurato dal Manzoni 
(Echinod. della Moll. serpentinosa, Tav. 3, fig. 29, 30) sotto il nome 
di Schizaster Desori; ma d'altra parte lo stato dell'esemplare non 
permette altri ravvicinamenti più sicuri, e nemmeno mi azzar- 
derei a dare una diagnosi di nuova forma sopra un materiale 
così manchevole. 

Castellarquato. 


Gen. Hemiaster Drs. 


Hemiaster major Des. 


1848. Schizaster major Desor. Synopsis, pag. 390. (cum syn.) 


Esemplare bellissimo e benissimo conservato, determinato 
in Museo come Schizaster Scellae. Ma dopo accurato studio ho 
dovuto convincermi di avere a che fare con altra specie, ed il 


154 P.E. VINASSA DE REGNY 


complesso dei suoi caratteri infatti mi sembra tale da giustifi- 

care pienamente la nuova determinazione. Accurati confronti 

fatti sopra un altro pure bellissimo esemplare del Museo pisano mi 

hanno poi sempre più confermato in questo nuovo ravvicinamento. 
Argille di Castellarquato. Unico. 


APPENDICE 


Ricordo qui.brevemente le forme del Miocene di Vigoleno 
e Ciano d'Enza che si conservano nel nostro Museo. Probabil- 
mente entrambe le località sono da ascriversi all’ Elveziano. 
Come ho già accennato le specie che ho potuto determinare 
sono le quattro seguenti: 


Clypeaster sp. ind. Pericosmus cfr. affinis LauBE 
Schizaster cfr. Desori WRIGHT. Spatangus austriacus LAUBE 


Gen. Clypeaster Law. 


Clypeaster sp. ind. 


Come ho già accennato avanti (pag. 14) questo esemplare, 
quantunque mal conservato, dimostra somiglianze grandissime 
col Clypeaster Guidotti, distinguendosi solo, per quanto possa 
giudicarne, per un contorno un poco più arrotondato. L’indi- 
cazione della località, non di mano del Gumorti, è Vigoleno (nel 
Piacentino), e l'aspetto della roccia sembrerebbe confermare 
questa indicazione. È appunto la presenza di questo esemplare, 
quasi certamente miocenico, che mi ha fatto dubitare della 
località indicata per il CI. Guidotti da me innanzi descritto. 


Gen. Schizaster Ac. 


Schizaster cfr. Desori Wricnm. 


Il cattivo stato dell'esemplare non mi permette un sicuro 
giudizio su di esso. Nessuna forma però gli si può meglio av- 
vicinare di questa del Wricat (1). 

Elveziano di Vigoleno. 


(4) WrinT. On fossil Echinoderms from Malta, pag. 50, tav. VI, fig. 3. 


ECHINIDI NEOGENICI DEL MUSEO PARMENSE 155 


Gen. Pericosmus Ac. 
Pericosmus cfr. affinis Lause. 


Il cattivo stato di conservazione dell'esemplare non mi per- 
mette una determinazione abbastanza sicura. Dalla forma tipica 
figurata da Lause (!) il nostro esemplare differisce per la zona 
porifera dell’ambulacro mediano, che si spinge assai di più verso 
il margine; per tutto il resto è rispondentissimo. 

Elveziano di Vigoleno. 


Gen. Spatangus KLEn. 


Spatangus austriacus Lause. 


1880. Spatangus austriacus Lause. Manzoni. Echinod. dello Schlier di Bo- 
logna, pag. 12, tav. II, fig. 10-15; tav. III, fig. 19-22; tav. IV, 
fig. 40, 41 (non Lausr?). 


Nel Museo si conservano tre belli esemplari, che credo po- 
ter riferire con tutta sicurezza a questa specie del Miocene di 
Vienna e di Bologna. Il Manzoni ha dato delle bellissime figure di 
questa forma, comune assai nel Miocene del Bolognese, ed ha cre- 
duto di vedere in essa-lo Sp. austriacus del Lause (Echin. des 
Ost.-ung. ob. Tertiùrab., pag. 73, tav. 19, fig. 2). Ora la figura del 
Lause non è molto chiara, ed anche la descrizione non cor- 
risponde forse troppo agli esemplari italiani, tanto che si pre- 
senta giusto il dubbio, già accennato dal prof. Simone (*), che la 
forma figurata e descritta dal Manzoni sia da considerarsi come 
nuova, e quindi debba cambiare il nome in Sp. Manzonii Sm. 
Lascio a chi avrà la possibilità di vedere gli originali di LAuBE 
di risolvere una tal questione. 

Marne di Casazza di Ca' di Fràr. Ciano d'Enza. 


Parma, Museo geologico, luglio 1896. 


(1) Echinoiden der vst. ung. oberen Tertiirablag., pag. 68, tav. 17, fig. 3. 
(2) Il Monte della Verna ed i suoi fossili, pag. 44, tav. 6, fig. 22. 


Se. Nat. Vol. XV il 


LABORATORIO DI PATOLOGIA GENERALE DELLA R. UNIVERSITÀ DI Pisa 


G. GUARNIERI 


ULTERIORI RICERCHE 
SULLA ETIOLOGIA E SULLA PATOGENESI 


DELLA INFEZIONE VACCINICA 


I fatti, che descrissi in una memoria sulla etiologia e sulla 
patogenesi della infezione vaccinica e vaiolosa pubblicata nel 1892('), 
hanno trovato conferma nei lavori che in questi ultimi anni 
furono fatti intorno a così interessante argomento. Nella mag- 
gior parte di queste pubblicazioni sono state accettate anche 
le induzioni, che a rigore di logica mi parve dovessero trarsi 
dallo studio analitico dei fenomeni che io potei osservare. 

Le mie ricerche mi condussero a stabilire, che tanto nelle 
produzioni patologiche spontanee quanto in quelle sperimental- 
mente provocate, così nella infezione vaccinica come in quella 
vaiolosa, si ritrovano costantemente dei corpicciuoli dotati di 
movimenti ameboidi. Essi, specie negli stadi giovani delle alte- 
razioni anatomiche [stadi prepustolari], erano posti nel corpo 
delle cellule epiteliali dentro ad una specie di vacuetto sca- 
vato a spese del protoplasma cellulare. Questi corpicciuoli, 
trattati con alcuni reattivi, per esempio con l’ematossilina, mo- 
stravano molto colorata la parte centrale e meno la porzione 
più esterna. Talvolta essi assumevano l'aspetto di elementi in fasi 
di divisione. Mi sembrò conforme al vero l'ipotesi, che ognuno 
di questi corpicciuoli potesse considerarsi come un essere pa- 
rassitario, al quale mi parve opportuno di apporre il nome di 
Citoryctes desumendolo dalle sue apparenti proprietà patologiche. 
Ritenni difatti, perchè appariva chiaro dalle mie ricerche, che 
l'alterazione anatomica caratteristica tanto della infezione vacci- 


(4) G. GuarnIERI. — Archivio per le Scienze Mediche, Vol. XVI, N. 22. 


ULTERIORI RICERCHE SULLA ETIOLOGIA È SULLA PATOGENESI ECC. 157 


nica come di quella vaiolosa, cioè la distruzione cavitaria delle 
cellule epiteliali, fosse dovuta all’ azione corrodente di questo 
parassita. Data in tal maniera la ragione sufficiente per intendere 
il meccanismo di formazione della serie delle alterazioni anato- 
miche, mi sembrò verosimile per naturale induzione di ricono- 
scere in questi esseri parassitari la causa dei processi morbosi. 

In tale ordine d'idee entrarono la maggior parte dei ri- 
cercatori, che presero a studiare dopo di me la patogenesi e 
l’etiologia della infezione vaccinica e vaiolosa. Basta difatti ri- 
cordare le publicazioni di L. Prerrrer (4), di J. Jackson CLarke (*) 
e di Rurrer e PLmmer ($), i quali ultimi specialmente, malgrado 
il loro primitivo scetticismo, sono arrivati, dopo le loro ricerche, 
a concetti perfettamente simili ai miei. 

Il Mowri (4), che studiò con molta accuratezza specialmente 
la infezione vaiolosa, venne alla conclusione, che nelle lesioni 
cutanee di questa malattia si riscontrano dei particolari cor- 
puscoli intracellulari dotati di movimenti ameboidi, i quali deb- 
bono considerarsi come esseri parassitari. 

Più recentemente il v. Sicterer (°) nel laboratorio del prof. 
Bucaner ricercando sopra le alterazioni prodotte sperimental- 
mente con la inoculazione di linfa vaccinica in cornee di co- 
nigli, ritenne, confermando quanto era stato asserito da me 
e da L. Prerrrer, che le lesioni degli epiteli erano dovute al- 
l’azione di speciali corpi parassitari. 

Infine Ernesto Prerrrer (9) per consiglio e sotto la direzione 
del prof. Bùrscai fece studi diligentissimi sulle alterazioni che 


(4) L. Prererer. — Behandlung und Prophylaxe der Blattern. (Pentzold und 
Stintzing's Handbuch der Speziellen Therapie innerer Krankheiten). Bd. 1. Jena (Fi- 
scner) 1894. 

(2) I. Jackson CLARKE. — Hinige Beobachtungen diber die Morphologie der Spo- 
rozoen von Variola, sowie diber die Pathologie der Syphilis. Centralblatt f. Bakt. u. 
Parasitenk. Bd. XVII, 1895, N. 9-10. — A note on variola and vaccinia. Transactions 
of the Pathological Society of London, 1895. 

(?) RurrerR e Puimmer. — Brit. Med. Journ. 1894, vol. I, pag. 1412. 

(4) A. Monti. — Sulla etiologia del vaiolo e sulle localizzazioni del virus vaioloso. 
Atti dell'XI Congresso medico internazionale. Vol. II, Roma 1894. 


(5) v. SicaerER. — Beitrag zur Kenntnis der Variola Parasiten. Minchener 
med. Wochenschr. 1895, N. 34. 

(6) Ernest Premrrer. -- Ueber die Ziichtung des Vaccineerregers in dem Cor- 
neaepithel des Kaninchens, Meerschweinchens und Kalbes. Centrabl. fiir Bakt. u. Pa- 


rasitenk. Abt. I, Bd. XVIII, N. 25. 


158 G. GUARNIERI 


seguono nell’epitelio corneale dei conigli, delle cavie e dei vi- 
telli alle inoculazioni di linfa vaccinica. Dal complesso delle sue 
ricerche egli potè trarre la conclusione, che i corpicciuoli, i quali 
compaiono nell’epitelio della cornea per l’irritazione del virus 
vaccinico, sono i rappresentanti di un contagio animato e man- 
cano con la irritazione di sostanze anorganiche. In un periodo 
della sua pubblicazione egli si esprime con queste parole: © Ver- 
fasser Kommt auf Grund der nachfolgenden Untersuchungen zu 
dem Resultat, dass die Guarnieri sche Deutung die allein berechtigte 
ist; die fremdartigen Gebilde am Kern sind die Triiger des Con- 
tagiums und als spezifisches Contagium animatum aufzufassen ,. 

La convinzione della giustezza di questo concetto, che cioè i 
corpicciuoli, i quali si rinvengono costantemente nelle altera- 
zioni patologiche del vaccino e del vaiolo, sieno dei veri esseri 
parassitari, e sieno la ragione dei processi morbosi in parola, 
è andata sempre più crescendo nell’animo mio tutte le volte 
che ho potuto eseguire nuovi studi sull'argomento. Mi è parso 
far cosa utile render conto brevemente di alcune di queste ri- 
cerche riguardanti l'infezione vaccinica, poichè esse contribui- 
scono ad illustrare la genesi di un processo patologico, che ha 
così alta importanza nelle scienze mediche. 


x 
* o * 


Con detritus di pustole vacciniche ottenuto dall’ Istituto vac- 
cinogeno dello Stato son potuto più volte tornare allo studio 
delle proprietà morfologiche dei Citoryctes in esso contenuti. Il 
materiale raccolto dalle pustole veniva conservato in tubetti 
sterilizzati. Dopo avere dissociato in una capsulina con aghi 
sterilizzati piccole quantità di questo detritus in siero di sangue 
di bue pure sterilizzato e centrifugato od in siero artificiale, 
venivano con i metodi usuali fatti dei preparati a goccia pen- 
dente fermando la lastrina con lanolina o con la colla di amido. 
Osservando con lenti ad immersione omogenea le preparazioni, 
ho sempre ritrovato fra gli elementi morti del tessuto pustolare 
ora più ora meno abbondanti corpicciuoli che, come del resto 
è noto (Van per Loerr, PrerrreR, GUARNIERI), presentavano movi- 
menti, per i quali la configurazione della loro massa subiva con- 
tinue trasformazioni. Questi movimenti si rendevano assai più 


ULTERIORI RICERCHE SULLA ETIOLOGIA E SULLA PATOGENESI Ecc. 159 


evidenti, se le preparazioni così fatte venivano tenute per alcune 
ore nel termostato alla temperatura di 30°-35°c., e se le osserva- 
zioni si facevano nella stagione estiva o servendosi del tavolino 
riscaldatore. Ben presto però essi si vedevano cessare se i prepa- 
rati erano sottoposti per 10 o 15 minuti ad una temperatura di 
poco superiore a 45° c. in una stufa sterilizzatrice a vapor di acqua 
od in una stufa ad aria calda. Come pure i movimenti man- 
cavano nei preparati a goccia pendente, quando essi venivano 
fatti con il materiale dissociato in una capsula ricoperta da 
carta da filtri e tenuta per lo spazio di 20-30 minuti alla tem- 
peratura di 45° c. in una stufa a vapore. Mi pare, che questi 
fatti, i quali si accordano con quelli osservati da E. PrerrreR, (1) 
contribuiscano potentemente a far ritenere il fenomeno dei mo- 
vimenti nei corpuscoli del vaccino come vere e proprie mani- 
festazioni vitali, come caratteristici movimenti ameboidi. Questo 
giudizio poi appare tanto più logico in quanto si vede, che an- 
che il raffreddamento influisce su tali movimenti rendendoli 
più torpidi. 


* 
** 


Un'altra serie di fenomeni, a mio giudizio assai interessanti, 
ho potuto osservare seguendo la sorte di questi Citoryctes do- 
tati di movimenti ameboidi attraverso il ciclo evolutivo delle 
alterazioni patologiche specifiche della infezione vaccinica. Sono 
riuscito facilmente ad ottenere questo scopo approfittando del 
fatto, che negli animali predisposti a questa infezione si pos- 
sono determinare sperimentalmente delle caratteristiche altera- 
zioni anatomiche con le inoculazioni sulla cornea. Quivi, come 
è noto per le mie ricerche, si possono seguire passo passo le 
varie fasi del processo e specialmente le manifestazioni iniziali 
prima che i punti d’infezione sieno invasi dai leucociti mi- 
gratori. 

Tutte le volte che ho potuto avere materiale adatto, con 
i metodi altra volta descritti ho praticato molti innesti a co- 
nigli, parecchi a cavie, alcuni a pecore, due ad una vitella. 
Esportai le cornee a diversi periodi di tempo dalla inocula- 


(4) Loc. cit. 


160 G. GUARNIERI 


zione e, previa fissazione nella soluzione di sublimato acetico, 
od in quella di sublimato e bicromato di potassa, le conservai 
nell’alcool a 90°. Con i pezzi inclusi in paraffina feci delle sezioni, 
che, attaccate alle lastrine copri-oggetti e liberate dalla paraf- 
fina, sottoposi all’azione di diverse sostanze coloranti. 

Osservando i preparati al microscopio si nota subito, che nel 
praticare l’inoculazioni d’ordinario con la punta dell'ago lan- 
ceolato si suole penetrare al disotto dell'epitelio nelle lamelle 
corneali tagliandole in senso molto obliquo, distaccandole tal 
volta le une dalle altre per un tratto considerevole. In queste 
fessure si suole ritrovare il materiale innestato composto di 
detriti di tessuto con frammenti di cellule e di nuclei ammas- 
sati in mezzo ai quali è difficile riconoscere i corpuscoli del 
vaccino. 

Questi fatti semplicissimi si osservano quando si prendono 
ad esaminare preparati di cornee asportate appena 15 o 20 
minuti dopo aver praticato l'innesto, mentre invece già nello 
spazio di tempo successivo fino a 15 ore dall’inoculazione si ma- 
nifestano fenomeni che meritano una esatta descrizione. 

Uno dei fatti, che si presenta precocemente nelle prime ore 
consiste nella presenza lungo i margini della lesione corneale di 
corpicciuoli ordinariamente rotondeggianti od ovoidei, i quali 
ora più ora meno abbondanti vanno a tappezzare le pareti della 
ferita corneale. Nelle ore successive questi corpicciuoli si rin- 
vengono anche negli spazi interlamellari della cornea, così 
nelle adiacenze della fenditura fatta dall’ago lanceolato, come 
a distanza da esso. Questi corpicciuoli sono d’ordinario radunati 
in maggior numero negli strati di lamelle corneali più superficiali, 
e sono più rari in quelle più profonde. 

Essi sono di grandezza varia, talchè mentre alcune volte 
uguagliano il volume di globuli rossi [paragone che facilmente 
si può fare, perchè d’ordinario nel materiale vaccinico inocu- 
culato si rinvengono globuli rossi di vitello], alcune altre in- 
vece sono più piccoli di un terzo o di un quarto di essi. Sono 
comunemente di forma, come abbiamo già detto, rotondeg- 
giante od ovalare, ma possono assumere i più svariati aspetti 
come a biscotto, a digitazioni; presentano alcune volte degli 
spazietti chiari nel loro corpo. Trattati con sistemi adatti di co- 
lorazione, in essi si possono distinguere sostanze diverse. Nelle 


ULTERIORI RICERCHE SULLA ETTOLOGIA E SULLA PATOGENESI ECC. 161 


preparazioni per esempio fatte con metodi proposti dal Benpa (1), 
immerse successivamente in soluzioni acquose di Eosina od in 
soluzioni alcooliche di Auranzia, essi presentano sovente un corpo 
centrale colorato in violetto oscuro ed un piccolissimo strato 
di sostanza periferica posta eccentricamente, tinta in rosa dalla 
eosina. 

Questi corpicciuoli trovansi comunemente negli spazi la- 
cunari od anche in quelli interfibrillari, dove sono posti den- 
tro a specie di vacuetti; la qual cosa si osserva bene nei 
preparati a doppia colorazione dove essi spiccano in mezzo ad 
uno spazio chiaro rotondeggiante nettamente disegnato. Par- 
rebbe che queste piccole escavazioni nella sostanza propria della 
cornea si potessero sino ad un certo punto paragonare a quelle 
che si ritrovano nell’epitelio, senonchè esse differiscono da que- 
ste, perchè sono risultanti dalla divaricazione delle lamelle e 
dalla dilatazione dei canalicoli umoriferi, mentre nell’ epitelio 
le escavazioni sono dovute propriamente a corrosioni del corpo 
cellulare. 

Mi sembra però che questo fatto non possa contradire in nes- 
sun modo l’idea che risulta naturale dal complesso di queste 
osservazioni, che cioè questi corpicciuoli sorpresi frequentemente 
dentro a spazietti chiari sieno corpicciuoli vaccinici, Citoryctes, 
migranti per i canali dei succhi nutritizi della cornea. Infatti la 
successione dei fenomeni a cui sopra abbiamo accennato, la 
forma caratteristica dei corpicciuoli, le alterazioni speciali della 
sostanza propria della cornea con le dilatazioni vacuolari tro- 
vano assai naturalmente la loro ragione sufficiente di essere nel 
concetto di una infiltrazione parassitaria. 

Nè si può in questo caso, a me sembra, essere tratti in 
errore di giudizio dalle infiltrazioni di leucociti, nè dai fenomeni 
di reazione e di degenerazione delle cellule fisse della cornea 
per la irritazione meccanica del traumatismo e per quella spe- 
cifica del virus vaccinico. Basta riflettere in primo luogo, che 
i fatti che abbiamo sopra enumerati s’' iniziano molto precoce- 
mente, quando non si può in nessun modo parlare d'’ infiltra- 
zioni leucocitarie, senza contare poi, che i caratteri morfologici 


(4) Bernnaro Rawirrz. — Leitfaden fiir Mistiologische Untersuchungen. Jena 
(Fischer), pag. 73-74. 1895. 


162 G. GUARNIERI 


dei Citoryctes non permettono assolutamente, che si possano 
scambiare per cellule bianche migratrici. D'altra parte le mo- 
dificazioni, che si determinano abbastanza sollecitamente nelle 
cellule fisse corneali riguardano fenomeni, che si compiono nel- 
l’interno del loro protoplasma. Questi fenomeni si devono te- 
nere in considerazione nei rapporti diretti di queste cellule con 
i parassiti del vaccino (della qual cosa io per ora taccio avendo 
delle ricerche incomplete a tale riguardo) ma essi certo non si 
potranno invocare giammai per dare la ragione d’esistenza di 
corpi morfologicamente ben determinati, posti a distanza dalle 
cellule stesse e spesso in piani diversi da quelli che esse oc- 
cupano. 


* 
* 


Mentre negli stadi iniziali delle alterazioni patologiche delle 
cornee inoculate col vaccino i parassiti specifici di questa infe- 
zione, come abbiamo visto, sono spesso numerosi fra le lamelle 
della sostanza propria, nelle cellule epiteliali di rivestimento 
sono assai scarsi, anzi si può dire che vi si ritrovano solo ec- 
cezionalmente. Più tardi però nei periodi successivi essi com- 
paiono talvolta in numero grandissimo. 

Con questa comparsa del corpicciuolo parassitario nelle cel- 
lule epiteliali della cornea coincide sempre il fatto della così 
detta degenerazione cavitaria (Leloir) del protoplasma di esse. Si 
può dire che si entra in pieno processo di questa degenerazione 
cavitaria dopo 24 ore dalla inoculazione. Essa s’'inizia con la 
comparsa nel protoplasma degli epiteli di piccole cavità, le 
quali sovente sono in rapporto di Contatto con il nucleo cel- 
lulare, ma altre volte sono da esso lontane, occupando la parte 
più periferica del protoplasma stesso. Quando esse sono in rap- 
porto con il nucleo, questo presenta ordinariamente un’ infos- 
satura nella sua membrana per cui esso ne resta variamente 
deformato; quando invece le cavità sono lontane, in esso non 
si osservano alterazioni apprezzabili. 

È caratteristico l'aspetto che hanno queste specie di nicchie 
nelle cellule epiteliali. La loro configurazione si può con van- 
taggio osservare nei preparati con l’ematossilina iodica e nelle 
sezioni non molto sottili. Nelle cellule epiteliali rimaste intatte 


ULTERIORI RICERCHE SULLA ETIOLOGIA E SULLA PATOGENESI Ecc. 163 


nel taglio queste cavità appaiono rotondeggianti, con la su- 
perficie ineguale, e la ineguaglianza apparisce come l’effetto 
di una corrosione. In queste cavità si ritrovano costantemente 
innicchiati i parassiti del vaccino, i quali in questi stessi pre- 
parati trattati con la ematossilina iodica assumono un colore 
violaceo, mentre i nuclei ed il protoplasma diventano distinta- 
mente turchini. Sottoposti all’azione di miscele coloranti atte 
a mettere in evidenza nei tessuti i blastomiceti non hanno 
mai, per quante prove io abbia ripetuto, assunto la caratteri- 
stica colorazione, nè hanno mai con il rosso magenta presen- 
tati fenomeni di metacromasia, che, come è noto, posseggono 
alcuni corpicciuoli ritenuti per forme blastomicetiche (!). Nei 
preparati non colorati e chiusi in glicerina presentano una ri- 
frazione della luce assai intensa, ed un colorito giallognolo per 
cui spiccano in modo assai evidente fra i diversi elementi del 
tessuto. 

Intanto questi parassiti annidati nelle cellule epiteliali in 
degenerazione cavitaria aumentano nelle ore successive; ed i 
progressi della infezione si possono seguire passo passo fin oltre 
le 60 ore dalla inoculazione, prima che i leucociti vengano ad 
infiltrare il campo ove si svolge il processo patologico. Gli 
elementi epiteliali, che maggiormente vengono colpiti dalle 
alterazioni sono d’ordinario quelli adiacenti al punto d’inocu- 
lazione ed in ispecial modo degli strati più profondi a cellule ci- 
lindriche, ed i gruppi di giovani cellule epiteliali, che come è 
noto, derivano dalla proliferazione costante degli epiteli nelle 
adiacenze del punto dove è stato praticato l'innesto. L'inva- 
sione progressiva di questi segue ai processi di moltiplicazione 
dei Citoryctes che si trovano nelle cellule vicine, ma anche, come 
sì può osservare chiaramente in alcuni preparati, essa può av- 
venire per la migrazione dei parassiti provenienti da una certa 
distanza, come per esempio dagli spazi interlamellari attraverso 
la membrana di Bowmann. 

La moltiplicazione di questo parassita, come ho già da tempo 
sostenuto avverrebbe per scissione, ed in quest'ordine d'idee 
convengono la maggior parte degli autori che se ne sono oc- 


(1) G. GuarnIERI. — Iicerche sulla etiologia della congiuntivite tracomatosa. Pro- 
cessi verbali della società Toscana di Scienze Naturali. (Adunanza del 5 luglio 1896). 


164 G. GUARNIERI 


cupati. Osservando però alcuni preparati, specialmente una serie 
di essi fatti sopra cornee di agnelle estirpate a diverse epo- 
che dalla inoculazione, ho potuto vedere gruppi di Citoryctes i 
quali presentavano aspetti morfologici che si potrebbero rite- 
nere come fenomeni di moltiplicazione per gemmazione. Questa 
ipotesi poi mi è sembrata tanto più probabile riflettendo che 
nei gruppi di Citoryctes accanto ad esemplari grandi se ne ri- 
trovano tal volta dei piccolissimi. Non mi è parso che si possa 
interpetrare questo fatto come un fenomeno di disgregazione 
degenerativa od involutiva, prima di tutto perchè, come ho 
già detto nell'altra mia memoria, e come è stato poi confer- 
mato (Jackson CLARKE, v. Sicnerer, E. Premerer), le forme piccole si 
trovano specialmente in rapporto con le fasi incipienti delle 
alterazioni epiteliali nelle parti più lontane dall'innesto, ed in 
secondo luogo perchè queste forme piccole ripetono perfetta- 
mente la struttura delle maggiori. 

I corpi parassitari invece che presentano i caratteri di forme 
involutive o degenerative si rinvengono ordinariamente nei 
lembetti epiteliali aderenti ai margini delle ulcerazioni cor- 
neali. In questi ammassi di cellule, dove il processo patologico 
è senza dubbio più avanzato nel suo sviluppo, alcuni corpi pa- 
rassitari spesso sì mostrano meno colorati, ingranditi, granu- 
losi e cosparsi di vacuetti irregolari; alcune volte poi appaiono 
spezzati in piccole zolle. Queste forme furono appunto quelle, 
che, dal principio delle mie osservazioni, mi destarono nella 
mente l’idea che i Citoryctes potessero anche moltiplicarsi con un 
processo di sporulazione, ma studi ulteriori eseguiti con metodi 
più esatti mi hanno spinto a ritenerle, confermando i dubbi fino 
d'allora espressi, per prodotti di disgregazione degenerativa. 

Questi lembetti epiteliali, dove d’ordinario le lesioni sono 
molto avanzate, si scollano assai facilmente, necrotizzano e 
cadono o vengono asportati nei conigli, nelle agnelle ecc. per 
lo sfregamento non solo delle superfici palpebrali, ma anche 
per quello della membrana detersiva. Si comprende facilmente 
come questa condizione impedisca di seguire con metodo nelle 
fasi successive del processo il destino dei Citoryctes. 

Tale compito poi viene reso anche più difficoltoso dalla mi- 
grazione dei leucociti che invadono ordinariamente dopo il terzo 
giorno dalla inoculazione il campo delle alterazioni primitive. 


ULTERIORI RICERCHE SULLA ETIOLOGIA E SULLA PATOGENESI ECc. 165 


Lo sfregamento delle palpebre e della membrana detersiva 
poi, influisce senza dubbio anche sulla genesi e sullo sviluppo 
di queste alterazioni. In questo fatto, come a me sembra, è 
riposta la ragione del fenomeno, che abbiamo sopra ricordato, 
che cioè nei primi periodi del processo morboso si rinvengono 
solo raramente parassiti nelle cellule epiteliali, mentre, sono 
talvolta accumulati in considerevole numero negli spazi della 
sostanza propria della cornea. Difatti è naturale che questa 
specie di spazzamento delle palpebre e della membrana deter- 
siva debba sottrarre dalla superficie della cornea tutti i corpi 
che facilmente si lasciano distaccare. Così certamente, dopo 
praticato l'innesto, può essere portata via tutta quella parte 
del materiale inoculato che resta esposto a questa azione de- 
tersiva, e con esso tutti quegli elementi epiteliali che più di- 
rettamente furono offesi dal traumatismo, e che ebbero anche 
il più diretto contatto con il materiale d’ innesto. 

Si comprende allora facilmente, che nelle regioni più su- 
perficiali della cornea questa specie di protezione debba pro- 
durre una limitazione ed un ritardo nelle manifestazioni mor- 
bose a carico delle cellule epiteliali. La riprova poi di questo 
modo di vedere mi pare sì abbia nel fatto, che ho ottenuto le 
più estese e caratteristiche alterazioni degli epiteli con innesti 
di vaccino nelle cornee di conigli, ai quali avevo preventiva- 
mente estirpata la glandula di Harper insieme con la mem- 
brana detersiva, e fermate le palpebre con punti di sutura. 

Intanto a me sembra che il complesso dei fatti sopra rife- 
riti e le considerazioni espresse sieno in sostegno della ipotesi 
sulla natura parassitaria dei corpicciuoli contenuti nelle esca- 
vazioni delle cellule epiteliali. Con questa ipotesi s'intende as- 
sal agevolmente la ragione di essere della limitazione e del 
ritardo delle caratteristiche alterazioni cavitarie dell’ epitelio 
per l’azione detersiva degli organi protettori dell’ occhio, e 
d'altra parte la insufficienza di questa azione ad impedire la 
iperplasia epiteliale, che, come è noto, segue sempre ora più 
ora meno rigogliosa. La genesi di questa iperplasia è dovuta 
alla proliferazione delle cellule cilindriche degli strati più pro- 
fondi, stimolati probabilmente da sostanze flogogene speciali 
derivate dai centri sottostanti d’ infezione vaccinica. Queste 
sostanze, che insieme con i succhi nutritivi giungono alle cel- 


166 G. GUARNIERI 


lule epiteliali, mentre sono atte a promuoverne la prolife- 
razione, sembra non sieno capaci di determinare nelle cellule 
neoformate alterazioni apprezzabili. E logico ritenere invece 
che le note alterazioni epiteliali sieno dovute ad un parassita 
corpuscolare, che può giungere in contatto delle cellule e pe- 
netrare nel loro protoplasma, quando l’azione della membrana 
detersiva è resa insufficiente od è artificialmente soppressa. 

D'altra parte in favore di queste ipotesi esistono numerose 
esperienze le quali così a me come ad altri osservatori (Monti, 
L. Prerrrer, v. Sicuerer, E. Prerrrer) hanno dato il costante re- 
sultato, che con le più svariate, irritazioni non si riesce a pro- 
durre nell’epitelio della cornea alterazioni uguali, nè la com- 
parsa di corpicciuoli simili a quelli che costantemente invece si 
hanno con l'innesto di vaccino. 

Trascurando per ora la enumerazione di molte altre espe- 
rienze, voglio solo ricordarne alcune fatte con il vaccino filtrato 
per piccoli filtri di carta (4). Non ho mai ottenuto le caratte- 
ristiche alterazioni, sulle quali ci siamo sopra intrattenuti, ino- 
culando nelle cornee di conigli il liquido passato attraverso i 
pori della carta; mentre sono riescito costantemente ad otte- 
nerla con la inoculazione del detritus trattenuto dal filtro. 
Queste ricerche ripetute per molte volte sono perfettamente 
d'accordo con le note esperienze di Crauvesux (?) e con quelle 
di E. Prerrrer (3), e dimostrano che attraverso i pori della carta 
da filtri non passano i parassiti del vaccino, mentre molto spesso 
questi pori, come si sa, lasciansi traversare da globuli rossi. 


* 
** 


Con altre esperienze ho voluto accertare se i parassiti del 
vaccino, che si possono seguire, come abbiamo visto, assai age- 
volmente nel ciclo evolutivo delle lesioni patologiche sperimen- 
talmente provocate nelle cornee dei conigli, sieno atti a ripro- 
durre in animali ricettivi il processo morboso nella sua clas- 


x 


sica forma pustolare. La ricerca mi è sembrata interessante 


(1) Filtri di carta austriaca di prima qualità della ditta Lenoir e Forster. 
(2) Caauveaux. — Comptes rendus de l’Académie des sciences. 1868, febbraio. 
(3) Loc. cit. 


ULTERIORI RICERCHE SULLA ETIOLOGIA E SULLA PATOGENESI Ecc. 167 


perchè fino ad un certo punto poteva essere considerata come 
l'equivalente di una riproduzione sperimentale di un processo 
morboso con l’innesto di un parassita isolato in cultura. Non 
credo di essermi allontanato dal vero considerando il metodo 
dell’innesto sulla cornea come un mezzo di coltivazione di un 
parassita, che, come vedremo in seguito, non si riesce a fare 
vivere 2n vitro con i più svariati mezzi di nutrizione. 

In una prima serie di esperienze inoculai delle agnelle 
sulla regione mammaria. A tal uopo innestai prima sulla cor- 
nea di conigli il vaccino e circa dopo 48 ore previa lavatura 
abbondante con acqua sterilizzata esportai dalle superfici cor- 
neali in vicinanza dell’innesto quanto più potei di lamelle 
epiteliali con un affilato coltellino accuratamente sterilizzato. 
Inoculai con ogni precauzione antisettica questo materiale tolto 
al coniglio in diversi punti della mammella sollevando dei lem- 
betti epiteliali con la punta dello stesso coltellino. 

Nelle prime 24 ore nulla apparve di notevole sui posti dove 
erano stati praticati gl'innesti tranne una crosticina aderente. 
Nel 2.° o 3.° giorno sui margini della piccola lesione di continuo 
sì notava un lieve rigonfiamento contornato da un alone di 
rossore. Al 4.° od al 5.° giorno si erano formate delle vere pustole 
di forma varia, retratte nella linea mediana corrispondente alla 
lesione prodotta dal tagliente. Non tutti gl’innesti ebbero un 
esito positivo; in alcuni la crosticina cadde dopo alcuni giorni 
senza segno alcuno di reazione. 

Le stesse esperienze ho ripetuto sopra altre 5 agnelle ed i 
risultati ottenuti furono perfettamente simili al primo. Con la 
stessa tecnica poi feci innesti ad un giovane vitello sul limite 
fra la regione delle natiche e quella perineale. Sopra 9 innesti 
disseminati in ambedue i lati, solo da una parte ottenni una 
bellissima pustola dalla quale potei raccogliere al 5.° giorno una 
sufficiente quantità di detritus con il raschiamento. 

Dal contenuto delle pustole raccolto così dalle agnelle come 
dal vitello ho sempre riprodotto nelle cornee di conigli la ca- 
ratteristica infezione. Conservo sempre alcuni preparati fatti 
con la cornea di un coniglio, al quale inoculai il materiale ri- 
cavato dalla pustola del vitello, perchè presentano una ricchis- 
sima invasione di citoryctes dentro cellule epiteliali adiacenti 
ai punti d’innesto. Con lo stesso materiale inoculai nel braccio 


168 G. GUARNIERI 


un robusto giovanetto facendo delle piccole scarificazioni con 
la punta di una lancetta. Ottenni due grosse pustole circondate 
da un alone eritematoso, che al dodicesimo giorno cominciarono 
a disseccarsi. La rinoculazione fatta al diciassettesimo giorno 
con vaccino dell'Istituto vaccinogeno dello Stato non ebbe 
effetto. 

Della linfa raccolta nelle pustole delle agnelle ho fatto sem- 
pre esami microscopici ed ho ritrovato costantemente un nu- 
mero più o meno considerevole di citoryetes con i loro movi- 
menti ameboidi. Numerosi gruppi di questi parassiti poi rin- 
venni dentro le maglie delle reti alveolari di giovani pustole 
estirpate al 3.° giorno dalla inoculazione a due agnelle. 

A me sembra che questi fatti dimostrino assai chiaramente 
che dalla infiltrazione parassitaria degli epiteli della cornea si 
può, come da un terreno di cultura, trarre una sufficiente quan- 
tità di parassiti capaci di riprodurre in animali ricettivi le 
manifestazioni patologiche classiche della infezione vaccinica. 
Sembrami anche che questa specie di coltivazione dei citoryctes 
nell’ epitelio corneale si possa considerare puro dall’ inquina- 
mento di altri microrganismi, poichè molti e svariati terreni 
di cultura, innestati con raschiatura di cornee inoculate, nella 
maggior parte dei casi sono rimasti completamente sterili. 

Tutte le prove di cultura în vitro con i prodotti delle di- 
verse manifestazioni patologiche della infezione vaccinica mi 
hanno dato, quando ho potuto fare gl’innesti con rigore di me- 
todo, risultati assolutamente negativi. Trassi il materiale per 
tali culture dalle alterazioni patologiche della cornea dei co- 
nigli e da quella delle cavie, dalle pustole delle agnelle e prin- 
cipalmente da quelle dei vitelli. Ho adoperato per terreni di 
nutrizione tutte le sostanze, che io conosco, atte a far vege- 
tare gli schizomiceti, così in forma solida come in forma li- 
quida, tanto con la presenza di aria atmosferica quanto con 
la esclusione di essa: così pure ebbi cura di sperimentare su- 
strati nutritivi adatti per lo sviluppo dei blastomiceti preparati 
con mosto di uva, con mosto di mele, ecc. 

Il risultato negativo di queste prove di cultura tentate e 
ritentate con lena indefessa per più anni sono un argomento 
di più per dimostrare l'importanza del metodo degli innesti 
sulla cornea immaginato da me, che è finora il solo col quale 


.ULTERIORI RICERCHE SULLA ETIOLOGIA E SULLA PATOGENESI ECC. 169 


sia stato possibile, anche agli altri che mi hanno seguito, lo 
studio della etiologia e patogenesi della infezione vaccinica. Per 
1 fenomeni osservati seguendo questo metodo sempre più è cre- 
sciuto nell'animo mio il convincimento che le manifestazioni 
morbose di questa infezione trovano la loro ragione di essere 
nelle proprietà patogene di un parassita, che appunto per queste 
proprietà, fino dalle mie prime ricerche, ho creduto di denomi- 
nare (Cutoryctes vaccinae. 

Sulla natura di questo essere parassitario sono convinto non 
convenga nello stato attuale della scienza arrischiare alcune 
ipotesi, aspettando, che nuove ricerche illustrino più comple- 
tamente le sue proprietà morfologiche e biologiche. Confido, 
seguitando i miei studi, di potere portare nuovi contributi per- 
sonali alle conoscenze scientifiche intorno ad un argomento che 
ha così alto interesse nella patologia. 


ENRICO MAROCCHI 


STUDIO 


SUL 


GRANITO DI GAVORRANO 


Il fatto singolare che nella Maremma Toscana dalle pianure 
alluvionali estesissime di tratto in tratto s'innalzino dei monti 
isolati, o tutto al più qualche catena di lieve momento, senza 
apparente relazione tra loro, sarebbe argomento di molte con- 
getture per chi la prima volta s'avventurasse a rintracciare le 
ragioni di questa disposizione. 

Sin dalle origini questi monti e queste piccole catene godet- 
tero d'una completa indipendenza? Ovvero le azioni dinamiche 
ed orogeniche che seguirono ci nascosero i legami che prima li 
congiungevano ? 

Il Savi risolvette l’arduo problema immaginando con mira- 
bile sintesi l’esistenza in tempi assai remoti d'una catena da 
lui detta Metallifera, la quale riuniva tutti i gruppi di monti 
situati lungo il litorale tirreno, compreso anche l'arcipelago 
toscano, e che poi, in seguito ai sollevamenti da cui si originò 
l'Appennino, si ruppe o sprofondò, lasciando come vestigio le 
sparse membra. Infatti il Savi delineando codesta catena dopo 
averne notato i principali costituenti, quali le Alpi Apuane e i 
Monti Pisani a settentrione, indi procedendo verso mezzogiorno 
i gruppi di Massa Marittima, della Montagnola Senese, di 
Cetona, ed in linea parallela più occidentale l’ Arcipelago to- 
scano, viene a più minuti particolari e dice: “ nella parte me- 
ridionale della Toscana, in quella cioè compresa tra il fiume 
Cecina e la Fiora, vi sono diversi gruppi di monti, i quali tanto 
pel modo come sono allineati, quanto per le roccie che li com- 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 171 


pongono si riconoscono appartenere alla Catena Metallifera. 
Scendendo da N. a S. i monti campigliesi formano il primo 
degli indicati gruppi, indi a S-E. si ha quello di Gavorrano, poi 
quello di Sticciano, Montepescali, Monteorsaio, di poi varcato 
l’Ombrone il gruppo compreso fra l’' Alberese e le rovine del- 
l'antica città di Talamone, finalmente il promontorio Argen- 
tale , (1). 

Non fu piccolo il vantaggio che da questi resultati venne 
a sentire la scienza: poichè d'allora in poi lo studio di questi 
vari gruppi montuosi non si fece più indipendentemente per gli 
uni e per gli altri, quasichè nessun legame li unisse, ma sib- 
bene con criteri comparativi; cosicchè le deduzioni tratte da al- 
cuni membri si poterono applicare ad altri come parti d'una 
stessa catena. 

Ed essendo mio precipuo scopo lo studio del granito che 
si trova a Gavorrano, dopo averne determinato il giacimento, 
m'accingerò a fare un esame litologico degli esemplari che ho 
potuto avere a mia disposizione, ed infine riportandomi alle 
opinioni ed ipotesi dei dotti, mi proverò a studiare questo gra- 
nito geologicamente, avendo di mira sovratutto le analogie ri- 
scontrate con altri graniti, quali quelli dell’ isola d’ Elba, che 
pure appartiene al medesimo sistema orografico secondo le idee 
suesposte. 


$.I. — Giacimento del granito di Gavorrano. 


I monti di Gavorrano attraversano in direzione E. N. E. — 
0.5.0. la maremma toscana e raggiungono il mare dalla parte 
di ponente, separando così le estese pianure grossetane da quelle 
scarlinesi. Osservando le roccie, di cui sono costituiti, si vedono 
essere in prevalenza arenarie quarzoso-micacee più o meno 
compatte non bene stratificate, di varia grana che qua e là 
includono serie di strati di calcare alberese alternanti con scisti 
argillosi. Cambia questa formazione in vicinanza del M. Calvo 
per dar luogo ai calcari compatti o alberesi. Monte Calvo però 
è per noi senza dubbio il luogo della maggiore importanza 


(4) Paoro Savi e G. MenrGnINI. — Geologia della Toscana. Colpo d'occhio sulla 
struttura generale della Catena Metallifera. Firenze 1851. 


Sc. Nat., Vol. XV 12 


ie2 E. MAROCCHI 


geologica, poichè mentre fino ad esso si possono osservare le 
medesime roccie calcaree ed esso stesso resulta delle varietà 
rosse ammonitifere, cavernose e ceroidi; a S-E. continua la for- 
mazione calcarea bianca cristallina e saccaroide per costituire 
i monti di Ravi e Caldana; si arresta invece a N. per dar luogo 
al granito di Gavorrano, oltre il quale tornano a comparire i 
soliti calcari ceroidi e cavernosi. Il giacimento granitico è quindi 
incassato a guisa di grandissimo dicco nelle roccie calcaree che 
lo attorniano ed occupa un'estensione di circa 3 km. q. ad oriente 
del paese. Anche qui, come all’Elba, esso è in connessione con 
masse ferree, e ciò si può rilevare dalla presenza di filoncelli 
quarziferi, ripieni di bei cristalletti di pirite. 

Queste notizie, che ho potuto confermare con una escursione 
da me fatta nella località, le ho attinte da un lavoro dell’ing. 
Lorri (*), in cui si dice pure che il granito, quantunque abbia 
il suo massimo sviluppo nel lato settentrionale del monte dalla 
parte di Gavorrano, pure giunge fino a Ravi, insinuandosi fra 
i calcari in forma di filone con una potenza massima di non 
più di 100 m. che gradatamente diminuisce finchè presso il 
paese riducesi quasi a nulla. 


$. II. — Notizie bibliografiche. 


Questo singolare ed unico giacimento nella provincia di 
Grosseto sfuggì alle ricerche scientifiche del secolo ‘passato, ma 
non a quelle dell’arte, poichè dalle relazioni del dott. Giovanni 
Tareioni-Tozzermi (?), edite nel 1770, si ritrae che il granito di 
Gavorrano fosse già conosciuto come buon materiale da orna- 
mento. In queste memorie vien riportato un brano del trat- 
tato di architettura di Francesco pi Giorio da Siena, ove dice: 
“Il granito in tre diversità si trova; alcuna è bigia di nero 
e bianco punteggiata, alcuna bigia di nero e rosso; alcun’altra 
bianca punteggiata di nero, e tutte queste tre differenze in nel 
distretto di Siena si trova: la prima in nel contado di Sasso- 
forte, la seconda nella valle e fiume di Rosia, e la terza in 


(4) Lotti. — Sulla geol. del gruppo di Gavorrano. Boll. Com. geol. 1877. 
(£) Giov. TarGIonI-TozzertI. — Relazione d' alcuni viaggi in Toscana. Firenze 
1770. 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 173 


nella maremma e montagna di Gavorrano, tutte di gran sal- 
dezza ,. 

Toccava però a Gioreio Santi (*) l’iniziare qualche studio scien - 
tifico su codesta roccia granitica al principio del secolo presente. 
La considerò mineralogicamente come: “una vera roccia fel- 
spatica per lo più di vari componenti i quali si restringono « 
quarzi cristallini, a felspati di vario colore, a adularie, a mica 
nera, a tormaline nere striate or fascicolari, or radiate e ad 
impasto granuloso o quarzoso, o felpastoso ,. -— Si provò pure 
a distinguere le varietà della roccia descritta ed ecco i suoi 
resultati : 

“ a) un granito o roccia felspatica rossa composta in massima 
parte di felspati minuti e rossi, di poco quarzo bianco cristal- 
lizzato e di pagliette di mica nere. 

8) un granito colla stessa apparenza rossastra, con maggior 
copia però di quarzo cristallizzato e con qualche grosso cristallo 
di felspato bianco appena translucido. 

”) un granito grigio con felspati bianchi, con varie punte 
piramidali di quarzo cristallizzato e pagliette di mica nere 
spesso sovrapponentisi. 

è) un granito grigio composto di cristalli quarzici translucidi, 
di mica ferruginea e d'un impasto felspatoso bianco opaco. 

e) un granito tormalinifero minutissimo. , 

Paoto Savi, e Giuseppe MenecHmi nella Geologia della Toscana 
che assieme compilarono, fecero menzione delle principali roccie 
costituenti il suolo di questa regione, nè tralasciarono le roccie 
granitiche, delle quali per questo studio merita riferire quanto 
dissero (2): “ Le isole dell'Elba, del Giglio e di Montecristo ed 
il monte di Gavorrano sono le uniche località toscane ove appa- 
riscono i graniti, i quali in due specie vanno distinti; vale a 
dire quelli contenenti abbondanti cristalli di tormalina, e gli 
altri che ne sono privi. Questi ultimi che mancano nel conti- 
nente formano nelle sopracitate isole le principali masse gra- 
nitiche, entro alle quali veggonsi scorrere dicche o filoni dei 
graniti dell'altra qualità e per quanto fino ad ora è a nostra 
notizia non penetrano giammai nei terreni secondari. Il gra- 


(1) Viaggio terzo di Gioreio Santi. Pisa 1806. 
(*) P. Savi e G. MeneoHINI. — Geologia della Toscana. Firenze 1851. 


174 E. MAROCCHI 


nito tormalinifero è quello poi che comparisce sotto forma di 
amplissima dicca a Gavorrano nella Valle della Pecora in mezzo 
alle roccie secondarie ed eoceniche costituenti la catena che 
separa detta valle da quella dell’ Ombrone. È meritevole del- 
l’attenzione del geologo detta massa, perchè mentre in alcune 
sue porzioni si compone d’ortose e degli altri elementi grani- 
tici uniti a tormaline, che frequentemente si trovano in forme 
ben determinate entro le druse, in altre parti poi la massa 
stessa passa gradatamente al porfido euritico , . 

Ma non solo italiani, anche degli illustri stranieri sì sono 
occupati di questo argomento e G. von Rara fra gli altri, a 
differenza del Savi e del MenksHmi, ritiene che, come all’ Elba, 
così a Gavorrano debbansi distinguere due graniti: il normale, 
che appena può distinguersi dalle varietà porfiroidi, che predo- 
minano all’ Elba, a grossi elementi felspatici coi caratteri or- 
dinari del granito normale; ed il tormalinifero, che a guisa di 
filone colossale della potenza di 65 m. in direzione di E.-0. quasi 
verticale sta incassato nel primo (!). 

Ai nostri giorni il Lori, il Bucca, il De-SrerAnI chi più, chi 
meno direttamente toccarono di codesto granito e secondo di- 
versi punti di vista quale per l'origine, quale per l’età; e tutti 
non furono d’uguale parere come vedremo più diffusamente in 
seguito. 

Recentissimamente poi, non prima dello scorso aprile, vide 
la luce un lavoro dell’ing. Srerano Traverso - * Sulle roccie della 
Valle di Trebbia, con un'appendice “ su alcuni graniti re- 
centi ,. Fra quest'ultimi imprese a studiare anche quello di 
Gavorrano adottando le distinzioni già fatte dal vom Rara. Es- 
sendo questo uno studio puramente petrografico avremo occa- 
sione di tornarvi sopra tra breve. 


$. IIL — Studio petrografico. 
Stimo opportuno premettere che il Nzessie tra gli altri ba- 
sandosi sulla presenza o assenza della tormalina divise, come 
fecero anche il Savi e il MenecHINI, le roccie granitiche in due 


categorie. T'ale distinzione non è però del tutto assoluta, poichè 


(4) G. von Rata — Zeits. der deut. geol. Gesellsch. 1873. 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 175 


anche il granito considerato come mancante affatto di tormaline 
pur talora qualche raro cristallo qua e là ne presenta. Mi pare 
quindi miglior partito distinguere nel granito di Gavorrano due 
varietà principali secondo la struttura che presenta: l’una por- 
firica, l’altra microgranitica, comprendendo nella prima le va- 
rietà dette dal von Rara normali porfiroidi, nella seconda quelle 
tormalinifere, poichè le strutture sovranominate rispettivamente 
ai due tipi s'appartengono. 


I). Granito porfirico. 


Macroscopicamente appare costituito da un impasto assai 
minuto di mica nera, felspato, e quarzo senza orientazione pre- 
valente. A tratti però s'incontrano segregazioni più o meno 
grandi quarzose, feldispatiche e micacee disseminate nella massa 
fondamentale. (Tav. IV, fig. 1). Le varietà presentate da questa, 
come da tutte le roccie, sono molteplici. Si può notare un vero 
passaggio dalle forme simili alle normali a quelle decisamente 
porfiriche: quantunque nelle prime le due fasi di consolidazione 
siano distintissime non però quanto nelle forme propriamente por- 
firiche. Questo ripetono spesso l’aspetto di veri porfidi, dai quali 
però sono distinguibili perchè non hanno traccie di base amorfa. 
_ La roccia presenta al tatto una certa ruvidezza, che la fa 
ravvicinare assai alle trachiti: la sua frattura è molto irrego- 
lare giacchè essa avviene secondo i piani di sfaldatura degli 
elementi costituenti, che sono di varia grandezza e di differente 
orientazione. A seconda poi dell’alterazione, cui andò soggetta, 
ne variano la compattezza ed il colore; quest'ultimo, per alte- 
razione dei minerali ferriferi, va dal giallo pallido al rossigno. 
Peso specifico 2,581. 

A] microscopio tutte queste varietà di roccie porfiriche si 
riconoscono come olocristalline ipidiomorfe con quarzo quasi 
totalmente allotriomorfo. Manifestissime sono le due fasi di cri- 
stallizzazione giacchè i più piccoli e posteriori cristalli sono inter- 
posti come sostanza cementizia a quelli più grandi anteriori. 

La Mica nera prima fra gli elementi essenziali a costituirsi 
è distribuita senza ordine nella massa in sezioni longitudinali 
listiformi, che essendo più o meno inclinate sulla base mostrano 
evidentissima la striatura fitta e minuta, dovuta alla facilissima 


176 E. MAROCCHI 


sfaldatura basale. La colorazione ne è verde bruna, o bruna- 
rossastra quando le laminette di mica biotite sono alterate. 
Pleocroismo fortissimo nelle sezioni cristalline allungate in 
forma di strette liste, le quali per assorbimento si rendono quasi 
nere quando sono disposte in modo da essere parallele alla 
sezione principale del nicol analizzatore. Colori d’ interferenza 
sempre molto alti. Alterata, oltre al nuovo colore che acquista, 
perde la sua striatura, e solo resta distinguibile per un leggero 
assorbimento mentre la sostanza alterata si diffonde come 
pigmento. Altrove è rotta e dislocata con penetrazione del 
magma ad accennarci la sua consolidazione anteriore. -—— Come 
inclusioni non v'ho riscontrate che lo Zircone nel suo aspetto 
caratteristico; e qualche granulazione di tinta più scura della 
mica stessa, forse dovuta a minerali di ferro originatisi nel suo 
seno. 

L’Ortose è in copia di gran lunga maggiore, ora minuta- 
mente disseminato in piccole liste, ora costituente plaghe molto 
estese nella sezione in cristalli grossi più radi, o piccoli più 
frequenti: d'un colore che varia dal bianco lattiginoso, al gial- 
lognolo, al roseo per alterazione della propria sostanza o per 
pigmenti eterogenei. Non è neppur raro trovarlo trasparente 
e anche quasi vetroso; onde fu notata da molti la rassomiglianza 
del granito di Gavorrano con la trachite del Monte Amiata. 
La sua struttura ordinaria è quella granulosa, però ho notato 
frequentemente anche quella fibrosa (Tav. IV, fig. 2). In quest’ul- 
tima le fibre osservate a forte ingrandimento si risolvono in 
tante fibrille lineari più piccole riunite parallelamente tra loro. 
Il Sacomon (1) in uno studio petrografico del Monte Aviolo, ha 
riscontrato questo feldispato fibroso e di esso dice che “ e f{- 
brille lineari nei cristalli in preda ad alterazione incipiente si ri- 
solvono in serie di granuletti oscuri piccolissimi, stipati gli uni ap- 
presso agli altri. Spesso notasi una granulazione periferica, mentre 
nell'interno le fibre appariscono ancora integre: le quali del resto ad 
ingrandimento di 800 diam. si risolvono in granuletti aggregati 
in serie,. Il medesimo dott. SALomon non riuscì a distinguere 
con sicurezza se questo fenomeno sia da riferirsi ad una so- 
stanza originariamente omogenea divenuta poi granulare per 


(') Giornale di Mineralogia. del prof. F. Sansoni. Pavia, 1891, vol. II 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 177 


alterazione, e che ora presentasi in forma di sottili lamelle: 
ovvero se i granuli sieno da considerarsi come un deposito ori- 
ginario nel feldispato ciò che par meno verosimile. Come che sia 
l’ortose non presenta segni di assorbimento e i colori d’inter- 
ferenza variano da un grigio azzurrognolo ad un giallo assai 
carico a seconda della sottigliezza delle sezioni. 

Geminati secondo la legge di CarLssAD non potrei asserire 
di averne trovati, giacchè quei pochi esemplari che tali sem- 
bravano alla luce polarizzata appena presentavano la singolare 
striatura. In ogni modo rarissimi sono stati osservati pure dal- 
l’ing. Traverso (') nel suo esame petrografico dello stesso granito. 

Le sue inclusioni si riducono a pochi microliti di zircone, 
a molte di biotite, ed a parecchio quarzo ora compenetrato in 
lunghe liste, ora in piccole aree cristalline: di più in piccoli 
lembi frastagliati comparisce anche un po’ di mica muscovitica. 

Qui piacemi ricordare come in questo granito si trovino 
delle belle geodi con nitidi cristalli d’ortose, taluni dei quali 
furono studiati anche dal prof. A. D'Acamarp:(?). In alcuni di 
essi egli riconobbe le combinazioni (110, 101, 010, 001), (111, 
110, 101, 010, 001), e l'aspetto loro somigliantissimo a quello 
presentato dai cristalli di S. Piero in Campo, e talora anche 
a quello dei cristalli impuri di Capo d’Enfola, e a quelli an- 
che costituiti di feldispato vetroso. 

Il Plagioclasio, a seconda delle sezioni, è deficiente o ab- 
bondante in modo da avere importanza pari all’ortose. Esso è 
trasparente o bianco sudicio, in generale in stato più fresco 
dell’ortose. Si presenta o minutamente disseminato, o in piccole 
segregazioni di cristalli listiformi allungati secondo lo spigolo 
[001, 010] (Tav. IV, fig. 3), ed è facilmente riconoscibile a luce 
polarizzata parallela per la sua struttura polisintetica derivante 
da geminazione secondo il piano 010 con legge dell’albite. Ha 
colori d'interferenza poco vivaci e nei toni d’azzurro, grigio e 
giallo. Nel misurare l'angolo d'estinzione ho avuto valori di- 
versi varianti da un minimo di 2°-3° a 19°. Dall’ analisi a 
luce polarizzata non si può affermare decisamente se il plagio- 
clasio sia albite od oliglocasio, perchè non è possibile precisare 


(4) Op. cit. 
(2) A. D'Acnrarpi. — Mineralogia della Toscana. Pisa 1873. 


175 E. MAROCCHI 


la sezione d'un cristallo di cui si fa l'osservazione. Può esser 
benissimo che si abbia a che fare con una serie di plagioclasi 
che cioè dall’oligoclasio si passi successivamente ad altri com- 
posti più o meno sodiferi e come termine più ricco in soda si 
giunga anche alla vera e propria albite. 

Il Quarzo ultimo per solito a cristallizzare sta a rappren- 
sentare la silice in eccesso: si trova quindi a riempire gli spazi 
lasciati dagli elementi già deposti, e come tale nelle più sva- 
riate maniere ora ad occupare piccolissime superfici rotondeg- 
gianti o allungate, ora al contrario a riempire vacui assai grandi 
generalmente allo stato allotriomorfo. Talvolta assume forme 
che lo fanno credere idiomorfo, dovute al modo d'orientamento 
dei cristalli che lo attorniano e sui quali s'è modellato: il che 
sì può riconoscere alla luce polarizzata, poichè il cristallo di 
quarzo creduto unico mostra la polarizzazione d’aggregato. Però 
è innegabile che alcuni cristallini tendono manifestamente al- 
l’idiomorfismo vero e proprio, del qual fatto abbiamo a con- 
ferma l'aver trovato aree cristalline d’ortose con compenetra- 
zione di quarzo in cristalli allungati e parallelamente disposti, 
l’aver riscontrato cioè una struttura pegmatitica (Tav. IV, fig. 4), 
che ci rivelerebbe dunque la possibilità anche di una deposi- 
zione inversa dei costituenti. 

Colori d’interferenza assai più vivi che nell’ortose. Moltis- 
sime inclusioni liquide e solide; le liquide sono allineate in 
strisce a forme varie e di diversa grandezza, e tutte con livella. 
La livella mentre in alcune occupa uno spazio ristrettisimo, 
in altre quasi per intero riempie la cavità, riducendosi il liquido 
ad una minima proporzione. La grandezza di queste inclusioni 
varia tra limiti assai vasti, poichè da quelle che misurano qual- 
che centesimo di mm. si passa ad altre, che anche con forte 
ingrandimento appaiono soltanto come minutissime granulazioni. 

Le inclusioni solide, sebbene siano quasi le stesse riscon- 
trate nella mica e nell’ ortose, le descrivo ora poichè è nel 
quarzo che lasciano meglio vedere i loro distintivi caratteri, 
essendo il mezzo in cui sono immersi incoloro e limpido. — 
Esse sono le seguenti : 

«) microliti d’apatite in lunghi prismi striati trasversal- 
mente, a notevole rilievo, a piccolo assorbimento per la loro 
sottigliezza, a colori d’interferenza grigio-azzurrognoli. Taluni 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 179 


allungatissimi, decisamente aciculari, lasciano benissimo ve- 
dere le terminazioni piramidali. Ricchi alla lor volta d'inclu- 
sioni assumevano un aspetto un poco granuloso. Spessore va- 
miabileftra lt 0 dirmi 

8) microliti incolori di zircone intorbidati per inclusioni 
gassose d’aspetto gommoso, in cristalli prismatici con contorni 
arrotondati e smangiati per soluzione sofferta. Presentano rilievo 
e contorno d'ombra fortissimi: i colori d’interferenza da verde 
a rosso vivacissimi. 

x) tormalina in cristalli bacillari pleocroici. 

ò) mica nera-biotite in piccole lamelle. 

e) notai pure tre microliti giallo bruni, cuneiformi o a zeppa, 
a notevole rilievo, con pochissimo assorbimento, a contorno leu- 
coxenico. Sarei propenso a ritenerli per Titanite quantunque 
con ciò io non escluda che possano essere di mica scura. 

0) infine numerose longuliti indeterminabili. 

La Mica bianca muscovitica, che secondo l’ing. Traverso 
proviene dall’alterazione del plagioclasio, ha pure parte nella 
composizione della roccia, quando in lembi frastagliati, quando 
in frammenti laminari striati, senza determinata orientazione 
e quasi con disposizione radiale. Essa è quasi incolora, nè mo- 
stra assorbimento di sorta, è quasi priva d’inclusioni. Splendidi 
sono i suoi colori d’interferenza dai rosei ai verdi perlacei. 

Tra gli elementi accessori sono da considerare: 

Tormalina nera e lucente per riflessione, per trasparenza 
bruna. Al microscopio si presenta in cristalli allungatissimi di 
piccolo spessore, sovente fibrosi, e con frequenti striature tra- 
sversali parallelamente alla base. Pleocroismo notevolissimo, 
dappoichè i cristalli quando l’asse di simmetria principale, ossia 
l’asse d’allungamento, sia parallelo alla sezione principale del 
nicol polarizzatore hanno deboli colorazioni giallo-verdastre che 
giungono quasi ad un nero intenso, quando l’asse d’allunga- 
mento ne è normale. I colori d’interferenza bruni e nei mar- 
gini verdi e rosei. 

Di tormalina disseminata nella roccia pochi esempi ho tro- 
vato e questi consistevano in cristalli rotti e terminati da una 
parte da faccie romboedriche. Di queste molte erano policrome 
e pleocroiche. Presi nota del contegno che mi presentò una di 
tali tormaline, 


180 E. MAROCCHI 


E 9 (0) 
spigo carneo pallido 
giallo violetto 
roseo violaceo giallo verde 
verde pallido roseo 
giallo bruno pallido bruno intenso 


Ilmenite dubbia e scarsissima in cristalli a sezioni esagone, o 
in minuti granuli, a contorni un po’ smangiati di colore brunonero 
opaco senza pleocroismo e senza azione sulla luce polarizzata. 

Cosa degna di nota mi pare l’aver trovato in una delle se- 
zioni della roccia in esame delle sferuliti, per trasparenza d’ un 
bel verde, a struttura fibrosa, le quali, perchè costituite di fibre 
tutte omogenee, cioè della stessa sostanza cristallina, a luce 
polarizzata hanno tutte un uguale angolo d'estinzione, e danno 
perciò col girare della sezione l'apparenza d'una croce immo- 
bile. I colori d’interferenza erano nei toni azzurri scuri. La 
natura mineralogica di queste sferuliti m'è ignota. 

Per completare l’analisi del granito porfirico, dirò che le 
sezioni sono attraversate da maglie e vene sottili di sostanza 
gialla limonitica, che in certi punti si raggruppa di preferenza. 


II) Microgranito. 


È questo il granito che in forma di potente filone attraversa 
quello porfirico a Gavorrano. Risulta d'una massa omogenea 
bianco-grigiastra a struttura microcristallina, che involge dei 
granuli di quarzo più voluminosi, delle lamine di mica biancastra 
e piccoli cristalli di feldispato tabulari, grandemente caolinizzati. 
Molte sono le varietà di questa roccia, però sembrami sì pos- 
sano ridurre a due tipi principali, a seconda che la tormalina 
vi abbia o no grande importanza. Siccome il filone microgra- 
nitico è quasi completamente costituito dalla varietà tormali- 
nifera così descriverò prima questa. 


a) Microgranito tormalinifero. 


Ha una struttura olocristallina ipidiomorfa (Tav. IV, fig. 5). 
Il suo peso specifico varia fra 2,6-2,7 a seconda della minore 
o maggiore quantità della tormalina, la quale rispetto agli altri 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 181 


minerali nominati ha il peso specifico più elevato. Da una grana 
mediocremente fine si passa a quella finissima, la quale ultima 
impartisce alla roccia una compattezza comparabile a quella del 
calcare cristallino. Sovente la tormalina si accumula di prefe- 
renza lungo certe strisce, e forma delle venature brune: per il 
solito però è disseminata in modo uniforme e in ogni maniera 
possibile nella massa. 

Della mica dirò che essa appartiene alla serie delle bianche, 
colla particolarità però d'aver un assorbimento notevolissimo, 
per cui mentre le lamine listiformi si trovano in direzione per- 
pendicolare alla sezione principale del nicol analizzatore sono 
quasi perfettamente scolorite e trasparenti, collocandole in- 
vece in posizione parallela esse acquistano un colore giallo 
bruno rossastro. I colori d’interferenza sono sempre alti e per- 
lacei similissimi a quelli della muscovite. Vi si osservano poche 
e rare inclusioni di zircone e delle granulazioni scure. 

Il quarzo e il feldispato monoclino e triclino ripetono 
i soliti caratteri già descritti precedentemente. Si può notare 
tuttavia che sono sparsi con più uniformità. Rari i frammenti 
con struttura pegmatitica. 

La tormalina è il minerale che in questo granito meglio 
si discerne ad occhio nudo pel suo colore nero lucente nella 
massa bianchissima. Abitualmente in grossi cristalli prismatici 
terminati dalla base da ambe le parti, ovvero da faccie del 
romboedro ad un'estremità, dalla base all'altra, è rarissima- 
mente terminata dalle due parti dal romboedro. Ling. Tra- 
verso a questo proposito dice che “/a tormalina si trova in 
cristalli bacillari assai corrosi, rotti normalmente al loro allunga- 
mento con allontanamento e spostamento delle parti frammentizie , . 
Per quante sezioni abbia esaminate non ho mai potuto riscon- 
trare corrosione, nè spostamento in codesti cristalli. È vero che 
essi a prima vista parrebbero tutti compenetrati e corrosi dal 
magma (Tav. IV, fig. 6), il fatto però che quel magma stesso, che 
parrebbe compenetrarli, è già completamente individualizzato 
nei suoi componenti, ci fa piuttosto ritenere che la tormalina si 
sia formata quando il magma era già consolidato, ovvero simul- 
taneamente ad alcuni elementi in presenza di vapori che pote- 
rono emanare in seguito contenenti borati e fluoruri necessari 
alla sua costituzione. Neppure esiste spostamento, come dimo- 


182 i E. MAROCCHI 


strano l'estinzione e l'assorbimento contemporaneo delle parti, 
il che non avverrebbe se vi fosse reale spostamento. Facile è 
il comprendere come si possano avere di questi cristalli ap- 
parentemente spostati, se poniamo mente alla loro costituzione: 
giacchè formandosi contemporaneamente o posteriormente al- 
l’individualizzazione degli ultimi elementi del magma sono co- 
stretti ad occupare spazi già limitati per cui non possono ac- 
quistare forme complete in ogni parte. Così si potranno avere 
dei cristalli di tormalina che normalmente al loro allungamento 
siano attraversati da compenetrazioni listiformi di quarzo 0 
interne o marginali. Ora se la sezione viene fatta in un piano 
tale del cristallo in cui comparisca il quarzo, la sezione darà 
l'apparenza che il cristallo in quel piano sia rotto e spostato. — 
Benchè l’orientazione di codeste tormaline sia diversissima, pure 
sono risultate predominanti le sezioni prismatiche e quelle se- 
condo la base. Quest’'ultime risultano come superfici poliedriche 
ennagone ad angoli di due sorta, gli uni di 120°, gli altri di 
150° e precisamente in numero di tre i primi, di sei i secondi. 
Evidentemente quelli di 120° appartengono all’esagono regolare, 
i quali alternativamente sono stati, modificati dal prisma tri- 


gono emiedrico {211}. Queste sezioni basali sono d’un verde 
bruno e quasi sempre estinte a luce polarizzata. Le sezioni 
prismatiche talune sono allungatissime e attraversate da strie 
parallele alla base. I colori sono varii; dalle tormaline acroiche 
sì passa a quelle brune per la scala dei gialli-verdastri: il di- 
croismo pure ne è forte. 

In questa varietà di granito non ho trovato un solo cristallo 
policromo. Le dimensioni di queste tormaline variano da pa- 
recchi mm. a pochi centesimi di mm., senza contare i più pic- 
coli microliti di tormalina, che in forma prismatica sono contenuti 
come inclusioni nel quarzo. 


b) Microgranito micaceo. 


Anche questa è una roccia olocristallina ipidiomorfa, in cui 
molto abbondante è la mica bianco-rossigna, e manca la tor- 
malina. Questa varietà costituisce sottili vene nel granito tor- 
malinifero. È d’ un colore biancastro con qualche chiazza nera 
o più o meno bruna; nel primo caso per la presenza di qualche 
rara tormalina, nel secondo per la mica rossastra che è sovrap- 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 183 


posta in lamine. Ai caratteri microscopici nulla ha di parti- 
colare, giacchè il quarzo, l’ortose hanno il solito aspetto e in 
piccola parte una struttura pegmatitica: la mica è sempre un 
po’ rossigna e in aggruppamenti con qualche zircone incluso. 
Pochissimo plagioclasio a piccolo angolo d’estinzione termina la 
serie dei costituenti di questa roccia. 


$. IV.-- Origine del granito di Gavorrano. 


Tralasciando le considerazioni d’indole affatto generale sulle 
quali non esiste verun dubbio, veniamo a discorrere subito del 
nostro granito su cui esisterono dispareri riferentisi non ad esso 
solamente, ma anche a quelli formanti il Monte Capanne nell'isola 
d'Elba, l'isola del Giglio e di Monte Cristo. Si fa adunque una 
discussione unica per i graniti della Toscana quasi potessero rap- 
presentare i resti d'una catena rotta e denudata, quantunque 
l’individualità di queste masse si debba col Loti ritenere inne- 
gabile, e possa ammettersi solo nel senso che esse siano colle- 
gate da una grande formazione profonda da cui a guisa di dicchi 
emergono. 

Il Lorm (!) pel granito elbano ammette una formazione da 
scisti feldispatici in presenza di soluzioni minerali acquose in spe- 
ciali condizioni di temperatura e pressione: un’ azione quindi 
di metamorfismo potentissima. La massa cristallina così ridotta 
fusa in seguito a minor pressione e per altre forze che la sol- 
lecitavano, potè sollevare i sedimenti sovrastanti, alterarli e 
conformarsi a guisa di cupola. Contemporaneamente potè iniet- 
tarsi nelle spaccature in dicchi e filoni a struttura porfirica 
per le condizioni differenti in cui s'effettuava il consolidamento. 
Pel granito di Gavorrano lo stesso autore non riscontra la forma 
di cupola, ma quello di grandissimo dicco di manifesta origine 
intrusiva sia per l'incassamento fra i calcari non che pel me- 
tamorfismo determinato al suo contatto in essi. Della qual cosa 
s'accorse pure il Savi (?), il quale nel 1830 ragionando d'una 
collezione geognostica delle roccie della Toscana, disse trovarsi 
delle roccie granitiche ad attraversare masse dolomitiche, e 
per conseguenza secondo le idee del celebre LropoLpo pe Buca, 


(!) Lomti. — Descr. geol. dell’isola d’ Elba. Orig. dei graniti toscani, 1886. 
(?) P. Savi. — Catalogo ragionato d'una collezione geognostica delle roccie della 
Toscana. Nuovo Giorn. dei Lett. Pisa 1830, T. XX. 


184 #. MAROCCHI 


doversi considerare come causa della dolomite stessa; e appunto 
come esempio di ciò riportava il granito di Gavorrano. Tornò 
il Savi (!) su questo argomento nel 1834 sempre più persuaden- 
dosi che la massa granitica in parola fosse causa del solle- 
vamento dei circonvicini poggi, e della conversione del calcare 
compatto in cristallino. 

Dell’idee ora esposte però non fu il De Srerani(*) che, trat. 
tando i terreni cristallini e paleozoici della Sardegna, si con- 
tentò di asserire che i graniti toscani non hanno affatto ca- 
rattere intrusivo, ma che costituiscono il nucleo più antico delle 
roccie sedimentarie di quella regione. Successivamente scri- 
veva (3) che la granitite o granito biotitico in Toscana e nelle 
sue isole forma degli elissoidi o cupole assai regolari come è 
proprio delle roccie antiche della catena litorale metallifera, 
che inoltre a Gavorrano essa è situata sotto schisti probabil- 
mente carboniferi: e, conchiudeva che in niuna delle isole tir- 
rene e nella terraferma toscana la granitite presenta carattere 
intrusivo, e la sottoposizione alle roccie successive è sempre 
regolare. 

Ad appoggiare il De Srerani già il Bucca (4) negava le azioni 
di metamorfismo, giacchè non aveva voluto attribuire valore 
dimostrativo all’ analisi del DaLmeR su queste roccie meta- 
morfiche, non essendosi trovati minerali di contatto e perchè 
di esse non si erano ricercati esemplari rappresentanti stati 
intermedi: e sosteneva che mai i calcari alberesi si confon- 
dono coi cristallini, a dimostrare con ciò che le roccie a tipo 
antico sono antiche e che qua e là si depositarono le più re- 
centi. Il DaLmer (°) però aveva mostrato che non sono frequenti 
i minerali di contatto in certe roccie come gli scisti argillosi 
calcariferi modificati, che vengono in contatto col granito presso 
Monte Capanne. 


(1) P. Savi. — Alterazione dell Alberese: sua conversione in calcare salino. Nuovo 
Giorn. dei Lett. Pisa T. XXIX, 1834. 

(2) De-SterANI. — Cenni preliminari sui terreni cristallini e paleozoici della Sar- 
degna. Atti R. Ace. Lincei 1891, 1.° sem. fase. 7.0. 

(3) De SreFANI. — Granitite in massa ecc. — Boll. Soc. Geol. It. 1893. 

(i) L. Bucca. — L'età del granito di Monte Capanne. Atti R. Acc. Lincei, 1894, 
2.0 sem., fasc. 8.0. 

(°) DaLmer. — Die geol. Verhalt der Insel Elba. Zeitsch. de Naturwiss. Halle 1894. 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 185 


Il Lom (1) animato dalle conclusioni del Coccri e del DaLmeR 
replicò e sostenne la vecchia tesi, dimostrando come presso Fe- 
tovaia all’ Elba possa constatarsi l'intrusione del granito e la 
silicizzazione dei calcari sul contatto della massa granitica, e 
potè mostrare anche che il granito dei filoni intrusi era lo stesso 
di quello della massa, cioè che quello non costituiva che apofisi 
di questa. Quanto a Gavorrano il granito attraversa ed altera 
roccie del lias inferiore e manda delle vene anche dentro a quegli 
scisti supposti carboniferi dal De Sterani, inducendo le altera- 
zioni solite con formazione di andalusite (Al, Si0,), chiastolite 
ed altri minerali caratteristici. 


$. V. — Età del granito di Gavorrano. 


Savi, Sruper, Pira e Coquanp, Correeno, Pareto, MENEGHINI, 
vom Rara, Coccni, DaLmer sostennero l'età terziaria dei graniti 
toscani. Il Lorri(?) pure è dello stesso avviso; e quanto a Ga- 
vorrano non ammette una distinzione netta tra il granito nor- 
male e tormalinifero giacchè presso il loro contatto si con- 
fondono; non ammettendo quindi due eruzioni distinte, passa 
a mostrare come l’unica eruzione sia avvenuta nell’ età ter- 
ziaria. Infatti, egli dice (*), il granito in quella località forma 
un grosso dicco nelle roccie liassiche alquanto modificate al 
contatto, sopra cui ad ovest succedono gli strati eocenici sol- 
levati e contorti, mentre il filone granitico non presenta alcun 
disturbo nel suo andamento quasi verticale, come sarebbe ine- 
vitabilmente avvenuto se fosse stato anteriore ad esse. Con- 
clude quindi che i graniti di Gavorrano, Elba e altre isole to- 
scane sono più giovani delle roccie sedimentarie eoceniche; e 
restringe l'età delle roccie granitiche toscane tra l’eocene e il 
miocene superiore dalla presenza, non lungi dalla massa gra- 
nitica di Gavorrano, d'un conglomerato di ciottoli miocenici 
d'eurite a nuclei tormaliniferi e di porfido quarzifero altrove 
evidentemente connessi col granito. 


(1) Lorti. — Sulle apofisi della massa granitica del Monte Capanne. Boll. Com. 
geol. 1894. 

(2) B. Lotti. — Sulla Geol. del gruppo di Gavorrano. Boll. R. Com. Geol. VIII, 
1877. 

(3) B. Lorti.— Sulla età e sull'origine dei graniti toscani. Boll. R. Com. geol. 1884. 


186 E. MAROCCHI 


Di qui l'origine di varie discussioni tra il De SterANI e Bucca 
da una parte, il Lori dall'altra. 

Il De Srerani (1) sostenne prima che i graniti toscani as- 
sieme a quelli della Sardegna, Corsica e delle Alpi si potevano 
attribuire al laurenziano o allo gneiss centrale invocando in 
favore del suo asserto la somiglianza con questi ultimi enu- 
merati. In seguito (2) parlando della granitite o granito bioti- 
tico e del suo modo di giacimento in Toscana disse che giam- 
mai essa ha carattere intrusivo, e l’ interruzione stratigrafica 
colle roccie a contatto porge un argomento della sua antichità. 
Quei conglomerati di eurite, che servirono al Lorri per provare 
l’età terziaria del granito di Gavorrano, si trovano anche nel 
trias e siluriano della Sardegna. Non esitò dunque il De Ste- 
fani per la gran somiglianza coi graniti di Sardegna e Alpi di 
ritenere i graniti toscani come archeani. 

Il Bucca (3) a rendere completamente indipendente dall’eo- 
cene l’ età dei graniti e porfidi quarziferi toscani ammise la 
presenza d'un pseudoporfido, rigenerato dai detriti del primitivo, 
basandosi sulla mancanza di ogni azione di metamorfismo. Am- 
mettendo adunque questo pseudoporfido come eocenico sarebbe 
stato. naturale ammettere come anteriore il vero porfido. In 
altro scritto (4) negò fede a quanto il Lotti aveva detto circa 
l'età del granito di Gavorrano, non parendogli che il ripiega- 
mento e sollevamento degli strati eocenici valgano a dare una 
convinzione della posteriorità del granito agli scisti dell’eocene 
superiore, poichè questi sono frequentissimamente sconvolti senza 
sospetto di vicini o lontani filoni granitici. 

Il Lori (°) finalmente ritornò sull’ argomento e coadiuvato 
dagli studi del Darwer provò l'intrusione del granito negli strati 
eocenici in filoni, vere apofisi della massa granitica. Rispose 
al De Strerani come ritenendo egli i filoni racchiusi nelle roccie 


(4) C. De SterANI. — Cenni preliminari sui terreni cristallini e paleozoici della 
Sardegna. Atti R. Acc. Lincei, 1891, 1.0 sem., fase 7.0. 

(2) C. De SrEFANI. — Granitite 0 granito biotitico ecc. Boll. Soc. Geol. it., 1893. 

(3) L. Bucca. — L'età del granito di Monte Capanne. Atti R. Acc. Lincei, 2° sem. 
1894, Vol. 7.9, fasc. 8.0. 

(#) L. Bucca. — Ancora dell’età del granito di Monte Capanne Atti Acc. Gioenia 
di scienze naturali in Catania, S. IV, Vol. V, 1892. 

(5) B. Loti. — Sulle apofisi della massa granitica del Monte Capanne ecc. Boll. 
R. Com. Geol, It., 1894. 


STUDIO SUL GRANITO DI GAVORRANO 187 


sedimentarie dell’eocene superiore essere d'un granito posteoce- 
nico, non vedesse la ragione per ammettere posteocenica tutta 
la massa, ora specialmente che le apofisi trovate ne provavano 
il carattere intrusivo. Rispose anche al Bucca intorno al pseudo- 
porfido, il quale ultimamente esaminato dal Karkowskr fu ri- 
conosciuto come un porfido quarzifero, esclusa quindi la sua 
origine detritica: per la mancanza di metamorfismo sulla roccia 
a contatto del porfido quarzifero si valse d'una frase dello 
ZigexeL “ Mentre i graniti sono circondati da roccie di contatto 
metamorfizzate, mancano quelle apparenze di contatto carat- 
teristiche per i propri porfidi quarziferi ,. 

A questo punto si trova la questione dell'età dei graniti 
toscani, nè, ch'io mi sappia, è stato scritto altro in propo- 
sito posteriormente. Quindi una soluzione che non dia luogo a 
controversie non è ancora stata data. Per Gavorrano però la 
manifestissima forma di dicca del granito, e le azioni di me- 
tamorfismo sulle roccie a contatto confermerebbero col Lotti 
la sua origine intrusiva e la sua età eocenica. 


Laboratorio di Mineralogia dell’Università di Pisa, 
10 giugno 1896. 


Sc. Nat, Vol, XV. 13 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA IV. 


Le fotografie 1-4 sono state eseguite a nicol incrociati, le 4-5 a luce 
ordinaria. — Ingrandimento di tutte diam. 22. 
Fig. 1. Granito porfirico con cristalli di quarzo e mica in massa 
d’ortose alterato. 
. Granito porfirico con ortose fibroso. 
. Granito porfirico con plagioclasio a struttura polisintetica. 
. Granito porfirico con struttura pegmatitica. 


N) 
Ut Po 0 ND 


. Microgranito tormalinifero a struttura minutissima con pic- 
cole tormaline. 

»s 6. Microgranito tormalinifero con tormaline a sezioni basali e 

prismatiche con falsa apparenza di corrosione. 


ISTITUTO ANATOMICO DELLA UNIVERSITÀ DI PISA 


———_—___ 


Dott. GIUNIO SALVI 


DISSETTORE 


SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


+ dr 


Lo studio dello sviluppo delle meningi cerebrali e special- 
mente di quei prolungamenti di esse che si intromettono nelle 
primitive divisioni dell'encefalo e questo seguono nelle varie 
fasi della sua evoluzione, si trova un po’ trascurato nella let- 
teratura anatomica. Non esistono lavori speciali sull'argomento, 
e la descrizione comunemente seguita nei Trattati è appog- 
giata quasi esclusivamente all'autorità dei primi osservatori e 
basata solo sopra pochi stadi di sviluppo. 

Ho studiato lunghe serie di embrioni di mammiferi e mi 
sono convinto che il processo di differenziamento delle meningi 
cerebrali non è ben definito, non esatta la spiegazione che co- 
munemente si dà del modo di formarsi dei loro prolungamenti, 
non bene stabiliti e talvolta errati il numero, l’ordine di ap- 
parizione, la conformazione, ed il destino ultimo di questi. 

Descriverò e figurerò quello che ho osservato, in embrioni 
di cavia, perchè di questi posseggo la serie più completa, av- 
vertendo però che i fatti che espongo ho anche osservati e con- 
trollati nel coniglio, nella pecora e nell'uomo stesso. Farò pre- 
cedere un rapido cenno sopra gli studi dei ricercatori che mi 
hanno preceduto. 

Prima che l'origine mesodermale e comune delle meningi, 
affermata da KoLLmann, fosse dimostrata e ammessa generalmente 
per opera di KorLiger e Mrmarkovics, le idee più disparate fu- 
rono sostenute circa la genesi di esse e dei loro prolungamenti. 


190 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


Così Trepemann (!) disse la parete delle primitive vescicole 
cerebrali essere costituita dalla pia madre, la quale infossan- 
dosi segnava le prime divisioni fra l'una e l’altra, e appoggiò 
la sua affermazione sopra l'osservazione già fatta da MarpicnI 
e da Harver che nello spessore di quella parete appariscono i 
primi vasi e le prime traccie di sangue. 

Vide distinte la dura madre e la pia madre in embrioni 
umani della 7* e 8* settimana, e vide la prima dividere la ca- 
vità cranica in due porzioni uguali formando la tenda del cer- 
velletto. In embrioni di 11 settimane notò iniziata la forma- 
zione della falce e in altri di 14 vide la pia madre prolungarsi nei 
ventricoli laterali e nel 4° ventricolo. Non poté vedere l’ara- 
cnoide bene sviluppata che al 6° mese. 

Bicnorr (?) invece, sostenne che le tre meningi avessero tutte 
la stessa origine del sistema nervoso centrale e provenissero 
da una separazione istologica degli elementi più periferici della 
massa compatta costituente il sistema nervoso centrale primi- 
tivo. Allo stesso modo, disse che i prolungamenti meningei si 
formavano nel sito stesso che occupano per differenziazione degli 
elementi corrispondenti, e che solo si continuavano con le me- 
ningi esterne. 

Altri con Remax (3), Rercrert (4) e Rarage (5) ammisero che 
solamente la pia madre e parte dell’aracnoide provenissero da 
differenziazione istologica degli elementi cellulari costituenti 
la parete del tubo nervoso primitivo, mentre la dura madre si 
sarebbe sviluppata indipendentemente dalle altre meningi, dalla 
massa di cellule dalla quale prendono origine la scatola cra- 
nica e la colonna vertebrale. Da questo fatto deriverebbe, se- 
condo Rerczert la connessione intima che la pia madre man- 
‘ tiene con l’encefalo e secondo RargxE, la penetrazione di essa 
entro le fessure che si formano. 


(4) Trepemann Fr. — Anatomie du Cervau contenant V histoire de son developpe- 
ment dans le Foetus. Trad. A. I. pe JourDan. Paris 1823, pag. 17. 

(?) Brcnore TA. — Entwicklungsgeschichte der Saugethiere und des Menschen. 
Leipzig 1842, pag. 195. 

(3) Remag R.— Untersuchungen diber die Entwicklung der Wirbelthiere. Berlin 
1850-55. 

(4) RercHert C. B. — Der Bau des Menschlichen Gehirns. Leipzig 1859, u. 1861. 

(©) RatHKE H. — Entwicklungsgeschichte der Wirbelthiere. Leipzig 1861, pag. 104. 


G. SALVI 191 


Hensen (!) infine fece nascere la pia da quella produzione 
speciale, che egli descrisse e chiamò membrana prima. 

Più completa e precisa è la descrizione di KoLLmann (?) questi 
disse che l’invoglio primitivo del sistema nervoso centrale, 
si divide ben presto in uno strato esterno: la cute, uno medio: 
la capsula cranica, ed uno interno: membrane cerebrali. La di- 
stinzione, da principio puramente istologica, si fa più tardi evi- 
dente per un deposito di sali di calce nello strato craniense. 

Lo strato che rappresenta l’abbozzo meningeo è chiaro e ge- 
latinoso, paragonabile al connettivo embrionale che costituisce 
la gelatina di Warrton. 

In stadi più avanzati, si trova la porzione più periferica di 
questo strato, ispessita a costituire la dura madre, mentre la 
porzione più centrale, contigua al sistema nervoso presenta 
numerosi vasi e forma la pia madre. L’aracnoide apparisce in 
embrioni da 4 a 6 mesi, sotto forma di filamenti e trabecole 
tesi tra la dura e la pia. 

Descrisse pure un tramezzo sagittale e verticale che fin 
dai primi stadi si trova fra le vescicole emisferiche, e com- 
battè Trepemann che l'aveva chiamato falce primitiva. Egli 
vide che era formato solamente da due lamine di pia madre 
tenute unite da scarso tessuto interposto, e la dura madre vi 
entrava solo in seguito a partire dall’apofisi cristagalli. Le due 
lamine posteriormente si divaricavano contornando la porzione 
degli emisferi che poggia sui talami ottici e venivano a con- 
fondersi alla base del cervello col pericondrio del cranio pri- 
mordiale, mettendosi in questo tragitto in relazione coi plessi 
coroidei laterali. A tale stadio non esisteva alcuna piega la 
quale potesse venire interpetrata come tela coroidea o velum 
interpositum, mentre in embrioni dal 4° al 7° mese, appariva 
una membrana indipendente, portatrice del plesso coroideo del 
3.° ventricolo, la quale, decorreva sulla volta del ventricolo 
stesso. Anch’essa era duplice e fra le due lamine, fin dal 5° 
mese, si trovavano alcune vene le quali poi si riunivano a for- 
mare la vena magna Galeni. 


(') Hensen V. — Beobachtungen ciber die Befruchtung und Entwicklung des 
Kanichens und Meerschweinchens. Zeitschrift f. Anat. und Entw. I Bd. 1876, p. 367. 
(2) KoLumann J. — Entwicklung der Adergeflechte. Leipzig. 1861, p. 24 e seg. 


192 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


Dursy (*) completò KoLLmann occupandosi più specialmente 
della genesi e dell'evoluzione dei sepimenti meningei e dandone 
la prima descrizione generale. 

Egli combattè l’asserzione di KoLrmann che i primitivi tra- 
mezzi meningei fossero costituiti dalla sola pia madre, e so- 
stenne essere i prolungamenti primitivi solidi, e formati da so- 
stanza gelatinosa analoga al connettivo embrionale e ricchis- 
simi di vasi grandi e piccoli. 

Disse pure che essi si trasformavano nei prolungamenti della 
pia madre che sono in unione coi plessi coroidei ed in parte in 
quelli della dura madre, che servono a dividere la cavità del cranio. 

Circa il loro modo di formarsi sostenne che essi devono es- 
ser considerati come prolungamenti della parete craniense de- 
stinati a portare i vasi necessari al grande sviluppo che prende 
l'’encefalo; e che devono la loro esistenza ad un ineguale ac- 
crescimento delle vescicole cerebrali e della scatola cranica. 
Il tubo cerebrale cresce poco di circonferenza in corrispondenza 
delle tre infossature da principio poco profonde che separano 
le vescicole cerebrali primitive, mentre cresce molto fra una 
infossatura e l’altra, onde queste si approfondano sempre più. 
Da parte del cranio invece, i primitivi prolungamenti che oc- 
cupano fin da principio le infossature, non crescono e non si 
approfondano insieme a queste ma invece si spianano, e lo spa- 
zio che così viene a formarsi è riempito dai prolungamenti san- 
guigni della membrana cerebrale. 

Divise questi prolungamenti in prolungamenti della base e 
prolungamenti della volta del cranio. 

I prolungamenti della base sono due ed egli li chiamò p?- 
lastri, anteriore e posteriore. Quest’ ultimo è situato sul limite 
fra la base del cranio e la colonna vertebrale e sparisce nel 
corso dello sviluppo, lasciando dietro di sè il plesso venoso che 
si trova nella porzione anteriore del forame occipitale, men- 
tre l'anteriore nasce con la curvatura ed il prolungamento del 
cranio oltre l'estremo cefalico della corda, e contiene l'arteria 
basilare. Si sviluppa per il tatto che, allorchè gli emisferi sono 
ancora piccoli, le carotidi interne hanno pure un ufficio secon- 


(4) Dursy E. — Zur Entwicklungsgeschihte des Kopfes des Menschen und der 
hoheren Wirbeltiere. Tubingen 1869, pag. 60. 


G. SALVI 193 


dario ed alla circolazione cerebrale provvedono le arterie ver- 
tebrali e perciò la basilare, che prende un grande sviluppo. 
Dà origine al dorsum sellae ed all’avventizia dell'arteria basilare. 

Questo pilastro anteriore era però già stato descritto, prima 
di Dursr, da altri osservatori. 

Così Baer (*) lo descrisse come un ammasso di connettivo 
appartenente all’abbozzo della colonna vertebrale, il quale con- 
teneva la corda e riempiva lo spazio formatosi fra 1’ infundi- 
bulo, le eminenze quadrigemelle e il cervelletto. Trepemann (?) 
lo notò in embrioni umani della 7. settimana e lo ritenne 
come l’abbozzo del tentorio del cervelletto. Rercaers (3) lo ri- 
tenne come un prolungamento della superficie interna del cranio, 
destinato a tener fisso il cervello ed a formare in seguito il 
dorsum sellae. RarHKE (4) infine lo descrisse nello sviluppo del 
cranio e lo chiamò pilastro medio o impari per distinguerlo dai 
due laterali o pari che si sollevano verso le parti laterali della 
testa prendendo parte alla formazione del cranio. Vide che nel 
seguito dello sviluppo si riduceva e spariva più o meno com- 
pletamente. 

Circa i prolungamenti della volta, Dursr disse che da prin- 
cipio erano 2 e dividevano la cavità cranica in 3 scomparti- 
menti per le tre vescicole cerebrali primitive. Più tardi ne 
compariva un altro nella regione del cervello posteriore e del 
retro cervello, ed uno in avanti nella regione del cervello an- 
teriore. 

Chiamò quest’ ultimo falce primitiva dimostrando che non 
era unico, come aveva detto Rercnerr ma che invece, giusto 
quanto aveva osservato KoLrmann, doveva esser diviso in due 
porzioni: una anteriore impari che corrisponde alla vera falce 
e due posteriori pari che provengono dal biforcarsi della prima 
e che egli chiamò sustentacula cerebri. Asserì che il tentorio del 
cervelletto è formato da quel prolungamento che si intromette 
fra cervello medio e cervello posteriore, al quale vengono ad 


(4) Baer K. E. — Ueber Entwicklungsgeschichte der Thiere. Beobachtung und 
Beflexion. Kénisberg 1828, Bd. I, pag. 75. 

(2) TrepeMAnN Fr.— Loc. cit. 

(3) Rricnert 0. B. — Loc. cit., pag. 30-31. 

(4) RatBHKE H. — Loc. cit., pag. 124. 


194 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


unirsi per piccola parte i sustentacula cerebri migranti indietro 
insieme agli emisferi. 

Questa descrizione di Dursy fu in parte accettata in parte 
modificata e completata da KéLrger (1). Questi considerò lo 
strato gelatinoso descritto da Kocrmann e accennato da Dursy, 
come l’abbozzo della pia madre e disse che esternamente a 
questo se ne trova un altro più consistente e fibroso il quale 
rappresenta il éranio e la dura madre non ancora separati, e 
la distinzione fra i quali si avrà solo all’epoca dell’ossificazione. 

Affermò inoltre che la aracnoide deve essere considerata 
come una emanazione della pia madre. 

Quanto ai prolungamenti, li considerò anch'esso come pro- 
liferazioni dell’ invoglio primitivo, ma rigettò l'idea che fos- 
sero prodotti come passivamente per effetto dei cambiamenti 
di forma dell'encefalo, sembrandogli strano che la parete in- 
terna e la parete esterna del cranio avessero ciascuna un ac- 
crescimento proprio, per modo che l’una venisse interessata nei 
ripiegamenti del cervello embrionale e l’altra no. Ammise pure 
che la proliferazione fosse il fenomeno iniziale il quale fosse 
la causa determinante delle ripiegature e dei solchi della pa- 
rete cerebrale. 

Chiamò il pilastro anteriore del cranio sella turcica primi- 
tiva, ammettendo dapprima con Trepemann che fosse l’abbozzo 
del tentorio, ma riconoscendo più tardi che esso entra solo in 
parte nella produzione di questo prolungamento meningeo men- 
tre si atrofizza e finisce per trasformarsi negli invogli cerebrali 
che riposano sul clivus e sulla sella turcica. 

Descrisse la falce primitiva biforcata in dietro secondo Kott- 
MANN e Dursy, e disse che allorchè si formano il corpo calloso e 
il setto lucido, la parte impari di essa viene divisa in una 
porzione superiore che è la falce primitiva propriamente detta, 
ed una inferiore che è la tela coroidea superiore. 

Chiamò anch'esso fentorio primitivo il prolungamento me- 
ningeo che si forma fra cervello medio e cervello posteriore, e 
disse che allorchè la porzione impari della falce, allungandosi 
indietro insieme agli emisferi, è arrivata a livello di esso, vi 


(!) KorrigER A. — Entwicklungsgeschichte des Menschen und der Hoheren There. 
Leipzig 1879, pag. 570 e seg. 


G. SALVI 195 


si salda nel mezzo e si stabilisce così la connessione fra il ten- 
torio e la falce. 

Chiamò infine piega dei plessi coroider posteriori quel pro- 
lungamento meningeo primitivo che si forma in addietro del 
cervelletto. 

Minatkovics (1) descrisse anch'egli i pilastri della base e i 
4 prolungamenti della volta che divise in 1°, 2°, 3° e 4° 

Disse però che il 4° che dapprincipio occupava l'angolo fra 
cervello posteriore e retro-cervello, sparisce con lo sparire di 
quest'angolo e quel prolungamento connettivale che si trova 
sotto al cervelletto è una produzione successiva. Il 3° dà ori- 
gine al tentorio unendosi soltanto secondariamente con la falce. 

Combattè l'opinione di Dursr secondo la quale i rami 
posteriori della falce andrebbero a prendere parte, sia pure 
molto secondaria alla formazione del tentorio e dice che fra 
questi rami e il vero tentorio primitivo si verifica solo una 
unione apparente e temporanea la quale, dopo la differenzia- 
zione istologica viene sciolta, ed i rami della falce separati, ri- ‘ 
mangono indietro come il tessuto connettivo piale e aracnoi- 
deale che sta sopra i talami ottici e le eminenze quadrigemelle. 

Con KéLLixer e Minatkovics si arresta quasi completamente 
la bibliografia sopra lo sviluppo delle meningi e la loro descri- 
zione e le loro figure si trovano riportate in quasi tutti i mo- 
derni trattati di Anatomia e di Embriologia. Qualcuno con 
Greenpavr (2) ammette come principale fattore della divisione 
delle varie meningi, la formazione degli spazi linfatici. 

Solo Lac®i (*) studiando lo sviluppo della tela coroidea 
superiore, vide in un embrione umano iniziata la forma- 
zione del tentorio mentre ancora gli emisferi lasciavano sco- 
perto il cervello medio, ed in altri embrioni di 4,5 e 6 mesi 
vide il tentorio assumere sviluppo sempre maggiore, onde emise 
l'ipotesi che esso potesse formarsi molto in avanti, in relazione 
con lo sdoppiamento posteriore della falce primitiva, e migrasse 
in seguito in dietro. Fu confortato in questa idea dall’ avere 
osservato in sezioni trasversali del tentorio il seno retto. 


(1) Mimaggovios V. — Entwicklungsgeschichte des Gehirns. Leipzio 1877, pag. 165. 
(2) GegenBAUR C. — Lehrbuch der Anatomie des Menschen. Leipzig 1892, pag. 418. 
(3) LacHi P. — La tela coroidea superiore e è ventricoli cerebrali dell'uomo. Pisa, 1888. 


196 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


* 
E 


Il tessuto mesodermale che involge l’encefalo primitivo e, 
interposto fra questo e la cute, rappresenta l’abbozzo della sca- 
tola cranica e degli invogli del cervello, è costituito da uno 
strato di connettivo embrionale giustamente paragonato da 
KoxLmanx al connettivo mucoso della gelatina di Warton. In un em- 
brione di cavia lungo mm. 4’ non presenta ancora traccia 
alcuna di differenziazione. 

I cambiamenti di forma dell’ encefalo e la prima appari- 
zione dei solchi sulla sua superficie, cominciano allorchè questa 
massa si trova tuttora in tale stato e, qualunque sia il modo 
col quale si vogliano spiegare (4), è certo che ad essi spetta la 
prima parte e che è solo in seguito alla formazione del solco 
cerebrale che il connettivo penetra in esso. 

Più tardi, come può vedersi in un embrione di cavia di 
mm. 11, lo strato più esterno di questa massa dà origine al- 
l’abbozzo del cranio membranoso, mentre lo strato più interno 
conserva per lungo tempo ancora le caratteristiche embrionali. 

Gli autori, concordemente ammettono che questo strato più 
interno, in tutto o in parte, rappresenti l’ abbozzo della pia 
madre, ma allorchè si tratta di spiegare i prolungamenti di 
questa nei centri nervosi, descrivono quelli come altrettante 
ripiegature od introflessioni della meninge stessa. Ciò non sa- 
rebbe possibile evidentemente, che nel caso che la meninge 
fosse già formata, o che fosse provata l’asserzione di Remax, 
Rercnerr e RataKE per la quale le meningi provenivano dalla 
parete stessa delle vescicole cerebrali. Se questo modo di dire 
e spiegare la cosa didascalicamente può essere ammesso, per- 
chè in certo qual modo corrisponde a quello che è a sviluppo 
completo, non corrisponde certo al processo di formazione em- 
brionale. 

In questi stadi di sviluppo la meninge embrionale non è 
differenziata dalla scatola cranica più che non lo siano le varie 
meningi fra di loro ed in tal caso, se essa dovesse venire quasi 


(4) V. CararuGi G. — La forma del cervello umano e le variazioni correlative del 
cranio e della suferficie cerebrale. Siena 1886. ; 


. 


G. SALVI 197 


meccanicamente, compresa nelle ripiegature della superficie ce- 
rebrale, il ripiegamento stesso dovrebbe interessare tutti gli 
strati. 


La meninge embrionale, molle, gelatinosa ed eminentemente 
plastica, riempie tutto lo spazio che è fra la parete cerebrale 
e quello che sarà poi il cranio membranoso. Allorchè il tubo 
nervoso si segmenta e si flette, meccanicamente, ma per il suo 
accrescimento, continuo la massa connettivale entra nei solchi 
e nelle fessure che si vanno formando, seguitando così nel suo 
ufficio primitivo. 

Qui non si può parlare di introflessione, di raddoppiamento 
e di foglietti, e tanto meno di dura madre e di pia madre, dal 
momento che a questi stadi di sviluppo la massa è sempre 
indifferenziata; allo stesso modo non si potrà parlare di falce 
o di tentorio o di altre parti che alludano all'una o all'altra 
delle meningi definitive perchè, ripeto, di queste qui non è an- 
cora alcuna traccia. i 

I prolungamenti della meninge primitiva, rappresentano in 
sezione tanti cunei i quali rivestono la forma del solco che li 
contiene e tale forma conservano anche a sviluppo completo. 

La loro evoluzione, per quanto riguarda la forma, è stret- 
tamente legata a quella dell'encefalo ed essi subiranno gli stessi 
cambiamenti di conformazione e di rapporti che presenteranno 
i solchi nei quali sono accolti. Per quanto riguarda la struttura 
poi, l’evoluzione loro è collegata a quella della meninge parie- 
tale dalla quale provengono. 


Primo periodo. 


Allorchè l’ asse dell'encefalo primitivo si flette in basso e 
si forma la piegatura cranica o curvatura della sella di His, 
prende posto nell'angolo un prolungamento della meninge pri- 
mitiva il quale costituisce il pilastro medio di RatHKE o ante- 
riore di KòLLIKER. Ciò avviene assai presto, ed in un embrione 
di cavia di 3 mm. di lunghezza, il pilastro è già evidentissimo; 
è volto ventralmente ed apparisce come la continuazione della 
leggiera curva con la quale la base primitiva del cranio si con- 
tinua, a questo stadio di sviluppo, con l'abbozzo della colonna 
vertebrale. 


198 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


In sezione mostra l’aspetto di una clava, l'estremità rigon- 
fiata della quale, corrisponde al pavimento del cervello medio 
che le sovrasta (fig. 1). Seguendolo nelle sezioni laterali, si 
vede che man mano passa e si confonde nel connettivo late- 
rale e della base dell’invoglio cerebrale, e ciò più dorsalmente, 
perchè ventralmente la sporgenza del cervello anteriore sulle 
altre vescicole, lo limita meglio. 

Nelle ricostruzioni si può vedere facilmente come esso abbia 
in complesso, una forma semilunare con la piccola circonferenza 
smussa e rotondeggiante, e i corni che si sollevano lungo le 
parti laterali dell’abbozzo craniense. In una parola segue esat- 
tamente il solco che lo accoglie. 

È costituito tutto da connettivo embrionale senza traccia 
alcuna di differenziazione e che apparisce come continuazione 
di quello dell’abbozzo vertebrale. Fin dai primi stadi però (em- 
brione di cavia mm. 3) mostra le traccie di formazione vasale 
ed in una cavia di mm.4'/, i vasi sono evidentissimi special- 
mente all'apice e lungo la porzione dorsale (fig. 1). 

Proseguendo lo sviluppo, l’encefalo si incurva ancora al limite 
fra il cranio e la colonna vertebrale (piegatura nucale), ed il con- 
nettivo dell’invoglio primitivo vi prende parte formando quello 
da che Dursy e da K6LLIKER prese il nome di pilastro posteriore della 
base del cranio. 

Questo più che un prolungamento meningeo, è un angolo 
formato a spese di tutti gli strati; comincia ad apparire in una 
cavia di 8 om. di lunghezza ed è già manifestissimo in una di 
11 ‘|, (fig. 2 e 4) anzi si può dire che a questo stadio corrisponde 
il massimo del suo sviluppo. Esso fin da principio presenta nu- 
merosi vasi dei quali alcuni in corrispondenza dell'angolo, e nelle 
sezioni sagittali appariscono sezionati trasversalmente, altri verso 
la base e questi non si vedono che nelle sezioni più mediane 
e sono diretti sagittalmente. Più profondamente, cioè addossati 
a quello che poi sarà lo strato osteogeno, ve ne sono ancora 
altri trasversali (fig. 4 e 5). 

Il tessuto che intercede fra i due pilastri è anch'esso sol- 
cato in direzione sagittale da vasi che appariscono evidente- 
mente in continuazione gli uni degli altri. 

Negli stadi più giovani di sviluppo, come per esempio in 
un embrione di cavia di 3 mm. non si può parlare di prolun- 


G. SALVI 199 


gamenti della volta, e ciò perchè non esistono solchi o sono 
così poco profondi da non costituire che dei leggieri avvalla- 
menti denunziati dallo spessore un po’ aumentato in quel punto, 
dell’invoglio primitivo. Più tardi però (embrione di cavia di 
mm. 4 !,) i solchi si fanno più distinti e i prolungamenti ap- 
pariscono evidenti (fig. 1, 2, 3). 

Il primo ad apparire è un sepimento trasversale che occupa 
il solco che divide il cervello medio dal cervello posteriore ed 
è quello che Dursyr e KéòLLikeR chiamarono tentorio primitivo 
perchè lo ritennero l’abbozzo della tenda del cervelletto. 

Tutt'affatto in avanti poi, un altro prolungamento apparisce, 
anch'esso trasversale, e corrisponde al solco che si forma fra 
il cervello anteriore e gli emisferi allorquando questi comin- 
ciano a svilupparsi. Questo solco trasversale, comunica sulla 
linea mediana con l’altro sagittale che è l’inizio della scissura 
longitudinale. 

I solchi stessi visti dall'alto hanno l'aspetto di una lettera Y 
con l’apertura dell'angolo volta dorsalmente. Nel seguito dello 
sviluppo però, i due rami divaricano sempre più uno dall’ altro 
fino a che si viene gradatamente alla forma di un T e, natu- 
ralmente, i prolungamenti meningei prendono la stessa forma 
dei solchi. 

Dursy descrisse il prolungamento sagittale come la falce 
primitiva ed ammise, seguendo in parte KoLLmann, che questa 
posteriormente si biforcasse nei due rami laterali che chiamò 
corni laterali della falce o sustentacula cerebri. Questa descrizione 
seguìta poi comunemente, a me non pare esatta. 

I due sepimenti sono dipendenti uno dall’ altro, o meglio 
sono fra di loro in una connessione che va facendosi sempre 
maggiore, ma il più dorsale di essi non può venire interpetrato 
come la biforcazione del primo, giacchè esso non costa di due 
porzioni laterali, ma è una lamina connettivale continua di 
forma semilunare la quale occupa quella fessura trasversale 
che si forma e va sempre aumentando di profondità, fra gli 
emisferi e il cervello intermedio. Essa ricopre tutta la volta 
del cervello intermedio, e solo sulla linea mediana si unisce e 
sì continua con la falce primitiva. 

Al primo apparire degli emisferi, essendo questi molto di- 
varicati dorsalmente, il tratto di unione fra i due prolunga- 


200 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


menti è largo e di forma triangolare e si ha perciò l’ appa- 
renza di una lettera Y. Man mano però che gli emisferi si 
sviluppano, si accostano ed allora i prolungamenti col loro mar- 
gine superiore o periferico vengono a dare l’ apparenza della 
lettera T. 

Di più vedremo come, per l'evoluzione che dovrà subire, al 
sepimento trasverso spetti una grande importanza. Chiamerò 
falce primitiva il prolungamento sagittale, e prolungamento tra- 
sverso ventrale l' altro. 

I rapporti e la conformazione di questi prolungamenti sono 
i seguenti: 

Il prolungamento dorsale o tentorio di KòLLIKER, in sezioni 
sagittali e mediane apparisce diretto obliquamente in avanti. 
Appena accennato in un embrione di mm. 4 /|,, è già molto pro- 
fondo in uno di 8‘/, (fig. 1, 2,3). Esaminando delle ricostruzioni e 
paragonandole con cervelli estratti, si vede che esso circonda a 
guisa di semicerchio il limite fra cervello medio e cervello po- 
steriore e le sue parti laterali, portandosi in avanti, vengono 
a far capo nel connettivo della base sollevato nel pilastro me- 
div di RATHKE, e precisamente in corrispondenza della parte po- 
steriore dell’apice di questo pilastro. 

Il prolungamento trasverso ventrale, appena accennato in 
una cavia di 3 mm., in una di 4'/, è già molto profondo. 

In sezioni sagittali si mostra diretto obliquamente dall'alto 
al basso e dall’indietro all’avanti e, seguendolo nel suo decorso 
con sezioni laterali e con delle ricostruzioni, si vede che segue 
esattamente il solco che formano gli emisferi nello staccarsi 
dal resto del cervello anteriore primario, ora divenuto cervello 
intermedio. Ha anch'esso forma semilunare e, a partire dalla 
linea mediana, volge prima in dietro e in basso, poi in avanti, 
seguendo la curva del margine dorsale degli emisferi, fino a che 
viene a confondersi anch'esso col connettivo che trovasi accu- 
mulato alla base del cervello e che corrisponde appunto alla 
base del pilastro di RaATHKE. 

La falce primitiva ha direzione perpendicolare a questo e 
vi si continua sulla linea mediana. 

In questi stadi di sviluppo nessun altro solco apparisce sulla 
linea mediana, e quindi nessun prolungamento: lo stesso però 
non è lateralmente. Un solco abbastanza distinto, per quanto 


G. SALVI 201 


poco profondo, o per meglio dire un avvallamento della parete 
cerebrale, esiste nelle parti laterali dell’ encefalo fra cervello 
intermedio e cervello medio (fig. 3). Il prolungamento dell’ in- 
voglio primitivo che lo occupa non arriva perciò sulla linea 
mediana, ma va rendendosi sempre più manifesto in basso 
dove si dirige verticalmente, confondendosi con le parti late- 
rali del pilastro di Rarn€xs. Anzi, per questo suo rapporto, po- 
trebbe benissimo essere interpetrato come il prolungamento dei 
corni laterali del pilastro stesso, ed è probabilmente lo stesso 
‘ che Rarake chiama pilastro laterale o pari dalla base del cra- 
nio. Fra questo prolungamento e il fentorio di KéLLIKER è cir- 
coscritto una specie di triangolo (fig. 6) nel quale è compreso 
il cervello medio che occupa la porzione più elevata dell'encefalo. 

Riassumendo perciò, a questo stadio di sviluppo abbiamo 
dalla volta del cranio 4 prolungamenti dei quali uno sagittale 
e verticale che occupa la scissura intermisferica, e gli altri tra- 
sversali dei quali il ventrale è fra cervello anteriore e cervello 
intermedio, e corrisponde alla biforcazione della falce primitiva 
degli autori; il medio, invisibile sulla linea mediana, è distinto 
benchè poco profondo ai lati ed è fra cervello intermedio e 
cervello medio; il dorsale è fra cervello medio e cervello po- 
steriore ed è il fentorio primitivo degli autori. Il ventrale e 
il dorsale hanno in sezione la forma di cunei ad angolo acuto, 

=il medio è molto smussato e rotondeggiante. 
Il meccanismo di formazione di questi prolungamenti ed i 
loro rapporti reciproci, si spiegano facilmente. 

Se l’encefalo nel suo sviluppo si fosse mantenuto su di un 
asse diritto, cioè le vescicole cerebrali si fossero segmentate 
mantenendosi sulla stessa linea, i tre solchi e quindi i tre pro- 
lungamenti si sarebbero trovati press’ a poco paralleli. L'ence- 
falo però si è incurvato con un angolo che ha fatto sporgere 
in alto il cervello medio, e nell'angolo si è formato il pilastro 
di Rarakg, ed allora i 3 prolungamenti si sono trovati tutti a 
convergere verso di questo. 


Secondo periodo. 


Lo sviluppo straordinario che prendono gli emisferi sopra le 
altre vescicole cerebrali, apporta grandi modificazioni allo stato 


202 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


di cose descritto. Gli emisferi si accrescono in alto ed in dietro 
con una specie di movimento di rotazione rassomigliabile a quello 
di un ventaglio che si apre, e con un centro che è rappresen- 
tato dal peduncolo degli emisferi stessi; e questo movimento 
sì inizia e per buon tratto si esplica, mentre le membrane che 
ricuoprono l’encefalo si trovano sempre allo stato embrionale 
indifferenziato. 

Si spiega comunemente la formazione della tela coroidea 
come un raddoppiamento della pia madre, per effetto del quale 
i due strati di questa membrana che tappezzavano respettiva- 
mente le due superfici cerebrali prima in continuazione una 
dell'altra ed ora divenute parallele, verrebbero a porsi in con- 
tatto come avviene quando si piega in due un foglio di carta. 
È ben vero, come dimostrò Lacxi (!), che se si considera come 
pia madre lo strato meningeo primitivo immediatamente a con- 
tatto con la superficie cerebrale, essa conserva con questa gli 
stessi rapporti che avrebbe avuti se gli emisferi, invece di ri- 
piegarsi sopra le altre vescicole cerebrali, avessero continuato 
a svilupparsi all’ avanti; ma qui la massa connettivale della 
meninge primitiva non ha perduto alcuno dei suoi caratteri 
embrionali. E sempre la massa molle e plastica che si è intro- 
messa nel primo solco formatosi sulla superficie cerebrale ed 
allora, come duplicatura non è avvenuta la prima volta, du- 
plicatura non può essere adesso. 

Continuando il movimento degli emisferi avviene, mi si passi 
il paragone, quello che avverrebbe di una massa plastica la quale 
fosse interposta fra un piano ed un cilindro che avanzasse su 
questo. Man mano che il cilindro avanza, la massa viene com- 
pressa, e sul piano ne viene disteso uno strato di uno spessore 
corrispondente all'intervallo che lo separa dal cilindro. Così si 
forma il velum interpositum degli autori e poi la tela coroidea. 
Essa non è dipendenza della falce primitiva ma sibbene del 
prolungamento trasverso ventrale, e noi dobbiamo considerarla 
soltanto come la porzione più profonda di esso. 

Continuando ancora il movimento degli emisferi, il cervello 


intermedio si abbassa soverchiato da essi ed il prolungamento. 


trasverso anteriore non si trova più a corrispondere al primi- 


(4) Loc. cit. 


G. SALVI 203 


tivo intervallo tra cervello anteriore e cervello intermedio, ma 
viene man mano avvicinandosi al cervello medio che occupa 
sempre la sommità dell’encefalo (fig. 5 ). E dicendo ciò, non voglio 
significare che tutto il prolungamento si sposti all'indietro: esso 
non fa che allungarsi ed è la sua base, la sua periferia che si 
sposta indietro seguendo lo sviluppo del cervello e del cranio. 
In altri termini si potrebbe dire che è il solco che si fa più 
profondo. Contemporaneamente il prolungamento ed il solco 
tendono a farsi sempre più orizzontali. 

Il secondo prolungamento conserva le sue caratteristiche e 
solo viene a trovarsi più ravvicinato al primo. 

Il dorsale si fa sempre più sottile, profondo e orizzontale; 
al di sotto di esso si sviluppa la lamina cerebellare ed esso si 
trova interposto fra questa e il margine posteriore e inferiore 
del cervello medio (fig. 4 e 5). 

, A questo punto cominciano ad apparire delle leggiere in- 
crespature sulla volta del cervello posteriore e del retro-cer- 
vello; esse si fanno sempre più manifeste, il connettivo so- 
prastante vi partecipa, e a poco a poco, per lo sviluppo grande 
della lamina cerebellare, viene a formarsi una specie di solco 
ed entro a questo un prolungamento meningeo che chiamerò 
subito prolungamento dei plessi coroidei posteriori. In questo 
stadio (embrione di cavia 11 !, e meglio in uno di 14) la 
lamina cerebellare è situata al di sotto del cervello medio 
e ne viene di conseguenza (fig. 5) che la base del tentorio 
di KéòLtikeg e il prolungamento meningeo sopra descritto, si 
trovano tanto ravvicinati, da sembrare come se fossero at- 
taccati ad un largo peduncolo comune. In realtà, a questo stadio 
di sviluppo, il cervelletto non sporge alla superficie encefalica, 
specialmente nella linea mediana, mentre sporge moltissimo il 
cervello medio il quale con la sua estremità posteriore, ripeto, 
ricuopre addirittura la lamina cerebellare. Ne viene di conse- 
guenza che un largo solco si forma in quel punto e dal con- 
nettivo che lo occupa sembrano dipartirsi ad un tempo il ten- 
torio di KéuuiKkER ed il prolungamento dei plessi coroidei po- 
steriori. 

Prima di entrare a trattare delle variazioni che si verifi- 
cano d'ora in poi nella costituzione di questi prolungamenti, 
variazioni che non si possono disgiungere dal differenziamento 

Sc. Nat., Vol. XV. 14 


204 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


delle meningi esterne, dirò di alcune particolarità che in questo 
periodo di sviluppo sono apparse nella loro struttura, e ne parlo 
qui perchè servono a dimostrare la connessione stretta che fin 
da principio si stabilisce fra alcuni di questi prolungamenti. 

Sin dagli stadi più giovani, (embrione di cavia di mm. 4//;) 
attira l’attenzione un grosso vaso che si trova ad occupare la 
base del 1° prolungamento trasverso. Esso segue la periferia 
di questo prolungamento fino alla base del cranio e fin da prin- 
cipio presenta delle connessioni degne di nota (fig. 1). 

In corrispondenza della linea mediana, vengono a sboccare 
in esso una serie di vasellini che percorrono l’asse del sepi- 
mento trasverso, ed altri che decorrono sagittalmente lungo 
la periferia della falce primitiva. Nel seguito dello sviluppo 
questi vasi non fanno che diminuire di numero ed aumentare 
di volume, e tutto il sistema si sposta all'indietro seguendo la 
migrazione e l'allungamento del sepimento trasverso. Nessun 
vaso degno di nota si trova nel 2° prolungamento e nel 3°. 

Gli emisferi seguitano a svilupparsi indietro spingendo e 
spostando davanti a sè il 1° sepimento fino a che si arriva ad 
un punto che tutto il cervello intermedio è ricoperto e gli 
emisferi si trovano in contatto col cervello medio (embrione 
di cavia mm. 244), fig. 8). 

A questo stadio di sviluppo bisogna distinguere nel sepi- 
mento ventrale due porzioni; una inferiore più profonda la quale 
trovasi interposta tra la superficie inferiore e interna degli emi- 
sferi e il cervello intermedio, ed è la tela coroidea; l’altra più 
superficiale, più spessa, la quale sulla linea mediana si continua 
in avanti con la falce primitiva, e questa resta sempre per noi 
il 1° sepimento trasverso. 

Questo, a forza di spostarsi all'indietro, è arrivato in con- 
tatto col cervello medio ed occupa quel profondo solco che in 
questo stadio di sviluppo si trova a dividere le due porzioni 
dell'encefalo. Questo solco, accentuato sulla linea mediana, lo 
è pure lateralmente, e qui il connettivo che lo occupa è, per 
così dire, resultante di quello del sepimento medio che lì si 
trovava e di quello del ventrale che è venuto a raggiungerlo 
unendosi ad esso (fig. 7 e 8). 

Il nuovo sepimento è molto spesso e, pur non perdendo al- 
cuna delle sue connessioni primitive, si trova ad avere una 


@. SALVI 205 


direzione molto più orizzontale. Le sue porzioni laterali, come 
facevano gia quelle del 2° sepimento ora assorbito, si conti- 
nuano alla base col pilastro medio di Rarzxe che si trova adesso 
nella stessa sua linea, onde si ha una specie di cerchio connet- 
tivale il quale separa il cervello anteriore e intermedio dal 
medio. 

Il sepimento dorsale in questi stadi si trova molto assot- 
tigliato e modificato. 

Per intender bene le fasi per le quali passa la sua evolu- 
zione, bisogna riportarsi allo sviluppo delle parti dell'encefalo 
che gli sono vicine. 

i Da principio, come abbiamo già visto (fig. 2), è diretto ver- 
ticalmente in basso ed ha al davanti il cervello medio, e al 
di dietro il cervello posteriore. Ben presto però il solco va gra- 
datamente aumentando di profondità per lo sviluppo del cer- 
vello medio e della lamina cerebellare, e nello stesso tempo 
diviene strettissimo e sempre più obliquo fino a prendere una 
direzione decisamente orizzontale (fig. 4 e 5). 

Differenziamento delle meningi. — A questi stadi di svi- 
luppo, cominciando a rendersi manifesto il differenziamento 
delle meningi, altre questioni si affacciano. i 

In questo lavoro non è mia intenzione esporne minuta- 
mente il processo di differenziamento, ma solo quel tanto che 
basti a spiegare la struttura che i sepimenti che ho studiato 
sino a qui, hanno nell'adulto. La prima a differenziarsi è la 
pia madre. 

In un embrione di cavia di 14 mm. si vede lo strato del- 
l’invoglio primitivo che è immediatamente a contatto con la pa- 
rete cerebrale, rendersi manifesto per un grande sviluppo di vasi. 

Si ha una fittissima rete vascolare che apparisce ovunque 
contemporaneamente, sia nella meninge parietale che in quella 
che è andata a costituire i prolungamenti. I vasi aumentano 
rapidamente in quantità e volume entrando anche nella so- 
stanza cerebrale, e lo strato si rende sempre più appariscente. 

Adesso soltanto si potrà parlare di raddoppiamento nei sol- 
chi, ma lo stadio di sviluppo è già molto avanzato, ed il mec- 
canismo di formazione embrionale è stato tutt'altro perchè la 
meninge definitiva si è differenziata 2 situ dallo strato più 
periferico del tramezzo meningeo primitivo. 


206 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


Questo strato ha differenti rapporti secondo che lo si con- 
sidera nella meninge parietale o nei sepimenti. Nella porzione 
parietale, si trova separato dallo strato fibroso osteogeno già 
manifesto della capsula cranica, da uno strato di tessuto con- 
nettivo embrionale, lo spessore del quale è molto ridotto in 
corrispondenza della volta delle vescicole cerebrali, ed aumenta 
molto là dove si originano i setti, presentando in sezione 
l'aspetto di un cuneo. 

Nei sepimenti poi, i due strati vascolari contigui sono se- 
parati da una piccola quantità di questo connettivo, che solo 
si raduna in maggior quantità là dove scorre un grosso vaso. 
I tronchi venosi dei quali ho parlato sopra, decorrono nello 
strato connettivale. La dura madre, comincia a differenziarsi 
sotto forma di un sottile strato nel quale gli elementi cellu- 
lari sono più serrati. Questo strato non si trova addossato 
allo strato osteogeno, ma fra i due rimane ancora una porzione 
di connettivo embrionale, come un'altra ne rimane fra esso e 
lo strato vascolare della pia madre. 

Tutto ciò comincia ad apparire in un embrione di cavia di 
mm. 18 e si rende già manifesto in uno di 24//, (fig. 7, 8 e 11). 

Dei vasi, alcuni vengono compresi fra questo primo accenno 
della dura madre e lo strato osteogeno del cranio, altri restano 
al di fuori. 

A questo punto si può distinguere la massa della meninge 
primitiva in due porzioni. Chiamerò dura madre primitiva quella 
che è costituita dallo strato più ispessito e da quel connettivo 
che è fra questo e lo strato osteogeno craniense; lepto-meninge 
primitiva quella che è fra lo strato ispessito e la superficie 
cerebrale (fig. 11). 

A poco a poco quel connettivo che è fra lo strato osteo- 
geno e la lamina limitante dell’ abbozzo durale, si ispessisce 
anch’esso ed i vasi vengono inclusi in una formazione connet- 
tivale più densa la quale si continua senza limiti precisi con 
quella della capsula cranica. Una vera distinzione fra le due 
non avverrà che allorquando comincierà l’ossificazione. Lo strato 
ispessito apparso per il primo è la dura madre (strato limi- 
tante), il connettivo che è fra questa e il cranio è lo strato 
periostale di essa, le vene che vengono incluse nella sua: for- 
mazione sono i seni della dura madre. 


G. SALVI 207 


Dei vasi che si sono sviluppati nella primitiva capsula me- 
sodermale dell'encefalo alcuni sono rimasti inclusi nell'abbozzo 
craniense, e restano come vasi dell'osso (vene diploiche ecc.), al- 
tri, nell’abbozzo durale e sono i seni della dura madre; altri in- 
fine sono rimasti al di fuori di questa e spettano alla pia madre. 

Per ora nessuna traccia dell’aracnoide la quale è rappre- 
sentata solo da quello strato di connettivo mucoso che resta, 
conservando i suoi caratteri embrionali, fra l’abbozzo durale e 
l’abbozzo della pia. 

In un embrione di cavia di 36 mm. si vede lo strato osteo- 
geno del cranio, distinto per l’ossificazione già cominciata, su- 
bito dopo l’abbozzo durale del quale la parte più profonda si 
confonde con esso, mentre il primitivo abbozzo della dura ma- 
dre, cioè quello stato più ispessito che è comparso per il primo 
in seno alla meninge primitiva, apparisce ora come limite della 
dura stessa. Dentro la formazione durale poi (fig. 9), si vedono 
quelle che prima non erano che vene scorrenti sulla superficie 
cerebrale, ora divenute senz. 

La pia madre si manifesta sotto forma di uno stroma va- 
sale con scarso connettivo interstiziale, e fra essa e la dura 
madre è ancora del connettivo embrionale senza però che 
l’aracnoide abbia cominciato a formarsi. 

Secondo le mie osservazioni dunque, il processo di differenzia- 
mento delle meningi, non sarebbe quale si descrive comunemente. 
Lo strato di connettivo embrionale che involge l’encefalo primi- 
tivo non rappresenta l’abbozzo della pia madre, nè la dura madre 
si sviluppa dall’abbozzo craniense, nè la aracnoide è una emana- 
zione della pia. Le tre meningi si differenziano tutte in seno alla 
massa mesodermale che resta tra l'abbozzo craniense e l’en- 
cefalo, e questa massa merita davvero il nome di meninge pri- 
mitiva. E nemmeno può seguirsi l’idea che siano gli spazi lin- 
fatici quelli che embrionalmente separano le varie meningi fra 
di loro, perchè non si ha alcuna apparenza di connettivo lasso 
o reticolare se non quando la dura madre e la pia sono già 
bene formate. 


Terzo” periodo. 


In un embrione di cavia di 50 mm. il sepimento meningeo 


Xx 


ventrale è arrivato sulla volta del cervello medio, e le por- 


208 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


zioni nelle quali lo abbiamo diviso, qui si fanno più manifeste. 

La porzione più profonda occupa la fessura trasversa dando 
origine alla tela coroidea superiore ed ai plessi coroidei dei 
ventricoli laterali. Essa è costituita dalle due lamine della pia 
madre, separate da scarsissimo connettivo mucoso. La porzione 
più periferica invece, quella che corrisponde al solco che è ora 
fra il cervello medio e gli emisferi, si mostra più complessa. 

Le due lamine di pia madre, seguitano a tappezzare respet- 
tivamente le parti corrispondenti dell’ encefalo (fig. 9) e nello 
spazio che si viene a formare dal loro divaricarsi, abbondan- 
tissimo è il connettivo. La grossa vena che si trova in questo 
sin dai primi stadi di sviluppo, è stata involta nella formazione 
della dura madre e si trova avvolta da un tessuto più ispessito, 
più compatto, il quale si avanza a guisa di cuneo nel connet- 
tivo lasso che riempie lo spazio. Questo cuneo è però sempre 
nettamente limitato da quella lamina connettivale più densa 
che più sopra ho descritto come il primo abbozzo della dura 
madre (fig. 9). Nelle sezioni mediane, si vede una, grossa vena 
la quale proviene dalle parti più profonde del sepimento, ne 
percorre l’asse mediano e ‘viene a sboccare in quella trasver- 
sale, dopo averne raccolte altre che provengono dalla tela co- 
roidea. Attorno ad essa il connettivo si ispessisce continuan- 
dosi in alto con quello nel quale è racchiusa la vena trasversale. 

Un' altra grossa vena scorre sagittalmente sulla linea me- 
diana in corrispondenza della grande circonferenza della falce 
ed essa pure involta nella formazione durale si getta anch'essa 
in quella trasversale. 

Altre vene, infine, che scorrono nel margine inferiore dell 
falce, vanno a far capo in quella che percorre nella linea me- 
diana l’asse del sepimento trasverso. 

Queste vene evidentemente sono i seni della dura madre e 
Sarzer (1) nel suo lavoro sopra lo sviluppo delle vene del capo 
nella cavia, ha appunto dimostrato che in questo animale, « 
tale stadio di sviluppo, hanno questi rapporti con l’encefalo. La 
vena trasversale è il sero trasverso il quale riceve il seno lon- 
gitudinale superiore dal margine superiore della falce, ed il 
seno retto dall'asse del sepimento trasverso. 


(4) Sarzer H. — Ueber die Entwickelung der Hopfvenen des Meerschweinchens. 
Morphologisches Jahrbuch. XXIII Band 2 Heft. 


G. SALVI 209 


Questo seno poi raccoglie il seno longitudinale inferiore il 
quale verrà costituito da quelle vene, ora sempre numerose 
che scorrono nella piccola circonferenza della falce, e le vene 
coroidee di Gareno dalla tela coroidea. 

Tutto il sistema quindi di questi seni cerebrali, si trova a 
questo stadio più in avanti di quello che non sia nell’ adulto 
ed in stadi inferiori lo era ancor più giacchè, ripeto, questi 
seni provengono da quelle vene allora piccole e numerose che 
negli embrioni più giovani occupavano gli stessi posti con le 
stesse connessioni. 

Negli embrioni di cavia e di coniglio si vede una grossa 
vena la quale decorre sagittalmente nella linea mediana, sulla 
volta del cervello medio, ma questa è situata al di fuori della 
formazione durale e riceve numerosi vasi dalla sostanza cere- 
brale gettandosi poi anch’ essa nel seno laterale. Essa non è 
un seno e Sarzer l’ha pure figurata nel suo lavoro. 

Il sepimento dorsale o tentorio di KéLtIKER, si trova ridotto 
allo strato piale ben distinto, le due lamine del quale sono se- 
parate da scarso connettivo ancora con i caratteri embrionali. 

Man mano si formano i lobi e le scissure cerebellari e 
dentro di esse si immettono dei prolungamenti secondari della 
lamina vascolare respettiva. Il velo midollare si fa ben mani- 
festo staccandosi dalla lamina cerebellare e dal cervello medio 
e su di esso pure si distende porzione di questo prolungamento. 
A questo stadio, il prolungamento posteriore è un vero e pro- 
prio diverticolo della pia madre il quale riveste la superficie 
del cervello medio (eminenze quadrigemelle) il velo midollare 
anteriore ed il cervelletto entrando nelle scissure che nella su- 
perficie di questo si sono formate. 

Nel punto ove i due foglietti si divaricano per continuarsi 
sulle respettive superfici encefaliche non si trova alcun vaso 
importante. La dura naadre non vi prende alcun rapporto e vi 
passa sopra con limiti nettissimi senza presentare alcun vaso. 

Inoltre, per lo sviluppo del cervelletto, il velo midollare 
posteriore che prima si trovava sulla stessa linea, si è infos- 
sato in modo che è venuto a situarsi sotto la lamina ce- 
rebellare, e il prolungamento dei pléssi coroidei, seguendo que- 
sto lento e graduale movimento, si è infossato anch'esso. 

I plessi coroidei si trovano adesso perciò al di sotto del 


210 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


cervelletto e del velo midollare posteriore ed il connettivo loro 
si continua per una stretta apertura con quello che abbondante 
sl trova sulla superficie del cervelletto e del midollo allungato. 

I pilastri della base vanno anch'essi man mano riducendosi. 

Im un embrione di cavia lungo 24 mm. (fig. 8) il’ pilastro 
anteriore è molto sottile e non è ridotto per la massima parte 
che ai due strati contigui della pia madre separati da scarsis- 
simo connettivo lasso il quale solo si raduna in maggior quan- 
tità nella linea sagittale mediana, attorno all’arteria basilare 
e all'apice del pilastro attorno alle diramazioni di questa. Nelle 
porzioni laterali il pilastro si trova molto assottigliato e final- 
mente si confonde e passa nella pia madre della superficie la- 
terale dell'encefalo. Esso ha il massimo di altezza nella linea 
mediana, mentre lateralmente va sempre degradando. 

La sua base però è sempre ben formata e costituita da 
un ammasso cuneiforme di connettivo il quale si solleva al di 
sopra dello strato cartilagineo ben distinto. Nelle sezioni me- 
diane e sagittali esso ha l'aspetto di un cuneo che si solleva 
all'indietro dell’abbozzo dell’ipofisi e si prolunga in parte al 
di sopra di questa (fig. 7 e 8). 

La dura madre ben distinta lo limita nettamente spingen- 
dosi anch'essa a guisa di cuneo e per poco tratto nel pilastro; 
ma prolungandosi a guisa di lamina al davanti sopra la fossa 
ipofisaria (fig. 7 e 8). 

Il connettivo è pur sempre abbondante nel tratto di base 
del cranio che intercede fra il pilastro anteriore e il pilastro 
posteriore ed anche qui la dura madre lo limita nettamente. 
Al di sopra di questa è nella linea mediana l'arteria basilare 
avvolta da un po’ di connettivo lasso e quindi la pia madre. 

Il pilastro posteriore a questo stadio è ancora ben distinto ed 
ha in sezione la forma di cuneo. La dura madre, differenziatasi 
in seno ad esso non vi si avanza ma segue il contorno dello 
strato osteogeno. In esso decorrono le arterie vertebrali. 

Proseguendo lo sviluppo, la porzione di questi pilastri che 
è al di sopra dello strato limitante della dura madre atrofizza 
ancora, mentre lo strato compreso fra quello e la cartilagine 
si organizza a tessuto fibroso costituendo lo strato più profondo 
della dura madre. 

L'ultima fase della evoluzione dei prolungamenti meningei 


G. SALVI ZU6I 


è caratterizzata dalla apparizione della aracnoide e dall’ entrata 
della dura madre nella composizione di alcuni di essi. 

Quel tessuto connettivo il quale ha conservato press’ a 
poco i caratteri embrionali e si trova fra lo strato limitante 
della dura madre e la membrana vascolare, si dirada sempre 
più e si organizza sotto forma di sottili trabecole connettivali 
che formano una specie di spugna. Il tessuto stesso non è di- 
sposto uniformemente: è scarso sulla volta delle vescicole ce- 
rebrali, aumenta in corrispondenza della base ed alla superficie 
dorsale del cervelletto e del midollo allungato. Questi fatti non 
si cominciano ad osservare che in un embrione di cavia di 
58 mm. (fig. 10). 

L'ingresso della dura madre, si fa nella falce primitiva e 
nel prolungamento trasverso ventrale. 

Nella falce primitiva, l’abbozzo durale, dopo aver contor- 
nato e compreso entro di sè il seno longitudinale superiore, 
formando in sezione frontale una specie di cuneo, si prolunga 
ancora entro il tessuto della falce primitiva fra le due lamine 
contigue della pia madre, approfondandosi sempre più a guisa 
di lamina mediana, fino a che viene a comprendere entro di 
sè ancora quelle vene che scorrevano nella porzione più pro- 
fonda della falce primitiva e che divengono così il seno longi- 
tudinale inferiore. 

Questa penetrazione si fa evidentemente per graduale ispes- 
simento ed organizzazione fibrosa del connettivo lasso preesi- 
stente coadiuvata da attiva proliferazione degli elementi già 
formati. Avviene quindi in maniera centripeta. In generale pos- 
siamo dire che questa organizzazione a tessuto connettivo fi- 
broso comincia e si fa specialmente attorno ai vasi che diven- 
gono seni, comincia però solo a stadi di sviluppo assai inoltrati. 

Quanto al tentorio del cervelletto è certo che va conside- 
rato come tale solo quello formato dalla dura madre. 

Abbiamo già visto che il tentorio primitivo degli autori non 
può affatto essere considerato come tale perchè la dura madre 
non vi entra affatto ed esso, come lo dimostrano le figure 7, 8, 
9, 10: della tavola dà solamente origine alla pia madre che ri- 
veste la superficie inferiore e anteriore del cervelletto, il velo 
midollare anteriore e le eminenze quadrigemelle e solo sì con- 
tinua attraverso la fessura trasversa con quella della tela co- 
roidea per l'abbassamento del cervello medio. 


212 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


Se si tiene conto del seno trasverso il quale è apparso fin 
dagli stadi di sviluppo più giovani nel sepimento trasverso an- 
teriore, è certo che deve considerarsi questo sepimento come 
l’abbozzo. del tentorio del cervelletto. 

Non tutto però il sepimento organizzandosi sotto forma di 
tessuto fibroso darà origine al tentorio. Infatti abbiamo visto 
che lo strato zonale di esso si trasforma in pia madre e che la 
porzione più profonda del sepimento stesso, rimanendo nel se- 
guito dello sviluppo fra gli emisferi ed il cervello intermedio, 
dà origine alla tela coroidea superiore. 

È la porzione sua più periferica, quella cioè che fin da prin- 
cipio accoglie il seno laterale, che va considerata come l’ ab- 
bozzo del tentorio. 

In un embrione di cavia lungo 24 mm. (fig. 8) il cervello 
intermedio, soverchiato dagli emisferi si trova nelle parti pro- 
fonde dell'encefalo e la porzione più profonda del sepimento 
trasverso anteriore per effetto del differenziamento delle me- 
ningi ha dato origine a due foglietti di membrana vascolare 
dei quali il superiore riveste la faccia inferiore degli emisferi, 
e l’inferiore ricopre il tetto del cervello intermedio. 

Nella porzione più superficiale del solco però (fig. 11) i due 
foglietti che prima erano addossati, si divaricano per conti- 
nuarsi nella pia madre, l’uno della superficie superiore ed esterna 
degli emisferi, l’altro del cervello medio. Lo spazio è occupato 
da molto connettivo risultante dall’ unione per così dire di quello 
del sepimento anteriore e di quello del sepimento medio e in 
mezzo a questo sporge a guisa di cuneo la dura madre avvol- 
gendo il seno laterale. 

Le cose permangono immutate per molto tempo, fino a che 
cioè gli emisferi sono giunti al di sopra del cervello medio. 
Solo il connettivo si ispessisce un po’ lungo il seno retto. 

Allora (fig. 9) al di dietro del seno trasverso comincia a no- 
tarsi un ispessimento connettivale il quale si diparte dalla dura 
madre e guadagna sempre terreno verso le parti profonde del 
sepimento, ma questo fatto, appena accennato a questo stadio, 
si pronunzia solo allorchè il cervello medio è stato a sua volta 
ricoperto dagli emisferi (embrione di cavia mm. 58 fig. 10). Si 
può dire che il vero tentorio si produce solo allorchè le varie 
parti dell’encefalo hanno preso la loro situazione definitiva, 


G. ‘SALVI 213 


Esso apparisce allora come un setto fibroso che si appro- 
fonda nel solco che è fra gli emisferi e il cervelletto in rela- 
zione con la dura madre che ha involto il seno laterale. Que- 
sta formazione avviene su tutto l'ambito del prolungamento 
meningeo, i rapporti del quale alla base del cranio ci spiegano 
la conformazione della porzione corrispondente del tentorio. 

Il pilastro medio, sparito del tutto, e rimasto solo come la 
pia madre della regione, ha dato origine con la sua base ad 
una lamina della dura madre la quale ricuopre la fossa pitui- 
taria e costituisce quindi il diaframma della sella. La porzione 
più bassa della base stessa accoglie la cartilagine che formerà 
le parti ossee corrispondenti alla faccia superiore del corpo 
dello sfenoide e cioè la doccia ottica coi processi clinoidei an- 
teriori, la fossa ipofisaria e il dorso della sella coi processi cli- 
noidei posteriori. 

Ora, fin dal suo apparire, il sepimento trasverso ventrale 
veniva a finire con le sue estremità inferiori alla porzione an- 
teriore della base del pilastro di RaTHKE, e questa connessione 
primitiva resta a sviluppo completo come la porzione del ten- 
torio che si attacca ai processi clinoidei anteriori. La porzione 
poi che ‘sì attacca ai posteriori continuandosi con la dura 
madre della regione, deve ricercarsi in quel rapporto che nel 
suo sviluppo e nella sua migrazione, il sepimento trasverso ven- 
trale ha preso col pilastro anteriore della base del cranio 
allorchè, sostituitosi al prolungamento medio della volta, è ve- 
nuto a continuarsi con le espansioni laterali di quello. 

Quanto al pilastro posteriore della base, la porzione sua più 
vicina allo scheletro si trasforma nella dura madre della regione 
avvolgendo quelle vene che sin da principio si trovavano in quel 
luogo e che diventano così il seno occipitale trasverso. Il resto 
atrofizza quasi completamente e dà origine alle meningi molli 
della regione corrispondente dell'encefalo ed a quel po’ di con- 
nettivo che si trova attorno ai vasi vertebrali e basilari. 


Conclusioni 
Secondo le mie ricerche posso quindi stabilire i dati seguenti: 


La capsula mesodermale che avvolge l’encefalo primitivo, 
dapprima uniforme e senza traccia di differenziazione istolo- 


214 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


gica, si divide poi in due porzioni: una esterna più compatta 
che è l’abbozzo craniense, e una interna la quale conserva più 
lungamente i caratteri del connettivo embrionale. Questa è l’ab- 
bozzo comune delle meningi, e non, come da molti si dice, della 
sola pia madre. 

La prima a differenziarsi è la pia madre la quale si mani- 
festa in tutto l'ambito della meninge primitiva contempora- 
neamente. La dura madre apparisce in seguito come uno stra- 
terello più ispessito che divide in due porzioni quello che resta 
della meninge primitiva. Propongo di chiamare dura meninge 
. primitiva la porzione compresa fra quello strato e la lamina 
osteogena craniense; Zepto-meninge primitiva quella che è fra 
quello e la superficie cerebrale. 

Lo strato più ispessito descritto, costituisce la dura madre 
vera e propria, quel connettivo che è fra essa e lo strato osteo- 
geno, lo strato pertostale. 

Lo strato connettivale dell’invoglio primitivo presenta sin 
da principio numerosi vasi. Di questi alcuni vengono compresi 
nella formazione cranica, altri nella formazione durale e di- 
vengono i seni della dura madre, altri restano al di fuori di 
questa e spettano alla lepto-meninge. 

I prolungamenti meningei primitivi, non sono ripiegature, 
ma sono sepimenti solidi che entrano nelle fessure che si for- 
mano alla superficie cerebrale in virtù della loro consistenza 
gelatinosa e del proprio continuo accrescimento. Essi, nel se- 
guito dello sviluppo, non cambiano di rapporti, ma solo di forma 
e di costituzione. I prolungamenti sono due dalla base e quattro 
dalla volta. Quelli della base sono: il pilastro anteriore il quale 
per la sua porzione più alta dà origine alle meningi molli della, 
regione, colla base al dorso della sella turcica, al diaframma 
della sella ed alle meningi molli respettive; il pilastro poste- 
riore il quale dà origine alle meningi della regione, col seno 
occipitale trasverso, ed al connettivo che è attorno ai vasi 
vertebrali e basilari. 

I prolungamenti della volta invece sono 5: il primo sagit- 
tale, gli altri trasversali. I primi a comparire sono il 1° il 2° e 
il 4°, poi il 8° e infine il 5°. 

Il 1° è la falce primitiva e dà origine alla pia madre della 
superficie interna degli emisferi, all’aracnoide della scissura lon- 


G. SALVI 215 


gitudinale, ed alla gran falce del cervello coi seni longitudinale 
superiore e longitudinale inferiore. 

Il 2° che chiamo sepimento trasverso ventrale sta da prin- 
cipio fra gli emisferi ed il cervello intermedio, circonda tutto 
il solco che vi si forma, e con le sue estremità termina alla base 
del pilastro di Rarake, là dove si svilupperanno in seguito le 
apofisi clinoidee anteriori e le parti ossee vicine. Col disten- 
dersi in dietro degli emisferi e l’allungarsi consecutivo del solco, 
anche il prolungamento meningeo si allunga e la sua grande 
periferia si sposta in dietro, mentre esso si fa sempre più tra- 
sversale e orizzontale. 

Esso presenta fin da principio dei vasi che, avvolti nella 
formazione durale, diventano i seni della dura madre cioè il 
seno trasverso e il seno retto,i quali si spostano indietro insieme 
al sepimento, mantenendo però immutate le connessioni che 
sin da principio avevano contratto con quelli che sono poi di- 
venuti il seno longitudinale superiore, il seno longitudinale in- 
feriore e la vena di GaLeno. Questo prolungamento deve essere 
diviso in due porzioni. La più profonda è la ela coroidea su- 
periore, mentre la più superficiale deve essere considerata come 
l’abbozzo del fentorio del cervelletto e ciò unicamente per le connes- 
sioni vascolari perchè la dura madre non vi entra che molto tardi. 

Il 8° sepimento che io chiamo sepimento trasverso medio da 
principio non apparisce sulla linea mediana perchè non vi è 
alcun solco. Sta fra cervello intermedio e cervello medio e cir- 
conda a guisa di semiluna le due porzioni encefaliche: le sue 
porzioni laterali si confondono con le parti laterali del pilastro 
anteriore o di RatAKE, e vengono quindi a far capo verso la parte 
media della base del pilastro stesso, là dove si svilupperà in 
seguito il dorso della sella coi processi clinoidei posteriori. Esso 
viene raggiunto ed assorbito dal 2° nello spostamento di que- 
sto verso l'indietro. 

Il 4° sepimento corrisponde al tentorio primitivo degli au- 
tori. Io lo chiamo sepimento trasverso dorsale. Esso è situato 
fra cervello medio e cervello posteriore e da principio prende 
un grande sviluppo; più tardi però si assottiglia, atrofizza e 
cambia direzione fino a prenderne una del tutto contraria alla 
prima. Non dà origine che alle meningi molli che rivestono 
la superticie anteriore e inferiore del cervelletto, e il velo mi- 


216 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


dollare anteriore, continuandosi, attraverso la fessura trasversa 
con quella delle eminenze quadrigemelle. Esso quindi non può 
essere ritenuto come l’abbozzo del tentorio. 

Il 5° sepimento è l’abbozzo dei plessi coroidei posteriori, ap- 
parisce piuttosto tardi e viene a trovarsi, in seguito allo svi- 
luppo grande del cervelletto, al disotto di questo. 

La dura madre entra nella costituzione della falce e del 
tentorio per organizzazione fibrosa del connettivo embrionale 
preesistente: questo processo si inizia e si esplica specialmente 
attorno ai vasi. 

Per abbozzo del tentorio deve esser considerato il prolun- 
gamento trasverso ventrale cioè quello che fin dal principio 
entra fra gli emisferi e il cervello intermedio. Il primitivo rap- 
porto di questo sepimento colla porzione ventrale della base 
del pilastro di Rarzke, dà luogo a quella parte del tentorio 
che termina alle apofisi clinoidi anteriori e alle parti ossee 
circostanti. L'origine della porzione che va ai processi clinoidei 
posteriori deve ricercarsi in quel rapporto che il sepimento ha 
preso con le parti laterali del pilastro anteriore o di RarHKE 


3 


allorchè si è unito al sepimento medio della volta del cranio. 


Terminato così questo lavoro, sento il dovere di ringraziare il Prof. 
Ferd. HocnsrerTER il quale per più di un mese mi accolse nel suo Istituto 
Anatomico di Innsbruck, e mi fu largo di cortesie. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA V. 


PA. — Pilastro anteriore (KoòLLixer) della base del cranio o pilastro 
medio di RaTHKE. 

PP. — Pilastro posteriore (KòLuIKER) della base del cranio. 

S V.— Sepimento ventrale della volta del cranio. 

SM. — Sepimento medio della volta del cranio. 

SD.— Sepimento dorsale della volta del cranio. 

SPC.— Sepimento dei plessi coroidei del 4° ventricolo. 

DI. — Diaframma della ipofisi. 

S L.— Seno trasverso. 

SLS.— Seno longitudinale superiore. 

S R.— Seno retto. 

A B. — Arteria basilare. 

D M.— Dura madre. 

PM. — Pia madre. 

A. — Aracnoide. 

E. — Emisferi. 

C. — Cervelletto. 

LC. — Lamina cerebellare. 

CM.— Cervello medio. 

VM A.— Velo midollare anteriore. 

CQ.— Corpi quadrigemelli. 

CR. — Cranio. 

DM N. — Dura meninge primitiva. 

LMN.— Lepto-meninge primitiva. 


Le figure 1, 2, 3, sono disegnate al microscopio Vericx (ob. 0, oc. 1, 
tubo abbassato). Le figure 4-10 sono disegnate allo stesso microscopio 
e con lo stesso ingrandimento, ma un po’ rimpiccolite. 


218 SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 


La figura 11, è disegnata al microscopio VerIck (ob. 2, oc. 1, tubo 
abbassato). 

Le sezioni riprodotte con le figure 1-10, eccettuata la 6*, non sono 
perfettamente mediane, ma un po’ laterali, ed ho scelte queste perchè nelle 
mediane il taglio cade nella scissura longitudinale, e non si vede perciò 
il margine dorsale degli emisferi il quale limita in avanti il sepimento 
trasverso ventrale. 


Fia. 1. -- Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia con lun- 
ghezza massima di mm. 4 !/2. Si vedono: il pilastro anteriore 
della base con l’arteria basilare ed i sepimenti ventrale e dor- 
sale della volta; il primo col seno trasverso. 

“ 2. — Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia di mm. 8. 
Apparisce il pilastro posteriore della base e nel sepimento 
ventrale della volta si vedono i vasi che costituiranno il seno 
retto e la vena di Gareno. 

“ 3. — Ricostruzione di metà della cavità cranica di un embrione di 
cavia di mm. 8 eseguita sulla stessa serie alla quale appar- 
tiene la sezione riprodotta alla fig. 2. Si vedono i rapporti 
dei sepimenti della volta col pilastro anteriore della base. 

“ 4. — Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia lungo 
mm. 11, 5. Nel sepimento ventrale della volta, si vedono già 
bene stabilite le connessioni fra i vasi che diverranno il seno 
longitudinale superiore, il seno trasverso e il seno retto. Nella 
base, si vede la meninge primitiva ripiegarsi al di sopra del- 
l’ipofisi. Dietro il sepimento dorsale appariscono le increspa- 
ture che daranno origine ai plessi coroidei del 4° ventricolo. 

“ 5. — Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia di mm, 14. 
L’abbozzo dei plessi coroidei del 4° ventricolo è già bene svi- 
luppato e si trova ravvicinato al sepimento dorsale della volta. 
Nel sepimento ventrale si vedono evidenti le connessioni va- 
scolari. Apparisce differenziata la pia madre. 

‘ 6. — Sezione sagittale molto laterale della testa di un embrione di 
cavia di mm. 14. La sezione appartiene alla stessa serie di 
quella riprodotta alla fig. 5. Si vede il sepimento medio della 
volta il quale si trova già ravvicinato a quello ventrale ed 


Fio. 


10. 


di 


SOPRA LO SVILUPPO DELLE MENINGI CEREBRALI 219 
appariscono i rapporti di esso col sepimento dorsale della 
volta e col pilastro anteriore. della base. 

Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia di mm. 18. 
L’abbozzo dei plessi coroidei del 4° ventricolo è molto evidente, 
e il sepimento dorsale della volta si distende sul velo midol- 
lare anteriore. In tutta la meninge primitiva, ma più evidente 
in corrispondenza del sepimento ventrale e nella base, appa- 
risce quello strato più ispessito chè è il primo abbozzo della 
dura madre. 

Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia di mm. 24,5. 
Il sepimento dorsale della volta e quello dei plessi coroidei del 
4° ventricolo sono separati dallo sviluppo del cervelletto. Il 
primo abbozzo della dura madre viene riunito a quello del 
cranio per l’ispessimento del connettivo embrionale che negli 
stadi precedenti li separava. Il pilastro anteriore della base 
è molto ridotto. 

Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia di mm. 36,5. 
Il sepimento dorsale della volta entra nelle scissure cerebel- 
lari. La dura madre si prolunga nel sepimento ventrale in- 
torno al seno retto, costituendo l’abbozzo del tentorio del cer- 
velletto. È evidente l’abbozzo del diaframma dell’ipofisi. 
Sezione sagittale della testa di un embrione di cavia di mm. 58. 


‘ L’abbozzo del tentorio è bene sviluppato e il sepimento dor- 


sale della volta è ridotto alla sola pia madre. I pilastri della 
base sono quasi del tutto spariti. Si comincia a formare l’a- 
racnoide. 

Sezione sagittale, un po’ laterale alla linea mediana della re- 
gione del seno trasverso da un embrione di cavia lungo mm 20. 
Si vede il primo abbozzo della dura madre contornare il seno 
trasverso e dividere la meninge primitiva in lepto-meninge e 
dura-meninge. La pia madre è già differenziata. L° abbozzo 
del cranio è molto evidente. 


Sc. Nat. Vol. XV. 15 


Dott. LUIGI FACCIOLÀ 


= 


SUI MICROGOCCHI DELLA MALARIA 


CON UNA TAVOLA 


Nella mia prima memoria su questo argomento (Ricerche su 
l’etiologia dell'infezione palustre. Atti R. Acc. Pelor. an. VII, 1892) 
feci conoscere l’esistenza di micrococchi nel sangue dei malarici 
e li chiamai micrococchi della malaria perchè mancano nel san- 
gue dei soggetti sani ed hanno proprietà diverse di quelli che 
s'incontrano in talune altre affezioni. Dissi che vivono a pre- 
ferenza nel plasma, meno di frequente nei globuli rossi, che sono 
nudi, molto rifrangenti e difficilmente colorabili e che dopo l’am- 
ministrazione del chinino si trovano circondati di un involucro 
gelatinoso sotto forma di cisti sferica, ovale, a otto in cifra, 
secondo che sono monococchi, diplococchi, due cocchi disgiunti, 
e in pezzetti della stessa sostanza a contorni irregolari quando 
sono più individui riuniti in famiglia. Questo rivestimento io 
considerava come un mezzo di protezione dei parassiti in pre- 
senza di quell’agente venefico nel sangue. Notai che negli stessi 
preparati si vedevano pure questi prodotti di secrezione privi 
dei cocchi. 

Se non che da studii ulteriori appresi che nel sangue vi è 
bensì un certo numero di micrococchi nudi, ma la maggior 
parte si trovano incapsulati anche nel corso naturale della ma- 
lattia. E vero nondimeno che molti di quelli che sono nudi s'in- 
cistano dietro l’uso dello specifico. 

In altra nota (Sui micrococchi esistenti nel sangue dei malarici, 
Morgagni, an. XXXV, marzo 1893) descrissi le forme e gli stati 
diversi delle capsule di questi cocchi e accennai alle modifica- 


SUI MICROCOCCHI DELLA MALARIA DO 


zioni fisiologiche e patologiche che questi subiscono in seguito 
all’uso dell’antidoto. 

Il reperto dei parassiti di cui parlo è così significativo che 
non ostante la deficienza delle prove di cultura e d’ inocula- 
zione per me devono ritenersi specifici. D'altro verso sono con- 
vinto che i pretesi plasmodii o amebe della malaria sono alte- 
razioni degenerative dei globuli rossi. 

La presente nota è una riproduzione della precedente con 
l'aggiunta di alcune figure dei cocchi e dei loro prodotti di se- 
crezione rilevate da preparati del sangue preso dal dito, essic- 
cati su la fiamma e colorati con procedimenti diversi che in 
parte descrissi nella prima memoria, ma di questo punto mi 
occuperò altra volta con più estensione. 

Le forme incistate più comuni sono le capsule semplici sfe- 
riche, le quali hanno un diametro di 0"%,0028, ma se ne tro- 
vano più grandi ed anche molto più piccole, non sempre in 
rapporto con la grandezza del cocco che contengono. Dalla sua 
divisione hanno origine altre forme di cisti. Quando i due nuovi 
individui stanno ancora uniti a otto in cifra la cisti è di forma 
ovale. Quando sono disgiunti questa in direzione dell’intervallo 
che li separa ha un leggiero stringimento che si fa più pro- 
fondo a misura che si allontanano finchè si hanno due capsule 
rotonde unite. Alle volte si trovano aggregati di tre o più 
capsule disposte una dopo l’altra a rosario o irregolarmente. 

Molto meno frequenti, ma costanti, sono le capsule composte, 
le quali derivano da ingrossamento e complicazione delle sem- 
plici. Ordinariamente il loro diametro è di 0®",0042, cioè tre 
quinti di un globulo rosso di comune grandezza, ma ve ne sono 
più grosse. Quando sono mature fanno vedere tre cerchietti con- 
centrici oltre a quello che appartiene al cocco che sta nel cen- 
tro. Di essi l’esterno e il medio sono dell’invoglio esterno, tra 
i due invogli vi è uno spazio circolare lucido che li separa, ma 
l'invoglio interno si trova sempre in contatto col cocco e mai 
se ne distacca. I due invogli, lo spazio intermedio e il cocco 
hanno proporzioni variabili. Queste doppie capsule quando non 
sono bene indurite mancano dello spazio lucido notato e allora 
presentano varie disposizioni secondo il grado d’'immaturità. Da 
principio mostrano due soli contorni, ora molto ravvicinati, ora 
l'interno in prossimità del cocco, il che significa che talvolta è 


222 L. FACCIOLA 


l’invoglio esterno, talvolta è l’interno che si delimita il primo. 
Vengono poi quelle con tre contorni di cui il medio e l'interno 
si trovano nei due punti ora indicati. In questo stato vi sono 
tre strati di sostanza, il medio dei quali è notevolmente più 
grosso degli altri due. In seguito lo strato esterno e l'interno 
aumentano di spessore a spese dello strato medio, il quale si 
riduce sempre più e scomparisce. Infine le due capsule che ne 
risultano si distaccano l’ una dall’altra per indurimento e retra- 
zione della sostanza rimanendo concentriche. 

Ma non sempre si arresta qui la complicazione delle capsule 
semplici. Fra il cocco e il limite della capsula interna si osserva 
alle volte un altro cerchietto meno spiccato per suddivisione 
della stessa in due secondarie. Altre volte è fra i due contorni 
della capsula esterna che apparisce un’altra linea oppure i due 
casi si trovano insieme in una capsula composta e allora si con- 
tano sei contorni circolari concentrici risultanti da quattro in- 
volucri e dal cocco. Qualche volta i due strati dell'involucro 
esterno si separano l’uno dall'altro e si hanno perciò due spazi 
lucidi. 

Anche le coppie di cisti semplici, le ovali e quelle confor- 
mate a bozzolo sono suscettibili di raddoppiamento, ma in questo 
caso i due involucri restano sempre congiunti. 

Queste varie capsule composte rappresentando un accresci- 
mento delle semplici si deve ritenere che si formano nel sangue. 

Interessa molto conoscere che le capsule semplici sebbene 
seguano il cocco nel suo processo di scissione e allontanamento 
dei due elementi che ne derivano, di modo che dalla forma sfe- 
rica passano alla ovale e poi a quella di bozzolo e per ultimo 
di otto in cifra, pure non si dividono con esso, anzi ne vengono 
abbandonate. Nelle capsule composte non succedono ulteriori 
cambiamenti di forma perchè il cocco contenutovi non si ri- 
produce. 

Fin qui i cocchi incistati sono in numero di uno o due. 
Alle volte però si dispongono in serie lineare, sia in contatto 
sia divisi fra essi e formano delle catenelle di tre, quattro, cinque, 
dieci o più elementi avvolti da una guaina comune, la quale 
nelle più brevi può essere raddoppiata da un’altra guaina più 
resistente. 

Gl'involucri gelatinosi suddescritti hanno forma regolare 


SUI MICROCOCCHI DELLA MALARIA 223 


poichè contengono uno o due cocchi o più cocchi disposti se- 
condo una sola direzione. Ma esiste nel sangue un’altra forma 
di associazione ed è quella di 2ooglea, vale a dire di famiglie 
d’individui in pezzetti di sostanza a contorni irregolari, lobu- 
lati e precisi. Le famiglie più piccole sono costituite di tre ele- 
menti, le più grandi di una quindicina od anche più. La loro con- 
figurazione è variabilissima e per solito in lunghezza non ecce- 
dono un globulo rosso, ma ve ne ha molto più grandi. Sono 
assal meno frequenti delle capsule semplici e a differenza di 
queste non si circondano mai di un involucro esterno resistente. 

Un'altra parte molto notabile del reperto è rappresentata 
da tutte le forme suddescritte, ma vuote cioè prive dei paras- 
siti che le hanno prodotte. Le cisti sferiche semplici in tale 
stato hanno aspetto di anelli con doppio contorno e uno spazio 
centrale chiaro, il quale era occupato dal corpicello. Analoga- 
mente le ovali e quelle conformate a bozzolo. Le coppie di 
cisti semplici mostrano due cavità separate da un tramezzo 
trasversale, le serie di tre cisti hanno due tramezzi e così di 
seguito. I pezzetti di sostanza che formavano il sostrato delle 
zooglee si presentano loculati od omogenei secondo che persi- 
stono o sono svanite le cavità in cui si allogavano i micro- 
cocchi. Queste capsule e pezzetti irregolari di sostanza trovan- 
dosi senza appoggio pel moto del sangue a poco a poco si di- 
sgregano e se ne vedono i frammenti ora sparsi ora adunati. 
Le capsule composte per lo più si trovano col proprio cocco, 
quelle che ne mancano si conservano più a lungo delle capsule 
semplici vuote essendone più resistenti. 

La presenza di questi prodotti di secrezione nel sangue vuoti 
dei rispettivi cocchi ha molta importanza per la sua significa- 
zione clinica. In effetti l'insorgere dell'accesso febbrile corri- 
sponde all'uscita dei cocchi dalle proprie cisti per moltiplicarsi 
dentro cisti di nuova formazione in cui restano inattivi per 
tutto il tempo dell'intervallo apirettico. 

Insieme alle forme incistate di cui si è detto si trova nel 
plasma un numero relativamente scarso di monococchi e di- 
plococchi nudi. 

Altri, molto rari, vivono nei globuli rossi e vi determinano 
speciali alterazioni che cominciano col gonfiamento irritativo 
della cellula a cui seguita lo stato torbido prodotto da preci- 


224 L. FACCIOLÀ 


pitazione di fini granelli emoglobinici, che poi si convertono 
in granelli di pigmento nero. In questo processo di metamor- 
fosi la cellula si atrofizza e si riduce a una scaglia ialina. Nei 
globuli bianchi mai si contengono i micrococchi, frequente è 
invece la loro presenza nelle cellule linfatiche della polpa sple- 
nica e nelle cellule glandolari del fegato nei casi di febbre 
perniciosa. 

Il reperto cui ho appena accennato è comune ai diversi tipi 
della febbre, alla quotidiana, alla terzana, alla quartana, a quella 
a ritorno irregolare e alla perniciosa, da che si scorge che il 
vario ordine di successione degli accessi febbrili non dipende 
da varietà di parassiti nè da stati morfologi diversi dello stesso 
parassita, ma da varie relazioni coi soggetti attaccati, le quali 
ci sono ignote. 

Ma ciò che più sorprende è l’identità del reperto nell’ ac- 
cesso della febbre e nell’ intervallo apirettico. La differenza 
nello stato dei parassiti dev'essere dunque essenzialmente. vi- 
tale nei due momenti della malattia, in altri termini nell’ac- 
cesso sono attivi, producono un veleno che è causa della feb- 
bre e si moltiplicano, nell’apiressia queste funzioni cessano. 

Merita speciale menzione il reperto del sangue nella caches- 
sia palustre apiretica dal suo inizio o che si stabilisce in se- 
guito a febbri sovente reiterate ma cessate da poco tempo. 
Le forme che predominano sono le capsule semplici col paras- 
sita, isolate o unite a due o più, le quali spesso sono guastate 
e menomate, il che denota che sono di vecchia formazione. 
Si trovano catenelle, i cocchi nudi sono rari e le zooglee man- 
cano o sono scarsissime e piccole. Ma la nota più caratteristica 
è la frequenza maggiore delle capsule composte, le quali sono 
sempre rare nell’infezione acuta recente, ed è rimarchevole che 
fra quelle della notata grandezza se ne incontrano spesso molto 
minori il cui diametro è di 0"",0028 o all’intorno. Da questo 
reperto si comprende che le condizioni del sangue non devono 
essere favorevoli allo sviluppo dei parassiti, tanto è vero che 
molti si chiudono in involucri resistenti. 

Delle modificazioni che si osservano nello stato dei paras- 
siti qualche giorno dopo l’amministrazione di una dose febbri- 
fuga di chinino alcune sono patologiche e vanno dal semplice 
gonfiamento alla distruzione del corpicello. I monococchi nelle 


SUI MICROCOCCHI DELLA MALARIA 225 


capsule semplici aumentando di volume perdono sovente la 
forma sferica e divengono ovali e irregolari. A questi cambia- 
menti generalmente non corrispondono quelli della capsula. 
Quando sono molto dilatati hanno l'apparenza di macchie tenui, 
poco splendenti o leggermente opache, omogenee o vacuolizzate, 
le quali infine si confondono con la sostanza delle capsule. Nei 
diplococchi lo stringimento si fa meno marcato e può scompa- 
rire del tutto in modo che somigliano a corti bastonetti. I 
cocchi. disposti a catenelle si fondono insieme e assumono la 
forma di bacillo come asse nella guaina gelatinosa oppure fanno 
vedere ancora qualche sinuosità. Nelle zooglee si osservano una 
O più massicelle di sostanza, di varia grandezza, di forma ir- 
regolare, d'uno splendore alquanto velato, le quali risultano 
dall’ingrandimento e compenetrazione reciproca degli elementi 
normali. Progredendo le alterazioni fisiche e chimiche del pro- 
toplasma queste massicelle perdono affatto lo splendore e come 
nelle cisti semplici si presentano allora sotto forma di macchie 
che si dilatano sempre più finchè la sostanza gelatinosa invol- 
gente sia ridotta ad uno strato sottilissimo periferico ricono- 
scibile alla debole e quasi niuna colorazione con le sostanze 
di anilina. 

Tutto ciò dimostra chiaramente che la chinina ha un'azione 
deleteria e dissolutiva sui cocchi malarici. Essa è microbicida 
e perciò antifebbrile. 

Non pertanto un numero considerevole d’individui resistono 
a quest'azione o meglio quando cominciano a sperimentarla si 
provvedono di un involucro più resistente. Così dopo l’uso del 
chinino il reperto è contrassegnato dalla presenza di numerose 
capsule composte e in ciò somiglia a quello che si ha nella 
cachessia. Ma nel caso in discorso i mezzi protettivi di cui 
dispongono quei piccoli organismi acquistano sovente uno svi- 
luppo maggiore. Difatti il diametro delle dette capsule può 
giungere a 0"”",0070 uguagliando quello di un globulo rosso. 
L'invoglio esterno può essere aumentato fino a 0"",0014 di spes- 
sezza e anche più. Gl'individui che vi si racchiudono sono i germi 
della recidiva che non di rado si osserva dopo la guarigione appa- 
rentemente definitiva della malattia. Ma ripetendo le dosi del 
veleno pochi ne rimangono salvi. Gli altri subiscono quelle 
stesse alterazioni che abbiamo viste nei cocchi delle capsule 


226 L. FACCIOLÀ 


semplici. Però è da notarsi il fatto che il cocco ingrossando 
tende a compenetrarsi con la capsula interna per formare una 
massa più o meno omogenea arrotondata o irregolare, il cui 
esito finale è la dissoluzione completa e il passaggio in tutto 
o in parte attraverso la capsula esterna nel plasma. Questa in 
seguito per rammollimento si assottiglia e si deforma. 

Anche nel corso naturale della malattia insieme agli indi- 
vidui che conservano l’integrità materiale se ne scopre un certo 
numero che offrono alterazioni analoghe a quelle determinate 
dal chinino, dalle quali non si possono differenziare. Soltanto 
sono meno frequenti. Parimenti si formano capsule composte, 
ma più scarse che non dopo l’uso del chinino. Bisogna ammet- 
tere perciò che nell'organismo attaccato i parassiti trovano un 
agente contrario alla loro esistenza e questo agente nell’ infe- 
zione acuta è probabilmente il calore elevato della febbre. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA III 


(Microscopio Koristka. Oc. 4, ap. Obb. !|,, imm. omog. = diam. 1010). 


Fig. 


I 


2. 


> 0 


d. 
6. 
Ile 
8- 


10. 


dele 
12. 


13. 


14. 
15. 


16. 
TRY 


18. 


97 


20. 


Ql. 


Monococchi circondati di capsule gelatinose sferiche di varia 
grandezza. 
Tre capsule semplici unite in serie, col rispettivo cocco. 


. Grande capsula semplice che involge un cocco. 
. Altra più grande, del diametro di 0""-,0056, col cocco più pic- 


colo del precedente. 

Diplococco con capsula semplice ovale. 

Altro diplococco e sua capsula, più grandi. 

Diplococco con capsula ovale appena ristretta nel mezzo. 

9. I due cocchi distaccati con la capsula leggermente ristretta 
in corrispondenza del loro intervallo. 

Diplocisti ovvero due capsule semplici a otto in cifra, separate 
da un tramezzo, vuote dei cocchi. 

Due capsule a otto in cifra coi due cocchi più distanti. 

Grossa capsula un poco ristretta in corrispondenza dello spazio 
tra i due grossi cocchi. 

Coppia di capsule, di cui una più piccola, coi due cocchi di 
corrispondente grandezza. 

Altra coppia di capsule di cui la minore ha il cocco dilatato. 

Grande capsula semplice sormontata da una piccola cisti e i 
due cocchi rispettivi. 

Coppia di capsule a otto in cifra, di cui una senza cocco. 

Capsula semplice col cocco, cui è aggiunto un involucro di due 
cocchi minori. 

Grande capsula imperfettamente distinta in due da uno stringi- 
mento, coi due cocchi e un altro più piccolo accanto. 

Coppia di grosse capsule semplici a otto in cifra coi due coc- 
chi nel centro di ognuna, vi si aggiunge un pezzetto di so- 
stanza che involge due altri cocchi. 

Involucro a forma di bozzolo contenente tre cocchi a uguale 
distanza fra essi. 

Altro simile con un diplococco e un monococco. 


» 


L. FACCIOLÀ 


22. Altro simile con tre cocchi, di cui due da poco distaccatisi dallo 
stato di diplococco. 

23. Involucro imperfettamente . distinto in tre cisti da due strozza- 
menti, ciascuna racchiudente un cocco di diversa grandezza. 

24. Altro simile coi cocchi di uniforme grandezza. 

25. Altro di forma alquanto diversa. 

26. Altro di forma meno regolare. 

27. Altro considerevolmente grosso, con un cocco dilatato in cia- 
scuna delle due cisti estreme e due cocchi di ordinaria gran- 
dezza nella cisti media. 

28. Altro vuoto dei cocchi. 

29. Altro distinto in quattro cisti senza cocchi. 

30. Tre cisti congiunte insieme, una con monococco e due con di- 
plococco. 

81. Pezzetto di sostanza allungato con tre cocchi. 

32. Altro con quattro cocchi secondo una linea inarcata. 

33. Pezzetto di sostanza trilobato con un cocco in ciascun lobo. 

34. Altro simile in cui sono assenti due cocchi. 

35. Altro pezzetto trilobato con quattro cocchi. 

36. Altro pezzetto trilobato con un cocco e due diplococchi. 

87. Due otto in cifra uniti a una estremità con un cocco in cia- 
scuna capsula. 

38. Pezzetto di sostanza quadrilobo con un cocco in ognuno dei lobi. 

39-42. Particelle di sostanza con parecchi cocchi o zooglee, distese 
in forme più o meno trilobe. 

43-48. Zooglee di forma allungata, a contorni irregolari. 

49. Grande zooglea di forma irregolare. 

50. Zooglea in cui un certo numero d’ individui sono fusi insieme 
e formano una macchia. 

51. Zooglea in cui tutti i cocchi sì sono disciolti e formano due 
macchie nella sostanza gelatinosa. 

52-53. Pezzetti di sostanza in cui rimane un solo cocco. 

54. Pezzetto di sostanza che formava il sostrato di una zooglea. 

50. Pezzetto di sostanza allungato nel mezzo del quale vi è una 
macchia molto tenue della stessa forma, derivata da distru- 
zione di una serie di cocchi. 

56. Pezzetto di sostanza subrotondo senza elementi. 

57. Altri pezzetti di sostanza a contorni lobulati. 

58-59. Altri pezzetti di sostanza di aspetto mammillare. 

60-63. Doppie capsule sferiche di varia grandezza derivate da indu- 
rimento di uno strato periferico delle capsule semplici. Nel 
centro della capsula interna vi è il cocco. 


Fig. 64. 
, 65 
, 66 
DIGT 
MR. 
mio, 
Mizo. 
TI 
Sr) 
TR 
RETTA: 


3 ME 
DIRO: 
SISO: 
NIC. 
SENS2. 


SUI MICROCOCCHI DELLA MALARIA 229 


Due capsule concentriche con accenno di una terza capsula alla 
periferia e il cocco nel mezzo. 


. Tre capsule perfettamente distinte intorno al cocco che occupa 


il centro. 


. Coppia di capsule di cui una semplice e l’altra doppia più grande 


e 1 due cocchi corrispondenti. 


. Capsula che cominciava a distinguersi in due mercè una stroz- 


zatura per divisione del cocco primitivo e allontanamento dei 
due nuovi elementi quando venne raddoppiata da un involucro 
esterno più resistente. 

Due capsule concentriche di forma alquanto ovale e cocco nel 
mezzo. 

Tre capsule concentriche di forma più ovale col cocco dilatato 
e di forma pure ovale. 

Capsula ovale resistente in cui si è disciolto e distrutto il con- 
tenuto. 

Capsula semplice ovale con macchia conforme sbiadita prodotta 
da compenetrazione e rarefazione di cocchi. 

Simile alla precedente con la macchia meno dilatata. 

Guaina gelatinosa intorno a una serie di cocchi tra essi divisi. 

Guaina intorno a una catenella di cocchi. 


75-77. Bacilli di varia lunghezza derivati da fusione di cocchi a ca- 


tenella e loro astuccio gelatinoso. 

Bacillo meno evidente nel suo astuccio per attenuamento della 
propria sostanza. 

Bacillo diviso in due pezzi nel suo astuccio. 

Bacillo e due cocchi rimasti senza far parte di esso e astuccio 
comune. 

Lungo bacillo attenuato e suo astuccio. 

Astuccio diviso in due pezzi in cui il bacillo sta per dileguarsi. 


» 83-84. Astucci di bacilli scomparsi. 


FENMDRINGCE 


DELLE 


MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME 


G. D’Achiardi. — Le tormaline del granito Elbano (Parte II) 
Cie e ca Rag 00 


. Strampelli. — I Ehus cotinus e sua coltura nel Camerinese , 15 


G. Ristori — Osservazioni sull’ età e sulla genesi delle ligniti 

ACIM ASSE ANO A RA o e a AO 
D. Bertelli — Pieghe dei reni primitivi nei Rettili. — Con- 

tributo allo sviluppo del diaframma (Tav. Il) . . . . , 120 
P. E. Vinassa De Regny. — Echinidi neogenici del museo Par- 


MENSEN(CONINAISULE NEON) MIMO I e ASI 
G. Guarnieri. — Ulteriori ricerche sulla etiologia e sulla pato- 
VenesitdellaMinjezionevaccnica Re 156 


. Marocchi. — Studio sul granito di Gavorrano (Tav. IV) . , 170 


m 


. Salvi. — Sopra lo sviluppo delle meningi cerebrali (Tav. V) , 189 


(‘P) 


. Facciola. — Sui micrococchi della malaria (Tav. II). . . , 220 


r 


Bi 
dui 


« 


UR IO À 
nu È pn 
È: A Mld E 


Atti Soc.Tos. Se.Nat.Vol. XV. Tav.I. 


3 


G D'Achiardi dis: 


SSSS 


uo 


SS 
SS 


LL) 


SS 
Tè ST 


/ 


G.D'Achiardi Tormaline-ete. 


R:Lit:Gozani Pisa. 


Afti Soc.Tos.Sc.Nat.Vol.XV. Tav. II. Bertelli-Pieghe dei reni primitivi nei Rettili etc. 


L.Benedettì inc. R.Lit:Gozani-Pisa. 


Cathi n nr nà 


Sd 
SE 


Sc. Nat. Vol. XV. Tav. IV HE. MAROCCHI, GRANITO DI GAVORRANO. 


mu, 


LI 


sò 


"i 
È” IN LABORAT, MINOR, PISA ELIOT, CALZOLARI E FERRARIO, MILANO, 


È Atti Soc.Tos.Sc.Nat.Vol. XV. Tav.V. Salvi- Sopra lo sviluppo delle Meningi cerebrali 
gi: 


_SIS sv SR SERE 
14 


SENNITRNODI. Mie Co 
DI crRAB Dm fi 


nedetti. inc; R°- Lit: Gozani& C Pisa. 


Pa PE e S| è. PI 
ET Rn “ iii. bi 


ASERE 


DELLA 


SOCIETÀ TOSCANA 


DI 


SCIENZE NATURALI 


RIBSTDENTIRE RIN RISTA 


Aivig, = AVE (©) IL = 


Mols2<Vgr 


PISA 


TIPOGRAFIA SUCCESSORI FF. NISTRI 


1898 


GIOVANNI D’'ACHIARDI 


AURICALCITE 


DI 


CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA 


(TavoLa I.) 


I. — Auricalcite di Campiglia Marittima (Pisa) 


STUDIO CRISTALLOGRAFICO 


Gli studi fatti fin qui sulla. buratite di Campiglia (!) al pari 
di quelli eseguiti sull’auricalcite di altre località lasciano an- 
‘cora in grande incertezza sulla cristallizzazione della specie, 
malgrado le indagini recenti di Berar, i resultati delle cui 0s- 
servazioni costituiscono sino ad oggi il più che si conosca in 
proposito. 

È certo che auricalcite e buratite non sono che un’ unica 
specie, e l’analisi fatta dal Bear stesso della buratite di Cam- 
piglia, non avendo egli trovato più calce, convalida il sospetto 
che già si aveva, che la calce trovatavi dal Deresse dovesse 
considerarsi come estranea alla costituzione della molecola. 
Quindi non c'è ragione di distinguere questo minerale di Cam- 
piglia con un nome particolare, valendo per esso, come per gli 
altri che vi corrispondono, il nome generale di auricalcite. 

Lo studio delle sue forme cristalline conferma le determina- 
zioni chimiche, studio che ebbi agio di poter fare per il copioso 
materiale, che di questa specie possiede il museo mineralogico 
di Pisa tanto di Campiglia Marittima quanto di Valdaspra. 


(1) M. Devesse. — Ann. des Mines 1846. Ser. 4, tom. X, pag. 215. 
A. D’'AcniarDI. — Mineralogia della Toscana. Vol. I, pag. 201; Pisa 1872. 
A. Beuar. — Ueber Aurichalcit und kiinstliches Zinkcarbonat. (ZaC0,+-H30). 
Groth's Zeit. Bd. XVII, pag. 113, Leipzig. 1890. 


Sc. Nat., Vol. XVI 1 


4 G. D ACHIARDI 


Il minerale di Campiglia Marittima si presta però meglio 
dell’altro allo studio cristallografico poichè di maggiori dimen- 
sioni e più nitidamente costituiti sono i cristallini aciculari, 
piumosi, laminari, che d’ordinario con disposizione raggiata si 
trovano a formare, in aggregati complessi, frange, incrostazioni 
cristalline nelle fenditure e cavità del marmo, della limonite 
e dei minerali calaminari in tutte le consuete apparenze della 
specie. 

Nè ad, occhio nudo, nè con la lente si riesce a scorgere al- 
cun particolare della cristallizzazione, e solo si arriva a meglio 
decifrarla servendosi del microscopio con ingrandimenti note- 
voli, talvolta fortissimi. 

Provai da prima a sbriciolare delicatamente i ciuffetti cri- 
stallini per compressione fra due lastrine di vetro e ne ebbi 
al microscopio quasi costantemente le stesse apparenze già de- 
scritte ed effigiate dal Becar, (mem. cit. fig. 3, 4, 5, 6 ecc.) con 
angoli variabilissimi da una sommità biettiforme all’ altra e 
con frammenti frequentemente rettangolari e altri innumere- 
voli senza alcun contorno regolare, onde mi fu per tal modo 
impossibile di rilevarne nulla di più di quanto già aveva lo 
stesso BeLArR notato; solo mi persuasi che la variabilità dei va- 
lori ottenuti e da me e da lui non poteva condurre ad alcun 
resultato esattamente determinativo. Perciò cercai di separare 
meglio che potevo con una punta di ago i piccolissimi cristal- 
lini dai ciuffetti piumosi tolti con ogni diligenza dagli esem- 
plari mercè di una sottile pinzetta, e così divaricati e distesi 
su di una lastrolina, sia liberi, sia nel balsamo fermati col ve- 
trino copri-oggetti, li osservava al microscopio. Malgrado l’at- 
tenzione messa nel separarli appariva subito una vera strage 
di subindividui nei frammenti innumerevoli; ma ne restavano 
ancora a centinaia intatti, taluni larghi oltre un decimo di 
millimetro per altezze anche di circa e oltre un mm. benchè 
d’ordinario di dimensioni molto minori. Questi cristalli niti- 
damente terminati si osservano più specialmente in un unico 
esemplare fra i tanti esaminati e che fu veramente il solo che 
mi permise una esatta determinazione. Negli altri in generale 
la massima parte degli individui cristallini era indeterminabile. 
Varii dei cristalli del sopra citato esemplare mostrano le due 
estremità terminate, poichè non essendo essi impiantati sulla 


AURICALCITE DI CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA 5 


roccia la terminazione si è potuta formare anche nella parte 
inferiore o interna che fa capo al centro delle massarelle ra- 
dianti con differenza però grandissima fra le due terminazioni 
ordinariamente mozza l’esterna, acuminata l' interna. 

A seconda delle disposizioni più o meno radiali dei cristal- 
lini e fittezza loro appaiono anche più o meno deformati, aven- 
dosi abitualmente che si slargano verso l'esterno per poi spesso 
tornare a restringersi ancora, onde l'apparenza irregolarmente 
laminare e piumosa che spesso presentano e l’abituale difficoltà 
alla loro determinazione. 

Considerando isolatamente i cristallini non deformati o poco, 
si vedono quasi tutti terminati all'estremità esterna o supe- 
riore da più lati e cioè da un lato orizzontale ad angolo per- 
fettamente retto con i lati dell’allungamento loro e fra questi 
e quello due altri lati simmetricamente disposti (fig. 4, 5, 6, 
10, 14), ma con sviluppo non sempre eguale (fig. 1), talvolta 
anzi l'uno predomina grandemente (fig. 12), come pure posson 
tutti e due essere così sviluppati da fare sparire o quasi il lato 
orizzontale (cristallo minore in fig. 8). Quando i subindividui 
non furono completamente isolati non è raro vedere ciuffi di 
consimili cristallini con disposizione ora parallela (fig. 11 in 
basso) ora radiale (fig. 2, 8). In tutti, semplici o aggregati, pa- 
rallelamente allo spigolo di allangamento corre senza eccezione 
l’asse delle vibrazioni ottiche di minore velocità (c), onde an- 
che per questo parallelismo l'apparenza di cristallizzazione tri- 
metrica. 

Ho preso misure con il goniometro oculare su parecchie 
diecine di questi cristallini e da trentadue angoli piani dei lati 
obliqui coi lati d’allungamento e con misure più volte ripetute 
ho rilevato valori ordinariamente dai 30° (1) ai 32° e da essi 
una media di 30°,58, assai vicina ad altra data da sette di 
questi stessi angoli, cui per la loro grande nitidezza conviene 
attribuire un peso molto maggiore. I valori trovati per questi 
sette angoli oscillano fra 80°,30'e 31°,45'e la media ne è di 319,15. 

In questi stessi cristalli la misura degli angoli delle stesse 
faccette oblique con la faccia terminale mi ha dato valori di 


(') Qui e in seguito, quando non sia detto espressamente, sono dati i valori degli 
angoli supplementari. 


6 G. D'ACHIARDI 


poco discosti da 59° e la media delle sette misure prese è di 
58°,47, che non differisce molto dall’altra di 58°, 14 ottenuta 
da ventuna misure di peso minore. 

E tenendo conto, come più attendibili dei medii valori ot- 
tenuti da queste misure migliori e facendoli contribuire am- 
bedue nello stesso grado a determinare un valore probabile si 
avrebbero respettivamente 31°,14' e 58°,46/. 

Rarissimamente si osservano facce oblique di diversa incli- 
nazione associate alla base; sono invece frequenti individui a 
forma di bietta (fig. 1, 4,11) o di lama di forbice (fig. 7) come 
dice BeLar, o lanceolati, i quali presentano, però non sempre, 
estinzione parallela all'uno dei lati o ad ambedue quando que- 
sti, come si osservano nelle figure 1, 4, 11, per un tratto più 
o meno lungo corrono fra loro paralleli e ci rappresentano i 
due lati longitudinali dei cristalli precedentemente descritti. 
Sono le stesse apparenze ricordate ed effigiate dal Brrar (mem. 
cit., fig. 2, 3, 4). Gli angoli terminali sono diversi da una punta 
all'altra, e il Bear ciò constatando, credè intravedervi la pre- 
senza di altrettanti domi, i quali .sarebbero variabili non solo 
nei termini da lui osservati, ma ancor più nelle numerosissime 
lamine da me esaminate e misurate, onde se riferibili a domi 
converrebbe ammetterne un numero molto grande. Io ritengo 
invece che tali sommità acuminate, i cui angoli reali sono spesso 
inferiori ai 20° e anche ai 10°, sieno riferibili all'estremità in- 
feriore, o interna, dei cristallini radialmente disposti e non sem- 
pre con lo stesso angolo di divergenza, e che i loro lati ci rap- 
presentino, anzichè la presenza di piani emimorfi (che in tal caso 
non s’intenderebbe perchè si avessero ad avere solamente per 
queste forme acuminate), le linee di unione e di contatto fra 
l’uno e l’altro individuo nella costituzione degli aggregati cri- 
stallini. E che ciò sia verosimile confermerebbe anche il fatto di 
aversi alcune di queste lamine, ordinariamente nel loro distac- 
carsi troncate esternamente dal piano basale di sfaldatura, ter- 
minate invece da questa stessa parte esterna nel solito modo 
descritto poc'anzi. Così in ragione della diversa disposizione 
radiale e fittezza degli individui negli aggregati cristallini si 
spiegherebbe e la variabilità della inclinazione e la non co- 
stante direzione di estinzione determinata rispetto a certe linee, 
che nei frammenti ci rappresenterebbero non lati prismatici, 
ma linee di separazione degli individui aggregati. 


AURICALCITE DI CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA :7, 


Ciò non toglie che anche questi piani non possano essere 
piani compatibili con la cristallizzazione ed esprimibili essi 
pure per indici razionali, come farebbe anche supporre il fre- 
quente ripetersi di certi valori. Nella fig. 15, che ci rappresenta 
un gruppo di cristalli di Valdaspra consimili a quelli di Cam- 
piglia, vedonsi nella parte inferiore queste terminazioni a punta 
convergenti ad un centro comune. 

Evidentemente si ha a che fare, ammesso che la cristalliz- 
zazione sia monoclina come più tardi vedremo doversi ammet- 
tere, con cristalli sdraiati per l’ortopinacoide {100}, che per 
avere d’ordinario prevalente sviluppo su tutte le altre facce 
presenti, determina in essi il loro abituale coricamento in modo 
da dare quasi sempre questa stessa apparenza. 

Ma insieme a cristallini così disposti, se ne vedono altri, 
però assai raramente, che sono rimasti impigliati nel balsamo 
della preparazione per taglio. Appaiono come esilissime liste 
grosse soltanto qualche millesimo di millimetro e ordinaria- 
mente colorite con una certa intensità in verde-azzurrognolo. 
Si estinguono ad angolo più o meno grande, non di rado supe- 
riore ai 30° con l’ allungamento loro (fig. 9 e 16). Non sono 
altro che le stesse laminette sopra descritte, le quali per esser 
disposte per taglio anzichè per piatto nel balsamo mostrano 
una più intensa colorazione per il maggiore spessore, che la luce 
è costretta ad attraversare. In questo caso sembra aversi la pro- 
spettiva del clinopinacoide {010}. 

Altre lamine, rare pur esse, appaiono disposte obliquamente 
e i piccoli e variabili angoli di estinzione sono in relazione con 
l’obliquità della lamina, che è dimostrata anche dal non venire 
in fuoco simultaneamente i due lati longitudinali. 

Di tanto in tanto poi si vede qualche lamina, che invece 
di avere il lato terminale ad angolo retto con i longitudinali 
lo presenta invece ad angolo di poco sì, ma diverso dai 90°, 
evidentemente obliquo e mostra estinzioni, che per le osser- 
vazioni fatte arrivano ad angoli anche di 17° e più con l’al- 
lungamento dei cristalli (fig. 13). Le misure prese sembrereb- 
bero nei casi più comuni accennare a piani diversi, avendosi 
per l'angolo loro con l'allungamento della lamina valori medii 
di 84°,15' e 78°,44. Non è raro che ai lati di questi piani 
altri subordinatamente si associno, Si tratta al solito di la- 


8 G. D'ACHIARDI 


mine cristalline obliquamente disposte, o di veri e propri piani 
del clinopinacoide, che eccezionalmente abbiano acquistato mag- 
giore sviluppo? Non sempre facile è il riconoscerlo e le osser- 
vazioni imperfette e le incerte misure prese lasciano molto in 
dubbio sul significato loro. 

Se i cristalletti si guardino a nicol incrociati, e meglio an- 
cora togliendo lo specchio per luce riflessa, l’area pinacoidale 
oscara appare circondata da esili liste illuminate per rifles- 
sione che tanto meglio si osservano quanto più il cristallo è 
inclinato in modo da permettere il gioco della luce riflessa, in- 
clinazione che si rileva dal venire successivamente in fuoco le 
varie parti del cristallo. I colori d’ interferenza pongono pure 
in rilievo queste particolarità (fig. 6, 12, 16), che si vedono an- 
che a luce trasmessa (fig. 1, 4, 5, 14). Per tal modo è facile 
scoprire la presenza di esili faccettine di un prisma verticale e 
spesso anche di altre faccettine oblique verosimilmente di un 
clinodomo }0 m p} e della base intermedia, senza potere escludere 
la presenza anche di prismi obliqui }mnp} e di cmidomi {m0 pi. 

Dallo studio di questi cristalli può dunque affermarsi che 
sono certamente monoclini e che all’ortopinacoide {100}, gran- 
demente predominante, si associano un prisma verticale, che 
per la sua costanza può ritenersi come protoprisma {110}, la 
base {001} e un clinodomo {9 m pi, che può designarsi come {011}. 
Anche altre faccette sembra che sieno presenti e già dissi 
di qual tipo, ma la determinazione è quasi impossibile. Note- 
vole si è che tutte le faccette estremamente ridotte apparenti 
sul contorno delle lamine cristalline sembrano costituite per 
decrescimenti di piani {100}. 

Se fra le facce della zona dell’ortoasse si prenda come base 
quella ad angolo minore (84°,15') con l'allungamento del prisma 
si ha: 


B= 84,15 


ma se incerta è pur sempre la determinazione di questa co- 
stante è impossibile quella delle altre. Se l'angolo di 58°,46° 
ci rappresentasse il supplemento dell'inclinazione di (001) :(011), 
il valore di c rispetto a d preso come unità di misura ci sa- 
rebbe dato facilmente da: 


AURICALCITE DI CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA 9 


tang. 58°,46' 


I 
(rr sen. 84°, 15° 


= 1,6574 


ma poichè quantunque vicino non si può dire che vi corrisponda, 
nè si hanno dati per determinare a, così ci conviene pur troppo 
ripetere con il PexrieLp, che per l’auricalcite “ No definite idea 
regarding its crystallization was obtained by exumining under the 
microscope , (1). 

Ma intanto è accertato il sistema di cristallizzazione, in- 
traveduto l'abito dei cristalli ed è giù un passo avanti su quel 
che si conosceva. Però i resultati da me ottenuti non concor- 
dano completamente con quelli di Becar. Le apparenze dei cri- 
stalli sono le stesse, salvo appunto quelle che non osservate 
dal Ber mi condussero alla determinazione dell’abito cristal- 
lino dell’ auricalcite. 

In tal modo poi viene a perdere di valore anche il rav- 
vicinamento fatto da esso all’ artificiale carbonato di zinco 
ZnC0, +H,0, che non vi corrisponde per la composizione; men- 
tre se per questa può farsi un confronto è con i carbonato- 
idrati come la malachite e l’azzurrite, pur essi monoclini. Lo 
stesso BeLar aveva trovato valori troppo largamente appros- 
simativi prendendo a base delle determinazioni cristallografiche 
dell’auricalcite l’angolo (100):(101) = 54°,18' dato dall’artificiale 
carbonato di zinco, nel quale notava essere anche diversa l’orien- 
tazione ottica. 

Molti dei cristalli di auricalcite, specialmente nei comuni 
esemplari, mostrano una terminazione lanceolata per ripeti- 
zione di piani e taluni anche evidente decrescimento paralle- 
lamente ai piani pinacoidali {100} di facile separazione, e as- 
sociandosi questo decrescimento alla ripetizione di piani, si 
ha non di rado una singolare apparenza delle lamine esaminate, 
le quali mostrano come un prisma obliquo costituito per tali 
decrescimenti; e tale osservazione viene in conferma di quanto 
già asserii rispetto alla costituzione delle facce subordinate. 


(4) On the Chemical Composition of Aurichalcite. Americ. Journ. Ser. III. Vol. 
XLI, N. 242, pag. 107, New Haven. Febr. 1891. 


10 G. D'ACHIARDI 


Se i piani {100} sono piani della più facile separazione, aven- 
dosene lamine estremamente sottili, lucide, quasi micacee, è 
piano di facile e vitrea sfaldatura la base, onde si hanno fre- 
quentissimi frammenti rettangolari. 

Per il carattere ottico già dissi come l’asse, che corre pa- 
rallelo agli spigoli (100):(110) sulle facce {100} e che fa angolo 
assai grande ma non esattamente determinabile sulle facce {010}, 
sia l’asse delle vibrazioni della minima velocità ottica. 

Osservate le lamine per la faccia (100) a luce convergente 
si vedono rudimenti di due sistemi di anelli colorati, i cui poli 
assiali però escono dal campo di visione. Impossibile determi- 
nare la posizione del piano degli assi ottici e il segno della 
bisettrice acuta, che sembrerebbe positivo. Colori d’interferenza 
alti e diversi nella stessa lamina se pur non sia semplice e sot- 
tilissima; d’ordinario iridati per la complicata aggregazione di 
subindividui, quale dimostrò già il BeLar divaricando i subin- 
dividui stessi per l’azione di un leggero acido. 


II. — Auricalcite di Valdaspra (Massa Marittima). 


Nel settembre del 1894 essendomi recato a Massa Marit- 
tima per l'adunanza autunnale della Società Geologica italiana, 
ebbi occasione di raccogliere nelle varie località limitrofe, che 
visitammo, una assai ricca collezione di minerali. 

E fu specialmente allo Scaricone di Valdaspra che la rac- 
colta fu abbondante e numerosissimi furono i campioni ricchi 
di minerali diversi che io potei prendere e che avrei subito 
intrapreso a studiare, trattandosi di località mineralogicamente 
poco conosciuta, se altri lavori che aveva per le mani non me 
lo avessero fino ad oggi impedito. 

“Lo Scaricone di Valdaspra, così il Lorti (4), a fianco della 
massa ferrifera di Valdaspra è formato quasi esclusivamente 
di calamina, in parte bianca o grigiastra, in parte rossa o gialla 
molto ferrifera. Vi si osservano frequenti pezzi di una breccia 
di calcare cavernoso di cui il cemento è formato da calamina. 
In alcuni frammenti riconoscesi nel modo più evidente che il 


(4) Descrizione geologica-mineraria dei dintorni di Massa Marittima in Toscana. 
Mem, descritt. d. Carta geol. d’It. Vol. VIII, pag. 90, Roma 1893. 


AURICALCITE DI CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA 11 


calcare è sostituito da carbonato di zinco come ad esempio in 
quella forma di calcare cavernoso con cellule calcitiche ripiene 
di polvere dolomitica, il quale presenta spesso le pareti delle 
cellule convertite in calamina, mentre conserva inalterata la 
polvere dolomitica stessa; quando la polvere fu asportata non 
rimase che una roccia cellulare spugnosa interamente costituita 
di calamina. Talvolta le pareti delle cellule non cambiarono na- 
tura, ma furono solo rivestite di calamina cristallizzata tappez- 
zante a guisa di geodi l’interno delle cellule stesse , (1). 

Quindi il Lorri nota anche come si osservi frequentemente 
associata alla calamina quale prodotto secondario la buratite, 
ed è di questa specie di Valdaspra che intendo ora di occu- 
parmi, avendo raccolto un ricchissimo materiale. 

Si presenta l’auricalcite di Valdaspra, giacchè pure per essa 
non c'è ragione di conservare il nome di buratite, in esilissimi 
cristallini di rado isolati, abitualmente aggruppati in frange o 
croste, che tappezzano le fenditure e cavità della roccia cala- 

. minare, che ne forma il giacimento. Se isolati, per l’orienta- 
zione loro sembrano ancora coordinarsi al alcuni centri di cri- 
stallizzazione. Infatti in vario numero assumono rispetto ad essi 
una disposizione radiale; disposizione pur manifesta nelle lami- 
nette allungate, che costituiscono le frange cristalline, onde 
queste presentano ordinariamente superficie mammillare. Unica 
differenza macroscopica con l’auricalcite di Campiglia, negli 
esemplari da me esaminati, sta nella minore grandezza dei cri- 
stalli, che ancora più fittamente costituiscono gli aggregati 
aghiformi-piumosi. 

A occhio nudo qui pure è impossibile ogni determinazione 
di forma. La osservazione microscopica conferma quanto fu 
detto della cristallizzazione monoclina della specie. Qui però 
sono più frequenti le terminazioni acuminate per decrescimento 
di piani, da non confondersi con le terminazioni pure acumi- 
nate della estremità interna. 

Bene osservando le estremità degli aggregati, ove i cristal- 
lini elementari si individualizzano, non è raro riconoscervi la ter- 


(4) Il Lorti con il nome di calamina parmi che voglia indicare i minerali cala- 
minari in genere (silicati e carbonati) oppure il solo carbonato più comunemente 
denominato smithsonite. 


12 G. D'ACHIARDI 


minazione rettangolare o piramidale mozza come in quelli già 
descritti di Campiglia (fig. 15). Se non che l’inclinazione delle 
faccette oblique non sembra corrispondervi facendo esse con 
l'allungamento prismatico angoli non più di circa 31°, ma sib- 
bene di circa 40°. Spettano verosimilmente a piani {012}, per 
le cui facce nella supposizione fatta di b:c=1:1,6574, atten- 
dibile solo come arbitraria approssimazione, si dovrebbe avere 
secondo il calcolo (001):(012) =39°,30, 24". Che se si conside- 
rasse invece questo clinodomo come {011} e l’altro come {021}, 
si avrebbe allora d:c= 1 :0,8287. 

La maggior differenza si ha solo nell’abito della cristalliz- 
zazione, le faccette oblique terminali sogliono essere ridotte 
di fronte alla base riconoscibile anche nelle lamine lanceolate 
per decrescimento; base che esclusiva o quasi domina costan- 
temente nello terminazioni dei cristalli prismatici di aurical- 
cite di altre località, osservati per confronto, come quelli del 
Laurium (fig. 17). 

Il peso specifico determinato con un grammo circa di pol- 
vere fine alla boccetta di Gay-Lussac mi risultò di 3,00-3,02 
valori vicinissimi a quello dato dall’ Hermanx (3,01) e riportato 
dal Des CLoizzavx (1); diversi però da quelli dati da PEenrIELD 
(mem. cit.) 3,52-3,63 per l’ auricalcite dell’ Utah. Determinato 
di nuovo su piccole masserelle avendo come PenrieLp fatto bol- 
lire la sostanza nell'acqua per espellere l’aria, dopo di averla 
preventivamente privata dell’acqua igroscopica a circa 104° C., 
risultò invece di 3,35. 

Il colore dell’auricalcite di Valdaspra è ceruleo con vario 
tuono e con tendenza ora più al celeste, ora più al verde. Im- 
pallidisce fino a scomparire nei cristallini isolati, che appaiono 
scoloriti e trasparenti, mentre l'intensità del colore seconda 
in generale la grossezza degli aggregati cristallini. Debolissimo 
pleocroismo negli individui più colorati. Vivace lucentezza ma- 
dreperlacea. 

A me premeva specialmente il determinarne la composi- 
zione chimica poichè di questa località l’ auricalcite non era 
ancora stata analizzata. Presi il minerale togliendolo da mol- 


(4) Manuel de Minéralogie. T.II, fase. 1°, pag. 185, Paris 1874. 
(2) A System of Mineralogy. Sixth Ed.; pag. 298, New-York 1892. 


AURICALCITE DI CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA 13 


tissimi campioni e scegliendolo possibilmente dello stesso co- 
lore ceruleo chiaro. Stetti bene attento che nessuna particella 
della matrice venisse mescolata con la sostanza da esaminare, 
ma ciò fu impossibile ad ottenersi in modo assoluto, poichè 
l’auricalcite nella sua porzione d'impianto portava seco parti- 
celle piccolissime della matrice, che era impossibile togliere 
completamente anche osservando con la lente. È solubile com- 
pletamente negli acidi con effervescenza; colora la fiamma in 
verde; la perla di sal di fosforo in verde-rossastro (fiamma 
riducente) a caldo, verde-celestognola a freddo. 

I resultati centesimali dell’analisi fatta su grammi 1,394 di 
minerale, preventivamente disseccato a togliere l’acqua igrosco- 
pica, furono i seguenti: 


Rapp. molecolari 


OE e GE 095998 De 
CORRERE e i i OS IA So 
COPERTE e OSO 0, “i o 
Zn0 . 5 è o la o . . OLI 5I 0, 644 ° 0, 889 
CODES ne en 0A 0, 008 
Fez 03 SR O 4° COMO SOTA RE DI MORO Il, 94 
Oa retta btaece 
Residuo rmsolubilet i 2,01 

100, 48 


L'anidride carbonica fu determinata facendola assorbire da 
idrato sodico in soluzione concentrata al 45° e solido; l’acqua 
per differenza detraendo l’ anidride carbonica dalla perdita in 
peso che la sostanza subisce per arroventamento. 

Di ossido alluminico non ho avuto che leggerissime tracce 
e difficile sarebbe stato il separarlo dall’ossido ferrico insieme 
al quale fu pesato. Il residuo insolubile, composto in massima 
parte di silice, non è dovuto all’auricalcite, ma a sostanze estra- 
nee, avendo trovato per saggi fatti che essa è solubile com- 
pletamente negli acidi. Così pure l’ossido ferrico deriva dalla 
sostanza bruna, in gran parte limonitica, che forma il substrato 
alla auricalcite. E la calce probabilmente deriva da calcite es- 


14 G. D'ACHIARDI 


sendo il giacimento del minerale in roccia calcarea, anzi de- 
rivando in gran parte dall’alterazione di questa. 

I calcoli per i rapporti molecolari sono fatti secondo i pesi 
atomici dati dall’ Oswanp(!). Se si fa astrazione dal residuo e 
dall’ossido ferrico si avranno riducendo a 100, a seconda che si 
consideri la calce come impurità o come componente, i resul- 
tati seguenti: 


OR 0Za 


Es = Rita 


I Teoria II 
OI e ono 9, 88 9, 90 
COSO EG 
COMI O 1087 
Zi0R ie de o e O 
CO ao e 0, 46 


100,00 100,00 100,00 


quindi resultati sempre grandemente vicini a quelli dati dalla 
teoria secondo la formula generalmente ammessa 


8 R[OH} -+ 2 R00; 


in cul 
lo —= (noia 33 235 


Nel caso nostro si avrebbe un po’ più di zinco e un po’ meno 
di rame, che si sostituiscono vicendevolmente in questo mine- 
rale, la cui colorazione più o meno intensa è probabile che 
secondi la quantità del rame. 

È vero che dovrebbe sottrarsi un po’ d’acqua e un po’ d’ani- 
dride carbonica da imputarsi all’ossido ferrico e alla calce de- 
rivati quello da limonite, questa probabilmente da calcite; ma 
lo stesso può dirsi per un po’ di rame e un po’ di zinco im- 
putabili a melaconite, zincite, smithsonite e calamina, che tutti 


(1) Abrégé de Chimie générale traduit par G. CHarpy. Paris 1893. 


AURICALCITE DI CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA 15 


insieme costituiscono quella polvere bruna, su cui aderisce 
l’auricalcite e nella quale per ricerche qualitative ho riscon- 
trato Si0,, CO,, H,0, Zn0, Cu0, in conferma di quanto in 
essa, ma per un’altra località, Campiglia, già aveva in parte 
trovato il BerrHIER (!), che per l’aspetto paragonavala al Wad. 
In questa di Valdaspra ci sarebbe in più il rame e mancherebbe 
il manganese. 

E poichè si tratta solo di dosi minime imputabili a sostanze 
straniere e per tutti i componenti indistintamente, quindi è 
a ritenersi non debbano essere essenzialmente alterati i re- 
sultati finali dell'analisi considerati per minerale purissimo. 

Accompagnano l’auricalcite allo Scaricone di Valdaspra ca- 
lamina, smithsonite, idrozincite, zincite, melaconite, malachite, 
azzurrite, crisocolla, calcite, dolomite, limonite, e un minerale 
celeste o grigio-celestognolo, perfettamente isotropo, ora in 
piccoli cristalli monometrici, prevalentemente in forme di cubo, 
ora in massarelle compatte, e che mi propongo di studiare e 
di cui renderò conto in un’altra nota. 

Nel giacimento della Niccioleta ho pure raccolto dei cristalli 
di cerussa e qui e allo Scaricone e in tutti questi giacimenti 
calaminari di Valdaspra nelle porzioni meno alterate della roc- 
cia madre non è raro rinvenire anche fra i minerali metallici 
pirite, calcopirite, blenda e galena e fra quelli della matrice 
o della roccia incassante un granato giallo-verdastro rombodo- 
decaedrico, epidoto, bustamite, quarzo ecc. 

Tra i minerali ossidati di zinco e di rame l’auricalcite sem- 
bra essere stata uno degli ultimi a.formarsi, costituendo essa 
la parte più superficiale dei rivestimenti o incrostazioni entro le 
cavità della roccia originaria dalla cui alterazione deriva il 
giacimento calaminare. 


Laboratorio di Mineralogia dell’ Università di Pisa 
17 gennaio 1897. 


(i) Ann. des Mines, Ser. 4, t. II, pag. 513, 1842. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA LI 


TÀ 
Le figure 1-14 e 16 rappresentano cristalli di auricalcite di Campiglia Marit- 
tima; la 15 di Valdaspra; la 17 del Laurium. 
Le figure 6-10, 12, 13, 16 sono eseguite a nicol incrociati, di cui i piani di po- 
larizzazione sono ogni volta indicati dalle crocette poste sotto ad esse. Le altre 


sono eseguite a luce ordinaria. 


Fig. 1. A sinistra cristallo con terminazione a lato obliquo più sviluppato da 
una parte che dall’ altra; inferiormente rotto. A destra cristallo con 
estremità inferiore biettiforme. Ingrand. 140 diam. 

» 2. Individui riuniti in foggia di govone, parte parallelamente, parte radial- 
mente. Ingrand. 70 diam. 

» 3. Varii cristalli radialmente disposti con sviluppo assai notevole dei lati 
obliqui della terminazione. Ingrand. 150 diam. 

» 4. Varii cristalli di cui due a destra terminati nel solito modo e radialmente 
disposti; uno a sinistra con grande sviluppo dell’ estremità inferiore 
acuminata. Ingrand. 150 diam. 

» 5-6. Cristalli a terminazione superiore regolare per eguale sviluppo di facce 
adiacenti alla base. Si vedono anche le faccette del prisma verticale. 
Ingrand. della fig. 5 diam. 150; della fig. 6 diam. 120. 

» . Cristallo a lama di forbice restringentesi anche verso l’ estremità supe- 
riore. Ingrand. 60 diam. 

» 8. Dei due cristalli, uno sopra l’altro, il minore ha una terminazione supe- 
riore a punta per la estrema riduzione della base; nel maggiore si vede 


a sinistra la faccetta del prisma verticale. Ingrand. 120 diam. 


BA 


9. Fra i varii cristalli superiormente a sinistra se ne ha uno disposto per 
taglio secondo {010} e che a nicol incrociati non appare estinto in posi- 


zione parallela al piano di polarizzazione. Ingrand. 30 diam. 


Hel 


12. 


13. 


14. 


15. 


16. 


er 


AURICALCITE DI CAMPIGLIA MARITTIMA E VALDASPRA 17 


Unione quasi parallela di cristalli e sovrapposizione al gruppo di un cri- 
stallo minore con terminazione a faccette oblique molto sviluppate. 
Ingrand. 120 diam. 

In basso due cristalli con l’ estremità solita superiore in unione quasi 
parallela. In alto cristallo con terminazione interna o inferiore molto 
sviluppata. Ingrand. 150 diam. 

Cristallo che mostra una delle faccette oblique dell’ estremità superiore 
più sviluppata dell’altra. I colori d’ interferenza mettono in evidenza 
le facce del prisma verticale. Ingrand. 220 diam. 

Gruppo di cristalli obliquamente impigliati nel balsamo a terminazione 
rettilinea obliqua ed estinzione non a 0° con l’allungamento loro. In- 
grand. 50 diam. 

Cristallo terminato nel solito modo superiormente e mostrante un piano 
di sfaldatura basale inferiormente. Si vedono le faccette del prisma 
verticale. Ingrand. 150 diam. 

Gruppo di cristalli di Valdaspra radialmente disposti e mostranti infe- 
riormente la terminazione acuminata verso il centro di irraggiamento. 
Superiormente le solite terminazioni con inclinazione però delle fac- 
cette oblique maggiore che nei cristalli di Campiglia. 

Due cristalli di cui il verticale è disposto per taglio secondo {010} e 
mostrante le faccette del prisma. Non è estinto malgrado la coincidenza 
del suo allungamento col piano di polarizzazione di uno dei due nicol. 
Ingrand. 160 diam. 


Cristalletti del Laurium terminati dalla base. Ingrand. 30 diam. 


ERNESTO MANASSE 


ROCCE OFIOLITICHE 
E CONNESSE 


DEI 


MONTI LIVORNESI 


Le rocce serpentinose od ofiolitiche, sotto i quali nomi vol- 
garmente non si comprendono le sole serpentine, ma anco le 
rocce gabbriche e diabasiche, che quasi sempre quelle sogliono 
accompagnare, hanno fornito in questi ultimi tempi soggetto 
di importantissime osservazioni e discussioni fra i geologi circa 
l’età e più ancora circa l'origine, come più diffusamente ve- 
dremo in seguito. 

In Toscana tali rocce, alle quali la gente del contado dà 
il nome generico di gabbri, assumono poi una speciale impor- 
tanza, perchè esse sono la sede principale dei giacimenti cu- 
‘priferi che segnano e più segnarono per il passato una note- 
vole ricchezza industriale per quella regione; e le miniere di 
Montecatini e del Terriccio ed i filoni di Monte Vaso, dell’Im- 
pruneta, del Romito ecc. ne danno uno dei più chiari esempi. 

Fu il Savi nel 1838 (!) quegli che pel primo, compreso del- 
l’importanza dell'argomento, si occupò dettagliatamente delle 
numerose formazioni ofiolitiche della Toscana. Egli designò col 
nome di catena ofiolitica l'insieme di questa estesissima for- 
mazione che divise in quattro grandi serie chiamate rispet- 
tivamente ultrappenninica, citrappenninica, litorale, insulare; 
ciascuna delle quali poi suddivise in vari gruppi od isolotti. 


(1) Paoro Savi. — Delle rocce ofiolitiche della Toscana e delle masse metalliche 
in esse contenute. (Nuovo Giornale dei Letterati 1838-39). 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 19 


Seguendo i criteri del Savi il gruppo ofiolitico dei Monti Li- 
vornesi, del quale qui esclusivamente mi occupo, appartiene alla 
terza serie (litorale) della catena ofiolitica. In tali monti, spettanti 
in parte alla provincia di Livorno, in parte a quella di Pisa, le 
rocce serpentinose sono largamente rappresentate; hanno quindi 
una notevole importanza siccome rilevasi anche da quanto ne 
scrisse il prof. D’'AcararpI, che, trattando appunto di esse (‘), così 
si esprime: “ Classica per la storia delle rocce serpentinose è 
questa piccola catena o nodo di monti, ove fin dai secoli passati 
furono osservate e descritte varie rocce serpentinose e affini del 
Gabbro e della Valle Benedetta, specialmente del Gabbro, onde 
pare che derivi il nome dato dai Tedeschi all’eufotide. Queste 
rocce si osservano al Romito, ove è l’abbandonata miniera 
cuprifera di Tobler e di là lungo il lido fino a Castiglioncello 
ed oltre nelle vicinanze di Rosignano, al Gabbro ove sono bel- 
lissime oficalci, nella Valle delle Fonti, a Colognole, a Neb- 
biaia e a Castelnuovo della Misericordia ,. 

Descriverò successivamente le rocce di alcune fra le più 
notevoli di queste località. 


ROMITO 


Uno dei più importanti giacimenti di rocce ofiolitiche nei 
Monti Livornesi, del quale si occuparono nei loro maestrevoli 
scritti illustri geologi, come Savi, Burat e MexeGHINI, è quello 
del promontorio del Romito. Tale località trovasi dieci chilo- 
metri al Sud di Livorno, lungo la via litorale maremmana, 
per chi, partendosi dall’ Antignano, attraversi la Torre del Boc- 
cale e Calafuria, ove tanto sviluppo prende l’arenaria macigno. 

La grande massa ofiolitica del Romito non consta di sola 
serpentina, ma anche di rocce gabbriche e diabasiche. La ser- 
pentina, che occupa la parte più bassa della formazione erut- 
tiva, vi è sotto forma di serpentina bastitica, la quale talora 
per altro, arricchendosi di silice, passa ad ofisilice. Ad essa suc- 

(4) A. D’AcHiarpi. — Mineralogia della Toscana. Pisa 1873. 

Sc. Nat., Vol. XVI 


to 


20 E. MANASSE 


cedono superiormente le rocce gabbriche, le più sviluppate, 
che possono raggrupparsi nei tipi di eufotide normale a labra- 
dorite o a saussurite e di iperstenite. Per ultime infine, a rap- 
presentarci la parte superficiale della formazione eruttiva, ven- 
gono le rocce diabasiche, delle quali giova distinguere la vera 
e propria diabase (denominata dal Savi e MexeGHNI (*) insieme 
a tutte le diabasi della Toscana ofite e diorite e solo più tardi 
riconosciuta dal prof. D'Acnmarpi (?) per vera diabase) e il 
gabbro rosso che sempre vi si connette. Il gabbro rosso del 
Romito ha anzi un'importanza tutta speciale, perchè fu geo- 
logicamente studiato dagli illustri Savi e MenecHINi e da essi 
ritenuto non per una roccia dovuta ad alterazione di diabase, 
ma per un'originaria roccia sedimentaria metamorfosata in 
seguito all’eruzione serpentinosa, pur riconoscendo essi che in 
talune circostanze presentava le più decise apparenze di roccia 
eruttiva (3). 

Entro queste rocce in sottili vene più o meno ramifi- 
cate si rinvengono i solfuri di rame (calcopirite ed erubescite), 
ossidatisi talora in carbonati (malachite ed azzurrite), non di 
rado accompagnati da pirite di ferro. Ma più che in vene esclu- 
sivamente metalliche i solfuri di rame si ritrovano in foggia 
di noduli entro a filoni maggiori, irregolari nell’andamento e 
nelle dimensioni, e costituiti da una pasta steatitosa, onde 
furono detti dal Savi filoni impastati. Questi giacimenti cupri- 
feri del Romito ebbero pel passato ed hanno tuttora una certa 
importanza; ivi infatti esiste l’ antica miniera di Tobler, oggi 
abbandonata; ivi una compagnia inglese, or son circa cinquanta 
anni, impiantò dei lavori di escavazione; ivi è stato dato l’anno. 
scorso principio, e con assai lieto successo, a nuovi scavi. 

La grande massa serpentinosa del Romito è interposta alle 
rocce sedimentarie terziare (eoceniche), rappresentate da scisti 
silicei, da veri e propri diaspri passanti dal verdastro al rosso 
acceso, intercalati da un calcare grigio ceroide. Tali rocce non 
mostrano una stratificazione regolare, ma offrono invece nu- 


(4) P. Savi e G. MeneGHINI. — Considerazioni sulla Geologia stratigrafica della 
Toscana. Firenze 1851. 

(2) A. D'Acmarpi. — Op. cit. 

(8) P. Savi e G. MENEGHINI. — Op. cit. 


ROCCE OFIOLITIOHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 2] 


merose contorsioni e piegamenti; e per questo loro modo ap- 
punto di presentarsi resero geologicamente importante il Pro- 
montorio del Romito. Burar(!), infatti, che ammetteva per le 
serpentine l'origine ignea, riteneva che esse, eruttando, aves- 
sero sollevato, contorto e trasformato gli scisti adiacenti da 
lui ritenuti per cretacei e cita il promontorio del Romito quale 
uno dei punti più interessanti di questi sollevamenti dovuti 
alle serpentine. E il MenecaINI (2), opinando siccome Burar, così 
si esprimeva: “Particolarmente caratteristico delle eruzioni ser- 
pentinose è un effetto sorprendentemente poderoso di pressione 
laterale, effetto meccanico che congiunto all’altro effetto pre- 
valentemente chimico delle profonde metamorfosi indotte nelle 
rocce sedimentarie argillose, calcari ed arenacee diede origine 
a quelle complicate e capricciose contorsioni di galestri, ftan- 
niti e gabbri rossi, che resero una località classica il promon- 
torio del Romito ,. 


ù I. — ROCCE GABBRICHE. 


o) Eufotide. 


L’eufotide del Romito, di cui vien fatta citazione dal prof. 
D’AcGiarpi nella “ Mineralogia della Toscana , e dal prof. JERVIS 
nei “ Tesori sotterranei d' Italia ,, presenta anche ad occhio 
nudo forti indizi di alterazione nei suoi principali componenti 
(diallagio e labradorite). La grana di questa eufotide è gene- 
ralmente assai grossolana, ma per graduati termini passa fino 
ad essere minuta a segno tale che occorre la lente d’ingran- 
dimento per poter ben distinguere i minerali che la compon- 
gono e la sua frattura è irregolare a seconda che interessa 
principalmente l'uno o l’altro di essi. Differenze notevoli ho 
trovato da campione a campione nella ricerca del peso speci- 
fico, chè, infatti, varia da un minimo di 2,48 a un massimo 
di 2,87; il che palesa che i minerali costituenti non sono tutti 
ugualmente distribuiti. 


(4) A. Burat. — Gites metalliféres de la Toscane. Paris 1845. 
(2) G. MeneGHINI. — Della presenza del ferro oligisto nei giacimenti cupriferi 
della Toscana. Nnovo Cimento 1860. 


22 E. MANASSE 


In sezioni sottili al microscopio la roccia mostra struttura 
olocristallina ipidiomorfa e risulta formata, oltre che di pla- 
gioclasio e diallagio, di molti altri minerali più sotto enu- 
merati, sieno essi originari, sieno prodotti da decomposizione 
del plagioclasio e più specialmente del pirosseno. 

Il plagioclasio, in origine labradorite, prende in questa roc- 
cia sviluppo di gran lunga maggiore su tutti gli altri elementi; 
ed è sempre alterato, tendendo a trasformarsi in saussurite, 
onde si rende torbido, opaco e granuloso con un colore gri- 
giastro, ora tendente al rossiccio, ora al verdastro, ora al 
giallognolo. Si presenta in grandi cristalli di prima consoli- 
dazione, non però nitidamente delineati, ma corrosi, smussati; 
ed in taluno di essi mostra evidentissime le linee di sfalda- 
tura basale. A nicol incrociati, nelle parti ove la trasforma- 
zione in saussurite non è completa, offre struttura lamellare 
polisintetica per la ripetuta geminazione secondo la legge del- 
l’albite, quantunque molto raramente e non con troppa chia- 
rezza, le singole lamelle non essendo tra di loro separate da 
netti confini. Di modo che difficoltà non lievi incontransi a 
misurare l'estinzione; pur tuttavia è dato di notare che essa 
vi avviene ad angolo assai grande, facendo pensare ad un fel- 
dispato basico e quindi alla labradorite. Ma quando la decompo- 
sizione plagioclasica è in uno stadio molto avanzato non si ha 
affatto traccia di strutttura polisintetica e si manifesta invece 
quella polarizzazione d’aggregato, che contraddistingue la saus- 
surrite. Spesso, come prodotto d’ alterazione del plagioclasio, 
si constata nella roccia la presenza di silice, ora opalina per- 
chè sempre estinta a luce polarizzata, ora calcedoniosa mani- 
festantesi a nicol incrociati sotto l'aspetto di tante piccole sfe- 
roliti a croce nera; e talvolta la silice è tanto abbondante (tav. II, 
fig. 1) che la roccia si potrebbe facilmente scambiare per una 
ofisilice, specialmente poi quando il pirosseno, come vedremo 
più sotto, si è per la massima parte trasformato in serpentino, 
se qualche raro granello di plagioclasio sparso nella massa si- 
licea non ne svelasse l'origine eufotidica. 

Il diallagio (tav. II, fig. 1) è allotriomorfo in lamine percorse 
da grossolane strie parallele e ha colore verde-grigiastro senza 
alcun segno di policroismo, notevole rilievo e colori d’inter- 
ferenza assai bassi nel giallo e grigio-biancastro, e ciò forse 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 93 


per il suo grado di alterazione. La maggior parte delle sue 
lamine mostrano estinzione ad angolo oscillante tra 35° e 45° 
con i suoi piani di separazione indicati dalle surricordate strie, 
quando però l'alterazione non sia tanto progredita da masche- 
rare il contegno ottico. Spesso mostra traccie più o meno evi- 
denti di alterazione con tendenza a convertirsi sia in serpen- 
tino, che in piccole venuzze crisotiliche si vede anche attra- 
versare le lamine pirosseniche con i segni di sua caratteristica 
polarizzazione, sia, com'è ancora molto più frequente, in ura- 
lite accompagnata da prodotti cloritici, calcite e ossidi di ferro. 

L’uralite non conserva del pirosseno altro carattere che la 
striatura e non sempre, chè spesso è opaca, quasi terrosa, spe- 
cialmente se disseminata di macchie limonitiche. Ha essa evi- 
dente dicroismo da un verde-giallastro ad un bianco-verdastro; 
colori di polarizzazione verdi, rossi e gialli e tanto meno vi- 
vaci quanto maggiore ne è l'alterazione; e direzioni di estin- 
zione ad angolo non mai maggiore di 22° sulle strie prese per 
traccia. 

La sostanza cloritica è in macchie e penombre di un verde 
pallido con debole pleocroismo, le quali avvolgono l’ uralite. 
Essa rimane completamente estinta a luce polarizzata. 

La calcite, minerale di ricomposizione, che al microscopio 
mostra un principio di struttura polisintetica, è in grosse vene, 
che attraversano la roccia. 

Di ossidi di ferro si ha magnetite in minutissimi granuli, li- 
monite in macchie giallastre ed ematite in grani assai minuti, 
ma talora tanto abbondanti che danno all’ eufotide in massa 
una colorazione rossa. 

Tali i componenti di questa eufotide per la massima parte, 
come si è visto, secondari; cui però sono da aggiungersi altri 
minerali accessori, ma originari e, cioè, un pirosseno trimetrico, 
forse iperstene, grandemente alterato e pirite in file irregolari 
di cristallini a sezioni quadrate o rettangolari, addossati gli 


uni sugli altri. 
8) Iperstenite. 


Macroscopicamente la roccia risulta di grossi frammenti di 
plagioclasio di colore grigio-verdastro e di numerose lamine 


24 E. MANASSE 


pirosseniche verdi e lucenti, orientate in tutte le direzioni e 
incastrate e modellate sui cristalli di plagioclasio. Fra tali la- 
mine notansi delle chiazze pure verdi, ma più cupe, di una so- 
stanza serpentinosa proveniente da alterazione del pirosseno, 
siccome dimostrano alcune laminette pirosseniche minutamente 
disseminate in talune di esse chiazze. La grana della roccia è 
assai grossolana, sì che a prima vista in nulla differisce da 
un’ eufotide a grossi elementi; la frattura è irregolare, avve- 
nendo secondo i diversi pianì di sfaldatura dei minerali com- 
ponenti; il peso specifico uguaglia in media 2,85. 

Studiata la roccia al microscopio si mostra composta solo 
di labradorite, iperstene, serpentino e magnetite; quelli ori- 
ginari e in generale maggiormente sviluppati, quantunque in 
alcuni casi il pirosseno sia scarsissimo, perchè quasi comple- 
tamente trasformato in serpentino; questi secondari per deri- 
vazione dal pirosseno. 

La labradorite costituisce il principale minerale della roccia. 
Quantunque ad occhio nudo mostri apparenza di compattezza, 
al microscopio presenta talora lati di faccie cristalline molto 
grandi; ho potuto misurare così l'angolo (001) : (100), pel quale 
ho trovato un valore uguale a 119°,5°. È sempre grandemente 
alterata con aspetto torbido come se composta di tante gra- 
nulazioni, cosparsa qua e là di macchie giallastre limonitiche, 
qualche volta anche con un principio di serpentinizzazione. 
Nelle poche parti, in cui la labradorite si presenta meno alte- 
rata, offre a nicol incrociati (tav. II, fig. 2) larghe e nume- 
rose lamine polisintetiche parallele, proprie di questa specie, 
diversamente illuminate e colorite con tinte diverse d’ interfe- 
renza. L'angolo di estinzione, riferendosi alla traccia di gemina- 
zione 010, generalmente è tra 25° e 30°. A forte ingrandimento 
sì vedono inclusi nel plagioclasio dei cristalletti di 24rcone, tutti 
pieni di bollicine gassose. 

Il pirosseno, trimetrico, come porta a credere 1’ estinzione 
a 0°, apparentemente allotriomorfo, si presenta (tav. II, fig. 2) 
in lamine cristalline striate parallelamente, molto espanse, mi- 
suranti generalmente mm. 3 o 4 di diametro, che riempiono. 
gli spazi interposti tra i cristalli di plagioclasio, il quale ap- 
parirebbe quindi anteriore alla loro consolidazione. Ordinati 
parallelamente alle fibre del pirosseno notansi innumerevoli 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 25 


e piccoli corpiciattoli opachi e bruni indeterminabili e certo 
non riferibili a magnetite, perchè a luce riflessa non si mo- 
strano splendenti, ma terrosi e di color grigio. Le lamine 
pirosseniche offrono rilievo rispetto al plagioclasio ed evidente 
pleocroismo da un verde-pallido, quando la striatura è normale 
alla sezione principale del nicol, ad un bianco-sporco, quando è 
parallela; in questo secondo caso con notevole assorbimento. 
Pel forte pleocroismo e perchè ha colori d’interferenza bianco- 
verdastri o rosso-bruni, sempre assai vivaci, è da ritenersi per 
un pirosseno ricco in ferro e più verosimilmente per <perstene. 

Il serpentino non è reticolare, ma piuttosto fibroso a fibre 
contorte; non proviene quindi da olivina, di cui del resto non 
si ha traccia alcuna nella roccia, ma dal pirosseno; ed è anzi 
facile notare in questo caso benissimo tutti i graduali passaggi 
da quasi inalterato pirosseno a vero e proprio serpentino; facil- 
mente riconoscibile questo dai suoi toni biancastri e bluastri 
con polarizzazione d’aggregato che mostra a luce polarizzata. 

Questi, cui può aggiungersi la magnetite in assai pochi e 
piccoli grani, proveniente essa pure da alterazione del pirosseno 
che sempre accompagna, i componenti della roccia, che, avuto 
riguardo alla trasformazione dell'elemento pirossenico, può ri- 
tenersi come una 2perstenite serpentinizzata. 


II. — ROCCE DIABASICHE. 
o) Diabase. 


Il dott. CaseLrA, che studiò la diabase del Romito (!), così 
la descrive: “ La roccia presenta un colore verde-scuro, una 
struttura uniforme, omogenea, finissima a segno tale che ad 
‘occhio nudo non si possono distinguere i minerali che la com- 
pongono. Soltanto con la lente, in pochissimi esemplari però, 
scorgiamo nella massa compatta qualche rarissimo cristallino 
di color bianco-verdognolo ,. A questo aggiungasi che la roccia 
apparentemente non manifesta indizi di alterazione, che ha una 
frattura scagliosa a superficie irregolare e un peso specifico 
medio di 2,93 circa. 


(1) G. CaseLLa. — Diabase uralitizzata od Epidiorite della Torre del Romito nei 
Monti Livornesi. Giornale di Mineralogia diretto dal dott. Sansoni. Pavia 1893. 


26 E. MANASSE 


Ridotta in sezioni sottili ed osservata al microscopio risulta 
formata da un regolare feltro molto stipato (tav. II, fig. 3), costi- 
tuito principalmente da cristallini di plagioclasio e da laminette 
di originario pirosseno allotriomorfo, riempienti i vani irregolari 
formati dai microliti di feldispato ed anche, in proporzioni però 
molto minori, da sostanza cloritica, magnetite, ematite, limo- 
nite, titanite, serpentino. Si ha quindi nella roccia evidentis- 
sima quella struttura olocristallina ipidiomorfa o più precisa- 
mente diabasica che contraddistingue le diabasi. 

Il plagioclasio, idiomorfo, è in cristalletti listiformi allungati 
secondo lo spigolo [001, 010], divergenti in tutte le direzioni a 
costituire la tessitura generale della roccia, lunghi da mm. 0,6 
a 0,9 e larghi circa mm. 0,2; son rarissimi i cristalli di più grandi 
dimensioni che raggiungono mm. 0,5 in larghezza e sorpassano 
il millimetro in lunghezza. A luce ordinaria questi cristalli si 
presentano opachi e torbidi per profonda alterazione, onde sì 
mostrano come disseminati di un'abbondante materia granulosa 
e fibrillare. A luce polarizzata non in tutti, in pochissimi anzi 
soltanto, è riconoscibile la struttura lamellare polisintetica per 
la ripetuta geminazione secondo la legge dell’albite, secondo il 
piano cioè 010; e ove essa si scorga sono 2 o 3 soltanto gli 
individui riuniti e non ugualmente sviluppati. 1 colori d’interfe- 
renza stan sempre nei tuoni grigi e bluastri e gli angoli di 
estinzione, assai grandi, non mai inferiori a 30°, valore che 
talora anche di poco sorpassano, mi spingono ad ammettere che 
questi cristalli plagioclasici spettino ad un feldispato basico, alla 
labradorete. 

Il pirosseno (augîte) è per la massima parte uralitizzato; 
fatto che indusse il CaseLLra a chiamare questa diabase anche 
col nome di epidiorite; non mancano però resti d’ inalterata 
augite. Essa si presenta allotriomorfa, siccome posteriore al 
plagioclasio del quale conferma quindi la basicità, tutta scre- 
polata e solcata da strie parallele, in scagliette cristalline irrego- 
lari di dimensioni variabili o in grani arrotondati, che hanno 
riempito i vani lasciati dai cristalli di plagioclasio. È incolora 
o leggermente colorata in verdastro con debole pleocroismo; 
ha fortissimo rilievo; e si riveste a nicol incrociati di vivis- 
simi colori d’interferenza con tinte gialle, rosse e verdi. Per 
comunanza di caratteri si potrebbe quasi scambiare per pe- 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 27 


ridoto e solo l'estinzione ad angolo notevole con le traccie dei 
piani di separazione fa riconoscere trattarsi di augite. 

Quando essa è trasformata in uralite acquista un fortissimo 
pleocroismo da un verde-biancastro ad un grigio-verdastro; ma 
ne diminuisce il rilievo, la vivacità dei colori d’ interferenza 
ed anche gli angoli d'estinzione vari per diverse lamine, general- 
mente fra 7° e 12°, certo non mai superiori a 22°. L’uralite, che è 
il minerale che predomina nella roccia subito dopo il plagio- 
clasio, ci rappresenta, insieme a pochi prodotti ferrici, il primo 
stadio d’alterazione del pirosseno ; uno stadio più avanzato è 
segnato dalla comparsa di sostanza cloritica, mescolata a pro- 
dotti ferrici molto abbondanti e più raramente a serpentino. 

La sostanza cloritica che, secondo il MarmRoLo (1), “ si trova 
costantemente in tutte le diabasi che presentano traccie di al- 
terazione ,, trovasi in lamine a struttura squamosa di colore 
verde sbiadito; ha pleocroismo appena sensibile e completa estin- 
zione a luce polarizzata. A questa specie, che avvolge e cir- 
conda l’uralite, fra le cui screpolature spesso anche s' infiltra, 
è dovuta principalmente quella tinta verde-cupa che la diabase 
assume in massa. 

La magnetite nera, opaca, lucente, è in cristalletti a sezione 
quadrata; ma più spesso in grani irregolari che raramente si 
uniscono a formare dei cumuletti. 

Rare in questa diabase sono /imonite ed ematite; quella in 
macchie giallastre disseminate sull’ uralite, cui spesso dà una 
colorazione giallastra; questa in minutissimi granuli di un rosso 
acceso vivo. E rari pure il serpentino, mescolato e confuso con la 
sostanza cloritica, e solo riconoscibile a luce polarizzata dai 
suoi toni bluastri e biancastri e la #itarite, cui ascrivo poche 
laminette giallo-brune con debolissimo pleocroismo e cou colori 
d’interferenza molto bassi. 


6) Gabbro rosso. 


Tal roccia, che fa pur parte della formazione ofiolitica del 
Romito, proviene da alterazione della diabase, dalla quale si 


(1) E. MarTIROLO. — - Intorno ad alcune rocce della Valle del Penna nell'Appennino 
ligure. Atti dell’Acc. dei Lincei 1886. 


28 E. MANASSE 


distingue macroscopicamente per la sua colorazione rosso- 
bruna, anzichè verde. Al microscopio, infatti, essa pure presenta 
la struttura diabasica dovuta ai microliti di plagioclasio diver- 
genti in tutte le direzioni; vi scarseggia però l'elemento piros- 
senico, il quale è sostituito, e molto abbondantemente, dai suoi 
prodotti di decomposizione, magnetite, limonite, ematite, special- 
mente quest'ultima, che dà alla roccia la colorazione rossa. 


III. — ROCCE SERPENTINOSE. 


o) Serpentina. 


Generalmente alterata e pochissimo coerente, qualche volta 
compatta ed omogenea, sempre di colore verde-fosco, la ser- 
pentina del Romito mostrasi aspersa di numerose masserelle 
pirosseniche a struttura lamellare con colore variabile dal verde 
cupo al verde-biancastro e con lucentezza sulle faccie di sfal- 
datura, ora marcata molto, ora appena accennata. È inoltre 
attraversata da sottili vene più o meno sinuose e con anda- 
mento irregolare di crisotile, facilmente riconoscibile pel suo 
aspetto fibroso, pel suo colore bianco-argentino e pel suo spe- 
ciale splendore. La frattura della roccia, quando essa non si 
presenti alterata, è scheggiosa; la polvere è bianca; il peso 
specifico infine varia da 2,48 a 2,50. 

Le sezioni sottili di tal serpentina, esaminate al microscopio, 
manifestano che la roccia ha, come tutte le serpentine perido- 
tiche, struttura reticolare con maglie assai regolari di forma 
arrotondata. La trama delle maglie (tav. II, fig. 4) è costituita 
da tanti nastri diversamente piegati, assai larghi e tinti legger- 
mente in verdastro; e la parte centrale di esse è riempita da un 
minerale in grossi frammenti cristallini di un verde intenso, non 
pleocroico e con rilievo; minerale che originariamente doveva 
essere peridoto, ma che del peridoto non conserva più alcun 
carattere. A nicol incrociati la maggior parte di quei nastri si 
colorano in giallastro, gli altri pochi in grigio-azzurrognolo e, 
presentando polarizzazione d’aggregato, impartiscono così alla 
roccia un bellissimo aspetto; mentre la sostanza impigliata nel- 
l'interno delle maglie si comporta come una sostanza col- 
loide; infatti, girando il piano portaoggetti del microscopio, ri- 
mane sempre estinta. In mezzo alla massa serpentinosa così 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 29 


formata, notansi in talune sezioni a luce polarizzata delle vive 
e intense macchie azzurre; colorazione che ZirkeL crede nelle 
serpentine dovuta alla presenza di minutissime particelle me- 
talliche distribuite in tutte le direzioni (1). 

Interposti alle maglie scorgonsi residui di un pirosseno tri- 
metrico, forse bastite, sempre però profondamente alterata in ser- 
pentino. Si presenta in assai grandi lamine cristalline a contorni 
irregolari (tav. II, fig. 4) e perfettamente trasparenti, solcate da 
tante sottili e ravvicinatissime strie parallele. Possiede tal pi- 
rosseno evidente pleocroismo da un verde-oliva, quando la stria- 
tura è collocata parallelamente alla sezione principale del nicol, 
ad un verde-giallastro, normalmente; e colori d’interferenza, in 
tuoni giallicci ed azzurrognoli, assai bassi. 

Non molto diffuso è in tal roccia il crisotile in forma gene- 
ralmente vermiculare e scarsamente rappresentata pure la ma- 
gnetite in vari e piccoli grani sparsi sulla massa serpentinosa; 
e ciò al contrario che nelle altre serpentine osservate, nelle 
quali e magnetite e crisotile prendono grande sviluppo, l'una 
annidandosi molto regolarmente intorno intorno alle maglie e 
attraversando l’altro in espanse vene la massa serpentinosa. 


f) Ofisilice. 


Quando alla serpentina si aggiunge la silice.la roccia appare 
allora formata da una pasta omogenea verde-biancastra a frat- 
tura irregolarmente scheggiosa, che è attraversata in qualche 
punto da grosse vene di silice. In tal caso la roccia assume 
una consistenza maggiore e un peso specifico pure maggiore 
uguale a 2,62. 

Al microscopio questa ofisilice presenta gli stessi elementi 
costituenti della serpentina, ai quali naturalmente si aggiunge 
la silice. Questa è sotto forma di silice opalina e di silice cri- 
stallina; l'una, completamente estinta a luce polarizzata, forma 
quelle grosse vene che attraversano la roccia; l’altra presentasi 
in aggruppamenti di cristallini a contorni corrosi, orientati in 
tutte le direzioni, con colori d’interferenza, ora gialli, ora az- 
zurrognoli; cristallini che mescolati intimamente col serpentino, 
scarso rispetto alla silice, formano con questo un minutissimo 
impasto, macchiato qua e là in giallastro per limonate. 


(4) F. ZirkeL. — Lehrbuch der Petrographie. 1894. 


30 E. MANASSE 


NEBBIAIA 


Serpentina. 


La massa di serpentina di Nebbiaia (23 chilometri circa a 
S.-E. di Livorno) ha una grande estensione e sviluppo; rag- 
giunge infatti in lunghezza circa 2 chilometri, ed è interposta 
regolarmente alle rocce sedimentarie terziarie, che costitui- 
scono 1 contigui monti. 

Consta essa serpentina di una pasta omogenea, ruvida al 
tatto, di colore verde-cupo traente al nero, ed è rivestita in 
vari punti da una sostanza giallo-verdastra steatitosa. Ad oc- 
chio nudo non vi sì possono scorgere traccie di pirosseno. La sua 
frattura è, come di solito in tutte le serpentine, scagliosa- 
concoide; la polvere ne è bianca; ed il peso specifico medio 
è di 2,55. 

L'esame microscopico svela che, quantunque anche questa 
roccia mostri struttura reticolare a maglie (tav. II, fig. 5) e spetti 
quindi alle serpentine peridotiche, differisce un poco dalla serpen- 
tina del Romito precedentemente studiata; e ciò principalmente 
rispetto ai minerali costituenti che sono in questo caso: serpen- 
tino, crisotile, magnetite, cromite, rutilo, oligisto; nelle prepa- 
razioni osservate non potei mai notare residui di pirosseno. 

La porzione esterna di ciascuna maglia (tav. II, fig. 5) è for- 
mata da un lucente tessuto fibroso, i cui lunghi, ravvicinati ed esi- 
lissimi filamenti si rivestono a luce polarizzata di colori bluastri 
molto chiari e, mostrando polarizzazione d’aggregato, si divi- 
dono in tante frappe, che, girando il piano porta-oggetti del 
microscopio, rimangono alternativamente illuminate ed estinte. 
Esaminati colla lamina di gesso quei filamenti risultano ot- 
ticamente positivi, avendo parallelamente alle fibre l’' asse di 
minima elasticità ottica; conviene quindi riferirli al crisotile. 
Essi racchiudono, avvolgendolo, un minerale minutamente gra- 
nuloso come disseminato di una polvere brunastra, che a forte 
ingrandimento si risolve in tanti piccoli grani scuri; tal mine- 
rale, a nicol incrociati, rimane costantemente estinto. 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 31 


Sui bordi delle maglie osservansi abbondanti particelle me- 
talliche nere, tenuissime, riferibili in gran parte a magnetite ed 
anche a cromite, secondo un saggio chimico fatto attestantemi 
la presenza del cromo nella roccia; l'una e l’altra depositatesi 
in seguito alla trasformazione della originaria roccia peridotica 
in serpentina. 

Quali minerali accessori sono a considerarsi rutslo e oligisto, 
ambedue frequenti, ma in dimensioni sì piccole che occorre 
forte ingrandimento per distinguerli. Il rutilo in cristallini di 
forma prismatica o aciculare se semplici, di forma varia se ge- 
minati, con grandezza variabile da mm. 0,01 a mm. 0,1, ha 
colore verde-giallognolo e forte rilievo. L'oligisto è in granellini 
arrotondati di color rosso rubino e trasparenti. 

Un accurato saggio chimico mi svelò nella roccia traccie di 
nichel. 

Unitamente alla serpentina di Nebbiaia va considerata una 
bella varietà di ranocchiaia, la quale si presenta con un aspetto 
zonato per l'alternarsi di strati paralleli giallastri più espansi 
con strati nero-bluastri meno sviluppati. L'esame microscopico 
fa riconoscere che il colore giallastro è dovuto a serpentino 
reticolare privo affatto di magnetite, mentre il colore cupo a 
serpentino mascherato completamente da grani e plaghe di ma- 
gnetite; cosicchè nelle sezioni sottili si hanno tratti che di 
questa mancan del tutto, interposti a tratti che ne sono in- 
vece ricchissimi. 

Per gli altri caratteri, sia pei minerali costituenti, sia pel 
loro modo di presentarsi, non differisce affatto dalla serpen- 
tina or ora descritta. 


39 E. MANASSE 


MONTE CORBOLONE 


Serpentina. 


È formata da una pasta molto compatta ed omogenea verde- 
cupa quasi nera, dolce al tatto, la quale mostrasi riccamente 
attraversata da sottili vene di crisotile con andamento parai- 
lelo. Abbondanti masserelle pirosseniche di color verde-chiaro, 
sfaldabili e lucenti sono disseminate inoltre nella roccia. Talora 
poi la serpentina è minutamente chiazzata in verde-biancastro 
(colorazione dovuta a serpentino privo affatto di magnetite), for- 
mando così una bella varietà di ranocchiaia. La frattura della 
roccia, tanto se si tratti di serpentina compatta, quanto di 
ranocchiaia, è scagliosa 0, per meglio dire, scagliosa-concoide; 
la polvere è biancastra; il peso specifico uguaglia 2,5. 

Ridotta la roccia in sezioni sottili ed esaminate queste con 
una semplice lente d'ingrandimento vi si vedono sopra un fondo 
giallo-verdastro delle venature nere principali di magnetite, che, 
ramificandosi ed anastomizzandosi in svariatissimi modi, formano 
una minuta tessitura reticolare. Tale struttura ancor più chiara- 
mente si appalesa coll’esame microscopico, pel quale, entro le ma- 
glie così formate dalla magnetite, vedesi impigliato (tav. II, fig. 6) 
un minerale torbido per profonda alterazione e opaco, che mostra 
colore giallo-grigiastro, non uniforme però, presentando mille gra- 
duali sfumature che gli danno un aspetto zonato; esso non dà 
indizio di pleocroismo, e, può quasi dirsi, non ha alcuna azione 
sulia luce polarizzata; sovente è circondato come da un nastrino 
di crisotile. 

Ma il crisotile, più che nel modo ora detto, si trova in vene 
che attraversano la massa serpentinosa (tav. II, fig. 6). Senza 
colore, splendente per riflessione, mostrasi a luce polarizzata 
formato da sottili e serrate fibre parallele, talora sinuose e 
spesso separate da filamenti di magnetite. I suoi colori d' in- 
terferenza sono alti nel verde, nel giallo, nel rosso. Il con- 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 33 


tegno ottico di sostanza trimetrica e positiva conferma la fat- 
tane determinazione. 

Il pirosseno al microscopio presenta tutti i caratteri della 
bastite. Le sue lamine cristalline, infatti, molto espanse ed irre- 
golari, frapposte e confuse nella massa serpentinosa, son for- 
mate apparentemente da tante fibre parallele, fra cui stanno 
dei minutissimi granuli, per la massima parte opachi e terrosi; 
sì presentano tinte in un verde pallidissimo con pleocroismo 
appena sensibile; offrono una certa lucentezza, se osservate a 
luce riflessa; ed hanno infine colori d’interferenza assai bassi 
(azzurrognoli ove sono meno alterate, giallastri e rosso-vinati 
se serpentinizzate) ed estinzione a 0°. 

La magnetite, notevolmente sviluppata in questa roccia, onde 
appunto la colorazione cupa che questa assume in massa, è al 
solito di formazione secondaria; e si distribuisce o in grani 
tenuissimi, quasi a guisa di polvere, allineati a formare l'in- 
trecciatissima trama del reticolato serpentinoso, o in plaghe 
maggiormente sviluppate in contatto del pirosseno e special- 
mente del crisotile. Presenta essa i soliti caratteri, si mostra, 
cioè, opaca e di un colore nero-azzurrastro a luce comune, 
mentre a luce riflessa si offre col suo caratteristico splendore. 
Se non che qualche rara volta in alcuni punti, e preferibilmente 
nelle parti periferiche dei grani, assume una colorazione giallo- 
rossastra, dovuta ad un principio di limonitizzazione. 

Unitamente alla magnetite va constatata nella roccia la pre- 
senza di cromite, a giudicarne da un saggio chimico fattone, 
saggio che mi svelò la presenza del cromo in questa serpentina. 

Sono inoltre presenti nella roccia traccie di nichel. 

Dai caratteri macroscopici e microscopici, che la serpentina 
di Monte Corbolone presenta, sembrami possa annoverarsi a 
quella varietà di ofioliti che il Savi (*), chiamava diallagiche, 
ma che il Cossa (?) più tardi riconobbe come bastitiche per la 
presenza in esse di residui di bastite, anzichè di diallagio, am- 
mettendo però possibile la derivazione di quella da questo. Alla 
stessa categoria appartiene pure la serpentina del Romito pre- 
cedentemente descritta ed anche probabilmente la serpentina 


(4) P. Savi. — Op. cit. 
(2) A. Cossa. — Ricerche chimiche e microscopiche. Torino 1881. 


4 E. MANASSE 


di Nebbiaia, quantunque nelle sezioni osservate di questa roc- 
cia non abbia mai trovato resti di pirosseno. Certo si è che 
in esse la mancanza assoluta di peridoto, dalla cui alterazione 
sono principalmente derivate, siccome dimostra la struttura re- 
ticolare che tutte presentano, ed i frequenti residui invece di 
pirosseno affermano che la trasformazione del peridoto ha pre- 
ceduto o per lo meno superato quella del pirosseno. 


Questo studio mi porta a concludere che le grandi masse 
di serpentina dei Monti Livornesi derivino da rocce peridotiche, 
anche se queste non tutte della stessa specie, come posson far 
supporre le differenze fra i minerali che accompagnano il ser- 
pentino. Ci fa però al tempo stesso riconoscere che anche per 
altra via può essersi originato il serpentino, che, come prodotto 
secondario, si trova nelle rocce feldispatiche (gabbri e diabasi), 
connesse alla serpentina stessa e nelle quali è evidente la sua 
derivazione da un minerale pirossenico, talvolta persino dallo 
stesso plagioclasio. Questi resultati sono d'accordo con quanto 
rispetto alle serpentine di questi stessi monti già avevano os- 
servato il Lorm (!) e altri, fra i quali giova ricordare il dott. 
BusammI (2) che constatò la presenza della Iherzolite fra le rocce 
serpentinose dei Monti Livornesi. 

Il carattere eruttivo di queste rocce sembra evidente dal 
loro modo di presentarsi e dall’ insieme di tutti i caratteri loro; 
e come eruttive le riconobbero Savi e MexecnINI che distinsero 
due eruzioni di serpentine, l’una diallagica (oggi bastitica) più 
antica, l’altra senza diallagio più recente, inquinata spesso di 
silice (ofisilice) e di carbonato di calcio (oficalce); ammettendo 
poi che fra i limiti di queste due eruzioni, dalla creta al mio- 
cene, fosse avvenuta quella dell’eufotide prima, indi della dia- 
base, da loro considerata come diorite (3). Come eruttive le ri- 
tengono anche De Sterar (4), Lori (9) e quanti altri seppero 


(4) B. Lori. — Contribuzione allo studio delle serpentine italiane e della loro ori- 
gine. Boll. R. Com. geol. 1883. 

(°) L. Busatti. — Della Lherzolite di Rocca Sillano (Monte Castelli) e Rosignano 
(Monti Livornesi). Memorie della Soc. Tosc. di Sc. Nat. 1889. 

(3) Savi e MeNEGHINI. — Op. cit. 

(4) C. De SreFANI — Rocce serpentinose della Garfagnana. Boll. R. Com. geol. 1876. 

(9) B. Lotti. — Op. cit. 


ROCCE OFIOLITICHE E CONNESSE DEI MONTI LIVORNESI 35 


apprezzare al loro giusto valore l'insieme dei caratteri, onde 
si distinguono da altre rocce della stessa natura mineralogica, 
ma di origine sedimentaria metamorfica. 

Il Lormi (*) ammette che l'eruzione sia avvenuta sul fondo 
del mare eocenico con successive fasi; avendosi avuto in una 
prima la lherzolite, da cui poi la serpentina, in una seconda 
eufotidi e diabasi. 

Le osservazioni del Lorri concordano con quelle dell’Junp (?) 
per la Scozia e l’ Irlanda, con quelle recentissime dell’ ing. Tra- 
verso circa le rocce ofiolitiche della Valle di Trebbia (3) e di 
molti altri per altri paesi. Il progresso degli studi, di cui si val- 
sero questi osservatori, fece modificare alquanto le prime ve- 
dute sui reciproci rapporti genetici di queste rocce e sulla 
loro costituzione e mutamenti sofferti; ma rimane pur sempre 
il fatto dell'eruzione quale già fu ammesso dal Savi e dal Me- 
nEGHINI. Gli aspetti diversi di queste rocce sono in gran parte 
dovuti ad effetti diversi di alterazione sofferta, alterazione i 
cui gradi appaiono in ragione dei precipui materiali che origina- 
riamente le costituirono, come l’olivina, i pirosseni, i plagioclasi. 

Mi basta di avere accennato questi fatti; sarebbe per me 
ardire se volessi addentrarmi ulteriormente in una discussione 
sull'origine e sull'età di queste rocce. 


Questo studio petrografico, presentato per tesi di laurea, 
fu compilato nel Laboratorio di Mineralogia della R. Univer- 
sità di Pisa; e al direttore prof, A. D’'AcHiarpi, e al dott. G. D'A- 
cHIARDI intendo qui esternare i sensi miei più vivi di gratitudine 
per il valido aiuto prestatomi. 


Pisa, giugno 1896. 


(4) B. Lorti — Descrizione geologica dell’ isola dell’ Elba. 1886. 

(2) B. Lortr — Paragone fra le rocce ofiolitiche terziarie italiane e le rocce ba- 
siche terziarie della Scozia e dell'Irlanda. Boll. R.° Com. geol.® 1886. 

(*). S. Traverso. — Sulle rocce della Valle di Trebbia. 1896. 


Se. Nat., Vol. XVI zi 


Fig. 


6. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA II 


Eufotide del Romito. Ingr. 22 diam. Nicol incrociati. Plagioclasio sili- 


cizzato e diallagio. 


. Iperstenite del Romito. Ing. 22 diam. Nicol incrociati. Plagioclasio a 


struttura lamellare polisintetica; iperstene ; sostanza serpentinosa. 


. Diabase del Romito. Ingr. 22 diam. Luce ordinaria. Microliti di pla- 


gioclasio rincalzati dall’augite uralitizzata. 
Serpentina del Romito. Ingr. 22 diam. Nicol inerociati. Serpentino 


nastriforme e plaghetta di bastite. 


. Serpentina di Nebbiaia. Ingr. 22 diam. Nicol incrociati. Serpentino a 


maglie. 
Serpentina di Monte Corbolone. Ingr. 22 diam. Luce ordinaria. Vena 


di crisotile con magnetite in serpentino reticolare. 


G. DDANCONA 


===> 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE 


DEGLI 


SCISTI GALESTRINI 


DI UNA PROVA DI DEBBIO 


IN ESSI ESEGUITA 


Jk 


Lo studio delle proprietà fisiche e della chimica composi- 
zione dei singoli terreni, che formano il nostro -suolo agrario, 
per quanto vada sempre più coinpletandosi, coll’ estendersi a 
molte varietà di essi, su non tutti pure è stato ancora condotto 
con giusti metodi di esperimentare, e. a mio credere, uno dei 
terreni che, sino adesso ha sfuggito alle ricerche degli studiosi, 
è il Galestro. Di questa roccia, pur abbastanza comune in 
l'oscana, ed in. special modo nella provincia di Firenze, non 
mi fu dato trovare nè analisi fisico-chimiche, nè chimiche com- 
plete, ma solo alcune sommarie, una, inserita nella Geologia 
del Monte Pisuno (*) del prof. Carro De SreFANI, compiuta dai 
dottori Funaro e Martini, altre due dovute al prof. Ewmrio Becxi 
e publicate nei suoi: Saggi di Esperienze Agrarie (?), ed in- 
fine tre del conte prof. Napotrone Passerini in una nota recente: 
Esperienze di concimazione del frumento nei terreni galestrini (3). 
I dati di queste analisi saranno esposti a luogo opportuno, ma 
non sono essi per certo molto corrispondenti ai resultati che, 
nelle analisi eseguite, ho ottenuti: reputo però non vada tal 
fatto ad altro attribuito, se non alla composizione chimica sva- 
riatissima, che anche al semplice sguardo apparisce, della nostra 
roccia. Persuaso quanto debba ad ogni buon agricoltore inte- 


(4) Memorie del Comitato Geologico Italiano, Anno 1876, Cap. I, pag. 94. 

(2?) E Brecni. — Saggi di Esperienze Agrarie Fasc. IX. Firenze, Succ. Le Mon- 
nier 1891, pag. 451. 

(3) Stazioni Sperimentali Agrarie. Vol. 28, anno 1895, pag. 737. 


38 G. D'ANCONA 


ressare di conoscere l’intima costituzione di ciò, che a lui porge 
vita e lavoro, deliberai di prendere ad esaminare gli Scisti Ga- 
lestrini, dedicandomi più specialmente a ricercarne la chimica 
composizione. Avendo poi avuta occasione di eseguire, sopra 
un terreno galestrino, una prova di Debbio, ho pensato a questo 
studio generale sulla roccia, di aggiungere i resultati ottenuti 
in tal prova speciale, che, ove divenisse pratica comune fra i 
nostri agricoltori, con poco dispendio, potrebbe ai nostri campi 
impoveriti, arrecare non insensibile vantaggio. Passerò adesso, 
con brevità, in esame i galestri mineralogicamente, geologica- 
mente e topograficamente. 


TIE, 


Come può definirsi il galestro? Ecco ciò che ne dicono gli 
autori: “ Pietra di diversi colori (per lo più rosso, bigio e tufaceo) 
“ che si fende in pezzetti e scaglie untuose e lucenti ,, scrive il 
Tarcioni- Tozzetti (1): “I Galestri sono una sorta di pietra in 
“ Toscana ed altrove, che si spicinano in piccolissimi pezzetti 
“e tirati su all’aere e al sole incotti e macerati dall’ acqua, 
“ ritornano a diventar pura terra ,, leggesi nel Trattato del So- 
DERINI (2): — “ Sorta di pietra composta di argilla mescolata 
“con carbonato di calce, la quale all’aria si sfalda e si riduce 
“in pezzi minuti e angolati , tale spiegazione trovasi al vo- 
cabolo “ Galestro, nel pregiato .Dizionario di Agricoltura Ca- 
NEVAZZI-MARcoNI (3); “ Schisti a sverze (Grieffelschiefer) contrad- 
“ distinti per doppia trasversale schistosità ,, scrive il prof. À. 
D'Acararpi nella sua Guida al Corso di Litologia (4) e nella sua 
opera di ugual titolo il prof. L. Bowgrccr (9) dedica un intero 
paragrafo alle argille galestrine, nel quale fa notare ancora i 
caratteri che le connettono colle argille scagliose da una parte, 
cogli schisti galestrini dall’ altra: infine tutti i geologi, ed in 


(4) TarGionI-TozzeTTI. — Relazione di alcuni viaggi fatti in diverse parti della 
Toscana, ecc. Firenze 1768-78. 

(2) Trattato di Agricoltura di Grovanvertorio SoperINI. Firenze 1811. 

(3) Canevazzi-MarconI. — Vocabolario di Agricoltura, Rocca San Casciano, Cap- 
pelli 1892. 

(4) D'AcnIARDI. — Guida al Corso di Litologia. Pisa, Spoerri, 1888. 

() BomBicci. — Corso di Litologia. Bologna, Zanichelli, 1885. 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 39 


particolare quelli che ebbero ad occuparsi dei terreni della To- 
scana, Liguria ed Emilia, nei loro scritti, con fini diversi, men- 
zionano la nostra roccia (!). E senza stare qui a riportare tutte 
le ipotesi emesse, le opinioni validamente discusse e sostenute, 
può concludersi che i galestri sono roccie sedimentarie appar- 
tenenti tanto all’epoca secondaria superiore, periodo cretaceo, 
quanto alla terziaria inferiore, periodo eocenico. Il colore ne 
è variabilissimo e svariatissimo: se ne hanno grigie. come le 
vere e proprie argille ordinarie, rosse, brune, violacee, gialle, 
bluastre, cenerino-verdognole, a seconda dello stato particolare 
del ferro, o del manganese o delle materie carboniose in pre- 
valenza mescolate. Notevole arrossamento come osservano il 
Savi e MenecHINI (2) degli scisti galestrini può anche dipendere 
da azioni metamorfiche cui andaron sottoposti e che contri- 
buirono altresì a renderne molto più dura la sostanza argil- 
losa: e qui anzi i due illustri scienziati si pongono la questione, 
se l’arrossamento sia causato “ per un cambiamento nel grado 
“ di ossidazione del ferro a loro proprio, o se per esservisi in- 
“ trodotta dose maggiore di questo metallo:, e poichè non 
viene data risposta a tale domanda, oso esprimere la mia re- 
missiva opinione, che cioè causa principale del fenomeno sia 
il primo fatto, cui essi accennano, senza però escludere che il 
secondo pure possa in minor misura contribuirvi. Nella scelta 
dunque dei campioni da sottoporre all’ analisi chimica fu mia 
cura di provvederne di colorazione diversa, come a suo luogo 
sarà esposto, per avere una conoscenza più estesa su questa 
roccia, che presentando proprietà fisiche abbastanza costanti, 
è di tanto svariata chimica composizione. Giova intanto non 
dimenticare di aggiungere, che gli scisti galestrini non formano 
già accumulazioni di grande estensione, ma sono come mac- 
chie, qua e là, disseminati nelle roccie eoceniche e cretacee 
in generale, intercalati più particolarmente colle Arenarie, col- 
l’Alberese e colla Pietraforte (Savi e MexeGHINI). 


JRE 


In tutta la Toscana abbiamo abbondanti formazioni di roc- 
cie argillose galestrine: mi fu dato di verificarne la presenza 


(') Estesa bibliografia può trovarsi nella Memoria del prof. G. TraBucco: Sulla 
posizione ed età delle argille galestrine e scagliose del Flysch, ecc. Firenze, Ricci, 1896. 
(2) Considerazioni sutla Geologia stratigrafica della Toscana. Cap. VII. 


40 G. D'ANCONA 


nei Monti Pisani (non troppo di frequente però, e specialmente 
verso Rigoli e Ripafratta) ed in quelli oltre Serchio della stessa 
catena, nei monti Lucchesi e della Versilia. In provincia di 
Firenze ve ne sono un po’ dappertutto, cominciando dal con- 
fine suo in Val di Nievole, e presso Pistoia, e a Montorsoli e 
alle Caldine, in Val di Mugnone, e sopra Fiesole a Burgunto 
e sul monte Magherini, e, sotto Firenze, nelle colline che fian- 
cheggiano il Valdarno Inferiore e in Val di Pesa, e sopra Fi- 
renze, nel Valdarno superiore, e nel Mugello sino alle vette 
principali dell'Appennino (ne ho visti depositi a poca distanza 
dalla cima più alta della Falterona e precisamente sopra a Ca- 
stagno). E finalmente nei Monti così detti “ Chiantigiani , tra 
il Valdarno di Sopra e l’ubertosa regione del Chianti, ne tro- 
vai roccie da potersi dire veramente #ipiche, e su tali forma- 
zioni di Cintoia mi termerò un momento a discorrere, come 
quelle che hanno fornito i campioni per le ricerche chimiche. 

Il prof. Gracomo Tragucco nel fascicolo I, del Vol. XV (anno 
1895) “ del Bollettino della Società Geologica Italiana , pubblicò 
una nota Sulla vera posizione dei terreni eocenici dei Monti del 
Chianti, in cui combatte le ipotesi stratigrafiche e le conclu- 
sioni dell'ingegnere Bernarpino Lor, nella sua Aelazione sul 
rilevamento eseguito in Toscana nell’anno 1895 dalla qual rela- 
zione apparirebbe che la zona dei galestri, ricoperta a tratti 
in discordanza da calcari policromi e screziati nummaulitici, che 
da Cintoia segue fino a Luculena, Dudda, Torsoli apparter- 
rebbe al Senoniano, e sarebbe sottoposta alle Arenarie. Non 
entrerò ad esaminare le due opposte opinioni, chè non sarebbe 
compito mio, ma accetterò senz'altro la conclusione del Tra- 
BUCco, come quella, che a me pure sembra più conforme alla 
realtà del fatto, e che cioè: “ gli scisti policromi (galestri) 
“con brecciole nummulitiche, intercalati con calcari che di- 
“ vengon nummulitici alla base, filaretti di calcare psammitico 
“ e strati scontinui di breccia cloritico-serpentinosa, talora ri- 
“ coperti da calcari varicolori e calcari screziati nummulitici, 
“ non si intercalano mai coll’ arenaria macigno, ma giacciono 
“ sull’arenaria stessa ,. 

Così da Figline salendo pel versante Valdarnese dei monti 
Chiantigiani, trovasi ad un quarto circa dell'altezza di tutto il 
colle, da me preso a descrivere, il Ponte degli Stolli, volgar- 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 41 


mente detto “ Ponte del Diavolo ,, il quale poggia sopra due 
masse di arenaria. L’arenaria continua in alto sino a Dudda, 
ed in basso abbiamo una zona dal Trasucco detta: “calcareo- 
argillosa-nummulitica ,, zona questa che seguita da una parte 
in tutta la vallata in mezzo alia quale siede Luculena, dal- 
l’altra per la valle di Cintoia (nel versante opposto che guarda 
Firenze) ne ricopre il fondo, e parte degli opposti colli sino a 
Mugnana e Strada. Il M. Moggio ed il M. S. Giusto sono i due 
monti in mezzo ai quali trovasi Cintoia: il primo è costituito 
quasi per intero dalla solita arenaria, intercalata cogli scisti 
galestrini, che ricoprono un non breve tratto della base, lungo 
il Borro, mentre se ne osservano a varia altezza qua e là altre 
più piccole macchie nel M. S. Giusto, nel versante opposto del 
quale si ritrovano in larga copia i galestri presso la villa Mar- 
zichi, sotto il M. Collegalli. E già prima, nel passo che da Dudda 
mette nella vallata di Cintoia, nel luogo detto Sugame, sotto 
la chiesa di Cintoia Alta, la strada, nuova, tracciata solo da 
pochi anni, attraversa per lunghi tratti formazioni galestrine, 
di tutti i colori di cui si abbiano esempi, ma per Jo più di co- 
lor rosso violaceo, tantochè tale colorazione ha pur preso il 
piano stradale. E questa formazione galestrina, tanto nella valle 
di Cintoia Alta (chiamando così, quella in fondo alla quale siede 
Dudda, ossia nel versante volto al Valdarno) quanto nella valle 
di Cintoia Bassa (così denominando quella all'altra opposta) è 
sempre adagiata in concordanza sul Macigno, e tale la si ri- 
trova nel Pian della Vite, a Nord di M. Moggio, e più a Nord 
ancora nel Poggio alla Croce, e sotto M. Scalari e all'Incisa, 
e, in parte affatto opposta, alla sinistra di Greve, presso Pan- 
zano, nei due versanti del colle, che si alza tra la Greve e la 
Pesa. E questo per dir solo dei luoghi da me stesso visitati o 
pei quali sono in questi ultimi tempi casualmente passato: ma 
se si volesse esattamente compilare una nota delle località, ove 
nei terreni cocenici dei monti del Chianti, si hanno formazioni 
di galestro, ben lunga sarebbe la serie, perchè molto di fre- 
quente se ne rinvengono. 


IV. 


I campioni prescelti da sottoporre all'analisi fisico-chimica 
e chimica provenivano da due località ben distanti l’una dal- 


492 G. D'ANCONA 


l’altra: gli uni da Cintoia, come già è stato detto, gli altri 
dal M. Magherini e da Burgunto, sopra Fiesole, dovuti alla 
cortesia del dott. Otinto Marinetti di Firenze, che gentilmente 
si incaricò di provvederli: senonchè il tempo ristretto mi ha 
permesso di esaminare solo i primi. Furono questi adunque 
presi il 28 febbraio 1895 nei terreni della Fattoria di Cintoia, 
di proprietà dell’ onor. march. Paolo Ricci, deputato al Par- 
lamento. 

Il campione distinto col n. 1 è una roccia color verde ce- 
nere, tolto da un deposito non piccolo lungo la strada maestra, 
presso Spedali, a forse un chilometro dalla Fattoria: nel disfa- 
cimento di esso, inferiormente, era assai in esteso coltivato il 
Giaggiolo: per buona precauzione non fu tolto alla superficie, 
ma, circa 20-40 cm. da essa. 

Il campione distinto col n. 2 è la terra nel suo strato col- 
tivabile, ossia sino ai 30 cm. dalla superficie, di un campo presso 
la Villa: il campo era allora a lupinella, seminatavi dopo il 
grano, usandosi nella Fattoria l’ avvicendamento quadriennale 
comune del fiorentino. La terra fina poi fu in laboratorio se- 
parata dallo scheletro, il quale, reso in polvere, fu esaminato 
a parte, formando il campione n. 3: sono entrambi di color rosso 
fegatoso. 

E finalmente il campione n. 4 è un sottosuolo, ossia terra 
dai 30-60 cm. dalla superficie, di color giallo-bruno, e fu preso 
in un campo prossimo a quello da cui fu tolto il n. 2, di iden- 
tica apparente costituzione: destinato a vanga, non era stato 
in quel punto ancor lavorato. 

Dalle informazioni gentilmente fornitemi dall’agente di allora 
della Tenuta, sig. Ulisse Fratticioli, ho potuto rilevare che tali 
campi non hanno mai avuto chimiche concimazioni, ma sempre 
letame di stalla, ed in quantità anche deficiente, dovendosene la 
massima parte destinare al governo delle piante, da cui nel luogo 
si trae il maggior profitto: per tal modo il campo, per così 
dire, n.2 da almeno due anni, e il n. 4 da quattro, non ave- 
vano ricevuto concimazione alcuna. E perchè i campioni risul- 
tassero normali, ossia corrispondessero alla media composizione 
del terreno, furono seguite le ben note regole: furono cioè sca- 
vati qua e là dei fori rettangolari della profondità di 30 cm. 
e da una delle pareti tagliate fette verticali, dalle quali, me- 


\ 


DELIA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 43 


scolate ben bene, fu prelevato il campione di circa kg. 2, che 
seccato all'aria e racchiuso .in sacchetto di tela, fu poi portato 
al laboratorio. 


MW 


Per eseguire l’analisi chimica e fisico-chimica era necessario 
poter operare su polveri finissime: ad ottener ciò, mentre nei 
campioni n. 1 e n. 3 bastò col mortaio rendere in polvere 500 
gr. di roccia passandola poi attraverso a staccino di rete me- 
tallica con maglie di !/4 di mm., nei campioni invece n. 2 e 4 
dovette separarsi la terra fina, che rappresenta la polpa dello 
strato coltivabile, dallo scheletro, od ossatura del terreno stesso. 
Tale separazione, pur essendo lavoro lungo, specialmente in 
terreni, come i nostri, argillosi, si fa facilmente, ponendo la 
terra in uno staccino, in cui cada un getto d’acqua lento e con- 
tinuo, sino a che, agitando bene con un pennellino di setola 
rigida, non cessa di trasportare materiali terrosi l’acqua, che 
si raccoglie in recipiente sottostante e che vien poi evaporata. 
La terra fina, come può vedersi dall’unita tabella, nel n. 2 è 
contenuta nella proporzione del 39 °, mentre solo il 24,5 % ne 
contiene il n. 4: se già bassa è la cifra del n. 2, bassissima è 
quella del n. 4. Nello scheletro non sono contenuti quasi af- 
fatto resti organici: per la massima parte è costituito da sab- 
bia grossolana e ciottoletti di natura prevalentemente silicica, 
perchè di essi solo una minimissima parte, che non fu neppure 
determinata, era solubile in acido cloridrico. Sarebbe stato mio 
desiderio sopra lo scheletro dei due campioni istituire indagini 
mineralogiche, ma dopo ripetute prove (nel Gabinetto di Mi- 
neralogia della R. Università) dovette rinunziarsi ad ottenere 
da essi una sezione, a causa della poca resistenza e della troppa 
sfaldabilità dei frantumi della roccia. Furono esaminate allora 
al microscopio le polveri dei quattro campioni, e in esse non 
fu dato rinvenire nessun carattere speciale oltre quelli marca- 
tissimi delle argille comuni, caratteri questi che apparvero an- 
cor più manifesti confrontando le nostre preparazioni con altre 
di caolino e di argilla pura, tolte dalle collezioni del Labora- 


torio. 


Se. Nat., Vol. XVI 3 


44 G. D'ANCONA 


I. — Separazione dello scheletro dalla terra fina. 
SCHELETRO No2 NET: 
Ciottoletti di diametro superiore a 10 mm. Gr. 45 80 
» » » a 5 » » 80 215 
» » » a 9 » » 280 345 
Sabbia grossolana inferiore . a 2 » » 205 115 
Totale dello Scheletro . . . Gr. 610 195 
‘Perrasfina ela e a 390 245 
Gr. 1000 1000 

VARE 


Analisi fisico-chimica. 


L'analisi fisico-chimica fu eseguita secondo il metodo dettato 
da Troporo ScaLòsine, ormai da anni accettato, e riconosciuto come 
più esatto di tutti gli altri per l’ innanzi (ed anche in appresso) 
proposti; nelle varie operazioni analitiche furono fedelmente se- 
guite le Norme per l’analisi delle materie di uso agrario pubblicate 
dal laboratorio di Chimica Agraria della nostra Università. 

La sabbia silicea, come può vedersi nel quadro della pagina 
seguente, si mantiene in quantità abbastanza uniforme nei primi 
tre campioni (dal 70,95 al 74, 23 °/,), mentre è assai più bassa nel 
quarto, in cui scende al 64,47 °/,, perchè in questo in proporzione 
degli altri maggiore è contenuta la sostanza argilliforme. Questa 
sabbia, separata colla levigazione dall’argilla, e seccata a 110° C., 
non cambiò gran che dal primitivo colore della polvere: all’ esame 
microscopico apparvero in essa frantumi informi, non cristallini : 
nessun carattere speciale si presentò degno di nota e di accurata 
osservazione. In questa sabbia, cui fu data la denominazione con- 
venzionale di silzcea, ma che è ben lungi dall’essere pura silice, de- 
terminai quest'elemento ed ebbi le seguenti quantità percentuali: 


NEI N. 2 N.3 N. 4 
63,12 63,56 65,32 67,92 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 45 


La sostanza argilliforme è in giusta quantità per la buona 
fertilità del terreno: varia dai 13,10 ai 16,47 %, nei n. 1-3, 
sale sino ai 28, 33 nel 4.°: il sottosuolo adunque è notevolmente 
più argilloso dello strato coltivabile. Raccolta in masse giallastre, 
quest’argilla era di apparenza lucida, untuosa al tatto, facile a 
rompersi: non presentò nessun frantume cristallino, esaminata 
con cura. i 

Di carbonati terrosi, determinati come carbonato di calce, 
scarseggiano assai tutti e quattro 1 campioni, e più quelli di terra 
che non i due di roccia: si va da un minimo di 1, 5 °/ nei primi, 
ad un massimo di 4,5 %, nei secondi. 

Pure in quantità non alta sono contenute le sostanze orga- 
niche, determinate per perdita a fuoco insieme colle materie che 
si volatilizzano al calor rosso: più ricco ne è il n. 4, in cui ol- 
trepassano il 5 °/: a tal cifra si avvicinano nel 2 e nel 3, rag- 
giungono appena il 3,7 %/ nel n. 1. 

E finalmente l’acqua igroscopica, la troviamo in quantità assai 
costante: non arrivando in tre campioni al 4 °/,, sorpassa solo 
di poco tal cifra nel quarto. 


II. — Analisi fisico - chimica. 


Nel IN? INAR3 N. 4 


Sapia silice ae ee. 74.230 | 71.120 | 70.950 | 64.470 
Sostanza argilliforme. . . ._. 13.102 | 16.470 | -14.840 | 23.230 
Carbonati terrosi i. . ce 4.502 1.800 3.900 1.534 
Sostanze organiche e volatili . . 3. 700 4. 860 4.940 5. 040 
Acqua igroscopica a 110° C. . . 3.300 3.900 4.540 3.940 


Sostanze non determinate e perdita 
(perdidrifenenza) NFRArRATA ZA 1.166 1.850 0. 830 1.786 


100.000 | 100.000 | 100.000 | 100.000 


VII. 
Analisi chimica. 


Contemporaneamente alle analisi fisico-chimiche vennero da 
me condotte a termine le quattro analisi chimiche complete 
graduate: fu possibile così conoscere la proporzione centesimale 


46 G. D'ANCONA 


di ogni elemento costituente del suolo, e in quale stato di mag- 
giore o minore assimilabilità ciascuno di essi si trovi. Poichè 
sappiamo che, sottoponendo la terra gradualmente all’azione 
di liquidi dissolventi acidi, dapprima deboli, poi energici, il com- 
plesso delle sostanze disciolte dai primi, ci indica la quantità 
delle materie prontamente assimilabili dalle piante, ossia la po- 
tenza attuale, mentre il complesso di ciò che vien disciolto dai 
secondi, ci rappresenta la somma delle sostanze di più difficile 
assimilabilità, o la potenza prossima del terreno, ed infine che 
ciò che non è attaccato neppure da questi ultimi può dirsi la 
riserva dei principî minerali. Come acido debole suole preferirsi 
l’acetico al 5 %, secondo il suggerimento del LieBie, come ener- 
gico il cloridrico concentrato bollente: ciò che anche a questo 
resiste, e che per la parte maggiore è costituito da silice, in 
varia combinazione, si determina operandone la disgregazione 
coi ben noti metodi del FresenIUs. 

Non sarà dunque inopportuno riportare in quadro speciale 
il complesso delle quantità da ciascun solvente disciolte nei cam- 
pioni, per formar subito esatto giudizio del grado di ricchezza 
delle masse, da cui furono essi tolti. 


III. — Analisi chimica. 


NS N22 Ni N. 4 


In 100 gr. di terra fina seccata al- 
l’aria si trovano solubili : 


Indacidogacencoga e50 Cene 4.116 2.597 3.144 2.641 
In acido cloridrico bollente . . . 25. 522 18. 642 22.247 18. 528 


29. 638 21.239 || 25.391 | 21169 


Come adunque si vede, più ricchi di materiali prontamente 
assimilabili sono i n. 1 e 3, roccia inalterata l'uno, scheletro di 
terreno coltivabile l’altro; meno ricco è il n. 4, terra presa al 
di sotto dello strato coltivabile, ove solo poche radici vanno 
ad attingere per il consumo delle piante, e più povero di tutti 
ci sì presenta il n. 2, tolto da un campo che da anni riceve con- 
tinue e regolari culture, non bilanciate da sufficienti concima- 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 47 


zioni. Giova avvertire che nelle cifre suesposte non vien com- 
presa l'anidride carbonica che si è svolta. 

Dovrei adesso senz'altro riunire in quadro generale tutti i 
dati nelle analisi raccolti: mi piace però innanzi riportare le 
cifre trovate da chi mi ha preceduto nello studio della roccia 
(pur non avendone avuto il diretto scopo), e ciò perchè, 
non essendo del tutto conformi a quelle che tra poco dovrò 
esporre, sono stato da esse, e per tal fatto maggiormente spro- 
nato a tentare nel presente lavoro di raggiungere la più scru- 
polosa esattezza, quanto mai necessaria in tutti gli studi spe- 
rimentali, e tanto più in questi. Non è mancata, posso pur dirlo, 
certo la buona voglia per riuscire, anzi oso sperare di esservi 
riuscito; quasi sempre solo la doppia prova mi ha deciso, nei 
casi di non assoluta sicurezza nell’ esito delle operazioni ana- 
litiche ho ricorso ad una terza ed anche ad una quarta deter- 
minazione ; giova tener sempre presente ciò che in principio ho 
avuto gia occasione di dire, che gli scisti galestrini, pur avendo 
caratteri fisici costanti, sono di svariatissima composizione chi- 
mica. Ed i risultati di analisi dei dott. Funaro e MarmINI, del 
prof. Becri, e del prof. conte Passerini, confrontati tra loro e 
confrontati coi miei, non potranno che avvalorare questo asserto. 


I. — Analisi dei dottori Funaro e Martini. 


(Dn STEFANI. — Geologia del M. Pisano (cap. V. pag. 94). — Memorie del Comitato 
Geologico Italiano, anno 1876. — Analisi di una roccia rossa di Galestro presa 
nel Monte di Ripafratta). 


IN 100 PARTI 


INCAUati ca n 000. Calce 0200 
SIERO 602000 Manet 080 
Ossidogferrico ere e 1985 Anidride carbonica . . . 1.000 
NI UDINE L35050, Perdita (per differenza). . 0.080 

100. 000 


II. — Analisi del prof. Emilio Bechi. 


(Saggi di Esperienze Agrarie fatte dal prof. E. BecHi. — Fase. IX, Firenze 
Successori Le Monnier 1891, Pag.451.— Sulla composizione dei terreni della 
provincia fiorentina e di qualcuno di altra provincia. Terra che proviene dallo 
sfacelo degli schisti galestrini, dove comincia il Valdarno Superiore, cioè presso 
il Pontassieve, sulla sinistra dell’ Arno). 


48 G. D'ANCONA 


all suprice - Stsuolo 
Acqua che si evapora a 125° . è 1 - 5 5 7. 100 1.830 
Materia organica e acqua a temper. super.a 125°. ; 14.009 | 12.572 
Ossido di ferro e manganese . o : . o . 4.350 3. 300 
Potassa . © 3 c o 3 0 o - È 0. 854 0. 933 
Magnesia . 5 o c ; 5 c 0 . : 0.011 0. 010 
Calce. È g : 5 3 ‘ ; : ; ; 12. 786 9.176 
Acido solforico e cloro . 2 : c 1 i traccie | traccie 
Anidride fosforica . ; ì È ; i 1 1 0. 121 0. 144 
Anidride carbonica . i 1 . 3 o : ; 10. 045 1.210 
Azoto in stato di materia organica azotata sotto forma 
di ammoniaca e di acido nitrico . - È 5 . 0. 388 0. 400 
Silice, allumina, soda, boro, vanadio e altre sostanze 
non determinate . . i ; è ; : } 49.706 | 58.425 
100.000 | 100.000 


III. — Analisi del prof. conte N. Passerini. 


(PASSERINI. — Esperienze di concimazione del frumento nei terreni galestrini. — 
Stazioni Sperimentali agrarie, Vol. XXVIII- Anno 1895. Analisi di terre col- 
tivabili di galestro rosso delle colline di Mosciano presso Scandicci). 


Per 1000 parti : A B Cc 
‘ Acqua. È 5 . a : È ; ; Go | 4507 13.40 
Sostanze volatilizzabili col calore È : ; —_ 165. 82 67.38 
Sostanze fisse. . . ; i ; ; i — 889.11 859. 22 
Azoto . : 4 : i È ; 5 ; — traccie ! traccie 
Anidride fosforica solubile in acido cloridrico ; _ ILILG 1.65 
Cloro . ; 5 È i A ; i, È — traccie — 
Potassa solubile in acido acetico 5 °/, . , - = 0.14 0.12 
» » cloridrico . i : —_ 5.00 7.03 
Potassa insolubile | È 5 , ; E _ 7.12 — 
Calce solubile in acido cloridrico . : : 8.48 13.18 7.73 
Magnesia . i " 7 i o 0 z 3.24 16 6.05 
Anidride solforica x 3 " , È » — traccie — 
Ossido ferrico . 3 ; - ; i ; 117.81 
Allumina RE 87.40 So 


Ecco ora, nel quadro qui unito, raccolti i dati delle quattro 
analisi da me eseguite: per esse pure furono seguite le Norme 
publicate dal Laboratorio di Chimica Agraria della nostra Uni- 
versità: solo per determinazioni speciali fu ricorso ad altri 
metodi, come poi verrà detto. 


49 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 


070 ‘e 076 ‘7 098 ‘7 00 a RT aa 4 (CINE 
eqrpiod 19d) I[1je]os o ogoraeSIO IZUEISOG 


860 ‘0 9TT ‘0 ot ‘0 CLIO) | POTRO NE i a 0 V101-010ZN; 
000 ‘001 000 ‘007 000 ‘00T | 000 ‘001 
G66 ‘9 180°9 G0g ‘G 993% Ir * (eZuOIOgIp 
Tod) eIIP19d 9 ITIQR]OA 9 OTITUESIO PZUVISOG 
076 ‘€ OFC 006 ‘€ 008 ‘€ ° “0 * ‘DO0TT è gordooso1S1 enboy 
892 ‘68 |967 ‘19/866 ‘ST|FIS ‘e || eLe ‘68 [630 ‘C9' 173 ‘egiLco ‘4 | se ‘06 |ere ‘so cr9 ‘st FFO ‘e | Fer ce [867 ‘60lzae ‘cala ‘L 
T00 ‘0 100 ‘0 || FTO ‘0 Foo | 180°0 | TE0°0 | 200°0 100°0 | * 0 ®zI0 219 ezuosogI( 
69. ‘68 GIS ‘e || 18€ ‘68 TCO 4 | 66806 GL9‘8 | 15766 Ter. 
ELI T FLIT | L06°0 106 ‘0 || 8L0‘T 8L0‘T | 08° ceogfe |} © © * ISBIIOAS 
i BITTO ILI OPIIPIiUYV 
To e FI e 166 48 9IL 
700 ‘0 700 ‘0 || 190 ‘0 190 ‘0 | 981 ‘0 9er ‘0 | ogo0‘0 CER a 010] 
Gee ‘0 087 ‘0 (GL0‘0 || 8T1e‘0 915 ‘0 |Gor ‘0 || €64 °0 ecc °0 logt‘o || #19‘0 ceco [ago | © * 01103807 « 
877 ‘0 8100 (0x6 ‘0 || 8LL‘0 #eg‘0 |F87‘0 | GI8°0 808 ‘0 \poc‘o || 1.8‘0 810 [eLT°0o | * > BonOX]oS : 
e8 ‘LG (FRt ‘LG 9T 0 [ALT 0 | saa‘ge (696 ‘TS/89T ‘0 |160°%0 | 090°09 |gLx ‘66 080‘0 (gog ‘o | OTL‘27 |0ogc‘17'sor‘0 Igloo | © © eorHIS oprapruy 
IIIEI ei ROLLE a 96 ‘0 — meo = || 8530 = 0 919924] — | som — * osoueSuguI « 
9eg ‘e |108°8 (688°0 (09T°0 || coofe |89€° |TTe"0 (910 || FL9‘T = |peo°T (erro Ispr'o || esca [egL't [erro (orr'o | | © * otpos « 
Gees |Tmg a [se ‘o |oro‘o | Fece |Lg0°%8 [ecw'o 8L0%0 | 968° [osa (oxg‘0 logo‘o || seL‘4 (Foe'e (eTF‘T (cco'o | | * 0188e30d < 
9937 (8FO"G (GOG CT |9TE‘0 | EIEF FEO" (GET [LLE “O | 969°9 (03S%E (08L'6 l96g‘o | 67844 [861° (964° (ego | © orumumIte po < 
Wei 86850, ISGSEI | sel <il [0991 E ore L00) ESGSGl è NGN 9EG0 SERI ne 
6990 (0980) — mol gegt (FILO) — geco gtmg0 |6L60|) — ego | 0861 |woxT} — 9.60] © © osozog « 
899‘T |LEL°0 [888°0 (e60‘0 | EGF'T  |F69‘0 [Leg ‘o (gog fo || TIT'TT [oxg'o (Teg°o loxg‘o | eLe‘a [8FIÙI [eL6°I (6FI°O | | oIs0uSem 5 
1846 |968°%0 |ewe°o |geg‘o || 686‘ |T9T‘T |ess‘0 (ere ‘o | TTT‘a  |[oso°T (T97°0 (oxc‘0o | FFe‘+ [99640 [ope ‘IT (gg9‘a | | * * @oreo ip opisso 
2 | BU8N0I | °/o$ > | 0909 | os = | AU90I] og 2 | iuaog| og 
= (0ONDIO]I| 00M = |09NIPIIO]O] 0911992 = E |09]IPIIO]9! 0911992 233 |091JPILO]9| 0911992 
enIssa]duoo | =. vASsIduoo | = VAISS9]dU0I | vAISsAIdu0I | =. 
SE | Op | ope SE | ONE | 0po SE | oo | oper RA I 
BIOS 3.5 BIOS SS BIOS SS BIOS SR = ae Rogi BILIE IT BI?999S 
2.= | UI ITquIos =.= | UL MqnIos 2. | I HquIos =.= | Ur TquIios È 
ESSERE pe = = A La a IDE VI10) IP ne 00T UI 
9191jJ9dNs eIjeD Ti 09 IE 0g IEP 0j0nS07108 LN Lp) 019|2U9S "91J19ONS E||Ep "9 0g E QUIS AjigRANIOO EJIBLI| 9191JI90NS EJED "9 op IE 0Z IEP CIOSOY 
°NI NI 3 °N IL N 


*TUTIISO[EY TISTOG T[Sop eorum QuorzisoduIO]) 


50 G. D' ANCONA 


Giustamente adunque, e nessuno osservando un po’ con cura 
il quadro generale presentato col maggior dettaglio possibile 
nelle due pagini precedenti, può riceverne diversa opinione, 
sono tenuti i terreni galestrini in buon conto dai nostri pra- 
tici agricoltori, perchè provvisti assai ed in equilibrata propor- 
zione, dei materiali di immediato e necessario consumo per la, 
vita delle piante da noi coltivate. 

Sono in special modo a sufficienza provvisti di pofassa, e se 
anche dai presenti campioni non ne risulti che una minima 
parte in stato di pronta assimilabilità, non ne è però affatto 
temibile l'esaurimento, perchè anche quella che trovasi in com- 
binazione di silicato insolubile (che nel caso nostro va da un 
minimo di 2, 3, ad un massimo di 8, 5 °), col tempo finisce 
per disgregarsi e rendersi attiva, somministrando così per lungo 
periodo di anni a poco a poco sali potassici solubili alla vege- 
tazione. Non saranno perciò, almeno per gran tempo, mai ne- 
cessarie in questi terreni concimazioni chimiche potassiche, le 
quali anzi, da esperienze ripetute dal conte prof. PasseRINI ri- 
sulterebbero affatto “ inattive ,. 

In larga copia sono pure i galestri provvisti di anidride 
fosforica: solubile in acido debole non ne risulta gran parte, 
solo da 0,07 a 0.12°/%,in confronto della quantità veramente 
notevole che dall'analisi ci apparisce attaccata dall’acido più 
energico: per certo molte culture potrebbero sempre attingere 
da questi terreni acido fosforico, senza aver dubbio di un pos- 
sibile esaurimento. 

Bassa è per altro la cifra dall'analisi attribuita all’azoto: 
non deve però ciò far meraviglia, perchè nelle terre ben poco 
sempre se ne trova, meno ancora nelle roccie inalterate: ma 
a tal mancanza può facilmente rimediarsi, ove si giudichi non 
provveda bastantemente la natura. 

Deficienti sono apparsi ancora i campioni di calce, e se un 
poco più ne contiene il n. 1, poco men che privi ne sono gli 
altri tre, considerata la quantità che suole esservene sempre 
nelle terre e l’importanza dell'elemento. Quasi quasi avrei cre- 
duto ad un possibile errore di operazione, se ad ugual resul- 
tato non fosse giunto il prof. Passerini, che pure ha dovuto di- 
chiarare i galestri “ poveri in calce ,. 

Ho voluto inoltre ricercare in qual precisa quantità si tro- 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 51 


vasse l’ossido ferroso, tanto nocivo alla vita delle piante, vista 
la grande proporzione percentuale che nel galestro ha il ferro, 
e l'operazione fu eseguita secondo il Korxis, (*) ossidando 
cioè l’ossido ferroso disciolto in acido solforico al di fuori del 
contatto dell’aria, con soluzione titolata di permanganato po- 
tassico. Non è resultato però mai in tal copia da dubitare 
possa recare disturbo alle coltivazioni: più alta che nei rima- 
nenti campioni ne è la cifra nel n. 1, come il colore stesso 
della roccia indicava. 

L'allumina fu separata dal ferro secondo il metodo di CnanceL 
(Fresenius $. 160-84) facendo lungamente bollire la soluzione 
acida dei due metalli con iposolfito di soda. 

Sugli altri costituenti determinati nulla sembrami meriti 
speciale considerazione: magnesio, sodio, manganese, silice, solfo 
e cloro presentansi in quelle quantità normali in tutti i terreni. 
Oltre a questi elementi, solo qualitativamente, ho ricercato 
bario, rame, litio, stronzio ecc.: all’ analisi completa, eseguita 
seguendo il Metodo di analisi qualitativa dei professori TAssmari 
e Antony, solo nei n. 2 e 4 ebbi chiara la reazione del rame: 
campioni ambedue tolti da campi con piante trattate con rimedi 
antiperonosporici, non può giudicarsi se ad essi possa attri- 
buirsi l’aver trovato tracce di quel metallo. 


VIII. 
Prova di Debbio. 


Terminata appena l’analisi del campione n. 2, di terra col- 
tivabile tolta da un campo, ove i filari di viti erano distanti 
da tre a cinque metri l’uno dall'altro, come è uso in quelle 
colline dei dintorni di Firenze, nelle quali dal vino si trae il 
maggior profitto, mi venne sott'occhio la pubblicazione: Delle 
vigne e della Cantina del Senatore De Vincenzi, in cui assai 
in esteso vien trattato dell’ efficacia del Debbio per rendere so- 
lubile quella parte di potassa, nei terreni in combinazione in- 
solubile di silicato. 


(‘) Koenio. — Die Untersuchung landwirtschaftlich und gewerblich wiehtiger 
Stoffe. Berlin. Paul Parcy, 1895, pag. 45. 


592 G. D'ANCONA 


Volli tentare io pure la prova, e in quei terreni stessi già 
esaminati per lo studio generale degli scisti galestrini, ricchis- 
simi di potassa, specialmente di silicato potassico, fiducioso di 
non star per fare cosa del tutto inutile per la nostra pratica 
agricoltura, ove, riuscita a bene l’esperienza, i risultati di essa 
potessero essere una conferma, per quanto lievissima, ma pur 
sempre una conferma, in aggiunta a tutte le altre, dei buoni 
effetti che potrebbe arrecare ai mostri campi impoveriti l’ ab- 
bruciamento dell’ argilla, se l’uso ne divenisse comune. Illustri 
scienziati già si occuparono di questa importante pratica, come 
per citarne solo alcuni, il Dawy, il Darwm, il Lampapius, lo 
SprenceL, il LieBie, ma lo studio più completo sull’ efficacia. 
delle argille bruciate, come concime e come correttivo, perchè 
influisce ancora sulle qualità fisiche del terreno, lo dobbiamo 
al VorLcHeR, il quale nelle sue esperienze sottopose la terra a 
vario grado di calore e per diversa durata di tempo. Non ripor- 
terò qui tutti i dati nelle sue prove raccolti, ma i soli riguar- 
danti la potassa, che nell’argilla allo stato naturale trovavasi 
al 0, 250°, salì con leggiera combustione sino al 0, 941 °/, men- 
tre un calore maggiore ne rese solubile minor parte: si ebbe 
02 e NOA 

in Toscana il Debbio è conosciuto da un gran pezzo e rac- 
comandato nelle sue lezioni anche dal march. Cosimo Ripotri 
(Lez. VI), ma ha pur troppo ben piccola applicazione, e stimo 
bene dire purtroppo, perchè in molti luoghi ove il terreno sia 
di per sè poco ferace, i trasporti dispendiosi, i proprietari non 
vogliano o non possano fare grosse spese, potrebbe essere util- 
mente tentato. Col Debbio, oltrechè vantaggio dall’ abbrucia- 
mento dell’argilla, altro se ne ritrae, non grande, ma pur sem- 
pre non trascurabile, dalle ceneri del combustibile adoperato. 
Nelle vigne e nei campi vitati sarà necessario seguire l'esempio 
del Senatore De Vincenzi, il quale si serve dei sarmenti delle 
piante del campo stesso: viene così ad essere reso più lesto ed 
economico il lavoro, non dovendo provvedersi al di fuori il 
materiale da abbruciare. 

Il Debbio, di cui presenterò i risultati, fu eseguito a Cintoia 
il 16 settembre 1895: a stagione così inoltrata non potendosi 
usare per combustibile tralci secchi di vite, dovetti conten- 
tarmi di adoperare fastella tratte dai vicini boschi, costituite 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI 53 


per */5 da scopa, pel rimanente da querciolo: per un quintale 
circa di terra debbiata occorsero tre fastella del complessivo 
peso di Kg. 25. — A Cintoia un vero e proprio Debbio non 
era mai stato fatto, e persino se ne ignorava il nome: solo 
nei disfacimenti di boschi, prima di seminare la segale, sogliono 
riunire le piote erbose ed abbruciarle e ciò chiamano “ cotto 
per la segale , ed altro non è che una leggiera perfezione del 
comune “ fornello , conosciuto da tutti e col quale in generale 
si abbrucia la gramigna nei campi. Devesi notare che in un 
terreno di galestro, punto compatto, il Debbio non poteva 
troppo bene eseguirsi: nondimeno il lavoro fu fatto osservando 
le buone regole quanto più le condizioni permisero, e, lasciato 
che il fuoco si mantenesse lento per parecchie ore nella massa, 
quando questa fu raffreddata, e rimescolata ben bene, ne fu 
prelevato un campione di Kg. 3, che racchiuso in sacchetto di 
tela, fu poi portato per l’analisi in laboratorio. 

Qui cominciai col separare, nel modo già esposto, la terra 
fina dallo scheletro, e del carbone frammisto la parte che potè 
polverizzarsi andò ad unirsi alla prima, 1 pezzi più grossi rima- 
sero nello staccino collo scheletro: si ebbe da un Kg., prece- 
dentemente pesato e seccato all'aria, di terreno, solo il 27, 5% 
di terra fina, come dal seguente quadro può rilevarsi. 


Ciottoletti di diametro superiore a 10 mm. . gr. 15 
» » » 5 » . » 65 
Scheletro 
» » » 9 » o » 340 
Sabbia grossolana inferiore . D ì » 305 
Totale dello Scheletro 5 : gr. 125 
Terra fina. , È È 6 » 275 
gr. 1000 


Lo scheletro fu pure reso in polvere a costituire il cam- 
pione n. 2 per le analisi fisico-chimica e chimica, mentre col 
n. l fu distinta la terra fina. 


54 G. D'ANCONA 


Analisi fisico-chimica. 


Ecco i dati raccolti nelle analisi fisico-chimiche dei due cam- 
pioni: ad esse non pongo a confronto, come farò poi riportando 
le analisi chimiche complete, i risultati già conosciuti delle 
stesse terre senza l'azione del fuoco, perchè dal confronto qui 
nulla apparisce: del resto basterà, per chi voglia, andare a 
pag. 11 ed osservare le analisi dei campioni 2 e 3 rispettiva- 
mente coi n. 1 e 2, riflettendo che la proporzione percentuale 
è in questi alterata, pei resti di carbone rimasti nel terreno, 
che hanno fatto raddoppiare quasi la cifra determinata per le 
sostanze organiche. 


N..d N.52 
Sabbia silicea. . . È 5 " : - € 69.410 | 68.970 
Sostanza argilliforme . ; î 5 È 5 - 15.020 | 13.980 
Carbonati terrosi . È o 2 ; : . : 2.180 3.380 
Sostanze organiche, volatili e carbone . ò o . 8.180 1.580 
Acqua igroscopica a 110° C. ; . - 5 : 3.540 5. 340 
Sostanze non determinate (per differenza) . . c 1.670 0. 750 

100.000 | 100. 000 


Analisi chimica. 


Nelle quattro pagine che seguono son riunite le cifre ottenute 
nell'analisi chimica completa graduta dei due campioni di ter- 
reno, sottoposti al Debbio: accanto pongo, per più facile ri- 
scontro, le analisi degli stessi terreni, prima di essere abbru- 
ciati. Nelle prime due pagini le cifre son riportate tal quali 
risultarono all’ analisi, ma poichè, pei resti della combustione, 
come già notai, rimasti nel terreno, la proporzione percentuale 
verrebbe ad essere assai alterata, nelle pag. 23-24 son ripetute 
le stesse analisi, come se la sostanza organica e volatile (de- 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 55 


terminata per perdita a fuoco al calor rosso) non fosse aumen- 
tata: le cifre così modificate non risulteranno per certo esat- 
tissime, ma l'errore commesso sarà ben piccolo, e più evidente 
al confronto riuscirà, ciò che era scopo precipuo, a dimostrarsi 
l'efficacia del Debbio sulla potassa insolubile. Non stimai ne- 
cessario riportare i risultati ottenuti anche come generalmente 
si suole, a 100 di sostanza seccata a 100° C. perchè nell’ una 
analisi, dopo il Debbio, l’ acqua igroscopica è in quantità mi- 
nore, nell’ altra invece maggiore, con differenze però sempre 
poco apprezzabili. Nella cenere del combustibile adoperato volli 
determinare la potassa, per conoscere esattamente ad esso qual 
parte dovesse attribuirsi nell’ aumentare, dopo il Debbio, del-* 
l'elemento e ne trovai solo il 0,078 °/: cifra non alta invero. 


t) 


D ANCONA 


G. 


56 


08T ‘8 
760‘ 
000 I 9TT ‘0 098 ‘4 Si 
‘ © . ù 
000 ‘ T90 0 tqIipiod 190d) 1jr (000nj V 

Sa DOAOOI 000 ‘00t SOT ‘0 SEMI, TAL ‘auprUeSIO oZUEISOG 

980 ‘9 000 ‘00T * © 912309 090zy 
ope ‘G 816 ‘8 
oa Ore 4 a GOCLG EA REI ARI ci 

} ‘ seas 7G ‘ (EZzuo. 

8 [gge‘09]sLo‘Telp.e ‘7. | #LE‘68 [680° SE a i TELO I a ad) erprad 
600 ‘0 69 176 ‘ce|8€0 4 | Gra ‘18 |c1e‘c9 R6L‘611966 ‘8 | 86L°06 ° © "50 OTT tordoosox8 tnboy 
dallo 6000 €10 ‘0 —__- = i 18666 || 862 06. |GIG ‘99 759 ‘SI 159% : DATA 

Ma ‘ ‘ O | 7600 | 
6II‘I e PIRe9 Teo | 92 °28 7€0°0 | T80°0 Dna 
6 . 
dl 10670 | 896°0 — ee (000 Go 
ss _ FOGSE 896 ‘0 || SLOT na 
FO ‘0 E I E TP eo E 
ro‘ ‘ Aa ‘ ISEIOAS 
97 ‘0 i » T90 0 mole TODHG: ; BITUOQIBI OPIIPITY 
‘686‘0 (920°0 | 81e‘ 00 | sr 0 169‘ 
0£9‘0 LEO 917 ‘0° g0r* Gar ‘0 | 9er‘0 a 
GIG ‘0 (8I7 0 || SLL' TO, 867 0 ‘ ‘ DEroi Arras 
€07 ‘67 alta O 165‘0 187° 15g‘0 (T60°0 | €e7°0 ‘ * 03019 
690‘67 IST ‘0 \geT‘0 | 866° Oo ‘O [vr geg'o 08r'0 ||‘ 
do = c3‘c (696 ‘T6 891 °0 160° 9eg ‘0 [PIP ‘0 | g18‘0 RN 
Cie T60°0 | E69‘6G (000 ‘GG ege‘ 808‘0 \pogto | | * 
SRO IO 968 ‘0 SAR egezg‘o (008°0 | 090409 |zLL‘66/080° GO LILIOF]OS « 
6 G PA ‘ oro 
96748 \968° La da c00 ‘E |898 ‘8 TTE‘0 (98r°0 LE ai Wi | È si RIE SR 

‘ (6330 || FEG‘E | 668‘T FOS'O (GGT* — | osouesuguI 
T08°‘G |69T°G Festa (B68‘0 | €964 = 6Er‘o \8L0‘0 | LI6*G  \FOF'2 LIGOO na da MO ZO AEON 3 

AR ( N Si 3 izer ‘a Le ‘0 | ege* 968%. \0gGi ‘ $ ' € 
009 LT q866%1 186 YI ea, LT (grit |109°%9T| — 666 7 TLT‘ [967° (963‘0 | 969% So ORECO 960 ‘0 + orsseJod È 

‘ — |[er900| aes ‘ { IZGL = n, 081 ‘3 (96840 | “  OTUTUI 
OGF‘T |FIL'O etp‘o [Testo | ee I ano io | 19E ST Q6I0T Di Tp9 ‘eT |Ltw'0 (esteri — |" ce een 

‘ | T66 0 | GG I Ù ni ( ‘ T 09 
este |T9g*1 ‘896° 769 ‘0 |L6g ‘0 |g98‘ ‘ FO7 ‘0 | 8T8‘0 ‘ Huog  < 

9E‘T 8960 (098‘0 | 686 ‘6 ‘ ; G9E‘0 | GET |I8Y'0 (8860 5 ‘ 60.00) i PESO] PSOne 
OTT legg‘o [creo || 96e‘z i o 98g‘0 || TOL'T |ope'o |182°0 \oFe* Lor « 
“Xx aa O O UPDATE 
enssopiuoo | SÈ |OWpLONO] 0onaDe = | BAIA | "os 19 ‘0 01640 | ‘ © ‘orotto Ip OpIss 
S= | ope | on ‘enissogduoo | È |0OMPLOI, 0on20e SOR "o$ =  |#aoy] ° ne 
us | EE | S| SS | onge | on vuissaguoo | ES (ORI DIA SE O a 
a sE |— LS Si I DILIPLIaJO] 0ona08 
33 | wu mam =È S3 — SE 
na a TquIOS SZ | ut I[rqntog BUIUOS S$ dani 2& OpIOP | ODIO OZUVISOG OUBAOIY IS 
e (VERS ES Si ù = na Ss 
otqqe( Ir odop 01Jo104o FS i I ITIqu]os SÈ | wi quo LIE IE eIeo9os 
1PS || otqgoq Tep gwrid 0199]9Y9 MERE RS 3 LCOS 
I YO | otqgeq II odop ug erro Pa RELA 2110) IP ‘18 001 UT 
1qqO( 10p ewIId ug eI1IOL 


©-———i;—T———6—————@2##yTtÉnu@upergoec<@ 


‘0UTquesoTI Iquergo [ou 
IU) T0u (eperzg ossoId) eroquIig TP OUTIJSO[ES OUSIIOI 
I un IP 0IqQqe( TP BAOI 
bo ° dI 


be 
le) 


» 


DELLA CHIMICA COMPOSIZIONE DEGLI SCISTI GALESTRINI ECC. 


076 4 0764 | 098% OBSER  (000IF E 
eqpiad 10d) me]oa 0 agorueSIo AZUEISOg 
6IT ‘0 OTT ‘0 €90 ‘0 COL ‘0 ia o TOO OZ 
000 ‘001 000 ‘00T | 000 °C0T | 000 ‘00€ 
\ 
696 ‘9 980 ‘9 | 06g‘G GOg8 ‘G "®© © *(ezuoregip 19d) egrpiod 
‘ ‘ | 9 Quogqreo ‘ITQUIioa ‘oqprueSIo eZUEISOg 
For ‘G 07G 7 GLI ‘8 006 ‘8 "> 5 7 9 o0T1 ® to1dooso181 enboy 
186°88  |960‘79/889‘T6 8677 | FL ‘68 (eso ‘eg'n7z‘zz'se0 ‘4 | eL9°06 [181 ‘99/687 ‘07 8904 || 861 ‘06 |gIC ‘89/79 ‘81779 %e 
OT0 ‘0 010 ‘0 || g10°0 ‘€10 °0 || 9€0°0 9e0°0 | TE0°0 TE0°0 | * 09210 24 ezuosogig 
176 ‘88 + 80G*F | L08‘68 Teo | FIL ‘06 FOT 4 | 668‘06 c19 ‘e 
fe TSTT | L06°0 1106 °0 | 800°*1 ‘00 °T || 8.061 gL0°T | © © ‘ ISEIoas 
| BIIIOIVI QPIIpIiUYV 
1108‘ VIE TOT ‘€ 1668 
770 ‘0 FO ‘0 | 190°0 190 °0 | L9T°0 Let ‘0 | 9er‘0 IEP a «* 0100) 
6.7 ‘0 007 ‘0 6L0°0 | sTe‘0 9I7 ‘0 ‘or ‘0 | EGF‘0 66°0 F60°0 || ecp‘0 ‘ecc °0 logr‘o | ©’ BO110FSOF « 
1790 LI6°0 084‘°0 || 82‘0 Fee ‘0 (787 ‘0 | L8L°0 :89€ ‘0 (617 ‘0 || g18‘0 808 ‘0 oc ‘o |“ * goriogTos « 
cE8 ‘09 |T8F(0S9ST'0 8T°0 | sez‘zs (696‘19 8910 IT60°0 | 9€9°LS |T66‘96FE8‘0 [TTE ‘0 | 090‘09 |zLL65080%0 Igoz'o | © © vormors eprapray 
168 ‘0 =. soi = eo — |oeg‘o| — || 098°0 i 0950, a ego — i‘gez‘o|) — | oseueSuew « 
660° [SLI "E (099°0 ‘18T°0 | coofe = [898‘ |TTS°0 [gar ‘o | Lea. leeg‘T [age‘o (Tor ‘o | 719°T = {F8O‘t (arto (errto | | © * orpos 
9666 [616° [T88°0 9eg'o || pese ILeo‘e (ecr‘o (sLo‘o | azo*e = \Te7 "a (8ce‘o Ieoz'o | sese [oze' ‘ore‘o lgeo‘o | | ‘* orssegod È 
1v6'G  laee‘G [L09%a gor'o | 944 peo‘e (ger‘a [nzefo | core loeg‘a [186° (cog'0 || 969% |oze‘z log‘ 96g‘0 | > omne Ipo <« 
\8I7GI — ; È i = i = ; ‘0 733° = pe 2 c 
cot ‘81 } (200%) Da E A O cog‘at logo 368? FI — | mor (Ltw'0 reset 091119] 
— 6690 | 6861 |IL'0o|] — 78180 870) ES TRSO A eco, ea era e osorior e 
097 I (per'o [Ler ‘o ego | eer't Feo‘ [Lego [goe'o | Fea't o [g6r‘o [9680 [oox ‘o | T9T°T  |ore‘o [rge‘0 [oxz'o | + orseuSew “ 
086° (007 ‘T |966°0 #88°0 | 686‘ |T9T°T [£88‘0 (ere‘o | GI7‘E ‘orG‘o [908°0 (ez9‘o | TIT‘Z 080° (T97°0 [oLc'o | © * ‘ororeo tp oprsso 
3 | Aualoa| °/og 2 | YU900 | °og = | 8ualog| 9/06 = YU | “09 | 
PAISSA]dUO9 SS (09K4p140j9 DINI | VAISSOIdU09 ss 0914pI10|9. DINIIE. PAISSA|dUIOI SS DOKIPIIO]9) 0917902 | PAISS9IdU09 BE 0914P140|9 091199 | 
a Ss Ss. 1999] | , 
SE | opoe | opoe SE | opoe | opoe S| opoe | opoe si FRS OI SEE Re 
EIUUOS za BUILIOS 38 i ELOS Ss PLULOS Ss BIG [TB BIBI99S 
UE MGNIOS ZI PINI == | Ur MQquIos =.= | Ut HIqmuJos 
—_——-eTr-_—reee__—_--— __re==-=-+=- k > SS e e 05 sn T- BI19I IP IS 00L UT 
oIqgoq TI 0dop 019919 YIg 0IqqO( [Op ewuIId 01J9]OTIS cIqgo( II Odop eug gite], | otqqo ep ewLId eug 2119] 


‘CUTQuUeIoTI TQUeITA T9Ou (epeagg osserd) eroquig Tp ourIgsa[es OueII99Z UM IP OIqQgO(C IP EACIT ia 


58 G. D' ANCONA 


Inutile, mi sembra, sarebbe adesso spendere altre parole in 
favore del Debbio: le cifre parlano abbastanza chiaro: mentre 
nei due campioni non sottoposti all’ abbruciamento la potassa 
solubile dall’acido acetico al 5°/ era solo di 0,036 e 0,078 %, 
nella terra stessa debbiata sale a 0,202 e 0,235 °: la quantità, 
adunque ne risulta quintuplicata nell’un caso, triplicata nei- 
l’altro e ben si capisce che sì notevole aumento non può che 
in minima parte esser dovuto alla potassa contenuta nelle ce- 
neri del combustibile adoperato, specialmente se, come nel caso 
nostro, sia scopa e querciolo, non ricchi certo, e lo abbiamo 
veduto, del prezioso elemento. 


IX. 


Ben fortunati adunque possono stimarsi quei proprietarii, 
che nelle loro Tenute abbiano terreni di galestro : si affrettino, 
ove non le sieno, a porli in regolare cultura, e ricordino che 
particolarmente favorevoli essi sono alla vite. A Cintoia, ed 
anche altrove nei terreni galestrini, ho visto piantate giovani 
di viti e di olivi veramente sorprendenti. A questo proposito 
anzi posso citare le parole lette nell’ Inchiesta Agraria, in quel 
capitolo del volume riguardante la Toscana, in cui si parla 
dei terreni: “ L’ulivo si adatta all’alberese ed al galestro, ma 
“ questi due terreni più specialmente si prestano alla vegeta- 
“ zione della vite ed il galestro in particolar modo, perchè 
“ frequentemente ricco di ossido di ferro e di ossido di man- 
“ ganese, sì che dall’uva che vi si raccoglie si ottiene allora 
“ vino robusto ed igienico ,. — Più scarse forse vi riescono le 
raccolte del grano, e la struttura meccanica del terreno facil- 
mente lo spiega, ma tal deficienza è largamente compensata 
dalla quantità del vino, ove vi si pongano adatti e sani vitigni. 
Non a sufficienza soltanto i ‘galestri provvisti di potassa, po- 
trebbero gli agricoltori tentarvi il Debbio, e se, come è da cre- 
dere ed augurare, alla prova pratica si abbiano resultati tali, 
quali sono stati ottenuti alla prova da me fatta puramente a 
scopo scientifico, tanto più lieto potrò ritenermi allora, di es- 
sermi un poco occupato di questo importante argomento. 


Laboratorio di Chimica Agraria della R. Università di Pisa, 1896. 


IsriTuTo ANATOMICO DELLA R. UNIVERSITÀ DI CATANIA 


Dott. GIULIO VALENTI 


PROFESSORE D’' ANATOMIA UMANA NORMALE 


SIOIPR'A IMP RIIEMUPISEVAR RAPPORTI 


DELLE 


ESTREMITÀ CEFALICHE 
DELLA CORDA DORSALE E DELL’INTESTINO 


RICERCHE 


Non ostante che numerose pubblicazioni si interessino, più 
o meno estesamente, della cefalica estremità della corda dor- 
sale, pur devesi riconoscere che, a causa delle discrepanze esi- 
stenti fra i vari autori, ancora non si possiede una perfetta 
conoscenza dei suoi primitivi rapporti con gli organi e tessuti 
circostanti. 

Già da molto tempo Rercgerr(!), poi His (?) e Dursr(*), hanno 
ammesso che dall’estremità cefalica della corda si sviluppasse 
la porzione epiteliale dell’ ipofisi cerebrale. Ciò peraltro, dagli 
stessi autori che per i primi ne fecero menzione (Reic®ert (4) 
ed His (°)) venne più tardi negato, e mentre che W. MicLER, 


(4) ReicHERT. — Das Entwicklungsleben im Wirbelthierreich. Berlin, 1840, p. 179. 
(2) His. — Untersuchungen diber die erste Anlage der Wierbelthierleibes. Leipzig, 
' 1868, p. 134. 

(3) Dursv. — Beitrdge zur Entwicklungsgeschichte des DITO: Med. Cen- 
tralb., Berlin, 1868, n. 8. 

— Zur Entwicklungsgeschichte des Kopfes des Menschen u. des hoheren Wirbel- 
thiere. Tibingen, 1864, 

(4) RercHERT. - - Der Bau des menschlichen Gehirns. IL Abth., Leipzig, 1861, p. 18. 

— Ueber das vordere Ende der Chorda dorsalis friihezeitiger Heifischembryonen. 
Abh. d. Berliner Akademie, 1877. — Sitzungsber. der Gesellsch. naturf. Freunde. Berlin, 
1878, p. 161. 

(5) His — Anatomie mensch. Embryonen. (Livr. I, Embryonen des ersten Monats) 
Leipzig, 1880. 


Sc. Nat. Vol. XVI + 


60 G. VALENTI 


il quale molto estesamente si è occupato sia dello sviluppo 
dell’ipofisi (1) che della struttura della corda (?), viene alla con- 
clusione che quest’ultima non abbia che un ufficio meccanico 
nella formazione dell'altra nega recisamente Prenaut (3) alcun 
rapporto di origine fra i due organi. Di questo non si trova 
fatta menzione da altri moderni ricercatori che si sono occu- 
pati dell'argomento (Kuprrer (*)); ed io stesso (9°) ho avuto al-. 
tra volta occasione di constatare che l’ ipofisi, in ogni sua parte, 
indipendentemente dalla corda viene a formarsi. 

Ma se in seguito a molteplici ricerche possiamo ormai ri- 
tenere che nessuna genetica relazione esista fra quei due or- 
gani, non egualmente risoluta ci si presenta la questione ri- 
guardo ai rapporti primitivi della stessa estremità della corda, 
sia con l’ ectoderma che con la corrispondente parte dell’ in- 
testino. 

Descrive Or (°) in embrioni di lucertola, un segmento an- 
teriore della corda, non differenziato completamente dalla pa- 
rete posteriore dell'intestino, che insieme a questa viene ad 
essere in rapporto con l’ectoderma, proseguendo in alto, egli 
dice, cioè verso il cranio, quella unione che nella formazione 
della membrana faringea si stabilisce fra i due primitivi fo- 
glietti embrionali. — Ha osservato l' Orr che tal segmento, cor- 
rispondente alla regione dell’ipofisi, non diviene mai vacuo- 
lato, ma rimane per lungo tempo nelle sue primitive condizioni, 
mostrandosi talvolta irregolarmente tortuoso, finchè sparisce 


(4) MiLer W. — Ueber Entwick. u. Bau der Hypophysis u. des Processus in- 
fundibuli cerebri. Jenaische Zeitschrift. Bd. VI. 

(2) Miiuter W. — Ueber den Bau der Chorda dorsalis. Jenaische Zeitschrift. 
Bd. VI. 

(3) PrenaUT.- Darm. — Journal d’Anat. et Physiol. XXVII, p. 197. 

(#4) Kuerrer. — Die Entwick. v. Petromyzon Planeri. Sitz. Ber. der k. Bayer. 
Akad. der Wissensch. Miinchen, 1868. 

— Mitth.z. Entwick. d. Kopfes bei Acipencer Sturio. Sitz. Ber. d. Ges. f. Morphol. 
u. Physiol. in Minchen, 1891. 

— Studien zur vergleichenden Entwickh. des Kopfes der Kranioten. Minchen u. 
Leipzig, 1893. 

— Die Deutung des Hirnanhanges. Sitz. Ber. d. Gesell. f. Morphol. u. Physiol. 
in Miinchen, 1894. 

(3) VaLenTI. — Sulla origine e sul significato della Ipofisi. Perugia, 1895. 

(6) Orr. H. — Contribution to the embryology of the Lizard. Journal of Morpho- 
logy. I, 1877. : 


SOPRA I PRIMITIVI RAPPORTI DELLE ESTREMITÀ CEFALICHE ECC. 61 


presentando come ultima traccia una linea più spessamente nu- 
cleata in mezzo al tessuto costituente la base del cranio. Nota 
poi l’Ork che non in tutti i vertebrati si estendono egualmente 
in avanti l'estremità della corda e l'estremità dell'intestino, 
e che mentre in generale l'intestino sì estende molto più della 
corda, il contrario sembra avvenire nei Ciclostomi. 

Prexaut (!), che ha praticato le sue ricerche in embrioni di 
mammiferi (porco o coniglio), oltre a negare che l’ estremità 
della corda presenti alcun rapporto genetico con l’ipofisi, nega 
pure che essa venga in rapporto qualsiasi con l’ ectoderma, os- 
servando che la parte della corda prossima all’ipofisi si atro- 
fizza molto presto, e che la corda stessa si trova a terminare 
al disopra di quell’infossamento della faringe conosciuto col 
nome di tasca di Seessel. 

SegsseL (*), in sezioni sagittali di embrioni di pollo al prin- 
cipio del 9.° giorno di incubazione, descrive l'estremità della 
corda molto rimpiccolita relativamente a come si presenta in 
stadi meno avanzati, diretta in avanti ed in alto, presso la 
membrana faringea, e continua con uno spesso cordone di cel- 
lule terminante in un rigonfiamento che potrebbe sembrare 
una testa; ma non sa precisare se questo poi fosse unito al 
foglietto corneo dell’ectoderma, od alla stessa membrana  fa- 
ringea, ed attribuisce il poco chiaro modo di terminazione della 
corda al suo ripiegarsi ad uncino. 

SeLENKA (3) notò prima nell’ Opossum e poi in altri verte- 
brati (4), che l'estremità anteriore della corda, la quale rimane 
per maggior tempo in unione con la parete dell'intestino pri- 
mitivo, diviene più larga e cava, e forma una specie di sacco 
(Gaumentasche) che da lui prese poi il nome di tasca di Se- 
lenka, la quale si apre nell'intestino. 

Miss PLamt (?) in embrioni di Afanthias vulgaris, descrive 
l'estremità anteriore della corda infossata nella parete poste- 


(!) PrENAUT. — L c. 

(2) SersseL A. — Zur Entwicklungs des Vorderdarms. Arch. t. Anat. und Entwick. 
Leipzig, 1877, p. 449. 

(3) SeLENKA. — Studien iiber Entwicklungsgeschichte. Heft IV, 2 Hùlfte 4°, 133. 

(‘) SeLenka. — Gaumentasche. Biol. Centralb. VII, 679. 

(9) Pratt J. B. — Further Contribution to the Morphology of the Vertebrate 
Head. Anat. Anzeiger. VI, Bd. 1891, p. 251. 


62 G. VALENTI 


riore del canale alimentare, ed in rapporto con una spessa 
massa di tessuto costituente medialmente l'unione fra le pa- 
reti delle cavità mandibolari (mesoderma mediano premandibo- 
lare). Ha osservato negli stessi embrioni, che al di là del li- 
mite anteriore del mesoderma, il canale alimentare si estende, 
primitivamente, come un semplice tubo, non presentando altra 
differenziazione che un leggiero ispessimento nella parete dor- 
sale, continuo con quello nel quale termina la corda. Tosto 
però che il fondo della lamina midollare, all'estremità ante- 
riore dell'embrione, incomincia ad infossarsi nella sua porzione 
mediana, le cellule del sottostante canale alimentare si addos- 
sano strettamente fra loro, mentre che il lume che racchiu- 
dono sparisce. 

Molti altri autori si sono poi occupati di descrivere i rap- 
porti secondari che la corda viene a prendere con la base del 
cranio. Sono da ricordare, specialmente, i lavori di MmaLkovios (4) 
che li ha descritti in vari vertebrati, di Romi (?) che li ha 
descritti nel pollo, e di FrorieP (3) in embrioni umani. Kécur- 
KER (*) riguardo a tali rapporti osservò per il primo che non 
sono perfettamente identici negli uccelli e nei mammiferi, e venne 
per essi alla importantissima distinzione del cranio in cordale e 
precordale, cui corrisponde la distinzione del GecensaUr (°) in 
porzione vertebrale e porzione prevertebrale. Ma tali rapporti, 
non ostante le asserzioni dell’ Arsrecat (9), il quale voleva so- 


(1) Mmmargovics. — Entwick. des Gehirnanhanges. Centralb. f. med. Wiss. XIL 
1874, n. 20. 

— Wirbelseite u. Hirnanhanges. Arch. f. mikrosc. Anat. XI, Bonn, 1875, p. 389. 

(2) Romiti. — De l’extrémité antérieur de la corde dorsale et de son rapport avec 
la poche hypophysaire ou de RATcHEE, chez l embryon du poulet. Arch. ital. de Biologie, 
VII, p. 236, 1886 

(3) FrorieP A. — Kopftheil der Chorda dorsalis bei menschlichen Embryonen. 
Beitrige z. Anat. u. Embryol. Henle's Festgabe. Bonn, 1882, p. 26. 

(4) KonuiKER. — Entwicklungsgeschichte. 2te. Aufoabe, Leipzig, 1879. 

(3) GecensAUR. — Das Kopfskelet der Selachier als Grundlage zur Beurtheilung 
Genese des Kopfskelets der Wirbelthiere. Leipzig, 1872. 

(6) ALsrecat P. — Sur les spondylo-centres épituitaires du cràne, la non existence 
de la poche de RarcHKE, e la présence de la chorde dorsale et des spondylo-centres dans 
la cartilage de la cloison du nez des vertebrés. Communication faite à la Soc. d’Anat. 
path. Bruxelles, 1884. 

— Ueber Existenz oder Nichtexistenz der Ratchke'schen Tasche. Biol. Centralbl. 1885. 

— Ueber die Chorda dorsalis und 7 knocherne Wirbelzentren in Knorplichen Na- 
senseptum eines erwachsenen Rindes, Biol, Centralb.,1 maggio, 15 maggio, 15 giugno 1885. 


SOPRA ] PRIMITIVI RAPPORTI DELLE ESTREMITÀ CEFALICHE ECC. 63 


stenere che l'estremità della corda arrivasse fino al setto delle 
narici (contro le quali specialmente si volse il KòLtIKER (4)) pos- 
sono ormai dirsi ben conosciuti in seguito alle citate ricerche, 
nè di questi ora intendo intrattenermi. 


TE 


Unico mio scopo è di contribuire alla maggior conoscenza. 
dei primitivi rapporti che la cefalica estremità della corda pre- 
senta nelle prime epoche di sua comparsa nell’embrione, e nel 
medesimo tempo di meglio precisare i rapporti della estremità. 
dell'intestino primitivo con la quale la corda stessa si trova. 
geneticamente collegata. 

Le ricerche finora praticate con tale intendimento si limi- 
tano a larve di anfibi ed embrioni di pollo. 

Anfibi. — Le larve di anfibi che han servito per i miei. 
preparati furono di Pelobates fuscus, di Bombinator igneus, di. 
Rana esculenta e Bufo vulgaris. 

In sezioni longitudinali mediane di larve di Bombinator 
igneus aventi una lunghezza totale di mm. 1/2 (fig. 1 e 2), nelle: 
quali il tubo midollare non è ancor chiuso completamente, il. 
diverticolo intestinale già designato da Kurrrer(?) (dapprima 
nell’Acipenser sturio) come rappresentante il rudimento di una; 
porzione preorale dell'intestino, si presenta, non come un so- 
lido zaffo epiteliale quale finora fu descritto in stadi più avan- 
zati dello stesso BomWbinator e di altri anuri (Kuprrer (8) e Va- 
LENTI (4)), ma cavo, in forma cioè di un vero cul-di-sacco, e: 
tanto sviluppato, che la stessa estremità dell'intestino appa- 
risce come biforcata, e per esso viene ad essere completamente: 
separato dalla formazione buccale lo 'zaffo ipofisario dello strato 


(4) KoLuKER. — Eine Antwort an H. Arsrecuat in Sachen der Entstehung der: 
Hypophysis und des spheno-ethmoidales Theiles des Schidels. Biol. Centralb. marzo, 1885: 

— Sitzungsber. der Wiirzburg Phys. med. Gesellsch. Agosto, 1885.. 

(2?) Kuprrer. — Studien zur vergleichenden Entw. des Kopfes der Kranioten. 
I Heft., Miinchen u. Leipzig, 1893, p. 37. 

(3) KuprreR. — Die Deutung des Hirnanhanges. Sitz. ber. der Gesell. f. Mor- 
phol. u. Phisiol. in Miinchen, 1874. 

(4) VaLeNTI. — l. c. 


64 G. VALENTI 


interno dell’ectoderma (!), designato per la prima volta da A. 
Gortte (?), trovandosi questo dorsalmente mentre che la forma- 
zione buccale è situata dal lato ventrale. La parete posteriore 
di quel diverticolo preorale si continua inferiormente, tanto con 
la parete posteriore del canale alimentare che con la notocorda 
la quale mostrasi non completamente differenziata, essendo 
per piccola parte ancora allo stadio di doccia cordale come in 
sezioni trasversali di larve ad un identico stadio di sviluppo 
ho potuto constatare. Gli elementi cellulari entodermici corri- 
spondenti alla parte più alta del diverticolo si trovano tanto 
intimamente in rapporto con le cellule ectodermiche (fig. 2) 
dello zaffo ipofisario, che per mezzo di brevi prolungamenti 
vi sì insinuavano framezzo, e danno luogo ad una’ disposizione 
identica a quella che si osserva, relativamente ai rapporti fra 
l’ectoderma e l’endoderma, in corrispondenza della formazione 
della bocca (membrana faringea). anto per il notevole sviluppo 
del descritto diverticolo intestinale che per tali suoi intimi rap- 
porti con lo zaffo ectodermico ipofisario, l'ipotesi di Kuprrer 
che quest’ ultimo rappresenti il rudimento di una bocca pri- 
mitiva (paleostoma) mi sembra molto avvalorata. 

In larve dello stesso Bombinator poco più avanzate nello 
sviluppo (fig. 3, 4) aventi cioè una lunghezza di quasi 2 mil- 
limetri, si trova già molto ridotto il diverticolo intestinale 
mentre che dalla sua parete dorsale si è completamente dif- 
ferenziato il segmento cefalico della corda. Questo, però, molto 
sottile e leggermente tortuoso, si presenta in stato evidente di 
atrofia; termina con un piccolo rigonfiamento irregolare, il quale 
viene ad essere in immediato contatto con l’ectoderma senza 
che i suoi elementi abbiano con esso quegli intimi rapporti 
che, come ora abbiamo detto, presentavano le cellule costi- 
tuenti le pareti del diverticolo entodermico prima della com- 


(4) Notò il BeLLonci (Blostoporo e linea primitiva dei vertebrati. Reud. Acc. dei 
Lincei, An. CCLXXXI, Roma 1883-84) che l’ectoderma degli Anuri a differenza che 
negli Urodeli è già differenziato in due strati prima della chiusura del canale midol- 
lare. — A tal riguardo però. avrei io da aggiungere che questa differenziazione è meno 
accentuata prima della chiusura del tubo midollare, come vien dimostrato dall’ esame 
comparativo delle fig. n. 2 e n. 4 qui annesse. 

(2) GoetTE A. — Kurze Mittheilungen aus der Entwicklungsgeschichte der Unke 
(Bombinator gineus). Leipzig, 1875. 


SOPRA I PRIMITIVI RAPPORTI DELLE ESTREMITÀ CEFALICHE ECC. 65 


pleta differenziazione della corda. A tale stadio, in nessuna sua 
parte questa era vacuolata. 

In stadi ancora più avanzati, nei quali il diverticolo ento- 
dermico si è molto ridotto e quasi in forma di un semplice 
zaffo, incomincia la primitiva estremità cefalica della corda ad 
atrofizzarsi in lunghezza, allontanandosi a poco a poco dal- 
l’ectoderma e lasciando che la parete intestinale venga diret- 
tamente a contatto con la parete cerebrale anteriore. Presto, 
fra queste due pareti sì introducono elementi mesodermici con 
i quali allora si trova in rapporto l'estremità stessa della corda 
ancora in via di riduzione (fig. 5). Quasi contemporaneamente 
alla comparsa di tali elementi che vengono ad unire | inte- 
stino alla parete cerebrale anteriore (dai quali una volta ha 
pensato His (!) potesse originarsi l’ipofisi) si insinua fra l’inte- 
stino ed il cervello lo zaffo ipofisario ectodermico il quale giunge, 
in basso, ad oltrepassare l’ estremità della corda situandosi ven- 
tralmente ad essa (fig. 6). 

Tale secondario rapporto della estremità della corda scom- 
pare poi gradatamente; seguitando la sua atrofia, come è noto, 
fino al livello della base del cranio, poco al disopra dell’angolo 
formato dalla parete posteriore dell'intestino. Viene allora a 
costituirsi la secondaria estremità coraale, che, dapprima ap- 
puntata e rivolta in avanti, si fa po1 rotondeggiante, si volge 
quasi direttamente in alto, e si mette in rapporto con la re- 
gione infundibolare del cervello. Insieme all’ atrofia di questa 
parte anteriore della corda seguita l’atrofia del diverticolo en- 
todermico che non lascia di sè alcuna traccia. 

In larve di altri anuri, e specialmente in larve di Pelobates 
fuscus ho constatato fondamentalmente identici fatti dei quali 
credo inutile ripetere la descrizione. Solo ho da notare che in 
larve di Rana e di Bufo, nelle quali ho seguito la evoluzione 
del diverticolo entodermico preorale dalla sua comparsa alla 
sua completa atrofia, questo mai si è presentato tanto svilup- 
pato come nel Pelobates e nel Bombinator, ma sempre in forma 
di un semplice zaffo. 

Pollo. — Nel pollo ho ricercato i primitivi rapporti della 
estremità cefalica della corda e dell'intestino (faringe) in una 


(4) His. — Untersuch. iiber die erste Anlage der Wirbelthierleiber. Leipzig, 1868, 
p. 134. 


66 G. VALENTI 


serie di embrioni dalla 26.* ora alla fine del 9.° giorno di in- 
cubazione alla temperatura di 39°. Utili specialmente, per le mie 
ricerche, furono le sezioni longitudinali che, Seguendo le norme 
suggerite dal Born (*) per la orzentazione, mi riuscirono sempre 
chiaramente dimostrative anche in embrioni poco avanzati 
nello sviluppo. 

In embrioni dalla 26.* alla 28.* ora, nei quali l’ estremità. 
cefalica si presentava leggermente sollevata dal piano dell’area. 
trasparente e rivolta in dietro, non mi è resultato che la corda 
nella sua estremità anteriore fosse completamente differenziata, 
sembrando piuttosto che si confondesse con la parete poste- 
riore dell'intestino (fig. 7). Ed infatti, sezioni trasversali di em- 
brioni ad un identico stadio di sviluppo, come pure il KérLIKER: 
descrive, dimostrano chiaramente che non giunge la corda fino 
alla parte più alta delle faringe. — Completamente differenziata. 
da questa ho potuto trovare l’ estremità della corda verso la 
fine del 2.° giorno di incubazione (fig. 8) terminando allora li- 
beramente fra la parete faringea ed il tubo midollare. È da, 
notare però che neppure in questo stadio essa giunge precisa- 
mente alla stessa altezza dell’ estremità faringea. — In corri- 
spondenza di questa estremità, tanto intimi rapporti si pre- 
sentano per circa 4 sezioni longitudinali mediane di embrioni 
alla 26.8 ora, fra l’entoderma e l’ectoderma sovrastante, che 
viene a costituirsi una disposizione simile a quella che negli an- 
fibi rappresenta la formazione della bocca (fig. 7, ip). Ma poichè 
di tale significato non è qui da parlare, poichè il così detto 
seno buccale sì formerà più tardi e più ventralmente, ed anche: 
perchè quella massa ectodermica con cui è in rapporto la fa- 
ringe non è altro che lo zaffo destinato alla formazione del- 
l’ipofisi, come stadi più avanzati chiaramente dimostrano, non 
esiterei a ritenere che anche nel pollo si abbia un rudimento: 
di quella disposizione, cui in vertebrati inferiori il Kuprrer attri- 
buisce il significato di una bocca primitiva. Vero è che in questo. 
non si trova distinto dalla parete faringea il diverticolo ento- 
dermico preorale degli anuri che specialmente è sviluppato, 
come abbiamo veduto nel Pelobates e nel Bombinator; ma il 
fatto che la corda primitivamente non giunge, neppure nel pollo: 


(4) Born. — Die Plattenmodellirmethode. Arch. f. mick. Anat. Bd. XXIII, 1883: 


SOPRA I PRIMITIVI RAPPORTI DELLE ESTREMITÀ CEFALICHE ECCO. 67 


fino alla formazione buccale, può avvalorare l'opinione che un. 
rudimento di intestino preorale si trovi in esso rappresentato da 
quel tratto della parete faringea che intercede fra la superiore 
inserzione della membrana faringea ed il punto corrispondente 
alla terminazione della corda (1). — Riguardo allo zaffo ectoder- 
mico ipofisario può dirsi poi con certezza che esso nei suoi primi 
stadi di sviluppo si comporta nel pollo precisamente nello stesso 
modo che negli anfibi. Alla 39. ora (fig. 8 <p.) esso sì trova 
insinuato fra la parete cerebrale e la parete faringea, ed 
in stadi successivi viene a prendere intimi rapporti con questa 
ultima. La figura n. 9 tolta da una sezione longitudinale di 
un embrione alla 50.* ora di sviluppo, ci presenta una tale di- 
sposizione riguardo a tali rapporti, che ci dà la più soddisfa- 
cente spiegazione del perchè quello zaffo non si riscontri in stadi 
successivi, mentre che rimangono i suoi elementi per dare ori- 
gine alla parte ectodermica dell’ ipofisi. Si presenta infatti a 
questo stadio lo zaffo ipofisario (7p.) molto allungato, ristretto, 
e diretto verso la parete posteriore della faringe, ricuoprendola 
in parte. E se in stadi successivi di esso non si ha traccia, è 
appunto perchè glì elementi che lo costituivano si sono estesi 
dorsalmente per costituire quello strato ectodermico dal quale 
più tardi (corrispondentemente all'angolo ipofisario di Mitraukovics) 
sl formerà parte dell’ipofisi. 

Un diretto rapporto fra l’ estremità cefalica della corda e 
l’ectoderma, nel pollo, ho potuto osservarlo solo in seguito alla 
rotazione del cranio in avanti (fig. 10). Si determina allora una 
disposizione simile a quella che 1 Orr ha descritto nei rettili 
(lucertola), con la differenza che, mentre in questi si stabilisce 
quando ancora l'estremità della corda non è differenziata dalla 
parete intestinale, nel pollo non si ha che quando tale diffe. 
renziazione si è totalmente compiuta. Di tale rapporto, tenuto 
conto della origine entodermica della corda, può dirsi insieme 
con l’Okr che esso rappresenti la continuazione in alto della 
fusione dell’ectoderma con l’entoderma nella formazione della 
membrana faringea. Mentre però l'Orr lo considera nei rettili 


(4) A conf rto di tale opinione è da ricordare, che secondo Nuspaum (Einige neve 
Thatsachen zur Entwichlungsgeschichte der Hypophyusis cerebri bei Sdaugetieren. 
Anat. Anzeiger, Bd. XII, n. 7) la stessa tasca di SersseL che più tardi va formandosi, 
rappresenta, nei vertebrati superiori, la porzione preorale dell’ intestino, 


68 G. VALENTI 


come primitivo, a me non si è presentato che come secon- 
dario nel pollo. Se esso si determini per un ulteriore allun- 
gamento dell’ estremità cordale differenziata o per parziale atro- 
fia del cul-di-sacco faringeo, credo che difficilmente si potrebbe 
stabilire; tuttavia non stimo sia da escludere che le cambiate 
condizioni meccaniche cui è sottoposta l'estremità stessa della 
corda durante la rotazione del cranio, contribuiscano, almeno 
in parte, a determinarlo.— Si mantiene esso per molto tempo, 
ed ho potuto riscontrarlo anche in embrioni alla 70.*ora. (fig. 11). 
A questo stadio però era incominciata l’atrofia della corda (c), 
e già all’inizio di questa, come la fig. 10 dimostra, l'angolo 
ectodermico ipofisario viene a portarsi più in alto dell’estre- 
mità stessa della corda alla quale dapprima esattamente cor- 
rispondeva. 

In seguito all’atrofia del primitivo segmento cefalico della 
corda, poichè così credo possa chiamarsi quella parte della corda 
stessa che si trova insinuata fra il cervello e l’intestino, la sua 
secondaria estremità viene a trovarsi, come Prenaur (*) descrive, 
precisamente al di sopra della tasca di SeesseL, senza però che 
alcun rapporto con questa venga a stabilirsi. 


IRRE 


Conclusioni. — Le osservazioni ora descritte, mi portano 
a trarre le seguenti conclusioni: 

a) L' estremità cefalica della corda, presenta negli Anuri 
dei primitivi rapporti con l’ectoderma e precisamente con lo 
zaffo ectodermico ipofisario (senza però che vi sia dipendenza di 
sviluppo fra i due organi), accompagnando quel diverticolo in- 
testinale che da Kuprrer fu designato come il rudimento di una 
porzione preorale dell'intestino. 

5) Per la presenza di tal diverticolo, i rapporti ectoder- 
mici dell’estremità cefalica della corda negli Anuri non possono 
considerarsi (come fa Orr per i rettili) come una continuazione 
in alto della fusione dell’ectoderma con l’entoderma nella for- 
mazione della bocca (meostoma), ma piuttosto come una con- 
tinuazione dorsale della fusione fra il diverticolo entodermico 


(4) PrenAUT. — l. c. 


SOPRA I PRIMITIVI RAPPORTI DELLE ESTREMITÀ CEFALICHE ECC. 69 


preorale e lo zaffo ipofisario (bocca primitiva o paleostoma di 
KuPeFER). 

c) I rapporti che si stabiliscono nel pollo fra l'estremità 
cefalica della corda e l’ ectoderma sono rapporti secondarii, 
molto probabilmente dovuti a cause meccaniche inerenti alla 
rotazione del cranio, e non è quindi da attribuire ad essi lo 
stesso significato che ai simili rapporti negli Anuri. 


Tad 


Fi 


hi 


x 


2. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA II (1) 


Indicazioni comuni a più figure. 


corda dorsale. 

cavità intestinale. 

tubo midollare. 

cavità cerebrale. 

neuroporo. 

zaffo ectodermico ipofisario (paleostoma di KuPFFER). 
formazione della bocca (neostoma). 

diverticolo intestinale preorale (prioraler Darm di KuPFFER). 
fogato. 

parete posteriore dell’ intestino. 


1. Tolta da una sezione longitudinale mediana di larva di Bombinator 


igneus della lunghezza totale di mm. 1'/, (ingr. di 385 diametri). 
Dimostra l’estremità cefalica della corda (c) non ancora differenziata 
dalla parete posteriore dell’intestino (p. î.); edi rapporti che il diver- 
ticolo intestinale preorale (D.) presenta con lo zaffo ipofisario (7p.), 
situato ad esso dorsalmente, e la ventrale formazione buccale (d.). 


2. Dalla stessa sezione rappresentata parzialmente dalla fig. 1 (ingr. di 


280 diametri). Dimostra specialmente gli intimi rapporti fra le cel- 
lule entodermiche del diverticolo intestinale (D.) con le cellule ecto- 
dermiche dello zaffo ipofisario (7p.). 


3. Tolta da una sezione longitudinale mediana di larva di Bombinator 


igneus della lunghezza totale di mm. 2 (ingr. di 35 diametri). La 
corda (c.) è completamente differenziata dalla parete posteriore del 
l'intestino (p. è.) e la sua estremità si mantiene in rapporto con 
l’ectoderma. 


4. Dalla stessa sezione che ha servito per la figura precedente (@ngr. di 


230 diametri). La corda si presenta leggermente rigonfiata nelle sue 
estremità, tortuosa, ed in evidente stato di riduzione. L’ectoderma 
appare, più chiaramente che nello stadio rappresentato dalla fig. 2, 
distinto nei suoi due strati — s.c. suo strato corneo — s.7n. suo 
strato nervoso. 


(1) Tutte le figure furono disegnate per mezzo della camera chiara di Zeiss. 


SOPRA I PRIMITIVI RAPPORTI DELLE ESTREMITÀ CEFALICHE ECC. 71 


Fig. 5. Da una sezione longitudinale mediana di larva di Bombinator igneus 
della lunghezza totale di mm. 3 (ingr. di 280 diametri). L’estremità 
anteriore della corda (c) si è molto ridotta in lunghezza, e degli ele- 
menti mesodermici (mes.), si sono insinuati fra la parete posteriore 
dell’intestino (p. î) e le parete anteriore del cervello (p. c). 

» 6. Sezione trasversale di una larva di Bombinator igneus ad uno stadio 
di sviluppo poco più avanzato di quello cui corrisponde la figura pre- 
cedente (ingr. di 70 diametri). Dimostra il rapporto della corda (c) 
con lo zaffo ectodermico ipofisario (ip.) situato fra questa e la parete 
intestinale (p. ?). 

» 7. Da una sezione longitudinale mediana di embrione di pollo alla 28.8 
ora di incubazione alla temperatura di 399, (ingr. di 70 diametri). — 
a. amnios. — fa. faringe — ce. corda — ip. zaffo ectodermico ipofi- 
sario in rapporto con l'estremità della faringe. 

». 8. Da una sezione longitudinale mediana di un embrione di pollo verso la 
fine del 2.° giorno di incubazione, alla temperatura di 39°, (@ngr. di 
70 diametri). Dimostra l’ estremità della corda completamente diffe- 
renziata, senza però che giunga all’altezza della faringe. a. amnios — 
fa. faringe — e. corda — d. f. porzione della faringe che oltrepassa 
il livello dell’ estremità superiore della corda — ?p. zaffo ectodermico 
ipofisario — c.c. cavità cerebrale. 

» 9. Da una sezione longitudinale di embrione di pollo alla 50.8 ora di in- 
cubazione (ingr. di 320 diametri). — s. b. seno buccale — ec. strato 
ectodermico della membrana faringea — en. strato entodermico della 
stessa membrana — p. f. parete faringea posteriore — 7p. zaffo ecto- 
dermico ipofisario che si estende sulla membrana faringea. 

» 10. Da una sezione longitudinale mediana di embrione di pollo alla 55.2 
ora di incubazione alla temperatura di 39°, (@ngr. di 70 diametri). 
La corda (c-c') si presenta interrotta a causa della sua tortuosità — 
c'. estremità della corda ricurva in basso ed in rapporto con l’ ecto- 
derma (ip.) — p.c. parete cerebrale (regione ipofisaria). — S. tasca 
di SepsseL — ?. diverticolo entodermico destinato alla formazione 
della porzione entodermica dell’ ipofisi — a. 1.° arco branchiale — 
s. D. seno buccale — ec. ectoderma — en. endoderma — v. vena. 

» 11. Tolta da una sezione longitudinale di pollo alla 70.8 ora di incubazione 
alla temperatura di 39° (ingr. di 70 diametri). L’estremità della corda 
incomincia ad atrofizzarsi. — f. faringe — m. f. membrana faringea 
— ec. ectoderma — en. entoderma — c. corda — c' sua estremità in 
via di riduzione — p. c. parete cerebrale (regione ipofisaria) — ?p. 
formazione ipofisaria corrispondente all’ angolo ipofisario di MizAL- 
KOVICS. 


Se. Nat., Vol. XVI i 5 


IstIituTO ANATOMICO DELLA UNIVERSITÀ DI Pisa 


Dott. DANTE BERTELLI 


DISSETTORE E LIBERO DOCENTE 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI 


CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA E ALLO SVILUPPO DEL DIAFRAMMA 


———___ 


Genauere Nachrichten uber die, wie es scheint, 
sehr complicirten entwicklungsgeschichtlichen Vor- 
ginge sind abzuwarten; auch sind unsere Kenntnisse 
Uber das Zwerchfell der Amphibien und Sauropsiden 
noch recht dirftige zu nennen. 

WiIepersHEIM. Diaphragma. ( Lekrbuch der 
vergleichenden Anatomie der Wirbelthiere). 


In un lavoro che ha per titolo “ Pieghe dei reni primitivi 
nei rettili. Contributo allo sviluppo del diaframma(!) , studiai la 
morfologia e lo sviluppo di queste pieghe nei sauri e conclusi 
che le pieghe dei reni primitivi prendono parte nei sauri alla 
costituzione del diaframma dorsale. 

Fatte ricerche embriologiche sulle pieghe dei reni primitivi 
nei mammiferi potei stabilire che anche nei mammiferi queste 
pieghe concorrono alla formazione del diaframma dorsale. 

Tali risultati mi persuasero che indagando la morfologia e 
lo sviluppo del diaframma dorsale con questi nuovi criteri sa- 
rebbe molto agevolato lo studio del difficile argomento. Volli 
perciò fare in proposito ricerche più estese che mi fosse pos- 
sibile ed ora di queste rendo conto. 

Ho studiato le pieghe dei reni primitivi nei pesci e negli 
anfibi. Ho fatto la medesima ricerca tra i rettili nei serpenti 
e nei cheloni; per i sauri mi sono valso delle conclusioni alle 
quali giunsi quando in questo ordine studiai la morfologia e 
lo sviluppo delle pieghe dei reni primitivi. Ho studiato la mor- 
fologia del diaframma dorsale negli uccelli e lo sviluppo delle 


(1) Memorie della Società toscana di Scienze naturali. Vol. XV. Pisa, 1896. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 13 


pieghe dei reni primitivi negli uccelli e nei mammiferi. Allo 
scopo di spiegare il rapporto intimo che esiste negli embrioni e 
nei feti tra legamento diaframmatico del rene primitivo e mu- 
scolo diaframma, studiai lo sviluppo di questo legamento. 


Pesci. 


Pochi sono stati coloro che ammisero il diaframma nei pesci. 
Oggidì si ritiene che i pesci non posseggano diaframma. 

La bibliografia antica su questo argomento è riterita da 
MorcenBessER (!) e da Haccer (?). 

RioLano (3) ammise nei pesci un diaframma membranaceo. 

Barr (4) afferma che nei pesci è una specie di diaframma il 
quale al tempo istesso è limite anteriore della cavità viscerale. 

Cuvier (9) accenna al diaframma dei pesci dichiarandolo ana- 
logo a quello dei mammiferi. 

LereBouLLET (9) ricorda il diaframma del luccio. 

Roucer (°) a proposito del diaframma dei pesci sostiene che 
1 fasci muscolari trovati da RarHKE in diverse specie di cottus, 
da Rosin e Browxn-Sequarp in diverse specie di squali e che pren- 
dendo origine dalla parete dorsale del tronco si gettano su 
l’esofago, rappresentano evidentemente la porzione esofagea 
del diaframma dei batraci. 

ScanemERr (5) menziona il diaframma dell’ ammocoetes. 

ResreLuni (°) considera nei pesci come diaframma il tramezzo 
muscolare che separa l'apparecchio branchiale dalla cavità vi- 
scerale. 


(4) MorcensEsser M. — De Vomitu. (HaLLER A. Disputationum anatomicarum 
Volumen I, p. 264. Gottingae, MDCCL). 

(2) HaLLeR A. — Elementa Physiologiae. Tomustertius, p. 74. Lausannae, MDCCLXI. 

(3) Riorani J. — Opera anatomica. Lutetiae Parisiorum, MDCL. 

(4) Barr K. E. — Ueber Entwickelungsgeschichte der There. Kinigsberg, 1828. 

(5) Cuvier G. — Lecons d’ Anatomie comparte. Tome troisième. Bruxelles, 1840. 

(6) LereBoULLET A. — Recherches sur VAnatomie des Organes génitaua des Ani- 
maux vertébrés (Novorum Actorum Academiae caesareae Leopoldino-Corolinae Naturae 
curiosorum. Voluminis vigesimi tertii, Pars prior. Vratislaviae et Bonnae, MDCCCOLI). 

(7) Rouaert Ch. — Le diaphragme chez les mammifères, les oiseaux et les reptiles. 
(Bull. Soc. de Biologie. T. III. 1851). 

(8) ScanEIDER A. — Besitrige zur vergleichenden Anatomie und Entwicklungsge- 
schichte der Wirbelthiere. Berlin, 1879. 

(9°) RestELLINI L. — Del Diaframma. Torino, 1862. 


74 D. BERTELLI 


Gli anatomici che ammisero nei pesci un diaframma, con- 
siderarono diaframma il setto teso tra la cavità pericardica e 
la cavità viscerale. 

Adottando i metodi di indagine che seguii nei sauri, studiai 
nei pesci le pieghe che sono omologhe a quelle dei reni pri- 
mitivi dei sauri. Scelsi naturalmente individui che posseg- 
gono molto bene sviluppati gli ovidutti, gli epididimi, i canali 
deferenti. Presi il materiale di studio tra gli elasmobranchi 
nel sottordine dei selaci. 

Sulla morfologia degli ovidutti, degli epididimi e dei canali 
deferenti negli elasmobranchi si hanno notizie assai diffuse, 
scarseggiano invece riguardo alle pieghe che sostengono o fis- 
sano questi organi. Danno qualche notizia su tali pieghe Voer 
e Papprexzem (!) nel classico lavoro sugli organi genitali dei pesci. 
Tra i plagiostomi scelsero come tipo per la descrizione la Raja 
clavata. 

Hanno studiato lo sviluppo del condotto di Mitrer nei se- 
laci Semper (?), Barrour (5), FirerIincer (4), Van Wyrae (5), ma tutti 
lo studiarono nei primi stadi di sviluppo, quando cioè si scinde 
dal condotto di Wotrr. In questo stadio il condotto di MùrLcer 
è ancora sprovvisto di piega. Barrour però alia Fig. 3 ha dise- 
gnato un taglio trasverso di embrione di Scy/lium canicula nel 
quale la piega del rene primitivo è già bene sviluppata e con- 
tiene il condotto di Wotrr ed il condotto di MùLLer; questa fi- 
gura fu da Barrour riprodotta anche nel Trattato d’ Embriologia. 

Nell’ordine degli elasmobranchi ho studiato individui del 
sottordine dei selaci e cioè lo ScyMlium canicula, V Acanthias 
vulgaris, la Torpedo narce, la Raja miraletus. 


i (!) Vor G. et PappennEIM. — Recherches sur l’anatomie comparée des organes 
de la generation chez les animaux vertébrés. (Annales des Sciences naturelles. Tome 
XI. Paris, 1859). 

(2) Seuper C. — Das Urogenitalsystem der Plagiostomen und seine Bedeutung 
hr das der vbrigen Wirbelihiere. (Arbeiten aus dem zoologisch-zootomischen Institut 
in Viirzburg. 1875). 

(3) Barour F. M. — On the origin a. history of the urinogemital organs of Verte- 
brates. (Journal of Anatomy a. Physiology. V. 10. 1875). 

(4) Fiirsrincer M. — Zur vergleichenden Anatomie und Entwickelungsgeschichte 
der Excretionsorgane der Vertebraten. (Morphologisches Jahrbuch. Vierter Band. Leipzig, 
1878). 

(3) Van Wyue J. W.— Ueber die Mesodermsegmente des Rumpfes und die Ent- 
wicklung des Exkretionssystems bei Selachiern. (Archiv fiir mikroskopische Anatomie. 
Dreiunddreissigster Band. Bonn, 1889). 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. (45) 


Nello Scyllium canicula l’ infundibulo degli ovidutti è tenuto 
sospeso dalla piega dei reni primitivi, che s'inserisce alla pa- 
rete dorsale, craniale e ventrale della cavità viscerale. In tutte 
e tre le pareti l'inserzione avviene nella linea mediana. L’in- 
fundibulo seguita cranialmente in forma di scanalatura sul mar- 
gine libero della piega, caudalmente si fonde con il legamento 
coronario del fegato. i 

All’infundibulo fanno seguito a destra ed a sinistra gli ovi- 
dutti che fissati al legamento coronario del fegato risalgono 
un po’ cranialmente e dorsalmente, piegano poi indietro e re- 
candosi medialmente raggiungono la glandula dell’ ovidutto; 
sorpassata la glandula seguono un decorso obliquo dall’innanzi 
all'indietro, dall’ esterno all’interno e raggiungono la cloaca in 
prossimità della quale si addossano strettamente. 

L'ovidutto, tolta la porzione di piega dei reni primitivi che 
fissa l’infundibulo, non possiede mezzi proprii di sostegno fino 
in vicinanza della glandula dell’ovidutto. Quivi appariscono le 
pieghe dei reni primitivi che ben presto si fanno molto larghe, 
inserite alla parete dorsale della cavità viscerale a breve di- 
stanza dalla linea mediana. 

Gli epididimi sorti a poca distanza dalla parete anteriore 
. della cavità viscerale in vicinanza della linea mediana, si re- 
cano internamente e in corrispondenza della linea mediana si 
incontrano; strettamente uniti percorrono la cavità viscerale, 
fino alla cloaca ove sboccano. Il peritoneo passa sotto agli epi- 
didimi e li fissa strettamente al dorso, sicchè non esistono 
pieghe dei reni primitivi. Nella metà posteriore degli epididimi 
il peritoneo che li ricopre è molto spesso. Anche in corrispon- 
denza dell'estremo craniale degli epididimi il peritoneo è egual- 
mente spesso. 

Per merito di Semper sappiamo che esiste un rudimento di 
infundibulo degli ovidutti anche nel maschio. Questo infundi- 
bulo è molto bene sviluppato nello Scyllium canicula e così an- 
che nel maschio esiste bene manifesta una porzione di piega 
dei reni primitivi, che fa da legamento sospensore all’infundibulo. 

Nell'Acanthias vulgaris la porzione di piega dei reni primi- 
tivi che fissa l’infundibulo degli ovidutti differisce per le in- 
serzioni da quella trovata nello Scy/Zium canicula; su la parete 
ventrale si estende un po’ di più caudalmente, dorsalmente in 


76 D. BERTELLI 


vece di corrispondere all’ esofago nel tratto della sua inser- 
zione, si attacca alla superficie inferiore del fegato. Ciò avviene 
perchè un lobo epatico si spinge molto cranialmente. 

Sorti gli ovidutti lateralmente all’infundibulo si fissano prima 
a quel lobo del fegato che ho sopra ricordato, poi al legamento 
coronario del fegato. Hanno in questo tratto la stessa direzione 
che ho descritta nello Scyllium canicula, poi si spingono verso 
la linea mediana in prossimità della quale decorrono paralle- 
lamente fino alla cloaca ove sboccano. Non esistono pieghe dei 
reni primitivi; sulla parete dorsale della cavità viscerale il pe- 
ritoneo passa ventralmente agli ovidutti. 

Gli epididimi incominciano un po’ più in dietro che nello 
Scyllium canicula; decorrono sul dorso lateralmente alla linea 
mediana, in prossimità di questa; sono sprovvisti di pieghe. 

Esiste anche nel maschio l’infundibulo degli ovidutti che è 
fissato come nella femmina. 

Nella Torpedo narce l’infandibulo degli ovidutti è molto 
grande, con apertura larga, tondeggiante. Cranialmente seguita 
in forma di scanalatura fissata alla parete ventrale della 
cavità viscerale. Dorsalmente l’infundibulo è unito al lega- 
mento coronario del fegato. 

Gli ovidutti sono fissati prima sul legamento coronario del 
fegato, poi si gettano nella parete dorsale della cavità visce- 
rale strettamente uniti a questa, decorrenti lateralmente alla 
linea mediana lungo il margine mediale dei reni, con direzione 
leggermente obliqua dall’innanzi all'indietro, dall’ esterno al- 
l'interno, fino alla cloaca. Mancano le pieghe dei reni primitivi. 

Gli epididimi incominciano a brevissima distanza dalla pa- 
rete anteriore della cavità viscerale sul legamento coronario 
del fegato, da questo passano sul dorso nel quale decorrono 
presentando poche e poco serrate circonvoluzioni, appoggiati 
lateralmente al margine mediale dei reni. Sono sprovvisti di 
pieghe. 

Anche nel maschio esiste bene manifesto l’'infundibulo degli 
ovidutti. 

Nella Raja miraletus l’infaundibulo degli ovidutti presenta i 
medesimi mezzi di fissità che nello Scyllum canicula. Anche 
gli ovidutti hanno i medesimi rapporti e lo stesso decorso che 
trovammo nello Scyllium canicula. Gli ovidutti sono sprovvisti 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 17 


di piega fino in prossimità della glandula dell’ovidutto; quivi 
la piega incomincia ad apparire, si fa più alta in corrispon- 
denza della glandula e più alta ancora nel tratto situato al 
di dietro della glandula; s'inserisce alla superficie dorsale della 
cavità viscerale. Dalla metà posteriore della glandula fino alla 
fine, la linea d’inserzione della piega trovasi in corrispondenza 
della superficie ventrale del rene, prossima al margine mediale 
di questo. 

L’estremo craniale degli epididimi situato lateralmente al- 
l’esofago incomincia a poca distanza dalla parete anteriore della 
cavità viscerale. Gli epididimi raggiunto il rene poggiano nella 
superficie ventrale di esso in prossimità del margine mediale, 
sono fissati strettamente al dorso dal peritoneo. L'infundibulo 
degli ovidutti è pochissimo sviluppato. 

Da quanto ho sopra esposto risulta che nei selaci talora 
mancano le pieghe dei reni primitivi nelle femmine; che man- 
cano nei maschi; che quando nelle femmine esistono anche 
bene sviluppate sono per un tratto non breve interrotte e 
adempiono esclusivamente l'ufficio di mezzi di sostegno. 

Per tutte queste ragioni possiamo concludere che i selaci 
non posseggono diaframma dorsale ed i selaci sono i pesci che 
hanno meglio sviluppati gli ovidutti, gli epididimi ed i canali 
deferenti. 

Gli anatomici che ammisero il diaframma nei pesci consi- 
derano come diaframma il setto che unito alla superficie po- 
steriore del pericardio contribuisce a dividere la cavità pericar- 
dica dalla cavità viscerale; ma a questo setto non deve darsi 
valore di diaframma: è la parete craniale della cavità visce- 
rale, corrispondente alla parete craniale della cavità celoma- 
tica, come può vedersi chiaramente negli embrioni dei selaci. 
Nè devono in conseguenza essere considerati fasci diaframma- 
tici quelli che dal dorso si recano all’ esofago; sono fasci dei 
muscoli addominali che dal tronco vengono ad inserirsi su que- 
sto viscere; non hanno alcun valore di fasci diaframmatici. 


Anfibi. 


In questa classe potei studiare individui dell’ ordine degli 
anuri e dell'ordine degli urodeli. 


78 D. BERTELLI 


Faccio una descrizione un po’ particolareggiata delle pieghe 
che sostengono gli ovidutti ed i canaliculi efferenti perchè a 
questo proposito possediamo scarse cognizioni. 


Anuri. 


Goerte (1) afferma che negli individui adulti dei batraci la 
parete posteriore del pericardio e le membrane che si trovano 
lateralmente a questo e che vanno dal fegato alla parete po- 
steriore della cavità pleuro-peritoneale formano un setto posto 
trasversalmente nella cavità toracica, omologo al diaframma. 

Uskow (?) in grossi esemplari della rana di Ungheria ha po- 
tuto verificare che le membrane del fegato non solo vanno alla 
parete posteriore della cavità celomatica ma si estendono an- 
che sulle pareti laterali. 

Mecxet (3), Ducès (4), Stesorn e SranniIvs (9), Ecxer ($), Rovers, 
Horrmann (*), ScanEDER considerano negli anuri come fasci dia- 
frammatici quelli che provengono dal muscolo obliquo interno 
e vanno ad inserirsi sul pericardio e su l’esofago. 

Degli anuri ho studiato la Rana esculenta ed il Bufo vul- 
garis. 

Nella Rana esculenta gl’infandibuli degli ovidutti sono fis- 
sati sulla parete craniale della cavità viscerale, caudalmente 
seguitano con il legamento coronario del fegato; questo ultimo 
rapporto contribuisce a tenere teso l’infundibulo e beante la 
sua apertura. Gli ovidutti percorrono la parete craniale della 
cavità viscerale descrivendo su di essa una curva a concavità 
rivolta medialmente, che abbraccia la radice dei polmoni cui 


(4) GoetTE A. — Die Entwickelungsgeschichte der Unke. (Bombinator igneus). 
Leipzig, 1875. 

(2) Uskow N. — Ueber die Entwickelung des Zwerchfells des Pericardiums und 
des Coloms. (Archiv fir mikroskopische Anatomie. 1883). 

(3) MecxeL J. F. — Traité genéral d’ Anatomie comparée traduit par RiestER et 
Sanson. Paris, 1829. . 


(4) Dueès A. — Recherches sur l’ostéologie et la myologie des Batraciens. (Mé- 
moires de l’Académie des Sciences. Tome sixième. Paris, 1835). 
(9) Stesoro C. Ta. et Stannios H_— Nouveau Manuel d’Anatomie comparée 


traduit par Sprine et Lacorparre. Paris, 1850. 

(6) EczerR A. — Die Anatomie des Frosches. Braunschweig, 1864. 

(?*) Horrmann C. K. — (Bronn’s K/assen und Ordnungen des Thier-Reichs. Am- 
phibien. Leipzig und Heidelberg, 1873-78). 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 79 


sono uniti per mezzo di una piega, poi si addossano all’ eso- 
fago al quale decorrono parallelamente. In corrispondenza del- 
l'estremo caudale dell'esofago incominciano le molteplici e 
grosse circonvoluzioni degli ovidutti, che vanno ad occupare le 
parti laterali della cavità viscerale. 

Gli ovidutti in corrispondenza della parete anteriore della 
cavità pleuro-peritoneale sono strettamente fissati ad essa dal 
peritoneo che loro passa ventralmente; verso l’ estremo dorsale 
di questa parete apparisce la piega dei reni primitivi molto 
bassa; nel resto del decorso gli ovidutti sono uniti alla parete 
dorsale della cavità viscerale sempre per mezzo della piega 
che si mantiene bassa, che è inserita prima in prossimità della 
colonna vertebrale, poi lungo il margine laterale dei reni, che 
seguita posteriormente con il mesovario. 

Sulla parete anteriore della cavità viscerale si gettano fasci 
del muscolo obliquo interno tra i quali il più robusto è quello 
che proviene dal processo trasverso della terza vertebra. 

Nel maschio della fara esculenta la piega del rene primi- 
tivo è rappresentata dal mesorchio il quale unisce il testicolo ai 
reni e sostiene i canaliculi efferenti. In avanti la piega del rene 
primitivo seguita con la piega peritoneale che fissa i corpi 
grassi. Fasci del muscolo obliquo interno si gettano come nella 
femmina sulla parete anteriore della cavità viscerale. 

Nella femmina e nel maschio del Bufo vulgaris si hanno le 
stesse disposizioni. che abbiamo trovate nella Rana esculenta, 
solo è da osservare che la piega degli ovidutti è più alta; che 
i fasci dell’ obliquo interno i quali si recano alla parete ante- 
riore della cavità pleuro-peritoneale sono molto più sviluppati. 

Non si può ammettere nella Rana esculenta e nel Bufo vul- 
garis il diaframma dorsale perchè la piega che contribuirà a 
costituire nella filogenesi il diaframma dorsale non è altro in 
questi animali che un mezzo di sostegno per gli ovidutti e per 
1 canaliculi efferenti. 

Non si devono considerare fasci diatrammatici quelli del 
muscolo obliquo interno che rafforzano la parete anteriore della 
cavità viscerale; sono fasci della muscolatu.a addominale i quali 
vengono a prendere inserzione medialmente e cranialmente 
contribuendo insieme al peritoneo a limitare in avanti la ca- 
vità viscerale. Del resto come si potrebbe dare ad essi signi- 
ficato di fasci divisorii quando non esiste cavità pleurica? 


80 D. BERTELLI 


Le membrane descritte da Goerte e da Uskow non possono 
essere omologizzate in verun modo con il diaframma ; non sono 
altro che legamenti del fegato e porzione del peritoneo che li- 
mita cranialmente la cavità viscerale. 

Studiarono lo sviluppo del diaframma negli anfibi GoertE, 
Uskow, Gietio-Tos (4). 

Goerte afferma che nei batraci la parete di chiusura para- 
gonabile al diaframma non manca e si sviluppa come nei mam- 
miferi. 

Uskow a proposito della rana afferma che deve ammettersi 
il diaframma ventrale che passa nella costituzione del pericardio 
definitivo. Riguardo al diaframma dorsale si trova una dispo- 
sizione incompleta perchè esso non chiude la cavità pleurica; 
all'incirca corrisponde allo stadio del coniglio di 10 millimetri. 
Uskow interpetrò probabilmente come diaframma dorsale la 
piega del rene primitivo. 

Gieio-Tos ha descritto nei girini degli anfibi anuri (Rana 
esculenta e Pelobates fuscus) un diaframma che è morfologica- 
mente identico a quello dei mammiferi. È posto al livello della 
prima vertebra, immediatamente dietro alla origine degli arti 
anteriori. Possiede il centro frenico in forma di foglia di tri- 
foglio, è munito di due pilastri in parte carnosi, in parte ten- 
dinei. 

Se negli embrioni di anfibi seguiamo lo sviluppo della ca- 
vità celomatica, sì trova che gli embriologi commisero lo stesso 
errore di coloro che si sono limitati alle ricerche morfologiche, 
hanno cioè anche essi descritto come diaframma negli anfibi 
la parete craniale della cavità celomatica. Negli anfibi non 
esiste diaframma dorsale. 


Urodeli. 


Nell'ordine degli urodeli ho studiato il Triton cristatus. 

Scenemer afferma che i fasci del muscolo trasverso dell’ad- 
dome i quali s'inseriscono allo sterno formano negli urodeli 
una specie di diaframma. 


(4) Gierio-Tos E. — Sul omologia tra il diaframma degli anfibi anurì e quello 
dei mammiferi. (Atti d. R. Accad. d. Sc. di Torino. Vol. 29. 1894). 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 81 


WiepersHEm (!) ammette che le prime tracce di un diaframma 
quale setto muscolare tra il torace e l'addome, apparisca negli 
urodeli. In questi si vede l'estremità anteriore del muscolo 
trasverso addominale internarsi tra il pericardio ed il fegato 
con fasci che si dispongono ad anello od a semianello. 

Nel Triton cristatus gl'infandibuli degli ovidutti sono posti 
in corrispondenza della parte laterale del pericardio, fissati a 
questo, alla parete ventrale della cavità viscerale ed al lega- 
mento coronario del fegato. 

Gli ovidutti in corrispondenza dell'estremo craniale non 
posseggono circonvoluzioni, sono membranacei, decorrono dal 
. basso all’alto, dall’avanti all'indietro costituendo una curva a 
concavità rivolta caudalmente che abbraccia il polmone e l'eso- 
fago. Con il polmone sono uniti per mezzo di qualche tratto 
fibroso (?). 

Incominciate le circonvoluzioni degli ovidutti, questi si tro- 
vano lateralmente alla colonna vertebrale, uniti alla parete 
dorsale della cavità viscerale da una corta piega; gli ovidutti 
percorrono questa parete fino alla cloaca ove sboccano. La por- 
zione membranacea degli ovidutti è fissata alla parete ventrale 
e dorsale della cavità viscerale da una corta piega che è la 
porzione cefalica di quella sopra ricordata. 

Nel Triton cristatus, come negli anuri, i canaliculi efferenti 
del testicolo percorrono il mesorchio. 

Anche nel Triton cristatus le pieghe dei reni primitivi adem- 
piono esclusivamente l'ufficio di mezzi di sostegno. 

Nella parete anteriore della cavità viscerale trovansi fibre 
muscolari striate, alle quali dobbiamo dare la stessa interpe- 
trazione che a quelle esistenti nella parete anteriore della ca- 
vità viscerale degli anuri. 


(4) WiepersHEIM R. — Lehrbuch der vergleichenden Anatomie der Wirbelibiere. 
Jena, 1886. 

(2) Per mettere bene in evidenza la porzione membranosa degli ovidutti devono 
adoprarsi esemplari conservati in alcool e nei quali fu iniettato alcool nella cavità vi- 
scerale, quando furono uccisi. Si lascino in sito il fegato, i polmoni, gli estremi cra- 
niali degli ovidutti e si eseguisca la dissezione prima ventralmente, poi lateralmente. 


82 D. BERTELLI 


Rettili. 


In questa classe ho studiato la morfologia delle pieghe dei 
reni primitivi nei serpenti e nei cheloni. Riguardo ai sauri mi 
limito a riportare le conclusioni generali di altro mio lavoro. 


Sauri. 


Rav (1) credè di scorgere un accenno ai pilastri dorsali di 
Uskow dei mammiferi in quella porzione di pieghe dei reni primi- 
tivi della Lacerta viridis,che è inserita nella cavità pleuro-perito- 
neale su la linea di confine tra la parte intensamente pigmen- 
tata e la parte lievemente pigmentata. Ecco come si esprime 
a questo proposito Ravn: “ ... Dagegen fehlen bei der Lacerta 
viridis die beiderseitigen dorsalen Abschnitte des Zwerchfells, 
namlich diejenigen, welche bei den Sàugern die Pleuralhohlen 
von der Peritonaalhòhle abschliessen. Doch meine ich eine 
Andeutung dieser dorsalen Abschnitte des Zwerchfells in den 
niedrigen Falten sehen zu kònnen, die sich in der Fortsetzung der 
hohen Urnierenfalte von den Grenzlinien des unpigmentirten (?) 
und des pigmentirten Theiles der Pleuroperitonàalhòhle erheben, 
und die sich bis auf die ventrale Bauchwand herum fortsetzen. 
Ich glaube nàmlich, dass diese Falten den dorsalen Falten in den 
Recessus parietales dorsales (Ustow’s dorsalen Pfeilern) ent- 
sprechen. Dass sie sich direct in die Urnierenfalten fortsetzen, 
ist nicht sonderbar, wenn man bedenkt, dass auch bei S&u- 
gethier-Embryonen die cranialen Spitzen der Urnierenfalten 
mit dem Zwerchfell in Verbindung stehen (Zwerchfellband der 
Urniere). 

Queste supposizioni di Ravn mi sembrarono degne di essere 
prese in alta considerazione perchè se lericerche di anatomia com- 
parata e le ricerche embriologiche l’ avessero dimostrate vere, 
si sarebbe trovato il modo di portare luce sulla filogenesi del 
diaframma dorsale ed anche l’ontogenesi sarebbe stata chiarita. 


(4) Ravn Ep. — Untersuchungen iiber die Entwickelung des Diaphragmas und 
der benachbarten Organe bei den Wirbelthieren. (Archiv fiir Anatomie und Entwicke- 
lungsgeschichte. 1889). 

(2) Veramente anche al davanti della piega esiste pigmento in piccola quantità. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 83 


Feci ricerche sull'anatomia comparata e sullo sviluppo delle 
pieghe dei reni primitivi nei sauri e venni a concludere che 
deve considerarsi come porzione delle pieghe dei reni primi- 
tivi anche quella piega che nasce dal tronco della vena cava 
posteriore, dal fegato, dalla parete ventrale della cavità pleuro- 
peritoneale. 

Studiai lo sviluppo delle. pieghe dei reni primitivi nei mam- 
miferi, confrontai i risultati di queste indagini con quelli ot- 
tenuti dalle indagini fatte nei sauri e potei concludere che nei 
sauri le pieghe dei reni primitivi prendono parte, come nei mam- 
miferi, alla costituzione del diaframma dorsale. Deve conside- 
rarsi diaframma dorsale nei sauri quella porzione delle pieghe 
dei reni primitivi che sorge dal tronco della vena cava poste- 
riore, dal fegato, dalle pareti ventrale laterale e dorsale della 
cavità peritoneale. Nella Seps chalcides, nella Lacerta viridis, 
nella Lacerta muralis la linea d’inserzione sul dorso e sulla 
parete laterale corrisponde alla linea che divide la parte inten- 
samente pigmentata dalla parte lievemente pigmentata della 
cavità peritoneale. 

Le pieghe dei reni primitivi nella Lacerta agilis si svilup- 
pano dal connettivo che trovasi nella superficie ventrale del 
corpo di Wotrr. Il corpo di Woxrr è unito ventralmente per 
mezzo di queste pieghe alla membrana pleuro-pericardica ed al 
connettivo delle pareti laterali del corpo (Fig. 1 e 2), in stadi più 
avanzati è unito anche al fegato. Le pieghe medialmente e lateral- 
mente sono limitate dalla cavità celomatica; caudalmente pre- 
sentano un margine libero nella cavità celomatica; cranialmente 
seguitano con il connettivo nel quale sono accolti i canaliculi 
del corpo di Wotrr. Il corpo di Worrr trovasi anche al di sopra 
delle pieghe, apparisce appena incomincia cranialmente la cavità 
celomatica. 

In stadi molto giovani si trova solo l'estremo craniale delle 
pieghe (Fig. 1 e 2). In questi stadi nella superficie laterale e 
mediale delle pieghe, nella superficie ventrale e in parte nella 
superficie laterale del corpo di Wotrrr (Fig. 1 e 2) si incontra 
l’abbozzo dell’ostio addominale del condotto di Miiuer. 

In stadi di sviluppo più avanzato (embrioni di Lacerta agilis 
con lunghezza massima di 7 !/,, 8 !/, mm.) le pieghe appariscono 
bene sviluppate. Dorsalmente mantengono il solito rapporto con 


84 D. BERTELLI 


il corpo di Wotrr, ventralmente sono unite alle pareti laterali del 
corpo, al septum transversum, al fegato. Quando nell'esame delle 
sezioni trasversali poste in serie cessano questi ultimi rapporti, 
le pieghe rimangono libere ventralmente .(Fig. 3). Sul margine 
libero di esse si vede l’ostio addominale del condotto di MiLLEeR, 
poi sempre su questo margine apparisce il condotto di MùLLeR 
che spostandosi insieme alle pieghe lateralmente e dorsalmente 
sul corpo di Woter, va ad addossarsi al condotto di Worrr. Queste 
disposizioni ci dimostrano che le pieghe dei reni primitivi fun- 
zionano da mezzo di sostegno per il condotto di MùLLER. 

Mentre in stadi di sviluppo molto giovani il corpo di Wotrr 
è unito strettamente alla parete dorsale della cavità celoma- 
tica (Fig. 1 e 2) ed il connettivo del corpo di Woter seguita su 
larga estensione con il connettivo del dorso, in embrioni di 
Lacerta agilis lunghi 8!/, mm. si trova il corpo di Woter spo- 
stato lateralmente e ventralmente. Questi spostamenti del corpo 
di Worrr hanno condotto alla formazione di una corta e sottile 
piega che sostiene il corpo di Wotrr (Fig. 3). La piega che ri- 
mane medialmente e dorsalmente al corpo di Wotrr è la por- 
zione delle pieghe dei reni primitivi che rimane dorsalmente 
all’ovidutto o all’epididimo negli individui adulti. 

In quanto ai sauri mi limito a riportare queste conclusioni 
generali, non mi sarebbe possibile trattare più estesamente di 
quello che ho fatto in altro lavoro, questo tema. Per la cono- 
scenza dei minuti particolari sulla morfologia e sullo sviluppo 
delle pieghe dei reni primitivi nei sauri rimando il lettore al 
mio lavoro. 


Serpenti. 


In questo ordine ho studiato individui della famiglia dei 
colubri, il Tropidonotus natrix ed il Coluber viridiflavus. In am- 
bedue le specie le pieghe dei reni primitivi, gli ovidutti, gli 
epididimi presentano disposizioni analoghe, così che posso com- 
prenderle in una sola descrizione. 

Gli ovidutti sono molto lunghi, membranacei nel loro estremo 
craniale, poi circonvoluti fino in prossimità dell'estremo ante- 
riore dei reni; nel resto del decorso non presentano circon- 
voluzioni. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 85 


L'infundibulo dell’ ovidutto è situato poco al davanti del- 
l'estremo craniale degli ovari. 

Gli ovidutti decorrono prima lungo il tubo digerente, late- 
ralmente a questo. Poco al di dietro dell’estremo craniale del 
rene destro incominciano a tendere verso la linea mediana. 
In vicinanza dell*estremo caudale giungono a toccarsi sulla 
linea mediana con i margini mediali, poi si allontanano lieve- 
mente e sboccano nella cloaca. 

L’ovidutto di destra, come l’ovario, è situato molto più 
cranialmente. 

Gli ovidutti sono muniti di una larga piega di sostegno per 
quasi tutta l'estensione, ne sono sprovvisti solo verso l'estremo 
caudale ove poggiano su l'intestino retto. La piega dell’ ovi- 
dutto si attacca alla parete dorsale della cavità viscerale; verso 
l'estremo posteriore s'inserisce alla superficie laterale del tubo 
digerente. Il margine ventrale del rene è unito alla piega per 
mezzo di lacinie connettive. 

Anche gli epididimi sono molto lunghi, incominciano subito 
al davanti dell’estremo craniale del testicolo, decorrono prima 
dorsalmente al tubo digerente appoggiati strettamente al me- 
senterio dorsale. In corrispondenza dell’estremo craniale del 
rene discendono ventralmente e decorrono lungo il margine 
ventrale del rene lateralmente al tubc digerente e lateralmente 
al tubo digerente si mantengono fino allo sbocco nella cloaca. 
Gli epididimi sono fissati prima sul mesenterio dorsale; in cor- 
rispondenza dei reni sono uniti per mezzo di una corta piega 
al margine ventrale di questi visceri, poi aderiscono al retto. 
In corrispondenza dei testicoli, gli epididimi decorrono lungo il 
margine mediale di quelli, ad essi strettamente appoggiati. 

Il testicolo sinistro è situato più caudalmente del destro e 
per conseguenza da questo lato l’epididimo è più corto. 

È posto sul mesenterio dorsale anche il rudimento del con- 
dotto di MiLLer che fa seguito cranialmente all’ epididimo. 

Nel Tropidonotus natrix, nel Coluber viridiflavus si ha una 
piega peritoneale che funge esclusivamente da mezzo di sostegno 
dell’ovidutto; gli epididimi sono sprovvisti di piega, quindi dob- 
biamo indurne che in tali specie non esiste diaframma dorsale. 


86 D. BERTELLI 
Cheloni. 


In questo ordine ho studiato la Testudo graeca e la Cistudo 
curopaea. 

Bosanus (1) descrisse nella Cistudo europaea come diaframma 
un muscolo che sorto dalla seconda e terza vertebra dorsale 
e dalle coste corrispondenti si reca sulle parti laterali del pe- 
ricardio e si attacca ai polmoni ed al peritoneo. 

Mecxer estese alle tartarughe terrestri quanto Boyanus af- 
ferma riguardo al diaframma della Cistudo europaea. 

Anche Srannius e Siesorp accettano le opinioni di Boyanus. 

Roucer afferma che la cavità del tronco dei cheloni non è 
divisa da alcun piano nè muscolare, nè fibroso. Nei cheloni il 
diaframma non è più in nessun modo un setto muscolare che 
separa l’ apparecchio respiratorio dai visceri dell’apparecchio 
digestivo, non è altro che una parete contrattile della cavità 
del tronco nella sua estremità anteriore. 

ScanEDER afferma che possono considerarsi come una traccia 
di diaframma nei cheloni i due fasci muscolari appartenenti 
al trasverso, i quali sorti dal corpo della terza e della quarta 
vertebra toracica, vanno ai polmoni. 

Nella Testudo graeca esistono sviluppatissime le pieghe dei 
reni primitivi nelle femmine, nei maschi sono rudimentarie. 

Nella Testudo graeca si ha rispetto alla topografia dei pol- 
moni una disposizione ben diversa da quella dei sauri e dei 
serpenti. Il peritoneo passa sotto alla superficie ventrale dei 
polmoni e li mette fuori della cavità peritoneale, il peritoneo 
forma un piano che costituisce la superficie dorsale della ca- 
vità peritoneale estesa per quanto sono estesi i polmoni. Ho 
voluto accennare a questa disposizione del peritoneo perchè 
meglio possa intendersi la topografia delle pieghe dei reni pri- 
mitivi. 

Le pieghe dei reni primitivi nella femmina si attaccano alla 
parete posteriore ed alla parete dorsale della cavità perito- 
neale; sulla parete dorsale la linea d’inserzione è situata prima 
un po’ medialmente, poi un po’ lateralmente ad una linea curva, 


(1) Bosanus. — Anatome Testudinis europaeae. Vilnae, 1819-21. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 87 


concava all’interno, che corrisponde alla periferia dei polmoni. 
Le pieghe verso l’estremo craniale si abbassano molto e vanno 
a finire sul legamento coronario del fegato. A destra l'estremo 
craniale delle pieghe percorre la parete craniale della cavità 
viscerale prima di raggiungere il legamento coronario del fe- 
gato; a sinistra l'estremo craniale delle pieghe per raggiungere 
il legamento coronario del fegato passa sul fondo gastrico al 
quale è spesso intimamente unito. 

Talora le pieghe dei reni primitivi dopo essersi molto ab- 
bassate cranialmente, si risollevano falciformi come nei sauri. 

Il mesovario è attaccato alla superficie mediale delle pieghe. 

Le pieghe dei reni primitivi sono anche nel maschio, ma 
assai ridotte, caudalmente costituiscono il mesorchio nel quale 
decorrono i canaliculi efferenti del testicolo. 

Anche nella Cistudo europaea esistono nelle femmine pieghe 
dei reni primitivi larghe, fluttuanti, inserite alla parete cau- 
dale e dorsale della cavità viscerale; cranialmente si gettano 
in quella piega.del peritoneo che sorge dalla parete laterale 
della cavità viscerale per fissare la base dei polmoni. Su que- 
sto tratto peritoneale la piega si sperde. 

Il mesovario ha con le pieghe dei reni primitivi il mede- 
simo rapporto che nella Testudo graeca. 

Nel maschio della Cistudo europaea le pieghe dei reni pri- 
mitivi sono anche più ridotte che nella Testudo graeca. Il me- 
sorchio seguita cranialmente in una piega rudimentaria, fissata 
alla parete dorsale della cavità viscerale e che finisce sul dorso 
al di dietro di quel tratto peritoneale sopra ricordato che ri- 
copre la base dei polmoni. 

Le pieghe dei reni primitivi nelle femmine dei cheloni hanno 
grande rassomiglianza con le pieghe che trovammo nelle fem- 
mine dei sauri, in fatti per un tratto assai esteso non conten- 
gono ovidutto, sono inserite sulla parete dorsale e craniale 
della cavità viscerale, sono assai larghe nella loro metà poste- 
riore, si abbassano molto verso l’ estremo craniale e si risol- 
levano talvolta in pieghe falciformi proprio come nei sauri. 
Anche nei maschi dei cheloni esistono, sia pure allo stato ru- 
dimentario, le pieghe dei reni primitivi. A queste pieghe dei 
cheloni deve darsi la medesima interpetrazione che a quelle tro- 
vate nei sauri. 

Sc. Nat., Vol. XVI 6 


88 D. BERTELLI 


I fasci muscolari descritti come diaframma da Boyanus, da 
MecxeL, da SieBoLnp e Srannivs, da ScanEDER non devono essere 
| considerati fasci diaframmatici, in fatti non servono a sepa- 
rare due cavità, come farebbe supporre il loro nome, ma solo 
contribuiscono a rafforzare il peritoneo che limita cranialmente 
la cavità viscerale. Anche nei pesci e negli anfibi esistono nella 
parete anteriore della cavità viscerale fibre muscolari appar- 
tenenti alla muscolatura addominale, ma lo studio dello svi- 
luppo ci ha dimostrato che questa parete corrisponde alla pa- 
rete craniale della cavità celomatica. 

La filogenesi e l’ontogenesi ci insegnano che al primo ac- 
cenno del diaframma dorsale prendono parte le pieghe dei reni 
primitivi. 


Uccelli. 


Si ammette comunemente che gli uccelli posseggano due 
diaframmi, un diaframma polmonare (Sarpev) e un diaframma 
toraco-addominale (SappEY). 

Chiamerò il diaframma polmonare diaframma dorsale in 
riguardo al modo di svilupparsi. 

Studiarono il diaframma degli uccelli molti ed abili ricer- 
catori. 

AxrisroreLE (1) ricorda varie volte il diaframma degli uccelli. 

Coromso (?) asserisce che agli uccelli manca il diaframma. 

Correr (3) indicò chiaramente il diaframma dorsale. 

Harvey (4) ed Haxrer (°) lasciarono nozioni incomplete sul 
diaframma degli uccelli. 

PerauLr (5) descrisse per il primo nello struzzo e nel casuario 
il diaframma dorsale che chiamò muscolo del polmone. Questo 


(4) AristoreLIs — De Animalibus Historiae, lib. III, cap. I. 

(2) Corumsi R. — De re Anatomica libri XV. Parisiis, 1572. 

(£) Correr V. — Externarum et internarum principalium humani corporis partium 
tabulae. Noribergae, 1573. dii 

(4) Harvey W. — Exercitationes de Generatione animalium. Exercitatio 3. Am- 
stelaedami, 1651. 

(3) HaLLer A. — Elementa Physiologiae. Tomus tertius. Lausannae, MDCCLXI. 

(6) PeraULT. — Memoires pour servir à l Histoire naturelle des animaux. (Me- 
moires de l’Academie des Sciences. Tome I. MDCCXXXI). 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 89 


setto è muscolo-aponevrotico, nasce per mezzo di sei capi carnosi 
dalla porzione vertebrale delle coste. PerAuLt ricorda anche il 
diaframma toraco-addominale. 

BartoLIno (*) accenna al diaframma che ricopre i polmoni ed 
a fibre diaframmatiche che si attaccano allo sterno. 

RioLano (?) e Morgagni (3) non ammisero il diaframma negli 
uccelli. 

Hunter (4) afferma che a torto si nega il diaframma negli 
uccelli. Descrive come diaframma la membrana che ricopre la 
superficie ventrale dei polmoni e che sorge dalla faccia interna 
delle coste. 

GirarpI (9) ammette solo il diaframma toraco-addominale. 

Dobbiamo a Sappry (9) una descrizione particolareggiata e 
molto esatta del diaframma dorsale degli uccelli. 

SappeyY afferma che negli uccelli devono considerarsi due dia- 
frammi: un diaframma polmonare e un diaframma toraco-addo- 
minale. Nel diaframma polmonare, che ha forma triangolare, 
considera due superfici, una superiore, una inferiore; due mar- 
gini, uno destro, uno sinistro; la base; la sommità. La super- 
ficie superiore è in rapporto con i polmoni, la superficie infe- 
riore è in rapporto con le sacche aerifere toraciche in avanti, 
con le sacche aerifere diaframmatiche in dietro. I margini sono 
fibrosi nel terzo anteriore, muscolari nei due terzi posteriori. 
La prima e la seconda costa sono sprovviste di fasci musco- 
lari. Costantemente il primo fascio contrattile parte dall’ an- 
golo corrispondente dello sterno, il secondo origina dalla terza 
costa, il terzo, il quarto ed il quinto originano dalle coste suc- 
cessive. La base descrive una curva a concavità posteriore, si 
attacca con la parte mediana alla penultima vertebra dorsale 
e con le parti laterali alla superficie interna delle due ultime 


(4) BarrHoLINI C. — Diaphragmatis structura nova. (Manceti J. Bibliotheca ana- 
tomica. Tomus primus. Genevae, MDCXCIX), 

(2) Riorani J. — Opera anatomica. Lutetiae Parisiorum, MDCL. 

(3) Morgagni J, B. — Epistolae anatomicae. Lugduni Batavorum, MDCCXXVIII. 

(4) Hunter J. — An Account of certain Receptacles of air in Birds. (Philosophi- 
cal Transactions. V. LXIV, Part I. London, 1774). 

. (©) GrrarDI M. — Saggio di osservazioni anatomiche intorno agli organi della 
respirazione degli uccelli. (Memorie di Matematica e di Fisica della Società italiana. 
Verona, 1784). 

(6) Sappev Pa. — Recherches sur l'appareil respiratoire des oiseaua. Paris, 1847. 


90 D. BERTELLI 


coste. La sommità è interrotta per accogliere l’ estremo infe- 
riore dei muscoli cervicali. I fasci contrattili del diaframma 
polmonare presentano dimensioni proporzionate allo sviluppo 
generale del corpo degli uccelli. Il diaframma polmonare è in- 
nervato da rami degli intercostali (4). 

Roucer ammette i due diaframmi; considera quello toraco- 
addominale come il vero diaframma e lo chiama diaframma 
addominale. Vorrebbe perciò che al diaframma dorsale si con- 
servasse il nome datogli da PrrAuLt di muscolo dei polmoni. 

Treri (2) nel 1871, niuna cura prendendosi della ricerca bi- 
bliografica, descrisse il diaframma dorsale del tacchino soste- 
nendo che il diaframma degli uccelli fu da lui additato e de- 
scritto. 

GeGENBAUR (3) fa brevissima descrizione del diaframma dorsale. 

Capiar (4) afferma che negli uccelli il cuore non è separato 
dalla cavità peritoneale per mezzo di un setto trasverso para- 
gonabile al diaframma, ma da due setti o due diaframmi tra 
i quali sono sacche aerifere. 

Huxtey (°) ricorda il diaframma dorsale chiamandolo “ pul- 
monary aponeurosis ,. Chiama “ costo pulmonary muscles , i fa- 
scetti che nascono dalle coste e si gettano su l’aponevrosi pol- 
monare. Descrive le inserzioni del diaframma toraco-addomi- 
nale che chiama “ oblique septum ,. Conferma che il diaframma 
dorsale è innervato da rami degli intercostali. 

ParKER (6) accenna ai due diaframmi della Rea macrorhyn- 
cha e della Rhea darwini, che paragona con quelli del tacchino 
e della Apterix. 

Campana (‘°) che ha fatto un lavoro esteso su l'apparecchio 


(4) Sappey ha riprodotto il diaframma polmonare alle Fig. 1 e 2 della Tavola se- 
conda. Nella parte descrittiva delle ricerche evitò di riferirsi ad un tipo speciale, ma 
per la esecuzione delle figure scelse tra i palmipedi l’anatra. 

(?) Tiri A. — Del muscolo diaframma negli uccelli. Catania, 1871. 

(3) GecensAUR C. — Grundziige der vergleichenden Anatomie. Leipzig, 1870. 

(4) Capiar. — Du développement de la portion cephalo-thoracique de l Embryon. 
(Journal de l’Anatomie et de la Physiologie. Paris, 1878). 

(9) HvxLey Ta. — On the respiratory organs of Apteryx. (Proceedings of the 
zoological Society of London. 1882, Part III). 

(6) ParKER W. — Note on the respiratory organs of Rhea. (Proceedings of the 
zoological Society of London. 1883, Part II). 

(7) Campana. — Physiologie de la respiration chez les ciseaua. Paris, 1875. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 91 


respiratorio del poilo, asserisce che: “ Les oiseaux ne possèdent 
en réalité aucun diaphragme, ni complet, ni rudimentaire ,. 

Scanemer descrive brevemente solo il diaframma dorsale. 

Wiepersaem chiama vero diaframma il diaframma dorsale, 
descrive come fascia il diaframma toraco-addominale. 

Gapow (1!) ammette il diaframma dorsale e il diaframma 
toraco-addominale. 

Le pieghe dei reni primitivi prendono parte alla costituzione 
del diaframma dorsale. Studierò prima la morfologia di questo 
setto, poi indagherò come le pieghe dei reni primitivi si svi- 
luppano e come partecipano alla costituzione del diaframma. 

Le disposizioni fondamentali del diaframma dorsale degli 
uccelli furono rese note da Correr e da PerauLt, la descrizione 
particolareggiata di questo diaframma si deve a SApPey. 

Dei risultati ottenuti dalle ricerche fatte sulla morfologia 
del diaframma dorsale credo utile riportare i seguenti. 

Non deve considerarsi fascio diaframmatico quello che pro- 
viene dallo sterno; questo muscolo manda soltanto una debole 
espansione tendinea sull’aponevrosi polmonare. 

La porzione fibrosa dei margini del diaframma dorsale si 
attacca alla superficie interna della prima e della seconda costa. 
La base del diaframma s'inserisce al corpo della penultima 
e dell'ultima vertebra dorsale ed alla penultima costa. Medial- 
mente l’aponevrosi diaframmatica si fonde con l’aponevrosi 
che ricopre i muscoli cervicali ventrali profondi. 

L'aorta perfora il diaframma in corrispondenza dell’estremo 
posteriore dei muscoli cervicali sulla linea mediana e dopo 
breve tragitto si rende nuovamente libera. 

Il diaframma dorsale è innervato da rami degli interco- 
stali (2). 


(4) Gapow H. — Vogel. ( Bronns Klassen und Ordnungen des Thier-Reichs. 
Leipzig, 1891). 

(2) Nei mammiferi rami degli intercostali concorrono alla innervazione del dia- 
framma. , 

Ricordano rami diaframmatici degli intercostali CoLomo (CoLumsi R. De re Ana- 
tomica, libri XV. Parisii, 1572); RioLano (RioLanI J. Opera anatomica. Lutetiae Pa- 
risiorum, MDCL); Hrister (HristeRI L. Compendium anatomicum. Venetiis, MDCCLV); 
PaLrin (PaLFINO G. Anatomia chirurgica. Venezia, MDCCLVIII) ; Luscnra (LuscHKA H. 
Die Anatomie des Menschen. Tiibingen, 1862); Scawanse (ScawaLBe G. Leherbuch der 
Neurologie. Erlangen, 1881). 


92 D. BERTELLI 


Le arterie sono fornite da un ramo cospicuo che nasce dalla 
succlavia. Questo ramo passa immediatamente sotto l'estremo 
ventrale della prima costa e subito al di sopra dell’ estremo 
ventrale della seconda, poi decorre nella superficie interna della 
cavità pleurica in prossimità dell'estremo inferiore della por- 
zione vertebrale delle coste. Lungo il suo tragitto dà di tratto 
in tratto ramoscelli al diaframma. 

Ed ora passiamo a studiare lo sviluppo delle pieghe dei reni 
primitivi negli uccelli. 

Barr (1) osservò il diaframma dorsale in un embrione di 
pollo al diciannovesimo giorno di incubatura. 

His (?) interpetrò come abbozzo del diaframma il tratto di 
fusione dei due foglietti del mesoderma. Barr aveva già veduto 
questa fusione, ma come abbozzo del diaframma fu interpe- 
trata da Hrs. 

Uskow allo scopo di stabilire confronti con il diaframma dei 
mammiferi fece ricerche anche su lo sviluppo del diaframma 
dorsale del pollo. Afferma che la massa longitudinale contri- 
buisce a fissare i polmoni con due prolungamenti laterali, uno 


Pansini (Del Plesso e dei Gangli propri del Diaframma. Progresso medico. Na- 
poli, 1888) afferma che al plesso diaframmatico di piccoli mammiferi: cavie, conigli, 
sorci bianchi prendono parte anche rami provenienti dai tre ultimi nervi intercostali. 

CavaLik (De l’innervation du diaphragme par les nerfs intercostaua. Journal de 
l’Anatomie et de la Physiologie. Paris, 1896) fece ricerche accurate nell’ uomo e giunse 
alle seguenti conclusioni. Un certo numero di rami dei 6 ultimi nervi, intercostali va 
al diaframma; sembra che l’undecimo, l'ottavo ed il settimo siano i più fecondi, ven- 
gono in seguito il decimo, il dodicesimo ed il nono. I rami diaframmatici emanano 
dagli intercostali al momento che questi valicano le inserzioni del diaframma. I filetti 
diaframmatici sono 5 o 6 per ogni metà del diaframma. 

Riguardo ai risultati ottenuti da Pansini debbo dichiarare che certamente rami 
degli intercostali si recano al diaframma, ma ad onta di accurate ricerche, non mi 
fu possibile verificare che partecipino alla innervazione di questo muscolo così larga- 
mente come vorrebbe PANSINI. 

Cavanié ebbe il torto di trascurare la bibliografia, riferisce ingiustamente a Lu- 
scHka il merito di avere scoperta questa innervazione accessoria. 

Ho potuto verificare che rami degli intercostali concorrono alla innervazione del 
diaframma nell’asino, nel cavallo, nella pecora, nel cane. 

Così possiamo concludere che il diaframma dorsale è innervato negli uccelli dagli 
intercostali; che tra i mammiferi rami degli intercostali prendono parte alla innerva- 
zione del diaframma nei perissodattili, negli artiodattili, nei roditori, nei carnivori, 
nei primati. 

(4) Baer K. E. — Ueber Entwickelungsgeschichte der Thiere. Kinigsberg, 1828. 

(2) His W. — Untersuchungen diber die erste Anlage des Wirbelthierleibes. Leipzig, 
1868. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 93 


destro, uno sinistro. Dalla presenza di questi due prolungamenti 
| ne deriva che non è facile trovare nel pollo quella porzione 
del diaframma dorsale che corrisponde alla parte media del 
diaframma dorsale del coniglio. Nel coniglio la porzione me- 
diana del diaframma dorsale risiede lungo la superficie dorsale 
del fegato, nel pollo risiede lungo la superficie ventrale dei 
polmoni. 

Le pieghe dei reni primitivi sono negli uccelli come nei 
sauri strettamente legate nel loro sviluppo allo sviluppo del corpo 
di Wotrr, del condotto di Worrr e del condotto di MiiLLer. 

Coloro che si occuparono dello sviluppo del corpo di WotFr, 
del condotto di Worrr e del condotto di MiiLeR accennarono alle 
pieghe dei reni primitivi ma non dettero loro quel significato che 
ad esse deve attribuirsi. E poi agli embriologi è caduta sott'occhio 
solo la porzione di queste pieghe che è chiaramente in rapporto 
con il corpo di Wotrr, con il condotto di Wotrr, con il condotto 
di Mirer e la osservarono solamente nei primi stadi di svi- 
luppo e ad essa non dettero importanza di sorta. Non ricor- 
dano gli embriologi invece la porzione craniale delle pieghe 
dei reni primitivi, quella porzione appunto che concorre alla 
formazione del diaframma dorsale e inizia lo sviluppo delle 
pieghe. 

Per le ricerche sullo sviluppo delle pieghe dei reni primi- 
tivi negli uccelli ho scelto embrioni di pollo. 

Le pieghe dei reni primitivi appariscono in embrioni di 
5 giorni, tese obliquamente dall'alto al basso, dall’esterno al- 
l'interno, dall’indietro all’innanzi tra la parete laterale del 
corpo da una parte, il septum trasversum ed .il legamento pol- 
monare accessorio dall’altra (Fig. 4). A questo stadio è già svi- 
luppato il condotto di MùLrerR che presenta rapporti intimi con 
le pieghe. 

Appena negli embrioni di 5 giorni finisce caudalmente nei 
tagli trasversi la parete dei canali di Cuvier, si incomincia a 
vedere l'estremo craniale delle pieghe dei reni primitivi. 

Le pieghe (Fig. 4) sono limitate dorsalmente dalla cavità ce- 
lomatica e dalle vene cardinali posteriori; ventralmente sono 
limitate prima dalla cavità celomatica e dal seno venoso, più 
in dietro sono limitate ugualmente dalla cavità celomatica, ma 
a destra prendono rapporto intimo con la parete della vena 


94 D. BERTELLI 


cava posteriore, a sinistra incontrano tessuto epatico; cranial- 
mente si fondono con la parete dei canali di Cuvier; caudal- 
mente presentano un margine libero nella cavità celomatica, 
rivolto in dietro; lateralmente seguitano con il connettivo della 
parete laterale del corpo; medialmente si fondono con il septum 
transversum e con il legamento polmonare accessorio. 

Poco prima che finiscano le piege dei reni primitivi si vede 
nella superficie dorsale di esse un ispessimento dell'epitelio ce- 
lomatico (Fig. 4) come trovasi nei sauri (confronta Fig. 1 e 2). 
Finite le pieghe questo ispessimento epiteliale seguita nella pa- 
rete laterale della cavità celomatica (Fig.5) su la quale si sposta 
obliquamente in alto e in dietro. Di questa striscia di epitelio 
celomatico ispessito si trova il limite caudale ventralmente alle 
vene cardinali posteriori (Fig. 6). Questo ispessimento dell’epi- 
telio provvede alla formazione dell’ostio addominale del con- 
dotto di MùLrer. Ho voluto descrivere e disegnare questa striscia 
di epitelio per mostrare l’ intimo rapporto, come nei sauri, tra 
piega del rene primitivo e condotto di MtiiLLeR e poi perchè non 
trovo descritta questa disposizione dell'epitelio nei lavori di 
coloro che studiarono accuratamente nel pollo lo sviluppo del 
condotto di Mirer come BornzavPT (1), WaLDEYER (2), SERNOFF (3), 
Gasser (4), Horrmanx (?). 

Giunta la striscia di epitelio celomatico ventralmente alle 
vene cardinali posteriori (Fig. 6) apparisce sostenuta da un 
piccolo rilievo connettivale, dipendenza del connettivo del dorso. 


(4) BornzauPT Ta. ( Untersuchungen diber die Entwickelung des Urogenitalsy- 
stems beim Hihnchen. Riga, 1867) accenna a rapporto del condotto di MiiLLeR con 
l’abbozzo del legamento frenico del rene primitivo. Ma alla Fig. 12 della Tav. I, ove 
questo rapporto dovrebbe. essere illustrato, si vede il condotto di MiiLLeR posto sulla 
parete dorsale del celoma e ventralmente ai polmoni si vede l’abbozzo del diaframma 
dorsale che non ha rapporto di sorta con il condotto di MiLER. 

(2) Waxrpeyer W. — Eierstock und Ei. Leipzig, 1870. 

(3) Sernorr D. — Zur Frage ‘iber die Entwickelung der Samenrohrchen des 
Hodens und der Micer' schen Gange. (Centralblatt fir die medicinischen Wissen- 
schaften, N. 31. 1874). 

(4) Gasser E. (Beitrige zur Entwicklungsgeschichte der Allantois der MiinveR’ 
schen Ginge und des Afters. Frankfurt a. M., 1874) afferma che in embrione di 8 
giorni il condotto di MiiLLER arriva, a sinistra, subito sotto al diaframma, a destra 
finisce un po’ prima. 

(©) Horrman C. K.— Étude sur le développement de l'appareil uro-genital des 
Oiseaux. Amsterdam, 1892. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 95 


Più in dietro la striscia si cambia in scanalatura (Fig. 6) e co- 
stituisce l’ostio addominale del condottò di MùLter. Procedendo 
caudalmente nell'esame delle sezioni in serie trovasi che la 
scanalatura seguita nel condotto di MùrreR il quale è compreso 
nel connettivo che accoglie i canaliculi del corpo di Wotrr ed 
il condotto di Wotrr. In mezzo a questo connettivo il condotto 
di MùLLer prima è situato ventralmente, poi si sposta lateral- 
mente e dorsalmente a misura procede in dietro. 

In questo stadio esiste solo l'estremo craniale delle pieghe 
dei reni primitivi; anche nei sauri abbiamo trovato che si svi- 
luppa prima l'estremo craniale. Nei sauri, in stadi molto gio- 
vani, trovasi il corpo di Wocrrr fino al livello dell'estremo 
craniale della cavità celomatica, quindi al di sopra dell’estremo 
cefalico delle pieghe. Negli uccelli invece l’ estremo craniale 
delle pieghe è situato più innanzi del corpo di Votre, quindi 
al loro apparire le pieghe non sono in rapporto con il corpo 
di Worrr, ma esiste però rapporto intimo, come nei sauri, tra 

pieghe e condotto di Mister. 

i In embrione di 6 giorni si trova che le pieghe dei reni pri- 
mitivi si sono sviluppate per tutta la loro estensione, ma sono 
assai basse; all’ estremo craniale si è aggiunto il resto. In 
embrioni di 8 giorni le pieghe presentano i medesimi rapporti 
che nell’embrione di 6 giorni, ma sono assai meglio sviluppate. 
Descriverò ed illustrerò con mt i LIERNUIA delle pieghe in 
embrioni di 8 giorni. 

In embrioni di 8 giorni, poco prima che finisca la unione 
delle pieghe dei reni primitivi al resto del diaframma dorsale 
si scorge nella superficie superiore del diaframma dorsale l’ostio 
addominale del condotto di Mùxrer (Fig. 7). 

Finito il rapporto delle pieghe con il resto del diaframma 
dorsale le pieghe rimangono libere con il loro margine ven- 
trale nella cavità celomatica (Fig. 8) e recano su questo mar- 
gine, prima l’ostio addominale del condotto di Mixer, poi il 
condotto di MiiLer. Le pieghe, che sono unite lateralmente alla 
parete laterale del corpo, si spostano su questo in alto e in 
dietro a misura procedono caudalmente e vanno ad unirsi al 
connettivo che accoglie il corpo di Wotrr ed il condotto di 
Wotrr (Fig. 9). Il condotto di MiLLeR percorre obliquamente 
dall’innanzi all'indietro, dal basso all'alto la superficie laterale 
del corpo di Wocrr, 


96 D. BERTELLI 


In questo stadio si vede chiaramente come le pieghe pren- 
dono parte alla costituzione del diaframma dorsale, sì possono 
differenziare dal resto del diaframma dorsale per la presenza 
nella loro superficie superiore di epitelio celomatico inspessito. 
I loro rapporti con il condotto di MirLeR e con il corpo di 
Wotrr ci presentano mirabile rassomiglianza con le disposizioni 
trovate nei sauri (confronta Fig. 1, 2, 3). 

Al decimo giorno d’incubazione gli ovidutti appariscono 
cranialmente in un piccolo spazio che risiede nel connettivo 
della base dei polmoni, uniti con una corta piega a questo con- 
nettivo; dopo brevissimo decorso la piega passa ad inserirsi 
nella superficie laterale del corpo di Wotrr. 

In embrione di 14 giorni il diaframma dorsale è bene co- 
stituito, provvisto già dei fascetti muscolari. Esiste solo il con- 
dotto di MùLrer di sinistra che ha perduto ogni rapporto con 
il polmone. 


Mammiferi. 


In altro lavoro dimostrai che le pieghe dei reni primitivi 
prendono parte nei mammiferi alla costituzione del diaframma 
dorsale. Ora che conosciamo quale parte prendono allo sviluppo 
del diaframma dorsale le pieghe dei reni primitivi nei sauri, 
nei cheloni e negli uccelli, voglio più estesamente studiare lo 
sviluppo di queste pieghe nei mammiferi per avere copioso ma- 
teriale allo scopo di stabilire omologie. 

Studierò anche lo sviluppo del legamento diaframmatico del 
rene primitivo e così ci renderemo ragione dell'intimo rapporto 
che esiste tra reni primitivi e diaframma dorsale. 

Uskow e Ravw (*) ammisero che pieghe dorsali e pieghe ven- 
trali chiudano il recesso parieto-dorsale. 

Lockwoop (?) riguardo allo sviluppo del diaframma dorsale si 
esprime in questa guisa: “ The dorsal diaphragm is an ingrowth 
from the body wall into the recessus pulmonalis ,. i i 


(4) Ravn Ep. — Ueber die Bildung der Scheidewand zwischen Brust — und Bauch- 
hohle in Sciugethierembryonen. (Archiv. fiir Anatomie und Entwickelungsgeschichte. 
1889). 

(2) Locgwoop C. B. — The early development of the pericardium, diaphragm, and 
great veins. (Philosophical Transactions, Vol. 179. London, 1888). 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 97 


Bracger (!) ha descritto sotto il nome di membrane pleuro- 
peritoneali le pieghe dei reni primitivi. Descrive in queste mem- 
brane, ai primi stadi di sviluppo, un margine anteriore inse- 
rito sulla parete posteriore concava del canale di Cuvier; un 
margine superiore situato in dentro del rilievo che forma la 
vena cardinale sulla parete dorsale del celoma; un margine in- 
feriore inserito sulla faccia dorsale della membrana pleuro-pe- 
ricardica immediatamente in dentro della sua inserzione alla 
parete laterale del corpo; un margine posteriore concavo, li- 
bero nel celoma. Alle sue due estremità dorsale e ventrale que- 
sto margine si continua in due rilievi (pilastri di Uskow). Bra- 
CHET conserva questa denominazione facendo però osservare 
che i pilastri sono parti di una stessa membrana. Le membrane 
pleuro-peritoneali hanno due facce una interna che contorna 
il polmone ed una esterna libera separata dalla parete late- 
rale del corpo per mezzo di un diverticolo della cavità celo- 
matica. Il trasporto in avanti della parte anteriore dei canali 
di Cuvier, combinato alla riduzione del loro calibro ed allo svi- 
luppo delle pareti del corpo e degli organi vicini ha condotto 
alla formazione di queste membrane. Le membrane pleuro- 
peritoneali, al loro apparire, esisterebbero da un solo lato del 
corpo, dal lato sinistro. 

Anche Swazn (?) descrive, più brevemente di BracHer, le mem- 
brane pleuro-peritoneali. 

Ed ora studiamo come si sviluppano le pieghe dei reni pri- 
mitivi nei mammiferi. Ho scelto per materiale di studio em- 
brioni di cavia. 

In stadi molto giovani, in embrioni lunghi 5 ! mm. si os- 
serva a sinistra, appena sparito caudalmente nei tagli trasversi 
il lume del canale di Cuvier, uno ispessimento di tessuto con- 
nettivo limitato medialmente e lateralmente dalla cavità celo- 
matica, dorsalmente e ventralmente dalle sezioni del canale di 
Cuvier. Questo ispessimento non è altro che la parete del ca- 
nale di Cuvier, la quale in due tagli sparisce. Ventralmente, sul 


(4) Bracner A. — Recherches sur le développement du Diaphragme et du Foie 
chez le lapin. (Journal de l’Anatomie et de la Physiologie. Paris, 1895). 

(?) Swaen A. — Recherches sur le développement du foie, du tube digestif, de 
l’arrière-cavité du péritoine et du mésentère. (Journal de l’Anatomie et de la Physio- 
logie. Paris, 1896. 1897). 


98 D. BERTELLI 


septum transversum si vede anche nei tagli successivi un residuo 
di questo tessuto che si sposta un po’ medialmente e che po- 
trebbe essere interpetrato come pilastro ventrale di Uskow. 
Anche questo tessuto deve essere considerato come parete del 
canale di Cuvier il quale seguita ad essere colpito nella sua 
convessità. Lo spostamento di questo tessuto sul septum trans- 
versum si comprende facilmente quando si ricorda che il ca- 
nale di Cuvier da questo lato, verso l'estremo ventrale, si sposta 
un po medialmente. Nel lato destro il canale di Cuvier è più 
corto e va quasi rettilineo al seno venoso, quindi i tagli tra- 
sversi decorrono quasi parallelamente all’asse del canale, nè si 
possono avere da questo lato le disposizioni che ho descritte 
a sinistra. Furono certamente queste disposizioni che fecero 
credere che l’abbozzo della piega dei reni primitivi apparisca 
solo a sinistra. 

In embrione lungo 6 mm. esistono le pieghe dei reni primi- 
tivi bene manifeste (Fig. 10) tese obliquamente tra il connettivo 
che è al di sotto delle vene cardinali da una parte e la parete 
laterale del corpo ed il septum transversum dall'altra, limitate 
lateralmente e medialmente dalla cavità celomatica. Hanno le 
pieghe forma semilunare con il margine concavo libero nella 
cavità celomatica rivolto caudalmente; con il margine convesso 
attaccato alle pareti dorsale e laterale della cavità celomatica 
ed al septum transversum. 

La parte media delle pieghe è poco estesa, in fatti dopo 
un pajo di tagli ne è interessato tutto lo spessore. Tagliata la 
porzione media della piega rimangono bene evidenti gli estremi 
dorsale e ventrale di essa (Fig. 11), i così detti pilastri di 
Uskow; ciò dimostra che il margine libero è concavo. L’estremo 
dorsale della piega sporge al di sotto delle vene cardinali, quello 
ventrale sporge dalle pareti laterali del corpo. Mentre l'estremo 
dorsale mantiene, dirigendosi caudalmente, la stassa posizione 
al davanti delle vene cardinali, il prolungamento ventrale in- 
vece si sposta un po’ medialmente e passa in parte dalla pa- 
rete laterale del corpo sul septum transversum. In stadi più 
giovani la piega non raggiunge il septum transversum, ma si 
mantiene in rapporto con la parete laterale del corpo. Gli 
estremi dorsale e ventrale della piega cessano quasi allo stesso 
livello, un po' prima cessa quello dorsale. Verso la fine del- 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 99 


l'estremo dorsale in corrispondenza della base di questo, ap- 
pariscono canaliculi del corpo di Wotrr. 

In stadi molto giovani esistono solamente i pilastri dorsali. 
Questo fatto messo insieme con gli altri sopra notati che cioè 
in certi stadi le pieghe dei reni primitivi sono in rapporto la- 
teralmente solo con la parete laterale del corpo e poi in stadi 
più avanzati raggiungono anche il septum transversum, ci dimostra 
che la piega prende origine dalla parete dorsale della cavità 
celomatica e poi si estende alla parete laterale e al septum 
transversum. Negli uccelli le pieghe dei reni primitivi, ai primi 
stadi di sviluppo, si presentano nello estremo craniale unite 
con larga base alle pareti laterali del corpo, ma si estendono 
in alto tanto che vengono ad essere limitate dorsalmente, come 
nei mammiferi, dalle vene cardinali posteriori. 

Delle pieghe dei reni primitivi appariscono, come nei ret- 
tili e negli uccelli, prima gli estremi craniali. Nei mammiferi 
le pieghe dei reni primitivi si sviluppano per tutta la loro esten- 
sione assal tardi come vedremo in seguito. 

In embrione con lunghezza massima di 9 mm., con lun- 
ghezza nucale di 8 !/= mm. le pieghe si presentano assai estese 
in direzione dorso-ventrale ed appariscono come porzione del 
diaframma dorsale; hanno gli stessi rapporti che nell’embrione 
di 6mm. Si sono allungate molto caudalmente anche nella parte 
mediana, in fatti necessitano parecchi tagli ad inciderle per tutta 
l'estensione. Il margine libero è lievemente concavo. Il tessuto 
epatico si è spinto molto dorsalmente tanto che quasi raggiunge 
l'estremo ventrale delle pieghe. 

In questo stadio le pieghe dei reni primitivi presentano una 
nuova disposizione molto interessante. Dopo alcuni tagli dalla 
loro apparizione si scorge nella superficie laterale un leggiero 
avvallamento situato immediatamente al davanti delle vene 
cardinali. Questo avvallamento va lievemente approfondandosi 
a misura procede caudalmente e percorre la superficie laterale 
della piega (Fig. 12) per tutta l’estensione; è rivestito da epi- 
telio cilindrico basso e non è altro che l’ostio addominale del 
condotto di Mirer. Così a questo stadio le pieghe dei reni 
primitivi ci appariscono anche nei mammiferi come mesosal- 
pinge. 

Finita la superficie laterale delle pieghe, l’ostio addominale 


100 D. BERTELLI 


del condotto di MirLer resta in quella porzione delle pieghe 
che rimane al davanti delle vene cardinali (Fig. 13). Siccome 
discendendo caudalmente l’ostio addominale passa sul margine 
ventrale delle pieghe e poi decorre un po’ medialmente a que- 
sto margine, così ci apparisce nei tagli trasversi in questa ul- 
tima porzione, aperto medialmente (Fig. 13). A questo livello 
sono nella base delle pieghe canaliculi del corpo di Wotrr. 

All’ostio addominale del condotto di Micrer fa seguito il 
condotto di Mirer il quale è compreso nel connettivo che ac- 
coglie il corpo ed il canale di Worrr. Nel corpo di Wotrr il 
condotto di MiirLer prima è situato ventralmente, poi a mi- 
sura procede caudalmente sì sposta lateralmente e dorsalmente 
come negli uccelli. A questo stadio il condotto di MirLer è 
privo di piega, gli spostamenti avvengono nel corpo di Wotrr. 
Le pieghe dal lato dorsale si estendono caudalmente solo per 
quanto è esteso l’ostio addominale del condotto di Mirter, il 
condotto di MiLLeR è privo di piega. 

Da quanto ho sopra esposto apparisce perfetta omologia tra 
pieghe dei reni primitivi dei rettili, degli uccelli e dei mam- 
miferi. 

Ed ora studiamo come si sviluppa il legamento diafram- 
matico del rene primitivo. Lo sviluppo di questo legamento ha 
intima relazione con lo sviluppo delle pieghe dei reni primi- 
tivi, così avremo opportunità di seguire lo sviluppo delle pieghe 
dei reni primitivi in stadi ulteriori a quelli fino a qui studiati. 

Nirzsca (1) descrive rapporti tra diaframma, tube uterine e 
corni uterini. 

KéLtiker (?) afferma che in corrispondenza dell’estremità an- 
teriore del corpo di Wotrr la piega del corpo di Wotrr si pro- 
lunga in una piccola piega libera, in forma di arco, che va _a 
raggiungere il diaframma presentando due o tre prolungamenti. 
KéLLikeR che richiamò su questa piega l’attenzione degli em: 
briologi, le pose il nome di legamento diaframmatico del rene 
primitivo (Zwerchfellsband der Urniere). 

Mmatkovics (3) crede che la piega tubaria seguiti con la sua 


(4) Nirzsca C. L. — Ueber die vordern runden Mutterbànder in Sùugthieren. 
(MecKeL ’s Archiv. Zweiter Band. 1816). 

(?) KoruigER A. — Entwicklungsgeschichte. Leipzig, 1879. 

(8) von Mizargovics G. — Untersuchungen diber die Entwickelung des Harn — und 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 101 


estremità prossimale nel legamento diaframmatico del rene pri- 
mitivo il quale si attacca al diaframma. Questo legamento non 
sarebbe altro che la parte più anteriore della primitiva emi- 
nenza uro-genitale nella quale nessun canaliculo del rene pri- 
mitivo venne a svilupparsi, corrisponderebbe al tratto nel quale 
era situato il pronephros. 

Per Herrwie (1) e per Bonner (?) il legamento diaframmatico 
del rene primitivo è l'estremo anteriore della piega che fissa 
il rene primitivo alla parete dorsale. 

Minor (3) considera, come Minackovics il legamento diafram- 
matico del rene primitivo, quale porzione della piega tubaria. 

Queste sono le notizie che si hanno sullo sviluppo del le- 
gamento diaframmatico del rene primitivo. Nessuno ha studiato 
accuratamente il suo sviluppo, nessuno ha spiegato il suo rap- 
porto con il diaframma. 

Abbiamo già veduto come si comportano le pieghe dei reni 
primitivi in embrione di 9 mm. 

In embrione lungo 10 #2 mm. le pieghe hanno le stesse di- 
sposizioni che nell’embrione precedente. 

In embrione di 12 mm. sulla piega del rene primitivo (fusa 
oramai nel suo estremo craniale con il resto del diaframma 
dorsale) non esiste più l’ostio addominale del condotto di Mi- 
LER, ma però esiste sempre un intimo rapporto tra diaframma 
dorsale e pieghe dei reni primitivi. In fatti poco prima che fi- 
nisca caudalmente la cavità pleurica si vede che il diaframma 
dorsale con il suo estremo laterale seguita nelle pieghe dei reni 
primitivi (Fig. 14). A misura si procede caudalmente nell’esame | 
delle sezioni si vedono attaccate all'estremo laterale dei pilastri 
le pieghe dei reni primitivi che contengono il condotto di Mit- 
LER (Fig. 14), il corpo di Wotrr, il condotto di Worrr. Le pieghe 
si sono allungate in direzione dorso-ventrale. 

Anche in embrione lungo 18 mm. le pieghe dei reni primi- 
tivi mantengono intimo rapporto con il diaframma, ma questo 


Geschlechtsapparates der Amnioten. (Internationale Monatsschrift f. Anatomie u. Phy- 
siologie. Bd. II. 1885). 

(4) Herrwie 0. — Lehrbuch der Entwicklungsgeschichte Jena, 1886. 

(°?) Bonner R. — Grundriss der Entwickelungsgeschichte. Berlin, 1891. 

(9) Minor C. — Lehrbuch der Entwickelungsgeschichte. Deutsche Ausgabe von 
S. KarstNER. Leipzig, 1894. 


102 D. BERTELLI 


rapporto è meno intimo che nell'altro embrione. Le pieghe in 
sezione trasversa appariscono nei primi tagli come un piccolo 
rilievo conico unito per la base alla superficie ventrale del- 
l'estremo laterale del pilastro diaframmatico. Perduto il rap- 
porto con il diaframma le pieghe rimangono fissate alla parete 
dorsale. Contengono, al' solito, condotto di MiLLeR, corpo di 
Wotrr, condotto di Wotrr. 

In embrione di 33 mm. le pieghe dei reni primitivi hanno 
perduto ogni rapporto con il diaframma, sorgono al di sotto 
di questo dalla parete dorsale del corpo (Fig. 15). Dorsalmente 
al corpo di Wotrr si è sviluppata una piega (Fig.15) la quale, 
insieme a quella che fino ad ora ho descritto come piega del 
rene primitivo, costituirà il mesosalpinge. 

In embrione lungo 39 mm. si incontrano le pieghe anche 
più caudalmente. Al loro apparire e per un tratto non breve 
sì mostrano prive del corpo di Woxrr, del condotto di WoLrr 
e del condotto di Mutter. 

In embrione lungo 46 mm. le pieghe incominciano anche più 
in dietro che nell’embrione precedente tra la parete laterale 
del corpo e la superficie laterale del rene. Sono molto allun- 
gate in direzione dorso-ventrale, appariscono chiaramente come 
mesosalpinge. Nell’ estremo craniale sono sprovviste di corpo 
di Wotrr, di condotto di Wotrr e di condotto di MùLLER. 

Da quanto ho sopra esposto si comprende che il così detto - 
legamento diaframmatico del rene primitivo non è altro che 
la porzione delle pieghe dei reni primitivi la quale non diven- 
tando nè diaframma dorsale, nè mesosalpinge, si atrofizza. 

La porzione craniale delle pieghe dei reni primitivi prende 
parte alla costituzione del diaframma dorsale, a questa fa se- 
guito il così detto legamento diaframmatico del rene primitivo 
il quale continua nel mesosalpinge. Così si comprende chiara- 
mente perchè il legamento diaframmatico del rene primitivo 
è in rapporto cranialmente con il diaframma dorsale, caudal- 
mente con la piega che accoglie condotto di MiLrer, corpo di 
Wotrer, condotto di Wotrr. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 103 


Conclusioni. 


Le pieghe dei reni primitivi sono due membrane peritoneali 
che accolgono il condotto di Wotrr, il corpo di Wotrr, il con- 
dotto di MùrLer. Negli individui adulti sostengono gli ovidutti; 
in alcuni animali sostengono i canaliculi efferenti del testicolo 
(anuri, urodeli, cheloni), gli epididimi (sauri). Trovansi nelle pie- 
ghe dei reni primitivi i resti embrionali dell'apparecchio uro-ge- 
nitale (anfibi, rettili). 

‘Appena apparisce nella filogenesi il diaframma dorsale, le 
pieghe dei reni primitivi contribuiscono a formarlo. 

Nei selaci talora mancano le pieghe dei reni primitivi nelle 
femmine; mancano nei maschi; quando nelle femmine esistono 
anche bene sviluppate sono per un tratto non breve interrotte 
e adempiono esclusivamente l'ufficio di mezzi di sostegno. I se- 
laci non posseggono quindi diaframma dorsale ed i selaci sono 
i pesci che hanno meglio sviluppati gli ovidutti, gli epididimi 
ed i canali deferenti. 

Negli anuri e negli urodeli le pieghe dei reni primitivi esi- 
stono bene sviluppate nelle femmine, sono rudimentarie nei 
maschi. Servono unicamente a sostenere gli ovidutti ed i cana- 
liculi efferenti. Non si può ammettere negli anuri e negli urodeli 
il diaframma dorsale perchè la piega che contribuirà a costi- 
tuire nella filogenesi il diaframma dorsale adempie in questi 
animali esclusivamente |’ ufficio di mezzo di sostegno per gli 
ovidutti e per i canaliculi efferenti. 

Nei pesci e negli anfibi fu erroneamente considerato dia- 
framma il setto che in parte è unito alla superficie posteriore 
del pericardio, in parte è situato lateralmente a questa mem- 
brana. Questo setto non è altro che la parete craniale della ca- 
vità viscerale costituita dal peritoneo; corrispondente alla pa- 
rete craniale della cavità celomatica. Nè devono in conseguenza 
essere considerati fasci diaframmatici, come si fa ordinaria- 
mente, quelli che unendosi al peritoneo contribuiscono a limitare 
cranialmente la cavità viscerale: sono fasci della muscolatura 
addominale che vengono a prendere inserzione cranialmente e 
medialmente. Gli anatomici hanno avuto il torto di voler trovare 
nella filogenesi il diaframma provvisto di fibre muscolari, mentre 


Sc. Nat., Vol. XVI 7 


104 D. BERTELLI 


il primo accenno a questo setto è rappresentato da pieghe co- 
stituite di tessuto connettivo, e tale del resto ci apparisce anche 
nella ontogenesi, nei primi stadi di sviluppo, il diaframma apo- 
nevrotico-muscolare degli uccelli e dei mammiferi. Le fibre mu- 
scolari entrano nel diaframma come formazione secondaria. 

Tra i rettili le pieghe dei reni primitivi esistono bene svi- 
luppate nelle femmine e nei maschi dei sauri; nelle femmine 
dei serpenti e dei cheloni; mancano nei maschi dei serpenti; 
sono rudimentarie nei maschi dei cheloni. 

Il primo accenno al diaframma dorsale sì trova nei sauri 
e nei cheloni, rappresentato dalla porzione craniale delle pieghe 
dei reni primitivi. Nei serpenti non esiste traccia di diaframma 
dorsale. Nei cheloni vengono descritti a torto come fasci dia- 
frammatici quelli che contribuiscono a limitare la parete an- 
teriore della cavità viscerale; questi fasci hanno lo stesso si- 
gnificato di quelli che esistono nella parete anteriore della 
cavità viscerale dei pesci e degli anfibi. 

Nei sauri le pieghe dei reni primitivi si sviluppano dal con- 
nettivo che trovasi nella superficie ventrale del corpo di Wotrr. 
Il corpo di WoLrr è unito per mezzo di queste pieghe alle pa- 
reti laterali del celoma, alla membrana pleuro-pericardica, al 
fegato. Della piega prima si sviluppa l'estremo craniale. 

Le pieghe fino dalla loro origine hanno intimo rapporto 
con il condotto di MiLter. In fatti fino da quando esiste solo 
l'estremo craniale della piega si vede nella superficie  me- 
diale e laterale di essa epitelio celomatico inspessito che for- 
merà l’ostio addominale del condotto di Micrer. Quando la 
piega si è sviluppata per tutta la sua estensione contiene nel 
margine ventrale il condotto di MiiLLer e ci apparisce come 
piega di sostegno del condotto di Miitter. 

L’abbozzo del condotto di MiLLer inizia nei sauri su l’estre- 
mo craniale della piega del rene primitivo. 

Il diaframma dorsale degli uccelli è una lamina muscolo-apo- 
nevrotica che fissa contro la colonna vertebrale, contro le coste 
e contro gli spazi intercostali la superficie dorsale dei polmoni 
e sostiene di questi organi la superficie ventrale. Il diaframma 
dorsale degli uccelli è innervato da rami degli intercostali; nei 
mammiferi alla innervazione del diaframma contribuiscono rami 
degli intercostali. Il diaframma dorsale degli uccelli è vascola- 
rizzato da un ramo proveniente dalla succlavia. 


PIEGHE DEI RENI PRIMITIVI - CONTRIBUTO ALLA MORFOLOGIA ECC. 105 


Le pieghe dei reni primitivi prendono parte anche negli uc- 
celli alla costituzione del diaframma dorsale. Appariscono in 
embrioni di pollo di 5 giorni tese tra la parete laterale del corpo 
da una parte, il septumn trasversum ed il legamento polmonare 
accessorio dall’ altra. Sono limitate dorsalmente dalla cavità 
celomatica e dalle vene cardinali posteriori; ventralmente sono 
limitate prima dalla cavità celomatica e dal seno venoso, più 
in dietro sono limitate egualmente dalla cavità celomatica, di 
più a destra prendono intimo rapporto con la parete della vena 
cava posteriore, a sinistra incontrano tessuto epatico; cranial- 
mente si fondono con la parete dei canali di Cuvier; caudal- 
mente presentano un margine libero nella cavità celomatica;, 
lateralmente seguitano con il connettivo della parete laterale 
del corpo; medialmente si fondono con il septum transversum e 
con il legamento polmonare accessorio. 

Anche negli uccelli si sviluppano prima gli estremi craniali 
delle pieghe. Questi estremi craniali sono situati più innanzi 
del corpo di Wotrr, quindi al loro apparire le pieghe non sono 
in rapporto con il corpo di Wocrrr e sono situate con la base 
nella parete laterale del celoma, mentre nei sauri la base è 
nella parete dorsale, ma si estendono in alto tanto che ven- 
gono ad essere limitate dorsalmente dalle vene cardinali po- 
steriori. 

All’apparire delle pieghe manca il rapporto con il corpo di 
Woter, ma non manca il rapporto con il condotto di MticLeR; 
in fatti nella superficie dorsale delle pieghe si scorge, come 
nei sauri, un ispessimento dell'epitelio celomatico che è 1° ab- 
bozzo del condotto di MitLeR. 

Quando le pieghe si sono bene sviluppate per tutta la loro 
estensione si vedono fuse nel loro estremo craniale con il dia- 
framma dorsale. Cessato nei tagli trasversi disposti in serie il 
diaframma, si vede che questo seguita nelle pieghe dei reni 
primitivi le quali sono fissate con la base alla parete late- 
rale del corpo. Decorrendo obliquamente dall’ innanzi all’in- 
dietro su questa parete le pieghe vanno ad unirsi al connettivo 
che accoglie corpo di Wotrr e condotto di WoLrr. Nel loro mar- 
gine libero contengono prima l’ostio addominale del condotto 
di Micce e poi il condotto di Mutter. 

Anche negli uccelli l’abbozzo del condotto di MiLtek appa- 
risce sugli estremi craniali delle pieghe dei reni primitivi. 


106 D. BERTELLI 


Nei mammiferi, come nei rettili e negli uccelli, le pieghe 
dei reni primitivi prendono parte alla costituzione del dia- 
framma dorsale. 

Le pieghe appariscono in forma di rilievo “conico costituito 
dal connettivo che è situato ventralmente alle vene cardinali 
posteriori. In stadi più avanzati la formazione delle pieghe si 
estende alla parete laterale del celoma e al septum transversum. 
Completamente costituite le pieghe hanno forma semilunare con 
il margine libero concavo, rivolto caudalmente; con il. margine 
aderente fissato alla parete dorsale e laterale del celoma e al 
septum transversum. Prima si sviluppa l'estremo cefalico della 
piega il quale, come negli uccelli, e per la stessa ragione, non 
è in rapporto con il corpo di Wotrr. In embrioni di 6 mm. le. 
pieghe si sono già messe in rapporto con il corpo di Woter. 

In embrioni di 9 mm. si trova l’ostio addominale del con- 
dotto di Mirrer nella superficie laterale delle pieghe le quali 
a questo stadio sono già fuse con il resto del diaframma dorsale 
e ci appariscono come mesosalpinge. Cessata la unione con il dia- 
framma dorsale, le pieghe seguitano caudalmente accogliendo 
in sè corpo di Woter, condotto di Wotrrr, condotto di MiLLeR. 

La porzione craniale delle pieghe dei reni primitivi prende 
parte alla costituzione del diaframma dorsale; la porzione me- 
dia si atrofizza, e diviene il così detto legamento diaframma 
tico del rene primitivo; la porzione caudale costituisce il me- 
sosalpinge. Così si comprende chiaramente perchè il legamento 
diaframmatico del rene primitivo è in rapporto cranialmente 
con il diaframma e caudalmente con la piega che accoglie 
corpo di Wotrr, condotto di Worrr, condotto di MiiLer. 

Il legamento diaframmatico del rene primitivo non è quindi 
altro che la porzione delle pieghe dei reni primitivi la quale 
non diventando nè diaframma dorsale, nè mesosalpinge, si 
atrofizza. 


ha QAda dd 


S 


SRRTOPI 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA IV. 


— Aorta. 

— Abbozzo dell’ostio addominale del condotto di MiiLLER. 
— Abbozzo dei polmoni. 

— Canale di CuUVvIER. 

-—— Cavità celomatica. 

— Canale di MiLLER. 

— Corpo di WoLFF. 

— Diaframma dorsale. 

— Esofago. 

— Legamento polmonare. 


L. p.a. — Legamento polmonare accessorio. 
O.c.M. — Ostio addominale del condotto di MuLLER. 


— Polmone. 


P.r. p. — Piega del rene primitivo. 
R. s.0. —- Recesso anteriore del sacco dell’ omento. 


— Recesso sinistro. 
— Seno venoso. 

— Tessuto epatico. 
— Tubo polmonare. 
— Vena cardinale. 


1. Sezione trasversale di embrione di Lacerta agilis con lunghezza mas- 
sima di 5 mm., con lunghezza massima della testa di 2!/, mm. A de- 
stra si vede la piega del rene primitivo e su questa l’ abbozzo del- 
l’ostio addominale del condotto di MiLLeER. A sinistra si vede un 
po’ più cranialmente il prolungamento della cavità celomatica, che 
limita la piega. 

2. Sezione trasversale dello stesso embrione eseguita un po’ più caudal- 
mente. A sinistra è la piega del rene primitivo, a destra è il corpo 
di WoLFF sprovvisto di piega, con l’abbozzo dell’ostio addominale 
del condotto di MiLLER. 

3. Sezione trasversale di embrione di Lacerta agilis con la lunghezza 
massima di 84/,mm., con la lunghezza massima della testa di 4/, mm. 
Si vede la piega del rene primitivo situata dorsalmente e ventral- 


108 


10. 


E 


13. 


14. 


15. 


D. BERTELLI 


mente al corpo di WoLFrr, nel margine ventrale libero la piega 
contiene l’ ostio addominale del condotto di MiLLER. Il corpo di 
WoLrr ha subìto uno spostamento lateralmente e ventralmente. 


. Sezione trasversale d’embrione di pollo di 5 giorni. Si vedono gli 


estremi cefalici delle pieghe dei reni primitivi. Nella superficie dor- 
sale delle pieghe trovasi epitelio celomatico inspessito che è l’ab- 
bozzo dell’ ostio addominale del condotto di MiLLER. 


. Sezione trasversale dello stesso embrione. L’abbozzo dell’ostio addomi- 


minale del condotto di MiiLLER è passato nella parete laterale della 
cavità celomatica. 


. Sezione trasversale dello stesso embrione. L’abbozzo dell’ostio addomi- 


nale del condotto di MiiLLER ha raggiunto la superficie dorsale della 
cavità celomatica. 


. Sezione trasversale d’ embrione di pollo di 8 giorni. Esiste il diaframma 


dorsale e nella superficie dorsale di esso è l’ostio addominale del 
condotto di MiiLLER. 


. Sezione trasversale dello stesso embrione. Finita la unione della piega 


del rene primitivo con il resto del diaframma dorsale le pieghe ri- 
mangono ventralmente libere, e contengono l’ostio addominale del 
condotto di MiLLER. 


. Sezione trasversale del medesimo embrione. Le pieghe dei reni primi- 


tivi si sono unite al corpo di WoLFr. 

Sezione trasversale di embrione di cavia con lunghezza massima di 
6 ‘/, mm., con lunghezza massima della testa di 4 mm.; si vede 
l’estremo craniale della piega del rene primitivo. 

Sezione trasversale dello stesso embrione. Si vedono gli estremi dorsale 
e ventrale della piega del rene primitivo. 


. Sezione trasversale di embrione di cavia con lunghezza massima di 


9 mm., con lunghezza nucale di 34/, mm. Le pieghe dei reni pri- 
mitivi si sono fuse con il resto del diaframma dorsale. Nella super- 
ficie laterale del diaframma dorsale si scorge l’ ostio addominale del 
condotto di MiLLER. 

Sezione trasversale dello stesso embrione. Il diaframma seguita dal 
lato dorsale nella piega del rene primitivo che sostiene l’ostio ad- 
dominale del condotto di MiiLLER. L’ostio addominale passando sul 
margine ventrale della piega si è posto nella superficie mediale di 
questa. 

Sezione trasversale d’ embrione di cavia lungo 12 mm. In questo sta- 
dio non esiste più l’ostio addominale del condotto di MiiLLeR sul 
diaframma dorsale, ma questo ha sempre rapporto intimo con le 
pieghe dei reni primitivi. 

Sezione trasversale di embrione di cavia di 33 mm. Le pieghe dei reni 
primitivi hanno perduto ogni rapporto con il diaframma dorsale, 
sorgono dalla superficie dorsale della cavità addominale. 


R. V. MATTEUCCI 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 


APLITE PORFIRICA 


(coN 3 TAVOLE IN ELIOTIPIA) 


| — ee 


IL; 


Introduzione. 


L'Isola d’ Elba, oramai quasi per tradizione, non solo oro- 
graficamente, anche geologicamente può venir divisa in tre 
parti nettissimamente distinte. 

La parte occidentale, come è noto, è costituita da un mas- 
sivo granitico di natura profonda, circondato da una corona di 
svariatissime rocce metamorfiche addossate al suo piede ed in- 
tersecate da numerosi filoni acidi. La parte orientale è formata 
dall’ala Est di una sinclinale costituita da una complicata serie 
di terreni che vanno dagli schisti primitivi ai calcari ed are- 
narie dell’eocene superiore. Un complesso sedimentario eoce- 
nico, caratteristicamente e quasi sempre concordantemente in- 
tercalato con un porfido granitico di natura filoniana’ profonda, 
ne forma la parte mediana. 

Questo, lo sguardo complessivo alla geologia dell’ Isola d'Elba; 
ma ciò non devesi intendere in senso assoluto perchè se, come 
trasparisce da quanto ho detto, l'architettura geologica ha una 
facies tutta sua propria nelle diverse tre parti, non si esclude 
per esempio che gli strati eocenicì siano ‘sovrabbondantemente 
sviluppati nella parte media e qualche lembo comparisca anche 
in quella occidentale, come pure che il porfido granitico si af- 
facci anche — quantunque in ristrette zone — in entrambe le 
parti orientale ed occidentale. Il porfido però, dovunque esso 


110 R. V. MATTEUCCI 


comparisce, sia esso alternante con gli strati eocenici, sia esso 
collegato con roccie diabasiche o peridotiche, deve sempre ri- 
guardarsi come facente parte integrante della geologia della 
regione centrale dell'Isola. 

La formazione cristallina della parte media dell'Elba im- 
plica un periodo di attività endogena le cui manifestazioni si 
possono dividere in quattro fasi fra loro cronologicamente di- 
stinte, senza che però se ne possano oggi stabilire con preci- 
sione i limiti entro i quali oscilla la loro età relativa. 

Le fasi presentate da una tale attività sono: 


1.° lo stabilirsi di fenditure abissali e conseguente penetra- 
zione del porfido granitico nella formazione sedimentaria eo- 
cenica,; 

2.° intrusione dell’aplite porfirica nel porfido granitico; 

8.° sollevamento dell’ eocene e del porfido granitico inter-. 
calato; 

4.° fase solfatarica caratterizzata da emanazioni fluo-boriche. 


Non si può dire però con certezza se l'ordine nel quale ho 
disposto queste quattro fasi corrisponda esattamente al loro suc» 
cedersi rispetto al tempo. Mentre la penetrazione del porfido 
lungo le stratificazioni eoceniche appartiene certamente ad una 
fase più antica, e la fase solfatarica appartiene pure senza dub- 
bio agli ultimi momenti di attività vulcanica — postvulcanica 
o retrospettiva — e quindi sono anche queste due fasi, per ri- 
spetto l'una all’altra, cronologicamente fissate, non altrettanto 
si può dire delle altre due fasi intermedie. 

Non si ha per ora infatti nessun dato per provare che le 
complicate pieghe eoceniche, con le quali trovasi intercalato 
il porfido, siano avvenute prima dell’intrusione dell’aplite nel 
porfido, come pure non si potrebbe oggi dire che l'intrusione 
dell’aplite precedette il sollevamento della parte media del- 
l'Isola. È però, secondo il mio modo di vedere, meno impro- 
babile che il magma aplitico si sia fatto strada nel porfido già 
consolidato prima che avvenisse il succitato sollevamento. 

Comunque sia, ho voluto accennare ad un tal dubbio af- 
finchè non sia ritenuto scrupolosamente fissato l'ordine crono- 
logico della 2.* e della 3.* fase intermedie. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 111 


II. 


Osservazioni dei varii autori. 


Del porfido granitico mi occupai già in altra mia nota (!) 
dove, oltre a riportare il risultato dello studio petrografico su 
questa roccia, esposi le mie idee riguardanti la sua giacitura 
e la sua genetica. Ho ora da parlare della aplite porfirica, 
considerata petrograficamente e geologicamente (?). 

Chiamo Aplite porfirica il feinkòrniger weisser  Porphyr di 
v. Rat (3), il porpAhyrischer Mikrogranit di Nessie (4), il tuffar- 
tiger Granitporphyr del Rever (5), lewrite tormalinifera di Lom (5), 
l’eurite di Bucca (°) e di De SrerANI (8); ossia quella roccia acida, 


(4) R. V. MartEUccI. — Le rocce porfiriche dell’ Isola d' Elba. — Porfido grani- 
tico. Atti della Società Toscana di Sc. nat., Vol. XIV, Pisa, 1894. 

(2) Il prof. L. Bucca a pag. 12 della sua interessante Memoria Ancora dell’ età 
del granito di Monte Capanne — Isola d’ Elba (Atti dell’Acc. Gioenia di Scienze na- 
turali in Catania, Vol. V, ser. 42, 1892) ci promise di occuparsi di questa roccia in 
un suo prossimo lavoro. Sarebbe somma indelicatezza la mia se non mi riferissi a que- 
sta sua intenzione per giustificare la pubblicazione del presente mio ‘studio. Ma se io mi 
sono occupato di questa roccia è solo perchè già so che egli per tutt’ altre vie cerca 
la soluzione del complicato problema della sua genesi 

Al prof. H. RosensuscH e al dott. K. v. Kraarz-KoscHLaU, presso i quali studiai 
alcuni esemplari di questa roccia durante il mio soggiorno in Heidelberg nel 1893, ed 
al prof P. GrorH e al dott. E WeinscEENK presso i quali ne completai il lavoro pe- 
trografico negli anni 1895-96 a Monaco di Baviera, porgo i sensi della mia più sen- 
tita gratitudine per essermi stati così larghi di preziosi consigli e di continuate gen- 
tilezze. 

(*) G. von Rata. — Die Insel Elba — Mineralogische Fragmente aus Ttalien. 
III Theil. Zeitschr. d. deutsch. geolog. Gesellschaft. Vol. XXII, 1870. 

(4) R. W. Nessi. — Die Jingeren Eruptivgesteine des mittleren Elba. Zeitschr. 
d. deutsch. geolog. Gesellschaft. Vol. XXXV, 1883. 

(9) E. Reyer — dus Tostana. Wien, 1884, 

(6) B. Lotti. — Descrizione geologica dell’ Isola d’ Elba. Memorie descrittive della 
carta geologica d’Italia. Roma, 1886. 

(7) L. Bucca. — L'età del granito di Monte Capanne (Isola d’ Elba). Rend. d. 
Accademia dei Lincei. Roma, 1891. 

id. id. — Ancora dell'età del granito di Monte Capanne (Isola d’ Elba). Atti del- 
l'Accademia Gioenia di Scienze naturali in Catania. Vol. V, Ser. 42, 1892. 

id. id. — Nuove discussioni sull'età del granito di Monte Capanne (Is. d’ Elba). 
Boll. dell’Accademia Gioenia di Sc. naturali in Catania. Fascicolo XXXVI, 1894. 

(8) C. De SreranI. — Granulite, granitite in massa ed in filoni, e trachite quar- 
zifera cocenica dell’ Isola d’ Elba. Boll. d. Soc. Geol. Italiana. Vol. XII, 1893. 

id. id. — Il così detto porfido quarzifero dell’ Isola d’ Elba. Atti della Soc. Tosc. 
di Sc. naturali. Processi verbali. Vol. IX, 1894, 


d2 R. V. MATTEUCCI 


bianca, compatta, finamente cristallina, spesso a-grandi mac- 
chie rotondeggianti bleu scure, che comparisce qua e là in 
mezzo agli ammassi di porfido granitico. 

Anche su questa roccia, al pari che sul porfido, molto si è 
discusso e scritto, e, prima che l’ultima parola ne sia pronuu- 
ciata, voglio aggiungerne una anch'io. 

Quanto ai caratteri puramente litologici, tutti i petrografi 
che la studiarono si trovarono più o meno d’accordo. Tutti in- 
fatti vi notarono una massa fondamentale microcristallina e non 
spesse nè grandi segregazioni,porfiriche. Non altrettanto sì può 
dire per quanto concerne la sua genetica e l'origine dei nuclei 
tormalinici. Giacchè, geneticamente, questa roccia fu conside- 
rata come una semplice modalità del porfido granitico o come 
roccia metamorfica; mentre la tormalina fu sempre ritenuta 
come un minerale costituente. 

Questa roccia, come risulta dalla Carta geologica rilevata 
dall'ing. Lorrr e pubblicata per cura del R. Corpo delle Mi- 
niere (!) si presenta localizzata in tutte tre le parti in cui ab- 
biamo diviso l'Isola d'Elba; e cioè ad W. presso Marciana; 
nella parte centrale, fra Portoferraio e Capo d’Enfola; ad E. 
lungo la regione che si estende dal Golfo di Portoferraio a 
Portolongone; e un altro limitatissimo lembo comparisce alla 
sommità della collinetta di S. Lucia. 

Come chiaro si vede nella summentovata carta geologica, 
questa roccia non si trova mai isolata e sporadica nella for- 
mazione sedimentaria come è sempre il caso del porfido gra- 
nitico che con questa è collegato, ma è sempre da esso por- 
fido accompagnata, non solo, e vi si trova rinchiusa. Questi 
fatti, ai quali alcuni altri sono da aggiungersi, estrinsecano già 
chiaramente la natura filoniana della roccia in esame. Il fatto, 
che dove non è porfido granitico essa non si vede mai, fece 
pensare anche a me che qualche intimo rapporto petrografico - 
potesse esistere fra le due rocce; esse debbono però ritenersi 
l’una dall'altra tutt’ affatto indipendenti. Cosicchè l’indubitato 
legame esistente fra queste due rocce diviene una questione 
intricatissima, alla soluzione della quale tesero sempre le opi- 


(1) B. LortI. — Marta geologica dell’ Isola d' Elba, 1: 25000 e 1:50000 unita al 
volume II delle Memorie descrittive della carta geologica d’Italia. Roma, 1886. 


LE ROCCE PORFIRICHE DEIL'ISOLA D'ELBA 118 


nioni espresse dai geologi che se ne occuparono e tenderanno 
ancora future discussioni. 

Lo Sruper è per ritenere l’aplite come una varietà del por- 
fido, anzi, come un feldispato subordinato al porfido granitico, 
e così si esprime (!): “ Nous abordàmes la roche au pied du 
Monte Bello et trouvàmes un feldspath blanc compact ou d'un 
grain très fin, fendillé en tous sens. ... Ce feldspath, quoique 
assez étendu, n'est que subordonné è un porphyre granitique 
qui, dans une pàte feldspathique, contient des cristaux d’orthose, 
de quarz et des feuillets de mica noir ,. 

Il Fourner distingue le rocce quarzoso-feldispatiche dell'Elba 
in due gruppi, cioè delle rocce granitoidi e delle rocce euri- 
tiche. Come egli chiami indistintamente eurse, oltrechè l’aplite, 
anche il porfido granitico, è provato dalle sue linee (2): “ Les 
roches dites euritiques constituent de puissants filons que l'on 
peut suivre dans les falaises du littoral, depuis Porto Ferraio 
jusqu' au golfe de Procchio, et de là vers la Pila, Sant'Ilario 
et San Piero. Ces jets émanent d'un massiv qui paraît occu- 
per toute la partie centrale de l’île entre les deux caps oppo- 
sés de l’Enfola et de Fonza.... On retrouve un second noyau 
assez considerable de ces mèmes eurites autour de Porto Lon- 
gone et de Capo Oliveri; l’aréte de Monte Zuccale par laquelle 
la presqu’ île de Calamita est jointe è la partie orientale de 
l’île d'Elbe en est presque entièrement composée ... L’eurite, 
dans son état le plus rudimentaire, presente une pàte dure, 
homogène, compacte, d'un blanc pur, matte, ou tout au plus 
submiroitante comme un marbre finement saccharoîd... c'est 
surbout avec cette physionomie que cette roche se montre au 
| pied du Monte Bello..... Partout, dans l’interieur de |’ île, 
l’eurite ne forme que des coupoles arrondies, et dans l’ensem- 
ble desquelles on ne trouve aucun trait hardi. Indépendamment 
de cette eurite si simple, les divers points dejà indiqués ren- 
ferment d'autres roches également blanches, mais dont la te- 
xture est plus complexe ,. Poi, a pag. 399 (1. c.): “ Les euri- 
tes pures ou quarzifèeres, ou tourmalinifères, ou micacées, tra- 

(1) Stuner B. — Sur la constitution geologique de Vle d’ Elbe. Bull. de la Soc. 
Géol. de France. Tome XII, 1841, pag 291. 

(2) Fourner J. — Notes sur les roches feldspathiques de l'èle d’ Elbe. Ann. d. 1. Soc. 
d’agric, et d’hist. nat. de Lyon. T. IMI, 1851, pag. 393.94. 


114 R. V. MATTEUCCI 


versent les calcaires de transition près de Marciana; mais 
c'est surtout sur les alberèses et les macignos qu’ elles ont 
exercés au plus haut degré leur puissance dislocante ,. E, infine, 
a pag. 430 e 481: “ La roche è texture granitique constitue 
la masse du Monte Capanne .... la roche è texture euritique 
domine dans d'autres parties de l’île ,. 

Il v. RarH, considerando questa roccia come una varietà del 
porfido granitico, dice (1): “ Il porfido quarzifero (porfido grani- 
tico) presenta, nelle sue peculiari varietà, grandi cristalli bian- 
chi di feldispato, quarzo, oligoclase, mica e, come parte costi- 
tuente, che non manca mai, tormalina nera. Come sempre nei 
distretti porfirici (contrariamente a quanto si osserva negli am- 
massì granitici) si trovano molteplici varietà di questa roccia. 
Così s'incontrano, segnatamente al Monte Bello ed in altri 
punti della costa settentrionale, rocce bianche e finamente gra- 
nellose, nelle quali la tormalina forma globuli rotondeggianti 
e quasi compatti ,. E, più avanti, parlando ancora della no- 
stra aplite, si esprime il v. Rara nel modo seguente (?): £ Nelle 
alture di Acquaviva, ed anche meglio al Capo Bianco si tro- 
vano varietà bianche di porfido dove la tormalina costituisce 
dure concrezioni ,. 

Il Nessi pure, quatunque propenso a tener separato il por- 
fido granitico (Porphyrgestein vom Habitus des Granitporphyrs) 
dall’aplite (vom Habitus der porphyrischen Mikrogranite) pur 
riunendo le due rocce nel gruppo delle tormalinifere (Turmalin- 
fiihrende Glieder), in vista della loro uguale (?) giacitura, . le 
considera come varietà della stessa forma; e così si esprime (5): 


(4) Der Quarzporphyr (porfido granitico) zeigt in seinen herrschenden Varietàten 
grosse Feldspathkrystalle von weisser Farbe, Quarz, Oligoklas, Glimmer und, als wohl 
nie fehlenden Gemensgtheil, schwarzen Turmalin. Wie immer in den Porphyrdistrikten, 
findet sich (im Gegensatze zu den Granitgebirgen) ein mannichfacher Wechsel des 
Gesteins. So kommen namentlich am Monte Bello un anderen Punkten der Nordkiiste 
feinkòrnige, schneeweisse Gesteine vor, in denen der Turmalin rundliche, fast dichte 
Knauer bildet ». G. v. Rara. — Die Insel Elba etc. pag. 676. 

(2) « In den nérdlich am Meere liegenden Hohen von Acquaviva und noch ausge- 
zeichneter am Capo Bianco finden sich feinkòrnige weisse Porphyrvarietàten, in denen 
der Turmalin eigenthiimliche gerundete hàrtere Concretionen von schwarzer Farbe 
bildet. Am letzeenannten Orte ist der Strand mit zahllosen Rollsteinen dieses schnee- 
weissen schwarzfleckigen Gesteins bedeckt ». (G. v. RarH. 0. c., pag. 686). 

(3) « Wenn wir eine auf mincralogische und petrographische Verhaltnisse gestiitate 
Classification der Felsarten vornehmen, so hat dies vom Standpunkt des Petrographen 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 115 


“ Se basiamo una classificazione di queste rocce sopra carat- 
teri mineralogici e petrografici, essa viene pienamente giusti- 
ficata dal punto di vista del petrografo; ma se ne consideriamo 
la geognosia e la forma geologica nella quale esse si presen- 
tano, allora ci convinciamo della loro stretta connessione geo- 
logica ,. 

Il Reyer, trovandovi un’ analogia con i tufi trachitici degli 
Euganei, inclina a ritenere questa roccia per un tufo, e la rap- 
presenta nella sua carta geologica come un tuffartiger Granit- 
porphyr. Ecco, in breve, la descrizione che egli ce ne fa (1): 
“Il Forte di Portoferraio sta sul gabbro, al quale segue un cal- 
care bianco a grossi banchi con inclinazione ad Ovest. Su di 
esso però non giace, come altrove, il macigno con interstrati- 
ficazioni di porfido granitico, bensì una strana roccia bianca la 
quale rammenta i tufi trachitici litoidi degli Euganei e che 
consiste di un miscuglio microgranitico di quarzo e di orto- 
clase. ..... La roccia è screpolata e di apparenza massiccia, 
solo di rado si presentano chiaramente i segni della stratifi- 
cazione. ... In diversi luoghi si notano passaggi del materiale 
bianco al tufo porfirico grossolano, e questo è all'incontro ap- 
pena da distinguere e da separare dal porfido granitico spesso 
profondamente alterato e caolinizzato. Alcune parti della detta 
roccia bianca io ritengo per tufi; mentre la massa principale 
mi sembra una roccia eruttiva massiccia ,. 


seine volle Berechtigung; betrachten wir aber diese Gesteine als Gebirgsglieder, wie 
sie in enger riumlicher Verknipfung und unter im Wesentlichen gleicher Form des 
Anftretens den elbaischen Macigno durchsetzen, so gewinnen wir die Ueberzeugung 
von ibrer geologischen Zusammengehorigkeit, die durch einen Wechsel in der Structur 
und Zusammensetzung nicht beeintràchtigt werden kann». (W. R. Nessi. — Die giin- 
ren Eruptivgesteine etc. pag. 105). 

(4) « Das Fort von Portoferraio steht auf Gabbro, Ruf diesen folet mit normaler 
westlicher Neigung weisser, dickbankiger Kalk. Hicrubor aber liegt nicht wie ander- 
wérts Macieno mit Granitporphyr-Eingelagerungen sondern ein merkwirdiges weisses 
Gestein, welches an die steinigen Trachittuffe der Euganeen erinnert und aus einem 
mikrogranitischen Gemenge von Quarz und Ortoklas bestht.... Das Gestein ist klein- 
kliftig und scheinbar massig, nur selten treten die Merkmale der Schichtung deutlich 
hervor.... An mehreren Stellen beobachtet man Ueberginge des weissen Materiales in 
den groben Porphyrtuff und dieser wider ist kaum zu unterscheiden und zu trennen 
von dem hàufig tief verwitterten und kaolinisirten Granitporphyr. Einzelne Partien der 
besagten weissen Gesteine halte ich fiir Tuffe; die Hauptmasse scheint mir aber doch 
ein massiges Eruptivgestein (Mikrogranit?) zu sein». E. Raver. — Aus Toskana. Wien, 
1884, pag. 155. 


116 R. V. MATTEUCCI 


Per quanto io debba confessare di non comprendere bene 
il concetto del Reyer, a meno che egli ci veda una roccia cla- 
stica, ossia un materiale tufaceo originariamente incoerente e 
cementato poi da un magma microgranitico — giacchè non vo- 
glio ammettere che la consideri in parte come tufo e in parte 
come roccia eruttiva massiccia — pure dall'insieme trasparisce 
che egli non la vuol ritenere per una varietà di porfido gra- 
nitico. 

Il Lorri(!) che distingue all’Elba “quattro tipi principali 
di rocce feldispatiche, granito normale, granito tormalinifero, 
porfido quarzifero (porfido granitico) ed eurite, collegati fra loro 
da forme di passaggio , considera quest'ultima come una “ va- 
rietà euritica del porfido quarzifero , e dice (2) che “ anche 
dalla eurite a nuclei tormaliniferi, strettamente associata ai 
porfidi, si fa passaggio per mezzo di varietà granulitiche con 
tormalina uniformemente distribuita, al granito tormalinifero 
di grana minuta che forma più frequentemente le apofisi del 
granito normale nelle rocce di contatto ,. 

Ir Bucca (3) osserva bensì “ una notevole differenza tra 
l’eurite e le altre rocce feldispatiche dell'Elba ,, la differenza 
peraltro ch'egli vi trova sembrami un po’ troppo notevole. 
Dall'analisi microscopica infatti è egli indotto a ritenere “ che 
l'eurite non si sia formata come la vediamo adesso, ma che 
abbia subìto un certo metamorfismo ,. Ed alla domanda che 
si rivolge “ da che cosa potrebbe essere stato prodotto questo 
metamorfismo? ,, risponde con una serie di considerazioni. che 
per brevità non posso riprodurre; e, attribuendo al porfido 
granitico una intensa azione metamorfizzante, conclude che 
“ tutto c induce a supporre che l’ eurite, più che una roccia 
originaria, sia una roccia metamorfica, fatta molto probabil- 
mente a spese di scisti antichi ,. I 

Al De Sterani non isfugge una certa corrispondenza petro- 
grafica ed un nesso geologico fra il porfido granitico e l’aplite, 
e considera quest’ultima come una roccia affine che accompagna. 


(4) B. Lotti. — Descrizione geologica ecc. pag. 140. 
(2) Id. id. —/. c., pag. 141. 
(3) L. Bucca. — L'età del granito ecc. pag. 26 e seg. 
Id. id. — Ancora dell’ età ecc. pag. 13. 
Id. id. — Nuove discussioni ecc. pag. 3. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA dala 


la prima. E, parlando dell’aplite, dice (1): “ Non saprei se si 
tratti di tuti porcellanoidi o di prodotti devitrificati. Certo 
non è una roccia metamorfica derivante, come dubitò il Bucca, 
da schisti antichi, perchè fa parte esclusivamente della forma- 
zione trachitica (del nostro porfido granitico) eocenica,. Alle 
quali parole, in una seguente pubblicazione (?), il De Srerani 
aggiunge che questa roccia, l’aplite, “ ha, salve le minori di- 
mensioni dei componenti, natura identica a quella della tra- 
chite quarzifera (porfido granitico) circostante ,. 


II. 


Considerazioni sulla nomenclatura. — Eurite ed Aplite. 


Abbiamo veduto poco sopra come questa roccia abbia rice- 
vuto, dai diversi autori che l'hanno studiata, nomi differentis- 
simi. Non certo per intavolare una discussione sulla nomen- 
clatura, ma solo per giustificare la nuova denominazione di 
aplite che io le applico, mi incorre |’ obbligo di parlarne un 
istante. Stimando però superfluo spender parole onde esporre 
le ragioni che mi fanno rinunziare agli altri nomi dati a questa 
roccia da altri autori, mi limito alla sua denominazione più 
recentemente adottata, e cioè al termine ewrite, e sull’inoppor- 
tunità della sua applicazione. 

Il termine ewrite fu introdotto la prima volta dal D’Avsurs- 
son; ma, quantunque la sua definizione possa applicarsi anche 
ad un tipo speciale di roccia, pure mi sembra ch'egli abbia 
piuttosto voluto denominare eurite quel tale magma acido che, 
una volta consolidato, può dar luogo indifferentemente a por- 
fidi quarziferi, a porfidi granitici ed a graniti. Ecco infatti le 
sue parole, nell’Article cinquiéme — Du porphyre (3) — “ Dans 
le porphyre ordinaire, celui qui correspond au granit propre- 
ment dit, la pàte aura le feldspath pour principe principal: 
nous lui donnons le nom d’eurzte, et nous la definisson en di- 


(4) C. De SrErANI. — Gramnulite, granitite in massa ecc. pag. 595. 

(2) C. Dr Srerani — Il così detto porfido ecc. pag. 108. 

(*) D'Ausuisson pe Vorsins J. F. — Traisé de Géognosie. Strassbourg 1819. Tome 
second, pag. 117. 


118 R. V. MATTEUCCI 


sant: L'eurite est un granite compacte, ou plus généralement, 
l’eurite est une roche composée, mais d’apparence honaogène, 
dans laquelle le feldspath est le principe dominant, et dont les 
diverses principes sont comme fondus les uns dans les autres. 
S'il était possible de la redissoudre, et de faire cristalliser 
tranquillement la solution, de manière è ce que les principes 
intégrants pussent se former en cristaux distincts, elle produi- 
ralt un granit ,. 

In questo stesso senso sembrami abbia interpretato la de- 
finizione di D'Ausuisson anche lo Zikker, quando dice (!); “ Die 
Grundmasse der Quarzporphyre schmilzt trotz ihres Kieselsàure- 
reichtums und ihres Gehalts an Mikroskopischen Quarz vor dem 
Lòthrohr wie der Feldspath allein. Wegen dieser Schmelzbarkeit 
nannte D'Ausuisson die Grundmasse, in welcher er ein Gemenge 
von Feldspath und Quarz vermuthete, Eur, um auzudeuten, 
dass sie nicht aus dem unschmelzbaren Hornstein bestehe ,. 
E, al capitolo “ Felsitfels (Petrosilex, Eurit), sempre rappor- 
tandosi alla definizione di D' Avsuisson, lo ZirkeL aggiunge (?): 
“ So bezeichnet man eine in chemischer wie geologischer Hin- 
sicht den Quarzporphyren oder Felsitporphyren sich anschlies- 
sende dichte Felsitmasse, welche gewissermassen der Grund- 
masse der letzteren entspricht ,. 

In quella definizione infatti non si accenna punto ad una 
forma geologica ma solo alla composizione chimica di un magma 
che, come ognun sa, a seconda delle differenti condizioni di rap- 
prendimento può dar luogo a diverse rocce acide del tipo gra- 
nitico, e quindi biotitiche, e per conseguenza anche sufficiente- 
mente magnesiaco-ferrifere. 

Il LyeLt, pure inclinando a comprendere sotto il nome di 
eurite anche rocce acide non micacee (forse appartenenti alla 
formazione gneissica ), ci dà una descrizione che corrisponde 
perfettamente ad un porfido granitico o quarzifero od anche 
al tipo trachitico. Infatti egli dice (*) che l’eurite è ‘“ roche 
dans laquelle les éléments du granit sont disséminés au sein 
d’une pàte è grains très-fins. Lorsque cette roche est cristalline, 


(1) ZiakeL F. — Lehrbuch der Petrographie. Leipzig, 1894, II Bd. S. 162. 
(9). Id. id. —L c. 205. 
(3) LveLr Ca. — Elements de Géologie. 6.me édition, Tome II, pag. 443. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 119 


où apercoit, parmi la masse, des cristaux de quartz, mica, 
feldspath commun et feldspath è soude. Parfois le mica man- 
que, et le feldspath commun domine de manière è donner une 
couleur blanche; alors l’eurite devient un granit feldspathique, 
Weissstein de Werner, Whitestone des Anglais, Léptynite des 
Francais; on distingue souvent, dans l'ensemble, des cristaux 
microscopiques de grenat ,. 

Del resto, quand’anche si volesse attribuire alla definizione 
di D'Augursson il senso dato oggi all’aplite, ossia a quella roc- 
cia acida, filoniana, microcristallina, più o meno ricca in mu- 
scovite e poverissima o priva affatto di Mg e Fe, vediamo ap- 
plicato questo termine eurite, dal 1819 in poi, a designare rocce 
molto diverse, non solo, ma troviamo anche descritta la stessa 
eurite con nomi differenti da diversi autori. E per questo ri- 
guardo riproduco testualmente quanto scrive lo Sruper (*): “ Eurit 
— Petrosilex (Wall. und Dolom.) z. Th. Hornfels und Hornstein, 
Pierre de corne, z. Th. Feldstein (Hausm.), Dichter Feldspath 
(Haùy), Felsit (Gerhard). — Innig gemengter, homogenen schei- 
nender Granit, vorherrschend Feldspath, die andern Bestand- 
theile wie damit verschmolzen, wenig unter Quarzhàrte, aber 
z. Th. vor dem Lòthrohr Schmelzbar; diess ist die urspringliche 
Definition des Eurits von D'Aupuisson; spàter wurde die Benen- 
nung z. Th. verdringt, in Deutschland durch den Namen #éflstt, 
in Frankreich durch den alten Namen Petrosiler. Die Bedin- 
gung einer Verbindung zu vollkommen homogenem Aussehen 
wird indess nicht immer festgehalten und man zahlt zu den 
Euriten auch feinkòrnige, glimmerlose Granite, in denen sich 
Feldspath und Quarz, wenn nicht mit blossem Auge, doch durch 
die Loupe unterscheiden lassen. Der Eurit bildet die Grund- 
masse der meisten Porphyre, durchsetzt in Gingen Granit, 
Gneiss, u. a. Steinarten, oder wechselt mit denselben in enge 
damit verbundenen Massen und Straten. Als homogenen Eurtt 
oder dichten Feldspath kennt man, nach Saussure, den mit Gneiss 
verwachsenen dichten Feldspath der Pissevache und andere als 
Petrosilec oder Palaiopètre von ihm angefilhrte Steinarten ,. 

Anche il D’Acararpi accenna alla confusione che regna in 
questa parte della nomenclatura petrografica quando, a propo- 


(1) Sruper. — Index der Geologie und Petrographie. Bern, 1872. 
Se. Nat., Vol. XVI 8 


120 R. V. MATTEUCCI 


sito delle ortofelsiti, dice (1): “ Questa massa fondamentale, es- 
senzialmente costituita di materiali ortosici e quarzosi, con 
base sia vetrosa, sia microfelsitica, ebbe nomi diversi dai varii 
autori, e così ewrite da D’'AuBursson, felsite da GERHARD, petroselce 
da Corpigr, altri da altri; ma questi nomi, nell’originario signi- 
ficato, in parte anche comprendono micrograniti e graniti por- 
firici. Essa non sempre presenta il medesimo aspetto, e la frat- 
tura ne è ora scheggiosa quasi di corneana, ora ineguale come 
nelle comuni pietre, ora piceo-vetrosa, ora anche terrosa per 
alterazioni sofferte, onde pure i diversi nomi di selciosi, pie- 
trosi, retinitici o picei e terrosi dati ai porfidi relativi ,,. 

A provare poi come per eurite si descrissero anche rocce 
metamorfiche e rocce gneissiche basti riportare qui due passi 
di J. Dana e di J. Rora. “ Felsyte, Quarz-Felsyte (Euryte, Pe- 
trosilex). Compact orthoclase, with often some quartz intima- 
tely mixed; fine granular to flint-like in fracture; sometimes 
contains oligoclase. Colors white, grayish-white, red, brownish- 
red to black. Both metamorphic and eruptive , (2). Al paragrafo 
“Granulit , del capitolo “ Die krystallinischen Schiefer , (8); 
“ Die friher als Eur (A. Erpwanw) oder Hélleflintagneiss be- 
zeichneten, in schwedischen Gneissen auftretenden Gesteine 
nennt man jetz in Schweden Granulite nach dem Vorschlage 
Tornebohm's ,. 

Secondo Grixie sarebbe poi da chiamarsi felsite una roccia 
a struttura omogenea, mentre l’eurite non sarebbe che un por- 
fido quarzifero. Ed è così che, salvo errore, traduco il suo con- 
cetto (4): “ Under the title Quartz-Porphyry are included se- 
veral varieties of rock which agree in consisting fundamen- 
tally of a very fine grained felsitic. ground-mass, composed 
mainly of orthoclase and quartz. Where these minerals are 
cristallized in conspiciuous forms the rock is a quartz-porphyry 
(felsite-porphyry, eurite); where the whole mass is more ho- 
mogeneous and flinty in texture it is a felsite or felstone ,. 
Così, mi pare, verrebbe in certo modo capovolto il senso dato 
ai termini porfido quarzifero ed ewrtte. 


(4) D’AcararDI A. — Guida al corso di Litologia. Pisa, 1888. pag. 272. 

(3) Dana J. — Manual of mineralogy and lithology. London. 1879. pag. 442. 

(3) Rora J. — Allgemeine und chemische Geologie. Berlin, 1883. II Bd. pag. 501. 
| (4) Gerxie A. - Texi-book of geology. London, 1882. pag. 135. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA To 


Consultiamo il Dr Larparent? e troviamo che, parlando dei 
tipi fondamentali di tessitura come elementi di classificazione 
delle rocce, al paragrafo “ Variété du type granitoide ,, egli 
chiama in fondo forma euritica o criptogranitica il granito mi- 
crocristallino (4): “ Si dans les granites l’uniformité de déve- 
loppement des éléments mineraux constitutifs s’applique è des 
cristaux facilement visibles è l'oeil nu, elle peut aussi regner 
dans un assemblage de cristaux de très petite dimension, don- 
nant, è la roche une apparence compacte. Nous appliquerons 
à ce dernier mode le nom d'euritique ou cryptogranitique, ré- 
servant celui de granztique pour les roches phanérocristallines 
c'est-ù-dire è grain cristallin facilement discernable ,. Mentre 
egli stesso, nel gruppo trachitoide delle rocce acide antiche di- 
stingue tre tipi, fra i quali il Porphyre globulaire, e dice (2): 
“ Les globules de ce type, è grain assez fin pour avoir mérité 
le nom de Eurite, paraissent costitués par du quartz et de la 
calcedoine; leur noyau est pointillé de fer oxydulé. Il existe 
d’ailleurs dans la pàte, en dehors des sphérolithes, une notable 
proportion de matière amorphe, demeurant éteinte, sous les 
nicols croisés, dans toutes les positions des plaques et offrant 
parfois des indices marqués de fluidalité. ... De bons types de 
cette variété se rencontrent à Sincey, è la Selle, près d’Autun 
et è Bourganeuf. La plupart des eurites sont globuleuses è 
l'oeil nu, sourtout quand on observe des faces polies, et leur 
couleur est ordinairement rougeàtre, quelquefois gris clair ,. 
È superfluo io faccia notare come coll’ultimo brano riportato 
dal De Lapprarent, oltrechè venire riferita l’eurite al gruppo tra- 
chitico, enperciò al tipo effusivo, le viene anche assegnata un'età 
antica. Del resto, gli stessi caratteri vengono rilevati dal De 
Lapparent anche dove, parlando della cronologia delle eruzioni, 
e più precisamente dei periodi eruttivi della serie antica, così 
dice (3): “ Période porphyrique, débutant, avec le commence- 
ment de l’époque anthracifère, par les porphyres granitoides, 
bientòt suivis des coulées de porphyre noîr (orthophyre) et de 
porphyrite, avec tufs subordonnés, et des émissions de porphyres 


(1) De LapparENT A. — Traité de Geéologie. Paris, 1885. pag. 590. 
(?) ICRZSOE — lc, pag. 605. 
(8) TORNA! — I. c., pag. 1294. 


122 R. V. MATTEUCCI 


quartzifères è pàte microgranulitique, qui coincident avec l’épo- 
que houillère. Enfin la période se termine avec le dépòt des 
houilles supérieures, par les épanchement d’eurit et par la sortie 
de roches dites trappéennzs, c’ est-à-dire de porphyrites micacées, 
amphiboliques ou augitiques ,. 

D'altronde, ritornando una sessantina d’anni indietro, tro- 
viamo lo Stuper che, nel descrivere 1 filoni aplitici di Bramson, 
ci parla d’eurite nello stretto senso che si dà oggi al termine 
aplite (1). 

Veniamo agli ultimi tempi, e Hem ci confessa di chiamare 
euriti certi micrograniti ai quali però annette la caratteri- 
stica che la roccia sia filoniana, cioè una aplite. Per es., par- 
lando delle rocce filoniane del massivo granitico dell’Aar, così 
si esprime (2): “ Die Ganggranite unseres Gebietes sind mein- 
stens fast ganz weiss, feinkòrnig, glimmerarm. Scamipr bezei- 
chnet sie als Ganggranit oder, wenn glimmerarm, Aplit, ich 
bin mich des Namens Eurit in ganz gleichen Sinne von jeher 
gewòhnt ,. E così cento altre volte parla dell’eurite come di 
aplite, cioè di roccia ortosico-acida, microcristallina, filoniana. 

Questa è, in succinto, la storia del termine eurite, dalla 
sua prima applicazione all'uso che se ne è fatto fino ad oggi, e 
intorno al quale, invero per maggior chiarezza, posso rispar- 
miarmi qualsiasi osservazione e commento. Passando però al 
caso nostro speciale, della roccia dell'Elba, non so tacere del 
Damour e del D'Acgiaroi. Mentre il Fourner, come abbiamo ve- 
duto, chiama eurite non solo l’aplite ma anche il porfido gra- 
nitico dell'Elba, il Damour che analizzò queste roccie fornitegli 
dallo stesso Fourwer, pubblica (3) che la roccia di Monte Bello 


(1) Sruper B. — Geoloyie der westlichen Schweizer-Alpen. Heidelberg u. Leipzig, 
1834. pag. 158. . 

« Bei Bramson bemerkt man im Granit-Gneiss eine Menge weisser Euritgange, 
von verschiedener, oft sehr bedeutender Màchtivkeit, theils der Schichtung parallel 
laufend, theils sie durchsetzend, zuweilen abgeschnitten, sich kreuzend und verwerfend, 
an einigen Stellen so michtig und dicht verflochten, dass das Muttergestein fast ver- 
dringt wird». 

(2) Hem A. — Geologie der Hochalpen zwischen Reuss und Rhein. Text zur geo- 
logischen Karte der Schweiz in 1:100000. Bern, 1891. 

(8) Damour. — Exramen chimique de deux roches feldspathiques de Vile d' Elbe. 
Annales des sciences physiques et naturelles d’ agriculture et d’industrie publiées par 
la Société nationale d’Agriculture ete. de Lyon. Lyon-Paris, 1850-51. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 125) 


— ossia la nostra aplite — “est qualifiée du nom d’ Eurite par 
M. Fourner, quoique sa texture finement grenue ainsi que sa 
blancheur lui donnent une physionomie distinete de celle des 
eurites ordinaires ,. Egli non dice come si dovrebbe invece 
chiamare questa roccia; ma certo è che, collaborando col Fou®- 
NET, non avrebbe potuto egli permettersi di fare la surripor- 
tata osservazione se in quell'epoca, nella. stessa scuola, non 
erano già sorti dispareri sul modo di denominarla. 

Il D'AcÒiarpi, parlando del microgranito in generale, dice (4): 
“ Ne porgono esempio alcune delle impropriamente dette euriti 
dell'Isola d'Elba, quali s'incontrano a Capo d’Enfola ,. 

Da quanto sono venuto esponendo parmi risulti troppo grande 
la confusione ingenerata dall’ uso del termine eurite perchè questo 
possa venire ulteriormente applicato ad una roccia che trova 
la sua perfetta corrispondenza colle definizioni date dal Rosen- 
Busca (2) e dallo Zrgkec (8) per l’aplite. Io mi sento pertanto 
autorizzato a rinunziare a qualunque altra dencminazione; e, 
per concludere su queste considerazioni di nomenclatura, chiamo 
aplite la roccia in discorso, e porfirica, stante la sua spiccata 
porfiricità. 

Non voglio però tralasciare qui di accennare che questa 
roccia; come verbalmente mi faceva notare il Ch."° Prof. Geheim. 
H. RosenBusca, si avvicina assai, per la struttura, al tipo che- 
ratofirico (da x552<=corno) stabilito dal GueweL. Senonchè ai 
cheratofiri, tanto presi nello stretto senso primitivo del Guew- 


(4) D’AcaraRDI A. — Guida al corso di litologia. Pisa, 1888. pag. 265. 

(2) « In den Stockformigen Granitmassen ist ein eruptives quarzreiches Kalifeld- 
spathganggestein an manchen Lokalitàiten sehr verbreitet, welches seiner charakteristi- 
schen Mineralcombination nach zu den granitischen Gesteinen gehbrt. Dasselbe fiihrt 
in seinen typischesten Formen neben Quarz un alkalireichem Feldspath nur einen hel- 
len Glimmer der Muscovitreihe und wird danach als Muscovitgranit oder besser a's 
Aplit bezeichnet ». (H. Rosenpusca. Mikroskopische Physiographie der Massigen Ge- 
steine. Stuttgart 1887. II Bd S. 278,. 

(3) « Aplit oder Halbgranit (Granitell) hat man denjenigen Granit genannt, in 
welchem der Glimmer — dann meist ein silberglinzender oder etwas griinlicher Kali- 
glimmer — sehr zuriiektritt, und welcher nur oder fast nur aus Quarz, Ortoklas und 
etwas Plagioklas zu bestehen pflegt, womit dann oft eine zuckerkòrnige Structur ver- 
bunden ist. Meist sind es Ginge, in denen der Aplit auftritt, z. B. die feinkòrnigen, 
welche nach Naumann bei Meissen und Zehren den grobkòrnigen Granit durchsetzen ». 
(ZiggeL F. - Lehrbuch der Petrographie. Leipzig 1894, II Bd., S. 46). 


124 R. V. MATTEUCCI 


BEL (*), quanto intesi come li intende il Lossen (2), quanto come 
ce li definisce il: Rosensusck (3), non può corrispondere la nostra 
roccia, inquantochè, astrazion fatta dal loro minerale basico, 
mica bruna, od ornblenda, od augite, essi, geologicamente con- 
siderati, sono membri effusivi paleovulcanici; mentre la nostra 
roccia, oltre ad essere neovulcanica, è di forma decisamente 
filoniana. 


INVE 


Struttura colonnare e listata dell’ Aplite. 


Le masse aplitiche, spesso, offrono una struttura colonnare 
assai caratteristica. Il Monte Bello, osservato dal mare, dove 
tutta la sua scogliera è costituita da questa roccia, si vede 
tutto suddiviso e fratturato dalla cima al basso. Il v. Rata ce 
ne parla così: “ Ein deutliches Beispiel fiir die prismatische 
Absonderung des Porphyrs (aplite) bietet der Monte Bello. 
Dieser mit einem verfallenen Kastell gekrònte Berg besteht 
aus vertikalen Sàulen, welche seinem Gipfel ein gleichsam sta- 
chliches Aussehen geben (‘) ,. Questa struttura prismatica è do- 
vuta a condizioni di rapprendimento del magma, ed è da ascri- 
versi fra i caratteri che differenziano l’aplite dal porfido gra- 
nitico. Alle forme colonnari vedute anche dallo stesso v. Rara 
nel porfido granitico al Golfo di Viticcio (“ Saàulenfòrmige Fels- 


(!) Keratophyr, ein « sehr vielgestaltiges quarzfiihrendes Orthoklas-Plagioklasge- 
stein mit auscheinend dichter hornfelsartiger, aber doch mehr oder weniger deutlich 
feinkrystallinisch-kòrniger Grundmasse und darin eingesprengten Feldspathnidelchen 
von vorherrschend regelmissigem, rectangulirem Durchschnitt nebst Putzen von Quarz, 
Kéornchen von Magneteisen, vereinzelten Blittchen braunen Glimmers und Spureù von 
zersetzter Hornblende », (K. W. v. GuemBEL. — Palacolithische Eruptivgesteine des Pi- 
chtelgebirges. Miinchen, 1874. pag. 43-48). 

(2) Il Lossen H. A. annette al termine Keratophyr il senso di un « palaeopluto- 
nischen Natronsyenitporphyrs » ed al termine Quarzkeratophyr quello di un « palaeo- 
plutonischen Natronquarzporphyr » . (Zeitschrift d. d. g. Gesellschaft Bd. XXXII, 1884; 
Bd. XXXIV, 1882. — Sitzungsberichte d. Ges. naturforsch. Freunde. Berlin, 1883). 

(3) Il RosenBuscH definisce il cheratofiro « als ein bald quarzfreies, bald quarzhal- 
tiges, durch natronreiche Alkalifeldspathe charakterisirtes palaeovulkanisches Effusiv- 
gestein ». (H. Rosenpusca. — Mikroskopische Physiographie ete. II Bd. Stuttgart, 
1887. pag. 435). 

(4) G. v. Rara. — L. c., pag. 686. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 125 


formen zeigt der Porphyr auch am Golf von Viticcio , (1)) at- 
tribuirei tutt'altra derivazione; e cioè le farei dipendere esclu- 
sivamente da azioni esogeno-meteoriche. 

Oltrechè alla summentovata suddivisione prismatica in gran- 
de, si presta l’aplite ad una facilissima rottura in piccoli po- 
liedri più o meno irregolari che preferibilmente si staccano e 
si suddividono secondo piani press’ a poco paralleli alla fluida- 
lità della roccia. 

Oltre a ciò, le masse aplitiche presentano un’altra strut- 
tura anche più caratteristica che chiamerò listata o zonata, per 
la quale, la giacitura dell’aplite veduta in posto, e talora an- 
che in piccoli pezzi, rammenta addirittura assai davvicino quella 
delle rocce sedimentarie; tanto è essa regolare e segue piani 
esattamente paralleli. Alludendo a questa speciale e caratteri- 
stica striatura, il Bucca osserva giustamente che la roccia pre- 
senta “ alcune volte una pseudostratificazione , (?). 

Questa struttura che indubbiamente si estende ovunque nel- 
l'interno delle masse aplitiche, e che non è presentata mai dal 
porfido granitico, non si vede, come è naturale, nei lembi fra 
Magazzini e Porto Longone, a S. Lucia ecc., dove la roccia è 
molto alterata; ma, dove la parte superficiale più decomposta 
fu asportata, e messa a nudo la parte fresca, ivi questa struttura - 
è oltremodo appariscente. E, costeggiando l'Isola in battello dalla 
Punta di Sansone al Capo Bianco, bisogna convincersi che que- 
sto carattere è comune a tutti 1 lembi aplitici e manca com- 
pletamente nel porfido. Presso la Punta di Sansone, ad esempio, 
la struttura listata segue un andamento di poco inclinato sul- 
l'orizzonte. Anche a Capo Bianco e sotto il Forte Inglese le 
zone sono quasi orizzontali, e sempre, s'intende, perfettamente 
parallele fra loro. 

Vedremo in seguito come questa struttura zonata — resa 
evidente, oltre che dalle nuances di colorazione della roccia, da 
una disposizione speciale della tormalina — sia in diretto rap- 
porto con la struttura intima della roccia. 

Nell’aplite della massa più orientale, situata cioè fra il Golfo 
di Portoferraio e Porto Longone, si trovano numerose e strette 


(4) G. v. Rata. — L. c., pag. 686. 
(2?) L. Bucca. — L'età ecc. pag 27. 


126 R. V. MATTEUCCI 


fenditure 0, meglio, screpolature, che io considero come dipen- 
denti dal rapprendimento del magma e che mai ho osservato 
nel porfido granitico. Le pareti di queste fessure sono rivestite 
da sostanza ferruginosa. Nelle sezioni sottili della roccia esse 
sì vedono spesso riempite da una vera pegmatite costituita da 
quarzo, ortoclase e tormalina. Non è raro che qua e là da que- 
ste venuzze pegmatitiche irraggi, per penetrare nella roccia, 
qualche massarella tormalinica con l’identica struttura dei nu- 
clei (*). Del resto, piccolissimi si, ma nuclei tormalinici si trovano 
in questi lembi orientali come negli altri. 


V. 


Caratteri macroscopici. 


Questa roccia, se fresca, è di un bianco che volge legger- 
mente al cinereo, e di una lucentezza ceroide; dove l’alterazione 
è incipiente (per decomposizione dei feldispati), si perde la leg- 
giera tinta cinerea, e la roccia diviene perfettamente bianca 
e di aspetto porcellanoide; se l'alterazione è più inoltrata (per 
decomposizione della mica e, indirettamente, della tormalina), 
essa diviene alquanto giallastra e un poco friabile. 

Finamente cristallina, a tipo saccaroide, con modeste segre- 
gazioni micacee, quarzose e feldispatiche, sempre compattissima, 
talora eccessivamente tenace. 

Macchie tondeggianti grigio-bluastre scure, più o meno grandi, 
più o meno spesse, sparse sporadicamente o allineate in zone 
che svelano la fluidità della roccia alla quale cedono un aspetto 
elegante, sono le sezioni di nuclei tormalinici che raggiungono 
svariatissime dimensioni (v. Tav. VII, Fig. 11 e 12). 

La roccia, uno dei cui peculiari caratteri è la compat- 
tezza, si presta assai male alla caolinizzazione; purtuttavia, la 
resistenza più energica che la tormalina oppone all’alterazione 
meteorica fa sì che i nuclei tormalinici sporgano sensibilmente 
dalla superficie della roccia dove questa è più esposta alle in- 
temperie o dove è battuta dai flutti del mare. Quanto all’ iso- 
lamento completo però di questi nuclei tormalinici, che fini- 


(4) v. cap. X. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA MUA7 


scono per trovarsi poi abbondantemente sparsi nel terreno di 
disfacimento, esso deve precipuamente attribuirsi ad una zona 
micaceo-cloritica che, come si vedrà meglio in seguito, riveste 
i detti nuclei. 


VI. 


Caratteri microscopici. 


Osservata microscopicamente, presenta una struttura olo- 
cristallino-porfirica fluidale. 

Massa fondamentale da finamente macrocristallina a micro- 
cristallina, panidiomorfa, vistosamente fluidale (v. Tav. V, Fig. 1), 
i cui costituenti sono quarzo feldispati e mica. I feldispati sono 
quasi tutti albite, assai allungati secondo l’asse c e geminati 
secondo la legge propria. Pochi altri sono di ortoclase. Il quarzo, 
abbondante, è in granuli apparentemente arrotondati ma in 
realtà irregolarmente angolosi, sparsi in generale in modo ab- 
bastanza uniforme fra i cristalli di feldispato. Non è raro però 
il caso di trovare molteplici granuli di quarzo accumulati in 
ristrette zone circolari o subrotonde, nelle quali mancano gli 
elementi feldispatici, e dove non è più visibile la fluidalità. Non 
è difficile, anzi io lo ritengo per fermo, che tali granulazioni quar- 
zose siano collegate con la genesi della tormalina, di cui ci sta- 
rebbero a rappresentare un primo stadio, ben poco inoltrato. 

L'alto tenore in silice (75,85 °%) e le proporzioni di Na?0 
(4, 04°/) e K?0 (2, 37°/) e le sole tracce di Ca0, risultanti dal- 
l’analisi eseguita dal Damour su un campione di questa roccia 
raccolto a Monte Bello, ci fanno già avvertire 1 abbondanza 
del quarzo, la presenza di un feldispato sodico e la assenza — 
o quasi — di feldispati calcici. 

La mica, probabilmente biotite in origine, è sostituita da 
piccoli ciuffi muscovitici sparsi qua e là. 

Cristalli di quarzo, feldispato e mica, molto ben visibili ad 
occhio nudo, sparsi non sempre irregolarmente nella massa fon- 
damentale, quantunque di modeste dimensioni, sono da consi- 
derarsi appartenenti ad un primo periodo di cristallizzazione 
intratellurico, e cedono alla roccia il carattere della porfiricità: 
1.° perchè essi sono molto diversi da quelli costituenti la massa 
fondamentale. Questi ultimi sono piccolissimi e tutti molto al- 


128 R. V. MATTEUCCI 


langati e di uguale dimensione; gli altri variano in grandezza, 
ma non sono mai piccoli come questi. L’allungamento secondo c 
che si osserva senza eccezione nei piccoli cristalli della massa 
fondamentale non è presentato mai dai cristalli più grandi por- 
firici; 2.° perchè alla fluidalità che caratterizza così bene la 
massa fondamentale partecipano spesso anche i cristalli mag- 
giormente sviluppati; 3.° perchè la disposizione fluidale involge 
gli individui più grandi, e talvolta anche i piccoli nuclei tor- 
malinici, nel cui posto ritengo siano esistiti cristalli o accu- 
mulazioni feldispatiche. 


VII. 
Fluidalità. 


Uno dei caratteri più salienti di questa roccia è senza dub- 
bio la fluidalità. Dissi già (!) che nei campioni di porfido gra- 
nitico da me raccolti non ho potuto mai osservare ad occhio 
nudo una struttura fluidale (Tav. VII, Fig. 13). Anche microscopi- 
camente essa è assai di rado e appena discernibile intorno ad al- 
cune grandi segregazioni quarzose e feldispatiche, dove si estrin- 
seca per mezzo degli elementi micacei allungati alcuni dei quali 
si presentano allora in disposizione approssimativamente parallela 
al contorno delle dette segregazioni. Un'idea di fluidalità ma- 
croscopica trasparisce, ma assai dubbia peraltro, in alcuni luoghi 
dove la roccia contiene miriadi di grossissime segregazioni fel- 
dispatiche; giacchè quivi, osservandone la superficie a qualche 
passo di distanza, si avverte un certo ordine assunto dai grandi 
cristalli di feldispato, l'orientamento del cui asse maggiore ram- 
menta all'ingrosso la disposizione fluidale. Anche il DeSteFANI(?) 
accenna a questa fluidalità del porfido granitico; ma visogna 
convenire che questo carattere si presenta tanto raramente e 
così indeciso nel porfido, che non meriterebbe neppure la pena 
se ne parlasse; e tanto meno poi dopo osservato lo stesso ca- 
rattere nell’aplite, dove esso non solo è spiccatissimo, ma anche 
evidente macroscopicamente quasi dappertutto, e microscopica- 
mente in molti preparati. 


(4) R. V. MartEUCCI. — - l. c., pag. 78. 
(*) C. De SreranI. — Il così detto porfido ecc. pag. 103. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 129 


Per quante sezioni abbia studiate, e dell’ una e dell’ altra 
roccia, non ho mai potuto osservare nulla di paragonabile fra 
la struttura dell’aplite e quella del porfido granitico. (Tav. V, 
Fig. 1 e 8). Pur convenendo con tutti i distinti Geologi e Petro- 
grafi, che studiarono l’ Elba, che il porfido offre molte varietà, 
son costretto a ripetere qui che non mi sono mai imbattuto 
in una sua varietà che anche lontanamente mi rammentasse 
l’aplite (Tav. VII, Fig. 11 e 18). Anche una masserella che 
trovai inclusa nel porfido presso Campo, che è da ritenersi per 
una differenziazione magmatica del porfido stesso, ed alla quale, 
petrograficamente considerata, dovetti assegnare il nome di 
aplite porfirica (4) non ha nulla a che fare con l’aplite che qui 
studio. 

Sezioni sottili infatti, tagliate opportunamente da campioni 
di questa roccia presi in diverse località, mi offrirono la più 
distinta struttura fluidale, e la fluitazione è sempre parallela alla 
struttura striata di cui ho parlato più sopra. Al massimo grado, 
nella roccia fresca dell’ Acquaviva, di Monte Bello, di Capo 
Bianco e nelle sezioni tagliate parallelamente al contatto col 
porfido ai Bagnetti, alle Saline di S. Rocco, a Santa Lucia. 

La fluidalità è ceduta alla roccia dalla disposizione orien- 
tata dei cristalli albitici che costituiscono in grande preponde- 
ranza la massa fondamentale (v. Tav. V, Fig. 1). Si vedrà poi in 
seguito come l'ordinamento fluidale sia anche assai appariscente 
intorno alle segregazioni quarzose e feldispatiche, come pure 
intorno ai piccoli nuclei tormalinici che da queste ultime de- 
rivano. 

Questa fluidalità così tipica, da non confondersi certamente 
con la schistosità o gneissicità, non può in alcun modo accor- 
darsi colla origine metamorfica attribuita dal Bucca a questa 
roccia. E non saprei neppure conciliare questo carattere della 
fluidalità con il dubbio espresso dal De SrerANI a proposito di 
questa roccia: che possa trattarsi cioè di tufi porcellanoidi o 
di prodotti devitrificati; giacchè non saprei formarmi un’ idea 
del come, tanto nel primo caso di una roccia clastico-rigenerata, 
quanto nel secondo, di una devitrificazione di una massa fon- 


(4) R. V. MartEUCoI. — Le rocce porfiriche dell’ Isola d’' Elba. Differenziazioni, 
modificazioni ed inclusi del porfido granitico. Bollettino della Società Geologica Italiana. 
Vol. XVI, fasc. I. Roma, 1897. 


130 R. V. MATTEUCCI 


damentale in tutto o in parte amorfa, possa trarre origine una 
così vistosa struttura fluidale, veramente caratteristica delle 
rocce filoniane e di trabocco. 


VII. 


Segregazioni porfiriche. 


Nella massa fondamentale dunque quarzoso-albitico-musco- 
vitica stanno immerse segregazioni attribuibili ad un periodo 
intratellurico. 

Quarzo. — Il quarzo vi si trova piuttosto abbondante, ma, 
siccome esso, come si vedrà in seguito, non devesi riguardare 
esclusivamente come costituente originario della roccia, ma 
come prodotto derivato da azioni pnenmatolitiche, così non è 
evidentemente il caso di considerarlo quale minerale predomi- 
nante, come disse il Nessic (!). Tanto più che, per l'appunto, esso 
in gran parte deriva proprio dalla silice dei feldispati di cui 
spesso occupa in parte il posto. Chè, se poi al Nessi capitò fra 
mano un campione con qualche differenziazione magmatica 
acida, è questo un caso che non può venire in nessun modo 
generalizzato. 

Il quarzo, quale segregazione, è in individui piuttosto pic- 
coli, sparsi. porfiricamente e talvolta anche allineati fluidal- 
mente nella massa fondamentale. Non sempre nettamente de- 
limitati nè con forma cristallina propria. Voglio notare qui 
come anche sotto questo aspetto non si può mai confondere 
l’aplite col porfido granitico, nel quale ultimo il quarzo ha uno 
sviluppo ragguardevolissimo e in cristalli bipiramidati in cwi 
spesso sono presenti anche le facce del prisma (*). 

Il quarzo contiene numerose inclusioni liquido-gasose. Con- 
fermo l'osservazione del Nessie, che in questa roccia mancano, 
o, più esattamente, sono estremamente rari, il zircone e l’apa- 
tite; minerali che, come inclusioni, si notano costantemente nel 
porfido granitico (3). 


(4) « Das Mengungsverhàaltnisse beider Gesteinselemente (quarzo e feldispato) ist 
schwankend, doch kann der Quarz im Allgemeinen als das dominirende Mineral gel- 
ten». (W. R. Nessie. — l. c., pag. 113). 

(£) R. V. MartEUCcCI. — Le rocce porfiriche ecc. Porfido granitico, pag. 80. 

(3) W. R. Nessia. — /. c, pag. 112. 

R. V. MartEUCCI. — Le rocce porfiriche ecc. Porfido granitico, pag. 85 e 86. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA 131 


Segni di riassorbimento operato dal magma vi sono assai 
dubbii, e se anche talvolta l' irregolare contorno degli elementi 
quarzosi si può far dipendere dall’azione esercitatavi dalla massa 
fondamentale, questa corrosione è ben diversa da quella estre- 
mamente tipica presentata dal porfido granitico (!) (v. Tav. V, 
Fig. 3). 

Feldispati. — Le segregazioni feldispatiche entrano a far 
parte della roccia assai più abbondantemente di quello che un 
esame superficiale potrebbe far ritenere. Quelle infatti che dallo 
studio microscopico possono venire determinate direttamente 
per elementi feldispatici non sono la totalità. Ad esse, a rigore, 
e logicamente, — contrariamente a quanto abbiamo osservato 
pel quarzo — vanno aggiunte tutte quelle — numerosissime — 
che, per modificazione sofferta posteriormente alla consolida- 
zione della massa, furono parzialmente o completamente sosti- 
tuite da tormalina e da quarzo. Ecco come lo stesso processo 
pneumatolitico fece aumentare la quantità del quarzo e dimi- 
nuire per contro quella dei feldispati; ecco come a fortiorî venne 
alterata la primitiva proporzione dei due minerali nella roccia. 

Riserbandomi di parlare più diffusamente della detta sosti- 
tuzione quando tratterò della genesi della tormalina, mi limito 
qui a dire come i feldispati di prima generazione siano per lo 
più ortoclase, e in minor numero plagioclasi sodici, albite ed 
oligoclase. 

Essi tutti, a differenza dei feldispati del porfido granitico 
(dove raggiungono anche le dimensioni di 12 cm. (?)) non sor- 
passano mai Ja grossezza di un pisello, ma sono sempre chia- 
rissimamente discernibili anche ad occhio nudo, e non “ mi- 
kroporphyrische Feldspàthe , come dice il Nessi (a pag. 113, 
lue:). 

In diverse sezioni l’ortose sembra in geminati di Karlsbad; 
1 plagioclasi, se non alterati, presentano sempre una gemina- 
zione polisintetica. Cristalli ben formati, del resto, non si os- 
servano mai; una struttura zonata vi è assai dubbia; per lo 
più sono torbidi, in parte caolinizzati, in parte muscovitizzati, 
quando non sono sostituiti in parte o in tutto da quarzo e 
tormalina. 


(4) R. V. MarrEvccI. — Le rocce porfiriche ecc. Porfido granitico, pag 80 e 81. 
(&MId' id. — lc. pag. 83. 


132 k. V. MATTEUCCI 


Il fatto notato dal Bucca (!), che spesso i feldispati sono tor- 
bidi nell'interno e limpidi all’esterno, e che egli inclina a spie- 
gare mediante l’azione del calore che li avrebbe in parte rifusi, 
sarebbe secondo me da attribuirsi in alcuni casi ad una pura 
e semplice caolinizzazione dovuta ad azioni esterne, in altri 
casi invece (quando essi presentano la detta sostituzione in 
quarzo, tormalina e muscovite) ad azioni pneumatolitiche. 

Mica. — La mica, senza paragone sempre meno abbondante 
che nel porfido granitico, dove — inalterata, come biotite, od 
alterata in prodotti cloritici, o cambiata in muscovite ecc. — 
a ragione deve ritenersi come uno dei costituenti principali (?), 
è tuttavia anche nell’aplite un minerale porfirico e, nonostante 
la sua scarsezza, risalta sempre nella massa fondamentale da 
cui certamente si separò nel periodo intratellurico. 

Ora in laminette allungate, ora in cristalli tabulari a forma 
esagona, essa si trova sparsa. irregolarmente nella roccia, alla 
cui fluidalità raramente prende parte. Accordandosi perfetta- 
mente coi caratteri delle apliti (3), la mica è muscovite, però 
spesso alquanto ferrifera. Le piccole dosi di Fe 0 (0, 58%), ri- 
sultanti dall'analisi eseguita dal Damovr (4) su un campione di 
aplite del Monte Bello, ci dicono già come i minerali ferriferi 
siano in questa roccia assai scarsi od oltremodo poveri in ferro. 
Questa piccola quantità di Fe 0 partecipa alla mica una colo- 
razione bruna chiarissima che non ha naturalmente nulla a che 
fare con quella della biotite ael porfido granitico. Qui si tratta 
di mica potassica, di muscovite, a lucentezza madreperlacea 
se inalterata, che cede alla roccia un luccichio caratteristico. 

Della muscovite secondaria della massa fondamentale, o ne- 
gli elementi feldispatici, o come prodotto derivato dalla torma- 
lina, sempre in fascetti o in cespuglietti fibroso-raggiati, non 
è il caso di parlarne qui. 


(1) L. Bucca. — L'età del granito di Monte Capanne ecc. Rend. Accad. Lincei. 
Roma, 1891. 

(*) R. V. MartEvcci. — Le rocce porfiriche ecc. Porfido granitico. pag. 84 e 87. 

(3) H. RosenBusca. — Mikroskopische Physiographie der massigen Gesteine. 
Stuttgart, 1887. 

(i) Damour — Exramen chimique de deux roches feldspathiques de Vile d’ Elbe. 
Annales des Sciences physiques et naturelles d’agriculture et d’industrie publiées par 
la Société nationale d’Agriculture etc. de Lyon. Lyon-Paris, 1850-51. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 133 


Mica biotite bruna, come accessoria, vi si osserva anche 
qua e là, ma assai raramente. 

Il granato (almandino?) a cui ci accenna il Fourner (*) non 
lo rinvenni mai in questa roccia. 


IX. 


Tormalina: minerale estraneo alla costituzione originaria della roccia. 


Un altro minerale infine, che, quantunque non faccia asso- 
lutamente parte della roccia come elemento costituente origi- 
nario e debba attribuirsi ad azioni secondarie e posteriori alla 
consolidazione della massa, attira in modo speciale la nostra 
attenzione, ed è la tormalina (?). Questo minerale, estraneo alla 
vera costituzione mineralogica della roccia, ne forma tuttavia 
un carattere oltremodo distintivo. 

Io non vorrei tornare qui sulla quistione del ritrovarsi que- 
sto minerale sparso dovunque in tutta la formazione cristal- 
lina acida della parte mediana dell'Elba. E non vorrei ritor- 
narvi sopra tanto più che nella mia precedente pubblicazione (*) 
dedicai un piccolo capitolo quasi esclusivamente a dimostrare 
la costanza della tormalina in queste rocce. 

Però, siccome allora si trattava di provare la sua costanza 
nel porfido granitico e il conseguente difetto di un criterio fon- 


(4) «L’eurite presente les indices de laminage du leptynite, et l'on peut y ren- 
contrer ca et là de petits grenats rouges qui rendent encore plus frappante la ressem- 
blance de cette manière d’ ètre avec celle des leptinites anciens ». (FournET, Notes sur 
les roches feldspathiques del Vle d' Elbe. Ann. d. 1. Soc. d’agrie. et d’hist. nat. de 
Lyon. T. INIL, 1851. pag. 395). 

(?) Cade qui a proposito ch'io faccia notare come il RosenBuscH dice che la tor- 
malina sovrabbonda talmente in alcuni graniti, come ad esempio nei luxulians, da di- 
venirne parte costituente essenziale (wesentlicher Gemengtheil). E ciò può ripetersi an- 
che per la nostra roccia. Ma, avendo io insistentemente manifestata l’idea che la tor- 
malina non deve mai considerarsi come vero minerale costituente dell’ aplite, e per eli- 
minare il dubbio ch’io mi trovi in disaccordo col chiarissimo Professore di Heidelberg, 
tengo a porre in chiaro che io per minerali costituenti di una roccia intendo solo quelli 
che ripetono la loro genesi dalla solidificazione del magma e che, solo per brevità, 
ometto di chiamare colla denominazione più esatta di minerali costituenti originarii 
(urspriingliche Gemengtheile di Rosenpusca — Mikroskopische Physiographie ecc. TI Bd. 
Stuttgart, 1887, pae. 43). | 

(5) R. V. MamtEUCoI. — Le rocce porfiriche dell'Isola d' Elba — Porfido granitico. 


134 R. V. MATTEUCCI 


damentale onde stabilire una distinzione tra porfido tormali- 
nico e porfido non tormalinico, ed essendomi allora riserbato 
di parlare un poco più a lungo di questo minerale qualora avessi 
trattato della roccia che forma soggetto del presente studio, 
così anche a costo di ripetermi ove lo crederò necessario, in- 
tendo di esaurire qui il tema che mi sono proposto. 

Per ciò che riguarda il porfido granitico, parmi d'avere 
provato all'evidenza come una classificazione quale quella pro- 
posta dal Nessie (1) per le rocce porfiriche dell’ Elba, basata in 
prima linea sulla presenza e sulla mancanza di questo mine- 
rale, non abbia ragione di esistere; appunto perchè, anzichè su 
un carattere differenziale, si fonda su un carattere comune. 
L'affermazione quindi dell'autore (2) “ der Turmalin ist Keines- 
wegs ein so constanter Gemengtheil dieser Gesteine, al sman 
angegeben findet , sia perchè egli considera la tormalina come 
minerale costituente di queste rocce, sia perchè non la trova 
generalmente sparsa, credo debba attribuirsi alla scarsezza del 
materiale da studio ch'egli ebbe a propria disposizione. L'ab- 
bondante materiale all'incontro, che io credetti opportuno rac- 
cogliere all’Elba per le mie ricerche, mi permise di giungere 
a conclusioni opposte; e, come prova inconfutabile che la tor- 
malina non vi si trova localizzata, citai una ventina di luoghi 
dove da me, o da altri prima di me, essa fu rinvenuta (3). 

E ciò valga pel porfido granitico. 

Riguardo all’aplite potrei ripetere per la massima parte le 
cose già dette pel porfido e che cioè, dovunque essa si trova, 
presenta sempre tormalina. Certo che la sua proporzione varia 
grandemente da luogo a luogo, e debbo anche aggiungere che 
qua e lù sembra essa mancare totalmente. Io ho voluto racco- 
gliere anche campioni dove ad occhio nudo non si vedeva la 
minima traccia di questo minerale, e dove però il microscopio “ 
me ne svelò la esistenza ed in quantità anche rilevanti. Ciò 
mi accadde, fra le altre, nello studiare certi esemplari di aplite 
presi alla sommità della collinetta di S. Lucia e nei lembi fra 
Magazzini e Porto Longone. Ma ripeto che, assai spesso, da 


(!) W. R. Nessi. — Die jiingeren Eruptivgesteine ete. pag. 106. 
(©) IE id. — l.c., pag. 105. 
(*) R. V. MartEvcci. — Le rocce porfiriche ecc. Porfido granitico. pag. 74. 


LE ROCCE PORFIRICHE DE:L ISOLA D'ELBA 135 


un semplice esame macroscopico si può esser tratti in errore. 
È così indubbiamente che il Lorrr opinava essere l’aplite della 
parte orientale dell'Isola “ non tormalinifera , (1). 

Da quanto sono venuto fin qui esponendo, risulta che la 


x 


costanza della tormalina è carattere generale del porfido gra- 
nitico, non solo, ma comune anche all’aplite. 

Ciò non pertanto, e quantunque io abbia sempre considerato 
la tormalina in queste roccie non come loro parte costituente, 
ma bensì come minerale neogenico, e quindi non abbia mai 
annesso alla sua esistenza nessuna importanza immaginabile 
relativamente alla genetica delle rocce stesse, pure trovo nel 
suo diverso modo di presentarsi un carattere assai marcato che 
distingue nettamente — salvo rarissime e trascurabili eccezioni — 
l’aplite dal porfido granitico. Nel porfido infatti la tormalina 
si presenta sempre in cristalli isolati o riuniti in fascetti pa- 
ralleli o annidiata in irregolari ciuffetti (2). Il caso di piccoli 


(4) B. LortI. — Descrizione geolog. ecc. pag. 147. 

(2) Ne riporto qui testualmente qualche citazione tolta da diversi autori: 

« Der Porphyrgang am Viticciogolf enthàlt grosse weisse Feldspathkrystalle, bis 4/4 
Zoll grosse gerundete Quarzdihexaéder und kleine Turmalin-Nester ». (G. v. Rata. — 
l. c., pag. 683). 

« In der oberen Thalhalfte (von S. Martino) ist ein ausgezeichnet grosskorniger 
Porphyr verbreitet, in dessen Grundmasse Turmalin in kleinen Nestern und Gruppen 
nie fehlt ». (G. v. Rara. — l. c., pag. 686). 

« Auf der westlichen Seite des Golfs von Acona findet sich ein feiner weisskér- 
niger Quarzporphyr, mit zahlreichen kleinen Turmalineo, welche nicht nesterweise, 
wie gewohnlich, sondern einzeln im Gestein liegen» . (G. v. Rara. — l. c., pag. 690). 

« Der Turmalin bildet in der Gesteins-Grundmasse (vom Gestein am Wege von 
Porto-Ferraio nach Marciana, den Macigno iberlagernd; vom Gestein vom Golf von 
Campo, vom Cap Enfola und von Napoleon’ s Villa im Thal S. Martino) vorzugsweise 
mikroskopisch hervortretende, biischlige Aggregate von blaugetirbten, prismatischen bis 
nadelformig-stacheligen Krystallen, die an den Enden oft ganz enttàrbt sind und auch 
sonst nur einen schwachen Pleochroismus offenbaren. Daneben ist der Turmalin auch 
in mehr kornigen Massen zugegen». (W. R. Nessi. —/. c., pag 111 e 106). 

Nel porfido quarzifero (porf. granitico) notansi « come accessorii, cristallini d’apa- 
tite e di zirkone, tormalina in gruppetti talora così frequenti da dar luogo ad una va- 
rietà di porfido tormalinifero ». (B Lorti. — Descrizione geologica ecc. pag. 140). 

« Il porfido quarzifero della Punta Penisola, del Serrone, della Val di Lazzaro e 
del Monte $S. Lucia è prevalentemente granitico e tormalinifero. La tormalina vi si 
trova in gruppetti fibroso-radiati come quando comparisce nel granito normale del M. 
Capanne ». (B. Lori. — Descrizione geo ogica ecc, pag. 156). 

In un campione della Gala, presso Marciana, «si osservano qua e là delle mac- 
chiette nere formate da aggregati fibroso-raggiati di tormalina. Questi aggregati di 
tormalina sono spesso aderenti ai feldispati; e talora, partendo dal loro contorno, s'ir- 
radiano nell'interno ». (L. Bucca. — L'età del granito ecc. pag. 12). 


Sc. Nat., Vol. XVI 9 


136 R. V. MATTEUCCI 


aggregati radiali vi è oltremodo raro e addirittura da non 
tenerne alcun conto. 

Nell’aplite invecc .il modo di presentarsi della tormalina, 
sempre in noduli subrotondi a regolare struttura fibroso-raggiata, 
colpisce a prima vista e cede alla roccia un carattere assai 
peculiare (!). Il caso qui di ciuffetti irregolari o di cristalli iso- 
lati è ancora più raro di quello inverso rammentato pel porfido. 

Prendiamo ad esaminare questi nuclei tormalinici. Quanto 
alla forma, essi sono sempre subrotondi, ovoidali o sferici, ta- 
lora alquanto depressi. Le loro dimensioni, come già accennai, 
sono svariatissime. Per lo più queste oscillano (come a Capo 
Bianco, a Monte Bello ecc.) fra la grossezza di una nocciuola 


Secondo la descrizione della roccia della Conca, a Marciana, data dal MarTIROLO 
« la tormalina si trova irregolarmente distribuita in aggregati.... più raramente la 
tormalina si trova in cristalli isolati ». (L. Bucca. — L'età del granito ecc. pag. 12). 

Piccole accumulazioni tormaliniche ‘rotondeggianti e a struttura radiale, notate 
dallo scrivente a Scaglieri ed a Mulino a Vento (R. V. MarTEUCcI — Le rocce porfi- 
riche ecc. Porfido granitico. pag. 94), come quelle citate dal Bucca, appartengono alle 
rare eccezioni a cui ho accennato sopra. 

(4) Trascrivo anche per l’aplite, come ho fatto pel porfido, le principali citazioni 
di alcuni autori: 

« Am Monte Bello und anderen Punkten der Nordkiiste kommen feinkòrnige schnee- 
weisse Gesteine vor, in denen der ‘l’urmalin rundliche, fast dichte Knauer bildet ». 
(G. v. Rara — l. c., pag. 676) 

«Am Capo Bianco finden sich feinkòrnige weisse Porphyrvarietàten, in denen 
der Turmalin eigenthiimliche gerundete hàrtere Concretionen von sehwarzer Farbe 
bildet ». (G. v. RarH. — ll c., pag. 686): 

< Ausbezeichnet durch eine schneeweisse Farbe und noch erkennbar kòrniges Ge- 
fiige, beobachtet man an denselben..... schwarze bis blauschwarze, wie Tintenflecke 
aussehende, concretionire Knòtchen und groòssere Knauer von Turmalin ». (W. R. Nes- 
sie —l.c., pag. 112). 

« Was nun die Turmalin-Concretionen anbelangt, die eine ausnehmende Grosse 
nur im Gestein von Capo Bianco erreichen..... ». (W. R_Nessia. — L.c., pag. 1413). 

« Altra varietà euritica del porfido quarzifero è costituita da una massa compatta 
candida, in cui sono disseminati noduli rotondeggianti di varia grossezza e di color 
grigio-bluastro ». (B. LortI. — Descrizione geologica etc. pag. 140). 

« Generalmente questa roccia presenta delle macchie nero-bluastre, che spiccano 
sulla candida massa come delle macchie d’ inchiostro, di forma varia e di diverse di- 
mensioni, sempre però tondeggianti e costituite da tormalina». (L. Bucca. — L'età 
del granito ecc. pag. 22). 

« Questa roccia è compattissima, per lo più bianca, con nuclei scuri di tormalina ». 
(C. De SteFAnI. — Granulite, granitite ecc. pag. 11). i ; 

« Al Capo Bianco è un porfido bianco (onde il nome del luogo) e di grana fine, 
in cui la tormalina forma dure e rotonde concrezioni di colore nero o grigio-nero- 
azzurrastro ». (A. D’AcniarDI. — Mineralogia della Toscana. Vol. II, pag. 210). 


DI 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA 137 


e quella di una noce. Nell’aplite dei lembi fra il Golfo di Por- 
toferraio e Porto Longone sono al massimo della grossezza di 
un pisello. A S. Lucia generalmente microscopici o come gra- 
nelli di miglio. Fra la Punta di Sansone e quella dell’Acquaviva 
ho raccolto noduli della grossezza di un pugno d'uomo. Il 
Lori (*) nella roccia della Paludella ne notò alcuni del diame- 
tro di 15 centimetri. 

Che essi non siano costituiti da una sola sostanza, come già 
anche ad occhio nudo si induce, e come già fece notare il Nrs- 
sic (2), viene confermato dall'esame microscopico. 

Macroscopicamente, la massa a colore fondamentale tur- 
chino grigiastro scuro si vede cosparsa da una materia polve- 
rosa bianca, e qua e là relativamente grandi frammenti o fa- 
scetti di cristalli prismatici di un bleu cupo. 

A luce comune questi nuclei si risolvono in una massa fi- 
namente granellosa, in un miscuglio di frammenti di tormalina 
bluastra e di granuli di quarzo limpidissimo. Però, usufruendo 
della luce polarizzata, già col solo polarizzatore, e girando la 
plattine, e meglio ancora a nicols incrociati, in base al forte 
pleocroismo nel primo caso e in base alla direzione d’ estin- 
zione nel secondo, si perviene facilmente a stabilire che i sum- 
mentovati frammenti di tormalina non sono geneticamente in- 
dipendenti gli uni dagli altri ma: collegati da una legge cri- 
stallogenetica, e disposti in un ordinamento particolare quale 
è quello che si osserva nei ben noti luxulians del Cornwall ed 
in tante pegmatiti tormaliniche. 

Questi nuclei tormalinici in conclusione si possono ben defi- 
nire come aggregati di cristalli prismatici disposti in ordine ra- 
diale, il cui assettamento raggiunge la massima regolarità quando 
il punto d'origine dei cristalli è unico e corrisponde approssi- 
mativamente al centro geometrico del nucleo. Questo è il caso 
frequente, specie dei piccoli nuclei, ma non generale; giacchè 
spesso il punto d'origine dei cristalli è molto eccentrico, o più 
d'un sistema radiale fa parte dello stesso nodulo; allora l’or- 
dine viene disturbato e se ne rende più difficile la constata- 
zione. Le sezioni passanti pel centro dei nuclei si prestano però 
sempre più efficacemente allo studio. 


(1) B. Loti. — l. c., Descrizione geologica etc. pag. 156. 
(2) W. R. Nessa. — l. c. 


138 R. V. MATTEUCCI 


Riguardo alla architettura cristallografica — diciamo così — 
di questi nuclei, non come semplice studio della loro struttura, 
ma perchè conducono alla spiegazione della loro genesi, trovo 
opportuno aggiungere altre osservazioni fatte in parte sopra 
luogo e in parte su campioni da me raccolti; osservazioni che, 
quantunque minuziose e apparentemente futili, hanno per me 
una certa importanza. E cioè: Quando i nuclei sono sferici, i 
cristalli tormalinici costituenti irradiano tutti col massimo or- 
dine da un punto centrale verso la periferia. (Tav. V, fig. 5). 

Mantiensi regolare l’irradiamento dei cristalli da un solo 
punto comune, ma hanno essi uno sviluppo disuguale nei di- 
versi settori, dipendente da un differente accrescimento secondo 
l’asse principale, si trova allora il punto d'origine eccentrico, 
ed il nucleo è più o meno schiacciato o acquista una forma 
globulosa od ovoidale. 

A costituire i nuclei più allungati entrarono però in gene- 
rale in giuoco due punti d'origine, o centri cristallogenetici, 
più o meno ravvicinati l’uno all’altro. Gli elementi tormalinici 
dei due sistemi formano allora un sistema solo. 

Altrettanto si dica se la distanza fra i punti d' origine è 
maggiore. In tal caso però, in generale, il nucleo è doppio e 
la sua sezione è quella di una: più o meno regolare lemniscata 
(Tav. VII, fig. 12) alla cui strozzatura prendono parte i cristalli 
dei due sistemi, fra loro intrecciantisi in corrispondenza della 
strozzatura stessa. 

Se un terzo centro cristallogenetico prende parte allo stesso 
sistema, si ha un nucleo triplo la cui sezione è una doppia 
lemniscata; e così di seguito. i 

Aumgnta la distanza dei centri cristallogenetici per modo 
che gli elementi dei singoli sistemi radiali non arrivano ad 
intrecciarsi ed a confondersi gli uni con gli altri, si ha una se- 
quela di nuclei isolati, più o meno ravvicinati, più o meno svi- 
luppati, e formanti delle serie in generale allungate nel cuore 
della roccia (Tav. VII, fig. 11). 

Uno splendido esempio del passaggio da combinazioni di più 
nuclei riuniti in un sistema allungato a serie di nuclei indipen- 
denti mi è offerto da un magnifico esemplare che ho raccolto 
a Monte Bello e che merita d’essere descritto nei suoi parti- 
colari. È un frammento di aplite che presenta una fenditura 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 139 


disegnata in parte da una zona di tormalina. La fenditura, e 
quindi la zona tormalinica, seguono la fluidalità della roccia. 
Rotto il campione secondo la fenditura, le due pareti sono ri- 
vestite quasi uniformemente da una moltitudine di cristalli tor- 
malinici in assettamento fibroso-raggiato. Una sezione però per- 
pendicolare al piano di fenditura mostra come la tormalina 
non vi sia affatto uniformemente distribuita ma vi costituisca 
bensì qua e là delle accumulazioni assai più vistose allacciate 
fra loro da uno straterello tormalinico che è talvolta così sot- 
tile da sembrare un velo, per così dire, stracciato; le cui strac- 
ciature corrispondono a parziali interruzioni. Le dette vistose 
accumulazioni non sono altro che i noti nuclei. 


X. 


Esame microscopico dei nuclei tormalinici. 


Questi nuclei sono dunque aggregati di cristalli tormalinici 
divergenti da uno, due o più centri di cristallizzazione. L'ac- 
crescimento radiato dei prismi è continuamente interrotto da 
granuli di quarzo, tantochè questi nuclei, veduti in sezione sot- 
tile, presentano una struttura decisamente micropegmatitica 
(Tav. VI, fig. 6). Una sezione mediana di uno di tali globuli, se 
nella lamina sono contenuti con approssimazione gli assi ottici, 
presenta ad un solo nicol, fenomeni di polarizzazione tali che 
in due quadranti opposti si ha il massimo assorbimento mentre 
negli altri due quadranti massima luminosità. Girando la plattine 
sì vedono diventare oscuri e chiari gli elementi che entrano nei 
relativi quadranti di oscurità e di chiarezza, perpendicolari e 
paralleli alla sezione principale del nicol analizzatore. A. nicols 
incrociati e con piccoli ingrandimenti, facendo corrispondere al 
centro del campo visivo quello del nucleo, si avverte la croce 
scura propria degli aggregati radiali ('). Questi fenomeni di po- 
larizzazione sono evidentemente più o meno mascherati dalla 
succitata struttura pegmatitica, ma con un esame accurato essi 
si avvertono sempre. 


(4) H. RosenguscH. — Mikrosk. Physiogr. d. Min. u. Gesteine. I. Band. pag. 69 e 70. 


140 R. V. MATTEUCCI 


La tormalina, che, veduta ad occhio nudo, è quasi nera, in 
lamine sottili è di un bleu cangiante spesso in verde-mare e 
chiaramente pleocroitica. Nelle sezioni tangenziali ai nuclei i 
cristalli tormalinici offrono contorni esagonali talora regolaris- 
simi, ed una colorazione per lo più secondo zone concentriche, 
dal centro alla periferia, nell'ordine seguente: bruno, violaceo, 
giallo-arancio, bleu intenso. 

Il quarzo che entra a far parte di questi nuclei è in gra- 
nuli senza determinata forma e sempre oltremodo incoloro e 
limpido. Spesso contiene inclusioni ordinate parallelamente al 
contorno. 

Cristalli o frammenti di feldispato non si rinvengono asso- 
lutamente mai nell'interno dei nuclei; ma si vedrà fra poco 
come, al contrario, si trovino talvolta elementi feldispatici com- 
penetrati in parte da cristalli di tormalina e granuli di quarzo. 

I noduli, alla superficie, sono rivestiti da prodotti di de- 
composizione. Questa alterazione che si apprezza già macrosco- 
picamente nell’ insieme, si osserva poi assai proficuamente su 
ciascun individuo tormalinico. Infatti, seguendo un cristallo per 
tutta la sua lunghezza, si vede che esso, a mano a mano che 
si va dal centro del nucleo alla periferia, perde sempre più la 
colorazione e la trasparenza; diviene assai torbido, e finisce per 
cambiarsi in una sostanza muscovitico-cloritica in cespuglietti 
fibroso-raggiati. Questo feltro micaceo-cloritico che riveste com- 
pletamente i noduli non è che un prodotto di alterazione delliv 
tormalina dovuto ad agenti meteorici (1). 

Dice bene il BLum, che la tormalina, per questo avvicina- 
mento o passaggio alla mica, perde il suo color nero e la sua 
durezza (2); ma, per quanto riguarda il carattere della traspa- 
renza, io ho da osservare che questo diminuisce anzichè cre- 


(') Già, fin dal 1843 il BLum avvertì che sostanza micacea, pseudomorfica di tor- 
malina, poteva sostituire questa in parte o anche completamente. « Es ist nichts Sel- 
tenes, dass Krystalle, namentlich von schwarzem Turmalin, sich mit Glimmer-Blattchen 
îiberzogen zeigen; auch findet man sie zuweilen mit Spriingen parallel den Queraxen 
versehen, die zum Theil mit Glimmermasse erfiillt sind; ja man hat den Glimmer selbst 
in der Form des Turmalins getroffen ». (J. R. Bum. — Die Pseudomorphosen des 
Mineralreichs. Stuttgart, 1843, pag. 94). 

(2) « Der Turmalin verliert, durch diese Annàbrung zum Glimmer, seine schwarze 
Farbe, seine Undurchsichtigkeit und Harte ». (J. R. BLum. — Die Pseudomorphosen 
des Mineralreichs. Stuttgart, 1843, pag. 94). 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 141 


scere con l’alterazione, nel senso che i cristalli tormalinici sono 
trasparenti se inalterati. e più o meno torbidi dove è più o 
meno inoltrato il cambiamento in sostanza micacea o cloritica. 

Nei campioni di aplite da me raccolti a S. Lucia si osser- 
vano pure piccoli nucleetti tormalinici sferoidali, spesso micro- 
scopici. Essendo però la roccia piuttosto profondamente alte- 
rata, anche la tormalina è cambiata quasi totalmente nella 
detta sostanza cloritico-micacea, e, nel centro di molti nuclei 
si ha un piccolo cristalletto cubico di limonite pseudomorfica 
certo di pirite (Tav. VI, Fig. 7). Già il Krantz aveva notato 
che l’aplite della sommità della collinetta di Santa Lucia “ nicht 
mehr frisch erhalten ist ...... und voll von feinen, stets mit 
Eisenoxyd erfillten Poren , (!). Nel lembo fra la Punta del- 
l'Acquaviva e la Punta di Sansone specialmente, ed anche al- 
trove, si notano assai spesso piccoli nuclei tormalinici cambiati, 
in tutto o in parte, in pirite. 


XI. 


Genesi della Tormalina 


Della genesi della tormalina nell’ aplite dell'Elba poco o 
punto si occuparono gli autori che studiarono quell’isola. Io 
ne attribuisco l'origine al processo pneumatolitico col quale Bux- 
sen (2) comprende l'insieme delle alterazioni e dei cambiamenti 
dovuti all’azione dei gas vulcanici (3). 

Il Fourner ritiene questo minerale per elemento proprio della 
roccia, e così si esprime: “ Les mineraux accessoires empàtés 
sont la tourmaline et le mica, qui montrent d’ailleurs une cer- 
taine tendance è se substituer l’un è l’autre , (4). 


(1) KranTz A. — Geognostische Beschreibung der Insel Elba. Karstens Arch., 
Vol. XV, 1842, pag. 384. 

(7) Bunsen R. — Veber die Prozesse der vulkhanischen Gestein-Bildungen Islands. 
Poggendorf's Annalen. Bd. LXKXXIII, 1851. 

(3) « Die Gesammtheit der Umbildungen und Zersetzungen durch vulkanische Gase 
fasste Bunsen als pneumatolytische Wirkungen zusammen ». (F. Zirgen. — Lehrduch 
der Petrographie. I Bd. Leipzig, 1893, pag. 583). 

(4) FournET. — /. c., pag. 431. 


142 i R. V. MATTEUCCI 


Il v. Rag (/. c.) sì trattiene diffusamente sulle druse e sui 
cosidetti filoni del Granito di Monte Capanne, attribuendo la 
formazione anche della tormalina — al pari che di tutti gli 
altri minerali rari che spesso da questa sono accompagnati — 
ad acque minerali calde che, salendo dalle profondità, avreb- 
bero penetrato il massivo granitico; ma egli non applica la 
teoria alla formazione della tormalina nelle rocce della regione 
mediana dell'Isola d'Elba. 

Il Nessi, come più volte ho avuto occasione di rammen- 
tare, considera la tormalina come minerale proprio del magma 
aplitico e, per conseguenza, i nuclei — come trasparisce da 
tutto il suo studio — spettanti alla consolidazione del magma 
stesso. Nel quarzo di questi nuclei egli vede un prodotto ui 
decomposizione della tormalina (1). 

A convalidare il suo asserto egli aggiunge poi un’ altra os- 
servazione, e cioè che “in questa roccia si trovano spesso grigi 
e torbidi individui minerali, manifestamente alterati e compe- 
netrati da numerosi granuli di quarzo, i quali individui pre- 
sentano una decisa struttura fibrosa. Dapprincipio questi furono 
ritenuti per feldispati alterati, ma il loro paragone con la tor- 
malina e, segnatamente la caratteristica compenetrazione :con 
granuli di quarzo condusse a ritenerli come un prodotto pseudo- 
morfico della tormalina , (?). 

Parlai già dei prodotti a cui la tormalina, per vera decom- 
posizione, dà luogo, e quindi le mie osservazioni non hanno 
fatto altro che confermare quella or ora riportata del Nrssie. 


(4) « Schon die makroskopische Betrachtung der grisseren Turmalinknauer liess 
erwarten, dass dieselben nicht vollstàndig aus Turmalin bestehen, da sich in der blau- 
schwarzen Masse derselben weisse Flecke erkennen lassen und der ganze Schorlcom- 
plex wie mit feinem Mehl bestàubt erscheint. Unter dem Mikroskop gewahrt man denn 
auch, dass sich zwischen den einzelnen Turmalin-Individuen Kéorner und Kérner-Ag- 
gregate von hellem, farblosem Quarz einstellen. Diese sehr charakteristische Verknii- 
pfung mit dem Quarz fiihrte nur zur Erkennung einer eigenthiimlichen Umwandlung, 
welche der Turmalin erleidet ». (W. R. Nessio. —/. c, pag. 113). 

(2) « Es finden sich nimlich im Gestein oft graue, triibe, von zahlreichen Quarz- 
koòrnern durchwachsene, augenscheinlich umgewandelte Mineral -Individuen, welche 
eine entschiedene Faserung zur Schau tragen. Anfangs wurden diese Gebilde fiir al- 
terirten Feldspath gehalten, allein die Vergleichung mit dem Turmalin und namentlich 
das charakteristische Durchwachsenseia mit Quarzkòrnern filhrte zur Annahme eines 
pseudomorpbosen Productes des Turmalins». (W. R. Nessig. -— l. c.). 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 149 


Quanto poi al considerare anche il quarzo come un prodotto 
di alterazione della stessa tormalina, io non posso in alcun 
modo convenirne. Del resto, che spesso questi prodotti micaceo- 
cloritici dipendano dalla tormalina, ciò non toglie che indiret- 
tamente essi siano collegati con primitivi elementi feldispatici, 
di cui talvolta, in complesso, conservano perfino la forma. 

Nè il Lorm che accetta la teoria delle secrezioni laterali 
per i filoni di S. Piero ecc. (*), nè il Darwer che ammette l’azione 
di esalazioni boriche nella formazione degli stessi filoni (2), par- 
lano affatto della genesi della tormalina dell’aplite (8). 

Il Bucca, descrivendo la roccia della spiaggia di Monte Bello, 
considera la tormalina epigenica di feldispato, e così ne parla 
“ nelle segregazioni di feldispato molto caolinizzato si presen- 
tano dei granelli di tormalina, tanto più distinta quanto mag- 
giori sono le sue dimensioni; e questi granelli di termalina 
vanno sostituendo poco a poco tutta la massa dei feldispati 
sino a che talora di questi non resta che la sola forma esterna, 
essendo ridotti ad un aggregato di granuli di tormalina. I gra- 


(4) K. Darmer — Die geologischen Verhaltnisse der Insel Elba. (Zeitschrifo fiir 
Naturwissenschaften. Bd. 57, 1884; pag. 27). 

(#) K. DaLmer. — id. id. pag. 29. 

(3) Ho voluto accennare a quanto fu detto pei filoni e druse tormalinifere di S. 
Piero ecc. perchè non posso dubitare che la stessa derivazione abbia anche la tormalina 
della roccia in esame. Recenti studii provarono all'evidenza che assai spesso esalazioni 
di acido fluoridriro e borico seguirono quei periodi di attività endogena nei quali si 
costituirono Ì massivi granitici, sienitici, dioritici, ecc. Io ritengo che sprigionamenti 
di questi due gas si abbiano in tutte È azioni vulcaniche in genere, accom- 
pagnando — sia pure in proporzioni assai limitate — gli altri acidi volatili solforoso, 
solfidrico, cloridrico ecc. È però ammissibile che la loro azione si eserciti più intensa- 
mente negli ultimi periodi di attività vulcanica. Comunque sia, la nostra tormalina, 
parmi debba la sua esistenza a'le stesse azioni che produssero i filoni e Je druso del 
granito di Monte Capanne. 

To non posso amm'ttere che debbano ripetere un’origine diversa da quella dei 
filoni e druse nel granito normale di S. Piero. 1.° la tormalina nelle dislocazioni del 
porfido granitico fra Monte Pericolo e Secione delle Cime, lungo la strada che da Por- 
toferraio conduce a Procchio; 2.9 Je vene tormaliniche attraversanti in ogni senso il 
porfido al Golfo della Biodola, alla Punta di Sansone, ecc. (R. V. MatTEUCCI — Le rocce 
porfiriche ecc. Porfido granitico pag. 93 e 94); 3.0 le piccole vene pegmatitiche con 
quarzo feldispato e tormalina che si trovano nell’apli'e dei lembi fra Magazzini e Porto 
Longone; 4° le numerose vene tormaliniche dell’aplite fra Ja Punta di Sansone e quella 
dell’Acquaviva; 5.° il materiale tormalinico che sovrabbonda nell’aplite delle Saline 
presso Portoferraio; 6.° la tormalina infine sparsa nel porfido granitico e costituente 
i nuclei di tutta quanta la formazione aplitica. 


144 R. V. MATTEUCCI 


nelli, fondendosi fra di loro, costituiscono poi dei cristalli più 
grandi. Qui appare dunque più palese una epigenesi della tor- 
malina sul feldispato , (4). Im altro luogo poi il Bucca, descri- 
vendo un campione di porfido granitico della Gala, presso Mar- 
ciana, dice (?): “ nella roccia si osservano qua e là delle mac- 
chiette nere formate da aggregati fibroso-raggiaci di tormalina. 
Questi aggregati di tormalina sono spesso aderenti ai feldispati: 
e talora, partendo dal loro contorno, s'irradiano nell’ interno , . 
Quantunque egli consideri l’aplite ed il porfido come rocce tanto 
diverse, e cioè la prima come roccia schistosa antica metamor- 
fizzata dalla seconda, pure dalle sue parole or ora citate sem- 
brami poter arguire che anch'egli attribuisce la stessa origine 
alla tormalina di entrambe le rocce. E su ciò io sono perfet- 
tamente d'accordo con il Bucca. 

La presenza della tormalina in queste rocce devesi umica- 
mente ad una fase solfatarica che, come ultima manifestazione, 
deve aver chiuso il periodo di attività endogena che implicò 
la regione centrale dell'Elba. In mancanza di condotti vulca- 
nici propriamente detti e di altre vie aperte di comunicazione 
coll’esterno, trovarono i gas fluo-borici nella porosità della roccia 
sovraincombente la strada onde emanarsi dalle profondità, e, 
nella loro lenta penetrazione attraverso la roccia già consoli- 
data, produssero le alterazioni sui feldispati trasformandoli in 
parte o totalmente in tormalina e quarzo. 

Abbiamo veduto come negli aggregati radiali la tormalina 
presenti anche una struttura micropegmatitica. Dal conseguente 
aspetto scheletriforme assunto dagli elementi tormalinici sì sa- 
rebbe quasi indotti a ritenerli per cristalli completi che ab- 
biano subìto posteriormente una corrosione. Ma essendo quegli 
interstizii occupati da solo quarzo limpidissimo, devesi consi- 
derare quest’ultimo come dipendente da processo di desiliciz- 
zazione del feldispato preesistente. Ed è evidente che il con- 
temporaneo costituirsi dei granuli di quarzo abbia impedito di 
molto il libero accrescimento dei cristalli di tormalina che, 
naturalmente, assunsero la citata forma pegmatitica. (Tav. VI, 
fig. 6). 


(1) L. Bucca. — L'età del granito ecc pag. 26. 
(2) Id. id. —4L. c. pag. 12. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA 145 


Interessantissimi per lo studio della genesi di questi nuclei, 
e della tormalina di queste rocce in genere, sono i seguenti 
fatti: 

L'aspetto listato — di cui ho parlato trattando della strut- 
tura dell’aplite — che si osserva nelle scogliere specialmente 
dell’Acquaviva, è dato da filari che risaltano sul fondo bianco 
della roccia, e per il loro colore scuro, e per il loro regolare ordi- 
namento parallelo (Tav. VII, fig. 11). In lamine sottili si deter- 
minano questi filari per accumulazioni tormaliniche aventi la 
stessa struttura descritta pei sistemi di nuclei in serie allungate. 
Tali filaretti si riducono spesso di un'estrema sottigliezza e tal- 
volta sembrano interrotti, tal’altra lo sono realmente. Le in- 
terruzioni apparenti vengono però determinate per tali mediante 
l'esame microscopico. Giacchè in corrispondenza vi si notano 
elementi feldispatici appartenenti ad una prima consolidazione, 
alcuni dei quali sono perfettamente limpidi; altri offrono un con- 
torno irregolarissimo ma che nulla ha a che fare con le corro- 
sioni dipendenti da un riassorbimento magmatico. Questi cri- 
stalli imperfetti sono circondati da numerosi granuli di quarzo 
che costituiscono anche piccoli aggruppamenti nell'interno dei 
feldispati stessi. Ora, tutti questi granuli di quarzo sono ap- 
punto da ritenersi come risultato di una azione pneumatolitica 
che, se si fosse maggiormente protratta, avrebbe potuto anche 
dar luogo a nuclei tormalinici. La granulazione quarzosa è per- 
fettamente identica a quella dei nuclei. 

In altri elementi relativamente grandi di feldispato si os- 
serva un nucleo centrale ancora perfettamente intatto, contor- 
nato da una zona — per dir così già quarzizzata — di granuli 
quarzosi limpidissimi, aggruppati qua e là; ed esternamente, 
fino al contorno preesistente dell’ elemento feldispatico, tor- 
malina. 

Altri individui feldispatici infine sono già penetrati più o 
meno profondamente da cristalli di tormalina costituitavisi in 
accumulazioni radiali micropegmatitiche cosparse da quarzo lim- 
pido. Come queste accumulazioni non siano che nuclei in via 
di formazione, e come da essi si passi a questi, sarebbe su- 
perfluo m' intrattenessi. E l’importanza degli splendidi esempi 
surriportati è troppo evidente perchè io non mi dispensi dal- 
l’aggiungere ulteriori osservazioni a schiarimento. 


146 R. V. MATTEUCCI 


Io non credo però che tutti i nuclei tormalinici si siano 
costituiti unicamente a spese di grandi segregazioni feldispa- 
tiche, chè, anzi, ritengo l’azione dei gas fluo-borici si sia eser- 
citata anche sulla massa fondamentale dell’aplite a base feldi- 
spatica. Ma ho constatato sempre che gli aggregati tormalinici 
sviluppatisi nei cristalli di feldispato sono della massima rego- 
larità, avendo essi trovato nei cristalli stessi un ambiente as- 

sai più adatto che non nella massa fondamentale, per il loro 
assettamento raggiato. 

Che la penetrazione dei gas fluo-borici si debba ad un’ dali 
tima fase solfatarica ce ne è data una prova nel fatto seguente. 
Parlando del porfido granitico (!), accennai ad una breccia di 
frizione endogena (Reibungsbreccie dei Geologi tedeschi) for- 
matasi in seno al massivo roccioso ed occupante alcune fendi- 
ture fra Monte Pericolo e Secione delle Cime e dissi che in 
queste fenditure gli elementi di stritolamento furono in seguito 
impastati da calcite e quarzo, dove si trova pure annidiata 
della tormalina. Qualche cosa di simile offre l’aplite porfirica. 
Fra le Saline e la Rada, presso Portoferraio, si osserva infatti 
una breccia aplitica di dislocazione dove gli elementi aplitici, 
talvolta angolosi e a superficie ben delimitata, tal’altra fina- 
mente stritolati, sono risaldati insieme da un cemento torma- 
linico-quarzoso bleu-scuro che, formandovi una elegante retico- 
lazione, dà al complesso una impronta di mosaico (Tav. VI, 
fig. 9 e 10). 

Un altro splendido esempio posso addurre a prova della 
posteriorità della tormalina, esempio che mi è offerto dal iembo 
fra la Punta di Sansone e la Punta dell’Acquaviva. Quivi l’aplite 
è intersecata in tutti i sensi da numerosissime fenditure — 
evidentemente posteriori alla consolidazione della roccia — di- 
segnate nella massa da vene di tormalina accompagnata sem- 
pre, ed esclusivamente, da quarzo limpidissimo. Nei punti dove 
lo sviluppo della tormalina è maggiore, ivi forma questa i de- 
scritti globuli, talora grossissimi. 

Degno di nota si è che la tormalina, indubbiamente dipen- 
dente dal processo pneumatolitico, o, in altri termini, intima- 
mente collegata con un periodo solfatarico post-vulcanico o 


(4) R. V. MarTEUCCI. — Le rocce porfiriche ecc, Porfido granitico. pag. 93, 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 147 


retrospettivo, non si trova mai accompagnata da topazio, ne 
da cassiterite, nè da miche fluorifere, come quasi sempre fu 
riscontrato nei graniti tormaliniferi di diverse località (!) e nei 
prodotti derivanti dall'azione di esalazioni di fluoro e boro. Ciò 
non toglie però che la tormalina nell’ aplite dell'Elba ripeta 
esattamente la stessa origine di quella attribuita dal RosenBuscH 
alla tormalina di alcune rocce abissali, come il luxulian ed il 
greisen (?). 


XII. 


Distribuzione della tormalina in rapporto con la struttura intima 
della roccia. 


La tormalina, benchè di formazione secondaria, presenta 
‘alcune relazioni con la struttura della roccia; relazioni che 


(4) H. RosenBusca. — Mikroskupische Physiographie der Mineralien und Gesteine. 
Stuttgart, 1892. I Bd. pag. 353, 444 e 587. 

(2) « Da nun die Bildung des Turmalins mit eiuer an Sicherheit grenzenden Wahr- 
scheinlichkeit auf eine bestimmte Gruppe von Sublimationsprocessen hinweist, wo- 
fiir auch seine hiufige Begleitung durch Topas und Fluorit spricht, so kann die Ent- 
stehung dieses Minerals nicht nothwendig an einen bestimmten Contact, sondern nur 
alleemein an das Vorhandensein von Spalten gekniipft sein, die allerdings sich natur- 
gemiss haufiger an der Pcripherie als in dem Centrum von Gesteinskérpern zeigen 
werden. Wo der Turmalin sich derart herrschend in einem granitischen Gestein ansie- 
delt, dass er ein wesentlicher Gemengtheil wird, wie in den eigentlichen Turmalin- 
graniten und Luxullianen, da làsst sich seine secundàre Entstehung mit Sicherheit aus 
dem. Umstande erweisen, dass er als Verdringer urspriinglicher Gemengtheile und in 
Pseudomorphosen nach diesen (Biotit, Feldspath) erscheint. Derartige Gesteine wiren 
demnach wirkliche metamorphe Facies von Graniten und zwar solche einer eigenthiim- 
lichen Art, die man, nur an ihre Genese zu erinnern, als Fumarolenfacies bezeichnen 
kònnte.... Dass auch der Greisen eine metamorphe und zwar eine durch dieselben 
Agentien entstandene Facies granitischer Gesteine sei, beweist sein geologisches Ge- 
bundensein an und seine Uebergànge in diese, seine Entwicklung von Spalten und Kliiften 
aus, das Auftreten der gleichen abnormen Gemengtheile und die Verdringung des Fel- 
dspaths durch dieselben oder analoge Mineralcombinationen. Der Greisen ist nicht nur 
ein feldspathfreier, durch accessorischen Gehalt an Topas, Fluorit, Nakrit, Cassiterit, 
Rutil, Lithionit, Turmalin, u. s. w. charakterisirter Granit, sondern ein Granit, dessen 
Feldspath verdringt ist durch Quarz, welchen die andern Mineralien, zumal Topas, 
begleiten. Der ganze Process der fiir den Greisen charakteristischen Mineralbildungen 
ist mur verstindlich unter Annahme von Fluor-und Bor-haltigen Exhalationen, welche 
auf das feste auskrystallisirte Gestein ciuwirkten und den Glimmer und Feldspath z. 
Th. unter Erhaltung ihrer Formen durch die Neubildungen Quarz, Turmalin, Topas, 
Fluorit, Cassiterit, etc. ersetzten ». (H. Rosensusca. — Mikroskopische Physiographie 
etc. Stuttgart, 1887, Bd. II, pag. 43 e 44). 


148 R. V. MATTEUCCI 


hanno un certo valore per una meno incompleta conoscenza - 
dell’intima costituzione della roccia stessa, e su cui credo op- 
portuno soffermarmi un istante, esponendo alcune considera- 
zioni, quasi a riepilogo delle cose or ora dette. 

Sebbene la tormalina in alcune zone aplitiche, come ad 
esempio in quella allineata E.-W. che corre da Capo Bianco 
alla Punta dell’Acquaviva, sia senza paragone più abbondante 
che nel porfido granitico, pure, ripeto, questo minerale non è 
niente affatto caratteristico dell’ aplite, trovandosi esso dap- 
pertutto anche nel porfido. Debbo però anche ripetere qui come 
il suo habitus sia assai differente nelle due rocce. Il porfido 
granitico, veduto in massa o in piccoli campioni, o esaminato 
microscopicamente, non lascia mai trasparire un ordinamento 
immaginabile assunto dalla tormalina. Questa vi si trova sem- 
pre sparsa qua e là senza nessuna regola. Precisamente il con- 
trario si nota nell’aplite. 

Una relazione collegata strettamente con la struttura intima 
di questa roccia è che già macroscopicamente, e perfino a di- 
stanza nella roccia in posto, si scorge quella struttura listata 
di cui abbiamo parlato e dipendente dall'ordinamento assunto 
dalle macchie tormaliniche, dal quale ordinamento risultano 
zone che alternativamente difettano di tali macchie o ne sono 
più o meno ricche (Tav. VII, fig. 11). 

Questa caratteristica disposizione, benchè collegata con l’as- 
settamento fluidale della roccia, non devesi in alcun modo con- 
fondere con la sua originaria fluitazione, di cui non rappresenta 
che casualmente una grossolana immagine. Però, qualora l’or- 
dine zonale dei nuclei tormalinici si presenta, questo sta sem- 
pre in relazione con la struttura fluidale microscopica della 
roccia colla quale-ha uno stretto legame, dalla quale credo di- 
penda direttamente, e di cui lascia interpretare esattamente, 
ad occhio nudo, il verso. La spiegazione del fatto risiede forse 
nella differenza di compattezza che doveva presentare la massa 
rocciosa secondo zone dipendenti dal movimento a cui era s0g- 
getto il magma allo stato fluido — differenza di compattezza 
protrattasi naturalmente al di la del momento di consolida- 
zione del magma — e nel più facile accesso che dovette offrirsi 
ai gas secondo l’ andamento dellà fluidalità, a preferenza che 
in ogni altra direzione. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA 149 


Un’ altra importante relazione — che però si collega solo 
accidentalmente con la struttura della roccia — si è che in- 
torno a parecchi dei nuclei tormalinici più piccoli, precisamente 
come si nota intorno alle segregazioni feldispatiche, i cristalli 
albitici appartenenti alla massa fondamentale sono disposti flui- 
dalmente. Ciò potrebbe a prima giunta far supporre che la for- 
mazione dei nuclei stessi abbia preceduto la consolidazione del 
magma, e magari anche farli considerare come appartenenti 
a questo; ma la fluidalità che ivi si presenta in sottile zona 
devesi ritenere come circondante le preesistenti segregazioni 
feldispatiche che furono dipoi sostituite dalla tormalina. L'azione 
_ dei gas fluo-borici, non essendosi protratta oltre i limiti di 
quelle segregazioni, è naturale che le condizioni strutturali am- 
bienti si siano mantenute tal quali esse furono nell'istante in 
cui l’intera massa si rapprese. A conferma, cito il fatto che non 
sì osserva mai un simile assettamento del magma intorno ai 
nuclei più sviluppati i quali starebbero a rappresentarci una 
più inoltrata azione dei gas metamorfizzanti, implicante, oltre 
gli elementi feldispatici porfirici, la loro zona fluidale esterna. 

Come, in piccolo, abbiamo notato che gli aggregati torma- 
linici, stante l'omogeneità del mezzo ambiente, poterono assu- 
mere nei cristalli feldispatici un assettamento assai più rego- 
lare che nella massa fondamentale, così, in grande, ritengo 
poter desumere che il regolare ordinamento in serie prescelto 
dalle molecole tormaliniche nell’aplite, in contrapposizione al- 
l'ordine sparso da esse preso nel porfido granitico, debba farsi 
dipendere dalla struttura del magma aplitico la cui massa fon- 
damentale è oltremodo uniforme e, relativamente ad una roc- 
cia, quasi direi, omogenea. 

Considerata dunque l’' aplite come ambiente di diffusione 
meccanica dei gas fluo-borici, vediamo che essa ha permesso 
a nuovi centri di cristallizzazione, posteriori alla sua consoli- 
dazione, di distribuirsi uniformemente nel suo seno, seguendo la 
fluidalità della roccia, e di costituirvisi quali altrettante sfere 
di attrazione molecolare. 

Come e perchè l’azione chimica di questi gas si sia però 
esercitata con tanta intensità su alcuni punti e tanto debol- 
mente su altri, lungo il resto delle stesse zone, e perfino delle 
stesse fenditure, lasciando anche intatti altri punti, fino ad ar- 


150 R. V. MATTEUCCI 


rivare alla sporadicità, al perfetto isolamento ed alla completa 
indipendenza dei singoli nuclei tormalinici, non so dire. 


XIII. 


Giacitura dell’aplite. 


Nella letteratura geologica dell'Isola d'Elba non si trova mai 
fatto menzione della giacitura di questa roccia. Anche il Lort 
ed il Bucca che, più degli altri autori, nelle loro ultime pubbli- 
cazioni se ne occuparono, non parlano esplicitamente della sua 
forma geologica; giacchè, come in parte si è veduto e in parte 
fra poco si vedrà, il Lotti ne parla ‘come di roccia che precedè 
l'intrusione del porfido, ed il Bucca come di lembi gneissico- 
schistosi metamorfosati dal porfido; ma neppure loro trattano 
della sua giacitura, della sua facies geologica, quale si presenta 
al giorno d'oggi. Solo il Fourner sembra abbia intraveduto nel- 
l’aplite una forma filoniana. Almeno parmi poterlo dedurre 
dalle sue parole: “ Cette roche è Monte Bello est traversée 
par de nombreuses fissures dont les plus régulières sont diri- 
gées dans le sens de la longueur du filon; d’autres sont entre- 
croisées dans divers sens, de manière è prismatiser cette masse 
irrégulièrement , (1). 

La giacitura  dell’aplite è molto oscura, e quindi si rende 
assai difficile l’interpretazione della sua forma geologica. Nei 
brevi giorni che io mi sono potuto occupare di questa roccia 
sul posto ho riportato l'impressione che essa si trovi in forma 
filoniana intersecante il porfido granitico. Non mi nascondo 
però le difficoltà che sì incontrano per provare recisamente che 
l’aplite è posteriore al porfido e che si è in questo introdotta; 
tanto più che fatti abbastanza serii starebbero a provare pro- 
prio il contrario, e cioè che si sarebbe invece il porfido intro- 
dotto nell’aplite. 

La vistosa fluidalità della sua massa fondamentale ci dice 
però chiaramente che la sua solidificazione e cristallizzazione 
avvennero mentre il magma era ancora in movimento, e quindi 
appoggia anche il concetto della sua genesi filoniana e quasi 


(4) FourNnET. — l. c. pag. 394. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 151 


anche quello dell’espandimento all’esterno per mezzo di colate. 

L’aplite, oltrechè di recente, ha una facies di roccia super- 
ficiale 0 sottoposta a moderata pressione. Ciò convalida l’idea 
che questo magma si sia introdotto nel porfido granitico 2239 
sedimentario eocenico intercalato — quando per le pressioni 
laterali orientale e occidentale, tutto il complesso eruttivo-se- 
dimentario del centro dell'Isola si innalzava all’ odierna alti- 
tudine. 

Un fatto eloquentissimo, che voglio ricordare anche qui, si 
è che i lembi aplitici -— come si constata benissimo, anche 
senza essere stati sul luogo, dalla carta geologica rilevata dal- 
l’ing. Lorri — compaiono sempre ed esclusivamente in mezzo 
al porfido granitico. 

E ciò si dica anche per l’aplite della costa ad W. di Por- 
toferraio, che apparentemente limita la formazione porfirica. 
Due sezioni infatti, dirette N.-S., prese a Capo Bianco e al 
Forte Inglese, le quali si corrispondono perfettamente, ci pre- 
sentano l’aplite di quella costiera chiaramente intercalata nel 
porfido che, a mare, per pochi metri. d'altezza, si vede ad essa 
sottostante, mentre a monte, cioè verso S., certo le si addossa. 

Un poco più ad occidente, il Monte Bello ci offre una se- 
zione che completa le altre due. Giacchè qui, non più visibile 
l’affioramento del porfido sottostante, perchè coperto dal mare, 
si mostra invece esso nella parte superiore, a S. del castello 
diroccato. Quivi il suo contatto con l’aplite è messo allo sco- 
perto da una cava abbandonata; e, guardando di fronte una 
parete verticale diretta W.-E., si riceve tutta l'impressione che 
il porfido penetri in filoni l’aplite. Infatti, nell’aplite costituente 
il fondo della parete si vedono zone di porfido, dirette dal 
basso all'alto — una delle quali isolata e quasi circolare — e 
che in prospettiva sembrano proprio filoni. Ma l'impressione 
che si riceve nel guardare di fronte queste zone porfiriche è 
falsa. Giacchè, invece che con filoni si ha a che fare con fette 
— mi si perdoni l’espressione — di porfido, che stanno là an- 
cora aderenti all'aplite, quale reliquia del masso porfirico so- 
prastante, a disegnarci la parete di contatto delle due rocce. 
Due colpi di mazza, e le fette cascano in frantumi, lasciando 
scoperta l’aplite sottostante. 

E così, l'aplite che ivi sembra attraversata dal porfido è 

Se. Nat., Vol. XVI 10 


152 R. V. MATTEUCCI 


invece quella del masso che va a costituire la cima del Monte 
Bello e l’intera sua scogliera fin sotto il livello del mare, e 
che, evidentemente, non è che la prosecuzione di quella sud- 
descritta di Capo Bianco e del Forte Inglese. 

La ristretteza del tempo mi impedì di fare analoghe os- 
servazioni sul lembo fra la Punta dell’Acquaviva e la Punta 
di Sansone; ma sono d’avviso che anche qui l’aplite sorge in 
mezzo al porfido granitico e non sia probabilmente che la con- 
tinuazione degli altri lembi di quella costa, dai quali si trove- 
rebbe separato per causa della potente erosione marina in quel 
litorale. 

Anche alla sommità della collinetta di S. Lucia si osserva 
l’aplite incastrata frammezzo al porfido. 

Alle Saline di S. Rocco ed ai Bagnetti, presso Portoferraio, 
sì nota una strana alternanza di aplite e di porfido, per lo chè 
s rimane in forse quale è la roccia attraversata e quale la 
attraversante. Quivi, in qualche punto, si vede perfino. ora 
l’aplite sopra il porfido, ora il porfido sopra l’aplite, quasi come 
vi si fossero alternati altrettanti trabocchi all’esterno dei due 
distinti magma. L’aplite peraltro, precisamente come a Monte 
Bello, vi assume sempre delle forme rotondeggianti; e questo 
finimento rotondeggiante delle masse aplitiche non milita con- 
tro l’idea che si tratti di filoni; giacchè tali contorni non sa- 
rebbero dati che da casuali sezioni dei filoni stessi. 

Comunque sia stata considerata petrograficamente l’aplite, 
comunque ne siano state interpretate la giacitura e la forma 
geologica, sia che ci si veda una varietà di porfido, sia che la 
si consideri come facente parte anche cronologicamente del 
resto delle rocce acide dell’ Elba, sia che la si tratti come roc- 
cia metamorfica, sia che la si voglia chiamare con un nome 
piuttosto che con un altro, da tutti si ammette un fatto degno 
di una certa considerazione. E cioè: che ovunque essa viene 
a contatto col porfido non si avverte mai un passaggio gra- 
duale fra quella e questo, ma sempre una distintissima e netta 
parete di separazione. 

Le rocce ortosico-quarzose dell'Elba, in base ai loro carat- 
teri strutturali ed alla loro giacitura e forma geologica appar- 
tengono per me a tre categorie distinte: granito abissale 
costituente il massivo di Monte Capanne, porfido granitico 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 153 


della parte mediana dell'Isola, ed aplite porfirica pure del 
centro (1). 

Studiando il porfido granitico, non si può a meno di con- 
fermare che esso è assai variabile da luogo a luogo, e tanti 
sono i termini di passaggio, e tanto lievi e graduali sono le 
differenze fra questi termini che non è neppure possibile sta- 
bilire una distinzione, come quella p. es. ammessa dal Nessi, 
in porfido granitico e porfido quarzifero. Distinzione poi che, 
fra le altre cose, per le convenzioni di nomenclatura, impliche- 
rebbe più le condizioni di giacitura di una stessa roccia che i 
suoi caratteri puramente litologici; giacchè, prescindendo anche 
dall'età, per porfido quarzifero, a rigore, e geologicamente par- 
lando, non dovrebbe intendersi che la forma lavica o di tra- 
bocco esterno di uno stesso magma acido che, nella sua salita, 
diede luogo alla forma filoniana o porfido granitico. Ritornando 
dunque un passo indietro, dico esser vero verissimo che nel 
porfido si ha una serie direi quasi indefinita di modalità, sì 
che dall’ una si passa all'altra senza sapere dove l’una termini 
e l’altra cominci. Ma questa variabilità del porfido granitico 
si arresta, nello stretto senso della parola, al comparire del- 
l’aplite, alla quale esso non fa mai passaggio (?). 


(4) Non si attribuisca ad omissione se trascuro di parlare dei filoni di natura pure 
granitica attraversanti il piede del Monte Capanne e la sua corona metamorfica, come 
pure la formazione gneissico-schistosa dell'estrema parte orientale dell’ Elba. Non es- 
sendomi mai potuto occupare di questi interessanti filoni, non oso neppure professarmi 
sulla loro facies, nè quindi posso ora considerarli come appartenenti al massivo grani- 
tico, quali sue apofisi, nè come posteriori ad esso e collegati alla formazione aplitica 
della parte mediana dell'Isola. 

(?) Anche il Lotti ed il Bucca nelle loro recenti discussioni sulla natura e sul- 
l'età delle rocce ortosico-quarzose dell’ Elba, quantunque il primo ne sostenga un’unità 
di massa ed il secondo le consideri tutt’affatto indipendenti, osservano che quando 
esse vengono a contatto presentano un limite netto. 

Quanto ho testè detto a proposito del porfido potrei ripetere pel granito di Monte 
Capanne, inquantochè essi due tipi offrono varietà tali da cui si potrebbero togliere 
altrettanti campioni che formerebbero due splendide serie di rocce, la differenza fra i 
cui termini vicini sarebbe così lieve da porre forse in imbarazzo molti petrografi per 
la determinazione, e per i quali la nomenclatura litologica sarebbe certo insufficiente. 
Quantunque possa sembrare che io mi trovi in contraddizione colle idee espresse nel 
mio precedente studio sul porfido granitico, ripeto che queste forme di passaggio non 
risultano che da un esame macroscopico e che, come allora dissi (v. Le rocce porfiriche 
ecc. pag. 69), fra le rocce granitiche dell'Elba non sembrami che esista una serie 
e tanto meno una serie non interrotta. Riferendomi sempre alla forma geologica come 
scopo e base di ogni studio petrografico, e non trovando io una differenza fra il gra- 


154 R. V. MATTEUCCI 


Studiando poi l’aplite, viceversa, non si può a meno di con- 
statare come essa, separata nettamente dal porfido, non pre- 
senti mai modalità degne di una qualche attenzione. 

Come dall'esame della variabilità nella struttura del por- 
fido si giunge alla conclusione che le sue modalità sono cer- 
tamente dovute alle diverse condizioni di rapprendimento del 
magma — condizioni collegate senza dubbio con la forma geo- 
logica di esso magma intercalatosi alle stratificazioni eoceniche 
sotto pressione e dispersione di calorico variabili — così dal- 
l'esame dell’uniformità di struttura dell’aplite si arriva al con- 
cetto che il magma aplitico dovette consolidarsi ovunque in 
condizioni uniformi. 

Vuolsi rammentare qui che il magma aplitico non ha mai 
penetrato direttamente la formazione sedimentaria eocenica e 
che l’aplite comparisce sempre nel mezzo del porfido che, sotto 
quest’aspetto, deve considerarsi come un ambiente omogeneo 
e quindi adatto ad offrire condizioni di rapprendimento costanti 
ed uniformi ad un magma che si fosse trovato a consolidarsi 
nel suo seno. 

Che la struttura dei massivi abissali, nelle loro zone esterne 
passi gradatamente a quella delle rocce filoniane, e questa, 
verso i contatti, passi a poco a poco a quella delle rocce di 
trabocco, si sa bene. Come spiegare dunque la mancanza as- 
soluta della più lieve modificazione strutturale dove l’ aplite 
viene a contatto col porfido, se non attribuendo all’ ambiente 
di sua consolidazione speciali attitudini per un uniforme rap- 
prendimento? 


Jito normale, quello tormalinifero, quello porfirico ecc., come non la trovo fra il por- 
fido con e senza tormalina ecc, aggiunsi fin da allora:(v. Ze rocce porfiriche ece. pag. 
70) che queste rocce, in base ai più importanti caratteri distintivi, della giacitura cioè 
e della struttura, fanno parte di tre categorie nettissimamente fra loro distinte: del 
granito, del porfido granitico, ‘e dell’aplite; che tutte le forme di passaggio si aggrup- 
perebbero, in fondo, setto l’una o l’altra di queste tie categorie. E come prova che 
ritenni sempre il concetto geologico superiore di gran lunga a quello puramente pe- 
trografico, aggiunsi anche come le modificazioni, di cui la consolidazione di un magma 
è capace, sono infinite; e se si dovesse tenere esclusivo conto ‘idella qualità, della quan- 
tità e della grandezza delle segregazioni, della presenza o meno di un qualche mine- 
rale accessorio o neogenico, si dovrebbero assegnare nomi differenti .a ciascun esemplare 
da collezione, o magari anche riconoscere, in qualche campione, due o più rocce di- 
verse. 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 155 


Un altro fatto degno di nota si può inoltre citare in ap- 
poggio del concetto che l’aplite si consolidò in un ambiente 
assai uniforme; ed è che nella sua massa non si costituirono 
mai di quelle differenziazioni magmatiche e strutturali che, per 
contro, così frequenti sono nel porfido granitico (1). 

Vi ha di più. Nel descrivere le segregazioni porfiriche di 
questa roccia, abbiamo osservato che il quarzo ed i feldispati 
sono sempre di dimensioni piccolissime. Ora, se l’aplite fosse 
la stessa cosa del porfido, ossia appartenesse geneticamente allo 
stesso magma consolidatosi in uguali condizioni, non troverei 
nessuna ragione per cui le sue segregazioni non avrebbero do- 
vuto raggiungere qua e là le dimensioni press’ a poco che esse 
raggiungono nel porfido. E trovandosi poi essa sempre in mezzo 
al porfido granitico — per gli ultimi assiomi della petrografia, 
che cioè i magma delle' regioni più interne di uno stesso am- 
masso assumono strutture diverse da quelle delle parti esterne — 
dovrebbe essere la sua struttura anche più grossolana di quella 
del porfido e presentare più sviluppati gli individui apparte- 
nenti ad una più lenta cristallizzazione. Invece, per l'appunto, 
qui si avverte proprio il contrario. 

Considerato dunque: 1.° che l’aplite si presenta sempre in 
mezzo alle masse di porfido granitico; 2.° che, dove le sue re- 
lazioni col porfido sono scoperte, non si osserva mai un pas- 
saggio fra le due rocce, ma uno stacco netto; 3.° che tanto a 
Monte Bello quanto alle Saline di S. Rocco ecc. l’aplite, alter- 
nante col porfido, vi assume delle forme rotondeggianti che 
richiamano sempre alla mente svariate sezioni di filoni, sem- 
brami si abbiano ragioni sufficienti per ritenere l’aplite di forma 
filoniana ed intromessa nel porfido. 


XIV. 


Epoca in cui si esercitarono le azioni pneumatolitiche. 


Mi resta ora a fissare l'età dell'ultima fase solfatarica, ossia 
l'epoca in cui la penetrazione dei gas fluo-borici diede luogo 


(4) R_V. MartEvcor. — Le roccie porfiriche ete Differenziazioni, modificazioni ed 
inclusi del porfido granitico. Boll. d. Soc. Geol. Italiana. Vol. XVI, 1897. 


156 R. V. MATTEUCCI 


alla formazione della tormalina. Il compito, non lo nego, è al- 
quanto arduo; ma vengono in mio aiuto MenecnNnI, v. RATE e 
Lorm colle loro importanti osservazioni. 

Gettando uno sguardo sulla carta geologica dell'Elba sì 
resta colpiti da una perfetta armonia data da alcune linee fra 
loro sensibilmente parallele e dirette press’ a poco nel senso 
meridiano. 

Voglio alludere: 1.° alla situazione del complesso filoni-druse 
a minerali rari che interessa il fianco orientale del Monte Ca- 
panne (!): 2.° al sistema montuoso della regione centrale (2), la 
cui orogenia è evidentemente connessa col modo d'essere delle 
rocce porfiriche (porfido granitico ed aplite porfirica), e con le 
condizioni stratigrafiche seguenti; 3.° alla direzione della faglia 
con rigetto, passante per Magazzini e Monte Puccio, dal cui 
salto viene a contatto la formazione gneissico-schistosa presi- 
luriana con i calcari ed arenarie dell’eocene superiore. A questa 
faglia vanno aggiunte anche quelle minori alle Pietre Rosse e 
presso Rio Alto le quali hanno una direzione che assai si ap- 
prossima a S. N. (3). Intimamente collegata con questo sistema 
di faglie è la stratigrafia di tutta la regione orientale e media 
dell'Isola (4) giacchè ad oriente tutte le formazioni più o meno 


(4) « Das hohe mineralogische Interesse, welches sich an S. Piero kniipft, beruht 
wesentlich auf den mineralreichen Gingen turmalinfiihrenden Granits, welche den 
normalen Granit in der Nihe seiner éstlichen Grenze durchbrechen, und zuweilen 
auch in die krystallinischen Schiefer fortsetzen. In der niheren Umgebung von S. Piero 
und S. Ilario streicht die Grenze zwischen dem Granit und den Schiefern von Siid- 
Nord oder von Siidsitdwest nach Nordnordost » (G. v. RatH. l. c. pag. 633). 

« Eine der groòssten Merkwiirdigkeiten der Insel, ja eines der wichtigsten Pro- 
bleme der Geologie bieten die Granitgiinge von S. Piero dar..... Die Gange turma- 
linfiihrenden Granits streichen von N.—S. oder von S. S. W. — N. N. 0. ». (G. v. RatH. 
I. c., pag. 644. 

(2) Punta di Sansone — P. dell’Acquaviva — Secione delle Cime — Villa Napo- 
leone — M. Barbatoio — Ripa Nera — Capo Fonza. (R. V. MatrEUcoI. — Le rocce por- 
firiche etc. Porfido granitico). 

(3) Per le faglie, v. la carta geologica del Loti e quella del ReyER. 

(4) « Der éstliche Inselteil unterscheidet sich durch seine von Nord nach Sid 
langgestreckte Form von den obengeschilderten Distrikten (della parte media e occi- 
dentale). Die Nordsiid-Richtung fanden wir bereits ausgesprochen in den Gingen von 
S. Piero, welche in so grosser Zahl den éstlichen Abhang des Granitgewòlbes durch- 
brechen. Deutlicher noch trat sie uns entgegen in dem Hauptgebirgszug der Inselmitte, 
dem herrschenden Streichen der Macignostraten und grosser Porphyrgàinge ». (G. v. 
Rata, — l. c., pag. 693). 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA 157 


concordantemente affondano ad W., mentre nella parte media 
gli assi di tutte le pieghe hanno una direzione N.-S.; 4.° alla 
ubicazione dei depositi metallici (magnetite, ematite, limonite, 
solfuri di ferro, rame, piombo e zinco) accompagnati da sili- 
cati (ilvaite, pirosseni, epidoto, granati, ecc.) che compariscono 
nella estrema regione orientale (Miniera Rio Albano, Min.? Rio 
e Vigneria, Min.* Terranera e Min. Calamita). 

In questa mirabile armonia topo-stratigrafica che cade sotto 
i nostri sensi è da ricercarsi l’ armonia genetica dei quattro 
fatti summentovati; ed io attribuisco loro, oltrechè una stessa 
origine, derivante da una causa comune — quella che sollevò 
l’Elba, dandole ad un dipresso la configurazione che essa ci 
presenta oggi — anche una stessa età. Essi, nel loro insieme, 
ci rappresentano il risultato finale di un movimento orogenetico 
che si estrinseca fisicamente per mezzo di un sistema di pieghe 
e fratture (1), e chimicamente mercè le modificazioni appor- 
tate da sostanze gasose che contemporaneamente sorsero dalle 
profondità. 

Ammesso l’isocronismo, bisogna ammettere per tutti questi 
fatti la posteocenicità. Giacchè 1.° i depositi metallici della 
parte orientale sono posteocenici: essi, oltrechè implicare oriz- 
zonti antichissimi, modificarono anche strati appartenenti al- 
l’eocene (?). 2.° Le faglie sono posteoceniche: ad esse prendono 
parte anche gli strati dell’eocene superiore. 3.° Le pieghe e 
l’orotettonica in genere del centro sono posteoceniche: ad esse 
prende parte sempre il sedimentario eocenico col porfido gra- 
nitico ad esso intercalato. 4.° Al solo complesso filoni-druse di 


(4) Assai importante a notarsi è il fatto che questo sistema di pieghe e fratture 
si concorda perfettamente con quello oro-stratigrafico delle Isole di Corsica e Sardegna 
il quale, diretto pure pressochè nel senso del meridiano, gli corre parallelo (v. C. DE 
STEFANI. — Divisione delle montagne italiane. Bollettino del Club alpino italiano. To- 
rino, 1892). Cosicchè il sistema orografico elbano, perfettamente distinto da quello 
apenninico diretto N. W.-S. E. e da quello semicircolare alpino situato a N. W., è per 
così dire un termine di collegamento orogenetico fra la catena metallifera toscana ed 
il sistema montuoso Sardo: corso. 

(?) « Die Eisenerzlagerstitten Elba’ s sind nacheocinischen Alters, da die jingsten 
von denselben angegriffenen Schichten der eocànichen Periode angehòren » . (B. Lor. 
— Ueber die Entstehuny der Eiscnerzlagerstitten der Insel Elba und der tosca- 
nischen Kistenregion. Aftryek ur Geol. Fòren. i. Stockholm Forbandl. Bd. 13, Hift 
6, 1891). 


158 R. V. MATTEUCCI 


S. Piero-S. Ilario viene assegnata la posteocenicità, per conside- 
razioni teoriche (!). 

Ora, non trovandosi in tutta quanta l'Isola d’ Elba orizzonti 
posteriori all’eocene superiore, e non potendosi d’altra parte 
ammettere che essi vi si siano potuti depositare prima dell’ in- 
nalzamento generale dell’ Isola e siano stati dipoi completa- 
mente abrasi, bisogna convenire che i fatti suaccennati non 
risalgono più indietro dell’eocene superiore e non raggiungono 
l’oligocene. 

Io sono quindi per ammettere che la penetrazione del por- 
fido granitico spetti all’eocene superiore e l’ epoca dei fatti 
enumerati cada fra l eocene superiore e l’oligocene. Essendo 
per me chiaro all'evidenza che la penetrazione dei gas fluo- 
borici attraverso le rocce quarzoso-feldispatiche della regione 
centrale non sia che una speciale manifestazione del movimento 
orogenetico che occasionò le fratture, i depositi di minerali 
rari a S. Piero, e gli ammassi ferriferi nella costa orientale, 
così rimane anche fissata l'età della fase solfatarica che diede 
luogo alla formazione della tormalina nella nostra aplite por- 
firica. 


XV. 
Riepilogo e conclusioni. 
1.— Le rocce ortosico-quarzose dell'Isola d’ Elba, magma- 


ticamente considerate, appartengono senza dubbio ad un’ unica 
provincia petrografica. 


(1) G MenEGHINI - in G.v Rara. — l. c., pag: 692 « Der Turmalingranit bildet 


Verzweisungen im Serpentin bei S. Piero u a. O..... der Serpentin ist nicht nur 
bestimmt jiiuger als die Kreide, sondern auch als die Nummulitenschichten .... Dies 
Gestein ist indess #lter als die oberen Eocinschichten ..... Wenn demnach der Tur- 


malinfiihrende Granit jinger als der Serpentin ist, so kann sein Alter nicht iber das 
Eocan hinaufreichen... Die Ginge des Turmalingranits durchkreuzen und verflechten 
sich mit den Durchbriichen (oder sublimationsbildungen) des Eisenglanzes von Rio, so 
dass fiir beide eine gleichzeitige Entstehung wahrscheinlich ist.... Wenngleich nun 
die gangformigen Vorkommnisse des Eisenglanzes bei Rio nur in viel dlteren Schichten 
erscheinen, so durchbrechen doch #hnliche Eisenglanzginge an anderen Orten Mittel 
Italiens neuere Schichten, ja im Massetanischen Eocinbildungen. Die Annahme dass 
Eisenerz-Eruptionen selbst in so nahe liegenden Gebieten verschiedenen Epochen an- 
gehòren, wiirde ganz beweislos dastehen.... Das Hervortreten des Granits des Monte 
Capanne fàllt in eine viel altere Epoche ... seine Gangbildungen sind vielleicht glei- 
chzeitig mit der letzten Erhebung des Capannegranits » . 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA 159 


2. — Esse, in base ai più. importanti caratteri distintivi, 
della giacitura cioè e della struttura, astrazion fatta dai dicchi 
che attraversano la formazione cristallino-schistosa della parte 
orientale dell'Isola e la corona metamorfica che circonda il 
massivo. granitico di Monte Capanne, si debbono dividere in 
tre categorie nettamente distinte: della granitite abissale, del 
porfido granitico interposto agli strati eocenici, e dell’ aplite 
filoniana. 

3. — Tenuto conto della forma geologica certamente filo- 
niana ed anche dell’età indubbiamente postcretacea, quantun- 
que per la struttura, assai più che per la costituzione minera- 
logica, si approssimi al tipo cheratofirico, la roccia elbana di 
cui ci siamo occupati deve considerarsi come un’aplite; e, stante 
il suo saliente carattere della porfiricità, come un' aplite por- 
firica. 

. 4. — Le due rocce — porfido granitico ed aplite porfirica — 
che compariscono nella parte mediana dell'Isola, sono fra loro 
geneticamente e cronologicamente distinte. 

5.-- L'aplite non è una varietà del porfido. Volendola con- 
siderare come una modalità di questo, sarebbe indispensabile 
provare che da questo a quella si passa per nuances. Mentre 
‘ invece, in realtà, fra il porfido e l’aplite non si osserva mai 
neppure sul posto un passaggio graduale, sebbene una super- 
ficie di separazione nettissima, come logicamente è stato sem- 
pre detto per le rocce di faczes filoniana. 

6. — La presenza della tormalina è carattere comune tanto 
al porfido quanto all’aplite. Un'azione generale certamente si- 
multanea si esercitò sul complesso di queste rocce cristalline 
della regione centrale dell'Isola, posteriormente alla loro com- 
pleta consolidazione, mentre andavano a generarsi filoni e 
druse di minerali rari in seno al massivo granitico di Monte 
Capanne, con speciale preferenza nelle forme pegmatitiche di 
questo, e si costituivano depositi di ferro e minerali ferriferi 
nella parte orientale dell'Elba. 

7.— Le segregazioni porfiriche dell’aplite, attribuibili ad 
una cristallizzazione intratellurica, sono muscovite, ortoclase, 
oligoclase e quarzo, immerse in una massa fondamentale mi- 
crocristallina costituita degli stessi elementi minerali e di al- 
bite molto abbondante. 


160 


R. V. MATTEUCCI 


8. — Previa completa solidificazione, la roccia andò soggetta 
ad una significante modificazione, per cui vi diminuì la pro- 
porzione dei feldispati e vi aumentò quella del quarzo. 

9.-- Alle azioni pneumatolitiche che vi apportarono questa 
intensa modificazione, devesi la genesi della tormalina. Questa 
non è quindi un costituente originario della roccia, ma deve 
considerarsi come minerale neogenico, dovuto all'influenza di 


emanazioni fluo-boriche. 


10. — Considerazioni d’'indole oro-stratigrafica permettono 
di fissare l'epoca della fase solfatarica fra l’ eocene e l’oligocene. 

11. — In succinto, i caratteri differenziali fra il porfido gra- 
nitico e l’aplite porfirica dell'Elba, sono: 


Porfido granitico 
a) Il porfido granitico è sempre 
intercalato alla stratificazione sedi- 
mentaria eocenica. 


5) Sensibilissime differenze strut- 
turali osservate nel porfido grani- 
tico, conducenti ad altrettante va- 
rietà e nuances, fra le quali non ve 
n'è nessuna che si avvicini all’aplite; 
tolta qualche piccolissima differen- 
ziazione strutturale o magmatica, di 
cui non è il caso di tener conto. 


c) Il porfido granitico è di tipo 
precipuamente potassico. 


d) = 


Aplite porfirica 


L’aplite porfirica non si trova mai 
a contatto col sedimentario, e tanto 
meno poi ne penetra le stratifica- 
zioni. Essa comparisce invece sem- 
pre in mezzo alle masse del porfido 
granitico. 


Differenze strutturali non si no- 
tano mai nell’aplite che, a qualun- 
que lembo appartenga, ha sempre 
la stessa tessitura estremamente uni- 
forme e costante. 


Il magma aplitico si ravvicina più 
al tipo sodio-calcico. 


Struttura prismatica colonnare, 
dipendente da rapprendimento del 
magma, in alcuni luoghi assai mar- 
cata. 


Screpolature di rapprendimento e 
facile rottura in poliedri, 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL'ISOLA D'ELBA 


f) Raro accenno alla fluidalità. 


9 mE a 


h) Massa fondamentale, assai spes- 
so, criptocristallina. 


i) Tormalina in cristalli isolati o 
in fascetti o ciuffetti irregolarmente 
sparsi. 


k) Segregazioni quarzose molto 
sviluppate, che presentano la forma 
del diesaedro; con corrosione magma- 
tica assai pronunziata; inclusioni di 
zircone ed apatite abbondanti. 


I) Segregazioni feldispatiche svi- 
luppatissime, fino a 12 cm. di lun- 
ghezza, con forma cristallina sem- 
pre perfetta. 


m) Segregazioni micacee abbon- 
dantissime: biotite intatta o cam- 
biata in clorite ed altri prodotti di 
decomposizione. 


n) Con differenziazioni magmati- 
che e strutturali. 


0) Con inclusi di rocce gneissiche. 


p) Cronologicamente, appartiene 
alla prima fase vulcanica. 


161 


Fluidalità marcatissima. 


Struttura listata o zonata, resa 
evidente, più che altro, dalla dispo- 
sizione di nuclei di tormalina inal- 
terata o decomposta. 


Massa fondamentale a tessitura 
macro e microcristallina; mai cri- 
ptocristallina. 


Tormalina in noduli subrotondi a 
regolare struttura fibroso-raggiata, 
disposti per lo più in regolare or- 
dinamento zonale. 


Segregazioni quarzose sempre pic- 
cole e senza forma cristallina di- 
stinta; senza corrosione operata dal 
magma. Zircone ed apatite vi man- 
cano o vi sono estremamente rari. 


Segregazioni feldispatiche sempre 
di piccolissime dimensioni, e mai cri- 
stallograficamente finite. 


Segregazioni micacee sempre scar- 
se: muscovite. 


Cronologicamente, posteriore al 
porfido granitico. 


Musco geologico della R. Università. 


Napoli, 1897. 


_ 


SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE 


Tav. V. — (Microfotografie). 


. Aplite porfirica tipica a struttura fluidale. Qui mancano le segregazioni 


intratelluriche e non è visibile che la massa fondamentale costituita 
per la massima parte da cristalli tabulari di albite, che cedono alla 
roccia la caratteristica fluidalità, da granuli di quarzo, e da poca 
muscovite. Nicols incrociati. Ingrandimento 52. diam. — Capo Bianco. 


. Aplite porfirica con grande segregazione ortosica, nella quale si avverte 


un’incipiente modificazione dovuta ad azioni pneumatolitiche, Il eri- 
stallo di ortose, alla periferia, è già in gran parte sostituito da tor- 
malina e quarzo limpidissimo; così pure, qua e là, nella parte in- 
terna. Nicols incrociati. Ingrandimento 25 diam. — Capo Bianco, 


. Porfido granitico tipico. Grande segregazione quarzosa, riassorbita in 


parte dal magma, ed un piecolo cristallo biotitico, immersi in una 
massa fondamentale criptocristallina. Nicols incrociati. Ingrandi- 
mento 52 diametri. 


. Aplite porfirica con grande cristallo di feldispato ‘assai alterato, nel 


quale, per l’incipiente azione dei gas fluo-borici, si è costituito un 
nucleo fibroso-raggiato, non peranco completo, di tormalina. Il eri! 


stallo tormalinico volto S.-N. presenta l’assorbimento totale, mentre 


quelli contenuti nei quadranti N. E. e N. W. presentano la massima 
luminosità. Nicols inerociati. Ingrandimento 52 diam. — Punta del- 
l’ Acquaviva. 


Porzione vicina al centro, del quadrante N. E., di un grande nucleo 


tormalinico. La regolarità dell’assettamento degli individui tormali- 
nici, e la mancanza quasi assoluta di granuli quarzosi rendono as- 
sai appariscente la struttura fibroso-raggiata di questo nucleo. L'esame 
è fatto col solo Nicol polarizzatore; d’onde risultano chiari quegli in- 
dividui che sono press’ a poco paralleli alla sez. princ. del Nicol 
(S. N.) ed oscuri quelli che si approssimano ad esserle perpendicolari 
(W. E.). Ingrandimento 25 diam. — Monte Bello, 


LE ROCCE PORFIRICHE DELL ISOLA D'ELBA 163 


Tav. VI. — (Microfotografie). 


Fig. 6. Porzione di un nucleo tormalinico a struttura miero-pegmatitica, data 
dalla tormalina (oscura nella microfotografia) interrotta da granuli 
di quarzo (chiaro). Luce naturale. Ingrandimento 52 diam. — Monte 
Bello. 

» . Aplite con piccolo nucleo tormalinico alterato, nella cui regione cen- 
trale si trova un cristallo cubico di pirite limonitizzata. Luce natu- 
rale. Ingrandimento 52 diam. — Collinetta di Santa Lucia. 

» 8. Porfido granitico tipico (semicerchio destro della microfotografia). Grande 
cristallo di oligoclase, due di quarzo ed uno di biotite, in una massa 
fondamentale criptocristallina. Nicols incrociati. Ingrandimento di 
52 diametri. 

» 9. Breccia aplitica di frizione endogena su cui l’azione dei gas mineraliz- 
zatori si è esercitata in tal guisa da renderla una breccia ad elementi 
aplitici (chiari nella microfotografia) cementati da una pasta torma- 
linico-quarzosa (scura). Luce naturale. Ingrandimento 25 diam. — 
Fra le Saline e la Rada, presso Portoferraio. 

» 10. Breccia aplitica id. id. come fig. precedente. Qui però il processo pneu- 
matolitico è alquanto più inoltrato; la tormalina ed il quarzo neoge- 
nici vi sovrabbondano, e tendono a far scomparire del tutto gli ele- 

» menti aplitici. Se l’azione dei gas fluo-borici si fosse maggiormente 
protratta, si sarebbe cambiata tutta l’aplite in una massa tormalinico- 
quarzosa identica alla fig. 6. Luce naturale. Ingrandimento 25 diam. 
— Capo Bianco. 


Tav. VII. — (Fotografie dall'originale). 


Fig, 11. Aplite porfirica listata, a fondo bianco, con piccoli nuclei tormalinici, 
allineati in zone parallele. Fotografia dall’originale. Grandezza na- 
turale. — Fra la Punta dell’Acquaviva e la Punta di Sansone. 

» 12. Due grandi nuclei tormalinici ovoidali, uniti in sistema unico. Il nu- 
cleo a sinistra è rotto a metà e presenta qua e là, nella massa tor- 
malinica scura, molte piccole chiazze chiare costituite da accumula- 
zioni di granuli di quarzo. I nuclei sono contornati da un sottile 
involucro di aplite bianca. Fotografia dall’originale. Grandezza natu- 
rale. — Fra la Punta dell’Acquaviva e la Punta di Sansone. 

» 13. Porfido granitico tipico con grandi segregazioni ortosiche in geminati 
di Karlsbad, grandi segregazioni quarzose bipiramidate e piccole 
segregazioni biotitiche. Fotografia dall’ originale. Grandezza %/;. — 
Ripa Nera, presso Campo. 


XIII. 


. Epoca in cui si esercitarono le azioni pneumatolitiche 


INN DURCH 


. Introduzione . 


. Osservazioni dei vari autori. 


. Considerazioni sulla nomenclatura. Eurite ed aplite 

. Struttura colonnare e listata dell’ aplite 

. Caratteri macroscopici . 

. Caratteri microscopici . 

. Fluidalità. 

INSCITEGAMONINPO! MINO SIRO ATA CONTA TSO AIAR 
. Tormalina: minerale estraneo alla costituzione originaria 


della roccia . 


. Esame microscopico dei nuclei tormalimici 
. Genesi della tormalina 


. Distribuzione della tormalina în rapporto con la struttura 


INTIMA TCMOARNOCCA ORE RE RE ST 


Giacitura dell’ aplite 


. Riepilogo e conclusioni. 


Spiegazione delle figure della Tav. V. 
» » » VI. 
» » » VII. 


GIOVANNI D’'ACHIARDI 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO 


(URALI-ELBA) 


UtiAzieNi 


Mm occasione del VII. congresso geologico internazionale, 
tenuto nell'estate decorsa a Pietroburgo, furono dal governo 
russo preparate con magnificenza grandissima, escursioni scien- 
tifiche da eseguirsi avanti e dopo il congresso. Avendo io preso 
parte alla grande escursione agli Urali, durata circa un mese, 
ebbi agio visitando località svariatissime, formazioni geologiche 
e giacimenti minerarii oltremodo diversi, di fare una discreta 
raccolta di campioni di rocce e di minerali, che al mio ritorno 
in Italia donai al Museo mineralogico dell’ Università di Pisa. 

Interessantissime fra le rocce sono, per es., le quarziti di 
Bakal, le porfiriti di Nijné-Taguilsk, le une e le altre in con- 
nessione ai giacimenti di ferro; gli scisti granatiferi e sericitici 
di Zlatooust, la miaskite, la pegmatite ecc. del monte Ilmen 
presso Miass, e quelle raccolte presso la stazione ferroviaria di 
Berdiaouch, delle quali mi è sembrato non del tutto privo di 
interesse l’intraprendere lo studio, tanto più che per quanto 
abbia consultato, e in special modo nei giornali di GrotH e di 
‘TscnermAK e nelle pubblicazioni dell’ Accademia delle Scienze 
e del Comitato geologico di Pietroburgo, non sono riuscito a 
trovare alcun accenno che ne sia stato fatto lo studio micro- 
petrografico. | 


166 GIOVANNI D'ACHIARDI 


La guida geologica pubblicata in occasione del congresso, a 
pag. 33 del fascicolo III così si esprime relativamente a questa 
località (1): 

“ Entre la station Souléia et Zlatooust la voie ferrée longe 
d’abord, dans la direction nord-est, le versant occidental de l’aréte 
Souléia, en traversant un développement de V étage D! et des dé- 
pots dévoniens inférieurs D!g. Avant d’arriver à la rivière Bol- 
chata-Satka la votre tourne brusquement vers l'est, perpendiculaire- 
ment à la «direction des chaînes isolées. A l’aval du confluent de 
la Berdiaouch avec la Bolchaia-Satka, on peut voîr dans les deux 
rives de la Berdiaouch, près du pont du chemin de fer, un affleu- 
rement de marnes de couleur brune rougetre DI, injectées de filons 
de diabase. A partir de Vl embouchure de la Berdiaouch la voie se 
poursuit vers l'est duns la vallée de cette rividre. Sur le parcours 
Jusqu' à la station Berdiaouch on voit plusieurs fois reparaître les 
calcaires D3. Non loin de cette station se trouve une coupe, partie 
artificielle, partie naturelle, qui permet de voîr entre des dolomies 
Dì de puissants filons de granite porphyroide à gros grain res- 
semblant beaucoup au rappakiwi finlandais. Les gros cristaux d’or- 
those, souvent des macles de Karlsbad, ont une bordure également 
d’ orthose et atteignent 1,5 ctm. de diamètre. Lors de la construction 
du chemin de fer on pouvait très bien observer le rapport entre les 
dolomies dévoniennes et les rappakiwi dans une des tranchées ,. 

La stazione di Berdiaouch offre l’ opportunità di vedere la 
formazione calcarea attraversata da masse filoniane di granito 
e da un filone apparentemente diabasico, e così qualificato anche 
dalla nostra guida, non meno dotta che gentile, Tronoro TscHER- 
nycHeW; e sul contatto dell’una e l’altra roccia eruttiva gli ef- 
fetti del metamorfismo sulla roccia attraversata. 

Lo studio micropetrografico ha quindi non solo di mira la 
descrizione di una o di altra tipica roccia, ma insieme anche 
di quelle modalità di struttura e costituzione, che sono appunto 
effetti di quel metamorfismo sulla roccia calcarea. E sotto que- 
sto aspetto lo studio acquistava per me un'importanza speciale 
per il paragone con una località elbana, il così detto Posto 


\ 


(1) Guide des excursions du VII. congrès géologique international. St. Pétersbourg 
1897. Fase. III: A partir de la ville d'’Oufa jusqu au versant oriental de V Qural par 
TA. TScHERNYCHEW. 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 167 


dei Cavoli presso Campo, ove si ha pure un calcare divenuto 
cristallino e arricchito di minerali accessori sul contatto con 
il granito. 


Granito 


Varia nell’ aspetto dal contatto con la dolomia e a breve 
distanza da essa. Ove appare con la sua normale fisonomia ras- 
somiglia al granito rosso d'Egitto più che al rapakiwi di Fin- 
landia. Infatti del tipico rapakiwi gli manca l'apparenza di ag- 
gregato grossolano con gli elementi in forma di pallottola, che 
pur io stesso ho potuto osservare nelle vicinanze di Viborg in 
una gita fatta alla cascata di Imatra. Esso appare costituito 
da grossi cristalli feldispatici di color grigio carneo, ai quali si 
interpone quarzo grigiastro, abbondanti quelli e questo e av- 
volgenti mica nerissima relativamente scarsa, e associata a mas- 
sarelle metalliche verosimilmente di magnetite come sembra 
anche per la loro azione polarimagnetica. Altri minerali net- 
tamente distinti non si scorgono ad occhio nudo, tranne in al- 
cuni campioni una sostanza verde-nerastra, o nera, che sì rico- 
nosce poi al microscopio essere orneblenda. La roccia appare 
anche a prima vista più o meno alterata e tutta screpolata, 
onde la difficoltà di farne sezioni di grande sottigliezza; non 
si scorgono però vacui, neppure osservando al microscopio, quali 
nella struttura miarolitica propria di alcuni rapakiwi. Peso 
specifico = 2,5. 

All'esame microscopico si rivela la più spiccata struttura 
granitica e molto avanzata alterazione in tutti gli elementi 
essenziali, tranne nel quarzo, che presenta per altro esso pure 
numerosissime screpolature. Di minerali essenziali vi si ricono- 
scono i sopra ricordati nell'esame macroscopico e occorrono in- 
grandimenti assai forti, e talora fortissimi, per osservare i mi- 
nerali accessori (zircone, apatite ecc.) ordinariamente come in- 
clusioni nei precedenti e in particolar modo nel quarzo. Vi si 
rinvengono pure prodotti di alterazione. 

Vi sì riscontrano certo tre sorta di feldispato tutte più o 
meno alterate, e sono l’ortose, l’oligoclasio e il micro- 
clino, il primo prevalente sugli altri due, nè posso escluaere 
la presenza dell’albite. L'ortose, almeno negli esemplari da 


Sc. Nat. Vol. XVI. 11 


168 GIOVANNI D'ACHIARDI 


me raccolti ed esaminati, lungi dal presentarsi in forme ovoidali 
come nel caratteristico rapakiwi, e come appare nelle figure 
che di questa roccia furono pubblicate da SeperHoLm (4), si pre- 
senta in più o meno grossi cristalli fra i quali sono comuni i 
geminati secondo la legge di Carlsbad, e se in taluni sembra 
aversi una doppia geminazione fra lamelle ortoclasiche e oligo- 
clasiche, non sono mai riuscito a scorgervi un nucleo ortocla- 
sico circondato da un mantello oligoclasico, come è detto essere 
nel tipico rapakiwi. E per altro vero che anche nel rapakiwi, 
almeno negli esemplari da me raccolti in Finlandia nelle vici- 
nanze di Viborg, accanto a feldispati con questo carattere se 
ne incontrano poi molti altri perfettamente analoghi a’ questi 
di Berdiaouch; e RosensuscH (2) cita un rapakiwi del distretto 
di Nystad nella parte S. O. di Finlandia, in cui mancano la 
forma ovoidale e spesso anche i rivestimenti (.Schalen) oligoclasici. 

In taluni di questi geminati si possono anche determinare 
le sommità, nelle quali per sezioni parallele a (100) e quindi 
completamente estinti a 0° nelle due parti, si riconoscono tracce 
delle facce {111} facenti angoli di circa 117° con le proiezioni 
di {010}. 

L'avanzata alterazione dell’ ortose che interessa tutta la 
massa, si rileva facilmente oltrechè dalla abituale sua torbi- 
dezza e presenza di mal determinabili prodotti di decomposi- 
‘ zione, più che altro dalla particolare apparenza delle sue se- 
zioni che mostrano spesso come una specie di reticolato a ma- 
glie allungate, in vario modo estinguentisi, dovuto verosimil- 
mente ad accrescimento di altri feldispati, forse anche di al- 
bite, in associazione pertitica. 

L’oligoclasio (tav. X, fig. 2) e il microclino (tav. X, 
fig. 1) sono pur essi alterati, ma neli'uno e nell'altro ricono- 
scibile sempre, almeno in parte, la struttura polisintetica per 
esili e numerose lamelle di geminazione parallele nel primo, 
intrecciantisi a grata nel secondo. Che si tratti di oligoclasio 


e non di altro plagioclasio meno acido conferma anche la de- 


(1) Ueber die finnlindischen Rapakiwigesteine. Tschermak's Mitth. Bd. XII, 
tai E 
(?) Mikroscopische Phisiographie der massigen Gesteine. Bd. II, S. 54, Stuttgart 
1896. 


- 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 169 


terminazione della rifrazione con il metodo di Brcke, determi- 
nazione che potrebbe lasciare qualche dubbio però fra l’ oligo- 
clasio e l’albite. Nel cristallo di oligoclasio rappresentato dalla 
figura sopra citata si vede il mantello feldispatico, che nei ra- 
pakiwi sarebbe tipico dell’ortose. La copia del microclino co- 
stituisce pure un carattere che avvicina le rocce più ai comuni 
graniti che ai rapakiwi, poichè il SeperHoLm (mem. cit.) ci dice 
che i tipici rapakiwi di feldispati potassici contengono quasi 
esclusivamente ortose, che tanto più è sostituito da microclino 
quanto più si avvicinino alla originaria struttura granitica. 

Il quarzo abbondante è limpido rispetto ai feldispati, ma 
non perfettamente, chè anzi vi si nota, con piccolo ingrandi- 
mento, quasi come una disseminazione di minuta polvere grigia, 
che in vario grado e disugualmente l’offusca, apparenza che 
io credo dovuta alle innumerevoli e piccolissime inclusioni li- 
quide, che possono osservarsi con ingrandimenti molto forti. Per 
il solito è allotriomorfo e in aree diversamente orientate come 
nei comuni graniti; ma in alcuni esemplari si rinvengono an- 
che cristalli a contorno specifico e l’ idiomorfismo non raro è 
a comune col tipico rapakiwi, del quale anzi è una caratte- 
ristica. 

Questi grani, se esterni ai feldispati, sogliono essere soltanto 
parzialmente idiomorfi, se interni, e in questo caso per il so- 
lito molto piccoli, mostrano spesso completo contorno esago- 
nale e se numerosi danno talvolta ai feldispati che l’includono 
aspetto quasi micropegmatitico. 

Conviene quindi concludere che sia avvenuta una quasi si- 
multanea separazione dei più acidi feldispati e del quarzo. 

Con forte ingrandimento nelle lamine di quarzo si scorgono 
numerose e piccolissime inclusioni liquide (tav. X, fig. 3), in 
molte delle quali per ingrandimenti fortissimi si giunge anche 
a distinguere un'unica bolla di aria come nelle livelle. La 
forma loro è sempre irregolare e sono distribuite a gruppi, @ 
file, a strascichi, e dal loro andamento e disposizione è facile 
rilevare che è dovuto ad esse quel leggiero intorbidamento di 
cui ho detto sopra. 

Molto meno frequenti sono altre inclusioni, fra le quali mi 
piace notare i cristalletti di apatite, zircone, rutilo ecc. 

La mica, che appare rara nell'esame macroscopico, si rivela 


170 GIOVANNI D’ ACHIARDI 


scarsa nelle sezioni, di un color giallo-verdastro, con assorbimento 
completo quando le lamelle di sfaldatura giacciono nel piano di 
vibrazione del nicol. Quasi sempre alterata mostra inclusi e sul 
contorno granelli scuri metallici di magnetite o la trasforma 
zione, specialmente verso la periferia, in sostanza. cloritica più o 
meno colorita in giallo-verde e del tutto priva di assorbimento. 

L'orneblenda, rara specialmente nelle varietà di granito 
meno alterato, si mostra di un color verde-intenso, con forte 
pleocroismo dal giallo-verde al verde-scuro e assorbimento se- 
condo l'allungamento dei cristalli; spesso è associata alla mica, 
dalla quale talvolta mal si distingue, benchè in questa sia più 
completo l'assorbimento. Sembra essere profondamente alterata 
(tav. X, fig. 3) e al pari della nera biotite ha dato luogo a ma- 
gnetite come prodotto della sua alterazione. 

Come minerale accessorio si hanno numerosi cristallini di 
piccole dimensioni che appartengono allo zircone e che si mo- 
strano a preferenza inclusi nel quarzo (tav. X, fig. 3). Hanno con- 
torno spesso perfettamente idiomorfo e oltre alle facce dell’ot- 
taedro ottuso fondamentale vi si riconoscono facilmente quelle 
dei due prismi {100}, {110}. Sono essi stessi più o meno screpo- 
lati e non è raro il caso che presentino un nucleo (fig. cit.), pure 
idiomorfo ripetente o no la forma del cristallo che lo presenta. 
Lungo le screpolature si osserva un principio di alterazione. 
Questi cristalli presentano le inclusioni abituali della specie quali 
furono effigiate dal De Crousrc®ore (*). Oltre che in cristalli ap- 
pare anche in più piccoli grani a contorno indeciso. 

Di rutilo si hanno esilissimi e lunghi microliti aciculari, 
abitualmente inclusi nel quarzo, ma sono molto scarsi. 

L’apatite si trova in piccoli cristalletti, senza colore, veri 
microliti bacillari di pochi millesimi di millimetro di larghezza, 
nei maggiori dei quali (Tav. X, fig. 3) si osservano anche piani 
di separazione basale e le facce del prisma e una terminazione 
piramidale, più raramente basale. 

La tormalina è scarsissima; osservata solo in una se- 
zione in cristalletti a contorno parzialmente idiomorfo e con 
il pleocroismo e assorbimento caratteristico. 


(!) Beitrag zur Kenntnis der Zirkone in Gesteinen. Tschermak’s Mitth. Bd. VII, 
Wien, 1886. 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 171 


Pure scarsa è la fluorina; abitualmente senza regolare 
contorno, solo talvolta in microscopici cubetti, ora senza co- 
lore affatto, almeno nelle sezioni, ora leggermente e talora 
anche intensamente violacea, e non di rado con distribuzione 
zonale di tinta. 

Come prodotti secondari si hanno: magnetite, informe 
quale prodotto dell’alterazione della biotite e dell’ orneblenda,; 
clorite, essa pure come prodotto di alterazione di questi 
stessi minerali con i quali quindi è connessa al pari della ma- 
gnetite; limonite, in velature giallognole non abbondanti 
per tutta la roccia. 


Da questo studio si può quindi concludere che se questo 
granito per non pochi caratteri si avvicina al comune rapakiwi 
non ci rappresenta però la forma tipica, cui fu particolarmente 
dato questo nome. 


Roccia di contatto fra granito e calcare. 


Al contatto della dolomia il granito cambia fisonomia; spa- 
riscono i tuoni carneo e nero dominanti a distanza e per il 
comparire di tinte grigio-verdastre e bianco-sporche si ha una 
roccia che rassomiglia molto a talune eufotidi a grana grossa 
e non manifestamente diallagiche. E meglio è forse il dire che 
sul contatto comparisce una sottil banda rocciosa con carat- 
teri diversi dal granito e dalla dolomia cui s' interpone, banda 
che è a ritenersi effetto delle azioni reciproche delle due rocce 
adiacenti. 

Macroscopicamente mal si distingue, se pur si giunge a di- 
stinguere, il quarzo, mentre il feldispato dominante sugli altri 
minerali lo si riconosce facilmente, di rado con aspetto vitreo, 
abitualmente opaco, quasi saussurritico-bianco o grigio-verdo- 
nolo ed è quasi costantemente allotriomorfo. 

Mica e orneblenda nere non si scorgono, ma in loro vece 
una sostanza verde-grigiastra che può prendersi per anfibolo 
o clorite, ma che macroscopicamente non ci offre alcun carat- 
tere di certa determinazione. Peso specifico = 2,5. 

Le sezioni di questa roccia osservate al microscopio rive- 
lano subito grande predominio di feldispati e fra questi 


172. GIOVANNI D' ACHIARDI \ 


abbondante l’ortose, e così anche il plagioclasio, che per 
le direzioni di estinzione parrebbe doversi riferire all’oligo- 
clasio, insieme ad altro più basico. Sono però tutti questi fel- 
dispati così alterati (tav. X, fig. 4) che la distinzione è tut- 
t'altro che facile e più difficile ancora è il constatare la pre- 
senza del microclino. Pochissimi sono i grani feldispatici in cui 
sia possibile riconoscere forma e geminazione, sia per la loro 
alterazione, sia per essere ordinariamente allotriomorfi, in spe- 
cial modo quelli che van riferiti ai più acidi, fra i quali l’or- 
tose, che sembra formare una massa fondamentale granulitica 
insieme a pochissimo quarzo, se pur ve ne sia, difficilissimo es- 
sendo in questo caso la distinzione, non solo per l’' eguale al- 
lotriomorfismo e polarizzazione di aggregato nelle aree occu- 
pate dai granuli loro; ma anche perchè le numerosissime in- 
clusioni del quarzo gli tolgono l’ abituale freschezza dandogli 
quell’aspetto di corrosione proprio dei feldispati di questa roccia. 

La presenza di feldispati più basici di quelli del granito è 
in armonia con il contatto della dolomia, e la quasi scomparsa 
del quarzo è dovuta all’avere la silice del magma granitico e 
la calce della dolomia contribuito a costituire tanto dei pla- 
gioclasi ricchi di calce quanto del pirosseno pure calcifero. 

Il quarzo è scarsissimo, microgranulare sempre allotrio- 
morfo, con numerosissime inclusioni che, in parte almeno, mi 
sembrano vetrose, e ciò in relazione al più rapido raffreddarsi 
del magma sul contatto della roccia incassante. 

Mica non se ne vede, ma invece assai pirosseno, in parte 
idiomorfo, in parte allotriomorfo, non augite, non diallaggio, 
ma un pirosseno verde-cupo più o meno alterato in sostanza 
cloritica o celadonitica, la quale contiene spesso i cristalletti o 
grani di pirosseno, così come nel granito precedentemente de- 
scritto si ha la magnetite nell’interno e attorno alla biotite e 
all’anfibolo. I suoi cristalli sono tutti attraversati da fenditure, 
che ne hanno certo facilitato l'alterazione. Fortissimi colori 
d’interferenza, angolo d'estinzione delle lamelle a fenditure pa- 
rallele sul piano (010) di circa 39°. 

Di anfibolo nero, nelle sezioni verde-bruno e con forte 
assorbimento, non si vedono che poche laminette perfettamente 
idiomorfe (tav. X, fig. 4). 

Pure rari sono alcuni granuli e cristalletti con rilievo for- 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 173 


tissimo, di colore cuoio chiaro un po’ volgente al violaceo; 
idiomorfi anch'essi e con gli altri caratteri della titanite. 

Nessun cristalletto di zircone così ben definito come nelle 
sezioni di vero granito; soltanto qualche grano che sembra po- 
tervisi riferire; però molto rari. Il rutilo manca; l’apatite 
si presenta in scarsi cristalletti bacillari. 

La roccia è quindi diversa dal granito e sotto certi aspetti 
si avvicina più ai gabbri, ma la presenza dell’ortose e in copia, 
la non completa mancanza del quarzo, la struttura stessa della 
roccia in cui solo hanno acquistato contorno idiomorfo i mi- 
. nerali primi a cristallizzare; mentre gli altri riempiendo tutto 
lo spazio vuoto hanno confusamente e allotriomorficamente cri- 
stallizzato; le inclusioni vetrose dei rari cristalli di quarzo, tutto 
fa vedere in questa roccia gli effetti di una modificazione su- 
bita nella segregazione del magma granitico sul contatto con 
la roccia calcarea per reazione reciproca. 


Dolomia. 


La dolomia presso il contatto con il granito ha struttura 
grossolanamente cristallina a lamelle spatiche orientate in tutti 
i sensi come nei marmi, ma molto più grandi che nei marmi 
anche a grana grossa quale il Pario. La lucentezza madreper- 
lacea, almeno di molte lamelle di sfaldatura e l’effervescenza 
non così tumultuosa come nei comuni marmi, quali lo statuario 
di Carrara, sono in accordo con la presenza della magnesia con- 
statata agli assaggi chimici, e tutti insieme questi caratteri con- 
fermano che si ha a che fare con un calcare dolomitico. Però 
se si osservi l’ effervescenza prodotta con un acido ci si accorge 
che se è meno tumultuosa che nella pura calcite, pure non è 
così lenta come nella pretta dolomite; sembra quindi che a 
questa si abbia associata anche della calcite. 

Sul fondo bianco grigiastro lucente della roccia si scorgono 
qua e là venule e macchiuzze di una sostanza giallo-verdastra, 
più raramente verde-scura che fa pensare a materia epidotica 
o serpentinosa. Osservando poi attentamente con la lente si 
scorge fra le lamelle spatiche una sostanza del loro stesso co- 
lore bianco-grigiastro, o grigiastro-carneo chiaro, ma senza trac- 
cia alcuna di sfaldatura, evidentissima sempre in quelle, so- 


174 GIOVANNI D’ACHIARDI 


stanza d’apparenza quasi di petroselce e disegualmente disse- 
minata nella massa saccaroide cristallina. In alcuni esemplari 
presi proprio sul contatto immediato col granito la parte spa- 
tica diminuisce e si ha allora quasi apparenza petroselciosa o 
epidositica quando abbondi anche la sostanza leggermente ver- 
dognola. Peso specifico = 2,6. 

Osservata questa roccia in sezioni sottili al microscopio la 
dolomite ci si rivela subito per le fitte plaghe del tutto sco- 
lorite a luce ordinaria con evidentissime tracce di sfaldatura 
(tav. X, fig. 6) ed altissimi colori di interferenza a nicol incrociati 
Ma a nicol incrociati ci si appalesano anche accanto a plaghe che 
hanno esclusivamente le sole fenditure di sfaldatura, altre che 
presentano insieme ad esse, o anche senza di esse, evidenti segni 
della struttura polisintetica propria dei cristalli di calcite dei 
comuni marmi, onde si può credere che le due specie si trovino 
insieme presenti in questa roccia. E a proposito di ciò viene 
alla mente quanto l’ InostrantzEw (1) dice trattando delle rocce 
carbonate russe e finniche. Sostiene egli che i puri calcari cri- 
stallini risultino di granuli di calcite a geminazione secondo (110) 
e le pure dolomie normali di grani che non mai mostrano questi 
segni di geminazione, mentre i calcari dolomitici intermedi ri- 
sulterebbero di grani dell'una e dell'altra sorte in ragione della 
proporzione della dolomite alla calcite. Se ciò è vero nel caso 
nostro, in cui si ha appunto quella condizione di una grana 
straordinariamente grossolana, che il DòLTER (?), ammise essere la 
sola in cui quella distinzione possa farsi, converrebbe ritenere 
presenti le due specie, lo che sarebbe anche in armonia con 
l'attacco assai vivo dell'acido cloroidrico e con la maggior 
trasparenza e maggiore scolorimento delle aree a segni di ge- 
minazione. Nessuna differenza però nel contorno che dovrebbe 
essere più regolare per le plaghe dolomitiche. 

Il contegno con l’acido cloroidrico, se non assolutamente pre- 
senti le due specie distinte, per la qual cosa converrebbe am- 
mettere come assoluto il carattere di distinzione dell’Inosrran- 
TzEW, mentre si hanno altri fatti che lo contradicono, basta al- 
meno a farci ritenere che la dolomite sia costituita con più di 


(4) Zirgen. — Lehrbuch der Petrographie. Bd. III, Leipzig 1894, S. 492. 
(2) Idem. 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 175 


carbonato di calce che di magnesia; però io sono propenso ad 
ammettere la presenza delle due specie. 

In tutte le sezioni, ma con grande variabilità dall'una al- 
l’altra, però sempre con relativa abbondanza, appare una terza 
sostanza in forma abitualmente di granuli fortemente rilevati, 
che ci danno idea delle così dette gocce d’acqua (topazio) del 
Brasile (tav. X, fig. 6). Di questi granuli se ne vedono sparsi 
e isolati specialmente in mezzo alle lamelle spatiche di cal- 
cite e di dolomite, ma sono anche raggruppati e anche con- 
tigui l’uno all’altro in venule, e si danno pure aree più o meno 
grandi che ne sembrano totalmente costituite in modo che 
in una massa minutamente granulare con forti ingrandimenti 
sì vedono incorporati in numero rilevantissimo. Queste venule 
e aree di granuli costituiscono in massima parte la roccia 
che sopra dissi avere apparenza petroselciosa e corrispondono 
a quella parte che anche negli esemplari prevalentemente 
spatici presentano lo stesso carattere. Certo all’ esame micro- 
scopico questa sostanza appare più abbondante che a prima 
vista non sembrerebbe, poichè a occhio nudo o con la lente, 
non si giunge a scorgere i granuli disseminati in mezzo alle 
lamelle spatiche. Raro è che abbia forme determinate e se dai 
grani, come d'abitudine, per la completa assenza di ogni contorno 
specifico regolare difficile è dedurne a qual sistema appartenga, 
però dai pochi casi in cui un contorno o rudimento si osservi, 
può dedursene una forma prismatica e probabilmente monoclina, 
come sembrano anche accennare le direzioni di estinzione. 

Questi granuli, le cui dimensioni sono variabilissime da // 00 
a *% oo € più di mm. di diametro, hanno superficie ineguale e 
percorsa da profonde solcature intersecantisi in più direzioni. 
Mancano quasi completamente di colore se puri, o sono tut- 
t'al più tinti leggerissimamente in giallognolo come la dolo- 
mite che l’include. Soltanto alcuni appaiono tinti in bruno, 
color terra, ma evidentemente per un pigmento che spesso non 
occupa che una parte del grano, nel quale talora forma come 
un nucleo, dando a questo un’ apparenza zonale che richiama 
alla mente l’ortite inclusa nella pistacite (!) o meglio anche 


(1) Conen. — Sammlung von Mikrophotographien ecc. Stuttgart 1881; tav. XXVI, 
fig. 3. 


176 GIOVANNI D' ACHIARDI 


alcune sezioni di andalusite, quelle ad es. effigiate dal Conex (4); 
nè posso escludere in modo assoluto che ad essa non debbano 
riferirsi quelle sezioni, che nella porzione non periferica, gene- 
ralmente non inquinata, oltre a presentare minore rilievo hanno 
anche bassi colori d’interferenza. Però manca il pleocroismo, 
che sarebbe carattere tanto dell’ andalusite che dell’ ortite ed 
è a notarsi come l’andalusite non sia una specie solita a tro- 
varsi nei calcari metamorfici. 

I granuli non inquinati, anche se tinti leggermente in grigio 
giallognolo, mancano essi pure affatto di pleocroismo. Hanno co- 
lori d’interferenza fortissimi e tanto più forti quanto più il 
grano è scolorito indebolendosi fin quasi a sparire col crescere 
della materia pigmentizia, che verosimilmente li maschera. La 
forma granulare e non pochi caratteri a comune fra i vari mi- 
nerali mi han tenuto assai dubbio nella determinazione spe- 
cifica. Ho escluso il peridoto, la condrodite e la wollastonite, 
dei quali gli ultimi due non rari nei calcari matamorfici, per- 
chè silicati decomponibili dall’acido cloroidrico con separazione 
di silice gelatinosa, mentre sciolto in detto acido cloroidrico 
un frammento di roccia lascia un residuo nel quale si ricono- 
scono con tutta evidenza inalterati gli stessi granuli descritti 
nelle sezioni. Il dubbio quindi restava per me soltanto fra l’ epi- 
doto e il pirosseno che pur si rinvengono in forma granulare 
nelle rocce calcaree metamorfiche. La mancanza assoluta di 
pleocroismo sta contro all’cpidoto, a meno di ammettere che. 
si abbia a che fare con una varietà del tutto scolorita, e contro 
l’epidoto sta pure il fatto dell’esser questo parzialmente attac- 
cato dagli acidi e gelatinizzare dopo arroventamento, mentre 
l'estinzione determinata rispetto ai piani di separazione, però 
di rado evidenti, fanno piuttosto credere al pirosseno, special- 
mente a quella varietà scolorita o quasi, propria dei calcari me- 
tamorfici e che per la sua forma granulare ebbe il nome di 
coccolite. 

Insieme a questi granuli rilevati, e in maggior numero ove 
essi mancano o scarseggiano, sì osservano poi delle sezioni li- 
stiformi brevi, più o meno regolarmente rettangolari senza co- 
lore, senza sagrinatura ma con evidenti linee di separazione 


(4) Idem; tav. XVI, fig. 1. 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 177 


esili, fitte e parallele, spesso normali all’allungamento loro in 
alcuni dei cristalletti maggiori. Non presentano rilievo, spe- 
cialmente in confronto ai granuli pirossenici; hanno colori di 
interferenza vivacissimi, iridati; si estinguono a 0° con le esili 
fenditure parallele, normalmente alle quali cade l’asse delle 
vibrazioni di maggiore velocità ottica (@), onde il loro carattere 
negativo, considerando le fenditure come corrispondenti a piani 
basali. Un insieme di caratteri che corrisponde alla musco- 
vite o altra varietà di mica bianca. Se un dubbio potesse 
restare per alcune di queste liste potrebbe essere che andas- 
sero in parte riferite al dipiro; ma la mancanza di sezioni 
ottagonali e l’ abituale smangiatura delle liste ove terminano 
le linee di sfaldatura confermano che almeno in generale, de- 
vono riferirsi alla mica. 

Nelle aree dove più abbondano queste massarelle di mica 
bianca a colori di interferenza vivacissimi, e in particolar modo 
nelle sezioni fatte negli esemplari di color grigio-verdolino, 
d'apparenza epidositica, presi nell'immediato contatto del gra- 
nito, si osservano piccoli granuli rotondeggianti, più raramente 
con contorno poligonale, scoloriti o quasi, sempre con notevole 
rilievo, ma inferiore a quello dei precedentemente descritti, 
che malgrado ciò si scambierebbero facilmente con essi se non 
rimanessero quasi completamente estinti a nicol incrociati. 
L’ estinzione non completa dà quasi apparenza di anomalia 
ottica, onde il primo pensiero che viene è che possano essere 
di granato. Ma attentamente osservando sì riconoscono essere 
la stessa cosa di frequenti venule ed aree semiestinte del pari 
(tav. X, fig. 5), ma nelle quali vedesi una specie di struttura 
come nel serpentino antigorite effigiato da CoÒÙsn (1) deri- 
vante da pirosseno. Osservate con le lamine di gesso a rosso 
di primo ordine le listarelle illuminate intersecantisi nel campo 
estinto mostrano nel loro allungamento l’asse delle vibrazioni 
di minore velocità ottica (c), come è nell’antigorite, e se questo 
carattere non contradirebbe all’ anomalia del granato rombo- 
dodecaedrico, il rilievo tanto minore e in talune aree quasi 
mancante e l’ angolo di inclinazione delle liste lumeggianti 
l’esclude. È poi a notarsi che là dove questi globuli e queste 


(4) Op. cit.; tav. LXV, fig. 4. 


178 GIOVANNI D'ACHIARDI 


aree appariscono, mancano i granuli di pirosseno, onde tutto 
considerato conviene concludere che si tratti di una serpenti- 
nizzazione del pirosseno per azioni successive all’ intrusione gra- 
nitica, serpentinizzazione confermata anche dal fatto che in 
molte di queste aree serpentinizzate sono ancora visibili a luce 
ordinaria le sezioni degli originari granuli l’uno a contatto del- 
l’altro agglomerati, e talora anche si vedono di questi granuli 
che hanno subìto una serpentinizzazione solamente parziale. 

Il modo di serpentinizzazione antigoritico conferma anche 
che i granuli originari non fossero di peridoto, come tenderebbe 
a far credere la loro facile conversione in serpentino. 

Insieme al serpentino non è raro osservare silice granulare 
e forse anche opalina e ciò pure in conferma alla derivazione 
dal pirosseno. 

In alcune sezioni della roccia nell'immediato contatto si 
scorgono anche, non molto frequentemente, laminette a con- 
torni spesso dentellati, con esilissime fenditure parallele fles- 
suose, scolorite, a colori vivacissimi di interferenza e che credo 
di talco. Si hanno vari microliti bacillari di apatite. 

Attaccando la roccia con acido cloridrico a caldo nel residuo, 
oltre ai granuli sopra ricordati, si osservano delle lamine sco- 
lorite trasparentissime, completamente estinte a nicol incrociati, 
che lasciano, per la loro forma, un po’ in dubbio se debbano rife- 
rirsi a fluorina perchè, insieme a lamelle triangolari con gli 
angoli troncati che vi si potrebbero facilmente riferire, se ne in- 
contrano altre per le quali converrebbe ammettere distorsione 
ecc. E da notarsi che ripetuta varie volte la prova per la ri- 
cerca dell’ acido fluoridrico questa ha dato sempre resultato 
negativo. D'altra parte anche ammessa la presenza della fiuo- 
rina questa sarebbe in così piccola quantità che necessitano 
ingrandimenti molto forti per ritrovarne alcune laminette. Però 
i0 la credo presente anche perchè, se la dolomia sì attacchi 
con acido solforico, è molto più difficile lo scoprire nel residuo 
queste lamelle, e ciò d'accordo con l’azione che questo acido ha 
sul fluoruro di calcio. 


Dall'esame di queste rocce sul contatto granitico risulta: 
1.° L’intrusione del magma granitico deve essere avvenuta 
a profondità e con lenta consolidazione mancando nella roccia 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 179 


normale consolidata ogni traccia di vetrificazione e di struttura 
fluidale. 

2.° Sul contatto con il calcare la silice, ultima a cristalliz- 
zare nell'origine dei graniti, ha reagito con i carbonati di calce 
e magnesia della dolomia e quindi mentre da una parte i fel- 
dispati cristallizzando ultimi per la quasi scomparsa della si- 
lice si sono costituiti allotriomorficamente, si sono pure for- 
mati i pirosseni che pure allotriomorficamente hanno cristal- 
lizzato con i feldispati più acidi e forse anche insieme a un 
residuo di silice in foggia di quarzo allotriomorfo pur esso, ma 
in plaghette molto minori che nel granito tipico. 

3.° La clorite, al pari del serpentino, è un prodotto secon- 
dario, derivato in seguito, a spese del pirosseno e forse della 
mica magnesiaca rara nel granito e qui scomparsa. 

4.° I carbonati della dolomia reagendo con la silice insieme 
anche all’allumina e alla soda del magma granitico, allumina 
e soda che altrimenti avrebbero contribuito alla costituzione 
dei feldispati più acidi, come albite e oligoclasio, hanno dato 
origine a molti silicati calcico-magnesiaco-alluminiferi, che tanto 
più abbondano quanto più ci avviciniamo al contatto granitico. 


Diabase. 


Non lungi dal filone granitico testè descritto si osserva una 
massa filoniana di color grigio-verdastro scuro e indicata col 
nome di diabase. Gli esemplari infatti da me raccolti hanno 
tutta l'apparenza di una roccia diabasica profondamente alte- 
rata a struttura microcristallina, afanitica. Peso specifico = 2,7. 

Osservata al microscopio in sottili sezioni ci si mostra co- 
stituita prevalentemente di fittissimi microliti listiformi di pla- 
gioclasio, ordinariamente non geminati, orientati in tutte le 
direzioni, larghi da 1 o 2 sino a 20 e più centesimi di mm. per 
lunghezze sette o otto volte superiori. Tutti sono nello stesso 
modo alterati nella parte interna che appare torbida, freschi 
nell’ esterno involucro, onde l’ apparenza della figura 1 della 
tavola XI, che ci dà imagine di una sezione osservata a luce 
ordinaria e che s'assomiglia moltissimo a quella pubblicata dal 
dottor E. Manasse (!) per un diabase dei Monti Livornesi. 


(1) Rocce ofiolitiche e connesse dei Monti Livornesi. Atti Soc. Tosc. Sc. Nat. Me- 
morie Vol. XVI; tav. II, fig. 3. Pisa, 1897. 


180 GIOVANNI D'ACHIARDI 


La parte esterna a nicol incrociati si estingue quasi a 0° 
con la direzione dell’ allungamento delle liste; in alcune non 
sì riesce bene a distinguere se sia o no a 0°, ma in altre si 
vede fare angolo piccolissimo di circa 2° o 8° soltanto. 

La parte interna sembra estinguersi ad angolo maggiore, ma 
non si può dare un giudizio esatto poichè per lo più la grande 
sua torbidezza ne maschera l'estinzione, la quale potrebbe anche 
parere ad angolo più grande che nell’involucro per effetto di 
contrasto divenendo esso trasparente. Parrebbero quasi microliti 
ortoclasici circondati da limpido involucro di adularia, 
quali si citano di alcune minette, ma determinando la rifrazione 
col metodo di Beck, risulta più rifragente il nucleo dell’invo- 
lucro. Parrebbe dunque che si avesse costituzione zonale più 
basica e più calcifera nella parte centrale che nella periferica, 
che se non d'ortose può ritenersi di oligoclasio. 

Difficile è lo scorgere fenditure nella parte esterna limpida 
che indichino il tramite per cui si fecero strada gli agenti del- 
l'alterazione, pure con fortissimi ingrandimenti se ne osservano 
delle esilissime. Potrebbe però anche essere avvenuto che i 
microliti più ricchi di calce abbiano subito una corrosione, per 
riassorbimento del magma, prima che da questo siasi deposto 
il feldispato più acido a rivestirlo a guisa di mantello; ma at- 
tesa la profonda alterazione della roccia parmi più verosimile 
la prima ipotesi. 

Negli spazi compresi fra questi microliti idiomorfi listiformi 
sì vede un minerale verdolino chiaro allotriomorfo, che sembra 
rincalzarli come se facesse da ripieno. Ha aspetto fibroso, ri- 
lievo moderato, è debolmente pleocroico e più che pleocroico 
assorbente, e a nicol incrociati si estingue quasi parallelamente 
all’allungamento delle fibre. Ha tutto l'aspetto di uralite e 
che non si tratti che di pirosseno uralitizzato, oltre ai 
suaccennati caratteri, provano anche i resti che talora si con- 
servano nelle massarelle uralitiche del pirosseno originario con 
i suoi caratteri tipici, quali il forte rilievo, i colori di interfe- 
renza alti e l'estinzione a circa 38° con le fenditure longitu- 
dinali di alcune poche sezioni. Con forte ingrandimento si scor- 
gono nei resti di questo pirosseno alcune inclusioni fluide. 

Insieme alle massarelle uralitiche si vedono delle brevi e 
piccole listarelle cristalline con finissima striatura longitudi- 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 181 


nale, spesso visibile solo con fortissimi ingrandimenti, a piccolo 
rilievo, idiomorfe, benchè non sempre a regolare contorno, for- 
temente pleocroiche giallo-chiare a giallo-brune-tabacco, molto 
assorbenti con estinzione a 0° con il loro allungamento. Hanno 
quindi tutti i caratteri della biotite, cui pure debbono riferirsi 
altre lamelle o scaglie di color tabacco, talvolta a contorno esa- 
gonale, gradatamente meno pleocroiche fino a non esserlo affatto 
e che ci rappresentano sezioni più o meno vicine alle basali. 
Le laminette di biotite sono spesso circondate dall’uralite. 

La magnetite si trova sparsa assai abbondantemente 
nella roccia in dendriti cristalline; l’apatite non frequente 
in aghetti piccolissimi. 

Rare laminette di un minerale arancione incluse nell’ ura- 
lite sono verosimilmente di ematite, delle quali alcune sem- 
brano aver subìta una alterazione limonitica. 

Come inclusioni appaiono nei feldispati i prodotti di altera- 
zione nella parte centrale che sembrano di natura caolinica. 


La roccia presenta con tutta evidenza struttura ofitica pro- 
pria dei diabasi, ma per la natura del feldispato, per la strut- 
tura dei microliti listiformi, per la presenza della biotite, si 
ravvicina grandemente al tipo delle rocce dette lamprofiriche, 
con il quale coinciderebbe anche la natura filoniana della roc- 
cia stessa, e poichè le rocce lamprofiriche, dice il RosenBuScE (4), 
costituiscono un gruppo di termini che dalla minetta va fino 
al diabase micaceo, dà tutto l'insieme dei caratteri ritengo 
che si tratti per questa roccia russa di un diabase micaceo di 
tipo lamprofirico se non di una diorite micacea, alla quale, de- 
rivandovi l’anfibolo per uralitizzazione del pirosseno, potrebbe 
anche darsi il nome di epidiorite micacea. Siamo ad uno di 
quei soliti termini intermedi, di cui riesce difficilissima un’esatta 
specificazione. 


Contatto diabasico. 


Sul contatto diabasico la dolomia si è trasformata in una 
roccia verdolina, nella quale la massa spatica vedesi tutta at- 


(4) Mikroskopische Physiographie. Bd. II, S. 504, Stuttgart, 1896. 


182 GIOVANNI D’ACHIARDI 


traversata da venule grigio-verdastre o giallo-verdastre con 
piccoli innumerevoli punti lumeggianti argentini, che hanno l’ap- 
parenza di talco o di mica bianca. Si vedono oltre a ciò parti 
minutamente granulari grigiastre che si direbbero quasi sel- 
ciose e che sfumano nelle giallo-verdi, le quali assumono ivi 
quel colore grigio-verdastro di cui ho detto sopra. Peso speci- 
fico = 2,75. È 
Osservatene le sezioni sottili al microscopio appaiono le già 
descritte aree di calcite e dolomite con le consuete linee di 
sfaldatura e di geminazione (tav. XI, fig. 2) e fra esse se ne ve- 
dono altre, spesso assai estese, serpeggianti, irregolari, corrispon- 
denti certo alle venule grigiastro-verdoline che sembrano costi- 
tuite di quarzo microlitico e selce con innumerevoli la- 
minette disseminatevi di mica bianca (tav. XI, fig. 2), qui molto 
più abbondante e anche spesso di maggiori dimensioni che negli 
esemplari, già descritti, della dolomia sull’ altro contatto. 
Rari sono i granuli scoloriti o quasi di pirosseno-coc- 
colite, e in lor vece sono frequenti plaghe verdoline, o ver- 
dastro-sporche, nell’andamento e forma loro corrispondenti alle 
già descritte, e quindi esse pure a venule, e più specialmente 
alle venule verdastre, e che appaiono costituite di una sostanza 
microgranulare, un prodotto di decomposizione in parte sili- 
ceo, in parte epidotico con più o meno di mica bianca 
e non di rado anche di serpentino che talora quasi per in- 
tero le costituisce. Questo serpentino leggerissimamente ver- 
dognolo e senza alcun rilievo a luce ordinaria, ci si mostra, 
a nicol incrociati, qui pure con aspetto di antigorite, come 
sull'altro contatto, ora di crisotile o di metaxite, (tav. XI, 
fig. 3) e con carattere diverso da un punto all’altro della stessa 
sezione e talora anche nella medesima plaga serpentinica. Os- 
servando con la lamina di gesso a rosso di primo ordine si 
riscontra un carattere opposto fra le fibre e le scaglie o la- 
melle, correndo nel senso dell’allungamento loro per quelle l’asse 
delle vibrazioni di maggiore velocità ottica (A) e per queste 
l'asse delle vibrazioni di minore velocità ottica (0). Verosimil- 
mente tutti questi minerali di tipo serpentinoso, micaceo, epi- 
dotico, ecc. derivano dall’ alterazione di preesistenti minerali 
formatisi per metamorfismo di contatto nella dolomia, e credo 
da quello stesso pirosseno, i cui granuli già dissi qui essere 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 183 


molto più rari, ma spesso riconoscibili sempre in mezzo a questi 
prodotti di alterazione non del tutto completa. 

. Sul contatto diabasico quindi la dolomia presenta lo stesso 
arricchimento di granuli pirossenici che sul contatto granitico; 
sembra però più avanzata la successiva alterazione, rivelataci 
dalla maggiore copia del serpentino e della mica bianca. È in 
ragione della più avanzata serpentinizzazione anche la maggiore 
evidenza della silice granulare come prodotto e residuo di 
quella alterazione; così come deve essere per la calcite spa- 
tica di cui si osservano alcune piccole venule traversanti an- 
che le plaghe maggiori delle lamelle spatiche della dolomia, 
che ne sembrano come ricucite. 


ELBA 


Calcare metamorfico. 


Al Posto dei Cavoli nel Monte di Pietra Rossa e, secondo 
il Rarg(!), lì presso al colle di Palombaia nell'Isola d'Elba, si 
ha a contatto con il granito un calcare convertitosi in marmo 
a grana grossolanamente saccaroide e con produzione di varie 
specie di minerali, i cui cristalli vi appaiono come porfiricamente 
disseminati. A. D’'AcÒiarpi (?) cita come frequenti un granato 
giallo e la wollastite, che già dal Savi (3) era stata indi- 
cata come grammatite. Lo studio fisico fattone da mio padre 
e le analisi chimiche eseguite dal dott. Stacr tolgono ogni dubbio 
alla determinazione specifica come wollastonite di questo mi- 
nerale. Il voy Rata la ricorda pure insieme al granato aggiun- 
gendo che in. alcuni punti del Colle di Palombaia appare una 
vera e propria formazione di contatto fra il granito e il marmo, 
grossa soltanto alcuni mm., o tutt’ al più qualche decimetro, 
formando una banda di color verde-brunastro granatica se 
non pure in parte idiocrasica. 

Questa banda di contatto richiamandomi al paragone la con- 
simile e ristretta banda fra il granito e la dolomia saccaroide 
di Berdiaouch mi determinò a studiare comparativamente an- 


(4) Die Insel Elba. Bonn, 1870. 
(2). Mineralogia della Toscana; Vol. II, pag. 66-67. Pisa, 1873. 
(3) Costituzione geologica dell'Elba. 1833. 


Sc. Nat., Vol. XVI 12 


184 GIOVANNI D’ACHIARDI 


che questo calcare elbano ridotto marmoreo al contatto del 
granito, fatto ben conosciuto e descritto da quanti si occupa- 
rono diligentemente, anche dopo G. von Rara, di geologia elbana. 

Non parlo del granito, oramai tanto noto, e descriverò solo 
brevemente il calcare cristallino al contatto. Nelle sezioni sot- 
tili, si riconoscono le solite plaghe di calcite con la caratteri- 
stica struttura polisintetica del marmo. Sono invece rarissime 
sebbene non si possa dire che manchino del tutto, le plaghe 
dolomitiche a evidenti segni di sfaldatura, senza struttura poli- 
sintetica, abbondanti nella dolomia russa. L'attacco tanto più 
vivo fino alla fine con l'acido cloroidrico conferma la differenza 
delle due rocce. Peso specifico. = 2,5. 

La wollastonite appare in bacchette cristalline riunite 
in fasci ora parallelamente o quasi, ora irraggianti, con termi- 
nazioni mal definite (tav. XI, fig. 6), scolorita quasi sempre 
nelle sezioni, bianca, rossastra e grigiastra macroscopicamente 
osservata, mostra in quelle rilievo moderato, estinzione varia- 
bile secondo il taglio, ma ad angolo non mai superiore ai 32° 
rispetto all’allungamento dei cristalli bacillari, colori di inter- 
ferenza da bassi a mediocremente vivaci, onde la diagnosi mi- 
croscopica conferma la macroscopica. 

Questi cristalli di wollastonite talora ne compenetrano altri 
di una sostanza, con la quale sembrano concresciuti, quasi sco- 
lorita, con leggerissimo tuono di colore giallo-bruno, fortissimo 
rilievo, contorno irregolare, piani di separazione paralleli fra 
loro e all’allungamento, più estesi in una direzione con abi- 
tuale geminazione secondo (100), estinzione simmetrica dalle 
due parti a 38° c.* nelle sezioni parallele a (010), diseguale nelle 
altre, fortissimi colori d'interferenza, caratteri tutti del piros- 
seno, che qui credo rappresentato dalla malacolite o altra va- 
rietà calcico-magnesifera quasi scolorita. Anche l'angolo di estin- 
zione, che suol crescere con la copia del ferro e dell’alluminio 
fino a un massimo di 52° conferma la fatta determinazione. 

Oltre che in plaghe senza regolare contorno, più o meno 
estese e avvolgenti talora la wollastonite, si presenta la stessa 
specie anche in granuli un po’ ellissoidali (tav. XI, fig. 4 e 6), 
ora isolati in mezzo alle lamelle di calcite, ora riuniti in gruppi, 
e occupanti anche aree assai estese, l'uno accanto all’altro, del 
tutto rassomiglianti a quelli della dolomia di Berdiaouch e che 


DUE ESEMPI DI METAMORFISMO DI CONTATTO (URALI-ELBA) 185 


ritengo qui pure riferibili alla varietà coccolite. La diagnosi 
microscopica è confermata anche dal contegno chimico. Infatti 
trattando con acido cloroidrico bollente la roccia, mentre se ne 
separa anidride silicica gelatinizzando dalla wollastonite, si ha 
un residuo granulare che osservato al microscopio ci mostra 
‘ancora intatti i granuli pirossenici. 

In mezzo alle plaghe di calcite si osservano anche, special- 
mente in alcuni esemplari più friabili della roccia, grani gial- 
lognoli, molto rilevati, screpolati, estinti a nicol incrociati con 
tutti i caratteri dei granati, che già aveva fatto riconoscere 
l'esame macroscopico. 

Si hanno anche plaghe senza azione alcuna sulla luce pola- 
rizzata, che sembrano di silice, e appaiono di preferenza presso 
il contatto, ove sono più frequenti anche i grani di pirosseno 
e gli altri minerali di origine metamorfica. 


Considerando comparativamente i due casi di metamorfismo 
di contatto nel calcare, è facile rilevare insieme a non poche 
rassomiglianze anche differenze sostanziali. La roccia sedimen- 
taria è ridotta cristallina, saccaroide, in entrambe le località, 
ma la dolomitizzazione evidentissima, intensa agli Urali, è al- 
l'Elba di gran lunga minore e la roccia ha in generale più ap- 
parenza di comune marmo che di dolomia. 

La mica bianca, frequente, benchè in laminette piccolissime 
a Berdiaouch manca al Posto dei Cavoli, ove si ha invece ab- 
bondante wollastonite, che non si riscontra nella roccia russa. 
Perfetta corrispondenza si ha invece nella presenza, forma e 
copia dei granuli pirossenici, salvo che negli esemplari uralici 
appaiono non di rado serpentinizzati. 
Le differenze sembrano dunque in relazione alla differenza 
della roccia metamorfica. In questa dell'Elba che ha più natura 
di marmo che di dolomia la scarsità della magnesia ha generato 
insieme a pirosseno la wollastonite, che non si è formata a Ber- 
diaouch perchè ivi non faceva difetto la magnesia, la copia 
della quale è in rapporto alla serpentinizzazione del pirosseno. 


Laboratorio di Mineralogia dell’ Università di Pisa 


23 gennaio 1898. 


SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE 


Tav. X. 
Le fotografie 1, 2, 4, 5 sono fatte a nicol incrociati con i piani di polariz- 
zazione paralleli ai margini della tavola, le altre due a luce ordinaria. 
Fig 


g. 1. Sezione di granito di Berdiaouch mostrante in special modo una plaga 
di microclino con la sua caratteristica struttura polisintetica. — In- 
grand. 19 diam. 

» 2. Idem con cristallo di oligoclasio ad esile struttura lamellare per gemi- 

nazione. — Ingrand. 19 diam. 
» 3. Idem con cristalli microlitici di zircone e di apatite attorno ad una plaga 
irregolare anfibolica e quali inclusioni nel quarzo e nell’anfibolo stesso. 
Nel quarzo si osservano innumerevoli inclusioni liquide e nel cristal 
letto di zireone a destra un nucleo scuro secondante la forma stessa 
del cristallo includente. — Ingrand. 55 diam. j 

» 4. Sezione della banda di contatto sullo stesso granito di Berdiaouch con 
cristallo di anfibolo corroso e circondato da masse feldispatiche alte- 
rate. — Ingrand. 44 diam. 
» 5. Sezione fatta nella dolomia di Berdiaouch metamorfosata al contatto con 
il granito mostrante plaghe pirosseniche serpentinizzate e una venula 
di calcite spatica. — Ingrand. 44 diam. 

» 7. Idem con lamelle di calcite e dolomite includenti granuli a forte rilievo 
di pirosseno. — Ingrand, 44 diam. 


Tav. XI. 

Le fotografie 2, 3, 5 furono eseguite a nicol incrociati con i piani di po- 
larizzazione paralleli ai margini della tavola, le altre tre a nicol incrociati. 
Fig. 1. Sezione di diabase di Berdiaouch con cristalli plagioclasici a nucleo al- 

terato e involucro limpido, circondati dal pirosseno uralitizzato. — 
Ingran. 44 diam. 

» 2. Sezione della roccia dolomitica di Berdiaouch a contatto con il diabase 
mostrante lamelle di calcite a struttura polisintetica e minerali secon- 
dari in plaghe distinte fra i quali predominano piccolissime laminette 
di mica bianca. — Ingrand. 44 diam. 

» 3. Idem con serpentino antigoritico. — Ingrand. 44 diam. 

» 4. Sezione del calcare metamorfico del Posto dei Cavoli (Elba) presso al 
contatto col granito, mostrante granuli pirossenici analoghi a quelli 
di Berdiaouch. — Ingrand. 44 diam. 

» 5. Idem con cristallo geminato di malacolite a forti colori d’ interferenza 
e forte rilievo, compenetrato da piccoli cristalli di wollastonite. — 
Ingrand. 19 diam. 

» 6. Idem con fascio di cristali di wollastonite, globuli pirossenici e lamelle 
di calcite a struttura polisintetica. — Ingrand. 44 diam. 


Dott. GIUNIO SALVI 


e 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA 


DELLE 


MENINGI 


e 


IG 


L'origine delle membrane di invoglio dei centri nervosi, 
prima degli studi di Mmnatkovics (1) e di Ké6LLIKER Ci fu molto 
discussa e controversa dagli anatomici. 

Dalla teoria di Biscnorr (*) per la quale tutte le meningi pro- 
venivano da differenziazione istologica degli strati più perife- 
rici delle masse nervose centrali, si va all’ altra sostenuta in 
vario modo da Trepemann (4), Remax (°), Rercaerm (9), Rarnre (7), 
ed Hensen (5) per la quale si ammetteva una differente origine 
per ciascuna di esse. 

E fu la pia madre specialmente 1 oggetto delle maggiori 
discussioni, per la quale Hensen credè di risolvere la questione 
fra coloro che la volevano originata dall’invoglio osteogeno e 
quelli che le davano una origine nervosa, invocando per essa 


(4) Mimavgovios V. — Entwicklungsgeschichte des Gehirns. Leipzig 1877. 

(?) KoLLIKER A. — Entwicklungsgeschichte des Menschen und der hiheren Thiere. 
Leipzig 1879. 

(8) Brscnorr TA. — Entwicklungsgeschichte der Saugethiere und des Menschen. 
Leipzig 1842, pag. 195. 

(4) Trepemann Fr. — Anatomie du cerveau contenant l histoire de son developpe- 
ment dans le foetus. Trad. A. J. de Jourdan. Paris 1823, p. 17. 

(9) Remax R. — Untersuchungen ‘diber die Entwicklung der Wirbelthiere. Ber- 
lin 1850-55. 

(6) RercnerT C. B. — Der Bau des Menschlichen Gehirn. Leipzig 1859, u. 1861. 

(7) RarHKE H. — Entwicklungsgeschicte der Wirbelthiere. Leipzig 1861, pag. 104. 

(8) Hensen V. — Beobachtungen iiber die Befruchtung und Entwicklung des Ka- 
ninchens und Meerschweinchens, Zeitschrift. f. Anat. und Entw. I Bd. 1876, pag. 367. 


188 G. SALVI 


una origine a sè, da quella cioe che egli chiamò: membrana 
prima. Tutti questi ricercatori però non sì occuparono che poco 
della evoluzione successiva di queste membrane, venendo la loro 
attenzione più specialmente attratta dai prolungamenti di esse 
nei centri nervosi. 

KotLmann (!) nel 1861 studiando lo sviluppo dei plessi coroidei, 
si occupò della istogenesi delle meningi cerebrali e, pur non 
precisando a quale dei foglietti embrionali spettasse questo 
tessuto, dimostrò che le tre membrane di invoglio dei centri 
nervosi si differenziavano in seno ad un’ unica massa di tessuto 
embrionale che egli paragonò alla gelatina di Warton, situata 
fra l’abbozzo del cranio e la superficie cerebrale. 

La parte più esterna di questa massa, divenendo fibrosa, 
formava la dura madre, la più interna vascolare, la pia, l’in- 
termedia l’aracnoide. 

Questa descrizione, accettata da Mmmarkovios, fu in parte mo- 
dificata da Kéocuker(°) il quale sostenne che la dura madre si 
sviluppa insieme al cranio dal quale si separa solo all’ epoca 
dell’ossificazione, e che lo strato gelatinoso ritenuto da Koxt- 
MANN l’abbozzo comune delle meningi, rappresenta solo la pia 
dalla quale deriva poi l’aracnoide. 

Tutti questi autori poi, si occuparono di determinare l’epoca 
nella quale le varie meningi apparivano già formate senza se- 
guirne il processo di differenziamento e di evoluzione, e facendo 
le loro osservazioni in vari animali. 

I più moderni e i trattatisti seguono la descrizione di 
KoLLmann e quella di KòLLIKER e, preoccupati della questione se 
l'aracnoide debba considerarsi o no una sierosa formata da un 
foglietto parietale ed uno viscerale, non ne cercano la soluzione 
nello sviluppo, ma nella struttura della membrana già formata. 

I quesiti che si presentano in uno studio embriologico e 
morfologico-comparativo sopra le meningi sono vari, e tutti ri- 
chiesti dalle particolarità di conformazione e di struttura che 
presentano le meningi nell'uomo giunto a completo sviluppo. 

V'è il processo di differenziamento istologico e di separa- 
zione delle tre membrane che, per quanto accennato qua e là, 


(4) KoLumann J. — Entwicklung der Adergeflechte. Leipzig 18641, pag. 24 e seg. 
(?) KoLLiKER A. — Loc. cit. pag. 57. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 189 


ha bisogno d’esser meglio chiarito nei particolari, alcuni dei 
quali importantissimi per appianare le controversie e per spie- 
gare come si passi alla struttura definitiva. 

V'è il processo di formazione e di evoluzione dei sepimenti 
meningei nei centri nervosi da precisare in molte parti e da 
completare in molte altre, e da mettere in rapporto con la 
struttura e la conformazione che i sepimenti stessi presentano 
nell'adulto. 

V'è infine da spiegare e da mettere in rapporto con la co- 
«munità di origine e di differenziamento istologico, alcune ap- 
parenti varietà di conformazione fra le meningi cerebrali e le 
rachidiche. 

E questo mio studio è indirizzato appunto a dimostrare 
come si sviluppino le meningi e come passino alla loro strut- 
tura definitiva. 

La bibliografia sull'argomento è scarsa e mal si presta ad 
un riassunto ordinato, onde la verrò esponendo man mano che 
se ne presenterà l'occasione. 


x 


Materiale e metodo di studio. 


Ho eseguite le mie ricerche sopra embrioni di mammiferi, 
e specialmente di cavia, di coniglio, di pecora e di uomo, esten- 
dendole però agli altri ordini di vertebrati quando l'argomento 
lo richiedeva; per la descrizione, mi varrò più specialmente 
della cavia. 

Ho dovuto fare serie complete di questi embrioni con se- 
zioni trasverse, sagittali e frontali, ed ho urtato contro grandi 
difficoltà per poter fissare gli embrioni in modo che anche le 
parti più interne della testa si conservassero inalterate, e per 
decalcificare i più inoltrati, senza nulla perdere nei particolari 
di struttura e di rapporti. 

Sono riuscito ad ottenere buonissimi risultati, usando il me- 
todo seguente. 

Per la fissazione mi sono servito di un liquido composto @ 
parti uguali di soluz. cone. di acido picrico, soluz. conc. di sublimato 
corrosivo, e acqua, e detto liquido mi ha corrisposto, sempre, 
anche per embrioni nei quali il processo di ossificazione era 
già molto inoltrato: per la decalcificazione, ha corrisposto pie- 


190 G. SALVI 


namente al mio scopo, solamente la fluoroglucina. Questa so- 
stanza si può adoperare benissimo dopo il liquido fissatore so- 
pra indicato e se al trattamento con essa si fa seguire una 
abbondante lavatura, la colorazione non ne viene disturbata 
affatto. 

Quanto alla colorazione, ho ottenuto i risultati migliori dalla 
cocciniglia. Ho adoperato però spesso anche il carminio (allu- 
minato) e le doppie colorazioni con bleu d’ anilina che danno 
buonissimi risultati nello studio delle varie fasi di sviluppo del 
connettivo. Per l'inclusione, mi sono servito della paraffina e 
della celloidina. 


Le meningi si sviluppano dalla porzione più interna dei 
somiti mesoblastici e delle lamine cefaliche. 

Da principio nello strato mesodermale che avvolge il si- 
stema nervoso centrale non è alcuna differenziazione, e gli 
elementi cellulari più periferici ed i più centrali si somigliano 
tutti. Ma ben presto comincia a delinearsi l’abbozzo dello sche- 
letro per un ispessimento, una compattezza maggiore degli ele- 
menti, ed allora fra questo abbozzo ed il sistema nervoso resta 
interposto uno strato di mesoderma che rappresenta il rudi- 
mento comune delle meningi. 

Le cose, uguali nella sostanza, procedono un po’ diversa- 
mente nei particolari, nella porzione cefalica e nella rachidica. 


Sviluppo delle meningi cerebrali. 


La capsula mesodermale che avvolge l’encefalo di un em- 
brione di cavia di 8 mm. è tutta omogenea, senza traccia al- 
cuna di differenziazione. È uno strato di connettivo embrio- 
nale limitato nella volta dalla lamina cutanea ed alla base con- 
tinuantesi con quello delle protovertebre. A poco a poco però, 
la porzione più periferica di esso comincia a divenire più densa 
sotto forma di una lamina continua sulla volta del cranio, di 
uno strato irregolare alla base. 

Gli elementi cellulari sulla volta si allungano e si dispon- 
gono parallelamente, alla base restano rotondeggianti ma molto 
serrati fra di loro. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 191 


È lo strato osteogeno del cranio che si manifesta, ed alla 
base apparisce un po’ prima. 

Esso diventa ben presto mnettissimo e ben delimitato dal 
rimanente dello strato mesodermale il quale rimane interposto 
fra esso e la superficie cerebrale conservando i suoi caratteri 
di connettivo embrionale. Quest'ultimo è l' abbozzo comune 
delle meningi, quella che deve chiamarsi meninge primitiva. 

Il differenziamento delle tre membrane di invoglio si fa in 
seno ad essa nel modo seguente. 

Lo strato che è immediatamente a contatto con la parete 
cerebrale, comincia ben presto a presentare la formazione di 
una quantità di piccolissimi vasi i quali aumentando rapida- 
mente, vengono a .costituire una rete fittissima e continua che 
ricopre la superficie cerebrale e dalla quale si staccano una 
quantità di vasellini che penetrano entro la sostanza nervosa. 

Questa formazione si ha contemporaneamente ovunque, ed 
anche perciò in quelle porzioni della meninge primitiva che si 
sono intromesse nei solchi che si sono venuti formando nella 
parete dell’ encefalo, costituendo l' abbozzo dei sepimenti me- 
ningei. i 

In un embrione di cavia di 14 mm. il fatto è già abbastanza 
evidente. Questo strato vasale rappresenta la pia madre che 
comincia a differenziarsi, ed in un embrione di cavia di 18mm. 
costituisce uno strato già bene differenziato istologicamente 
dagli altri. Fra essa e l’abbozzo craniense, resta quel che ri- 
mane della meninge primitiva la quale, senza presentare alcuna 
traccia di differenziazione, ha i caratteri del connettivo mucoso. 

Tanto lo strato osteogeneo craniense che la pia meninge, 
per quanto nettamente delimitati dallo strato mucoso per va- 
rietà di struttura, non sono però affatto staccati da esso, e la 
continuità del tessuto è perfetta. 

Procedendo lo sviluppo (embrione di cavia di 18 mm.), si 
comincia a notare nel mezzo dello strato mucoso uno strate- 
rello sottilissimo nel quale gli elementi cellulari sono più ser- 
rati e tendono ad allungarsi, e che risalta subito nelle sezioni 
in seno al tessuto omogeneo rimanente. 

Questo strato nella base del cranio apparisce un po’ prima, 
mentre nella volta è meno evidente; però in un embrione di 
cavia di 20 mm. esso è ovunque evidentissimo (Fig. 1). 


192 G. SALVI 


Formandosi nel mezzo dello strato mucoso, una parte di 
questo resta al di fuori cioè tra esso e il cranio, ed una al di 
dentro cioè fra esso e la pia madre (Fig. 2 e 3). 

Il seguito dello sviluppo dimostra che questo straterello più 
ispessito è il primo indizio della differenziazione della dura 
madre, ed è per questo che ho proposto di chiamare dura me- 
ninge primitiva quella porzione della meninge primitiva costi- 
tuita dalla lamina suddetta e dal connettivo embrionale com- 
preso fra essa e lo strato osteogeno; e meninge molle primitiva 
la porzione che rimane fra essa lamina e la parete cerebrale, 
compresa la pia. 

Infatti, procedendo lo sviluppo, lo strato durale sopra de- 
scritto va piano piano acquistando i caratteri del connettivo 
. fibroso e contemporaneamente lo strato fibroso che è fra esso 
ed il cranio si ispessisce e si addensa anch’ esso, sebbene sem- 
pre un po’ meno, fino a che si giunge ad un punto (embrione 
di cavia di 36 mm.) che si confonde quasi con lo strato fibroso 
osteogeno della volta. Questo però non accade nella base ove 
i due strati rimangono sempre ben distinti uno dall'altro per 
la diversa apparenza di struttura che assume la cartilagine. 
Il primo abbozzo della dura madre resta però sempre distintis- 
simo da tutto il resto per una compattezza maggiore dei suoi 
elementi. 

Quando comincia l’ossificazione dell’abbozzo craniense, al- 
lora la distinzione torna ancora nettissima ovunque e la dura 
madre (ciò che del resto è stato fin da principio) si mostra 
costituita da due strati: uno aderente all'osso, meno denso, 
ed uno più interno, limitante, più denso e fibroso (embrione 
di cavia di 58 mm. (Fig. 5 e 6). 

Questi fatti presentano alcune leggiere varianti nella volta 
del cranio e nella base. 

Nella volta, lo strato più lasso della dura madre si ispes- 
sisce anch'esso molto presto, ma non giunge mai al punto di 
confondersi con quello limitante che resta sempre ben netto. 
Nella base invece, l’organizzazione a tessuto fibroso avviene 
più lentamente, ma alla fine è tale la compattezza che acquista 
questo stato, che viene a confondersi quasi completamente con 
quello limitante e con quello che fino da principio è apparso 
come pericondrio della cartilagine della base. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 193 


In corrispondenza poi dei luoghi ove saranno più tardi le 
suture, il tessuto durale si confonde con quello epicranico at- 
traverso la sutura stessa. 

Questi fatti spiegano la differente aderenza che presenta la 
dura madre con le ossa del cranio, la quale può divenire così 
debole da dar luogo in taluni punti alla formazione del; così 
detto spazio epidurale. 


Nel mentre che i fatti sopra descritti si compiono, la pia 
madre viene gradatamente acquistando la struttura sua defi- 
nitiva. La rete vascolare aumenta, ed i vasi entrano numerosi 
nella sostanza cerebrale stabilendo altrettanti punti di ade- 
renza. Fra le maglie vasali sta delicato connettivo di sostegno 
dipendenza di quello mucoso che è rimasto fra l’abbozzo durale 
e l’abbozzo piale. 

In un embrione di cavia di 58 mm. cioè quasi a termine, 
la dura madre e la pia sono istologicamente del tutto diffe- 
renziate, però non si può ancora parlare di una vera e propria 
aracnoide nè di spazi che separino una membrana dall’ altra 
(Fig. 6). 

L'abbozzo aracnoideo è rappresentato da quella porzione di 
meninge primitiva che rimane fra i due abbozzi della dura e 
della pia madre. 

Questo tessuto, mucoso in un embrione di cavia di 24mm. 
va man mano organizzandosi sotto forma di connettivo lasso. 
Esso è scarsissimo sopra le parti convesse e sporgenti della 
superficie cerebrale; abbonda invece nei solchi e nelle fessure 
che riempie totalmente continuandosi senza interruzione di sorta 
con il connettivo delle due membrane già differenziate. È nei 
solchi e nelle fessure che si può studiare bene la sua evoluzione. 

In un embrione di cavia di 50 mm. il tessuto aracnoideo 
è costituito da un reticolato di esili trabecole connettivali che 
in uno di 60 si trovano diminuite di numero ed aumentate 
invece di consistenza. 

In una parola, il tessuto mucoso primitivo va grado a grado 
diventando dapprima lasso e poi rarefacendosi sempre di più 
nel mentre che aumentano gli spazi e diminuiscono i setti. 
La continuità di questo tessuto tanto da parte della dura che 


194 G. SALVI 


da parte della pia madre resta perfetta ma esso sì cambia in 
una specie di spugna connettivale interposta fra le due e con- 
tinuantesi con esse. Il rivestimento endoteliale delle trabecole, 
negli spazi più periferici, sì continua naturalmente sopra la por- 
zione di superficie della dura madre che ne forma il limite 
estremo. 

Procedendo ancora lo sviluppo, il tessuto aracnoideo si di- 
rada sempre più. Le lacune di esso aumentano nella parte più 
periferica, in relazione col differenziamento maggiore della mem- 
brana fibrosa che si distacca nettamente dal resto, mentre da 
parte della pia madre il nesso si conserva strettissimo, conti- 
muandosi le trabecole direttamente col connettivo delicato che 
è tra le maglie dei vasi. E in tal modo che si viene a poco 
a poco a formare lo spazio subdurale. 

Le trabecole aracnoidee si distaccano dalla superficie della 
dura madre che diviene così libera, per il maggiore differen- 
ziamento e per l’organizzazione fibrosa che assume questa mem- 
brana e forse, come opina Krause, anche per la circolazione 
del liquido cefalo rachidiano che viene a stabilirsi. E contem- 
poraneamente il rivestimento endoteliale che rivestiva la pa- 
rete durale quando questa faceva solo da parete ad una serie 
di spazi connettivali si fa continuo, ed il distacco fra le due 
membrane è completo. 

Formatosi in tal modo lo spazio subdurale, il tessuto arac- 
noideo si ispessisce perifericamente ed anche qui con lo stesso 
processo sopra descritto, si stabilisce il rivestimento endote- 
liale. 

È anzi questo ispessimento che si compie gradatamente quello 
che contribuisce alla formazione dello spazio subdurale. 

Là dove il tessuto era scarso, cioè sulle parti convesse e 
sporgenti dell'encefalo, esso viene, per così dire, impiegato tutto 
nella formazione di una membranella connettivale addossata 
alla pia ed aderente a questa; la dove invece per l’ infossarsi 
della superficie cerebrale il tessuto aracnoideo abbondava, la 
membranella resta come strato limitante e la spugna connetti- 
vale persiste come nelle epoche embrionali, conservando sempre 
il suo nesso col tessuto piale. 

Questi fatti relativi allo sviluppo dell’ aracnoide, accennati 
in parte da Korrmanx, non furono mai messi in evidenza e di- 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 195 


mostrati, onde in trattati di anatomia dei più recenti leggesi 
che l'origine dell’aracnoide non è conosciuta oppure che nasce 
dalla pia madre. 


Così inteso lo sviluppo delle meningi cerebrali, si spiegano 
tutti i fatti relativi alla loro struttura e conformazione defi- 
nitive. E specialmente la questione ancora in vigore fra gli 
anatomici, se l’aracnoide sia o no da considerarsi come una 
membrana sierosa, cade completamente. 

SaverIO Brcnar descrisse l’aracnoide come una vera membrana 
sierosa formata da un foglietto viscerale ed uno parietale, e 
gli anatomici successivi che hanno seguìto questa dottrina de- 
scrivono quest’ultimo come costituito da una membrana ela- 
stica sulla quale poggia l’ endotelio. 

Lo sviluppo di queste membrane ci dà diritto ad asserire 
che se non esiste una aracnoide sierosa nel senso di BicH®ar, 
esiste però una cavità sierosa vera e propria rappresentata dallo 
spazio subdurale, limitato da membrane connettivali differenzia- 
tesi e staccatesi una dall'altra in seno ad un'unica massa di 
connettivo embrionale. 

Le pareti di questo spazio sono divenute più dense e fibrose 
da una parte che dall'altra, ed il loro rivestimento d' endotelio 
sì spiega troppo facilmente visto lo sviluppo. 

Aracnoide vera e propria cioè una membranella di connettivo 
isolata; non si ha che là dove essa forma la parete delle grandi 
cavità aracnoidee. Dove le cavità sono più piccole e sulle parti 
convesse della superficie encefalica, l’aracnoide è solamente uno 
strato periferico più ispessito del tessuto aracnoideo, limitante 
la cavità sierosa subdurale. 

Che poi questa membrana non si infossi insieme alla pia 
madre nei solchi, sì spiega anche questo facilmente dal momento 
che essa si differenzia come strato limitante del tessuto che fin 
da principio occupava quei solchi, e si distacca dalla dura in 
epoche molto avanzate di sviluppo, quando cioè il sottostante 
tessuto aracnoideo è già bene costituito. 

Quanto alla pia madre, si infossa nei solchi primitivi perchè 
si differenza <n situ dalla meninge primitiva che si intromette 
in quei solchi; in quelli che si formano dopo, si infossa per le. 


196 G. SALVI 


aderenze cellulari e vascolari che si stabiliscono fra essa e l’en- 
cefalo, descritte da Vacenti (1). 

Lo spazio, o per meglio dire gli spazi subaracnoidei infine, 
si formano nello stesso modo che lo spazio subdurale. Qui però 
la membrana limitante (aracnoide) non diviene così fibrosa 
come la dura madre, e le trabecole connettivali per quanto in 
alcuni luoghi ridotte di numero e di volume, conservano il loro 
nesso col tessuto connettivo della pia madre, e questa è la causa 
per la quale lo spazio subaracnoideo non si fa libero come il 
subdurale. 

La pia madre e l’aracnoide cerebrali non sono due membrane 
distinte, ma un solo strato di connettivo lasso limitato esterna- 
mente da una lamina connettivale più densa onde limitare a 
sua volta lo spazio subdurale, e servente con la sua porzione più 
profonda di veicolo ai vasi epicerebrali e di stroma e sostegno 
alla rete che essi formano. 

Sviluppo dei seni della dura madre. — Leggesi nei trat- 
tati di Anatomia come i seni della dura madre siano canali 
venosi a sezione triangolare scavati nella spessezza della me- 
ninge o formati da uno sdoppiamento di essa. 

Questo modo di dire, se può stare dal punto di vista de- 
scrittivo, non è affatto in relazione con lo sviluppo embriolo- 
gico di questi canali vascolari. 

Lo strato mesodermale che costituisce l’'invoglio primitivo 
dell’ encefalo, fino dai primi stadi di sviluppo dà origine ad una 
quantità di vasi venosi fra i quali si stabiliscono subito dei rap- 
porti e delle connessioni che restano poi immutati nel seguito 
dell’ evoluzione. 

Allorchè comparisce l’abbozzo del cranio, alcune di queste 
vene, le più periferiche, vengono comprese nella formazione 
dello strato osteogeno ed, incluse in questo, divengono poi evi- 
dentemente le vene della diploe. 

Le altre, quelle che vengono a trovarsi nello strato della 
meninge primitiva, si dividono in due ordini. Alcune si svilup- 
pano in forma di rete nello strato contiguo alla parete cere- 
brale e con la loro presenza specialmente, caratterizzano la pia 


(*) VarenTI G. — Sullo sviluppo dei prolungamenti della pia madre nelle scissure 
cerebrali. Memorie della Soc. Toscana di Sc. Nat. Vol. XII. 


L’ISTOGENESI E LA SUTRUTTURA DELLE MENINGI 197 


madre. Altre, più periferiche, prendono subito uno sviluppo molto 
maggiore ed assumono tali rapporti con le varie parti dello 
encetalo in via di evoluzione, coì prolungamenti della meninge 
primitiva e fra di loro, che le fanno riconoscere subito come 
i futuri seni. 

Ed infatti, allorchè apparisce il primo abbozzo della dura 
meninge, cioè quello che sarà poi lo strato più interno e fibroso 
di essa, le vene suddette vengono ad essere comprese fra questo 
e l’abbozzo craniense, e seguitano a svilupparsi per un certo 
tempo nel connettivo ancora lasso che forma lo strato più esterno 
della dura madre a tali stadi di sviluppo. 

Questi fatti si osservano bene nell’embrione di cavia di 
20 mm. e negli stadi successivi (Fig. 1, 2). 

In un embrione di 58 mm. (Fig. 6), i seni sono ancora vere 
vene con una parete propria ben distinta e perfettamente limitata 
dal connettivo circostante. Però col progredire dell’ ispessimento 
di questo tessuto, ne deriva che quella distinzione va facendosi 
sempre meno netta fino a che, quando lo strato meningeo ha 
acquistato i caratteri di connettivo fibroso, la parete della, 
vena si confonde con questo, la sezione del vaso da circolare 
diviene pressochè triangolare per le cause che dirò più tardi 
inerenti allo sviluppo dei prolungamenti meningei, e la vena 
diviene seno. 

Vi sono alcuni di questi seni come il sagittale inferiore ed 
il retto che, fino a stadi inoltrati di sviluppo, sono rappresentati 
più che da una sola vena da un gruppo di vene le quali solo 
più tardi sì riuniscono in un solo tronco. Queste vene divengono 
seni molto più tardi delle altre che si trovano perifericamente 
e che vengono incluse subito nel primo abbozzo della dura 
madre, e ciò perchè nei sepimenti meningei relativi l'invasione 
del tessuto fibroso si fa negli ultimi stadi di sviluppo, ed in un 
modo tutto particolare. 

Le vene di GaLeNo non sono che quella porzione della vena 
primitiva fino alla quale non si estende la formazione durale 
del tentorio che include l’altra, trasformandola in seno retto. 
Questo seno poi corrisponde a quella porzione che nelle prime 
epoche embrionali raccoglieva il sangue delle vene scorrenti nel 
connettivo interposto fra le due vescicole del telencefalo e fra 
queste e il diencefalo, non ancora divise in due piani (vene 


198 G. SALVI 


della falce e del tentorio, e vene della tela coroidea) per la 
formazione delle commessure. 

Nel periodo embrionale le anastomosi fra la vena che di- 
verrà il seno sagittale superiore e quella del seno sagittale in- 
feriore sono numerosissime. 

I seni della dura madre non sono perciò che vene dell’invoglio 
mesodermale dei centri nervosi, le quali vengono involte nella for- 
mazione della dura meninge come le vene diploiche nell’abbozzo 
craniense, e le vene epicerebrali nell’abbozzo della pia madre. 

E la conferma di ciò è facile trovarla nell’anatomia degli 
animali inferiori. 

Nella cavia e nel coniglio anche il tessuto aracnoideo è at- 
traversato da grossi vasi venosi che sboccano nei seni; nel cane, 
per l’ossificazione del tentorio, si hanno il seno trasverso e la 
porzione più dorsale del seno longitudinale superiore scorrenti 
in veri canali ossei. Degno di nota è il fatto che in questo ani- 
male l'ossificazione del tentorio non comprende il seno retto, 
il quale scorre al davanti. 


Prolungamenti delle meningi cerebrali. 


-I prolungamenti delle meningi, di varia natura e struttura 
nell'adulto, sono nelle prime epoche embrionali tutti eguali. 

La meninge primitiva che avvolge i centri nervosi, penetra 
nelle fessure e nei solchi che si vanno formando alla superficie 
di questi, continuando a riempire tutto lo spazio che è fra la 
superficie cerebrale e la scatola cranica. 

Ciò avviene meccanicamente e per l'accrescimento continuo 
del tessuto, mentre l’abbozzo craniense già differenziato costi- 
tuisce al tutto un invoglio resistente che non prende parte a 
queste ripiegature e resta come strato limitante esterno. 

Nel seguito dello sviluppo questi prolungamenti danno ori- 
gine più specialmente alle meningi molli dei solchi rispettivi, 
mentre la dura madre vi entra solo a stadi molto avanzati ed 
in un modo tutto particolare. 

Fra gli osservatori che hanno studiato la genesi di questi 
prolungamenti, KoLLmanw(*) ritenne per la gran falce che il sepi- 


(1) KoLLManN. — Loc. cit. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 199 


mento primitivo desse origine solamente alla pia madre e che 
la dura si spingesse fra ,le due lamine di questa secondaria- 
mente, a partire dall’ apofisi cristagalli; mentre Dursy (1) am- 
mise che il sepimento meningeo primitivo desse origine a tutte 
le meningi che formano quello definitivo. Gli altri o non si occu- 
pano dell'argomento, o riportano le idee di queste. 

Le mie osservazioni mi hanno mostrato come lo sviluppo 
di questi sepimenti avvenga in modo tale che merita una spe- 
ciale descrizione per ciascuno di essi. E questi fatti sono in re- 
lazione con la struttura differente che presentano i vari pro- 
lungamenti meningei e le varie parti di uno stesso. 

Gran falce del cervello. — L’abbozzo della gran falce del 
cervello è dato da quel prolungamento della meninge primitiva 
che si insinua nel solco che si va formando fra le due vescicole 
del telencefalo. Però, se per gran falce si intende solo il prolun- 
gamento della dura madre, non si può dire che la falce definitiva 
corrisponda alla primitiva. 

La falce primitiva è costituita da connettivo embrionale, e 
la porzione di essa che è a contatto con la parete cerebrale 
si differenzia come pia madre con lo stesso processo di quella 
esterna e contemporaneamente ad essa, mentre il rimanente 
del tessuto che resta fra le due lamine contigue persiste lun- 
gamente come tessuto connettivo mucoso. 

Questi fatti si osservano bene in un embrionedi cavia di 24mm. 

Intanto però, dalla meninge primitiva esterna, si è venuta 
differenziando la dura madre sotto forma di quella lamina più 
densa che darà poi origine allo strato più fibroso ed interno di 
essa. Questa lamina in corrispondenza della falce primitiva e 
della scissura sagittale, sporge alquanto in questa a guisa di 
cuneo circondando la vena che sarà poi il seno sagittale su- 
periore (embrione di cavia di mm. 25 Fig. 4). 

Questo stato di cose permane immutato fino ad epoche molto 
avanzate di sviluppo, fino a che la dura madre non è già bene 
formata. 

A questa epoca (embrione di cavia di 58 mm.) si comincia 
a. vedere, nelle sezioni frontali, l'apice dell'angolo prolungarsi 


(4) Dursy E. — Zur Entwicklungsgeschichte des Kopfes des Menschen und der 
hoheren Wirbelthiere. Tiibingen 1869, p. 60. 


Sc. Nat., Vol. XVI 13 


200 c.ESALVI 


in basso come una specie di piega dello strato limitante della 
dura madre. E che non sia una piega casuale, lo dimostra oltre 
la sua costanza ed il suo graduale sviluppo, il fatto che gli ele- 
menti del tessuto hanno qui una direzione parallela al grande 
asse verticale della piega stessa. Al di sotto del limite inferiore 
della piega, il sepimento meningeo conserva la sua struttura ; 
si hanno cioè le due lamine della pia madre separate da con- 
nettivo lasso nel quale si è andato pian piano cambiando quello 
mucoso degli stadi antecedenti (Fig. 6). 

La piega accoglie del tessuto proveniente dallo strato meno 
denso della dura madre e si approfonda sempre più fino a gua- 
dagnare le parti più profonde del sepimento meningeo. Nel tempo 
stesso il tessuto interposto sì ispessisce tanto, che ben presto 
si confonde con quello limitante e la primitiva struttura della 
piega non si può più riconoscere. 

A questa epoca (feto di cavia) la gran falce cerebrale è com- 
pletamente formata e il tessuto fibroso ha raggiunto le vene 
scorrenti nella parte più profonda del sepimento meningeo pri- 
mitivo, dando origine al seno sagittale inferiore. 

Fra la gran falce e la pia madre della scissura sagittale resta 
un po’ di connettivo che dà origine alla aracnoide con lo stesso 
processo descritto più sopra. 

Tentorio del cervelletto e Tela coroidea del 3.° ven- 
tricolo. — Di comune accordo gli anatomici ritengono come 
abbozzo del tentorio del cervelletto quel prolungamento della 
meninge primitiva che si spinge fra il mesencefalo ed il rom- 
bencefalo e che fu chiamata da KéOLLIKER fentorio' primitivo; e 
la cosa sembrerebbe a tutta prima evidentissima dal momento 
che è appunto in corrispondenza della faccia posteriore di questo 
sepimento che si sviluppa la lamina cerebellare. 

Sostennero in vario modo questa teoria Dursr, MrgaLKovies 
e KéòLuigER i quali furono poi seguìti da tutti gli anatomici 
successivi. 

Ove però si segua lo sviluppo dell'encefalo si vede che le 
cose procedono altrimenti. 

Questo sepimento non accoglie nessuna formazione della dura 
madre, ma dà solo origine alla pia madre che riveste le parti 
corrispondenti dello encefalo. 

Esso in un embrione di cavia di 24 mm. è costituito dalle 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 201 


due lamine della pia madre differenziatesi in esso e da poco tes- 
suto lasso interposto (Fig. 13). 

Man mano che si sviluppano le parti dell'encefalo fra le quali 
è racchiuso, cioè allorquando il mesencefalo che prima occupava 
la sommità del cervello si abbassa soverchiato dagli emisferi 
da una parte e dal cervelletto dall'altra, e si formano il velo 
midollare anteriore e la lamina quadrigemella, questo prolun- 
gamento perde la sua conformazione a cuneo, e le due lamine 
piali si allontanano, si distendono e sì ripiegano seguendo lo 
sviluppo di quelle parti (Fig. 10-15). 

L'abbozzo del tentorio è invece rappresentato da quel pro- 
lungamento della meninge primitiva che ai primi stadi di svi- 
luppo si intromette fra le due vescicole del telencefalo ed il 
dincefalo. E una specie di lamina semilunare a sezione triango- 
lare, i corni della quale contornando l’encefalo, vengono a con- 
fondersi con la meninge primitiva che si trova accumulata alla 
base di questo e che si solleva nell'angolo di flessione cranica 
formando il pilastro di RATHKE. 

(Questa mia asserzione si basa sopra il seguito dello sviluppo 
e sopra un fatto della massima importanza: la presenza cioè 
della vena che diverrà il seno trasverso, nella periferia di questo 
sepimento. 

La dura madre, fino dal suo primo apparire sotto forma 
di quello straterello ad elementi più serrati, che sarà poi la 
sua lamina interna, contorna questo seno sporgendo nel sepi- 
mento e nel solco a guisa di cuneo sebbene poco allungato ; 
ed è questo il tentorio embrionale (Fig. 1 e 2). 

Col progredire dello sviluppo gli emisferi si estendono in 
dietro e al di sopra del diencefalo, ed il prolungamento meningeo 
si allunga mentre il seno trasverso si sposta in dietro seguendoli. 

La pia madre, differenziatasi, ha contratto aderenze vasco- 
lari e cellulari con la superficie delle vescicole del telencefalo, 
e conserva i suoi rapporti con le parti che da queste si svilup- 
pano. Quando gli emisferi sono giunti a contatto col cervelletto, 
l'antico prolungamento meningeo si trova straordinariamente 
spostato ed allungato indietro. Inoltre da verticale che era si 
trova ad essere orizzontale. E un lungo sepimento il quale oc- 
cupa tutta la fessura trasversa. 

La sua porzione più profonda si converte nella tela coroidea 


202 G. SALVI 


del 3° ventricolo e dà origine ai plessi coroidei; la porzione più peri- 
ferica accoglie un prolungamento della dura madre, il fentorio, 
mentre le lamine piali si divaricano per continuarsi sopra le 
superfici encefaliche rispettive, e il connettivo interposto si 
converte nell’aracnoide della fessura trasversa. 

L'asse mediano e sagittale di questo prolungamento era. 
sino dai primi stadi di sviluppo percorso da vene che andavano 
a sboccare nel seno trasverso e questa connessione vascolare 
si conserva sempre. Le vene, per la porzione più profonda di- 
vengono le vene coroidee e di GaLeno, per la più superficiale il 
seno retto, venendo comprese nella formazione fibrosa della falce e 
del tentorio. 

Il tentorio rimane lungo tempo allo stato descritto sopra 
di sporgenza cuneiforme della dura madre che avvolge il seno 
trasverso, e che segue questo nella sua migrazione in dietro. 
Singolarissima è la sua evoluzione ulteriore. 

Anche qui l’inizio è una ripiegatura dello strato limitante 
durale che ha avvolto il seno trasverso, ma la piega non si 
diparte dall’apice del cuneo apparendone una continuazione, 
come avviene per la gran falce, ma sibbene dal suo lato poste- 
riore cioè dietro il seno stesso, il quale conserva per lungo tempo 
la sua sezione circolare. 

In un embrione di cavia di 50 mm. la ripiegatura è nettissima 
sebbene poco profonda. Essa è lontana dal seno e potrebbe esser 
presa per una piega accidentale se non la si trovasse allo stesso 
posto, rispetto al seno, anche in stadi di sviluppo inferiori, e 
non la si potesse seguire nella sua graduale evoluzione nei su- 
periori. Di più il connettivo dello strato esterno della dura madre 
vi penetra in modo, che l’asse de suoi elementi allungati non si 
ripiega, ma si dispone parallelo all'asse della piega stessa. 

In un embrione poi di 58 mm. (Fig. 6) il fatto è evidentis- 
simo. L’abbozzo del tentorio si è venuto avvicinando al seno 
trasverso e, immediatamente dietro a questo cioè nella parete 
posteriore dell'angolo formato dalla dura madre, si vede nelle 
sezioni sagittali un infossamento verticale a guisa di piega. 
Lo strato durale che lo limita è molto denso, più che in ogni 
altra sua porzione e più ancora verso l'apice. Il connettivo che 
è nel mezzo, dipendenza dello strato esterno della dura madre, 
è meno denso ed a fibre dirette lungo l’asse della; piega. 


To ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 203 


La vena che sarà più tardi il seno retto, decorre e sbocca 
nel seno trasverso al davanti della piega. Procedendo ancora 
lo sviluppo, la piega si infossa sempre più fino a prendere la 
estensione e la conformazione definitiva del tentorio, e contem- 
poraneamente lo strato intermedio si addensa tanto da confon- 
‘dersi con quello limitante. 

Il seno retto viene ad essere compreso nella formazione 
fibrosa costituita dall’unirsi sulla linea mediana del tentorio 
con la falce. Esso sì apre nel seno trasverso restringendo dap- 
prima il suo diametro. 

Nelle parti laterali l’abbozzo del tentorio si trova più rav- 
vicinato al seno trasverso. Di più, man mano che si sviluppa, 
avviene come se la sua parete anteriore si distendesse, onde la 
piega si avanza e si fa sempre meno distinta, fino a che, a svi- 
luppo completo, apparisce come il prolungamento dell’ angolo 
durale ed allora il seno prende la sua forma triangolare. 


I resti di questa primitiva porzione in avanti del tentorio, 
e le traccie della sua migrazione in dietro sono molteplici. 

Il sepimento meningeo che è situato fra il mesencefalo ed 
il rombencefalo, il fentorio primitivo di Ké6xLIKER, circondando 
ad anello questa parte dell'encefalo, viene ad unirsi nella base 
all'apice del pilastro dî RatAKE, e con questo ha comune il destino. 

Infatti, da RarHKE in poi, tutti ammettono che il pilastro 
si atrofizza; ed io, non concordando del tutto in questa asserzione, 
ho osservato che la porzione estrema dà origine solo alle meningi 
molli delle porzioni corrispondenti dell'encefalo. 

Il vero fentorio primitivo invece, nei primi stadi di sviluppo 
era situato verticalmente a guisa di semiluna nel solco fra telen- 
cefalo e diencefalo, e le sue estremità corrispondevano alla base 
del pilastro di RarrakE, quella che dà origine alla dura madre 
che riveste il corpo dello sfenoide e i processi clinoidei. 

Nella sua migrazione in dietro il rapporto alla base permane 
immutato (attacco del tentorio ai processi clinoidei), mentre 
la circonferenza che era verticale tende a poco a poco a di- 
sporsi orizzontalmente per la differente orientazione che assume 
la fessura trasversale. E la traccia di questo fatto ci viene pre- 
sentata anche dalle ossa del cranio. 


204 G. SALVI 


È certo che la base si sviluppa meno della volta, e la sua 
porzione media, rappresenta una specie di punto fisso attorno 
al quale avviene l'accrescimento della volta stessa che segue 
quello dell’ encefalo, e specialmente degli emisferi. Da prin- 
cipio il seno trasverso era una specie di semi-anello verticale 
situato fra telencefalo e diencefalo e facente capo con le sue. 
estremità ai forami giugulari. Spostandosi e piegandosi il ten- 
torio in dietro, si è piegato e spostato anch’ esso per la porzione 
che corrisponde al tentorio stesso. 

E la prova di ciò è offerta dalla conformazione della doccia 
ossea che lo accoglie. La porzione inferiore rimasta verticale è 
il resto dell'antica disposizione, mentre la superiore, piegata 
indietro, rappresenta l'angolo percorso dal tentorio. 

Quanto poi al fatto dello svilupparsi del tentorio al di dietro 
del seno retto, esso trova la sua conferma in quello che si 
osserva nel cane. In questo animale il tentorio ossifica, e la 
lamina ossea che ne risulta non comprende affatto il seno retto 
come fa per il trasverso e per la porzione posteriore del longi- 
tudinale superiore, ma il seno stesso scorre al davanti, e pure al 
davanti del tentorio perfora l’osso per gettarsi nel trasverso. 

Falce del cervelletto. — Si sviluppa come la gran falce 
del cervello. 

Diaframma dell’ipofisi. — È descritto comunemente come 
uno sdoppiamento della dura madre della quale un foglietto 
tappezza la fossa pituitaria, e l’altro vi passa sopra come un 
ponte lasciando un pertugio per il passaggio del peduncolo. 

Il meccanismo di formazione embrionale è invece del tutto 
differente. 

La capsula mesodermale craniense si spinge nell'angolo an- 
teriore di flessione cranica formando una specie di lamina tra- 
sversale chiamata da Rargxe pilastro medio del cranio e da KòLLIKER 
pilustro anteriore. Questo pilastro però non dà origine solamente 
a parti ossee come credè dapprima RarHKE, nè si atrofizza com- 
pletamente come affermarono i ricercatori successivi fra i quali 
Dursy. 

Seguendo l'evoluzione di questo pilastro, si vede che la sua 
porzione superiore da origine alla sella turcica ed alla lamina 
quadrilatera dello sfenoide, la media al diaframma dell’ipofisi 
e la superiore alla pia madre ed all’aracnoide delle regioni 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 205 


corrispondenti dell'encefalo. Perciò solo una parte di questo 
pilastro appartiene alla meninge primitiva, mentre quella infe- 
riore appartiene allo abbozzo del cranio. 

Ed infatti, allorchè questo comincia a differenziarsi, si de- 
linea subito il limite fra le due porzioni (embrione di cavia 
mm. 11). 

Fin da quando nessuna differenziazione è ancora avvenuta 
nella meninge primitiva del pilastro di RarrKE, l’abbozzo del- 
l’ipofisi, sviluppandosi, si spinge nel pilastro infossandone, per 
così dire, la faccia anteriore. Questo fatto determina una sorta 
di sporgenza della meninge stessa al di sopra dell’ipofisi ed in 
essa il connettivo embrionale si mostra già un po’ ispessito 
(embrione di cavia di mm. 6, Fig. 7). 

Allorchè poi nella base del cranio apparisce la dura madre, 
il primo abbozzo di questa membrana (strato interno) sporge 
nel pilastro di RarH€e e fra esso e l’abbozzo della sella rimane 
circoscritto un ammasso cuneiforme del tessuto costituente lo 
strato durale esterno. 

Si viene così a formare una specie di sprone ad angolo 
acuto della dura madre, il quale, molto alto nella linea me- 
diana, va lateralmente perdendosi ed appianandosi. 

In corrispondenza della formazione dell’ ipofisi, la faccia an- 
teriore di questo sprone si infossa per accoglierla, e nel tempo 
stesso si ripiega al di sopra formandole una specie di tetto che 
corrisponde alla sporgenza della meninge primitiva sopra de- 
scritta: l'apice del cuneo si approfonda sempre nel pilastro di 
Rarake. Questi fatti si osservano bene in un embrione di cavia 
di mm. 20 e sono rappresentati nella Fig. 8. Si vede l’ipofisi 
accolta in una specie di ricettacolo formatole dallo strato in- 
terno della dura madre e al di sopra del quale lo strato stesso, 
raddoppiato, sporge come un tetto. 

Progredendo lo sviluppo, questa lamina ricoprente si pro- 
lunga sempre più in avanti in relazione con l'accrescimento dell’i- 
pofisi. Essa è formata dai due foglietti dello strato durale separati 
da un po’ di connettivo che a poco a poco diventa anch'esso 
più denso fino a che la distinzione non è più possibile. Questo 
però non avviene che a sviluppo completo. 

Questa trasformazione fibrosa del connettivo interposto alle 
due lamine durali e lo sviluppo delle parti circostanti dello 


206 G. SALVI 


scheletro, finiscono per dare al diaframma dell'ipofisi la sua 
conformazione e struttura definitiva. 

Nel mentre che ciò avviene, la porzione di pilastro di RarHKE 
che è al di sopra dello sprone durale si atrofizza gradatamente 
e rimane come pia madre ed aracnoide della regione. 

Il diaframma dell’ipofisi non è quindi uno sdoppiamento 
della dura meninge, ma piuttosto una duplicatura, una piega, 
come è per gli altri prolungamenti di questa membrana. 

Ho notato nella cavia che la lamina quadrilatera dello sfe- 
noide corrisponde alla porzione inferiore del prolungamento 
durale che forma il diaframma dell’ipofisi, e nel feto di questo 
animale non è ancora ossificato. Certo la cartilagine non vi 
entra. i 

Tela coroidea del 4.° ventricolo. — Kotumann, Dursy, Kéx- 
vixer e Mrmarkgovios descrissero come ‘abbozzo dei plessi coroidei 
del 4.° ventricolo quel diverticolo della meninge primitiva che si 
infossa nella volta del rombencefalo al di dietro della lamina 
cerebellare e che KéòLLikeR chiamò apppunto prolungamento dei 
plessi coroidei del quarto ventricolo. 

Sopra lo sviluppo di questi plessi e di questa tela ho Li 
vato delle particolarità che meritano più ampia e particolareg- 
giata descrizione. 

Il prolungamento meningeo che dà origine alla tela coroidea 
apparisce molto tardi, quando gli altri sono già molto avanzati 
nel loro sviluppo, e quando la pia madre è già bene differen- 
ziata in seno alla meninge primitiva. 

I plessi coroidei poi appariscono molto prima che si formi 
la tela ed apparentemente molto lontani dal sito che poi occu- 
peranno definitivamente. 

In un embrione di cavia di mm. 7, si vede che in un tratto 
il quale trovasi presso a poco ad egual distanza della curva 
nucale e dall’estremità dorsale della lamina cerebellare, l’epi- 
telio della volta del rombencefalo si manifesta per un'altezza 
maggiore delle sue cellule, le quali appariscono nettamente 
cilindriche (Fig. 2). 

Il fatto si trova molto più pronunziato in un embrione di 
9mm., ed a questo stadio si comincia a vedere l’epitelio stesso 
sporgere qua e là sotto forma di piccole ripiegature entro la 
cavità della vescicola, nel mentre che la pia madre soprastante 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 207 


si mostra molto vascolarizzata ed il connettivo embrionale che 
è sopra ad essa presenta una quantità di vasellini a direzione 
perpendicolare alla superficie encefalica. Contemporaneamente 
l'estremo anteriore del tratto si presenta un po’ infossato ed 
in corrispondenza di questa infossatura i vasi si presentano in 
maggiore abbondanza. — Apparisce il prolungamento. 

In uno stadio più inoltrato (cavia mm. 11) là dove prima 
era il tratto descritto, si trova un prolungamento della meninge 
primitiva il quale sporge a guisa di cuneo nelle sezioni sagit- 
tali mediane. L'epitelio, nettamente cilindrico, si osserva in tutto 
il lato posteriore del cuneo stesso, mentre nell’anteriore cessa 
poco dopo l'apice. Inoltre la superficie epiteliale non è più liscia, 
ma trovasi ripiegata sopra altrettante propaggini a mo' di bot- 
tone del connettivo soprastante che sospinge la parete della 
vescicola (Fig. 11). 

Questo prolungamento trovasi ora molto ravvicinato al cer- 
velletto, e ciò dipende dallo sviluppo in dietro di questo, dal 
ripiegarsi del velo midollare posteriore che prima era sulla 
stessa linea della lamina cerebellare e che ora viene a trovarsi 
sotto a questa e volto in avanti a formare il fastigio, e dal 
pronunziarsi dell'angolo encefalico in questa regione. 

A 14mm. il prolungamento è ravvicinatissimo al cervelletto 
e le papille sono molto abbondanti (Fig. 12). 

A questo punto i plessi coroidei sono già bene costituiti ed 
appariscono come prolungamenti della pia madre entro la ca- 
vità del mielencefalo, rivestiti da epitelio cilindrico semplice; 
ma di tela coroidea non si può ancora parlare giacchè questi 
plessi si trovano adesso dietro il cervelletto e non sotto questo, 
e dipendono quindi dalla meninge primitiva che riveste la 
volta del rombencefalo dietro la lamina cerebellare. 

Allorchè la lamina cerebellare sviluppandosi di più esce di 
sotto al mesencefalo e il cervelletto sporge libero alla super- 
ficie, allora tutto il connettivo che era nell'angolo fra la pro- 
minenza nucale ed il mesencefalo, nel così detto marsupium 
cerebri posterior di ArBr, viene come suddiviso in due parti, e 
quella compresa fra la prominenza nucale ed il cervelletto forma 
a poco a poco la tela coroîdea (Fig. 8 e 14). In un embrione di 
cavia di 58 mm. questa è già bene costituita (Fig. 15). 

Un fatto degno di nota è che la primitiva conformazione 


208 G. SALVI 


del prolungamento meningeo con l’epitelio e le papille più estesi 
nella superficie posteriore che nella anteriore, si è conservata 
sempre. Ed infatti, se si segue lo sviluppo, si vede che il pro- 
lungamento ha come girato su se stesso in avanti, divenendo 
da verticale orizzontale. La sua faccia anteriore, poco estesa, 
corrisponde al velo midollare posteriore col quale si continua 
il suo epitelio; l'apice si prolunga sotto forma di plessi nella 
cavità del ventricolo, i quali si spingono (Fig. 15) al davanti 
del velo midollare posteriore, mentre la faccia posteriore cor- 
risponde alla tela coroidea che si forma, ed alla lamina co- 
roidea epiteliale del quarto ventricolo. 

Per molto tempo le papille si conservano scarse di vasi e 
presentano piuttosto l'aspetto del tessuto adenoide. 

Singolare è poi la formazione della tela coroidea. 

Negli embrioni di cavia di 24 mm. sì vede in mezzo al con- 
nettivo che è fra la lamina cerebellare e la prominenza nucale 
uno straterello fibroso il quale sembra dipartirsi dalla dura 
madre che passa come un ponte sopra l’angolo encefalico, e va 
a raggiungere i plessi (Fig. 13). 

Questo strato aumenta sempre più negli stadi successivi e 
viene a costituire una vera impalcatura fibrosa a sostegno della 
tela coroidea, ed è il vero primo abbozzo di essa (Fig. 14). 

Esso perde in seguito il suo nesso con la dura madre ed in 
un embrione di 58 mm. rimane isolato da questa a formare da 
solo la lamina connettivale che costituisce la tela, mentre il 
connettivo circostante va cambiandosi in aracnoide (Fig. 15). 

Cavità di Meckel e guaine de’ nervi cerebrali. — Il 
ganglio semilunare si sviluppa in seno alla meninge primi- 
tiva e viene compreso fra il primo abbozzo della dura madre e 
l’abbozzo del cranio. Il tessuto durale, addensandosi all’ intorno 
di esso forma una sorta di ricettacolo che è la cavità di MecxeL. 

Quanto poi ai nervi cerebrali, essi attraversano la meninge 
primitiva quando è tuttora indifferenziata, ed allorchè il diffe- 
renziamento avviene, il tessuto durale si ispessisce attorno al 
nervo formandogli una guaina che l’accompagna naturalmente 
fino al forame di uscita, ove si confonde col periostio ingros- 
sandolo alquanto. i 

Tutto ciò, come vedremo, è perfettamente uguale a quello 
che avviene per i gangli e per i nervi spinali. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 209 


Sviluppo delle meningi spinali. 


Le meningi spinali si sviluppano dalla porzione più interna 
dei somiti mesoblastici. Affermato questo fatto da KéòLLUEKER, gli 
anatomici successivi non si occuparono che di determinare 
l’epoca nella quale le varie membrane di invoglio si osservano 
già formate. Però nemmeno questi studi furono condotti con 
ordine giacchè delle meningi fu sempre trattato incidentalmente, 
onde se qualche concetto è giusto, molti fatti o non sono messi 
in evidenza, o non sono spiegati, o esigono differente descrizione. 

Vari sono i fattori che agiscono, sullo sviluppo delle meningi 
spinali in modo da far prender loro una conformazione apparen- 
temente diversa da quelle cerebrali, e questi sono: L’estendersi 
per gradi dall’avanti all'indietro della formazione vertebrale; il 
differente sviluppo della colonna vertebrale e della sua cavità 
rispetto a quello della midolla sia in largezza che in lunghezza; 
la ragione meccanica dei movimenti che deve eseguire questa 
parte dello scheletro e che implicano una protezione tutta spe- 
ciale degli organi in essa contenuti. 


Le meningi spinali si sviluppano dalla porzione più dorsale 
del mesoderma parassiale. Esso segue la formazione della doccia 
e del tubo neurale spingendosi nelle preghe midollari e formando 
infine un invoglio mesodermale completo alla midolla allorchè 
. sì è ricongiunto ventralmente a questa avvolgendo la notocorda, 
e dorsalmente costituendo la membrana riuniente superiore di 
REMAK. 

Volendo fare una omologia, esso non sarebbe che quello che 
nelle parti laterali del corpo forma il connettivo sotto cutaneo. 

I fatti che mi accingo ad esporre, variano naturalmente 
un po’ nelle singole regioni della. colonna vertebrale, in ispecie 
per ciò che riguarda l'ordine cronologico. È per questo che vo- 
lendo descriverli ordinatamente man mano che si manifestano 
nei singoli stadi di sviluppo, ho dovuto fissarmi più specialmente 
sopra una regione, ed ho scelta la dorsale. 

In un embrione di cavia di mm. 3 e mezzo, una sezione fatta 
trasversalmente in un somito mesoblastico non mostra in questo 


210 G. SALVI 


alcuna differenziazione. La membrana riuniente superiore non 
è ancora formata ed il foglietto cutaneo è qui addossato al 
canale midollare completamente chiuso. Pochi elementi meso- 
dermali si trovano ventralmente fra questo e la notocorda. 

L’invoglio mesodermale della midolla non apparisce com- 
pleto che in un embrione di cavia di mm. 5, 5. Esso è costituito 
di connettivo embrionale senza traccia di differenziazione e solo 
gli elementi dello strato contiguo al tubo neurale tendono ad 
allungarsi nel senso della circonferenza di questo, e danno origine 
a qualche vasellino. 

In un embrione di mm. 6,5 il mesoderma comincia ad ispessirsi 
attorno alla notocorda ed accenna all’abbozzo della cartilagine, 
il quale si fa sempre più distinto avanzandosi verso le parti la- 
terali del tubo neurale negli stadi successivi di sviluppo. A 9 mm. 
l'abbozzo della cartilagine è ben manifesto, ed apparisce come 
una porzione di somito primitivo più compatto più denso, la 
quale però non abbraccia la midolla che anteriormente ed 
ai lati. 

Fra esso e questa rimane un largo strato di connettivo em- 
brionale il quale dorsalmente, dove l’abbozzo osseo cessa, si 
continua senza differenziazione istologica fino al foglietto cutaneo 
confondendosi lateralmente con il mesoderma circostante. 

È questa la meninge primitiva. Contemporaneamente i vasi 
che sono comparsi nello strato contiguo alla midolla, aumentano 
ed entrano numerosi nella sostanza nervosa costituendo l’ ab- 
bozzo della pia madre. 

Procedendo lo sviluppo (cavia mm. 11) l’abbozzo vertebrale 
si fa sempre più netto, la pia madre si fa sempre più evidente 
per lo sviluppo dei vasi, ed il connettivo embrionale della me- 
ninge primitiva va divenendo mucoso. i 

A questo stadio di sviluppo si differenzia la dura madre. Il 
fatto si compie come per le meningi cerebrali, ma varia un po’ nei 
vari animali, nelle singole porzioni della colonna vertebrale 
e nelle diverse parti di una stessa sezione. 

In tesi generale si può dire che la dura madre si sviluppa, 
come per le meningi cerebrali, sotto forma di uno strato sot- 
tile che apparisce in mezzo alla meninge primitiva e che va. 
rapidamente acquistando la struttura del tessuto fibroso. 

Nella porzione dorsale di un embrione di pecora di 27 mm. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 211 


il fatto è già evidente; è poi straordinariamente manifestato 
in uno di 45 (Fig. 16 e 17). 

Là dove l’abbozzo cartilagineo non si è ancora esteso, questo 
strato durale è ancora più evidente e circoscrive esso la cavità 
vertebrale (Fig. 16). 

Nella cavia invece, lo strato di meninge che rimane fra 
l’abbozzo durale e l’abbozzo osseo è scarsissimo da principio, 
onde i due appariscono addossati ed il primo è differenziato 
dall'altro solo per i suoi elementi allungati e diretti trasver- 
salmente. Esso però diviene distinto posteriormente, là dove 
cessa l’abbozzo delle ossa, e qui seguita segnando esso il con- 
torno della cavità vertebrale e dividendo la meninge molle dal 
rimanente mesoderma dorsale. Sulla linea mediana esso è a 
contatto col foglietto cutaneo. 

La pia madre si presenta più vascolarizzata in dietro dove 
è a contatto con la sostanza grigia. 

Allorchè poi (cavia di 12 mm., pecora di 27) comincia ad 
apparire la cartilagine, allora l’abbozzo delle ossa diviene più 
netto e lo strato durale descritto si differenzia meglio. 

Degno di nota è il fatto che lo strato durale esterno, cioè 
quello strato di connettivo che è interposto fra il primo abbozzo 
della dura madre e quello osseo, non è ugualmente distribuito. 
Esso abbonda molto più ventralmente e lateralmente, là dove 
si sviluppano i gangli spinali. 


Procedendo lo sviluppo, la formazione durale segue per un 
certo tempo l'evoluzione della colonna vertebrale all’ abbozzo 
della quale è aderente, nel tempo stesso che lo strato interno 
suo acquista sempre più una vera struttura fibrosa. 

L'abbozzo osseo si estende in dietro addossandosi, per così 
dire, ad esso con l’interposizione di uno strato più o meno 
abbondante di connettivo che costituisce lo strato durale esterno. 

Dove l’abbozzo cartilagineo non si forma, p. es. fra lamina 
e lamina, lo strato durale interno diviene più grosso. 

A questo punto noi possiamo dire che la dura madre spi- 
nale si differenzia come quella cerebrale sotto forma di uno 
strato più denso in mezzo alla meninge primitiva. Essa è anche 
qui costituita da una lamina interna fibrosa che è quella ram- 


212 G. SALVI 


mentata, e da uno strato esterno più lasso che la separa dalle 
ossa. 

È evidente quindi che la dura madre non si sviluppa dal- 
l’abbozzo delle vertebre dal momento che la si trova a limitare 
la cavità vertebrale là dove il tessuto osteogeno non s' è ancora 
esteso, e là dove non si estenderà mai. 

Ed insieme alla dura madre noi possiamo dire che a tali 
stadi di sviluppo tutte e tre le meningi si trovino perfetta- 
mente differenziate dal punto di vista istologico. La pia madre 
è stata la prima. L'aracnoide è rappresentata da quel tessuto 
che rimane interposto fra l’abbozzo durale e l’abbozzo piale. 

Però per quanto differenziate istologicamente, le tre mem- 
brane non sono affatto staccate una dall’altra quindi non si 
ha alcuna traccia di spazi, nè si può ancora parlare di vera 
aracnoide. 


Il distacco delle varie membrane si può dire che cominci 
all’epoca nella quale si inizia l’ossificazione e quando lo sviluppo 
della colonna vertebrale prende un forte vantaggio sopra quello 
della midolla. 

In un embrione di pecora lungo 8 cm. ecco quanto si osserva: 

Gli archi cartilaginei sono completi, e l’ossificazione è già 
cominciata. La dura madre è costituita da una lamina interna: 
fibrosa e da uno strato esterno lasso il quale a contatto del- 
l'osso si ispessisce notevolmente (Fig. 17). 

Questo strato è più abbondante ventralmente dove però si 
presenta più compatto. In corrispondenza det dischi interverte- 
brali diminuisce fortemente e diviene presto fibroso. Ventral- 
mente poi si trovano in esso larghe cavità sanguigne le quali 
evidentemente non sono altro che i vasi che diverranno i così 
detti seni rachidici. 

Sono cavità irregolari, a parete sottile e rivestita di endo- 
telio ed a sezione allungata nel senso trasversale. Si trovano 
generalmente in numero di due e decorrono ai lati della por- 
zione ventrale. 

In corrispondenza dei dischi intervertebrali si fanno ancor 
più laterali e si trovano all’inizio del forame intervertebrale 
compresi fra la radice anteriore ed il disco. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 213 


La dura madre è quindi a questo stadio composta di tre 
strati: uno esterno fibroso addossato all'osso, uno medio lasso 
nel quale decorrono i vasi suddetti, ed uno interno pure fibroso. 

Lo strato fibroso esterno il quale non è altro che un periostio 
molto spesso, là dove manca la formazione ossea si ispessisce 
confondendosi con le parti della protovertebra rimaste membra- 
nose e sviluppatesi come ligamenti. In avanti poi si ispessisce 
notevolmente in corrispondenza del ligamento vertebrale comune 
dorsale che esso contribuisce a formare. 

Là dove poi si formano i forami intervertebrali, questo strato 
si continua a rivestirli confondendosi all’ orificio esterno col 
connettivo perivertebrale. 

L’aracnoide si forma dal tessuto aracnoideo con lo stesso 
processo descritto per le meningi cerebrali. 

Il tessuto aracnoideo, fin da principio poco abbondante, ri- 
mane aderente alla formazione durale quando questa, seguendo 
lo sviluppo preponderante della colonna vertebrale, si allontana 
dal midello. Quando poi la dura madre a sua volta si addensa 
e diviene più decisamente fibrosa, allora il distacco si fa anche 
da questa parte, ed il tessuto aracnoideo si organizza sotto 
forma della membrana connettivale definitiva. A favorire que- 
sti distacchi certo concorre anche l'accrescimento in lunghezza 
della colonna seguìto, almeno nei primi tempi, dalla dura madre 
tuttora aderente alle ossa per il suo strato esterno, mentre la 
pia è tenuta fissa alla midolla dalle aderenze vascolari che ha 
contratto con essa (Fig. 17). 

E qui cade in acconcio qualche osservazione circa il modo 
col quale i seguaci della scuola di Brctat descrivono l’aracnoide 
spinale. 

Questa membrana, sviluppatasi nel mezzo di una massa con- 
nettivale, si è staccata da due membrane pure connettivali 
per spazi che si formano fra essa e queste, spazi, evidente- 
mente sierosi. 

Se si ammette la aracnoide sierosa, formata da due foglietti 
uno centrale libero ed uno parietale addossato alla dura ma- 
dre, converrà ammetterne ancora un altro addossato alla pia 
madre o formato da essa, e quindi una aracnoide triplice, e due 
cavità sierose limitate dalla aracnoide propriamente detta a 
guisa di tramezzo. L'endotelio delle trabecole un tempo costi- 


214 G. SALVI 


tuenti il tessuto ’aracnoideo, si è disteso sulle faccie corrispon- 
denti delle tre membrane e sui setti che le uniscono. 


Ultima questione da studiare nello sviluppo delle meningi 
spinali è il distacco della dura madre dalla parete vertebrale 
o, come altri dicono, la sua divisione in due lamine e la for- 
mazione dello spazio epidurale. 

Anche qui i fatti per nulla differiscono da quelli osservati 
per le meningi cerebrali. 

Abbiamo visto, nelle epoche embrionali più lontane la dura 
madre constare di uno strato interno più denso e di uno esterno 
più lasso nel quale si sviluppano e decorrono i vasi. 

Nel cranio lo strato lasso diviene anch'esso a poco a poco 
fibroso tranne là dove diradandosi invece di più, dà origine 
al così detto spazio epidurale di alcuni autori. 

Nella colonna vertebrale, allorchè avviene l’ossificazione e 
forse non indipendentemente dallo sviluppo che assume l’in- 
voglio osseo, esso si dirada fortemente nel mezzo mentre si 
addensa alla periferia, cioè in contiguità delle ossa. Si viene 
così a poco a poco a dividere in due strati. 

Dallo strato esterno si origina il periostio del canale ver- 
tebrale e il ligamento vertebrale comune anteriore, continuan- 
dosi esso senza interruzione con le parti della protovertebra 
rimaste fibrose e sviluppatesi come ligamenti. 

Dall'interno si origina la dura madre vera e propria. Dal 
medio lo spazio ed il tessuto epidurale ed i tratti ligamentosi. 

Per questo modo di svilupparsi lo spazio epidurale è perciò 
anch’ esso uno spazio sieroso negli animali nei quali il distacco 
delle due lamine durali è più completo. Ed infatti si ha anche 
qui un rivestimento endoteliale bene evidente. 

In altri animali invece, come il due e la pecora, il tessuto 
durale intermedio resta come connettivo lasso carico di adipe, 
e non si forma quindi un vero spazio epidurale. 

In altri infine, come i pesci (trygor, torpedo), la dura madre 
non si stacca affatto dalla parete vertebrale cartilaginea e vi 
rimane a guisa di membrana fibrosa aderente, come è nei mam- 
miferi fino a che l’abbozzo delle vertebre rimane cartilagineo. 
In questi animali le due radici dei nervi spinali attraversano 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 215 


la dura madre e la cartilagine della vertebra per due forami 
distinti. Questa disposizione trovasi conservata in parte nei 
mammiferi, come la pecora, nei quali le due radici attraversano 
la dura madre anche a sviluppo completo per due forami di- 
stinti ed abbastanza lontani uno dall'altro, mentre trovasi ri- 
dotta allo stato di traccia nell'uomo, sotto forma di quel piccolo 
setto che divide i due forami di uscita. 

Rapporto delle meningi spinali coi gangli e con le 
radici dei nervi. -— La cresta neurale di BaLrour dalla quale 
si sviluppano i gangli spinali, si spinge in mezzo alla meninge 
primitiva ancora indifferenziata, e lo stesso fanno le: radici 
nervose. 

Allorchè comparisce l’abbozzo delle ossa, essi vengono com- 
presi fra questo ed il tubo midollare e, differenziandosi le me- 
ningi, essi conservano gli stessi rapporti. 

Allorchè si forma la lamina durale interna, i gangli ven- 
gono compresi fra questa e il tessuto osteogeno nel mezzo. dello 
strato esterno della dura qui molto abbondante e ricco di vasi 
e in corrispondenza del forame intervertebrale. In un embrione 
di pecora di 8 cm. si vede il ganglio sepolto in mezzo al connet- 
tivo che occupa lo spazio ove sarà poi il forame intervertebrale, 
e le due radici del nervo attraversano la dura madre che s'è 
differenziata attorno ad essa molto distanti una dall'altra, di 
modo che un largo tratto di lamina durale resta interposto fra 
i due forami (Fig. 18). 

Lo strato durale interno, si forma e si addensa attorno alle 
radici e lo stesso fa quello esterno. Quando poi questo si di- 
rada e si forma lo spazio epidurale, un po’ di connettivo resta 
addosso alle radici, al ganglio ed al nervo, formando loro una 
sorta di guaina rivestita naturalmente di endotelio, la quale 
sì continua con la lamina durale interna dove questa viene 
perforata dalle radici, e con quella esterna addossata all'osso, 
in corrispondenza del forame intervertebrale. Si forma cioè una 
specie di canale connettivale che comprende tutta la spessezza 
della dura madre primitiva. All’indentro della dura madre poi, 
le radici si trovano ad attraversare il tessuto aracnoideo e la 
pia, i quali pure all’epoca del differenziamento e del distacco 
forniscono loro il resto della guaina così detta aracnoidea o 
piale di alcuni autori. 

Sc. Nat., Vol. XVI 14 


216 | G. SALVI 


A sviluppo completo, anche nella pecora lo spazio che in- 
tercedeva fra i forami per i quali le radici spinali attraversa- 
vano la dura madre, trovasi ad essere molto ridotto. 

Prolungamenti delle meningi spinali. — Dei prolunga- 
menti delle meningi spinali entro la midolla, quello che ha 
sollevato le controversie e le discussioni maggiori è stato il 
così detto setto posteriore. 

Esso fu descritto da una quantità di anatomici come un 
vero e proprio prolungamento della pia madre che, intromet- 
tendosi in un solco posteriore ben delimitato, arrivasse fino alla 
commessura.; fu da altri limitato in vario modo, da altri in- 
fine negato del tutto. 

Allo stato attuale delle nostre conoscenze, noi ci troviamo 
di fronte a due fatti egualmente accertati ed inconfutabili. 

Le ricerche di Berrenti(' hanno messo in evidenza come 
il così detto solco posteriore non meriti tal nome che per la por- 
zione sua più superficiale, mentre per il resto non è che rap- 
presentato da una serie di forami vicini l’uno all’altro ed ap- 
profondantisi verso la commessura, separati da lacerti midollari; 
e come il sepimento meningeo sia costituito da una serie di 
lamelle connettivali che accompagnano i vasi scorrenti nei detti 
forami. 

Nel tempo stesso, il metodo di Gore applicato dopo le ricerche 
di KécLiker (2), Ercgorsr (3) e Lorwe (4), da Lenmosseg (5), Van 
Genucaten (5) Rerzius (*) e Cavat (5), ha fatto entrare gli anato- 


(4) BertELLI D. — Rapporti della pia madre con i solchi del midollo spinale umano. 
Mem. della Soc. Tosc di Sc. Nat. vol. XII. Pisa 1893. 


(®) KoruigeR A. — Entwichlungsgeschichte des Menschen und der hòheren Thiere. 
Leipzig. 1879. : i 
(3) Ercnorst. — Ueber die Entwicklung des Menschlichen Riickenmarkes und sei- 


ner formelemente. Virch. Arch. 1875. Bd. LXIV. 

(4) Loewe L. — Bettrige zur Anatomie und Entw. des Nervensystems der Saiige- 
thiere und des Menschen. Leipzig. 1883. 

(5) Lenzosser M. — Zur Kenntnis der Neurolia des menschlichen Riickenmarkes 
Ver. d. Anat. Gesell. Miinchen 1891. 

(6) Van GrHUCHTEN. — Anatomie du système nerveux de V Homme. Louvain. 1897. 

(7) Rerzius F. — Studien iiber Ependym und Neuroglia. Biolog. unters. V, Stoc- 
kolm. 1893. 

(8) Ramon y Cavan. — Contribucion al estudio de la estructura de la medula espinal. 
Revista trim. de hist. norm. y pat. 1889. 

Nuevas observaciones sobre la estructura de la medula espinal de los mammi- 
feros. Barcelone 1890. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 217 


mici nel concetto che il così detto solco posteriore non sia che 
una porzione di midolla spinale occupata, non da elementi estranei 
alla midolla stessa, ma da prolungamenti di cellule ependimarie 
e da prodotti di modificazione di queste cellule, costituenti quello 
che Loewe chiamò filamento corneo posteriore, e LeNHOSSsEK cuneo 
ependimario. 

Come le due asserzioni possano stare insieme, merita che 
venga spiegato col soccorso della embriologia. 


Lo sviluppo del così detto solco posteriore ha dato origine 
ad una ricca bibliografia, e lo stato della questione trovasi 
riassunto in questi termini nel trattato di Quan (4). 

“È incerto se la scissura posteriore sia in parte formata 
dalla porzione dorsale del canale centrale obliteratosi, occupata 
da una emanazione della pia madre e convertita in un vero 
setto di connettivo, o se questa scissura col suo setto di con- 
nettivo si formi indipendentemente dal canale centrale che 
con l’estendersi della scissura si atrofizza grado a grado fino a 
che si converte nel tubo epiteliale rudimentale che persiste 
durante la vita ,. 

Propugnatori della prima teoria furono Forster e BaLrovr(?), 
della seconda: Bmper e Kurrer (3), Lusmorr (4), KoLuker (5), 
Waxperer (5), Hermwie (7). 

Oltre questi però, una serie di ricercatori, indirizzò i suoi 
studi a dimostrare come il così detto solco posteriore non sia 
che una porzione modificata della midolla spinale, e questi non 
parlarono di sepimento meningeo. 


(4) Quarn F. — Trattato completo di anatomia umana. Trad. Lachi. Milano. 
(*) Forster M. und BaLrour F. M. — The Elements of Embryology. 1874. 
BaLrour F. M. — A Treatise on Comparative Embryology. London 1880. 

(*) Broper F. und Kuprer CO. — Untersuchungen iiber die Textur des Ricken- 
markes und Entwicklung seiner formelemente. Leipzig. 1857. 

(4) Lusinore. — Embryologische und hist. Unters. uber das sympathetische und 
centrale cerebrospinal Nervensystem. Virch. Arch. f. Phys. Bd. LX. 1874. 

(9) KoLLIKER A. — Loc. cit. 

(9) Wanpever W. — Ueber die Entw. des Centralkanals im Rickenmarkes. Virch. 
Arch. Bd. LXVIII, 1876. 

(*) Hegrwia 0. — Trattato di embriologia dell'uomo e dei vertebrati. Trad. Cioia, 
Milano. 


218 G. SALVI 


Lorwe (*), studiando i fatti nel coniglio, affermò che la 
porzione dorsale del canale centrale veniva obliterata per sem- 
plice accollamento delle sue pareti e che la fessura così forma- 
tasi veniva riempita da un fascio di fibrille, provenienti da 
trasformazione cornea delle cellule stesse dell’ependima venute a 
contatto, le quali andavano poi ad attaccarsi alla pia madre che 
riveste il solco posteriore. 

Barnes (?) disse invece essere la riduzione del canale centrale 
e lo sviluppo delle colonne posteriori due fatti assolutamente 
indipendenti, ed essere invece i cordoni posteriori che svilup- 
pandosi producono fra di loro la scissura posteriore che viene 
riempita dalle fibre derivate dalle cellule epiteliali del canale 
centrale. 

Visnar (3) sostenne che la parete dorsale del canale centrale 
si obliterasse non per semplice accollamento delle cellule epen- 
dimarie, ma per attiva proliferazione di esse, onde lungo la 
linea mediana si forma, non una fessura, ma una sottile parete 
costituita dai prolungamenti delle cellule stesse, lungo la quale 
decorrono i cordoni posteriori separati l’uno dall’altro da pro- 
lungamenti della pia madre. 

Roginson (4) confermò essere il così detto solco posteriore 
una porzione modificata della midolla, mentre il vero solco non 
è rappresentato che da una doccia transitoria prodotta dal ra- 
pido accrescimento dei corni posteriori e che viene subito a 
scomparire per lo sviluppo dei cordoni posteriori. 

PrenANT (°) considera perfettamente analoghi i due solchi 
anteriore e posteriore perchè ambedue costituiti da un solco 
superficiale e da un setto profondo interposto fra quello e il 
canale. 


Le mie ricerche sopra embrioni di cavia mi hanno condotto 
ai seguenti resultati. 


(4) Loewe L. — Loc. cit. 

(?) Barnes. — On the development of the posterior fissure ete. (Proc. Amer. Accad. 
arts and sc. 1884. 

(8) Vienan. — Sur le développement des élèments de la moelle des mammiféres. 
Arch. de physiologie 1884. 

(4) Rosinson A. — The development of the posterior columns, of the posterior fis- 
sure, and of the central canal of spinal cord. Studien in Anat. Owen’s College. Vol. I, 1892. 

(>) PrenanT A. — Éléments d’Embryologie del Homme et des Vertebrés. Paris, 1896, 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 219 


Nell’embrione di mm. 3 le due commessure, anteriore e po- 
steriore, sono del tutto superficiali. La massa cellulare del tubo 
neurale è ancora indifferenziata e solo ai lati apparisce il ru- 
dimento dei cordoni. Il canale centrale ha la forma di una fes- 
sura sagittale. 

Nell’embrione di mm. 5,5 cominciano ad apparire le colonne 
anteriori le quali sporgono subito in avanti onde la commes- 
sura viene ad infossarsi e si ha la prima apparenza del solco 
anteriore. A tale stadio tutta la porzione anteriore e laterale 
della midolla è rivestita di uno strato di sostanza bianca. La 
meninge primitiva riempie il primo abbozzo del solco anteriore. 

Il canale centrale, aperto in avanti, mostra subito dopo le 
sue pareti addossate; ed indietro, lo strato ependimario della 
commessura posteriore è sempre addossato alla meninge pri- 
mitiva. 

Mano a mano che lo sviluppo procede, le colonne ed i cor- 
doni anteriori, sviluppandosi sempre più, producono un infossa- 
mento sempre maggiore della commessura anteriore, ed il solco 
sì stabilisce nettamente, occupato da un prolungamento della 
meninge che contrae subito con la sostanza nervosa aderenze 
vascolari. 

Lo stesso però non avviene per le colonne ed i cordoni 
posteriori. 

Le osservazioni di Hensen (!), His (?), Bioper e KupreR (°), 
CLarke (*), FrecHsie (9), Ercmorst (5), KoLuKER (7), hanno dimostrato 
come la sostanza grigia del segmento posteriore della midolla 
spinale si differenzi in seno alla massa cellulare che attornia 
il canale centrale molto tardi, quando cioè la sostanza grigia 
e la sostanza bianca delle colonne e dei cordoni anteriori sono 
già bene costituite. 


(1) Hensen V. — Loc. cit. 

(2) His. — Zur Geschichte des menschlichen Riickenmarkes und der Nervenwurzeln. 
Abh. d. math-phys. KI. d. k. Stichs. Ges. d. Wiss. Bd XIII, 1886. 

(3) Bioper und Kuprer. — Loc. cit. 

(i) Crarke J.L. — Researches on the development of the spinal cord in Man, 
Mammalia and Birds. Phylos. Trans. Royal. Soc. London, 1862. 

(°) FLecHasIG P. — Leitungsbahnen im Gehirn und Riickenmark des Menschen auf 
Grund entwichlungsgeschichtlicher. Leipzig, 1876. 

(9) Ercnorst. — Loc. cit. 

(7) KoLwiKER. — Loc. cit. 


220 G. SALVI 


Formandosi in tal modo le colonne posteriori, la massa cel- 
lulare stessa viene molto ridotta e ne resta solo una piccola 
quantità sotto forma di una specie di prolungamento dorsale 
dell’ependima corrispondente alle due pareti del canale venute 
a contatto, e costituente una specie di sepimento mediano che 
separa le colonne posteriori. La sostanza bianca segue natu- 
ralmente questa formazione. 

Ed infatti, nell'embrione di mm. 6,5 i cordoni posteriori ap- 
pariscono come due masse ellittiche situate ai lati ed un po’ più 
“ anteriormente del rigonfiamento che presenta‘in dietro la massa 
cellulare ependimaria. Essi comunicano ampiamente coi cordoni 
laterali, ma cessano ben presto in dietro ove la commessura 
posteriore, del tutto superficiale, è addossata alla meninge. 

Procedendo lo sviluppo la sostanza bianca aumenta ante- 
riormente ed ai lati, e nello stesso tempo differenziandosi la 
pia madre, i vasi penetrano numerosi nella sostanza nervosa. 
Questo fatto si nota in ispecie dorsalmente ove la commes- 
sura posteriore è ancora in rapporto con la meninge. A poco 
a poco comincia a differenziarsi la sostanza grigia delle colonne 
posteriori, e lo strato ependimario ne rimane assottigliato e 
nello stesso tempo la sostanza bianca dei cordoni posteriori si 
estende sempre più dorsalmente. 

Nell’embrione di 16 mm. la sostanza grigia ha preso il suo 
aspetto anche dorsalmente. All’indietro del canale centrale le 
due colonne posteriori si trovano separate da una specie di 
prolungamento affilato dell’ependima il quale però, apparente- 
mente, non arriva più fino alla pia madre separatone dallo 
strato di sostanza bianca dei cordoni posteriori adesso ben 
manifesto. 

Nelle sezioni trattate coi metodi comuni di colorazione, si 
vedono i cordoni dei due lati separati solamente nella linea 
mediana da sottili vasellini che, provenendo dalla pia madre, 
raggiungono l’ependima Se si tratta però questo embrione col 
metodo di Gore si vede che lo strato bianco è attraversato 
nettamente ancora sulla linea mediana dai prolungamenti epen- 
dimari che raggiungono la meninge. 

Procedendo ancora lo sviluppo (cavia 24 mm.) la sostanza 
bianca apparisce sempre più al lato interno delle colonne grigie 
posteriori approfondandosi per così dire dai due lati della linea 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 221 


mediana verso il canale centrale. E con questo progredire dei 
funicoli posteriori anche il prolungamento ependimario sembra 
ritirarsi e raccorciarsi, e ciò apparisee co’ metodi comuni di 
colorazione, ed è stato quello che ha potuto dare l'illusione che 
un vero solco si venisse in tal modo a formare. 

Ma in realtà questo raccorciamento è solo apparente giacchè 
le fibre ependimarie, svelate dal metodo di Gore, persistono 
sempre e, per quanto la sostanza bianca si sia per così dire 
sostituita alla massa cellulare primitiva, la porzione di questa 
destinata a dare origine agli elementi di sostegno è rimasta, 
ed ha conservato il nesso tra le due parti della midolla tanto 
nella porzione già invasa da funicoli posteriori, quanto in quello 
che è ancora sostanza grigia. 

I vasi poi che fino da principio hanno attraversato questa 
linea mediana per raggiungere la sostanza grigia e l’ependima, 
allontanandosi queste dalla superficie posteriore della midolla, 
si allungano anch’ essi per mantenersi in rapporto con le parti 
che sono destinati a nutrire. 

Solo ad un’ epoca molto avanzata di sviluppo, cioè nell’em- 
brione di 30 mm., i cordoni posteriori sporgono un po’ dorsal- 
mente, ed allora quella che era la commessura posteriore pri- 
mitiva si infossa alquanto e si forma un solco leggiero. Natu- 
ralmente la pia madre segue questa formazione per le aderenze 
che è venuta contraendo con la superficie della midolla spinale. 

Nell’embrione di 40 mm. i fatti che si osservano sono i 
seguenti: 

Sulla linea mediana andando dall’avanti all’ indietro si trova: 
Il solco mediano anteriore occupato da un prolungamento me- 
ningeo evidentissimo; la commessura anteriore nella quale il 
metodo di GoLer rivela il cono ependimario anteriore; il canale 
centrale molto piccolo al quale fa seguito una specie di prolun- 
gamento cuneiforme ed assottigliato dell’ependima che si pro- 
lunga fino al limite al quale si sono estesi i funicoli posteriori. 
Viene poi una specie di sepimento fra questi funicoli di natura 
molto complessa. 

Esso consta dei vasi che provengono dalla pia madre, del 
resto dei prolungamenti delle cellule ependimarie e dei tramiti 
ependimari e nevroglici che si sono stabiliti nel corso dello 
sviluppo fra le due pareti del canale centrale venute a con- 


222 G. SALVI 


tatto, e che fanno di questo setto solo una porzione della mi- 
dolla spinale nella quale non si sono formati gli elementi 
nervosi. 

In ultimo si vede il solco posteriore molto corto ed occu- 
pato da un prolungamento della pia sotto forma di ripiegatura 
a cuneo che comprende dello scarso tessuto aracnoideo. 

Col progredire ancora dello sviluppo i funicoli posteriori 
si estendono sempre più verso il canale centrale e la commes- 
sura posteriore diminuisce di altezza; contemporaneamente i 
prolungamenti ependimari vanno come osserva Van GEHUCATEN 
atrofizzandosi. 

Due cose però vanno invece aumentando: 

Da una parte gli elementi connettivali attorno ai vasi sotto 
forma di guaine e di connettivo di sostegno, dall'altra la ne- 
vroglia, onde, a termine di sviluppo, si vedono cellule di ne- 
vroglia occupare la linea mediana ed altre, laterali a questa, 
mandare i loro prolungamenti da una parte all’altra. 

Nell’embrione umano di 18 mm. si vede il setto posteriore 
come l'ha figurato Rerzius e occupato cioè dai prolungamenti 
ependimari ai quali però si aggiungono i vasi che scendono 
dalla pia madre (Fig. 20). 

Nel feto a termine il metodo di Gorer mette invece in evi- 
denza una quantità di cellule nevrogliche le quali occupano il 
setto ed incrociano i prolungamenti loro attraverso di questo 
(Fig. 21). 

Da ciò risulta come sulla linea mediana posteriore non 
si abbia un solco, ma una porzione della midolla spinale nella 
quale non si trovano elementi nervosi sibbene solo elementi di 
sostegno. 

E questo spiega ancora come il sepimento meningeo poste- 
riore trovisi nell'adulto costituito da due porzioni ben distinte. 
Una. più superficiale, la quale merita invero il nome di pro- 
lungamento, che è accolta nel vero solco, e che è costituita 
dalle due lamine piali convergenti a forma di cuneo e separate 
da lasso tessuto aracnoideo attorniante i vasi; una profonda, 
la quale non è costituita altro che da trabecole e lamelle con- 
nettivali incrociantisi a sostegno dei vasi che penetrano pro- 
fondamente, dipartendosi insieme ad esse dall’apice del cuneo 
piale. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 223 


CONCLUSIONI. 


Le meningi provengono tutte dalla meninge primitiva. Que- 
sta è uno strato di connettivo embrionale il quale, allorchè 
lo strato osteogeno si differenzia in seno alla capsula meso- 
dermale che involge i centri nervosi, rimane fra questi e quello. 

La pia madre si differenzia per la prima ed è caratteriz- 
zata dai vasi che si formano a ridosso della parete neurale. 

La dura madre si sviluppa in seguito con un abbozzo du- 
plice rappresentato da uno strato che diviene subito più fibroso 
nel mezzo della meninge primitiva e da un altro più lasso che 
rimane interposto fra questo e lo strato osteogeno. 

Nel cranio questi due abbozzi danno rispettivamente ori- 
gine ai due strati della dura madre; nella colonna vertebrale 
l'esterno o si dirada tanto da produrre lo spazio epidurale, o 
dà origine al connettivo lasso e adiposo che si trova in quella 
regione. Una parte di esso, addensandosi a contatto delle ver- 
tebre, costituisce lo strato esterno della dura madre dell'adulto. 

L’aracnoide proviene dalla porzione di meninge primitiva 
interposta fra l’abbozzo durale e l’abbozzo piale. 

Nel cranio essa si distacca solo da parte della dura madre 
per l’organizzazione fibrosa che assume questa membrana, e si 
produce lo spazio subdurale, mentre rimane aderente alla pia 
per tessuto connettivo lasso (tessuto aracnoideo) o per sepi- 
menti circoscriventi più ampie cavità (cavità aracnoidee). Nella 
colonna vertebrale prima si distacca dalla pia, aderente alla 
superficie della midolla perchè segue la dura madre la quale a 
sua volta segue l’osso nel suo sviluppo preponderante; poi si 
distacca anche da questa per la stessa ragione sopra esposta, 
e si organizza sotto forma di una membrana isolata, dando ori- 
gine ad un solo grande spazio (subaracnoideo) invece che ad 
una serie di cavità confluenti. 

La pia madre entra nei grandi solchi primari perchè si dif- 
ferenzia in situ dalla meninge primitiva che è penetrata in essi; 
in quelli che si formano dopo per le aderenze contratte con 
la superficie nervosa. 

I seni della dura; madre non sono altro che vene della me- 


224 G. SALVI 


ninge primitiva le quali vengono incluse nella formazione della 
dura madre e precisamente nello strato esterno di questa, come 
le vene diploiche in quella dell'osso e le epicerebrali in quella 
della pia madre. Le vene rachidiche dal punto di vista del loro 
sviluppo sono perfettamente omologhe ai seni cerebrali. 

I prolungamenti delle meningi cerebrali sono rappresentati 
nell’embrione da altrettanti prolungamenti della meninge pri- 
mitiva. Questi prolungamenti danno più specialmente origine 
alle meningi molli dei solchi rispettivi, mentre il prolunga- 
mento durale per molto tempo non è rappresentato che dal- 
l'angolo che fa nel solco lo strato interno della dura madre 
avvolgendo i seni e che si svilupperà più tardi in modo tutto 
particolare. 

La gran falce del cervello si sviluppa da quella sporgenza 
che fa l’abbozzo interno della dura madre contornando il seno 
sagittale superiore. Questa sporgenza si cambia nel seguito 
dello sviluppo in una vera piega la quale si approfonda fino a 
raggiungere il seno sagittale inferiore mentre le sue due pa- 
reti e il tessuto interposto si cambiano in un'unica lamina 
fibrosa. 

Il tentorio embrionale è rappresentato da quel prolunga- 
mento della meninge primitiva che entra sotto forma di la- 
mina fra il telencefalo e il diencefalo, e nella periferia del quale 
scorre il seno trasverso. 

La porzione più profonda di esso dà origine alla tela co- 
roidea superiore. La più superficiale accoglie un prolungamento 
della dura madre sotto forma di piega che si manifesta all’in- 
dietro del seno trasverso e migra con questo posteriormente 
allungandosi fino a prendere la sua conformazione e la sua 
posizione definitive. 

Lo sviluppo dimostra come il seno retto non. venga com- 
preso nel tentorio che si forma dietro ad esso, ma piuttosto 
nella falce. 

Il diaframma dell’ipofisi è pure costituito da una piega tra- 
sversale della dura madre la quale si solleva nel pilastro di 
Rarage; la faccia anteriore di questa piega si incava per ac- 
cogliere l’ipofisi, e sporge al di sopra di questa a guisa di tetto. 

La tela coroidea del 4.° ventricolo si forma molto più tardi 
dei plessi, da un leggiero ispessimento fibroso il quale sì stabilisce 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI 2925 


nel connettivo situato nell’infossamento che sopporta i plessi 
stessi. Questi, alla loro volta, si sviluppano molto lontani dal 
cervelletto e la loro situazione definitiva è dovuta all’evolu- 
zione delle parti circostanti dell'encefalo. 

Dei prolungamenti delle meningi spinali, il sepimento an- 
teriore si sviluppa dal prolungamento della meninge primitiva 
che si è spinto nel solco. 

Il posteriore è superficialissimo e si sviluppa molto tardi, 
come una vera ripiegatura della pia madre già differenziatasi 
ed aderente alla superficie spinale. Quello descritto come la 
parte più profonda del prolungamento è costituito solo dai vasi 
che si dipartono dall’apice della ripiegatura per raggiungere 
la sostanza grigia, accompagnati da poco connettivo perivasale, 
attraversando il setto posteriore il quale .è costituito da una 
porzione della midolla nella quale non sono elementi nervosi 
ma solo elementi di sostegno. 


SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA 


C — Cute. | 
CR. — Cranio. 

DME-— Strato esterno della dura madre. 
DMI— Strato interno  » » » 

PM — Pia madre. 


TA — Tessuto aracnoideo. 

P.I — Aracnoide. 

D — Telencefalo. 

D — Diencefalo. 

M — Mesencefalo. 

SLS — Seno longitudinale superiore. 
ST. — Seno trasverso. 

SER — Seno retto. 

F — Falce del cervello. 

TC. — Tentorio del cervelletto. 
CB. — Cervelletto. 

FS. - Scissura longitudinale. 
SS — Sutura sagittale. 


PR — Pilastro di RATHKE. 

ADM— Abbozzo della dura madre e del diaframma dell’ ipofisi. 
IP. — Ipofisi. 

IPC — Abbozzo del lobo posteriore dell’ ipofisi. 

IPF — Abbozzo del lobo anteriore dell’ ipofisi. 

DI — Diaframma dell’ipofisi. 


AB — Arteria basilare. 

NC — Notocorda. 

MP — Meninge primitiva. 

VMA — Velo midollare anteriore. 

VMP— » » posteriore. 

APC — Primo abbozzo dei plessi coroidei del 4.° ventricolo. 
PC — Plessi coroidei del 4.° ventricolo. 

TC. — Tela coroidea del 4.° ventricolo. 

MS. — Midollo spinale. 

CV — Cartilagine vertebrale. 


VR — Seni rachidici. 
DMP- Strato periferico del foglietto esterno della dura madre che diventa 
fibroso in contiguità dell’abbozzo osseo. 


L'ISTOGENESI E LA STRUTTURA DELLE MENINGI ‘ SOY 


(0) — Processo d’ossificazione delle vertebre. 

LG — Ligamento fra le lamine. 

RA — Radice anteriore dei nervi spinali. 

RP — » posteriore. 

GS — Ganglio spinale. 

CC. — Canale centrale. 

PPM— Prolungamento della pia madre nel solco posteriore della midolla 
spinale. © 

SP — Setto posteriore della midolla spinale. 

SLP — Solco posteriore della midolla spinale. 

CP — Cordoni posteriori. 

E — Ependima. 

CE — Cellule ependimarie. 

FE — Prolungamento delle cellule ependimarie (cono ependimario posteriore). 

CN — Cellule di nevroglia. 


Le figure sono state disegnate col microscopio di Hartnak. Obiett. 4, ocul. 1, 
ed alcune, in seguito, alquanto rimpiccolite. 


Hugo 


» 3 
» 4 
Fig. 5 
» 6 
» UT 


Sezione sagittale mediana della testa di un embrione di cavia lungo 
mm. 20 in corrispondenza del solco che a tale stadio di sviluppo 
rimane fra telencefalo (T) e mesencefalo (M). 

L’abbozzo del cranio (C) limita esternamente la meninge primitiva 
e la pia madre (P M) s’ è differenziata nello strato più interno. L’ab- 
bozzo della dura madre è rappresentato dallo straterello DMI e dallo 
strato di tessuto interposto fra questo e il cranio (DME). L’aracnoide 
è rappresentata dallo strato T A. 

Nello strato esterno della dura madre sono comprese le vene che 
diventeranno il seno longitudinale superiore (SLS) ed il seno tra- 
sverso (ST); nel tessuto aracnoideo, il seno retto (S R). 


. Sezione e. s. di un embrione di cavia di mm. 24. Lo strato esterno 


della dura madre comincia a divenire fibroso, ed il tessuto aracnoideo, 
lasso. La dura madre contornando il seno trasverso, sporge alquanto 
nel solco e costituisce l’abbozzo del tentorzo. 


. Sezione frontale della testa di un embrione di cavia di mm. 24 attra- 


verso l’estremità posteriore degli emisferi. Gli abbozzi delle 3 mem- 
brane si vedono distintamente. 


. Sezione ce. s. di un embrione di cavia di mm. 25 verso la metà degli 


emisferi. Lo strato interno della dura madre sporge nella scissura 
sagittale a costituire l’abbozzo della falce del cervello. 


. Sezione c. s. di un embrione di cavia di mm. 58. La falce seguita a 


svilupparsi sotto forma di una piega dello strato durale, che si ap- 
profonda nel tessuto aracnoideo della scissura (F). 


. Sezione sagittale mediana della testa di un embrione di cavia di mm. 58. 


L’abbozzo del tentorio(T) si sviluppa, sotto forma di piega dello strato 
durale, al di dietro del seno trasverso (ST) e del seno retto (SR). 
L’ossificazione del cranio è già avanzata. 


. Sezione sagittale mediana del pilastro di RATHKE di un embrione di 


cavia di mm. 6. L’ abbozzo dell’ipofisi sporge nella meninge em- 
brionale e questa forma al di sopra di esso una specie di sprone nel 
quale è l’abozzo del diaframma (A D 1). 


10. 


Jul 


12. 


13. 


14. 


15. 


16. 


IT 


IIS) 


20. 


21. 


G. SALVI 


. Sezione c. s. della regione del pilastro di RATHKE di un embrione di 


cavia di mm. 20. La dura madre si spinge nel pilastro e si ripiega 
al di sopra dell’ipofisi formandole il diaframma (DI). Il pilastro di 
RATHKE è in piena involuzione. 


. Sezione ce. s. di un embrione di cavia di mm. 36. Il tessuto connettivo 


interposto fra le due lamine del diaframma, è divenuto anch’ esso 
fibroso non permettendo più di distinguerle. 

Sezione sagittale mediana della testa di un embrione di cavia di mm. 7. 
Molto indietro della lamina cerebellare si vede l’ epitelio cilindrico 

‘ dell’abbozzo dei plessi coroidei. 

Sezione c. s. di una cavia di mm. 11. Comparisce il prolungamento 
meningeo dei plessi coroidei. 

Sezione c. s. di una cavia di mm. 14. Il prolungamento dei plessi co- 
roidei si trova molto ravvicinato al cervelletto e più sviluppato. 
Sezione ce. s. di una cavia di mm. 24. Il cervelletto sporge alla super- 
ficie dell’encefalo e comparisce l’abbozzo della tela coroidea (TC). 
Sezione c. s. di una cavia di mm. 36. I fatti esposti sopra si rendono 
più evidenti e nel tempo stesso apparisce ciò che diventa il tfentorio 

di KOLLIKER. 

Sezione c. s. di una cavia di mm. 58. La tela coroidea (TC) è piena- 
mente sviluppata, ed il fentorio di KoòLLIKER ha dato origine alla 
pia madre ed all’ aracnoide delle regioni encefaliche respettive. 

Sezione trasversa al principio della porzione dorsale di un embrione 
di pecora di mm. 27. Gli archi vertebrali cartilaginei (CV) sono in- 
completi nel terzo posteriore. La dura madre è differenziata ed il 
suo strato interno, forma in dietro da solo il limite della cavità ver- 
tebrale. Lo strato esterno abbonda ventralmente dove racchiude le 
vene rachidiche (SV), scarseggia ai lati, e si continua sino alla cute 
dorsalmente. La pia madre è differenziata, e fra essa e la dura è il 
tessuto aracnoideo (TÀ). 

Sezione c. s. alla fine della porzione cervicale di un embrione di pecora 
di cm. 8. Gli archi cartilaginei sono completi ed in essi comincia 
l’ossificazione (0). La sezione, un po’ obliqua, lascia vedere dorsal- 
mente l’ arco cartilagineo interrotto da tessuto fibroso il quale è il 
ligamento interlaminare (LG). Si vede la dura madre confondersi con 
questo. Lo strato esterno della dura è addensato a contatto dell’osso. 
L’aracnoide è quasi completamente distaccata. 

Sezione trasversa della porzione dorsale della midolla spinale di un 
embrione di cavia di mm. 40. La pia madre si infossa nel solco po- 
steriore e termina nettamente, non essendo la sezione caduta in cor- 
rispondenza di uno dei vasi che da essa si dipartono. 

Schematizzata dalla sezione trasversa del midollo spinale di un embrione 
umano di mm. 18 trattato col metodo di GoLG1, e rappresentante il 
setto posteriore. Si vedono i prolungamenti ependimari che percor- 
rono sagittalmente il setto. 

Come sopra da un feto umano a termine. Si vedono le cellule di ne- 
vroglia incrociare i loro prolungamenti attraverso il setto, ed alcune 
occupare il setto stesso, spingendo i loro prolungamenti lungo questo. 


PROF. G. RISTORI 


—_—e ree___& 


CALI D'ORSO NEL QUATERNARIO DI PONTE ALLA NAVE 


(DINTORNI D’ AREZZO ) 


NOTA, PALEONTOLOGICA 


La straordinaria quantità dei resti fossili di Ursus spelacus, 
che fino ad ora sono stati trovati in Italia e fuori, ed i mol- 
teplici studi che li hanno illustrati pongono in chiaro che que- 
sta singolarissima specie, così nettamente distinta da tutte 
le altre fossili e viventi, nella sua evoluzione nel tempo e nello 
spazio mantenne il carattere polimorfo tipico della famiglia degli 
ursidi. Questo dà ragione delle varietà che furono successiva- 
mente distinte e distaccate dalla specie U. spelaeus Rosen- 
muLLER (1). 

La Si A del tipico orso delle caverne è la se- 


guente Li ci po Mi per la quale questa specie si discosta 


più di Bi i AL viventi e fossili i MLA formula den- 
taria della famiglia che è la seguente 1; ci E i M3. Altri 
caratteri dentari, fra cui primeggia la 10 robustezza dei 
canini, concorrono insieme ad alcune particolarità anatomiche 
delle ossa faciali e craniensi non che di quelle del tronco e 
degli arti, a distinguere l'orso speleo tipico (2). Non è però qui 
il caso di tornare ad enumerare e discutere i caratteri anato- 
mici dello scheletro del vero Ursus spelaeus e tanto meno stu- 
diarne comparativamente il loro valore e la loro costanza. A 
questo occorrerebbe un ben più ricco materiale di quello che 
ho potuto avere a mia disposizione; giacchè l'argomento, per 


(1) 0oss. fossit Animal. p. 18 (1794). 
(2) Issen. — Liguria geologica e preistorica. Vol II, pag. 273. 


230 G. RISTORI 


quanto tuttora interessante e degno di studio ulteriore, è stato 
discusso con molta competenza da molti fra cui ricorderò il 
Trurar (!) che fece uno studio dei crani d’orsi fossili delle ca- 
verne dei Pirenei, il Newron (?), l'Owen (3) e fra: gl’italiani lo 
StroBeEL, l’Isser ed altri ancora, che si sono più o meno diffusa- 
mente occupati di speleologia italiana. Lo scopo di questa sempli- 
cissima nota è l'illustrazione di una branca mandibolare di orso 
ultimamente ritrovata nel quaternario di Ponte alla Nave presso 
Arezzo e conservata nel Museo dell’ Accademia del Poggio in 
Montevarchi; giacche l orso non era stato ancora indicato nella 
fauna mammologica quaternaria dei dintorni della città sud- 
detta e della pianura, pure quaternaria, della Chiana. 

Abbiamo già indicata la tipica formula dentaria dell’ Ursus 
spelaeus, la quale ha costanza abbastanza notevole; tantochè 
qualcuno si è creduto autorizzato ad escludere da quella 
specie tutti i resti di Ursus che non la presentassero tale. 
L'esame però più accurato del molto materiale ‘ritrovato in 
Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra ed in altre 
località europee ed anche estraeuropee, ha fatto concludere 
che la riduzione della formula dentaria degli ursidi, che ap- 
punto consiste nella scomparsa di tutti i premolari meno del 
quarto, non è carattere assoluto dell’ U. spelaeus; ma che esi- 
stono individui riferiti e giustamente riferibili a quella specie, 
i quali presentano conservati due premolari invece di un solo. 
La ricomparsa del primo premolare gemmiforme per correla- 
zione di sviluppo fa logicamente supporre che in questi individui 


la formula dentaria dovesse essere la seguente I > C ID - M 5 


Del resto se questa ricomparsa si limitasse alla mandibola 
sarebbe piuttosto a considerarsi come carattere atavico, non 
avrebbe nessuna correlazione, nè potrebbe ritenersi  modifi- 
cata o modificabile la formula dentaria tipica dell’ U. spe- 
laeus. D'altronde l’'incostanza e la caducità più o meno pre- 
coce dei premolari anteriori gemmiformi negli orsi viventi e 


(1) Etude sur la forme generale du crane chez l'ours des cavernes. Bull. de la 
Soc. d’ Hist. nat. de Toulouse, Tom. I, pag. 67, Toulouse 1867. 

(2) The Vertebrata of the Forest Bed series of Norfolk and Suffolk. Mem. of 
the Geol. Surv. England. and Wales. London 1882. 

(°) A History of Bristish foss. Mammals and Birds. pag. 77 e seg. London 1846. 


RESTI D'ORSO NEL QUATERNARIO DI PONTE ALLA NAVE ECC. 291 


fossili è cosa troppo frequente e troppo nota, per modo che to- 
glie molto valore al carattere dentario dei premolari e per- 
suade ad essere molto cauti nel fondare conclusioni e deter- 
minazioni specifiche esclusivamente sul numero di questi denti 
che si presentano sempre incompletamente sviluppati o preco- 
cemente caduchi. 

Mi sono alquanto soffermato a richiamare l’attenzione sul 
relativo valore della formula dentaria dell’ U. spelaeus e sulla 
presenza od assenza di qualche premolare gemmiforme, perchè 
la branca mandibolare che mi accingo ad illustrare in questa 
nota presenta un alveolo, in cui probabilmente doveva essere 
impiantato il primo premolare gemmiforme, più prossimo al 
canino. Questo fatto indurrebbe a credere che l'individuo a 
cui appartenne quella branca mandibolare, o presentava carat- 
tere atavico, oppure la sua formula dentaria era la seguente 
I ; 0 È 1? 3 M di la quale formula sarebbe quella ritenuta dalla 
maggior parte degli autori più propria o per lo meno più fre- 
quente nell’ U. priscus;j se pure questa specie deve ritenersi 
buona oppure sinonima dell’U. Rorribilis (1). Ad ogni modo con- 
viene far notare come alcuri paleontologi abbiano indiscutibil- 
mente ritenuto che la formula dentaria del vero U. spelaeus 
non aveva presente che un solo premolare il quarto. Il Trutar (?) 
stesso mentre ritiene che la costante assenza dei piccoli premolari 
sia carattere invariahile dell’orso delle caverne; crede per contro 
che la loro presenza nell’ U. priscus sia un fatto puramente acci- 
dentale ed anormale. Del resto in Italia (*), in Inghilterra (4) ed 
altrove sono stati ascritti all'U. spelaeus od a varietà presunte di 
quella specie individui che avevano alveoli di piccoli premolari 
o premolari gemmiformi nella mandibola, come è il caso del- 
l'esemplare fossile qui preso in esame. D'altra parte furono 
ascritti alla presunta specie U. priscus Gotpr. individui in cui 
era solo presente il quarto premolare. 

Non intendo qui discutere le conclusioni di studi comparativi 


(1) LyprKker. — Catalogue of the fossit Mammalia in the Brit. Museum. Part. I, 
pag. 166. London 1885. 
° (2) Op. cit., pag. 84. 
(3) IsseL. — Liguria geologica e preistorica. Vol. II, pag. 277. 
(4) Newron — Op. cit., pag. 5-16, PI. I, fio. 2 


Se. Nat., Vol. XVI 15 


232 G. RISTORI 


più o meno completi ed estesi; vedrei però molto volentieri 
ripreso questo esame con materiale abbondante e relativa 
mente completo con cui si potesse estendere lo studio non 
solo alle mascelle, alle mandibole, ai denti e alle ossa del 
cranio e della faccia, ma eziandio a quelle di tutto il resto dello 
scheletro. Io non mi trovo nelle fortunate circostanze di avere 
un materiale abbondante e completo come il caso richiederebbe; 
per cui mi limito ad alcune poche osservazioni che riassumo 
brevemente. La presenza dei piccoli premolari è tutt’ altro che 
frequente nell’ U. spelaeus e quasi sempre negli individui, in cui 
fu notata si unisce ad altri caratteri scheletrici che per la loro 
posizione topografica potrebbero ritenersi correlativi, come p. es., 
la maggiore lunghezza della porzione orizzontale delle branche 
mandibolari di fronte alla loro riduzione in altezza e spessore, 
la minore robustezza del canino inferiore e finalmente il maggiore 
sviluppo della sutura sinfisaria. Oltre a questi caratteri secondo 
me più direttamente connessi colla presenza di qualche premo- 
lare in più, altri caratteri sono stati osservati nelle ossa faciali 
e craniensi della presunta specie U. priscus; quali sarebbero, 
il minore sviluppo ed accentuazione della cresta sagittale ed il 
minore pronunziamento delle gobbe frontali. Dall’insieme di 
questi caratteri differenziali risulterebbe che l’ U. priscus presen- 
terebbe muso più lungo e mascelle meno robuste di fronte al 
vero U. spelaeus, il quale avrebbe testa più tozza o meglio ossa 
craniensi e faciali più robuste e più sviluppate nei diametri tra- 
sversali. Del resto conviene notare come da alcuni degli autori 
citati quei singoli caratteri siano ritenuti caratteri giovanili 
ed anche di sesso. 

Fatte così di passaggio queste considerazioni e richiamate 
alla memoria le varie opinioni non mi resta che descrivere 
anatomicamente la branca mandibolare ritrovata a Ponte alla 
Nave. L’esemplare sfortunatamente è molto incompleto ed al- 
terato nella forma e nelle respettive dimensioni da una note- 
vole degradazione meccanica; essendo stato il fossile ritrovato 
in mezzo alle ghiaie. Oltre a ciò sulla superficie dell'osso si 
scorgono numerose traccie di degradazione chimica, dovuta al- 
l’acque meteoriche. Tutto questo ci dispensa da figurare un 
resto così incompleto e guasto essendo in esso per fino assenti 
tutti i denti meno che una porzione del canino. Del resto dal- 


RESTI D'ORSO NEL QUATERNARIO DI PONTE ALLA NAVE ECC. 233 


l’insieme si riconosce benissimo e senza dubbio che quella branca 
mandibolare doveva appartenere ad uno dei tipi dei grossi orsi, 
che vissero nel quaternario. La formula dentaria poi unitamente 
alle dimensioni di questa branca ed ai caratteri del processo 
coronoideo non che ad altri che faremo notare, con dettaglio, 
nella descrizione anatomica, ci fanno ritenere che essa debba es- 
sere riferita all’ U. spelaeus o all’ U. priscus, se pure quest’ultima 
specie ha ragione di essere conservata e distinta ad onta della 
polimorfia individuale, che fu riscontrata nell’orso delle caverne, 
il quale diffusissimo nel quaternario era rappresentato da molte 
razze varie per sviluppo e necessariamente varie per ragioni di 
adattamento. 

La nostra branca mandibolare è la sinistra, è notevole la 
lunghezza della sua porzione orizzontale appetto al ridotto spes- 
sore ed all’ altezza. Questo carattere è forse reso più appari- 
scente dagli effetti della degradazione. Ad onta di ciò si scorge 
una singolare particolarità che è la seguente: la cresta che fa 
sempre seguito al processo pterigoideo dista assai dal margine 
inferiore della branca, per cui non sembrerebbe che l’osso sia 
stato da questo lato molto consumato dalla degradazione chi- 
mica e dal rotolamento. Osservazione consimile è da farsi per 
1 bordi dentari i quali per quanto si presentino molto arrotati 
e smussati, pure, conservandosi negli alveoli dentari molta pro- 
fondità, non può di conseguenza ammettersi una notevole espor- 
tazione dell'osso dentario. Oltre a ciò il rilievo costoloso dello 
spigolo anteriore del processo coronoide, che press’ a poco se- 
gna il confine fra l’osso dentario ed il corpo orizzontale della 
branca, dista assai dagli orli alveolari. Da tutto ciò sembra evi- 
dente che lo sviluppo in altezza della porzione orizzontale della 
branca, anche allo stato di integrità, non dovesse essere molto 
notevole, ma piuttosto ridotto. Simile particolarità fu notata 
nelle branche mandibolari del presunto U. priscus ed anche in 
alcune di U. spelacus pertinenti a giovani individui, come può 
riscontrarsi esaminando parecchi esemplari provenienti dalle ca- 
verne ossifere di Liguria e di Toscana, che abbastanza abbon- 
danti abbiamo qui nel nostro Museo di Firenze. A questo pro- 
posito però conviene notare che la branca di Ponte alla Nave 
non ha nessun carattere giovanile ed appartiene evidentemente 
ad un individuo bene adulto se non vecchio; per cui in essa 


234 G. RISTORI 


persisterebbe il carattere giovanile surricordato a rendere re- 
lativamente esile la branca ed a farne risaltare vie più il suo 
sviluppo longitudinale. Questo carattere unitamente alla rela- 
tiva brevità dello spazio occupato dalla serie dei molari ed 
alla notevole distanza (diastema) fra il quarto premolare ed il 
canino, mi sembrano particolarità abbastanza importanti, le 
quali se non altro mostrano che questo tipo o razza di U. spelaeus 
non ha per ora riscontri nei resti trovati in Italia e studiati 
diligentemente dall’ Isser e da tanti altri che si sono occupati 
e stanno occupandosi di speleologia. A questi caratteri più o 
meno importanti vanno altresì unite particolarità singolari ri- 
scontrate anche nei nostri orsi delle caverne; fra queste pri- 
meggia, come già accennai, la presenza di due premolari in- 
vece di uno ed in seconda linea abbiamo che 1’ alveolo del- 
l’ultimo molare interessa nella sua metà posteriore lo spigolo 
del margine dell’ apofisi coronoide, lasciando così che i due mo- 
lari anteriori primo e secondo possano assumere un notevole 
sviluppo in lunghezza, ad onta dello spazio relativamente ri- 
dotto in lunghezza, occupato dai molari veri. Altre notevoli 
particolarità sono: l'ampiezza e la disposizione dei fori mento- 
nieri e del foro dentario, la piccola distanza che il primo di 
essi presenta dalla base del canino, e la forma alquanto schiac- 
ciata dal canino, la cui corona assume uno sviluppo antero- 
posteriore assai notevole. Ma veniamo finalmente alla descri- 
zione anatomica particolareggiata di quello che è veramente 
visibile nel resto fossile qui esaminato. 

La branca mandibolare è quella del lato sinistro e doveva 
appartenere ad un individuo completamente sviluppato. L'osso 
dentario nella faccia esterna è assai sviluppato in altezza ed 
è confinato da un rilievo osseo, che movendo dal margine del- 
l’apofisi coronoide va a far capo alla linea mediana dell’alveolo 
del canino, che stante l'asportazione dell'osso si presenta sco- 
perto. La convessità di questa faccia esterna apparisce nel no- 
stro esemplare poco notevole; ma questo è forse da attribuirsi 
alla corrosione sofferta dal fossile, la quale ha agito preferibil- 
mente sulle parti più sporgenti. Del resto il margine inferiore 
sì presenta assai spesso e disegna una linea quasi orizzontale e 
leggermente convessa all’esterno. La superficie sinfisaria è in- 
completa ed in parte manca affatto; essa però determina, col 


RESTI D'ORSO NEL QUATERNARIO DI PONTE ALLA NAVE ECC. 235 


suo andamento, una curva a lungo raggio e si mostra grada- 
tamente sfuggente all'indietro. La superficie di sutura è cor- 
rosa. Il margine dentario, per quanto degradato, fa una linea 
quasi retta, che si rialza leggermente in corrispondenza del 
quarto premolare, come comunemente succede nell’ U. spelaeus 
tipico. Lo spazio fra questo premolare ed il canino è alquanto 
acuminato, diritto e con leggiera divergenza all’esterno, presso 
il bordo alveolare del primo premolare. L’alveolo di questo 
dente, mancante come tutti gli altri nel nostro esemplare, sem- 
brerebbe a prima vista molto addossato al canino, ma conside- 
rando che la porzione alveolare di quest’ultimo dente è stata 
in gran parte asportata, ad osso integro e ad integro alveolo, 
questo primo premolare doveva presentarsi assai discosto dalla 
base del canino da ridurre notevolmente lo sviluppo del dia- 
stema fra detto premolare ed il quarto. 

L'altezza dell'osso che costituisce la porzione orizzontale 
della branca dissi già come non fosse molto notevole, astrazion 
fatta dalla diminuzione che può avere subìta per la degrada- 
zione sofferta. Il margine inferiore di questa porzione orizzon- 
tale, posteriormente e sulla linea del processo coronoide si in- 
curva con notevole convessità all'infuori e poco si deprime 
introflettendosi, per dare sviluppo ed inizio al processo o apo- 
fisi pterigoide anteriore. La smussatura del bordo posteriore 
surricordato si accentua oltre a detta apofisi pterigoide ante- 
riore per dare appunto inizio a quella posteriore, che sfortuna- 
tamente non è conservata nel nostro esemplare. Anche il condilo 
che sussegue in alto all’apofisi è assente, è solo visibile la sua 
larga e robusta base d'impianto. Da tutto ciò consegue che è 
giuocoforza, per la mancata conservazione, trascurare la de- 
scrizione delle parti posteriori del processo coronoide. 

Nell'insieme però il processo coronoide si presenta note- 
volmente sviluppato in larghezza, raggiungendo quella degli in- 
dividui più sviluppati della specie U. spelaeus. La fossa esterna 
è relativamente molto incavata e molto profonda ed il bordo 
anteriore ne risalta assai formando una rilevata costola che 
si continua e si anastomizza con quella che circonda la fossa 
ed inizia l'andamento del processo pterigoide posteriore. Il bordo 
anteriore del processo coronoide scende quasi perpendicolarmente 
sull’ osso dentario per cui la cresta di detto processo doveva 


236 G. RISTORI 


mantenersi larga assai anche in alto, molto più che il bordo 
posteriore al pari dell’anteriore è retto e assai divergente anche 
nella sua porzione più alta. La rottura però della cresta ci 
impedisce di apprezzare le due curve di convergenza dei detti 
bordi e l’altezza medesima del processo coronoide. 

La faccia interna di questa branca mandibolare si presenta 
più corrosa e degradata dell’interna; anteriormente la sutura 
sinfisaria è asportata fino a lasciare scoperta una buona parte 
della robusta radice del canino. Ricostruendo mentalmente 
questa parte, la sutura sinfisaria, piuttosto ridotta in altezza, 
apparisce notevolmente sviluppata nel senso antero-posteriore e 
più sfuggente che nel tipico U. spelaeus. La superficie interna 
di questa branca è quasi pianeggiante; però deve notarsi che 
avendovi notevolmente agito la corrosione è probabile che sia 
scomparsa la sua costante e leggiera concavità. Essa superficie 
però si deprime in prossimità del diastema fra il primo ed il 
quarto premolare; mentre è rigonfia lungo l’osso dentario e 
per tutta l'altezza di quest’'osso in corrispondenza dello spazio 
occupato dai molari veri. Sulla linea dell’apofisi coronoide no- 
tiamo, come nel tipico orso delle caverne, una leggiera depres- 
sione e nel suo bordo un rilievo che inizia l’apofisi pterigoide 
anteriore, la cui notevole sporgenza contrasta colla ridotta 
superficie d'attacco dei muscoli. Al davanti di detta apofisi 
abbiamo una convessità del bordo inferiore del corpo della 
branca, di contro ad un incavo che si scorge prima di giungere 
alla base dell’apofisi pterigoide posteriore. Il processo pterigoide, 
giudicando dall'andamento relativamente poco convergente dei 
suoi bordi anteriore e posteriore, doveva essere piuttosto alto, 
quanto negli individui più sviluppati di U. spelaeus. A proposito 
di queste dimensioni e della correlazione di sviluppo in questa 
parte della mandibola, conviene notare come l'individuo, a cui 
apparteneva questa branca mandibolare, doveva anche in tutto 
il resto dello scheletro avere raggiunte tali dimensioni da esclu- 
dere il suo riferimento alla presunta specie U. priscus, per 
quanto come accennai ne presentasse alcuni caratteri e più 
specialmente quegli dentari; e questo perchè anche secondo il 
BLanviLLe e secondo il Gorvruss autore della specie 1’ U. priscus, 
dessa presentava sviluppo notevolmente ridotto di fronte al vero 
e proprio orso delle caverne. 


RESTI D'ORSO NEL QUATERNARIO DI PONTE ALLA NAVE ECC. Dom 


La porzione succitata della mandibola o processo coro- 
noide, è nella sua faccia interna piana ed il bordo dell’ osso 
dentario poco si accentua e si discosta da esso, avendo sofferta 
notevole corrosione. Il foro dentario che si nota in detta faccia 
interna è situato più in avanti e più prossimo all'ultimo mo- 
lare che non sia nel tipico orso delle caverne. Esso foro è al- 
l'ingresso del canale dentale piuttosto stretto, ma l’incavo che 
sì sviluppa all'indietro di esso (solco milo-ioideo) è spazioso e 
profondo con bordi assai rilevati, dei quali il superiore si con- 
tinua con la spina che si parte dal condilo. 

Nella branca mandibolare qui descritta sono sfortunatamente 
assenti tutti i denti meno che una porzione del canino, il quale 
per giunta sembra alquanto deformato dalla compressione. Gli 
alveoli dei molari sono corrosi nei loro bordi, ma non è stata 
di essi asportata gran parte. L’alveolo dell’ultimo molare è 
piuttosto ampio ed interessa, nella sua parte posteriore, la por- 
zione più bassa del bordo anteriore del processo coronoide, per 
cui il dente doveva abbracciare solo nella sua metà anteriore, 
l'osso dentario. Più sviluppati di quest’ultimo molare, che del 
resto non doveva essere tanto piccolo, sembra che fossero il 
secondo ed il primo molare vero; giacchè i loro alveoli sono 
assai grandi ed anche relativamente profondi, molto più se si 
fa astrazione della parte corrosa dell'osso dentario. Lo sviluppo 
di tutti quanti gli alveoli dei molari è più notevole nel senso 
della lunghezza che in quello della larghezza. Accenno a tutte 
queste particolarità, perchè sembrami che i presumibili caratteri 
della dentatura dovessero avere correlazione colla esilità della 
mandibola, la quale, come già accennai, denota, nell'insieme, 
un individuo non dei più robusti della specie, se non dei più piccoli 
fra le diverse razze di orso delle caverne, che pare abbiano 
vissuto in Italia. 

L'alveolo del primo premolare qui presente è piuttosto am- 
pio e profondo e denota quindi un dente piuttosto robusto e so- 
lidamente impiantato, per quanto gemmiforme. L’'alveolo dista 
assai dal canino specialmente se si ricostruisce l'osso dentario, 
che necessariamente doveva ricuoprire totalmente la radice del 
canino e determinarne l’alveolo. 

Il canino, che è il solo dente parzialmente conservato nel 


x 


nostro esemplare, è un dente relativamente robusto. La sua 


238 G. RISTORI 


corona rotta all’esterno e all'apice, era di forma conica con 
larga base alquanto appiattita nel senso trasversale e molto 
sviluppata in quello antero-posteriore. Impiantata con robu- 
stissima radice nel profondo alveolo, si presenta leggermente 
volta all'infuori come in tutti i tipi dell’orso delle caverne 
non però quanto negli individui ritrovati nelle caverne di Porto- 
Longone e neppure quanto in quelli adulti e vecchi delle grotte 
della Toscana. La sua piega all'infuori è moderata come nei 
tipi delle caverne della Liguria; per quanto questa nostra man- 
dibola non abbia riscontri molto notevoli colle corrispondenti 
delle caverne liguri che ho avuto agio di esaminare qui nel 
Museo di Firenze. La radice di questo canino è molto robusta 
e ripete le stesse particolarità che abbiamo riscontrate nella 
corona, cioè appiattimento trasversale e sviluppo notevole nel 
senso antero-posteriore. 

Da questa sommaria descrizione in cui ci fu necessario ni 
mitarsi alle parti meglio conservate e meno alterate dalla fos- 
silizzazione, e dai rilievi comparativi che abbiamo fatti rife- 
rendoci ai diversi tipi di orso speleo, fino ad ora trovati in 
Italia ed anche fuori, si può, a mio avviso, concludere che la 
branca mandibolare di Ponte alla Nave (Arezzo) è ‘a riferirsi 
ad un individuo della specie U. spelaeus, il quale rappresentava 
un tipo non piccolo della specie, ma piuttosto esile. D'altronde 
anche nelle caverne stesse di Porto-Longone, della Liguria e 
della Toscana abbiamo nei molteplici ed abbondantissimi resti 
ivi ritrovati, una polimorfia molto notevole e varia, la quale 
non meno accentuata, nè meno variabile, sembra che si mostri 
anche nei resti ritrovati fuori d’Italia e specialmente in Germa- 
nia, in Inghilterra, in Francia e nel resto del bacino del Me- 
diterraneo. 

Per la relativa brevità della serie dei molari, per la forma 
piatta del canino, e per la ridotta altezza della porzione oriz- 
zontale della branca, questo individuo d'Arezzo richiama alcuni 
individui della Liguria riferiti dall’ Isser all’ U. spelaeus varietà 
ligusticus, ma nello stesso tempo si discosta da quelli per la 
lunghezza più notevole della porzione orizzontale della branca, 
per lo sviluppo quasi eccezionale della sutura sinfisaria e per 
l'altezza della cresta del processo coronoide. Queste ultime 
particolarità invece mi sembra che abbiano riscontro in alcuni 


RESTI D'ORSO NEL QUATERNARIO DI PONTE ALLA NAVE ECC. 239 


individui giovani di Porto - Longone esistenti qui a Firenze. Gli 
individui però provenienti da questa stessa località che presen- 
tano sviluppo completo hanno robustezza molto maggiore del 
nostro tipo ed una piega così singolare della porzione sinfisaria 
della mandibola e del canino da non avere riscontro con molti 
altri tipi di caverne italiane che con relativa abbondanza ho 
potuti esaminare nel Museo di Firenze. 

Tutte queste osservazioni differenziali potranno, io spero, 
avere sanzione con lo studio di un materiale migliore e meglio 
conservato che le ulteriori ricerche e scoperte in quella loca- 
lità ci potranno fornire. Ad ogni modo sarò sempre lieto di 
correggere le deficenze e gli involontari errori, a cui per avven- 
tura io fossi andato incontro in questo studio necessariamente 
sommario ed incompleto. Oggi quelle differenze notate non pos- 
sono avere che un valore relativo di fronte ad un animale così 
polimorfo, ma non sarà certamente ozioso l’averle poste in 
evidenza; pur concludendo che fino a prova in contrario la 
branca mandibolare di Ponte alla Nave è da riferirsi alla spe- 
cie quaternaria U. spelaeus. 


Sc. Nat., Vol. XVI 16 


LaBoraTORIO D’IGieNE DEL MunIcIPIO DI Pisa 


Dott. GUSTAVO GASPERINI 


SULLA COSÌ DETTA 


CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA 


IN RAPPORTO 


ALLA SORVEGLIANZA IGIENICA DELLE ACQUE POTABILI 


$. L 


Il fenomeno della Crenothrix, che ha già arrecato tanti danni 
e dal lato igienico e da quello economico in vari centri abi- 
tati d’ogni paese, non è oggidì conosciuto in guisa da potersi 
in tutti i casi con sicurezza e facilità dai batteriologi diagnosti- 
care, mancando di buoni preparati microscopici di confronto. 
Tanto è ciò vero che in Italia ad esempio, dove, a giudicarlo 
dalla relativa letteratura, sembra quasi che la così detta Cre- 
nothrix non esista affatto, invece, come vedremo, ha vissuto 
vive ignorata sotto gli occhi di scienziati competenti, senza poi 
dal canto suo aver trascurato di guadagnarsi, ora in una, ora 
in altra località, gli appellativi che Zoprr (Wassercalamitàt), 
Grarp (fléau) e De Vries (Die Pest der Wasserleitungen) le hanno 
giustamente attribuiti. 

La ragione di questo stato di cose è da ricercarsi, in primo 
luogo nell’essere troppo vaghe, inesatte, o deficenti, le cogni- 
zioni che a tal riguardo hanno divulgato i più noti trattatisti 
di microbiologia, d’igiene in generale, o di ricerche e studi 
sulle acque potabili in particolare; in secondo luogo nel fatto 
che, sebbene dei classici lavori si posseggano sull’ argomento, 
pure essi, o sono rimasti nel dominio di pochi, o non sempre 
chiara hanno lasciato apprezzare la descrizione del microrga- 
nismo, protagonista del fenomeno Crenothrix, o non ben defi- 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 241 


nite ne sono risultate le fasi di sviluppo e le relative caratte- 
ristiche morfologiche e biologiche per coloro che abitualmente 
si interessano dei soli microfiti inferiori, coltivabili secondo le 
norme della comune tecnica batteriologica. 

Comunque sia, mi è parso utile di trattare l’ argomento spe- 
cialmente in servigio di coloro che si trovano all’ esercizio pra- 
tico dell'igiene pubblica o sociale e che in mezzo a tante diffi- 
coltà debbono tutelare i cittadini dai danni che possono derivare 
da una insufficiente sorveglianza del più importante servizio 
pubblico, quale è quello dell’acqua potabile. 

Nè siffatta tutela può essere con reale profitto esercitata 
se non si cerca di render più facile ed ognora più pronta e si- 
cura la conoscenza delle calamità che sono nel dominio della 
profilassi. La Crenothrix è appunto fra queste, mentre invece 
è stata finora riconosciuta solo quando aveva già prodotti tali 
guasti nelle tubulature dell’acqua potabile e tali inconvenienti 
in questo servizio, da aver costretto alcune pubbliche ammi- 
nistrazioni, per liberarsene, a dover sostenere sacrifici pecu- 
niari talvolta ingenti, con detrimento di altri servizi, o di 
altre opere igieniche. 

Infatti se si pensa che il più grande nemico che ostacola 
la rigenerazione igienica di un paese è il danaro, specie perchè 
in generale non si valuta tutta la somma dei beni che un’opera 
di risanamento può dare; se si riflette che le amministrazioni 
comunali sono per lo più così esaurite che, provvedendo esse 
ad esempio ad un acquedotto, non v'è da meravigliare che 
manchino all'indomani dei mezzi per altri lavori di prima 
necessità, risulta un dovere per l’'igienista il preoccuparsi non 
tanto del fine da raggiungere, quanto della via più sicura ed 
economica per conseguirlo. Se nel battere questa via qualche 
cosa andrà perduto, prescindendo dagli inconvenienti molteplici 
che emergono dal mal fatto, o dal male custodito, resterà pur 
sempre il grave danno di veder depauperato l’erario ove sta 
l'energia per andare avanti. 

Inconvenienti così lamentevoli è capace di apportarli la 
Crenothrix, riducendo perfino inutilizzabile una intiera condut- 
tura di ghisa, che è quanto dire un’opera capace di aver ri- 
chiesto il massimo sforzo finanziario di un Municipio. Può altresì 
questo microfita rendere inaccettabile un lavoro assunto da 


‘ 


242 G. GASPERINI 


qualche Società di condotte d’acqua, dando luogo a facili que- 
stioni non equamente solubili per parte. di arbitri, i quali man- 
chino di competenza in questi studi speciali. 

Dinanzi ad un argomento che può dunque assumere un in- 
teresse sotto vari punti di vista considerevole, sentendosi sopra- 
tutto il bisogno di bene assodare le nozioni morfologiche e 
biologiche del microrganismo, o dell’ insieme di esseri e di 
circostanze che del fenomeno Crenothrix sono la causa, a ciò ho 
procurato di contribuire con le presenti ricerche. 

Siccome poi in mezzo a tanti particolari d’indole puramente 
teorica, ed in mezzo a non poche questioni che restano tuttavia 
insolute, occorre non perder di mira quei precetti che hanno 
nella pratica un incontestabile valore, per questo m'è sembrato 
opportuno trattare in ultimo, e con i dovuti particolari, della 
sorveglianza igienica delle acque potabili. i 

Veramente è questo un capitolo che potrebbe meglio ricol- 
legarsi con l’analisi di altri problemi batteriologici inerenti alla 
salubrità delle acque; ma non è forse inopportuno che stia qui 
per dimostrare come dalla sorveglianza igienica delle acque pota- 
bili, ben diretta ed eseguita, derivino vantaggi indiscutibili non 
solo dinanzi alle cause che si ritengono più comunemente capaci 
di nuocere; ma anche di fronte a quelle che sone rare a verifi- 
carsi, poco conosciute, o facili a sfuggire, ma che possono tut- 
tavia sorprenderci e colpirci. 


$. IL 


Il prof. Jurrus Kim, nell'anno 1852, nella Slesia e precisa- 
mente in un tubo di terra cotta addetto allo scarico d'un bacino 
situato nel giardino di Guadenberg (Kreis Bunzlau), si ritiene il 
primo ad avere osservato la presenza del microrganismo che L. 
Rasenzorst nel 1863 descrisse come Leptothrix Kiihniana (1), e che 
nel1865(?), conservando immutata la denominazione specifica in 
onore di Kia, collocò nella famiglia delle Oscillariaceae, gen. 


(4) RasenHoRsT (Lupovico). Kryptogamen — Flora von Sachsen, der Ober-Laustitz, 
Thiiringen und Nord-bòkmen, mit Berdcksichtigung der benachbarten Linder. Erste 
Abteilung. Algen im weitesten Sinne. Decas 29, n. 284, Leipzig, 1864-1868. 

(?) Ras. — Flora aeuropaca Algarum aquae dulcis et submarinae. Sectio IL. Algas 
Phycochromaceas complectens, pag. 88, Lipsiae, 1865. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUNHIANA 0 POLYSPORA ECC. 243 


Hypheothrix di F. T. Kirzive (!) con la diagnosi seguente: “ H. 
sparsa vel dense, vel laxe intricata, ferro oxydato conspurcata 
et colorata; trichomonatibus leviter curvatis, pallide aerugineis, 
indistincte articulatis, passim interruptis; vaginis amplis, plicatis, 
achrois. v.v. Diam. trich. 1/869—1/728”= 0,0001 — 0,00012", vag. 
plerumque '/208” = 0,00043". Hab. in aquaeductis, qui dicitur 
“ Drainròhren , Germaniae, primo defecit cl. J. Kùran ,. 

Il prof. F. Conn, che ebbe occasione di occuparsi del singo- 
lare microfita quando questi infestò alcuni pozzi della città di 
Breslavia, ha il merito d'aver molto contribuito ad indagarne 
e diffonderne la conoscenza, tanto che tuttora va coi nomi di 
“ Brunnenfaden ,, o di “ Crenothrix polyspora , coni quali lo 
designò nei suoi importanti “ Beitràge zur Biologie der Pflanzen , 
fino dal 1870 (2). 

Nel lavoro di Corn il concetto puro e semplice della osc?/- 
lariacea di Rab. viene a complicarsi, perchè vediamo descritte 
e figurate delle forme, degli stadî, che non fanno parte del ciclo 
normale di sviluppo di un solo e determinato genere, nè di Al- 
ghe inferiori, nè di Batteriacee superiori. 

Trovato il microrganismo in mezzo ad un numero conside- 
revole di Batteri, Alghe, Protozoi, Infusori ecc., quali di solito 
si riscontrano nelle acque stagnanti e corrotte, egli cercò di 
stabilirne le differenze ed i rapporti con i generi che per qual- 
che carattere giudicò affini, finchè sentì il bisogno di introdurre 
nella letteratura il nuovo genere Crenothrix, di cui riporto la 
precisa diagnosi (3): “ Trichomonata plus minus stricta arcuata 
vel contorta, in caespitulos libere natantes intricata libera vel 
alia aliis affixa, in modum Oscillariarum cylindrica elongate- 
filiformia basi tenuissima sursum paulatim incrassata subulata 
vel subclavata divisione tramsversa succedanea articulata vagi- 
nata hyalina, cellularum plasmate homogeneo intus saepe cavo 
non granuloso, vagina tenerrima hyalina demum indurata nec 
non ferro intussuscepto flava. 


(4) Kiirzina (FriepERIGO Travo). — Phycologia generalis oder Anatomie, Phy- 
siologie und Systemkunde der Tauge. Leipzig, 1843. 
(*) Conn (FerpINAD). — Ueber den Brunnenfaden (Crenothrix polyspora) mit 


Bermerkungen uber die mikroskopiche Analyse des Brunnenwassers. Beitrage zur Bio- 
logie der Pflanzen — Erstes Heft, pag. 108-132, Taf. VI, fig. 1-20. Breslau, 1870. 


(3) Conn (FerpINAD). — Loc. cit. pag. 130-131. 


244 G. GASPERINI 


Sporangia terminalia apice thrichomonatum vagina intume-- 
scente elongato-claviformia, gonidiis subglobosis numerosissimis 
densissime repleta; gonidia duplicis generis, saepissime in filis 
diversis formata: 

1) Microgonidia, e serie cellularum divisione longitudinali 
et transversa succedanea multi-partitarum orta, rotundata et 
diaphragmatibus ruptis in sporangium terminale densissime con- 
gesta, demum ex apice vaginae erumpentia, in aqua motu lento 
circonvoluta secentia velin cumulos gelatinosos Zoogloeis con- 
similes coacervata, ciliis destituta globosa ovalia elliptica tran- 
sverse plus minus constricta vel divisa, demum in trichomo- 
nata evoluta. 

2) Macrogonidia, singula e cellulae contento toto indiviso, 
vel bi-vel quadripartito orta rotundata, ex apice vaginae vix 
inflate erumpentia secedentia, motu forma microgonidiis similia 
sed maiora et minus numerosa, demum germinantia. 

Sporae?, ex articulo trichomatis terminali elongata aucto- 
formata plasmate denso repleta, quod e vagina erumpere et in 
trichoma Oscillariaeforme evolvi videtur. 

Genus inter Lyngbyam et Chamaesiphonen intermedium nec 
non ad Baugias accedens Oscillarieas cum Florideis connexit. 


Crenothrix Polyspora, n. s. 


Caespitulis minutissimis flavo-brunneis in aqua libere na- 
tantibus, trichomonatibus hyalinis longissimis, 0,0015—0,005"": 
crassis, articulis aequi-longis vel duplo longioribus vel dimidio 
brevioribus, sporangiis subclavatis 0,006 —0,009"" crassis, mi- 
crogonidiis 0,001—0,002"", macrogonidiis ad 0,005"" latis, spo- 
ris terminalibus ad 0,026"" longis. 

Observ. in aqua puteali Wratislaviae et ad fontes Cudova- 
nos. 1870 ,. 

Se dopo ciò sì prendono in esame alcune particolarità della 
nuova specie di Conn noi ci troviamo dinanzi a delle caratte- 
ristiche invero singolari. Ne faccio una analisi sommaria, non 
omettendo ben s'intende di tener sott'occhio le figure, perchè 
queste debbono ritenersi destinate a far meglio comprendere 
le fasi di sviluppo, o le note morfologiche proprie del microrga- 
nismo. Esso va soggetto, secondo Corn, a variazioni le più ampie 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECO. 245 


nel diametro trasversale dei filamenti, perchè se ne osservano 
con 1,5—2v, con 3,3—3,64 e con 4—5,2 w (1). 

Altrettanto diversa ne è rappresentata la struttura ed il 
contenuto, potendosi osservare frammenti con veri e propri 
setti, come il micelio delle Hyphomyceteae; frammenti con dispo- 
sizioni del protoplasma alla maniera di alcune alghe (0Osczl- 
laria Bosc., Cylindrospermum Kurtz. ecc.); tratti di filamenti in- 
fine con impronta loro propria, tutta speciale della Crenothrix, 
come quelli delle Fig. 1, 6, 8, 9, 10, 11, 13, 14 e 20. A sì 
elevato eteromorfismo della parte dirò così vegetativa corri- 
spondono non minori varianti nella funzione e forma ripro- 
duttiva. 

La specie si conserva e diffonde per mezzo di macrogonidi 
che si originano nell'interno dei filamenti per scissione delle 
cellule più vicine all’estremità dei filamenti stessi, cellule ma- 
dri, od aggregati protoplasmici di forma ovoidale che possono 
disporsi col loro maggior diametro in due opposte direzioni (2). 
Delle cellule col diametro maggiore normale all’asse del filo può 
avvenire la divisione anche in tratti non corrispondenti ad una 
estremità. 

I macrogonidi alla loro volta vanno soggetti ad una scissione 
che avviene nel modo ordinario, sia quando ancora sono conte- 
nuti nei filamenti, sia quando già si son resi liberi (3). 

I microgonidi sembrano pure originarsi da cellule per lo più 
disposte con l’asse maggiore normale alla parete dei filamenti, 
dei quali se ne notano dei sottili, sporigeni, e con estremità 
non ingrossata (4), mentre altri vanno espandendosi considere- 
volmente a forma di clava (°), espansione che è tutta gremita 
di microgonidi. Questi escono fuori attraverso una rottura della 
membrana del filamento. Possono inoltre osservarsi agglomerati 
di microgonidi in filamenti che assumono un aspetto’ fusiforme 
(sporangi) come è rappresentato nella Fig. 11, e possono gli 
stessi microgonidi secondo Conn germinare in loco, dando luogo 


(4) Corn (FerpInaD). — Loc. cit. pag. 119, Fig. 1,6, 7,8 e 17. 
(2) In. — Loc. cit. Fig. 1. 

(3) In. — Loc. cit. Fig. 1 e 2. 

(4) In. — Loc. cit. Fig. 8. 

(9) In. — Loc. cit. Fig. 9 e 10. 


246 G. GASPERINI 


a quelle speciali disposizioni filamentose che sono riprodotte 
nella Fig. 20. 

Non è chiaro come dai macro e microgonidi liberi che si scin- 
dono, possa risalirsi a tanta varietà di filamenti. 

Altre cellule di molto incerto significato, ma che Corn ri- 
tiene siano spore, si vedono unite ai filamenti, con protoplasma 
granuloso, ed a guisa di grosse gemme secondo la disposizione 
della Fig. 13. 

‘Giova infine tener presente che i gonidi della Crenothrix 
ora si spargono nell'acqua con movimento oscillatorio, ora vanno 
a riunirsi a milioni in “ Gallertmassen Palmellenartigen , 
(Fig. 18, pag. 129-130) tenute insieme da una sostanza inter- 
cellulare simile a quelle delle zooglee di alcune Batteriaceae. 

Il microrganismo che per Conn è dunque tanto polimorfo 
si è cercato in seguito di rappresentarlo prendendo dalla me- 
moria originale, quando l’una, quando l’altra figura, con gene- 
rale predilezione di quelle (Fig. 5, 6, 9, 20) che sono appunto, 
come vedremo, le meno adatte a dare un'idea di ciò che real- 
mente è la specie in esame. E tale predilezione credo che abbia 
la sua ragion d'essere in questo, che le forme citate, non adat- 
tandosi al ciclo evolutivo dei microfiti acquatili ben noti, si è 
ritenuto che, essendo proprie della Crenothrix, servissero per 
farla distinguere a prima giunta. 

Ulteriore ed importantissimo contributo allo studio del mi- 
crorganismo si deve ai due illustri prof. W. Zopr e 0. BrereLD. 
Essi ebbero incarico dall'alta magistratura della città di Ber- 
lino d’indagar la causa per la quale nell'estate del 1878 s'in- 
torbidò e corruppe in modo singolare l’acqua dei pozzi assai 
profondi, fatti per sostituire nell’acquedotto di Tegel l’acqua 
proveniente dai filtri del “ Tegeler Wasserwerke ». Riferirono 
in un rapporto speciale il risultato delle loro ricerche (!), dalle 
quali venne messo in evidenza, fra gli altri, il fatto che la Cre- 
nothrix diffusamente vegetava nel terreno in prossimità dei 
pozzi. Qui peraltro convenendo raccogliere tutto quello che più 
concerne le acquistate cognizioni sul ciclo vitale del microrga- 


(DIO: BrereLD e W. Zopr. — Bericht an den Hohen Magistrat der stadt Berlin 
iiber die Untersuchungen des Tegeler' Wassers. Berlin, 1878. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 247 


nismo, preferisco attenermi alla memoria speciale pubblicata 
da Zopr (1). 

È questo il lavoro classico a cui si riportano tutti coloro 
che dal 1879 in poi hanno avuto occasione di occuparsi di tale ‘ 
argomento. Occorre quindi entrare in particolari, cosa che vado 
a fare brevemente. 

Prima di tutto si tenga presente che le osservazioni di Zopr 
di sicuro si riferiscono allo stesso microfita scoperto dal prof. 
Kinn 27 anni prima, per la seguente circostanza, che von Voss di 
Halle, avendo procurato al prof. Wirctow due campioni d’acqua 
presi dai pozzi dell’antico serbatoio e dal nuovo acquedotto di 
Halle, campioni che contenevano una ricca quantità di Creno- 
thrix, furono questi dallo stesso Wirckow, nel novembre del 1878, 
dati in esame a Zopr. E siccome dietro invito di voy Voss lo stesso 
Kin ebbe a pronunziarsi sulla identità dei campioni di Halle 
con quelli precedentemente osservati nella Slesia, per questa via 
Zorr potè accertarsi della natura del microrganismo. 

Secondo Zopr “ Mit Hulfe der schàrfsten Linsensysteme von 
Hartnack und GunpLaca und unter Anwendung eines geeigneten 
Culturapparates konnte die Untersuchung von der Spore aus’ 
durch alle vegetativen und fructificativen Zustànde hindurch 
bis zum Abschluss der Fructification, also bis wiederum zur 
Spore, klar verfolgt werden ,. 

La spora (gonidio) della Crenothrix polyspora è rappresentata 
da una cellula molto piccola che da wp. 1 può raggiungere pt. 6, 
con forma sferica o cilindrica ad angoli ottusi. Il suo conte- 
nuto protoplasmatico, incoloro, omogeneo, è limitato da una 
membrana ialina, delicata. Con forte ingrandimento avvertesi 
attorno alle spore un involucro mucoso “Gallertmantel ,. Queste 
cellule sono completamente prive di “ Bewegungsorgane (etwa 
Cilien) ,. 

Coltivando i gonidi nella camera umida si può constatare 
che germinano producendo dei filamenti articolati. Da prima 
è il gonidio che comincia a presentare uno strozzamento e che 
finisce per scindersi in due cellule: poi è ciascuna di queste 


(4) Zopr (W.). — Entwickelungsgeschichtliche Untersuchung diber Crenothrix Po- 
lyspora, die Ursache der Berliner wassercalamitit. (Mit 25 fig. auf 3 Lith. Taf.) Ber- 
lin, 1879. 


248 G. GASPERINI 


che alla sua volta si suddivide per dar luogo a filamenti arti- 
colati che così si allungano, e che non poco variabili. presen- 
tano i singoli articoli (Tav. I, fig. 1, 2, 3, 4). I filamenti giovani 
si mostrano per lo più isodiametrici: quelli vecchi all'incontro 
vanno ingrossando dalla base all’ estremità libera, assumendo 
una forma leggermente clavata. I fili della Crenothrix, specie 
quando sono isolati (!), si muovono come certe alghe (Oscil- 
larie ecc.); ed il movimento di progressione è più proprio di 
quelli isolati che nuotano nelle acque. A misura che le cel- 
lule costituenti 1 varî filamenti vanno progredendo di sviluppo, 
sì rivestono di parete propria, finiscono col rendersi isolate, 
fra di loro ben distinte, e col presentare una necessaria diffe- 
renziazione della parete in due strati: uno interno, l’ altro 
esterno, o guaina “Scheide ,. Questa guaina che avvolge il fila- 
mento, ossia tutta la catena delle cellule dalle quali è formato, 
può esser rotta dalle cellule stesse che si moltiplicano, e che 
per ciò non possono esservi più contenute. Allora esse escono 
successivamente, per la vis a tergo delle cellule sottostanti che 
seguitano a crescere. Può anche la guaina restar vuota per la 
‘fuoriuscita del filamento interno, il quale, non diviso, si valga 
della sua proprietà di muoversi. 

La guaina, o si gelatinizza, o raggiunge un considerevole 
spessore. Ogni cellula che si libera dalla guaina ha il valore 
di spora, perchè dividendosi, come accade d’un vero e proprio 
gonidio, da luogo ad un filamento. 

I gonidi, osserva Zopr, posson dar luogo ai filamenti non 
solo quando son liberi; ma anche mentre si trovano nell’ in- 
terno dei respettivi filamenti fertili (sporangi); e siccome il pro- 
cesso di germinazione per lo più si verifica dove i gonidi sono 
ammassati, così si hanno que’ cespugli eleganti rappresentati 
nella Tav. I, fig. 5, del suo lavoro. 

Quanta analogia con le vedute di F. Conn! 

Però, continua Zopr, non sempre i gonidi si sviluppano nel 
modo accennato. In certe condizioni di nutrizione, non dice in 
quali, il gonidio molto piccolo “ gallertumhiillte ,, che è in istato 
di germinare, si rigonfia, presenta il protoplasma addensato a 
due estremità le quali son divise da un leggiero strozzamento, 


(4) Zopr (W.). — Loc. cit. pag. 5. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 249 


eppoi presenta la formazione di due cellule perfettamente uguali, 
che sono divise da un setto intermediario (Tav. I, fig. 6). Queste 
due cellule si arrotondano, si separano, prendono l’aspetto di un 
gonidio vero e proprio, ma restano sempre unite dalla membrana 
gelatinosa che le avvolge. Nelle cellule così formatesi, progre- 
dendo la divisione, e persistendo la causa (Gallesthulle ) che 
loro impedisce di rendersi libere, si ha il prodursi di quelle 
“ gallertigen Zellcolonien , che si notano nella Tav. I, fig. 7 e 
Mavi, fio. 8. 

Anche qui i gonidi, come disse Conn, sono riuniti à milioni. 

Per lo Zopr questi ammassi di spore servono mirabilmente 
alla diffusione e conservazione del microrganismo, potendo da 
ciascuna di esse derivare un filamento di Crenothrix. Tali agglo- 
merati (Gallertcolonien) costituirono circa la metà del sedimento 
fangoso riscontrato nel serbatoio del condotto di Tegel, e for- 
marono più della metà di un identico deposito nella riserva di 
Charlottenburg. 

Queste “ Gallertmassen , da prima incolore, poi di un r0sso 
mattone, d'un verde oliva sporco o nerastro (!), perdono via via 
non solo in trasparenza, ma anche nei loro caratteri cellulari, 
che si riducono infine irriconoscibili. 

Anche Zopr trova delle somiglianze fra queste “Gallertco- 
lonien des Brunnenfadens , e certe Palmellacee, tanto che de- 
signa questo modo di essere della Crenothrix come “ Palmel- 
lenzustinde ,, analogo alla sua volta a certe zooglee batteriche 
(Ascococcus Billrothiù Conn, mesentericus Crenkowsxi, ecc.). E tale 
è l'analogia che Egli trova con le ChlorophyMophyceae della fa- 
miglia delle Palmellaceae, che pensa doversi riferire alla Cre- . 
nothrix ciò che il prof. Raprkorer riscontrò nei pozzi di Monaco 
e che descrisse col nome di Palmellina flocculosa Rapt. 

Mentre per Conn questo “ Palmellenzustiinde , si ha per il 
riunirsi delle spore uscite dagli sporangi, per lo Zopr si genera 
invece per la continua bidivisione delle spore avvolte nella spe- 
ciale sostanza che le tiene unite, allo stesso modo di quel che 
accade degli Ascococcus. 

Che le spore di questi conglomerati possano anche dar luogo 


(4) Zopr (W.). — Loc. cit. pag. 7. 


250 G. GASPERINI 


a filamenti ed a cespugli simili a quelli della Tav. II, fig. 10, 
11, è per lo Zopr sicuramente provato! 

“ Die Faden bleiben mit ihrer Basis in der Gallertmasse 
der Palmella stecken und so entspricht der Colonie von Ein- 
zelzellen nach der Keimung eine Colonie von farblosen Zellfàden 
(Fig. 10,11). Letztere strahlen radienartig nach allen Richtungen 
aus. Sie halten in ihrer Entwickelung meist nicht gleichen Schritt, 
und so treten altere und jingere Faden in ein und derselben 
Gruppe auf (Fig. 11). Die Raschenbildung aus der Pa/mella scheint 
fir die Planze Regel zu sein , (1). 

La Crenothrix ben si avverte quando forma cespugli o ciuf- 
fetti in gran numero lunghi 1 cent. ed anche più. Successiva- 
mente, col fissarsi del ferro nella guaina. gelatinosa, viene a 
prodursi il colore giallo aureo e verde oliva scuro; e la strut- 
tura dei fili, a misura che il ferro si deposita, va a sparire, 
finchè non è affatto riconoscibile nei filamenti vecchi (Tav. II, 
fig. 14, 15, 16-0). 

Gli aggregati filamentosi lunghi formavano appunto i sor- 
prendenti precipitati fioccosi intensamente ocracei (ochergelben), 
verde olivastro sporchi (schmutzig olivenbràunlichen), fino al 
caffè scuro (kaffeebraunen), che infettarono tanto abbondante- 
mente l'acquedotto di Berlino. 

In apparenza le forme fioccose si presentano così differenti 
dagli incolori e primitivi filamenti della Crenothrix da far ri- 
tenere che da questa in realtà differiscano. Ma gli stadi di pas- 
saggio che possono notarsi anche in un medesimo filo; ed il 
fatto che la guaina di ferro, sciolta con acido idroclorico diluito, 
lascia scorgere la struttura dei filamenti primitivi, rassicurano 
sulla identità. Zopr mette in guardia dagli errori in cui si può 
cadere osservando dei filamenti piegati, od in altro modo ap- 
parentemente ramificati, ed afferma che la Crenothrix non pre- 
senta mai ramificazioni. 

Nè è da omettersi che egli vide nei vecchi depositi dei fi- 
lamenti a forma di rosario, ialini o colorati in giallo (Tav. III, 
fig. 20 a, 5), i quali, sebbene anch’ essi sospetti d’ appartenere 
ad altra specie, riconobbe che erano propri della Crenothrix, 


(4) Zopr (W.). — Loc. cit. pag. 9. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 951 


e che nient'altro rappresentavano se non delle fasi di deperi- 
mento prossime a perdere ogni vitalità. 

Ben valutando l’importanza di quella speciale forma di spore 
osservata da Conn (1), e che ricorda i manubri delle Rivularie, 
Zopr si dette a ricercare questo peculiare modo di moltiplica- 
zione del microrganismo; e siccome, per l’ analogia con certe 
alghe, potevano i detti organi comparire o nell’ autunno, od 
al principio dell'inverno, proseguì le sue ricerche e le continuò 
fino al febbraio; ma senza frutto. Trovò solo un filamento 
(Tav. III, fig. 25) che aveva una certa somiglianza con quelli 
di Conn; ma per giustificate ragioni lo considera qual forma 
provocata dalla convivenza nel mezzo di certe amebe, od in 
altri termini, qual forma anormale. 

Fin qui abbiamo visto come, secondo Zopr, nel ciclo di svi- 
luppo della Crenothrix rientrino: 

1.° le forme zoogleiche o palmellulari; 
2. i filamenti vegetativi articolati; 
3.0 1 filamenti non articolati; 

4.° le forme atipiche a rosario. 

Con ciò peraltro non è detto tutto. 

I filamenti vegetativi costituiti da una catena di cellule net- 
tamente individualizzate, quindi i filamenti articolati, possono 
subire un'ulteriore scissione dei singoli articoli (Tav. III, fig. 21, 
22, 23 e 24), e così dar luogo a quel genere di moltiplicazione 
che vedemmo già distinta da Conn in macro e micro-gonidi. 

I due scienziati su questo punto sono dunque concordi. La 
guaina, secondo ZoPr, si rompe per tempo, prima cioè che av- 
venga la formazione dei gonidi. Questi fuoriescono per la spinta 
che loro deriva dalle sottostanti nuove formazioni di cellule, 
o divengono liberi approfittando del disfarsi della guaina: poi 
di regola cominciano a moltiplicarsi per divisione, dando ori- 
gine a quegli ammassi zoogleiformi di cui antecedentemente 
abbian presa conoscenza. Più di rado i gonidi danno luogo a 
filamenti, e pur raro accade che germinino entro le guaine dei 
filamenti fertili (Tav. I, fig. 5). 

Così si chiude il ciclo di sviluppo della Crenothrix, orga- 
nismo che Zopr considera di ben semplice organizzazione, per 


(1) Zopr (W.). — Loc. cit. pag. 411, Fig. 13 e 14. 


952 G. GASPERINI 


il presentare indifferenziata la parte vegetativa da quella fer- 
tile. Sulla questione tuttora indecisa del posto da assegnarsi 
al microfita, se fra le alghe o fra i funghi, egli opina, astrazion 
fatta dalla mancanza della clorofilla, che debba ravvicinarsi a 
quest’ ultimi. 

Dopo il lavoro magistrale di Zopr, nel quale si considera 
l'argomento sotto altri punti di vista da discutersi in seguito, 
convien passare alle successive pubblicazioni delle quali ho 
potuto aver cognizione. 

Già da molto tempo il colore rossastro, l'odore ed il sapore 
sgradevole che in certe epoche più spiccato presentavano le 
acque delle sorgenti di “ Emmerin , che alimentano la città, 
di Lilla, furono oggetto di preoccupazione per parte degli abi- 
tanti di quella città. Si fu nella primavera del 1882 che l’in- 
conveniente assunse tali proporzioni che n certi quartieri le 
acque divennero affatto inservibili per qualsiasi uso. 

A. Giarp, che ne riferì (!), osserva che in certi canali di 
distribuzione l'abbondanza dei depositi ferruginosi fu tale “ que 
les chevaux de la Compagnie des tramways refusaient de boire 
l’eau qu'on leur présentait ,,. 

Relativamente alla struttura della Crenothrix osserva Giarp 
che ha ben poco da aggiungere alle osservazioni degli eminenti 
botanici F. Conn, 0. BrereLlp e W. Zorr. 

“ Nous devons dire toutefois, sono sue parole, que les mi- 
crogonidies, formées dans les sporanges ou extrémités renflées 
des tubes de Crenothrix, par division transversale des articles 
bacillaires qui costituent ces extrémités, sont animées pendant 
quelque temps d’un mouvement actif, dù è l’ existence d'un 
flagellum. Ce fiagellum n'est d'ailleurs visible qu’ aux plus forts 
grossissements (obiectif è immersion N.° 12 de» Hartnack). 

“ Les gonidies donnent ensuite naissance è une forme (Me- 
rismopoedia) irrégulière, qui se transforme bientòt en une masse 
de Zoogloea analogue è une Palmella, puis finalement en tubes 
régulitrement cylindriques de diverses longueurs. 

“La production figurée par Zopr (?), (PI. II. fig. 8) sous le 


(4) Grarp (ALr.) — Sur le Crenothrix Kihniana (Rab.), cause de V infection des 
eaux de Lille. Compte rendus de l’Acad. des Sciences, Tome XCV. N.1 (3 Juillet), 
pag. 247-249. 1882. 

(2) Zopr. — Loc. cit. e Revue mycol. Tab. XXXVI, f. 7. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 253 


nom de forme Palmella se trouve aussi è Emmerin, sous les 
parois de l’acqueduc, et spécialement dans les points où le ré- 
vetement de ciment de Boulogne a été détaché par une cause 
quelconque. Je crois che cette végétation est distinte du Cre- 
nothrix: je la considere comme appartenant au genre Ascococcus. 
Des cultures prolongées m’ont prouvé en effet que ce Schizomy- 
cète donne naissance à de courts filaments moniliformes analo- 
gues à ceux de l’ Ascococcus mesenteroides, mais n'évoluant jamais 
en tubes de Crenothrix ,. 

Come vedesi Grarp resta incerto su alcuni stadi del micror- 
ganismo, ne accetta altri, e lascia invariata la questione della 
diagnosi precisa del “ fléau ,, prima che a tutti possa manife- 
starsi per le caratteristiche macroscopiche che gli sono proprie. 

La improvvisa comparsa della Crenothrix a Rotterdam nella 
primavera del 1887 indusse quell’Amministrazione pubblica alla 
nomina d’una commissione, con l’incarico di investigare le cause 
e l’origine del grave inconveniente; d’impedirne l’estendersi, ed 
infine di remuoverlo. 

Uco De Vrigs, prof. di botanica all'università di Amsterdam, 
membro di detta commissione, pubblicò il risultato degli studi 
eseguiti in un pregevole scritto (!) utile a consultarsi specie da 
coloro che in genere si occupano di protistologia. Le ricerche 
microbiologiche che ci interessano si debbono allo stesso De Vries 
ed al Dott. F. Dupont, che insieme si valsero del piccolo labora- 
torio impiantato per la circostanza vicino al luogo del massimo 
inquinamento. 

La Crenothrix comparve a Rotterdam in certe circostanze 
che giova rammentare. La città, com’ è noto, si alimenta con 
acqua della Mosa sottoposta alla filtrazione a sabbia. Fino dal 
1874 gli 8 filtri in funzione, con 800 mq. di superficie, avevano 
dato acqua chiara e sufficiente. Ma fattosi sentire il bisogno 
d’un generale ampliamento dei lavori, fino dal 1886 si misero 
in funzione 18 nuovi filtri, con una superficie di 1600 mq. Con- 
temporaneamente a quest'impianto, non essendosi completato 
il progetto di altre costruzioni, bisognò che l’acqua dei filtri 


(4) De Vries (Ugo). — Die Planzen und Thiere in den Dunklen Réiumen der 
Rotterdamer Wasserleitung. — Bericht iiber die biologischen untursuchungen der Ore- 
nothrix-commission zu Rotterdam, vom Jare 1887. Jena, 1890. 


254 G. GASPERINI 


nuovi, dopo essersi raccolta in condotto proprio, fosse fatta 
passare per un tratto di fogna che apparteneva agli 8 filtri messi 
fuori d'uso, e ciò per farla giungere al primitivo edificio. delle 
pompe, edificio che avrebbe pure dovuto sostituirsi. Quel vecchio 
tratto di fogna lungo 120 metri, d’ampiezza sufficiente per es- 
sere praticato, era in così cattive condizioni da avere avuto 
bisogno d’una fila di travi disposte trasversalmente per raffor- 
zarne i muri, i quali peraltro, notisi bene, in parecchi punti 
mostravano delle rotture. Attraverso a queste crepe penetrava 
l’acqua dei filtri contigui (N.° 3, 4, 7, 8) e, come ho già detto, 
non in funzione. 

Ricerche accurate posero in chiaro che la Crenothrix per- 
veniva all'acqua filtrata solo nel tratto del vecchio canale, e 
precisamente dalle fenditure delle pareti, e che i filtri abban- 
donati, comunicanti con la fogna per mezzo delle dette crepe, 
corrispondevano al focolaio d’origine del temuto microrganismo. 
Su proposta della commissione si sostituì questo tratto inqui- 
nato con apposita conduttura in ghisa, e così l’acqua dei nuovi 
filtri (N.° 9-21) giunse alle macchine, quindi alle torri di distribu- 
zione, senza più contatto con le vecchie opere. Dopo ciò si ebbe 
la conferma che l’acqua ben filtrata non lascia passare la Creno- 
thrix, cosa che del resto la commissione aveva accertato con 
l'esame del filtro N.° 21, posto a disposizione per simile ricerca 
di controllo. La notevole diminuzione della Crenothrix fu seguita 
da una totale scomparsa dopochè si pensò a rendere impermeabili 
le pareti dei filtri fino al di sopra dello strato filtrante, e. dopo- 
chè si vide che bisogna evitare l’uso dei graticciati di legno per 
sostegno di detto strato, convenendo sostituirvi le mattonelle di 
cemento perforate. Premesso questo cenno sull’inconveniente 
accaduto a Rotterdam, e che afflisse la città in modo davvero 
lamentevole, convien passare alle note caratteristiche del mi- 
crorganismo secondo De Vrirs. Nella sua memoria, e precisa- 
mente al paragrafo primo dal titolo “ Orenothrix Kihniana, die 
Pest der Wasserleitungen , comincia con l’osservare che i fioc- 
chetti (Fig. 1 A-B), costituiti da forme elevate di batteri, ab- 
bisognano d’un buon microscopio per essere analizzati. Si vede 
allora che le cellule costituenti questi fiocchi non sono altro 
che degli aggregati di filamenti per lo più cilindrici, da prin- 
cipio incolori e trasparenti, poi giallo-pallidi e via. via più colo» 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 255 


rati fino al bruno carico, per la membrana che, da prima sottile, 
a poco a poco cresce in ispessore. Di pari passo va mutando la 
loro consistenza; da flessibili e molli divengono duri e ruvidi. 
Le membrane brune e irrigidite non sono più compatibili con 
l’attività vitale delle cellule racchiuse, le quali prima o poi si 
spingon fuori o dall’estremità, od in parte da specie di occhielli 
laterali. Nell'ultimo caso il filamento si ramifica: nel primo 
invece non fa che allungarsi perchè, a misura che il filamento 
si spinge fuori da un' estremità, nella porzione rimasta denu- 
data si riveste di nuovo con membrana rigida, e così progre- 
dendo può aversi una ricca formazione di membrane con poche 
cellule in attività. Le membrane dunque sarebbero un re- 
siduo della vita del microrganismo, 0, come dice De Vrigs, la 
“ Schlacke , del processo vitale. Egli inoltre ritiene che i sali 
di ferro solubili non costituiscano una condizione affatto indi- 
spensabile per la moltiplicazione di questi batteri, riportandosi 
ad alcune ricerche di Wiwxogransky delle quali terremo conto @ 
suo tempo. In conclusione De Vrirs accetta le caratteristiche 
morfologiche della Crenothrix date da Zopr (pag. 6, Fig. 1 G, D); 
e di nuovo disegna un filamento (F) con la parte inferiore co- 
stituita da un pezzo di guaina scura, e con la porzione supe- 
riore più sottile fatta di cellule che cominciano a velarsi. Pa- 
rimente nuovo è il filamento H della stessa Fig. 1, dove si vede 
che sopra una grossa, spessa e vuota guaina si sono impiantate 
ed infisse numerose cellule, alcune delle quali sembrano delle 
catene di batteri, altre dei veri e propri filamenti, per De Vrirs 
neoformati o giovani. 

Nell'aprile del 1890 compare in Italia la prima pubblicazione 
sulla Crenothrix per opera dell'ing. R. Bentivena e del dott. A. 
Scravo (!). Essi dicono d’averla osservata a Corneto Tarquinia 
in certe singolari condizioni delle quali tratterò nella parte spe- 
ciale, essendomi recato sul posto per acquistar conoscenza del 
fatto. Ora non riferisco che le particolarità inerenti al microfita 
tali e quali furono avvertite dagli autori. 

“ Per l'osservazione microscopica del deposito ferruginoso, 


(4) Benriveana (R.) e Scavo (A.). — Un caso d'inquinamento in una condut- 
tura di acqua potabile per lo sviluppo della « Crenothrix Kiihniana ». Rivista d’ Igiene 
e sanità pubblica. Anno I, N. 1. 10 aprile 1890. 


Se. Nat., Vol. XVI 17 


256 G. GASPERINI 


oltre all’ esame diretto in acqua ed in soluzione naturale di 
cloruro sodico, si fecero dilacerazioni in glicerina semplice e 
lievemente acidulata con acido acetico e cloridrico , . 

. “ All’ingrandimento di 500 diametri (ob. IV. 8, oc. N. 3, 
tubo aperto, Koristka) si trovarono: abbondanti filamenti con 
membrana ben distinta, intrecciati in vario modo fra di loro a 
guisa di feltro ,. 

“ La parete di tali filamenti, dotata di un riflesso giallastro, 
conteneva depositi di una sostanza granulare più scura, solo 
in parte solubile nell’acido cloridrico diluito (ossido e silicato 
di ferro) ,. 

“I varî filamenti differivano però molto fra di loro per di- 
mensioni trasversali, alcuni non avendo uno spessore superiore 
ai 2-3, altri invece raggiungendo quello di 9-10 w ,. 

“Il contenuto poi di quest'ultimi si vedeva differenziato 
sotto forma di dischi o cilindri con parete laterale propria, 
allineati lungo la direzione del filamento ,. 

“ Oltre a questi elementi spiccavano ancora nel campo mi- 
croscopico numerosi corpuscoli rotondeggianti, muniti di doppio 
contorno, e delle dimensioni di circa un corpuscolo rosso umano ,. 

“ In alcuni di essi si notava uno strozzamento diametrale 
più o meno accentuato , . 

“Non raramente si incontrarono di tali corpuscoli uniti a 
coppie e tenuti insieme da un sottile involucro di sostanza dal- 
l'aspetto ialino (Fig. 2) ,. 

“ Questo reperto microscopico risponde esattamente a quello 
descritto da Zopr e da altri per la Crenothrix Huùhniana , (!). 

“Le culture a piatto in agar ed in gelatina, fatte dopo 
12 ore con l’innesto preso dal deposito ferruginoso diedero 
luogo allo sviluppo di numerose colonie di batteri e di muffe ,. 

Per gli autori dunque riuscì facile di imbattersi in tutte le 
particolarità morfologiche descritte da Zopr e da altri per formu- 
lare la diagnosi di Crenothrix, tantochè dobbiam ritenere che se 
nella annessa Fig. 2, priva di minute spiegazioni, si vedono solo 
due tipi di filamenti e delle cellule sferiche isolate, o riunite 
a due a due, essi del resto abbiano passate in rivista anche 
le altre forme che si attribuiscono a questa specie. 

Nel luglio del 1893 comparve la Crenothrix a Bamberg, nei 
pozzi III e IV, con grave danno del servizio dell’acqua pota- 


® 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 257 


bile, che nei successivi mesi di settembre e ottobre più fortemente 
ne risentì (!). Da primo nell’acquedotto si scorsero dei sottili fi- 
lamenti che furon ritenuti per “ Vasseralgen (Fadenbachterien) , 
appartenenti al gen. Crenothrix, non dannosi per la salute. 
Come causa del subitaneo apparire della Crenotrix fu rite- 
nuto il caldo eccessivo di quell’anno. L'acqua si colorì in gialliccio 
fino al bruno; ed i fiocchetti brunicci, ed i batteri morti la resero 
inservibile ad ogni uso domestico. Si temette che i condotti potes- 
sero in qualche punto venire ostruiti; e si cercò di far circolare 
l’acqua in tutti i tubi mantenendo attivi gli scarichi dei tratti 
terminali. Col sopraggiungere del freddo la Crenothrix diminuì, 
pur non mancando di persistere anche nel febbraio del ’94. 
Scamm di Francoforte, interpellato sui mezzi adatti per re- 
muovere l'inconveniente, non seppe indicarne, ed espresse il 
parere che col tempo si sarebbe andato da se stesso ad eli- 
minare. Nel pozzo IV, riscontrata nel settembre un'altra alga, 
la Beggiatoa, fu messo fuori d'uso fino al marzo del’94. L’uffi- 
cio di Bamberg addetto alle ricerche in proposito, e il direttore 
ScHMID espressero opinioni discordi sulle cause della comparsa 
dei citati microfiti. Riaccentuatosi l'inconveniente nell'estate 
del 1894 (20 Betriebsjahr) andò a diminuire nell'autunno, ed a 
scomparire nell'inverno. Nel marzo del 1895 (21. Bet.) ricom- 
parve; ma invece di vederlo aumentare col calore di quell’estate 
molto calda e asciutta, appunto nei mesi caldi notevolmente 
diminuì. Si ritenne allora che ciò dipendesse dall’ essersi intro- 
dotta una certa regola nella derivazione dell’acqua dai pozzi, 
e che, con l’evitare grandi oscillazioni nella erogazione, e per 
conseguenza eliminato il soverchio pompare, come praticavasi 
negli anni precedenti, questa pratica avesse perfino fatto ottenere 
il vantaggio della immunità dalla “ Crenothrix plage ,. Nel 1896 
non ricomparve più la Crenothrix (*) e nel successivo rapporto 
del 1897 non è neppure rammentata. 
Le osservazioni fatte a Bamberg, pregevoli da alcuni lati, 
non si estendono alla struttura intima del microrganismo. 
Non conoscendo ora altre ricerche speciali che della Cren. 


(!) Betriebs-Bericht des Wasserwerkes der Stadt Bamberg fiir das Jahr 1893- 
1894-1895. Bet. 19, pae. 11-12; Bet. 20, pag. 18-19; Bet. 21. pag. 14-16. 
(2) Jurnal f. Gasb. und Wasserversorgung, 1897, pag. 674, e n. 32, 6 agosto 1898 


258 d G. GASPERINI 


Kuhniana 0 polyspora direttamente si interessino, passerò a dare 
uno sguardo ad alcuni dei trattati che vanno ordinariamente 
per le mani di chi si occupa di questi studi, per vedere se al- 
meno qui sia contenuta una buona guida alla sicura diagnosi 
della Crenothrix. 

De Barr (4-?), Winter (3), Macer (4), Arnoup (5), Lusrie (5), 
K. B. Leamann (7), De Guxa (3-9), Fraenket (19), Mace (11-12), 
G. Roux (13), Wocreraùcer (14), Rusner (!°), Aspa (19), GAERTNER- 


— Magcrora (1°), LorrrLer (18), Core (1°), Lenmann e Neumann (29), 


(1) De Bary (A.). — Vergleichende Morphologie und Biologie der Pilze, Myceto- 
zoen und Bacterien. Leipzig, 1884, pag. 507-508, fig. 196. 

(*?) De Barr (A.). — Vorlesungen ber Bacterien. Leipzig, 1885, pag. 59, fig. 5. 

(8) Vinter (GroRr6). — Die Pilze Deutschlands, Oesterreichs und der Schweiz. 
I. Abtheilung. Leipzig, 1884, pag. 42 e pag. 67. tisi 

(4) MaeGI (L.) — Acque potabili — esame microscopico. Milano, 1887, pag. 324. 

(9) ArnouLD (JuLes) — Nowveaux elements d’ Hygiène. Paris, 1889, pag. 186. 

(6) LustIe (ALessanpRO). — Diagnostica dei batteri delle acque. Torino, 1890, 
pag. 115. 

(7) K. B. Leumann. — Die Methoden der Praktischen Hygiene. Wiesbaden, 1890, 
pag. 95-96. 

(8) Dr GraxA (V.). — Manuale d’ Igiene pubblica. Vallardi. Milano, 1890-91. pag. 
332; fig. 70. 

(9) De Graxa. — Compendio d’ Igiene ad uso degli studenti e degli ufficiali sani- 
tari, pag. 237-238, fig. 154. Napoli, 1894. 

(1°) FRAENKEL (CARLO). — Manuale di Batteriologia ad uso degli studenti e dei me- 
dici pratici. Torino, 1891, pag. 9. 

(44) Mace (E.). — Les substances alimentaires étudites au microscope ece. Paris, 
1891, pag. 467-468. 

(1°) Mace (E.) — Traité pratique de Bactériologie. Paris, 1892, pag. 680-682. 
fig. 201. — Paris, 1897, pag. 332, 333. 


(43) Roux (GABRIEL). — Précis d'analyse microbiologique des eaux. Paris, 1892, 
pag. 374-375, fig. 53 a pag. 277. 
(44) WoLrrHiGeL (G.). — Provvigione d’acqua; nel trattato d’ Igiene sociale di 


F. RenK ece. Trad. di Guelfo von Sommer. Napoli, 1893, pag. 360. 

(55) Max RusnER. — Lehrbuch der Hygiene— (5 auflage) Leipzig und Wien 1895, 
pag. 906. 

(15) Asa (Francesco). — Manuale di Microscopia e Batteriologia applicate al- 
V Igiene. — Torino, 1896, pag. 257-258. 

(1°) GaertnER-MacGIoRA. — Manuale d’Igiene per medici e studenti. Libreria Val- 
lardi, pag. 64, fig. 28. 

(15) LoeFFLER (F.), OESTEN (G), e SEUDTNER (R.).— Wasserversorgung, Wasserun- 
tersuchung und Wasserbeurteilung. Jena. 1896, Cap. XII; pag. 726-727, fig. 17. 

(‘°) CoretL (FrancoIsS). — L’ eau potable. Paris, 1896, pag. 161-162. 

(?°) LenMANN (K. B.), NeumANN (R). — Atlas und Grundniss der Bakteriologie 
und Lehrbuch der speciellen bakteriologischen Diagnostik. Theil II, Miinchen, 1896, pag. 
399-401, fig. 29 e 30. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 259 


Fricce (1), OrLwiLLER (*), Fiscuer (5) ed altri molti, fanno menzione 
della Crenothrix; ma si limitano a dei cenni troppo incompleti, 
per lo più riproducendo le solite figure note di Corn, di Zopr e 
di GAERTNER e TIEMANN. 

Quest'ultimi, nell'edizione più recente del loro reputato ma- 
nuale (4) osservano che la Crenothrix si trova diffusa in Eu- 
ropa, nell’ America e nell’ Asia, e che non può vivere se non 
nelle acque ove trovasi il ferro in quantità sufficiente, quan- 
tità che sembra non dover scendere, per litro, a mg. 0,3 di Fe 0. 
La descrizione dei particolari morfologici del microfita non è 
altro che un riassunto dei migliori lavori sopra analizzati. 

Ciò che GaeRTNER e Tremann non riducono troppo agevole è il 
riconoscere le forme abituali della Crenothrix perchè, mentre 
nella Tav. II, fig. N.° 18, mostrano ad esempio il filamento g di 
Crenothrix distinto da quello f di Beggiatoa e da quello 7 di 
Cladothrix, per una speciale struttura interna, e per esser più 
grosso, nella Tav. V, alla fig. 41 c, adottata da molti trattatisti, 
i filamenti divengono come quelli dati per tipici della Cladothrix. 
E così fra i vari tipi di filamenti, e di aggregati filamentosi, 
sì riesce a distinguere quelli che più corrispondono al vero 
(Tav. V, fig. 41 d) sol quando si sia prima posseduto ed imparato 
a conoscere il microfita. 

Nella “Sylloge ,, di Saccarno finalmente (°) la Crenothrix 
figura, conforme i concetti di Trevisan, in una tribù a parte 
delle Schizomycetae, con la diagnosi che riporto: 

“ Filamentis immobilibus, circiter 1 cm. longis, crassitudine 
variis, deorsum 1, 5-5t., apice 6-9p. latis, vaginis crassis, apice 
primo hyalinis, dein (ob materiem ferrugineam) refuscenti-brun- 
neis saepeque incrustatis inclusis; articulis circiter diametro se- 
squilongioribus ,. 


(4) Fuiiece (C.). — Die Mikrorganismen. Leipzig, 1896. Zweiter Theil, pag. 76-77, 
fig. 27a, 270. 

(2) OrtmiiLLeR (W.). — Esame delle acque— Guida pratica ad uso dei laboratori 
e uffici d' Igiene, ecc. Torino, 1897, pag. 119-120, fig. 63. 

(3) D. ALrreD Fiscner. — Vorlesungen iiber Bakterien. Jena, 1887, pag. 34. 

(4) Tremann e GAERTNER. — Handbuch der Untersuchung und Bewurtheilung der 
Wasser. Braunschweig, 1895, pag. 435. Tav. II, fig. 189; Tav. III, fig. Ala, 415; 
Tav. V, fig. 41c, 41d. 

(5) Saccarpo (P_A.). — Sylloge fungorum. Vol. VIII. — Se Auct. 
J. B. De Toni et V. Trevisan. Patavii, 1889, pag. 925-926. 


260 G. GASPERINI 


“ Hab. in aquis stagnantibus vel raro lente fluentibus. — 
Vaginae primitus clausae, dein ob egressum aeque artrhospo- 
rarum, ac articolorum in organa multiplicationis conversorum 
apice apertae, ruptae. Glomeruli sporarum emissarum muco 
obvoluti ochra ferrugineo-brunnea saepe colorantur ,. 

Quanto ho cercato di raccogliere in sè riassume lo stato 
attuale delle conoscenze nostre sulla così detta Crenothrix, ri- 
conosciuta e descritta come tale, a prescindere cioè da tutto 
ciò che trovasi sparso sotto vari nomi nella letteratura micro- 
biologica e che i presenti studi faranno rientrare in questo 
capitolo. 

Intanto il cenno bibliografico premesso fa senza dubbio sor- 
gere il desiderio di vedere un po’ più chiaro in un fenomeno 
che ha alta importanza e che è legato alla vita di un micror- 
ganismo così singolare e dal lato morfologico e da quello bio- 
logico. 

Veniamo dunque alle ricerche che ho potuto fare sull’ ar- 
gomento. 


$. IL 


La Crenothrix in alcune sorgenti dell’acqua potabile di Pisa 
allacciate nel 1896. 


L'acqua di Pisa si origina, come è noto, dalla Valle delle 
Fonti di Asciano, valle sottostante a sud-ovest del monte Faeta, 
divisa dalla Val d'Agnano a levante per mezzo di una giogaia 
detta di Costia grossa, separata a ponente dalla val d’Asciano 
per l’altra giogaia che pur si ricongiunge con la Faeta e che 
è detta di Costia piccola. Fino dall’anno 1890-91, d’ infausta 
ricordanza per la grave epidemia tifica che colpì questo comune, 
il servizio si ridusse alla sola acqua da bere raccolta nella pre- 
detta Valle delle Fonti, perchè prima di utilizzare nuovamente 
la piccola contribuzione di valle d’ Agnano, alla quale il Mu- 
nicipio aveva dei diritti, conveniva eseguire i lavori assai di- 
spendiosi che in omaggio alla igiene erano stati suggeriti. 
Siccome peraltro il Municipio, anche dopo aver fatte le opere 
volute, sembra che non avrebbe potuto per tutto l’ anno, e 


SULLA COSÌ DETTA CRENUTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 261 


specie nei periodi di magra, liberamente disporre dell’acqua 
d’Agnano, per questo fu convenuto, fra l’attuale proprietario 
della Tenuta d’Agnano ed il Municipio stesso, di cedere a que- 
st ultimo alcune zone di terreno situate nella valle d’Asciano, 
e precisamente nella pendice coltivata ad ulivi dell’ex proprietà 
Fusi. In queste zone era probabile il rinvenire alcune polle con 
portata non inferiore all'insieme dell’acqua abbandonata, col 
vantaggio però d’assicurare al Comune il pieno diritto di usu- 
fruire per sempre le sorgenti allacciate e ridotte in grado da 
corrispondere al più possibile alle esigenze igieniche. 

Il dì 24 marzo del 1896 l’on. Consiglio comunale, consape- 
vole di dovere escogitare ogni mezzo per vedere aumentata la 
scarsa quantità delle nostre acque potabili, approvò il progetto 
dei lavori da farsi nella citata pendice. Questo progetto, redatto 
con molta cura dal competente Ufficio Tecnico in data 14 marzo, 
già nel successivo giorno 16 aveva ricevuto sanzione e comple- 
tamento dal lato igienico, interessandomi che fossero adottate 
certe norme la cui pratica utilità non poteva in seguito resul- 
tare meglio dimostrata. 

Chiunque conosca il terreno fissato per queste ricerche d’acqua 
comprende subito quali difficoltà si presentino per il tecnico 
e per l’igienista che a tali ricerche debbano presiedere. 

Il tecnico, inteso a rintracciare la maggior possibile quan- 
tità di vene, venuzze e stillicidi sopra un letto generalmente 
argilloso ed in mezzo ad uno spesso materasso di terreno di 
trasporto, sa bene che nessuna regola ha presieduto alla di- 
stribuzione o miscela della terra con i ciottoli, dell'argilla con 
i multiformi frantumi delle roccie, dei materiali fini con i de- 
triti di varia forma, o con i blocchi erratici i più diversi. Egli 
a priori ignora dove precisamente dirigere lo scavo, nè può dire 
‘quanto converrà estenderlo in superficie e profondità. Sulla 
guida dei punti ove il terreno è sempre bagnato, o nei quali 
la vegetazione fa fede della permanente umidità, oppure sulla 
guida di qualche pollicina apparsa all’esterno, deve limitarsi 
a mettere allo scoperto tutte le vene che incontra e seguirne 
il capriccioso decorso. Ha pure l’ obbligo di tener dietro ai fili 
d'acqua fino a profondità relativamente ragguardevoli, perchè 
in zone consimili bisogna insinuarsi assai per due scopi; e per 
aumentare la quantità delle prese, e per avere dei getti riuniti e 


262 G. GASPERINI 


riparati al più possibile dalle influenze esterne, dagli inqui- 
namenti. 7 

L’igienista poi meno che mai può mettersi a sentenziare a- 
prioristicamente, perchè basta aver presenziato questo genere di 
scavi; basta avere batteriologicamente controllato per anni e anni 
il risultato di simili allacciamenti, per aver acquistata la convin- 
zione che, se non difficile riesce il ritrovare un po’ d’acqua in 
mezzo a questi materassi di terreno di trasporto, posti sul dorso 
di roccie scistose e poco permeabili, molto problematico però è 
d’ottenere l’acqua stessa ben depurata. Messa poi allo scoperto 
una vena non inquinabile, difficile riesce di conservarla peren- 
nemente al sicuro da ogni inquinamento. Il terreno di queste 
valli è solo il caso che può offrircelo adatto per la naturale 
ed efficace protezione igienica ora di una, ora di altra scatu- 
rigine. 

Possono risultare i getti inquinabili e perfino capaci di in- 
torbidare durante le pioggie, per quanto accurata e perfetta 
l'esecuzione dei lavori. i 

In tali condizioni dovendosi fare le ricerche d’acqua per 
la città, e d'altra parte esigendosi dall’ ufficio sanitario un 
parere chiaro e preciso prima dell'esecuzione dei lavori, perchè 
l'autorità tutoria tali lavori consentisse, mi espressi favore- 
volmente solo dal lato chimico, subordinando all’ esito delle 
opere di presa il criterio batteriologico. Che dal lato chimico 
potevo pronunziarmi ben si desume dalla struttura dei terreni 
della pendice. | 

Questa, essendo costituita da un materasso che per la mas- 
sima parte contiene materiali di sfacelo delle anageniti, degli 
scisti quarzoso talcosi, quindi di rocce con scarsissimi materiali 
solubili, non poteva dare che acqua con insignificante residuo fisso. 
Lo dimostrano le analisi eseguite dall'amico dott. D. MartELLI nel 
gennaio del 1895 relative alla /.° Polla alta ed alla fonte della, 
Bagnaia, posta la prima all'estremo superiore della valle, la 
seconda nella parte più bassa. I campioni furono prelevati prima 
che fosse iniziato qualsiasi lavoro di presa. Eccone i resultati: 


1.2 Polla alta Ragnaia 


Temperatura ambiente . : . ; 3 40,5 O. 20,5.C. 
» dell’acqua . . ; 1 bibi 0% BIG! 150,6 C. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 263 


1.2 Polla alta Ragnaia 

Totale (gr. francesi) 0 : Nl25 8,93 

Durezza < Permanente . MT È ; 4,73 3, DT 

Transitoria . . G o : 6,52 5,36 
È a 120° C. per litro . ; MEMO EZ06 0, 1596 
Hesigno fisso | A A o 0, 1576 
Anidride silicica . ; ; 5 , . 0, 0120 0, 0110 
» solforica . ; . 5 . ; 0, 0049 0, 0034 
Cloro e Me EA o 002895 e 90268 
Ossido di calcio 5 î 5 - . : 0, 0306 0, 0300 
» di magnesio . _ i 2 ò o 0, 0408 0, 0421 
» di ferro . o a 6 - : . tracce tracce 

Sostanze ossidabili . ? 

Permanganato potassico occorso. ; ° : 0, 0047 0, 0025 
Ossigeno equivalente 7 . . 7 7 0, 0012 0, 0006 
Materia organica d È 5 5 È , 0, 0235 0, 0125 


Dal punto di vista batteriologico presentandosi il problema, 
per le ragioni avanti esposte, tutt'altro che di facile soluzione, 
eredetti bene di far precedere la messa in opera dei lavori 
di allacciamento dalle norme dettate nei rapporti 1.° marzo 
1895, N.° 45, e 16 marzo 1896, N.° 89, che possono riassumersi : 

1. Nel seguire le vene acquee alla maggior possibile pro- 
fondità,; 

2. Nel riservare a monte di ciascuna presa una sufficiente 
zona di protezione da ridursi a superficie regolarmente convessa 
con displuvi laterali; da privarsi delle piante coltivate (ulivi) per 
sostituirvi il prato naturale, e da cingersi in guisa da impedirvi 
l'accesso dell’uomo e degli animali; 

à. Nell’isolare e mantener separati e sorvegliabili i singoli 
getti fino dalla loro origine, procurando di raccogliere le acque 
di quelli che non han decorso ascendente, ad un livello più 
basso del luogo di affioramento ; 

4. Nel proteggere i punti nei quali vengono a giorno i getti 
ribenuti utilizzabili mediante tutti gli artifici suggeriti *dalla 
tecnica. (Corrispondono bene delle solide cappe di calcestruzzo 
rivestite di uno spesso mantello di argilla compressa, le quali 
abbiano l’ unghia di fondazione insinuata nel terreno, o nella 
roccia non ancora smossa durante i lavori. È bene sorgano da 
un piano inferiore al punto di emergenza dei getti e che ab- 


264 G. GASPERINI 


biano una specie di fossetta di drenaggio alla periferia esterna 
del loro fondamento. Tale fossetta, in località con sufficiente 
pendenza, potrà essere utilizzata per guidare a valle gli infil- 
tramenti che giungano fino a queste cappe di difesa; 

5. Nel procurare alle acque meteoriche, agli stillicidi, od 
alle vene superficiali incontrate nel fare gli scavi, un regime 
a parte fuori dei bottini di presa, bottini e gallerie che debbono 
difendere le acque allacciate da ogni possibile inquinamento; 

6. Nell’agevolare le misurazioni periodiche delle portate dei 
getti applicando degli idrometri con bocca a battente ricavata 
in lastre di bronzo; 

7. Nel curare che ogni galleria di presa abbia nell'interno 
uno scarico od un rifiuto a sè, atto ad allontanare le acque 
per la lavatura, quelle di filtrazione, o le altre giudicate non 
usufruibili; 

8. Nel porre ogni vena acquea, sia pure di portata insigni- 
ficante, in condizione da potersi escludere dal consumo con 
sicurezza ed in ogni momento, indipendentemente da quelle 
viciniori. 

Oltrechè su altri particolari inerenti alla conduttura, ai giunti 
dei tubi di ghisa, ecc., insistei sul volere isolati ed intercetta- 
bili i singoli getti perchè, ultimati tutti i lavori, dovevano ini- 
ziarsi le ricerche fisico-chimico-batteriologiche necessarie per 
giudicare ad una ad una le acque allacciate. 

Così fu fatto, ed il progetto ebbe esecuzione con la stessa 
cura con la quale il distintissimo ing. Virrorio ToenetTI intese a 
compilarlo. 

Alla quota 111,42 sorse il Bottino della Prima polla alta 
dove fan capo tre getti, il secondo dei quali ha la portata mag- 
giore di tutti quelli esistenti nella così detta valle della Pian- 
tata. Infatti 1 due getti laterali sono ricevuti da cannelle di 
piombo del diametro di 15 mm. mentre appena serve per rice- 
vere l’acqua della polla centrale un tubo del diametro di mm. 35. 
Percorso un breve tratto di galleria i tubi si scaricano in una 
pila di calma ben fatta e rivestita di cemento, dalla quale l’ acqua 
passa in altra pila avente l’idrometro. Dall’annessa pila di rac- 
colta viene poi condotta al sottostante bottino con un tubo di 
ghisa di piccolo diametro. Quesffo bottino situato alla quota di 
circa 105, è detto della Seconda e terza polla alta e riceve 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 265 


l’acqua da due gallerie assai profonde aventi ciascuna un pic- 
colo getto che sgorga in una pila a comune, dopo aver per- 
corso la respettiva galleria in tubi di cemento. Notisi che ogni 
pila di raccolta ha il suo rifiuto, e che il tubo di ghisa di ciascun 
bottino è sempre munito di saracinesca nei punti di scarico o 
di congiunzione con i bottini posti a valle. 

L'acqua della seconda e terza polla alta passa inoltre al terzo 
bottino, detto della Quarta polla alta, situato alla quota 97, 
40. Qui vi è un solo getto utilizzato, per quanto nell'interno 
del bottino stesso si veda scorrere da un tubo in cemento un 
po d’acqua che aumenta ed intorba al primo cadere delle pioggie. 
Quest'acqua subsuperficiale si scarica fuori dell’edificio di presa 
e non ha alcuna possibile comunicazione con la conduttura. An- 
cora più in basso, e sulla sinistra del botrello della Piantata, 
alla quota 67,50, v'è il bottino detto della Piantata, che at- 
tualmente raccoglie l’acqua di 7 getti separati, essendone stati 
soppressi due che, poco dopo il termine dei lavori, cessarono di 
dare acqua. L'Ufficio tecnico ben superò le difficoltà che vi erano 
di proteggere la galleria di presa dalla influenza dell’ attiguo 
botro. L'acqua di questa presa, in tubo di ghisa, va a ricon- 
giungersi con quella del Pino, alla quota 54,19. 

A] Pino si trovano 9 getti che provengono dall’ interno della 
galleria d’allacciamento guidati alla pila di calma per mezzo 
di tubi di piombo, che al solito prendono l’acqua dai singoli 
punti di affioramento. Come in altre platee di presa si trova- 
rono in questa delle pollicine con decorso ascendente, prossime 
ad altre più o meno discendenti al livello dell’ argilla. Le acque 
della Piantata, assieme a quelle del Pino, riunitesi con quelle 
dei bottini più alti il cui tubo scende al botro della Ragnaia, 
vanno tutte a raccogliersi nel bottino detto della Ragnaia, 
d’onde parte, alla quota di 33,75, il tubo forzato che le sca- 
rica nel condotto maestro della Valle delle fonti. 

Il bottino della Ragnaia mette direttamente ad una galleria | 
d’allacciamento ove si vedono separate 18 pollicine, che ver- 
sano il loro contributo nella pila di calma per mezzo esse :pure 
di tubetti di piombo. Per dare un'idea del valore di queste 
prese relativamente alla loro portata, od in altri termini, per 
valutare il benefizio ottenuto in rapporto alla quantità del- 
l’acqua acquistata, riferirò il resultato delle misure mensili fatte 


266 G. GASPERINI 


fino dall'inizio dei lavori. Tali misure si praticano regolarmente 
in Asciano per tutte le prese d’acqua allo scadere della 1. e 
della 2.* metà di ogni mese. Le cifre relative alle portate mas- 
sime e minime si pongano in relazione con gli annessi dati 
pluviometrici. 


TS 2.8 DÀ do PI = 
del mese| = 
Polla alta | Polla alta | Polla alta | Polla alta I") | E 

1896 MESE ISO NA SE I E VT O 
Maggio... |: — ‘|{0406|:0;033) — «i oxos5 = |. Re 
Giugno . . | 0,485 0,463| 0,033] 0,029) 0,083| 0,090) 0,086] 0,082| 99,7| 7 
Luglio . . | 0,440) 0,473] 0,029 0,034 0,078| 0,080| 0,077| 0,082| 68,4} 6 
Agosto . . | 0,442! 0,497 0,029) 0,033! 0,079) 0,091| 0,080) 0;093| 143,0} 17 
Settembre . | 0,489 0,480} 0,030| 0,030) 0,088) 0,090) 0,094| 0,094| 162,5| 12 
Ottobre . . | 0,564) 0,641| 0,039) 0,042| 0,100} 0,112| 0,104| 0,067] 184,2| 21 
Novembre . | 0,674| 0,627] 0,044| 0,040] 0,123} 0,119) 0,077| 0,071] 155,4| 15 
Dicembre . | 0,742] 0,646| 0,053| 0,052] 0,138] 0,159) 0,103| 0,105) 174,7] 16 


1397 
Gennaio . | 0,947] 1,155| 0,061] 0,071] 0,172] 0,180) 0,106| 0, 113} 97,8| 20 
Febbraio . | 1,052| 1,035) 0,072| 0,071| 0,195| 0,190| 0,112] 0,108] 17,9) 4 


Marzo . .| 0,950) 0,937) 0,070) 0,070) 0,189| 0,189] 0,105| 0,105| 65,3) 11 
Aprile . .| 0,957| 0,882} 0,069) 0,062) 0,185| 0,177] 0,102) 0,100) 52,2 12 
Maggio . . || 0,909| 0,857] 0,061| 0,057] 0,176} 0,167] 0,096| 0,093| 58,6) 11 
Giugno . . | 0,440 0,772) 0,053| 0,052) 0,167| 0,158] 0,089| 0,084| 20,4| 8 
Luglio . . | 0,762) 0,749) 0,052) 0,048| 0,160) 0,153| 0,084| 0,080) 57,9] 6 
Agosto . . || 0,723| 0,696] 0,048] 0,045| 0,148| 0,141| 0,080] 0,074| 68,6] 6 
Settembre . | 0,675} 0,653] 0,047| 0,046] 0,140| 0,129] 0,080 0,077| 97,6| 9 
Ottobre . . || 0,539) 0,622) 0,047] 0,044| 0,133| 0,271] 0,074) 0,071| 146,8| 12 


Novembre . | 0,607) 0,590| 0,043] 0,049) 0,123| 0,120| 0,069] 0,180 48,3| 7 
Dicembre . | 0,590| 0,582] 0,046] 0,055] 0,136| 0,120) 0,063| 0,063| 118,0| 12 


1898 
Gennaio . | 0,588| 0,539 0,040] 0,039| 0,113] 0,110| 0,094| 0,073| 52,6| 9 
Febbraio . || 0,520] 0, 696| 0,038) 0,072} 0,106} 0,117| 0,073| 0, 112| 110,5| 6 


Marzo . .| 0,512) 0,566! 0,035) 0,061| 0,102) 0,118| 0,063| 0,069| 135,9| 14 
Aprile . .| 0,511 0,565| 0,039) 0,056| 0,107| 0,127 0,074| 0,080| 229,9| 14 
Maggio. . | 0,539 0,548} 0,038] 0,040| 0,114) 0,113| 0,074| 0,078| 94,4| 11 
Giugno . . | 0,574 0,607] 0,041| 0,048| 0,116| 0,124| 0,074] 0,080 66,7 4 


| 
Luglio . . | 0,590] 0,590] 0,043| 0,042| 0,120| 0,119) 0,074| 0,074] 158,5) 6 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 267 


Polle Polle Eolo gi ES 
del mese| = 
della Piantata del Pino della Ragnaia nel E 
183896 Ie DA Ie DE 10 DE 
Maggio. . = — — — — — 123,3 | 13 
Giugno. .| 0,222) 0,200] 0,239) 0,220| 0,390) 0,388) 99,7 | 7 
Luglio . .|| 0,191| 0,186| 0,224| 0,235) 0,381| 0,415| 68,4 | 6 
Agosto .. . | 0,190| 0,198| 0,223| 0,240| 0,410) 0,451| 143,0 | 17 
Settembre . 0,203 0, 183| 0,233] 0,236| 0,414) 0,410 162,5 12 
Ottobre. .| 0,201) 0,226| 0,251| 0,214] 0,422| 0,435| 184,2 | 21 
Novembre . 0,199| 0,197] 0,263| 0.276| 0,424) 0,457 155,4 15 
Dicembre . 0,218) 0,229) 0,225) 0,253| 0,457) 0,447 174,7 16 
1897 
Gennaio .| 0,227] 0,235) 0,250| 0,293| 0,500] 0,485| 97,8 | 20 
Febbraio. . | 0,245| 0,248| 0,219) 0,227) 0,484| 0,487) 17,9 | 4 
Marzo . . 0, 241) 0,220) 0,277] 0,200) 0,435| 0,326| 65,3 11 
Aprile . .| 0,224| 0,234| 0,200| 0,204) 0,448) 0,452) 52,2 | 12 
Maggio. . 0,231| 0,225| 0,199| 0,198) 0,434| 0,413 58,6 Ii 
Giugno. .| 0,208| 0,182| 0,198| 0,177| 0,415| 0,415| 20,4 | 8 
Luglio . .| 0,158| 0,216) 0,234) 0,188| 0,415| 0,394| 57,9 | 6 
Agosto . .| 0,216| 0,241] 0,188| 0,188| 0,439| 0,397! 68,6 | 6 
Settembre . 0, 257; 0,189) 0,208 0,208| 0,415| 0,402 97,6 9 
Ottobre. . 0,189| 0,185) 0,226| 0,140) 0,415 0,415 146,8 12 
Novembre . | 0,203| 0,203| 0,198| 0,198| 0,415| 0,388] 48,3 | 7 
Dicembre .| 0,203| 0,196] 0,198| 0,198| 0,379| 0,361] 118,0 | 12 
1898 
Gennaio . 0,196) 0,196) 0,198| 0,177| 0,415 0,397 52, 6 9 
Febbraio . 0,194| 0,189| 0,177) 0,177] 0,397| 0,536 110,5 6 
Marzo . .| 0,192) 0,193| 0,188| 0,198| 0,415| 0,464| 135,9 | 14 
Aprile . . 0,196| 0,189| 0,208) 0,166) 0,415) 0,563 229,9 14 
Maggio. .| 0,203| 0,199) 0,177| 0,198| 0,406) 0,415| 94,4 | 11 
Giugno. .| 0,196| 0,196] 0,182| 0,177) 0,406| 0,397] 66,7 | 4 
Luglio . .| 0,196] 0,1961 0,177] 0,177] 0,397] 0,388| 158,5] 6 


L’esposte cifre servono per dare un indice dell’ aumento 
d’acqua procurato alla città, più assai che per fornire i dati 
preziosi ai quali per lunga esperienza credo dovere assegnare 
il primo posto per dare un giudizio sulla inquinabilità di una 


268 G. GASPERINI 


sorgiva (4), perchè perdono della loro importanza le misure 
che si riferiscono ad un insieme di getti che siano sotto- 
posti, come succede nei terreni di riporto, pur trovandosi vici- 
nissimi l'uno con l’altro, ad una protezione igienica della più 
varia efficacia. Dal momento che può accadere che una o più 
delle venuzze d’acqua facenti parte del getto complessivo che 
sì misura, aumenti rapidamente dopo un acquazzone, intorbidi, 
inquini le altre, senza rendere ciò avvertibile con l’idrometro, 
ben si capisce come questo istrumento, nel caso nostro, renda 
servigi assai limitati. Se è ad esempio un filo d’ acqua (e da 
noi non ne mancano) che, sotto l’ influenza direttissima della 
pioggia, trasporti seco parte delle immondezze capitate sul ter- 
reno sovrastante, duplicando o quadruplicando la sua portata, 
mentre getti relativamente raguardevoli si trovano magari 
nella fase di decremento per l'influenza di un precedente pe- 
riodo di siccità, il fatto, se non sorpreso al momento dall’igie- 
nista, può benissimo sfuggire del tutto, eppure esser capace di 
produrre lamentevoli conseguenze. Del resto sono tali e tante 
le circostanze per cui una o due misure mensili, fatte soltanto 
in periodi prestabiliti, o fissi, e relative ad un complesso di sca- 
turigini, possono perdere della loro importanza dal lato igienico, 
da non valere la pena di dilungarsi a dimostrarlo. 

Lo stesso dicasi per la temperatura che non sia presa polla 
per polla. 

Siccome però alla valutazione proficua della portata delle 
singole sorgenti io non potevo rinunciare, perchè mi sarebbe 
mancato uno degli elementi indispensabili per giudicare di que- 
ste acque, cercai di supplire come meglio potevo recandomi sopra 
luogo nei periodi che chiamerò wtiz, per tener conto delle oscil- 
lazioni relative alla portata, alla temperatura, ed all’ insieme 
dei caratteri fisico-chimico-batteriologici relativi alle singole 
cannelle di ciascun Bottino di allacciamento. Dirò subito che le 
osservazioni ben fatte servono sempre; ma che io comprendo 
nei detti periodi utili più specialmente quelle che si praticano 
durante la precipitazione di forti acquazzoni, nelle epoche di 


(1) GasperINI (G.), Ricerche e studì per la salubrità dell’acqua potabile di Pisa 
(cenno preventivo) Processi verb. di questa Soc., adunanza del dì 26 gennaio 1896. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUNHIANA 0 POLYSPORA Ecc. 269 


siccità, e nei giorni successivi ad abbondanti pioggie (30-60 e più 
millimetri in 12-24 ore). 

Premevano dunque accurati studi su queste polle perchè, 
ultimati i lavori per la loro immissione nell’acquedotto mediceo, 
appena capitato il bisogno di usufruirle, dovevamo sapere di che 
qualità di acqua si disponeva per la città. Nel recarmi sopra 
luogo per le analisi non omisi mai di ispezionare i singoli getti 
nel punto del loro affioramento. In generale si usa con muri 
a secco, o con altre opere che si vogliono giustificate per con- 
ferire stabilità alle prese, si usa dico di nascondere la piccola 
area dove le sorgenti affiorano. Ma essendo i nostri getti di 
Asciano fino dalle origini sgombri ed accessibili, potei sempre 
eseguire le ispezioni col profitto voluto. 

Tutto procedeva regolamente quando nel giorno 25 dicembre 
del 1896 mi accadde di notare nel fondo della galleria del 
“ Pino ,, e precisamente all’origine del getto n. 6 un deposito 
fioccoso, di colore ocraceo, diverso da altro deposito ocraceo os- 
servato precedentemente e nello stesso giorno al fondo della pila 
della seconda e terza polla alta. In quest’ultima pila verano dei 
detriti che giudicai inorganici, derivanti cioè dalla corrosione 
del letto argilloso e schistoso dove passano le vene acquee, 
vene che trasportano le minutissime particelle terrose, ricche 
di composti ferrici e perciò ocracee, specialmente sotto l'in- 
fluenza diretta delle pioggie. 

I fiocchi ocracei invece, visti alla origine della polla n. 6 
del Pino, la quale mai era intorbidata durante le pioggie, mi 
colpirono subito per le loro caratteristiche di sostanza appa- 
rentemente organica e vitale. 

Giova premettere che mentre le altre polle erano state 
allacciate, sia infiggendo un tubo di cemento nel punto di emer- 
genza di quelle a decorso ascendente, sia isolando e mante- 
nendo ben visibile la bocca d’efflusso di quelle a decorso quasi 
orizzontale, o addirittura discendente, per la polla n. 6 fu dero- 
gato da tale norma. Scavi ulteriori mi dimostrarono che 
questa polla n. 6 nient’ altro rappresentava se non che la 
riunione di più venuzze che andavano a far capo ad una can- 
nella di terra cotta, cannella che era stata malamente nascosta 
da alcuni frammenti di anagenite posti a secco (secondo i vecchi 
e banditi sistemi) nel fondo della piccola cunetta di allaccia- 


270 G. GASPERINI 


mento. Questa cunetta poi aveva per piano inferiore il terreno 
sciolto e melmoso, e per lati i muri di sostegno della cunetta 
chiusa superiormente a volta. 

Dal lato anteriore v'era stata posta una lastra di zinco 
murata a cemento, lastra che si elevava dal piano della cunetta 
e della galleria appena di 5 centimetri, tanto cioè quanto ba- 
stava per far inalzare l’acqua fino al tubo di piombo addetto 
allo scarico nella pila di calma. 

L’origine visibile di questa polla n. 6 era dunque rappre- 
sentata dal piano melmoso della cunetta, dove si elevava l’acqua 
che discendeva dalla nascosta cannella, passando attraverso la pa- 
rete a secco. 

Nel fondo della pila di calma, dove fan capo tutti i getti 
della galleria del Pino, già avevo notato un sottile rivestimento 
ocraceo che reclamava frequenti ripuliture per parte del fonta- 
naio. Ma di questo deposito, apparentemente identico a quello 
della pila della seconda e terza polla alta, non riuscivo a rendermi 
ragione, perchè è bene ripeterlo, le polle del Pino non si erano 
viste intorbidare durante le pioggie. Ogni qual volta mi recavo 
a prelevare i campioni ai getti della pila di calma, l’acqua 
era sempre perfettamente limpida, il che, pur lasciando nel 
buio l'origine del deposito ocraceo, mi rassicurava alquanto: 

Visti però i leggieri fiocchi sospesi nel fondo della cunetta 
sopra descritta, tolsi subito fuori d'uso la polla n. 6 sospettan- 
dola infetta dalla Crenothrix, ed iniziai sul fenomeno osservato 
tutte quelle indagini che giudicai adatte a farmelo conoscere 
ne’ suoi particolari. 

Nel raccogliere la sostanza ocracea fioccosa, che stava so- 
spesa verso il fondo della cunetta, vidi che risentiva tutti i mo- 
vimenti impressi all'acqua, come succede delle alghe, e che era 
tanto leggiera da presentare alcuni frammenti addirittura gal- 
leggianti. Raccolto questo deposito in tubi da saggio si vede che 
gli innumerevoli fiocchetti di varia dimensione che lo costitui- 
scono cadono lentamente al fondo, e l'uno va a poggiarsi lieve- 
mente sull’altro, costituendo una massa soffice:e non compatta: 0 
serrata. L'acqua sovrastante, e quella fra mezzo ai conglomerati 
ocracei è limpida ed affatto incolora. Se si decanta l’acqua di 
un recipiente e si va per palpare questi straccettini, dei quali 
alcuni sono lunghi più di 1 cent., scivolano fra mano; e se la 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 271 


massa si rende più asciutta, si palpano meglio, ricevendone 
l'impressione di sostanza molliccia, quasi untuosa, come succede 
dei fiocchetti delle Saprolegne e delle Beggiatoa. La differenza 
però sta in questo che, comprimendo la Crenothrix, ci troviamo 
fra i polpastrelli come della sostanza pulverulenta, argillosa con 
qualche granello solido, senza alcun senso di sostanza orga- 
nizzata. 

Trattando questi depositi ocracei con idrato potassico 0 sodico 
non si avverte alcuna modificazione, tranne un lieve accentuarsi 
del colorito che volge al ferrugineus carico. Con ammoniaca i 
fiocchi ocracei restano inalterati. Con acido solforico avviene 
una rapida scomparsa della sostanza fioccosa, restando al fondo 
dei tubi da saggio un lievissimo residuo scolorato, mentre il 
liquido si fa limpido ed incoloro. Con acido idroclorico: succede 
lo stesso fatto della scomparsa dei cespugli; ma il liquido prende 
il colore citrino del cloruro ferrico dilnito. 

Con soluzione di acido acetico il liguido più a contatto con 
i cespugli si carica lentamente del colore ocraceo, il quale, agi- 
tando, si diffonde, senza che la sostanza fioccosa veda alterarsi 
per volume o per forma. 

Con acido ossalico invece i fiocchi scompaiono con tanta 
maggior rapidità quanto più concentrata è la soluzione che si 
adopera, proprio come avviene con i citati acidi minerali, risul- 
tando pure di color citrino il liquido che rimane, e che lascia 
cadere al fondo solo qualche tenue detrito bianco-gialliccio. 

Se si passa al trattamento dei cespugli con alcole etilico, 
alcole amilico, etere, cloroformio, benzina e solfuro di carbonio, 
nessuna traccia di colore si vede sciogliere. Con l’ebullizione 
i fiocchettini non si alterano. Essiccando il liquido, o lasciando 
che si evapori all'ambiente, la sostanza fioccosa si riduce moltis- 
simo di volume; prende l'aspetto di polvere inorganica, ed 
è incapace di riacquistare i primitivi caratteri fisici e macro- 
scopici. i 

Caratteri microscopici. — Ho esaminato la sostanza fioccosa 
direttamente in acqua e sopra luogo ; ne ho proseguito lo studio 
in laboratorio col sussidio di materie coloranti e di reattivi, 
ed ho tenuto dietro alle modificazioni subìte a distanza varia 
dal prelevamento. 

Interessa ora fissare le caratteristiche microscopiche dei 

Sc. Nat., Vol. XVI 18 


DI G. GASPERINI 


cespugli di colore cremeus ed ockroleucus che primi potei osser- 
vare fino dal dicembre del 1896. 

Esaminati a fresco, nella stessa acqua della polla n. 6 del 
Pino, e subito dopo la presa, si presentano costituiti da un 
intreccio di sottilissimi filamenti. Sottoposti ad un ingrandi- 
mento sufficiente vi si nota un ammasso principale di filamenti 
isodiametrici, di colore ocraceo più o meno intenso, variamente 
intrecciati fra di loro, ed i più ricurvati, serpiginosi, lunghissimi. 
Questi filamenti, dai quali sembra che i cespugli siano esclu- 
sivamente formati, hanno un diametro che oscilla fra p 1,:3 
e p. 1, 7, essendo quelli più sottili con parete quasi del tutto 
incolora, e quelli del maggior diametro con parete più netta, 
assai più cupa, molto rifrangente. Nei filamenti nettamente 
ocracei, tav. VIII, fig. 1, a, come in tatti gli altri ove c'è ve- 
stigio di colore cremeus alle pareti, non sì riesce ad avvertire 
alcuna differenziazione del contenuto. Nessun granulo, nessun 
addensamento protoplasmatico, nessun corpuscolo rifrangente, 
nessun movimento. Sono come tubicini vitrei, organoidi, con 
pareti liscie, di forma regolarmente cilindrici, nei quali, se più 
colorati, si rende bene apprezzabile come una linea scura con- 
tinua ed omogenea verso l’asse dei filamenti stessi; ma nei 
quali mancano le fondamentali caratteristiche dei veri e propri 
corpi organizzati, o provvisti di vitalità. 

Hanno gli estremi troncati, non mostrano ramificazioni. 

Proseguendo nell'esame a fresco di questi finissimi intrecci 
filamentosi si riesce a scorgervi frammisti degli altri fili per- 
fettamente incolori, che focheggiando si rendono avvertibili per 
la loro rifrangibilità. 

Di questi filamenti alcuni sono di un diametro eguale a 
quello degli altri fili dove comincia a formarsi la membrana 
ocracea, (v 1, 3. 1, 5), altri di un diametro che oscilla fra 
2,5ep3. 

Tanto gli uni che gli altri si vedono costituiti come da articoli 
bacilliformi, ed hanno movimento di progressione oscillarioide. 

Quelli più sottili presentano articoli di varia lunghezza, 
tav. VIII, fig. 1, c, e fig. 3, nè si muovono soltanto quando si 
trovano isolati. Anzi devesi al movimento oscillatorio proprio 
delle singole ramificazioni l'aver potuto stabilire che le rami- 
ficazioni stesse sono vere e non false. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 273 


Si noti infatti che i rami restano uniti nei vari modi ritratti 
nelle citate figure, nonostante il loro manifesto e continuo mo- 
vimento in goccia pendente. Talora gli articoli costituenti questi 
microrganismi filiformi e ramificati raggiungono la lunghezza di 
2 e 4 &; talora invece si vedono molto corti, con gli estremi 
di contatto tagliati normalmente all’asse, quindi senza accenni 
di curvatura. In date incidenze di luce si mostrano contornati 
come da un alone chiaro che tenga uniti gli articoli. 

Nei filamenti ialini più grossi non si vedono ramificazioni. 
Sono anch'essi però dotati di protoplasma finamente granuloso 
e di alone chiaro. La lunghezza dei loro articoli varia fra w 
6,5 e p 8. Fra questi filamenti grossi e mobili se ne avvertono 
dei tratti, uniti od isolati, tav. VIII, fig. 1, è, nei quali è ma- 
nifesta la bipartizione in forme più corte e sferiche. Tanto il 
movimento dei filamenti lunghi quanto quello dei frammenti 
corti ed isolati, partecipa più del moto proprio dei tricomi 
delle oscillarie, di quello che del movimento di alcuni veri e 
propri bacilli filamentosi. 

Rilevata così la costituzione dei cespuglini tralascio di en- 
trare in particolari relativi ai detriti inorganici ed alla pre- 
senza di altri corpi organizzati. In questi primi esami del resto 
le impurità, od in altri termini, ciò che è, o sembra estraneo 
ai filamenti descritti, non si presentò che come un fatto del 
tutto eccezionale. 

Passando all'indagine dei cespuglini con l’aiuto di materie 
coloranti (azzurro di metile, violetto di genziana, fucsina, eosina, 
ematossilina e tintura d’iodio) vidi in generale restare incolori 
i filamenti organoidi; colorarsi facilmente e intensamente quelli 
che erano incolori, ed in questi, a seconda delle soluzioni ado- 
perate, ben apprezzarsi dei fenomeni plasmolitici. Istruttivo 
sotto tale punto di vista è l'esame con la tintura iodica. 

Nei cespugli che han subìto tale trattamento si vede che 
prendono un colore iodico più intenso i filamenti privi di guaina 
ferrica, mentre i soliti cilindri vitrei restano sbiaditi. Fra questi 
però non è raro trovarne alcuni dirò così animati. Si vede nel 
loro interno come un sottilissimo filamento spezzato in tanti 
articoli più o meno lunghi, i quali, od occupano regolarmente 
l’asse della guaina ferrica, o vi si dispongono in modo affatto 
irregolare, obliquandosi in direzioni diverse. 


274 G. GASPERINI 


Questi filamenti, i cui articoli per lo più distano molto fra 
di loro, hanno lo stesso aspetto di altri sottili filamenti spez- 
zati che si vedono frammisti ai cilindri organoidi predominanti. 
Siffatta identità di comportamento con l’iodio, di dimensione e 
di forma fra le catene libere e quelle situate entro alcuni fila- 
menti provvisti di guaina ferrica, ha un'importanza che non 
può sfuggire ad alcuno. 

I soliti cespuglini ocracei, che per altre reazioni, oltre quelle 
già accennate, mi erano risultati composti da ossido-idrato fer- 
rico, mi accorsi che conveniva esaminarli preferibilmente sotto _ 
l’azione dell’acido ossalico. 

Da prima raccolsi quei frammenti che cadono al fondo delle 
soluzioni ossaliche ove scompaiono i cespugli ocracei; ma ope- 
rando in tal modo non possono apprezzarsi quei particolari così 
chiari e dimostrativi come quando si fa agire il solvente sotto 
il campo del microscopio, fissando bene i filamenti sui quali 
si agisce. 

Con questo metodo potei avere la conferma di ciò che i 
precedenti esami avevano fatto intravedere. Di fatti, scelto un 
cespuglino e da un lato del coprioggetti facendo agire il solvente 
con la voluta delicatezza perchè la corrente del liquido non 
asporti l'intreccio che si osserva, non riesce difficile, usando 
soluzioni tenui, di presenziare la scomparsa delle guaine fer- 
riche nel modo rappresentato dalla Tav. VIII fig. 4. 

Restano così dei filamenti ialini sottilissimi, alcuni dei quali 
continui, senza vestigio di interruzioni; altri con linee trasver- 
sali più rifrangenti che segnano il confine fra articolo ed arti- 
colo non ancora bene individualizzato ; altri pochi, pure ialini, 
continui, ma con una serie irregolare di punti rifrangenti, come 
si trattasse di endopore in formazione disposte a catenelle; la 
maggior parte però costituiti da articoli di lunghezza molto 
svariata e più o meno fra di loro distanti, presentandosi in 
generale con la fisonomia ritratta nella citata figura. 

Ciò che pure si rileva da questi esami si è che i filamenti 
continui, o spezzati, che restano dopo l’azione dell'acido ossa- 
lico, sono in numero molto minore dei filamenti ocracei preesi- 
stenti. Manifestamente dunque nella costituzione di questi in- 
trecci filamentosi ve ne sono alcuni che non lasciano traccia 
veruna dopo che la loro guaina è stata disciolta. Il diametro 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 275 


dei filamenti articolati residui oscilla fra p 0,8 ep 1,7. I sin- 
goli articoli poi si comportano con l’iodio e con le materie 
coloranti come i filamenti non ancora rivestiti di guaina. 

Fissate queste particolarità dirò poi dell’osservazioni con- 
tinuate, dei tentativi di cultura e di altre ricerche sperimentali 
eseguite; ma prima di andare oltre mi preme di avvertire che 
in Asciano, la constatazione della Crenothrix è passata senza alcuna 
conseguenza pel servizio dell’acqua potabile. 

Tolta fuori d'uso la polla N.° 6 del Pino, la cui portata 
minima appena giungeva a lit. al 1"0,020, si procedette alla 
disinfezione con latte di calce, preparato sulla località, del pic- 
colo tratto di tubolatura in ghisa, dal quale, con gli scarichi, 
si vedevano fuoriuscire dei fiocchetti ocracei. Eguale e generosa 
disinfezione fu ripetuta nelle pile ed in tutta la galleria di presa 
del Pino. Con soluzioni concentrate di acidi minerali, con ogni 
mezzo, si tentò di far cessare la vegetazione ocracea comparsa 
nella cuccetta del getto N.° 6; ma riuscito vano ogni tenta- 
tivo, si ricorse perfino a farne di nuovo l'allacciamento. Gli 
scavi praticati ci confermarono che questa polla N.° 6 non era 
altro che la risultante di tre insignificanti fili d’acqua, non 
troppo profondi, due dei quali, per quanto presi separatamente, 
continuano tuttora a produrre Crenothrix ed a rivestirne i tubi 
di piombo; il terzo non ne ha più mostrato alcun vestigio. 

Le due pollicine con Crenothrix, in ordine ai criteri della 
facile esclusione dal consumo dei getti non usutruibili, si man- 
tengono fuori di ogni e qualunque rapporto con le scaturigini 
utilizzate. 

Ci è poi facilmente riuscito di difendere le polle della Pian- 
tata dai trapelamenti ocracei che avvenivano lungo i muri 
delle gallerie di allacciamento. In queste efflorescenze di colore 
ocraceo vivo si trovarono gli stessi filamenti organoidi, ed i 
medesimi filamenti ialini che abbiam visto al bottino del Pino; 
ma con un buon intonaco di cemento Portland le acque della 
Piantata sono state protette. La rigogliosa vegetazione di Cre- 
nothrix constatata in una fossetta superficiale presso le polle del 
Pino, e precisamente nei punti di affioramento al fondo della fossa 
di alcuni gemizii subsuperficiali, dopo due anni da quando vi 
comparve, è scomparsa del tutto. Senza dubbio possiamo affer- 
mare che devesi al modo esemplare col quale furon condotti i 


276 G. GASPERINI 


lavori di allacciamento in questa pendice se siamo riusciti a 
trovarvi un po’ di acqua garantita da inquinamenti temibili, 
superando le molte difficoltà che anche per opera della Cre- 
nothrix ivi diffusa ci si erano presentate. 


$. VI. 


Ispezione a Corneto Tarquinia. 


Essendo noto per opera dei ch. Prof. R. BentIveena ed 
A. Scravo che alla fonte pubblica di Corneto Tarquinia si 
beveva acqua di sapore ed odore nauseanti, principalmente 
per causa dello sviluppo nei tubi di ghisa della Crenothrix K- 
hniana, valendomi dell'amico D. Ueo Rosi, direttore dell’ 0- 
spedale di quella Città, cercai di procurarmi delle notizie per 
sapere se l'inconveniente colà persisteva, e se in tal caso 
avesse subìto delle modificazioni. Interpellato l’ egregio Ing. 
Griseimi Cammitcro ed il fontaniere Apamo Pacmi, mi si as- 
sicurò che alla fonte’ pubblica seguitava a giungere l’acqua 
con cattivo odore, e con lo stesso sapore sgradevole che vi si 
notò in passato. Di più, che nei tubi di ghisa smaltati si aveva 
la formazione della materia bruna ed untuosa che avevano 
studiata ScLavo e Benmiveena. Le differenze, secondo il parere 
comunicatomi, erano solo relative ad una diminuzione della 
quantità dell’ inconveniente; ma non della qualità. Dopo ciò 
venni inviato sul posto, riconosciuto giusto il desiderio di isti- 
tuire ricerche comparative con quanto erasi verificato in Asciano. 

La mattina del 6 maggio 1897 fui alla sorgente delle Trocche. 
Di qui l’acqua va nel vicino serbatoio ove pesca il tubo suc- 
chiatore di una pompa che spinge l’acqua stessa al pozzetto 
della vigna degli archi (vigna Marzi) attraverso una tubula- 
tura in ghisa. Da questo pozzetto, come ben si rileva dalla me- 
moria dei citati aut., l’acqua scorre in conduttura libera fino 
‘alla città. 

La sorgente delle Trocche è guidata a giorno da uno strato 
argilloso ed è stata allacciata per mezzo di una galleria e di 
una cunetta, che passano sotto un orto che vidi coltivato. 

Le pareti della cunetta e della galleria non sono impermea- 
bili. Dopo le pioggie la polla aumenta di portata assai rapida- 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA O POLYSPORA ECC. 207 


mente, ma non intorba; e durante gli acquazzoni penetrano 
nella galleria non poche impurità dalle fessure dell’uscio d'ac- 
cesso. Prelevai un campione dell’acqua nella parte più profonda 
del cunicolo di presa, dove alle ore 8,50, essendo la temp. 
ambiente 18°,8 C. la temp. dell’acqua ascendeva a 16°, 2 C. 
Dal saggio batteriologico fatto sul posto con la gelatina di 
Koc® e con le fiaschette del PerruscaKy riscontrai in seguito 
che non erano numerabili le colonie delle fiaschette che ave- 
vano ricevuto !i0 e !/ cm.8 d’acqua. Nelle fiaschette con ly 
di cm.3 verificai una media di 840 col. per cm.° di cui 340 
liquef., con un complesso di 5 specie. 

Passando al bottino ove trovasi il'tubo succhiatore della 
pompa trovai galleggianti delle sfere cristalline, proprie delle 
acque ricche di sali. Il saggio batteriologico fatto col metodo 
‘suddetto dette per risultato: colonie p. cm.*, n. 1010, di cui 450 
liquef. Totale delle specie 5. Le pareti interne di questo piccolo 
serbatoio erano state rivestite di cemento fino al massimo livello 
cui può arrivare l’acqua; ma neppur qui si era pensato a di- 
fendere l’acqua stessa dagl'inquinamenti che provengono dal- 
l’uscetto d'accesso, e dai trapelamenti al livello del terreno. 
Nè ciò ha poca importanza, poichè la stessa sorgente alimenta 
un vicinissimo abbeveratoio che serve a richiamare lì attorno 
non pochi animali. 

Dal fondo della galleria della sorgente, che dà acqua lim- 
pidissima, dal pilone che serve per abbeverare il bestiame, 
dalle pareti e dal fondo del serbatoio addetto al tubo della 
pompa, presi quel deposito che potei avere, non vedendovi in- 
crostazioni di sorta nè di colore ocraceo, ne giallo verdastre, 
nè brune. 

Dopo avere esaminata la pompa in funzione, mi feci smontare 
alcuni tubi del tratto ascendente situato fra la pompa stessa e la 
vigna degli archi. Su questo tratto dell'acquedotto doveva po- 
sarsi la mia attenzione perchè il fontaniere insisteva nell’ af- 
fermare che, quando la pompa non funzionava, si rendeva ne- 
cessario scaricare il tubo di ghisa per tenerlo al più possibile 
pulito, e che sî doveva a questi scarichi interrotti se gli incon- 
venienti da tanto tempo lamentati si erano ridotti di minore 
entità. Lasciando ferma l’acqua nel tubo ascendente aumenta 
il cattivo odore, aumenta la produzione della materia bruna, 


278 G. GASPERINI 


peggiorano in altri termini le condizioni del servizio. Tagliato 
in mia presenza un tratto di tubolatura, vidi subito come la 
superficie interna dei tubi smaltati di 60 millimetri era rico- 
perta d’ un sottile strato brunastro che si esfoliava facilmente. 
Questo rivestimento era determinato da una sostanza untuosa 
al tatto, di colore scuro, e di odore molto ingrato. Otturato 
un tubo alle due estremità lo inviai a Pisa per le analisi da 
farsi in laboratorio. Prelevai altro materiale per l'esame mi- 
croscopico immediato avendo meco tutto l'occorrente. 

Passando dalla vigna degli archi, sempre accompagnato dal 
fontaniere, mi calai nel bottino donde parte il tubo in coccio, 
e qui pure raccolsi il deposito scuro, untuoso, in qualche punto 
gelatinoso, riconosciuto anch'esso per i caratteri macroscopici 
perfettamente identico a quello che vi era molti anni prima. 

Volli infine prendere anche un poco di quelle efflorescenze 
travertinose che si trovano in un pozzetto d’ arrivo presso porta 
Tarquinia, e che presentano un certo aspetto di produzioni 
pseudo-organiche di colore ocraceo-pallido. 

Le indagini microscopiche eseguite sul materiale fresco mi 
persuasero che nei bottini precedenti alla pompa v' erano solo 
dei depositi cristallini misti a qualche alga e diatomea. Nei tubi 
invece del tratto ascendente il rivestimento untuoso si vide 
rappresentato da una ricca collezione di protisti mescolati a nu- 
merose particelle inorganiche, brune, di colore verdastro, e 
molte di colore ocraceo vivo. Non erano rari i filamenti settati 
e muniti di ramificazioni vere. Alcuni erano incolori, altri di 
colore ocraceo, altri scuri. Quelli ocracei, dello spessore di 4 a 
10 4, avevano la parete con doppio contorno ed il protoplasma 
intensamente colorato. Trattati con acido ossalico non scompa- 
rivano dal campo, nè presentavano i fenomeni plasmolitici propri 
della Beggiatoa alba. 

Qua e là se ne trovava certuni che arieggiavano molto a quelli 
della Crenotrix; ma non riuscì difficile differenziarli per le ca- 
ratteristiche della parete, per qualche setto, o per avervi sor- 
presa qualche ramificazione. Quei grossi fili con differenziazioni 
protoplasmatiche, come: quello che attraversa la fig. 2 annessa 
alla memoria dei ch. aut. citati, appartengono senza dubbio al 
micelio dei mucor. Insistendo in questi esami m’imbattei in 
cespuglini di filamenti piuttosto grossi, ocracei, perfettamente 


SULLA così DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 279 


identici a quelli che non di rado si vedono frapposti ai fiocchi 
di Crenotrix. Avevano un doppio contorno ed erano circuiti 
da granulazioni esse pure ocracee. Ricorso però ai reattivi mi- 
crochimici potei assicurarmi che si trattava di un vero e pro- 
prio micelio, il quale probabilmente era cresciuto in un punto 
ove l’incrostazione interna dei tubi si era screpolata, e dove 
perciò aveva potuto arricchirsi di sali ferrici. 

Senza dilungarmi sui vari microrganismi osservati dirò che, 
non avendo potuto riconoscere filamenti veri di Crenotrix in 
nessun tratto della conduttura delle Trocche, credetti utile di 
procedere all'esame dell'altro ramo dell’ acquedotto che conduce 
l’acqua detta dell’ Orsetto. 

Quest'acqua proviene da una località elevata, tenuta a ve- 
getazione naturale, detta la Turchina. I cunicoli raccoglitori si 
riuniscono in una galleria sotterranea lunga circa un chilometro, 
e questa fa capo ad un bottino ove prelevai il campione per 
l’analisi chimica. 

Esaminando il fondo di questa galleria ci vuol poco a per- 
suadersi che quest’acqua è sovraccarica di sali, essendosi for- 
mata un letto di aspetto spongioso e di consistenza lapidea. 
Eguale incrostazione di fatti si verifica nei tubi di ghisa di 100 
millimetri, con i quali è stata canalizzata per riunirla presso 
alla città con l’acqua delle Trocche; ma quest’ incrostazione è 
a strati ed esclusivamente formata da depositi inorganici. 

L'analisi chimica sommaria dette il seguente risultato : 

Nitrati ed Ammoniaca, assenti. Nitriti, traccie; 

Residuo fisso a 120°C. per lit. gr. 0,560; a 180°C. gr. 0,500. 
Cloro, gr. 0,090; Anidride solforica, gr. 0,050; Ossido di calcio, 
gr. 0,152, Materia organica (secondo Woop e KussL) gr. per 
lit. 0,029. 

Evidentemente quest’acqua, il cui residuo fisso oltrepassa i 
limiti convenuti per la potabilità, deve essere molto più incro- 
stante di quella delle Trocche, il cui residuo a 120°C. fu da 
me trovato di gr. 0,350 per litro, di poco superiore cioè ai 
gr. 0,3650 p. 1000 c.c. verificati nel laboratorio della Sanità 
Pubblica circa sette anni prima. Ed infatti l’acqua dell’ Orsetto, 
come ben si rileva dall’esemplare che ho in laboratorio, è capace 
di rivestire tutta la superficie dei tubi di ghisa di una crosta, la 
quale è sottile o mancante nella parte superiore, spessa e stra- 


280 G. GASPERINI 


tificata in corrispondenza del piano di posa dei tubi stessi. In 
tutta la diramazione dell’Orsetto, ispezionata nelle singole sue 
parti, non ho verificato alcun vestigio di Crenothrix. 

Questa conduttura, che si rende inutile nei periodi di ma- 
gra, perchè la polla va a ridursi ad un filo d’acqua incapace di 
arrivare alla città, mi ha presentato un particolare degno di 
nota. Si tratta della presenza di tubercoli ferrugginosi tipici, 
esemplari, disseminati nei tubi che avevano servito da qualche 
anno. Il fontaniere, poichè il ramo dell’ Orsetto va soggetto ad 
intasarsi anche pel forte materiale di deposito che l’acqua vi 
trascina, deostruisce i tubi ai quali può fare l’ operazione util- 
mente, ed altri ne sostituisce. Esaminando di quelli che erano 
stati in funzione, li vidi appunto con i detti tubercoli aderen- 
tissimi, alcuni dei quali erano bene isolati e sporgenti dalla 
parete fino a 3 e 4 centimetri. I tubi con tubercoli, ricchi di 
silice, non avevano incrostazione, perchè appartenenti al tratto 
più lontano dalla galleria di presa. 

Sedimento dunque dove scorre l’acqua; spiccati tubercoli fer- 
rugginosi nella zona mancante di incrostazione. Non è compito 
mio d'entrare nei molti particolari riflettenti il servizio dell’a- 
cqua potabile di Corneto Tarquinia; ma d'altra parte non sa- 
prei esimermi dal cercar di stabilire un qualche nesso fra 1 fatti 
che ho potuto osservare e quelli esposti da BentIveGnAa e Scravo. 

Tenendo conto della loro memoria, e della relazione inedita 
che su tale argomento l'Ing. Benriveena ebbe a redigere in 
data 27 giugno 1888, marifestamente appare che l’ inquina- 
mento studiato a Corneto Tarquinia negli anni 1888-89, presso 
a poco identico a quello che nel 1885 aveva reclamato la pu- 
lizia della conduttura, non differisce di troppo da ciò che ho 
potuto osservare nel 1897. In sostanza colà si è verificato che 
l’acqua sorgiva delle Trocche, limpida, incolora, inodora, di 
sapore gradevole fino al pozzetto di aspirazione della vecchia 
pompa, che funziona secondo i bisogni, arriva alla fonte pub- 
blica della città, specialmente d'estate, con un particolare sa- 
pore disgustoso, con odore nauseante. 

I cit. autori, dopo avere osservato che l’acqua è limpida in 
tutto il percorso della conduttura; che già alla vigna degli ar- 
chi si avverte il cattivo odore e sapore dell’acqua stessa; che 
è in gran parte da escludersi l'influenza che sui depositi in- 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 281 


terni dei tubi di ghisa può esercitare ]’ olio ed il grasso per 
lubrificare la pompa, avvertono infine che “ in altro genere di 
fenomeni, anzichè nei chimici, dovevano essere ricercate le cause 
dell'avvenuta alterazione ,. 

“ Se a queste considerazioni ,, proseguono essi “ si aggiunge 
quella, che i depositi non esistono assolutamente nella tubula- 
latura d'argilla occorre dire che alla formazione di essi è ne- 
cessaria la tubulatura di ghisa, funzionante nelle condizioni 
speciali del caso in esame; è, però, che non è il passaggio del- 
l’acqua inquinata che li forma, ma al contrario, sono essi che 
inquinano l’acqua pura, che li lambisce ,. 

Per avvalorare questa loro veduta mostrano come l’acqua, 
attraversando i tubi di ghisa, si arricchisca di batteri; esclu- 
dono la possibilità di infiltrazioni esterne nel tratto a pressione, 
dove le fughe dell’acqua dovrebbero avvertire le rotture o ve- 
nature, ed infine segnalano come vero agente del deteriora- 
mento dell’acqua certe forme vegetali inferiori, tra cui primeg- 
giano il genere Crenothrix e Cladotrix, da essi ritrovate nei 
depositi. Per la Crenothrix Kihniana infine dicono d'averne 
riscontrate tutte le forme nel deposito ferrugginoso esaminato, 
e che “ certamente la Crenotrix ha bisogno della conduttura di 
ghisa per germogliare, giacchè non la si trova nei tratti di 
conduttura di argilla, lambiti dalla medesima acqua ,. 

Dopo ciò pareva naturale che in seguito alla sostituzione 
dei tubi in servizio, con altri di cemento, oppure con tubi di 
ghisa internamente protetti dalle ossidazioni, l'inconveniente 
dovesse scomparire. 

Il comune di Corneto Tarquinia, accettato il consiglio dei 
tecnici, sostituì la tubulatura, adottando i tubi di ghisa con 
intonaco protettore. Ma è questo intonaco che io vidi rico- 
perto di uno straterello melmoso, untuoso al tatto, di colore nero, 
in qualche punto rosso-nerastro ed avente un cattivo odore. È 
l’acqua della fonte pubblica che ha seguitato a presentarsi 
di quando in quando sgradevole, specie nella stagione calda, 
nonostante le frequenti manovre di scarico che il fontaniere 
ha imparato a praticare. 

Il materiale di deposito che il ch. Ing. Benmiveena estrasse 
dai tubi di ghisa, tubi che io stesso ebbi in seguito occasione 
di esaminare, “ era essenzialmente formato da ossido di ferro, 
ricco di silice e contenente traccie di calce ,. 


282 G. GASPERINI 


Questo deposito è indubbiamente diverso da quello rinvenuto 
sulla superficie dello smalto della tubulatura ora in servizio. 
Nell’interno però dei tubi di ghisa, che non avevano alcuno strato 
protettore, la produzione di idrossido di ferro in copia è bene 
spiegabile senza necessità della Cren. Kihniana. Se questa si 
fosse sviluppata nel 1888 è probabile che altri caratteri si 
sarebbero notati nel rivestimento interno dei tubi, e che altri 
fenomeni avrebbero potuto manifestarsi. 

L'acqua forse avrebbe trascinato seco qualche fiocchetto 
‘ocraceo fino alla fonte di distribuzione, nè lo sviluppo si sa- 
rebbe arrestato dove la conduttura doventa libera. Anzi è al 
pozzetto della vigna degli archi che vi erano e vi sono condi- 
zioni opportune per l'alimento di qualsiasi microrganismo, ed 
è ove più può disporre di ossigeno libero e di attivo ricambio 
del materiale nutritivo che la Crenothrix cresce tanto rigogliosa. 

Il non averne trovate traccie, trascorsi nove anni da che a, 
Corneto Tarquinia vi fu segnalata, potrebbe ascriversi ad uno 
di quei casi non rari di naturale scomparsa del microfita, come 
altrove si è verificato accadere; ma qui, se non m'inganno, 
troppi dati concorrono per far credere che, o la diagnosi del 
microrganismo non sia stata eseguita sopra una guida sicura, 
o che il microrganismo‘ stesso non abbia avuto nell’inquina- 
mento dell’acqua l’importanza che gli si volle attribuire. 


$. V. 


Sulla presenza della Crenothrix nel Comune di Campagnatico. 


Per quanto le finanze del comune di Campagnatico siano 
state poste ad un grave cimento per la provvista di acqua po- 
tabile, tuttavia vi si contano due acquedotti e due disastri. 

Dell’acquedotto per Montorsaio e Campagnatico fu iniziata 
l'esecuzione dopo il marzo del 1892, dopo cioè che il progetto 
ebbe riportato voto favorevole dalle competenti autorità. Per 
le sorgenti di Trogoli e Vignolo, scelte per la conduttura, esi- 
steva già l’analisi chimica fatta nella sezione apposita dei la- 
boratori della Sanità Pubblica del regno. 

Le analisi ed il progetto furono riconosciute in regola, ma 
gli abitanti di Campagnatico dovettero restare delusi quando, 
in aggiunta ad altri inconvenienti nel funzionamento dell’acque- 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 283 


dotto, cominciarono a vedere l’acqua rossiecia, e ad esserne di- 
sgustati pel sapore sgradevole. Il processo d'ossidazione che si 
verificò nei tubi di ghisa di piccolo diametro (40 millimetri) e 
non verniciati, di cui l'impresa fece uso, fu così straordinaria- 
mente attivo da far reclamare pareri e perizie, le quali, non 
essendo ancora del tutto risolute, mi consigliano a non entrare 
in particolari. 

È dell’altro acquedotto che il comune stesso fece costruire 
in servigio delle frazioni di Casale e Pari che posso dire qual- 
che cosa di più, per quanto non.abbia avuto occasione di far 
sopra luogo alcuno studio comparativo fin dall’insorgere dei 
guai verificatesi nelle due tubulature. i 

Detto acquedotto, costruito nel 1888, è lungo circa 5 km. 
e fu fatto con tubi Petit, non incatramati, di millimetri 40, fra 
la fonte di Casale e Pari, di millimetri 50 fra le sorgenti e 
Casale, ove il dislivello raggiungeva soli mt. 27,30. I tubi di 
minor diametro furono situati fra la fonte di Casale e quella 
di Pari (dislivello mt. 79, 21), intendendosi di consumare in at- 
trito le pressioni esuberanti. Lungo la conduttura si disposero 
dei pozzetti in ghisa in corrispondenza degli avvallamenti con i 
relativi apparecchi di scarico. 

L'acqua da incondottare fu presa sul fianco della collina di 
S. Antonio, a mt. 459,45 sul livello del mare, da una polla che 
scaturisce nel punto di contatto fra il calcare ed alcuni strati 
di natura quarzosa (verrucano). Il 17 gennaio 1888 il. getto 
principale di questa sorgiva dava lit. 0,45 al 1°, e le altre pol- 
licine situate a distanza di qualche metro, davano lit. 0,68 al 
1°. Il calcolo fatto sulla portata minima o di magra fece pre- 
vedere che agli abitanti di Casale e Pari non sarebbero toccati 
meno di circa 29 litri a testa nelle 24 ore. 

Fece l’analisi chimica dell’acqua il prof. Giacomo DeL Torre 
nel Gabinetto di Chimica del k. Istituto Tecnico di Roma. 

Il residuo a 110° C. per litro ascese a gr. 0,05767. A 180° C. 
furono verificati gr. per litro 0,05881. 

Nella composizione del residuo furon trovate traccie d’ani- 
dride carbonica e nitrica; gr. 0,0025 d’anidride silicica; gr. 0,0021 
d’anid. solforica; gr. 0.0028 d’ossido di calcio ; gr. 0,0063 d'os- 
sido di magnesia. Cloro, sempre per litro, gr. 0,0190. Ossigeno 
necessario per ossidare la mat. org. di 1 lit. gr. 0,00102. 


284 G. GASPERINI 


In seguito a tali risultati l’acqua fu giudicata chimicamente 
buona. Fin da quando l'acquedotto entrò in funzione mon st 
manovrarono quasi più gli scarichi, e non si ebbe che poco cura 
delle singole parti dell’opera, tantochè nell'aprile del 1895 fu 
trovato che di litri 18,87 al minuto primo, dati dalla sorgente, 
la tubulatura ne riceveva soli litri 4,02, mentre litri 14,85 
venivano rifiutati. Vi erano perdite fra Casale e Pari; vi erano 
tratti ove l’acqua scorreva a sezione non piena; ma le con- 
dizioni peggiori erano fra le sorgenti ed il primo sfiato, posto 
alla progressiva di progetto di mt. 560. Qui per la giacitura al- 
timetrica dell'estremo inferiore del tubo si palesò la circostanza . 
che l’acqua scorreva in questo primo tratto ed in condizioni 
da favorire l'ingresso dell’aria, facilitando così quei processi 
d’ossidazione che avevano ridotto la tubulatura quasi inservi- 
bile. Per mezzo del fontaniere R. Giudici ho potuto avere nell'a- 
prile del 1897 dei campioni di questi tubi di 50 millimetri. Esa- 
minandone alcuni al traguardo si sarebbe detto che erano del 
tutto occlusi. 

Vera nell'interno un rivestimento così spesso di produzioni 
ferrugginose, e queste avevano dato luogo ad un così vario alter- 
narsi di mammelloni sporgenti nella cavità, da vedere inter- 
cettato, attraverso l'irregolarità del pertugio, il passaggio dei 
raggi luminosi. 

Rompendo un tratto di questi tubi, sebbene con l’urto si 
faccia cadere una buona parte della incrostazione, tuttavia si 
riesce ad apprezzare i particolari che ho riprodotto nella Tav. IX, 
MONS, 

Le sporgenze, che ricordano le produzioni stallattitiche, per 
la direzione e per la forma sono le più svariate. Fra di loro 
si notano degli infossamenti profondi. 

Hanno la superficie di colore ocraceo; ma viste in sezione 
presentano, in mezzo a delle aree di colore ocraceo più o meno 
vivo, come delle strie irregolari del colore proprio della ghisa 
alterata, strie che, conservando in qualche punto l’aspetto me- 
tallico, si riconoscono derivare dall’alterazione delle pareti in- 
terne dei tubi. Si direbbe quasi che la materia ocracea sia 
frammista ad una specie di reticolo di ghisa. Nello spessore 
delle pareti dei tubi è notevole il cambiamento di colore su- 
bìto dalla porzione interna delle pareti stesse, le quali per un 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 285 


buon tratto sono imbrunite, ed han perduto il riflesso metal- 
lico. Le pareti inoltre, interessate nel modo più vario da que- 
_st’ imbrunimento, presentano non rare soffiature. 

Sottoponendo la incrostazione ocracea ad un coveniente 
esame microscopico, in mezzo a numerosi detriti inorganici si 
avverte la presenza di frammenti senza dubbio appartenenti a 
corpi organizzati. 

Fra quest'ultimi debbo segnalare dei tratti filamentosi molto 
colorati di origine micotica, e più specialmente alcuni sottili 
filamenti che ho trovato sempre concomitanti con le forme 
proprie della Crenothrix. 

Sono questi dei frammenti di varia lunghezza, di colorito 
ocraceo intenso, contorti a spira serrata, come quelli da me 
visti nel cratere dei Bagni di Casciana, e che ho riprodotti 
nella Tav. VIII, fis. 6, C. 

Questo reperto microscopico ci conferma che mentre i fila- 
«menti normali della Crenothrix non si conservano col tempo, 
‘rimane però vestigio del microrganismo quando si sono pro- 
dotte quelle forme che vedremo se associate, od abnormi, di 
‘cui quasi esclusivamente ho constatata la presenza. É poichè 
tali filamenti sono testimoni che per lo meno in quei tubi 
sì trovavano condizioni favorevoli di esistenza per la Cre- 
nothrix, parmi ragionevole l’ammetter che nel processo delle 
formazioni ferrugginose sopra accennate, la Crenothrix abbia 
avuto la sua parte. Queste formazioni infatti non hanno pre- 
sentato nè i caratteri fisici dei tubercoli ferrugginosi, nè quelli 
propri delle incrostazioni dovute ad eccesso di contenuto salino 
nell’ acqua condottata. i 

Si sono invece presentate come rivestimento ocraceo su? 
generis, eliminabile più facilmente dei tubercoli ferrugginosi, e 
senza vestigio di formazione a strati come spesso avviene delle 
incrostazioni saline, che del resto giungono ad assumere con- 
sistenza ed aspetto lapideo. 

Senza dubbio nell’accumolo di questa sostanza ocracea nel- 
l'interno dei tubi deve avervi moltissimo influito la mancanza 
assoluta di verniciatura dei tubi stessi. Però non deve dimenti- 
carsi la circostanza che gli scarichi non furono quasi mai mano- 
vrati; che l’acqua determinava nell’introdursi nei tubi un note- 
vole insufflamento d’aria, e che la qualità della ghisa non era 


286 G. GASPERINI 


‘delle migliori. Ma se tutto ciò può sembrare abbastanza per 
rendere spiegabile un processo d’ ossidazione così dannoso; se 
sì pensa che questo processo sì manifestò in proporzioni addi- 
rittura spaventose, l'aggiunta di una causa biologica mi sembra 
molto razionale, specie oggi che sappiamo della sorprendente 
attività di sviluppo di cui in certi casì è capace la Crenothrix, 
e di tutte le altre cause concomitanti e necessarie per l’estrin- 
secazione di un fenomeno complesso come quello accennato A 
Campagnatico, dopo che i tubi furono sostituiti con altri verni- 
ciati e di maggior diametro, l'inconveniente è scomparso. 


$. VI. 


La materia pseudo-organica delle sorgenti aquisiane o di Casciana. 


Alla superficie delle acque e più specialmente nel cratere 
dello stabilimento dei Bagni di Casciana è costante la produ- 
zione di una materia rossiccia, come spumosa, che, liberatasi dal 
fondo o dalle pareti di detto cratere, galleggia, e segue poi il . 
movimento dell’acqua. Questa materia richiamò l’attenzione di 
osservatori e scienziati illustri fra’ quali il prof. A. D° AcHGiarpr, 
P. Tassimari e G. Orosi, T. Carver e G. ArcancELI, per citare sol- 
tanto coloro che più contribuirono ad indagarne la natura. 

Il D'Acmarpi nella lettera diretta al prof. Minam £ sulla 
geologia del Bagno d’Aqui o di Casciana , mentre parla del- 
l'origine del travertino di quella località e del significato 
della caverna del Fichino, ritenuta per un vulcano spento, ac- 
cenna invece alla probabilità che fosse piuttosto un cratere di 
acqua “ e il colore giallo, rosso o bruno delle rocce circostanti 
al cratere non deriva da incendi sotterranei, come si crede dal 
volgo, ma sì dagli ossidi metallici e segnatamente di ferro on- 
d’ erano ricche le acque che di lù sgorgavano, e di cui non son 
prive quelle delle attuali sorgenti, come provano le analisi chi- 
miche -più e più volte ripetute e il deposito limonitico che la- 
sciano anche oggi entro alle terme medesime e fuori di esse (1) ,. 

È da secoli dunque che in questa località si produce e sì 


(4) A. D’' AcHrARDI, — nell’ opera di C. Minati. — Dei Bagni di Casciana. Fi. 
renze, 1877, pag. 166. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 287 


deposita la sostanza ocracea, intorno alla quale vediamo ora 
ciò che dal lato chimico osservarono i ch. professori P. Tassi- 
NARI e G. Orosi (1). 

Cercando essi di raccoglierla con un tessuto o setaccio nota- 
rono che si riduceva ad una quantità bene esigua. Ma in ogni 
modo riunitane una certa massa, e posta in un vaso chiuso er- 
meticamente, videro che il colore ocraceo, o rossiccio, si mutava 
in nero o cupamente in bruno, assieme allo svolgersi di un lieve 
odore di solfido idrico. 

La sostanza divenuta bruna, fatta essiccare spontaneamente 
sopra un filtro, prendeva di nuovo il colore del sesquiossido di 
ferro. Di nuovo inumidita e ben chiusa in un vaso tornava al 
color bruno. 

“ Considerata nel suo complesso questa sostanza disseccata 
perfettamente, si decompone per un forte riscaldamento, man- 
dando odore come di materia organica che si abbrucia ,. “ Perde 
per lo effetto di questa calcinazione parti 8,6 °, comunque 
venga ripristinata la condizione dei carbonati promiscui, me- 
diante l'aggiunta di un poco di carbonato d’ ammoniaca sopra 
la massa residuale ,. “ Basta riscaldare questa sostanza con un 
poco di calce sodica perchè se ne svolgano dei vapori sensi- 
bilissimi di ammoniaca ,,. 

“ Del resto, se si tratta con dell'acido cloridrico diluito si 
scioglie in gran parte con effervescenza, ed il prodotto ha il 
colore rossiccio delle soluzioni ferriche ,. “ Quanto rimane indi- 
sciolto è biancastro, e manifestamente vi appariscono della par- 
ticelle arenose costituite da granuli di quarzo parte limpido e 
bianco, e parte giallastro ,. 

“Da grammi 1 di polvere ocracea perfettamente asciutta, 
continuano gli autori, ottenemmo (dedotto dall’ammoniaca) me- 
diante la calce sodica in un apparecchio per analisi organica ,. 

“ Azoto gas . . . Grammi 0,001500 

“Da gr. 2 in un secondo esperimento ottenemmo: 

“ Azoto gas . . . Grammi 0,003200 
“Media; 3 > 0, 001566 ,. 
“ Ora, se si ritenga che Îa quantità dl materia organica 


(1) P. TassivarI e G. Orosi. — Delle acque termali di Casciana. Cenni storici e 
relazione d' analisi chimica. Firenze, 1872. 


Sc. Nat., Vol. XVI 19 


288 G. GASPERINI , 


che fa parte di questo prodotto ascenda come vedemmo a gr. 
0, 0860 per ogni grammo, lo azoto che entra come elemento 
costitutivo di essa vi rappresenta p. 1,75 °, ,. ‘Essa è dun- 
que una sostanza relativamente poco azotata ,. “ La soluzione 
cloridrica summentovata diè modo di valutare come componenti 
di questa polvere ocracea, i seguenti prodotti cioè : 


“ (Solfato dillcalce rt ter2010550 
“ Ossido ferrico =. ©. . ,, 0,1875 0,7525 
sa Car Donato dit calce Meseii0; 5100 ) 


“Il residuo indisciolto nell’ acido, proporzionatamente ad 
1 gr. di polvere ocracea, ascende a gr. 0, 1610 ,. 

Notano inoltre gli autori che in detta polvere “ possono 
discernersi parecchi frammenti o corpuscoli organizzati di fa- 
cile separazione ,,; ma delle loro osservazioni fatte su questi 
corpuscoli non dettero ulteriori notizie. > 

Il Prof. T. Carver ne’ suoi cenni sulla flora dei Bagni di 
Casciana fa così menzione della sostanza ocracea: (4) £ Il 
cratere che raccoglie tali acque è rivestito nelle pareti e nel 
fondo come da una poltiglia informe, di color rosso mattone, 
che viene anche a galla formando come una schiuma assai 
densa, ma così poco consistente che al menomo urto si disfà 
e quasi si scioglie ,. “ L'esame microscopico mostra che quella 
schiuma è costituita da ammassi di vegetabili esili tanto da 
essere invisibili separatamente all'occhio nudo, e riferibili a 
tre tipi generici, che sarebbero quelli detti Hygrocrocis, Lepto- 
thrix e Spirulina, tutti e tre per l’ estrema semplicità del 
loro organismo posti fra quelle infime crittogame che tengono 
un posto dubbio tra le Alghe e i Funghi ,. 

Il Prof. G. Arcaneri nel fare un'escursione a Casciana (?) 
portò seco del deposito che ricuopre il fondo del cratere e la 
superficie delle vasche dei bagni per farne l'esame microscopico. 
“ Rimasi sorpreso, scrive, ch’esso si presentasse in forma di 
filamenti esilissimi diritti od incurvati, fra loro più o meno in- 
tralciati, e non in forma di particelle minutissime, come sogliono 
presentarsi le sostanze minerali ottenute per precipitazione, ma- 


(4) C. MrmaTI, op. cit. pag. 173. 
(2) G. ArcanceLI. Osservazioni fatte in alcune recenti erborazioni. Processi verbali 


di questa soc. vol. III, adunanza del dì 1 luglio 1883. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 289 


nifestando così una forma che poteva dirsi organica perchè si- 
mile a quella di alcune alghe inferiori ,.“ L'esperimento fatto 
col sottoporre all’azione dell’acido cloridico una piccola quan- 
tità di questa materia, mi mostrò come quei filamenti si scio- 
glievano a poco a poco, ed alcuni di essi, degli altri più grossi, 
lasciavano per residuo i filamenti di un’ Osci/laria, che per par- 
ticolari circostanze non potei identificare, mentre il liquido 
si colorava in giallo per formazione di cloruro ferrico ,. 
Recatomi io pure sulla località a studiare questa sostanza 
‘ ocracea fioccosa che si genera nel fondo del cratere del Bagno, 
subito dopo avere esaminato i primi preparati microscopici 
m’accorsi d’avere dinanzi una speciale produzione di Crenothrix. 
E dico speciale, perchè qui il microfita presenta come normali 
delle caratteristiche che altrove si verificano piuttosto ecce- 
zionalmente, incontrandosi dopo un certo tempo da che la ve- 
getazione è in atto. Vi sono infine località dove ho raccolto 
la Crenothrix priva affatto delle forme che trovansi a Casciana. 
Sia esaminando i cespugli galleggianti, sia quelli che tappez- 
zano le mura e il fondo del cratere, in tutti si distinguono delle 
granulazioni ocracee amorfe, e dei filamenti di vario aspetto. Le 
granulazioni sono di solito addossate ai filamenti in modo irre- 
golare. Alcuni fili ne vengono addirittura in parte o totalmente 
nascosti. Questi granuli, piccolissimi, affettano talora la forma di 
cocco-batteri. Fra le forme filamentose predominano quelle dritte 
od incurvate, che dirò normali della Crenothrix. Se ne avver- 
tono altre, con aspetto ordinario; ma con diametro trasversale 
un po’ superiore a quello medio, raggiungendo un massimo di 
u 3,5 a 4.I filamenti con contorno più intensamente ocraceo, 
quelli in altri termini adulti od invecchiati sono più degli altri 
contornati dalle granulazioni ocracee. Fra questi fili se ne tro- 
vano in gran copia di quelli sottilissimi, del diametro di 2 1 a 
1,7, lunghi, isolati, o fra di loro avvolti a spira. Tali filamenti, 
anzichè essere limitati da pareti cilindriche regolarmente paral- 
lele, nette, isodiametriche, come si son viste nelle forme che 
ho chiamato normali, visti a forte ingrandimento lasciano ap- 
prezzare delle incurvature più o meno uniformi, più o meno 
ravvicinate, che focheggiando si comprende esser dovute alla 
forma a spirale dei filamenti stessi. E siccome si presentano ora 
con le spire molto ravvicinate, appena avvertibili; ora con 


290 G. GASPERINI 


spire nette e regolarissime; ora invece con aspetto serpiginoso 
irregolare, a ciò devesi la grande variabilità delle forme che 
assumono, tenuto conto anche del fatto che questi filamenti 
spirali si avvolgono fra di loro a due ed anche a tre alla volta, 
dando luogo ad intrecci lassi più o meno serrati, come si ve- 
dono rella Tav. VIII, fig. 6, 6, c. 

È a questi intrecci ed alla contorsione dei filamenti cilin- 
drici o schiacciati che si debbono quei giuochi di refrangenza 
per cui appare che certi fili siano costituiti da tratti chiari 
alternanti con tratti più scuri, oppure da specie di catenelle a 
maglie oblunghe o quasi sferiche, contenenti nell'interno una 
sostanza ocracea più chiara, o più refrangibile la luce. 

Sottoposti questi vari corpi al trattamento con acido ossalico 
si mette subito in evidenza una grossa osci/laria, provvista di 
clorofilla, molto scarsa, simile a quella disegnata nella Tav. VIII, 
fig. 8, e che non ha nulla che vedere con i filamenti fissatori del 
ferro. Di quest'ultimi non rimane traccia, se non dei più grossi. 
Gli altri scompaiono, di rado lasciando qualche filamento sottile, 
incoloro. Si scorge altresì che fra i detriti inorganici non pos- 
sono escludersi delle batteriacee capaci di reagire con le materie 
coloranti solubili in acido ossalico (bruno vero, vesuvina). 

Tornerò su questo reperto microscopico per alcune conside- 
razioni da farsi sulle particolarità dei filamenti osservati, oc- 
correndo fra le altre cose di vedere se qui trovisi concomitante 
lo Spirillum ferrugineum Enrensere-DE Toni. Intanto però giova 
affermare che la quantità relativamente piccola di ossido ferrico 
(grammi 0,00302 sopra un residuo complessivo di gr. 3,00452 per 
1000), che trovasi nelle acque minerali di Casciana, è messa colà 
in evidenza da quei microfiti che vanno sotto il nome di Creno- 
thrix, e che formano la schiuma ferrugginosa, o sostanza pseudo- 
organica, la cui origine non aveva ancora ricevuto esaurienti 
spiegazioni. 


$. VII. 
La Crenothrix alle sorgenti termo-minerali dei Bagni di Lucca. 
Le acque termali dei Bagni di Lucca sgorgano sulla destra 


della Lima, confluente del Serchio, in diversi punti ed a varie 
altezze del bellissimo colle di Corsena, e lasciano nel venire 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 291 


a giorno un deposito ocraceo che passa da polla a polla per 
tutte le gradazioni di colore che sono proprie dei vari ossidi 
idrati del ferro. 

Il colle, o sprone, costituito in massima parte di strati di 
macigno (arenaria molto compatta e di grana fine), presenta 
maggior copia di polle ad ovest che ad est, ed ha in pros- 
simità di certe scaturigini dei depositi calcarei non indiffe- 
renti, assai ricchi di ferro e di manganese, depositi che fan 
fede dell’antichissima apparizione di tali fonti minerali (!). Esse 
hanno numerosi punti di affioramento, ed a ciascun gruppo di 
polle corrisponde un adatto stabilimento balneare. Nelle mie 
escursioni ho preso in esame solo le sorgenti dei cinque sta- 
. bilimenti principali, cioè del bagno caldo o bagno di Cor- 
sena, delle docce basse o bagno rosso, del bagno San Gio- 
vanni, bagno Bernabò e bagno della Villa. 

Si può dire che le polle di ciascun gruppo presentino ognuna 
condizioni diverse di mineralizzazione e di termalità tanto, da 
offrire un campo così vasto e complesso di ricerca che, a vo- 
lerlo analizzare nè suoi minuti particolari, basterebbe da solo 
per portare all'argomento dalla fissazione del ferro per parte 
dei microfiti un contributo di non lieve interesse. Per esser 
breve mi limito ad un cenno sommario, onde poter risalire alle 


deduzioni che saranno del caso. 
(‘omincerò dalla più abbondante e più calda fra le quattro 


sorgenti del bagno caldo, e cioè da quella che chiamasi del 
Doccione. Questa sgorga dal fondo di uno speco, dove, per ac- 
cedervi, occorre traversare un tepidario che si riscalda fino a 
40 5 C. La temperatura dell’acqua nel punto di emergenza è 
di 549,1 C. Di qui, ove è ricavato un piccolo serbatoio, l’acqua 
passa limpida e senza svolgere gas in due canali scoperti che 
attraversano la galleria, dalla quale partono i tubi di piombo 
del diametro di 30 millimetri per la distribuzione dell’acqua 
calda nello stabilimento. 

Il deposito rosso bruno (testaceus acceso (?)) si trova fino 
dai primi tratti dei canali di efflusso. Si forma lentamente, ed 


(') Vedi per ulteriori ed importanti notizie il libro del dott. A. CarINA, Dei Bagni 
di Luccu. Firenze, 1886. 
(£) P. A. SaccarDo. — Uhromotaria seu nomenclator colorum. Patavii 1894, N. 18. 


292 G. GASPERINI 


a lungo andare giunge perfino ad otturare i tubi di piombo. 
Appena raccolto, anzichè risolversi in particelle ocracee minute, 
od in fiocchettini leggieri, conserva un aspetto granuloso, di. 
guisa chè si vedono andare al fondo dei recipienti dei corpu- 
scoli che posson raggiungere il diametro di oltre 1 cm. ed avere, 
o la forma ovalare con superficie liscia, o l'aspetto di lamine, di 
straccetti compatti, o di aggregazioni le più irregolari. Misti 
a questi corpuscoli si trovano dei fiocchi più leggieri, ma anche 
questi vanno a far parte del sedimento, lasciando l’ acqua sem- 
pre limpida ed incolora. 

Osservando bene questo deposito vi si scorgono non solo 
delle granulazioni svariate per configurazione, superficie e vo- 
lume; bensì diverse per colorito. Infatti vi predominano quelle 
di colore rosso bruno, testaceus, e ve ne sono mescolate altre 
più chiare con tutte le sfumature delle produzioni crenotricee. 

Sottoponendo all’ esame microscopico diretto i corpuscoli di 
color rosso più intenso e prelevati di fresco, vi si nota una 
struttura filamentosa con fisonomia particolare. Si presentano 
nel campo degli intrecci fitti e irregolari di fili piuttosto corti, 
fra i quali vanno distinti quelli di colore ocraceo dai pochi in- 
colori. Fra i colorati, i più non han bordi netti, nè si presen- 
tano isodiametrici. Si vedono come avvolti da granulazioni mi- 
nute, rifrangenti, incolore od ocracee, le quali appena lasciano 
intravedere le pareti dei singoli fili, quando i fili stessi non 
vengono a costituire come l'ossatura di depositi granulari 
ocraceo-bruni abbondantissimi. In altri termini qui predomina 
il tipo dei filamenti chiari a guaina granulosa, strettamente 
uniti fra loro, corti, del diametro di p 2,5 a 3 e con guaina sfu- 
mata, la quale ha uno spessore medio di 1 a 2 w 

In mezzo a questi se ne trovano con pareti nette, senza 
deposizioni granulari attorno, che appaiono costituiti da cilindri 
omogenei, molto rifrangenti e intensamente ferrugginei. Essi 
pure sono in generale corti, tortuosi, ma senza contorsioni re- 
golari e spiraliformi. Mostrano delle pseudoramificazioni. Hanno 
il diametro di p 1 a 2,7. 

Passando ai amanti incolori se ne avvertono dei diritti, 
isodiametrici, con protoplasma omogeneo, come sono quelli dell 
Beggiatoa minor, ed alcuni molto tortuosi, dello stesso spessore 
dei precedenti, ma con protoplasma a volte interrotto e non 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 293 


di rado finamente granuloso. Di questi ve ne ha che presen- 
tano que’ corpi lucidi e rifrangenti comuni ai filamenti del gen. 
Beggiatoa. Il diametro di tali filamenti incolori è appena p 0,8 
a w 1,2. Non vi si notano ramificazioni vere. 

Fra i detriti ocracei di struttura non filamentosa si scor- 
gono delle zooglee batteriche, resistenti in parte al trattamento 
con acido ossalico. 

Passando allo stabilimento delle Docce Basse si offrono allo 
studio undici scaturigini diverse per temperatura, per quantità 
di componenti salini, e per i caratteri del deposito ferrugginoso. 

La sorgente rossa, dal colore della materia da Humpary 
Davy riguardata come un silicato di ferro, ha la temperatura 
di 4195 C. e mostra il deposito di idrato ossido-ferrico con 
struttura microscopica presso a poco identica a quella propria 
del fango del Doccione. Vi abbondano i filamenti ferrugginei, 
con diametro irregolare, con ramificazioni vere, provvisti di espan- 
sioni lungo il loro decorso tortuoso, con i caratteri insomma 
degli intrecci micoticiî, anzichè dei tricomi rivestiti di guaina fer- 
rica. Sono questi filamenti rosso bruni, che del resto si notano 
anche nel deposito del Doccione, che contribuiscono a dare a 
questa sostanza rossa una fisonomia particolare, non dissimile 
del resto a quella di altre sorgenti di questo sprone acquifero. 
Potrebbe in ciò ricercarsi una conferma della comune origine 
di queste acque termali; ma per questa via si cadrebbe invece 
ad una conclusione opposta, per il reperto diversissimo che si 
ha dalla sorgente gialla. Questa lascia un fango che sembra di 
terra gialla di Siena e che molto si approssima pel colorito alla 
trepeolina 00 in polvere. Ha caratteri fisici molto diversi da 
quelli proprii dei precedenti depositi, essendo costituito da par- 
ticelle finissime, impalpabili, e tutte dello stesso colore ocraceo- 
chiaro. 

Sottoposte all'esame con forti ingrandimenti si vedono co- 
stituite da granulazioni batteriformi, fra le quali ve ne sono 
lelle sferiche, delle ovali, e delle spirillari. Il loro diametro è 
di appena 0,7 a 1 pb. 

Non mi dilungherò a descrivere i micromiceti termofili che 
con j metodi comuni ho isolati da queste acque termali, riser- 
bandomi di trattare a parte della loro proprietà di fissare il 
ferro; dirò solo che chiaramente appare diversa la causa che 


9294 G. GASPERINI 


determina la formazione del deposito giallo, da quella propria dei 
fanghi rossi, o rosso bruni, costituiti da granulazioni di forma e 
colorito vario, come sono al Doccione, al Bagno rosso, al Ber- 
nabò, ecc. 

Ma ciò del resto non infirma la ragionevole supposizione 
espressa dal ch. Prof. UsaLno Antony e dal D. ApoLro LuccÒaEsi, 
che sotto la direzione del venerato maestro Prof. Tassinari stu- 
diarono queste acque dal lato chimico (*), l'ipotesi, cioè “ che 
esse sorgenti abbiano una sola origine e che ie loro differenze, 
già da tempo rimarcate, ma in realtà di poco valore debbano 
unicamente ripetersi dalle peculiari condizioni del percorso delle 
loro acque e dalla scaturigine di queste ,. 

Che anzi le indagini dal lato microbiologico confermano 
essere senza dubbio pertinenti al tratto non molto profondo ed 
a quello di affioramento di ciascuna scaturigine, le cause che 
determinano la varietà dei depositi. 

Quanto alla loro origine da acque che “sono quasi prive di - 
composti ferrugginosi ,, non possiamo ricorrere alla spiegazione 
che soprattutto devesi ai competentissimi Antony e LuccaHssI, per- 
chè a mio credere è troppo-unilaterale (?). Per essi, chimici, non si 
poteva dire nè di più, nè di meglio; ma riconosciuta in quelle acque 
la presenza dei numerosi microrganismi che hanno la proprietà di 
mettere in evidenza gli ossidi idrati di ferro, la causa biochimica 
dei fanghi prende il posto che, come vedremo, le si compete. 


$. VIII. 


La Crenothrix nella valle di Linaglia, alle sorgenti 
dell'acquedotto di Cecina. 


A circa 6 chilometri in direzione S-E. e a N. di Casale Val di 
Cecinasi trova una valle che prende il nome dal torrente Linaglia, 
lungo il qual torrente, sulla riva sinistra ed alla quota di circa 
mt. 160, fu costruita una galleria per la presa delle sorgenti dette 
dell’ acqua calda, che alimentano l'acquedotto di Cecina. Per ac- 


(®) Analisi chimica dell'acqua del « Doccione dei Bagni Caldi » (Bagni di Lucca). 
Livorno, 1895. 
(®) Analisi cit. pag. 25-27. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA O POLYSPORA ECC. 295 


cedere a questa galleria coperta e murata sotto il piano di cam- 
pagna, si discende una scaletta disposta lungo i muri del vestibolo 
d’ingresso. Ci troviamo così in una galleria ben praticabile, da un 
lato difesa dal botro con adatta muratura, e che ha disposte lungo 
il lato opposto le singole prese dell’acqua, separate e distanti fra 
di loro. Ciascuna però fa capo nello stesso cunicolo che trovasi 
poco sotto il livello del piano praticabile, scoperto, e comunicante 
con altro cunicolo destinato a remuovere le acque di rifiuto o di 
filtrazione attraverso le pareti; ma poichè questa cunetta di sca- 
rico non funziona, tutte le acque della galleria si riuniscono e si 
dirigono verso una specie di purgatorio, costituito da quattro pile 
rettangolari, ciascuna di mt. 1,17 X 1,12, fra di loro comuni- 
canti, e ripiene di ghiaia, carbone, detriti vegetali e di quant'altro 
l’acqua vi abbandona. È dall’estremo opposto al punto di im- 
missione dell’acqua in queste pile che parte la conduttura in 
terracotta verniciata che porta l’acqua a Cecina. 

Di tali purgatorî, angusti, ripieni di ghiaia, o di solo car- 
bone, diventati col tempo e per la mancata nettezza ricetta- 
colo d'ogni sorta di materiali putrescibili, ne ho visti altri, 
specie nella maremma toscana; ma questo di Linaglia non è 
secondo alcuno pel cattivo stato di manutenzione. Procedendo 
verso il fondo della galleria trovasi per primo il pozzetto di 
presa di una sorgente che ha la portata di circa lit. 1 al 1°. 
Questo pozzetto, quadrato, con m. 0,75 di lato, è profondo mt. 
0,80, ed ha, a pochi centimetri sotto la soglia con la quale 
comunica con la galleria, un tubo di efflusso di terracotta del 
diametro di 80 millimetri. La mattina del 29 ottobre 1896 il 
pozzetto, dal fondo del quale sorge l’acqua, era tutto ripieno 
di una sostanza ocraceo-chiara di aspetto soffice, leggermente 
piegata verso la direzione della corrente, e somigliante, tranne 
pel colore, ad una bella vegetazione di Beggiatoa a filamenti lun- 
ghissimi. Questa sostanza non aveva lasciato sgombro che l’an- 
golo dove più pullula l’acqua limpida ed incolora, ed aveva occluso 
il tubo di terracotta così, che l’ acqua stessa doveva tutta stra- 
mazzare dalla soglia. Lungo il percorso di quest’ acqua, fino alla 
superficie delle pile del purgatorio, si vedeva un bel rivestimento 
con diverse sfumature ocracee, dello spessore in qualche punto 
di 10 a 25 mm. Questa sorgente aveva la temp. 15°,0 C. es- 
sendo quella dell’aria (ore 12) 18°,1 C. Furono prelevati ‘vari 


296 G. GASPERINI 


campioni dal soffice tappeto ocraceo, e quelli occorrenti per i saggi 
chimico-batteriologici. Di questi saggi ecco i risultati. Colonie 
per cm*; liquef. N. 4, specie 2; non liquef. N. 65. sp. 2. As- 
senti i nitriti e l’ammoniaca; nitrati, tracce; cloro per lit. gr. 
0,1104; materia organica (Woon e Kùser) 0, 0095; residuo a 
110° C. p. lit. gr. 0,7210; calcinato e trattato con carbonato 
ammonico gr. p. lit. 0,5900. Solfati, piccola quantità. 

Andando avanti per la galleria, a breve distanza dal primo 
pozzetto, si incontra un'altra presa, di poca entità per la por- 
tata, ma che pure richiama l’attenzione per un ricco deposito 
di aspetto un po’ diverso dal precedente, meno soffice, a pic- 
coli fiocchetti, di colore più rossastro e più bruno. 

In questa stessa galleria si trovano altre sei scaturigini di 
varia portata, appartenenti allo stesso bacino idrico, con resi- 
duo fisso a 110° C. oscillante fra gr. per litro 0, 6310 e 0, 7520, 
non sottratte all'influenza diretta delle acque meteoriche, e 
neppur difese dalle radici delle piante arboree sovrastanti. Nes- 
suna di queste sei sorgenti ha i depositi ocracei simili a quelli 
delle prime due, nonostante siano state allacciate anch’ esse 
senza precauzioni speciali. 

Per quanto sui particolari del disgraziato acquedotto di Ce- 
cina qui non interessi di trattenerci, tuttavia è bene non omet- 
tere che esso non ci ha offerto il modo di studiare i rapporti che 
lo stato delle sorgenti potevano avere con la tubulatura in 
ghisa. F 

L'acqua è stata condotta in cannelle di terracotta, del dia- 
metro di 170 millimetri, internamente verniciate, con manicotto 
di cemento ai giunti. Lungo i sette chilometri di tubulatura 
vi sono 134 pozzetti, destinati forse a mettere l’acqua in con- 
dizioni da spogliarsi al più possibile di sali, come in parte av- 
viene. Ma accade altresì che la tubulatura, specie presso il paese, 
tanto si incrosta da andare spesso otturata. Nei tubi che via 
via si debbono ricambiare, esaminando la deposizione salina che 
avviene in corrispondenza del loro piano di posa, vi si avvertono 
delle stratificazioni di vario spessore, delimitate dal sovrapporsi 
di straterelli sottili, d'aspetto terroso, poco compatti. Questi si 
alternano a seconda delle vicende meteoriche che li hanno deter- 
minati, derivando essi dagli acquazzoni, durante i quali l’acqua 
sì arricchisce anche di materiali capaci di visibile sedimento, 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA O POLYSPORA ECC. 297 


Le deposizioni, prevalentemente calcaree, presentano inoltre 
dei punti di maggiore richiamo dove incontrano le radici delle 
piante. Queste sono le sedi predilette per le occlusioni. 

Dalla fonte pubblica di Cecina, occorrendo di condurre l’acqua 
al Poligono militare, situato alla marina, furono adottati dei 
tubi di ghisa di piccolo diametro. Ma anche questi non tarda- 
rono a ridursi quasi inservibili, presentando però un incrosta- 
zione che è lapidea, esclusivamente dipendente dalla soverchia 
durezza dell’acqua. 

Avvertito che gli inconvenienti, i quali si sono verificati e 
si verificano nelle tubulature suddette, non han niente a che 
fare con la Crenothrix vista alle sorgenti, passo ad esaminarne 
i caratteri microscopici. 

I campioni relativi al primo pozzetto di presa non presen- 
tano altro che filamenti lunghissimi, diritti od un po’ flessi, 
friabili, pallidamente ocracei, isodiametrici, di 2 1,7 a 2, con 
pareti nette e spesse da 20,3 a 0,5. A questi fili, del diam. 
trasv. predominante di 2 «, vanno frammisti dei piccoli am- 
massi ocracei zoogleiformi di batteri, con qualche sottile fila- 
mento tortuoso di circa 1g. Anche qui non manca qualche 
ciliato e delle zoospore. Col trattamento ossalico restano degli 
scarsissimi filamenti molto fini. Con soluzione di vesuvina in acido 
ossalico si mettono bene in evidenza i cumuli di batteri che in 
qualche punto avvolgono i filamenti tipici di Crenothrix. 

I campioni dell'altra sorgente con Crenothrix, in mezzo ai fi- 
lamenti sopradescritti, ne presentano degli incolori e di quelli 
intensamente ferruginei, con doppia parete, del diametro medio 
di 6a 84. con espansioni ovalari o sferiche, con setti, e con leg- 
gieri strozzamenti in corrispondenza dei setti stessi, oppure privi 
affatto di sepimenti. Alcuni di questi presentano il protoplasma 
di un colore ocraceo diffuso in mezzo al quale si distinguono delle 
granulazioni, altri invece sono perfettamente ialini. Negli uni 
e negli altri si osservano delle ramificazioni vere. Spesso i fi- 
lamenti più grossi ed ocracei sono rivestiti da granulazioni di- 
sposte in modo irregolare, a conglomerati. Da questi fili si passa 
ad altri, essi pure non isodiametrici, ma più sottili, che in piccolo 
tratto si assottigliano sempre più fino al diametro di quelli pro- 
pri della Crenothrix, della quale sono più ferruginei. Si vedono 
altresì conservarsi isodiametrici, oppure di aspetto vitreo, con 


298 G. GASPERINI 


o senza stria centrale più chiara. Assumono infine aspetto ir- 
regolarmente tortuoso, e le foggie più svariate a seconda delle 
deposizioni ocracee che li coritornano, a seconda del loro in- 
treccio e delle variabilità del diametro. In generale i filamenti 
più grossi, e cioè di « 10-15 non sono ‘ocracei, mentre spic- 
cano pel ferrugineo intenso e per rifrangibilità quelli del diam. 
trasv. di 4 2 a 5. Osservando i cespugli dove predominano tali 
filamenti, previo trattamento con soluzione di bruno vero o di 
vesuvina in acido ossalico, se ne apprezza facilmente la natura 
nicotica, di che, per evitare ripetizioni, sarà detto in seguito. 

Di molte altre località ove ho trovate le forme che riunirò 
per ora sotto il nome di Crenothrix credo inutile di occuparmi, 
avendo descritto le caratteristiche principali che nei mezzi di- 
versi possono riscontrarsi, per un complesso di circostanze intrin- 
seche ed estrinseche le quali vogliono essere indagate. Presso 
Nodica ad esempio, alla scaturigine di certe acque termo-mine- 
rali che fuoriescono dalle falde dei vicini monti costituiti da, 
calcare cavernoso, vi è la Crenothrix con aspetto identico a 
quella rinvenuta nella Zambra di Asciano. Dalla Versilia ho 
avuto campioni simili a quelli prelevati nella Valle di Linaglia. 
Piuttosto dunque che continuare nell'indagine di esemplari, che, 
salvo la concomitanza di nuovi infusori, di sporozoi, di diato- 
mee, di oscillarie, di ifomiceti e di batteri i più diversi, dovrei 
riportare ai tipi precedentemente descritti, guarderò di appro- 
fondire lo studio, in ispecie della forma più comunemente osser- 
vata, e di vedere quali rapporti può essa avere con i microfiti 
conviventi e fino ad ora conosciuti. 


$. IX. 


Osservazioni e ricerche sperimentali. 


Appena constatata in Asciano la presenza dei fiocchetti 
ocracei di cui abbiamo visti i particolari, bisognava metterne 
in chiaro la natura, e prima di tutto conoscere se in realtà 
potevano ascriversi al microrganismo noto nella letteratura 
sotto il nome di Leptothrix Kiihniana Ras. o di Cren. Kihniana 
o polyspora Corn-Zorr. Presa cognizione delle memorie analiz- 
zate al $. 2, mi procurai al tempo stesso i microfiti del gruppo 
in cui generalmente si descrive la Crenothrix, ed i relativi pre- 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX"KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 299 


parati di confronto che vanno per i laboratorì come esemplari. 
Oltre che alla cortesia di alcuni colleghi, debbo alla casa Frie- 
drich Hofmann di Dresda le preparazioni di Beggiatoa alba, 
Cladothrix dichotoma e Crenothrix polyspora. 

Già nella primavera del 1897 possedevo una ricca collezione 
di quei microrganismi che dal punto di vista di Zopr apparten- 
gono alle Leptothricheae, ed avevo distinto la Crenothrix dai nu- 
merosi microfiti e protozoi con i quali è solita convivere. 

Per dire il vero, ad appurar la diagnosi poco mi valsero i 
preparati, avendoli ricevuti colorati intensamente e montati al 
balsamo del Canadà, mentre per questi microfiti è da usarsi 
con vantaggio il miscuglio di gelatina e glicerina, come da più 
di un ventennio lo hanno adottato i botanici (*), semprechè si 
tenga conto dei fenomeni plasmolisici che si determinano nel 
fare le inclusioni in detto mezzo. 

Nè posso dire che le indagini bibliografiche mi abbiano sem- 
pre agevolato il cammino, perchè, se per diagnosticar bene la 
Crenothrix io avessi dovuto distinguere le macrospore dalle 
microspore, eppoi osservarne la germinazione in camera umida; 
oppure tener dietro alla uscita degli articoli dalle guaine dei 
filamenti, sia per esser quelli cacciati fuori dall’accrescimento 
degli altri articoli intercalari; sia per il movimento proprio degli 
articoli stessi: se avessi dovuto osservare la germinazione dei 
gonidi entro i filamenti (sporangi) in guisa da risultarne le di- 
sposizioni molto graziose, di cui Zopr dà esempio nella Tav. I, 
fig. 5 della citata memoria; ovvero l’altro processo di moltipli- 
cazione simile a quello di alcuni micrococchi, o di Palmellaceae, 
alla guisa del Pleurococcus mucosus Kurz. ecc.: se avessi dovuto 
verificare tutte le forme e gli stadi che sono stati appropriati 
alla Crenothrix, forse bisognava rinunciare alla determinazione 
di questa entità specifica e pensar piuttosto a creare un nuovo ge- 
nere, o delle nuove specie, con gli esemplari che avevo fra mano. 

Evidentemente però era accaduto che nel ciclo delle forme 
proprie della Crenothrix, ben riprodotte da Zopr nella Tav. II, 
fig. 14, 15 e 16, e nella Tav. III, fig. 20, erano stati descritti 


(4) Vedi le formule di NorpsteDTs (Om Anvandandet af gelatinglycerin vid un- 
dersòkning 0g preparering af Desmidieer. Botaniska Notiser, 1876, n” 2), di KAISER 
e di altri. 


300 G. GASPERINI 


dei microfiti che avevano con la Crenothrix stessa dei soli rap- 
porti di convivenza. Dunque bisognava insistere in questo stu- 
dio, e vedere quali metodi di ricerca potevano condurre a dei 
risultati attendibili. 

Per prima cosa, col materiale molto adatto che forniva la 
polla N.° 6 del Pino, mi feci a tentare le culture con i metodi 
in uso nei laboratorî batteriologici. 

Convinto dell’utilità che per le diagnosi batteriologiche de- 
riva dall'impiego dei mezzi di cultura generalmente adottati (4), 
presi subito i comuni substrati solidi, gelatina ed agar, per gli 
isolamenti in scatole di Perri alla temperatura ambiente e nel 
termostato a 37°C. Col brodo, col peptone, col latte e col siero 
di sangue di bove preparai dei cespuglini in goccie pendenti, 
dopo averli fatti passare per più volte in grandi matracci conte- 
nenti acqua sterilizzata, allo scopo di liberarli al più possibile dai 
batteri. Decantata l’acqua, e presi i cespugli depositati al fondo, 
spesso raggiunsi l'intento di separarli in realtà dalle batteriacee. 
Sulle patate alla Roux feci innesti di piccoli frammenti ocracei, 
per seguire a brevi intervalli di tempo le eventuali modificazioni 
dei filamenti. 

Furono fatte infissioni nei tubi di gelatina e di agar; furon 
tenuti i tubi e le scatole sia alla luce che all’oscurità. 

Visto che coni metodi ordinari non riuscivo a nulla, passai 
alle culture anaerobie. Falliti anche questi tentativi, mi detti 
alla preparazione di substrati speciali, facendo prevalere in al- 
cuni l'azoto, in altri gli idrati di carbonio. Feci dei liquidi zuc- 
cherini, che usai spesso di solidificare con Gelidium spiniforme 
o col Fucus crispus. Abbandonati i substrati più o meno com- 
plessi, con vario grado d’acidità o di alcalinità, mi ridussi a 
far le prove con l’acqua stessa in cui viveva la Crenothrix, 
solidificata per fare delle lastre, o per certe culture anerobiche, 
col solito Gelidium. Attendevo lo sviluppo dei filamenti, ma 
questi, se osservati per molti giorni, perchè non invasi dallo 
sviluppo di batteri o di ifomiceti, finivano col perdere il colore 
ocraceo, col ridursi quasi o del tutto invisibili. 

Le infruttuose prove espletate mi spinsero a ricercare che 


(4) Grimsert L. — De l’umification des meéthodes de culture en bactériologie. Ar- 
chives de Parassitologie, 1, N. 2, pag. 191, 1898. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 301 


cosa avveniva dei cespugli se posti nell'acqua mantenuta in 
continuo movimento. 

Eseguii degli esperimenti con fiale di 1 litro e di due litri, 
nelle quali l’acqua era tenuta in moto da un disco di vetro, 
fermato ad una bacchetta pure di vetro, la quale era legata 
alla ingegnosa turbina del meccanico Tappri, turbina che si man- 
tiene in attività con piccolo consumo e con poca pressione d’acqua. 

Altre esperienze con acque naturali od artificialmente arric- 
chite di sali, furon fatte nell’ Istituto di chimica generale della 
R. Università col chiarissimo prof. U. Antony, adoperando un ap- 
parecchio (!) per il quale i microfiti avevano acqua agitata e 
molto favorevoli condizioni di aereazione. 

Anche questo metodo fallì, nonostante aggiungessimo alle 
acque dell’idrato di ferro colloidale. I cespugli, anzichè crescere 
e fissare il ferro, diminuivano di volume, e piuttosto divenivano 
pallidi. 

Dietro questi risultati non rimaneva che la prova in acqua 
corrente, e cioè in continuo movimento e rinnovamento. 

Tali prove furono ripetute in laboratorio ed in aperta cam- 
pagna, dove scelsi dei corsi d’acqua sottili, situati in monte, 
alimentati da acque limpidissime, e di cui per prima cosa volli 
conoscere la microflora. Cercavo di collocare i cespugli dove 
l’acqua scorreva al pulito, sulle sponde sgombre da detriti in 
putrefazione; ma visto che i vegetali decomponentisi ne favo- 
rivano l’attecchimento, mi giovai di ciò, e così ottenni lo svi- 
luppo rigoglioso di Crenothrix in diverse località del monte 
pisano. Per la stessa via mi riuscirono delle buone culture in 
laboratorio, valendomi dell’acqua di conduttura. 

In esperimenti di questo genere, con acqua a contenuto mi- 
crobiologico non costante, non uniforme, sorge subito la diffi- 
denza, per la grande facilità di esser tratti in errore. Ma pro- 
cedendo con circospezione massima, e dopo avere imparato a 
conoscere in ogni più minuto particolare i microrganismi di cui 
si vogliono seguire le fasi evolutive, ogni dubbio può eliminarsi. 
Nel caso concreto del resto, non avendo tra mano degli schi- 
zomiceti inferiori, per i quali il metodo non potrebbe conce- 


(4) Anrony e BoneLLI. — Esperienze relative alle acque potabili che hanno per- 
corso tubi di piombo. Gazzetta chimica ital. 1896, I. 


302 G. GASPERINI 


dersi, ma dei microfiti ben distinti e distinguibili, la ricerca, 
semprechè oculata, non poteva a meno che essere rassicurante. 
Fin dalle primé culture di laboratorio, e dai primi attec- 
chimenti nel ruscello situato a levante del bottino del Pino, 
mi detti cura di indagare quali rapporti genetici esistessero 
fra le forme filamentose incolore e quelle fornite di guaina fer- 
rica. Per mettermi sulla buona via valsero senza dubbio le in- 
numerevoli osservazioni microscopiche che non mi sono stan- 
cato di ripetere a brevi intervalli di tempo con materiale fre- 
sco, o con i campioni fissati con acido osmico, o bicloruro di 
mercurio. La constatazione della perfetta somiglianza di forme 
fra i filamenti privi di guaina e quelli che erano forniti della 
guaina organoide d'ossido-idrato ferrico meglio che altrove mi 
risultò dall’esame dei cespugli presentatisi alla più volte ram- 
mentata polla del Pino. Qui, specie dal dicembre del 1896 
al marzo del 1897, abbondarono i filamenti che nella Tav. VII, 
fig. 1 si vedono incolori, fra’ quali filamenti se ne distinsero 
alcuni con vere e proprie ramificazioni, come risultano dalla 
Tav. VIII, fig. 3. Gli uni e gli altri avevano movimento oscil- 
larioide, ed erano come costituiti da tanti articoli ialini, tenuti 
insieme da una sostanza o membrana che manifestavasi come 
una sfumatura od alone chiaro, ma non netto, nè ben definibile. 
Più rifrangenti erano i filamenti della Tav. VIII, fig. le. 
Richiamandomi alla descrizione che ne ho già fatta, rileverò 
qui che i filamenti con vere ramificazioni, riuniti nella citata 
fig. 3, non solo dalla primavera del 1897 in poi non li ho più 
osservati alla polla n. 6 del Pino; ma neppure sono riuscito 
in seguito a constatarli nelle località attentamente esplorate, 
e nelle sedi ove ho potuto ottenere l’attecchimento della Cre- 
nothrix. Nei filamenti con guaina ferrica mancano le ramifica- 
zioni. Si potrebbe sospettare che tali fili, ridotti come vitrei e 
friabili, non lascino apprezzare le ramificazioni stesse per difetto 
di preparazione. A ciò peraltro ho cercato d’ovviare osservando 
i cespugli con le maggiori cautele di prelevamento dall’ acqua 
e di disposizione sui vetrini; ma non sono riuscito a sorpren- 
dere disposizioni tali da poter ammettere un rapporto fra i 
filamenti ialini ramificati e quelli semplici con guaina ferrica. 
Resta dunque per questo microfita l'osservazione che esso ras- 
somiglia perfettamente ai conviventi fili ialini semplici, sia per 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 303 


le dimensioni, sia per la costituzione e variabilità della lun- 
ghezza degli articoli; sia per le reazioni e per il comportamento 
agli agenti plasmolisici ed alle materie coloranti; sia per il mo- 
‘vimento. Essendo però dotato di ramificazioni vere; non aven- 
dolo visto rivestirsi di guaina ferrica; essendo scomparso mentre 
la vegetazione crenotricea è continuata; non avendolo visto 
apparire nelle località ove le vegetazioni della stessa Crenothrix 
del Pino e di altre provenienze erano nel loro inizio, e rigo- 
gliose, parmi conveniente lasciarlo come entità a sè, in attesa 
che gli studi ulteriori sul genere Beggiatoa, al quale sembra 
appartenere, ne completino la conoscenza. Lo designo intanto 
col nome di Beggiatoa ramosa. i 
Passando agli altri filamenti, che visibilmente si rivestono 
di guaina ferrica, o meglio, che hanno una guaina dove l’os- 
sido-idrato ferrico non precipita in forma di minutissime gra- 
nulazioni, ma che si immedesima nella guaina stessa, sosti- 
tuendola come da un tubicino d'aspetto vitreo, omogeneo, di 
vario spessore, a seconda della maggiore o minor quantità del 
sale ferrico che lo costituisce, questi filamenti, soltanto se sor- 
presi nelle prime fasi del rivestimento organoide, lasciano 0s- 
servare nell'interno gli articoli ialini, che già ho delineati nella 
Tav. VIII, fig. 4, articoli talvolta visibili anche senza l'aiuto 
della tintura iodica, o di speciali artifizi di tecnica. Insistendo 
per veder di colpire il fenomeno da altri descritto, della fuo- 
riuscita cioè degli articoli bacilliformi dai tubicini ferrici, debbo 
dichiarare che mai ciò ho verificato accadere, e che anzi i tratti 
protoplasmatici interni, a misura che la guaina ferrica si fa più 
spessa, vanno soggetti a delle modificazioni identiche alla pla- 
smolisi provocata con adatti reattivi. Poi finiscono con lo scom- 
parire, lasciando delle guaine che nulla più posseggono d’or- 
ganizzato o vitale. Del resto i filamenti indicati nella Tav. VIII, 
fig. 15,c e fig.3 sono così delicati, che si dileguano facilmente 
anche dall'acqua stagnante. Ogni volta infatti che trasportavo 
dalla solita polla del Pino dei cespugli ocracei in una provetta, 
dopo 2 o 8 giorni di permanenza in laboratorio, lasciati immersi 
nella propria acqua, oltre a vederli volgere al colore spangrin in- 
dicato da Zopr, e che si sa esser proprio dei sali ferrosi, nel tornare 
ad esaminarli al microscopio, mi colpiva la mancanza dei fila- 
menti mobili, ialini, di cui non riuscivo a trovare neppur traccie. 
Sc. Nat., Vol. XVI 20 


304 G. GASPERINI 


Questi fenomeni si verificano con tanta maggiore rapidità 
quanto più elevata è la temperatura ambiente. 

Nessuna meraviglia dunque che nei tubuli d’ ossido-idrato 
ferrico la parte assile o vitale vada a dissolversi. Nè secondo 
le ipotesi emesse da ZopPr gli articoli bacilliformi contenuti nelle 
guaine possono migrare, essendo ciò contradetto da replicate 
osservazioni fatte sopra materiale fresco, di età e provenienza 
varia. Del pari inammissibile è l'opinione di Zopr, che attribuisce 
al movimento proprio degli articoli la loro liberazione dalle 
guaine, le quali anche per questo si troverebbero vuote. Inam- 
missibile perchè, quando la guaina ferrica è in via di formazione, 
serra gli articoli in guisa da ostacolarne qualsiasi movimento; 
nelle fasi successive poi si osservano, come ho già avvertito, 
dei segni manifesti d’avvenute contrazioni del protoplasma, 
contrazioni che rapidamente si accentuano al punto da ridursi in- 
compatibili con la vita. 

Se i filamenti ialini semplici, come depongono le osserva- 
zioni microscopiche, sono dunque quelli che si rivestono d'’os- 
sido-idrato ferrico, e sone le guaine appena formatesi che, perso 
ogni vestigio di contenuto protoplasmico, non rappresentano 
più nulla di organizzato, convien passare alle osservazioni e 
ricerche intese a far luce sui problemi principali che cì si fanno 
dinanzi. 

E il ferro indispensabile per lo sviluppo di tali microrga- 
nismi® Come è conciliabile ciò con la funzione deleterea che 
le guaine spiegano sui filamenti? Se questi microfiti possono 
vivere senza rivestimento ferrico, quindi con aspetto diverso, 
sono essi da ricercarsi sotto altra denominazione? Apparten- 
gono a generi e specie diverse? In ogni caso, il ferro delle 
loro guaine è il prodotto di un lavorio biochimico speciale, 
od è la risultante di un ordinario fenomeno chimico-fisico 
d’associazione, che si svolge alla superficie dei filamenti di 
Crenothrix, come su qualunque altro sostegno meccanico? A 
queste e ad altre questioni che si succedono resta tanto più 
arduo il poter rispondere, in quanto, come sappiamo, ci manca 
l'utile e comoda risorsa delle culture pure. Tuttavia durante 
la stagione calda del ’97, e nella primavera di quest’ anno, 
non ho trascurato alcun tentativo d’esperimento, nè omesso 
di fare continui esami. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 305 


Riassumo in breve il lavoro compiuto con qualche profitto. 

Dal maggio al giugno del 1897, fatta attecchire la Crenothrix 
nella Zambra della valle delle fonti, al così detto passo del 
Casone, vidi che qui, sotto la diretta influenza dei raggi solari, 
sviluppavansi rigogliosamente, come ricco fu poi lo sviluppo 
nel torrentello a sud-est della polla n. 6 del Pino, dalla quale 
ultima presi il materiale per trapiantarlo nelle dette località. 
Durante queste indagini, siccome contemporaneamente seguivo 
i cespugli mantenuti in laboratorio con acqua corrente, potei 
apprezzare un primo fatto, che fu il punto di partenza di 
altre prove sperimentali. Vidi cioè che i filamenti con guaina 
ferrica, portati dal Pino, davano origine a dei conglomerati di 
filamenti privi di guaina; e che quest’ ultimi, prima di doven- 
tare ocracei, perfettamente corrispondevano alle culture d'una 
specie di Beggiatoa, vegetante a valle di certi lavatoi. Di più: 
dopo aver fatto sviluppare la Crenothrix del Pino al passo del 
Casone, notai, due metri a valle del punto di sementa, rive- 
stirsi completamente di Beggiatoa incolora una doccia di legno 
percorsa dall'acqua che aveva lambito i cespugli ocracei, e dopo 
quattro giorni, diventare ocracei quasi tutti i filamenti che 
avevo osservati ialini, incolori. 

Per quanto si sia ormai abituati a considerare le Beggiato- 
ceae fra i batteri tiogeni o solfobatteri, distintamente cioè dai 
batteri ferruginosi, non doveva sembrare strana la coincidenza 
osservata, tanto più che la maggior parte di coloro che stu- 
diarono la Crenothrix, segnalano fra le specie conviventi la 
Beggiatoa alba. Si ricordi il caso di Rotterdam, che è, per le 
ragioni che vedremo, interessantissimo. Chi peraltro disponga 
delle vegetazioni di Beggiatoa per i debiti confronti, non può 
a meno che restare impressionato e dalle somiglianze che il mi- 
croscopio ed i reattivi mettono in evidenza, e dai fatti che ho 
riferito. Ora aggiungo che, prelevati dal passo del Casone dei 
cespugli di Crenothrix, e posti con acqua della conduttura in 
un recipiente a larga superficie, ho verificato più volte a 25-80°0. 
la comparsa alla superficie dell’acqua di veri filamenti di Beg- 
giatoa, 1 quali rapidamente si son rivestiti di guaina ferrica. 
Non volendo prendere questi dati come decisivi, perchè incon- 
stanti, e perchè si svolgono dirò così fugacemente, in modo 
diverso da quel che succede della Crenothrix in natura, suben- 


306 G. GASPERINI 


trando al primo e breve periodo dello sviluppo suaccennato la 
fase di disfacimento dei filamenti capaci di divenire ocracei, 
cercai di risolvere ogni dubbio con una esperienza che parmi 
decisiva. 

Poichè nella valle delle fonti d’Asciano esiste sempre qual- 
che vecchia presa con portata insignificante, che è messa fuori 
di servizio mediante un tappo di legno perennemente lambito 
dall'acqua, mi prefissi di fare attecchire su questo legno vecchio 
la Beggiatoa rinvenuta a valle dei lavatoi esistenti sotto l’Inse- 
tata, per poi osservare a quali vicende i filamenti andavano 
soggetti. Lo sviluppo della Beggiatoa, dopo vari innesti andati 
a vuoto, l’ottenni alla superficie del tappo che devia la polli- 
cina S. Marco, la quale viene a giorno sotto le così dette Polle 
dei Gemitivi. Giova notare che, lungo la galleria di presa, 
coperta e praticabile, ove scorre l’acqua della polla S. Marco, 
non si sono mai avvertiti dei dopositi ocracei, e che l’acqua 
di questa polla, con residuo oscillante a 120°C. fra gr. p. li- 
tro 0, 11 e gr. 0, 12, contiene tracce minime di ferro, derivando 
da un ripieno ove si trovano soltanto dei detriti di anagenite ed 
il prodotto del disfacimento di scisti poco ferriferi. Sul predetto 
mozzicone di legno la Beggiatoa si sviluppò rigogliosa, all’ oscu- 
rità, producendo filamenti lunghissimi ed una massa bianca, con 
le caratteristiche molto simili a quelle del microfita da Bonner 
presentato alla Società botanica di Francia il dì 8 febbraio 1884 
come campione di una batteriacea. Dopo due settimane, visto 
che al colore bianco si era sostituito l’ocraceo pallido, ricorsi 
agli esami microscopici e micro-chimici del caso. Mi trovai così 
di fronte a dei filamenti provvisti della nota guaina, con le 
caratteristiche cioè dei più diffusi esemplari di Crenothrix. 
L’ esperimento si svolse in tali condizioni, e così al riparo da 
cause d'errore, da poter dare una sicura base alle innumere- 
voli osservazioni che già di per sè avevano dimostrato essere 
la così detta Crenothrix nient'altro che una Beggiatoa capace di 
rivestirsi d'una guaina organoide d’ ossido-idrato ferrico. 

Accertata questa nozione fondamentale, non avevasi più a 
che fare con l’incomprensibile microrganismo di Conn e Zopr; 
ma con un'alga a tallo semplice, senza clorofilla, molto diffusa, 
che, per conoscerla nelle sue varie forme e nelle sue manife- 
stazioni vitali, bisognava raccoglierla e studiarla, meglio che 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA O POLYSPORA ECC. 307 


in laboratorio, nelle località ove cresce spontaneamente. Questa 

via l'abbiamo in parte battuta nei precedenti paragrafi, ed ormai 
conosciamo quanto diverso può essere l’'labitat delle specie e 
varietà che fissano il ferro. 

Convinto pertanto che le ricerche di tal genere non si esten- 
dono mai abbastanza, ai campioni presi nel comune dei Bagni 
di S. Giuliano (Asciano), a Corneto Tarquinia, nel comune di 
Campagnatico, ai Bagni di Casciana, ai Bagni di Lucca, nella 
valle di Linaglia presso Casale Val di Cecina, a Nodica, e nelle 
colline pisane, volli aggiungere anche gli esemplari dei micror- 
ganismi che vegetano a Tabiano, Salsomaggiore, Porretta, Mon- 
tecatini, Agnano, Uliveto, Chianciano, ed alle Acque Albule presso 
Tivoli. Esaminai pure la micròflora d’una trascurata sorgente 
solforosa che è nel comune di Vecchiano. Dal sig. Paoo MARNI 
ho altresì ricevuto le così dette Muffe di Valdieri; dal collega 
sig. dott. Cowmacini la sostanza ocracea della conduttura d'Ori- 
stano, e dall'amico T. De Hieronywis, medico provinciale, il de- 
posito ferruginoso delle acque potabili di Chioggia. 

Rivolgendo ora lo sguardo alle ricerche eseguite, il fatto 
più importante che emerge in servizio dell'argomento in esame 
sì riassume in ciò, che ho visto crescere in luoghi diversi dei 
microfiti isolati che, avendo condizioni di esistenza identiche 
ad altri con i quali abitualmente si trovano a convivere, ed ai 
quali molto assomigliano per la forma, non avrei saputo in 
altro modo distinguere. 

Infatti, quando fra certe forme concomitanti non esiste alcuna 
transizione morfologica, e quando alcune di queste forme si 
rinvengono isolatamente in località disparate, è buona regola 
non riunirle sotto un nome unico (!). Ma trovandomi io nel 
caso di veder riunite delle forme dal lato morfologico indiffe- 
renziabili per gli stadi di passaggio, ed incapaci di svilupparsi 
anche nei mezzi indicati da BeyerINck, tanto più avevo bisogno 
di ricercarle e seguirle in natura, per sorprenderne lo stato 
d'isolamento. Questo, una volta constatato, ha un grande valore. 

Entrare nei particolari delle numerose specie di diatomacee 
e oscillariacee, di ifomiceti e schizomiceti, di rizopodi, flagellati, 


(4) Gomonr MaurIcE. — Monographie des Oscillarites (Nostocacées Homocystées). 
Annales des Sc, nat., septiòme serie, Botanique. Tome, XV, pag. 253 e seg., Paris 1892. 


308 G. GASPERINI 


infusori (ciliati) e di sporozoi che ho avuto campo di racco- 
gliere, ci porterebbe lungi dal nostro scopo. Qui basta far cenno 
dei protofiti che per affinità di forma o di funzione hanno un 
qualche rapporto con le Beggiatoa, o con la così detta Creno- 
thrix, a prescindere ben s'intende dai modi diversi di simbiosi 
che fra questi esseri microscopici si esercita. 

Non mi trattengo perciò sulle molteplici forme sferiche, 
sui loro particolari morfologici e sul loro modo di aggregazione, 
trattandosi di cellule che, mentre quando si raccolgono possono es- 
sere perfettamente ialine, se esposte alla luce si vedono assumere 
la clorofilla. Accumuli di cellule minutissime simili, a quelle che 
ZoPr considera come spore di Crenothrix, li ho visti prendere il 
color verde, riconosciuto con l'esame spettroscopico per cloro- 
filla. Lo stesso dicasi delle varie forme circolari od ovolari che 
si notano nella Tav. VIII, fig. 1, 2,8 e Tav. IX, fig. 7. 

Commensali frequentissime delle Beggiatoe sono certe oscil- 
larie verdî, delle cui forme aberranti od anamorfiche ho dovuto 
occuparmi. Accade assai spesso di incontrare dei filamenti ver- 
dastri, che hanno perduto la facoltà di riprodursi per zoospore, 
e che, tenuti in cattive condizioni di aereamento, ed in acqua 
ricca di protozoi, si assottigliano, e prendono quella forma da 
Borzi detta sticococcoide. Il nesso genetico che le lega queste 
forme con quelle normali è stato studiato da algologi illustri 
come lo stesso Borzi, Hanserre, De Winveman. ecc. 

À questi stadi anamorfici di alghe riferisco certi filamenti, 
di un diametro che oscilla intorno al micromillimetro, con mem- 
brana si può dire invisibile senza reattivi, e costituiti da ele- 
menti di forma bacillare, con tendenza a separarsi gli uni dagli 
altri. Nella Tav. IX, fig. 7:, ho riprodotto due di questi fili 
che avevano color verde pallido ed in cui la moltiplicazione si 
è ridotta al semplice fenomeno della scissiparità, come avviene 
nello Stichococcus bacillaris Nage., di cui ho ottenuto una cul- 
tura quasi pura dall'acqua potabile della città, abbandonata 
in un matraccio per quasi sette mesi. Avendo sott'occhio le 
forme della citata figura 7 7 mal si possono differenziare dai fila- 
menti di Beggiatoa, se non si osserva che nelle dette forme 
persiste un vestigio di colore clorofillaceo; che il contenuto dei 
singoli articoli non ha di regola granulazioni, e che mancano 
i movimenti, | 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 309 


Altri fili sottilissimi, immobili, ottenuti da graduali passaggi 
di oscillarie verdi, in modo da esser sicuro che mi rappresen- 
tavano un semplice stato di transizione dall'una all’altra forma, 
sono quelli della Tav. IX, fig. 7f. Si tratta di filamenti che ho 
riscontrato in acque con Crenothrix da molto tempo chiuse in 
recipienti di vetro esposti alla luce, con protoplasma omogeneo, 
talora con interruzioni nel contenuto, o con granulazioni finis- 
sime ed irregolarmente disposte, distinguibili da certe Beggiatoe 
solo per la clorofilla. Ma dove questa era scomparsa, od estre- 
mamente diluita, io mi trovavo nel campo del microscopio degli 
intrecci che potrebbero benissimo essere rappresentati con le 
fig. 1, 2, ecc. della Tav. III, con cui Zorr (*) ha illustrato la 
Cladothrix dichotoma. a 

Ricorso ad osservare l'aspetto che i filamenti prendevano 
con i reattivi plasmolisici, io mi son trovato dinanzi la pre- 
cisa fig. 5 della citata Tav. III di Zorr. Ho notato cioè che il 
contenuto di questi fili si retrae lasciando un occhiello fra ar- 
ticolo ed articolo che ha la sua apertura maggiore in corri- 
spondenza dell'asse longitudinale dei fili stessi, mentre va a chiu- 
dersi verso l'estremo parietale. 

Vi somiglia molto la Cladothrix intricata di RusseLL, e per- 
fettamente vi corrisponde il comportamento con gli acidi degli 
ordinari filamenti delle più sottili Pleurococcacee. Qualora dunque 
le citate forme aberranti siano state descritte per Cladothriz, 
bisogna togliere fin d'ora di mezzo questa denominazione ge- 
nerica, per sostituirvi più giustamente quella di Stichococcus, ge- 
nere stabilito dal NareeLi fin dal 1849 (2). 

Le estese ricerche microbiologiche alle quali attendo da molti 
anni mi hanno lasciato finalmente dubitare dell’esistenza dei 
protofiti da ascriversi al gen. Cladothrix Conn (3). Non possono 
farne parte, come ho sostenuto e sostengo fino dal 1890, quei 
micromiceti con filamenti ramificati, e con vere formazioni goni- 
diali, che descritti da primo nel gen. Streptothrix, debbono conser- 
varsi nell'ultimo gradino delle Hyphomyceteae, ed oggidì com- 


(!) Zorr. — Zur Morphologie der Spaltpflanzen ( Spaltpilze und spaltalgen) mit 
sieben taflen. Leipzig 1882. 

(?) NAarGELI. — Gattungen einzelliger Algen ete. pag. 76, 1849. 

(*) Conn. — Untersuchungen iiber Bacterien. Cohn's Beitrige zur Biologie der 
Pflanzen, I, parte 32, pag. 341. 


310 G. GASPERINI 


prendersi nel gen. Actimnomyces, di che ormai convengono Bere- 
sTNEFF, LAcHNER-SanpovaL e tutti coloro che rispettano le leggi 
della nomenclatura scientifica. Non appartengono al gen. Clado- 
thrix le specie descritte da BirLer (!), da Biscen (*) e da quanti 
non. ben conoscono il gen. Beggiatoa, od il gen. Actinomyces am- 
pliato. Dalla maggior parte dei batteriologi sì sono confuse le 
Cladothrix con le Leptothrix, con le Thiothrix e con altre Tricho- 
batteriaceae incompletamente note. Per Wixrrr (3) la Cladothrix 
non è che un microrganismo con pseudo-ramificazioni, formato 
da articoli assai lunghi, divisi, come le cellule di certe ife; per 
altri è un bacillo filamentoso pseudoramificato, senza vestigio di 
sepimenti, di granuli protoplasmatici. In Saccarno (Schizomyce- 
taceae) il gen. Cladothrix è così designato : “ Filamenta basi ab 
“ apice superiore distincta, vagina crassa obincrassata, articu- 
“ lata, pseudo-ramosa. Arthrosporae binae in singulis microba- 
“ culis ellipsoideis ortae ,. La sola Clad. dichotoma Conn, che 
vi appartiene, si troverebbe secondo De Toni e Trevisan nelle 
acque stagnanti, neile alghe in putrefazione, e si moltipliche- 
rebbe per artrospore. Ora io non sono mai riuscito ad isolare 
microrganismi filamentosi tenuissimi, privi di vere ramificazioni 
e con artrospore, che non appartenessero al gen. Bac:/lus, che 
non fossero in altri termini degli schizomiceti veri e propri, 
vicini al Bac. megaterium, al Bac. mycoides e ad altre specie 
simili del terreno, o dell’acqua. Presi i campioni ed i preparati 
avuti per Cladothrix non ho potuto formarmene il concetto di 
un genere a sè. Quando ho verificato che avevo sott'occhio una 
vera e propria Beggiatoa, quando ho dovuto concludere per 
la natura micotica di filamenti di cui sono riuscito a provo- 
care la fase conidiale, o sporigena. Se dunque non sono ac- 
caduti equivoci con gli Actinomyces, con le Leptothrix, con 
le Beggiatoa, con i Bacillus, è probabile che per Cladothria si 
sia inteso fin qui d’indicare quelle forme delle alghe che stanno 


x 


(1) Bruner A. — Contribution à l étude de la morphologie et du dévoleppement 
des Bactériacées. Bulletin scientifique de la France et de la Belgique, 1890, pag. 29- 
107, Tav. I-IV. 

(2) Buscen. — Kulturversuche mit Cladothrix dichotoma. Berichte der deutschen 
botanichen Gesellschaft, 1894, pag. 147. 

(3) Vinter Grore. — Die Pilze- Deutschlands, Oesterreichs und der Schweiz. I. Ab- 
theilung-Leipzig, 1884. pag. 40. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 11 


per perdere, o che non lasciano più vedere la clorofilla, che 
sono sottili e con articoli simili a quelli dei bacilli più elevati, 
che non sono coltivabili nella gelatina, nell’agar e nel brodo, 
che in altri termini appartengono a quelle forme sticoccoidì di 
alghe relativamente superiori, come ad esempio dell’ Ulothrix 
flaccida Krz. Tali forme, realmente somiglianti ai bacilli, ed 
appartenenti alle alghe; immobili, senza ramificazioni vere, si 
presentano di incerta posizione sistematica, tali insomma da aver 
giustificato nel 1875 la creazione per parte di Conn del ge- 
nere C/ladothrix, appartenente ai Desmobatteri. Ma secondo le os- 
servazioni fatte e quelle che seguono, non trovo che tal genere 
abbia ragione d'essere conservato, e tanto meno poi fra le 
Bacteriaceae. 

Sarebbe il passo così un po’ sgombrato se fra i protofiti an- 
ch'essi somiglianti alla Crenothrix, e molto affini alle alghe, 
non vi fossero da esaminare quelli che in gran parte costitui- 
scono le così dette Muffe di Valdieri. Intendo più che altro 
riferirmi a quegli intrecci filamentosi, esilissimi, non ramificati, 
che dal prof. Derponte ricevettero il nome di Leptothrix.  Val- 
deria (*). Sono di colore ocraceo vivo, e cominciano a svilup- 
parsi sulle superficie rocciose ove l’acqua scorre a 55°C., per di- 
venire più rigogliosi nei punti ove l’acqua arriva a 50°C. Que- 
sta Leptothrix ha un diametro di poco oscillante intorno a 
0,8%. Nella soluzione d’acido ossalico conserva a lungo il suo 
colore ocraceo, che scompare meno lentamente nel sublimato 
corrosivo. Con gli agenti plasmolisici il protoplasma si fram- 
menta, ed i segmenti che ne derivano sono più o meno lunghi 
o distanti. 

Il gen. Leptothrix Krz. (1843), trovasi in RaBEeNHORST così 
definito: “ Trichomonata tenuissima, abbreviata, adhaerentia, 
“ segregata, vel laxe aggregata, numquam intricata, saepius 
oscillantia, indistinte articulata, et saepe distincte vaginata; 
cytioplasma homogeneum, aetate provecta granulosum non- 
nunquam fasciatim contractum ,. 

Le Leptothrichieae in Saccarpo costituiscono una tribù “ spo- 
“rae nulae autem saltem hucusque nunquam detectae. Filamenta 


(4) Derpontre G. — Lettera al dott. G. Garelli. Gazzetta medica italiana. Stati 
Sardi, 1857. 


312 G. GASPERINI 


“ simplicia ,. Fa seguito il gen. Leptotrichia Trev. (1879) con 13 
specie, l’ultima delle quali, e da escludersi, sarebbe appunto 
la Leptotrichia Valderia. 

“Les Leptothrie different des Bacillus, scrive Macnim, par 
“leurs filaments très-longs, adhérents, très minces et indistin- 
“ ctement articulés ,, (1). 

Sono state riunite nel gen. Leptotrichia delle specie di Le- 
ptothrix, di Leptonema Rasrnn., d’ Ophryothrix Borzi, Thiothrix 
Winogransty, Beggiatoa Trevisan (2). 

Per alcuni detto genere mal si differenzia dal gen. BaciMlus, 
tanto è vero che vi conservano la Leptothrix buccalis Ros (3), che 
è una forma di adattamento alla vita asporigena di un bacillo 
vero e proprio. Con questa forma, non coltivabile con i mezzi. 
ordinarî, sono stati confusi degli Actinomyces ed altri micromi- 
ceti (*-°) che crescono bene su vari substrati. Se però torniamo 
alle origini del gen. Leptothrix, che fu istituito per alghe a tri- 
comi semplici, sottili, distinti, articolati, per lo più immobili 
ed incolori, e di cui si ignorava il modo di moltiplicazione, dob- 
biamo riconoscere che la Leptothrix Valderia vi fu giustamente 
ascritta. 

Sull’autonomia di questo gen. Leptothrix poco viè da dire. 

Oggi sappiamo che esistono fra le specie del gen. Beggiatoa 
dei filamenti lunghi ed estremamente sottili, quali si ritenevano 
caratteristici del gen. Leptothrix. Non resta dunque che valerci 
di questa denominazione per le forme filamentose del tartaro 
dentario, finchè non saranno coltivate e descritte. Ma a parte 
ciò dobbiamo esaminare la Leptothrix ochracea Krz., ossia quel 
microrganismo di cui Kirziwe non dà che una descrizione incom- 
pleta, e che Wixograpsky ha riscontrato comunissimo nelle acque 
ferruginose (5). Io stesso ho potuto ottenere dalla sorgente del 
Doccione dei Bagni di Lucca una specie ocracea che non sarà 
superfluo esaminare in rapporto con la Leptothrix predetta. 


(') Magnin Ant. — Les Bachtéries. Thèse. Paris 1878, pag. 74. 

(*) Saccarpo P. A. — SyLLoge cit. pag. 932-935. 

(3) Rosin C. — Histoire naturelle des vegétaux parasites de l'homme et des ani- 
maux. Paris, 1853. 

(4) Arusramow. — Zur Morphologie und Biologie der Leptothrix. Centralblatt 
tir Bakteriologie, 1889, VI, pag. 349. : 

(3) DosrzyniecKI. — Ueber Leptothrix. Centralbl. f. Bakt. 1897, XXI, pag. 225. 

(6) Winograpsey. — Ueber Eisenbacterien. Botanische Zeitung, 1888, pag. 262. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 313 


Nell’eseguire le analisi batteriologiche sistematiche delle 
acque che via via prendevo a studiare, mi sono sempre atte- 
nuto al metodo di servirmi dei substrati solidi per gli isotamenti 
opportuni, e di mantenere le scatole di Perri in un termostato 
con temperatura pari a quella della sorgente in esame. Per 
le analisi dell’acqua del Doccione tenni il termostato solo a 
50° C. A questa temperatura isolai fino dal 15 giugno del 1897 
non solo delle specie di batteri, che benissimo crescevano a 
50° C.; ma anche un microrganismo filamentoso che, trapian- 
tato in tubi con agar a becco di flauto, richiamò ben presto 
la mia attenzione per l'intenso color ruggine che assunse su 
tutta la superficie di sviluppo. Quanto ai batteri dirò subito 
che più abbondanti li rinvenni alla superficie del bicchiere nel 
quale versa perennemente l’acqua del Doccione destinata per 
bere, bicchiere che è ricoperto da uno strato d’ ossido-idrato 
ferrico dovuto a comuni schizomiceti, divenuti termofili per adat- 
tamento, come di ciò mi hanno convinto le culture che a grado 
a grado ho ottenute rigogliose alla temperatura ambiente. 
Per ciò che riguarda la specie ocracea, capace di mantenersi 
di color ruggine vivo, di ricuoprirsi qua e là di filamenti can- 
didi, od anche di ridurre il proprio potere cromogeno, due prin- 
cipali questioni si presentavano da risolvere. La prima, se il 
microrganismo poteva identificarsi alla Leptothrix ochracea Krx.- 
Winxoc., piuttosto che alla Leptothrix Valderia, o ad altri filamenti 
ivi già riscontrati; la seconda, se e quale rapporto avesse il 
microfita con la messa in evidenza del ferro in quella località. 

Dal lato morfologico e tassinomico mi riuscì facile d’oriz- 
zontarmi. 

Avevo allo studio un Actinomyces, con tutte le caratteri- 
stiche delle specie che vi appartengono, nè è qui il caso di di- 
mostrarlo con una lunga e minuta descrizione. 

» Esaminando il pigmento ocraceo in confronto della Leptothrix 
Valderia Detronte, si ha che quest’ ultima, oltre conservare il suo 
bel colore encarnatus con acido ossalico, va lentamente deco- 
lorandosi in acido cloridrico diluito; passa all’olivastro e quindi 
al bruno con acido solforico puro; passa al verde, ed attraverso 
il color canarino si decolora con acido nitrico concentrato ; 
non si altera con gli idrati alcalini e con l’ammoniaca; non 
passa all’etere, al cloroformio, nè all’alcole amilico. L’ alcole 


314 G. GASPERINI 


etilico scioglie il pigmento di questa Leptothr:x, ed il soluto si 
mantiene inalterato alla luce per oltre un mese. Nell’acqua è 
affatto insolubile. Nell’Actinomyces del Doccione invece il pig- 
mento è solubile lentamente nell'acqua; si mantiene con gli al- 
cali, e con li acidi minerali ed organici diluiti; si scolora, passando 
pel giallo canarino, con acido nitrico fumante; va al verde scuro 
con acido solforico concentrato; si scioglie con etere, clorofor- 
mio, benzina e alcole amilico. L’alcole etilico e metilico sono 
1 migliori solventi del pigmento, come avviene per l’ Act. aste- 
roides Errimcer, per l Act. aurantiacus, carneus, ecc. Poste que- 
ste differenze, che dal canto loro servono anche a distinguere 
idue protofiti dalla Crenothrix, basterà aggiungere che, se adot- 
tasi il metodo di Winocrapsky per ottenere la Leptothrix ochracea, 
non si hanno alla superficie dell’acqua contenente ferro che 
dei filamenti di Beggiatoa misti a batteri. E quei bastoncelli. 
mobili che a Wiwocrapsky (!) parvero delle artrospore, non rap- 
presentano se non uno stadio di maggiore segmentazione dei 
filamenti delle Beggiatoa, fatto questo che ho più e più volte 
accertato. Se invece si ricorre al metodo delle culture piatte 
con agar, la specie ocracea che può incontrarsi, e che posseggo 
in cultura pura, non forma alla superficie dell’acqua alcun velo; 
non ha la proprietà di fissare il ferro come le Beggiatoa; non 
può dunque per essenziali differenze morfologiche e biologiche 
ravvicinarsi alla specie che Wmoarapsty ha descritta. 

Presa dalla stessa sorgente del Doccione un poco di materia 
ocracea di recente riprodottasi, e posta in un recipiente che sî 
mantenga bene aereato ed a temperatura piuttosto alta, si ve- 
dono sorgere dai corpuscoli ferruginosi dei filamenti bianchi e 
sottili, che, dopo un breve stadio di accrescimento, si arrestano. 
Neppure questi filamenti, che fuori della naturale corrente non 
si rivestono di guaina ferrica, e che differiscono dalla Beggiatoa 
minor delle Acque Albule, della Porretta e di Tabiano, solo per 
essere irregolarmente contorti, e meno sottili di quelli ad esem- 
pio della sorgente solforosa di Tabiano, neppure questi, dico, 
potrei riferire al gen. Leptothrix. Ed affermo ciò perchè non 
accetto il criterio di porre nel gen. Leptothrix, come si è fatto 


(1) Winoerapser. — Sur le pleomorphisme des Bactéries. Annales de l’Institut Pa- 
steur, 1889. III n. 5, 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 815 


da molti, sia le oscillarie acroe quando sono immobili, sia le 
beggiatoe che non abbiano i pretesi granuli di zolfo ('). 

Prima di discutere sull’estensione da darsi al gen. Beggiatoa 
mi restano da enumerare altri microrganismi che, sopraggiunti 
nelle sedi di sviluppo della Crenothrix, si appropriano il ferro, 
assumendo delle forme che possono equivocarsi facilmente con i 
veri fili di Crenothrix. 

Qui debbo rammentare per i primi i miceli di certi ifomi- 
ceti, e più specialmente delle Mucoraceas. Ne ho visti a Nodica, 
ai Bagni di Lucca e nella sorgente n. 2 della galleria di Li-. 
naglia. Sopraggiunsero pure in Asciano, nella galleria del Pino, 
dopo oltre 6 mesi da che vi rinvenni la Crenothrix. Studiando 
questi miceli nei loro particolari più minuti si acquista ben 
presto la convinzione che ai medesimi appartengono molte di 
quelle forme che da Conn e Zorr furono attribuite alla Creno- 
thrix. Ho voluto accertarmene con l’ottenere dai miceli, di cui 
vedesi un frammento nella Tav. VIII, fig. 5 a, la produzione 
delle ife sporaginifere. Con le spore ho riprodotto successiva- 
. mente dei cespugli micelici in acqua ferruginosa. Le ricerche 
istituite sono concordi nel dimostrare che i filamenti micelici 
degli ifomiceti assorbono il ferro, fissandolo specialmente nel loro 
protoplasma, sotto forma d’ossido idrato. Io ho potuto speri- 
mentalmente riprodurre col Mucor stolonifer quei filamenti con 
doppia parete, intensamente ocracei, e quelli di diametro 3 e 4 
maggiore della Crenothrix, che vanno ad assottigliarsi in pic- 
colo tratto, fino ad uguagliare il diametro della Crenothrix 
stessa. Però si differenziano perchè hanno ramificazioni vere, e 
talora sì spiccata variabilità nello spessore dei filamenti e nel 
produrre dei cespugli, quale è propria del gen. Mucor Mrcarti. 
Trattando questi fili ocracei di natura micotica con acido ossa- 
lico, resistono al solvente più dei veri filamenti di Crenothrix. 
Quelli che han solo nell'interno del colore ferrico suffuso, mentre 
le pareti son normali, ed il protoplasma è ancora granuloso, vi- 
sibile, col trattamento ossalico non si alterano. Quando si tro- 
vano degli intrecci con ramificazioni vere, con ingrossamenti 


(1) Van Trecnem Pa. — Observations sur des bacteriacées vertes, sur des phyco- 
chromages blanches, et sur les affinités des ces deux familles. Bull. de la Soc, bot. de 
France, séance du 11 Juin 1880, pag. 174-179. 


316 G. GASPERINI 


bruschi, con fili frammisti molto grossi, sia pure profittando dei 
piccoli tratti dove le deposizioni granulari non nascondono la 
struttura dei filamenti, si può riconoscere quelli di natura 
micelica dagli altri. Ma non di rado le ife tanto si assottigliano, 
e per lunghi tratti si mantengono così isodiametriche e senza 
ramificazioni, da rendere affatto incerta una diagnosi microsco- 
pica differenziale. Ciò è avvenuto ed avviene specie nei casi 
in cui gli ifomiceti si sono ridotti commensali della Crenothrix, 
spontaneamente e da tempo non breve. In circostanze di tal 
natura può anche succedere che concomitanti ai semplici fili di 
Crenothrix si trovino altri filamenti più ferruginei, con asse 
centrale sottilissimo e con guaina ferrica molto spessa, i quali 
ultimi sembrino per di più forniti di vere ramificazioni. Si 
tratta di una varietà di Beggiatoa i cui filamenti, trovandosi 
fra di loro disposti a guisa di Cladothrix, possono venire saldati 
assieme dalla guaina ferrica. Ne risulta così una ramificazione 
vera, che l'acido ossalico fa riconoscere prodottasi fortuitamente. 
Sono questi fili con linea scura centrale e con guaina organoide 
di uno spessore considerevole, che ad esempio abbondano alle * 
origini dell'acquedotto di Cecina, e che un attento esame certo 
permette di separare da quelli micelici, privi di guaina orga- 
noide. Non ignorandosi da alcuno i particolari della forma e 
del contenuto dei miceli mucoracei, e d'altra parte essendo 
così facile provvedersene per averli presenti, nonchè per os- 
servare le forme che in genere assumono le ife che si svilup- 
pano nell'acqua, tralascerò i confronti che potrebbero farsi fra 
certe espansioni dei filamenti, che ricordano gli eterocisti dei 
Nostoc, ed altre di forma irregolare, prodottesi da un sol lato, 
ed infine quelle terminali ovalari o piriformi, che, alla guisa 
della fig. 25, Tav. III, di Zopr, contengono protoplasma granu- 
loso, senza speciali differenziazioni. 

Fatto cenno dei micromiceti concomitanti della Crenothrix, 
vi sarebbero da considerare le diatomacee capaci di fissare il 
ferro. Fra queste vien subito fatto di pensare alla Ga/lionella fer- 
ruginea EnereNgERe (1). Nell'opera pregevolissima di Cristiano Gor- 
rreDo ERERENBERG si trova rappresentato questo protofita da ca- 


(4) EarensERG. — Die Infusionsthierchen als Wollkommene organismen. Leipzig, 
1838, Atlas. T. X, fig. 7. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 317 


tene bacilliformi fatte da articoli di egual lunghezza e di color 
fulvus, diramantisi da due fili sottilissimi, senza struttura, di co- 
lore stramineus. Non vi sono filamenti elicoidi nè figure simili a 
quelle pure elicoidi della Tav..ITI, fig. 20 a,b, di Zopr, cosa questa 
che, data la somma accuratezza di detta opera dal lato iconogra- 
fico, indurrebbe a ricercare ne' microrganismi: diversi da quelli 
che ho descritto le caratteristiche specifiche della Ga/lionella. 

Prima difficoltà si incontra nell'esame delle specie che at- 
tualmente fanno parte del gen. dedicato a Garcion. Riunite da 
De Toni nel gen. Melostira As., trovasi che la Melosira ferruginea 
Eng. è una specie da escludersi. “ Est spirillum, ergo ad schizo- 
“ mycetaceas pertinet ,, (!). Ricercata nel gen. Spirillum, così è 
descritta in Saccardo (2): “ Sp. ferrugineum Ex. De Toni. Baculis 
“brevibus, ferrugineo flavis, immobilibus, laxe irregulariterque 
“contortis, saepe pluribus implicatis septulis transversis inco- 
“ spicuis. Hab. in fontibus martialibus passim. Floccos ochra- 
“ ceos, flavos efficit ,. 

Dalle diatomacee assai elevate, come sono le Melosire, di- 
scesi a questa diagnosi, dobbiamo riflettere che lo Zopr at- 
tribuisce le forme a rosario, di color rosso bruno, alla Crenothrix 
polyspora, considerandole come filamenti morenti. Ne trovò nei 
serbatoi di Tegel e di Charlottenburg (*) e vide le forme di pas- 
saggio ai fili normali. D'altra parte abbiamo i filamenti spirali 
da me già descritti e figurati, e che accompagnano le vegeta- 
zioni di Crenothrix sia nel cratere dei Bagni di Casciana, sia 
in molte altre località, senza aver dimostrato che rapporti ab- 
biano dette forme elicoidi con lo Spîr:llum ferrugineum Ea. De 
Toni. È giunto dunque il momento opportuno di interessarcene. 

A parte la considerazione che la specie di EnerENBER6 è a 
dubitarsi se sia identica alla Spirochaete ferruginea Hansero, alla 
Didymohelix ferruginea Grierma, alla G/loeosphoera ferruginea 
Raena., alla Melosira minutula Bres. ed allo Spirillum di De Toni, 
sta il fatto della constatazione che con i filamenti tipici di Cre- 
nothrix si trovano non pochi fili spiraliformi di vario spessore. 
Di più debbo notare che solo dopo 6 mesi dalla comparsa della 


(1) De Toni G. B. — SyWoge Algarum, Vol. IT, Bacillarieae, Patavii, 1894, pag. 1349. 
(2) Saccarpo. — SyWoge fungorum cit. Vol. VIII, pag. 1007. 
(3) Zopr W. — Entwichelungsgeschichtliche, cit. pag. 1-42. 


318 G. GASPERINI 


Crenothrix nel bottino del Pino, cominciò la presenza di lunghi 
filamenti elicoidi, alcuni de’ quali più sottili di quelli ordinari di 
Crenothrix, isolati, o fra di loro avvolti in foggie diverse. Fu- 
rono anzi queste forme che mi convinsero sempre più d'avere 
a che far con la specie descritta da Zopr. 

Siffatti fili, del diametro di appena 1w, oggi predominano 
nella polla n. 6 di detto bottino, ove anche i filamenti tipici 
di Crenothrix si sono ridotti più esili. 

Esaminando attentamente queste forme si possono distin- 
guere quelle che a guisa di nastro piegato ad elica sembrano 
derivare dai filamenti tipici, dalle altre dovute a fili ben più 
sottili che si intrecciano fra di loro per lo più a due a due, od 
anche a tre, di rado in numero maggiore. Si scorgono inoltre 
fra i filamenti, che non han più figura cilindrica e divenuti eli- 
coidi, tutte le gradazioni; da quelli sottilissimi cioè, fino a quelli 
di maggior larghezza, e se ne trovano dei piegati ora in spire 
molto serrate, ora in spire larghe, dando luogo a quella varietà 
di forme che specialmente colpisce facendo dei preparati con 
la sostanza pseudorganica raccolta ai Bagni di Casciana. Senza 
più oltre addentrarmi nelle particolarità morfologiche che ho 
in parte rappresentate nella Tav. VIII, fig. 6 e 7, dirò che ha 
fondamento il concetto di Zopr, secondo il quale queste forme, 
che ricordano la Ga/lionella di EneRENBERE non sono altro che 
stadi anormali di Crenothrix, dovute all’ invecchiamento, od alla 
perduta vitalità dei filamenti. 

Rammenterò a tal proposito che queste forme non le vidi mai 
dove la così detta Crenothrix aveva attecchito da poco tempo. 
Osservando poi i filamenti molto vecchi, o quelli sottoposti 
ad essiccamento lento, si vedono comparire le forme a rosario : 
e ciò che più importa, si vedono i filamenti stessi scindersi in 
nastrini sottilissimi, come sfibrarsi, ed in parte avvolgersi ad 
elica, in parte conservare la forma normale. È dal disfaci- 
mento dei fili crenotricei che derivano i frammenti elicoidi 
più sottili, fra di loro uniti in una spira uniforme, più o meno 
compatta. Sono i filamenti normali che per una specie di di- 
sgregazione si scindono longitudinalmente e prendono l'aspetto 
elicoide. Una riprova io l’ho ottenuta facendo assumere le forme, 
che nella citata fig. 20 di Zopr sono incolore, ad alcuni fiocchi 
di Beggiatoa alba, lasciati essiccare nell'ambiente fra due vetrini. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 319 


Del resto le ricerche microscopiche a forte ingrandimento 
fatte sulla Crenothrix d’Asciano, che ho seguito nel suo invec- 
chiare per poco meno di due anni; e la ripetuta costatazione 
dello sfibrarsi dei fili nel modo sopra accennato, autorizzano a ri- 
guardare la grande maggioranza delle forme spirali svariatissime, 
che accompagnano la Crenothrix vegetante da tempo in una data 
località, come derivate da una speciale alterazione dei filamenti 
di -Beggiatoa, normalmente rivestiti di guaina ferrica organoide. 

Ammessa questa origine dei fili elicoidi polimorfi, ben si 
comprende come questi siano dotati di grande resistenza, e 
come talvolta possano da soli far fede della Crenothrix svilup- 
patasi in una tubulatura, od in altro mezzo. 

E per essi che non esito ad attribuire gran parte della 
alterazione avvenuta nei tubi di Campagnatico allo sviluppo 
della Leggiatoa Kihniana. 

Con quanto sopra ho affermato è bene mettere in chiaro 
che non intendo escludere gli spirilli fra i protofiti capaci di 
fissare il ferro. Le mie ricerche in proposito * tendono anzi a 
dare agli schizomiceti non poca importanza in questo: feno- 
meno. Abbiamo già visto che nella sorgente gialla dei Bagni di 
Lucca l’ossido-idrato ferrico è legato alla presenza di batte- 
riacee, fra le quali senza dubbio abbondano le forme spirillari. 
È questo dunque un esempio classico di deposito ferruginoso 
naturale nel quale entrano esclusivamente gli schizomiceti. Se 
a ciÒ si aggiunge che anche i batteri termofili del bicchiere 
che riceve l’acqua del Doccione sono capaci di fissare il ferro; 
che sono i veli micotici superficiali dovuti ai batteri che nel 
fare esperienze con acque ferruginose li ho visto mettere in 
evidenza .l’ossido ferrico; che fra le granulazioni ocracee che 
aderiscono’ spesso ai filamenti di Crenothrix ve ne sono in 
buona parte che si debbono ai batteri della putrefazione, parrà 
giustificato, e che tali micromiceti si annoverino fra i conco- 
mitanti ordinari del fenomeno Crenothrix, e che loro sì attri- 
buisca la proprietà di favorire anche da soli, o di cooperare, al 
prodursi nelle condutture di ghisa dei tubercoli ferruginosi. 

Ma prima di toccare l’ argomento dal lato biologico e pra- 
tico, sarà bene premettere altre note che più interessano dal 
punto di vista morfologico. 

Non continuo nella enumerazione degli esseri che hanno 

Sc. Nat., Vol. XVI 21 


320 G. GASPERINI 


con le Beggiatoe forme o funzioni in apparenza somiglianti, 
perchè dovrei proseguire per una via lunga e troppo ardua. 
Circoscriverò piuttosto le dette note al solo gen. Beggiatoa Trev. 

E già questo un campo non augusto di ricerche, poichè lo 
stabilire le affinità di questo genere con quelli prossimi; lo 
indagare le particolarità morfologiche delle specie che vi ap- 
partengono; il distinguerle fra di loro, offre di per sè tale un 
complesso di difficoltà, da non poterle affrontare con la presente 
contribuzione. 

E noto che il gen. Beggiatoa fu istituito dal conte Trs- 
visan nel 1842, in omaggio al dott. Beecraro, botanico vicen- 
tino (*), per designare quei protofiti filamentosi i quali vanno 
oggidì sotto il nome di solforarie o tiobatteri, genere che è 
stato accettato da Rasewzorst, Winter, Zopr, De Toni, SAccaRrDO 
e da tanti altri autorevolissimi, che lo hanno arricchito di 
numerose specie. La ricerca dei microorganismi che dopo le 
classificazioni di Ray-LAnKEsTER, Crenkowskti e Conn vi sono stati 
ascrittida Trevisan, Luerssen, Wunscne, RapenHORST- Winter, FLÙGGE, 
Huùppe, CosrantIN, e dai più recenti batteriologi, i quali non abbian 
tenuto conto che il gen. Beggiatoa è anteriore al gen. Lepto- 
thrix (1843), Hypheothrix (1843), Crenothrix (1870), Cladothrix 
(1878), Thiothrix (1888), e Nocardia (1889), mi porterebbe im- 
plicitamente a fare la storia di tutte le fasi per le quali sono 
passati gli studi batteriologici. 

Basterà invece definire le linee generali del gen. Beggiatoa, 
lo che del resto faciliterà il compito a chi voglia accingersi 
ad una ricerca retrospettiva. 

I tricomi delle Beggiatoa, ora si trovano dritti, ora varia- 
mente incurvati, di regola privi affatto di ramificazioni. Dal dia- 
metro dei più sottili batteri possono raggiungere lo spessore 
di 16 a 804. come ce ne dà esempio Conn con la Beggiatoa mira- 
bilis (2). I filamenti cilindrici, per lo più continui, possono essere 
articolati e presentare i singoli articoli variabili per lunghezza, 
ma isodiametrici, per ciò che riguarda il diametro trasverso. 

I filamenti hanno in generale le estremità ricurve, come si 
verifica nelle oscillarie, alle quali assomigliano per i movimenti 


(1) Trevisan V. — Prospetto della Flora Euganea, Padova 1842, pag. 76. 
(?) SaccarDo. — Sy2/oge cit., pag. 936. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 321 


anguiformi di progressione, o per il moto elicoide. Vi sì riscon- 
trano filamenti immobili. Quando le specie sono in via d’ac- 
crescimento ed in condizioni molto favorevoli di sviluppo, man- 
cano per lo più di granuli oleiformi rifrangenti. Raggiunto lo 
sviluppo completo, e specialmente in condizioni sfavorevoli d’esi- 
stenza, possono arricchirsi di quelle granulazioni che secondo le 
più recenti ricerche sarebbero di zolfo. Si moltiplicano per scis- 
sione, e mancano di spore. Crescono nelle acque minerali; hanno 
predilezione per le sorgenti termali soiforose; si sviluppano a tem- 
perature elevate, o dove abbondino sostanze putrescibili. In 
generale producono dei fiocchi bianchi e quella sostanza che ha 
avuto il nome di glewina o dbaregina. 

In Saccarpo questo genere è così definito: “ Filamenta cylin- 
drica, evaginata, articulata, simplicia, utrinque apicibus con- 
formia, ubique aequilata, libera, vivide oscillantia, granula sul- 
phuris ut plurimum gignentia. Multiplicatio filamentorum divi- 
sione ad unam directionem; baculogonidiis et coccis nullis ,. 
Vi sono descritte dzecè specie con tre incerte, o da escludersi. 

Rivolgendo l’attenzione alla forma più diffusa (Beggiatoa 
alba 2), visto che le materie coloranti in uso per i batteri ne 
alteravano la struttura minuta, ne studiai il contenuto pro- 
toplasmatico, senza artifici di tecnica, sui filamenti viventi. 
Così i tricomi si mostrano con un contenuto finamente granu- 
lare, non senza una speciale disposizione dei granuli fra di loro, e 
dell’ialoplasma rispetto all’ ectoplasma. Si riesce a distinguere 
come tante cellule in catena il cui endoplasma ha dei granuli 
rifrangenti, o bioblasti, di cui alcuni con funzioni apparente- 
mente omologhe a quelle dei centrosomi delle cellule superiori. 
Sono dei bioblasti cioè, attorno ai quali si dispone l’ialoplasma 
prendendo la forma di articolo bacillare, il cui ectoplasma, ap- 
pena distinguibile nei filamenti freschi, nettamente individualizza 
i singoli articoli, se si trattano i filamenti con qualche agente 
plasmolisico. Nella Tav. IX, fig. 1 ho rappresentati dei tricomi 
esaminati a fresco nell'acqua medesima ove crescevano sponta- 
neamente, e nella stessa Tav. IX, fig. 3 si vedono in a quattro 
frammenti su cui hanno agito degli acidi minerali; in d un fila- 
mento sottoposto alla soluzione di nitrato potassico. Essendo 
quest’ultimo un agente plasmolisico di grande efficacia, deforma 
completamente il contenuto dei fili. Invece gli acidi minerali e 
quelli organici fanno retrarre il citoplasma, proprietà che hanno 


322 G. GASPERINI 


molte altre sostanze. In tali casi il citoplasma stesso si mostra 
diviso in articoli di forma diversa, divisione che nei filamenti si 
determina anche spontaneamente, quando ricorrano condizioni 
sfavorevoli di vita, o quando è già trascorsa la fase evolutiva. 
Questi filamenti si colorano bene con tintura d’iodio e con i 
colori d’anilina. Impiegando una soluzione molto allungata d’az- 
zurro di metile non è raro il notare che alcune cellule si co- 
lorano più intensamente di altre. La guaina sottile quasi invi- 
sibile, che tiene uniti gli articoli, anche quando fra gli uni e gli 
altri intercede uno spazio notevolissimo, ben si mette in evidenza 
con l’ematossilina di Bònmer. Senza artifizi di tecnica si riesce 
ad apprezzare, specie in quei tratti che restano privi di proto- 
plasma per l'invecchiamento dei fili. Con l’acqua di JaveLLe non 
ho avvertito che questa guaina sia costituita da strati sovrap- 
posti, come si verifica in alcune oscillarie verdi. Non ha dato 
le reazioni della cellulosa. 

Lungo i tricomi rettilinei, ondulati, flessi irregolarmente, o 
spirali, si trovano spesso le granulazioni che i più ritengono 
caratteristiche delle Beggiatoaceae. Si tratta di corpi sferici mi- 
nutissimi, tanto rifrangenti la luce da apparire nerastri, che 
ora si trovano sparsi, e rari; ora riuniti a piccoli gruppi. Tal- 
volta sono più fitti in un punto chè in altro prossimo; talvolta 
invece ricuoprono affatto delle piccole aree, o degli intieri tratti 
filamentosi. 

Le granulazioni più voluminose presentano come un cerchio 
nero, od un doppio contorno, con uno spazio centrale chiaro. 
Qualunque sia il loro volume mai assumono aspetto cristallino. 
Con adatti ingrandimenti si distinguono bene i granuli che 
aderiscono alla parete esterna dei filamenti dai veri e propri 
bioblasti. Quest’ultimi son meno rifrangenti e mai possono spor- 
gere oltre le linee dei filamenti, cosa che osservando*attenta- 
mente si verifica per 1 primi, ossia per quelli che ormai si con- 
siderano come globuli solforosi. 

Li riconobbe per tali Cramer fino dal 1870 (1), vedendo 
che si scioglievano nel solfuro di carbonio. Conn avvalorò 
quest’ opinione nel 1875 (?) con nuove ricerche. Quindi War- 


(4) Cramer. — Chem. phys. Beschereibung der Thermen von Baden in der Schweiz. 
Von Dott. ch. MuLLer, 1870, secodno WinoGRADSEY. 

(2) Conn F. — Unt. ib. Bacterien, II. Beitr. z. Biol. d. Pfl., t. I, Heft 3, 1870, 
pag. 141. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 323 


mne (4, Pravuscno (?), Erarp ed Ocivier (5), Otivier (4), Hoppe 
Server (5) Sergrus Winocrapsty (9), Zimmermann (°), non solo ac- 
cettarono senz'altro che quelle granulazioni fossero di zolfo, 
con i relativi stati di passaggio dallo stato fluido a quello so- 
lido, eppoi a quello cristallino; ma contribuirono altresì a dar 
ragione dei rapporti che dovevano esistere fra lo sviluppo delle 
Beggiatoe e la produzione dell'idrogeno solforato. Ne vennero 
fuori delle ipotesi contraddittorie, e si cercò di spiegare la 
fermentazione solfidrica con esperimenti ed osservazioni che non 
reggono a mio parere ad una sana critica. 

Non potendo avere, come ho detto più volte, culture pure 
di Beggiatoe, ho fatto soltanto qualche saggio per accertare la 
natura dei granuli. E siccome per molti autori i granuli di zolfo 
si rinvengono nell'interno dei filamenti, anche questo bisognava 
porre in chiaro. Scelti dei conglomerati filamentosi freschi ove 
era manifesto il brulichio anguiforme, ed assicuratomi che i sin- 
goli fili erano riccamente provvisti di granuli caratteristici, ho 
tentate le reazioni dello zolfo sia sotto il campo del microscopio, 
sia in capsule di vetro. Ho dovuto preferire i trattamenti in 
dette capsule, o nei vetrini da orologio, per ragioni ovvie & 
comprendersi. In queste ricerche mi sono valso del solfuro 
di carbonio, degli alcali, dell’alcole, dei solventi più o meno 
attivi dello zolfo, ed in più vasta scala di altri reattivi che 
non hanno azione alcuna sullo zolfo cristallizzato. Trattandosi 
di reazioni microchimiche delicatissime le cause d’errore sono 
molte. Per metterci al riparo al più possibile erano dunque in- 
dicate anche le sostanze per lo zolfo indifferenti, come quelle 


(4) Warmine Eua. — Observat. sur quelques Bactéries qui se rencontrent sur le 
cotes du Danemark. Copenague, 1875. 

(2) Prauscaun. — Sur la réduction des sulfates par les sulfuraires. Comptes rendus, 
29 janvier 1877 e 26 décembre 1882. 

(3) ErarD et OLivier. — De la reduction des sulfates par les ètres vivants. C. R. 
XCV, 1882, pag. 846. 

(i) OLivier Lovis. — Experiences phisiologiques sur les organismes de la glairine et 
dela baregine. Role du soufre contenu dans leurs cellules. C. R. CVI, 1888, pag. 1744 
e 1806. 

(©) Hoppe SeyLer. — Ueber die Gaehrung der Cellulose, ete. Zeitschr. f. phys. 
Chemie, X, 1886, pag. 401. 

(9) Winoarapsxy S. — Ueder Schwefelbakterien. Bot. Zeit. 5 agosto 1887, N. 31, 
pag. 489. 

(*) Zimmermann A. — Die Botamische Mikrotechnik, Tiibingen, 1892, pag. 46-47. 


324 G. GASPERINI 


che asportando o dissolvendo i granuli, avrebbero tolto alle 
reazioni finora accettate per sicure, il valore che loro si volle 
attribuire. 

Con solfuro di carbonio i granuli effettivamente si scioglie- 
vano. Con carbonato sodico alla temperatura ambiente si presen- 
tavano più spiccati. Con acido nitrico e cloridrico perdevano un 
po del potere di rifrangere la luce. Dopo molti saggi di incerto 
valore, oltre quelli riferiti da Zimmermann, riconobbi che i migliori 
solventi di questi granuli erano senza dubbio l’acido acetico e l'etere. 
Trattandosi di corpi molto divisi poteva all’acido acetico attri- 
buirsi un'azione solvente, o decomponente. Se ad esenfpio si fosse 
avuto a che fare con un sapone insolubile di calcio, formatosi 
l’acetato di calcio, era da supporsi che, dinanzi a quantità mi- 
nime, si fossero perdute le traccie dell’acido grasso. 

Nell'ipotesi che si trattasse di fosfati, oltre Ja prova con 
acido nitrico ho fatto quella col. molibdato ammonico, ma senza 
esito positivo sicuro. 

Desunto dalle ricerche microchimiche che le granulazioni 
delle Beggiatoe non sono indubbiamente di zolfo, volli indagare se 
almeno fossero tali i granuli qualche volta abbondanti ed assai 
rifrangenti che si trovano nell'interno dei fili. Per verità tro- 
vare con i bioblasti dei granuli o dei cristallini di zolfo sarebbe 
stato un fatto ben singolare. Ancor più strano doveva apparire 
dopo la constatazione premessa, dopo aver visto cioè che molto 
più rapidamente si sciolgono in acido acetico ed in etere, che in 
solfuro di carbonio ed in altri solventi dello zolfo. Ma nonostante 
eseguissi le indagini con la pertinacia di chi ricerca un corpo di 
cui ne presuppone l’esistenza, ho dovuto escludere dall'interno dei 
tricomi le granulazioni puramente solforose. Che natura e quale uffi- 
cio abbiano i granuli delle Beggiatoe non sono riuscito a definire 
con precisione. Sembrami peraltro non giusto conservare per 
questi microrganismi la denominazione generica di Thiothrix 
data loro da Winoeran$ky, e che il gen. Beggiatoa non vada più 
inteso indissolubilmente connesso con la fermentazione solfidrica, 
nella quale principalmente prendono parte gli schizomiceti. 

Molte delle specie preferiscono è vero le acque termali solfo- 
rose; ‘ma ne abbiamo viste in acque di varia composizione chi- 
mica e con le forme le più svariate. 

I granuli poi non di rado si riscontrano alla superficie di 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 325 


microrganismi affatto diversi dalle Beggiatoe, (Monas Okenti, 
Ophidomonas, etc. ed hanno reazioni che più si accostano a 
quelle degli olii solforati, sul genere del solfuro d’allille o del 
solfo ciannro allilico. 

Nella sorgente solforosa di Tabiano ho raccolto la Beggiatoa 
più sottile. Viveva colà isolata e quasi del tutto sprovvista di 
granuli. In mezzo ai cristalli di zolfo stavano i lunghi filamenti, 
del diametro di appena 1, intrecciati, semplici, senza articoli 
batteriformi distinguibili. Si tratta di filamenti lunghi, gracili, 
indivisi, con i caratteri cioè delle forme che presso la grande 
maggioranza dei batteriologi si debbono al gen. Leptothrix, al 
quale ho già detto che mancano buone basi per sussistere. 

Adoperando degli agenti plasmolisici per vedere se anche 
questi fili son costituiti da catene di cellule, o se si scindono 
in bastoncini rettilinei più o meno lunghi, ciò ho verificato ac- 
cadere con molta irregolarità..E dove era apprezzabile una 
frammentazione ho scorto che l'estremità degli articoli sono 
tagliate in linea retta normalmente all’ asse, od accennano a 
quella concavità che ordinariamente si determina in casi simili 
ai capi di contatto degli articoli delle oscillarie. 

Questa Beggiatoa minima, alla quale Kruse assegna le di- 
mensioni da 0,8 a 1,0v, tanto abitualmente cresce con le altre 
forme, che vi sarebbe stato molto a dubitare della sua esistenza 
come specie a sè, qualora da sola non l’avessi riscontrata più 
volte. Dalla Lepthothrix Valderia non differisce che per caratteri 
di puro valore specifico, come il colore e la temp. di sviluppo. 

Abbonda nelle putrefazioni ed è resistentissima, per quanto 
non mostri che stadi filamentosi, il cui contenuto, con l’invec- 
chiamento, va soggetto a modificazioni che non permettono 
di essere ascritte a vere e proprie forme durevoli o sporali. 

Dotata di movimento vivace, può riscontrarsi del tutto im- 
mobile; come può avere in gran copia i granuli scuri, o man- 
carne affatto. Converrebbe appellarla tenuissima, per non gene- 
rare equivoci con la Begg. minima Warx, che raggiunge i 2& di 
spessore, ed è stata riscontrata nell'acqua di mare. Alla specie 
da me raccolta a Tabiano corrisponde la Thiothrix tenuissima 
Wiwocrapsky, delle acque sulfuree di Adelbonden. 

La Beggiatoa media (1,0-2,5 4) prossima, se non identica, alla 
Oscillaria leptomitiformis MenzcnNI, (1,0-25 4), stando agli esem- 


326 G. GASPERINI 


plari avuti in istudio, resiste pochissimo alla putrefazione. È la 
specie cui si riferisce la varietà K%/rniana, che fece sorgere il 
gen. Crenothrix, anch'esso da abolirsi. La stessa var. AiAniana 
è propria talora della Beggiatoa alba Trevisan (articulis latis sec. 
Kruse 2,5-4u; sec. Saccarpo 3-4). 

Non è qui il luogo di metterci a far la revisione delle specie 
appartenenti a questo genere, nè di vedere quanti e quali mi- 
crorganismi dovrebbero oggi riunirsi sotto le singole denomina- 
zioni specifiche preferibili. Dirò solo che il criterio desunto dallo 
spessore dei filamenti è non poco fallace, trattandosi di microfiti 
che sono mutabili a seconda delle condizioni del mezzo in cui 
vegetano. 

Osservando in un dato substrato dei filamenti isomorfi come 
quelli della Tav. IX, fig. 4, potrà ad esempio essere consentita 
la diagnosi di Beggiatoa muior (4,5-51); ma quando si abbia 
nello stesso campo un insieme di forme, come nella Tav. IX, 
fig. 6, con tutti i possibili termini di passaggio dai fili più esili 
a quelli più spessi, ogni distinzione riesce spesso arbitraria. In 
casi simili si osserva che alcune forme scompaiono rapidamente, 
mentre altre, mobili, come le medie e grandi che ebbi in copia 
da Chianciano, sì conservano lungamente vitali. Le più resistenti 
e mobili, non si rivestono ordinariamente di guaina ferrica. 

L’affinità delle Beggiatoe con le Oscillarie verdi è tanto 
spiccata da aver per sola caratteristica differenziale la cloro- 
filla e la ficocianina. 

Se capitasse di osservare incolore affatto la G/laucothrix gra- 
cillima e la Oscillaria leptothricha, descritte e figurate da Zopr (4), 
non sapremmo riconoscerle dalle Beggiatoaceae. Nelle Oscillarie 
però, quando si sono assottigliate molto e ridotte pallidissime, 
i movimenti cessano, e resta di regola una marcata chemotassi 
per i batteri, come si vede nella Tav. IX, fig. 7, indice della respi- 
razione clorofilliana. Dalle Beggiatoaceae alle Batteriaceae sem- 
bra ad alcuni così breve il passaggio da potersi benissimo le prime 
comprendersi nelle seconde. Ma tale opinione, seguita dai più, 
non posso condividere. L'insieme dei caratteri morfologici e 
biologici delle Beggiatoe induce a dover porre questi protofiti 
nell'ultimo gradino delle Oscillarie filamentose, anzichè fra i 


Zorr. — Zur Morphologie der Spaltpfanzencit. pag. 44-54, Tav. VI, fig. 1-16, 17-18. 


SULLA COSI DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 327 


bacilli pleomorfi, o tricobatteri. Esprimo per le Beggiatoe ri- 
spetto alle alghe lo stesso parere che sostenni per gli Actino- 
myces rispetto agli ifomiceti. Si potrebbe obiettare che le Ba- 
cteriaceae molto più che agli ifomiceti si ravvicinano alle alghe, 
come ad esempio gli spirilli alle spiruline, di guisa che, tolta 
la clorofilla, non resta alcun carattere per distinzioni elevate. 
Ebbene, questo tutt'al più avrà valore per mantenere le Beg- 
giatoaceae a sè, fra le alghe‘e i batteri. 

Chi però approfondisca lo studio del gen. Beggiatoa, non tar- 
derà a convincersi che qui manca la formazione endogena delle 
spore, e che i filamenti, minutamente indagati, non sono altro 
che dei tricomi senza clorofilla. 

Se dunque questi protofiti non hanno clorofilla, come va 
che si presentano tanto attivi fissatori del ferro sotto forma 
d’ossido a vari gradi d’idratazione® 

Il fenomeno ha ricevuto fin qui due diverse interpretazioni. 
Una prevalentemente chimica, o chimico meccanica, l’altra bio- 
chimica. 

Secondo la prima si è ammesso che le acque, più o meno ric- 
che d’acido carbonico, vadano perdendo questo gas dopo esser 
venute a giorno, per divenire così incapaci di tenere in soluzione 
il ferro. “ Nè potrebbe essere altrimenti, — scrivono il prof. 
Anrony e il dott. Luccresi a proposito dei fatti osservati ai 
Bagni di Lucca; e noi, proseguono, — considerando che dette 
acque giunte alla superficie del suolo non tengono in soluzione 
che piccolissima quantità di anidride carbonica, sì libera che 
combinata a fare carbonati acidi, e la piccola quantità di essi, 
aggiungeremo che esse acque debbono essere alla loro origine 
debolmente acidule e probabilmente anche non ferruginose 
di loro natura, e il ferro che per un tratto del loro corso 
tengono in soluzione ci pare che lo acquisteranno dai materiali 
che sono costrette ad attraversare per risalire alla superficie 
del suolo. 

“ Acque leggermente sì, ma pur cariche di anidride carbonica, 
di temperatura elevata che investono roccie granitiche da cui 
principalmente risulta quella regione, roccie granitiche proba- 
bilmente con pirite di ferro, agiranno lentamente su queste, 
disgregandole e sciogliendo poi in piccola quantità i prodotti 
di tali disgregazioni e cioè carbonato ferroso, carbonati alca- 


328 G. GASPERINI 


lini e alcalino-terrosi, solfati, e in piccola proporzione anche 
silicati alcalini, venendosi così ad esaurire, o quasi, di anidride 
carbonica. i 

“ Poi man mano che esse acque si avvicinano alla superficie 
del suolo, per la diminuita pressione, abbandoneranno in gran 
parte l'anidride carbonica combinata a fare carbonati acidi e, 
conseguentemente, depositeranno i carbonati alcalino-terrosi e 
il carbonato ferroso stesso che ben presto si scomporrà in 
idrato-ossido ferroso-ferrico a vario grado d’idratazione e ani- 
dride carbonica che in parte si svolgerà, in parte andrà a co- 
stituire carbonati acidi alcalini, rimanendone inoltre disciolta 
piccola porzione nell'acqua. 

“I carbonati alcalino-terrosi pesanti, e, perchè formatisi in 
seno a un liquido moderatamente caldo, cristallini, si racco- 
glieranno ben presto al fondo della via percorsa; gli idrati- 
ossidi di ferro invece fioccosi, leggieri verran portati oltre dalla 
foga delle acque e si depositeranno, in una coi detriti più 
leggieri delle roccie lentamente, ma continuamente corrose, là 
dove per subìta espansione della vena liquida se ne trova no- 
tevolmente diminuita la velocità, e quivi lentamente accumu- 
landosi andranno poi a costituire i più volte ricordati fanghi 
insieme a poca argilla e silice quarzosa soli e costanti compo- 
nenti di essi depositi. 

“ E con questo ci pare anche venga a spiegarsi il fatto della 
constatata limpidezza di queste acque, limpidezza che a prima 
vista non sta in armonia col deposito di questi strati fangosi ,,. 

In appoggio della teoria chimico-meccanica potrebbe invocarsi 
‘la considerazione che il ferro, dissociato nelle acque, si deposita 
sui primi corpi che incontra, sia sotto forma organoide, sia in 
forma di precipitazioni granulari minutissime, capaci di rivestire 
tanto gli organismi viventi, che quelli morti. 

In mezzo ai cespugli crenotricei si trovano anche dei pro- 
tozoi con granuli ferruginosi, sì trovano delle diatomee ed 
intrecci micelici di ifomiceti. 

I batteri, gli spirilli possono rivestirsi d’ossido ferrico, come 
il tallo di alcune oscillarie si cuopre di concrezioni calcaree: 
dunque più che una speciale proprietà della Beggiatoa media 
ed alba var. Kiihniana, si può fare entrare in campo il feno- 
meno tanto bene spiegato da Antony e Lucc®ssi. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECO. 329 


Il prof. Arcanegti (!) non potendo apprezzare la Beggiatoa 
Kiihniana in seguito altrattamento fatto con acido cloridrico, 
visto che nel preparato con la sostanza ocracea dei Bagni di 
Casciana erano rimasti dei soli filamenti di un’oscillaria, ritenne 
che “ l’idrato ferrico, che costituiva principalmente quel mate- 
riale, rivestisse forma filamentosa, appunto perchè modellatosi 
al di sopra dei filamenti delle alghe che vegetano in quelle 
acque, e ciò in connessione con la funzione di assimilazione del 
carbonio che in queste si compie sotto l’azione della luce ,,. 

i Queste vedute non mi sembrano ‘accettabili prima di tutto 
perchè nella materia pseudorganica di Casciana le alghe verdi 
sono molto rare in confronto delle altre forme che ho de- 
scritte; in secondo luogo perchè le oscillarie, non solo del 
cratere di detti Bagni; ma di tutte le altre località ove le ho 
viste con la Beggiatoa Ktihniana, non hanno mai presentato 
guaina organoide, o speciale chemotassi per i granuli ferruginosi. 

A parte la questione risoluta da quando precede, che le 
Beggiatoaceae non han bisogno per vivere di una quantità ponde- 
rabile di ferro, come non lo hanno delio zolfo, per quanto non 
sia improbabile che dell'uno e dell’altro abbisognino, ma in pro- 
porzioni minime, ci troviamo dinanzi a dei fatti bene accertati, 
la cui importanza non può sfuggire. 

L'ossido-idrato ferrico delle Beggiatoaceae viene fissato sotto 
una forma speciale che non è quella delle precipitazioni fin qui 
note. Si tratta d'una deposizione ferrica uniforme, senza visi- 
bili particolarità strutturali, tanto che pare un tubicino ocraceo 
di cristallo. Questa speciale formazione si verifica anche al di 
sotto di oltre un metro dallo specchio d’acqua, che rimanga 
costantemente occupato da gran copia d’acido carbonico. 

Nelle prime fasi dello sviluppo della Begg. Kihniana in una 
data località è solo questa specie che mette in evidenza il ferro. 

L'ho verificato in sorgenti con residuo fisso estremamente 
basso, che mai per lo innanzi avevano presentato depositi fer- 
ruginosi lungo il loro percorso, e che dopo la scomparsa della 
var. Kihniana è sembrato che perdessero ogni traccia di sali 
di ferro. 

Sopraggiungendo la stagione fredda, e cessando in corsi d’a- 


(4) ArcanceLI. — Processi verbali cit. 1 luglio 1883, pag. 276-277. 


330 G. GASPERINI 


cqua superficiali ogni vegetazione di Beggiatoa, si perde vestigio 
dei depositi, e quelli ocracei non ricompariscono se non dopo il 
ritorno delle vegetazioni cui sono legati, vegetazioni che mettono 
in evidenza il ferro sia sotto la diretta insolazione, sia nell’oscu- 
rità più perfetta. 

La fissazione del ferro per parte delle Beggiatoaceae avviene 
non solo nei punti d’affioramento delle sorgenti; ma anche in 
tratti qualsiasi d'un corso d'acqua, purchè questi protofiti ab- 
biano modo d’attecchire e di svilupparsi (Rotterdam, Passo del 
Casone d’Asciano, ecc.). 

A questo punto parmi che il concetto di una causa bio- 
chimica debba prevalere e che l’ufficio della Beggiatoa Kwhniana 
non possa ridursi ad un semplice fatto di ossidazione. 

Quando ciò fosse, giova ripeterlo, le oscillarie verdi dovreb- 
bero cooperare alle formazioni ferruginose più appariscenti. Per 
vedere più addentro nel meccanismo di tali formazioni biso- 
gnerebbe avere per base la conoscenza dei fenomeni chimici 
che si svolgono durante la nutrizione di questi microrganismi, 
e conoscer meglio le proprietà fisico-chimiche della membrana 
sottilissima dei loro filamenti. Siamo dinanzi ad un fenomeno 
che più l’ho studiato, più ho, dovuto convincermi della sua 
grande complessità, tanto che nelle condizioni attuali della 
fisiologia delle Beggiatoaceae neppur ne tento una spiegazione. 
Sostituisco solo un'ipotesi ad altre precedenti, preferendo quella 
che a parer mio sodisfa meglio, senza tacere che in sè racchiude 
un gran vuoto, che le ulteriori indagini su questo argomento è 
da augurarci possano un giorno colmare. 

In quel giorno sarà meglio distinguibile la parte fisico-chi- 
mica del fenomeno da quella biotica. Ora possiamo solo osser- 
vare che altro è l'ufficio della Begg. Kihniana, la quale riesce 
a separare dalle acque le traccie minime di ferro in esse con- 
tenute, riunendolo sotto forma di tubulini organoidi, capaci di 
lasciare all'acqua la sua perfetta limpidezza ; altro è il mecca- 
nismo della fissazione del ferro ove questo esiste in gran copia, sia 
per il precedente lavorio della Beggiatoa, sia per altre circostanze. 
In quest'ultimi casi, microrganismi varî possono spiegare azione 
simile a quella delle Beggiatoe, e con queste alghe, o da soli, 
produrre i fenomeni che più ci interessano. 

Appena constatata in Asciano la Beggiatoa iniziai qualche 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUNHIANA 0 POLYSPORA ECC. 391 


esperimento con l’acqua posta fuori di servizio, per vedere della 
sua azione sui tubi di ghisa non incatramati, in confronto di 
quelli internamente rivestiti con buona vernice Swrrx. 

D'una prima prova con tubo di ghisa greggia, senza pre- 
servativo, mostrai i risultati all'on. Giunta comunale il 29 
marzo 1897. 

Fin da quest’ epoca mi nacque il sospetto che l’acqua della 
polla n. 6 del Pino, poichè avea quasi del tutto ostruito il 
canale di piombo al suo punto di partenza dalla vaschetta in- 
terna, fosse temibile per i tubi di ghisa. La presenza di una 
specie tanto attiva produttrice d’ossido-idrato ferrico non era 
difficile potesse riuscire col fempo a danneggiare in qualche 
modo-la tubulatura, riducendola di diametro, od anche ottu- 
randola, per l'accumulo del materiale ocraceo nei tratti morti 
favorevoli al suo depositarsi. 

Infatti, nel tubo mostrato all’on. Giunta, della lunghezza 
di 75 centimetri e del diametro interno di 45 mm., in meno 
di un mese si era prodotto un deposito ferruginoso dello spessore, 
ancor fresco, di 15 a 20 millimetri. In qualche punto notavansi 
delle sporgenze turbecoliformi, che resistevano alla corrente. 
Nei tubi con vernice a caldo invece, bastarono degli scarichi 
ripetuti per asportare tutti i fiocchi ocracei che vi si erano 
accumulati. Dopo questa esperienza, alla quale attribuii poco 
valore per la sua breve durata, tornai a sottoporre alla stessa 
polla del Pino due pezzi di tubo; l'uno incatramato, del dia- 
metro di 150 millimetri, l’altro di 45 millimetri, il medesimo 
cioè adoperato per la prima prova, dopo essere stato ridotto 
a nuovo. Dopo 7 mesi e mezzo il tubo col protettivo era ?nal- 
terato. Aveva solo un po’ di deposito lungo il percorso del- 
l’acqua, deposito che, non aderendo affatto alla superficie 
interna, si remuoveva con la massima facilità, proprio come 
succede dei fiocchetti aderenti alle tubulature di piombo. 

Il tubo di ghisa greggia presentava l’ aspetto che ho ritratto 
nella Tav. IX, fig. 2. Si vedeva al fondo un strato ferruginoso 
dello spessore di circa 25 millimetri, e lungo le pareti lambite 
dall'acqua in cui il tubo stava immerso per opera d'una doccia 
di zinco, apparivano manifestissimi dei mammelloni con dia- 
metro alla base da 20 a 80 millimetri. Ve ne erano frammisti 
dei piccolissimi, e di quelli fusi assieme e perciò più volumi- 


332 G. GASPERINI 


nosi. Tali mammelloni per lo più si elevavano di 7 a 15 milli- 
metri, ed avevano l'aspetto dei tubercoli ferruginosi tipici. Va- 
riamente distanti fra di loro, si sono conservati della forma a 
tubercolo anche dopo che fu tolto il tubo dall'acqua, lasciando 
che asciugasse all'ambiente. Nell’ essiccare, in qualche mammel- 
lone si sono prodotte delle screpolature che ricordano i tuber- 
coli descritti da Tnorrner. Svelti di questi tubercoli dalla super- 
ficie della ghisa, ne ho visti con concamerazioni del tutto vuote, 
ed alcuni come formati da strati concentrici di colore diverso. 

In queste ed in altre esperienze consimili, che ho ripetute, 
sempre mi è occorso di vedere che le sporgenze ferruginose pro- 
dottesi sotto l'influenza della Beggiatoa Kihniana si remuove- 
vano agevolmente. Per molti caratteri richiamavano alla mente 
le produzioni interne dei tubi di Campagnatico. Nei tubi non 
protetti, esposti all'acqua priva di Beggiatoa, l’idrossido si 
forma con molta maggiore lentezza; scarso, e con caratteri 
affatto diversi dalle formazioni predette. Di quel che avverrà 
con gli anni nel tubo di prova lasciato nella galleria del Pino 
in Asciano, potremo dire in seguito: qui però sarà bene ac- 
cennare alle differenze che passano fra alcune escrescenze fer- 
ruginose che ho riscontrato nei tubi di ghisa. 

Primi verrebbero i classici tubercoli che, secondo Brcamanx (4), 
nei punti ove sorgono, fanno assumere al metallo l’aspetto e 
la consistenza della piombaggine. Sono capaci di cuoprire ra- 
pidamente la superficie interna dei tubi al punto di ostruirli. La 
loro produzione è favorita dalle acque che sono povere di sali 
terrosi e dalle distribuzioni intermittenti. Non ne ho potuti 
studiare esempi vermente classici. 

Ho verificato altresì in condutture di vario diametro (120- 
140 mm.)- dei tubercoli isolati, numerosi, adesi alla ghisa, duri; 
per lo più vuoti internamente, i quali, formatisi nello spazio di 
quasi venti anni, non han fatto che ridurne il diametro di circa 
3 mm. in media. Vi sono depositi ferruginosi poco aderenti, 
bene eliminabili con le sonde raschiatrici, e che non alterano 
affatto la resistenza delle tubulature. Altri processi invece che 
provocano la rottura dei tubi, riducendoli incapaci di tollerare 
pressioni più moderate. In certi casi, come a Campagnatico, 


(4) Becamann. — Distribution d'eau. Paris 1888, pag. 369. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA O POLYSPORA ECC. —338 


la ghisa si è imbrunita, ha preso un po’ il colore della piom- 
baggine; ma ha conservato la sua resistenza, e la materia fer- 
ruginosa ha assunto l'aspetto singolare che ho figurato e de- 
scritto. In alcune di queste escrescenze non si riesce che a 
trovare degli ordinari batteri delle acque, come abbondante- 
mente li rinvenni nelle produzioni ferruginose della tubulatura 
della nostra città. Quelle di vecchia data si mostrano straordi- 
nariamente più povere di residui organici ed organizzati; in con- 
fronto delle altre di formazione recente, che possono abbondarne. 

Dopochè gli pseudotubercoli da Beggiatoaceae si sono prodotti, 
giungono anch'essi a far perdere quasi ogni traccia della loro 
genesi. Esaminandoli dopo vario tempo, ed a forti ingrandimenti, 
non resta che una massa ferrica granulare, fra mezzo alla 
quale è molto difficile scorgere dei fili ben conservati, od i 
resti di altri microrganismi. 

È tanto vero che nei depositi ferruginosi da Beggiatoa Ki- 
hniana si può perder traccia dell'agente formatore, che esami- 
nandoli a varia distanza in superficie, o profondità, dal luogo d’ori- 
gine, sono giunto a rinvenirli d'aspetto e struttura puramente 
inorganica. In mezzo ai granuli finissimi, neppur son rimaste le 
forme elicoidi o spirali. In natura, quando si incontrano alla 
superficie delle roccie o dei detriti trasportati dalle acque, 
dei rivestimenti d’ossido-idrato ferrico, non basta l'esame chi- 
mico e microscopico per dire se le Beggiatoaceae l’abbiano pro- 
dotti. Le mie ricerche mi fan propendere a conferire non 
poca importanza a questi protofiti nella produzione dei depositi 
accennati, specie per le località ove scarseggiano i minerali 
di ferro. 

A seconda dei sali che più abbondano in una data acqua 
la composizione chimica delle formazioni ferruginose si muta: 
e tale cambiamento più specialmente avviene rispetto al quan- 
titativo di silice, che si deposita con l’ossido ferrico. 

Sulla rapidità maggiore di produzione dell’ ossido-idrato fer- 
rico influisce senza dubbio l’insufflamento dell’aria nelle tubu- 
lature; ma l'ossigeno libero e semicombinato facilita lo sviluppo 
anche dei microrganismi che elaborano il ferro, per cui in certi 
casi bisogna con molta circospezione indagare il fenomeno. 

In generale è a ritenersi, in base alle esperienze ed osser- 
vazioni che ho potuto fare fin qui, che le produzioni ferrugi- 


394 G. GASPERINI 


nose delle condutture di ghisa, che vanno studiate nelle prime 
fasi della loro formazione, variano col mutare delle molteplici 
condizioni in cui si determinano, tanto da incontrare difficil- 
mente in un luogo i particolari propri di un altro. 

Molto arduo sarebbe per me classificare queste diverse produ- 
zioni d'ossido-idrato ferrico e cominciar col separare quelle di 
origine esclusivamente chimica da quelle di origine bio-chimica. 
Non saprei neppur distinguere quelle dovute esclusivamente alla 
Beggiatoa Kiihniana, perchè spesso questa oscillaria segna il punto 
di richiamo di altri microrganismi; come nulla vieta che possa 
succedere a vegetazioni preesistenti. Senza riferire i numerosi 
particolari degli esperimenti che ciò comprovano; e senza di- 
lungarmi nel cercar di valutare ciò che in alcune circostanze 
più spetta alla Beggiatoa, in altre ai batteri, mi limiterò ad 
affermare che verificandosi delle formazioni ferruginose di qual- 
siasi apparenza, capaci di mettere fuori di servizio în breve lasso 
di tempo una tubulatura, ispezionate tutte le parti del servizio; 
valutate tutte le condizioni in cui il fenomeno si produce; bi- 
sogna far l’esame delle Beggiatoceae e dei loro commensali. Im- 
piantatesi in una conduttura di ghisa possono dar luogo a 
fenomeni svariatissimi, molto complessi, anche dipendentemente 
dalla diversità delle specie concomitanti. 

Ove si sviluppano questi protofiti spesso si libera dell'acido 
carbonico, che è condizione favorevole per far prendere dalla 
ghisa stessa, mon protetta, il materiale necessario per succesvi 
depositi, per le ostruzioni. Sì comprende quindi come esseri, 
che da una lenta e quasi inavvertibile vitalità, possono passare 
nell'acqua corrente ad uno sviluppo rigoglioso e rapidissimo; che 
hanno tanto facile l'adattamento ai mezzi più diversi; che in- 
somma hanno le proprietà già messe in rilievo; in qualche caso 
si siano manifestati come veri disastri delle tubulature di ghisa; 
in altre circostanze siano apparsi come agenti della fermenta- 
zione solfidrica: ora come alghe indifferenti di acque termali; 
ed ora come bacilli filamentosi, che si prestavano a ricevere 
appellativi generici e specifici varî. 

Fatta un po’ più di luce su questi esseri che sono diffusis- 
simi in natura; che si riscontranoin terreni geologicamente 
differenti, e che possono vivere a notevoli profondità, veniamo 
ai mezzi più adatti per non averli a temere. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 335 


$ Xi. 


La sorveglianza igienica delle acque potabili e le condizioni necessarie 
per esercitarla utilmente. 


Dinanzi ai danni che la Beggiatoa Kihniana può apportare 
ad un servizio d’acqua, e più specialmente alle tubulature di 
ghisa non verniciate, si presentano subito come rimedi efficaci 
la filtrazione a sabbia, lo sferramento dell’ acqua, la precipita- 
zione, ed oltre ai molteplici mezzi di protezione interna dei 
tubi di ghisa, l’impiego di tubi d’altro materiale. Mi fermerei 
sul valore dei singoli espedienti usati per arrestare, o com- 
battere il male, se non fosse preferibile stare sulla via che 
mena dritti alla profilassi di questa, come di altre calamità. 

Sappiamo infatti che a Rotterdam, per trascuratezze nell’im- 
pianto e nell’esercizio, non servì contro la così detta peste delle 
tubulature la stessa filtrazione a sabbia che aveva dato altrove 
ottimi risultati, e che serviva bene per le medesime acque della 
Mosa prese a Defthaven. Per arrestare lo sviluppo di un'alga, 
che ha il potere di determinare accumuli di ossido-idrato fer- 
rico anche là ove il ferro trovasi in traccie minime, non è a 
prevedersi sempre giovevole il solo sferramento dell’acqua. 

Per il fatto avvenuto a Corneto Tarquinia si crede da al- 
cuni che non basti proteggere internamente i tubi di ghisa. 
Questi tubi però, nonostante la concorrenza che hanno da so- 
stenere con quelli di cemento, d’argilla, ecc., rimangono, per 
impianti di una certa importanza, d'applicazione tanto genera- 
lizzata, e con ragione si mettono in opera dopo la verniciatura 
fatta col metodo del dott. Axcus Swra. Tecnici autorevolissimi, 
fra’ quali l’ing. dott. Giovanni CuPPARI, sono ormai concordi nel 
riconoscere, dopo le osservazioni che loro è occorso di fare, 
che i tubi ben incatramati sono oltremodo resistenti alle pro- 
duzioni ferrugginose (*). Dico bene incatramati, perchè non basta 
avere degli ottimi tubi Pemr fusi in conchiglia, e privi di di- 
fetti nella fusione; ma necessita che la vernice Smrk sia data 


(4) Relazione della commissione speciale per gli studi riguardanti il servizio del- 
l’acqua potabile, Pisa, 16 marzo 1892, pag. 29-32. — relat. CuPPARI. 


Sc. Nat., Vol. XVI 22 


336 G. GASPERINI 


a caldo, previa un'accurata pulitura, e con tutte le norme per 
ottenere che fra la vernice e la ghisa non resti nè aria, nè umi- 
dità. Se in breve tempo si videro delle produzioni ferrugginose 
attecchire anche nei tubi incatramati, non tardò a trovarsi la 
causa, o nell’irregolarità della superficie della ghisa, come scre- 
polature, soffiature, sbavature e quant'altro deriva da fusioni 
imperfette, od in altri difetti dovuti all’incompleta verniciatura, 
difetti che purtroppo non sono in pratica rari a verificarsi. 

Ma a parte che la Leggiatoa Kihniana, approfittando delle 
varie imperfezioni delle tubulature di ghisa, o della mancata 
resistenza della protezione, può attaccare le tubulature stesse 
e molto danneggiarle, non è a trascurarsi la circostanza degli 
accumuli d’ossido-idrato ferrico in punti morti delle condutture, 
ed ai giunti, accumuli capaci di determinare delle ostruzioni 
vere e proprie, come ho verificato nei tubi di piombo e di ter- 
racotta. Nè ciò deve sorprendere dal momento che le Beggia- 
toaceae possono perfino impiantarsi ai giunti delle tubulature di 
vetro, e, vegetando ad esempio in acqua corrente solforosa (1), 
arrestare, per azione forse più chimico-meccanica che biotica, lo 
zolfo, determinare delle incrostazioni, mettere in libertà dei 
fiocchetti capaci di togliere all’ acqua ogni carattere di purezza, 
creare insomma quelle difficoltà nel libero uso di una sorgente, 
che sempre reclamano provvedimenti radicali. 

La difesa dunque da microrganismi che, introdottisi in un 
servigio d’acqua riescono a danneggiarne per vie diverse il fun- 
zionamento, non deve in fin dei conti essere ricercata sennonchè 
nelle norme sulle quali ha da basarsi la sorveglianza in genere 
delle acque potabili. E questa sorveglianza che vado a consi- 
derare con obiettività di criteri, senza pretesa alcuna di va- 
gliare ad uno ad uno i principî scientifici, ormai accettati, che 
informano il giudizio da darsi sulla potabilità delle acque. 

Intendo di buttar giù degli appunti che possono servire a 
coloro sui quali grava la responsabilità di far vigilare, o vigi-. 
lare il servizio dell’acqua potabile d'un centro abitato. 

Ad essi giova tutto ciò che per via diretta od indiretta 
conferisca a renderne il compito spedito e sicuro; per essi non 


(1) RavaeLia prof. G. — Sul modo di condurre le acque minerali che contengono 
gas solfidrico libero. Atti del V. congresso nazionale di Idrologia e Climatologia. — 
Parma, 1898, pag. 56. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. BBY. 


sono sempre superflue le osservazioni pratiche anche modeste; 
ed è utile infine tutto ciò che abbia per scopo di trovare per 
questa sorveglianza delle acque distribuite ad uso potabile 
quelle soluzioni che siano preferibili e dal punto di vista igie- 
nico e da quello finanziario. 

O la sorveglianza igienica in parola è necessaria per garanzia 
delle collettività umane, o non lo è. Se necessaria, o se rico- 
nosciuta soltanto utile, saranno giustificati i sacrifizi per ot- 
tenerla. 

Se invece la si esercita in guisa da riuscire infruttuosa, da 
non soddisfare al fine per cui vien richiesta, o per opera di 
un personale che batta una via già dalla scienza riconosciuta 
per falsa, vi sarà spreco di energia e di danaro; vi sarà un 
pericolo sociale di più da segnalare nel nostro orizzonte. 

Dinanzi a questo problema richiamo tutta l’attenzione anche 
di chi amministra la cosa pubblica. 

Se per possedere qualche canone pratico sul modo di vigi- 
lare con profitto un determinato servizio d’acqua potabile ci 
si procurano delle notizie dai più importanti comuni del regno, in 
generale non si raccolgono che delusioni. Sembra che la scienza 
dell'igiene vada avanti per conto proprio, dimentica d’ aver 
lasciato per istrada alcuni funzionari, i quali, mentre in nome 
suo corsero con entusiasmo ad occupare posti importanti, si 
. trovarono fuorviati o trattenuti dalle spire della burocrazia. 

Sarebbe penoso documentare sì dura verità. Dirò solo che la 
sorveglianza igienica delle acque potabili in rari e più favorevoli 
casi si esercita dopo avere stabilito, mediante opportune ricer- 
che fisico-chimico-batteriologiche, le condizioni dell’acqua per 
così dire normali. Non meno eccezionale è il fatto che si cerchi 
di vedere se l’acqua devia da tali condizioni, mediante analisi 
giornaliere. Se queste si fanno, si vedono circoscritte ad un 
punto di arrivo, al rubinetto di laboratorio, e quasi mai estese 
contemporaneamente alle varie parti della conduttura, alle 
sorgenti. , 

Per lo più si usa fare analisi secondo è cast ed è bisogni, sal- 
tuariamente, quando vi è sospetto di inquinamenti avvenuti, quando 
si può, e così via di seguito. 

Vi sono dei comuni ove si fanno analisi batteriologiche ogni 
5 o 6 giorni regolarmente; in altri si eseguiscono ogni 10, ogni 


398 G. GASPERINI 


15 giorni. Si limitano alcuni ad analisi mensili, od a farle a 
più lunghi e non regolari intervalli di tempo. In certi comuni, 
a seconda delle attitudini del personale addetto a questo ufficio, 
si dà la preferenza alle ricerche chimiche piuttosto che a quelle 
batteriologiche, o si compiono esclusivamente le une piuttosto 
che le altre. 

Qua mi è stato riferito ufficialmente che di analisi chimico- 
batteriologiche non si posseggono che quelle procurate una volta 
tanto prima dell'esecuzione dell'acquedotto. Là mi son sentito 
annunciare che in fatto di analisi non se ne sente il bisogno, 
perchè inutili, dinanzi alla provata bontà dell’acqua. Moltissimi 
Ufficiali sanitari poi sono in condizioni di dover lamentare, e 
lamentano, l'assoluta mancanza di mezzi per qualsiasi indagine. 

Andando a vedere come e dove le sorgenti vengono studiate; 
se la portata si misura in rapporto alle pioggie, alle stagioni 
ecc.; se vien tenuto debito conto della temperatura; se vengono 
sottoposte ai relativi saggi chimico-batteriologici, ben presto ci 
si convince che, nella grandissima maggioranza dei casî, le ricer- 
che alle origini delle acque non si curano affatto. 

Se vi sono idrometri nei punti di derivazione per lo più 
vi furono applicati per controllare se nei periodi di magra viene 
erogato il quantitativo d’acqua pattuito con una data impresa, 
o indispensabile pel funzionamento di alcuni congegni del ser- 
vizio. Possono pure trovarsi degli apparecchi di misura delle 
portate, degli indicatori per il calcolo approssimativo della quan- 
tità d’acqua convogliata, o nel punto di riunione delle varie polle, 
o lungo le condutture, o nel punto d’arrivo, senza che le osserva- 
zioni vi si facciano regolarmente. Qualche acquedotto recente ha 
uno stramazzo nella camera di raccolta delle acque sorgive, ed 
un idrometro lungo la conduttura. In alcune città si misurano 
semplicemente le oscillazioni di livello negli acquedotti, e ciò, 
salvo casi eccezionali, una volta al mese. Si usa inoltre misurare 
la massa dell’acqua prima del suo ingresso in città, misure che, 
al solito, si fanno specialmente in tempo di magra. In molti 
comuni esiste solo un servizio di custodia dei luoghi di deri- 
vazione per evitare disperdimenti e perchè le acque abbiano libero 
decorso. Spesso poi, anche volendo, non è possibile che qualche 
misura possa esser fatta per la speciale e difettosa costruzione 
dell’opera. Come si vede dunque, salvo poche eccezioni, nessuna 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 339 


norma fissa, nessun criterio generale sembra presiedere in molte 
località sull'esecuzione della vigilanza di un servizio che è tanto 
importante. Nessuna cura dai più si pone perchè le cose ab- 
biano da procedere a dovere. 

Intanto gli amministratori imprevidenti, che nell’igiene ve- 
dono una nemica del pubblico erario, profittano della trascuratezza 
di un municipio per farla adottare come regola in un altro; oppure, 
se troppo zelanti, mentre richiedono al Perito igienista analisi 
continue, numerose, ed in condizioni da rendere il lavorio chimi- 
co-batteriologico pressochè inutile, giungono perfino ad esigere 
che l’igienista stesso, senza badare se ciò può e deve essergli ri- 
chiesto, protegga con le sue ricerche una data popolazione da tutti 
i danni che per un inconveniente nel servizio dell’acqua pota- 
bile possono derivare. Si presume infine che bastino le analisi 
batteriologiche soltanto per segnalare in ogni caso un pericolo, 
per prevenire una epidemia. 

In tale stato di cose preme ai pratici che venga senza equivoci 
definito in quali casi può essere avvertibile, o può in realtà scon- 
giurarsi un inconveniente, prima che debbano lamentarsene delle 
conseguenze tristi. A coloro che si preoccupano di discutere quali 
e quante analisi abbisognano al detto scopo, sarà bene mettere 
dinanzi le condizioni che si richiedono perchè la sorveglianza sulle 
acque potabili riesca proficua. 

Disgraziatamente ci troviamo dinanzi alla maggior parte 
delle opere d’acqua da bere che non si prestano ad una vigi- 
lanza utile. Acquedotti inquinabili dai luoghi di derivazione alle 
fonti di distribuzione, pur troppo sono la regola. In luoghi 
nei quali esiste una condotta forzata ho visto non ben curate 
le sorgenti, spesso molto numerose e distanti dal luogo di con- 
sumo. Vi sono città che hanno conduttura libera, in cattivo 
stato, e così scarsa d’acqua nei periodi di siccità da dover sup- 
plire ai bisogni mediante l’uso pubblico di pozzi Norton, o di 
pozzi superficiali, mal costruiti, mal situati e scoperti. Si trovano 
acquedotti alimentati da acque sorgive e di lago indifese; da 
acque ottenute mediante gallerie filtranti; da stillicidi raccolti 
sotto pendici abitate e coltivate; da polle che, sottoposte ad uno 
studio conveniente, si riconoscono in mille modi difettare di 
ogni e qualunque vestigio di protezione igienica. 

Dove troppo grave è la spesa per aver acque sorgive, o si 


340 G. GASPERINI 


moltiplicano i pozzi trivellati, o si prendono le acque delle 
dune, o si beve direttamente l’acqua di pozzo, di cisterna, di 
lago, di canale o di fiume; alcune delle quali derivazioni, o furono 
procurate dalle autorità e riconosciute buone dietro giudizio di 
un tecnico che di rado ha da se stesso prelevati i campioni per 
l’analisi, oppure è quella data popolazione che il bisogno co- 
strinse a procacciarsele, prendendole dove potè trovarle e come 
le trovò. 

Lasciando ora da parte i casi più sfavorevoli, come per citare 
uno dei tanti esempi che mi si affacciano alla mente, quello di paesi 
situati non lungi dalla foce del Serchio, abituati d’estate a far 
delle buche nel greto del fiume, e lì attingere acqua per bere, e 
lì presso lavare le biancherie: e senza perder tempo intorno alle 
provviste d’acqua più difettose, se ci atteniamo a quelle che 
generalmente si giudicano per buone, anche per queste, sia pure 
se costruite recentemente, non è difficile verificare che i tecnici 
più o meno dimenticarono che il servizio doveva andar soggetto 
ad una vigilanza igienica possibile. 

Zone di protezione insufficienti, o mancanti; polle di diversa 
natura prese insieme; allacciamenti senza difesa sicura delle vene 
profonde dalla diretta influenza delle acque superficiali; man- 
canza di apparecchi di misura alle singole derivazioni; spesso 
infine disposizione delle opere in guisa da ostacolare ogni indagine 
sulle singole contribuzioni dell’acqua convogliata. Condutture 
spesso a pelo libero e scoperte, in muratura semplice o di coccio, 
situate sopra archi, o poste a piccole profondità dalla superficie, 
con qualche accessorio destinato ad aggravare le condizioni favo- 
revoli per gli inquinamenti. Tubulature di cemento o di ghisa, 
libere o sotto pressione, non sempre senza pecchi prima dell’ar- 
rivo alla rete di distribuzione, lasciate in abbandono completo 
dopo il collaudo. Frequenti le contro pendenze, la mancanza di 
scarichi, e quella degli idrometri nelle sedi ove chiara ne risulte- 
rebbe la necessità. Reti di distribuzione situate in fogne dove 
vengono sommerse durante gli acquazzoni; non perfetta sepa- 
razione fra i serbatoi privati e la conduttura pubblica, e così 
via dicendo. Vi sono in ultimo degli acquedotti nuovi, mancanti 
di moltissimi dei difetti tanto generalizzati in questo genere. 
di opere essenzialmente igieniche; ma con qualche dettaglio 
di vitale importanza trascurato; con disposizione dell’insieme e 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 341 


delle parti così da far credere invero che l’opera stessa debba 
essere affidata, per la sorveglianza igienica, esclusivamente a dei 
fontanieri. 

Con quest indirizzo, che sembra per giunta doversi perpe- 
tuare, che cosa ha da chiedersi all’igienista? Non contemplerò 
il caso di coloro che pretendono il giudizio sulla potabilità, 0 
sulla salubrità di un'acqua in seguito all'esame chimico-batte- 
riologico di un campione inviato in un laboratorio. Prima di 
tutto l’esperienza mi dimostra che a far eseguire queste analisi 
si ricorre, per lo più, quando capitano delle epidemie, quando si 
verificano degli inconvenienti, e non periodicamente. In secondo 
luogo che al campione prelevato non si fan seguire tutte quelle 
notizie che hanno importanza spesse volte superiore ai rilievi 
analitici, e che in molte circostanze, se valutate a dovere, do- 
vrebbero di certo trattenere il richiedente dal far la spesa 
necessaria per le analisi. Infine, che non può far parte d’ un 
vero e proprio servizio di sorveglianza ciò che è ispirato lì per 
lì dalla paura di vedere estendersi un male già sopraggiunto, 
ciò che vien consigliato da preconcetti erronei, ciò che viene 
eseguito con la parvenza di lavoro utile; ma che in fondo si 
fa in contingenze tali da non poter permettere giudizi atten- 
dibili e decisivi. 

Venendo dunque al servizio di vigilanza, quale nel massimo 
numero dei casi viene reclamato ed esercitato con ispezioni ed 
analisi più o meno frequenti, ecco che cosa accade. Se chi vi 
è preposto si dà a raccogliere dati chimici, trattandosi di acqua 
già adibita all’uso potabile, quindi tale da doversene consentire 
il consumo se anche il residuo è un po’ eccessivo, potrà trovarsi 
al caso, tranne per i reperti fisico-chimici straordinari, o di con- 
statare una diminuzione del residuo stesso ed un contemporaneo 
elevarsi del contenuto dei nitrati, o dei nitriti, o dell’ammoniaca, 
o delle sostanze ossidabili, o del cloro; od a vedere il residuo 
pressochè costante, e mutata invece la quantità di qualcuno 
dei citati componenti; o a dover richiamar la sua attenzione 
esclusivamente su tenui cambiamenti avvertiti in seguito al- 
l'esame sistematico fatto col permanganato potassico, sia in 
soluzione acida che in soluzione alcalinizzata, ed apprezzati solo 
perchè il trattamento fu fatto sempre con lo stesso metodo ed 
in condizioni rigorosamente identiche. Qualunque sia il sospetto 


342 G. GASPERINI 


che le analisi chimiche più delicate e complete possono far sor- 
gere; per quanto l'alterazione di certi caratteri chimici possa dirsi 
di alto valore indiziario, se constatata col voluto rigore scien- 
tifico, pure tutto ciò non autorizza l’analizzatore a gettare l’al- 
larme in una popolazione, a commettere l'atto gravissimo di 
privarla dell’acqua potabile! Nessuno oserebbe prendersi, senza 
il conforto dei dati epiodemiologici, tanta responsabilità. 
Ricorrendo alle analisi batteriologiche col metodo di Kocx la 
posizione dell’analista si complica. Pur tenendo per regola, come 
del resto è sempre consigliabile, di eseguir le analisi sul luogo 
del prelevamento dei campioni; di adoperare grandi fiaschettine 
di Prrrunsky, o scatole alla Perri del diametro di 12 a 15 cen- 
timetri; di analizzare la maggior possibile quantità d'acqua, 
usando gelatina perfetta, e seguendo le precauzioni opportuna- 
mente suggerite da Borponi-UrrreDuzzI; di procurare che il sub- 
strato, fatto con uniformità di metodo, abbia sempre per quanto 
è possibile reazione alcalina bene espressa (Rernsca) e sem- 
pre identica; di adottare con precisione le stesse pipette gra- 
duate e la stessa tecnica, per rendere i risultati confrontabili 
sotto ogni riguardo; tuttavia non agevole si presenta il cammino. 
Se in un'acqua sono molto numerosi i microrganismi fluidi- 
ficanti e molto attivi, le scatole con uno o più cme. del- 
l’acqua analizzata si vedono liquefare, senza dar tempo d’ese- 
guire alcuna numerazione, oppure senza agevolare la necessaria 
distinzione specifica. Se indizi ricavati da altre ricerche consi- 
gliarono delle diluizioni molto accentuate, sorge l'inconveniente 
della troppo tenue quantità d’acqua su cui si circoscrivono le 
osservazioni. In tal caso, mettere in confronto con precedenti 
esami il numero greggio delle colonie via via riscontrate, dopo 
che da apposite indagini di controllo ho potuto assodare che si 
ottengono cifre tanto più vicine a quelle reali, quanto più forte 
è la diluizione, non è invero un procedimento troppo esatto. 
In 1/10, in 4/20 di cm® non è detto che si incontrino tutte 
le specie esistenti nell’acqua in esame. É anzi raro ciò, dal mo- 
mento che fa ostacolo anche il fatto che, trattenere lo sviluppo 
di qualche liquefaciente non è di sicura riuscita. Debbono così 
abbandonarsi le scatole mentre alcune specie non hanno ancora 
nella gelatina formate le loro colonie. Facendo esami d’ estate, 
se non si dispone di un apparecchio frigorifero, i fluidificanti 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 343 


invadono rapidamente il substrato e non lasciando campo ad os- 
servazioni di sorta. Lo stesso accade se ci si imbatte in un ecce- 
zionale aumento di microrganismi, mentre si fanno analisi di 
un'acqua di cui abitualmente veniva adoperato non meno di 
1 cm? per scatola, tanto cioè da poter fare una giusta nume- 
razione delle colonie ed una sufficiente indagine sulle. specie, 
posto che non meno di tre fossero le scatole o le fiaschettine 
che si impiegavano per un campione. In casi simili l’esame va 
ripetuto, mentre le condizioni dell’acqua da analizzarsi vanno 
di regola essenzialmente cambiandosi. 

Ma ammettiamo pure che chi fa queste analisi, pratico come 
dev'essere del servizio d’acqua che ha da invigilare, possa 
eseguire senza inconvenienti tutte le operazioni che gli occor- 
rono, possa numerare tutte le colonie delle sue scatole, isolare 
le diverse specie comparse sulla gelatina, comprese quelle di 
più lento sviluppo. Egli con questo non avrà superato che le 
minori difficoltà. Se i campioni si riferiscono a gruppi di sorgenti ; 
al punto d'arrivo dell’acqua nel serbatoio di distribuzione; alle 
fonti, ecc.; tali possono essere le variazioni che da esame ad 
esame puo incontrare; così evidente può riuscire la discordanza 
dei dati raccolti, da sorgerne serio imbarazzo. Un aumento di 
colonie contemporaneo ad una leggiera perdita di peso per l’ ar- 
roventamento, precedentemente non riscontrata, ed in armonia 
con altri dati chimici complementari, potrà ad esempio servire 
come buon criterio diagnostico di qualche guasto avvenuto; ma 
quando si cerca, con risultati batteriologici a volte inesplica- 
bili, di scoprire la sede di un male per provvedere, occor- 
rono indagini molto più numerose ed estese di quelle che usual- 
mente è dato di fare, nè è possibile spesso d’orientarci. Intenti 
sempre ad afferrare qualche criterio più sicuro di quello che 
può darci la semplice numerazione delle colonie, si può ricorrere 
ai metodi secondo i quali vengono raccolti i microrganismi di 
grandi volumi d’acqua; ma per questa via, o che si facciano 
esperimenti biologici negli animali, o che sì proceda all’isola- 
mento con substrati i più diversi, ci troviamo dinanzi il problema 
delle diagnosi specifiche. 

Non è qui il luogo di entrare nel vasto campo della mor- 
fologia e biologia dei micromiceti che sogliono capitare nelle 
acque. Il loro studio è molto più incompleto di quello che or- 


344 G. GASPERINI 


dinariamente non si creda. Facciamo piuttosto il caso d'aver 
sott occhio una colonia sospetta di bacillo del tifo, o di vibrione 
del colera. Se mancano dati epidemiologici in paese, ammesso 
che si tratti della specie veramente patogena, avanti che il 
batteriologo si sia pronunziato sulla diagnosi, l’acqua infetta 
ha già ‘invaso i serbatoi privati; è già entrata in tutte le case; 
ha già incominciato, o sta per portare, la desolazione nelle 
famiglie. Dato che la diagnosi possa esser fatta, ed ammesso 
un grande complesso di circostanze favorevoli, un po’ rare a ve- 
rificarsi, tutt'al più resterà all’igienista il conforto di aver pre- 
venuto danni maggiori con l’ esclusione sollecita dal consumo 
dell’ acqua inquinata. 

Se già in una località l’ epidemia di tifo o di colera è in atto, 
e chi fa le analisi è buono a scuoprire l'elemento etiologico 
nella conduttura, non è difficile si tagli questa fuori d'uso men- 
tre l'epidemia di per se stessa andrebbe a scomparire, tanto 
da far parere il provvedimento assai più benefico di quel che 
non sia ('). 

Oramai è noto quanto sia ardua la diagnosi delle specie e 
quanto più lo diventi, a misura che si trovano nell’ ambiente 
micromiceti dal lato morfologico indifferenziabili da quelli 
patogeni, a misura che per un numero sempre maggiore si 
documenta il concetto del parassitismo facoltativo. La posi- 
zione dell’ analista non muta quindi di troppo quando anche 
egli adoperi, contemporaneamente al metodo della gelatina di 
Kock, gli altri mezzi speciali più accreditati per la sollecita 
ricerca dei microbi sospetti o patogeni nelle acque. 

Se infine ci si giova solo, nella sorveglianza non bene circo- 
stanziata, e di osservazioni fisiche, e di analisi chimiche seru- 
polose, e di quelle batteriologiche con metodi diversi, tanto da 
formulare caso per caso il giudizio sopra un complesso di ricer- 


(4) L’isolamento del microrganismo del tifo o del colera dalle acque potabili, an- 
che in tempo d’epidemia, non può passare, nel maggior numero dei casi, come un fatto 
bene accertato. L'origine idrica di certe epidemie ha base molto più solida ed estesa 
sul complesso delle indagini epidemiologiche, che senza preconcetti siano state dili- 
gentemente eseguite, di quello che trovare fondamento sui reperti batterioscopici. Di 
questi, veramente attendibili, sì scarseggia; ma dei dati epidemiologici se ne hanno 
sufficientemente per dare alla vigilanza igienica delle acque tutta la grande importanza 
che senza dubbio si merita. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 345 


x 


che di varia natura, la conclusione è sempre quella, di accumu- 
lare numeri sopra numeri, note sopra note, apprezzamenti sulla 
sensibilità dei vari mezzi di indagine, particolari sulle vicende 
dei microrganismi nelle acque, senza che si veda, eccetto per i 
casi accennati d’epidemie in corso, o fuori di qualche prov- 
vedimento inconsulto, o tardivo, avvantaggiarsi quanto dovrebbe, 
per opera della sorveglianza medesima, la profilassi di quelle 
malattie, che possono nell’ acqua trovare un pericolosissimo 
mezzo di diffusione. 

Come dunque vigilare un servizio d’acqua potabile col pre- 
cipuo intento di fare opera seria e di prevenire ogni male? Per 
questo è necessario, come ognuno comprende, che il servizio 
stesso soddisfi alle condizioni, almeno sufficienti, per renderlo 
sorvegliabile. 

Stabilire queste condizioni vale quanto comporre ogni in- 
giustificata disparità d’ apprezzamento sul, valore dei dati da 
raccogliere e dei metodi analitici da adottarsi, per devenire al 
giudizio della potabilità delle acque ; vale quanto rendere so- 
stenibile, per parte dell’igienista pratico, la responsabilità che 
senza guardare tanto per la sottile spesso gli si attribuisce. 

Avrò raggiunto lo scopo che mi sono prefisso se gli esempi 
che vengo ad addurre serviranno a dimostrare, cosa del resto 
tanto ovvia quanto non curata, che è alle citate condizioni che 
deve sempre subordinarsi la sorveglianza tecnico-igienica delle 
acque da bere. Senza di ciò continuerà a gettarsi la pietra del 
discredito addosso a coloro che abbiano l’unica colpa di non 
disporre dei mezzi proporzionati ai grandi benefizi che sono 
realmente in grado di apportare. Non occorre dire che le norme 
da seguirsi per questo ramo di vigilanza igienica mal si pre- 
stano ad essere regolamentate, non solo perchè diverse a se- 
conda che la provvista sia fatta utilizzando, ad esempio, l’acque 
superficiali da filtrarsi, piuttosto che quelle di cisterna, di lago 
naturale od artificiale, del sottosuolo, o di sorgente; ma perchè 
differenze notevoli si riscontrano anche fra impianti dello stesso 
tipo. 

In certi paesi situati sul culmine di alture più o meno iso- 
late, che non hanno modo di procacciarsi le acque freatiche, e 
tanto meno quelle sorgive, è noto quali servizi rendono le ci- 
sterne d'acqua piovana. Ma perchè nella stagione estiva tanta 


346 G. GASPERINI 


povera gente non sia costretta a mendicare per sè e per il he- 
stiame l’acqua lontana, pagandola cara sotto ogni punto di vista; 
perchè tanti disagi e tante vite vengano risparmiate, certo non 
può pensarsi alla risorsa delle analisi batteriologiche. Reale ser- 
vizio riceveranno invece quelle popolazioni, per le quali pure 
l'igiene dovrebbe esistere, se verrà curata la trasformazione 
delle loro cisterne pubbliche difettose, in altre da eseguirsi se- 
condo tutte le prescrizioni tecniche ed igieniche che sono sug- 
gerite dai competenti (1-?). 

Una buona cisterna, munita di separatori automatici e di 
pozzetti di depurazione, disposti convenientemente per essere 
vigilati, e per il ricambio del filtro senza che la cisterna deb- 
basi vuotare, certo non conviene che sia abbandonata. In ogni 
caso però è a rivolgersi l attenzione per la sorveglianza, più 
sopra speciali risorse d’ordine fisico, che su quelle di natura bio- 
logica, per le vicende cui vanno soggetti i microrganismi nelle 
conserve d’acqua a seconda che queste abbiano maggiore o mi- 
nore ampiezza; che siano, o no, esposte al calore ed alla luce; 
che vadano soggette a più o meno frequenti e copiosi attin- 
gimenti. 

Le varie questioni che si riferiscono alla moltiplicazione dei 
microrganismi nelle acque ferme sono state oggetto di parti- 
colari ricerche anche per parte mia, non tanto per presenziare i 
fatti riferiti da Cramer, Borron, FrankgLanp, WotrrùceL e RiIEDEL, 
GaertNER, Leone, Miquer, Herman For e P. L. Dumaut, ScaLa e Anessi 
e Lustig; quanto per istudiarli in rapporto alla qualità e quantità 
delle specie concomitanti. 

Stando ai risultati sperimentali si ha che in un'acqua possono 
i microrganismi in poco tempo moltiplicarsi, fino a raggiungere 
cifre straordinarie, o diminuire rapidamente, L’ accrescimento, 
la diminuzione, o la scomparsa, sappiamo doverle considerare 
in rapporto alla concorrenza vitale, la quale si esplica diversa- 
mente a seconda del numero delle specie simbionti, della loro 
provenienza, e della capacità di moltiplicarsi in una data acqua; 
fenomeni questi che, se complicati dall'intervento di infiltra- 
zioni, dal sopravvenire di nuove specie e nuovi materiali nu- 


(4) Spataro D. Ingegneria sanitaria. Parte prima, Vol. III, 1892, pag. 3-48. 
(2) Sciuto S. Le Cisterne e la filtrazione dell’acqua, Catania, 1894. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 347 


tritivi, possono addirittura far perdere al batteriologo la via 
sicura per orientarsi. 

In ogni modo per le cisterne sono più utili le analisi bat- 
teriologiche qualitative di quelle quantitative; e basterà che 
solo di tanto in tanto si ricorra ai competenti allo scopo di 
verificare se la costruzione ha resistito alle vicende del tempo, 
perchè, nel caso, si proceda alle riparazioni che necessitano per 
assicurarne il regolare funzionamento. 

Se per dotar d’acqua una popolazione, invece che alle ci- 
sterne è bisognato ricorrere ai pozzi, le cose cambiano molto 
d'aspetto a seconda della falda acquifera cui i pozzi si riferi- 
scono. Che ogni vigilanza è inutile per quelli superficiali, che 
hanno la canna scoperta, munita per giunta di feritoie laterali, 
prossimi a fogne, latrine, concimaie, pile da lavare, ed a costanti 
e pericolose cause d'inquinamento, non vale la pena di dimo- 
strarlo. L'epidemiologia ci dà gli elementi per doverli segna- 
lare come temibili sempre. Per quelli invece che si riferiscono 
a falde acquifere sufficientemente protette dagli inquinamenti 
superficiali, occorre vedere i movimenti di queste falde; esa- 
minare con quanto ritardo risentono delle pioggie, o dell’ele- 
varsi di livello dei corsi d’acqua della località; studiare infine 
se, ed in qual grado, possono pervenire alle acque dei pozzi le 
impurità della superficie circostante o lontana, per poter fis- 
fare i criteri da seguirsi nella protezione e sorveglianza. Senza 
dubbio non dovrà il pozzo stesso avere tali difetti, non esclusi 
quelli relativi al modo di attingere acqua, da costituire di per 
sè un pericolo di contaminazione del sistema idrografico dal 
quale è alimentato. Di questo sistema è a raccomandarsi l’e- 
same principalmente nei periodi delle massime alluvioni. 

Conosciuta la falda freatica, basterà circoscrivere le analisi 
ai soli pozzi che, per la loro posizione, siano in grado di fare 
avvertire le modificazioni che interessano tutta la zona abitata 
che dei pozzi si alimenta, e ridurre così in giusti limiti l'esame 
nei periodi utili, che dal lato scientifico e pratico bisogna fare. 

Quest'esame non può essere ridotto, fino da primo, alle sole 
indagini batteriologiche. Bisogna che siano sempre valutati nei 
loro reciproci rapporti i dati pluviometrici con le oscillazioni al- 
timetriche della falda; le oscillazioni della temperatura; le va- 
rianti del residuo fisso, ed il contenuto batterico. Solo dopo un 


348 G. GASPERINI 


lungo periodo di osservazioni complesse può la sorveglianza 
limitarsi a quelle che l’esperienza dimostrò maggiormente sen- 
sibili ai perturbamenti. Più i pozzi sono buoni e più per essi 
acquistano valore gli esami batteriologici quali-quantitativi. 

La pratica dei pozzi forati, che fu tenuta tanto in onore 
presso gli antichi egiziani, e che costituisce la vita delle oasì 
del deserto, ha subìto con la moderna industria tante utili 
modificazioni, ed ha servito e serve a non poche città per la 
soluzione del grave problema dell’ acqua potabile. Nei casi, 
come ad esempio a Mantova, in cui mediante opportune tere- 
brazioni si sono incontrate acque profonde salienti, che sgor- 
gano perennemente e liberamente, le analisi. batteriologiche 
assumono nella sorveglianza il primo posto, purchè al solito 
sussidiate dalle contemporanee osservazioni fisiche, e purchè 
eseguite nei periodi che altrove ho designato come utili. 

In generale per i pozzi che si riferiscono a falde profonde 
non inquinabili, la servitù e la spesa della analisi è più ne- 
cessaria ed elevata nel periodo che precede l’esecuzione dell’im- 
pianto, ed in quello occorrente per constatare il valore sanitario 
dei lavori eseguiti, di quello che durante l'esercizio. Pozzi sa- 
lienti, o no, che diano sufficienti garanzie dal lato igienico, che 
abbiano una portata in proporzione ai bisogni d'un paese, costi- 
tuiscono una vera, una grande fortuna, e son ben lontani dal- 
l’esigere le cure assidue, costanti, dispendiose, che sono indi- 
spensabili soprattutto per invigilare la filtrazione a sabbia. 

Con la tendenza delle agglomerazioni umane a disporsi lungo 
i corsi d’acqua, e col consumo di questo elemento, che segna 
una via più rapida del crescere della popolazione, è sorta la 
necessità di impianti costosissimi per usufruire a scopo pota- 
bile e domestico delle acque filtrate. Al regime di tali acque 
sottostanno città importanti europee ed americane, per quanto 
sì sappia che i filtri a sabbia, non adoperati a dovere, possono 
riuscire oltremodo pericolosi. Ingegneri ed igienisti i più distinti 
sì sono dati ogni cura di migliorare questo metodo di provvista 
d’acqua, che ha oggidì raggiunto tale grado di perfezionamento, 
da aver ridotto al minimo ogni probabilità di dannosi effetti. 
Stando all’ esperienza che ho potuto fare in Asciano, posso ben 
dire che il processo della filtrazione a sabbia non merita poi 
quel grande discredito in cui è tenuto presso di noi. Tanti paesi 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 349 


assetati, che potrebbero utilizzare acque di fiume, specie di 
tratti alpestri e deserti, preferiscono i danni immensi della pe- 
nuria d'acqua, e non si attentano ad opere di tal genere. Vero 
è che un impianto ben fatto costa molto, dovendo corrispondere 
a non poche esigenze. Ma quando vi si abbia soddisfatto: 1.° col 
provvedere per l’acqua da filtrarsi, un ampio bacino di decan- 
tazione; 2.° col far passare l’acqua di questo bacino per un 
primo filtro a sabbia con grossi grani, tanto da liberarla aimeno 
della micro-fauna; 3.° col disporre di una superficie filtrante 
doppia di quella necessaria per avere, con una velocità oraria 
di filtrazione non superiore a 100 mm.il volume d'acqua oc- 
corrente per i vari bisogni; 4.° col ridurre al minimo gli strati 
meccanici, procurando all’ acqua libero efflusso; 5.° col provve- 
dere ciascun bacino filtrante di idrometro con apparecchio 
autoregistratore collegato con una suoneria elettrica; 6,° col 
munire di saracinesca di scarico e di adatta tubulatura, per 
le manovre di riempimento dal basso all’alto, ciascun bacino; 
7.° col procurare, mediante sfioratori, che i filtri non funzionino 
con. carichi eccessivi; 8.° con la costruzione accurata e con la 
copertura dei singoli bacini, che debbono funzionare indipen- 
dentemente l’ ano dall’altro, od altrimenti prestarsi ad una 
doppia filtrazione; dopo tutto ciò non resta che fare il riempi- 
mento dei bacini con sabbia adatta e materiali lavati; suc- 
cessivamente determinare il tempo necessario per la matura- 
zione artificiale dei filtri, e definire il periodo del loro lavoro 
utile. 

Chi abbia visto in 4 a 6 giorni maturare perfettamente un 
filtro, dopo l'immissione e successiva sedimentazione di sabbia 
finissima argillosa, può ben comprendere l’influenza delle dimen- 
sioni dei grani di sabbia sulle qualità batteriche dell’acqua fil- 
trata, senza bisogno di ricorrere alla funzione e costituzione bio- 
logica della pellicola superficiale, che è utile di costituirla capace 
di resistere benissimo ad un carico superiore ad un metro. Senza 
addentrarci nei particolari tecnici numerosi di questo genere 
di provvista d’acqua, mi limiterò ad avvertire che non è giù 
una concessione capace d’ esporre a dei guai quella di coloro 
che, sia pur malvolentieri, ammettono che l’ esame batte- 
riologico dei filtri possa farsi settimanalmente, anzichè tutti i 
giorni. Tale esame quotidiano occorre si mantenga tale nel tempo 


350 G. GASPERINI 


che precede l’avvenuta maturazione d’un filtro, la quale è ca- 
ratterizzata da un grado di efficienza batteriologica che varia a 
seconda. delle acque da filtrarsi; ma diventa quasi superfluo du- 
rante il così detto periodo, d'ampiezza già nota, quando si tenga 
conto giorno per giorno, ora per ora, della velocità di filtra- 
zione e del carico dei bacini. 

Per la velocità di filtrazione, e per i livelli del carico, deb- 
bono applicarsi degli apparecchi che traducano in una grafica 
i dati che ci interessano, alla guisa dei putsometri di ARATA e 
di Fuess. E molto utile siano muniti di un avvisatore elettrico, 
per segnalare ogni, guasto che alteri il regolare funzionamento 
dei filtri. Siffatti mezzi di segnalazione, entrati nell'uso, assicu- 
reranno per la sorveglianza igienica molto meglio delle analisi 
batteriologiche, per l’azione costante e sollecita. Apprezzare un 
inconveniente prima che se ne possano risentire i tristi effetti è 
certo tal vantaggio, da far diminuire per l’acqua filtrata quella 
sfiducia in cui è tenuta. In verità quando si pensi che non 
tutte le acque superficiali da sottoporsi a filtrazione hanno ori- 
gine molto pericolosa, può riuscire utile il riflettere che la sor- 
veglianza con i mezzi meccanici è disimpegnabile da operai 
intelligenti, i quali con poco vivono sul posto; mentre le inda- 
gini batterioscopiche giornaliere riescono molto costose, sia per- 
chè il laboratorio non è sempre situato alla stazione dei filtri; 
sia perchè non è bene che alle analisi sovraintendano dei profani 
negli studi miocrobiologici. 

Fatto a tutto rigore l'impianto; munito ciascun filtro de- 
gli apparecchi indispensabili per l’utile sorveglianza, bisogna la- 
sciare ai competenti la scelta del miglior modo per esercitarla, 
cosa che non importerà poi molta maggior servitù e maggior 
dispendio di quello che pure occorre per delle sorgenti. Per i 
filtri, a furia di riguardarli come cattivi arnesi, siamo riusciti 
a disciplinarne l’azione ed a ridurli strumenti di benessere, come 
lo dimostrano l’eccellenti condizioni igieniche delle città dove 
funzionano bene: per le sorgenti invece la fiducia ha spesso ec- 
ceduto, e già troppe sono le epidemie che da questa fiducia sono 
derivate e derivano. 

Quando si dice acqua di vera polla, è un fatto che ci rife- 
riamo all’ideale dell’acqua potabile; ma quest'ideale, quando 
non ci sfugge per difficoltà insormontabili, bisogna acquistarlo 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 351 


a prezzo di garanzie molto complesse. Queste garanzie ognuno 
sa che debbono pervenirci prima di tutto dallo studio 2dro-geo- 
logico della sorgente da utilizzare. In ordine a questo studio bi- 
sogna intervenire con le opere di allacciamento e di protezione 
igienica, opere che, se non si subordinano caso per caso ai sug- 
gerimenti delle indagini fisico-chimico-batteriologiche, corrono 
il rischio di non soddisfare allo scopo. Senza la guida delle 
analisi, o si fanno rintracciamenti insufficienti, o si approfon- 
disce negli scavi più del dovere, con spreco di danaro e di tempo, 
o si riuniscono in una delle vene acquee non egualmente utiliz- 
zabili. Come nelle località dove vengono a giorno acque mine- 
rali è frequente il fatto di verificare una molteplicità di sor- 
give; e fra queste, una scala graduale di mineralizzazione in 
perfetta armonia con la termalità; così per le acque meno saline, 
e che vanno col nome di potabili, capita di notare oscillazioni 
della temperatura disuguali fra punti d'efflusso prossimi, con 
proprietà igieniche pure dissimili. Quanto sia utile in questi 
casi che le singole contribuzioni si mantengano distinte, almeno 
finchè gli studi successivi non indichino come riunirle fra di 
loro, ce lo dimostrano tutti i lavori d’allacciamento ben riu- 
sciti in Asciano. 

Una galleria che riunisca direttamente in un solo canale 
delle vene diversamente sicure dagli inquinamenti superficiali, 
anche ammesso che fra le più esposte si trovino soltanto le più 
sottili, in che differisce da un filtro a sabbia che riduca a 10, 
od a 15 i 1500, od i 3000 batteri dell’acqua di lago, o di fiume? 
Facendo analisi batteriologiche quantitative la differenza può 
scomparire affatto; ma esiste, ed essenziale, quando si rifletta che 
per una sorgente possiamo e dobbiamo procurarci la garanzia 
che deriva dal ridurre la zona di protezione inaccessibile all’ uomo 
ed agli animali; priva affatto di coltivazione; con fossa di guar- 
dia; incapace di ricevere degli scoli, o delle materie dannose. 

Per valutare a pieno questa differenza è chiaro che neces- 
siterebbe possedere maggiori dati sulla temibilità delle associa- 
zioni batteriche, secondo le quali vi sono dei microrganismi che, 
in convivenza con altri, esaltano il loro potere patogeno; l’acqui- 
stano, se non lo possedevano; astrazione fatta da quelli che in- 
vece perdono la proprietà di riuscire nocivi. Fra i risultati di 
laboratorio e l'affermazione che le associazioni microbiche pos- 

Sc. Nat, Vol. XVI 23 


352 G. GASPERINI 


sono spiegare il risveglio, oppure la fine, di certe epidemie, v' è 
di mezzo la sanzione pratica tuttavia da ottenersi. 

Nell’ ambiente i microrganismi patogeni per lo più si at- 
tenuano e periscono. Pochi estrinsecano d'improvviso tale vi- 
rulénza, da non esser quasi raggiunta in laboratorio che per pas- 
saggi ripetuti attraverso animali recettivi. Altri è giuocoforza 
ammettere che nell’ ambiente vivano e si conservino; ma 
ricercati, ci sfuggono, forse perchè li vogliamo in tutto e per 
tutto corrispondere ai tipi isolati dagli organismi infetti. Co- 
munque, siccome con le usuali operazioni analitiche, non riu- 
sciamo ad isolare tutte le specie aerobie ed anerobie, fra le 
quali ultime ve ne sono pure delle interessanti; tanto meno 
possono raccogliersi gli elementi per dare un giusto peso alla 
seducente teoria dell’ esaltazione reciproca della virulenza fra 
1 batteri, ed al grave problema biologico delle proprietà in ge- 
nere che i microrganismi acquistano nel mondo esterno. Ma non 
per questo è lecito abbandonarci ad un rigorismo senza limiti, 
e dimenticare d’ un tratto che da secoli si è bevuta e si beve 
impunemente l’ acqua più o meno ricca di microbi, purchè nella 
sede dove l’acqua se li appropria sia mancata e manchi ogni 
diretta od indiretta influenza dell’uomo, a perturbare i feno- 
meni naturali che vi si svolgono. Ecco perchè si è adottato, 
e forse tornerà a prevalere sulla filtrazione a sabbia, il metodo 
di provvista d'acqua con lo sbarramento di valli in luoghi 
incolti e non praticabili; ecco perchè in passato si curarono 
tanto le zone di protezione, per le quali esistono degli editti, 
che tanto saggiamente vi proibivano la cultura, i pascoli, ed i 
diboscamenti. 

A misura però che la necessità di espansione dell'agricoltura 
e delle industrie hanno portato ad invadere anche quelle zone, 
ed a misura che l’acqua si espone a sempre nuovi pericoli, 
portandola a circolare fra le popolazioni, si fa più sentito il 
bisogno di una tutela sicura. Le garanzie per questa tutela è 
vano ricercarle, come è risaputo per opera di DucLAux, GAERTENER, 
Roster e di tant’ altri, nelle sole analisi batteriologiche, per 
quanto sia dalle malattie di origine microbica che dobbiamo 
cercare ogni mezzo di difesa. Nelle ricerche batteriologiche si 
ebbe fino a pochi anni fa cieca fede. Oggi autorevoli igieni- 
sti le dicono illusorie, accreditando il concetto che i criteri di 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 3593 


cui disponiamo siano molto oscillanti, e che sia invero giustifi- 
cata l'incertezza e la lotta fra i metodi da seguirsi nell’ ufficio 
di sorveglianza igienica delle acque. Ma la lotta devesi alle 
scuole che cercarono di far prevalere alcuni metodi di ricerca, 
a’ quali attribuirono valore assoluto: l’ incertezza, alla smania 
di schematizzare, semplificare e rendere accessibile a chiunque, 
ciò che per sua natura è complesso e non facile. 

La. via dell'accordo è presto trovata quando alla fisica, alla 
chimica, alla microscopia e batteriologia, si chieda soltanto quello 
che, caso per caso, possono dare. Si cerchi, perfezionando i vari 
mezzi di ricerca a scopo igienico, di utilizzarli in ciò che real- 
mente valgono, eppoi si vedrà che ognuno è alla sua volta 
adatto a segnalare la possibilità di contaminazione cui sia 
esposto un acquedotto. 

È a tutti noto il valore delle risorse d’ordine fisico. Ma 
non sarà inutile battere senza posa sulla necessità che in pra- 
tica non vadano dimenticate, potendosi ad esempio ottenere, 
da una giudiziosa disposizione degli idrometri autoregistratori, 
o delle saracinesche con le relative scatole di prova, dei van- 
taggi così preziosi, quali non possono attendersi per altra via. 

Parlando dei filtri ho già accennato alla necessità di istru- 
menti indispensabili per la sorveglianza, e sussidiari delle ana- 
lisi batteriologiche. Negli acquedotti, oltre essere utili a scuo- 
prire delle perdite, che alla loro volta possono esser causa d’in- 
quinamento, funzionando costantemente, sono in grado di se- 
gnalare l'influenza che le precipitazioni meteoriche esercitano 
specie sulle polle, la cui portata, in rapporto alle pioggie, è 
noto quanto sia utile a conoscersi. Durante i forti acquazzoni 
non è pratico l’ esigere che il batteriologo si trovi sempre ai 
punti d'origine d’ un acquedotto. Ma posto che non vi facciano 
ostacolo le distanze, le quali in realtà sono spesso considerevoli; 
ammesso che le operazioni non vengano complicate dalla mol- 
teplicità delle sorgive, che debbono essere esplorabili ed esa- 
minate ad una ad una, non va dimenticato che può intervenire 
a rendere frustraneo ogni suo intervento la fugacità con la quale 
alcuni inquinamenti avvengono. 

Io non sono mai riuscito, con centinaia di analisi batterio- 
logiche, a rendermi ragione di tante cause di inquinabilità, 
quante ne ho presenziate, studiando delle sorgenti già protette, 
sotto l’imperversare degli acquazzoni. 


354 G. GASPERINI 


Ma se si pretende che gli idrometri autoregistratori, i quali 
sono invero delle sentinelle fisse ed utilissime, servano a segnalare 
anche i piccoli stillicidi, che il reattivo biologico può solo riuscire 
a mettere in evidenza; se dal semplice fatto che una data sor- 
gente è soggetta a grandi oscillazioni della portata, se ne vuol 
desumere il suo basso valore igienico, certo può incorrersi in er- 
rori. Le oscillazioni della portata in rapporto alle pioggie è ovvio 
che debbano esser studiate soprattutto in relazione col sistema 
idrografico che alimenta le polle. 

Solo le ricerche idro-geologiche, indispensabili per la inter- 
pretazione di tutti i dati analitici, possono metterci in grado di 
dare un giusto valore anche alle oscillazioni della portata, che 
minime ed immediate possono riuscire gravemente indiziarie: mas- 
sime, non sorprendere affatto, nè indurci a rinunciare a contri- 
buzioni d’acqua preziose. Utilizzando sorgenti che provengono ad 
esempio, da roccie con numerose litoclasi; dal calcare cavernoso; 0 
venendo prese delle sorgenti di trabocco, o sfioramento, non po- 
trà per esse esigersi quel grado di permanenza della portata che 
è a richiedersi da altre che provengano da potenti banchi di are- 
naria, od in condizioni da non risentire che con grandissimo ri- 
tardo l'influenza delle precipitazioni atmosferiche. Sta dunque nel 
modo di rilevare e di comprendere i rapporti esistenti fra le os- 
servazioni metereologiche da farsi al bacino imbrifero d’una vera 
polla, e quelle relative alla sua portata, che se ne possono 
trarre vantaggi di incontestabile valore, sia dal lato dell’idrologia 
che dell’igiene. Lo stesso dicasi per la importantissima valuta- 
zione della temperatura di un'acqua in rapporto alle vicende 
meteoriche dell'ambiente. Quando col mutare della temperatura, 
come più spesso avviene nelle stagioni di passaggio, cadono delle 
pioggie; e subito dopo si avvertono delle oscillazioni in una 
data scaturigine, ognuno è autorizzato a prender ciò come si- 
curo indizio di insufficente protezione naturale, indizio che si ac- 
centua quanto maggiori si presentano le oscillazioni. M'è acca- 
duto di verificare, con l'aumento di una semplice frazione di de- 
cigrado, esattamente valutata in varie polle nel passato autunno, 
un corrispondente e notevole aumento del contenuto batterico, 
con la riprova dei caratteri biologici del tutto immutati, per le 
polle che mantenevano fissa la loro temperatura. Ma se al so- 
lito non si tien conto della massa d’acqua su cui certe influenze 


\ 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA 0 POLYSPORA ECC. 309 


possono farsi risentire; se non si valutano a dovere tutte le 
condizioni in cui gli esami della temperatura possono giovare, 
niente di più facile che non riuscire a comprenderne tutto il 
valore, ed a trascurarle. 

Quanto alle analisi chimiche e batteriologiche accade lo stesso 
fatto; di vederle cioè assumere tanta maggiore importanza, 
quanto più opportunamente applicate ed accortamente inter- 
pretate. i | 

Nel maggior numero di volte sì le une che le altre le ho vi- 
ste bene corrispondere per segnalare le modificazioni subìte dalle 
nostre polle d’Asciano, durante e dopo le pioggie. A misura però 
che il terreno delle zone di protezione si è reso più compatto, 
e sì è rivestito di vegetazione naturale, le polle allacciate, in nu- 
mero elevato, sono andate sempre più sottraendosi alle influenze 
esterne, fino ad un punto in cui il reattivo batteriologico ha spie- 
gata la sua estrema sensibilità, superiore a quella dei reattivi 
chimici. Qui la batteriologia ha preso addirittura il primo posto. 

Senza entrare in tanti particolari si tenga per fermo che le 
analisi chimiche e batteriologiche con tanta maggiore sicurezza 
sussidiano nel servizio di sorveglianza di un acquedotto, quanto 
più le condizioni igieniche dell'acquedotto stesso sono perfette. 
Con una presa d’acqua ed una conduttura, esposte a continue 
oscillazioni dal lato chimico-biologico, inutile entrare in campo 
con dei criteri limite. Una presa ed una conduttura di tal ge- 
nere, innestata ad una rete di distribuzione con fonti pubbliche 
a getto intermittente, sebbene la rete stessa sia garantita da 
tutte le cause d'inquinamento che possono derivare dai serba- 
toi e canali domestici, per cause dipendenti dalla disugua- 
glianza e durata degli attingimenti; per la diversa tempera- 
tura in relazione con la posa dei tubij e per tante altre cir- 
costanze, accade di trovare fra fonte e fonte tali differenze 
nel contenuto batterico, da dover convenire che per questa via 
è facile che sfuggano delle cause di contaminazione temibilis- 
sime. Volendo ricorrere alle prove statiche delle tubulature, 
preferibili in tali casi alla incertezza dei dati batteriologici, se 
mentre i tubi furono messi in posto non si pensò a provvederli 
di quanto necessita per ripetere simili prove, sorgono difficoltà 
pratiche d'ogni genere, che finiscono col far rinunciare ad espe- 
rimenti di grande valore igienico. 


356 G. GASPERINI 


Come si vede dunque, nè ciò può parere cosa nuova ad 
alcuno, affinchè un acquedotto riesca proficuamente sorveglia- 
bile ha bisogno di non poche cure per parte di competenti in 
geologia, chimica e microbiologia prima del suo impianto; ed 
è necessario sia munito di tutto un insieme di apparecchi e 
mezzi sussidiari per osservazioni e ricerche da farsi singolar- 
mente nei periodi utili; mezzi ed apparecchi che vanno assai 
al di là della gelatina di Koca e delle scatole di Riersca-Perri. 
Ma perchè l’ igienista possa ricevere in consegna per la vigi- 
lanza un servizio d’acqua potabile ben organizzato, non basta 
che ciascuno faccia del suo meglio per divulgare le cognizioni 
tecnico-igieniche che a tali opere si riferiscono. 

Nonostante i riconosciuti vantaggi della municipalizzazione 
dei servizi che hanno fondamentale importanza per lo svolgersi 
della vita sociale, tanti comuni sono pur troppo costretti a fare 
appello alle imprese private, ed a queste affidare anche la costru- 
zione di acquedotti. 

Ciò a parer mio avrebbe dovuto giù dimostrare la. neces- 
sità che nei capitolati e nel collaudo di queste opere dovesse 
per legge intervenire un igienista esperto. 

Quando nelle commissioni collaudatrici di siffatto intervento 
non sì potesse fare a meno, le imprese o le ditte verrebbero dal 
canto loro obbligate a non trascurare le prescrizioni di natura 
essenzialmente igienica, ed a ricorrere al consiglio di chi è più 
in grado di apprezzarle e suggerirle. 

Come oggi vanno le cose il personale dei municipi addetto 
alla vigilanza igienica, se anche avesse il modo di dedicarsi ad 
analisi giornaliere le più complete, è esposto alla umiliazione ed 
al dolore di non poter prevenire gravi epidemie, come, fra le 
moltissime, segnalo quella di febbre tifoide accaduta a Maidstone. 
Cito volentieri il fatto di Maidstone, che tanto commosse l’opi- 
nione pubblica in Inghilterra, perchè par fatto apposta per di- 
mostrare la giustezza di queste osservazioni (!). Vero è che in 
detta città difettò la sorveglianza scientifica regolare; ma più 
che alle mancate analisi quindicinali, devesi l’ inquinamento 
avvenuto alle cattive e trascurate condizioni di presa delle 
sorgenti. 


(4) La technologie sanitaire, 1 novembre e 15 dicembre 1897. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA O POLYSPORA ECC. 35° 


I municipi dunque indispensabili non apprezzando a dovere 
‘le norme tecnico-igieniche, per l'impianto e la vigilanza di un 
servizio d’acqua potabile, oltre che essere esposti ad epidemie 
disastrose, possono venir lesi, e gravemente, anche per altra 
via, come abbiamo visto interessandoci della così detta Creno- 
thrix. Questa, nel 1892, pose fuori d’uso il condotto di ghisa 
forzato che serviva per l'acquedotto di Bargecchia in Garfa- 
gnana; a Berlino, Lilla, Rotterdam, Bamberg, ed altrove l’ab- 
biam vista presentarsi come una vera calamità; mentre per Pisa 
è passata senza danno di sorta, in seguito alla osservanza per 
parte dell'Ufficio tecnico delle norme di sua competenza fuse 
con le più serupolose precauzioni igieniche, e per opera di una 
sorveglianza quale deve esigerla un comune che, come quello 
nostro, sia esemplarmente sollecito di sì vitali servizi pubblici. 


FIG. 


Fic. 


Jl 


(i9) 


SPIEGAZIONE DELLE FIGURE 


Tav. VIII. 


Microscopio E. Lertz.— Oc. 8 comp. Obb.*/;; imm.a olio. 


. Frammento di un cespuglio di Beggiatoa Kihniana (Crenothrix) preso:in 
Asciano alla Polla N. 6 del Pino il .giorno 12 gennaio 1897. 
a) filamenti con guaina ferrica. 
b) filamenti ialini dotati di movimento oscillatorio. 
c) filamenti di Beggiatoa ramosa, ialini, oscillanti, dotati, quelli 
semplici, di movimento progressivo anguiforme. 


. Cespuglio raccolto nella stessa località d’ Asciano ed osservato dopo 20 


giorni dal prelevamento (febbraio 1897 ). 
a) corpi sferici circolari che hanno assunta la clorofilla. 
b) frammento micelico del Mucor stolonifer. 


. Beggiatoa ramosa nov. sp. 
. Giovane cespuglio di Beggiatoa Kiihniana osservato sotto l° azione del- 


l’acido ossalico. 


. Beggiatoa Kihniana della sorgente N. 2 che alimenta l’ acquedotto di 


Cecina (valle di Linaglia).. 

a) vari filamenti micelici (Mucoracee ed altri ifomiceti). 

b) filamenti di Beggiatoa Kihniana vecchi, attorcigliati, con fili 
normali e depositi ferrici. 


. Beggiatoa Kiihniana (Crenothrix) prelevata nel cratere dei Bagni di Casciana. 


a) filamenti normali con guaina ferrica. 
b) filamenti avvolti a spira, anormali. 
c) frammenti spirilliformi. 


. Beggiatoa maior, media, minor, con filamenti rivestiti di guaina ferrica 


(Zambra d’Asciano). 


. Cespuglio di Beggiatoa Kiihniana nell’inizio della formazione delle guaine 


ferriche, adeso ad un frammento d’oscillaria verde, trattato con 
acido ossalico (plasmolisi). 


Tav. IX. 


1. Beggiatoa alba osservata a fresco. 


9 


Pa] 


. Deposizioni tubercoliformi ottenute sulla ghisa non protetta, sotto l’azione 


della Beggiatoa Kiihniana. 


SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX KUHNIANA O POLYSPORA ECC. 359 


Fic. 3. Filamenti di Beggiatoa in plasmolisi : 
a) con acido cloridrico diluito. 
Db) con nitrato potassico. 
» 4. Beggiatoa maior: 
a) con corpuscoli oleiformi (i così detti granuli solforosi). 
b) filamento ricoperto di granuli visto dopo il trattamento con acido 
acetico. 
» 5. Beggiatoa minima. 
» 6. Varietà di Beggiatoa sviluppate in acqua della Zambrba (estate del 1897). 
» 7. Alcuni organismi (Oscillarie) conviventi con la Beggiatoa Kihniana:; 
a) gameti liberi di Clamydomonas. 
b) uova di Clamydomonas con corpuscoli amiliferi. 
c) zoospora in via d’incistamento. 
d) quattro zoospore di Clamydomonas. 
e) Sptrulina subtilissima, KUTZING. 
f, g) stadi anamorfici di oscillarie. 
h) frammenti di oscillarie verdi, uno dei quali con chemotassi po- 
sitiva per i batteri. 
î) stati batteriformi di alghe a contenuto omogeneo, con clorofilla. 
» 8. Tubodi ghisa di Campagnatico visto normalmente all’asse (da fotografia). 


INNVDMECHE 


DELLE 


MATERIE CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME 


G. D’Achiardi. — Auricalcite di Campiglia Marittima e Valda- 


spra (Tav. I) . SIOE Bas. 
E. Manasse. — £occe ofiolitiche e connesse dei monti livornesi 

(Tav. II) Ie CREA SS EI e 
G. D'Ancona. — Della chimica composizione ti scisti gale- 


strini e di una prova di debbio in essi eseguita 

G. Valenti. — Sopra è primitivi rapporti delle estremità cefaliche 
| della corda dorsale e dell’ intestino. Ricerche (Tav. III) . 

D. Bertelli — Pieghe dei reni primitivi. — Contributo alla mor- 
fologia e allo sviluppo del diaframma (Tav. IV) 

R. V. Matteucci. — Le rocce porfiriche dell’isola d’ Elba. — Aplite 
porfirica (Tav. V, VI, VII) . SRI 

G. D’Achiardi. — Due esempi di metamorfismo di contatto. (Urali- 
Elba) Tav. X, XI) . ES 

G. Salvi. — L’istogenesi e la struttura delle meningi (Tar. XI, xD. 

G. Ristori. — Resti d’orso nel quatenario di Ponte alla Nave 
(dintorni d’ Arezzo). Nota paleontologica . sr oa 

G. Gasperini. — Sulla così detta Crenothrix Kuhniana 0 poly- 
spora in rapporto alla sorveglianza igienica delle acque po- 


tabili (Tav. VIII, IX) . 


8) 


18 


37 


99 


72 


109 


165 
187 


229 


240 


ì L) n" È 
il 
i 
III 
II, c 
Li 
xy \ 3 Lear. 
È 7 v 
t Yi 
4 
3) i x 
(OA = ) 
ti 7 Ù 
” Vere 
pat (| 
È G foA 
POR, 
x 
nt 
v dé Ù 
$ A 
Peet 
i 
ai 
A 
5 Mer a / 
n 
- 
\ 
na 1 
n f - 
© . = 
ì 
, ; \ Và, È 
hi ILL 


Patria Rie r 


chi 


È Ro 
x Erli ni 


Atti SHE Tosc, Sc. Nat. Vol. XVI Tav. I, G. D'ACHIARDI - auRIdALCITE Eco. 


L'AUTORE FOTOGRAFÒ 


RLIOT, CALZOLARI E FERRARIO « MILANO 


E FA [AS RR er A De a A =. 


orti Perin nin La i edi i e 


tha dt a 


ta OS Ea 
oc.Tos.Sc.Nat.Vol. XVI. Tav. III. 


G.Valenti— Sopra ì rapporti primitivi dell'estremita cefalica della corda etc. 


Fig: 7. 


At 


p- 


R.lu Lozani-Pisa 


Pj:59°S 3 vi Tu me: PAIA A, cut 
Atti Soc.Tos.Sc.Nat.Vol.XVI.Tav.IV 


0cHe- 


L.Benedetti inc. 


primitivi etc. 


ei reni 


phi 


R. Lit: Gozani-Pisa. 


Si= 
% 
<>) 


Atti Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XVI. Tav. V. R. V. MATTEUCCI - APLITE PORFIRICA, ecc. 


C. Riva, fot. Eliot. Calzolari e Ferrario - Milano» 


ORE RR 


| 
Ì 
| 


R. V. MATTEUCCI - APLITE PORFIRICA, ecc. 


o a 
Fig. 9. ig, IO. 
Eliot. Calzolari e Ferrario - Milano. 


C. Riva, fot. 


= PR 


eni 


atrrara= 


cerro 


Atti Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XVI. Tav. VII. R. V. MATTEUCCI - APLITE PORFIRICA, ecc. 


È o 15) è : 
resti tree pt È di copio) 
ME 


» *ig sg 


“ata "o. e, 
» Se n 304 
bia alli 10, A gs; 


"ak 


OSE 


EM o 


Fig. 


ld 


(MET 
MPA. 


“i 


9a pe pà Ga ARIA 


G. GASPERINI 
SULLA COSÌ DETTA CRENOTHRIX ECC. 


ATTI SOC. TOS. SC.NAT. 
VOL. XVI TAV. VII 


DI 
boot 
PIA fi 
Se 
» 
‘ 


urna 
dg 295 AES 
ic UNIVA 
ia ia N 
(I It e £ 


N VAS 
ù Pata 
% 


arco 
S ? 
4 
ai 
pri 
®, 


i 
ce2À 
4 = è 
LI i 209 E 
n DS 
>, ag CA 
Ù 
Li 
q 
ì 
ty 
E. BATTISTI LIT - ROMA 


a 


ATTI SOC. TOS. SC. NAT. G. GASPERINI 
VOL. XVI TAV. IX SULLA COSI DETTA CRENOTHRIX ECC. 


5 Tnt Pre 
x er 


@ 
CS) 
LA299.20IRATZILTÀ 


cpo eee %& 


MATE 


Eu 


E. BATTISTI LIT - ROMA 


Atti Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XVI. Tav. X. G. D'ACHIARDI - DUE ESEMPI, ECC. 


L'AUTORE FOTOGRATÒ, ELIOT. OALZOLARI E FERRARIO = MILANO. 


RAI 


Atti Soc. Tosc. Sc. Nat. Vol. XVI. Tav. XI. G. D'ACHIARDI - DUE FSEMPI ECC. 


L'AUTORE FOTOGRAFÒ, ELIOT, OALZOLARI E FERRARIO - MILANO, 


ar Cod < _ ci s P = : its pel F = se 45 : ES 5 Sa De. " 4 E 
; A nà , E a ae ini = E SEA Pe PEA atei ia SEIN I EPPOI È 
: "arca rar ci se: SEE ST mi 


à 
i 5 % = ® = vc ian Ta Gl 


Ae Put 


——___—.-—_ —_——_ —ores _— =. e —_ eee E + eee. *+»+°!0—qmu»|\|-|-_tettt—__——<—’’ — 
é o REINER MSI PR 
PI Ù = j * dà ‘ 
> v È Pa Pi per" 
i : 
È E r "a rà “ -_ 
- n = 
2 
E 
e 2 È5: 
Sp 
È i 
2? - 
E È 
dal ca 
e = 
i 
® 
_— 3 
nio Ò 
i 5 
” = G 


la struttur 


enesi e 


G.Salvi-Listog 


ME 


VUYW\ÙÀ E 
VNWSù n 
DS ì x -. 
> c 
‘ ì) fee 
» 7 
. . »= 
sa : P n 
# ce 
°, sa TR LT 


- 
. 
7 
Î 
i î 
i î 
7 li Ì 


MERA gs RO 3 il 3 RR AN e IRA Pa genio = 


G.Salvi- Listogenesi e la struttura delle meningi. L 


R:LitGozami a Gs Pisa. 


fi 


ARI 


DELLA 


SOCIETÀ TOSCANA 


Da 


SCIENZE NATURALI 


RESTDENBE SEN PISA 


_ — -o-oe-___—— 


PISA 
TIPOGRAFIA T. NISTRI e C. 


1897 


DELLA 


SOCIETÀ TOSCANA 


SCIENZE NATURALI 


PIESTIDENVIE RENEE RITS ZA 


PISA 


TIPOGRAFIA SUCCESSORI FF. NISTRI 


1898 


O 
mi 
hi hi 


3 9088 01316 4090